Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL FIASCO DEL MAESTRO Chieco (Racconti musicali)

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Voleva abbattere con lo stesso scopo scientifico i pioppi secolari del viale pomposo che da Monte San Donà mette ad una umile stradicciuola comunale; ma la signorina Bianca li difese con passione e lagrime contro l'acuto argomento di papà: "bezzi, bezzi". Quando, nell'aprile del 1875, Bianca sposò il signor Emilio Sparcina di Padova, chiese ed ebbe in dono dal padre la promessa di lasciar in pace i cari pioppi che l'avevan tante volte veduta correre e saltare, prima del collegio, con le sue rustiche amiche, e più tardi leggere Rob Roy, Waverley e Ivanhoe, tre poveri vecchi libri della sottile biblioteca di casa, tre poveri vecchi libri immortali che ora aspettano sul loro scaffale altre cupide mani, altri ardenti cuori inesperti della nostra grande arte moderna. Ermes Torranza, il poeta, le diceva che ella stessa a quindici anni, pareva un piccolo pioppo ridente a ogni soffio di vento, e che certo le colossali piante la ricambiavano di tenerezza paterna. Torranza lo diceva sul serio, egli aveva nel sangue questo fantastico sentimento della natura, questi distinti che i nostri freddi critici corretti gli rimproveravano forse a torto. Infatti, nel settembre del '79 Bianca tornò a Monte San Donà, sola, col cuore amaro; e le parve, passando fra i pioppi, che Torranza avesse ragione, che le piante pigliassero con lei la espressione di quel biasimo affettuoso che vien significato con la tristezza e il silenzio. Il piccolo sior Beneto non tenne questo metodo. Lo aveva sempre detto, quel padre sapiente e profetico, che la sarebbe andata a finire così, che troppi libri e troppa musica non conducono a niente di buono, che a forza di volersi raffinare ci si scavezza. Credeva la signorina di essere nata per sposare un principe, un Creso, un chi cosa diavolo mai? Erano questi gli esempi avuti dalla santa donna di sua madre? La mansueta signora Giovanna San Donà, una santa per forza, non partecipò alle collere del suo temuto signore, anzi godè segretamente che la ragazza non si fosse lasciata mettere in piedi sul collo e santificare come lei. Bianca aveva riamato il giovinotto biondo fattosi avanti, dopo un lungo sospirare, per la mano sua; ma i suoceri grossolani, avari, stizzosi, le eran riusciti intollerabili. Il marito, buono ma debole, non osava proteggerla a dovere; indi sdegni e lagrime. Non c'erano figli; e così Bianca aveva potuto, in un impeto di collera, tornarsene al suo solitario angolo degli Euganei, ai suoi pioppi venerabili. Aveva creduto, sì, a prima giunta, esserne guardata severamente; ma poi raccontò loro tante e tante cose che ogni freddezza fra le vecchie piante e lei ne fu tolta. Due mesi dopo il suo ritorno, quando ella vide, un lucido giorno di novembre, che le ultime brine e il gran vento del dì innanzi le avevano spogliate di foglie sin quasi alla vetta, quei tremoli pennacchi giallo-rossicci le misero una malinconia da non dire; sentì che i pioppi la salutavano da lontano come amici fedeli, prossimi a venir meno, a perdere la parola ed i sensi. Tutto veniva meno con essi nella gran pace, nella luce limpida del pomeriggio di novembre; tutto, tranne il bruno dorato dei cipressi che dai vigneti deserti presso a Monte San Donà si rizzavano qua e là sul cielo biancastro di oriente. La giovane signora aveva lungamente passeggiato i vigneti e ora, al cader del sole, scendeva piano piano la costa che ne beve con i suoi cavi sassi e con le querce inclinate l'ultimo tepore. Ella guardava, distratta, più le foglie dense del sentiero, più l'erbe grigie e giallicce del pendio che il piano e i colli dorati, e il tenero cielo caldo del ponente. Perché mai aveva pensato, la sera precedente, appena spento il lume, a Ermes Torranza? Perché ne aveva sognato tutta la notte? Perché non poteva ancora liberarsi da questa immagine? Eran pur quasi tre mesi che non vedeva il poeta, di cui nessuno a Monte San Donà le parlava mai, ed egli le aveva scritto una volta sola in principio d'ottobre per inviarle una romanza da camera. Bianca credeva ai presentimenti , non dubitava che avrebbe presto riveduto l'amico suo; ma pure, come spiegare una impressione così forte? Ella ammirava l'ingegno di Ermes Torranza, gli voleva un gran bene per la squisita nobilità dell'animo, per la conoscenza che ne aveva sin da bambina; ma il poeta era sui sessant'anni, e benché le portasse una amicizia più appassionata che paterna, e la sapesse esprimere molto bene in prosa e in versi, con la musica e i fiori, non poteva turbare il cuore della giovane signora; la quale correva con esso il solo pericolo di offenderlo quando bisognava posare una delicata parola fredda sulle sue effervescenze troppo giovanili. Avea ben pensato a lui tante volte con affetto, povero Torranza; non era mai stata assediata come ora dalla sua immagine. Proprio nello spegnere il lume le era venuto in cuore il nome strano 'Ermes'; e subito aveva veduto l'uomo, la barba Bianca, l'abito nero, la gardenia all'occhiello. Si fermò involontariamente per una foglia che cadeva in lenti giri, davanti a lei; e ripensò come lo aveva riveduto in sogno, i versi dolcissimi che le aveva letti, la divina musica che aveva suonato stendendo la mano sul piano senza toccarlo. Venendole meno la vivezza del ricordare, a poco a poco le voci lontane per la pianura, un frequente zittir d'insetti nell'erba la richiamarono al vero. Si ripose in cammino sotto le querce piene di sole, guardando trasparir dal fogliame secco gli antichi tronchi verdi d'edera che le parlavano, anch'essi!, della strofa in cui il Torranza parla a certa gente del proprio ideale: Se voi seguite, aride foglie, il vento, Tutti si sdegna il mio fedel cor; Di ruine, com'edera, è contento, Sul nobil tronco ch'egli ha amato, muor. Glieli racconterebbe, a Torranza, questi fatti bizzarri. Lui già metterebbe in campo il suo spiritismo, la occulta influenza di una psiche sopra un'altra. Questa idea le toccò il cuore come la sensazione di un mondo strano, forse non reale ma possibile; e, se reale, anche presente, anche circonfuso a lei; non solamente circonfuso, ma nascosto nel suo petto, inconscio nei misteri dell'anima. Una campanellina flebile suonò le ore da lontano, in mezzo ai campi; una, due, tre e mezzo. Non era più da credere che Torranza venisse in quel giorno. Bianca trasalì. Le pareva udire una carrozza sulla strada di Padova; ma ne passavano tante! Tutti volevano godere quelle deliziose giornate di novembre. Sì, sì, i cani della fattoria abbaiavano, le ruote stridevano sulla grossa ghiaia del viale d'entrata. Bianca affrettò il passo. Per tornare alla villa doveva scendere, poi risalire. Presso a casa trovò un ragazzo che veniva in cerca di lei. Erano arrivati tanti signori in due carrozze e la padrona gli aveva detto di correre a cercare la padroncina. Non sapeva il nome di questi signori né se ci fosse tra loro un vecchio vestito di nero con la barba Bianca. Gli pareva di sì, ma non n'era sicuro. Bianca entrò trafelata nella sala a pian terreno dove tutti erano ancora in piedi e Beneto distribuiva, qui i suoi rispetti, lì le sue riverenze, a destra i suoi rispetti, a sinistra la sua servitù, qualche complimentino sotto voce, qualche risatina cerimoniosa. Bianca si fermò sulla soglia, raccolse tutta quella gente in una occhiata; il poeta non c'era. Erano i Dalla Carretta con i loro ospiti, un piccolo museo archeologico di lunghi scialli scuri, di cappellini barocchi, di calze e nappe canonicali, di facce slavate; gente noiosa che veniva lì una volta l'anno, per convenienza, a sedersi in giro e a guardarsi un tratto in viso senza saper che dire; dopo di che un vecchio servitore in giacchetta bigia entrava molto dignitosamente portando il caffè e i 'pandoli' che il cavalleresco Beneto serviva con i suoi scherzetti sempre uguali, di cui la compagnia rideva regolarmente ogni anno sullo stesso tono e sulla stessa misura. Perdere un bel tramonto di novembre per costoro! Bianca non li poteva soffrire, le toglievano il respiro. "Non so" le disse fra un sorso di caffè e l'altro il canonico Businello "non so se la sappia la brutta notizia.." "No. Che notizia?.." rispose Bianca a fior di labbro. "Ah, sicuro" dissero due o tre voci sommesse. "Ah sicuro". "Il povero Torranza, poveretto" compunto il canonico, intingendo nel caffè l'ultimo pezzetto della sua ciambella. Bianca si sentì una stretta al cuore; un formicolìo freddo al viso; e non potè articolare parole. "Pur troppo" disse monsignore, agitando la tazza in giro per sciogliere lo zucchero rimasto al fondo. "Mancato, sì, poi..." Vuotò la tazza e soggiunse sospirando: "Iersera, alle undici e mezzo". Bianca perdette un momento la vista, ma oppose all'emozione un voler violento, un impeto, quasi di collera, e vinse. La signora Giovanna la vide farsi pallida pallida e fu per alzarsi sgomentata; una rapida occhiata dura di sua figlia la fermò sull'atto. Le signore Dalla Carretta, che conoscevano certi maligni epigrammi corsi a Padova sulle fiamme senili di Torranza, si guardarono alla sfuggita e tacquero. Intanto il canonico raccontava che Torranza si era posto a letto due o tre giorni prima senza sofferenze gravi, però con tristissimi presentimenti. La catastrofe doveva esser avvenuta improvvisamente; ma egli non poteva affermarlo. Era partito da Padova, poche ore dopo, alle dieci del mattino. La città era già piena della notizia; si sapeva che la Giunta Municipale doveva raccogliersi d'urgenza. "Le solite commedie" esclamò il sior Beneto. "Beata, quella gente là, di poter far del chiasso e spender dei soldi. Capaci di ringraziar Dio che quel povero infelice sia morto adesso che ci son loro in Comune. E cosa crede, Monsignore, che vogliano onorarlo per quei quattro versi? Ma neanche per idea! È perché era famoso anche lui a spendere e spandere. Basta questo, caro lei. Un uomo grande!" "Papà" disse Bianca agitatissima "se deliberano qualche cosa per Torranza, fanno più onore a sé che a lui". "Idee tutte vostre, queste" replicò Beneto dispettosamente. "Idee tutte vostre. Non mettetevi mica in mente ch'egli fosse poi questa gran cosa. Non m'intendo di versi, ma siamo stati a scuola insieme, con Torranza, e posso dirlo. Volete metter la testa di Farsatti?" "No, no, no" interruppe con certa secchezza molle il canonico. "Per talento, lasciamolo stare, il povero Ermes ne aveva più del bisogno; ma criterio, signora, criterio, la mi scusi proprio, neanche una briciola". "Egli era dei miei amici, l'avverto, monsignore" rispose Bianca. "A me queste cose non si possono dire". "Ah bene!" fece Monsignore scuro. I Dalla Carretta si rannuvolarono. Ma Beneto non permise che la finisse così, in un silenzio burrascoso. "Monsignore parla benissimo" disse egli "e mi meraviglio di voi che non le abbiate mai capite, certe cose". "Basterebbe l'affare dello spiritismo" osservò a mezza voce il vecchio conte Dalla Carretta, rivolgendosi con un sorrisetto al canonico, per confortarlo. "Euh!" disse questi, alzando gli occhi e le sopracciglia "io non parlo". Una zitellona della compagnia chiese, facendo l'innocente, se Torranza fosse proprio spiritista. "Spiritista fanatico, era. Aveva una biblioteca di pubblicazioni tedesche, francesi, inglesi, americane sullo spiritismo. Stava traducendo un libro di un certo Fechte o Fochte o Fichte, pieno di quelle minchionerie". "Si capisce che lei non lo ha letto" interruppe Bianca. "Sta' a vedere" saltò su il sior Beneto "che mi diventate spiritista. Vorrei vedere anche questa". Bianca fu per dare a suo padre una risposta audace e pungente. Si contenne e rispose solo che non amava i pregiudizi di nessun colore. "Adesso gli potremo dare la prova, allo spiritismo del povero Torranza" osservò un signore "perché, e questo l'ho udito io con le mie orecchie da Pedrocchi, egli diceva che dopo morto si sarebbe fatto sicuramente vedere e intendere da qualcuno". Beneto nitrì una risata gutturale, a bocca chiusa. "Gesummaria, papà!" disse la contessina Dalla Carretta al suo genitore. "Matto, cara, matto!" rispose questi. "Eh, matto, poveretto; eh matto". Ciascuno guardava il suo vicino, gli passava la parola a mezza voce. Bianca si alzò senza dir nulla, spinse via nervosamente la sua sedia e uscì. Beneto fremeva, la signora Giovanna stava sulle spine. Dopo un breve silenzio, la Dalla Carretta guardò, imbarazzata, suo marito, piegando la persona; in un attimo tutti furono in piedi, contenti, sollevati da un gran peso. Beneto discese la scalinata a braccio della contessa, che gli espresse, con molta ipocrisia, il suo rincrescimento per i discorsi che si eran fatti prima, per il dispiacere arrecato alla signora Bianca. Beneto protestò. Aveva gusto che sua figlia imparasse a conoscer meglio il mondo: era stato anche lui amico di Torranza, per tradizioni di famiglia; ma pur troppo quel vecchio matto aveva esercitato una pessima influenza in casa Squarcina. Intanto, dietro a loro scendeva la brigata tutta sussurri maligni, interrotti prudentemente da qualche osservazione a voce alta sul tramonto vermiglio, sulle campane della parrocchia che suonavano per l'ottavario dei morti, sul nero nebbione che si levava dall'orizzonte soffiando. Ecco i due carrozzoni che si fanno avanti; ecco daccapo gli ossequi, i rispetti e i doveri. I lunghi scialli scuri, i cappellini barocchi, le nappe canonicali, le slavate facce noiose si allontanano sotto i pioppi, e il sior Beneto ritorna su, borbottandosi la lettura di un foglio consegnatogli dal cursor comunale, che lo segue col berretto in mano. Giunto sulla spianata, trova un servitore uscito ad avvertirlo che è in tavola; e fa chiamar fuori la padrona. "Qui c'è l'annuncio di Torranza" diss'egli "e questo galantuomo ha un'altra lettera. Pagate voi?" "Cosa?" diss'ella timidamente. "Cosa? La multa, 'cosa'! Se vostra figlia si fa scrivere da dei disperati che riempiono Dio sa quanti fogli e poi non sono in caso di metter fuori otto palanche, suo danno! Io non pago sicuro". La signora Giovanna guardò la lettera. "Viene da Padova" diss'ella esitando. "Eh, sì sa, cara, che pagate!" "È urgentissima" sussurrò la povera donna. Beneto le domandò qualche cosa con gli occhi e un cenno del capo. "No" diss'ella. "Mi pare e non mi pare di conoscerlo, il carattere: ma di quella casa là, no certo". "Benone!" esclamò l'ironico marito. "Adesso poi, siccome sarebbe una pazzia, così son sicuro che pagate. Accomodatevi pure". Ed entrò in casa. La signora non aveva un soldo in tasca, ma fece subito qualche segreta convenzione col cursore, che salutò e sparve nella nebbia, dilagata, in un batter d'occhio, sul piano. Il triste oceano bianco fumava su tutti i pendii, metteva le prime ondate taciturne sulla spianata di Monte San Donà. Ancora un momento e avrebbe chiusa la casa nel suo vapor denso, avrebbe affacciata a tutte le finestre la sua malinconia stupida. "Ci vorrà un lume, a tavola" disse al domestico la signora San Donà, rientrando. "Niente, niente" gridò Beneto dal salotto "non occorre lume che ci si vede benone. Sbrigatevi e dite alla principessa che si degni, almanco, di non farsi aspettare".

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