Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Quell'estate al castello

213709
Solinas Donghi, Beatrice 9 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
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Qui tirai fuori la mia scoperta: - In fondo dev'essere un tipo abbastanza umoristico. - Oh sí: specialmente per mortificarmi, è di un umorismo che non ti dico. Il colmo dello spirito e della simpatia, proprio - . Naturalmente si capiva benissimo che pensava tutto il contrario. Di botto fece: - Ma non parliamone qui, vieni su in camera mia. In camera fece dietro - front e mi guardò fissa negli occhi. - Voglio dirti una cosa. Te la dico perché sei mia amica, ma guarda che è un segreto. C'era davvero, allora, il segreto o mistero. Mi pareva bene. - E tu dilla. - Non la ripeterai a nessuno? - Certo che no. - Ebbene, ecco: io mio zio non lo posso soffrire. Né lui né la zia. Tutto qui? Non lo trovavo per niente un segreto interessante, anzi mi dava persino un po' fastidio. - Ma dài! - dissi soltanto. Non mi veniva in mente altro. - Parlo sul serio. Ho le mie buone ragioni, sai. Strano: non mi venne nemmeno la curiosità di domandarle quali fossero queste ragioni. Anzi non volevo saperne niente, come se avessi paura di scoprire qualcosa che potesse rovinarmi la vacanza. Di nuovo mi sembrò che quella tale farfalla mi toccasse con la punta delle ali. Un tocco leggero leggero; freddino, però. Cosí - Oh, piantiamola adesso con questi discorsi! - Proprio a muso duro, tanto che mi riuscí di bloccarla, almeno per il momento. - Fammi sentire un disco, piuttosto. Difatti il grammofono portatile mi faceva voglia, era una cosa abbastanza di lusso allora e solo un'altra ragazza in classe nostra l'aveva, a parte Ippolita. Ascoltando dischi ci siamo messe a parlar d'altro e dopo un po' fu quasi come se non fosse successo niente. Però al trovatore e alla dama non abbiamo piú giocato, dopo quel primo giorno.

Ormai ero abbastanza vicina al buco profondo e buio che era l'apertura del condotto. Mi catapultai avanti slittando di qua e di là senza piú farci caso, buttai le braccia con pila e tutto dentro a quel buco, trovai qualcosa di vivo che rideva rannicchiato lí dentro e lo tirai fuori con uno strappo, cosi che piombò in piedi nell'acqua vicino a me, facendo uno splaf gigante che mi schizzò fino agli occhi. Ed era Ippolita in stivali di gomma, che continuava a ridere col singhiozzo e diceva: - Come eri bu-u-uffa! Quando hai detto «gridando uh accipicchia», oh che bu-u-uffa eri! Prima cosa, le mollai uno schiaffone, dicendo: - Potevi ben rispondermi, stupida! Ed ecco che mi si mette a piangere come una fontana. Finalmente, pensai. Era proprio ora che piangesse. Però da un lato mi rincresceva che lo facesse per causa mia. Non l'avevo mica picchiata con malanimo, io; solo per il nervoso della paura che avevo patita. Le dissi di smetterla, che se no cresceva il livello dell'acqua e rischiavamo di annegare tutt'e due. Ricominciò a ridere col singhiozzo, e il momento dopo, giú di nuovo a piangere a cateratte. Insomma, proprio una bella scena. Andando avanti di questo passo il groppo che aveva sul cuore non ci avrebbe messo molto a sciogliersi, però mi sembrava inutile aspettare che succedesse proprio lí sottoterra e con l'acqua a mezza gamba. Cominciai a tirarmela dietro e lei a seguirmi senza fare resistenza. Siamo uscite fuori dal serbatoio, e poi dalla grotta, un po' ridendo e un po' piangendo, slittando da tutte le parti, sventolando le braccia e le pile (anche Ippolita aveva portato la sua) per mantenere l'equilibrio, cosí che i tondini di luce saltavano qua e là come se anche loro avessero perso completamente la tramontana. Non so che cosa ne pensassero i pipistrelli. Chi se ne ricordava più, dei pipistrelli. Non so nemmeno se si facessero di nuovo vedere; magari davanti all'invasione di queste due pazze scatenate che sventolavano tondini di luce dappertutto, avran pensato che fosse piú prudente starsene quatti nei nascondigli della volta. Al chiaro del giorno ci siamo riviste in faccia. Eravamo uno spettacolo: bagnate, spettinate, infangate fino in cima agli stivali e piene di freghi verdicci e marroncini dove gli schizzi di quell'acqua puzzolente avevano lasciato il segno. Cosí come eravamo siamo subito risalite al castello, dove nel frattempo gli zii erano tornati dal cercare Ippolita in su e aspettavano, friggendo, che tornasse Remigio dal cercarla in giú. Le feste che ci hanno fatto non si possono ridire. E anche la Vittorina e l'Adele, che appena ci sentirono (e non era una cosa difficile, perché eravamo rientrate cantando Suoni la tromba a squarciagola) non si sarebbe riusciti a trattenerle in cucina nemmeno con le catene. E anche Remigio, quando tornò sbuffando per la salita. Mi buscai un sacco di baci e di abbracci, anche dalla contessa, che piangeva addirittura mentre me li dava; ma quel che mi fece piú piacere fu di sentirmi dire da Remigio: - Però, che brava! alla seconda volta l'ha proprio indovinata lei -. Mi ci voleva, questa soddisfazione, dopo che mi ero tanto mortificata quando invece non l'avevo indovinata affatto. Le feste, come si vede, non erano mica solo per Ippolita ritrovata sana e salva. Anche per me, ex vipera, ex verme, ma ora amica eroica, che era andata a salvarla nel centro della terra. Be', quasi.

Io adesso con la Vittorina ci avevo abbastanza confidenza, non era piú come ai primi giorni, quando mi faceva soggezione per via della sua divisa da cameriera inappuntabile, col grembiule bianco coi pizzi e tutto. Quel discorso del groppo sul cuore me lo fece per l'appunto in confidenza, la mattina dopo in camera mia. Non era una ragazza che avesse studiato e magari non era nemmeno tanto intelligente («quella mente acuta di Vittorina», diceva certe volte il conte, per far capire che pensava il contrario); però in questo aveva proprio ragione, secondo me.

Lei faceva la disinvolta ma cominciava a stare abbastanza sulle spine. Il carabiniere era poi un appuntato: un tizio giovane giovane, roseo come un bebé. Mica stupido, però, come presto si sarebbe veduto. Prima cosa, anche lui le domandò: - Come ti chiami? - Rosabella Rosamini - . Ormai era in ballo e non poteva rispondere diversamente. - Dove hai detto di voler andare? - A Parigi, a raggiungere mia madre che abita là. - Lo sai che ci vuole il passaporto, per andare in Francia? - Ce l'ho. Lo tirò fuori trionfalmente dalla borsetta, brava polla. Cosí l'appuntato ebbe solo da aprirlo per conoscere il suo nome vero. Un'altra cosa che Ippolita non aveva pensato era che anche a X quel nome, cioè quel cognome, che naturalmente era lo stesso degli zii, doveva per forza essere abbastanza conosciuto. Ci andavano per far compere di vestiario, per il dentista, e tante altre cose. I carabinieri poi, nemmeno a farlo apposta, li conoscevano di persona per via di un furto che c'era stato al castello l'anno prima. Dunque l'appuntato, leggendo il cognome sul passaporto, capí subito di chi era parente. Lei voleva continuare a fingere; ma niente da fare. La fuga era fallita, l'avventura finita. Si sarebbe messa a piangere ben volentieri, se non fosse stato per non dare soddisfazione alla gente che stava a guardare, compreso l'impiegato coi baffi. Stava con la testa piú alta che mai, per non rischiare che le colassero le lacrime. Quelle persone devono aver pensato che era una gran superba, oppure una delinquente incallita. Insomma l'appuntato la accompagnò al comando. Là anche il maresciallo guardò il suo passaporto e fece qualche domanda; poi telefonò al castello, come già detto. Torniamoci, al castello, per vedere cosa successe dopo la telefonata. Intanto successe che, dieci minuti dopo, Remigio era pronto con l'automobile davanti al portone. (Quello davanti, si sa.) Lo zio, pure. La zia, pronta anche lei, inappuntabile con cappellino e borsetta, perché aveva deciso di accompagnarlo. Io ciondolavo lí nei dintorni, senza perderli di vista. Li vidi entrare nell'auto. Un momento ancora, il tempo che Remigio chiudesse la portiera e tornasse al volante, e sarebbero partiti. Di botto sentii che mi tornava su un coraggio proprio eroico e mi infilai dietro a loro. - Vengo anch'io, - dissi, a muso duro. Era importante che la povera prigioniera, nel momento d'essere riacchiappata dai suoi aguzzini, avesse accanto almeno una persona che teneva dalla sua parte. Lo zio mi guardò un po' male. La zia invece disse: - Si, forse sarà meglio - . Sottovoce aggiunse: - Almeno con lei la bambina potrà sfogarsi, se... se ne avesse bisogno. Con noi non lo farebbe mai. Dal tono sembrava amareggiata. Quasi quasi mi faceva di nuovo pena. Ma cosa mi prendeva, di aver sempre pena della aguzzina della mia migliore amica? Parlottò ancora un po' col marito, sempre molto sottovoce. Capivo solo pissi pissi pissi, e sí che ero seduta di fronte, su una specie di sgabellino ripiegabile che si tirava giú quando serviva. (Non ce n'è piú di sgabellini nelle auto di adesso. Questa era molto bella, dentro, come un salottino tutto foderato di velluto. C'era perfino un vasetto smilzo smilzo per metterci dei fiori. Remigio però oggi non li aveva messi, non aveva avuto il tempo di pensarci.) A un certo punto la zia disse, un po' piú forte: - Ma perché? Non capisco che cosa avesse in mente, ecco: dato che ancora non sa, non c'era ragione di... Non me lo spiegavo tanto, questo discorso. Che cos'era che non sapeva ancora, Ippolita? Che cosa c'era, da sapere o non sapere? Mi uscí subito di testa, perché adesso la contessa si era messa a guardarmi e a me quasi mi prendeva un colpo di accidente pensando a tutte le domande imbarazzanti che poteva farmi. La domanda venne. - Senti, cara. Ippolita ti aveva forse detto qualcosa che potesse far pensare a... a questa scappata? Cielo aiutami. Cercai di tenermi nel vago. - Mah, ecco, cosí, era triste di aver la mamma lontana... Era già una risposta compromettente? D'altra parte, meno di cosí non potevo dire. Per fortuna la zia sembrò che se ne accontentasse, almeno per il momento. Strano ma vero: non aveva l'aria di sospettare di me. Nessuno disse piú niente. L'auto filava. Tutto restava indietro in un baleno, alberi, case, pali del telegrafo. Era una mattinata di un bello! le nuvolette come fiocchi di panna montata, le foglie verdi lustre che brillavano al sole. Da piangere, a pensare come ci toccava passarla male. Avrei voluto non arrivare mai. Mi ero figurata che al comando dei carabinieri dovesse esserci come una cella, magari con delle sbarre, per chiuderci i delinquenti. Invece a vederlo cosí era un ufficio come gli altri. Forse la cella era da un'altra parte (nei sotterranei?) con Ippolita chiusa dentro. Difatti lí nell'ufficio non c'era. Il maresciallo era un omone tagliato senza risparmio che batteva qualcosa a macchina pestando sui tasti con due manone come prosciutti. Smise di battere per venirci incontro, cioè venne incontro ai signori conti, io non c'entravo. Però vide che c'ero, infatti dopo i saluti domandò: - E questa ragazzina? - Una amica di nostra nipote. - Ah, bene. Anche lui doveva aver afferrato al volo che era meglio che ci fossi, caso mai Ippolita facesse delle difficoltà. Mi lasciarono in disparte parlottando fra loro tre, di nuovo pissi pissi pissi, uffa che barba. Anche l'appuntato era in disparte impalato vicino a una porta, e magari si annoiava pure lui. Avevo persino voglia di attaccare discorso, sarebbe stato giusto che ci facessimo compagnia tra noi due, dato che gli altri ci mettevano al bando. Ma forse non avrebbe risposto, per via della disciplina. - Se vogliono passare di là, - disse dopo un momento il maresciallo e l'appuntato apri la porta. Proprio allora, guarda il destino, entrò nell'ufficio un tizio scalmanato che aveva da denunciare qualcuno o qualcosa. Che cosa, o chi, non l'ho mai saputo di preciso, perché era una storia complicata. C'entravano certi vicini, un cane, anzi due cani e anche delle galline, sembrava l'arca di Noè. Il maresciallo tornò a dirci di passare. Si capiva che voleva venire di là con noi, ma quel tale era un tremendo attaccabottoni e non lo mollava. Era inutile dirgli che i signori conti c'erano da prima: lui non rispettava nessun conte e nessuna precedenza. Continuava a ripetere: - Lei ce lo deve dire, maresciallo, a quegli altri là! - Quegli altri là erano i vicini. E diceva anche: - Se mi velenano il mio, - (di cane), - io ci veleno il loro! Questa è giustizia! Anzi diceva giustissia, con due esse. Aveva la bava alla bocca, non c'era verso di calmarlo né di interromperlo. Allora disse, il maresciallo: - Entrino, prego Li raggiungo subito. Io pensavo che certo, nel mentre che dava retta all'attaccabottoni, avrebbe mandato l'appuntato a prendere Ippolita nella cella o in qualsiasi altro posto fosse. Insomma siamo passati di là, i conti e io, senza altro accompagnamento. C'era come una specie di sala d'aspetto, divisa a metà da una panca di legno scuro con lo schienale molto alto. Non c'era altro mobile, almeno nella metà che si vedeva. L'altra era nascosta dallo schienale della panca. (È importante spiegare bene tutto, se no dopo non si capisce.) Il conte andò a mettersi davanti a una finestra che c'era nella metà visibile. Mica che guardasse fuori; si tirava solo i baffi, con aria seccata. Sua moglie si sedette in punta alla panca. L'aria che aveva lei, era di star pensando a tutte le persone poco fini, come dire delinquenti e parenti di delinquenti, che potevano essersi sedute in quel medesimo punto; e di averne un grandissimo ribrezzo. - Non me lo sarei mai aspettato, - cominciò infatti a dire, - di dover venire a cercare una mia nipote in un posto simile. Non me lo aspettavo proprio da Ippolita, che ci costringesse a questo. Una simile ingratitudine! Ingratitudine, ah questa poi. Si aspettava che le fosse anche riconoscente, dopo i bei trattamenti che le aveva fatto? Era tanto grossa che scoppiai fuori quasi senza accorgermene: - Be', ma è colpa loro, in fondo! Non capirono; o facevano finta. - Loro... di chi? Mi feci piccola piccola: - Be', vostra. Subito dopo avrei voluto scomparire, essere inghiottita dal pavimento, qualsiasi cosa. Mi guardavano, tutt'e due, come se fosse stata la panca a mettersi a parlare e per di piú avesse detto chissà quale enormità. - Prego? - fece il conte, molto dall'alto in basso. Da congelarmi sul posto. E lei, idem: - Che cosa vuoi dire? spiegati. Congelata o no, ormai dovevo andare avanti per forza. - c'è la faccenda delle lettere, - dissi, sulla difensiva. - Naturale che Ippolita l'abbia presa male. - Lettere? - Pareva proprio che cascassero dalle nuvole. - Quelle di sua madre, no? - Ero tutta sudata, ma zitta non stavo, nossignori. - È tanto ormai che non ne riceve. E sarebbe colpa nostra? - fece il conte. - Be', per forza. Chi altri potrebbe avergliele nascoste? Era detta. Calò un silenzio da affettare col coltello. La contessa pareva diventata una statua. Poi strinse le mani sul manico della borsetta - forse aveva voglia di tirarmela in testa - e disse queste precise parole: - Piccola vipera! Fu la prima e l'ultima volta in vita mia che mi beccai questo titolo. Mica male, per una che aveva fin la stufa di passare sempre da brava ragazza giudiziosa! Non si fermò qui. Continuava che era una bellezza. - Osi insinuare che saremmo capaci di sottrarre delle lettere destinate a nostra nipote? di tenergliele nascoste, sapendo con che ansia le aspetta? Ma come ti è potuto venire in mente? Mai, tientelo per detto, mai, mai mio marito o io faremmo una cosa simile! Con ogni mai dava uno scrollone alla borsetta, da tanto parlava con convinzione. Di botto mi venne un pensiero terribile, cioè che probabilmente stava dicendo la pura verità. Suo marito invece non diceva niente. Mi guardava soltanto, tra compassionevole e schifato; ma più schifato, almeno mi pareva. Come se non fossi nemmeno una vipera, solo un miserabile verme. - Ma allora, - balbettai, sentendomi verme, - le lettere che non arrivavano... Se non erano stati loro a farle sparire, forse non era nemmeno vero che fossero degli aguzzini e Ippolita loro prigioniera. E allora che cosa venivo ad essere io, per averlo pensato? Risposta: un verme. Stavolta parlò lui: - Non arrivavano, perché sua madre ultimamente non gliene ha scritte. Poi lei, a ruota: - Aveva delle difficoltà a farlo. Ha scritto a me, ieri, pregandomi di preparare Ippolita a... a quello che aveva da comunicarle - . (La busta crema. Era questo, allora, che c'era dentro.) - Ma la bambina è tanto chiusa, con noi... È cosí difficile trovare il modo giusto per parlarle... Pareva che le venisse da piangere. Capii in un lampo che, altro che aguzzina, era una pasta di donna, questa qui, anche se era un'aristocratica. Capii, cioè, che io e Ippolita non avevamo capito niente: era tutto più meno all'incontrario di come ci eravamo figurate. - Non solo il modo, anche il momento, - proseguÍ, rimestando nella borsa per cercare il fazzoletto. - Ieri non c'era verso, nemmeno a farlo apposta eravate sempre insieme, ancora più del solito -. Mi ricordai di come aveva cercato di separarci per la passeggiata e non c'era riuscita. - Volevo dirglielo stamattina, ma lei era già andata via... Allora, per un momento, ho persino pensato che... ho avuto paura che l'avesse saputo, chissà in che modo, e fosse scappata per il dispiacere. Assurdo: perché non poteva ancora esserne a conoscenza, naturalmente. - Ma essere a conoscenza di cosa? Crepavo, a questo punto, se non me lo diceva. - Ma si, è bene che anche tu lo sappia. Sei cosí una buona amica, per Ippolita. Dunque non ero già più una vipera. Questo mi avrebbe fatto sentire ancora piú verme, se non fossi stata tanto occupata a crepare di curiosità. - Il fatto è, - concluse, - che a New York sua madre si è risposata. Rimasi un po' lí. Cosí sul momento non mi sembrava una notizia tanto tragica, da dover fare dei preparativi speciali prima di decidersi a darla. Dipende dai casi, si sa. Certo che a me sarebbe dispiaciuto da matti, se la mia mamma da un giorno all'altro avesse sposato uno che non fosse mio papà. Non riuscivo nemmeno a figurarmela, una cosa simile. Ma avevo già visto che Ippolita in questo non ragionava proprio come me. - Forse non le rincrescerà tanto, - dissi, ottimista. - Per lei sua madre ha sempre ragione. Basta che possano tornare a stare insieme, poi... - Ma non capisci. È proprio questo il punto. In pratica, risposandosi, mia cognata (la mia ex cognata, ormai) rinuncia a tenerla con sé. - Non solo in pratica, Augusta, - precisò il conte. - Fa differenza anche di fronte alla legge, se interviene un secondo matrimonio. In quel preciso momento... Ossignoresignoresignore, se ci penso mi viene ancora male. Sentii un rumore, un movimento dietro lo schienale, nel punto dove stavo appoggiata. Poi, proprio sopra di me, una voce sottile fece: - Non è vero! Scattai su come se avessi preso la scossa e sopra lo schienale della panca vidi la testa di Ippolita. La testa sola, collo compreso. La faccia grigia, da tanto che era pallida. E quella faccia continuava a dire, sempre con lo stesso vocino sottile, da non riconoscerlo per suo: - Non è vero! Non può essere vero! La mia mamma non può avermi fatto questo! Ci misi un momento a capire come era andata la faccenda.

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E anch'io, vedendo che Remigio stentava abbastanza a smuoverla, mi ricordai che quel giorno non ce l'avevamo fatta in due, dunque lei come poteva essersi infilata lí sotto da sola? Tant'è, allungavo il collo lo stesso, come se mi aspettassi di vedere chissà cosa. La cassetta del tesoro? Lo scheletro luuungo che aveva detto Ippolita, mettendoci tutti quegli u per fare la voce píú lugubre? Non c'era niente. Né Ippolita né altro, solo polvere e fiaschi vecchi. Ci siamo guardati in faccia tutti e quattro. Quattro facce che tiravano al verde, per via delle ragnatele del finestrino; ma la mia in quel momento deve essere diventata di tutti i colori, dalla vergogna. Che figura, che figura! Remigio aveva una pila e si prese il gusto di illuminare ben bene la buca in tutti gli angoli prima di farmi, tutto trionfante: - L'avevo ben detto! Andò già bene che i conti avessero troppa fretta di riguadagnare il tempo perduto per occuparsi ancora di me. Mentre tornavamo di sopra li sentivo parlare tra loro, decidendo il da farsi. Non capivo bene, perché filavo avanti per togliermi dai piedi al più presto possibile, ma mi sembra che decidessero cosí: Remigio doveva scendere lo stradone in direzione del paese con la sua bicicletta, mentre dall'altra parte, dove era tutta salita, sarebbero andati gli zii con l'automobile, che la sapeva guidare anche il conte, solo che non lo faceva quasi mai perché non gli piaceva. Beninteso che questa volta non mi sono accodata. Anzi, non mi preoccupavo d'altro che di sparire senza farmi notare. Cosí tornai in sala da pranzo. Non avevo appetito, ma rosicchiai qua e là qualcosa di quel che c'era sulla tavola, senza quasi sapere quel che facevo, tanto ero soprappensiero. Difatti mi stava baluginando un'idea. Non sapevo quale, perché non si lasciava acchiappare. Baluginava e basta, lontana e confusa, uso lumicino nella nebbia. Capii che se volevo vederci più chiaro dovevo ricapitolare tutto da capo, come quando si studia una lezione difficile. E dunque, ricapitolando: Ippolita, prima ancora di sapere che sarebbe stata infelice per quel brutto scherzo di sua madre di risposarsi senza dirle né ahi né bai, aveva parlato di rifugiarsi in un buco senza luce; però in quello della cantina non c'era. Bene, cioè male. Ma con ciò? Mica era l'unico buco, qui al castello. C'era per esempio la grotta nel muraglione in fondo al parco. Non quella delle statue rotte; quella non era un buco. L'altra con la vasca, o quel che era, il serbatoio d'acqua sotterraneo. E al di là dell'acqua c'era il condotto (o cunicolo) che serviva nei tempi andati per farla passare fino alla fontana della prima grotta. Era il cunicolo, il super- buco-nero. Una tana cosí rintanata che a ficcarsi lí dentro c'era da pensare sul serio di poter dimenticare tutto, dispiaceri, ricordi, tutto quanto. Ci aveva pensato, Ippolita? Mi sarei morsa la lingua in due piuttosto che parlarne a qualcuno. Coccodé coccodé, come una gallina che ha fatto l'uovo, e poi farmi ridere di nuovo dietro perché magari anche là non c'era niente? Grazie tante, stavolta non ci cascavo. Zitta e quatta me ne andai a cercare gli stivali di gomma al loro posto nell'armadio dell'ingresso. Non c'era nessuno in giro, avevo via libera. Remigio era partito con la sua bici, gli zii con l'auto, le donne dovevano essere ancora in cucina a fare insieme i loro commenti. Di stivali, nell'armadio, ce n'era un paio solo. Mancavano quelli di Ippolita, eppure era bel tempo, non era giornata da uscire con gli stivali. Il cuore mi fece una capriola. Adesso ero quasi sicura. Remigio aveva lasciato la pila sulla consòl. Presi anche quella e tirai giú diritta per il parco, prendendo tutti i viali in discesa e le scorciatoie fatte a scaletta. Cinque minuti dopo ero all'imboccatura della grotta. Mi ero dimenticata dei pipistrelli, cosí che sono entrata dentro a catapulta, chiamando forte «Ippolita, Ippolita». Non so dove si nascondessero, m'immagino negli angoli più bui, ma a sentir gridare a quel modo uscirono fuori tutti. Mi volteggiavano intorno a zigzag, quasi toccandomi con le punte delle ali, tanto che mi dimenticai che in genere non mi facevano impressione e tornai fuori strillando, ancora piú a catapulta di come c'ero entrata. Avevo una gran voglia di rinunciare, però mi vergognavo. Ormai dovevo proprio farla, la parte dell'amica eroica, non c'era scampo. Aspettai fuori soltanto un po' di tempo, per dare agli idem-come-sopra il tempo di calmarsi, poi strinsi i denti e tornai dentro. Gli idem-come-sopra svolazzavano ancora, ma piú radi. Parevano quei brandelli di foglie o di carta bruciata che volano per aria quando si fa un falò. Dopo il gomito della galleria cominciò il buio e non li vidi piú. Non che fosse tanto consolante, non vederli e sapere che c'erano. Andai avanti, pregando in cuor mio tutti i santi del paradiso e tenendo la pila voltata in giú per non irritarli. (I pipistrelli, mica i santi.) Faceva il solito freddino da catacomba, infatti sentivo pizzicare la pelle delle braccia e del collo. Sciac sciac, i passi. Tututún tututún, il cuore. Tutto come quella volta della nostra prima esplorazione, ma molto peggio, perché adesso ero sola. Sola nelle catacombe coi pipistrelli, in cammino verso il centro della terra. Sembra un'esagerazione, ma era proprio cosí che mi sentivo. Mi fermai al solito muretto, che era poi la sponda del serbatoio, alzando adagio la pila per illuminare il buco del condotto dall'altra parte. Il raggio laggiú arrivava appena, non si vedeva altro che una macchia scura e confusa. - Ippolita, sei lí? Vieni fuori, dài! Risposta, nix. Non osavo chiamare piú forte per non scatenare di nuovo gli idem- come-sopra. In conclusione: o Ippolita non c'era, oppure, se c'era, dovevo andare io di persona a prenderla fin laggiú, attraverso tutta quell'acqua sotterranea, col suo odore di marcio. Non era affatto un bel pensiero. Mi calai con precauzione giú dalla sponda. Per fortuna l'acqua era abbastanza bassa, non mi arrivava nemmeno in cima agli stivali. Adesso i passi facevano splaf splaf. Andavo avanti molto adagio, perché c'era una roba viscida sul fondo che a ogni passo mi faceva slittare un po' . Davanti a me slittava sull'acqua il tondino di luce della pila. E intanto, come se non bastassero il buio e il silenzio e i pipistrelli e le catacombe e il centro della terra, mi venivano in mente le cose piú terrorizzanti, per esempio lo scheletro della botola (cioè quello che sotto la botola non c'era). Mi pareva di vederlo che arrivava a nuoto, bianco nell'acqua nera, con tutte le sue costole allineate. Brrr!! Adesso non dovete credere che fossi scema: lo sapevo bene che non esisteva, che me lo stavo inventando io. Però non me lo toglievo dalla mente. Per pensare a qualcosa di piú allegro ho persino provato a figurarmi il mio scheletro ricco col cilindro e glí anelli. Be', ci credete? laggiú al buio mi metteva paura anche lui. Non potevo mica continuare cosí. Impossibile. Provai a mettermi a cantare, per tirarmi su. La canzone della campagnola, prima; ma la voce non mi usci fuori per niente. Riattaccai con Suoni la tromba e questo andò meglio. Cantavo piú forte che potevo, impipandomene degli idem-come- sopra perché ormai avevo tanta di quella paura che pipistrello più, pipistrello meno non mi faceva proprio nessuna differenza.

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Si era messa una tovaglietta a trafori in testa, per fare da velo, e devo dire che come dama convinceva abbastanza. Io facevo ancora resistenza. - Guarda che non ci riesco, non son capace di cantare se intanto devo inventare le parole. - Fa niente, anche se declami va bene lo stesso, però fai plin plin ogni tanto, cosí figura che ti accompagni col liuto. Si mise in posizione giungendo le mani sulla balaustra e guardando in su con gli occhi sognanti, io imbracciai il liuto che non c'era e attaccai: - Plin plin, plon plon. O dama che da quel balcone... - ...verone... - ...che da quel verone spenzoli i tuoi codinzoli... - Scema! mi fai venir da ridere. Inventa qualcosa di piú medioevale. Riattaccai dal principio, dandomi piú slancio. - O dama che t'affacci al marmoreo verone e contempli le nuvole del cielo e gli ucc... e gli augelli erranti, deh abbassa lo sguardo... - ... plin plin... - ... plin plin, su me che ai piedi dell'eccelsa tua torre consumo le ore, plin plon plon, plon plon plin, in attesa di vederti apparire. Come il sole tu sorgi, o dama gloriosa.... Mi veniva proprio benino e ci stavo prendendo gusto, quando, patatrac! chi ti esce fuori come se niente fosse da un vialetto tra le siepi delle ortensie? Il conte Ottavio, che, si vede, aveva fatto anche lui un giretto nel parco invece della siesta. Il «plin plin» che avevo già pronto non mi usci piú. Rimasi cosí, a bocca aperta, immobilizzata nel gesto di suonare il liuto, come se giocassi alle belle statuine. Il conte tirò su fino in cima alla fronte un sopracciglio color sabbia e ghignò di nuovo sotto i baffi. Non mi ero sbagliata: aveva proprio una faccia umoristica. - Amabili diporti di gaie e sciocche pulzelle, - disse, parlando anche lui alla medioevale, ed entrò in casa. Avrei voluto sprofondare, non mi ero mai sentita cosí scema in vita mia, però un po' mi veniva anche da ridere. Ippolita era sparita dal verone, voglio dire dal balcone, e siccome non si faceva piú vedere entrai anch'io per cercarla. Cominciava allora a scendere, cosí che la incontrai sullo scalone. Era tutta tirata in faccia, come succede quando si è presa una grossissima arrabbiatura. Io non capivo

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Veramente, volendo andare per ordine, prima del postino con la lettera arrivò, alle nove e mezza precise, una tale abbastanza giovane con cappellino piccolo e tondo di paglia, borsa grande e quadrata pure quella di paglia, e i baffi. Non sarà gentile dirlo, però li aveva davvero. Niente di spettacoloso: due baffetti neri neri, ma piccoli. Era la signorina Elide Ricciarelli, una del paese, che veniva per far conversazione francese con Ippolita e farle ripassare il programma scolastico dell'anno. Tutti i santi giorni, veniva, fuorché le domeniche, e cosí tra francese e ripasso, le mattinate erano bell'e sistemate. Una barbarie, la chiamava Ippolita. Magari proprio una barbarie no, però una barba lo era di certo. Quasi quasi mi veniva da darle ragione; anch'io ce l'avrei avuta con gli zii, se mi avessero fatto passare le vacanze come le facevano passare a lei. Già, perché anche nel pomeriggio, qualsiasi cosa si facesse, passeggiata o altro, a una data ora non c'erano santi, doveva fare i compiti delle vacanze, una certa quota al giorno. Io mi meravigliavo: - Ma non sei stata promossa? Non dovresti essere in vacanza? - Loro dicono che è stata una promozione stentata, - (e in quanto a questo era vero, Ippolita, che da privatista aveva fatto faville, nella nostra scuola raggiungeva appena appena il sei, erano molto tirati allora nelle scuole pubbliche, anch'io del resto arrivavo al sette solo in italiano e storia, chiusa parentesi), - e dicono che devo prepararmi per fare meglio un altr'anno - . Poi era lei che si meravigliava: - Perché, a casa tua non li fate i compiti delle vacanze? - Ma sí, però ognuno se li amministra come crede. Io per esempio me li riservo per i giorni di pioggia. Mio fratello Franco quei pochi che fa li fa subito prima di tornare a scuola. - E nessuno gli dice niente? - Be', la mamma, un po', ma poi lascia correre. - Beati voi, - sospirava Ippolita. Però, mica per dar ragione ai suoi zii, ma bisogna dire che quando poi era libera dai compiti, certe volte sembrava che si annoiasse, piú che altro. Cominciava a scalpitare coi piedi e a sbuffare; anche per il caldo, questo è vero. (C'è da dire infatti che continuava a fare un gran caldo, la signorina Ricciarelli quando arrivava alle nove e mezza aveva già i baffi sudati.) Poi domandava: - Cosa facciamo? - come se dovessi pensarci soltanto io. Una volta mi domandò invece: - E voi cosa fate durante le vacanze? - Niente. Stiamo al fresco sotto la pergola e ci divertiamo a risolvere le parole incrociate e i rebi. - Rebi? - Plurale di rebus. Giochiamo anche alle carte; mia cugina Isa è terribile, vince sempre. Oppure ascoltiamo le canzoni e i ballabili alla radio, e li balliamo. - Con chi? - Con nessuno: cosí fra noi. Io poi leggo, se ho qualche libro che mi piace, ma Isa no, non ha pazienza. Facciamo i bagni nel fiume; ah, e andiamo per funghi, quando ce n'è. Cercavo di ricordarmi tutto perché vedevo che Ippolita pendeva dalle mie labbra come se quelle normalissime occupazioni estive di una famiglia normale fossero la cosa piú interessante di questo mondo. Non era la prima volta che mi accorgevo che me la invidiava: la famiglia normale, voglio dire. Poteva far persino rabbia, da parte di una che viveva in un castello, ma non mi arrabbiai perché ormai potevo anche capirla, dopo il fatto della lettera. Come stavo dicendo all'inizio, la lettera era arrivata proprio la prima mattina del mio soggiorno al castello (la seconda, se si conta il giorno dell'arrivo), mentre Ippolita era a lezione con la signorina Ricciarelli. Io mi ero messa in ingresso ad aspettare che finissero. Non ci stavo tanto bene; non ero ancora abituata a tutta quell'imponenza e quando ero sola ricominciavo a sentirmi strana, cioè piú piccola del normale, come ho già detto, ma con le mani troppo grandi e i piedi anche. Li storcevo, i piedi, in tutte le posizioni possibili, mi stiracchiavo le mani, però ero già contenta che non ci fosse nessuno a vedermi, perché meglio sola che male accompagnata. Infatti continuavano tutti a farmi una gran soggezione, domestici compresi, anzi quasi piú loro dei padroni. Eccole finalmente che scendevano lo scalone, la signorina davanti, tic tic tic sui sandali coi tacchi, poi Ippolita che dietro le sue spalle mi faceva il gesto della gran barba che ne aveva. In quel momento lo zio Ottavio mise fuori la testa dalla porta della biblioteca (d'ora innanzi li chiamerò zii anch'io, quando mi vien bene, tanto per semplificare). Salutò la signorina e disse a Ippolita, senza dar segno di aver visto, o no, il gesto della barba: - C'è posta per te. Lei diventò rossa trasparente, proprio come quando è mancata la luce e si accende una candela; allora, se si tiene una mano davanti alla fiamma, diventa precisamente di quel rosso lí. Si slanciò a prendere la lettera dal vassoio d'argento dove Remigio metteva la posta, ma appena data un'occhiata alla busta tutto il rosso della contentezza le andò giú. Le venne un faccino appuntito e come offeso, per la delusione, e spinse da parte la lettera senza aprirla. Non che la buttasse via, ma insomma eravamo quasi lí. Lo zio aveva visto quell'atto e notai che non sembrava niente contento. Non disse niente, però, e tornò a rimbucarsi in biblioteca. Intanto la signorina se ne andava, continuando a parlare fin sugli scalini del portone di non so che regole di latino che Ippolita doveva ripassare. Era una tipa cosí, se non ripeteva le cose almeno venti volte non era contenta. Rimaste sole noi due domandai: - Di chi è la lettera? - Di mio padre. - Ma... non la apri? - Poi la apro. Non mi tornava giusto che una figlia nel ricevere una lettera di suo padre dovesse fare quella faccia derelitta, tanto che mi scappò detto ancora: - Non sei contenta che ti abbia scritto? - Ma sí, ma sí. Lui però scrive abbastanza sovente. Invece da mia madre è un po' che... Insomma, speravo che fosse di mia madre, ecco tutto. - Magari avrà messo il suo foglio nella stessa busta, - dico io, ottimista. - Guardaci, vedrai che è cosí - . A me pareva la cosa piú normale da farsi. Lei mi guardò con l'occhio freddo che in certi momenti era la sua specialità. - Impossibile, - fa, secca secca. - Non lo sai che non stanno insieme? Sono separati da piú di tre anni; anzi, adesso sono anche divorziati. - Ma non si può, - dissi, sorpresa. - Non c'è mica il divorzio in Italia - . Difatti allora non c'era. - E con questo? Loro stanno all'estero. Già: non ci avevo pensato. Se era cosí, la cosa prendeva tutt'un altro aspetto, molto ma molto piú serio. Non sapevo piú cosa dire, un po' come se Ippolita mi avesse confessato di punto in bianco di essere in realtà un'orfana o una trovatella, o di avere qualche grave malattia. A quei tempi il divorzio, quando non era un'americanata da ridere, pareva una roba dell'altro mondo, da rimanerci molto male a scoprire che fosse successa tra i genitori della propria migliore amica. - Che faccia fai, - disse la migliore amica, con una risatina spavalda. - Son cose che capitano, sai. Io mi sentii in obbligo di domandare: - Com'è successo? - sempre un po' sul tono catastrofico, come domandassi i particolari di uno scontro con morti e feriti. - Vieni su, - fa lei allora, rispondendo a pera, - ti faccio vedere com'è la mia mamma. Mentre le andavo dietro su per lo scalone riflettevo che, infatti, mentre Ippolita teneva il ritratto di suo padre sullo scrittoio dove faceva i compiti, quello di sua madre io non l'avevo mai visto. In camera andò a rovistare sotto la biancheria nel cassetto in alto del comò: dunque lo teneva nascosto, cosí come io nascondevo - e precisamente nel cassetto della biancheria - le foto degli artisti del cine, per paura delle prese in giro dei miei fratelli. Ma chi mai prenderebbe in giro una figlia perché tiene caro un ritratto della propria madre? Era un ingrandimento di fotografia, di quelli belli grandi, in una cornice d'argento. Lo sembrava proprio una diva del cine, lí dentro, la mamma di Ippolita. Aveva un gran colletto di pelo chiaro, volpe azzurra immagino, che le faceva come una nuvola intorno alla faccia, e un cappellino inclinato su un occhio, come andava di moda. L'occhio che si vedeva bene era scuro, lucente e un po' misterioso. - E molto bella, - dissi, - molto elegante. Nel dirlo mi passò per la mente che forse la mia mamma invece non era affatto bella e magari nemmeno elegante, anche se l'ultimo vestito che si era fatto, quello con le rose nere e gialle, a me sembrava una sciccheria; e che non me ne importava un fico. Voglio dire, non che non mi importasse della mamma: non mi importava un fico che non fosse bella. Ippolita sembrò contenta dell'effetto che mi aveva fatto la fotografia. - Apposta ho voluto fartela vedere, - disse, - cosí adesso puoi capire meglio. Ma renditi conto! ti sembra possibile che una donna come lei, non solo bella, anche brillante, interessante, che ha sempre avuto un gran successo in società... E tra parentesi, questo ai miei zii non andava proprio giú, non sono mai stati capaci di perdonarglielo. - Ma come mai? C'era forse qualcosa di male? Non so perché mi venisse in mente di domandarle questo. È che della vita di società non ne sapevo un'acca, di signore brillanti e interessanti io non ne conoscevo, perciò navigavo nella nebbia. Cosa voleva dire, che una signora avesse successo in società? Forse che aveva molti ammiratori? Ma Ippolita a quella mia domanda era diventata un galletto. - Macché male! Non dire stupidaggini! Se dici una parola contro la mia mamma, io... - Avevo quasi paura che mi beccasse gli occhi. - Allora vuol dire che non capisci proprio niente! - Poi per fortuna incominciò a spiegarsi. - Non è affatto questo, è che... Insomma, l'hai ben visto, no, come sono gli zii. Due gran noiosi. E apposta ti dicevo, come vuoi che potessero andar d'accordo con una donna come lei? Infatti sono sempre stati suoi nemici. Non c'è da meravigliarsi allora che non li potesse soffrire. Certo era per questo che teneva nascosto il ritratto di sua madre: non poteva farle piacere che lo guardassero, coi loro occhi di nemici. Cominciavo a capirci

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Ogni tanto di sotto in su guardavo la sua faccia, che era di quelle sul tondo e sul bianco-e-rosso, abbastanza da bonaccione. Mi era venuto in mente che nei romanzi i servitori dei castelli conoscono tutti i segreti, tutti gli intrecci piú tremendi, e niente, muti come pesci. Be', ora sapevo che un segreto c'era davvero, in questo castello qui. Quello per tenere divise Ippolita e la sua mamma. Magari era un complice anche lui! Un carceriere in piú per la principessina! Palpitante, d'accordo. Però mi scocciava dover pensare male di tutti. Dopo mangiato bisognò ancora andare in salone mentre i grandi prendevano il caffè, Il conte cianciava di questo e di quello, in tono falso-giulivo. (Falso, perché si sentiva che giulivo in realtà non lo era per niente.) E la contessa continuava a allungare il collo e sbirciare verso le finestre per vedere se spioveva. A un certo punto era spiovuto davvero, almeno un po'; e toc, lei si intestò che uscissimo a fare quattro passi lungo lo stradone. Cioè, che uscisse Ippolita con lei, perché me invece mi avrebbe lasciata a casa ben volentieri. Me lo propose, chiaro e tondo, con la scusa che forse avevo da scrivere ai miei. Ci restai male, perché mai prima di allora mi aveva fatto capire che la mia compagnia non le comodava. Ma cosa avevano oggi tutti quanti, da comportarsi in modo cosí strano? Ippolita però disse a muso duro che se non venivo io non usciva neanche lei, e cosí siamo andate in tre. La zia sul principio l'aveva presa sottobraccio e andava avanti svelta con quelle sue gambe lunghe, chiaro che cercava di seminarmi per parlarle a tu per tu, cosa diamine avrà avuto da dirle? Ma lei si liberò e aspettò che le raggiungessi. Cosí abbiamo proseguito nella solita formazione di tutte le passeggiate, noi due insieme e la zia per conto suo, piú avanti o piú indietro non aveva importanza. Fu una passeggiata barbosa. Non potevamo parlare di quel che piú importava, caso mai ci sentisse, cosí non dicevamo niente. Si sentiva solo lo sguisc sguisc dei nostri stivali di gomma (la contessa aveva le galosce). Alla curva da dove si cominciava a vedere il paese, disse che adesso potevamo anche tornare indietro. Forse si era stufata di camminare nel bagnato con due tipe col muso lungo, in stivali di gomma che facevano sguisc. A me però mi venne in mente una cosa un po' strana, cioè che al paese in fondo non ci si arrivava quasi mai. Appena qualche volta per far compere, e la domenica per la messa, si sa. Ma Ippolita non frequentava nessuno, in paese: questo volevo dire. Erano gli zii, chiaro, che la tenevano isolata, perché cosí potevano fare e disfare, nasconderle le lettere, anche chiuderla a chiave per delle settimane, se volevano! e nessuno ci avrebbe fatto caso, nessuno si sarebbe sognato di mettere il becco! Ma c'ero io. Ippolita non era del tutto abbandonata. Io potevo e dovevo fare qualcosa per impedire questa marcia ingiustizia che le facevano: alla faccia degli zii conti e del loro contorno di complici e carcerieri! Era un pensiero molto coraggioso, cosí coraggioso che mi mise paura. Quando mi trovai di nuovo sola con la mia amica mi era quasi passata la voglia di dirglielo. Tanto parlò lei, subito: - Te lo ricordi cosa dicevamo, prima che suonasse il gong? - Ma sí. Parlavamo della busta crema. Insomma della lettera che tua madre ha scritto a tua zia. E a proposito, perché lo avrà fatto? Se dici che ce l'ha antipatica... - Le avrà domandato dove sono finite le sue lettere, no? Da quel che le scrivo io deve averlo capito per forza che non mi sono arrivate. - Scrollò forte la testa, come se le avessi fatto perdere il filo. - Cosa c'entra questo, adesso! Sta' a sentire: quando ha suonato il gong io dicevo che se avessi saputo che la mamma era abbastanza vicina - a Parigi, mica piú in America - sarei andata

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Tirando il paletto aveva una paura matta che facesse rumore, invece andò abbastanza liscia. La chiave, che era grossa, si impuntò un momento e lei credeva di non farcela a girarla, poi girò di botto, gracchiando un po', ma non tanto forte. All'aperto era molto piú chiaro, però i colori non si riconoscevano ancora. Avevano messo fuori delle bottiglie vuote per lo straccivendolo, e lei le vide nere, mentre sapeva che erano di vetro verde. Poi vide un'altra cosa, che le fece spavento: una finestra con la luce accesa, in alto, dove stavano le camere della servitú. Remigio, orrore! era già sveglio. Forse l'aveva sentita e stava appunto scendendo per controllare? Le prese una fretta terribile, e sfido io. Tremava dalla agitazione e intanto nuotava nel sudore al fresco della mattina, mentre tirava la bici a forza di braccia su per la rampa di scalini che portava al viale del parco. (C'era un dislivello, perché il castello da questa parte sul dietro era parecchio piú affondato, ecco perché avevano fatto gli scalini.) Anche se Remigio, mettiamo, si stava semplicemente facendo la barba, lei era fritta lo stesso, solo che gli venisse in mente di dare un'occhiata fuori della finestra. Il primo respiro che le riuscí di tirare proprio fino in fondo, diceva poi, fu quando era già sullo stradone e filava pedalando tra le ultime pozze d'acqua rimaste dalla pioggia dei giorni scorsi. La parte bella dell'avventura cominciò qui. Mica che fosse tutto rose e fiori, si sa. Le toccò fermarsi due volte, una per legare meglio la valigetta, che stava scivolando, l'altra per slegarla di nuovo, aprirla e tirare fuori il cioccolato. Era ancora digiuna e appena passata la paura d'essere scoperta le era uscita fuori una fame da svenire. Poi c'erano le salite; lei non era tanto allenata e per superarle doveva soffiare. Eppure era un bell'andare, sullo stradone ormai asciutto, col frescolino e il cielo sempre più chiaro. Ippolita quando me lo raccontava cercava sempre di spiegarmi l'effetto speciale che le aveva fatto vedere alle finestre delle case o per la strada la gente che cominciava a svegliarsi e riprendeva le sue faccende solite. Io prima credevo di aver capito che fosse un effetto di beata superiorità. Come se pensasse: poveretti voi che continuate a fare la stessa medesima solita vita di tutti i giorni, mentre io fuggo nientedimeno che a Parigi! quanta compassione mi fate! Invece mi spiegò che no. Anzi, la cosa più speciale era di scoprire che se era meraviglioso andare a Parigi, in qualche modo anche la solita, solitissima, normalissima vita degli altri era meravigliosa. Una donna che apriva le persiane, uno specchio visto di passaggio in fondo a una camera già aperta, le sembravano cose straordinarie; e voleva bene a tutto e tutti, alla donna, allo specchio a un cagnetto che le abbaiò da un cancello a un bambino che le fece ciao ciao con la mano. Insomma, tutto era meraviglioso, ecco quale era la meraviglia. Tenendo conto delle fermate e del rallentamento alle salite doveva essere andata piuttosto forte, perché arrivò a X per tempo, Non c'era molto traffico, era una città abbastanza piccola. Per prima cosa comprò un filoncino in una panetteria. Le era di nuovo venuta fame e non voleva consumare subito tutto il suo cioccolato. Mangiò il pane da solo, seduta sui gradini di una fontana, cosí aveva anche da bere gratis. Le pareva di essere una mendicante, mi disse poi, ed era felicissima. Dopo andò filata in stazione, che era lí vicina. Lasciò la bici sul piazzale, tanto non le sarebbe servita mai piú. (Sua madre gliene poteva sempre comprare un'altra, se mai le fosse venuta voglia di una volata per quei viali parigini con tanti alberi che si vedono nelle cartoline.) Aveva il suo valigino in mano e una borsetta bianca a tracolla, scelta apposta perché non la impacciasse sulla bicicletta. Le scarpe da tennis, bianche e blu, molto impolverate e anche un po' schizzate del fango delle

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