Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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STORIA DI DUE ANIME

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Serao, Matilde 3 occorrenze

La sposa, Anna Maresca Dentale, appariva nitidamente, in tutta la sua snella, e pur formosa persona, più alta di tutta la testa, dello sposo: il suo vestito di seta bianca, attillatissimo, ne additava tutte le perfette e armoniose linee: e il velo bianco pudicamente abbassato sul volto, era così lieve che spariva, nella luce già radiosa del sole. E si scorgeva una massa profonda di capelli neri rialzati, sopra una fronte bianca, breve, disegnata finemente: un volto di schietta bellezza bruna, su cui si aprivano i grandi occhi neri, larghi, pacati, fieri; su cui si delineava una bocca d'indicibile fascino muliebre, una bocca rossa, florida, tumida, chiusa, senza sorriso, e, intanto, indicibilmente affascinante: un volto ove la delicatezza gentile della carnagione, la purezza di ogni dettaglio, dalle sottili sovracciglie nere alle orecchie rosee, dal nobile profilo alle nari palpitanti, si univa a questa seduzione degli occhi profondi e superbi, a questa seduzione della giovanile bocca freschissima e voluttuosa, pur essendo chiusa ermeticamente. E un grande grido di ammirazione sorse, discese per i gradini delle scalee, si diffuse nella piazza, sali per le finestre e per i balconi. - Quanto è bella, quanto è bella. quanto è bella! Lo sposo, Domenico Maresca, il pittore dei santi, si scorgeva quale era, nell'insieme poco regolare della sua persona: molto più basso della sposa, con un torace enorme, con un ventre già prominente, con le gambe magre e corte, col collo breve, su cui pareva si piegasse un testone troppo grosso e troppo pesante. Egli era, quel giorno, pallidissimo, certo, per l'emozione, per la fatica: su quel pallore intenso appena appena si distinguevano i mustacchi radi, di un biondo così. smorto, che covrivano malamente il suo grosso labbro, di un roseo violaceo. Egli era vestito di nuovo, e aveva l'aspetto imbarazzatissimo, degli abiti che non si portano ogni giorno: un thait nero male squadrava le sue spalle rotonde, un poco curve; il suo panciotto bianco rendeva più largo e più evidente lo sformamento del suo busto; i suoi pantaloni neri, facevano mille pieghe disformi, sulle sue gambe scarne. Egli aveva una cravatta bianca che aumentava il suo pallore e portava dei guanti bianchi, che gli dovevan dare molto fastidio. E, subito, fra il popolo, fra quelli che lo conoscevano poco o molto, fra quelli che non lo avevan mai visto, fra tutti quanti, intorno, nella piazza, sui balconi, fu ripetuta cento volte, mille volte, la novella impressione: - Essa è bella, essa, essa è bella, solo essa, solo essa! Udirono, entrambi. L'orgoglio soddisfatto di Anna Maresca Dentale non diede un lampo ai suoi larghi occhi, bruni e altieri, non diede un sorriso alla tumida bocca, rossa come un melograno: ella procedette verso le scale, come se non avesse udito. Lo sposo, Domenico Maresca, pareva, forse, più pallido che mai, mentre le palpebre gli battevano sugli occhi, contro la meridiana luce del sole: pure, cammino accanto a lei, tenendone la piccola mano guantata, sul braccio. Così piccola la mano bianca, sul nero: e così lieve, come lieve e svelto era il passo di questa sposa che penetrava, quietamente, fra la folla, la quale le si serrava addosso, folla curiosissima, ardente, dando in isvariati commenti: - Possa tu riempire di ricchezza la casa! - Buona salute! - Figli maschi! - Bella di faccia, bella di core! - Beato te, che te la porti! Lo sposo, adesso, stringeva più forte, al suo braccio, quello della sposa: essi andavano avanti, a grande stento, divisi dal resto del corteo; spesso, dovevano fermarsi. Alle loro spalle, un uomo grande e forte, con aria di autorità, distribuiva dei soldi ai mendicanti, e il tumulto della ricerca, l'accapigliarsi dei poveri, i clamori dei malcontenti, induceva gli sposi a non voltarsi. Un turbamento grande si diffondeva sul viso dello sposo, che, ogni tanto, soffocato fra la gente, si arrestava, indeciso. Ella, invece, serena, dalla fisonomia immobile, sentiva addosso quegli sguardi. sentiva, quasi, addosso, quegli uomini che la spingevano, che sorridevano, che pronunciavano delle parole di ammirazione vivaci e, insieme, qualche parola salace: e non dava segno di vedere, di udire. Due volte, anzi, fu ella che tirò il braccio dello sposo, per incitarlo a camminare. - Andiamo, andiamo - disse, quasi senza muovere le labbra. Sì, quasi ella lo conduceva, tanto egli pareva, adesso confuso e smarrito. Erano entrati nel vicolo della Madonna dell'Aiuto, e la folla si faceva più fitta, in quello strettoio, ogni minuto essi si fermavano, non potendo procedere avanti. Domenico Maresca soffriva, ora. intensamente e malgrado la inespressione del suo scialbo e floscio viso, questa sofferenza si notava, perfettamente. Sottovoce, quasi con un gemito, disse: - Mi par mille anni di arrivare. - Se avessi preso la carrozza. questo non accadeva - mormorò ella, con una intonazione di freddo disdegno. - È vero - disse lui, umilmente. Ora, le esclamazioni, le osservazioni della gente, fra cui non mancavano i pettegoli, i maligni del quartiere, tutti coloro che conoscevano la storia di Domenico Maresca, il pittore dei santi, e Anna Dentale, la bella figliuola del farmacista fallito, diventano più stringenti, più aspre. Alle orecchie zufolanti di Domenico giungevano, precise, nette e offensive: - Essa è bella, essa sola! - Non aveva neppure la camicia, essa. - Le ha fatto tutto lui. - E si capisce! Se no, perchè lo avrebbe accettato? - Quanto è bella! - Troppo bella, io non l'avrei presa! - La moglie bella si sposa per gli altri. - Solo per denaro, essa se lo poteva sposare. - A rivederci fra un paio d'anni. - Un anno, compare! - Una signora, era. - E perchè ha detto sì? - Per la miseria. - Poveretta, la compatisco. - E io lo invidio, lui! - Già, già; poi vediamo. Imperturbabile, la sposa. Anche ella udiva tutto. eppure non si vedevano impallidire o arrossire per la collera, per il dolore, per il piacere, le sue guancie egualmente colorite dal bel sangue ricco di gioventù. L'orgoglio immenso del suo animo si traduceva, perfettamente, sul suo viso bellissimo, in una espressione di anima lontana, impassibile, lontana, diversa da quanto la circondava, diversa, assai diversa, lontana, sovra tutto da colui che le dava il braccio, e che ella aveva sposato, innanzi a Dio, un quarto d'ora prima, in quella mattinata d'aprile, mentre il sole avvolgeva il mondo di luce, e le campane di Pasqua rallegravano le anime. Fremente di dolore, a occhi bassi, quasi vacillante sulle sue gambe malferme, era lo sposo, Mimì Maresca, il pittore dei santi. che, parola per parola, beveva tutto il veleno di quei discorsi, dagli elogi clamorosi fatti alla sposa, sino ai vituperi di cui nessuno gli faceva risparmio, e passando innanzi alla sua bottega chiusa, egli vi levò gli occhi, con tale desiderio ardente, con tanto rimpianto disperato, vi tenne gli occhi così disperatamente, come se volesse penetrarne le oscure porte sbarrate e invocarne le figure della Madonna e dei Santi che vi eran celate, che, la sposa, lo dovette quasi trascinare, in quel momento. Essi, erano, oramai, sotto l'arco del portone del palazzo Angiulli: il tragitto, non lungo, che era stato un cammino trionfale per Anna Maresca, e un calvario per Domenico Maresca, era compiuto. Ma la folla, tutta di conoscenze, gridava una sola cosa: - I confetti, i confetti, i confetti! E l'uomo grande e grosso, tanto autorevole, quello che aveva dato i soldi ai mendicanti, si postò, insieme ad altri del corteo, sulla soglia del portone, e da certi grevi cartocci che portavano Gaetano Ursomando, lo stuccatore, e Nicolino, lo sciancato, cominciò a lanciare, intorno, manciate di confetti sulla folla. Una rivoluzione di grida, di risa, di proteste, travolse la piazzetta della Madonna dell'Aiuto: la gente saltava, urlava, si accapigliava, si gittava per terra, si graffiava, per portare via i confetti. E solenne, compiendo il rito popolare, don Biagio Scafa, compare di anello di Domenico Maresca, seguitava a lanciare manciate enormi di confetti sulla folla, sul viso della gente, sul petto, dovunque, in aria, sui balconcini di ammezzato, nelle botteghe, fra un clamore che saliva al cielo. Il quartino in cui, da due o tre anni, si erano ridotti Carlo Dentale, il popolare don Carluccio del rione Ecce Homo , e la sua figliuola Anna, era stato trasformato in quel giorno di nozze, verso l'una pomeridiana, in un seguito di mense, persino nelle stanze da letto; appena appena se la sposa aveva potuto deporre il velo sopra la spalliera di una sedia, tanto mancava lo spazio. E mentre tutte le sue parenti Dentale, in abiti sfarzosi, in cappelli piumati, con grandi orecchini di brillanti, e pesanti collane d'oro pendenti sui petti poderosi, l'abbracciavano con esagerazione, felici, in fondo, di essersi liberate di una parente povera, mentre tutta la parentela Dentale si aggruppava, da una parte, con schifiltosità, per non accomunarsi coi pochi e lontani parenti, coi pochi amici di Domenico Maresca, mentre questa selezione si formava, il farmacista fallito, don Carluccio, che aveva visto altri tempi, che era stato ricco, generoso, anzi prodigo, raggiante di gioia per quelle nozze che gli ridavano una giornata di sua ricchezza, si dava un gran da fare, occupatissimo, distribuendo le grazie dei suoi sorrisi, delle sue strette di mano. Insieme con lui, si affannava, dignitosamente, il ricco e possente compare di Domenico Maresca, don Biagio Scafa, colui che era, nel rione di san Biagio dei Librai, il re della immagine sacra, poichè non una immagine santa di un centesimo, di un soldo, di una lira, di venti lire, si vende in Napoli, si distribuisce in una parrocchia, in una chiesetta, in una congregazione, senza che sia escita dalle botteghe di don Biagio; oscure, recondite, quasi ignote, e formidabili botteghe, come commercio. L'antica amicizia del padre di Domenico Maresca, un giro costante di affari, l'affinità della singolare speculazione, lo aveva additato come compare, al pittore dei santi. Ed era il solo individuo, dal lato dello sposo, a cui tutti i Dentale si degnassero por mente; il solo individuo a cui, ogni tanto, la superba e fredda sposa rivolgesse uno sguardo amabile e il principio di un sorriso; il solo individuo a cui don Carluccio Dentale facesse la corte. Tutti gli altri, dal lato Maresca, cugini, cognati cugini, affini, compagni di arte, compagni di lavoro, gente ignota, che lavorava ignotamente, nelle botteghe proprie o in quelle altrui, alcuni padroni, e altri operai, tutti quanti formavano un gruppo meno folto, isolato, a cui, ogni tanto, Domenico Maresca, rivolgeva un fiacco sorriso incoraggiante. Costoro avevano condotto le loro mogli, le loro sorelle, vestite delle loro più belle vesti: ma non tutte portavano il cappello, queste donne: e sebbene anch'esse avessero esposti i loro gioielli di oro e di perle, questi ornamenti non avevano a che fare, con i solitarii di brillanti e le collane di casa Dentale. Due o tre volte, innanzi a quelle parenti del suo sposo, salutandole, Anna Maresca aveva leggermente aggrottate le sopracciglie: e invece di baciarle, si era lasciata baciare, come un idolo. - Annina, ecco mia zia Gaetanella Improta - diceva Mimì Maresca, presentando una donna anziana, in capelli, ma in veste di broccato azzurro e nero. - Piacere... - mormorava la sposa, offrendo la guancia. e voltandosi subito in là. - Annina, ti presento Raffaele Amoroso, pittore, anche lui, amico carissimo - seguitava a dire lo sposo, superando la sua timidità, e fissando in lei i suoi occhi chiari, dallo sguardo ove la puerilità persisteva. L'altro pittore dei santi, un vero operaio, quello, con una giacca nera e una cravatta bianca, s'inchinava, molto impacciato. - Piacere... - ripeteva la sposa, fermando solo un istante il suo sguardo glaciale sull'operaio, senza neppure tendergli la piccola mano, ancora guantata di bianco. E la selezione, continuava, nel salotto, ove, fra le mense imbandite, un po' di spazio rimaneva, per queste presentazioni, per questi complimenti: i Dentale, a poco a poco, si formavano in battaglione quadrato, le donne in mezzo, gli uomini ai lati, o chiacchierando quietamente fra loro, o dignitosamente tacite, non guardando neppure dal lato dei Maresca. ove, in verità, malgrado il disdegno di cui tutti eran fatti segno, dalla sposa, dalla sua famiglia, regnava un certo brio grossolano, di tutte le feste di nozze, si scambiavano barzellette, e partivan risate. Ogni tanto, i Maresca, anche quelli che non portavano tale cognome, prendevano in mezzo lo sposo, lo abbracciavano, gli battevano sulla spalla, sulla pancia; le donne, crollavano il capo, sorridendo, a quegli atti di famigliarità, mentre di lontano, la sposa, lentamente, si toglieva i guanti, con atto elegante, assicurava i suoi anelli di brillanti. - Tutti regali del nipote mio - diceva pomposamente donna Gaetanella Improta, zia dello sposo, sventolandosi con un ventaglio sospeso a un laccio d'oro, dominando il gruppo dei Maresca. - Pure la broscia ? Pure il braccialetto? - si domandava, dai meno informati. - Tutto, tutto, - replicava la zia - la veste bianca, tutti i vestiti, tutto il corredo, tutta la casa. Ha speso un banco - soggiungeva, concludendo, ringalluzzendosi. Già le mense s'imbandivano: e con la sua disinvoltura di gran signore decaduto, ma sempre gran signore, don Carluccio Dentale venne collocando gl'invitati, tutti i Dentale alla mensa d'onore e alle migliori mense, tutti i Maresca e gli affini alle più lontane, alle meno comode. Fu fatta eccezione pel compare, don Biagio Scafa, seduto a sinistra della sposa, e per sua moglie, donna Gabriella Scafa, adorna di un vestito di velluto rosso-granato, carico di merletti bianchi, in cui soffocava, tanto era stretto, e che portava un vezzo di perle, famoso in tutto san Biagio dei Librai, messo solo nelle grandissime occasioni; eccezione, anche per donna Gaetanella Improta, malgrado che non avesse il cappello, ma, come si diceva, da cui sarebbe venuta una eredità, agli sposi. Don Carluccio se la mise accanto, a tavola. I due sposi sedevano in mezzo: la sposa aveva posato, accanto a lei, i suoi guanti bianchi, il suo bouquet di fiori di arancio freschi: e ascoltava, senza batter palpebra, alcune parole che le diceva Mimì Maresca, sottovoce. A un tratto, costui, obliando tante impressioni sgradevoli, obliando la croce di quella strada, fatta a piedi, fra la folla e i suoi tristi commenti, obliando tutto, sentiva solo la profonda contentezza di essere accanto a lei che egli adorava, nella loro prima festa, nel loro primo banchetto. - Annina, sei contenta? - le chiedeva, pianissimo. - Si - rispondeva lei, a fior di labbro, senza guardarlo. - Sei felice? - Sì - replicava lei, a occhi bassi, distratta. Poi, levando gli occhi, ella li fissò, lungamente, dirimpetto, come se non volesse esser più interrogata. - Chi è quel giovane, dirimpetto a te, che ci guarda? chiese Domenico Maresca, sempre sottovoce. - Mariano Dentale - rispose lei, brevemente, seccamente. - Parente stretto? - No; parente lontano. - Oh! - disse lui e tacque. Il grande fornitore di questi pranzi di nozze, Esposito, di via Museo, dirigeva il servizio: e il brodo, nelle tazze, il consommé en tasse , della minuta, era davanti a tutti. Il ramo Dentale, sebbene non lo amasse, il brodo, lo sorbiva, in silenzio, specialmente le donne, con aspetto austero di signore abituate: il ramo Maresca, non sapendo fingere, dava in esclamazioni, in tratti di spirito, protestando, invocando un piatto di maccheroni, una minestra maritata , qualche cosa di solido. - Ci siamo risciacquati lo stomaco. - Io preferisco il brodo di castagne allesse. - O una zuppa alla marescialla . - Compare, andiamo da Pasquale, a' galitta , dopo, insieme?. A questi dialoghetti, a questi frizzi, la sposa, don Carluccio Dentale, i Dentale facevano delle smorfie leggiere, di disprezzo: o fingevano di non udire. Annina Maresca mangiava distrattamente, sempre impassibile, di rade parole; Mimì Maresca non mangiava affatto, bevendo, poichè aveva molta sete, dei bicchieri di acqua e vino, più acqua che vino. Ogni tanto, suo suocero si levava di tavola, gli veniva vicino e gli parlava all'orecchio: Domenico ascoltava, a occhi bassi, e rispondeva, pianissimo. Sempre si trattava di denaro: poichè Anna aveva voluto di accordo con suo padre, celebrare con grande pompa le nozze, per celare, almeno, con quel fasto insolito e inopportuno, che ella sposava un pittore di santi. Domenico si era dovuto sobbarcare a tutte le gravi spese di quel giorno, che si fanno, ordinariamente, dalla famiglia della sposa. Padre e figlia non avevano una lira; eppure avevano disposto largamente del portafogli di Domenico che, innamoratissimo, cieco e sordo di amore, non si rifiutava mai. Ogni momento, in quel giorno di nozze, don Carluccio avvertiva suo genero, suo figlio, come diceva solennemente, che ci volevano cinquanta lire, per questo, venticinque, per quest'altro, otto a quell'altro, che vi pensasse, non se lo dimenticasse. Alla mattina, Domenico gli aveva dato una somma, per provvedere: verso la metà del pranzo, dopo tre o quattro ricordi, all'orecchio, gli rispose: - Ora vi do altre duecento lire, dopo pranzo. Basteranno?. - Non credo, figlio mio, non credo! - rispose don Carluccio. I pasticcetti di maccheroni erano stati accolti con gridi di gioia, dalla piccola falange Maresca: ma li trovavano piccoli, piccoli, ce ne volevano otto, dieci, per ciascuno, non è vero? Le donne del gruppo Dentale li rompevano con la forchetta, questi pasticcetti, li sbriciolavano, ne lasciavano la metà, per fingere di non aver fame, per fingere la eleganza, come nel gran mondo: e mentre il forte piatto di carne, longe de veau , era accolto con entusiasmo, questa volta anche dagli uomini Dentale, e la jardinièr, di contorno era davastata da tutti, varie signore dei Dentale dichiararono che odiavano la carne, e la respinsero. Il rumorìo era forte oramai. I camerieri di Esposito, muti, bene educati, scivolavan fra le mense, tenendo un contegno correttissimo: ma la società sovra tutto alle mense minori, era vivace. impertinente, apostrofava i camerieri, chiedeva persino un rinforzo di cibo, e i camerieri obbedivano, con qualche leggiera smorfia di disprezzo, subito repressa. La sposa non mangiava più, assorbita, giuocando coi suoi anelli: lo sposo la sogguardava, con quella espressione di tenerezza, di devozione, in cui si risolveva il suo profondo amore per Anna Dentale. E poichè ella non gli volgeva nè un parola, nè uno sguardo, vinto da un accesso di commozione passionale, egli la chiamò: - Annina! Ella non lo udì, non rispose. - Annina! Annina! - Che è? - disse lei, come trasognata.- Che hai, Annina? - Nulla. - A che pensi? - A niente. Tacquero, mentre egli chinava il capo, mortificato. Annina aveva abbandonato la sua piccola mano fine, sulla tavola. Lo sposo levò gli occhi, li girò intorno, e mise la sua mano su quella della sposa: la piccola mano muliebre restò immobile, si lasciò carezzare lievemente, non rese la carezza, si lasciò stringere, non rese la stretta. In verità, solo a quel contatto di quella piccola mano delicata e inerte, egli era talmente commosso, che il suo viso si scompose. Lentamente la sposa ritirò la sua mano e fece l'atto naturale di ravviarsi l'onda bruna e folta dei capelli, sulla fronte. Di nuovo, Domenico Maresca vide Anna volgere i suoi occhi, verso il giovane che era dirimpetto a loro: un bel giovane di un venticinque anni, dai capelli castani, dai morbidi baffetti biondi, dalla pelle bianca, dagli occhi grigi, vividi, vestito con eleganza, disinvolto, gaio. E lo sposo, superando una titubanza che lo tenne taciturno, per qualche minuto, interrogò la sposa, novellamente: - Annina, questo Mariano, è quello che... - Che dici?. - interruppe lei, con un corrugamento di sovracciglie. - Quello che... che tu dovevi sposare... - terminò di dire, con grave sforzo, Domenico. - Già - ella rispose, duramente. -...era... era una cosa seria? - No. Sciocchezze di ragazzi. E il tono si manteneva duro, breve. Il discorso le doveva dispiacere immensamente: ma Domenico Maresca obbediva a una forza irresistibile, insistendo: - È un bel giovane... - mormorò, con una tristezza mortale nella voce. - Si. Ma è un buono a nulla - e fece un moto di disprezzo, con la bocca. - I vostri parenti volean maritarvi? Cosi mi hanno detto. - Volevano... essi. - E chi non volle? - Io. - Tu, non lo volesti? - Io. - E perchè? - Perchè non aveva un soldo - finì di dire, lei, così glacialmente, che Domenico Maresca non osò soggiungere altro. Si ballava. Il banchetto nuziale era durato due ore e mezzo: verso la fine, vi erano stati tre o quattro brindisi, uno molto dignitoso, del compare, don Biagio Scafa, a cui tutta la società, i Dentale e i Maresca. insieme, avevano applaudito. furiosamente, poichè il vino già aveva vinto, in parte, le superbie Dentalesche, e poichè lo Scafa era un personaggio importantissimo, anche per la parentela dello sposa. Meno ascoltato, certo, quello di Raffaele Amoroso, l'operaio pittore di santi. che mezzo in dialetto napoletano, mezzo in un italiano storpiato, con una lentezza che mostrava, però, la sua commozione, portò un brindisi alla bella sposa. Varii Dentale avevano voltato il viso in là; alcuni. per disdegno, parlavano fra loro; e la sposa a cui l'Amoroso dirigeva i complimenti più enfatici, teneva gli occhi bassi, la bocca chiusa senza un sorriso e toccava, distrattamente, con la punta delle dita, le molliche e di panne sparse sulla tovaglia. Alla fine, appena un lieve cenno della testa indicò che ella lo ringraziava. Persino Gaetano Ursomando, lo stuccatore, intenerito dalla festa, dal buon pranzo in cui aveva mangiato dei cibi a lui finora sconosciuti, dal buon vino, persino il povero basilisco, selvaggio e fedele, dall'ultimo posto, ove era stato confinato per la disposizione delle tavole, levò il suo bicchiere e volle fare un brindisi al suo principale . E non sapendo dire nulla, accomodò il brindisi solito popolare, quello che consiste nel fare rimare un verso, il primo. col nome dell'anfitrione in coda all'altro: brindisi antichissimo, bizzarro, con varianti singolari. - Disse, Gaetano Ursomando : Questo vino assai mi rinfresca, - e brindisi faccio a Domenico Maresca . Vi fu un uragano, di applausi, dalla parentela Maresca che riconosceva il costume curioso e pur semplice di brindare: silenzio glaciale da parte dei Dentale, che si stupivano di queste cose, degne di una cantina. E nessuno rispose ai brindisi, perchè lo sposo, imbarazzato e pensoso, nulla si levò a dire: poichè don Carluccio Dentale, assai diplomatico, sebbene caduto in miseria, avrebbe risposto a don Biagio Scafa, ma francamente, non voleva ringraziare gli altri due, Amoroso e Ursomando. Il pranzo finiva freddamente. Vi fu una ripresa di allegrezza, quando, man mano, prima la parentela di Maresca, sfacciatamente, poi la parentela Dentale, con ipocrita buona grazia, devastò i trionfi di paste, di pastarelle, di dolcetti, di bonbons , di castagne giulebbate, che ornavano le mense: ognuno se ne metteva nel fazzoletto, in una carta, anche in tasca, senz'altro, tra smorfie di disprezzo dei camerieri di Esposito, che toglievano rapidamente le mense, con la prestezza dell'abitudine. In un quarto d'ora erano sparite stoviglie, cristalli, trionfi, tovaglie e tovagliuoli, persino le tavole, e una sfilata di facchini, per le scale, portava via tutto. In anticamera, chiamato dal suocero. Domenico Maresca dava le mancie al maestro di casa, ai camerieri, ai facchini: don Carluccio lo urtava col braccio, quando la somma gli sembrava meschina. La musica era giunta e si ballava. Tre suonatori, un violino, una chitarra e un mandolino, tre di quei tipi miseri e affaticati di suonatori, si erano messi in un cantuccio, raccolti in triangolo, a capo basso, con certi visi consunti e indifferenti di poveri rassegnati: e accordavano i loro strumenti. Don Biagio Scafa che, venti anni prima, era stato grande ballerino, direttore di feste da ballo, nella piccola borghesia, cui apparteneva, messo in allegria, fra il frastuono generale di un dopo pranzo vivacissimo, assunse il carico di dirigere le danze. E i due gruppi, sempre divisi fra loro, ridevano, strillavano, le donne dei Dentale, che aveano tolti i guanti per il pranzo, assicuravano i loro anelli, toccavano le loro collane sul petto per vedere se erano ferme, si sventolavano leziosamente, in attesa degli inviti. E il marito di una Dentale invitava la moglie dell'altro, un cognato la cognata, un cugino la moglie del cugino, e persino un fratello la sorella sua, una brutta zitella che faceva il viso malinconico, perchè nessuno la invitava. Nel gruppo dei Maresca, si faceva grande chiasso, ma le coppie non si formavano ancora, qualcuno sapeva ballare sola la polka , qualcuno solo la quadriglia, e qualcuno niente! E il ritornello di un waltzer, ordinato dal possente e giocondo don Biagio Scafa, risuonò. Delle coppie. specialmente dal lato Dentale. tentarono di slanciarsi. - Prima gli sposi! prima gli sposi! - tuonò don Biagio. In piedi presso Anna, impacciato, goffo, con le mani pendenti, il suo busto troppo grosso sulle sue gambe magre, la sua pesante testa sul collo corto, sulle spalle curve. Domenico Maresca non si decideva. Indifferente, impassibile, Anna, nella sua veste bianca, attendeva. - Tu sai ballare il waltzer ? - egli mormorò, imbarazzatissimo. - Sì, certo. - Io... no. - E allora! - esclamò lei, levando le spalle. - Gli sposi in piazza, gli sposi in piazza! - comandò don Biagio, accostandosi a loro. - Io non so fare il waltzer ... - confessò, con uno sforzo di voce, come trangugiando male, Domenico. - E che fa? Coraggio, slanciati, forza alla macchina - strillò don Biagio, che era allegrissimo. Ancora, Domenico esitava, pauroso, rosso in viso, con certe strie cremisi ai pomelli. La sposa parve ne avesse pietà, o meglio, volle rompere l'indugio, gli prese la mano per cingersene la vita, gli strinse l'altra mano, lo trascinò in mezzo, lo fece girare, due o tre volte, guidandolo lei, fra gli applausi dell'assemblea. Ma fu uno spettacolo miserando, poichè Domenico Maresca non sapeva neppure dare un passo, incespicò tre volte, tre volte si arrestò, malgrado la spinta datagli da Anna, ed ella, seccata, si fermò di botto, lasciandolo in asso: subito il compare don Biagio Scafa, svelto, come ai suoi bei tempi, si slanciò, afferrò la sposa e girò con lei, vertiginosamente, fra i clamori della società. Il ballo era aperto: lo stupefatto e smarrito sposo fu respinto in un angolo, nessuno si occupò più di lui. Egli guardava roteare le coppie e un po' di vertigine che gli era venuta, in quelle tre o quattro precipitose giravolte che gli avevano fatto fare, cresceva: si faceva sempre più da parte, in un angolo, avendo caldo e bisogno di aria. Lo chiamarono; fuori era giunto, dalla scaletta di cucina, il gelatiere di Benvenuti, con tutto il suo carico di gelati, di spumoni, di formette , nelle ghiacciaie di legno e metallo, con canestre piene di piattini e di cucchiaini, con due uomini, un facchino ed un cameriere. Bisognava collocare questa roba, dare ordini, pagare. E in questo suo ufficio di pagatore, che era stato, poi, il più importante della sua giornata, Domenico Maresca si distrasse. Anzi restò qualche minuto, sulla loggetta della cucina. Un piccolo verone alto che dava alle spalle del palazzo Angiulli, da cui si vedevano le selve di case fitte, fitte. che discendevano verso strada Porto, verso il mare, e da cui l'occhio guardava l'angolo di paesaggio, ove il Vesuvio allunga lo sprone della sua montagna fiammeggiante. Questa loggetta era molto alta, a picco sovra la straduccola dei Mercanti: vi era. a diritta, un casottino di legno scurastro, con una porticella chiusa da un lucchetto, il solito cesso fuori delle terrazze napoletane. Vi erano, anche, una pianta di margherita, già coperta di quattro o cinque fiorellini, e una pianta di basilico odoroso. Lì fuori, lo sposo, respirò profondamente, sentì calmarsi la sua vertigine, placarsi il suo spirito inquieto. Un desiderio di pace, lo teneva tutto: il desiderio che quella festa, che durava da tante ore, finisse, che tutti andassero via, che egli restasse solo, con Anna, per portarsela via, nella sua casa in via Donnalbina, ove, dalla mattina, la fedele Mariangela, che tutto aveva preparato, aspettava, fra i mobili nuovi, nella casa antica tutta rinnovata, come aveva voluto Anna. In questo desiderio potente di quiete, di solitudine, di silenzio, con Anna solamente, non era nulla di sensuale: solo la volontà della liberazione dalla folla, dal tumulto, dalle faccie accaldate, dalle voci avvinazzate, lo stringeva. E pensava che il ballo non sarebbe, poi, durato molto, e che tre quarti di quella festa erano già trascorsi; avrebbe fatto fare, subito, le due distribuzioni rituali di formette e di gelati, per sbrigare la società. E. rientrando, nel salotto da ballo, tra il gran rumore, udì il comando di don Biagio Scafa: - Quadriglia , en place! Subito, il compare lo afferrò al passaggio, lo fermò, lo ammonì vivamente. Vediamo, invitasse la sposa, per la quadriglia, era suo obbligo, tutti ballavano la quadriglia, anche le vecchie, anche gl'invalidi, voleva far restare seduta solamente la sposa? - Ma io non so ballare la quadriglia! - protestò lo sposo, di nuovo gittato a un cimento cruccioso, ove la sua timidità fisica e morale lo torturava. - Non importa! Si balla! Ti guido io! Ti conduce la sposa. Chiamo io, capisci? Ti sto vicino! - E se imbroglio tutto? - Non importa, gridiamo pasticciotti en place , e ci fermiamo! Va a prendere Anna. E la quadriglia d'onore, diciamo così, fu veramente solenne. Pomposamente, don Carluccio Dentale era andato a invitare donna Gaetanella Improta, col motto galante: - Donna Gaetanè, ricordiamoci le cose antiche! Ella aveva accettato, subito. Don Biagio Scafa. aveva per dama la più bella e più ricca dama del gruppo Dentale, Francesca Dentale Catalano, in abito di broccato grigio perla. Gli sposi si collocarono al centro: e avendo don Biagio domandato a Domenico Maresca se avesse il vis-à-vis , non avendo costui compreso, il direttore di ballo gli mise una coppia dirimpetto. Era il bel giovanotto venticinquenne, Mariano Dentale, che aveva per dama Mariannina Catalano, la zitella mutriona, molto brutta, che nessuno invitava mai. Varie intromissioni dei Maresca avvennero nella quadriglia: era impossibile escluderli, la quadriglia ne aveva necessità, e d'altronde, non vi era spazio per fare due quadriglie. Don Biagio usava tutta la diplomazia possibile: in quell'ora di esaltazione, molte barriere sociali cadevano, un senso di cordialità e d'indulgenza diventava generale, una familiarità si faceva fra i due gruppi, provvisoria, fugace, dovuta al pranzo, ai vini, ai nervi eccitati, alla musica, al ballo. - Tenendo Anna al braccio, in silenzio, Domenico Maresca attendeva, in un segreto tormento, dove solo questo pensiero lo racconsolava, il pensiero che conforta tutte le anime angosciate, tutti i corpi martoriati: - Deve finire... deve finire! Interminabile quadriglia! Domenico Maresca che non aveva mai avuto una lezione di ballo, in vita sua, che non era mai stato in un ballo, che ignorava i passi, la misura, le figure, era preso, tirato, trascinato, sballottato di qua e di là, avanti e indietro, da Anna, da don Biagio Scafa che, ogni momento interveniva, lo voltava, come un sacco, gli gridava i comandi della quadriglia, in un francese napoletano, enfaticamente, lo fermava a mezza strada, fra l'andirivieni degli altri che, tutti, sapevano ballare, tutti! Sapeva ballare elegantemente, più di ogni altro, il suo dirimpettaio. Mariano Dentale, dal sorriso beffardo sulle belle labbra fresche, che i mustacchi biondi coprivano mollemente: e, ogni momento, spesso, troppo spesso, Domenico Maresca lo vedeva avanzarsi, con una grazia noncurante, verso la sua dama, portarsela via, dall'altra parte, mentre Domenico restava solo, da qua: e gli sembrava che la dimora di Anna, dirimpetto, si prolungasse troppo, mentre, accanto a lui, la brutta e annoiata Mariannina Catalano non apriva bocca. Talvolta, era Anna che partiva via, per andare dirimpetto: e gli pareva che il suo passo fosse più rapido, più lieve, lo strascico bianco ondeggiava, dietro, come una nuvola, ella girava, intorno, con Mariano Dentale, si salutavano, si sorridevano, si lasciavano. Anna ritornava, seria a un tratto, senza sorridere più. Perchè non sorrideva più, quando tornava a lui? Don Biagio Scafa gridava allegramente il comando, le coppie lo seguivano ridendo, scherzando, voltandosi un poco, tre o quattro volte vi furono degli imbrogli di figure, per lo più generati dalla ignoranza di Domenico Maresca. si dovette tornare tutti al posto, al grido: pasticciotti, en place , riprendendo sempre, subito dopo, con una lunghezza di figure, di concertini, che fiaccò tutte le forze materiali e morali di Domenico. Alla fine ogni cosa turbinava, nella sua mente: e non capiva più nulla, gli pareva che con le mani, le braccia, le persone di Mariano Dentale e di Anna Maresca si chiamassero, ogni secondo, che Anna sorridesse come non mai aveva veduto sorriso sulle labbra di lei, che le risa di don Biagio e degli altri, fossero a suo scherno, che la musica ridesse di lui. Di botto, il triste sogno finì. La quadriglia era terminata. Entravano i due camerieri coi gelati. Uno di essi, passando vicino allo sposo, gli disse, piano: - Eccellenza, vi è una persona che vi vuole, in cucina. - Chi è? - Non ha voluto dirmi il suo nome. Quando entrò nella cucina. Domenico Maresca, col viso scialbo, bruciante di strisce rosse che il ballo e le inquietudini segrete gli avevano messo ai pomelli, stanco e oppresso e anelante alla fuga, la persona, la donna che lo attendeva, era ritta nel vano del balcone, e gli voltava le spalle. Egli non distinse che una figura non alta, ma snella; e vestita bene, gli parve: - Chi mi vuole? - Sono io, Domenico - disse una voce soave, quasi cantante, ma già velata; e un volto noto gli apparve. - Gelsomina, sei tu! - esclamò lui, sorpreso e turbato. - Io, sì - soggiunse la fanciulla, con un tono anche più fievole, di voce, ma in cui persisteva l'antica armonia, l'antica dolcezza. Egli la squadrò, con curiosità affettuosa, e con tristezza. La fanciulla era molto mutata. Mentre, prima, le sue vesti parevan fatte di tanti straccetti carini ma miseri, guarnite di merlettini a quattro soldi il metro, con gonne troppo corte e camicette esigue, mentre ella, prima, portava delle cinture di settantacinque centesimi e delle cravatte fatte con un brandello di seta, ora ella indossava un bel vestitino di lana azzurro cupo, con uno sprone di seta avorio, tutto bene aggiustato alla sua svelta personcina: il collo era adorno da una catenina di oro, con una crocetta d'oro opaca: due perline, in una montatura d'oro, alle piccole orecchie: nelle mani, una borsetta di pelle, ricamata di acciaio. Ma ciò che la rendeva così differente, assai differente, da prima, era una cosa nuova, nuovissima, sulla sua figura: il cappello, cioè, il cappello che non aveva mai portato, per diciotto anni della sua vita, e che ora ella aveva adottato, il cappello che è il segnale più certo che una figlia del popolo si è corrotta, o è diventata, vuol diventare, una piccola borghese. Era già un cappello di primavera, una paglia bianca, rotonda, con un grosso ciuffo di papaveri rossi e dei nastri bianchi, con quell'amore dei colori vivi e in contrasto, fra loro, che è nella gente partenopea. I bei capelli castani, a folte masse, di Gelsomina, quei capelli così pesanti che le si snodavano sempre sulla nuca, nel collo, quei capelli che si disfacevano a ciocche sulla fronte, solo essi conservavano l'antica indipendenza, e sotto il cappello sembravano ancora sul punto di sciogliersi, respingendo le forcinelle di tartaruga. E nelle sue nuove vesti, più belle e più corrette, sotto il cappello, Gelsomina conservava sempre la sua delicata bellezza, piena di una grazia gentile: ma qualche cosa di diverso, di altro vi si mostrava. Le sue fini guance erano coperte di veloutine e, sovratutto, il piccolo segno che aveva presso il mento, la fragoletta, per cui la chiamavano Fraolella : e dalla sua persona un profumo forte, grossolano si distaccava. Negli occhi grandi, grigiastri, era sparita una certa gioia maliziosa giovanile, che ne aveva fatto il fascino, per molto tempo, mentre vi persisteva una espressione di smarrimento, quasi infantile: talvolta, essi si oscuravano, intorbidati, spenti addirittura. Non aveva guanti e si vedevano le sue mani nude, un tempo rossastre e un po' guaste dai lavori domestici: certo, ora, doveva strofinarle con la pasta di mandorle, per imbianchirle, per fare sparire quelle tracce. Aveva anche un anellino d'oro, con un rubino e una perla, molto piccoli, e, distrattamente, toccava sempre questo anello. Del resto, pareva un po' affranta; si era appoggiata allo stipite del balcone: aveva abbassato il capo un poco. E fra le tante cose diverse, altre , Domenico Maresca, notò che Gelsomina si mordeva sempre le labbra, per farle diventar rosse. Tacevano, entrambi, in un silenzio carico di pensieri. A tratti, giungevano grandi scoppi di parole gioconde grandi risate: la musica taceva, gl'invitati divoravano le formette e i gelati. Gelsomina fu la prima che ruppe quel mutismo. - Come stai, Domenico? - chiese, senza neppure guardarlo. - Bene, Gelsomina... - Sei contento? - ella continuò, levando i suoi occhi belli, carichi di una improvvisa ma non nuova tristezza, fissandoglieli in volto. -...sono contento... - rispose lui, evitando quello sguardo. - Sei felice? - insistette lei, piegando il viso verso di lui, quasi forzandolo a guardarla, quasi volendo strappargli tutta la verità dall'anima. Domenico esitò, un minuto solo. Ma si riebbe. -...sono felice - rispose, con sufficiente fermezza. - Meno male - mormorò lei, scrollando le spalle. Egli la guardò, interrogativamente, con una certa ansietà. Gelsomina fece un atto, come per sollevare i suoi capelli sulla fronte, come per liberare la sua testa da un pensiero, come per far dileguare l'ansietà di Domenico. - Niente, Domenico, niente. Ho detto così...Non ci pensare. E la sposa è molto bella? - Bellissima! - Oh! tanto meglio, Domenico. E ti vuol bene? -...sì- Ti vuol molto bene? - soggiunse lei, affannosamente, mettendo la sua mano sul braccio di Domenico. - Lo spero, Gelsomina, lo spero! - Non ne sei sicuro? - Di Dio solo dobbiamo esser sicuri, Gelsomina - rispose lui, con un pallido sorriso di malinconia. - Se la tua sposa non ti vuol bene, è una cattiva e una sconoscente - disse lei, con forza, con accento d'ira ed un lampo di collera negli occhi. - Sss! - disse lui, con un dito sulle labbra. - È di là! Vuoi farti udire? - No - mormorò lei, raumiliata. - Non voglio farmi udire. Potrebbe scacciarmi, come una serva insolente. Essa è una signora. Quando la incontravo, per la via, appena se rispondeva al mio saluto... - Non ti vedeva, forse. - Per superbia, Domenico. Una signora! Se si è decisa a sposare, uno che non era del suo stato, si sa il perchè... Ma Gelsomina si pentì subito delle parole dure che l'ira e il dolore segreto le strappavano. Vide una pena immensa sul viso di Domenico, scorse gli occhi di quel misero riempirsi di lacrime; nel giorno delle sue nozze, lo comprese già così infelice, che ella sentì frangersi il cuore. - Abbi pazienza, scusa, Domenico, se ho detto queste cose brutte... perdonami... ti ho fatto dispiacere... non volevo farti dispiacere... E tremava tutta, reprimendo i singulti che le rompevano il petto. - La gente lo dice... - disse lui, a voce bassa. - Già... la cattiva gente... non bisogna darle retta... ho fatto male a ripetere... perdonami -.E, d'un tratto, con un vivo sforzo su sè stesso, Domenico esclamò: - Tutte bugie! Annina è un angelo! - Ah! - disse solo l'altra, impallidendo mortalmente sotto la sua cipria. Ella si morse le labbra sin quasi a farle sanguinare; i suoi occhi da malinconici si cangiarono in vividi, scintillanti; una risata cristallina e fremente scoppiò dalla sua bocca fresca: - Per un pittore di santi è necessario, un angelo! - Vedrai, Gelsomina. che la metterò, come una testa di angelo, un giorno, in una Gloria della Madonna. - Già, già: - ed ella rideva, rideva ancora, a sussulti. Poi, si fermò dal ridere: respirò lungamente, rimase con la sua breve bocca schiusa, come un uccellino che beve l'aria, come quando era piccola. E il pittore dei santi ebbe un'improvvisa visione di quella infanzia, di quella adolescenza candida e gaia e dolce: questa visione lo prese tanto che, quasi inconsciamente, egli fissò Gelsomina e le chiese, esitando, pentendosi subito, dopo, della domanda: -...e tu? - Io? Che cosa? - esclamò lei, con un'asprezza nuova. - Tu. Che fai? - Niente - disse ella rudemente, con una rude stretta di spalle. -...dove abiti? - seguitò lui, sospinto da un tenero, da un pio interesse. -...lontano - ella rispose, con un cenno vago. -...sola- Non sempre, sola - ribattè lei, pronta, decisa. - Egli viene a trovarti? - Ogni giorno; spesso, due volte al giorno. - Ti vuol bene, dunque? - Mi vuol bene. - Assai? - Assai. Nella tenerezza delle domande di lui vi era una profonda mestizia, insieme. Invece, le risposte di lei erano nitide, fredde, limpidissime. Anzi, anzi, nel viso leggiadro vi era come una fierezza insolita ed esagerata, un bizzarro e tristo vanto nel tono della cara voce, un tempo così umile e semplice. Una compassione anche più forte si manifestò in Domenico, innanzi a quella alterigia che voleva confinar col cinismo; egli le prese una mano, con una pietà gentile, sgorgatagli dal cuore, strinse quella piccola mano fra le sue, e con voce palpitante di una invincibile emozione umana, le chiese: - Ah, Gelsomina. Gelsomina, perchè hai fatto questo? In verità, la poveretta vacillò nella persona, come se svenisse: mentre le sue labbra sbiancate tremavano, senza poter profferir parola, due grosse lagrime le discesero lungo le guance, rigandone la veloutine. La mano si dibatteva convulsamente, fra quelle fraterne di Domenico, ed egli, ancora, con tutto il dolore che dà l'Irreparabile, l'innocenza perduta, la via smarrita, il cammino nella vergogna, le ripetette: - Gelsomina, Gelsomina, perchè hai fatto questo? E, disperata, soffocando i suoi singhiozzi, ella volle trovar qualche cosa cui aggrapparsi, qualche cosa cui non credeva ella stessa, una scusa fallace, una speranza fallace, per non perire di dolore e di onta, in quel momento. - Forse mi sposa... forse... lo ha detto... se sono buona...se voglio bene solo a lui... forse, più tardi... quando sua mammà è morta... lo ha detto... - È un signore... - disse tristemente, Domenico. - È vero... è vero... perciò non volevo credergli... ma non è cattivo, Domenico... non è cattivo... si sono viste tante cose simili... forse mi sposa... E, malgrado la sua bonarietà e la sua indulgenza, Domenico crollava la testa, non convinto, ripetendo: - Ah, Gelsomina, Gelsomina, non dovevi farlo! Le lacrime si disseccavano sulle gote ardenti della fanciulla caduta. Un cupo dolore subentrava allo smarrimento. - Non dovevo farlo, è vero - diss'ella, tetramente, con gli occhi fissi sul pavimento. - E perchè lo hai fatto? - Così - diss'ella, di nuovo aspra. - Gli volevi bene, a don Franceschino Grimaldi? -...no - disse lei, fermamente. - Ti piaceva, forse? -...sì. forse. - Ti avrà fatto molte promesse? - Non molte. Ha detto, così, qualche volta, che mi avrebbe sposata. - E gli hai creduto? -...qualche volta! - Gli credi, adesso ? - Assai meno di prima. - Ti avrà fatto dei regali? - Sì, molti. Tutto quello che ho addosso, è suo e mi ha fatto mettere il cappello - disse ella, arrossendo sino al collo, sino alla fronte. - Ti è sempre piaciuto di vestir bene, povera Gelsomina. - Troppo, mi è piaciuto. - La matrigna ti avrà mal consigliato? - continuò lui, col suo interrogatorio, cercandole, pietosamente, tutte le scuse per sanzionare il suo errore. - Anche. - Eravate misere? - Misere. Ma non morivamo di fame. - E allora, allora? - Che ci vuoi fare, Domenico, sono cose che succedono - concluse lei, con quel tono arido e breve che adoperava, nel rispondere all'interrogatorio. - Oh Gelsomina, non dire questo! Eri così buona, così religiosa! Perchè non ti sei raccomandata a Dio? - Mi sono raccomandata. Dio mi ha abbandonata, Domenico. Ha permesso che questo accadesse! - Perchè non hai detto nulla, a nessuno? - Perchè non avevo nessuno. Ero sola, Domenico. - Ed io? Ed io? - Oh tu! - esclamò lei, non dicendo altro, non volendo dire altro. Egli chinò gli occhi, pensoso. Ella sollevò il capo e replicò quel gesto della mano, con cui scostava i suoi capelli dalla fronte e le sue idee dal cervello. - Ora me ne vado - ella disse, come trasognata. - Dove vai ? - A casa. - E quando ritorni? - Quando, Domenico? Mai più, forse. Tu ti sei sposato e devi stare con Anna: io... faccio un'altra vita... come ci potremmo vedere? - Dici veramente? - Oh sì! - soggiunse lei, con un stanchezza nella voce anzi, vedi, io era venuta per un sol momento e ti ho trattenuto troppo... - No, no ... - Sei lo sposo: ti vorranno, di là... - Come vedi, nessuno mi ha chiamato - mormorò lui, amaramente. - Non importa, è una gran giornata, per te: ho voluto salutarti anche io... mi hai sempre voluto bene... - Anche adesso - rispose lui, candidamente. - Anche adesso - replicò Gelsomina, con intonazione singolare. - Ti avevo portato un piccolo ricordo... avrai avuti molti doni... - No!... io, no. Anna, sì. - Anna, non la conosco - continuò la fanciulla, aggrottando le sottili sovracciglia. - Ho portato a te, questo piccolo dono ... Ella cercò, macchinalmente, nella sua borsetta e trovò un astuccio di raso granato. Lo aprì. Vi era un semplice anello di oro, da uomo, una fascia larga che formava scudo, sopra: sullo scudo era smaltata, in nero, la parola ricordo. Era un gioiello assai modesto di prezzo, assai comune di gusto. Gelsomina teneva l'astuccio aperto, nella mano, e non osava stenderlo a Domenico, - Perchè ti sei voluta incomodare? - disse lui, senza prendere il dono. - Per un ricordo - soggiunse lei. - Perchè non ti scordassi di Gelsomina. Ad ambedue, gli occhi si velarono di lacrime. - Prendi - disse lei, a Domenico. Egli esitava ancora. - Senti, senti, - disse lei, affannando - lo puoi prendere senza scorno. Non è danaro di Franceschino! Non te lo avrei dato un anello, comperato col suo danaro. Non sono capace. Domenico. Avevo... avevo qualche lira mia... da quando lavoravo a macchina... sono queste, le ultime, che ho spese per l'anello. Prendilo. Egli prese l'anello. - Grazie, Gelsomina. Io non ho nulla da darti, per ricordo. - Dammi un fiore. Egli fece un passo, per andare verso il salotto. - Non lì! - disse lei, e lo fermò per un braccio. Macchinalmente, uscirono sul balconcino, ambedue. Era già tardi e il giorno calava sulla massa variopinta delle case napoletane, che si facevano di un solo colore grigiastro: laggiù, il mare, sotto l'arco che fa lo sprone del Vesuvio, era di un color cupo di lavagna. Essi, non guardarono nulla, distratti, assorbiti, travolti ognuno dal proprio destino, misterioso per entrambi, tanto nella fallace speranza di gioia dell'uno, quanto nella realtà dolorosa dell'altra. Domenico colse due o tre margherite già sbocciate sulla piccola pianta, vi unì un ramoscello di basilico, e le porse il mazzolino. - Grazie, Domenico - disse Gelsomina. - Non mi chiami più Mimì? - Eh no! Mimì ti deve chiamare la tua sposa. Ora me ne vado - ripetette, con quel suo dire, come in sogno. - Dio ti benedica, ti benedica sempre! - Dio ti accompagni, Gelsomina. - Scusa se ti ho trattenuto ... - Oh, non fa niente. - Scusa se ti ho rattristato ... - Ma che! - ...in un giorno di festa... Me ne vado, me ne vado. Questi fiori sono di Anna, è vero? - Sì. Dio ti accompagni, Gelsomina. - In ogni tuo passo, Domenico. Senza toccarsi la mano, senza guardarsi, si accomiatarono. Nè egli si accorse che Gelsomina, con un moto rapido, dopo essersi guardata intorno, aveva gittato il mazzolino dai ferri del balcone, giù, giù nel pelago delle case che scendevano, dai Mercanti verso via di Porto. La fanciulla rialzò fieramente e tristemente il capo, ove i grandi occhi grigi lucevano di gioventù, ove la bella bocca schiusa, dal labbro corto, pareva un picciol fiore, e con un gesto fra stanco e rassegnato sparve dalla scala di servizio, col suo passo lieve e un poco molle. E per lei, certo, e, forse per sè, Domenico Maresca fu preso, a un tratto, da una desolazione infinita: guardò l'orizzonte di una delicatissima tinta di viola, già, da quel balconcino della fredda cucina, fra le due misere pianticelle, dove aveva spiccato i fiori per Gelsomina, e il suo cuore si strinse, anche più angosciosamente, nel tramonto di quella giornata, per quella povera anima di fanciulla dispersa e deserta, nel vasto mondo indifferente o crudele. E, macchinalmente, come per isfuggire a quell'incubo di angoscia, volle rammentarsi che egli era, infine, uno sposo felice, che aveva sposato quella mattina, la donna amata, invocata, desiderata, che Anna Dentale era sua, che l'avrebbe condotta a casa sua, padrona e signora del suo cuore e della sua vita. Il giorno finiva, la festa finiva, era l'ora della liberazione e della pace, in una solitudine amorosa, in via Donnalbina. Quando rientrò nel salotto, la popolare mazurka che tutti gli organetti di Barberia macinavano, da due o tre anni, la Dolores, dal ritmo lento e molle, ma non mancante di voluttà, permetteva che i buoni danzatori e le buone danzatrici spiegassero le grazie della loro disinvoltura: quelle note fluttuanti, quelle note cascanti, inducevano ai lunghi passi striscianti, cari a gente che ha, nel sangue, l'eredità delle danze orientali, una mescolanza di allegrezza e di gravità, qualche cosa di vivo e di morbido, insieme. Anna Maresca, la sposa, ballava questa mazurka con Mariano Dentale. Domenico, fermo sulla porta del salotto, se li vide passare, innanzi, con due curve larghe e lunghe, e lo strascico bianco della veste nuziale di Anna gli sfiorò i piedi, leggermente. La danzatrice non si accorse neppure che il suo sposo, colui che ella aveva accettato per marito, innanzi a Dio, nella chiesa di santa Maria la Nova, cinque ore prima, era rientrato in salotto, dopo una non breve assenza, e che, dalla porta, immobile, muto, la guardava con occhi intenti e pensosi. Ella danzava con leggerezza, con eleganza, appena sostenuta dal braccio destro e dalla mano sinistra del suo cavaliere, Mariano Dentale. Costui, ballerino esperto, girava sul ritmo della mazurka, con una grazia giovanile che incantava. Mariano Dentale aveva, sulla bocca vivida, che lasciava vedere i denti bianchi, un poco crudeli, quel suo sorriso fra distratto e beffardo, di bel giovane, sicuro di sè e sdegnoso di ogni altro: ogni tanto pareva che dicesse una parola alla sua dama, parola sommessa, senza che l'espressione dei suo viso mutasse, senza che egli aspettasse la risposta. Anche Anna, ordinariamente così impassibile nella calma della sua bellezza bruna, aveva un sorriso sulle labbra, un sorriso vago, impreciso, non diretto a nessuna persona, forse, non diretto, forse, a nessuna cosa, e forse diretto solo alla vita di cui si sentiva nella pienezza, diretto alla gioventù che le fioriva nelle vene e sul viso. Ella non guardava il suo cavaliere, ma quando costui, girando, le diceva una parola, ella aveva un fremito delle palpebre che si abbassavano, un fugace cenno del capo, e il sorriso si faceva più espressivo, più intenso. Altre coppie ballavano meno bene, mediocremente o male, seguendo la prima, quella di Anna e di Mariano, e gli altri invitati, affaticati e beati, pieni di cibo, di vino, di dolci, di gelati, guardavano, in piedi, o seduti, formando siepe. I tre suonatori, invitati da don Biagio Scafa, avevano già replicata tre volte la Dolores, le coppie si diradavano, già affrante. Soli, oramai, Anna e Mariano, nelle braccia una dell'altro seguivano il metro voluttuoso, con le ondulazioni del corpo e il duplice sorriso sulle labbra. E Domenico Maresca che li guardava, senza esser visto, senza esser curato, da un quarto d'ora, abbandonarsi alla seduzione del ballo, della musica, della gioventù, Domenico, che sentiva il fiotto dell'amarezza invadere largamente, le sue vene, il suo cervello, il suo cuore, Domenico, taciturno, obliato, udì un grande fracasso di applausi salutare la fine della mazurka, che i due avevano ballato così bene, e gli evviva entusiasti salutare la coppia perfetta. Nella casa di via Donnalbina, salutati e abbracciati il padre e il compare, senza dar segno della più fugace emozione, Anna Maresca era entrata da padrona nella stanza da letto, tutta mobiliata di nuovo, e che ella conosceva perfettamente, poichè ogni mobile, ogni arredo, era stato scelto da lei, collocato da lei. negli ultimi due mesi del fidanzamento. Interdetto, Domenico Maresca era restato nel modesto salottino, mobiliato di una bourrette crema e rossa, tappezzeria voluta da Anna, poichè andava di accordo con la sua tinta calda e bruna; e disfatto da quella giornata di travagli materiali e morali, si era gittato sovra una poltroncina. Innanzi a lui, in piedi, era Mariangela, la vecchia serva fedele, tutta grigia nei capelli, tutta rughe nel volto, vestita di scuro, coi fazzoletto bianco al collo delle donne assai divote a Dio, col grembiule bianco. Ella taceva, un po' in ombra, essendo restata in casa per amore del suo padrone, che aveva servito dalle fasce, ma dubbiosa della sua sorte, con la nuova padrona. E una voce breve, imperiosa, risuonò dall'altra stanza: - Mariangela! - Signora? - Un lume. Suonavano le sette e il vicolo di Donnalbina è assai oscuro, con le alte case vecchissime che lo serrano, dalle due parti. Mariangela ripassò, con un lume a petrolio acceso, ed entrò nella stanza da letto, ove si trattenne. Vagamente, Domenico, udiva un andar e venire, un fruscio di seta, e qualche ordine dato con tono freddo e rapido. Dopo un poco, Mariangela uscì di nuovo, accese il lume del salotto, e salutò il padrone col consueto augurio. - La santa notte! - Santa notte, Mariangela. La serva si ritirò, in una stanzetta accomodata a sala da pranzo, e si mise a dire il rosario, all'oscuro, in un cantone, aspettando di esser chiamata. Domenico era sempre solo, nel salotto, non osando di entrare nella camera da letto. Udì un passo, alle sue spalle: Anna si era spogliata del suo bell'abito di seta bianca, aveva tolto i fiori di arancio dai suoi neri capelli; tolti i suoi orecchini, i suoi anelli: indossava una vestaglia di leggera lana rosa, guarnita di merletti color avorio, con un nastro avorio che ne formava larga cintura. Senza dire nulla, si andò a sedere dirimpetto a Domenico, sovra un'altra poltroncina. Egli la guardava intenerito, commosso, gustando tutte le emozioni di quella quiete tanto ambita, di quella solitudine in due, nella loro piccola casa, che era stata quella di suo padre e di sua madre, nella casa che doveva esser quella del loro amore e della loro felicità. Tutte le brutte impressioni, tutti i tristi presentimenti, tutti gli amari dubbii, tutte le penose incertezze della giornata erano sparite, ora che si trovavano, colà, soli, oramai, come egli aveva desiderato e voluto, e come gli era tanto costato, per ottenere. E cento cose egli le avrebbe voluto dire con voce amorosa, con parole amorose, per ringraziarla di averlo accettato per isposo, per donarle, ancora una volta, il suo cuore, la sua anima, la sua vita. Ma non sapeva profferire un solo motto, di quelli che gli fremevano dentro. Anna, seduta, con le braccia prosciolte, taceva. E così, banalmente, egli le disse: - Sei stanca? - Un poco. - Quella festa è stata troppo lunga... - No - ella rispose, subito. Un silenzio. - Vuoi qualche cosa, Anna? - Io? No. - Non hai fame? - Non ho fame. - Mariangela deve aver preparato la cena. - Non ho fame. - Forse prenderesti una tazza di caffè? - Non ne voglio. Prendila tu, se ti pare. - No. M'impedisce di dormire, di sera. Un silenzio, ancora. Un suono limpido e armonioso lo interruppe: era l'Ave Maria, che suonava dalla piccola, vicinissima chiesa dell'Ecce Homo. - Diciamo l'Angelus Domini... - mormorò lui, segnandosi. Anche essa si segnò, macchinalmente, e insieme pronunciarono le parole pie: - Angelus Domini, qui nunciavit Maria ... Domenico si era avvicinato a lei, dopo la comune preghiera. Anna era immersa in quel silenzio e in quella immobilità, ove pareva si assorbisse e si concentrasse la sua vita. Egli la chiamò: - Anna, Anna! - Che è? - esclamò lei, scuotendosi. - Mi vuoi bene, almeno? Tanta supplicazione, tanta malinconia, tanto rimpianto in quell' almeno ! - Eh, sì, sì! - rispose ella, fastidiosamente.

La luce batteva sovra quella massa folta di capelli oscuri, mezzo disfatti sul collo, sovra la metà di un piccolo orecchio bianco appena roseo, ove una grossa pietra verde pendeva, una malachite, e disegnava un profilo abbassato, giovanile, fine. L'uomo, seduto un po' lontano da lei, abbandonava sulla sedia il suo corpo tozzo, così goffo, e sotto la luce vivida le ombre giallastre diffuse sul suo volto, un poco gonfio, scialbo, meglio si vedevano, si vedevano anche le radure dei capelli sulla fronte; e le radure dei baffi che crescevano male, incolti, di un colore biondo biancastro. Pure, gli occhi di Gelsomina, risollevandosi, si fissarono in quelli di Domenico, con un effluvio di simpatia, di fiducia, di speranza. E, ancora una volta, ella parve delusa. Si accorse che, da prima sera, Domenico era profondamente distratto: e che egli aveva dovuto fare uno sforzo, per interessarsi a ciò che ella gli aveva narrato. Gelsomina non disse nulla: un sospiro le sollevò il petto. - È tardi, Mimì - ella riprese. - Che fai tu, adesso? - Chiudo la bottega e vado a casa. - Direttamente? - Direttamente. - E là, che fai? - Mi spoglio, mi corico, dormo. - Hai sonno? Sei stanco? - Spesso la stanchezza non mi fa dormire - replicò lui, con cera turbata, quasi che prevedesse l'insonnia. per quella sera. - E allora, che fai? - Penso. - E che pensi ? - chiese lei, già sorridente. - Alle pecore che hai in Puglia? - A tante cose... a tante persone - mormorò Domenico, quasi dicendolo a sè stesso. - All'oscuro, stai? - No, ho la lampada, accesa, innanzi all'Addolorata. - Io avrei più paura - disse lei, con accento bambinesco e guardandosi intorno - io avrei più paura, con la lampada accesa. Mi parrebbe di vedere delle ombre... - Quali ombre? - Gli spiriti, Mimì, i morti. - Che! - disse lui, come sognando - i morti non ritornano. - Quando ero più piccola, Mimì. io, dopo il rosario, pregavo sempre la Madonna di farmi vedere la mia mamma... sai... quell'altra ... la mamma mia vera... - e i grandi occhi di Gelsomina si fissarono, sognanti, guardando, nell'ombra, verso la strada. - E l'hai mai vista? - domandò ansiosamente Mimì Maresca. - No; mai. - E io neppure, mia madre. - Ma tu non te la ricordi? - chiese ingenuamente la fanciulla. - Non me la ricordo - disse, brevemente, il pittore dei santi. - Io sì, io sì, la mia. - Beata te! - mormorò lui. - Io non ho neppure un ritratto, nella casa mia, che mi pare un deserto. - Chi vi sta? Sola, Mariangela? - Mariangela, nessun altro. Un giorno o l'altro la povera vecchia se ne muore, e un saluto alla compagnia. - E tu... tu... perchè non ti ammogli? Gelsomina si vergognò della domanda, subito dopo averla fatta. arrossi lievemente e strinse la bocca, contegnosamente, per assumere un aspetto serio. - Non vi ho mai pensato... - disse Mimì, semplicemente. - E pensaci! - Nessuna mi vuole: sono brutto: non so dire due parole: tutte mi rifiuterebbero. - Perchè dici questo, perchè lo dici? - protestò lei, fra la collera e la tristezza. - Sei così buono! Sei un santo! Tutte ti vorrebbero! - Tutte, sarebbero troppe - rispose lui con un sorriso affettuoso, innanzi all'entusiasmo della sua amica Gelsomina. Una, basterebbe. - E perchè non la cerchi, Mimì? - Io? Non ho il tempo. Ho da scolpire i santi, ho da dipingere le Madonne. - Non ti occupi che di questo? - Così mi hanno avvezzato - conchiuse lui, malinconicamente. Tacquero, ancora. Ella sollevò lo scialletto sul capo, se lo legò sotto il mento. Era pensosa, di nuovo: incerta, anche, come se volesse fare o dire qualche cosa, e una forza intensa la rattenesse. Si mordette, un istante, il breve labbro inferiore. - È tardi, Mimì, me ne vado: buona notte. - Vuoi compagnia? - No, no. non importa: sono due passi: tutti mi conoscono: buona notte; è tardi: buona notte. - Mammà non ti sgrida, perchè hai fatto tardi? - No: sa che dico due parole con te, dopo la Congregazione. Non mi sgrida mai, per te. Tu sei un santo! La fanciulla puntò le sue ultime frasi di un piccolo riso. ove vibrava un po' di scherno. Mimì parve non avesse udito ed ella, partendo, ora, decisamente, dalla soglia. gli ripetette, con una voce, ove vibrava una tristezza profonda: - Buona notte, Mimì. Si allontanò, la figurina vezzosa, muliebre, nella oscurità della via: i passetti lievi si allontanarono. con un rumore sempre più fievole. Inconsciamente, un sospiro sollevò il petto del pittore dei santi. L'uomo veniva, in fretta, quasi, dal tetro vicolo di Donnalbina, che si distende da via Monteoliveto sino alla piazzetta della Madonna dell'Aiuto: l'aria della notte si era fatta gelida, e, ogni tanto, un rude soffio di vento spazzava la polvere, verso i Banchi Nuovi: l'uomo era chiuso in un pesante cappotto e portava intorno al collo una grossa sciarpa di lana, in cui abbassava il viso, un viso di cui si vedeva bene il colore scialbo, malgrado le ombre notturne. Poi, in piazza, il suo passo si rallentò, divenne incerto: obliquò, a diritta, verso la chiesa della Madonna dell'Aiuto, verso la bottega dei santi, che, a quell'ora, era ermeticamente serrata. Giunto nella viuzza deserta, appena rischiarata, in fondo, da una vacillante fiammella di gas, in fondo, verso santa Maria la Nova, l'uomo si fermò e levò gli occhi, in alto, verso quel lato alto e bruno del grande palazzo Angiulli. Come nelle prime ore della sera, lassù, in alto, vi era un balcone illuminato: ma illuminato senza vivacità, tenuamente, come da un povero lume modesto, che rischiarasse un lungo lavoro, un lungo pensiero, una lunga infermità, qualche cosa di paziente, di costante e di silenzioso. L'uomo, Mimì Maresca, immobile, col volto levato in alto, teneva fissi gli occhi in quella luce quieta e mite, e non pareva si accorgesse del tempo che trascorreva verso la mezzanotte, delle folate di vento che s'ingolfavano dal vicolo nella piazzetta, e che gli sbattevano sul viso, col rigore della tramontana, tutto il pulviscolo immondo della strada, che nessuno aveva spazzata, nella giornata. Un viandante passò, in gran fretta, urtando Mimì Maresca: costui, macchinalmente, si scostò, si appoggiò allo sporto della sua bottega chiusa, senz'accorgersi dello sguardo diffidente che, allontanandosi, lanciò su lui, colui che passava, lo sguardo di chi crede di essere sfuggito a un ladro. Più tardi, lentamente, da san Giovanni Maggiore, si avvicinarono due carabinieri, muti, quasi indifferenti: costoro squadrarono il pittore dei santi che restava addossato alla sua bottega, e senza dirsi nulla, tirarono avanti, ma con maggior lentezza. Egli di nulla si avvedeva, quasi che lo assorbisse il più intenso fra i pensieri che, in tutta la giornata, lo avesse perseguitato, e che fosse stato perseguitato, a sua volta, dal lavoro, dalle visite, dalle cento distrazioni dei fatti e delle persone; un pensiero che, infine, in quell'ora nera, gelida, tacita, della notte, riportasse la sua vittoria sovra ogni cosa, ogni fatto, ogni persona: un pensiero che, nella solitudine della sua triste casa del vicolo Donnalbina, avesse impedito ogni sonno e ogni riposo a Domenico Maresca, lo avesse strappato al caldo, al letto, e lo avesse spinto, a quell'ora, nella via solo, solo, solo, con gli occhi messi in quella luce fioca lontana: un pensiero! E, a un certo punto, quasi che il potere fascinante dello spirito che desidera e che invoca, avesse esercitata tutta la sua misteriosa forza, dietro i vetri del balcone alto, un'ombra apparve, oscurando metà di una impannata. La persona, una donna, era così lontana, che era impossibile discernere nessun tratto. Pareva, solo, che avesse appoggiata la fronte al vetro, poichè vi rimaneva immota, in atto silenzioso, in atto di stanchezza. Non vedeva, ella, certo, nella via, colui che, appoggiato contro il bruno legno della bottega dei santi, vi si confondeva nei suoi panni bruni, nelle tenebre notturne. Non vedeva, certo, che Domenico Maresca tremava, laggiù; le sue labbra, un po' schiuse, pareva che mormorassero incomposte parole, di cui non si udiva il suono; le palpebre battevano sugli occhi immoti. Senza aver visto, certo, l'ombra femminile si arretrò, scomparve. Poi, dopo un momento, anche la tenue luce si spense. E solo, solo, solo, il pittore dei santi, giù, piangeva.

Abbassato il capo sulla sua opera, con le belle mani abili che andavano e venivano, Mimì Maresca tendeva l'orecchio, a udire i passi bizzarri dello sciancatello, che dovea ritornare. Talvolta, costui tardava; e in silenzio attivo, Mimì Maresca già fremeva d'impazienza. Lo storpio rientrava in bottega: e ripeteva la risposta: - La signora si pettinava e non ha potuto scrivere. Oppure: - La signora dormiva. Oppure: - La signora ha detto che ve ne parlerà stasera, quando tornate a casa. Oppure la risposta dura: - La signora era uscita. Durissima notizia! Il marito innamorato e non amato, non amato più, o non amato mai, trasaliva tristemente. E a malgrado che tutto egli volesse nascondere, vergognandosi della sua inquietudine, temendo persino il giudizio del suo fedelissimo Gaetano Ursomando, che nulla aveva mai l'aria di vedere e dì udire, egli soggiungeva, ansioso: - Uscita? Dove è andata? Da quanto è uscita? - Non lo so - era, per lo più, la risposta dello sciancatello. - Ritorna da Mariangela e domandaglielo. Ah che nell'intervallo, Mimì Maresca non potea riprendere il lavoro: gironzava per la bottega, con quei suoi passi incerti e strascinati, brancicando con le mani fra i colorì e i pennelli. rovesciando qualche vasetto di porporina, e gittando degli sguardi spersi sulle piccole Madonne e sulla immensa Addolorata del fondo. E di nuovo, la voce di Nicolino risuonava: - La signora è uscita da un'ora; non ha detto dove andava,: Mariangela suppone che sia andata da qualche parente. Così! Non passava giorno, in cui Anna Dentale non si vestisse in elegante abito e non andasse a trovare suo padre, i suoi zii, le sue zie, le cognate, le cugine, le parenti lontane. Il costume della piccola borghesia napoletana, in una austera riservatezza, non consente che le donne maritate escano, senza essere accompagnate dal loro consorte: molto più le spose. E tante di esse, coi mariti alle botteghe, ai commerci, alle industrie, agli impieghi, si rassegnano facilmente a una vita claustrale, aspettando la domenica per uscire, a messa, e ad una passeggiata, col marito. Non Anna! Senza chieder permesso, senza chieder consiglio, senza chieder parere, dalla prima settimana, ella era uscita sola, in qualunque ora del giorno, con grande mormorazione del quartiere: e a qualche rimostranza affettuosa del marito, fatta solo all'inizio di queste uscite, ella aveva rudemente risposto che non intendeva di deperire in quella brutta e deserta casa di via Donnalbina, che voleva vedere i suoi, sempre, e che li sarebbe andati a trovare ogni giorno. E i Dentale erano numerosissimi: se ne scovrivano ogni giorno di più, lo zio Casimiro, il prozio Stefano, l'arciprete Giovanni, il canonico Ottaviano, la zia Carolina, la cugina Candidella, nomi costantemente nuovi, che si accumulavano coi vecchi. Don Carluccio, chiusa la farmacia sua, rabberciato alla meglio il fallimento, per isfuggire all'accusa di bancarotta fraudolenta, si era assoggettato come giovane, da un suo parente, altro farmacista, in via Costantinopoli: ma vi lavorava poco, malcontento, impaziente, impertinente, e vi guadagnava pochissimo: la figliuola non solo lo soccorreva di danaro, ma lo andava a cercare, spesso, in farmacia, se ne uscivano, via, insieme, parlottando in segreto, complottando, diceva il parente farmacista. Anche Domenico, per affetto, per gentilezza di animo, aiutava di denaro suo suocero, nè costui risparmiava il genero: ma sempre dall'alto, con un fare da gran signore, promettendo sempre di restituire, come se avesse dovuto rifar fortuna, un giorno: e, infine, don Carluccio Dentale si era organizzata una buona vita, con tutto ciò che gli serviva. Di sera, spesso, si presentava in casa Maresca, all'ora del pranzo, e aveva l'aria di elargire un onore grande al padron di casa, discorreva con altiera bonarietà, quasi sempre con sua figlia, conservando un segreto disdegno per Mimì, uomo di popolo, nato da gente di popolo, a cui egli aveva dovuto sacrificare Anna Dentale, una signora! Chiacchierando, con la sua figliuola, ambedue avevano un gergo familiare, dei ricordi a cui Domenico nulla intendeva, dei sorrisi d'intelligenza, dei sensi sottintesi nelle frasi; e citavan nomi, fatti e date che egli ignorava; e si abbandonavano alle memorie, ai progetti, alle speranze, isolandolo, obliandolo, come se egli mai fosse esistito, escludendolo, persino, da ogni discorso di avvenire. Alla sfuggita, ogni tanto, Mimì comprendeva che Anna e il padre si eran veduti, nella giornata, che erano andati insieme, chi sa dove, chi sa in quale ora. Talvolta, sempre al principio, un po' scherzando, un po' sul serio, egli aveva rivolto, a tavola, qualche dimanda suggestiva. Subito, aggrottate le sopracciglia, Don Carluccio aveva assunto un contegno offeso: - No, no, caro Mimì, non scherziamo. Quando mia figlia è con me, voi nulla dovete sapere. Sono il padre e basta. È già molto, avervela data in moglie. Non intendo sopportare altro. Quanti Dentale esistevano, e loro affini, e amici loro, tutti in rapporto con Anna e che costei vedeva sempre, mentre suo marito si affannava a plasmare i visi rosei e ridenti agli angioletti, intorno all'Assunzione di Maria, e dipingeva di un bianco latteo le nuvole che portavano in Cielo la Vergine! Abitava, tutta questa gente, nei quartieri più eccentrici, più lontani fra loro, a santa Teresa di Capodimonte, all'Arenaccia, a Montecalvario, a santa Lucia, a Basso Porto, a Materdei; ve ne era persino una, Francesca Dentale Catalano, oltre la Riviera di Chiaia, alla Torretta! E Mimì si figurava Anna, andando a piedi, alle visite più vicine, in tram verso quelle più accessibili, in carrozza da nolo alle più lontane, se la figurava... dove, dove, posto che egli si confondeva, in tanta parentela, in tante amicizie, con tanti nomi? La sera, egli, malgrado che sapesse di annoiarla. non poteva reprimere la domanda: - Sei uscita? Per lo più, ella non rispondeva alla prima richiesta, in una di quelle sue distrazioni tanto opportune. - Già. - Sei andata... dove? - A fare una visita. Silenzio, ancora. - Dalla tua madrina, donna Giuseppina? -... no. - Da tuo padre? -... no. - Da Francesca Dentale? -... no, no. Sono andata altrove... - Ah!... - esclamava lui, come aspettando. Ella si decideva.. - Sono stata da Maria Garzes. - E chi è, costei? - Non la conosci. Una mia compagna di monastero. - E dove abita? - A Salvator Rosa. - È maritata? - Sì, maritata; agiata. - E chi ha sposato? - Un signore, naturalmente - concludeva lei, per punirlo delle sue investigazioni. Raumiliato, egli cessava d'indagare. E le doveva credere sulla parola: poichè, per metodo, Anna aveva fatto sì, che i suoi parenti, salvo suo padre, non vedessero che raramente, molto raramente, suo marito. Con un'abilità perfetta, dovendo egli stare a bottega, tutto il giorno, non facendosi restituire che pochissime visite, non andando con lui, di domenica, quando egli era libero, che a messa, a passeggiare in Villa e, la sera, in un teatro, ma sempre sola, con lui, evitando gl'incontri, fuggendo ogni gita in compagnia. Anna aveva isolato Mimì Maresca. A qualche tentativo infelice lui, per vedere qualcuno di costoro, almeno i parenti più prossimi, a qualche atto di cortesia, di familiarità che egli aveva voluto compiere, ella aveva opposto un rifiuto secco: e se il pittore dei santi aveva voluto insistere, Anna gli aveva fatto intendere, pur senza dirlo, che i suoi parenti. essendo di un ceto molto più alto del suo, non avevano piacere di trattarlo. Immediatamente, nella sua triste semplicità. egli aveva ceduto. Sempre gli ricadeva sulle spalle, come un peso di pietra, questa differenza di condizione: Anna non gli risparmiava una sola volta questa verità, in ogni particolare quotidiano della vita, in certe lezioni che gli infliggeva, con fare altezzoso e noncurante, in certi segni costanti di disprezzo, che ella esercitava contro di lui. Ogni sua consuetudine semplice, ogni suo costume, ogni tradizione familiare, ogni uso popolare, tutto questo svolgersi dell'esistenza, in una certa maniera, avevan trovato in Anna un giudice rigido, inesorabile: e tutto, lentamente, malvolentieri, egli aveva dovuto mutare, anche quello che più gli era caro, anche quello che era stato caro a suo padre, a suo nonno, anche quello che egli vedeva fare a tutta la gente della sua condizione. Frizzante, sardonica, Anna colpiva, dalla sommità della sua signorilità, tutto ciò che per tanti anni era stato il fondo della vita di Mimì Maresca, fondo grezzo ma onesto, volgare, forse, ma bonario, superstizioso, forse, ma non mancante di tenerezza: e Mimì chinava il capo, rinunziava a mangiare certi cibi, in certi giorni, rinunziava a certe ore di riposo, nella stagione estiva, rinunziava a celebrare certe feste, rinunziava a certi pellegrinaggi, in certi anniversarii. Ella non transigeva. Era una signora: e tale voleva restare, e tentava, inutilmente, diceva lei, di dargli qualche gusto di signore. Ella si era rifiutata, violentemente, a ricambiare nessuna delle visite fattele, con pompa, dai parenti Maresca. Solo negli otto giorni, dopo le nozze, in gran lusso, col suo più bell'abito, coi suoi più ricchi gioielli, ella aveva acconsentito a visitare la moglie del compare di anello, donna Gabriella Scafa, la ricca moglie del Re della Immagine, quel marito e quella moglie che dominavano, con un imperio sovrano, tutta la regione di san Biagio dei Librai, sino a via Tribunali, sino a Forcella, sino al Duomo, dovunque una piccola o grande bottega di figure e di figurelle esponesse le sue immagini, quei possenti Scafa che il trionfo della oleografia sacra, a buon mercato, aveva arricchito. Con costoro, sì, una o due volte l'anno, in cerimonia, accompagnata da Domenico Maresca, trattenendosi un quarto d'ora, scambiando delle frasi convenzionali, senza nessuna cordialità: e ricevendo la visita di ricambio, allo stesso modo, in via Donnalbina. mandando a chiamare Mimì in bottega e portando, Anna, la sua più ricca vestaglia. A nessun altro, una visita: neppure alla zia Gaetanella Improta, quella dell'eredità, quella che non portava cappello, pur avendo molti danari. Quando la Improta era nominata, quando si nominava un parente Maresca, la bella bocca di Anna Maresca si gonfiava di sprezzo e il suo silenzio, ostinato, ingrandiva anche più quella espressione costante. Nessuno di essi aveva osato farle una visita, avendone compreso l'animo nella festa di nozze, e man mano, Domenico Maresca, era stato messo da parte anche da queste antiche parentele, da quelle umili conoscenze, gente che gli voleva bene, prima, ma che, adesso, lo compativa, crollando il capo, prevedendo chi sa quali brutte conseguenze, da questo matrimonio; e se, per caso, egli s'incontrava con uno di costoro, se egli andava loro incontro, con le braccia aperte, con il suo buon sorriso sulle grosse labbra smorte, l'altro assumeva un contegno gentile ma distaccato: se egli nominava sua moglie, l'altro, subito, troncava il discorso. Tutto egli comprendeva, Mimì Maresca, con una sensibilità profonda, affinata, adesso, da un amore che ne eccitava i nervi e le facoltà: sentiva che lo sfuggivano, sentiva che lo compativano, sentiva che essi temevano di Anna, sentiva che essi prevedevano cose molto cattive. E si rinchiudeva, sempre più, nella solitudine della sua passione ardente, oscura, esclusiva e unica: e si aggrappava, per poter vivere, a questa passione di cui Anna non gli permetteva, oramai, più, che pochissima o niuna manifestazione. E non avevano figli! - Ringrazio Iddio, mattina e sera, perchè non mi manda figli - esclamava lei, ogni tanto, guardando suo marito nel viso, perversamente. A questa parola sacrilega, a questa preghiera sacrilega. Domenico Maresca allibiva. In tutte le classi sociali napoletane, è così profondo il desiderio, il bisogno, la necessità di avere dei figliuoli, che un matrimonio senza figli, è considerato con viva compassione per i coniugi e, anche, con una senso di disistima. Scendendo, poi, nella piccola borghesia, nel popolo, le nozze infeconde sembrano una sventura familiare. Più innamorato che marito, più amante che padre, Mimì Maresca provava, sul principio, molto superficialmente la nostalgia di questi figli che non venivano: ma, un anno e mezzo dopo, in lui, fatto più preoccupato, più triste, più segretamente infelice, deluso profondamente dall'amore, crucciato dai sospetti più intimi, non potendo più orientare la sua misera vita sentimentale, cercando un punto sull'orizzonte cui tendere il suo cuore deserto, questa nostalgia si era fatta più acuta: e non poteva comporre, con le sue nobili mani dedicate alla più sacra delle fatiche, con quelle mani che erano la sola bellezza della sua brutta persona, con quelle mani in cui si traduceva la dolcezza della sua anima, non poteva plasmare, o dipingere una testa di angioletto, senza fremere di invincibile malinconia. Egli voleva fare, nel suo ardente desio, una statuetta del bambino Gesù, alla maniera antica, come i pittori di santi antichissimi: una statuetta, alta come un bambino di due anni, un piccolo Gesù roseo e biondo, con le manine aperte e distese, con la boccuccia schiusa. Questo bambino Gesù si veste di un abituccio di raso grigio perla, abituccio orlato al collo, alle maniche e alla gonnelluccia di una trina di oro, e la stoffa è tutta ricamata a zecchini di oro, scintillanti: sul bel capino riccioluto si posa una coroncina chiusa di argento: e al collo, sul petto, sulle braccia tese del piccolino, si appendono fili di oro con medaglioni, vezzi di perle, vezzi di coralli, e tutti gli strani ex voto della fede meridionale. Se Dio gli dava un figlio, una figlia, Mimì Maresca avrebbe offerto al Signore questa sorridente e ricca effigie del suo Divin Figlio, opera di Mimì Maresca, la statuettina dai piedini rosei e nudi sul piedistallo, e tutto fornito da lui, la veste, la coroncina, l'oro, i voti. Nulla sapeva Anna di questo già potente e dolente desiderio del marito, poichè egli non osava parlarne. Solo, qualche volta, indirettamente, gli usciva dal cuore, al derelitto pittore dei santi, innanzi all'altiera creatura del suo inutile amore, una esclamazione d'invidia, se si parlava di una coppia cui era nato un figliuolo: solo, qualche sospiro, gli usciva dal petto, se incontravano, nelle loro passeggiate della domenica, delle famiglie placide. precedute da una piccola schiera di figliuoli, vestiti graziosamente. - Beati loro! - mormorava lui. E, subito, Anna Maresca ribatteva: - Anche tua madre, non ne ha fatto che uno. Egli impallidiva mortalmente. Era una cosa insopportabile, per lui, udir nominare sua madre da Anna: poichè ella lo faceva glacialmente, con una malvagità premeditata, guardando negli occhi suo marito, costringendolo ad abbassarli, costringendolo a tacere e a divorare la sua amarezza. Alle otto di sera, un sabato, di settembre, Mimì Maresca bussò in fretta alla porta di casa sua, in via Donnalbina. Ordinariamente rientrava alle sette, per il pranzo: ma, in quel giorno, il lavoro forte che vi era stato in bottega, il viavai di clienti, degli ordini da dare a Ursomando e allo sciancato Nicolino, per il lunedì, gli avevano portato via più di un'ora. - È tardi, Mariangela, ho fatto tardi - disse lui, alla vecchia domestica che era venuta ad aprirgli, passandole avanti. - Il pranzo sarà pronto? - Sì - rispose costei, con un accento singolare. In un minuto, Mimì, aveva percorso le tre piccole stanze dell'appartamentino. Anna non vi era. Sconvolto, egli corse in cucina, ove la serva si affaccendava attorno ai fornelli. - Mariangela, dove è la signora? - È uscita. - Uscita? Da quando? - Dalle quattro. prima, forse. - E non è tornata? Alle otto? Come è possibile? Una pena viva ispirava le sue esclamazioni. La antica domestica che lo aveva visto nascere, che lo aveva cullato, portato a scuola, amato come un figlio e venerato come un padrone, lo guardava con atto di profonda pietà: - La signora ha mandato una lettera per voi - ella mormorò. - La lettera è in istanza da pranzo, al vostro posto, dove si mettono sempre le lettere. Egli vi corse. Un bigliettino era deposto, sul suo tovagliolo: scritto a lapis, sovra un mezzo foglietto che pareva strappato da un taccuino maschile, e chiuso in una busticina da carta da visita. Diceva, il biglietto: "Caro Mimì, devi pranzare solo. Sono andata a far visita a Francesca Dentale, perchè era l'onomastico di suo marito Gennarino, e mi hanno gentilmente trattenuta a pranzo. Non t'imbarazzare per venirmi a prendere, perchè vi è chi mi accompagna - Anna". In una profonda confusione, egli cadde sovra una sedia, al suo posto, in quella stanza da pranzo, ove erano sempre in due, da un anno e mezzo, e dove, quella sera, gli toccava restar solo, pranzar solo, poichè Anna lo abbandonava, con una libertà di azioni, una disinvoltura e una indifferenza completa. Mai, mai, era restata a pranzo fuori di casa, neppure col padre, nè per un invito formale, nè per una occasione fortuita e, così, a un tratto, per affermare la propria indipendenza, di fronte ai parenti Dentale, ella non rientrava, pranzava altrove, lontana, avvertendone con un biglietto arido, senza una parola di scusa, senza un saluto, senza dire a che ora sarebbe rientrata, togliendogli anche, brutalmente, il diritto di andarla a riprendere, facendogli intendere, chiaramente, che voleva fare il suo comodo e non esser infastidita da lui. - Debbo servire? - domandò timidamente, dalla porta, Mariangela, al suo padrone che, con la testa fra le mani, coi gomiti puntati sulla tavola da pranzo, cercava vincere i suoi nervi tesi dallo spasimo. - Servi pure. Ma della buona zuppa di erbe fumanti, egli non prese che una cucchiaiata: brancicò, col coltello e con la forchetta, un pezzo di carne allesso e lasciò stare tutto. Si passava, macchinalmente, la mano sulla fronte, volendo calmarsi, volendo riprendere un po' di tranquillità, sempre con la paura che qualcuno indovinasse la cura insopportabile che aveva dentro. Anche di Mariangela aveva soggezione, quantunque ne conoscesse la devozione assoluta. E tentò, con uno sforzo, di chiarire, alla sua domestica, quell'assenza così strana, la padrona che lascia la casa e il marito, per andarsene a pranzo, da parenti che egli non vedeva mai, in un rione lontano, per ritornare chi sa a quale ora della sera, forse avanzata. - Me lo imaginavo... - egli mormorò, come fra sè... - Era naturale che donna Francesca Dentale la trattenesse a pranzo... è san Gennaro, oggi... aveva un bell'abito, Anna, oggi? - Sissignore. Quello nero, tutto ricamato di perline. - Oh! E ti ha detto nulla, per me?. - No. Se lo doveva immaginare, però, che sarebbe ritornata di notte, perchè ha portato via la mantellina - soggiunse la domestica, candidamente. - Ah! - esclamò lui, trafitto di nuovo. - E chi ha portato questa lettera? - Un fattorino di piazza. - Da dove veniva? - Da Chiaia, mi ha detto. - Già. E chi gliela aveva consegnata?. - Un giovanotto, mi ha detto. - Ah! - disse lui, senza aver forza di conoscere altro. Col coltello, tagliuzzava minutamente la corteccia dell'arancia, che aveva cercato di mangiucchiare. Si levò di tavola, andò in salotto, vi restò, in piedi, guardandosi intorno con quello sguardo sperso che egli assumeva, nelle ore difficili della sua vita. - Volete del caffè? - chiese la vecchia fedele, dalla porta. - No, no. E per non mostrare anche più la sua miseria morale, aprì un giornale della sera che Anna comperava, con un soldo, quotidianamente, da uno strillone: e che ella leggeva lungamente, per isfuggire, spesso, alla conversazione con suo marito. Mimì scorreva le colonne di parole e di lettere e non intendeva nulla. Due volte, guardò l'orologio: non erano ancora le nove. E pensava, tra sè stesso, che non avrebbe resistito, ad attendere, in casa, Anna. Egli non esciva mai, dopo pranzo: e certo, Mariangela, avrebbe compreso la sua ansia, vedendolo partire: e si vergognava. Ma come resistere? Si sentiva male: correnti di gelo, correnti di fuoco gli attraversavano la persona: ebbe paura di aver la febbre, una febbre improvvisa, che gl'impedisse di andare. Mariangela rientrava, adesso, in salotto e lo guardava coi suoi buoni occhi amorosi e pieni di pietà. Voleva dirgli qualche cosa, si vedeva, mentre egli fremeva di fuggire. - Che vuoi? - chiese lui, rodendo il freno, fingendo una calma perfetta. - Volevo dirvi, don Domenico, che questi sono gli ultimi giorni che resto al vostro servizio ella pronunciò, con uno sforzo per celare la sua emozione. - E perchè? Perchè? - esclamò il padrone, stupito. - Perchè me ne vado - ella soggiunse, rassegnatamente. - Te ne vai? Dove, te ne vai? - Ho una sorella, ad Airola, vicino Benevento; è il paese dove sono nata, Airola. A questa sorella e a me, nostro padre ha lasciato una casetta, una stanza e una cucina sola; niente altro. Vado a morire là, nel mio paese, don Domenico. - E mi vuoi lasciare? Dopo tanti anni! - gridò lui, sinceramente commosso, dimenticando i suoi guai. - Io non vi lascerei - mormorò essa, con dolcezza servile. - È la vita che mi lascia. - Tu puoi campare molti anni ancora, Mariangela! - Ma non posso più servire - ella replicò, sempre con umiltà, a capo basso. - E come vivrai, poveretta? La casa non basta. - Ho qualche soldo, da parte, dopo tanti anni, che servivo qui: io non spendevo nulla, papà vostro e voi, eravate così buoni! Non pensate; avrò sempre un tozzo di pane. - Oh Mariangela, Mariangela, tu te ne vai! - disse lui, dolorosamente. - Te ne vai, così, dopo tanti anni! E Anna lo sa? - Lo sa - disse l'altra, con tono rassegnato. - E che dice? Che ti ha detto? La vecchia domestica non rispose. Mimì ebbe l'animo attraversato da un sospetto. - Non ha detto nulla, per trattenerti? Mariangela levò gli occhi sul volto e, a bassa voce, confessò la verità. - È lei che mi ha licenziata. - Lei? Lei? - Sì, lei. - Licenziata, proprio? - Oggi. Prima di uscire. Per la fine del mese. - E perchè? perchè? - Dice che sono vecchia, che non posso più servire, che non ho mai saputo servire. Sono vecchia, io; ed essa ne vuole una giovane - disse rapidamente, tremando, la poveretta. E per umiltà di animo cristiano, soggiunse: - La padrona ha ragione. Sono vecchia. non mi reggo più in piedi, me ne debbo andare. E, involontarie, sole, due lunghe lacrime discesero sulle guance scarne e rugose, gelide lacrime di vecchia creatura povera e finita, oramai. - Povera Mariangela - disse lui, con un sospiro profondo, ove parve si esalasse tutto il suo rammarico impotente e inutile. Non altro. Il suo tormento lo riprendeva, a morsi atroci, e, senza più aver la forza di reprimersi, afferrò il cappello e uscì di casa, accompagnato dal pio e tenero augurio di Mariangela, un augurio in cui, quella sera, trapelava, anche. la tristezza delle cose che non sono più. - La Madonna vi accompagni, in ogni passo che date. Quando fu fuori di casa, Mimì Maresca, nella molle serata di settembre, attraversata da qualche debole soffio fresco di un autunno che si avanzava, quando i suoi rapidi passi lo ebbero portato, dalla stretta e tetra e deserta via di Donnalbina, ove solo due fanali a gas, fiochi, diradavano le tenebre, in via Monteoliveto, bene illuminata, animata da viandanti, in ogni senso, attraversata continuamente dai trams che venivano da lontano, dai quartieri estremi sul mare, quando egli fu tra la gente, camminando in fretta, si sentì sollevato. un poco. Niuno sapeva dove corresse quell'uomo dallo scialbo e floscio viso, tutto assorto in un pensiero fisso, ed egli stesso andava, andava, verso via Fontana Medina. verso Piazza Municipio, spinto da un istinto di ricerca affannosa, d'inquieta indagine. Come quegli si accostava al centro della città, l'animazione della sera di morente estate, si facea più viva. File di donne passavano, venendo da Santa Lucia, da Chiaia, risalendo verso Toledo, verso i quartieri alti: altre file discendevano, e tante donne erano vestite di chiaro, quasi tutte; e molte erano vestite di bianco; e dei ventaglini si agitavano, nelle mani muliebri, delle risa trillavano, qua e là, una gaiezza circolava nell'aria, nelle cose, nelle persone; e i caffè avevano le loro tavole sui marciapiedi, sulle piazze, e la folla le occupava da pertutto; e delle musiche risuonavano, eseguendo dei pezzi popolari, delle canzoni alla moda, delle arie di ballo. Era giorno di festa, infine, per chi rispettava san Gennaro, il Patrono: e, sovra tutto, era una di quelle splendide sere di settembre, quando la gente si riversa ovunque si possa godere il fresco, sotto il chiarore delle stelle. Colui che scendeva per via Chiaia, sempre a piedi, sempre rapidamente, Mimì Maresca, percepiva superficialmente lo spettacolo così vivido e così simpatico della sera di estate: egli si urtava con le persone, scansandosi macchinalmente, proseguendo la sua via, cieco e sordo a ogni altra cosa, che il suo furioso desiderio non fosse: ritrovare Anna, subito, riprendersela, riportarsela a casa. E, animato da questa monomania, non si fermava a rammentare tutti i particolari bizzarri di quell'avventura disgraziata: la premeditazione, certo, che Anna aveva avuta in quella giornata: la brevità offensiva del biglietto: quel foglietto di provenienza non femminile: e quell'uomo, quel giovanotto che aveva consegnato la lettera al fattorino. No, tutto ciò gli era sfuggito dalla mente; egli correva, soltanto, per ritrovare Anna, non sapeva altro, andava, andava, diritto innanzi a sè. Fu sotto le grandi lampade elettriche di piazza Vittoria, ove i più bei palazzi patrizi mettono le loro facciate, ove il più elegante club di Napoli, il Nazionale , aveva la sua veranda illuminata e, fra le piante, sdraiati nei seggioloni di paglia, i socii sorbivano delle bevande ghiacciate e fumavano delle sigarette, fu solo lì, in piazza Vittoria, fra un andirivieni di persone, fra il rumorio sempre più forte dei trams , che Mimì Maresca si fermò di botto. Dove andava? Dove andava? Non ignorava, egli, forse, l'indirizzo di Francesca Dentale? Dove andava? Egli sapeva soltanto che la bella cugina di Anna, sua moglie, abitava alla Riviera di Chiaia; ma quella via è così lunga, così lunga! Sapeva, ancora, che Francesca Dentale abitava verso la Torretta, alla fine, proprio alla fine della Riviera di Chiaia, ma dove, specialmente, a qual numero, egli lo ignorava, Dove si dirigeva? A chi chiedere? In che posto fermarsi? Con quale indizio trovare questa casa? La sera si inoltrava, la Riviera di Chiaia, fatta di grandi edifizi aristocratici, fiancheggiati da piccole case borghesi, aveva pochissime botteghe, quasi tutte chiuse, o che si andavano chiudendo. Dove andava, dunque, Mimì Maresca, in una regione di Napoli così lontana dalla sua, in vie belle e popolose, ma che egli non frequentava quasi mai, dove andava, a cercare sua moglie, una donna, in una grande strada lunghissima, di cui l'occhio non scorgeva la fine, la cui larghezza impediva di riconoscere qualcuno, da un lato all'altro, con un fluttuamento costante di persone, con un movimento rapidissimo di equipaggi, dove andava egli, dunque, a cercare Anna, in una casa sconosciuta, egli non esperto, non pratico, profondamente scosso e già pentito dell'invincibile impulso che lo aveva spinto colà? E, dove andava, dunque, costui, quando gli si era detto che non lo volevano? Perchè andava, quando niuno lo desiderava, quando, egli ne era certo, sarebbe giunto inaspettato e mal gradito? Dove andava egli mai, quando la volontà di Anna era stata così chiara, così limpida, proibendogli di andarla a prendere, poichè aveva compagnia, e migliore della sua? Dove andava, quando ella lo aveva confitto a casa, in via Donnalbina, con quel biglietto, quando ella non voleva saperne, della sua presenza, divertendosi, ballando, forse, fra gente del suo ceto, ed escludendo lui, escludendolo assolutamente, lui popolano, pittore dei santi, senza finezza, goffo, goffissimo, insopportabile a lei? Dove andava mai, dunque, per farsi ricevere come un cane in chiesa, anche se avesse ritrovata la casa di Francesca Dentale, per farsi scacciare, forse, da sua moglie? E tutto l'ardor di ricerca, dunque, di Mimì Maresca era caduto: la debolezza spirituale, che era il fondo del suo essere, lo assaliva, novellamente, gli spezzava le forze fisiche e le morali. A passi lenti, oramai, si era messo sul marciapiede che rasenta il trottatoio della Villa e si trascinava lungo la ringhiera di ferro che difende i pedoni, alla mattina, dal trotto dei cavalli, su cui gli sportmen vanno e vengono, sotto le ombre dei grandi alberi del giardino pubblico, Di sera, alle nove e mezzo, non vi erano sportmen , ma il marciapiedi era ancora affollato, con la freschezza settembrina, con i profumi che venivano dai giardini di casa Colonna, di casa Alvarez de Toledo, del Vasto, di Monteleone. I suoi pensieri, in piazza Vittoria, avevan distrutto la sua esaltazione momentanea e, con essa, la sua momentanea forza. Camminava, sì, ma come un'ombra folle e vana, rallentando il passo, fermandosi, fissando gli occhi innanzi, ma senza vedere nulla, respinto spesso da chi gli passava accanto, respinto a diritta, a sinistra, sorpreso, costantemente, dal passaggio filante e rumoreggiante dei trams pieni zeppi di donne e di uomini, che tornavano da Posillipo, dalla Torretta, trasalendo a ogni volto femminile che gli appariva, e non osando neppure fissarlo bene, quasi avendo paura, oramai, d'incontrare sua moglie, chiedendo a sè stesso perchè non fosse restato, laggiù, nella solinga casa di via Donnalbina, ad aspettarla, come essa gli aveva ingiunto, perchè non le avesse ubbidito, senza discutere, anche a costo di soffrire le più acute torture, poichè il suo destino, oramai, era di vivere e di morire per lei, vivere di dolore e morire di dolore, ancora chiedendo perchè, perchè mai si trovasse colà, a quell'ora della sera, sgomento di un incontro, di cui sentiva il presentimento fatale nel suo spirito. Sfiaccolato, affranto da una giornata di fatica materiale, passata in piedi, e da una crisi morale che aveva debellato le sue fragili e fugaci energie, tremante di un pericolo morale di cui, con singolare percezione, egli pareva sentisse la imminenza, Mimì Maresca, mise moltissimo tempo per giungere, come uno spettro vagolante, sin quasi alla fine della Riviera di Chiaia, ove, forse, sorgea la casa di Francesca Dentale, ove, forse, stava Anna, sua moglie, e dove egli, adesso, aveva un terrore invincibile di ritrovare questa casa e di ritrovar questa donna. Egli si era arrestato, macchinalmente, in un punto ove l'andare e venire della gente, nella limpida e morbida sera di estate, era più forte e più allegro. Innanzi a Mimì Maresca che stava immobile, sul marciapiede, in un incrocio largo di binarii, vi era la grande fermata dei trams della Torretta: la Riviera di Chiaia vi finiva, biforcandosi in due strade, quella di Mergellina, quella di Piedigrotta, una che andava a Posillipo, verso il mare sonoro e fragrante, una che andava verso la campagna di Fuorigrotta, nell'ombra solinga e odorosa delle vigne e degli orti, Alle sue spalle, una larga, ma breve traversa, frequentatissima, conduceva all'elegante e aristocratico Viale Elena, conduceva tra palazzi maestosi e villini civettuoli, alla magnifica via Caracciolo. E i carrozzoni dei trams , dalla città, dal mare, giungevano carichi, gremiti di persone, alla fermata della Torretta, ove altra gente attendeva, in piedi, per prender posto, ove molti scendevano, molti salivano, fra gli squilli di campanelli, il rumorio delle voci e il fragor sordo e continuo degli equipaggi signorili, delle carrozze da nolo, e i canti lontani e vicini, e tutto un chiasso umano, ora basso ora alto, ora dolce ora stridente. Continuamente Maresca era urtato, spinto, investito, talvolta da gruppi di persone, mentre, alle sue spalle, in via Mergellina e nella larga traversa, il Caffè Stinco aveva collocato i suoi tavolini all'aria aperta, tutti occupati da gente. Ogni tanto, Mimì Maresca indietreggiava, verso la traversa, verso il Viale Elena: una volta, lentamente, trascinando i suoi piedi morti di fatica e la sua anima morta di tristezza, giunse sino alle acacie del Viale Elena. E fu in fondo a questa traversa che una donna, passando, lo sfiorò e si voltò, subito, a guardarlo, fisamente; la donna mosse pochi passi, indecisi, innanzi: poi, a un tratto, si voltò di nuovo, gli venne incontro, gli si piegò, vicina, dicendogli, con voce bassa e roca: - Non mi conosci? Non mi conosci più? Al chiarore che veniva da una bottega illuminata, ove delle stiratrici lavoravano, nel biancore delle tende e della tavola da stiro, egli fissò bene la donna e la riconobbe Gelsomina, che toccava i venti anni, pareva fatta più alta e più magra: il suo vestito di mussolina bianca, tutto adorno di merlettini bianchi, pareva che le andasse largo, un po' cascante sul busto e sui fianchi. Sotto un grandissimo cappello nero, carico di corte piume nere, il suo viso sembrava più smunto, più allungato. Era oltraggiosamente carico di rossetto e di polvere di riso: il colorito naturale di questo viso era sparito, completamente: sottolineati di bistro i suoi occhi, e delineate, anche in bistro, le sovracciglie fini: con atto costante, ella seguitava a mordersi le labbra, per farle diventar rosse. E, strano a dirsi, era leggermente toccato, delineato col rossetto, il segno che ella portava dalla sua nascita, sul mento, la piccola voglia, la piccola fragola. Alle gentili orecchie portava dei pesanti orecchini; delle grosse pietre verdi, quadrate, circondate da pietre bianche, falsi smeraldi con falsi brillanti. Al collo, aveva una grossa spilla, simile: e, sul braccio, uno scialletto di seta rossa, di un colore vivissimo. - Non mi riconosci? Non mi vuoi riconoscere? - ella domandò, ancora, con quella sua voce lamentevolmente rauca. - Sì, sì, - mormorò lui, con una pena immensa - ti riconosco, sei Gelsomina, buona sera! - Non mi chiamo più così! - replicò ella, crollando il capo. - Gelsomina non esiste più. - E come ti chiami? - Fraolella , solamente Fraolella . Tutti così mi chiamano. - Chi, tutti ? - chiese lui, inconsciamente. Ella lo guardò, amara, senza rispondere. Sparita, per sempre, da quegli occhi grigiastri e grandi la espressione maliziosa di dolcezza infantile e l'altra, anche infantile, d'improvviso smarrimento: un avvicendarsi, invece, di una rassegnazione passiva, di una tristezza torbida, di una curiosità dolente, di uno stupore dolente. E quegli occhi ove tutta la sua istoria si poteva leggere, per chi ricordava quelli di un tempo, quegli occhi donde tutta la gioia della innocenza e della gioventù era fuggita, contrastavano malamente con quel viso delicato, tutto imbellettato. - E che fai, qui, a quest'ora…. Fraolella ? - domandò Mimì, per dire qualche cosa, superando la sua pena. - Aspetto... aspetto qualcuno... - ella rispose, girando la testa in là. - Un innamorato? - Già. - Don Franceschino Grimaldi? Un breve riso, impresso di cinismo, uscì dalle labbra dipinte e morsicchiate di Gelsomina. - Le tue notizie sono vecchie! - ella esclamò, ridendo ancora, e fermandosi, subito, per respirare, come un tempo. - Non è più il tuo innamorato? - Ma no! - Lo hai lasciato? - Mi ha lasciata - ella soggiunse, piano, come se parlasse in sogno - Dopo tre mesi, mi ha lasciata. - Così poco? - Così poco, Mimì - disse lei, mentre, nella arrocatura della voce, qualche cosa tremava. Temeva,.. temeva.., qualche guaio... un figlio… - Non vi è stato..?- esitò lui, a domandare. - No..- niente... meglio così, Come avrei fatto, Mimì? Mi sarei dovuta buttare dalla finestra. Essi si guardarono, un momento, ambedue stravolti. Stavano innanzi a quella bottega, ove si lavorava, a grandi colpi di ferro e, vicinissimi, parlavano piano. La gente che passava, o non si accorgeva di loro, andando ai suoi piaceri e ai suoi doveri, o, accorgendosene, aveva un sorriso maligno, vedendo l'interesse di quel colloquio, credendo a discorsi amorosi o, piuttosto, a discorsi sensuali, fra quella giovine il cui aspetto, ahimè, non ingannava nessuno e quell'uomo giovine, smorto, che l'ascoltava attentamente. - Ascolta, Mimì, ascolta, - ella proruppe, ma pianissimo, dopo essersi guardata intorno, e mettendogli una mano sul braccio - due o tre volte, mi son voluta buttare dalla finestra… - E chi ti ha fermato, chi ti ha fermato? - chiese lui, ansiosamente. - La paura. Ho venti anni. Ed ero in peccato mortale! E chi si uccide, è chiaro, muore in peccato mortale! - Ma perchè volevi morire, Gelsomina? - esclamò lui, obliando di chiamarla col suo soprannome, - Faccio una vita disperata, Mimì - rispose lei, chinando il capo sul petto. Tacquero, un poco. Come il senso della fatalità passava sulle loro teste, sulle loro vite, egli, infelice, tentò reagire, e rispose: - Non ti potrei salvare, io, non potrei? - Tu? - disse lei, con accento singolare. - Io, si, io! Dimmi se posso, dimmelo, purchè io non ti sappia… così… purchè io non ti vegga... in questo stato. - Tu non puoi fare niente - ella rispose, con una tetraggine cupa, - Niente. - Ma perchè? - Perchè troppo tardi. - Troppo tardi? - È troppo tardi - ella concluse, aprendo le braccia, con un gesto desolato, non volendo soggiungere altro. Pure, vi era tanta espressione di rammarico inconsolabile, di un lungo rimpianto antico, senza conforto, tanta evocazione di un passato che era stato dolce e che avrebbe potuto essere felice, che egli, ottuso, sordo e cieco, intese il rimprovero, ma senza approfondirne la essenza disperata. Girò lo sguardo intorno, vagamente, come a raccogliere le sue idee, i suoi sentimenti, i suoi ricordi: ma preso dal suo dolore personale, ancora più veemente, perchè non espresso, non trovò nulla da soggiungere. Ella fece un atto lieve, di disdegno pietoso, con le labbra, innanzi a quella sordità, a quella cecità e riprese, lentamente, parlando in sogno come un tempo: - Solo Dio.. solo la Madonna.. possono fare qualche cosa, per me… - Ma tu li preghi? - Tu preghi, ancora? - chiese lui, con ansia ingenua. - Ancora: indegnamente. Ho portato dei ceri all'Addolorata di Santa Brigida.. ho fatto tanti voti... voglio andare scalza, da Napoli a Valle di Pompei... - Ebbene? - Niente - disse lei, con voce desolata, - Bisogna pregare, sempre: sperare sempre… - Tante altre, come me, tante altre poverette, hanno pregato, hanno fatto voti… e nulla hanno ottenuto... Certe non pregano più... forse così vuole, Dio, per farci fare il Purgatorio in terra ella disse, con quello accento di sogno, di lungo sogno interiore e triste. - Così vuol Dio, forse! - Amen - disse lei, aprendo le braccia e abbassando la testa. Poi, come avendo accettato questa croce, questa pietra che le ricadeva sul petto, ella mutò discorso: - E tu, Mimì, tu? Che fai? Hai già un figlio? - No - egli disse, trasalendo. - Come? Non hai un figlio? Me lo avevano detto... che avevi avuto un maschio... un bel maschio... che bugiardi! E ti dispiace, di non averne? - Mi dispiace - rispose lui, sempre a occhi bassi. - E ad Anna, dispiace? - No. Le fa piacere, non aver figli. - Piacere? Piacere? - gridò lei, stupita. - Le può far piacere, questo ? - Già. - Non ha cuore, dunque? Domenico Maresca non rispose. E, sul volto, gli si vedeva la tortura che subiva per quell'interrogatorio; ma, strano a dirsi, anche il desiderio morboso di non troncarlo. - Ma ti vuol bene, Anna? Ti vuol bene? Alla domanda incalzante, egli seguitava a non rispondere. Un'altra ambascia lo soffocava: ma in quell'ambascia, almeno, egli poteva concentrare tutto quanto aveva sofferto in quel giorno, tutto quanto aveva sofferto in un anno e mezzo. A quella povera ragazza, diventata una creatura perduta, a quel povero essere dalle guance brucianti di rossetto, dall'acconciatura equivoca, che ronzava, sola, in quell'ora tarda, in quel quartiere di piacere, egli sentiva di poter denudare il suo cuore, senza tema di esser deriso, senza tema di esser beffato. - Anna non ti vuol bene? - chiese ancora, lei, con la insistenza della pietà, della tenerezza. E, infine, come non lo aveva mai detto a nessuno, come non lo aveva confessato mai apertamente, neppure a sè stesso, come lo aveva detto solo al Signore, nelle sue orazioni, Domenico Maresca, a Gelsomina, che non si chiamava neppure più così, portando, oramai, solo il nome di Fraolella , portando solo il soprannome di una di queste disgraziate donne, a Fraolella , rispose questo: - No, Anna non mi vuol bene. Un silenzio tragico regnò fra loro. - E allora, allora - lo interruppe lei, alzando la voce, come per protestare contro il Destino allora, è stato inutile che tu la sposassi? - È stato inutile. - Sei certo, che non ti vuol bene? - Come della morte, ne sono certo. - Oh Dio! - disse lei, celandosi il viso tra le inani. - Essa mi ha sposato per il danaro - continuò lui che, oramai, era preso dal delirio della confidenza. - Non per altro: per danaro. Ne ho speso tanto, Gelsomina: e non è bastato: e non basta: ce ne vuole sempre: se no, Anna mi disprezza e mi disprezzerà più che mai... - Gesù, Gesù... - ripeteva lei, sommessamente. - Non solo non mi ama, ma le sono odioso: lo mostra, lo dice, in ogni atto, in ogni parola. Non posso più accostarmi a lei, senza che mi respinga: non posso volerle dare un bacio, senza che mi faccia uno sgarbo... - Che ingrata... che ingrata... - La mia famiglia, i miei parenti, i miei amici, tutti, tutti li disprezza, sputerebbe loro in faccia, se potesse ... e, invece, sta sempre con i suoi... non so dove... non so con chi ... - Che dici? Non sai, dove? Non sai, con chi? - Gelsomina, Gelsomina, - gridò lui, giunto al colmo del parossismo - da oggi, alle quattro, è andata via, e mi ha scritto che sarebbe rientrata tardi, mi ha lasciato solo... disperato... - Non sai dove è? - Qui, qua vicino, qua attorno, deve essere in una di queste case della Torretta, da una sua parente, e non so il numero di casa, non so nulla, e sono in giro da due ore, Gelsomina, per trovarla e cammino, cammino come un pazzo, per incontrarla, così, mia moglie, Anna, capisci! Vedendolo così esaltato, come mai lo aveva visto, Gelsomina lo aveva attirato verso il Viale Elena, ove era meno gente che osservasse, che udisse, lo aveva attirato sotto le acacie in fiore. E, lentamente, gli prese le mani, gli disse con dolcezza: - Oh povero Mimì, povero Mimì, che hai fatto, che hai fatto! - Mai, lo avessi fatto, mai! - gridò lui, disperato. - Era meglio morire che far questo! E i due sventurati, ambedue precipitati in fondo a un abisso, ambedue incapaci di altro che di esalare il proprio dolore in vane parole, si teneano per le mani, come due morenti. - Almeno... - mormorò lei, lentamente - almeno... ti è fedele? - Sì - disse lui, sordamente. - Mi è fedele. - Ne sei sicuro? - Ne sono sicuro. È così cattiva, così fredda che non ha voluto bene e non vorrà bene, mai, a nessuno. Ah io dovevo morire e non sposarla mai! Dovevo vivere senza amore, io! Non ero destinato all'amore, io! Come mio padre, come il mio povero padre, non era mio destino, voler bene a una donna ed esserne corrisposto... - Tuo padre, Mimì? Tuo padre? - Nulla - disse lui, troncando subito tale divagazione, mordendosi le labbra. - Vedi bene, Gelsomina, che non sei la sola, a fare una vita disperata. Io sono solo, come un cane: come un cane che abbia un padrone tiranno, perverso, malvagio, che lo colmi di frustate, a ogni buona azione che fa. Non sei sola, a fare una vita disperata. Almeno, l'hai un innamorato... - Già! - disse lei, con un riso cinico. - L'hai detto tu! - L'ho detto. È la verità. Sai chi è, il mio innamorato? Non lo sai? È Gaetanino Calabritto, il figlio del sellaio in via Cavallerizza: un bel giovanotto, non lo hai mai visto, ma, se aspetti un poco, lo vedrai! Un bel giovanotto - continuò lei, ansimando, con gli occhi pieni di lacrime - che non ha nè arte nè parte, che prende o ruba danaro, a sua madre, che prende o ruba danaro, a suo padre, che è affiliato alla mala vita , che è stato già in carcere, tre volte, che vi tornerà... e che è il mio innamorato! - Che orrore! - esclamò lui. - Ti fa orrore? Pure a me. Ogni giorno, ogni sera, egli viene da me... e io debbo dargli quel che vuole, quello che ho, dieci lire... cinque lire... due lire... quello che ho... capisci!... - Capisco! Che orrore! - Anche a me, anche a me fa orrore! Io non ho un soldo, questi abiti che ho addosso, me li ha venduti la mia padrona di casa, e non glieli ho pagati... e non so come fare certi giorni, per mangiare... ed egli vuol sempre quattrini... capisci, capisci?. - Capisco! È orribile! Ma come sei capitata con lui? - Così! Per non esser sola, come una povera bestia abbandonata, nella sua cuccia, per non esser sola, comprendi, per avere una finzione di amore, una finzione di protezione, una finzione di compagnia... ho messo la mia esistenza in mano di costui... che mi fa ribrezzo. Domenico, te lo giuro, per quella Vergine che non dovrei nominare, tanto le mie labbra sono piene di peccato, Domenico, egli mi fa schifo, e intanto, egli viene, e io gli do quello che ho, così, per debolezza, per viltà... per non esser battuta, la sera e la mattina... - E non puoi lasciarlo? - Egli mi ucciderebbe - disse lei, tetramente. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ambedue, tacendo, eran ritornati dal Viale Elena, verso la Torretta: e camminavan un po' lontani l'uno dall'altro, oppressi, schiacciati, ognuno, dalla propria sventura, più angosciati, ancora, dell'incontro che avevano fatto, l'uno dell'altro, più esterrefatti, ancora, dagli sfoghi terribili che avevan fatto, ognuno, della propria miseria, senza che, malgrado la compassione, malgrado la tenerezza, l'uno potesse consolare l'altro. La gente era meno folta, perchè l'ora si avanzava: un'aria assai più fresca, soffiava, dal mare. Macchinalmente, Gelsomina si gittò sulle spalle, si strinse al collo, il suo scialletto rosso, di un rosso ardente. Un istante, restarono fermi allo sbocco della traversa, sulla Riviera di Chiaia, rimpetto all'incrocio dei trams della Torretta, che giungevano, partivano, ora, meno colmi di persone, con un tinnìo di campanelli più languido. E a un tratto, quasi involontariamente, dalle labbra della poveretta, escì un grido: - Ecco Anna. Dirimpetto ai due, ma lontana, Anna Dentale aspettava, in piedi: e malgrado la distanza, si riconosceva, al suo viso bellissimo e calmo, ai suoi grandi occhi che vagavano, placidamente, intorno, in attesa quieta di qualche cosa. Ella era vestita riccamente di nero e delle pagliuzze scintillavano, su lei, qua e là, alla luce elettrica delle grandi lampade; una mantellina ricca le stringeva le spalle e una mano guantata di bianco, ne appariva, fra i merletti, tenendo delle rose bianche, un fascetto di rose, mentre l'altra era abbandonata lungo la persona, stringendo un ventaglio. Anna non era sola. Accanto a lei stava un giovanotto alto e snello, dalla ben formata persona, vestito elegantemente di oscuro, con un cappello di paglia, sul capo: un giovanotto dal viso fresco e grazioso, sul cui pallore fine si arcuavano dei sottili baffetti biondi, brillavano gli occhi oscuri e scintillanti, la cui bocca era sfiorata da un sorriso di compiacenza e di sarcasmo. Ogni tanto, questo giovine, che si teneva accanto ad Anna, si chinava verso lei, e le diceva una parola, con un sorriso anche più espressivo, mentre ella gli levava gli occhi, in viso, gli sorrideva, tenuemente, gli rispondeva a fior di labbro. E i due, Anna Maresca e Mariano Dentale, soli, a quell'ora avanzata, a cui la serata di metà settembre, dava una poesia anche più intensa, colpiti vivamente dalla luce elettrica, sul loro lato, non vedevano chi passava loro accanto, non scorgevano chi li guardava, dall'altro lato della via. Al grido di Gelsomina, che indicava Anna, Domenico Maresca, aveva avuto un sussulto, aveva cercato, con gli occhi, dapertutto, esclamando. - Anna... dove... dove...? - Là - indicò l'altra, con un gesto breve, della mano, con un accento bizzarro. Tutto vedeva e scorgeva, adesso, il povero Domenico Maresca, stupefatto, inchiodato al suo posto da quella visione. E nell'inaspettata, mortale rivelazione che chiudeva orribilmente il suo calvario di quella giornata, in quella rivelazione che infrangeva, di un colpo solo, tutta la sua ultima sicurezza, come tutti i deboli, come tutti i fiacchi, una paralisi morale lo abbattè, una paralisi fisica gli legò i piedi, le mani, la voce. Non visti, Gelsomina e Domenico scorsero, dall'altra parte della lunga via, Anna e Mariano scambiare qualche parola, ancora, fra loro, poi avanzarsi, un poco, in linea retta, verso loro: e Gelsomina udì il pittore dei santi, spaventato, dire con voce sorda, come se morisse. - Oh Dio... oh Dio! Ma, fra i quattro personaggi, un trams che veniva da Posillipo si fermò, s'interpose. Nell'istante della fermata, dall'altro lato, Anna e Mariano, leggermente, disinvoltamente, vi salirono, si sedettero, uno accanto all'altro, tranquilli e sorridenti, con l'aria soddisfatta di chi completa bene la propria giornata. E, avanti a Gelsomina e a Domenico, il tram filò, nettamente, fuggendo, sparendo, verso l'alto della Riviera di Chiaia. Solo allora, vincendo il suo profondo stupore, Domenico Maresca, con un ruggito forte, tentò slanciarsi: - Dove vai?, dove vai? - lo trattenne, Gelsomina, afferrandolo pel braccio. - Lasciami!... lasciami!... - smaniò lui. - Sono lontani... - mormorò lei - non li raggiungi più. Erano lì... ora sono lontani. - Dove andranno? Dove vanno? - chiese lui, puerilmente, con un singhiozzo nella voce. Ella ebbe una lieve stretta di spalle, innanzi a quella domanda imbelle. - Eh! chi lo sa! A casa tua... forse... - Credi? Credi che Anna rientri a casa? - balbettò lui. - Credo. - La troverò, tu dici? - Eh! sì, sì, la troverai! - s'impazientì lei, dinanzi ad una viltà così profonda. - E se non vi è? Se non vi è? Gelsomina non rispose. Distratta, occhieggiava a diritta e a sinistra della Riviera di Chiaia, come se dovesse scorgervi qualche cosa di strano, ma di cui fosse in attesa, in agitata attesa. - Se non la trovo, Gelsomina, se non la trovo, che ne sarà, di me? - gemette l'infelicissimo. Ella non l'ascoltava più, vinta, adesso, dalla imminenza di qualche cosa che temeva e che, senz'altro, doveva accadere. E come un fanciullo debole e malato, Domenico Maresca gemette, ancora: - Gelsomina, se non la trovo, io ti vengo a cercare! Dimmi dove stai, io ti vengo a cercare, se non la trovo... - A far che? - disse lei, con una voce ove fischiava l'ironia. - A piangere con te... a piangere... Gelsomina, se non la trovo! Dimmi, dove stai? - No - disse lei, brevemente. - Ma perchè? Perchè? Neppure tu! Neppure tu! - Non posso - ella soggiunse. - E perchè, non puoi? Perchè? Se non la trovo, che ne sarà di me? - Guarda - ella disse, con un cenno. Verso loro due si avanzava un uomo, un giovane. Portava un vestito grigio chiaro, attillatissimo, un cappelletto nero sull'orecchio, le mani in tasca, un bastoncino che usciva da una delle tasche: le sue scarpe scricchiolavano: e tutta la sua persona di una volgare beltà, aveva un'andatura provocante, la sua faccia bella e triviale, un'aria provocante. Di lontano, scorse Gelsomina che parlava con Domenico, si fermò. Egli attese, così, un minuto. Poi un fischio leggiero e lungo gli escì dalle labbra. - Eccomi - disse, come fra sè, Fraolella . - Qui sta il cane. E senza voltarsi, senza guardare, soggiunse, al pittore dei santi: - Addio, Domenico. Il pittore dei santi la vide allontanarsi, rapidamente, fermarsi col giovanotto, parlargli, a lungo. Costui, silenzioso, con un mozzicone spento all'angolo della bocca, l'ascoltava, con le sovracciglia aggrottate, l'occhio torbido. Precipitosamente, con grandi gesti, Fraolella continuava a dare spiegazioni, mentre l'altro, sempre più arcigno, crollava il capo. E si allontanarono, ambedue, nella notte: l'uomo, innanzi, col suo passo elastico, con lo scricchiolìo dei suoi stivalini, con il suo aspetto spavaldo: la donna, più indietro, con passo stanco, con le spalle curve, a capo chino, come un povero cane. Sdraiata in una poltroncina del suo salotto, Anna leggeva un libro, quietamente. Aveva indossata una vestaglia bianca, le sue belle mani escivano dalle maniche larghe. Quando Domenico rientrò in casa, era mezzanotte. E, stravolto, si fermò sulla soglia; un profondo sospiro gli sollevò il petto. Ella appena levò gli occhi, dalla lettura: - Sei qui, Anna, sei qui! - balbettò lui. - Dove dovrei essere? - chiese ella, freddamente. - Ti aspetto da tre quarti d'ora. È tardi. - Ero venuto... ero venuto, a cercarti... - Ti avevo detto di non farlo - replicò lei, con un lieve aggrottamento di sopracciglia. - Io ti ho cercata... laggiù... tutta la serata. - Hai fatto male - ella concluse, rimettendosi a leggere, senza dargli più retta. E Domenico, a un tratto, esplose la sua angoscia, tutta la sua angoscia: - Ti ho incontrata, Anna, ti ho vista! Non eri sola! Ho visto con chi eri! - Ebbene? - chiese lei, glacialmente, posando il libro sulle ginocchia. - Eri con Mariano Dentale, con Mariano! - E poi? - chiese, ancora, Anna, fissando suo marito negli occhi, con tale una collera gelida che egli allibì. - Con Mariano... con Mariano... - gridò Domenico, pianse Domenico, torcendosi le mani. Anna si alzò, chiuse il libro, lo posò sul tavolo, si avviò verso la stanza da letto, piena di un'ira muta, superbissima di sdegno taciturno. - Con Mariano... con Mariano, Anna! - piangeva lui, nella idea fissa. - Se dici un'altra parola, Domenico, - pronunciò lei, nettamente, dalla soglia - prendo il cappello e me ne vado. Ed egli tacque.

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