Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbatterli

Numero di risultati: 7 in 1 pagine

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Leggere un'opera d'arte

256537
Chelli, Maurizio 1 occorrenze
  • 2010
  • Edup I Delfini
  • Roma
  • critica d'arte
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Ercole e gli uccelli del lago Stinfalo: Il lago Stinfalo era popolato di temibili uccelli, forniti di artigli e becchi di bronzo, con piume appuntite ed avvelenate; Ercole li spaventò con il suono prodotto da piatti di ottone, facendoli così sollevare in volo, per abbatterli con le sue frecce. L’iconografia mostra Ercole che con l’arco teso è pronto a colpire gli animali in volo.

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Impauriti dalle braccia tese in alto, dagli urli, dai richiami imitanti il pigolio per indurli a venir giù, e minacciati con la canna, sfuggivano da una sbarra all'altra strillando soccorso dal padre e dalla ma- dre che svolazzavano là attorno e crocidavano rabbiosamente, incuranti del pericolo del colpo di canna con cui il ragaz- zo cercava di abbatterli. Patrizio si sentiva ridiventato bambino. Se si fosse trovato laggiù, avrebbe preso parte a quella caccia, avrebbe tenta- to di arrampicarsi su pel muro mettendo i piedi nelle buche, come già faceva il maggiore dei ragazzi per raggiungere la breve altezza dell'inferriata; e quando i passerotti si decisero a prendere il volo e caddero per terra, gli parve proprio di dare spinte e urtoni, e urlare e ridere assieme con tutta quella ragazzaglia che li inseguiva; e alla fine, alzare il braccio vittoriosamente, come i due fortunati che avevano ghermito la preda. Tutt'a un tratto, una voce interna lo richiamò alla realtà e lo fece impallidire: "Tu mi dimentichi! Ingrato! Tu non mi vuoi più bene!" E si voltò, quasi il rimprovero gli arrivasse affievolito, a traverso l'uscio di quella camera che poco avanti egli non aveva aperto. "Buon giorno" disse Ruggero, entrando in quel momento. Appunto quella mattina, Eugenia era rimasta insolitamente a letto fino alle dieci. Da più giorni viveva agitatissima, col presentimento di un prossimo attacco del suo male che ella sentiva già ride- starsi, forse più violento di prima. Era avvinta da un greve torpore, da una stanchezza di tutte le membra, quasi per fati- che superiori alle proprie forze. I zufoli agli orecchi si ripetevano a intervalli sempre più vicini; l'aridità della gola, l'in- durimento alla punta della lingua apparivano e sparivano durante la giornata, sintomi precursori. Ella li riconosceva be- nissimo e ne sapeva la ragione; per ciò non osava parlarne al dottor Mola. Ahimè, il triduo alla Madonna dello Spasimo non era giovato a niente! Aveva fatto peggio anzi; le fiamme delle tor- ce, il suono dell'organo, i canti, la solennità delle funzioni religiose, la voce del predicatore, le mura stesse della chiesa erano serviti soltanto ad accrescere il fuoco che le divampava nel petto. Dall'ultimo giorno del triduo, aveva evitato d'incontrarsi con Ruggero. Inutile precauzione! L'immagine di lui le era rimasta fissata negli occhi quale lo aveva veduto in quei tre giorni, appoggiato al pilastro della cappella, di faccia a lei, divorandosela con lunghi sguardi da cui s'era sentita penetrare e invadere, quantunque, appena accortasene, si fosse im- posta di non guardarlo più. Nella terribile lotta interna tra il cuore e la volontà, i suoi nervi si esasperavano, si esaltavano. "No, non voglio, no!" Non aveva teso per questo le povere braccia alla Madonna? La Madonna intanto era rimasta sorda al grido d'ango- scia scoppiatole dalle labbra a piè dell'altare, appello, preghiera e confessione insieme. L'aveva abbandonata! L'aveva abbandonata! E, sotto la coperta, ficcava le mani tra i capelli, stringeva forte forte la testa per comprimervi e impedirvi quel rime- scolio di pensieri, di immagini, di ricordi; quella tempesta di risoluzioni contraddittorie, di pretesti, di scuse; quelle in- termittenze della volontà che la impaurivano più di tutto ... Non era sicura di sè. Nei sogni, in quei sogni interminabili, che riapparivano appena s'addormentava e l'agitavano, anche sveglia, come impressioni reali, ella cedeva, cedeva alle insistenze di Ruggero, gli veniva meno tra le braccia in luoghi strani: boschi, orride gole di rupi, grotte affumicate, dove enormi pipistrelli l'assalivano, sfiorandole la guancia con ali viscide, quasi a scancellarvi l'impressione dei baci! Oh, quei baci! La loro voluttuosa sensazione persisteva, tentatrice, insidiatrice, nella veglia, ed ella se ne irritava; si indignava di sorprendersi in taluni istanti della giornata, per involontario consenso, nella delizia di assaporare il contatto delle labbra sognate, che non avrebbe potuto essere più soave, più tiepido, più vivo, se fosse stato veramente quello del- le stesse labbra di Ruggero. Eppure, finora, non si era tradita nemmeno con lui! Era però mutata assai verso Patrizio. Sentiva uno sdegno sordo, una specie d'odio misto col disprezzo, al vederlo tranquillo, indifferente, incurante di lei, tutto della sua morta, della sua malaugurata morta, che non poteva, no, essere in Paradiso! Andata via col tossico nel cuore, contro di lei che non l'aveva offesa, proseguiva anche di là la sua opera in- fernale! Perciò ella si sentiva sconvolta, e gli orecchi le tintinnavano, le zufolavano, le davano sensazioni di scrosci di piog- gia; per ciò le saliva dai piedi alla testa quel formicolio dei nervi che ricominciavano a distendersi, a contorcersi, quasi a provarsi per nuovi accessi, come in quel momento. Avrebbe voluto piangere; non poteva. E nel portare le mani alla faccia, inaspettatamente sentì di nuovo, per la prima volta dopo tanti mesi, l'odor di zagara che riprendeva, percettibile appena. Scattò a sedere sul letto. Voltava e rivoltava le mani, annusandole, e spalancava gli occhi, pensando che ben presto anche Patrizio se ne sa- rebbe accorto. All'idea che tutti quei sintomi ora dovessero accusarla al cospetto di lui, rivelargli il colpevole affetto che la martoriava, si sentì agghiacciare. "E se in qualche accesso di convulsione mi sfugge un nome? ... E se faccio intendere, con scomposte parole di delirio, qualcosa di più grave di quel che non è accaduto?" Scivolò tra le lenzuola, abbattuta, prostrata, con le mani avviticchiate sul capo, e gli occhi fissi alla volta quasi in- gombra di nebbia nella semioscurità silenziosa. Le pareva che quell'odor di zagara emanasse sottile sottile da tutto il suo corpo, e invadesse la camera, impregnando talmente l'aria che ella se ne sentiva stordire, quasi soffocare. Il respiro le diventò affannoso, la vista le si offuscò e ne- gli orecchi tintinnii e zufolii s'avvicendarono con altri strani rumori che le intronavano il capo. Un sopore di sfinimento cominciò ad aggravarsele su le palpebre; strie luminose, iridate le tremolavano dentro gli occhi; l'odor di zagara conti- nuava a esalarsi sottile sottile, spossandola, togliendole ogni forza del corpo, annichilendo ogni movimento della sua volontà; e, poco dopo, ella rientrava senza accorgersene nel regno dei sogni: stretti, lunghissimi corridoi dove Ruggero la inseguiva; alte rocce sovrastanti da ogni lato e tra cui egli la raggiungeva, la stringeva fra le braccia, la copriva di ba- ci; nere grotte, dove gl'immancabili enormi pipistrelli agitavano le ali, atterrendola con quella sensazione di cosa fredda e viscida che le sfiorava la faccia. "Eugenia! Eugenia!" Non ancora ben desta, e mentre Patrizio tornava a chiamarla, vedeva sparire gli ultimi lembi del sogno quasi strac- ciato e disperso da un soffio improvviso. E quando si scosse, negli occhi tuttavia imbambolati le appariva il corruccio di essere stata svegliata in quel momento da lui. Patrizio, che s'era affacciato appena con la testa dall'uscio e rimaneva là aspettando una risposta, se ne avvide, ma non capì. "Ti senti male?" domandò. "No. Mi levo subito." "Fa presto. Vieni in salotto." "Che c'è di nuovo?" "Non turbarti ... Un biglietto del sindaco. Ahimè! Era da prevedersi!" "Insomma?" "Giulia ... è fuggita col Favi, la notte scorsa." "Oh, Dio!" esclamò Eugenia, balzando dal letto. Ah! Neppure alla povera Giulia il triduo alla Madonna era giovato. "Mi faranno fare una pazzia!" L'aveva detto più volte, e l'aveva fatta! Vestìtasi in fretta e in furia, coi capelli in disordine, senz'essersi lavata la faccia, finendo di agganciarsi il busto della veste, Eugenia s'era precipitata ansiosamente in salotto. Patrizio teneva in mano il biglietto del sindaco. "Ci prega di comunicare la notizia a Ruggero e di trattenerlo qui. Se ne sono accorti soltanto poco fa. La credevano in camera, a letto ... Teme che Ruggero possa fare scandali e dar da ridere alla gente." "Oh, Dio!" ripeteva Eugenia. "E dove sono andati?" "Non si sa. Ho mandato Zuccaro a prendere informazioni. Tutto si accomoderà, senza dubbio. Intanto è un brutto momento. Condurrò Ruggero qui." "Sarà un gran colpo! Vuol tanto bene alla sorella!" "Finisci di vestirti. Io torno nell'ufficio per impedire che qualcuno commetta l'imprudenza ..." Ella restò un momento in piedi presso il tavolino, sbalordita, ridomandandosi internamente: "Dove sono andati?" Poi, l'idea di doversi trovare di lì a poco faccia a faccia con Ruggero, di essere costretta a rimanere, forse l'intera giornata, sola con lui, le produsse una acuta agitazione, un fremito di paura per l'inevitabile pericolo; ma reagì contro se stessa. Lavandosi, ravviandosi i capelli, si sentiva commovere da viva compassione, immaginando il dolore che egli avreb- be provato all'annunzio della triste notizia. Dovevano partecipargliela con cautela, fargliela indovinare piuttosto che dirgliela ... "È difficile. Povero giovane!" Pensò di far preparare il caffè. Sarebbe stato un pretesto. Tra un sorso e l'altro, Patrizio o lei, o tutti e due assieme, avrebbero parlato. E diede l'ordine a Dorata. Poi prese in mano un lavoro di uncinetto, assunse l'aria più tranquilla e più indifferente che potè, e sedette presso la finestra, in salotto, aspettando. "Eugenia deve comunicarle non so che cosa. È vero?" disse Patrizio un po' impacciato. "Segga, segga qui" ella soggiunse. E gli stese la mano. Ruggero li guardava perplesso, con un sorriso di curiosità sulle labbra, imbarazzato alquanto da quel fare misterioso. E la sua immaginazione fantasticava rapidissima per indovinare che potesse mai comunicargli Eugenia davanti al mari- to. Non doveva essere una cosa piacevole, lo deduceva dal contegno dell'Agente, dalla ruga che si contraeva su le so- pracciglia di lei. E si mise in guardia. Dorata portò le tazze col caffè. Eugenia si levò da sedere e ne offerse una a Ruggero. "Troppo zucchero!" E, ridendo, egli soggiunse: "Per indolcirmi la bocca prima di darmi l'amaro". Eugenia guardò Patrizio negli occhi, stupita, e si sforzò di sorridere. "Ai suoi ordini" disse Ruggero dopo aver sorbito lestamente il caffè, stendendo il braccio per posar la tazza nel vas- soio. "Nulla di grave" rispose Eugenia con voce malsicura. "Cioè ... un fatto doloroso, sì, ma che non produce mai cattive conseguenze ... Il matrimonio sana tutto." "Sana tutto" ripetè Patrizio dietro la pausa di sua moglie. "Sventataggine da innamorati! ... Biasimevole, chi lo nega? ma, in certe circostanze, scusabile. Lei, che è uomo e giovane, compatirà facilmente." Ruggero scattò dalla seggiola, pallido come un morto, con gli occhi smarriti, e fece per slanciarsi fuori del salotto. Patrizio lo trattenne. Eugenia, tremante, gli prese una mano, balbettando: "No, no! Resti qui. Dove vuole andare?" "Non dovevano farlo! Non dovevano! ... Ah Giulia! Giulia!" Mugolava, più che parlare, si strizzava le dita, pestava co' piedi, stralunava gli occhi: "Non dovevano farlo! È un'infamia ... Non dovevano!" Non riusciva a dir altro, tentando di svincolarsi. Voleva correre dietro ai fuggitivi, andare a sputare sulla faccia a Corrado Favi per quell'affronto a una famiglia che egli avrebbe dovuto rispettare come propria. E tornava a prendersela con Giulia: "Non la guarderò più in viso! Non è più mia sorella!" "Si calmi. Suo padre vuole che si trattenga qui fino a sera. La ricondurrò io stesso a casa. Tutto è bene quel che fini- sce bene." "Che disonore! No, non dovevano farlo!" rispondeva Ruggero, mentre l'Agente cercava di rimetterlo a sedere. "Ha ragione. Dice benissimo" soggiunse Eugenia commossa. "Oramai però bisogna pensare al rimedio." Ruggero si lasciò cascare su la seggiola. Dalla rabbia, faceva stridere i denti e singhiozzava, col capo fra le mani, ri- petendo: "Che disonore! ... Non dovevano farlo!" Patrizio s'aggirava attorno al tavolino aggiustando le tazze nel vassoio, stirando una piega del tappeto, come persona che non sappia che cosa fare o dire. Eugenia, in piedi dinanzi a Ruggero, cercava di scusare alla meglio l'amica. Ine- sperta, innamorata cieca, Giulia, con quella fuga, aveva voluto soltanto forzar la mano ai parenti; nè il Favi, poverino, poteva aver avuto cattive intenzioni. Buon giovane, a quel che ne dicevano, colto, modesto, con un bell'avvenire davanti a sè ... "La benedizione a piè dell'altare scancellerà ogni cosa, toglierà qualunque malinteso tra le due parentele. Una sorella è sempre sorella, anche quando commette uno sbaglio." Ruggero negava, scotendo la testa tra le mani, coi gomiti appoggiati sui ginocchi, inconsolabile. Successe un lungo intervallo di silenzio, durante il quale Patrizio, avvisato del ritorno di Zuccaro, uscì nel corridoio. "Mi fa male vederlo così afflitto" disse allora Eugenia, posandogli una mano su la spalla. "Ah, signora!" Ruggero alzò la testa, la guardò in faccia e, quasi per persuaderla meglio a dargli ragione, prese tra le sue la mano che gli era stata posata affettuosamente su la spalla. Eugenia non ebbe il coraggio di ritirarla, assai turbata da quel contatto che le pareva la mettesse, imprevedibile cir- costanza! proprio in balia di lui. E così, tra le pressioni delle mani di Ruggero, che s'avvicendavano ora lievi, ora forti, secondo la varia intensità del sentimento, stette ad ascoltare il rapido sfogo che gli sgorgava dalle labbra contro la sorel- la, contro il Favi, contro il padre, contro le altre sorelle, contro tutti. E rispondendo con lievi assensi del capo, con sguardi che dicevano: "Sì, è vero ... Mah! ... Mah! ..." lasciava che intanto il tepore, le scosse, le con- trazioni delle mani le insinuassero per la persona un senso novo d'intimità con quella viva partecipazione al dolore di lui, qualcosa che già somigliava a un abbandono di se medesima, per conforto, per consolazione, senza però conceder niente che ella dovesse rimproverarsi, o di cui pentirsi, dopo. "E come rideranno i nemici della nostra famiglia!" esclamò all'ultimo Ruggero. "Come ridono in questo momento!" "Non s'occupi di essi. Non rideranno più quando il matrimonio sarà compiuto." "Ah, signora! ... Ella non sa le basse invidie, le malignità dei partiti in questo miserabile paesetto!" Le stringeva più forte la mano, se la portava alla fronte con gesto desolato. Eugenia, paventando non se la portasse anche alle labbra, la ritirò lestamente; e si rimise a sedere di faccia a lui. "Buone nuove!" gridò Patrizio, rientrando. I fuggitivi erano a Rosolini, presso una famiglia amica dei Favi. Giulia vi si trovava ospitata come una figlia. Corra- do era già tornato a Marzallo. Le cose si mettevano bene per la dignità e per l'onore di tutti. Intanto, amici comuni s'in- gegnavano di appianare le difficoltà. Sopraggiunse il dottor Mola. "Ebbene? Che vuoi farci?" esclamò, vedendo il gesto furibondo di Ruggero. "Siamo tutti senza cervello a vent'anni. Ora sarà una sfilata di fughe; vedrete, signora mia! L'esempio è contagioso. Accade sempre così. Voi però, voi sopra tutti, dovete sforzarvi di stare tranquilla. Che viso, che occhi, Dio mio! ... Date qua. E che polso! Ecco una ricetti- na. Calmante. A cucchiaiate, d'ora in ora, lungo la giornata. Sono venuto a posta." "Grazie." "Niente. Lo faccio anche per egoismo, per non dovervi curare a lungo dopo. Non ci ho gusto a veder malata la gen- te, quantunque sia il mio mestiere. Brutto mestiere vivere a costo del male altrui! Tu" soggiunse rivolto a Ruggero "bevi un bel bicchiere d'acqua fresca; ti farà bene. E non ti muovere di qui; così ordina tuo padre. In queste circostanze, meno chiasso si fa e meglio è." Dopo desinare, Eugenia e Ruggero erano rimasti soli in salotto. Calmato, egli non ragionava più del triste avveni- mento; fumava una sigaretta, appoggiato col dorso alla finestra. Eugenia, seduta poco distante, aveva ripreso in mano il suo lavoro di uncinetto e lavorava a capo chino. Si sentiva addosso, insistenti nel silenzio, gli sguardi di lui e non sapeva come stornarli. Di tanto in tanto, portava le mani alla faccia; una vampata l'assaliva a ogni movimento di Ruggero, che pareva non riuscisse a star fermo e si appog- giava ora su l'una or su l'altra gamba, accavalciando i piedi, quasi impazientito di quel silenzio troppo prolungato. Eugenia avrebbe voluto prevenirlo e avviare la conversazione in maniera da impedire che si mettesse per uno sdruc- ciolo pericoloso; ma non trovava nulla. E provò una stretta al cuore, sentendo la voce di lui, che, esitante, diceva: "Si annoia. Ha ragione. La mia compagnia non è piacevole oggi." Ella fece un lieve atto di protesta col capo, e si chinò di nuovo sul lavoro, senza aggiunger parola. "Mi fa impazzire!" esclamò tutt'a un tratto Ruggero, buttando fuori dalla finestra, dietro le spalle, la sigaretta fumata a metà. "Non parli così!" balbettò Eugenia. E, atterrita, si volse istintivamente verso l'uscio. "Compatisce gli altri, con me! ..." continuò Ruggero con voce repressa. "Non s'accorge o finge di non accor- gersi di niente! ... Mi fa impazzire!" "Non parli così! Che cosa vuole?" ella domandò con angoscioso smarrimento. "So che non è felice; me n'ha parlato Giulia, tante volte!" "E se pure fosse vero?" "Mi dica una sola parola! ... Una sola!" "Zitto, per carità!" Eugenia s'era levata da sedere, col cuore in tumulto, con la mente turbata e un gran tremito per tutta la persona. Pen- tita delle inconsulte parole sfuggitele di bocca, s'irritava di non trovar la forza di interrompere con un gesto, con una ri- sposta recisa, quella tanto paventata dichiarazione sentita addensare nell'aria simile a un temporale, e che già scoppiava irresistibile nel peggior momento per lei. "No" riprese Ruggero, tentando di afferrarle una mano che Eugenia ritirò per portarla rapidamente alla fronte. "No, non è possibile che il suo cuore sia rimasto indifferente. È di ghiaccio? ... Una parola! Una sola parola! ... Non le chiedo altro. Se sapesse quanto l'amo! ... Fino al delirio! ... Lo sa, lo sa ... Finge di non saperlo. Ah! ... Mi disprezza dunque?" "Perché dovrei disprezzarlo? Che cosa vuole da me? Sono maritata. Non mi offenda, supponendo che io possa tradi- re mio marito. Gli voglio bene ..." "Non è vero!" All'energica affermazione, Eugenia sgranò gli occhi, quasi vedesse in quel punto il proprio cuore aperto come un li- bro davanti a Ruggero. Egli le si era accostato, supplicandola a mani giunte: "Una parola! ... Una sola parola!" E tornava a ripetere: "Non è vero. Giulia mi ha confidato tutto. Non è amata, non ama; io, io solo l'amo alla follia, da otto mesi, dal primo istante che la vidi!" "Perché me lo dice? ... Perché?" Si torceva le mani, crollava la testa, smaniando: "Non voglio saperlo! Non devo saperlo! ... Mi lasci in pace, per carità! Mi lasci in pace! ... o dirò tutto a mio marito!" Le parve d'aver trovato la parola giusta, e guardò in viso Ruggero. "Glielo dica, se ha coraggio!" egli rispose, arrestandosele davanti. "Potrà impedirmi di amarla? Glielo dica; così lei si leverà di torno la mia odiosa persona. Io debbo venire qui per forza; vederla tutti i giorni per forza, perché mio padre lo vuole, per le lezioni. Quando mio padre saprà, mi manderà via da Marzallo. E sarà liberata dalla persecuzione de' miei sguardi; non mi vedrà, non mi udrà più! Glielo dica. È una soluzione ... per lei! Io l'amerò lo stesso. È la pri- ma volta che amo. Ah! L'ha condotta qui la mia mala sorte. Ero tranquillo, felice. E, da otto mesi, soffro tormenti incre- dibili; vivo soltanto per lei, penso soltanto a lei, giorno e notte! ... E lei mi ha visto, mi vede soffrire, e non si è mai commossa, non si commuove! ... Che cuore ha?" "Oh, Dio! ... Zitto! Zitto!" S'era coperta la faccia con le mani, senza sapere quel che diceva e faceva. Le pareva di sognare a occhi aperti; udiva quasi le stesse parole udite tante volte nei sogni; e, come nei sogni, sentiva venir meno ogni forza, quantunque la sua volontà dicesse ora, come sempre: "No! No!". Dalla faccia portava le mani agli orecchi per non udire le fatali parole e non esserne ammaliata; e ripeteva: "Zitto! Zitto!" con doloroso accento di preghiera. Ruggero non l'ascoltava; tornava a insistere: "Una parola! Una parola! ... Che le costa? ... È dunque vero che non ha cuore? Senta, senta come tre- mo!" E le prendeva una mano. "Così non si finge! Così non si mentisce!" Eugenia tentò invano di svincolarsi. Ma appena si fu meglio impossessato della cara mano, egli cominciò a baciarla sempre più avidamente, come più la sentiva cedere, cedere sotto la pressione delle labbra, con deboli proteste: "No. Non è vero che mi vuol bene! ... Non è vero! ..." Le pareva che il suolo le mancasse sotto i piedi; e si aggrappava a lui, singhiozzante, invocando pietà con quel fil di voce: "Ah! ... Che male mi fa!" Lo respinse con sforzo improvviso e corse a rifugiarsi in un angolo. "Non s'avvicini! Grido; faccio accorrere gente. Per carità! ... Per carità!" tornava a supplicare. "È mai possibi- le? Come ha potuto credere? Mi prometta che non ricomincia. Sia bono! Sia bono!" "Sì, sì; farò tutto quel che mi ordina" disse Ruggero a bassa voce. "Purché io sappia se mi vuol bene o no ..." "Non devo." "No, no! Lo dice per ingannarmi. Glielo leggo negli occhi." "E allora? ... Sia bono! Gli voglio bene, ma non come crede lei. A che scopo? Non me ne riparli più. Sono d'altri. Sarei imperdonabile, se rispondessi diversamente. Non lo capisce? Deve capirlo." "Che m'importa d'altri? Che può importarne a lei, se non è amata? Una parola! Una parola soltanto! Sarà un segreto tra me e lei. Senta! Senta! ..." Lo aveva lasciato accostare a poco a poco, vinta dal fascino della voce, dalle insinuanti parole, dall'atteggiamento di calda preghiera con cui egli le si rivolgeva, incapace di fare il minimo movimento per sfuggirgli. E quando le fu vicino, gli stese le mani, invocando pietà col gesto, con lo sguardo, gesto e sguardo d'amore desolato, di passione irrompente, quasi di resa. "Senta! Senta!" ripetè Ruggero. Questa volta però le loro mani, incontràtesi, si strinsero forte. Vedendola mancare dalla violenta commozione, egli l'attirò a sè, la premè al petto e la baciò su la fronte e su le lab- bra, ripetutamente, intanto ch'ella, inerte, gli si appesiva addosso, diaccia e pallida, con un fioco lamento, tra' singulti. Ruggero ebbe paura. La sollevò tra le braccia, la mise a sedere, sorreggendola, quasi in ginocchio dinanzi a lei. Nel turbamento la chiamava: "Donna Eugenia! ... Donna Eugenia!" E le strofinava le mani per farla rinvenire, spaventato dall'idea che Patrizio, sopraggiungendo, potesse trovarla in quello stato. "Quanto male mi ha fatto! ..." Queste parole, uscite dalla bocca di Eugenia come un gemito di moribonda, lo rincorarono alquanto. "Mi perdoni!" supplicò umilmente. Eugenia aperse gli occhi. Credeva di destarsi da un sonno profondo, e fissava Ruggero, per ricordarsi bene quel che doveva essere accaduto. E, intanto che andava riprendendo coscienza, la indignazione per la sua debolezza le increspava le sopracciglia, le con- traeva le labbra. Poi svincolando con uno strappo le mani da quelle di Ruggero, si levò subitamente da sedere e lo re- spinse con gesto vibrato, muta, ansante. "Mi perdoni!" egli tornava a pregare. "Purché non ricominci!" rispose severa. E mutando accento, soggiunse: "Per carità! ... Se mi vuol bene, mi la- sci in pace, si scordi di me. Non posso amarlo. Non devo amarlo. Lei è giovane e libero ... Io non sono più libera ... Mi lasci in pace! Trovi una scusa, non venga più qui ... Non si lusinghi ... No! ... No! ... Abbia stima di me. Abbia pietà pure! Sono malata ... Non concorra a farmi peggiorare. Le voglio bene anch'io, ma non come intende lei. Si scordi di me. Si scordi di me! ..." "Impossibile! Scordarla, ora? Ora?" la interruppe Ruggero. "Si fidi. Non lo saprà nessuno, mai! Nessuno!" "No! No!" gemeva Eugenia. Ma l'accento, ma gli sguardi, pur troppo, dicevano sì.

Racconti 3

662739
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Per abbatterli occorrono forza ... e destrezza sopra tutto; ma questa non è da giovani come voi. Girarvi attorno o voltar strada è un altro mio metodo; me ne sono trovato bene finora tutte le volte che l'ho adoprato. Io vorrei darvi in imprestito la mia esperienza. Sventuratamente l'esperienza altrui non serve a nulla. Ognuno si figura di poter riuscire là dove altri ha fatto fiasco. Per questo noi vediamo ripetersi gli sbagli degli altri nella vita degli individui e delle nazioni, che sono, secondo me, individui piú grandi e piú complicati. Lasciate dire ai filosofi che la storia sia la maestra della vita. La storia è una bella fiaba che diverte la gente adulta, come le fiabe delle balie i bambini. Da migliaia e migliaia di anni, individui e nazioni commettiamo costantemente gli stessi errori, riproduciamo le stesse sciocchezze e perdureremo fino alla fine dei secoli in questo stupido divertimento. - Ma, dunque? ... - Ma dunque, caro mio, fate una sdegnosa scrollatina di spalle e mettetevi il cuore in pace. Capisco: consigliare è cosa comoda quando non ci troviamo nella situazione di chi ci chiede aiuti piú che consigli. Io, prima di farvi questo po' di sermone ho tentato di giovarvi con le mani e coi piedi, come suol dirsi. Mi dispiace di dovervi annunziare che ho fatto un buco nell'acqua. Lo prevedevo, quantunque in diverso modo. E aggiungo un'altra cosa. Se il mondo andasse «come dovrebbe andare» sarebbe estremamente noioso. Vi assicuro che esso è bello e interessante perché va a casaccio, perché ci offre lo spettacolo dell'impreveduto e dell'imprevedibile. Senza dubbio, chi non si attende un tegolo tra capo e collo e se lo sente piombare addosso non può esser contento della sua disgrazia. Spesso il tegolo non casca precisamente tra capo e collo, ma proprio sul capo e vi fa un buco e manda un povero diavolo all'altro mondo. Ma, per buona sorte, c'è tegolo e tegolo. Dicono (sarà poi vero?) che Tertulliano era una specie di cretino, e che divenne poi quel dotto turbolento padre della chiesa ed anche eretico, se non sbaglio, appunto per via di un tegolo cascatogli sul capo mentre gironzolava per non so qual via di città africana. Non vi garantisco la mia erudizione; ma se il fatto non è vero, è vero come apologo. Io ne ho ricevuti parecchi di cotesti tegoli, fortunatamente sempre tra capo e collo; ma sappiatelo, fanno male lo stesso, e bisogna ricorrere da un dottore per farsi curare la contusione o la ferita. Forse, prima di morire, me ne capiterà qualche altro ... Non si sa mai! Ora, tra tutti i tegoli possibili, l'amore è il peggio. E anche il piú ordinario, ma il piú pericoloso, perché noi lo scambiamo per quel che non è, e siamo felici di sentircelo capitare addosso quasi fosse una benedizione del cielo. Non si è mai visto un colpito da questo genere di tegolo che pensasse di andare a farsi curare. Voi immaginate che il vostro sia un caso eccezionale; ognuno crede cosí per tutte le vicende che gli capitano. È inconsapevole vanità; o, forse, istintivo artificio per interessar meglio la gente in nostro favore. «Cose che accadono soltanto a me!» Lo sentiamo ripetere a ogni po'. Eh, via! Se non inconsapevole vanità o istintivo artificio è certamente ignoranza di quel che è accaduto agli altri prima di noi. Quando siete venuto a raccontarmi il vostro «caso eccezionale», io non ho potuto frenarmi dal sorridervi in viso. Non ho riso per educazione, per non offendervi, per non farvi dispiacere. Chi non ha incontrato, almeno una volta in vita sua, la bella ragazza che gli ha fatto svampare improvvisamente il cuore? Chi non ha pensato ingenuamente: «O quel possesso o la morte?» E poi il possesso non è avvenuto, e la morte neppure. Si ammazzano soltanto gli innamorati che hanno fretta come voi. Se costoro non avessero avuto fretta sarebbero ancora, belli e sani e tranquilli, in vita, capaci d'innamorarsi allo stesso modo parecchie altre volte, ripetendo seriamente: «O quel possesso o la morte!» e non si accorgendo di essere supremamente ridicoli. Ma io divago; è un difetto di cui non riesco a correggermi. Vi tengo su la corda, povero giovane! Veniamo al fatto. Avrei potuto anticipare di un giorno la mia visita in casa Borrelli; non ho voluto. E sapete perché? Non ridete; perché quel giorno era venerdí! Va'! lo credo che certe cosí dette superstizioni debbano avere un fondo di verità, altrimenti non sarebbero cosí radicate nello spirito umano da resistere a tutti i tentativi della filosofia e della scienza per divellerli. Che ne sanno i signori filosofi, i signori scienziati di certe misteriose influenze delle forze della natura? Io ho un gran rispetto per la filosofia e per la scienza, rispetto di ignorante; e non soltanto per tutto quel che esse sanno o credono di sapere, ma per quel che non sanno e che sperano di sapere. Ho fiducia in loro, fiducia d'ignorante anch'essa, perché non ha nessuna plausibile ragione di dubitare di ciò che sfoggiano di sapere e che probabilmente sanno davvero. Quando io leggo un libro di filosofia (leggo tutto, non so come passare altrimenti il tempo, giacché mio padre ha avuto la previdenza di lasciarmi agiato se non ricco e l'amministrazione dei miei beni, regolata come un orologio, va quasi da sé); quando io leggo un libro di filosofia, rimango a bocca aperta, sbalordito. Con quella brava gente che cerca cosí attentamente il pel nell'uovo, che vede tante cose invisibili per noi grossolani, immersi nella materialità delle sensazioni immediate, io m'insuperbisco di essere uomo. La mia gratitudine per costoro non ha confine. Non m'importa se uno dice bianco e l'altro nero; se si danno vicendevolmente dell'asino a tutto spiano. Penso: qualcuno di essi avrà ragione! E non mi torturo il cervello per conoscere chi ha torto. Che cosa ci guadagnerei? Io non ho la bozza della filosofia. Leggo quei grossi volumi con lo stesso piacere con cui leggo un romanzo. Prendo talvolta delle accapacciature, quando le cose sono un po' difficili a capire; ma cosí ho passate due, tre ore, mezza giornata; è l'importante per me. Per gli scienziati, ve lo confesso, non ho la stessa ammirazione che pei filosofi. Dicono che vogliono restare nella bassa regione dei fatti positivi, non far salti nel buio: e intanto veggo che quei benedettissimi fatti oggi sono una cosa, domani un'altra, anche per loro. Oggi ne cavano fuori una legge; e domani, che è che non è, buttano via quella legge perché ne hanno intravisto una nuova, la vera. Vera provvisoriamente, giacché neppur con gli scienziati si è mai sicuri di niente ... E mentre i sistemi dei filosofi si smentiscono uno dietro l'altro, le famose leggi degli scienziati, tratte da fatti positivi, si smentiscono piú allegramente. Non me n'importa un corno; io leggo le loro opere per divertirmi e passare il tempo; non ho, piú che la filosofica, la bozza scientifica, dato che queste bozze esistano davvero. E quando veggo che certe cosí dette superstizioni tengono duro piú che tutti i «sistemi» e tutte le «leggi», rifletto che debbono contenere proprio qualche verità indiscutibile, superiore a tutte le altre proclamate dai filosofi e dagli scienziati. E per ciò non ho vergogna di credere, come la piú umile femminuccia, che il venerdí sia giorno nefasto, e che non bisogna intraprender niente di nuovo in quel giorno, se si vuole riuscire. Lo so, ci sono tante cose che non riescono anche se fatte in altri giorni della settimana; ma queste non riescono perché non possono riuscire per natura loro, per circostanze invincibili. Il venerdí non riescono le cose piú facili: ecco la differenza! Dovevo darvi questa dilucidazione del mio ritardo di un giorno; non ho divagato. Sono dunque andato in casa Borrelli sabato mattina, alle undici precise. Era la prima volta che mi mescolavo di un affare come il vostro, delicatissimo e che per voi era, secondo la vostra espressione, «la vita o la morte». Se avessi preso sul serio questo aut, aut, avrei rinunziato alla mia imbasciata, assalito da anticipati rimorsi. La «vita» significava condurre a buon porto l'affare; la «morte ... » O che si scherza, con simile responsabilità? E se mi fossi sbadatamente avviato, sarei tornato addietro appena arrivato davanti al portone. Invece ho salito le scale, ho sonato il campanello e poco dopo mi son trovato faccia a faccia col signor Borrelli che non rivedevo da un pezzo. «Oh! Lei!» «Già! Io!» «Qual buon vento?» «Scirocco» risposi scherzando. Trattandosi di cose di amore non potevo citare altro vento. È inutile riferirvi parola per parola la nostra conversazione. Senza falsa modestia, vi dirò sinceramente che sono stato abilissimo nell'introdurre il discorso, eloquentissimo nel perorare la vostra causa. In prima istanza, come dicono gli avvocati, la causa, dopo tre quarti d'ora, era vinta! Il babbo acconsentiva. «Bisogna però interrogare la parte interessata - disse il signor Borrelli. E soggiunse sornionamente: - Forse è una superfluità, una mera cerimonia. Questi benedetti ragazzi manipolano i loro pasticci tra loro e ci chiamano soltanto quando è l'ora di infornarli!» L'immagine non era eletta. A voi sarebbe parsa una profanazione. Pasticcio l'amore! Oh! Oh! Eppure, secondo me, quel bravo signor Borrelli che non è una cima, che non vede una spanna piú in là dei libri maestri del suo negozio di seteria (e fa bene, benissimo attaccandosi al sodo, diciamolo di passaggio, in parentesi) eppure quel bravo signor Borrelli non aveva detto una sciocchezza. Gran pasticcioni gli innamorati! Quando ripenso i pasticci da me manipolati in gioventù (ne ho fatti anch'io, parecchi; sono uomo come gli altri, ma per fortuna, non sono mai arrivato a infornarne uno solo, e li ho visti tutti muffire e andar a male crudi) quando penso ai miei pasticci di anni e anni fa - ho sessantanove anni, se non lo sapete, amico mio - mi vien la voglia di darmi degli schiaffi ora ... o per lo meno di darmi venti volte - e forse è poco - dell'imbecille! Troppo tardi! Poi rifletto. E per ciò mi limito a ringraziare la natura, il destino, Domineddio, colui insomma che dispone le cose di questo mondo come gli pare e piace ... della grazia speciale concessami - giacché è stata una vera grazia ... Ve l'assicuro! Scusate quest'altra piccola digressione. Era giusto spiegarvi perché lasciai correre quella parola, a parer vostro - indovino? - profanatrice dell'amore! Risi, anzi applaudii ... E la parte interessata fu convenuta in giudizio, per continuare la metafora curialesca. Devo dirvelo? La mia impressione, appena la signorina entrò in salotto, non fu gradevole. L'avevo vista bambina, non la ricordavo piú; e trovai che il ritratto da voi fattomene era troppo adulato. Capelli d'oro quelli? No, no, caro amico, ma di un rosso stridente urtantissimo. Ricordai che quel grand'uomo di Leonardo da Vinci avea dato a Giuda capelli rossi precisamente come quelli della vostra signorina e mi sentii stringere il cuore. Qui permettetemi di essere spietato, per carità umana, amico mio! «Parli lei» mi disse il signor Borrelli. «No, tocca a lei» risposi io. La signorina intanto faceva un viso arcigno, come chi si attenda qualche insidia e si metta in difesa. Parlò il signor Borrelli, seriamente, dignitosamente, affettuosamente, e non aggiungo un altro avverbio perché mi pare che, secondo i precetti del bello scrivere e quindi del bel parlare, non se ne possano mettere piú di tre in fila. Coraggio, amico caro; siete sul punto di ricevere un colpo inaspettato, un violentissimo colpo ... Andando, io prevedevo che le difficoltà sarebbero provenute da parte del babbo. I babbi ordinariamente la pensano tutt'all'opposto dei loro figli o figliuole; non vogliono mai ricordarsi che sono stati giovani anch'essi, che hanno avuto accecamenti, passioni irragionevoli, e che per ciò dovrebbero essere piú arrendevoli, piú facili al compatimento. Ebbene ... M'ero ingannato. «Ma, dunque? ... » insistete voi. La signorina non lasciò che il suo babbo finisse di parlare; scoppiò in una gran risata: «Ah! Si tratta di quell'imbecille che mi segue dovunque? Ma è pazzo! ... » Ecco che cosa vuol dire aver fretta! Tenetelo bene a mente, amico mio: «Non bisogna aver mai fretta in nulla, specialmente in amore.» E ringraziate Iddio che questo regolo vi sia cascato tra capo e collo ... Vi sono signorine che, pur pensando: «Ah! Si tratta di quell'imbecille? Ma è pazzo! ... » rispondono intanto di sí. E il cieco innamorato si accorge troppo tardi che, tra il possesso dell'oggetto amato e la morte, avrebbe fatto meglio a sceglier la morte senz'altro! E scusate se per dirvi questo poco ho chiacchierato forse ... troppo. Coraggio! Coraggio, amico mio! Mancano ragazze a questo mondo? Ce n'è, dice la statistica, tre e mezza per ogni omo! ... Non mi crede? Prendo il libro: ho segnato la pagina ... E ricercando il volume tra le carte che ingombravano la scrivania, il signor Girolamo continuava a dire: - Sissignore, tre e mezza per ogni omo! ... Lasciamo stare la mezza ... che fa onore alla precisione dei calcoli statistici ... Ma tre ... tre! ... Ma, voltandosi, si avvide che il povero giovane non era piú là.

Il sistema periodico

681064
Levi, Primo 1 occorrenze

Queste cose io le ascoltavo con compunzione, ma dentro di me ridevo a crepapelle, perché ormai il mondo l' ho girato abbastanza, e so che tutto il mondo è paese: del resto, anch' io, quando ritorno e racconto i paesi dove sono stato, mi diverto a inventare delle stranezze; e qui se ne raccontano di fantastiche sul mio paese, per esempio che i bufali da noi non hanno le ginocchia, e che per abbatterli basta segare alla base gli alberi a cui si appoggiano di notte per riposare: sotto il loro peso, l' albero si spezza, loro cascano distesi e non si possono rialzare più. Sul fatto dei metalli, però, erano tutti d' accordo; molti mercanti e capitani di mare avevano portato dall' isola a terra carichi di metallo greggio o lavorato, ma erano gente rozza, e dai loro discorsi era difficile capire di che metallo si trattasse: anche perché non parlavano tutti la stessa lingua, e nessuno parlava la mia, e c' era una gran confusione di termini. Dicevano per esempio "kalibe", e non c' era verso di capire se intendevano ferro, o argento, o bronzo. Altri chiamavano "sider" sia il ferro, sia il ghiaccio, ed erano così ignoranti da sostenere che il ghiaccio delle montagne, col passar dei secoli e sotto il peso della roccia, si indurisce e diventa prima cristallo di rocca e poi pietra da ferro. Insomma, io ero stufo di mestieri da femmina, e in quest' Icnusa ci volevo andare. Ho ceduto al vetraio la mia quota dell' impresa, e con quel danaro, più quello che avevo guadagnato con gli specchi, ho trovato un passaggio a bordo di una nave da carico: ma d' inverno non si parte, c' è la tramontana, o il maestrale, o il noto, o l' euro, pare insomma che nessun vento sia buono, e che fino ad aprile la cosa migliore sia starsene a terra, ubriacarsi, giocarsi la camicia ai dadi, e mettere incinte le ragazze del porto. Siamo partiti ad aprile. La nave era carica di anfore di vino; oltre al padrone c' era un capociurma, quattro marinai e venti rematori incatenati ai banchi. Il capociurma veniva da Kriti ed era un gran bugiardo: raccontava di un paese dove vivono uomini chiamati Orecchioni, che hanno orecchie così smisurate che ci si avvolgono dentro per dormire d' inverno, e di animali con la coda dalla parte davanti che si chiamano Alfil e intendono il linguaggio degli uomini. Devo confessare che ho stentato ad avvezzarmi a vivere sulla nave: ti balla sotto i piedi, pende un po' a destra e un po' a sinistra, è difficile mangiare e dormire, e ci si pestano i piedi l' un l' altro per mancanza di spazio; poi, i rematori incatenati ti guardano con occhi così feroci da farti pensare che, se non fossero appunto incatenati, ti farebbero a pezzi in un momento: e il padrone mi ha detto che delle volte succede. D' altra parte, quando il vento è propizio, la vela si gonfia, e i rematori alzano i remi, sembra proprio di volare, in un silenzio incantato; si vedono i delfini saltare fuori dall' acqua, e i marinai sostengono di capire, dall' espressione del loro ceffo, il tempo che farà domani. Quella nave era bene impiastrata di pace, e tuttavia si vedeva tutta la carena sforacchiata: dalle teredini, mi spiegarono. Anche nel porto avevo visto che tutte le navi alla fonda erano rosicchiate: non c' è niente da fare, mi ha detto il padrone, che era anche il capitano. Quando una nave è vecchia, la si sfascia e si brucia; ma io avevo una mia idea, e così anche per l' ancora. È stupido farla di ferro: si mangia tutta di ruggine, non dura due anni. E le reti da pesca? Quei marinai, quando il vento era buono, calavano una rete che aveva galleggianti di legno, e sassi per zavorra. Sassi! se fossero stati di piombo, avrebbero potuto essere quattro volte meno ingombranti. Chiaro che non ne ho fatto parola con nessuno, ma, l' avrete capito anche voi, pensavo già al piombo che avrei cavato dal ventre dell' Icnusa, e vendevo la pelle dell' orso prima di averlo ammazzato. Siamo arrivati in vista dell' isola dopo undici giorni di mare. Siamo entrati in un piccolo porto a forza di remi: intorno, c' erano scoscendimenti di granito, e schiavi che scolpivano colonne. Non erano giganti, e non dormivano nelle proprie orecchie; erano fatti come noi, e coi marinai si intendevano abbastanza bene, ma i loro sorveglianti non li lasciavano parlare. Quella era una terra di roccia e di vento, che mi piacque subito: l' aria era piena di odori d' erbe, amari e selvaggi, e la gente sembrava forte e semplice. Il paese dei metalli era a due giornate di cammino: ho noleggiato un asino col suo conducente, e questo è proprio vero, sono asini piccoli (non però come gatti, come si diceva nel continente), ma robusti e resistenti; insomma, nelle dicerie qualcosa di vero ci può essere, magari una verità nascosta sotto veli di parole, come un indovinello. Per esempio, ho visto che era giusta anche la faccenda delle fortezze di pietra: non sono proprio grosse come montagne, ma solide, di forma regolare, di conci commessi con precisione: e quello che è curioso, è che tutti dicono che "ci sono sempre state", e nessuno sa da chi, come, perché e quando sono state costruite. Che gli isolani divorino gli stranieri, invece, è una gran bugia: di tappa in tappa, mi hanno condotto alle miniere, senza fare storie né misteri, come se la loro terra fosse di tutti. Il paese dei metalli è da ubriacarsi: come quando un segugio entra in un bosco pieno di selvaggina, che salta di usta in usta, trema tutto e diventa come stranito. È vicino al mare, una fila di colline che in alto diventano dirupi, e si vedono vicino e lontano, fino all' orizzonte, i pennacchi di fumo delle onderie, con intorno gente in faccende, liberi e schiavi: e anche la storia della pietra che brucia è vera, non credevo ai miei occhi. Stenta un po' ad accendersi, ma poi fa molto calore e dura a lungo. La portavano là di non so dove, in canestri a dorso d' asino: è nera, untuosa, fragile, non tanto pesante. Dicevo dunque che ci sono pietre meravigliose, certamente gravide di metalli mai visti, che affiorano in tracce bianche, viola, celesti: sotto quella terra ci dev' essere un favoloso intrico di vene. Mi sarei perso volentieri, a battere scavare e saggiare: ma sono un Rodmund, e la mia pietra è il piombo. Mi sono subito messo al lavoro. Ho trovato un giacimento al margine ovest del paese, dove penso che nessuno avesse mai cercato: infatti non c' erano pozzi né gallerie né discariche, e neppure c' erano segni apparenti in superficie; i sassi che affioravano erano come tutti gli altri sassi. Ma poco sotto il piombo c' era: e questa è una cosa a cui spesso avevo pensato, che noi cercatori crediamo di trovare il metallo con gli occhi, l' esperienza e l' ingegno, ma in realtà quello che ci conduce è qualcosa di più profondo, una forza come quella che guida i salmoni a risalire i nostri fiumi, o le rondini a ritornare al nido. Forse avviene per noi come per gli acquari, che non sanno che cosa li guida all' acqua, ma qualcosa pure li guida, e torce la bacchetta fra le loro dita. Non so dire come, ma proprio lì era il piombo, lo sentivo sotto i miei piedi torbido velenoso e greve, per due miglia lungo un ruscello in un bosco dove, nei tronchi fulminati, si annidano le api selvatiche. In poco tempo ho comperato schiavi che scavassero per me, ed appena ho avuto da parte un po' di danaro mi sono comperata anche una donna. Non per farci baldoria insieme: l' ho scelta con cura, senza guardare tanto la bellezza, ma che fosse sana, larga di fianchi, giovane e allegra. L' ho scelta così perché mi desse un Rodmund, che la nostra arte non perisca; e non ho perso tempo, perché le mie mani e le ginocchia hanno preso a tremare, e i miei denti vacillano nelle gengive, e si sono fatti azzurri come quelli del mio avo che veniva dal mare. Questo Rodmund nascerà sul finire del prossimo inverno, in questa terra dove crescono le palme e si condensa il sale, e si sentono di notte i cani selvaggi latrare sulla pista dell' orso; in questo villaggio che io ho fondato presso il ruscello delle api selvatiche, ed a cui avrei voluto dare un nome della mia lingua che sto dimenticando, Bak der Binnen, che significa appunto "Rio delle Alpi": ma la gente di qui ha accettato il nome solo in parte, e fra di loro, nel loro linguaggio che ormai è il mio, lo chiamano "Bacu Abis".

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I FIGLI DELL'ARIA

682303
Salgari, Emilio 1 occorrenze

I due carcerieri si guardarono l'un l'altro, forse sorpresi di quell'inaspettata resistenza, poi piombarono sui due prigionieri, cercando di abbatterli. Avevano però calcolato male le loro forze. Rokoff, con una mossa altrettanto fulminea, si era gettato innanzi a Fedoro, poi con due ceffoni formidabili che risuonarono come due colpi di fucile, fece piroettare tre o quattro volte i due cinesi, finché caddero l'un sull'altro, sradicati da due pedate magistrali. Urla furiose echeggiarono sotto l'atrio. Soldati, poliziotti e carcerieri si erano slanciati come un solo uomo verso i due europei, sguainando le scimitarre ed impugnando picche, coltellacci e rivoltelle. - Siamo perduti! - esclamò Fedoro. - Non ancora - rispose Rokoff, furibondo. - Possiamo accopparne degli altri prima di cadere. Si abbassò rapidamente, raccolse uno dei caduti e lo alzò sopra la testa preparandosi a scaraventarlo come un proiettile fra l'orda urlante. A quella nuova prova di vigore così straordinario, i cinesi si erano arrestati. - Vi accoppo tutti, canaglie! - urlò Rokoff. - Indietro! A quel fracasso però accorreva la guardia delle carceri, comandata da un ufficiale. Erano dodici soldati, armati di fucili a retrocarica, e a quanto pareva, non troppo facili a spaventarsi. Ad un comando dell'ufficiale inastarono risolutamente le baionette e le puntarono verso Rokoff. - Indietro! - tuonò il colosso. L'ufficiale invece armò la rivoltella e lo prese di mira dicendogli - Non opponete resistenza o comando il fuoco. Tale è l'ordine. - Rokoff, bada - disse Fedoro. - Sono soldati e obbediranno. - Meglio farci fucilare che lasciarci imprigionare. - No, amico, noi riacquisteremo presto la libertà perché la nostra innocenza verrà riconosciuta. Siamo prudenti per ora. Rokoff, quantunque si sentisse prendere da una voglia pazza di scaraventare il carceriere addosso ai soldati, comprese finalmente il pericolo e depose il povero diavolo, che pareva più morto che vivo. Nel medesimo istante compariva il magistrato che li aveva fatti arrestare. - - Una ribellione? - disse, aggrottando la fronte. - Volete aggravare la vostra posizione o farvi uccidere. - Dite ai vostri uomini che siano meno brutali - rispose Fedoro. - Noi non siamo stati ancora condannati. - Darò gli ordini opportuni perché vi rispettino, ma non opponete alcuna resistenza. Seguitemi. - Obbediamo, Rokoff. - Se tu mi avessi lasciato fare, avrei sgominato questi poltroni - rispose il cosacco. - Avevo cominciato così bene! - E avremmo finito male. - Ne dubito. - Seguiamo il magistrato. Scortati dai soldati, i quali non avevano ancora levato le baionette dai fucili, furono introdotti in un'ampia stanza dove si vedevano sospese quattro gabbie contenenti ciascuna tre teste umane che parevano appena decapitate, colando ancora il sangue dal collo. Erano orribili a vedersi. Avevano i lineamenti alterati da un'angosciosa espressione di dolore, gli occhi smorti e sconvolti, la bocca aperta ed imbrattata da una schiuma sanguigna. Sotto ogni gabbia era appeso un cartello su cui stava scritto: La giustizia ha punito il furto. - Mille demoni! - esclamò Rokoff, stringendo le pugna. - È per spaventarci che ci hanno condotto qui? - Sono gabbie che poi verrano esposte su qualche piazza, onde servano di esempio ai ladri - disse Fedoro. - Guarda altrove. - Sì, perché mi sento il sangue ribollire. Attraversato lo stanzone, passarono in un altro, le cui pareti erano coperte da strumenti di tortura. Vi erano numerose kangue, specie di tavole che servono ad imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani, pesanti venti, trenta e persino cinquanta chilogrammi; canne di ogni lunghezza e d'ogni grossezza, destinate alla bastonatura; arpioni di ferro per infilzarvi i condannati a morte; pettini d'acciaio per straziarli, poi tavole con corde destinate a distendere fino alla rottura dei tendini, le mani ed i piedi dei pazienti. - Canaglie! - brontolò Rokoff. - Altro che l'Inquisizione di Spagna! Questi cinesi sono più feroci degli antropofagi. Stavano per varcare la soglia, quando giunse ai loro orecchi un clamore che fece gelare il sangue ad entrambi. Era un insieme di urla acute e strazianti, di gemiti, di rantoli, di singhiozzi a malapena soffocati e di ruggiti che parevano mandati da belve feroci. - Qui si ammazza! - gridò Rokoff, guardando il magistrato ed i soldati, minacciosamente. - Si tortura - rispose Fedoro. - E noi lasceremo fare? - Non spetta a noi intervenire. - Io non posso tollerare ... - Devi resistere, Rokoff. - Che non veda nulla, altrimenti mi scaglio contro questi bricconi e ne ammazzo quanti più ne posso. Il magistrato, che aveva forse indovinato le idee bellicose del cosacco e che non desiderava vederlo ancora arrabbiato per paura di provare la sua forza, piegò a destra, inoltrandosi in un corridoio e si arrestò dinanzi ad una porta ferrata. Un carceriere stava dinanzi, tenendo in mano una chiave enorme. Ad un cenno del magistrato aprì ed i due europei si sentirono bruscamente spingere innanzi. Rokoff stava per rivoltarsi, ma la porta fu subito chiusa. Si trovavano in una cella lunga tre metri e larga appena due, rischiarata da un pertugio difeso da grosse sbarre di ferro e che pareva prospettasse su un cortile, essendo la luce fioca. L'unico mobile era un saccone, forse ripieno di foglie secche, che doveva servire da letto. - Bell'alloggio! - esclamò Rokoff. - Nemmeno una coperta per difenderci dal freddo. - E nemmeno uno sgabello - disse Fedoro. - Molto economi questi cinesi. A un tratto si guardarono l'un l'altro con ansietà. Avevano udito dei gemiti sordi e strazianti, che parevano provenire dal cortile. - Si tortura anche presso di noi? - chiese Rokoff. S'avvicinò al pertugio guardando al di fuori, e subito retrocesse, pallido come un cadavere. - Guarda, Fedoro - disse con voce soffocata. - Che cosa fanno subire a quei miseri? ... L'orrore mi agghiaccia il sangue.

I PESCATORI DI BALENE

682371
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Ho visto laggiù due grossi uccelli e conto di abbatterli. Ammucchiarono le vittime sotto la sporgenza di una rupe e si rimisero in cammino riaccostandosi al mare, e precisamente verso un piccolo "fiord", sopra il quale volteggiavano due grandissimi uccelli dalle penne bianche e nere. - Cosa sono? - chiese Koninson. - Aquile forse? - Aquile qui? A me sembrano due albatros. - Ma gli albatros sono uccelli dei mari australi, signore. - Non ti dico, di no, ma non pochi di quei voraci giganti vanno a piantare i loro nidi, sulle isole dei mari della Cina e del Giappone e in giugno si spingono, sin qui. - La loro carne è eccellente? - Se devo dirti la verità, è coriacea; però tenuta qualche tempo nel sale e condita con una salsa piccante, non è sgradevole. I due cacciatori giunsero ben presto al "fiord", ma i due albatros, un po' magri si ma veramente giganteschi, le cui ali spiegate misuravano non meno di cinque metri, si allontanarono e così rapidamente, che in pochi istanti, furono fuori di vista. - Vigliacchi! esclamò il fiociniere. - E lo sono davvero, malgrado la loro mole e, il loro formidabile rostro - disse il tenente. - Ma ... oh! ... - Che hai? - Guardate alla vostra sinistra, presso il mare! - disse Koninson a bassa voce. Il tenente guardò nella direzione indicata e sopra una roccia che cadeva a picco sul mare, ma poco alta, scorse una massa rossiccia, di dimensioni ragguardevoli. - È una foca! - disse Koninson. - No, deve essere un tricheco - disse il tenente, che caricò subito il fucile a palla. - Bisogna ammazzarlo. - Lo ammazzeremo, fiociniere. Cerchiamo però di non farci vedere, altrimenti si lascerà cadere in mare. Si gettarono in mezzo alle rocce e tenendosi sempre nascosti giunsero a soli duecento passi dalla preda che si scaldava ai raggi del sole mezza coricata su un fianco. Il tenente non si era ingannato. Era proprio un tricheco, che taluni chiamano anche morsa, lungo quasi quattro metri e con una circonferenza di tre, coperto di un pelo corto, scarso e rossiccio. Si vedevano distintamente i suoi lunghi denti di avorio che scendono verticalmente dalla mascella superiore. Tali animali, che un tempo erano numerosissimi su tutte le coste settentrionali dell'Asia e dell'America, sono inoffensivi a terra, ove si muovono con molto stento, ma aggrediti in mare, ove nuotano con grande sveltezza, si difendono disperatamente e più di una volta i loro solidi denti spezzarono le scialuppe dei cacciatori. Il tenente mandò Koninson dietro una rupe che era a breve distanza da quella occupata dal tricheco, poi puntò lentamente il fucile, mirò con somma attenzione e sparò. Il tricheco, colpito alla testa, fece un brusco salto mandando una specie di ruggito e si mise a dibattersi, cercando tuttavia di guadagnare l'orlo della roccia per precipitarsi in mare. Ma Koninson era vicino; in dieci salti lo raggiunse e gli vibrò una tale ramponata da finirlo quasi sul colpo. - Bella fucilata - esclamò il fiociniere volgendosi al tenente che si avvicinava colla solita calma. - Questi sì che sono animali che valgono una palla! - Lo credo, Koninson. È tanto grasso questo tricheco che ci fornirà più di due barili d'olio. - E olio migliore di quello della balena, signor Hostrup. - Che ce ne siano degli altri? - Ne dubito, Koninson. I balenieri hanno distrutto anche i trichechi. - E ve n'eran molti in quest'isola? - Delle migliaia, fiociniere. Mi fu narrato da un capitano olandese, quindici anni, or sono, che un baleniere norvegese in quattro sole ore ne ammazzò più di cinquecento. - Che strage! - E so pure, ma non mi ricordo più ora in quale località, che l'equipaggio di un bastimento inglese nel 1705 ne uccise ben ottocento nello spazio di sei ore e che tre anni più tardi un altro equipaggio ne uccise novecento in sette ore. - In una giornata, in quei tempi si caricava un bastimento di olio. - Ed erano carichi quelli che valevano molto di più dei nostri, poichè anche le pelli dei trichechi hanno valore e i denti, che danno un avorio più compatto e più bianco di quello degli elefanti, si pagavano molto cari. - E come faremo a trasportare a bordo questo bestione? - Lasciamolo qui. Manderemo i marinai a raccoglierlo. Continuiamo l'escursione Koninson. - I due cacciatori si misero a costeggiare l'isola facendo un'ampia raccolta di uova di uccelli marini, per lo più depositati sulle sabbie o nei crepacci delle rocce e sparando di quando in quando sui gabbiani. Alle 6, carichi come muli, s'imbarcavano nel piccolo canotto e tornavano a bordo dove il carpentiere, il capitano, mastro Widdeak e i marinai lavoravano febbrilmente attorno alla falla.

. - Ci bastano per abbatterli tutti quattordici! - disse il tenente con voce tranquilla. - Avanti, miei piccini, lesto il passo e tu, bianco, fatti più sotto. Là, così va bene. Un colpo di fucile echeggiò al largo, ma la palla non giunse fino ai fuggiaschi. - Troppo lontano, mio caro! - disse Koninson ridendo. - Quando sarete a tiro lo darò io il segnale e vi garantisco, brutti pagani, che lo assaggierete, il mio piombo. Altri due colpi di fucile rimbombarono, ma non con miglior effetto. I Tanana compresero che non era ancor giunto il momento di far parlare la polvere e raddoppiarono le grida e le scudisciate per far correre di più i loro cani, i quali parevano più robusti e più veloci di quelli regalati dall'eschimese. Ben presto non furono che a seicento metri di distanza. Koninson, che non li perdeva di vista un sol momento, stava per puntare il fucile quando vide le sette slitte fare un rapido voltafaccia e fuggire precipitosamente verso l'accampamento, di cui si scorgevano appena appena le tende. - Tò! - esclamò il fiociniere al colmo della sorpresa. - Battono in ritirata! - Come? I Tanana fuggono? - Sì signor Hostrup. Che abbiano avuto paura dei nostri fucili? - Io non lo credo. - E allora? Che siamo vicini al forte? - Dinanzi a noi non vedo che un bosco e anche molto lontano. - Che ci minacci qualche pericolo? - Lo temo, Koninson, anzi ne sono certo. - E da che io arguite? - I nostri cani da qualche minuto corrono più rapidi e mi sembrano inquieti. Infatti il tenente non si ingannava. Le povere bestie non parevano più tranquille e divoravano la via con crescente rapidità, senz'essere eccitate. Avevano cessato i loro allegri abbaiamenti, il loro pelo era diventato irto e volgevano frequentemente la testa verso i padroni, come se invocassero la loro protezione. - Hum! - mormorò Koninson. - C'è qualche cosa di grave in aria. - O meglio in terra. Guarda laggiù, guarda! Koninson guardò nella direzione indicata e vide una linea oscura estendersi dinanzi ad un bosco e poi slanciarsi attraverso la pianura con fantastica rapidità. Quantunque dotato di una buona dose di coraggio, impallidì. - I lupi! - esclamò. - Che giungono a centinaia - aggiunse il tenente. - Ecco perchè i Tanana sono fuggiti. Sfuggire al palo di tortura degli Indiani per cadere sotto i denti dei lupi, mi sembra che sia un pò dura. Vi confesso, signor Hostrup, che comincio ad aver paura. - Calma e sangue freddo, fiociniere. Se possiamo giungere a quel bosco che chiude l'orizzonte, siamo salvi. - Contate di trovare colà dei difensori? - No, ma troveremo degli alberi sui quali potremo trovare un comodo rifugio. Prepara le armi e lascia a me la cura di guidare i cani. I lupi arrivavano di gran corsa mandando delle urla brevi, come strozzate e mostrando le loro potenti mascelle armate di acuti e bianchissimi denti. Erano almeno duecento e parevano molto affamati e perciò decisi a tutto. Giunti presso la slitta, che continuava a filare colla velocità di una freccia, formarono un ampio semicerchio. Non assalivano ancora, forse tenuti in rispetto dalla presenza dei due uomini, ma le loro urla parevano volessero dire: Vi mangeremo! Vi mangeremo! - Devo aprire il fuoco? - chiese Koninson con un leggero tremito. - No, finchè si accontentano di seguirci - rispose il tenente che era tutto intento a far correre i cani, nella cui rapidità stava la salvezza di tutti. - Aspetta che ci assalgano. Per un paio di miglia i lupi, quantunque la fame attanagliasse il loro stomaco, continuarono a seguire e a fiancheggiare la slitta, ma poi il loro semicerchio si restrinse e uno di loro, più ardito o più affamato degli altri, si precipitò addosso ai cani che si gettarono violentemente da una parte. Pronto come il lampo Koninson fece fuoco e l'aggressore cadde stecchito nella neve. Alcuni carnivori, spaventati dalla detonazione, si sbandarono, ma gli altri raggiunsero la slitta. Pochi minuti dopo un altro lupo tentò l'assalto, ma ebbe egual sorte del primo. La slitta si trovava allora a due soli chilometri dal bosco e filava con una velocità vertiginosa. Tre o quattro altri l'assalirono per di dietro tentando di balzarvi dentro. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò Koninson. - Io non basto più. Il tenente abbandonò la correggia affidandosi all'istinto dei cani e afferrò il fucile. Era tempo, poichè i feroci carnivori avanzavano sempre più, pronti ad un assalto generale. Due detonazioni rimbombarono, poi altre due, poi due altre ancora abbattendo altrettanti lupi. I due balenieri continuarono così, mentre i cani li trascinavano verso il bosco. I lupi, che ormai avevano assaggiato il sangue, non retrocedevano più. Urlando furiosamente assalivano la slitta per di dietro e ai lati tentando di strangolare i cani e di saltare alla gola degli nomini i quali si difendevano disperatamente. Ad un tratto Koninson gettò un grido di disperazione. - Non ho più polvere! - Maledizione! - urlò il tenente. - E questo è il mio ultimo colpo! I lupi, come se avessero compreso che la vittoria era ormai sicura, si precipitarono confusamente all'assalto della slitta, circondandola da ogni parte. I cani sparvero sotto il numero degli assalitori e dopo breve lotta furono fatti a brani, ma i due balenieri non erano ancora vinti. Ritti sul sedile, si difendevano con sovrumana energia respingendo l'orda incalzante coi calci dei fucili, spaccando teste, fracassando dorsi, scavezzando gambe, schiacciando musi. Ma quella lotta di due contro centocinquanta e più non poteva durare a lungo. Già il fiociniere e il tenente si sentivano impotenti di più oltre resistere, già le loro forze venivano meno, i più feroci balzavano contro le loro gambe, quando una scarica violenta rintronò sotto il bosco che era lontano soli trecento passi. Quindici o venti uomini, apparsi improvvisamente, balzarono in mezzo all'orda urlante disperdendola a colpi di scure e di fucile e accolsero nelle loro braccia i due balenieri, così miracolosamente salvati. - Signore, - disse un di loro volgendosi verso il tenente che non si reggeva più - non abbiate più timore: siete fra i cacciatori del forte Speranza.