Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246998
Matilde Serao 2 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Passavano delle coriste, delle comparse, dei facchini di scena, sogguardandola con quella familiarità del lavoro comune, del destino comune, con quella impertinenza che dànno il palcoscenico e le quinte: ella abbassava gli occhi e si fermava dal masticare, vergognandosi. Divorò a grossi bocconi la mela, non sapendo ove gittarne il cuore, senza che niuno la vedesse: circolava sempre gente. Risalì verso il fondo oscuro del palcoscenico, gittò anche il giornale, in un cantoncello. Ridiscese: aveva sete. Giusto, Maria Arneri, una piemontese di seconda fila, aveva chiesto al caffettiere del teatro un Vermouth con acqua di Seltz: il garzone se ne andava via, quando Carmela Minino gli chiese, per piacere, un bicchier d'acqua: egli si fermò e gliela versò. Gli diede un soldo: il garzone glielo restituì, galante, dichiarando: - Non si paga l'acqua. Quanto era lunga, l'ora! Almeno, per l'ora e mezzo che dura l'Excelsior, quel vestirsi e svestirsi, quel correre sul palcoscenico, quei Waltzer, quei galoppi, quel ritornare al camerone, la fretta continua, l'affanno invincibile sebbene monotono, occupavano il tempo: ma l'attesa, fra uno spettacolo e l'altro, ma l'attesa, durante lo spettacolo musicale, in quegli androni di legno, polverosi, la cui polvere non è mai vinta dall'acqua che vi si getta, sempre, la cui polvere attacca e dissecca la gola e le fauci, quegli stanzoni così caldi, pieni di pulci, esalanti ogni specie di profumo e ogni specie di nauseante puzzo, l'attesa inutile, quel perdere il tempo così, gittavano Carmela Minino in un crescente ebetimento. Talvolta, aspettando, seduta in un cantuccio del teatro, ella aveva portato seco un lavoro all'uncinetto, delle stelline di cotone bianco che dovevano unite, in numero strabocchevole, formare una grande coperta, per letto a due posti. - Non aveva ella, qualche volta, vanamente sognato di maritarsi, con qualche umile, oscuro lavoratore? - e le sue dita si erano mosse alacremente, intorno a quella fatica di ragazze del popolo: ma ella aveva avuto le beffe delle amiche e delle compagne: - Perchè non porti addirittura la calzetta, a teatro? - le gridavano, sogghignando sulla sua miseria onesta, sulle sue occupazioni di popolana. Aveva smesso. Altre volte, quando il suo spirito era più tranquillo, in quelle ore di aspettativa che la direzione del teatro le infliggeva, quando la sua schietta anima non aveva turbamenti strani, ella mentalmente, tenendosi la mano nella tasca del suo vestito dove portava sempre il rosario, ne recitava le Ave Maria, i Pater noster e i Gloria Patri: anzi, ella recitava il rosario doppio, quello di quindici diecine, per cui si libera un'anima dal Purgatorio, pronunziando con molto fervore, sempre fra se, i misteri gloriosi e i misteri dolorosi a ogni diecina. Ah, ora, no! Ella era profondamente distratta, da qualche tempo, e non ritrovava più la bella calma, la bella attenzione degli anni trascorsi: la preghiera le usciva monca, fredda dallo spirito, come un vacuo esercizio. Una profonda amarezza era in lei. Aveva già ventiquattro anni; fra scuola di ballo e ballo in teatro, stava già sulle scene da dodici anni, senza che mai nulla di bello, di dolce, di soddisfacente fosse venuto a consolare, prima, la sua adolescenza, poi, la sua giovinezza. Anzi, in quel periodo, due dolori l'avevano colpita: la morte di sua madre e la morte di Amina Boschetti. Certo, per una singolarità incomprensibile, ella aveva sofferto assai più per la morte della sua protettrice, della sua fata, che per quella della madre; ma, infine, aveva perduto tutto quello che amava. Ventiquattro anni, di già, fra tre o quattro mesi: niente che accennasse a un miglioramento, a un sorriso della vita, a un riposo dell'anima e del corpo. Come, come si sentiva stanca, in alcuni momenti, che bisogno fisico di dormire molto, di mangiare un po' meglio, quietamente, senza strozzarsi, di vestirsi come una persona per bene, di aver caldo sotto una buona giacchetta, sotto una buona mantellina, che bisogno di vivere, di vivere umanamente, come una giovane donna che fa una professione d'arte e non come una serva dal grossolano lavoro! Queste idee di tentazione, questi desideri corruttori costantemente ella li respingeva: costantemente essi ritornavano ad assalirla, ricondotti dall'età che era quella dei godimenti materiali, ricondotti dalle lunghe e ostinate privazioni, ricondotti, ogni giorno, ogni sera, dai contatti col teatro, con le altre ballerine, specie con quelle belle, graziose, fortunate delle prime file, che avevano dei banchieri, dei conti, dei marchesi che si rovinavano per loro. Come dire devotamente il rosario, in quell'ambiente di vizio oramai ingenito, costituzionale, su quel palcoscenico che era, ingenuamente e turpemente, un mercato di bellezza e di gioventù' Una volta, quando ell'aveva diciotto, venti anni, con quel grande timor di Dio che le veniva dal suo cuore popolano, dalle chiese intorno alla Pignasecca che l'avevano assidua frequentatrice, dal suo confessore, don Giovanni Parascandolo, il rettore della chiesa dello Spirito Santo, un piissimo e rigoroso sacerdote, dall'ambiente del Vicolo Paradiso in cui ella abitava da piccina, Carmela Minino poteva dire le orazioni del rosario, anche fra una recita e l'altra della Norma e del Faust, fra, una riproduzione e l'altra del ballo la Devadacy. Una volta! Adesso, quando macchinalmente, in quei giorni di gaudio carnevalesco, ella portava la mano in tasca per toccare i grani del suo rosario, quando le sue labbra, aduggiate principiavano le consuete preghiere, non giungeva più ad immergersi in questa tenera e familiare occupazione dello spirito: subito, la sua fantasia si distraeva in pensieri completamente profani e le sue labbra sibilanti le parole sacre in una quasi mentale ripetizione, si ammutolivano. Ella pensava a cose assai profane: alle lettere amorose di Roberto Gargiulo a cui non rispondeva, ma che leggeva con una, certa compiacenza, come tutte le donne che sono sempre lusingate di ricevere un bi- glietto d'amore, anche da persone che non amano e che non vorrebbero mai amare: alle sottane di seta di Carlotta Musto e di Marietta Sanges sospese al chiodo del camerone e messe in mostra con ostentazione: al suo busto di traliccio bianco, comperato da Carsana a due lire e settantacinque e che tutto consunto, spezzato nelle balene dei fianchi, le faceva una vita enorme, non potendolo troppo stringere, perchè le balene spezzate le sarebbero entrate nella carne: a quel pranzo di Concetta Giura con il Duca di Sanframondi, di Emilia Tromba con Ferdinando Terzi di Torregrande, a quel pranzo di Sorrento dove, certo, i due gentiluomini avevano trattato le due ballerine con la loro signorilità e la loro generosità abituale, riempiendole di buoni cibi, di Vini forestieri, di dolci, innanzi a una candida mensa, coperta di fiori, innanzi al mare sorrentino che Carmela Minino conosceva bene, essendovi andata un giorno, con un'altra ballerina, scritturata come lei allo Stabia Hall di Castellammare, in un giorno di estate, ma vi erano andate sole e avevano rosicchiato alcune gallette di Castellammare, che costano tre un soldo; ed anche ad Amina Boschetti, ella pensava, che era vissuta fra i più grandi splendori del lusso, che era stata imbalsamata come una regina e che aveva portato nella tomba di Poggioreale, intorno al suo bianco collo, un collare di grosse perle, a sette file, un dono di Otto Schulte, il tedesco innamorato, un dono di cinquantamila lire. Già, nelle quinte, si udiva il clangore delle trombe con cui gli araldi di Enrico, re di Germania, chiamano, dai quattro punti cardinali, i cavalieri che vogliono scendere in campo, per l'onore di Elsa di Brabante, accusata di maleficio dal traditore Telramondo. Carmela Minino si levò, con un sospiro, dal cantuccio dell'androne, ove si era seduta e si avvicinò alle quinte. Erano le nove di sera: la seconda edizione dell'Excelsior non sarebbe incominciata che alle undici. Ella portava il suo vestitino di panno azzurro cupo, il migliore che possedeva, il primo che si era fatto, smesso il lutto di sua madre; al collo aveva una sciarpa di merletto crema con un grosso fiocco, su cui aveva fermato lo spillo d'oro, uno spillo formante due cuori legati da una catenella, un dono antico della Boschetti, gittatole in grembo, un giorno, molti anni prima, quando la divina danzatrice la incontrava nella sua anticamera e innanzi ai grandi occhi sgranati nell'ammirazione istupidita della bimba, la leggiadrissima donna sorrideva: dono conservato con cure specialissime, strofinato sempre con un vecchio guanto, per far uscire il lucido dell'oro e che all'immaginazione della povera corifea simboleggiava il legame per la vita e oltre la tomba, fra la Boschetti e lei. Le guancie di Carmela Minino erano cariche di rossetto, quella sera; ella ne metteva sempre molto, perchè era molto bruna, molto pallida, di carnagione opaca; anzi se ne era fatto prestare un poco da Margherita De Santis, la malatina che ne portava sempre molto, anche lei pallidissima, non per temperamento, ma per l'anemia che le divorava la vita. Appoggiata a una quinta, essendosi gittata sulle spalle il suo scialletto di lana bianca, lo scialletto caratteristico di tutte le ballerine napoletane, che esse lasciano sempre in teatro, in cui esse si avvolgono, nelle quinte, fra una danza e l'altra, sempre sudate, sempre scalmanate, per garentirsi dalle orribili correnti d'aria di quel palcoscenico. E, quasi senza udirle, le arrivavano all'orecchio le note wagneriane eccelse, con cui si annunzia il miracolo, l'arrivo inaspettato e stupefacente del Cigno, del Cigno che porta il cavaliere del San Graal, chiuso in un'armatura di argento luccicante. Era così assorta, quando uno scoppio di risata la colse alle spalle: risate femminili forti e sguaiate. Dalla porticina che mena, dopo il gran corridoio di pietra, prima a larghi scaglioni, poi con un piano ascensivo, dalla porta di entrata, sino sul palcoscenico, erano giunte in teatro le due mancatrici della rappresentazione diurna, le due gitanti di Sorrento, Concetta Giura ed Emilia Tromba. Arrivavano, un po' ansanti, accaldate, con le guancie rosse assai, con un balenìo negli occhi: e rispondevano, schiattando dalle risa, al direttore del palcoscenico, che erano state malate, tutto il giorno, col medico accanto al letto, poichè avevano uno spaventoso male... e ridevano, ridevano, come matte stringendo dei fiori freschi sul petto. - Sì, sì, lo so io il vostro male, care ragazze, - gridò il direttore - Ora vi applico io il rimedio! Un bel cataplasma vi voglio applicare, una multa di cinque lire, eh, per ciascuna! - Ma noi avevamo il male di ndì ndo! - finse di piagnucolare Concetta Giura. - Cinque lire di multa, belle figliuole, cinque lire! - gridò ancora lui, che si seccava di essere burlato da loro. - Io le do in elemosina, cinque lire - disse Emilia Tromba, annusando i suoi fiori. Il direttore crollò le spalle allontanandosi, per non dire delle ingiurie più forti alle due insolenti. Concetta ed Emilia scoppiarono di nuovo a ridere, con quel clamore bestiale del riso muliebre sforzato e laido. Concetta Giura era veramente una bella creatura, bianchissima, coi capelli color rame, alta e snella, ma pure rotonda in tutte le sue linee, con un paio di occhi grigio-acciaio, assai vivi, scintillanti; di giorno, certo, le macchie di lentiggini onde era cosparso il volto si vedevano molto; le sue mani e i suoi piedi non erano fini, malgrado che vi adoperasse cure quotidiane, ma che importa, ella era bella, giovane, freschissima! Vestiva, quasi sempre di nero, molto riccamente, coperta di merletti e di jais, in estate, portando il velluto e il raso, d'inverno, volendo assolutamente avere un aspetto distinto, volendo imitare le grandi dame che incontrava nelle vie, di cui vedeva i profili nei palchi di San Carlo e specialmente la duchessa di Sanframondi, la moglie del suo amante, un angelo di virtù; quando taceva, talvolta, con la rossa bocca composta e chiusa sul volto bianco, con le palpebre socchiuse nell'atto della indifferenza, arrivava, quasi quasi, per un momento, ad aver l'aria per bene. Ma se apriva la bocca, la sua voce gutturale, canagliesca, le sue inflessioni e le sue parole in dialetto napoletano, non nel dialetto pretenzioso borghese mescolato di storpiate frasi italiane, ma il dialetto del trivio, le espressioni volgari e spesso francamente oscene, facevano fuggire ogni illusione. Eppure Sanframondi, dicevano, se ne era innamorato e l'amava, appunto perchè ella parlava così e diceva quelle cosaccie. Quandò il suo angelo di moglie lo aveva troppo seccato con la sua virtù , con la sua castità, con la sua rassegnazione serena di vittima cristiana, egli andava a trovare Concetta e la pregava di dirgli quattro buffonate, come sapeva dir lei, nel gergo più corrotto di Basso Porto. Ella fingeva di offendersi; protestava; pretendeva di esser chiamata Tina, diminutivo elegante di Concettina, e non Concetta; ma conoscendo che il solo segreto di seduzione, oltre la sua persona, sul duca di Sanframoudi, era la sua canaglieria, si lasciava andare. Sanframondi si sganasciava dalle risa, l'abbracciava, la sbaciucchiava, felicissimo, obbliando la duchessa, il duchino e la duchessina, le perdite al giuoco e i debiti di cui si copriva. Giusto quella sera, Concetta Giura, aveva un lussuoso vestito di raso nero e un grande spillo al collo, un fermaglio a foggia di ferro di cavallo, tempestato di brillanti e zaffiri che, quella mattina, Sanframondi le aveva appuntato al collo, aiutandola a vestirsi. Emilia Tromba era un altro tipo, molto bianca, con capelli nerissimi e folti, con certi stupendi occhi neri tagliati a mandorla, con una bocca espressiva nel sorriso e con un gran naso adunco che le guastava il viso, ma di cui ella si teneva molto, dicendo che era un naso nobile; sua madre, la fruttivendola del Cavone, doveva aver peccato con un gran signore. Grassotta, non alta, aveva delle spalle e delle braccia magnifiche, non portava mai busto e lasciava a posta, che nella danza, talvolta, si scomponessero, i suoi capelli stupendi. Portava, quel giorno, un elegantissimo vestito di velluto grigio, guarnito di rara e ricca pelliccia chinchilla; vi aveva messo su un mantello identico, tutto foderato di pelliccia e aveva un gran cappello nero piumato ed era coperta di braccialetti, di anelli, di spilli, di spilloni, di fibbie, un mondo di gioielli. Però, tutta questa roba le stava male addosso, come tutti i vestiti che ella portava, alla carlona, trascurata, coi merletti delle balayeuses lacerati; il suo bel vestito era macchiato di champagne, innanzi ed ella aveva schiacciato un dolce, un cioccolattino, sotto il suo gomito. Col cappello storto, odorando i fiori, la rozza, tumultuosa, screanzata amante del corretto, fine e taciturno Ferdinando Terzi, interpellò la povera Carmela Minino, che si stringeva addosso il suo scialletto di lana bianca, già lavato tre volte e che era gialliccio, oramai: - A che ne stiamo, Minino? - Finisce il primo atto dell'opera, donna Emilia - mormorò l'altra, a occhi bassi. - Siamo venute troppo presto, Concettì! - esclamò Emilia - potevamo restare fuori, ancora. - Hai ragione! Che peccato! Ce ne andiamo? - Ma che! Con chi? Dove? Ferdinando e Luigi sono andati via! Non torneranno che a prenderci. Tu sei venuta, oggi, Minino? - chiese Emilia Tromba. - Sissignore. - E perchè? Non potevi far festa? Far festa con qualcuno che ti volesse bene? - Io non posso far festa: cinque lire di multa mi rovinerebbero - rispose Carmela, che era diventata mortalmente pallida, sotto il suo rossetto. - E chi ti vuol bene, non le potrebbe pagare - soggiunse Emilia, che amava perder tempo, in quella conversazione fra le quinte. - Chi mi vuol bene, donna Emilia? Chi volete che mi voglia bene? - e un accento di dolore scoppiò nelle sue parole. - Eh, qualcuno lo avrai! Proprio nessuno? E tutta la poca vanità femminile che era in Carmela Minino, ebbe come una frustata. - Qualcuno... forse... - sussurrò. - Vi sarebbe, qualcuno... - E deciditi, va, figliuola mia! - esclamò maternamente la corruttrice. - Buttala via questa zitellanza! Che ti serve? Che ne fai? Per Gesù Cristo? A tempo e ora, ti penti dei peccati e muori in santità, come farò io. Per il mondo? Il mondo si ride di te, perchè sei zitella. Se non ti decidi adesso, quando aspetti? Bella non sei, già, è inutile dir bugie, tu lo sai; se non profitti di un poco di gioventù, nessuno ti vorrà più; quando è passato questo tempo... Invano rattenute, delle grosse lacrime cominciarono a scorrere sulle guancie di Carmela Minino, i singulti le soffocavano la gola. - E perchè piangi, adesso? Che ti è successo? - strillò Emilia Tromba. - Niente... niente - arrivò a balbettare Carmela, fra i singhiozzi. Tieni, tieni, per consolarti un poco. Me li ha dati, oggi, a, Sorrento, Ferdinando Terzi, il mio innamorato. Emilia Tromba aprì un sacchetto di dolci, mezzo vuoto, ne fece cadere sulla mano dei cioccolattini, ne diede un pugno a Carmela, dicendole - Mangia, mangia, e non pensare a guai. Allontanandosi, verso il camerone, a capo basso, Carmela Minino teneva preziosamente distesi sulla, mano aperta, i cioccolattini che Ferdinando Terzi aveva donati alla sua amante Emilia Tromba, quel giorno, a Sorrento e che Emilia aveva dati a Carmela per pietà delle sue misteriose lacrime. Carmela non mangiò quei dolci. Trovò un pezzetto di carta e ve li ravvolse cautamente, per non romperli, per conservarli intatti. Ancora qualche lacrima le guastava il belletto.

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Carmela Minino taceva: e oppressa dai suoi pensieri di miseria e di abbandono, oppressa dall'ambiente, abbassava la faccia dietro la grama veletta nera del suo cappello. - Poggioreale! Poggioreale - gridarono dalla minuscola stazione del cimitero i due ferrovieri. E quasi immediatamente, con un gran rumore di sportelli battuti, il piccolo treno si vuotò tutto, mentre pel viale saliente al largo ingresso inferiore del cimitero, un flutto di gente si avviava, portando i suoi pacchetti di cerei, le sue corone di canutiglie, di semprevivi, di fiori freschi. Attorno all'ampio cancello una quantità di omnibus, di calessi, di char-à-bancs, di biroccini, stazionava, coi cavalli senza cavezza, la testa immersa in un sacco di crusca, coi cocchieri che fumavano la pipa, seduti di traverso sulle loro serpi, alcuni aggruppati, altri in cerca di qualche osteria dei dintorni, dove mangiare un boccone, aspettando i passeggieri che dovevano ritornare dal loro lugubre pellegrinaggio. Sotto il cielo basso e bigio, in quel tetro giorno di novembre, il camposanto di Napoli che occupa una delle sue più belle e più amene colline, quella di Poggioreale, conservava il suo aspetto d'immenso e florido giardino signorile: e i suoi cespuglietti di fiori vivaci che circondano le tombe e le sue siepi di bosso e di mortella che dividono gli ombrosi viali dai campi pieni di lapidi e i boschetti di alberi dove da mattina a sera cinguettano gli uccellini, gli alberi alti che ombreggiamo le sue cappellette, le sue chiesette, i suoi più grandi monumenti, gli conservano, in ogni stagione questo grandioso aspetto di parco aristocratico, qua e là interrotto da piccoli edifici, ora vezzosi, ora pomposi. Non solo nel giorno della commemorazione dei morti, ma sempre vi lavorano giardinieri, sotto la direzione di qualcuno che ama quel camposanto teneramente, e le più belle rose di Napoli vi crescono e i meravigliosi crisantemi, di ogni tinta, ne smaltano persino le aiuole dei poveri e in tutte le stagioni pare che vi sorrida dolcemente la primavera dei morti. Tutto l'anno il camposanto di Poggioreale ha un aspetto, nella sua florida solitudine, raccolto, non triste; mentre in quel giorno, coi suoi viali neri di gente, con tutte le porte delle sue cappelle, delle sue chiese, dei suoi grandi monumenti aperte da cui escivan chiarore di cerei, canti liturgici e odore d'incensi, misto a quello dei fiori freschi, il suo aspetto, sempre, non era triste, ma singolare, ma bizzarro, come di una strana fiera mortuaria, come di una mai vista pompa funebre, in un parco vastissimo, percorso da una folla immensa e svariata. L'ampio viale onde Carmela Minino, insieme con gli altri, saliva alle alture del cimitero ove sono le chiese più belle e i monumenti funerari più ricchi e più artistici, era murato e sulle mura vi eran delle lapidi cementate, le più antiche, con date di trenta o quarant'anni: la ballerina ne lesse due o tre ed ebbe un moto d'indifferenza. Che mai eran quelle donne, quei bimbi, quegli uomini che essa non avea mai conosciuti? Nulla a lei e, forse, nulla a nessuno di costoro che salivan con lei: quaranta, cinquant'anni sono troppi, perchè mi morto possa esser più niente a nessuno. Qua e là, ora che cominciavano i prati fioriti di rose, di cinerarie, di tutti que' fiori bigi, lilla, violetti che par che Iddio faccia nascere nell'autunno per esser di accordo con la stagione e con le tombe dei morti, gruppetti di due o tre persone si agitavano intorno alle pietre mortuarie, infisse semplicemente nella terra e, ripulitele, amorosamente, vi depositavano le corone novelle e infiggevamo, nella terra i cerei che ardevano nel giorno, con certe linguelle di fiamma esili e pallide, e qualcuno s'inginocchiava, pregando, senza, curarsi di chi passava; e un singhiozzo, ogni tanto, rompeva l'aria, sulle tombe più recenti, singhiozzi scoppianti da donne vestite di nero, austeramente velate, mentre da tutte le cappelle, da tutte le chiese grandi e piccole, da ogni maestoso monumento escivano i canti del De profundis e della Libera e scintillavano, nel fondo di pietra, le candele accese e si dilatava l'odore dell'incenso, nell'aria. Carmela Minino, disfatta, sentendo sul suo corpo e sulla sua anima tutto un insopportabile peso di dolore, quasi non poteva avanzare più passo: un desiderio folle la travolgeva, di gittar via, quella corona, di buttarsi sulle erba, sui fiori, faccia a terra, e di sciogliersi in lacrime, fino a che la morte l'avesse sorpresa, colà! Ma, a un tratto, il monumento elevato ad Amina Boschetti le apparve innanzi, quasi magicamente. Sorgeva in un quadrivio pieno di alberi, alti e folti, pieno di odorati cespugli di fiori: aveva dirimpetto la cappella magnatizia dei principi di Sansevero: da un lato la chiesa votiva per la morte della giovanissima duchessa di Noja; ma il tempio eretto alla memoria della ballerina era più ampio, più ricco, più bello delle due chiese patrizie. Aveva un'architettura schiettamente egiziana, imitante una delle antiche tombe faraoniche, tutto in granito oscurissimo e in lucido basalto grigio: le due porte, di un massiccio e puro artistico bronzo cesellato, erano schiuse: intorno intorno a quelle possenti, gravi e larghe masse di granito, girava un giardino fiorito, chiuso a sua volta da un cancello di bronzo. Guardandolo di lontano, il tempio egizio costruito per chiudere la leggiera salma della danzatrice, pareva tozzo, goffo, come sempre appariscono queste architetture, anche laggiù, fra il Nilo e il deserto. Ma come vi si avvicinava, le linee si sviluppavano, si ingrandivano, diventavamo imponenti, maestose. E bastò questo solo suo aspetto grandioso e calmo, per dare un sussulto di coraggio a Carmela Minino; bastarono le due semplici parole, in bronzo dorato, scritte sul sommo della porta: AMINA BOSCHETTI, perchè mia novella forza la ringagliardisse. Man mano che ella si accostava a quella magnifica forma di tempio, dove la fortuna, la ricchezza e la potenza della sua madrina, ricevevano la consacrazione del trionfo anche dopo la morte, una esaltazione facea balzare l'anima di Carmela, asciugandone, disseccandone tutte le lacrime, gonfiandole di tenerezza, ma di tenerezza superba, il suo piccolo cuore. Fu senza dolore, con un senso singolarissimo e inesplicato a lei, che ella entrò nel tempio egizio, segnandosi piamente. Il tempio era riccamente adorno per la commemorazione di Amina Boschetti: dal soffitto pendevano quattro massiccie lampade d'argento, sospese a grosse catene di argento, dove bruciava l'olio votivo: quattro alti e adorni candelieri di argento sopportanti i grossi cerei accesi erano collocati innanzi al breve altare funebre, disposto sotto la lapide che murava la salma. Tutto il tempio, intorno, spariva, sotto le corone fresche di fiori rarissimi: ve ne erano, di fiori, sparsi per terra, sul basalto: e la lapide ne era coperta. Un prete, assistito da due altri, in ricchi paramenti dai colori mortuari celebrava la decima o la duodecima messa funebre, colà, e come egli era venuto dopo gli altri, altri sarebbero venuti dopo lui, sino alle tre pomeridiane: e due chierici spandevano incenso dagli incensieri di argento. Due camerieri in livrea, appartenenti alla casa del banchiere Schulte, colui che aveva, per dieci anni della sua vita, adorato la leggiadrissima danzatrice, che le avea dato la sua fortuna e che, fedele oltre la morte, in un miscuglio singolare di amore, di misticismo e di cinismo, le dava tutte le pompe più ricche del culto religioso, stavano in fondo al tempio, muti, immobili; il loro padrone era venuto presto colà e tutto era stato disposto secondo i suoi ordini, sotto i suoi occhi, e tutti quei fiori li aveva portati lui, ed egli stesso aveva pregato per un'ora, lì dentro, incapace di dimenticare, incapace di consolarsi. l due camerieri presero silenziosamente dalle mani di Carmela Minino la corona di fiori, per deporla presso l'altare: - Sulla pietra, sulla sua pietra - ella mormorò, supplice, tremante di una emozione che non era solo dolore, anzi quasi non era dolore. Poi, quando la corona andò ad appoggiarsi a metà della lapide marmorea, sul posto dove giaceva, dietro la fredda pietra, il freddo cuore della incantevole Amina, la sua figlioccia, si piegò sovra un inginocchiatoio di legno scolpito, dal cuscino di velluto rosso, dove, un'ora prima, era venuto a pregare Otto Schulte e chiuso il volto fra le mani mentre il prete orava, pronunziando le parole tetre, tristi, dolenti, ploranti, della messa per i defunti, mentre il grido dell'anima cristiana che, giunta davanti all'Eterno suo giudice, domanda misericordia esciva dalle labbra dei suoi coadiutori, invece di pregare, Carmela Minino vide innanzi agli occhi della sua immaginazione colei che era sepolta dietro quel marmo, colei per cui era stato eretto quel tempio ricchissimo, colei per cui ardevano quelle lampade e quei candelabri, per cui olezzavano quei fiori, per cui pregavano il Signore quei sacerdoti. E vide una figura esile e lieve, un paio di occhi larghi, bruni, pensosi e ridenti insieme, un sorriso sopra una bocca deliziosamente espressiva, un fascino emanante da ogni atto gentile, un fascino di bellezza, di grazia, di giovinezza, di poesia, qualche cosa di trasvolante tra i veli candidi, fra lo scintillio dei corsaletti ricamati d'oro, qualche cosa, di fugace, di alato, d'inafferrabile che facea palpitare e fremere non solo gli uomini giovani ma i vecchi, non solo gli uomini ma le donne: Amina Boschetti! Fra la luce, innanzi ai teatri zeppi e semioscuri, ella appariva, sottile come uno stelo, con la sua piccola testa carica di capelli bruni, e non toccava terra nelle sue gonne simili a una nuvola e i suoi piccoli piedi calzati di seta rosa non toccavan terra e appena appena parea ricamassero delle cifre posate fra i fiori, sulle aiuole. Ella sorrideva dagli occhi e dalle labbra, danzando, mentre il suo corpo pieghevole si arrotondava allo slancio lievissimo: ella danzava, senza che mai quel sorriso, quel lampeggio degli occhi venissero meno, per la fatica: ella danzava, così, come se null'altro ella fosse venuta a fare, sulla terra. E veramente, la sua irresistibile perizia, veramente la delizia di quella danza facevano delirare le platee: e dal loggione dove il popolo si ammassava nelle serate classiche alle poltrone d'orchestra dove si raccoglieva la nobiltà napoletana, il nome di Amina Boschetti era acclamato come quello di una trionfatrice. La coprivano di fiori, di doni, di gioielli: le offrivano i loro cuori e le loro fortune: ed ella tutto accoglieva, sorvolando su tutto, sapendo che i fiori, i gioielli, i cuori, le fortune, eran fatti per lei, perchè i suoi piedini calzati dalle fini scarpette di raso rosa vi facessero in mezzo una gaia danza. Ella aveva ville a Portici e a Posillipo, palazzi a Napoli, mobili sontuosi, equipaggi ricchissimi, vesti e pietre preziose degne di una sovrana; e la sua lieta giovinezza spensierata rideva di tutto ciò: ed ella dava in cambio tutta la poesia della sua bellezza, tutta la poesia della sua danza, sorridendo ai sogni di amore e di piacere. Così, nella sua infanzia, Carmela Minino l'aveva vista, ammirata, amata, come se Amina Boschetti avesse in sè qualche cosa di divino: così la povera figliuola della rammendatrice di maglie, la figliuola di Bettina Minino, aveva volto gli occhi pieni di ammirazione trepida e devota alla fata delle danze. Tutti quei deliri, tutte quelle acclamazioni, tutti quei gioielli, tutto quel denaro che la gente gittava innanti alla danzatrice adorabile, non sembravano, alla oscura piccola corifea, che un omaggio naturale, giusto, dovuto a quel leggiadrissimo idolo. La messa, funebre quasi finiva, mentre alte risuonavano le parole latine d'implorazione del sacerdote, sotto la volta granitica del tempio egizio. Ma Carmela Minino che, pure, era una, umile e pia cristiana, ancora non pensava a pregare per l'anima della sua madrina. Ora, si rammentava come la bella danzatrice era entrata nella sua piccola vita, piena di ombre, di tristez- ze, di miserie! si rammentava di essere stata condotta, un giorno, due giorni, varie volte, in quel grande palazzo della Riviera di Chiaia, dove Amina Boschetti viveva fra la ricchezza del lusso e dell'arte, e in quell'amena, fresca villa di Portici, posta fra gli orti, i giardini e il mare: sua madre rammendatrice di maglie di seta, aveva servito la Boschetti, quando costei era una semplice ballerinetta di quarta fila, e, più tardi, quando la ballerinetta era diventata una stella fulgida, la povera rammendatrice, assai misera per mancanza, di lavoro, andava a raccogliere le vecchie maglie che la Boschetti gittava via, gli scarpini di raso rosa che la Boschetti metteva una volta soltanto, e di questi doni, facili alla prodigalità, della grande artista delle danze, Bettina Minino faceva un piccolo commercio. Allora, Carmela Minino aveva dieci anni, due grandi occhi neri e dei bei capelli neri, non pareva che dovesse diventare bruttina come era, poi, più tardi, di- venuta pur conservando il dono dei belli occhi e dei bei capelli. Ogni tanto, Amina Boschetti passava nella sua anticamera, dove Carmela si rannicchiava in un angolo; la carezzava lievemente, passando, nelle sue ampie vesti di lana bianca che avevan del peplo greco e da cui si ergeva la seducente testina. - E falla ballare, falla ballare - rispondeva familiarmente la Boschetti, quando la sua vecchia rammendatrice sospirava, parlando di sua figlia. - E se è brutta, Eccellenza? - Speriamo di no. - E se si perde l'anima e il corpo a teatro? - Chi si perde, si ritrova - replicava, ridendo, la Boschetti. Ciò finì con questo: che la Boschetti dava venticinque lire il mese, per vari anni, a Bettina Minino, perchè la sua figliuola, potesse imparare il ballo. Ohimè, la piccola Carmela mancava di grazia, di brio, di leggerezza, nella danza: studiava molto, si stancava enormemente, era obbediente, sommessa alle osservazioni del maestro, tentava del suo meglio, ma non arrivava a conquistare quelle qualità necessarie ad una ballerina. Anche, verso i sedici anni, invece di fiorire come tutte le giovinette, deperì. La sua carnagione si fece bruna e opaca, le linee s' indurirono ai pomelli, al mento; le labbra s'impallidirono. Forse mangiava poco: forse, ballava troppo: forse mancava d'aria e di luce, in quella stanza del vico Paradiso; ma la sua gioventù fu sfiorata, restandole solo quei begli occhi un po' tristi, ma pur fieri, che, del resto, hanno le napoletane più brutte, quei bei capelli, che, anche, sono un pregio assai comune, a Napoli. - Signora mia, è brutta, è brutta - diceva, piagnucolando, ogni tanto, Bettina Minino alla sua benefattrice. - Pazienza! Così non si perderà - rispondeva, sorridendo la Boschetti. E per la sua protezione, solo per questo, Carmela Minino era entrata nel corpo di ballo di San Carlo: ma nell'ultima fila, con due lire e cinquanta ogni sera di ballo, con l'obbligo di fornirsi del basso vestiario, scarpette, coturni, maglie di seta, gonnellini di velo, coll'obbligo di venire ben pettinata o di farsi pettinare dal parrucchiere del teatro, con tanti obblighi, tutti costosi, che riducevano a nulla le due lire e cinquanta serotine. Era, anche, una grazia, particolare, perchè a San Carlo non volevano brutte ballerine, anche nell'ultima fila, perehè Carmela ballava così e così, sovra tutto mancava di sorriso, sempre con quel viso senza gioventù e gli occhi malinconici. Con il poco guadagno della madre, con le venticinque lire il mese del sussidio Boschetti, meno male, si tirava avanti, quando Amina Boschetti morì... Ora, la messa era finita e il prete secondato dai due coadiutori, benediceva con l'acqua santa il tumolo, cioè la lapide. E invece di pregare per colei che dormiva da sei anni l'eterno sonno della morte, dietro quel macigno di granito, Carmela Minino pensava alla morte di Amina Boschetti. Ella l'aveva vista ballare, l'ultima volta, in un ballo grandioso, di carattere egizio: Le figlie di Cheops. Le due figliuole del Faraonide eran rappresentate da una bellissima mima, alta, formosa, Assunta Mezzanotte, che poi, più tardi, doveva tentare con minor fortuna il teatro di prosa, e l'altra figliuola, la sorella, la rivale, era Amina Boschetti. Non so per quante sere, nelle vesti orientali, con l'ibis d'oro fermante i capelli bruni sulla fronte, carica di gioielli antichi, Amina Boschetti aveva ballato, e più che ballato, sceneggiato e drammatizzato quel ballo delle Figlie di Cheops: e non so quale storia d'amore vincitore e vinto, fra le due sorelle, conduceva la minore Faraonide, la danzatrice, alla morte. Nell'ultima scena, ell'appariva in una festa sacra, bella di una ieratica bellezza fatale, coverta di ori e di gemme preziose, con un sorriso inebbriato ed inebbriante sulle labbra, con qualche cosa di folle negli occhi scintillanti. Così la Faraonide Amina Boschetti imprendeva una sua danza religiosa insieme a uno serpente: a un serpente pitone, sacro alle deità egizie, che ella si avvolgeva alle braccia, al corpo, scherzando, giuocando con esso, accostandosene lietamente e follemente la testa al volto, gittandolo via, ghermendolo, agitandolo intorno a sè, in volute bizzarre. Poi, l'affanno delle danze cresceva, cresceva, i capelli della danzatrice si scioglievano sulle spalle, ella girava come folle, come convulsa, fino a che, appuntando la testa del serpente sul suo petto nudo, si faceva mordere, cadeva, moriva, fra il terrore di tutti. In questo ballo, in quest'ultima scena, Amina Boschetti esciva dal limite della danzatrice felice, vaga e spensierata: ell'assumeva un aspetto drammatico e il pubblico ne aveva un effetto più profondo e più alto. Quattro giorni dopo la chiusura del San Carlo, quattro giorni dopo l'ultima trionfale rappresentazione delle Figlie di Cheops, non ancora trentenne, in piena beltà, in pieno trionfo, Amina Boschetti moriva nel suo palazzo della Riviera di Chiaia, in pochi minuti per la rottura di un aneurisma. Niuno sapeva che ella fosse malata al cuore: forse, lo sapeva ella sola. E nella limitata intelligenza di Carmela Minino, la esaltazione dell'adorazione che ella portava ad limina Boschetti, la induceva oltre i confini della piccola anima popolana, la slanciava in pieno sogno. Quel tempio, quegli argenti, quei fiori, quegli incensi, quelle preghiere, quel culto d'amore e di lusso grandioso che oltrepassava il tempo, che oltrepassava la morte, non dicevano l'imperio della grande maga, ancora, sempre? Non era Amina Boschetti indimenticabile, indimenticata, come una suprema parvenza di poesia? Nessuna ne aveva preso il posto nella fervida ammirazione del pubblico e tutta una folla la rimpiangeva, ogni volta che una nuova ballerina appariva sulle scene del San Carlo: nessuno ne aveva preso il posto, nel cuore di colui che l'aveva amata. Nessuno, nulla, nè il tempo nè gli eventi avrebbero potuto prenderne il posto nella oscura vita, di Carmela Minino, la corifea. Colà, sola, innanzi a quella tomba, piegate le ginocchia innanzi a un diletto nome scritto sulla pietra, nell'ardore che le bruciava le vene, Carmela Minino promise, giurò, alla sua madrina morta, di fare sempre quello che ella aveva voluto la sua figlioccia facesse: promise, giurò di continuare quel mestiere duro, faticoso, pieno di pericoli, pieno di tristezze, che appena le dava il pane, che la lasciava mesi intieri senza lavoro, che la esponeva alle delusioni, alle amarezze, ai dileggi di tutto l'orribile mondo teatrale, che la teneva fra il disonore e la miseria e che, infine, l'avrebbe portata, chi sa, all'elemosina, all'ospedale: che importava? Ella aveva voluto così: e Carmela s'inchinava ancora una volta, ebbra di obbedienza, ebbra di devozione, oltre la tomba, sino alla morte e oltre la morte. Anzi, nella sua febbre di amore e di sacrificio, Carmela dimenticò completamente di pregare. Con la familiarità religiosa comune ai cuori semplici napoletani, con la empietà ingenua dei cuori passionali , ella era certa, certa, che il Signore aveva perdonato ad Amina Boschetti tutti i suoi peccati. La corifea rientrò in Napoli verso le cinque. Quasi annottava. Questa volta, per trovarsi più presto in Via Paradiso, alla Pignasecca, voltò dalla Stazione per la regione settentrionale di Napoli, Via Cirillo, Via Foria. Quando fu presso il Museo Nazionale, la pioggia cominciò a cader fitta fitta. Temendo pel suo vestito, pel suo cappello, per le scarpe, ella si rifugiò nella Galleria Principe di Napoli, dove centinaia di altre persone, senza ombrello, o con qualche vecchio ombrello consunto, aspettavano che finisse di piovere. Si faceva tardi, per Carmela. La pioggia diminuiva ed ella discese la scalinata della Galleria verso via Toledo; guardando innanzi a sè, ella scorse un elegantissimo coupé signorile fermo innanzi al grande arco della Galleria. Sul marciapiede, piegato verso lo sportello, nascondendone il vano, un signore parlava alacremente e attentamente ascoltava chi era dentro la vettura. Malgrado che le volgesse le spalle e che avesse cambiato vestito, Carmela riconobbe subito il Conte Ferdinando Terzi. Ella si fermò un istante sugli scalini, guardando verso il coupé, cercando timidamente di scorgere chi vi si trovasse dentro. Oh ella sapeva bene, Carmela, che Ferdinando Terzi nascondeva e mal nascondeva, una perigliosa e violenta relazione con una giovane signora dell'aristocrazia, a cui Emilia Tromba faceva o da paravento o da diversivo: sul palcoscenico se ne parlava, fra le ballerine che spettegoleggiavano sugli amori e sui vizi del mondo aristocratico, in cui spesso hanno delle rivali, e Carmela conosceva il nome e il volto giovanile, pensoso e dolce di colei che si diceva, amasse follemente Ferdinando Terzi. Ma pioveva ancora e fra le penombre del crepuscolo, il velo sottile della pioggia, nel giro largo e lento che Carmela Minino fece intorno alla piccola carrozza signorile, non giunse a distinguere nulla. Lentamente, la ballerina si allontanò lungo il marciapiede opposto, andando verso la sua casa: si voltò solo, sotto ombrello, due o tre volte, a guardare indietro. Il coupé era sempre fermo, Ferdinando Terzi - le pareva a Carmela - si era sollevato, guardandosi intorno, per diffidenza: poi si era curvato di nuovo, a discorrere. Ma in quell'ora, con quel tempo, lontano dal centro aristocratico di Napoli, fra le oscurità del crepuscolo che si facea sera, sotto la pioggia, chi potea, lassù, riconoscere Ferdinando Terzi e il coupé della marchesa.... chi, se non l'occhio umile ma acuto di una poveretta che ritornava dal cimitero, a piedi dalla ferrovia, tutta molle di umidità, senz'aver pranzato, anelando alla sua stanzetta solinga e a un po' di cibo? Fu più in là, verso piazza Dante, che una voce amabile interruppe il cammino di Carmela. Sulla soglia di uno dei grandi magazzini inglesi di Gutteridge, un giovanotto l'aveva interpellata: - Oh signorina Minino, buonaseral non mi salutate, neppure? - Buonasera, buonasera - ella mormorò, interdetta, fermandosi e pentendosi subito di essersi fermata. - Entrate un poco, signorina - soggiunse il giovane, liberando l'entrata. - No, non posso, signor Gargiulo, ho fretta. - Sempre così! E donde venite, sempre simpatica, sempre così simpatica e così cattiva, con me? Da una prova di ballo? - A quest'ora? - ella mormorò, senza badare ai complimenti. - Io vengo dal camposanto. - Scusate - disse Garginlo, interdetto. - Andate a casa? Posso accompagnarvi, un poco? - No, no, grazie, badate al vostro lavoro. - Oh, è già sera, non verrà più nessuno, dico a un compagno di supplirmi alla cassa. Permettete? - Nossignore, buonasera, signor Gargiulo - concluse lei, in fretta licenziandosi. Il giovane cassiere rimase un po' interdetto: ma lo stesso sorriso un po' fatuo gli restò sulle labbra, mentre guardava allontanarsi la ballerina. Egli era alto e magro, con un viso olivastro e un po' di baffetti bruni a cui teneva molto, accarezzandoli spesso: portava i capelli neri tagliati a spazzola sulla fronte e non mancava di una certa linea di eleganza, nella sua magrezza. Parlava con sovrabbondanza, come tutti i commessi di negozio, con uno spolvero di false buone maniere, con le unghie lunghe e accurate e un brillante al mignolo: vivente maluccio col suo stipendio di cassiere, ma sempre ben vestito, con quella ricercatezza speciale dei giovani commessi, amatore dello smoking e frequentatore accanito di teatri e di balletti borghesi. In teatro andava gratuitamente, per mezzo di un giornalista suo amico, specie a San Carlo: e, talvolta, con l'amico era andato ad aspettare l'uscita delle ballerine dopo lo spettacolo. Colà aveva visto passare, varie sere, Carmela Minino sola: le aveva diretto qualche parola, così, per far anche lui il corteggiatore di una ballerina. - Lascia fare - gli aveva mormorato l'amico giornalista. - È brutta ed onesta. - Ne sei certo - Certissimo. Sono otto o dieci, ancora zitelle, a San Carlo, fra cui la Minino. - Allora, sarebbe un bel guaio per me. - Naturalmente. Niente altro. Ma sempre che la incontrava, Roberto Gargiulo si avvicinava a Carmela, le faceva dei complimenti vivaci e delle allusioni poco velate. Ella rispondeva poco o nulla, si schermiva alla meglio, si allontanava,. Pure, Gargiulo che aveva fatto qualche conquista, nel monduccio borghese ove si aggirava, pensava che se avesse voluto, con una corte assidua, con qualche regaluccio, Carmela Minino avrebbe finito per amarlo. Conveniva a lui, però, insistere, poichè la ballerina era onesta, affrontare certe conseguenze, portare la catena di una relazione simile? Chi sa... più tardi... forse... e intanto, ogni volta che ella gl'impediva di continuare i suoi discorsi, egli conservava il suo sorriso fatuo, di seduttore che non vuole insistere. Carmela affrettava il passo, verso via Pignasecca, aveva crollato le spalle, lasciando Roberto Gargiulo. Egli non le dispiaceva e non le piaceva, ma ella adoperava con lui le armi di difesa abituali di una donna che ha paura dell'amore e paura del peccato. Credendosi anche più brutta di quello che era, una istintiva, selvatica diffidenza le veniva contro ogni accenno di corte; ella supponeva sempre un inganno maschile, una trama, per farla cadere nel peccato, per burlarsi di lei, subito dopo. Vagamente, nella sua coscienza di povera serva sociale, di povero atomo, senza forza e senza coraggio, ella sentiva che, un giorno o l'altro, questo sarebbe accaduto: ma con tutte le cure quotidiane ella respingeva da sè questo avvenimento, ciecamente respingendo chiunque avesse potuto rappresentarlo: adoperava le più puerili e le più inani armi di difesa, fuggendo le conversazioni, fuggendo i contatti, evitando ogni occasione, facendosi anche più rustica e più sgraziata. Oh non molti la corteggiavano, mal vestita, sempre sola, sempre danzante nelle ultime file, senza un gioiello, senza un fiore nei capelli, ma ogni tanto qualcuno, Roberto Gargiulo o don Gabriele Scognamiglio, il cav. Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, consuetudinario di San Carlo, che abitava in piazza della Pignasecca, o il figliuolo del direttore del palcoscenico, qualcuno di questi la perseguitava per due o tre giorni, per una settimana, dicendole sempre le stesse cose, volendo tutti la medesima cosa, ingannarla, cioè, pensava lei, condurla al peccato, per piantarla subito. No, no. Ella li scoraggiava, facendosi vedere sempre più sgraziata, a occhi bassi, troncando i discorsi, fuggendo, quasi sempre. - Buonasera, donna Carmelina! - disse una voce d'uomo, mentre ella sbucava sulla piazza della Pignasecca. - Ecco l'altro - mormorò fra sè, Carmela. - Buonasera, cavaliere. Era don Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, celibe impenitente, famoso donnaiuolo: un uomo che aveva già i suoi cinquantacinque anni, ma che portava la sua barba bianca bene tagliata e profumata, quasi sempre in marsina, la sera, pulito, svelto, che sapeva parlare alle donne, brutale, del resto, nel fondo del suo animo, freddo e calcolatore. - Donna Carmelina, volete venire a pranzo con me, a Frisio, stasera? - Grazie, cavaliere, ho già pranzato. - Allora, andiamo insieme al cafè concerto, donna Carmelina, che ne dite? Dopo mezzanotte, si cena... - Buonasera, buon divertimento, cavaliere - diss'ella, allontanandosi. - Siete proprio una scema, donna Carmelina, ve ne pentirete! - esclamò lui, ridendo, chiamando una carrozza per andare a pranzo. Ah, quando fu in casa, nella stanza al quarto piano, piena di umidità, Carmela Minino fu presa da una stanchezza mortale. A forza si trascinò sino al tavolino per accendere il lume a petrolio; e per forza se ne andò in cucina, ad accendere un po' di fuoco, per cucinarsi un paio di uova, che aveva in casa: niente altro, perchè sarebbe morta di fame, anzi che discendere quei quattro piani a comperarsi qualche altra cosa. Moriva di fatica, di lassitudine morale, di segreta tristezza: e mangiando quel poco di cibo, sopra un angolo nudo del suo tavolino, alla luce fumosa della sua lampada, pensò, sì, di essere una scema, come aveva detto don Gabriele Scognamiglio. Ma non se ne pentì, in quella sera.

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La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247294
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Quando salì le scale di casa sua, di quel quarto piano nel vicolo Paradiso, tutta sola, la ballerina abbassava il capo, ansando per una pena fisica e morale e il fiato le sibilava fra i denti stretti. Sotto il portoncino di casa sua, come ogni volta che l'accompagnava, dopo cena, Roberto Gargiulo le aveva domandato di lasciarlo salir sopra, un poco, non per tutta la notte, per una mezz'ora. E lei, ostinatamente, aveva rifiutato. In casa, no! Da che si era data a Roberto Gargiulo e la gente, purtroppo, lo aveva saputo, ella si vergognava immensamente dei suoi vicini, dalla fruttivendola rabbiosa che aggrottava le ciglia, vedendola passare, e faceva esclamazioni apertamente maligne, alla carbonaia, che seguitando a sferruzzare sulla sua calzetta, cRollava la testa malinconicamente, da don Santo il panettiere, che dava grandi colpi di coltello per tagliare i grossi tortani di pane, dicendo: che siamo noi, che siamo mai, noi, al giovane vinaio, figliuolo della Sangiovannara, che le aveva tolto il saluto. Persino Gaetanella la pettinatrice, adesso che ella si pettinava ogni giorno, veniva da lei a bocca stretta, con parole caute e sottolineate, con qualche allusione alle giovani che si rovinavano, sul teatro e via: e infine il suo portinaio, quello di cui essa più aveva scorno, che la guardava con un certo sogghigno strano, ogni volta che ella usciva a ora insolita. In casa, no, mai! Si vergognava di tutto quello che vi era dentro, della Madonna sospesa a capo letto, delle reliquie di sant'Antonio di cui era tanto devota, di tutto quello che le rammentava la sua giovinezza ancora casta, ancora pura. Non esprimeva nulla di ciò, a Roberto, per paura che si burlasse di lei; ma si ostinava a non volerlo, in casa. La stanza era così miseramente arredata, malgrado le sue fatiche per tenerla pulita, che una fiamma le saliva al viso all'idea che il suo amante, così pretenzioso sullo chic, volesse penetrarvi. Quella sera, anche, egli aveva insistito, presso lei, infastidito di doverla vedere, da solo a sola, in un alberghetto di terz'ordine, verso la ferrovia, una locanduccia detta La bella Napoli, come se ella fosse una donna maritata, con un marito geloso: infastidito, anche, senza volerlo dire, di dovere spendere qualche lira, per questo convegno, quando ella era sola in casa, e con cinquanta centesimi dati al portinaio, costui avrebbe taciuto. - No, no, no - aveva replicatamente risposto lei, con la cocciutaggine dei timidi, dei paurosi. Quella sera istessa, Roberto Gargiulo le aveva offerto di farle cambiar casa, di affittarle una stanza mobiliata, in un'altra via, in un altro quartiere, dove nessuno la conoscesse; offerta già fattale altre volte, ma sempre vagamente, senza mai fissarne i termini. Ella aveva sempre rifiutato: e, in fondo, Roberto Garginlo sarebbe stato bene mistificato, se ella avesse accettato. Una stanza mobiliata, almeno quaranta o cinquanta lire al mese; spesa insopportabile al bilancio del giovane cassiere: e, insieme, tanti altri obblighi, una serva da pagare, il portinaio da compensare, e le padrone di casa corrompitrici e avide, e il vincolo con Carmela fatto più saldo, più forte da questo cambiamento di vita, da lui voluto. Così, per scimmiottare il gran signore, egli aveva pronunziato, due o tre volte, questa frase: felice di non essere preso in parola. Ella non aveva voluto, seria, con quel senso di economia rigorosa che le veniva dalla povertà, con quel senso di conservazione di tutte le creature semplici, che amano la loro vecchia strada, la loro brutta casa, i loro cattivi vicini. Pure, ogni volta che non lo lasciava salire in casa, Roberto Gargiulo andava via in collera. Sicuro di esser adorato da Carmela Minino, sapendola obbediente a ogni suo cenno, certissimo di tenerla soggiogata sotto il fascino del suo amore, della sua generosità - non le faceva sempre dei regalucci? - questa ribellione lo indignava. - Dunque, ti vergogni di quel che hai fatto? E perchè lo hai fatto? - la investiva, arrivando alle ingiurie. - Perchè... perché... - diceva lei, cRollando il capo, misteriosamente. Giunta innanzi alla sua porta e avendo aperto, senza togliersi nè il cappello, nè la giacchetta, all'oscuro, con la fioca luce che veniva dalla finestra, donde erano chiusi solo i vetri, ella si lasciò cadere sopra una sedia, che aveva urtato col piede, e si nascose il viso fra le mani. Ella sapeva che, adesso, Roberto Gargiulo se ne tornava alla sua casa, sull'altura di San Potito: e che, dormitovi su, non avrebbe più pensato alla loro lite, piccola del resto. Ma essa, sola, all'oscuro, si sentiva così miserabile, così perduta, così disperata, che si chiese, ad alta voce, come se vi fosse un'altra persona: - Ma che ho? Che mi è successo? Ah pensando, pensando, in quella ombra, in quel silenzio, in quell'ora alta della notte, ella lo vedeva bene, quello che le era successo! Le era successo che aveva commesso il suo primo e il suo grande errore, quello che non si ripara mai più, quello per cui solo Dio, forse, può aver misericordia, commesso non per passione, non per amore, non per vanità, non per interesse, ma perchè era una creatura fiacca e senza volontà, incapace di resistere, incapace di reagire: aveva offeso il Signore e la Madonna, aveva addolorato la benedetta anima di sua madre che era, forse, in Purgatorio, si era perduta nell'opinione della gente onesta, non si poteva più confessare, non si poteva più comunicare, così, così, senza una ragione forte, possente, che la scusasse, che le servisse di compenso. Ella era molto legata a Roberto Gargiulo per gratitudine delle sue gentilezze, della sua bontà, dei doni che le faceva, ella avrebbe fatto per lui ogni sacrificio, per mostrargli la propria riconoscenza, ma volergli bene, come si vuol bene a un amante, questo non lo sentiva. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perche l'ho fatto? Nella notte che si faceva più fredda, in quella stanza in cui aveva battuto i denti tutto l'inverno, sotto le sue grame coverte, ella rivolgeva a sè questa frase che, tante volte, nelle dispute, era proferita da Roberto: e niuna risposta ne veniva dai recessi oscuri della sua anima, dove, pure, qualche cosa di profondo viveva. E come se ne era pentita, subito dal primo momento, si pentiva quella notte, di ritorno da quella cena alla Regina d'Italia, quella cena che ella aveva inghiottita di traverso, fra quella gente curiosa notturna, con quelle pretensioni, quei malumori, quegli sgarbi di Roberto Gargiulo, con quel terribile discorso di Don Gabriele Scognamiglio, il discorso in cui le si rivelava, limpidamente e crudamente, l'errore passato e il dolore futuro. Forse che Roberto Gargiulo veramente era innamorato di lei? Non era ella brutta, malgrado la gioventù, malgrado i begli occhi neri e i bei capelli neri, e Gargiulo non era, forse, un bel giovane e aveva avuto delle altre amanti, almeno come diceva lui, centomila volte più belle di lei? Che ci poteva trovare in lei, Roberto Gargiulo? Per questo la obbligava a caricarsi le guancie di belletto, e tingersi gli occhi e le labbra, a riempirsi di gioielli falsi, a lavarsi le mani con la pasta di mandorle, perchè la doveva trovare rozza, comune, brutta, servile. L'amava Gargiulo? Ma che! ma che! Ella non era di quelle donne cui si vuol bene: la fortuna d'ispirare un grande amore, almeno un amore forte, non le era riserbata. Ciò era fatto per le prime ballerine, per le comprimarie, per quelle felici di prima fila, che sanno ballare bene, che hanno le gonnelline sempre fresche, i bustini di raso sempre nuovi, le mani bianche della donna oziosa e qualche bel gioiello, al collo: non era ella una infelice ballerina di terza fila, perduta fra le sorelle Musto e Marietta Sanges, fra Filomena Scoppa e Checchina Cozzolino, portando delle gonnelle appassite, dei calzari sdruciti e niente al collo? Gargiulo, amarla? Ma che! - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Ella se ne pentiva amaramente. Le gioie fisiche dell'amore nulla avevano detto al suo temperamento abituato alla castità: ella le subiva senza mormorare, come una punizione del suo peccato: in certi giorni le davano una ripugnanza invincibile. Sentimentale, di quella piccola sentimentalità meridionale, ella avrebbe voluto che Roberto Gargiulo le scrivesse sempre delle lunghe lettere, come le prime, che le trascrivesse dei versi, da qualche libro, che le portasse dei fiori, che le dicesse tante dolci parole, che le facesse tante carezze, soavi e pure: e lui, invece, avendo preso una ballerina per amante, riteneva inutile, oramai, tutto questo che si fa con le signorine per bene, con la fidanzata e assumeva un tono disinvolto, superiore, cinico, di persona rotta alla vita. Sì, le faceva dei doni: una quantità di cose, che le mancavano, di cui aveva sentito molto la mancanza, poichè sono necessarie alla vita, gliele portava lui, col suo contegno bonario e largo di persona generosa. Ella aveva dei fazzoletti di falsa battista, delle calzette di mezza seta, una sottana di surah, comperata di seconda mano: qualche gioielletto di poche lire, lo aveva. Le aveva dato il vestito lilla, per Pasqua, e gliene prometteva uno di setina, a righe bianche e nere, per l'estate. Egli spendeva, per le piccole cene, per le piccole colazioni, per le carrozze: forse, ella gli costava già tre o quattrocento lire, in due mesi di relazione. Ma Carmela stessa, non era costretta, dalla sua relazione, a una quantità di cose che non avrebbe mai fatte? Non cucinava più da sè, per non rovinarsi le mani, come egli diceva: e aveva una servetta, cui dava otto lire il mese. Non aveva dovuto spendere in un paio di scarpini, in un busto nuovo, in quella giacchetta che un sarto le aveva fatto, a credito, pagando due lire la settimana? Ora, ai 15 maggio quando ricorreva il compleanno di Roberto, ed ella lo sapeva, non doveva ella disobbligarsi, facendogli un dono, spendendo almeno una trentina di lire in un portasigarette d'argento? Egli era un giovine così innamorato dello chic! Ella si trovava singolarmente spostata, in finanze. Di solito, nei quattro mesi in cui San Carlo era aperto, con quelle centocinque lire mensili, ella faceva delle economie, le quali, in estate, insieme a qualche scrittura a Bari, a Caserta, a Reggio, dove le davano un paio di lire al giorno, l'aiutavano a vivere. Ora, da due mesi, non faceva più un soldo di economia: aveva speso tutto, per figurar bene, con Roberto: e aveva anche qualche debito, il che la faceva tremare di dispiacere. Tutte le sue abitudini erano mutate: ella non dormiva più quanto le serviva per riposarsi, mangiava dei cibi che le facevano male, ad ore insolite, era tormentata sempre da una grande fretta. Nei crepuscoli liberi, non andava più al vespero nella parrocchia dei Pellegrini; per la messa aveva cambiato chiesa, lasciando Io Spirito Santo per la Madonna delle Grazie, dove niuno la conosceva. Non indossava più lo scapolare della Vergine del Carmine, sua patrona, invocata in ogni momento di pena di tristezza: si era tolto dai fianchi il cordone di Terz'Ordine di san Francesco, poichè non si credeva più degna ne dell'uno, nè dell'altro. Viveva in istato di peccato: in quella Pasqua di risurrezione non aveva potuto comunicarsi. Dio è misericordioso, Dio perdona, Dio assolve: ma bisogna uscire dal peccato, ed ella vi era dentro. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Se vi pensava, innanzi, nell'avvenire imminente, ella tremava di ribrezzo, di sgomento. Quanto poteva durare, questa relazione con Roberto Gargiulo? Ella lo sentiva, non legato a lei, non preso con l'anima e coi sensi; ma lusingato nell'amor proprio maschile per aver sedotto una giovane che si era mantenuta onesta, sino allora, malgrado la povertà e malgrado le insidie del palcoscenico; accarezzato nelle sue fantasticherie di piccolo impiegato di commercio, spostato nel voler fare la vita di piacere del signore; ma tutto contento, esteriormente, nella sua vanità meridionale di andar a teatro la sera, per sorridere ostentatamente all'amante ballerina, che, arrivando innanzi alla ribalta, ballando, con tutta la sua fila, ostentatamente lo saluta e gli sorride. Egli era gentile, ma non tenero; egli era galante, ma non amoroso; egli era facile al dono, ma al dono che serviva a lui, che doveva farlo figurare come un uomo largo, spendereccio, spensierato, non al dono pratico, utile, dell'amante provvido e innamorato. D'altronde, spesso Roberto Gargiulo aveva dei mutamenti di umore che Carmela Minino osservava subito e di cui non domandava conto, con la sua timidità abituale, ma che la turbavano molto. Si mostrava pensieroso, preoccupato. Talvolta usciva in escandescenze, contro la umiltà della sua condizione, mentre egli era nato con istinti principeschi, con gusti di uomo raffinato: parlava dei ricchi, specialmente del suo principale, che era già milionario, con dispetto, con rabbia. Spesso nominava la cifra di danaro che gli era passata per le mani come cassiere, con una intonazione bizzarra, che faceva rabbrividire di un'ignota paura la sua amante. Spesso, taceva. Ella sapeva che nel magazzino inglese erano molto buoni, molto cortesi, non a parole soltanto, ma anche a fatti, con gli impiegati, pagandoli bene compensandoli per il lavoro soverchio, dando loro delle belle gratificazioni quando le chiusure d'inventario erano brillanti, ma che, in cambio, domandavano intelligenza, zelo, solerzia, integrità, correttezza, buoni costumi. Roberto Gargiulo le aveva nascosto che, nel passato, egli aveva avuto varii freddi richiami, circa la sua condotta privata, dal capo della casa; pure, qualche cosa di ciò Carmela Minino aveva intravvisto, da qualche frase sfuggitagli. Subito, Roberto Gargiulo, che prometteva di mutar vita, faceva due o tre mesi di astinenza, nel senso che andava poco a teatro, non si faceva vedere con donne, non frequentava le trattorie e i caffè notturni. Poi ricominciava. Adesso, da più di due mesi, egli si faceva vedere dappertutto con Carmela Minino, con un contegno di uomo superiore, di mondano lanciato nella esistenza più ardente dei piaceri, infischiantesi della casa inglese, del suo rigido capo. Pure, talvolta, aveva dei lunghi minuti di silenzio. Forse spendeva troppo, anche. Aveva qualche economia, ma doveva essere finita da un pezzo. Su che spendeva? Qualche giorno diventava avaro; non prendeva neppure una carrozzella per mezza corsa, per risparmiare i sette soldi, non entrava, con Carmela, in caffè, contentandosi di pagarle un bicchiere di acqua e sciroppo dall'acquafrescaio, spendendo un soldo. Aveva, dei debiti, forse, di già. E ripensando a tutte queste cose, che notava ogni giorno, senza che neppure una le sfuggisse, sentendo che il suo errore pesava egualmente sulla vita di Roberto Gargiulo, come sulla sua, ella affannosamente, si chiedeva: - Perchè l'ho fatto? Perchè l'ho fatto? E la ragione intima, profonda, segretissima che era chiusa in un recesso oscuro della sua anima, ella non voleva dirla nè ad altri, nè a se stessa.

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