Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassi

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Io non ho paura

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Ammanniti, Niccolò 1 occorrenze

Ti abbassi le mutande e ce la fai vedere -. Si è messo a sghignazzare aspettandosi che anche noi avremmo fatto lo stesso, ma non è stato cosi. Siamo rimasti gelati, come se un vento del Polo Nord si fosse improvvisamente infilato nella valle. Era una penitenza esagerata. Nessuno di noi aveva voglia di vedere la fessa di Barbara. Era una penitenza pure per noi. Lo stomaco mi si è stretto. Desideravo essere lontano. C'era qualcosa di sporco, di ... Non lo so. Di brutto, ecco. E mi dava fastidio che ci fosse mia sorella lì. - Te lo puoi scordare, - ha fatto Barbara scuotendo la testa. - Non m'importa se mi picchi. Il Teschio si è messo in piedi e le si è avvicinato con le mani in tasca. Tra i denti stringeva una spiga di grano. Le si è parato davanti. Ha allungato il collo. Non è che poi era tanto più alto di Barbara. E nemmeno tanto più forte. Non ci avrei messo una mano sul fuoco che se il Teschio e Barbara facevano a botte, il Teschio aveva la meglio tanto facilmente. Se Barbara lo buttava a terra e gli saltava sopra lo poteva pure soffocare. - Hai perso. Ora ti abbassi i pantaloni. Così impari a fare la stronza. - No! Il Teschio le ha dato uno schiaffo. Barbara ha spalancato la bocca come una trota e si è massaggiata la guancia. Ancora non piangeva. Si è girata verso di noi. - Non dite niente voi? - ha piagnucolato. - Siete come lui! Noi zitti. - Va bene. Ma non mi vedrete mai più. Lo giuro sulla testa di mia madre. - Che fai, piangi? - Il Teschio se la godeva da matti. - No, non piango, - è riuscita a dire trattenendo i singhiozzi. Aveva dei pantaloni di cotone verdi con le toppe marroni sulle ginocchia, di quelli che si compravano al mercato dell'usato. Le andavano stretti e la ciccia le ricadeva sopra la cinta. Si è aperta la fibbia e ha cominciato a slacciarsi i bottoni. Ho intravisto le mutande bianche con dei fiorellini gialli. - Aspetta! Io sono arrivato ultimo, - ho sentito che diceva la mia voce. Tutti si sono girati.

Racconti 1

662657
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Volete che abbassi ancora questo po' di orgoglio di donna che mi rimane? Volete forse che io venga a buttarmi ai vostri piedi? Se le mie forze me lo permettessero, lo farei volontieri. Come siete inesorabile! Come siete superbo! Soffrite al pari di me di cotesta vostra durezza, e intanto non vi lasciate commuovere dalle mie lagrime, dalle mie preghiere. Che debbo fare per toccarvi il cuore? Non vi basta che io muoia lentamente per voi? Oh Alberto, voglia il cielo che queste mie parole non vi s'abbiano un giorno a mutare in un rimorso! Che colpa ho io se non mi ero accorta di amarvi? Se la mia frivola educazione m'impediva di intendere la profonda e nobile serietà del vostro amore? Siete voi impeccabile? Non vi amo oggi, senza speranza, cento volte di piú di quel che avrei potuto allora? Ma io vi prego soltanto del vostro perdono. So benissimo che un affetto spento non rinasce piú. Però se il profumo scappato dalla boccetta che lo conteneva non può piú venir raccolto per richiudervelo di bel nuovo, la boccetta ne ritiene ancora lungo tempo un leggiero vestigio. Ah! Non c'è che il cuore umano per rimanere indifferente, anzi peggio, ostile a un sentimento che prima poteva dirsi il suo profumo! ... Non mi sento per ora cosí male da poter fare di meno del vostro perdono. Spero intanto che non sia molto lontano il momento in cui non dovrò pensare ad altro che a mandarvi il mio. Alberto! Vi confesso che non dispero d'intenerirvi. La vostra superbia sarebbe forse cosí grande da non permettervi nemmeno di fingere verso di me una pietà che non sentite e non potete sentire? Vi attendo sempre. Sono sdraiata sulla poltrona dietro i cristalli della finestra che guarda l'entrata. La magnolia del cortile comincia a fiorire: le sue belle foglie di un verde chiuso luccicano al sole come tante laminette di bronzo brunito. I passeri saltellano sui suoi rami, facendo un arguto chiacchiericcio che mi diverte anche nella prostrazione di spirito in cui mi trovo. Tutto sorride nella natura. Fate che anch'io muoia sorridendo. Venite! Venite!" Ebbi una stretta al cuore: ma il mio amor proprio reagí subito contro quell'assalto di tenerezza. La lettera mi parve di un'abilità diabolica. Sotto quell'apparente dolcezza, sotto quel lamento rassegnato, sotto quel calore di un affetto e di una passione senza limiti, intravvedevo un sorriso di canzonatura, un sentimento di trionfo che scoppiava fra riga e riga, per quanto già fosse industriosamente celato. Ammalata seriamente, gravemente! Non ne credevo una sillaba! La sua vanità di donna aveva ricevuto un gran colpo. L'uomo bello, mondano, superficiale da lei preferitomi senza pensarci su un momento, l'aveva dopo pochi mesi abbandonata colla stessa facilità con cui era venuto a buttarglisi ai piedi; cercava forse tutt'altro di quel che l'Ebe avrebbe voluto concedergli. Io, che per lei rappresentavo una vittoria creduta quasi impossibile, le avevo sdegnosamente voltate le spalle senza piú rivederla. Ed ecco: ella cercava ora rifarsi su di me dello scacco subito. Forse, compreso ora qual'indegnità avesse commessa ridendosi dell'amore piú serio e piú sincero da lei ispirato ad un uomo, tentava in quel naufragio del suo cuore afferrarsi stretta a me come ad una tavola di salvezza. L'idea che il disinganno avesse realmente destato e fatto fiorire in lei i germi di un amore per davvero, non mi passava pel capo. Ella mi pareva troppo assuefatta a certi sentimenti e a certe emozioni da poterli risentire schiettamente e profondamente; l'artifizio, l'abitudine avevano dovuto attutire o smorzare le vive forze del suo cuore; e la nuda e volgare realtà cacciar via da esso ogni gentile illusione, ogni aspirazione elevata. L'amore, cioè quel vacuo esercizio delle fibre, quel fatuo scintillare d ello spirito che suol chiamarsi con tal nome, era diventato per lei una delle forti necessità della vita; la sua anima femminile non poteva astenersi di questo spirituale nutrimento. La sazietà intanto la rendeva schifiltosa; le dava dei gusti stranissimi, ch'ella non era sempre in caso di appagare. Sí, ammalata poteva essere, ma soltanto di nausea e di ideali mancati. Io, un po' strano, un po' rozzo, ma sincero, ma tutto di un pezzo; io, vero credente dell'amore in mezzo a tanti atei di questo dio, avevo p er lei l'attrattiva del frutto vietato, del sapore sconosciuto: nient'altro! ... La mia alterigia di uomo rifiutava sdegnosa i sommessi suggerimenti di un'intima voce del cuore. Perché non credere? Diceva questa voce. Il disinganno può averle aperti gli occhi; e un amore prodotto da tale stato dello spirito diventare il piú violento, il piú schietto, il piú duraturo del mondo; quasi un primo amore anche per una donna che, come l'Ebe, abbia amato fin troppo. Ma non mi lasciavo rimovere, per quanto mi sentissi straziato. Cedere, fosse pure ad un sentimento di naturale curiosità, mi faceva ribrezzo. Il mio odio era certamente uno dei mille aspetti dell'amore (per dire che non amiamo piú bisogna sentirci indifferenti) ma cosí, da odio, lo tolleravo; senza maschera invece non lo avrei tollerato un momento: avrei preferito spezzarmi il cuore, non potendolo vincere altrimenti. Ero troppo superbo: ella indovinava. Posai la lettera sul marmo del caminetto e non andai, né risposi. Quel procedere villano era un gran sforzo che facevo mio malgrado. Mi ritenevo impegnato per mille ragioni a non cedere; e, temendo di esser preso da qualche improvvisa debolezza, esageravo il rigore, passavo ogni limite. Accade sempre a questo modo, nella vita, nell'arte, in ogni cosa: la giusta misura riesce impossibile e all'uomo e alla natura: è l'ideale che non arriva ad attuarsi. Continuai le mie visite alla vicina con crescente frequenza. Viveva sola. Il suo amante viaggiava qua e là per affari, e non le scriveva mai. La signora Augusta, ignorando sempre per quali provincie la ferrovia scarrozzasse il suo "protettore" (lo chiamava cosí), non aveva nemmeno lo svago di riempire ogni giorno un fogliolino di carta da spedire alla posta. Attendeva, facilmente rassegnata per effetto, in massima parte, della sua costituzione e del suo carattere. Era un organismo tranquillo, un carattere armonico: sentiva la vita come una luce ugualmente rosea e moderata; mai troppi bagliori, mai troppe ombre. Era però nel medesimo tempo un organismo delicato, facile a percepire le mille sfumature di un sentimento, e inclinatissima a questo quasi sensuale godimento delle sfumature in ogni cosa. Insomma una vera donna di spirito, caduta nella condizione ove ora si trovava per una lunga serie di vicende che spesso rimanevano inesplicabili anche per lei stessa. Forse per questo ella chiamava "protettore" il suo amante, sfumatura di linguaggio tutta sua e non superficiale di certo. Quella tranquillità di organismo, quell'armonia di carattere corrispondevano a qualcosa del mio spirito un po' pagano, a qualcosa che dominava talvolta tutte le facoltà della mia mente e del mio cuore e mi faceva vivere piú di sensazioni che di sentimenti, proprio come una felice creatura della Grecia antica. Però in quei giorni ero poco o punto disposto ad apprezzarne il valore. Ero anzi disposto a giudicarle assai male; scambiavo infatti la tranquillità per freddezza, l'armonia per fiacchezza o per comple ta assenza di contrasti. Ma cominciai a disingannarmi la prima volta che le udii sonare da vicino il pianoforte. Quella ondata di melodie e di armonie pareva facesse montare a galla la sua anima gentile da una profondità sconosciuta. Le dita vibravano con forza, spesso con violenza sulla tastiera, e lo strumento non rispondeva come un semplice meccanismo dalle sue viscere cave, ma come una parte dell'organismo di lei la quale ne rivelasse le intime voci del petto. Però in tutto quest'intimo c'era un che di carnale e di sensuale che ricercava le fibre con dolcezza squisita. Dopo quelle armonie ci voleva assolutamente un grand'accordo di baci. Dopo quelle vibrazioni sonore che agitavano il sangue e riscaldavano la pelle come se avessero sferzato il corpo con invisibili verghettine, si richiedeva assolutamente la fiera stretta di un abbraccio, o il pezzo di musica sarebbe parso senza significato, senza chiusa, insomma, incompleto. Non occorse dircelo: ci fu il tacito accordo di tutti e due. Ma i baci non venivan mai prima che la musica gli eccitasse. Quando la conversazione, cominciata freddina, continuava a sbalzi, noiosa, sconclusionata, ella levavasi tosto dalla poltrona, andava a sedersi al pianoforte ..., e i sensi, riconosciuto subito il loro inno reale, si destavano inebbriati per proseguirlo alla loro maniera, senza bisogno di musica. Il "protettore" ritornò. Per tre settimane potemmo vederci di rado, dal terrazzino, e scambiare ora un saluto, ora un centinaio di parole. Abbassavamo le tende per evitare di esser veduti da una zitellona di rimpetto che bracava dalla mattina alla sera tutti i fatti del vicinato; e il dialogo si riduceva quasi invariabilmente a questo qui: - Sei vedova? - No; ma partirà fra qualche settimana. - Starà fuori a lungo? - Chi lo sa? Non dice mai nulla. Parte e arriva improvvisamente nei giorni e nelle ore che meno l'aspetto. - Che rabbia! - E l'Augusta sorrideva di quel suo tranquillo sorriso, che mi piaceva ogni giorno piú che mai. - Aspetta lí - diceva talvolta. E rientrava per mettersi al pianoforte. Spesso però il pianoforte taceva a un tratto, ed ella non ricompariva piú. Il protettore era venuto a casa. Il nostro dolce colloquio restava interrotto sul meglio. Ma "lui" ripartiva; faceva delle assenze di quindici, di venti giorni, e noi tornavamo alle nostre intime relazioni con un'assiduità meravigliosa, come se ciò fosse stato la cosa piú regolare del mondo. Ci preoccupavamo di "lui" soltanto per sapere quando partiva e indovinare possibilmente quando sarebbe ritornato. Ci amavamo? Nessuno dei due aveva osato fare all'altro questa interrogazione. Amarci? Di che amore? Domande complicate che esigevano risposte ancora piú complicate. Lasciavamo correre: valeva lo stesso. Io avevo intanto trovato in lei qualcosa che addolciva le amarezze del mio cuore, e spesso anche le addormentava. Ma vi eran dei giorni però nei quali preferivo rigustare quelle amarezze, e glielo davo a vedere. - Sei stanco di me? - mi chiese un giorno con un accento di affettuoso rimprovero. - Perché dovrei esser stanco? - feci io, evitando cosí di rispondere. - Perché è naturale - riprese l'Augusta; - non c'è nulla di eterno al mondo, e l'amore meno di tutto. - Credi tu - le domandai all'improvviso come conseguenza delle idee che mi si affollavano in testa, - credi tu che una donna possa morire di amore? - Mio Dio! - esclamò con un'intonazione di voce che mi suona ancora nell'orecchio; - ma le donne non muoiono di altro -. Questa risposta cosí semplice mi turbò profondamente. - Senti - ella disse dopo un pezzo: - è vero che tu sei stato l'amante di una gran dama? - Chi ti ha sballato questa sciocchezza? - Prima rispondi: ti dirò poi. - Ho già risposto, se t'ho detto: sciocchezza. - Eppure io so di certo che tu hai avuto una amante e che ora siete in rottura; quel biglietto di tre mesi fa dovette inviartelo lei. - Quella? Un'amante? Oh! Niente affatto, mia cara! - Eh, via! Ti vuoi nascondere da me: ma io, tu lo sai, non sono punto gelosa. Dunque, la poverina ti vuol bene a tal segno che si è rovinata la salute per te. Dopo il tuo abbandono fece delle pazzie; corse, balli, viaggi, ogni possibile stravaganza pur di buscarsi un malanno che la facesse morire ... e c'è finalmente riuscita. - Chi ti ha detto questo? - chiesi meravigliato di sentire sulla sua bocca quello strano miscuglio di falso e di vero. Tacque un pezzetto e stette a capo chino, colla fronte corrugata, coll'indice della mano sinistra appoggiato sulle labbra, come se cercasse di ricordare. - Mi perdonerai? - fece poco dopo, sedendomisi sulle ginocchia e passandomi le braccia intorno al collo. Questo sfoggio di tenerezza accrebbe straordinariamente la mia curiosità. - Parla - dissi impaziente. - Mi perdonerai? - tornò a domandare l'Augusta. - Cento volte, non una, ma parla, ti prego! - Ecco qui. Tre giorni fa la cameriera di quella gran dama venne a cercarti. Tu non eri in casa, e nemmeno il tuo servitore. La Lucia, sentendo replicatamente suonare il tuo campanello, affacciossi all'uscio, e riconobbe in quella cameriera una sua amica d'infanzia. Si misero a chiacchierare sul pianerottolo. L'altra aspettava con una smania incredibile; ogni minuto le pareva l'eternità: infatti, dopo un'ora, vedendo che tu non rientravi in casa, si decise a lasciar l'imbasciata alla Lucia, caldamente racco mandando di fartela appena arrivato. Fu lei che confidò alla Lucia tutta la storia della sua padrona: la Lucia, che forse fece lo stesso dei fatti miei, venne subito a riferirmi fedelmente ogni cosa: mi fece vedere anche ... la lettera. - C'era una lettera? - dissi, mostrando un'indifferenza che in quel momento non provavo. - Oh sí ... una lettera ... E per via di essa che ho bisogno del tuo perdono! - L'hai già letta? - No, no! ... Ma n'ebbi una forte tentazione ... e quindi ... Eccola! ... - disse alzandosi a un tratto dalle mie ginocchia. E aperto un cofanetto di porcellana di Sèvres a fermagli di rame dorato, la cavò fuori ancora chiusa e me la porse colla punta delle dita, mormorando: - Perdona! Qual parola occorrerebbe per esprimere la vile infamia che allora mi balenò nella mente e che misi subito in atto? Quelle rivelazioni della cameriera, misto di verità e d'invenzioni, avevano irritato il mio amor proprio come uno scherno crudele; né la lettera dell'Ebe poteva avere per me un significato diverso. Amante io, io che ero stato tolto di mira quasi per vincere una scommessa! Io che ero stato ammaliato da tutte le divine seduzioni, da tutti i terribili artifizi del corpo e dello spirito e poi lasciato lí, con una risata, appena avevo mostrato di prender sul serio e lo spirito e il cuore e fin le stranezze di qu ella donna! Amante io che ora mi credevo perseguitato con una commedia di amor postumo piú spietatamente insultante dello stesso scherno con cui aveva ella accolto una sera la provocata mia dichiarazione di amore! - Leggi - dissi all'Augusta. E siccome l'Augusta esitava, supponendo che io intendessi di dare una soddisfazione alla sua gelosia, - Leggi - fammi il piacere, le dissi; - non lo faccio per te -. Appoggiai i gomiti sul piccolo tavolo lí accanto, misi la testa tra le mani e stetti cogli occhi chiusi ad ascoltare. La lettera diceva cosí: "Non meritereste che vi scrivessi. Il mio braccio, la mia testa si rifiutano ad un lavoro imposto ad essi dal cuore; ma io voglio scrivervi per l'ultima volta, prima di chiudere (se pur sarà possibile) le porte del mio spirito ad ogni affezione terrena e aprirle alle consolazioni di Dio, le sole che mi rimangano in questo punto. Ho guardato la faccia del dottore mentre toccava il mio polso. Si è rannuvolata ad un tratto. Però non avevo bisogno di questo indizio per credere che mi avvicino precipitosamente verso la morte. Mi sento morire con un'ineffabile soddisfazione che vi è impossibile imaginare. Anch'io, prima di ora, non avrei mai supposto che la morte potesse essere qualcosa di immensamente soave. Vi mando il mio perdono. Non mi preme piú di avere il vostro: me lo son meritato, e provo una consolazione come se avessi sentito ripetere questa parola dalla vostra stessa bocca. Vi ho avvelenato la giovinezza, il presente e forse l'avvenire! ... Vi ho fatto soffrire senza volerlo, ma non per cattiveria come vi siete ostinato a credere ... ed ora muoio di amore per voi! Perché vi scrivo tutto questo? Non lo sapete da gran tempo? Ah! Ve lo scrivo onde avvisarvi che avete ancora qualche giorno per risparmiarvi un rimorso. Io vi ho amato disperatamente quando voi non mi amavate piú; voi, badate! Mi amerete piú di prima appena saprete che sarò morta! Ho messo quattro ore a scrivere questa lettera, e mando la mia cameriera per consegnarvela di sua mano. Muoio sola, con una fida amica al capezzale. Mi lascerete morir cosí? Vi perdonerò anche questo. Addio per sempre! P. S. Ho pregato la mia amica di tagliarmi appena morta tutti i capelli. Se un giorno li vorreste come ricordo di colei che vi ha amato fino a morirne, chiedeteli alla Giorgina Nozzoli che voi conoscete. Addio un'altra volta e per sempre!" Sul principio al sentir pronunciare lentamente, nel modo che leggeva l'Augusta, quelle tristi parole, io avevo provato la voluttà di una quasi violazione brutale compita dalla voce di essa sullo spirito dell'Ebe. Era appunto questo il vigliacco e raffinato piacere che avevo voluto procurarmi; era questo lo strano avvilimento voluto infliggere all'Ebe facendomi ripetere dalla bocca di una donna come l'Augusta le parole dirette a commovere il mio cuore e scombuiare il mio spirito. Ma tale soddisfazione durò p oco: l'effetto fu tutto il contrario di quanto avevo imaginato. La voce dell'Augusta prese di mano in mano delle inflessioni che violentemente mi scossero il cuore. Da quella gola femminile che l'emozione rendeva tremante, ogni parola, ogni frase, ogni periodo della lettera riceveva un'espressione direi quasi un nuovo significato che addirittura ne centuplicava l'efficacia. Sentivo ad una ad una cadermi sul cuore, come del piombo liquefatto, le grosse gocce di lagrime dovute scendere silenziose sul pallido viso della morente, mentre la scarna sua mano erasi stentatament e trascinata sul foglio; e quando l'Augusta faceva una piccola pausa, e quando la sua voce si turbava in guisa che le parole gli uscivano molto confuse di bocca, mi pareva di udire l'affanno della infelice che la mia superbia condannava a morire senza una parola di perdono insistentemente invocata; e mi sentivo annodare la gola e strozzare il respiro. A metà della lettera aveva fatto un gesto quasi per strapparla di mano dell'Augusta e impedire la sacrilega offesa che intendeva di essere la mia vendetta; ma mi trattenne l'idea d'infliggermi come un affronto il sentirmela leggere sino in fondo dalla stessa bocca scelta per quella profanazione veramente indegna di un uomo. Non piangevo, ma tremavo, ma mi sentivo schiacciare da una terribile mano. Provavo sulle guance dei colpi di staffile che dovevan lasciarvi le lividure. Ogni stilla del diaccio sudore ch e mi scendeva dalla fronte mi pareva uno sputo di disprezzo lanciatomi in viso da tutte le creature gentili. Terminata la lettura successe nella stanza un silenzio profondo. Ero sotto l'oppressione di un incubo e non potevo destarmi. - Se tu fossi in tempo! - disse l'Augusta con voce commossa e colle lagrime agli occhi. Ci voleva quest'affettuosa esclamazione di una donna per farmi rientrare in me stesso. - Se fossi in tempo! - ripetei torcendomi dolorosamente le mani. Il fiàcchere mi pareva non volasse a precipizio come il cuore febbrile avrebbe voluto. Si trattava di dover correre da un capo all'altro della città e per le vie piú frequentate. Il cocchiere dovette credermi ammattito sentendomi sempre urlare dietro le sue spalle: - Ma corri! Ma sferza! - Montai gli scalini a quattro a quattro. La cameriera che già piangeva diede, appena mi vide, in un nuovo e piú forte scoppio di pianto. Ahimè! Giungevo troppo tardi? Un vecchio prete uscito in fretta dalla stanza dove era corsa la cameriera, mi venne incontro, mi porse la mano, e con accento semplice e calmo, ma che imprimeva intanto qualcosa di solenne al suo aspetto quasi volgare: - Signore! - mi disse - quali che possano essere le sue idee religiose, la prego di non turbare alla morente questi ultimi istanti. Iddio le ha concesso una tranquillità ch'ella stessa non sperava. Dimenticata la terra, tutti i suoi pensieri sono ora rivolti al cielo che si apre misericordioso alla sua anima afflitta. Non ci appartiene piú, o signore! Questi momenti sono di Dio! - Lo guardai ebetito. Una sentenza dell'Hegel mi si presentava in quel punto limpidissima alla memoria, e me la ripetevo macchinalmente: "La necessità della morte è quella del passaggio dell'individuo nell'universale". Rammentavo un'altra sentenza del Goethe: "La nostra vita non è una vera vita, ma la morte della vita divina che viene ad estinguersi nella nostra". E mi meravigliavo di poter fermarmi col pensiero su tali ed altre simili idee che mi passavano per la mente scombuiata pari a nuvoloni di un temporale spinti per l'aria dalla furia del vento. Come non provavo un dolore immenso? Come non morivo di dolore? Una strana lucidità mi faceva riflettere: - Forse sto per ammattire! - E tentavo di assistere al lento confondersi della mia ragione entro le tenebre della pazzia. Tutt'ad un tratto l'uscio da cui era uscito il prete spalancossi con violenza, e la cameriera venne fuori urlando e battendosi il petto. Mi avanzai fino alla soglia, tenuto sempre per mano dal prete il quale mi diceva delle parole che piú non riuscivo ad intendere ... Una suora di carità asciugava sulla bianca fronte dell'Ebe l'ultimo sudore della morte! Miseria del cuore umano! Son passati appena quattro anni! Mi pareva che senza di lei la mia esistenza non avrebbe piú avuto nessuna ragione di durare! ... E già ne parlo tranquillamente, e già sorrido pensando che obbliare è una profonda, una divina necessità della vita.

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

«Ebbene, perché li abbassi? Ridi? Ah, diavoletto ... » Anania rideva di gioia nel vedersi osservato dal padrino, e guardato con affetto dalla signora Carboni. «Che cosa diventerai, diavoletto?» Egli abbassava e sollevava gli occhi lucenti (che le cure di zia Tatàna avevano guarito perfettamente), e cercava di nascondersi dietro del padre. «Dunque, rispondi al padrino!», esclamò il mugnaio scuotendolo. «Che cosa ti farai, diavoletto?» «Mugnaio?», chiese la signora. Egli accennò di no, di no. «Ah, non ti piace? Contadino?» No, e sempre no. «Ebbene, vuoi studiare?», chiese astutamente il mugnaio. «Sì.» «Ah, bravo!», disse il signor Carboni, «tu vuoi studiare? ti farai prete?» «Ancora no.» «Avvocato?», chiese il mugnaio. «Sì.» «Diavolo! Diavolo! Lo dicevo io che ha gli occhi vivi! Vuol farsi avvocato il piccolo topo!» «Ah, caro mio, siamo poveri», osservò sospirando il mugnaio. «Se il bimbo ha voglia di studiare la provvidenza non mancherà», disse il padrone. «Non mancherà!», ripeté come eco la padrona, queste parole decisero il destino di Anania: ed egli non le dimenticò mai più. Il frantoio venne definitivamente chiuso, - per quell'anno, - ed il mugnaio si trasformò del tutto in contadino. Una primavera ardente ingialliva già le campagne; le vespe e le api ronzavano intorno alla casetta di zia Tatàna; il grande sambuco del cortiletto coprivasi di un meraviglioso merletto di fiori giallognoli. Nel cortile d'Anania conveniva quasi sempre tutti i giorni la compagnia che già usava riunirsi nel molino: zio Pera col randello, Efes e Nanna costantemente ubriachi, il bel calzolaio Carchide, Bustianeddu ed il padre, nonché altre persone del vicinato. Inoltre Maestro Pane aveva messo su bottega in un bugigattolo in faccia al cortiletto; tutto il santo giorno era un viavai di gente che rideva, gridava, s'insultava, diceva male parole. Il piccolo Anania passava le sue giornate fra questa gente meschina e violenta, dalla quale apprendeva atti e parole sconcie, abituandosi allo spettacolo dell'ubriachezza e della miseria incosciente. A fianco della bottega di Maestro Pane, in un altro bugigattolo nero di fuliggine e di ragnatele, marciva una misera ragazzetta inferma, del cui padre, partito per lavorare in una miniera africana, non s'era saputo più nulla: l'infelice creatura, soprannominata Rebecca, viveva sola, abbandonata, piagata, su una stuoia lurida, fra nugoli d'insetti e di mosche. Più in là abitava una vedova con cinque bambini che mendicavano; lo stesso Maestro Pane chiedeva spesso l'elemosina. Con tutto ciò la gente era allegra: i cinque bimbi mendicanti ridevano sempre, Maestro Pane parlava con se stesso ad alta voce, raccontandosi storielle amene e ricordandosi fatti allegri della sua gioventù. Solo nei meriggi luminosissimi, quando il vicinato taceva e le vespe ronzavano tra i fiori del sambuco, conciliando il sonno al piccolo Anania coricato supino sul limitare della porta, vibrava nel silenzio caldo il lamento acuto di Rebecca, che saliva, si spandeva, si spezzava, ricominciava, slanciavasi in alto, sprofondavasi sotterra, e per così dire pareva trafiggesse il silenzio con un getto di freccie sibilanti. In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l'abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone; era la voce stessa delle cose, il lamento delle pietre che cadevano ad una ad una dai muri neri delle casette preistoriche, dei tetti che si sfasciavano, delle scalette esterne e dei poggiuoli di legno tarlato che minacciavano rovina, delle euforbie che crescevano nelle straducole rocciose, delle gramigne che coprivano i muri, della gente che non mangiava, delle donne che non avevano vesti, degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino, delle malattie non curate, della miseria accettata incoscientemente come la vita stessa. Ma chi ci badava? Lo stesso piccolo Anania, coricato supino sul limitare della porta, scacciava le mosche e le vespe agitando un fiore di sambuco, e pensava istintivamente: «Uh! Perché grida sempre quella lì? Cosa la fa gridare? Non ci devono essere gli ammalati nel mondo?». Egli s'era fatto tondo tondo, ingrassato dai cibi abbondanti, dal dolce far niente, e sopratutto dal sonno. Dormiva sempre. Ed anche nei meriggi silenziosi, nonostante il grido continuo di Rebecca, egli finiva con l'addormentarsi, col fior di sambuco nella manina rossa, e il naso coperto di mosche. E sognava di trovarsi ancora lassù, nella casa della vedova, nella cucina vigilata dal gabbano nero che pareva un fantasma appiccato: ma sua madre non c'era più, era fuggita, lontano, in una terra ignota. Ed un frate veniva dal convento, ed insegnava a leggere e scrivere al piccolo abbandonato, che voleva studiare per mettersi in viaggio alla ricerca di sua madre. Il frate parlava, ma Anania non riusciva a sentirlo, perché dal gabbano usciva un lamento acuto e straziante che assordava. Dio mio, che paura! Era la voce dello spirito del bandito morto. Ed oltre alla paura, Anania provava un gran fastidio al naso ed agli occhi. Erano le mosche.

Vizio di forma

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Levi, Primo 2 occorrenze

Ho visto che spesso Renato ti parla, e tu abbassi gli occhi. Forse ti umilia? o ti racconta delle fandonie? Ma saranno scherzi, sai pure, cose da ragazzi, senza importanza: non devi darci peso, facci su una risata e tutto torna come prima. Se la prendi così sul tragico, non fai che incoraggiarli a continuare. Aveva sparato alla cieca, eppure aveva centrato il bersaglio: se ne accorse immediatamente. Mario era impallidito, ed aveva sollevato lo sguardo incontro al suo, col riconforto e la stanchezza di chi desiste da una lotta. Scollò le labbra con fatica e disse: _ Non sono fandonie. È vero. Io non sono come gli altri: è un pezzo che me ne sono accorto. _ Rise timido: _ Renato ha ragione. _ Non sei come gli altri perché? In cosa ti senti diverso? Se mai, sarai diverso in meglio: non vedo perché ti dovresti affliggere di questo. Se tu fossi l' ultimo della classe .... _ Non è questo. Io sono diverso perché sono nato diverso. Nessuno ci può più fare nulla. _ Sei nato ... come? _ Sono sintetico. Rimaneva il preside, per quello che un preside può soccorrere. Quello, nella fattispecie, era un galantuomo e un amico, ma un preside, anche il migliore, ha varcato una certa soglia e capisce solo certe cose. Le consigliò di aspettare e di stare a vedere: gran bel consiglio. E intanto Mario era lì fuori, nel corridoio, e a lei pareva di sentirne il cervello ronzare perduto, come un motorino in stallo: ronzare e battere e domandarsi e rispondere a vuoto. Chiese al preside il permesso di farlo entrare: il preside acconsentì con riluttanza, Mario entrò e si sedette come davanti al plotone d' esecuzione. Il preside si sentiva simile ad un attore di quart' ordine: _ Salute, Mario. Allora? Che cos' hai da raccontarci? _ Niente, _ disse Mario. _ Niente ... è troppo poco. Sul niente non si costruisce che il niente. Mi hanno riferito, vedi, di certe tue idee ... di certe strane storie che ti devono avere raccontato ... e mi stupisce, veramente mi stupisce che un ragazzo come te, un logico, un ragionatore, abbia potuto prestarvi orecchio. Che cosa mi sai dire, tu, su questo argomento? _ Niente, _ disse Mario. _ Vedi, figliolo, io penso che tu (non solo tu, certo) ti sia riempita la testa. Che tu soffra per sovraccarico, insomma, come ... una linea del telefono. Hai assorbito troppo dall' ambiente che ti circonda: dai libri, dai giornali, dalla televisione, dal cinema ... e anche dalla scuola, sicuro. Sei d' accordo con me? Mario taceva e guardava nel vuoto, come se neppure cercasse le parole di una risposta. Il preside continuò: _ Ma se non parli ... se non mi aiuti ad aiutarti ... non verremo a capo di nulla: ti avrò fatta un' altra lezione _ rise nervoso _ oltre a tutte le altre che già ti devi sorbire .... Diverso: così ti senti diverso. Ma siamo tutti diversi, perbacco, e guai se non lo fossimo: c' è chi è nato per diventare uno scienziato, come te, vero? e chi invece sarà un buon commerciante, e chi è meglio si limiti a ... a qualche lavoro più modesto. Ognuno di noi può e deve fare qualcosa per migliorarsi, per coltivarsi, ma il terreno, la sostanza umana, è diversa per ognuno: sarà ingiusto ma è così, l' abbiamo ereditata dai nostri genitori e progenitori all' atto della nascita, e .... Mario interruppe con voce contenuta: _ Va bene. È vero. Io però adesso dovrei andare. Nel cortile, due squadre improvvisate giocavano a pallacanestro, con scarsa correttezza e molte grida e richiami; un altro gruppo, quasi fra i loro piedi, si arrangiava a condurre avanti una gara di salto in lungo, benché la fossa di sabbia fosse quasi vuota. In un angolo, Mario stava parlando, di fronte ad un manipolo di ascoltatori occasionali, non della sua classe, e più sbalorditi che attenti. Mario diceva: _ ... adesso siamo pochi, ma poi saremo molti e comanderemo noi, e allora non ci saranno più guerre. Sì, perché non combatteremo fra noi come capita adesso, e nessuno potrà assalirci perché saremo i più forti. E non ci saranno differenze: noi non faremo più differenze, bianchi, negri, cinesi, saranno tutti uguali, anche i Pellerossa, quelli che restano. Distruggeremo tutte le bombe atomiche e i missili, tanto non serviranno più a niente, e con l' uranio che ne ricaveremo ci sarà energia gratis per tutti, in tutto il mondo: e anche da mangiare, gratis per tutti, anche in India, così nessuno morrà più di fame. Faremo nascere meno bambini, in modo che ci sia posto per tutti: e tutti quelli che nasceranno nasceranno come noi. _ Nasceranno come? _ chiese una voce timida. _ Come me. O anche per telefono, o per radio: un uomo telefona a una donna, e poi nasce un bambino, ma non così a caso come succede adesso, nasce pianificato .... Beh? avete poco da guardarmi così: io sono uno dei primi, e forse per me i conti non li hanno fatti tanto bene; ma adesso stanno provando un sistema nuovo, e i bambini li calcolano come si fa coi ponti, cellula per cellula, e si possono fare su misura, alti e forti e intelligenti quanto uno vuole, e anche buoni, coraggiosi e giusti. Si possono anche fare che respirino sott' acqua come i pesci, oppure capaci di volare. Così nel mondo ci sarà ordine e giustizia e tutti saranno felici. Ma non credete: non sono mica solo. Senza andare tanto lontano di qui ... la Scotti Masera. Prima lo sospettavo soltanto, ma adesso ne sono sicuro. Mi sembrava, così dalla pronuncia e dal modo di muoversi, e poi anche perché non si arrabbia mai e non alza la voce. Non arrabbiarsi è importante, vuol dire che si è raggiunto il controllo, o lo si sta raggiungendo. Quando il controllo è completo uno può anche stare senza respirare, non sentire il dolore, può ordinare al suo cuore di fermarsi ... bene, mi sono accorto che è una dei nostri l' altro giorno, quando mi ha chiamato da parte. _ Così vecchia? _ chiese Giorgio, facendosi largo fra l' uditorio che si era molto ingrossato. _ Non è poi tanto vecchia: e cosa c' entra, vecchio o non vecchio? _ C' entra sì, _ spiegò Giorgio con pazienza: _ non hai detto che è solo poco tempo che si sanno fare queste cose? Mario lo guardò come se si fosse appena svegliato, ma si riprese subito: _ Non so, forse è meno vecchia di quanto sembra: ma può anche darsi che sia nata così. _ Come! Nata vecchia ... voglio dire, anziana? _ Ho detto "nata" così per dire, voi mi capite: è stata costruita così, perché abbiamo fretta, non si può più aspettare. Non c' è più tempo da perdere: nel 2000 saremo dieci miliardi, capite, dieci: e se non si provvede finirà che ci mangeremo gli uni con gli altri. Ma anche se non si arrivasse a questo punto, ci saranno l' acqua e l' aria contaminate, in tutto il mondo: l' aria sarà diventata smog, anche in cima all' Everest, e l' acqua sarà preziosa perché le sorgenti si seccheranno. Tutto questo non è un' invenzione, ma sta già succedendo: per questo è indispensabile far nascere subito degli uomini anziani, degli ingegneri e dei biologi: non si può aspettare che siano cresciuti i bambini che nascono oggi, e che abbiano finito l' università. Ci vorrebbero trent' anni prima che potessero mettersi al lavoro. Ecco: è per questo che bisogna ... che abbiamo bisogno subito di anziani. Gli si parò davanti Renato, con le braccia levate, come se volesse arrestare un toro che carica. Infatti voleva farlo tacere, ed era pieno d' ira, e insieme di un oscuro tumore: _ Smettila, buffone! Non raccontare storie, la Scotti non è né un ingegnere né un biologo, è soltanto una vecchia strega! Mario rispose con voce tanto alta che in tutto il cortile i ragazzi si fermarono e si volsero verso di lui: _ Non è una strega. È una di noi: l' ho incontrata in corridoio, proprio ieri, e mi ha fatto il segno. _ Quale segno? _ chiese Renato. Mario non rispose subito: guardò Renato, e parve che qualcosa in lui si spegnesse. Lasciò penzolare le braccia, abbassò il capo; poi, con voce mutata, appena udibile, disse: _ Vai via, Renato: non ti posso vedere. Ecco, mi hai fatto parlare, e io ho parlato, e adesso sono tornato come tutti: come te, come uno di voi. Andate via, andate via tutti, lasciatemi solo _. Indietreggiò fino al muro, e scivolò via lungo il muro fino alla porta: Giorgio lo trovò poco dopo in un angolo della palestra, seduto in terra, col capo fra le mani, che piangeva con grossi singhiozzi.

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Era poi diventato comunissimo trovare per strada bambini che portavano in fronte, scarabocchiati con una penna a sfera, viva e abbassi, ingiurie e parole sporche. Enrico e Laura si sentivano dunque meno soli, ed anzi, incominciavano a provare fierezza, perché si sentivano in certa misura dei pionieri e dei capostipiti: erano anche venuti a sapere che le offerte delle agenzie erano addirittura precipitate. Nell' ambiente dei vecchi segnati correva voce che, per una scritta normale, su di una sola riga e per tre anni, ormai non si offrissero più di 300000 lire, e il doppio per un testo fino a trenta parole con un marchio d' impresa. A febbraio ricevettero in omaggio il primo numero della "Gazzetta dei Frontali". Non si capiva bene chi la pubblicasse: per i tre quarti, naturalmente, era zeppa di pubblicità, e anche il quarto residuo era sospetto. Un ristorante, un campeggio e vari negozi offrivano ai Frontali modesti sconti sui prezzi; si rivelava l' esistenza di un club, in una viuzza di periferia; si invitavano i Frontali a frequentare la loro cappella, dedicata a san Sebastiano. Enrico e Laura ci andarono una domenica mattina, per curiosità: dietro l' altare era un grande crocifisso di plastica, e il Cristo portava scritto JNRI sulla fronte anziché sul cartiglio. Press' a poco allo scadere del terzo anno del contratto, Laura si accorse di aspettare un bambino, e ne fu lieta, benché, con i recenti aumenti del costo della vita, la loro situazione finanziaria non fosse brillante. Andarono dal Rovati a proporre un rinnovo, ma lo trovarono assai meno gioviale di un tempo: offerse loro una cifra irrisoria per un testo lungo ed ambiguo in cui si vantavano certe filmine danesi. Rifiutarono, di comune accordo, e scesero al centro grafico per la cancellatura; tuttavia, a dispetto delle assicurazioni della ragazza in camice bianco, la fronte di Laura rimase ruvida e granulosa come per una scottatura, e poi, guardando bene, il giglio stilizzato si distingueva ancora, come le scritte del Fascio sui muri di campagna. Il bambino nacque a termine, regolarmente: era robusto e bello, ma, inesplicabilmente, portava scritto sulla fronte "OMOGENEIZZATI CAVICCHIOLI". Lo portarono all' agenzia, ed il Rovati, fatte le opportune ricerche, dichiarò loro che quella ragione sociale non esisteva in alcun annuario, ed era sconosciuta alla Camera di Commercio: perciò non poteva offrire loro proprio niente, neppure a titolo di indennizzo. Gli fece ugualmente un buono per il centro grafico, affinché la fronte del piccolo fosse cancellata gratuitamente.

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I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

"Mi sembra che il deserto si abbassi considerevolmente," disse il marchese, il quale cavalcava a fianco di Ben. "Forse questo sarà il fondo dell'antico mare," rispose l'ebreo. "Ah! Credete anche voi che anticamente il Sahara fosse coperto d'acqua?" "Tutti lo affermano, signore." "Eppure gli scienziati ne dubitano, mio caro Ben. L'altitudine media del deserto è di quattrocento metri sul livello del mare, quindi ammetterete che l'acqua non doveva salire a tanta altezza, se, come si dice, comunicava coll'oceano." "Vi sono però delle bassure considerevoli, marchese." "Non lo nego, ma sono relativamente poche." "Quale spiegazione danno dunque gli scienziati?" "Affermano che il Sahara, al pari dei deserti del Turkestan e di Gobi, non sia già diventato tale pel ritiro delle acque, bensì a causa di. sollevamenti geologici avvenuti in epoche antiche e che la sabbia si sia formata per azione disgregante, operata superficialmente sulle rocce dall'aria e dalle piogge." "Può essere, marchese," disse Ben Nartico. "Gli strati rocciosi sono abbondantissimi nel Sahara e anche d'una durezza poco considerevole. Ah!" "Che cosa avete?" "Guardate quella roccia isolata che sorge dinanzi a noi." "La vedo." "È la roccia d'Afza la bella." "Ne so meno di prima." "È una storia che nel Sahara tutti conoscono." "Ma che io ignoro, Ben." "Ricorda una terribile vendetta." "Allora me la racconterete." "Sì, quando ci fermeremo, marchese. Per ora marciamo." Il deserto manteneva la sua desolante uniformità e anche il suo intenso calore. Una calma assoluta regnava su quelle sconfinate pianure. Se qualche colpo d'aria giungeva a lunghi intervalli, era d'altronde così ardente che non si desiderava, perché pareva togliesse il respiro. Quella prima marcia, dopo la partenza da Beramet, si prolungò fino all'alba, desiderando il marchese di guadagnare via onde poter raggiungere la carovana almeno a Marabuti. Appena sorto il sole, furono alzate le tende e tutti vi si rifugiarono per prepararsi la colazione e prendere poi un pò di riposo. Mentre Rocco s'occupava dei piatti forti, consistenti per lo più in una zuppa di legumi ed in frittelle di farina, Esther preparò un delizioso moka che offrì ai suoi compagni assieme ad alcuni bicchierini di vecchio Cognac, liquore che il marchese non si era dimenticato di portare. "Alla fermata ci siamo, amico, e la storia della rupe mi è ancora ignota," disse il marchese a Ben. "Ve la narrerò io, marchese," disse Esther. "Allora il racconto avrà maggior pregio. Afza deve essere stata una donna, è vero?" "E una delle più belle del deserto." "Qui si nasconde qualche cupo dramma." "Una vendetta che vi darà un'idea dei costumi degli abitanti del Sahara," disse Esther, e poi cominciò "Un giorno presso quella roccia sorgeva un duar circondato da bellissimi datteri, perché allora i pozzi non erano ancora stati rovinati ed il terreno non era diventato sterile. "Voi già sapete che quando l'acqua viene a mancare, il deserto riprende i suoi diritti e tramuta anche le più belle oasi in una pianura arida, sulla quale non spunta più l'erba. "Quel duar era abitato da un beduino, che si chiamava Alojan, un uomo audace, intrepido cacciatore e che tutti conoscevano nel Sahara. "Alojan era felice perché oltre a possedere numerosi cammelli, possedeva pure la più bella donna del deserto, Afza, una Tuareg che aveva pagato quasi a peso d'oro sul mercato d'Anadjem. Disgraziatamente quella felicità non doveva durare a lungo; Allah aveva disposto diversamente. "Un giorno Alojan, mentre inseguiva un'antilope, giungeva in una bassura sabbiosa, dove il terreno era coperto di lance spezzate, di sciabole insanguinate e di cadaveri. Una battaglia doveva essere avvenuta in quel luogo fra tribù di Tuareg avversarie. Alojan, temendo di venir sorpreso dai vincitori, stava per tornarsene al suo duar, quando gli giunse agli orecchi un lamento. Si spinse fra i cadaveri e scoprì a terra un giovane guerriero che respirava ancora. "Alojan era valoroso e anche molto generoso. Raccolse il ferito, lo caricò sul suo cammello e lo trasportò nel suo duar, ove lo curò come se fosse stato un fratello. "Dopo quattro lunghi mesi di convalescenza quel giovane, che si chiamava Faress, era completamente guarito. "Tu ormai non hai più bisogno delle mie cure", gli disse il generoso Alojan. "Se vuoi tornare presso la tua tribù, io ti condurrò e ti lascerò anche se con dispiacere; ma se vuoi rimanere nel mio duar, sarai per me un fratello; mia madre sarà anche la tua, e mia moglie ti sarà sorella". "O mio benefattore", rispose il giovane guerriero, "ove troverei dei parenti come quelli che tu mi proponi? Senza di te io non sarei più vivo e la mia carne avrebbe servito di pasto agli uccelli da preda e le mie ossa sarebbero rimaste senza sepoltura sulle sabbie ardenti del deserto. Giacché lo vuoi, io rimarrò presso di te, per servirti tutta la vita." "Devo però dirvi che Faress era stato indotto a rimanere da un motivo meno puro; era l'amore che cominciava a sentire per la bella Afza, amore nato dalle cure che ella gli aveva prodigato. "Erano passati altri due mesi, quando Alojan, che non aveva avuto il minimo sospetto, incaricò Faress di scortargli la madre, la moglie e due fanciulli fino ad un'oasi, dove contava di piantare il suo duar. "L'occasione fa il ladro, come si dice. Faress, non sapendo resistere, pose la tenda su un cammello, vi collocò la madre coi due fanciulli e li mandò innanzi, dicendo che li avrebbe presto raggiunti con Afza. "La vecchia attese a lungo, e non vide più giungere né l'uno, né l'altra. Faress, salito su un rapido cavallo, aveva portato Afza presso la sua tribù. "Alla sera, quando Alojan giunse alla nuova oasi, trovò la madre piangente, seduta presso una palma. "Dov'è Afza?" le chiese con voce terribile. "Io non ho veduto né tua moglie, né Faress;" rispose la vecchia."È da questa mattina li attendo." "Allora per la prima volta un sospetto attraversò il cuore e il cervello del tradito. Aiutò la madre ad alzare la tenda, prese le sue armi, salì sul suo mehari e corse disperatamente attraverso il deserto; finché giunse presso la tribù di Faress. "All'entrata del duar si fermò presso una vecchia che viveva sola. Scorgendolo, costei lo guardò a lungo con stupore, dicendogli "Perché non vai dallo sceicco della tribù? Oggi è giorno di festa e non si nega ospitalità a nessuno straniero, fosse anche un nemico." "E perché si fa festa?" chiese Alojan. "Faress El-Meido, che era rimasto sul campo di battaglia e che era stato pianto per morto, è tornato conducendo con sé una bella donna e oggi si sono celebrate le nozze." "Alojan dissimulò la rabbia tremenda che lo divorava e attese pazientemente la notte. "Quando tutti gli abitanti dei duar dormivano, strisciò senza far rumore sotto la tenda di Faress, e prima che questi aprisse gli occhi, con un colpo di scimitarra gli spiccò la testa dal busto. "Afza si svegliò, e Alojan l'afferrò prontamente dicendole: "Seguimi!" "Imprudente!" esclamò la donna con voce tremante pel terrore che la invadeva. "Va', fuggi, prima che i parenti di Faress ti uccidano." "Silenzio, donna" disse Alojan, con voce minacciosa. "Alzati, invoca Dio e maledici il demonio che ti ha spinto ad abbandonare il tuo sposo ed i tuoi figli." "Afza, che aveva veduto un terribile lampo balenare negli occhi del tradito, cercò di gridare al soccorso, ma venne afferrata strettamente e portata sul cammello. "L'allarme però era stato dato, e il padre di Faress e due dei suoi figli si erano slanciati sulle tracce di Alojan. "Questi, vedendosi inseguito da vicino, impugnò le sue armi e si difese come un leone. Nel frattempo Afza, liberatasi dai suoi legami, si unì agli inseguitori, scagliando sassi contro Alojan, e uno dei sassi lo colse alla testa, ferendolo. "Nondimeno Alojan uccise i due fratelli di Faress e riuscì ad atterrare anche il padre. "Io non uccido i vecchi," disse, quando lo vide a terra. "Riprendi il tuo cavallo e ritorna fra i tuoi." "Poi riafferrata Afza, si rimise in viaggio dirigendosi verso il suo primiero duar, senza aver detto una parola alla sua donna. "Quando giunse presso la rupe che avete veduto, da uno dei suoi servi che era ancora rimasto nell'oasi, fece chiamare il padre ed i fratelli della moglie, che abitavano poco discosti, e raccontò loro quanto era avvenuto. "Padre;" disse poi, quand'ebbe finito, "giudica tua figlia." "Il vecchio s'alzò senza dire verbo, trasse la scimitarra e la testa della bella Afza ruzzolò al suolo. "Compiuta la vendetta, Alojan rovinò i pozzi onde tutte le piante morissero, li riempì di sabbia, poi salito sul suo cammello scomparve fra le dune del deserto, né più si seppe nulla di lui. "La rupe però è rimasta a ricordare la vendetta del povero cacciatore del deserto sulla infedele Afza."

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Nelle meste e bianche notti autunnali, quando la luna malaticcia si unisce alla candida malinconia del cielo, al languido pallore delle stelle, alla nebulosità ideale delle colline, quando tutto il mondo diventa fioccoso di spuma, vi è chi presceglie il mare per confidente e va a narrargli il disfacimento della sua vita che inclina a perdersi nel nulla, mentre la morbida curva di Posillipo pare che si abbassi anche essa desiderosa di scomparire nel mare. Nelle notti tempestose d'inverno, quando il temporale della città ha tutta la grettezza e la miseria delle stradicciuole strette e delle grondaie piagnolose, quando l'anima sente il bisogno imperioso di una mano che l'afferri, che delizioso ed infinito terrore, che impressione incancellabile trovarsi in alto mare, in un ambiente nero, dove il pericolo è tanto più grande in quanto è indistinto. Ma più felice di tutti colui che godette queste notti carezzando i capelli morbidi di una donna adorata, che stringendola al cuore, potette sognare di rapirla nel paese sconosciuto desiderato dagli amanti, che potette sperare di morire con lei, sotto il cielo che s'incurva, nel mare che li vuole. Più di tutti colpevolmente felici e colpevolmente invidiati Aldo e Tecla. - Aldo, il mare è troppo nero. - Io t'amo, Tecla. - Io t'amo, Aldo. Sostienimi col tuo valido braccio, amore. Perché quel barcaiuolo tace? - Il suo lavoro è duro, forse. Gli daremo del denaro - ..... mi amerai sempre, sempre, Tecla? - Sempre. Aldo, quella fiaccola gitta una luce sanguigna sui nostri volti e sul mare. Pare che illumini due cadaveri ed una tomba, amore. - Che temi tu dalla morte? - Dividermi da te. - Giammai. Dio deve castigarci egualmente. Un silenzio si prolungò. Si guardavano, mentre alla loro passione si univa la nota dolce di una tenerezza grave come un presentimento. La barca volava sull'acqua; il barcaiuolo vogava con grande forza, senza volgere il capo a guardare gli amanti. - Non ti sembra, Aldo, che siamo lontani assai dalla sponda? - Tanto meglio, dolcezza mia. - Perché quel barcaiuolo non parla? - C'invidia forse, Tecla. È giovane, amerà senza speranza. - Interrogalo, Aldo. Domandagli perché nasconde il suo volto. D'un tratto il barcaiuolo si volse. Era Bruno. Era la figura dell'odio. Aldo e Tecla si baciarono. E la barca si capovolse sul bacio degli amanti, sul grido di furore di Bruno. Tre volte vennero a galla gli amanti, abbracciati, stretti con una celestiale beatitudine nel viso, tre volte venne a galla una faccia contratta dalla collera. ..... Odimi, amore. In una certa ora della notte, sulla bella riva di Posillipo, su quella gaia di Mergellina, su quella cupa del Chiatamone, su quella fragorosa di Santa Lucia, su quella sporca del Molo, su quella tempestosa del Carmine, la barchetta fantasma appare, corre veloce sull'acqua, gli amanti si baciano lentamente, la figura dello sposo si erge sdegnata, la barchetta si capovolge. Ancora tre volte si rivede quell'eterno bacio, quell'eterno odio. Ogni notte la barchetta-fantasma appare. Ma non tutti la vedono. Dio permette che solamente chi ama bene, chi ama intensamente possa vederla. Apparisce solamente per gli innamorati, i quali impallidiscono a quell'aspetto. È la pruova infallibile e singolare. L'hai tu vista? L'hai tu vista, la barchetta-fantasma? O sciagurata me, se fui sola a vederla!

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