Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbassato

Numero di risultati: 20 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

L'angelo in famiglia

182644
Albini Crosta Maddalena 1 occorrenze
  • 1883
  • P. Clerc, Librajo Editore
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Pure credilo; infonde un sovrumano coraggio la sicurezza che altri nelle nostre condizioni fisiche, morali ed intellettuali si è abbassato tanto da meritare di essere da Dio innalzato al seggio dei Santi! Quando tu avrai cercato e trovato una Santa che ti proponi e prometti da imitare, replica come S. Agostino: Quello che hanno fatto altri e perchè nol potrò far io? Credi, credi, mia tenera, mia dolce amica; se tu ragionerai in questo modo ed agirai conformemente, le difficoltà che ti presenta il tuo carattere, a volte ostinato e caparbio, a volte fiacco e irresoluto, e va dicendo; quelle difficoltà scompariranno, o se esisteranno tuttavia, non sarà per altro che per rendere più meritorio il tuo trionfo. Credi, credi, se tu agirai in questa maniera, tu saprai evitare gli scontri dei diversi caratteri che, senza la tua virtù, si urterebbero e finirebbero collo spezzare l'armonia domestica e con essa il buon andamento degl'interessi, la saggia educazione della famiglia, per diventare scandalo e pietra d'inciampo ai fratelli, ai figliuoli, ai famigliari. Per dirti una parola che ti possa richiamare soventi volte al pensiero l'importanza del correggere il tuo carattere e di sopportare in pace l'altrui, scrivi sul tuo cuore quella che sto per dirti e che ripeterai sovente a te stessa: Voglio, fermamente voglio migliorare me stessa, e voglio sopportare in pace gli altri. Poi volgendoti a Dio digli col cuore:Signore, se Tu vuoi puoi mondarmi.

Pagina 312

Il codice della cortesia italiana

184486
Giuseppe Bortone 2 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
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Ci si muove dal proprio posto soltanto quando il sipario è abbassato. E non ci si precipita verso l'uscita, specialmente se si è con signore; né ci si accalca allo spogliatoio. Qui, ritirando le proprie cose, si paga la quota prescritta, beninteso anche per le signore che si accompagnano, o si dà una mancia in proporzione degli oggetti depositati e del posto occupato in teatro. Una signora che si è accompagnata a teatro, specie se invitata, si riaccompagna a casa: onere, in verità non sempre gradito ai signori uomini. Se essa dispensa dal farlo, non si insisterà. Se desidera andare in vettura, si cerca questa e si paga la corsa. Se si dispone di vettura propria, salvo casi eccezionali, per i quali bisognerà scusarsi, non si manda a prenderla o a riaccompagnarla, ma si va. Una signora che s'invita da sé potrà essere dispensata dal pagare la sua quota: se lo rifacesse, insisterà per pagare. Va da sé che queste norme subiscono oggi delle profonde modificazioni - nei particolari, non nelle linee generali - perché, essendo le donne un po' da per tutto, si mettono spesso d'accordo, per esempio, con i colleghi d'ufficio; nel qual caso, si fa « alla romana ». In questo caso, specialmente, le signore e le signorine insistano per evitare ai signori uomini la noia e, talora, il supplizio dell'accompagnamento. Credano: per quanto cavallereschi essi sieno, preferirebbero pagar per loro due posti a teatro piuttosto che accompagnarle a casa. E poi, che bisogno c'è? Era doveroso al tempo dei rapimenti briganteschi o romantici, e quando, per la solitudine e per il buio delle vie, si poteva andare incontro a molestie. Ma oggi chi oserebbe dar noia a una donna che vada veramente per i fatti suoi? Senza dire che qualsiasi donna, sol con uno sguardo, può agghiacciare e far fare marcia indietro al piú intraprendente ed insistente dei seccatori. In Italia, all'uscita dal teatro, non usa accompagnare le signore al caffè o al ristorante: altrove, specialmente in Francia, è quasi di prammatica. C'è, in fine, chi, al teatro, si vergogna di farsi vedere « in alto » e preferisce non andarvi. È uno dei tanti indizi della stupidità umana; prima di tutto, perché, al teatro, si va per noi, per un nostro godimento, non per gli altri; il secondo luogo, se c'è della gente che crede di « essere onorata » da una poltrona o da un palco delle file cosí dette nobili, s'accomodi pure; tanto piú se la sua borsa non ne soffre: ma si può anche « onorare » una modesta sedia, o un palco dalla terza fila in su. È forse una colpa, per le persone intelligenti ed oneste, esser povere?

Pagina 195

Se il pelo è abbassato, si batte il velluto con un giunco flessibile e si espone dal rovescio al vapore d'acqua. Per rimettere a nuovo i vestiti, tuffarli e agitarli in un bagno di benzina ; passarli in un nuovo bagno di benzina; se erano molto sudici, in un terzo: avvolgerli in un panno pulito , strizzarli e metterli ad asciugare all'ombra. Per evitare il raccorciamento dei tessuti di lana. - S'immergono in acqua con allume o con acetato d'allumina. Dopo asciugati, s'immergono nuovamente in acqua con fosfato di sodio ; indi, si lavano con acqua e sapone, e si risciacquano. I guanti di pelle si lavano benissimo strofinandoli con un pezzo di flanella impregnata di una miscela fatta, in parti uguali, di sapone in polvere e acqua ossigenata. I guanti lavabili di pelle. - S'infilano e si lavano le mani in acqua tiepida e sapone di Marsiglia. Si risciacquano le mani inguantate in parecchie acque tiepide: nell'ultima, si può aggiungere qualche goccia di glicerina. Si levano i guanti, si sfregano leggermente con uno straccio delicato, s'imbottiscono di ovatta e si sospendono. Non asciugarli al fuoco. Perché la benzina non lasci l'alone, è bene mettervi qualche presa di fecola di patate. Prima di smacchiare è bene far risaltare ed ammollire le macchie, esponendole al vapore acqueo ; ed è bene altresí non bagnarle coll'acqua prima di levarle. Per ben pulire le pellicce, si adopera della crusca fatta riscaldare in un vaso. La si getta sulla pelliccia distesa e si sfrega. Sbattere dal rovescio, spazzolare. Le pellicce bagnate non si asciugano, né si lisciano, ma vanno scosse delicatamente e, lontano da sorgenti di calore, messe ad asciugare nel senso contrario del pelo. Le volpi, per es. con la testina in giú. - Ovvero si stendono e si spolverano di acido borico in scaglie. Dopo alcune ore, si spazzolano delicatamente nel senso del pelo, o basta soltanto scuoterle. Le pellicce chiare si puliscono stendendole su una tavola, spazzolandone delicatamente e accuratamente il pelo, e stropicciando parecchie volte con magnesia calcinata o con creta in polvere. Passarvi poi una flanella morbida e pulita, scuotere la pelliccia e batterla con un giunco fine e flessibile fino a che non vi sia piú polvere. Le pellicce scure si puliscono come le precedenti; soltanto che, invece della magnesia o della creta, bisogna adoperare la segatura di cedro. Contro le tarme prima di riporre le lane, usa spolverarle di borace in polvere; mettere nei sacchi dei rami di valeriana, di ruta, di lavanda, di antropogono; dei fogli di carta assorbente imbevuti in essenza di trementina ; o, qua e là negli armadi, dei pezzettini di spugna imbevuti di essenza di lavanda, o dei sacchettini con della buona canfora: spandere con uno schizzetto, sugli oggetti di lana, pellicce, ecc. un po' della seguente miscela: Foglie di assenzio gr. 15; pepe nero gr. 10; canfora gr. 5; fiori di piretro gr. 5: polverizzare separatamente e mescolare intimamente. Contro mosche e zanzare. - Per evitare che entrino in casa, bruciare qualche granello di benzoino o di canfora, o un cucchiaio di polvere di fiori di piretro, o un cucchiaio di foglie secche di zucca: o avere nelle stanze una piccola spugna imbevuta di essenza di lavanda; o una pianta di ricino coltivata in vaso; o tenere sui davanzali delle finestre delle bacinelle con soluzione di formolo. Per evitare le punture delle zanzare, lavarsi seralmente viso, collo e mani con infusione concentrata di camomilla o con decozione di legno quassio. Per non sentirne il bruciore, schiacciare sulla puntura un fiore di geranio; o toccare con la tintura di iodio, con l'ammoniaca, con l'alcool, con la glicerina. Verdura in sala. - Riempire un piatto di sabbia fine, inumidirla, cospargerla fittamente di semi di crescione. Mantenere la sabbia sempre umida. Lattuga improvvisata. - Dopo aver tenuto per 12 ore i semi di lattuga nell'alcool denaturato, si seminano in terriccio, concimato con calce viva e stereo di colombi. Si innaffia frequentemente e, dopo due giorni, si può cogliere la lattuga. Per prolungare la vita dei fiori, tenerne i gambi in: acqua l. 1, sali d'ammoniaca gr. 5 con un pezzetto di carbone di legna. Lavatura dei capelli. - Prima si spazzolano con cura; poi si lavano con acqua al legno di Panama; infine, si risciacquano con acqua tiepida, in cui si sia messa qualche cucchiaiata di buon aceto. Sudore eccessivo alle mani. - Fare parecchie frizioni al giorno con la seguente miscela: Alcool, gr. 50, glicerina gr. 50, acido salicilico gr. 5, balsamo del Perù gr. 5. Per i geloni. - Se la pelle è soltanto arrossata frizionarla mattina e sera con alcool benzoinato all'adrenalina all'1 %. Se la pelle è lesa, tenere il gelone sempre coperto e mettervi su una pomatina picrica all' 1%. La bowle si prepara mettendo in un boccale, parecchie ore prima di servirsene, del vino bianco, con qualche cucchiaiata di zucchero e qualche bicchierino di cognac. Vi si aggiunge un po' di frutta di stagione: delle fragole, o delle pesche, o delle albicocche, ecc., tagliate in piccoli pezzi (se si adoperano quelle sciroppate, bisogna diminuire la quantità dello zucchero: non manca quasi mai l'ananas) e si mette il boccale in fresco. Al momento di servirsene, nelle famiglie modeste, si aggiunge dell'acqua minerale, anche artificiale e preparata lí per lí; nelle famiglie che possono, si aggiunge una bottiglia di spumante. Si serve in bicchieri col manico, attingendo dal boccale con lo speciale ramaiolino; e si offre tanto nelle ore pomeridiane quanto in quelle serali. Torta imperiale. - Battere bene 6 torli d'uovo: incorporandovi a mano a mano gr. 250 di zucchero, gr. 250 di mandorle pestate fini, un arancio e un limone grattugiati interamente, con la buccia. Aggiungere i bianchi montati a neve, versare in una teglia imburrata e mettere al forno moderato per una ventina di minuti. Spolverare con zucchero vanigliato. Tartufi di città. - Sciogliere al fuoco, con una cucchiaiata di latte, gr. 150 di cioccolata in polvere. Ritirare e incorporarvi successivamente 1 etto di ottimo burro, gr. 80 di zucchero, gr. 60 di mandorle pestate, un pizzico di vaniglina, 2 torli d'uovo. Dopo alcune ore, farne dei tartufini e rotolarli in altra cioccolata in polvere. Noccioline di serra. - Pestare gr. 200 di nocciole tostate, aggiungendovi gr. 200 di zucchero e gr. 200 di cioccolata in polvere: odore di vainiglia. Impastare con 2 bianchi d'uovo, amalgamare, farne delle palline e rotolarle in zucchero cristallino. Liquore di caffè. - A sciroppo fatto con zucchero gr. 300 e acqua gr. 100 aggiungere caffè preparato con acqua gr. 250 e polvere freschissima di moka gr. 70. Completare con alcool a 95 gr. 150. Odore appena di vainiglia. Filtrare. - Di mandarini. - In un litro di alcool a 95, in infusione per 2 giorni, un bastoncello di cannella frantumata, 2 chiodi di garofano, una noce moscata grattugiata e la parte piú superficiale della buccia di 10 mandarini e 2 aranci. Mescolare poi con uno sciroppo fatto con acqua l. 1 e zucchero kg. 1. Lasciar riposare un giorno e filtrare con carta. - All'uovo. - Frullar bene 6 torli d'uovo, finchè divenuti biancastri. Far bollire 500 gr. di latte con 400 gr. di zucchero. Quando questo è perfettamente raffreddato, incorporarlo con le uova. Aggiungere in ultimo, adagio adagio e rimestando, 130 gr. di alcool a 95 e 130 di buon marsala, in cui si sia sciolto un cucchiaino abbondante di zucchero vanigliato. Conserva di caffè. - Par bollire in gr. 1500 d'acqua, per dieci minuti, gr. 300 di caffè macinato. In altro recipiente, far sciogliere a fuoco forte gr. 650 di zucchero solo. In questo zucchero color oro scuro si versa il caffè depurato dei fondi; e siccome lo zucchero si rapprende, lo si lascia liquefar di nuovo a fuoco lento. Raffreddato, imbottigliare: si conserva a lungo: un cucchiaino in una tazza di latte; due in una tazza d'acqua bollente: ottimo dissetante. Liquore di ginepro. - Acquavite litri 1, bacche gr. 75, anici gr. 2, cannella gr. 1 ; far macerare per 8 giorni filtrare e mescolare con sciroppo di acqua gr. 125, zucchero g. 250. Le bacche di ginepro si bruciano anche negli appartamenti che si vogliono disinfettare. Vino chinato. - Si fanno macerare in 50 gr. d'alcool gr. 30 di corteccia di china calisaya polver. per 24 ore. Si aggiunge un litro di buon vino, rosso o bianco. Si lascia il tutto per 10 giorni, agitando ogni tanto, poi si cola e si filtra. Tonico, aperitivo, febbrifugo. - Far macerare per 48 ore in gr. 200 di alcool a 95 gr. 30 di china rossa polv, e gr. 30 di china gialla. Aggiungervi poi due litri di ottimo vino rosso o bianco: lasciare cosí per 10 giorni, agitando ogni tanto; indi, filtrare e imbottigliare. Mandorlata. - Parti uguali di zucchero e di mandorle: queste né tostate né liberate della seconda buccia. Pochissima acqua al fuoco, farvi sciogliere lo zucchero; aggiungere le mandorle e qualche cucchiaino di cioccolatta o di cacao. Far addensare e versare a cucchiaiate su un marmo unto di olio. Biscotti primavera. - Fior di farina 0,200, zucchero 0,125, latte mezzo bicchiere, burro 0,25 (o due cucchiaiate d'olio), la buccia di un limone grattugiata, bicarbonato gr. 5, cremortartaro gr. 5. Impastare, distendere come sfoglia, tagliare e al forno per dieci minuti su teglia infarinata. Torta casalinga. - 16 cucchiaiate di latte, 4 di olio, 6 di zucchero, la buccia grattugiata di un limone, fior di farina quanto basta per composto denso scorrevole. Aggiungere bustina di buon lievito (o 5 gr. bicarb. e 5 di cremortartaro) e al forno moderato in teglia unta. Ponce imperiale. - Mettere in un boccale tre cucchiaini di tè, la parte piú esterna della buccia di un limone, poi il limone ripulito della parte bianca, sbarazzato dei semi, e tagliato in pezzetti: aggiungervi gr. 500 di zucchero. Versarvi sopra un litro d'acqua bollente, coprire e lasciare in infusione per mezz'ora. Indi, passare il tutto attraverso uno staccio di seta o un panno; aggiungere un litro di buon rhum, agitare e imbottigliare. Quando si serve, si riscalda senza farlo bollire.

Pagina 305

Galateo per tutte le occasioni

187922
Sabrina Carollo 1 occorrenze
  • 2012
  • Giunti Editore
  • Firenze-Milano
  • paraletteratura-galateo
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Se abbassato, serve per far entrare aria fresca, per asciugare i capelli lavati di corsa o per annusare il profumo di primavera quando si attraversa la campagna in maggio. Entrare. Tendenzialmente non dovrebbe fuoriuscirne nulla. Tantomeno cartacce e spazzatura varia. In ordine di maleducazione, i fumatori vincono di gran lunga la competizione: con la precisione metodica con cui un ecologista ricicla ogni cosa, essi sono in grado di gettare dall'auto in corsa ogni parte inutile che riguardi la propria passione, dalla plastica trasparente che avvolge il pacchetto alla cenere accumulata nel posacenere (che fosse solo quella... ), dal filtro all'intero pacchetto vuoto e accartocciato. Professionisti della zozzura, non hanno ben capito che il resto del mondo che sta fuori dall'abitacolo non è esattamente un enorme cassonetto. Anche gli habitué della gomma da masticare salgono sul podio, con lanci articolati onde evitare il ritorno in cabina della pallina disgustosa, seguiti da presso dai parenti stretti, gli scartatori di caramelle, che naturalmente non immaginano che si possa buttare la carta che avvolge il confetto nel posacenere dell'auto. A tutti costoro ricordiamo che usare le strade come immondezzaio comune è pratica medievale e altamente cafona.

Pagina 180

Nuovo galateo

189478
Melchiorre Gioja 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
  • paraletteratura-galateo
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Commette, a cagione d'esempio, un atto inurbanissiiuo un uomo che palpa il volto ad un altro suo uguale, e peggio se maggiore d' età; giacchè quest'atto di benevolenza suole usarsi co' fannculli, e nissuno vuoi essere abbassato a questo livello. Sembra dunque che Omero (seppur non lo scusa la costumanza de' suoi tempi) dimenticasse la convenienza allorchè ci rappresentò Teti, la prima delle Dee marine, in atto di palpare il volto a Giove: azione doppiamente inurbana, poiché Giove, signore dell' Olimpo, superava Teti in dignità e in età. Allorché alla mancanza dell'età supplisce la dignità del rango, l'inurbanità svanisce. Un principe giovine, a cagione d'esempio, può mettere la mano sulla spalla ad un vecchio in attestato di benevolenza e collo scopo di rianimare nel di lui animo la speranza; ma sarebbe cosa inurbana se quest'atto succedesse senza il supplimento della dignità. Un suddito che presentasse in pubblica udienza una presa di tabacco al suo sovrano, commetterebbe un atto d'inurbanità relativa; giacchè questo segno d'amicizia e di confidenza tenderebbe a togliere la distanza che il sovrano dal suddito disgiunge. Un atto innocente e affettuoso può dunque divenire tanto più relativamente inurbano, quanto maggiore famigliarità sostituisce al rispetto. La somma e l'importanza delle perfezioni di cui sono dotati gli uomini essendo diverse, nasce in ciascuno una diversa aspettazione di riguardi; quindi se con tutti usate riguardi eguali, offendete l'amor proprio de' superiori, e scemate pregio alla vostra pulitezza. Vengono in casa vostra un professore ed uno spazzacamino: se al comparire del secondo v'alzate, come v'alzaste al comparire del primo; se correte a porgergli lo scanno; se gli fate portare il caffè; se gli dirigete il discorso egualmente che al professore, egli é fuor di dubbio che l'amor proprio di questo resterà offeso dalla vostra condotta che tende a confonderlo collo spazzacamino. Quindi, allorché per lodare un uomo, si accerta ch'egli è uguale con tutti, si dice letteralmente una sciocchezza, la quale, per essere giustificata, ha bisogno di spiegazioni. In somma gli atti esterni che dimostrano affetto, stima, disposizione a servire gli altri, devono corrispondore alla qualità e al numero delle loro perfezioni; e però devono quelli crescere e scemare, secondo che crescono o scemano queste. II sentimento della convenienza è il sentimento pronto e dilicato delle perfezioni altrui e del grado di stima corrispondente, renduto sensibile con atti esteriori.

Pagina 60

Saper vivere. Norme di buona creanza

193546
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 2012
  • Mursis
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Il gran velo nero, abbassato, dal cappello, innanzi agli occhi, e alla persona si porta così, per i primi sei mesi: dopo, sino alla fine dell'anno, si rigetta indietro: e ciò serve per le signorine, nel lutto dei genitori, per le maritate nel lutto di marito e di genitori. Nei primi tre mesi di lutto grave, non si apre il pianoforte in casa, né si prende lezione di canto; basta un mese di questo rispetto, per i lutti meno gravi. La carta di chi è in lutto, i biglietti da visita, saranno sempre listati di nero, per qualunque occasione. Chi è in lutto, uomo o donna, non porta mai fiori sulla persona; non festeggia né compleanno, né onomastico; ma può, per lettera, partecipare agli onomastici o compleanni di persone amiche.

Pagina 158

Galateo morale

196483
Giacinto Gallenga 1 occorrenze
  • 1871
  • Unione Tipografico-Editrice
  • Torino-Napoli
  • paraletteratura-galateo
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Giacché sapendo costoro di non esser saliti per valore e merito proprio, e temendo che conosciute le cause del loro innalzamento non venisse ad essere abbassato il credito che son pervenuti ad acquistarsi, cercano, col tenersi lontani dai loro pari d'una volta, far dimenticare la memoria della loro antica bassezza. Plebei di natali, ma più di cuore, non hanno verun concetto della vera civiltà e gentilezza, e offrendosi loro occasione di poter giovare ai parenti, preferiscono far loro ingiuria col proprio disprezzo, e crederebbero avvilirsi e temerebbero di recar nocumento al loro nome nuovo coll'usar cortesia a chi è da meno di loro. I Piemontesi ad indicare codesta razza sciocca e petulante hanno un loro proverbio particolare che mi duole di non poter citare in un Galateo: ma i lettori miei compatrioti lo sanno a memoria, perché occorre loro di doverlo sovente applicare. Piuttosto dirò a chi vuole e può far senza di costoro, di non mettersi in pensiero del loro sgarbato orgoglio e di metterli puramente a fascio con quelli di cui diceva per la bocca dell'Allighieri il mantovano poeta:

Pagina 80

Lo stralisco

208483
Piumini, Roberto 3 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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Il pittore, ascoltando, aveva abbassato le mani. Le riportò giunte alle labbra, e disse: — Non potremo certo far posare la monaca in chiesa: sarebbe indiscreto, e anche inutile... Quello che serve può esser fatto in altro modo. — Come, frate Filippo? — chiese la badessa, che ormai faticava a non mostrare godimento per quella pia cospirazione. — Ritrarrò la prescelta in sede separata, — disse Filippo con approvanti cenni del capo, quasi l'idea nascesse in quel momento. — Sarà utilissima prova, e assai piú riservata. — Si può fare, frate Filippo... C'è una piccola stanza luminosa che dà sul chiostro. E poi? — E poi... — indugiò il pittore, — poi, collaudata per così dire l'immagine, io la passerò sulla tavola grande, con le modifiche che il santo soggetto richiederà. Sarà quel volto, ma anche diverso... Nessuno vedrà lassú una monaca, ma solo una Madonna... — Che bel progetto, frate Filippo, — disse la badessa, con un sorriso ampio. — Ora, non resta che scegliere, tra le agnelle, quella piú adatta...

Pagina 163

Su uno sgabello al centro, a quattro passi dall'ingresso, sedeva suor Marta, con il volto abbassato e le mani posate, una accanto all'altra, sulla veste bruna. A sinistra, un poco piú indietro, sopra altro sgabello sedeva suor Caterina, assai piccola e provvista di baffi, con occhi neri e vispi, dedicati ad ogni movimento del pittore. Filippo si muoveva dal cavalletto al tavolo ingombro di svariati stracci, colori e pennelli, a metà tra porta e finestra: in modo da godere tutta la luce senza toglierne al modello nemmeno un raggio. — Suor Caterina, — disse senza alzare la faccia, rimestando in una ciotola, — io so bene che suor Marta non può dire né ricevere parola: sicché dico a te che sarebbe bello se alzasse il volto, giacché persino l'umiltà è superba, quando è troppa, e la pittura vuole piena visione. Arrossendo leggermente, suor Marta alzò il viso, mentre suor Caterina, incerta sulla risposta, e sul dover rispondere, si agitava sbuffando sullo sgabello con movimenti di un inquieto pappagallo sopra il trespolo. — Ma poiché avvengono i miracoli, suor Caterina, - disse Filippo guardando gli occhi della giovane, che però erano fissi alla soglia, — perché siano completi occorrerebbe dire a suor Marta di guardare o colui che dipinge, o almeno l'angolo destro alto di questa tela: qui, dove metto il dito. E mentre suor Marta, appena sbiancata, arrossiva di nuovo, il dito del frate si alzò allo spigolo dell'intelaiatura: e gli occhi di lei, nello spostarsi a quel punto, incontrarono gli occhi di Filippo, in un silenzio tumultuoso: poi si fissarono all'angolo della tela. — Ora, suor Caterina, — continuò pacato il pittore cominciando a toccare col pennello, — ora devi sapere che, come molti del mio mestiere, io sono assai portato a parlare durante l'opera... Di solito discuto con i miei compagni, giacché è lavoro di compagnia, e si parla e si scherza... Ma qui son solo: dunque parlerò con nessuno, o con me stesso, come fanno i pazzi, pur non essendo pazzo. Suor Caterina, dopo ancora un po' di quell'agitazione sul trespolo, sospirò: — E di che parlerai, frate Filippo? — Di nient'altro che la pittura, suor Caterina, — lui disse, senza levare gli occhi da suor Marta. — È tutto ciò che so ed amo, oltre la sacra fede, e soltanto di questo io so parlare. — Allora, sentiamo, — disse l'anziana monaca, sistemandosi definitivamente sullo sgabello: e la voce aveva un tono di compiacenza. — Io, sai, sono donna di poca sapienza, e non so altro latino che quello delle preghiere: ma se tu non parlerai in latino, mi piacerà sentir le storie di ogni cosa, che non offendano nome e legge di nostro Iddio: e se poi ci sono altre orecchie, e chiuderle non possiamo, staranno chiuse per conto loro: o sentiranno cose della pittura, che non mi pare possa far danno... — È quello che anch'io credo, suor Caterina, — sorrise Filippo, e dipingendo cominciò a parlare. Parlò di figura e paesaggio, dei modi degli antichi pittori e di quelli nuovi. Parlò delle meraviglie di Giotto, e dei colori, e delle sostanze per farli, e degli strumenti. Respirando ogni tanto a fondo, gli occhi fissi all'angolo alto della tela, suor Marta nulla faceva che mostrasse un ascolto. Suor Caterina, immobile come un bambino alla fiaba, a occhi sgranati seguiva liberamente il corpo del pittore, che a tratti appariva a tratti scompariva dietro l'ingombro quadro del cavalletto. Da argomento ad argomento, giunse Filippo a discorrere sulla pittura dei volti. — Il volto umano, suor Caterina, è certo il capolavoro visibile, se quello invisibile è l'anima: e anche, in verità, il più glorioso e difficile oggetto della nostra pittura... Poiché non basta a dipingere un volto, come potresti credere, sommare con decenza parte a parte, copiare linee e forme, ombre e colori: occorre prendere ogni cosa che quel volto contiene, il suo bello e il suo brutto, la sostanza di ogni suo tempo, il suo desiderio, la sua pace e la sua guerra... Il volto, suor Caterina, è l'abisso dell'anima, e non è mai uguale, nemmeno nel sonno più fondo. Non solamente, se bene rifletti, nessuno al mondo ha mai visto o vedrà un volto uguale ad un altro, ma nemmeno mai lo stesso due volte nella stessa persona, e ciò perché mille eventi ad ogni istante, combinati fra loro, lo mutano e trasformano, cosí come ogni foglia che cade, o nasce, muta infinitamente l'aspetto del bosco. Sicché grande stupore prende, considerando le cose, su come possa un amante riconoscere al mattino il volto della sua amata, o l'amata quello di lui, e non gridarsi invece, spaventati ed affranti: «Chi sei? Dov'è chi amavo?»... Se ciò non accade, io credo, è perché l'amore, come la pittura, si dedica assai piú all'anima dell'amato, al suo segno eterno e inconsumabile, che alla visibile superficie: e in qualche modo altrettanto fa la pittura. Essa prende sì, e fissa, il volto: ma lo fa nel momento eterno del suo mutare... La pittura, quando è buona, fa il ritratto non proprio al volto, ma all'anima che, volendo o non volendo, gli sta dietro nascosta... Se poi, suor Caterina, oltre al carattere, c'è in quel volto una bellezza, una bellezza che è luce di interna fiamma, il pittore non la coglierà come la bellezza del fiore, o della pietra preziosa, ma come va colta l'estasi d'un pensiero, la visione di un movimento pieno, forte, sterminato... L'inquietudine di suor Caterina si fece sensibile. Non tutto ormai comprendeva in quei passaggi, e certo aveva apprezzato piú gli elementari e leggendari racconti su Giotto e i poverelli, o su Duccio a Siena: però non osava chiedere, o protestare, come non avrebbe fatto con un predicatore arrivato da fuori a render di fuoco e passione la quaresima delle monache. — Se poi consideriamo, suor Caterina, — continuò il pittore, — che Nostro Signore, quasi malcontento di ogni sua altra creazione, ne ha voluto fare una perfetta e superiore, ci spieghiamo l'esistenza del volto di donna. E non di qualsiasi, giacché è sicuro che esistono catapecchie di volti, volti privati di ogni grazia e luce, rospini e caprini, volti acerrimi di streghe, di galline, adatti a popolare l'inferno: io parlo di quelli rari e fini, che il buon pittore, se alto è il soggetto, si sceglie... In essi la sapienza e bontà del creatore sono sparse senza avarizia, con esatta proporzione, desiderio e premio a se stessi: di fronte a quelli il pittore sta, prima e durante l'opera, con occhi attoniti: e piú che un naufrago affamato steso a spiare il passaggio di un pesce sul fondo, egli studia di cogliere col pennello il colore, la forma, l'amorosa figura... A stento suor Marta controllava il respiro. Lo sguardo inchiodato alternava spasimi luminosi a opacità briache. Le mani premevano più di prima, come a stirar pieghe, convulse, la stoffa della veste bruna. I piedi si muovevano, cercavano paese, sul cotto del pavimento. — Ché poi in un volto, suor Caterina, — incalzava Filippo, — come la fiamma è il centro della luce, gli occhi sono il centro della bellezza: perle di presenza, gocce divine d'assenso, laghi rotondi di pianto e di sorriso... La vecchia monaca corrugava la fronte, pizzicata dal tono ardente piú che dalle arcane parole. — E la bocca, sorella mia, come insegnano i maestri piú antichi dell'arte, è in generale, e ancor piú nel presente caso, medesima fonte dell'armonia... Come negli occhi sprofonda il desiderio di chi guarda, cosí la bocca sporge in muta promessa, nascenti parole, possibili baci: e questo lo disse anche Giotto, di cui prima narravo: ed ugualmente predicava, dipingendo la chiesa d'Assisi, che la forma e il colore delle labbra, rosa dischiusa, son la massima gioia ed estasi per il pittore, e l'uomo: come testimoniò anche il Beato Angelico, pittore e priore di San Domenico... Perseverando l'agitazione, suor Caterina stentava non solo a districare sacro e profano, ma a seguire la pura e semplice onda dell'argomento. E non poteva vedere, coperte com'erano, le arrossate orecchie di suor Marta: le quali avevan sentito, continuavano a sentire quel che c'era da sentire. E il cuore, piú invisibile ancora, la colpiva dentro. E il respiro peggiorava l'affanno. E lo sguardo, pur sempre fisso al dovere, non sentiva piú il desiderio di tornar basso.

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L'Imperatore dei Turchi, entrato per ultimo dal lato occidentale, provenendo dai vapori di luce dorata, si era accomodato sul seggio in oro massiccio, tempestato di cento rubini, al centro del salone, e con un corto cenno della voce aveva fatto alzare il volto abbassato di tutti. A una distanza di dieci passi, Gentile rinunciò a soddisfare il suo interesse e la sua curiosità di pittore sul volto del suo soggetto, aspettando future prossimità: ne ammirò la veste assolutamente bianca, il bianchissimo turbante e le brune mani aneliate. Notò, a distanza, un volto sottile, bruno e ossuto, una barba coltivata a siepe lungo la mandibola, il naso ampio e deciso, e gli occhi molto scuri. Ogni tanto, Gentile si distraeva dalla rispettosa ammirazione del Sultano, per tornare allo stupore del mosaico: tanto piú che Maometto non sembrava guardare lui piú di qualche altro fra i presenti: fissando un punto alto, davanti a sé, rimaneva seduto e immobile, con le mani inanellate appoggiate alle ginocchia. Si alzò allora un anziano Visir, che dopo un doppio inchino rivolto al Sultano, a Gentile e ai rappresentanti di Venezia, iniziò a proclamare con voce salmodiante: — Grande è la gloria di Allah il potente, ispiratore del nostro sovrano, vaso di infinite benedizioni, che con sapienza e generosità ci governa e ci guida... Gentile si perse nel panegirico, vagando con lo sguardo attorno al vecchio notabile, che avanzava lentissimo nella sua argomentazione. Guardò di nuovo il Sultano, fermo e, all'apparenza, concentratissimo; poi dedicò attenzione alle vesti dei Dignitari, che a prima vista sembravano tutte uguali, ma differivano in realtà per mille cose. Alcuni portavano giubbetti preziosi, lavorati finemente con cuciture di perle, altri avevano ricami sulle tuniche, in fili d'oro e argento; certi portavano in testa turbanti schiacciati, con cupole di cuoio, o rilevati e gonfi, fermati al nodo da borchie o gemme. — ... e lode alla gloriosa Signoria della Repubblica di Venezia, città degna di stare al fianco di Costantinopoli nel diadema della creazione, che con meravigliosa e solerte amicizia... Maometto, all'apparenza, ascoltava: ma come se la voce del vecchio provenisse dalla luce, un metro al di sopra della testa dei presenti. Di nuovo Gentile si distrasse, e senza frenare un sorriso pensò che l'Imperatore, contrariamente agli impazienti signori veneziani, non avrebbe avuto difficoltà a sopportare la posa per il ritratto. — ... e lode all'onorevolissimo e magnifico pittore Gentile Bellini, dalla cui mano e dal cui pennello escono, per fama generale, le meraviglie del disegno e dell'ornamento, tali da suscitare... Benché quella parte dell'infinito sermone lo riguardasse, e con tale solennità elogiatoria da imbarazzare chi fosse stato dieci volte più vanitoso e presuntuoso di lui, Gentile tornò a perdersi nei mosaici che, come un orizzonte di sogno, lo circondavano. Il sovrano, statua di se stesso, emergeva con il suo bianco nella confusa nube rossastra della luce e degli abiti. Non ancora del tutto riposato dal lungo viaggio per mare e per terra, Gentile sentí un denso torpore affacciarsi alla nuca, e le palpebre appesantirsi. Respirò profondamente, e si pizzicò con decisione la carne della coscia, sotto la veste, per lottare contro l'abbandono. Dopo un'ora il vecchio dignitario cessò di parlare: e benché il pittore non avesse ascoltato che a tratti il suo discorso, era certo che nulla era stato detto più di quello che già aveva detto il Doge, quando insieme a Giovanni lo aveva convocato. Pure, né Maometto né il Balio della Signoria, o alcuno dei presenti nel salone del palazzo imperiale, mostravano di pensare che una sola di quelle sonanti parole avrebbe potuto essere taciuta. Tutti, ad un cenno breve del Sultano, si alzarono e passarono a salutare l'ospite pittore: e tutti, nei loro inchini, pronunciavano lodi ed auguri, in uno strano filo di mormorio, che alle orecchie di Gentile divenne presto insignificante e vago come quello di una fontana, o un quieto stormire di fronde al vento della sera.

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Gambalesta

216097
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Tirrena
  • Livorno
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Cuddu, credendo che quegli stesse per sparare, aveva abbassato la testa, turandosi le orecchie per non sentire il botto. - Morte a nessuno! - replicò il signore in tuba. - I birri saranno carcerati e processati per soddisfazione del popolo... Chi volesse torcer loro un capello, sarà fucilato! Colui che brandiva la pistola, si mordeva le mani: - Che rivoluzione è questa, se non si ammazzano i birri? - sbraitava. - Arrestatelo! - ordinò il signore in tuba. Compare Sidoro, afferratolo pel petto, toglieva di mano la pistola a quel furibondo, e cercava di calmarlo. - Vuoi andare in carcere? Rivoluzione senza sangue... Il comitato ha avuto quest'ordine... I birri saranno processati... Guarda! Spuntava dalla via di rimpetto un gruppo di gente armata, coi birri ammanettati, pallidi come cenci lavati, col terrore della morte negli occhi, barcollanti su le gambe, e diretti verso il carcere là vicino. Quel furibondo cominciò a sputarli. Compare Sidoro lo tratteneva a stento. - Viva l' Italia! Viva l' Italia! - gridarono soltanto coloro che facevano la rivoluzione. E il gruppo che conduceva i birri in carcere attraversò la piazza tra un silenzio profondo. Il cartellone venne affisso al muro, allato alla merceria di compare Sidoro, ed egli vi si piantò davanti da sentinella, col soffione in ispalla, tenendo a distanza i ragazzi. La bandiera già sventolava dalla finestra della casa di faccia. La bottega sottostante era stata sùbito trasformata in Corpo di guardia. Cuddu si avvicinava intanto a compare Sidoro. - Ero venuto, per la lettera... - gli disse sottovoce. - Non ce n' è più bisogno. Caso mai ti manderò a chiamare. Parecchi contadini si erano accostati a guardare il cartellone attaccato al muro; uno di essi lo compitava a stento: - Chi ruba, sarà fucilato! Chi ferisce o ammazza, sarà fucilato - ripeteva ad alta voce compare Sidoro. - Ora andrete al molino senza pagare la polizza... E non più colèra!... Tuo padre è morto di colèra; l' ho visto morire io - si era rivolto a uno dei contadini. - Gli buttarono il veleno dietro la porta... i birracci... Mah! Erano comandati, poveri diavoli!... Nuovo re, nuova legge! E riprendeva a passeggiare su e giù davanti al cartellone, come una sentinella, Cuddu, in due salti, era tornato a casa. Un gruppo di donne filavano, al sole, accanto a la sua porta, ragionando della rivoluzione. Una vecchia rammentava i fatti del quarantotto. La sera della festa di San Rocco, era parso il finimondo: fucilate di qua, fucilate di là; volevano ammazzare tutti i galantuomini e fare la repubblica. Ma i galantuomini si erano armati e avevano ammazzato Pietro Sgarro che intendeva di prendersi la roba di tutti e dividerla coi compagni. Lo avevano lasciato morto su la spianata della chiesa della Trinità, nero come il carbone... E ogni notte, chi passava pel sacrato, ne vedeva lo spirito che si dibatteva per terra, bestemmiando, e poi, precipitandosi dal muraglione, spariva... Cuddu si era fermato ad ascoltare; neppure sua madre si era accorta di lui. - Ora non ammazzano nessuno! - egli disse. - Chi ruba è fucilato! Chi ammazza è fucilato!

Pagina 78

Mitchell, Margaret

220820
Via col vento 2 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Ella aveva abbassato gli occhi modestamente, mentre il cuore le batteva con violenza, credendo giunto il felice momento. Quindi egli aveva ripreso: - Ora no! Siamo quasi a casa e non c'è il tempo... Oh, Rossella, come sono vigliacco! - e spronando il cavallo l'aveva riaccompagnata a casa salendo di corsa la collina. Seduta sul tronco d'albero, la giovinetta ripensava a quelle parole che l'avevano resa cosí felice; ma a un tratto esse presero un altro significato, un significato orribile. Forse aveva voluto darle la notizia del suo fidanzamento! Oh, se papà si fosse sbrigato a tornare a casa! Ella non poteva più sopportare l'attesa. Guardò nuovamente con impazienza la strada e fu nuovamente delusa. Il sole era adesso sotto all'orizzonte e lo splendore purpureo andava digradando in rosa. Il cielo sfumava lentamente dall'azzurro al delicato blu-verde di un uovo di pettirosso, e la calma divina del crepuscolo rurale discendeva a poco a poco sopra di lei. Un'oscura opacità scivolava lentamente sui campi. I solchi scavati nella terra e la strada infossata perdevano il loro magico colore sanguigno e diventavano semplice terra bruna. Al di là della strada nel prato, cavalli, muli e mucche, con la testa al disopra della barriera, aspettavano tranquillamente di essere ricondotti nelle stalle per avere il foraggio. Non amavano le ombre cupe dei cespugli lungo il ruscello che scorreva attraverso il prato, e muovevano le orecchie verso Rossella, come se fossero stati capaci di solidarietà umana. Nella strana mezza luce, i grandi pini della palude, di un verde cosí caldo sotto i raggi del sole, erano neri contro il cielo color ardesia; una fila impenetrabile di giganti neri, che nascondevano ai loro piedi la pigra acqua giallognola. Sulla collina al di là del fiume, i grandi comignoli bianchi della casa di Wilkes svanivano gradatamente nell'oscurità delle grandi querce che li circondavano; soltanto qualche punto luminoso - le lampade accese per illuminare la cena - mostrava che laggiù vi era una casa. L'umido e profumato tepore della primavera l'avvolgeva dolcemente, insieme col fresco odore della terra arata e dei verdi germogli. Tramonto, primavera e germogli non erano un miracolo per Rossella. Ella accettava quelle bellezze naturalmente, come l'aria che respirava e l'acqua che beveva, non avendo mai visto scientemente la bellezza in nulla se non nei volti femminili, nei cavalli, nelle vesti di seta ed altre cose tangibili. Eppure la serena luce crepuscolare sui ben coltivati campi di Tara portò una certa calma al suo spirito turbato. Ella amava quella terra, senza neanche sapere di amarla; l'amava come amava il volto di sua madre sotto la lampada, all'ora della preghiera. Sulla strada sinuosa Geraldo non si vedeva apparire. Certo, se ella fosse rimasta ancora ad attendere, Mammy sarebbe venuta a cercarla, per costringerla a rientrare. Ma appunto mentre aguzzava gli occhi nell'oscurità crescente, udí uno scalpitar di zoccoli giungere dall'estremità del poggio e vide mucche e cavalli disperdersi spaventati. Geraldo O'Hara stava tornando a casa attraverso la campagna a gran velocità. Salí la collinetta al galoppo del suo cavallo dal petto largo e dalle gambe sperticate, apparendo in distanza come un ragazzo su un cavallo troppo grande. I suoi lunghi capelli bianchi svolazzavano indietro; egli eccitava l'animale con lo scudiscio e con le grida. Benché piena della propria angoscia, Rossella lo guardò avvicinarsi con orgoglio affettuoso, perché Geraldo era un ottimo cavaliere. «Chi sa perché ha la smania di saltar le barriere quando ha bevuto un poco» disse fra sé. «Dopo la caduta dell'anno scorso, proprio in quel punto, quando si spezzò il ginocchio... Credevo che gli sarebbe servito di lezione; specialmente, poi, perché ha giurato alla mamma di non saltare piú.» Rossella non aveva rispetto per suo padre; lo considerava suo coetaneo più delle proprie sorelle, perché il saltar le siepi di nascosto di sua moglie gli dava un orgoglio da ragazzo e una gioia simile a quella di lei quando riusciva a farla in barba a Mammy. Si alzò in piedi e lo osservò mentre si avvicinava. Il grosso cavallo giunse alla barriera, si piegò sulle gambe posteriori e saltò senza sforzo, con la leggerezza di un uccello, mentre il suo cavaliere gridava d'entusiasmo, agitando lo scudiscio in aria, coi riccioli bianchi che ondeggiavano dietro il capo, Geraldo non vide sua figlia nell'ombra degli alberi, e proseguí accarezzando con approvazione il collo del cavallo. - Nessuno nella Contea può starti a paro, e neanche nella regione - disse con orgoglio alla sua cavalcatura. Quindi si pose frettolosamente a ravviarsi i capelli e a rassettare la camicia sgualcita e la cravatta che nella violenza della corsa gli era andata a finire sotto l'orecchia. Rossella conosceva questo frettoloso modo di rimettersi in ordine, che aveva per iscopo di apparire dinanzi alla moglie come un signore che ha cavalcato tranquillamente tornando da una visita a un vicino. Sapeva anche che ciò avrebbe dato a lei il pretesto di iniziare la conversazione con lui senza rivelare il suo vero scopo. Rise forte. Come aveva previsto, Geraldo sobbalzò; poi la riconobbe e sul suo volto florido apparve un'espressione timida e diffidente nel tempo stesso. Mise piede a terra con difficoltà, a causa del ginocchio rigido e, passandosi le redini intorno al braccio, mosse verso di lei. - Beh, signorina - le disse prendendole il ganascino. - sei stata qui a spiarmi e poi, come ha fatto tua sorella Susanna la settimana scorsa, andrai a dirlo alla mamma? Vi era dell'indignazione nella sua voce bassa un po' rauca, ma anche una certa blandizia, e Rossella per stuzzicarlo fece scoppiettare la lingua contro i denti, mentre lo aiutava a rimettere a posto la cravatta. L'alito di lui, che le respirava sul viso, sentiva fortemente di whisky Bourbon, con una lieve fragranza di menta. Egli emanava anche odore di tabacco da masticare, di cuoio e di cavalli; un miscuglio di profumi che Rossella associava sempre a suo padre e che le piaceva istintivamente negli altri uomini. - No, babbo, io non sono una pettegola come Súsele - lo assicurò, esaminando con aria giudiziosa se tutto era in ordine nel suo aspetto. Geraldo era piccolo: poco piú di un metro e cinquantacinque; ma cosí quadrato di spalle e grosso di collo, che quando era seduto gli estranei lo credevano alto. Il suo torso atticciato posava su corte gambe robuste, sempre serrate nei piú bei stivaloni di cuoio che si potessero trovare e sempre largamente piantate come quelle di un ragazzino barcollante. La maggior parte delle persone piccole di statura sono ridicole quando si prendono sul serio; ma il gallo bantam è rispettato nel pollaio, e cosí avveniva per Geraldo. Nessuno avrebbe mai avuto la temerità di credere Geraldo un ometto ridicolo. Aveva sessant'anni e i suoi capelli ricciuti erano argentei; ma il volto malizioso non aveva una ruga e gli occhi azzurri erano giovanili, di quella persistente giovinezza di chi non si è mai tormentato il cervello con problemi piú astratti della quantità di carte che bisogna chiedere in una mano di poker. Era un viso schiettamente irlandese, come se ne potevano trovare nel paese che aveva lasciato tanti anni prima: tondo, colorito; naso corto, bocca larga e aggressiva. Sotto il suo aspetto collerico, Geraldo O'Hara aveva il cuore piú tenero del mondo. Non poteva vedere uno schiavo fare il broncio dopo una reprimenda, per quanto meritata, né udire un gattino miagolare o un bambino piangere; ma aveva orrore che questa sua debolezza fosse scoperta. Egli ignorava che tutti coloro che lo conoscevano scoprivano dopo cinque minuti la bontà del suo cuore; la sua vanità ne avrebbe terribilmente sofferto, perché gli piaceva credere che quando egli gridava i suoi ordini, tutti tremavano obbedienti al suono della sua voce. Non si era mai accorto che ad una sola voce si obbediva alla piantagione: alla dolce voce di sua moglie Elena. Era un segreto che non avrebbe mai scoperto, perché tutti, da Elena fino al piú stupido lavoratore dei campi, erano uniti in una tacita e benevola cospirazione per lasciargli credere che la sua parola era legge. Rossella si lasciava impressionare meno di chiunque altro dalle sue grida e dalle sue ire. Era la sua figliuola maggiore; e Geraldo, ora che non sperava piú che venissero altri figli maschi dopo i tre che giacevano nella tomba di famiglia, aveva preso a trattarla come avrebbe trattato una ragazzo, in una maniera che ella trovava divertentissima. Ella somigliava a suo padre piú delle due sorelle minori, perché Carolene, battezzata Carolina Irene, era delicata e sognatrice, e Súsele - nata Susanna Eleonora - si inorgogliva della propria eleganza e del proprio aspetto signorile. Inoltre, Rossella e suo padre erano legati da un reciproco accordo per nascondere le loro marachelle. Se Geraldo la sorprendeva a scavalcare una barriera invece di camminare per mezzo chilometro fino a trovare un'apertura, oppure a sedere fino a ora tarda sui gradini della casa insieme a un giovinotto, la puniva personalmente e con veemenza, ma taceva il fatto a Elena e a Mammy. E quando Rossella lo scopriva a saltare le siepi e le barriere malgrado la solenne promessa fatta a sua moglie, o veniva a sapere attraverso i pettegolezzi della Contea, l'ammontare preciso delle sue perdite a poker, si asteneva dall'accennare al fatto, sia pure nella maniera astuta e ingenua di Súsele. Rossella e suo padre si assicuravano solennemente l'un l'altro che far giungere un fatto simile alle orecchie di Elena non avrebbe avuto altro risultato che di farla soffrire; e nulla al mondo li avrebbe indotti a darle un dispiacere. La fanciulla guardò suo padre nella luce crepuscolare e, senza saper perché, trovò nella sua presenza un certo conforto. Vi era in lui qualche cosa di vitale, di rude, di grossolano che le andava a genio. Essendo la negazione di ogni analisi, non si rese conto che ciò avveniva perché ella possedeva in alto grado quelle stesse qualità, malgrado sedici anni di sforzi da parte di Elena e di Mammy per distruggerle. - Ora hai l'aspetto molto presentabile - gli disse - e credo che nessuno possa sospettare i tuoi giochi se non sei tu a vantartene. Ma trovo che dopo esserti rotto il ginocchio l'anno scorso saltando la stessa barriera... - Ah, beh, ora ci manca soltanto che mia figlia mi dica quando devo e quando non devo saltare! - e le prese nuovamente il ganascino. - Il collo è mio; dunque... Del resto, signorina, che state facendo voi, fuori a quest'ora senza uno scialle? Vedendo che egli impiegava le solite manovre per sbrogliarsi da una conversazione spiacevole, ella infilò il braccio sotto al suo dicendo: - Ti stavo aspettando. Non sapevo che avresti fatto cosí tardi. Volevo sapere se hai comprato Dilcey. - L'ho comprata, e ad un prezzo rovinoso. Ho comprato lei e la sua piccola mulatta, Prissy. John Wilkes me le avrebbe quasi regalate, ma non voglio che si dica che Geraldo O'Hara approfitta dell'amicizia quando si tratta di affari. Gli ho fatto accettare tre biglietti da mille per tutt'e due. - Dio mio, babbo, tremila! E non avevi nessun bisogno di comprare Prissy! - Da quando in qua le mie figlie si mettono in cattedra a giudicarmi? Prissy è una graziosa piccola mulatta e... - La conosco. È una creatura stupida e timida; - replicò Rossella senza scomporsi. - E la sola ragione per cui l'hai comprata è che Dilcey ti ha pregato di comprarla. La spavalderia di Geraldo scomparve ed egli apparve confuso e turbato come sempre quando veniva sorpreso a compiere una buon'azione. La figlia rise del suo turbamento. - Beh, e se anche lo avessi fatto? A che mi sarebbe servito comprare Dilcey se poi si fosse immalinconita a causa della bambina? Del resto, non permetterò mai piú a un negro di sposarsi fuori di qui. È troppo dispendioso. Suvvia, piccola, andiamo a cena. L'oscurità era diventata piú profonda; dal cielo erano scomparse le ultime sfumature di verde e un freschetto pungente aveva sostituito il tepore primaverile. Ma Rossella s'indugiava, non sapendo come condurre il discorso su Ashley senza destar sospetti in suo padre. Era difficile, perché la fanciulla era priva di furberia; e suo padre le somigliava tanto che riusciva immediatamente a penetrare i suoi deboli sotterfugi, come lei penetrava i suoi. E nel farlo mancava generalmente di tatto. - Come stanno alle Dodici Querce? - Al solito. C'era Cade Calvert e dopo definita la faccenda di Dilcey ci siamo trattenuti tutti quanti nella galleria a bere qualche bicchierino. Cade è appena tornato da Atlanta, dove tutti sono agitati e parlano di guerra... Rossella sospirò. Se Geraldo cominciava a parlare della guerra e della secessione, non l'avrebbe piú smessa per qualche ora. Lo interruppe con un altro argomento. - Ti hanno parlato della riunione di domani? - Aspetta che ci penso. Miss... come diamine si chiama? quella piccina graziosa che era qui anche l'anno scorso... sai, la cugina di Ashley... ah, sí: miss Melania Hamilton! Dunque, lei e suo fratello Carlo sono già arrivati da Atlanta... - Ah, dunque è venuta? - E venuta; ed è molto carina; tranquilla e silenziosa come dovrebbero essere tutte le donne. Su, figliuola, non perdiamo tempo. La mamma ci starà cercando! Rossella si sentí cadere il cuore alla notizia. Aveva sperato e sperato che Melania Hamilton sarebbe stata trattenuta ad Atlanta dove abitava; e il sentire che anche suo padre approvava il suo carattere tranquillo cosí diverso dal suo, la decise a parlare apertamente. - C'era anche Ashley? - chiese. - C'era. - Geraldo lasciò il braccio di sua figlia e si volse a scrutarla. - E se è per questo che sei venuta ad aspettarmi, perché non lo hai detto subito, invece di girare intorno all'argomento? Rossella non trovò una parola da rispondere ed arrossí indispettita. - Avanti, parla. La fanciulla continuò a tacere, desiderando in cuor suo che le fosse permesso scrollare il proprio babbo per chiudergli la bocca. - C'era e ha chiesto molto cortesemente di te, come hanno fatto anche le sue sorelle e hanno detto che speravano che nulla ti avrebbe impedito di essere domani alla festa. Cosa di cui non garantisco - aggiunse malizioso. - Ora, figliuola, che cos'è questa storia fra te e Ashley? - Nessuna storia - rispose Rossella brevemente riattaccandosi al suo braccio. - Rientriamo, babbo. - Ora sei tu che hai voglia di andare - osservò Geraldo. - Ma io rimango qui finché non ti ho capita. Ora che ci penso, da un po' di tempo in qua sei di umore strano. Ti ha fatto la corte? Ti ha chiesto di sposarlo? - No - fu la breve risposta. - E non lo farà - riprese Geraldo. Un impeto di furore la invase; ma Geraldo le accennò con la mano di calmarsi. - Aspetta, bambina! Ho saputo oggi molto confidenzialmente da John Wilkes che suo figlio sposerà miss Melania. Sarà annunciato domani. La mano di Rossella ricadde dal suo braccio. Dunque, era vero! Si sentí stringere il cuore come in una morsa. Sentiva però sopra di sé lo sguardo di suo padre, un po' compassionevole, un po' annoiato di trovarsi di fronte a un problema che era incapace di risolvere. Egli voleva bene alla figliuola, ma l'idea che ella lo costringesse a cercare una soluzione ai suoi problemi infantili gli dava fastidio. Elena era capace di risolverli; Rossella avrebbe dovuto confidare a lei le sue pene. - Hai dunque fatto una figura ridicola... e l'hai fatta fare a noi? - gridò, alzando la voce come sempre nei momenti di eccitazione. - Sei corsa dietro a un uomo che non ti ama, mentre potresti avere i migliori giovanotti della Contea? La collera e l'orgoglio ferito presero il sopravvento sul dolore. - Non gli sono corsa dietro. Soltanto... mi sorprende. - Menti! - Quindi scrutando il visino dolorante, soggiunse, in un impeto di tenerezza: - Mi dispiace, figliuola. Ma dopo tutto, sei ancora una bambina; e vi sono tanti altri giovinotti! - La mamma aveva quindici anni quando ti sposò; ed io ne ho sedici - replicò la fanciulla con voce sorda. - Tua madre era diversa. Non è mai stata leggera come te. Su, bambina, stai allegra; la settimana ventura ti porterò a Charleston a far visita a zia Eulalia; e con tutto il tumulto che c'è lí per Forte Sumter, in pochi giorni ti scorderai di Ashley. «Mi crede una bambina» pensò Rossella a cui dolore e collera toglievano la parola «e immagina che un giocattolo nuovo basterà per farmi dimenticare la mia pena.» - Non fare la sciocca - continuò Geraldo. - Se avessi giudizio, avresti sposato già da un pezzo Stuart o Brent Tarleton. Pensaci, figliuola. Sposa uno dei due gemelli e allora le piantagioni saranno riunite, e Giacomo Tarleton ed io ti fabbricheremo una bella casa, proprio al confine, dove c'è la selvetta di pini... - Smettila di trattarmi come una bambina! - esclamò Rossella. - Non voglio andare a Charleston e non voglio avere una casa e sposare i gemelli. Voglio soltanto... - Si interruppe ma era troppo tardi. La voce di Geraldo era stranamente tranquilla ora ed egli parlava lentamente come se tirasse fuori ogni parola da un deposito di cui si serviva raramente. - Tu vuoi soltanto Ashley e non lo avrai. E se egli ti volesse sposare, darei il mio consenso malvolentieri, e lo darei soltanto a causa della buona amicizia che vi è fra John Wilkes e me. - E poiché ella lo guardava stupita, concluse: - Io desidero che la mia bimba sia felice; e con lui non lo saresti. - Oh, lo sarei! Lo sarei! - No. Solo quando si sposa chi è simile a noi può esservi la felicità. Rossella provò subitamente il perfido desiderio di gridare: «Ma tu e la mamma siete stati felici, eppure non vi somigliate in nulla» ma lo represse temendo di ricevere un ceffone per la sua impertinenza. - Noi e i Wilkes siamo assai diversi - proseguí lentamente Geraldo, cercando le parole. - I Wilkes sono differenti da tutti i nostri vicini, differenti da tutte le famiglie che ho conosciuto. È gente strana; ed è meglio che si sposino tra cugini e si tengano tutta la loro stranezza. - Ma babbo, Ashley non è... - Taci, gattina! Non dico niente contro il ragazzo, perché mi è simpatico. E dicendo strano non intendo dire stravagante. Non è la stranezza dei Calvert che giocherebbero tutto quello che hanno su un cavallo, o dei Tarleton che hanno sempre uno o due ubbriachi in ogni letto, o dei Fontaine che sono delle teste calde, pronti ad ammazzare un uomo per una sciocchezza. Questo genere di stranezze è facile a comprendersi e se non fosse per la grazia di Dio, sono difetti che anche Geraldo O'Hara potrebbe avere! E non voglio neanche dire che Ashley correrebbe dietro ad altre donne se tu fossi sua moglie o che ti batterebbe. Saresti forse piú felice se lo facesse, perché almeno lo capiresti. È strano in un senso tutto diverso, e non vi è modo di comprenderlo. Nelle cose che dice io non trovo né capo né coda. Dimmi la verità, gattina, tu capisci qualche cosa di tutte le sue sciocchezze sui libri, la musica, la poesia, i vecchi quadri e altre stupidaggini di questo genere? - Oh babbo! - esclamò con impazienza Rossella. - Se lo sposassi, lo cambierei! - Credi? - replicò stizzosamente Geraldo lanciandole uno sguardo penetrante. - Allora vuol dire che conosci ben poco gli uomini, non escluso Ashley. Nessuna moglie ha mai cambiato il cervello del marito, ricordatelo! E quanto a cambiare un Wilkes... Per la camicia di Giove! Tutta la famiglia è cosí e lo è sempre stata; e probabilmente lo sarà sempre. Ti dico che lo sono di nascita. Guarda come si agitano per andare a Nuova York e a Boston a sentir delle opere in musica e a vedere dei vecchi quadri! E ordinano libri francesi e tedeschi senza esclusione degli inglesi... E poi stanno ore ed ore seduti a leggere e a sognare Dio sa che cosa, quando potrebbero passare il tempo a cacciare e a giocare a poker come fanno tutti gli uomini normali! - Nessuno nella Contea cavalca meglio di Ashley - ribatté Rossella, furente per quell'accusa di effeminatezza che veniva lanciata su Ashley. - Nessuno, eccetto forse suo padre. E quanto al poker, non ti ha vinto duecento dollari proprio la settimana scorsa a Jonesboor? - I ragazzi Calvert hanno fatto nuovamente dei pettegolezzi - borbottò Geraldo - altrimenti non sapresti la cifra. Ashley può competere col miglior cavaliere e miglior giocatore: cioè con me, bambina! E non nego che se si mette a bere può dar dei punti perfino ai Tarleton. Fa tutte queste cose, ma senza passione. Perciò ti dico che è strano. Rossella rimase silenziosa e si sentí cadere il cuore in terra. Non poteva replicare a queste ultime parole, perché sapeva che Geraldo aveva ragione. Ashley non metteva alcuna passione nelle cose che faceva tanto bene. Si interessava solo con cortesia a tutto ciò che appassionava chiunque altro. Interpretando giustamente il suo silenzio, Geraldo le accarezzò il braccio e riprese trionfante: - Lo vedi, Rossella? Anche tu riconosci che è vero. Che ne faresti di un marito come Ashley? Lunatico come tutti i Wilkes! - Poi, con tono piú lusinghevole: - Parlandoti dei Tarleton, poco fa, non ho inteso influenzarti. Sono dei cari ragazzi, ma se preferisci Cade Calvert, per me è lo stesso. I Calvert sono brava gente, tutti quanti, benché il vecchio abbia sposato un'inglese. E quando io non ci sarò più... Stammi a sentire, tesoro! Lascerò Tara a te e a Cade... - Non vorrei Cade neanche se mi coprissero d'oro! - esclamò Rossella furibonda. - E ti prego di smetterla con questi consigli! Non desidero Tara né altre vecchie piantagioni. Le piantagioni non valgono nulla se... Stava per aggiungere «se non si ha l'uomo che si desidera»; ma Geraldo inasprito dal modo impertinente col quale ella trattava il dono offerto, la cosa che egli amava di più al mondo, dopo Elena, proruppe in una specie di ruggito. - E hai il coraggio, Rossella O'Hara, di dirmi in faccia che Tara... che questa terra... non val nulla? La fanciulla annuí caparbia. Il suo cuore era troppo esulcerato perché ella potesse preoccuparsi di destare o no la collera di suo padre. - La terra è la sola cosa al mondo che valga qualche cosa - urlò Geraldo, e le sue braccia corte e grosse facevano grandi gesti di indignazione - perché è la sola cosa al mondo che rimanga e, non dimenticarlo!, la sola cosa per cui vale la pena di lavorare, di lottare... di morire. - Oh babbo! - ribatté Rossella disgustata - parli come un irlandese! - Mi sono forse mai vergognato di esserlo? No; anzi ne sono orgoglioso. E non dimenticare che tu sei per metà irlandese! E per tutti coloro che hanno nelle vene anche una sola goccia di sangue irlandese, la terra su cui vivono è come una madre. È di te che mi vergogno in questo momento. Ti offro la piú bella terra del mondo - ad eccezione di Country Meath nel mio vecchio paese - e tu che cosa fai? Arricci il naso! Geraldo aveva cominciato ad abbandonarsi a una collera piacevolmente clamorosa, quando qualche cosa nel volto addolorato di Rossella lo fermò. - In fondo, sei giovine. L'amore per la terra ti verrà col tempo. Non potrà essere diversamente, perché sei irlandese. Ora sei una bambina, preoccupata soltanto dei tuoi adoratori. Quando sarai piú vecchia, vedrai... Ora rifletti, cerca di pensare a Cade o ai gemelli o a uno dei ragazzi di Evan Munroe, e vedrai come ti metterò bene a posto! - Oh, babbo! Geraldo era ormai stufo della conversazione e infastidito del problema che veniva a gravare sulle sue spalle. Inoltre si sentiva offeso che Rossella avesse ancora l'aria desolata dopo che le erano stati offerti i migliori giovanotti della Contea e per di piú, Tara. A Geraldo piaceva che i suoi doni fossero accolti con battimani e abbracci. - Ora non facciamo il broncio, madamigella. Non importa sapere chi sposerai, purché sia uno che la pensa come te e sia un bravo e orgoglioso meridionale. Per una donna, l'amore viene dopo il matrimonio. - Oh babbo, queste sono idee del tuo paese! - E sono idee ottime! Guarda un po', questi americani che hanno la smania di fare dei matrimoni d'amore, come i servitori, come gli yankees! I matrimoni migliori avvengono quando i genitori scelgono per la ragazza. Come potrebbe una stupida ragazzina come te distinguere un gentiluomo da un mascalzone? Guarda i Wilkes. Che cosa li ha conservati forti e orgogliosi attraverso tante generazioni? Il fatto di essersi sempre sposati tra di loro; tutti hanno sempre sposato i cugini o le cugine desiderate dalla famiglia. Rossella diede un piccolo grido, sentendo rinnovarsi la sua pena alle parole del padre che confermavano la tremenda inevitabile verità. Geraldo guardò il suo capo chino e si sentí a disagio. - Piangi? - chiese; e cercò di sollevarle il mento mentre sul suo volto si dipingeva una grande pietà. - No! - gridò la fanciulla con ira, volgendo altrove la testa. - Dici una bugia, ma ne sono fiero. Sono contento che tu sia orgogliosa; e voglio che questo orgoglio tu lo dimostri domani. Non mi piace che tutta la Contea spettegoli e rida di te, perché hai dato il cuore a un uomo che non ha mai avuto per te un pensiero che non fosse di semplice amicizia. «Lo ha avuto il pensiero» disse fra sé Rossella dolorosamente. «Oh, ne ha avuti tanti! Lo so. Ne sono certa. Se avessi avuto ancora un po' di tempo, so che lo avrei condotto a dirmi... Oh, se non fosse che i Wilkes debbono sempre sposarsi fra cugini!» Geraldo le prese il braccio e lo passò sotto al suo. - Ora andiamo a cena; e tutto questo rimane fra noi. È inutile preoccupare tua madre. Soffiati il naso, bambina. Rossella si soffiò il naso nel fazzoletto lacerato; quindi si avviarono a braccetto per il viale, col cavallo che li seguiva lentamente. In prossimità della casa la giovinetta stava per ricominciare a parlare, ma vide sua madre nella semioscurità del porticato. Aveva la cuffia, lo scialle e dietro a lei era Mammy col volto annuvolato, tenendo fra le mani la borsa di cuoio nero in cui Elena O'Hara portava sempre le bende e i medicinali che adoperava per curare gli schiavi. Le labbra di Mammy erano grosse e pendule; e quando essa era indignata, quello inferiore poteva raggiungere il doppio della sua lunghezza normale. In questo momento era lunghissimo, e Rossella comprese che Mammy stava rimuginando qualche cosa che non approvava. - Mister O'Hara - gridò Elena quando li vide avvicinarsi lungo il viale. Elena apparteneva a una generazione che rimaneva cerimoniosa anche dopo diciassette anni di matrimonio e la nascita di sei figli. - Mr. O'Hara, c'è bisogno di me dagli Slattery. Emma ha avuto un bambino, ma è moribondo e bisogna battezzarlo. Vado con Mammy a vedere che cosa posso fare. La sua voce aveva un tono interrogativo, come se ella attendesse l'approvazione di suo marito; una semplice formalità ma che a Geraldo faceva piacere. - Santo Dio! - proruppe Geraldo - perché quegli straccioni della palude vengono a chiamarti proprio a ora di cena e mentre io desidero raccontarti quello che si dice della guerra ad Atlanta! Vai, signora O'Hara. Non dormiresti tranquilla stanotte sapendo che fuori c'è qualcuno che ha delle angustie e tu non sei ad aiutarlo. - Non riposare mai tranquilla, perché dovere tante volte alzarsi per curare negri e bianchi poveri che non possono curarsi da soli - borbottò Mammy con voce monotona mentre scendeva i gradini e andava verso la carrozza che aspettava nel viale laterale. - Prendi il mio posto a tavola, cara - disse Elena accarezzando dolcemente il volto di Rossella con la mano coperta dal mezzo guanto. Benché sentisse alla gola il nodo delle lagrime, la fanciulla rabbrividí al tocco magico della mano materna, e al debole profumo di verbena che emanava la sua veste di seta. Per lei vi era in Elena O'Hara qualche cosa che toglieva il respiro; un miracolo che viveva in casa con lei e le ispirava rispetto, la affascinava, la blandiva. Geraldo accompagnò sua moglie fino alla carrozza e diede ordine al cocchiere di fare attenzione. Tobia, che aveva cura da vent'anni dei cavalli di Geraldo, sporse le labbra con muta indignazione nel sentirsi dire come doveva guidare. Mentre si allontanava, con Mammy seduta accanto a lui, entrambi erano la perfetta personificazione del broncio africano pieno di biasimo. - Se io non facessi tanto per quegli straccioni bianchi degli Slattery ed essi dovessero pagare qualcuno per tante cose - si adirò Geraldo - sarebbero costretti a vendermi quei miserabili pochi jugeri di fondo di palude e la Contea sarebbe sbarazzata di loro. - Poi, rallegrandosi in anticipazione di una delle sue solite burle: - Vieni, figliuola; andiamo a dire a Pork che invece di comprare Dilcey ho venduto lui a John Wilkes. Gettò le redini del suo cavallo a un negretto che era lí accanto e si avviò su per i gradini. Aveva quasi dimenticato il crepacuore di Rossella, e pensava solo a burlarsi del suo domestico. Rossella salí lentamente gli scalini dietro a lui, coi piedi pesanti. Pensava che, dopo tutto, un'unione fra lei e Ashley non sarebbe stata piú strana di quella di suo padre con Elena Robillard O'Hara. Come sempre, si chiese come mai sua padre, cosí rumoroso e cosí poco sensibile, avesse potuto sposare una donna come sua madre; poiché mai vi erano state due persone piú lontane come nascita, come educazione, come abitudini mentali.

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Oggi, con un abito di seta nera opaca, su una crinolina troppo piccola per la moda, sembrava ancora vestita da amazzone, perché l'abito era tagliato severamente come il suo costume da cavallo, e il cappellino nero con la lunga piuma, abbassato sugli occhi neri lucidi e ardenti, era una copia del vecchio cappello che adoperava per andare a caccia. Agitò la frusta vedendo Geraldo e trattenne la sua impaziente pariglia rossa, mentre le quattro ragazze si sporgevano fuori dalla carrozza vociferando i loro saluti a voce cosí alta che i cavalli sobbalzarono spaventati. Un osservatore casuale avrebbe supposto che i Tarleton e gli O'Hara non si vedessero da anni invece che da giorni. Ma erano persone socievoli e amavano i loro vicini, specialmente le ragazze O' Hara. Cioè amavano Súsele e Carolene. Nessuna ragazza della Contea, eccettuato forse quella sventata di Caterina Calvert, amava veramente Rossella. In estate, nella Contea si avevano conviti e balli quasi ogni settimana. Ma per le fulve Tarleton con la loro enorme capacità di divertirsi, ogni riunione e ogni ballo era eccitante come se fosse il primo della loro vita. Era un grazioso e vivacissimo quartetto, cosí stipato nella carrozza che le ampie gonne a cerchi e i volanti si gonfiavano spumeggiando, e i piccoli parasoli si urtavano fra di loro al di sopra degli ampi cappelli di paglia di Firenze incoronati di rose e ornati di nastri di velluto nero. Tutte le sfumature del fulvo erario sotto quei cappelli: i capelli di Etta erano di un rosso schietto, quelli di Camilla color pannocchia, quelli di Miranda a riflessi cuprei e quelli della piccola Bettina color carota. - È un bel branco, madama, - disse galantemente Geraldo portandosi col cavallo di fianco alla carrozza. - Ma son ben lontane dal superare la loro mamma. La signora Tarleton girò i suoi occhi bruni e si succhiò il labbro inferiore, come burlesco ringraziamento; le ragazze esclamarono: - Mamma, smettila di far la civetta, altrimenti lo diciamo al babbo! - Vi assicuro, Mr. O' Hara, che non ci dà mai modo di farci valere quando c'è un bell'uomo come voi. Rossella rise con le altre di queste celie, ma come sempre, la libertà con la quale le Tarleton trattavano la loro mamma, la urtò. Facevano come se essa fosse una di loro, e non avesse piú di sedici anni. Per Rossella la sola idea di poter dire una cosa simile a sua madre, era un sacrilegio; eppure... eppure... vi era qualche cosa di molto piacevole nelle relazioni delle ragazze Tarleton con la loro mamma; ed esse la adoravano, benché la criticassero, la stuzzicassero, e la sgridassero. Non che lei potesse preferire una madre come la signora Tarleton, si affrettò lealmente a dire a se stessa; ma certo doveva essere molto divertente scherzare cosí con la mamma. Sapeva che anche questo pensiero era irrispettoso per Elena e se ne vergognò. Era sicura che nessun pensiero cosí fastidioso aveva mai turbato i cervelli sotto le quattro capigliature fiammeggianti; e come sempre quando si trovava diversa dalle sue vicine, si sentí invadere da una perplessità irritata. Benché il suo cervello fosse pronto, non era fatto per l'analisi; riusciva peraltro a rendersi conto che benché le ragazze Tarleton fossero sregolate come puledri e turbolente come giumente in marzo, vi era in loro una singolare spensieratezza ereditaria. Tanto da parte di madre che di padre, erano Georgiane del nord, solo di una generazione posteriore ai pionieri. Erano sicure di se stesse e del loro ambiente. Sapevano istintivamente ciò che dovevano fare, come i Wilkes, benché in modo assolutamente diverso. E in loro non erano quei conflitti, che frequentemente si dibattevano nel seno di Rossella, nella quale il sangue di un'aristocratica della costa, dolce e quieta, si mescolava col sangue di un contadino irlandese accorto e grossolano. Rossella desiderava rispettare e adorare sua madre come un idolo, ma anche scompigliarle i capelli e stuzzicarla. E sapeva che bisognava fare o una cosa o l'altra. Era lo stesso conflitto che le faceva desiderare di apparire una signora delicata e aristocratica ai giovanotti ed essere nello stesso tempo una sfacciatella che non faceva scrupolo per qualche bacio. - Dov'è Elena, stamattina? - chiese la signora Tarleton. - Abbiamo licenziato il nostro sorvegliante ed Elena è rimasta a casa per verificare i conti. E vostro marito? E i ragazzi? - Oh, sono andati alle Dodici Querce già da un pezzo, per assaggiare il ponce e sentire se era abbastanza forte; come se non vi fosse tempo fino a domattina per questo! Pregherò John Wilkes di ospitarli stanotte, anche se, deve metterli nella stalla. Cinque uomini ubriachi sono troppi per me. Fino a tre me la cavo, ma... Geraldo la interruppe in fretta per mutare argomento. Sentiva dietro le sue spalle le figlie che ridacchiavano di lui, ricordando in che condizioni era tornato a casa l'autunno precedente dal banchetto dei Wilkes. - E come mai oggi non siete a cavallo, Mrs. Tarleton? Non mi sembrate voi, senza Nelly. Quando siete a cavallo vi si direbbe uno Sténtore. - Uno Sténtore! Ignorante che siete! - esclamò Mrs. Tarleton rifacendogli il verso. - Volete dire un centauro. Sténtore era un uomo che aveva la voce come un tamburo di bronzo. - Sténtore o centauro, fa lo stesso - rispose Geraldo senza scomporsi per il suo errore. - Del resto, anche voi avete una voce come un tamburo di bronzo quando chiamate i vostri cani. - Ti sta bene, mamma, - disse Etta. - Te l'avevo detto che urli come un indiano quando vedi una volpe. - Ma non cosí forte come urli tu quando Mammy ti lava le orecchie - ribatté Mrs. Tarleton. - E hai sedici anni! Quanto al non cavalcare oggi, è perché Nelly stamattina presto ha partorito. - Davvero? - esclamò Geraldo con vero interesse e con gli occhi brillanti della passione irlandese per i cavalli; e Rossella si sentí nuovamente urtata paragonando sua madre alla signora Tarleton. Per Elena né giumente né mucche partorivano mai. Quasi quasi neanche le galline facevano le uova. Elena ignorava completamente queste cose. Ma la Tarleton non aveva di queste reticenze. - Una puledra? - No; un piccolo stallone con delle gambe lunghe due metri. Dovete venire a vederlo, Mr. O'Hara. È un vero cavallo Tarleton: rosso come i riccioli di Etta. - E le somiglia anche molto - soggiunse Camilla; e scomparve gridando in mezzo a un piccolo vortice di sottane, sottovesti e cappelli che si agitavano, mentre Etta, imbronciata, le dava dei pizzicotti. - Le mie puledrine sono tutte eccitate, stamattina - riprese la signora Tarleton. - Hanno cominciato ad essere impazienti da quando abbiamo avuto la notizia del fidanzamento di Ashley con quella sua cuginetta di Atlanta. Come si chiama? Melania? Dio la benedica, è una cara creatura, ma non riesco mai a ricordarmi né il suo nome né il suo viso. La nostra cuoca è la moglie del cameriere dei Wilkes e ierisera ha portato a casa la notizia che stasera si annunzierà il fidanzamento; Cuochetta ce lo ha detto stamane. E come vi dico, le ragazze sono tutte eccitate; non ne capisco la ragione. Tutti sappiamo da anni che Ashley avrebbe fatto questo matrimonio, a meno che non avesse sposato una delle sue cugine Burr di Macon. Tale e quale come Gioia Wilkes che è destinata a sposare suo cugino Carlo. Ma ditemi una cosa, Mr. O'Hara: è illegale per i Wilkes sposarsi fuori della loro famiglia? Perché nel caso... Rossella non udí il resto della frase pronunciata in mezzo a scoppi di risa. Per un attimo aveva avuto l'impressione che il sole fosse scomparso dietro a una nuvola densa, lasciando il mondo nell'ombra, scolorando tutte le cose. Il fresco fogliame parve morticcio, il còrniolo pallido, e il melo selvatico, di un rosso cosí bello pochi minuti prima, lugubre e sbiadito. Rossella ficcò le unghie nell'imbottitura della carrozza, e il suo parasole ondeggiò. Un conto era sapere che Ashley era fidanzato, ma un altro conto era udirne parlare cosí indifferentemente. Il coraggio però le ritornò rapidamente; il sole riapparve e il paesaggio divenne un'altra volta gaio e brillante. Ella sapeva che Ashley la amava. Questo era certo. E sorrise al pensiero della sorpresa della signora Tarleton quando, la sera, non sarebbe stato annunciato alcun fidanzamento; e piú ancora se vi fosse una fuga. E come parlerebbe dell'aria innocente con la quale Rossella aveva ascoltato i suoi discorsi su Melania, mentre intanto era d'accordo con Ashley... Questi pensieri fecero apparire le fossette sulle sue guance, mentre Etta, che stava osservando con curiosità l'effetto delle parole di sua madre, ricadde indietro sui cuscini con un'espressione leggermente perplessa. - Non siamo d'accordo, Mr. O'Hara - stava dicendo enfaticamente Beatrice. - Questi matrimoni fra cugini non sono una buona cosa. Trovo già un errore che Ashley sposi la figlia di Hamilton; ma che Gioia, poi, debba sposare quel Carletto pallido e smunto... - Gioia non troverà marito se non sposa Carlo - disse Miranda, crudele e sicura delle proprie attrattive. - Non ha mai avuto nessun altro corteggiatore. E lui non è mai stato molto carino con lei, benché siano fidanzati. Ti ricordi, Rossella, come ti stava intorno, a Natale... - Non far la pettegola, madamigella - la interruppe sua madre. - I cugini non si dovrebbero mai sposare fra loro; neanche i secondi cugini. Il sangue si indebolisce. Non è come per i cavalli. Potete unire una giumenta a suo fratello o uno stallone a sua sorella e avete ottimi risultati, se conoscete la razza; ma fra uomini la cosa non va. I figli potranno avere dei bei lineamenti, ma punto robustezza. E... - Qui, signora, non sono d'accordo con voi! Potete citarmi gente piú bella e robusta dei Wilkes? E si sono sempre sposati fra cugini, fin da quando Briano Boru era un ragazzo. - Ma sarebbe tempo che la smettessero, perché ora si comincia ad accorgersi del danno. Oh, non dico per Ashley, che è un bel ragazzo, quantunque anche lui... Ma guardate quelle due figliuole, che pena! Belline, senza dubbio, ma cosí pallide! E guardate la piccola Melania. Sottile come un crostino e tanto delicata che basta un soffio di vento a darle un raffreddore; e senza ombra di spirito. Non sa nulla di nulla. «Sí, signora! No, signora!» è tutto ciò che sa dire. Capite quello che intendo? Quella famiglia ha bisogno di un bel sangue vigoroso, come le mie testoline rosse o la vostra Rossella. Non mi fraintendete. I Wilkes sono persone simpatiche sotto tanti punti di vista e sapete benissimo che io voglio loro bene; ma siamo schietti! Sono troppo educati e anche poco naturali, non vi pare? Faranno buona figura su una carraia asciutta, ma badate a quello che dico: non credo che i Wilkes sappiano galoppare sulla strada infangata. Mi pare che non abbiano energia; e ritengo che non siano capaci di superare gli ostacoli che potrebbero presentarsi. Animali che hanno bisogno del bel tempo. Datemi un bravo cavallone che corra con tutti i tempi! E i loro matrimoni fra consanguinei li hanno resi diversi da tutti gli altri. Sempre a gingillarsi col pianoforte o sprofondati nei libri! Scommetto che Ashley preferisce leggere che andare a caccia! Sí, ne sono convinta, Mr. O'Hara! E guardate che ossa. Troppo sottili. Hanno bisogno di giumente e stalloni robusti... - Ah... hhum... - fece improvvisamente Geraldo, rendendosi conto che la conversazione, che per lui era adatta e interessante, non sarebbe sembrata tale a Elena. La quale non avrebbe mai perdonato se avesse saputo che le sue figliuole erano state esposte ad ascoltare dei discorsi cosí espliciti. Ma la signora Tarleton era, come sempre, sorda ad ogni altra idea quando si ingolfava nel suo tema favorito: l'allevamento, di cavalli o di uomini che fosse. - So quel che dico perché ho avuto dei cugini che si sono sposati fra loro e vi assicuro che i loro bambini vennero tutti con gli occhi sporgenti come dei ranocchi, povere creature! E quando la mia famiglia voleva che io sposassi un secondo cugino, mi impennai come un puledro. Dissi: «No, mamma. Non fa per me. I miei figli devono avere spalle e fianchi, da buoni galoppatori». La mamma svenne sentendomi parlare di galoppatori, ma io rimasi imperterrita e la nonna mi sostenne. Anche lei era molto pratica di allevamento di cavalli, e disse che avevo ragione. E mi aiutò a fuggire con Mr. Tarleton! E guardate i miei figli! Grandi e grossi e in buona salute, senza mai un raffreddore, benché Boys sia alto solo un metro e sessantacinque. Ora, Wilkes... - Non vi dispiacerebbe cambiare argomento, signora? - interruppe frettolosamente Geraldo che aveva notato lo sguardo sbalordito di Carolene e l'avida curiosità dipinta sul viso di Súsele e temeva che al ritorno a casa esse potessero rivolgere a Elena domande imbarazzanti le quali rivelerebbero che egli era un pessimo «chaperon». Fu lieto di notare che la sua Gattina sembrava pensare a tutt'altro. Etta gli venne in aiuto. - Ma sí, mamma, andiamo! - esclamò con impazienza. - C'è un sole che scotta e sento che mi stanno già venendo le lentiggini sul collo. - Un minuto, signora, prima di avviarci. Che cosa avete deciso di fare per i cavalli che vi abbiamo pregato di venderci per Io Squadrone? La guerra può scoppiare da un giorno all'altro e i ragazzi desiderano che la cosa sia sistemata. È uno squadrone della Contea di Clayton e noi desideriamo per loro dei cavalli di Clayton. Ma voi, creature ostinate, rifiutate di venderci le vostre belle bestie. - Forse la guerra non ci sarà - temporeggiò la signora, completamente distratta, ora, dal pensiero delle abitudini matrimoniali dei Wilkes. - Ma signora, non potete... - Mamma - interruppe nuovamente Etta - non potete, tu e Mr. O'Hara parlar di questo quando saremo alle Dodici Querce? - È giusto, miss Etta - annuí Geraldo - e non vi trattengo piú di un altro minuto d'orologio. Fra poco saremo alle Dodici Querce e tutti quanti, giovani e vecchi, vorranno sapere dei cavalli. Ma mi spezza il cuore vedere una brava signora come la vostra mamma cosí avara delle sue bestie! Dov'è il vostro patriottismo, Mrs. Tarleton? La Confederazione non ha nessuna importanza per voi? - Mamma - gridò Bettina - Miranda è seduta sul mio abito e me lo sgualcisce tutto! - Spingila perché si levi, e sta zitta. Quanto a voi, Geraldo O'Hara, ascoltatemi. - E i suoi occhi si accesero. - Non mi gettate in faccia la Confederazione! Reputo che essa abbia tanta importanza per me come per voi, avendo io quattro ragazzi nello Squadrone mentre voi non ne avete nessuno. Ma i miei ragazzi sanno badare a se stessi e i miei cavalli no. Li darei volentieri anche gratis, se sapessi che saranno cavalcati da ragazzi che conosco, signori abituati ai purosangue. No, non esiterei un minuto. Ma lasciare i miei tesori alla mercé di boscaioli e Crackers che sono abituati ad andare a dorso di mulo! No, signore! È un incubo per me il pensiero che siano sellati con selle umide e che non siano governati come si deve! Credete che io voglia affidare le mie bestie tenere di bocca a degli ignoranti, per vederle ridotte con la bocca insanguinata e rovinata; ignoranti che li frusterebbero fino a far perder loro ogni vivacità! Mi viene la pelle d'oca solo a pensarci! No, Mr. O'Hara; siete molto gentile chiedendo i miei cavalli, ma è meglio che andiate ad Atlanta a comprare per i vostri villani dei vecchi ronzini. - Mamma, vogliamo andare, per piacere? - Era Camilla che si univa al coro impaziente. - Sai benissimo che finirai col cedere e dare i tuoi tesori. Quando il babbo e i ragazzi ti convinceranno che la Confederazione ne ha bisogno, ti metterai a piangere e glieli darai. La signora Tarleton ridacchiò e crollò le spalle. - Non lo farò - disse poi, toccando leggermente i cavalli con la punta dello sverzino. La carrozza si mosse velocemente. - È una brava donna - disse Geraldo rimettendosi il cappello e riprendendo il suo posto a fianco del proprio veicolo. - Vai, Tobia. La persuaderemo e avremo i cavalli. Senza dubbio ha ragione. Ha ragione. Se uno non è un signore, il cavallo non è affar suo. Il posto per lui è in fanteria. Ma purtroppo, in questa Contea non vi sono abbastanza figli di piantatori per fare un intero Squadrone. Che avevi detto, Gattina? - Ti prego, babbo, di andare davanti alla carrozza o dietro. Sollevi una tal quantità di polvere che soffochiamo - rispose Rossella che sentiva di non poter sopportare piú a lungo la conversazione. La distraeva dai suoi pensieri; ed ella desiderava rendere questi e il proprio volto ugualmente simpatici prima di giungere alle Dodici Querce. Geraldo, ubbidiente, spronò il cavallo e si allontanò in una nube rossastra per raggiungere la carrozza dei Tarleton. Avrebbe potuto cosí continuare la sua conversazione di argomento equino.

Pagina 86

Il romanzo della bambola

222101
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • paraletteratura - romanzi
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La bambina aveva abbassato la testa, con tanto di broncio. Voleva vedere Jenny Bilson; voleva un cavallino tutto bianco, simile a quello, voleva! E la Giulia stava lì, buttata di fianco sur un sedile, con gli occhietti mezzo chiusi, come svenuta. - Dov'è la spilla di brillanti? domandò vivamente la signora alla Marietta. Questa prese in braccio la bambola e cercò; cercò anche la madre; ma la spilla non c'era più; s'era perduta là giù nel prato, chi sa dove, in quale urto, in quale spasimo della povera bambola.

Pagina 27

Documenti umani

244223
Federico De Roberto 2 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
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Egli si era abbassato fino a raccoglierla, bisognava adorare quelle mani che si erano tese verso lei. Che cosa aveva ella fatto per meritare questo premio insigne? Quante la guardavano con invidia gelosa? Non avrebbe egli avute tutte, tutte quelle che avrebbe desiderate? No, egli non ne desiderava nessuna! La morta lo aveva preso con sè.... Come aveva dovuto amarlo!... Più di lei! di un amore più cieco ed assoluto del suo, contro cui la gelosia nulla poteva, che si faceva invece più saldo ora che si vedeva meno apprezzato!... Che cosa voleva dire esser gelosi?... Ella avrebbe voluto amarlo come lei, avrebbe voluto essere lei, sollevarla dalla bara in cui era stata composta, spirarle la sua propria vita, per ridarla a lui, per farlo felice.... Ella se ne sarebbe andata lontano, in qualche parte; o piuttosto lo avrebbe scongiurato di tenerla ancora con lui, in un angolo, per servirlo, contenta dello spettacolo della sua felicità.... No, la morta non era da compiangere; la morta era degna d'invidia! Ella avrebbe voluto essere morta ed essere amata così, di un amore che l'eterna lontananza della persona amata rendeva ancor più potente!... No, la morta non era da compiangere; da compiangere era lui, ridotto a combattere contro tutto ciò che cospirava per portargli via la sua pietosa memoria. Infine, era una colpa se la povera morta aveva ancora un posto nel suo cuore? Come essere gelosa di chi non era più?... Se ella avesse osato!... Gli avrebbe parlato di lei, avrebbe ascoltato tutto ciò che egli le avrebbe detto di lei, avrebbe saputo trovargli un rimedio contro l'infinita amarezza del suo ricordo.... L'uscio si schiuse. Nella semi-oscurità che al sopravvenire del crepuscolo aveva invaso la stanza, ella scorse la figura di Roberto. Prima ancora che avesse avuto il tempo di ricomporsi, se lo vide inginocchiato dinanzi nasconderle la testa in grembo. - Emma! perdono.... Ella lo attirò a sè, lo baciò in fronte, lo accarezzò, passandogli e ripassandogli una mano fra i capelli. - Oh sì, Roberto... povero Roberto mio!... Vi fu un istante di silenzio. La donna riprese: - Senti, Roberto... io vorrei dirti una cosa.... - Ella parlava pianissimo. - Se sarà una bambina... nostra figlia si chiamerà... Bianca.... - O buona!... o Emma mia buona!... Le loro teste si confusero di nuovo. Come era già buio, egli non potè vedere gli occhi di lei, dove luccicavano due lacrime.

. - E scostandosi d'un passo, col cappello abbassato, a voce più forte: - Signora baronessa, faccia una buona passeggiata! Lentamente, la carrozza si allontanò. Il duca di Majoli e il Giussi si avvicinarono. Andrea Ludovisi si mise in mezzo agli amici, e terminando di abbottonare il suo guanto: - Ora - disse - andiamo a vedere le armi.

Pagina 60

Donna Paola

244882
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1897
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
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L'ufficiale svizzero era in uniforme, tutto gallonato, tutto scintillante di oro: ma teneva il capo abbassato sul petto. - Che avete fatto? - chiese ella, duramente. - Sono scappato, signora. Fuggo da tre ore; due ore siamo stati nascosti in una macchia, il mio cavallo e io. - Non avete preso parte alla battaglia? - No, signora, vi dico che sono scappato. - E perchè? - chiese ella a quel colosso. - Perchè avevo paura - disse lui, semplicemente. - Oh! - fece soltanto lei, celandosi il volto per ribrezzo. - Avete ragione - disse lui, umilmente.- Ma la paura non si vince: sono fuggito. - Non vi vergognate, non vi vergognate? - chiese ella, tremando di emozione. Egli non rispose. Si vergognava, forse. Stava buttato sulla sedia, grande corpo accasciato dalla viltà. - E i vostri soldati? - Chissà! - disse il maggiore, levando le spalle. - Chi ha vinto, dunque? - Non lo so. Avranno vinto gli Italiani. - E siete fuggito? - Già. Vi ripeto, avevo paura. Che m'importa della battaglia? Voi dovete salvarmi, signora. - Io? - Sì. Dovete farmi fuggire. Voglio ritornare a Napoli, in sicurezza. Ho famiglia io: ho figli io: che me ne importa di Francesco II? Salvatemi, signora, ve ne scongiuro. - E perchè dovrei farlo? - Perchè siete donna, perchè siete buona, perchè anche voi avete una figlia... e capite... - Siete un nemico, voi, - V'ingannate, sono un disertore. - Ebbene? - Significa che io temo egualmente i Borbonici, come i Garibaldini. Se mi trovano i vostri, sono un nemico e mi fucilano; se mi trovano i Borbonici, sono un disertore e mi fucilano. Ecco perchè vi chieggo di salvarmi. - Se rientrate a Napoli vi fucileranno. - Garibaldi è buono - disse umilmente il maggiore svizzero. - È una vergogna - ripetette lei duramente. - Lo so; ma che posso farci? Salvatemi voi. - Stamane avreste lasciato - morire la mia bambina. - Che potevo fare? - Eppure il re contava su voialtri! Che uomini siete. dunque? - O signora mia, per carità, non ne parliamo; se avete viscere di madre, trovatemi un mezzo per fuggire. - Io non ne ho. - Lasciatemi stare qua, in questa stanza. - Se vi ci trovano, siamo perduti tutti. - È vero - disse lui, dolorosamente. La bambina aveva ascoltato tutto il discorso, guardando ora sua madre, ora il maggiore. Adesso, ambedue tacevano Egli era immerso nel più profondo avvilimento; ella era combattuta da tanti sentimenti diversi. - Ho anch'io un bimbo di questa età - mormorò il maggiore. - Non Io vedrò più, forse. -Aspettatemi qui - disse donna Cariclea; decidendosi. E uscì. Il maggiore si era inginocchiato vicino al letto e aveva baciata la piccolina. Donna Cariclea tardava. Alla fine, muta, lieve come un'ombra, ritornò. Portava un involto di panni: - Smorzerò il lume - disse, con voce breve, superando ogni ritrosia di donna - toglietevi I'uniforme e mettete questi abiti. Così fece. Dopo pochi momenti ella riaccese il lume; il maggiore era vestito da contadino e l'uniforme giaceva per terra. Egli se ne stava tutto umile, tutto contrito. - Bisogna nascondere quest'uniforme e questa spada - disse lui, - trovandosi, sareste perduta. - È vero - disse lei. - Spezzate dunque la spada. Senza esitare, egli tentò di spezzare la spada sul ginocchio. Ma la buona lama resisteva Alla fine, con la tensione dei suoi muscoli robusti, la spezzò. - Scucite i galloni dall' uniforme - ordinò donna Cariclea. Parzialmente, il maggiore strappò i galloni del suo uniforme. Ella raccolse tutto. - Andiamo a buttarli via. Egli la segui per le scale; essa lo guidava con un fioco cerino. Scesero nel cortile macchinalmente, ella buttò i frammenti della spada nel profondo pozzo, che era in mezzo al cortile. Il maggiore sospirò di sollievo. Poi passarono vicino alla conserva dell'olio; ella vi buttò l'uniforme disadorno di galloni. Alla fine, passando presso un mucchio di letame, ella vi buttò i galloni, rivoltandoli con una pala, per farli andare sotto. - Dio mio, ti ringrazio! - esclamò il maggiore. - E il cavallo? che facciamo del cavallo? Se lo trovano siamo perduti. - È vero - mormorò lui. - Bisogna farlo scomparire. Ora lo ammazzo. - Con che? - Non ho armi, è vero. Andarono presso il cavallo. La buona bestia nitrì; il maggiore fremette di paura. Poi, sciolse le redini dall'anello, trasse il cavallo fuori del portone e rinchiuse il portone. Stettero a sentire, il maggiore e donna Cariclea. Per un pezzo il cavallo scalpitò sulla soglia, battè col capo contro il legno della porta; ma poi ne sentirono il galoppo furioso e pazzo per la campagna. - Domani la campagna sarà piena di cavalli fuggenti - mormorò il disertore. - Andiamo su - fece lei. Risalirono. La bimba era sempre sveglia. Donna Cariclea si chinò e baciò sulla guancia la sua figliuola. In atteggiamento confuso il maggiore aspettava. - Sentite - disse donna Cariclea. - Io ho fatto svegliare Peppino, il boaro. È una creatura bestiale, ostinata e fedele. Farà tutto quello che gli ho detto. Ha messo una scala alla finestra del grande salone. Dà sull'orto. Voi scenderete per quella scala; siete forte, mi pare? - Fortissimo. - Bene; andrete a traverso i campi, ma senza affrettarvi, dovrete avere il passo dei contadini che vanno al mercato. Parlate poco con Peppino, i contadini non parlano. Avete i baffi di un signore e di un militare; ecco le forbici, tagliateveli. Egli eseguì senz'esitare. - Bene. Andrete a passare il Volturno, molto al disotto di Capua; là troverete una scafa, passerete il fiume e vi recherete a Napoli. Peppino vi lascerà, tornerà indietro, non dirà mai una parola con nessuno. Noi, probabilmente, non c'incontreremo più. Tanto meglio. Ma se ci dovessimo mai incontrare, badate bene, non mi ringraziate, non mi tendete la mano, non mi salutate, non mostrate di conoscermi. Se lo faceste, vi darei del disertore sulla faccia. Addio, dunque, signore. - Addio, signora. E fece per accostarsi al letto, donde la bimba lo guardava, e voleva baciarla. - No - fece la madre opponendosi. Egli uscì. Donna Cariclea lo sentì scambiare una parola con Peppino che l'aspettava pazientemente, seduto nell'ombra dello stanzone; udì lo scricchiolio della scala sotto quel corpo pesante; udì i due passi quasi allontanarsi. Allora si accostò al letto della sua piccolina, si curvò su lei: - Pensa che questo sia un sogno, Caterina; dimentica, dimentica tutto, piccolina mia.

Pagina 87

Il romanzo della bambola

245582
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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La bambina aveva abbassato la testa, con tanto di broncio. Voleva vedere Jenny Bilson; voleva un cavallino tutto bianco, simile a quello, voleva! E la Giulia stava lì, buttata di fianco sur un sedile, con gli occhietti mezzo chiusi, come svenuta. - Dov'è la spilla di brillanti? domandò vivamente la signora alla Marietta. Questa prese in braccio la bambola e cercò; cercò anche la madre; ma la spilla non c'era più; s'era perduta là giù nel prato, chi sa dove, in quale urto, in quale spasimo della povera bambola.

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Saper vivere. Norme di buona creanza

248834
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1923
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • Verismo
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Il gran velo nero, abbassato, dal cappello, innanzi agli occhi, e alla persona si porta così, per i primi sei mesi: dopo, sino alla fine dell'anno, si rigetta indietro: e ciò serve per le signorine, nel lutto dei genitori, per le maritate nel lutto di marito e di genitori. Nei primi tre mesi di lutto grave, non si apre il pianoforte in casa, nè si prende lezione di canto; basta un mese di questo rispetto, per i lutti meno gravi. La carta di chi è in lutto, i biglietti da visita, saranno sempre listati di nero, per qualunque occasione. Chi è in lutto, uomo o donna, non porta mai fiori sulla persona; non festeggia nè compleanno, nè onomastico; ma può, per lettera, partecipare agli onomastici o compleanni di persone amiche.

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Una peccatrice

249661
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
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Pochi minuti dopo, prima ancora che il sipario fosse abbassato, udì aprire la porta di un palchetto sul corridoio, e dei passi che si avvicinavano, mischiandosi al fruscio d'una veste. La contessa gli passò dinanzi, questa volta allegra e ridente, al braccio di uno di coloro ch'erano stati nel suo palchetto. Pietro in quel momento avrebbe dato dieci anni della sua vita per uno sguardo di quella donna. Le sue vesti lo toccarono senza che ella mostrasse di avvedersi di lui. Solo il conte si volse a fissarlo con occhio assai cupo e sospettoso. Il giovane scese le scale quasi insieme a lei; la vide montare in carrozza col conte, dopo aver dato la mano agli altri, e partire. Egli rimase immobile sul limitare. - Non vai a casa? - gli disse alle spalle la voce di Raimondo. - Sì... ti aspettavo per dirti addio... - A domani, non è vero? - Non lo so... Avrò forse da studiare tutto il giorno... E s'incamminò lentamente per la Marina. A due ore del mattino Raimondo si disponeva tranquillamente ad andare a letto, quando fu bussato con furia alla sua porta. - Chi può essere a quest'ora? - disse fra di se il giovane sorpreso andando ad aprire. - Son io, Raimondo... son io! Apritemi, di grazia! - udì la voce della signora Brusio, quasi delirante dietro la porta. - Che c'è, signora?... Dio mio!... ella mi spaventa! - esclamò il giovane introducendo la madre del suo amico nella sua camera. - Pietro!... Dov'è Pietro? Dov'è mio figlio, signor Angiolini? - disse la povera madre colle lagrime agli occhi. - Pietro non è in casa? - domandò. Raimondo vieppiù sorpreso. - Son due ore del mattino e mio figlio non si è ancora ritirato... Ho mandato il domestico a cercarlo al teatro, e ritornò dicendo che il teatro era chiuso da un pezzo, ma che sulla porta era avvenuta una rissa fra alcuni giovanotti; che vi erano stati dei feriti e degli arrestati... Mio Dio!... gli sarà accaduta qualche disgrazia... Dove lo lasciaste voi?... - Ci separammo all'ingresso del teatro, e mi disse che andava subito a casa... Ma io non so nulla di risse... - Dio!... Dio mio!... - singhiozzò la madre torcendosi le braccia, - come farò, Dio mio, come farò!... Son sola, sig. Angiolini, son sola!... Mio figlio!... chi sa cosa n'è di mio figlio!... Aiutatemi; corriamo all'ufficio di Questura a prendere informazioni... - Non si disperi, signora; spero ricondurle Pietro al più presto, senza alcun accidente. Abbia la bontà di aspettarmi qui. Raimondo, indossato in fretta un abito, prese il cappello ed uscì. Dando campo ad un sospetto che gli era balenato in mente mentre la signora Brusio si disperava per l'inusitata e straordinaria tardanza dl figlio suo, e per la notizia che il domestico le avea rapportato, egli si diresse per la strada Stericorea ed indi per quella Etnea, verso la casa ove abitava la contessa di Prato. Giungendo sotto i veroni, sul marciapiede di faccia, gli sembrò di vedere qualche cosa di nero immobile sul lastrico. Si avvicinò esitante e lo chiamò per nome a voce bassa. - Che vuoi? rispose una voce rauca e ancora tremante, come se inghiottisse delle lagrime, che Raimondo avrebbe stentato a riconoscere, nel suo accento duro e quasi cupo, se gli fosse stata meno famigliare. Si appressò ancora, e vide il suo amico seduto sullo scaglione del marciapiede, coi gomiti sui ginocchi e il mento fra le mani. - Tu qui!... a quest'ora! - esclamò Raimondo. - Che vuoi, ti dico?! - replicò con maggiore asprezza Pietro. Non son forse più padrone di fare quello che mi piace?!... Raimondo capì che quello non era il momento di parlare al suo amico: e sospirando tristamente, poichè allora soltanto scoperse lo spaventoso abisso del precipizio su cui egli si cullava, sedette silenzioso al suo fianco. Pietro rimase muto, come non avvedendosene, cogli occhi, di una sorprendente lucidità, fissi sul lume che brillava dietro le tende di seta del verone. Qualche volta, a lunghi intervalli, egli trasaliva, ed una gocciola, come di sudore, che partiva dall'orbita, luccicava un momento solcando le sue guance. Ad un tratto egli afferrò con violenza il braccio di Raimondo. - Guarda!... guarda anche tu! - disse egli con la voce stridente ed interrotta del delirante o del pazzo. E si alzò, come se avesse voluto elevarsi sino al verone per meglio osservare. - Io non vedo niente, mormorò Raimondo che si fregava gli occhi inutilmente. Pietro, senza rispondergli, gli porse la busta del suo occhialetto che trasse dalla saccoccia del soprabito. - Guarda, ti dico!... c'è da diventar pazzo! Coll'aiuto dell'occhialetto Raimondo vide la contessa, presso le tende del verone, di cui le invetriate erano aperte, sdraiata nella sua favorita posizione languida e voluttuosa, su di una poltrona, ancora colla veste del teatro, coi capelli ancora intrecciati di fiori; ed un uomo, il conte, ritto dietro la spalliera della poltrona, che si chinava verso di lei, e le divideva coi baci i ricci da sulla fronte. Ella gli sorrideva del suo riso da sirena; e di quando in quando, allorchè il conte rimaneva come stordito nel fascino di quelle seduzioni mirabili di voluttà, ella gli prendeva le mani colle sue manine affilate e bianchissime, e se ne lisciava la fronte, e le nascondeva fra il setoso volume dei suoi capelli, e se le posava sugli occhi e sulle labbra, ma lentamente, con quel suo abbandono ch'era irresistibile, come se avesse voluto dare il tempo a tutte le emanazioni inebbrianti che scaturivano dai suoi pori di penetrare in lui sino al midollo delle ossa. Raimondo, quasi spaventato, pel suo amico, da quella vista, fu scosso dai singhiozzi di lui che prorompevano soffocati come singulti; e, riponendo tristamente nell'astuccio l'occhialetto, disse con tuono di chi prende una risoluzione: - Via, Pietro, è tempo di partire! Tua madre ti attende a casa mia! - Mia madre!... - esclamò il giovane con un sussulto che dimostrava come quella corda vibrasse ancora potentemente nel suo cuore; mentre tutte le altre erano allentate e sconvolte. - Sì, tua madre, spaventata dalla tua estraordinaria tardanza, che ti cerca da me come una pazza. - È tanto tardi dunque? - domandò egli come parlando io sogno. - Son le tre fra poco. - Non credevo fosse sì tardi... Hai ragione, andiamo via... bisogna essere uomini! Poscia si fermò in mezzo alla strada, quasi non avesse avuto la forza di staccarsi da quel punto. - Ben dicesti: bisogna essere uomini e non fanciulli! - replicò Raimondo, dando al suo accento la possibile espressione e strascinandolo in qualche modo per forza, mentre Pietro si lasciava condurre a capo chino come un ragazzo.

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