Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Pareva aver abbassato il capo ancora di più. Il zucchetto bianco era quasi tutto nel lume della lucernina. " ...io ho letto proprio oggi grandi parole di Lei ai Suoi diocesani antichi, sulla molteplice rivelazione di Dio Verità nella Fede e nella Scienza, e anche direttamente, misteriosamente, nell'anima umana. Santo Padre, molti, moltissimi cuori di sacerdoti e di laici appartengono allo Spirito Santo; la Spirito di menzogna non ha potuto entrarvi neppure sotto una veste angelica. Dica una parola, Santo Padre, faccia un atto che rialzi questi cuori devoti alla Santa Sede del Pontefice romano! Onori davanti a tutta la Chiesa qualcuno di questi uomini, di questi sacerdoti che sono combattuti dallo Spirito di menzogna, ne sollevi qualcuno all'episcopato, ne sollevi qualcuno al Sacro Collegio! Anche questo, Santo Padre! Consigli esegeti e teologi, se è necessario, a camminare prudenti poiché la scienza non progredisce che a patto di essere prudente; ma non lasci colpire dall' Indice né dal Sant' Uffizio per qualche soverchio ardimento uomini che sono l'onore della Chiesa, che hanno la mente piena di Verità e il cuore pieno di Cristo, che combattono per difesa della fede cattolica! E poiché Vostra Santità ha detto che Iddio rivela le sue Verità anche nel segreto delle anime, non lasci moltiplicare le divozioni esterne, che bastano, raccomandi ai Pastori la pratica e l'insegnamento della preghiera interiore!" Benedetto tacque un momento, spossato. Il Papa alzò il viso, guardò l'uomo inginocchiato che lo fissava con occhi dolorosi, luminosi sotto le sopracciglie contratte, vibrando nelle mani giunte dove si appuntava lo sforzo dello spirito. Il viso del Papa tradiva una commozione intensa. Egli voleva dire a Benedetto che si alzasse, che sedesse; e non parlò per timore di tradire la commozione anche nella voce. Insistette a cenni, tanto che Benedetto si alzò e presa la sua seggiola, appoggiatevi alla spalliera le mani ancora giunte, ricominciò a parlare. "Se il clero insegna poco al popolo la preghiera interiore che risana l'anima quanto certe superstizioni la corrompono, è per causa del secondo spirito maligno che infesta la Chiesa trasfigurato in angelo di luce. Questo è lo spirito di dominazione del clero. A quei sacerdoti che hanno lo spirito di dominazione non piace che le anime comunichino direttamente e normalmente con Dio per domandarne consiglio e direzione. A buon fine! Il Maligno inganna, così la loro coscienza; a buon fine! Ma le vogliono dirigere essi in qualità di mediatori e queste anime diventano fiacche, timide, servili. Non saranno molte, forse; i peggiori maleficî dello spirito di dominazione sono diversi. Egli ha soppressa l'antica santa libertà cattolica. Egli cerca fare all'obbedienza, anche quando non è dovuta per legge, la prima delle virtù. Egli vorrebbe imporre sottomissioni non obbligatorie, ritrattazioni contro coscienza, dovunque un gruppo d'uomini si associa per un'opera buona prenderne il comando, e, se declinano il comando, rifiutar loro l'aiuto. Egli tende a portare l'autorità religiosa anche fuori del campo religioso. Lo sa l' Italia, Santo Padre. Ma cosa è l' Italia? Non è per essa che io parlo, è per tutto il mondo cattolico. Santo Padre, Ella forse non lo avrà provato ancora, ma lo spirito di dominazione vorrà esercitarsi anche sopra di Lei. Non ceda, Santo Padre! Ella è il Governatore della Chiesa, non permetta che altri governi Lei, non sia il Suo potere un guanto per invisibili mani altrui. Abbia consiglieri pubblici e siano i vescovi raccolti spesso nei Concilii nazionali e faccia partecipare il popolo alla elezione dei vescovi scegliendo uomini amati e riveriti dal popolo, e i vescovi si mescolino al popolo non solamente per passare sotto archi di trionfo e farsi salutare dal suono delle campane ma per conoscere le turbe e per edificarle a imitazione di Cristo, invece di starsene chiusi da principi orientali negli episcopii, come tanti fanno. E lasci loro tutta l'autorità che è compatibile con quella di Pietro! Santità, posso parlare ancora?" Il Papa, che da quando Benedetto aveva ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve abbassar del capo. "Il terzo spirito maligno" riprese Benedetto "che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perché saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell'avere. Quale di essi piega la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perché ha molto, quale lusinga con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della ricchezza, l'aderire con l'anima alle comodità della ricchezza pare lecito a troppi predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo Padre, richiami il clero a meglio usare verso i cupidi dell'avere, sieno ricchi, sieno poveri, la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!" Benedetto tacque, fissando il Papa con una espressione intensa di appello. "Ebbene?" mormorò il Papa. Benedetto allargò le braccia e riprese: "Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo cómpito ai nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo dieno l'esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi? Qualcuno lo è; i più non sono né luce né tenebre." Qui, per la prima volta, il Pontefice assentì del capo mestamente. "Il quarto spirito maligno" proseguì Benedetto "è lo spirito d'immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d'immobilità credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d'immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl'increduli; colpa grave davanti a Dio!" Il petrolio veniva mancando nella lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la breve sfera di luce in cui si disegnavano, l'una in faccia all'altra, la bianca figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi. "Contro lo spirito d'immobilità" disse questi "io la supplico di non permettere che sieno posti all' Indice i libri di Giovanni Selva." Quindi, posta la seggiola da banda, s'inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più acceso: "Vicario di Cristo, io La scongiuro di un'altra cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un'opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà forse: "no" ma si va. Dal Vaticano si risponde "sì" a Cristo, ma non si va. Che dirà Cristo, Santo Padre, nell'ora terribile? Queste parole mie, se fossero conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello." La fiammella della lucerna mancava, mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che la destra posata sul campanello d'argento. Appena Benedetto tacque, il Santo Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due volte. La porta della Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di don Teofilo. "Teofilo" disse il Papa, "in Galleria, è riaccesa la luce?" "Sì, Santità." "Allora passa in Biblioteca dove troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli un'altra lucerna." Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo di statura e tuttavia un po' curvo. Mosse verso la porta della Galleria accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta. Triste presagio, nella buia sala dov'eran corse tante fiammelle di parole accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente. La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l'iscrizione commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine. Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che guardavano l'oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si avanzava lento, silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò, attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne, tagliato in fondo alla loggia dall'obliquo profilo dell'ombra piena, dentro la quale mal si discerneva il busto di Giovanni. Il Papa percorse la loggia fino a quell'ombra, vi entrò, vi si trattenne. Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l'aria di premere irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l'astro veleggiante fra nuvole grandi su Roma. Mirando l'astro, domandò a sé, a qualche Invisibile che gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse parlato egli? Oh no, le parole gli erano venute alle labbra senza meditazione, aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale ancora levando la faccia verso l'astro, come un cieco che porgesse il viso avido al divinato splendore di argento. Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad ascoltarlo. "Figlio mio" disse Sua Santità "alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero Maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio tributo di omaggio là in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri dall' Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un'epidemia, andassi, ex abrupto , a visitare gli ospedali di Roma." "Oh Santità!" esclamò Benedetto "mi perdoni ma non è sicuro che queste anime disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali non si acquistano!" "E poi" continuò il Papa come se non avesse udito "sono vecchio, sono stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice. Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch'io, con il Suo aiuto, potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene aiutare a farle. Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure questo Giovanni? Non dico però di non fare niente." Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di più, non gliene lasciò né il modo né il tempo, gli fece una domanda gradita. "Tu conosci Selva" diss'egli. "Privatamente, che uomo è?" "È un giusto" si affrettò a rispondere Benedetto. "Un gran giusto. I suoi libri sono stati denunciati alla Congregazione dell' Indice. Forse vi si troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che rimpiccioliscono indegnamente l'idea di Dio nello spirito umano; non condanni questi che la ingrandiscono!" Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l'accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata: "Prega per me, prega che il Signore m'illumini." Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare. "Vieni ancora" disse il Papa. "Dobbiamo discorrere ancora." "Quando, Santità?" "Presto. Ti farò avvertire." Intanto l'ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò sommessamente, quasi esitante: "Ricordi la fine della tua visione?" Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 5 occorrenze

Due barche, cariche di botti di vino, guidate da due uomini, gli andavano incontro sballottate dai cavalloni, e giù, nel piazzale limitato da due lati dai magazzini, schiere di operai silenziosi, vestiti di panno turchino, col cappuccio del piccolo mantello abbassato fino alla fronte, rotolavano botti, segavano assi di rovere, entravano, e uscivano nei magazzini. Sul mare e in terra il lavoro continuo, serio, militarmente regolato, senza vocìo, senza grida; il lavoro della macchina che non si ferma mai, che da utile, che dà guadagno. Franco rimase a guardare quello spettacolo di dietro alle persiane, riflettendo. Anche lui aveva veduto nelle sue fabbriche in costruzione centinaia di lavoranti, ma quelle fabbriche erano state costruite alla lesta, tanto che alcune erano crollate prima di giungere al tetto, ma non aveva mai visto fra quegli operai ne disciplina, ne ordine. Ogni cantiere di costruzione era una specie di Babele, dove si parlavano tutti i dialetti delle diverse regioni d'Italia, dove si bestemmiava in tutte le favelle della penisola, dove tutti sfogavano la noia per la fatica alla quale erano condannati, per la fretta con cui dovevano lavorare e si lamentavano della ingordigia degli appaltatori. Qui tutti accudivano al proprio lavoro tranquillamente, sicuramente, senza aguzzini che li incitassero: erano tutti operai di quella regione e il prodotto del suolo ricchissimo li nutriva, quel prodotto reso fruttifero dalle intelligenti cure rivolte da Roberto nel perfezionarlo. E a questo risultato suo fratello era giunto con un piccolissimo patrimonio, e lui che aveva una sostanza così vistosa si era rovinato! Accanto all' ammirazione per Roberto, sorse subito nel cuore di Franco l'invidia; un'invidia sorda che non poteva sfogare. Si scostò dalla finestra e vestitesi appena, fece un giro nel suo quartiere, che si componeva di uno studio, di mi salotto, di una stanza da bagno e della camera. Tutte queste stanze erano al primo piano e guardavano il mare, e ovunque erano collocati mobili in legno chiaro, comodi e solida portiere di tessuti orientali a fiori. Era un quartiere costruito e ammobiliato con criterio per premunire chi lo abitava più dal caldo che dal freddo, benché in ogni stanza vi fosse un caminetto. Non era una reggia, ma i comodi non mancavano e i fiori collocati in antichi vasi di Caltagirone e di Palermo, mettevano una nota gaia ovunque. Saverio, che aveva udito che Franco era alzato, gli portò il caffè e gli preparò il bagno. Il giovane signore fu servito come nel suo palazzo di via Veneto e gli dispiacque di non trovare nulla da biasimare. Egli spese la mattinata a togliere dai bauli la roba portata seco, a collocare sulla scrivania e sugli altri mobili i ninnoli dai quali non aveva saputo separarsi. Verso le dieci il Varvaro gli fece domandare se poteva riceverlo e poco dopo scendevano insieme a visitar lo stabilimento. Prima di tutto entrarono nel cortile ove gli operai erano curvi sulle botti nuove, che rotolavano, stando uno accanto all'altro e spingendo dinanzi a sé il fusto che mandava un cigolìo di catene. Che cosa fanno? - domandò Franco. Queste botti, rispose il Varvaro, - escono ora dall'officina di costruzione, che le mostrerò più tardi. Prima si riempiono di catene d'acciaio e quelle rotolandovi dentro le puliscono da ogni scheggia di legno, che nell'attrito, staccano. Queste che vede qui accatastate; sono piene di acqua e soda; quelle altre di un vino basso affinchè il legname lo imbeva; ora glieno mostrerò altre ancora; già pulite e preparate come queste, nelle quali si pone qualche litro di spirito; vuotato l' alcool si riempiono di Selinunte. Ma venga meco e vedrà ben altro. Franco seguí la sua guida, alla quale gli operai rivolgevano un breve saluto, senza interrompere il lavoro, e lo condusse da un lato del cortile dov'erano tante assi segate. Questo è rovere della Florida, che ci reca un bastimento ogni tre mesi. Suo fratello ha esperimentato tante qualità di legname ed ha scelto il rovere come il più adatto alla conservazione del nostro vino. Con questo si fanno le doghe delle botti, ma venga venga. Entrarono allora sotto una vasta tettoia. Otto o dieci fucine erano accese e un cinquantina di uomini erano intenti a riunire le doghe, a battervi attorno i cerchi di ferro per farle combaciare, a immergere il legname nell'acqua, a seccare col fuoco le botti già fatte, od adattarvi i fondi. I martelli facevano un rumore stridulo battendo sul ferro, dai fuochi si sprigionavano fiamme alte, gli operai sudavano; pareva d'essere all'inferno. Vede, - disse il Varvaro traendo Franco in disparto - là in quell' angolo vi è la macchina che sega le assi per ridurle a doghe; più in là ve n'è un'altra che cerchia le botti. Con una macchina e pochi operai si potrebbe compiere sollecitamente questo lavoro; ma suo fratello è buono e gli dispiace di privare tanta gente del pane e costringerla ad emigrare; così preferisce rinunziare a una vistosa economia di tempo e a un guadagno non indifferente e continua a far costruire a mano i fusti per il suo vino. Il signor Roberto non è soltanto una intelligenza superiore, ma è anche un cuore d'oro, e per questo tutti lo rispettano e lo amano. Passarono poi nella distilleria. Qui molti operai versavano un vino basso in un pozzo in muratura, sotto la macchina. Un motore a gas metteva in moto la macchina, e dai sottili cannelli di vetro ritorti, l'alcool usciva limpido per riversarsi in un recipiente chiuso da sigilli. Questo alcool, che ci viene a costar poco, ci serve alla preparazione delle botti e ce ne rimane ancora per mettere in commercio. Qua poi, - e lo faceva entrare in una stanza vasta, con le pareti rivestite di legname, - si fabbrica il cognac da alcuni anni, ma non si venderà altro che quando ne avrà dieci. Suo fratello è stato a visitare le principali fabbriche della Charente, ha fatto venire un abile operaio da Cognac, le macchine necessario alla distillazione delle vinacce, i modelli dei fusti, tutto ciò insomma che poteva assicurar l' esito dell' impresa, e fra cinque o sei anni il nostro cognac cognacsostituirà in Italia quello francese, così gravato dai dazii. Franco era costretto ogni momento ad ammirare la larghezza delle vedute di suo fratello e sempre più provava per lui una invidia terribile. Quando entrarono nel primo magazzino, lungo più di cento metri, nel quale tre filari di botti erano collocate una sull'altra e una schiera di operai era intenta a vuotare i quattro immensi tini, che erano in cima e in fondo, in cui le pompe a vapore avevano scaricato tutta la ricchezza dei pozzi, Franco si fermò sbalordito e domandò a Varvaro: Dunque mio fratello è molto ricco? Relativamente - rispose il direttore. - Abbiamo altri undici magazzini come questo e in essi vi saranno un trecentomila ettolitri di vino, ma in quest' anno se ne esiterà appena un milione di litri e il resto deve essere invecchiato, perché acquisti pregio; ma anche ogni anno occorre allargare il campo dei nostri smerci e di questo si occupa specialmente suo fratello. Da che la Francia è chiusa per noi, il signor Roberto si è studiato di rendere più facili i trasporti con l'Oriente. Ormai il nostro vino va a Tunisi, in Egitto e nei possedimenti inglesi delle Indie. Abbiamo noleggiato vapori che fanno il servizio di quei porti, e altri che lo recano a Napoli, a Livorno, a Genova. Le spedizioni piccole si fanno per ferrovia e per risparmiare nel trasporto da qui a Castelvetrano, il signor Roberto ha già fatto fare gli studi per una ferrovia a trazione elettrica. La mattina servirebbe al trasporto degli operai fino allo stabilimento, nel giorno a quello della merce. Guardi come suo fratello pensa a tutto, - aggiunse mostrando a Franco la tappatura di una botte. - Molti negozianti che smerciano il nostro vino ne facevano venire pochi fusti di qua e poi riempivano i vuoti con altro vino di peggior qualità e lo gabellavano per nostro. Poteva nascere un discredito per noi e il Selinunte correva rischio di perdere una parte del mercato conquistato con tanta fatica. Ora sotto alla capsula che copre il tappo, si mette il bollettino di spedizione, che porta la firma del proprietario, e non è possibile togliere quello strato di piombo senza rompere il bollettino. Oh! suo fratello ha una gran testa. e degli uomini come lui ce ne vorrebbero molti in Italia. Franco sorrideva con quel sorriso che pareva una smorfia, ma dentro di se fremeva di rabbia. Perché, perché mai tutto doveva riuscire a Roberto e a lui nulla? In quel momento sentì suonare una campana e vide tutti gli operai abbandonare il lavoro e correre alle fontane del cortile a lavarsi le mani e la faccia e poi dirigersi in fila di quattro verso la porta d'uscita, di fronte al mare. Dove vanno? - domandò Franco. Vanno a desinare. Venga ad assistere al loro pasto. Franco uscì pure e seguì il Varvaro verso una tettoia addossata all'ultimo magazzino di sinistra, ma quando fu a poca distanza ristette colpito di meraviglia. Gli operai in numero di circa trecento, erano seduti davanti a tre lunghissime tavole di pietra. In fondo vi era la cucina di ferro e diverse donne erano intente a colmare di maccheroni un numero grandissimo di scodelle di maiolica, mentre altre tagliavano pezzi di carne lessa e ne mettevano due fette in ciascun piatto ove già era stato posto un contorno di sedani. Le scodelle, a mano a mano che erano ricolme, venivano collocate sopra enormi vassoi di legno bianco, che due donne giravano intorno alle tavole. Ogni operaio aveva dinanzi a se un mezzo litro di vino e due pagnottelle di pan bianco. Quando la pasta era già stata servita, giunse Velleda insieme con Maria. Gli operai si alzarono rispettosamente. Non credevo d'incontrarla qui, - disse Franco alla signora. Il signor Varvaro dunque non disimpegna bene il suo ufficio di cicerone, - rispose ella in tono scherzevole, - altrimenti le avrebbe detto che vengo qui ogni giorno ad assaggiar le pietanze e che ho assuefatto anche Maria a questa ispezione quotidiana, che si estende pure agli utensili di cucina. Voglio esser sicura che i nostri buoni lavoranti mangino roba fresca e sana, cucinata in recipienti puliti. Infatti Velleda e Maria si scostarono da Franco e andarono verso i fornelli, ove furono presentati loro due piatti con un poco di pasta, un pezzetto di carne col contorno. Franco andò incontro a Velleda domandandole: - - Mi dica, signora, è anche questa una creazione di Roberto? No, le cucine sono opera mia. Quando giunsi rimasi dolorosamente colpita vedendo che nell'ore del riposo gli operai mangiavano pane e ulive, pane e sedani, e spesso il loro companatico consisteva in un paio di arance. Allora pensai che la cucina economica sarebbe stata per loro una benedizione, e tanto dissi e tanto feci, che indussi il signor Roberto a costruire questa tettoia e a comprare la cucina economica che è là. Ma era fatto il meno; occorreva avere le derrate a un prezzo discreto. Al vino ci pensa il signor Roberto, per il pane creai un piccolo forno, gli erbaggi crescono in abbondanza negli orti dipendenti dallo stabilimento, il pesce si pesca ogni giorno qui all'amo sulla gettata o con le barche; per la carne e per il resto feci appalti con i fornitori di Castelvetrano. Da principio pochi erano gli operai che volevano pagare trenta centesimi il giorno per il desinare e i più preferivano mangiar poco e male. Ma con l'andar del tempo, tutti si sono convinti che il cibo è buono e non vi è un operaio che non venga qui a mangiare. Anzi, ora ci vengono pure quelli degli scavi, così abbiamo circa trecentoventi bocche da sfamare tutti i giorni con meno di cento lire. Ma si arriva in fondo all' anno facendo qualche economia, che servirà a dotare le figliole degli operai. Questa festa è fissata all' anniversario della fondazione dello stabilimento ed ella vedrà allora suo fratello sotto un aspetto nuovo; quello di educatore di questi uomini, educatore morale e civile. Franco si morse le labbra. Era un tormento continuo cui lo sottoponevano cantando sempre le lodi di quel fortunato. Velleda, almeno, avrebbe potuto risparmiargli quella continua umiliazione! La signora non badava al dispetto del duca; ella era andata a guardare i recipienti di cucina e poi, china sopra una piccola tavola, scriveva la lista del desinare per il giorno seguente e firmava i buoni per i fornitori. Quando ebbe terminata questa occupazione, prese Maria per la mano e la fece salire su una sedia, in testa alla tavola centrale. Gli operai, intanto, avevano terminato di mangiare e vedendo la bimba ritta, si alzarono pure. Ella, con la sua vocina chiara, disse: Fratelli nel Signore. Io v'invito a ringraziare Iddio del cibo che vi ha concesso. Uno degli operai, un vecchio con la barba bianca, intonò il "Paternostro" e tutti gli altri gli fecero coro; tenendo la testa china. Signore, riprese la bimba allorché l'ultima voce ebbe pronunziato: " Amen " - benedite questi lavoratori nel loro lavoro, confortateli nelle loro pene e infondete nei loro cuori la speranza in una vita migliore che li aiuti a sopportare le traversie. Maria tacque e lo stesso operaio con la barba bianca, che aveva recitato il " Paternostro ", il vecchio Federigo, disse: Signore, benedite questa terra, benedite il nostro Re e tutta la casa Reale, illuminate i ministri che ci governano, benedite il nostro padrone che ci da lavoro e tutta la sua famiglia, e proteggete dai mali pensieri tutti noi. " Amen " - risposero gli operai e lentamente uscirono dalla tettoia seri e composti. Franco era stato colpito dalla solennità di quella semplice cerimonia e non sapeva più in che mondo fosse. Le questioni sociali, gli odii di classe gli tornavano alla mente e domandava a se stesso con qual mezzo suo fratello era riuscito a mettere in tacere le une, a far sparire gli altri, a stabilire un legame d'affetto fra lavoratori e proprietario. Velleda leggeva in volto a Franco questi pensieri e invitandolo a seguirla alla villa per la colazione, gli disse: Suo fratello è giunto al risultato di cui è stato spettatore con la giustizia e l'affetto. Questi popolani, mal guidati, sono capaci di tutte le aberrazioni: oppressi, si ribellano atrocemente, ma, come tutti i popoli primitivi, hanno il sentimento della giustizia e della riconoscenza e a quello ubbidiscono. Non creda che siano tutti santi; undici di essi hanno scontato in galera delitti di sangue, trentadue sono ammoniti, quaranta sono ascritti a circoli socialisti: ma qui nessuno osa dire una parola. In passato accadevano ogni momento furti, eppure gli operai erano frugati all' uscire dallo stabilimento. fiancavano utensili, fusti di vino, ogni cosa. Un giorno il signor Roberto li riunì nel cortile e disse loro: " Non vi chiedo di rivelarmi il nome dei ladri, perché la delazione fra compagni è una viltà; vi chiedo soltanto di indurre i colpevoli a desistere dal furto. Se continuassere, saprei scoprirli, ma non voglio, perché mi ripugna fissar gli occhi in faccia a un ladro. Da oggi abolisco la visita alla porta, ma vi prometto che non userò più nessuna indulgenza verso i delinquenti. Vuoi credere, continuò Velleda, - che non è più mancato un chiodo, nulla? Il signor Roberto conosce la via del cuore di questi uomini e li commuove. Essi sanno del resto che nel momento del bisogno possono ricorrere a lui. Se un operaio si ammala, - e la malaria infierisce qui per più mesi, - ha il salario, medico, medicine, carne e vino; se muore, la famiglia non trema. È vero che il guadagno che da lo stabilimento è assorbito in parte da queste piccole elargizioni, ma suo fratello ha la soddisfazione di veder che trecento famiglie vivono bene, mercé la sua attività, ed è questa una gioia che non ha eguale nella vita. Ella ammira molto mio fratello? - domandò Franco a denti stretti. Lo ammiro come l'ideale fatto realtà, come si ammira l'uomo che ha un cuore capace di sentire tutti i dolori altrui e d'indovinare tutte le aspirazioni. Nessuna creatura ha mai mangiato il pane di un altro con maggior devota riconoscenza; se io credessi che la mia vita potesse essergli utile, gliela darei con la serenità di una martire, benedicendolo per il dono che si degnerebbe accettare da me. Com'è innamorata di Roberto! - pensò Franco, e come si vanta di quest'amore! Parlando erano giunti alla villa. Nel viale dei palmizi li attendeva il sotto direttore degli scavi, il Lo Carmine, che Velleda aveva invitato a colazione e che presentò subito a Franco. Era un ometto piccolo, brutto, col naso butterato e vestito semplicemente di tela; aveva in testa uno di quei caschi di paglia, coperti di tela, che usano gl'inglesi nelle Indie e i viaggiatori africani. Egli goffamente offrì il braccio a Velleda, con la quale pareva in grande dimestichezza e Franco rimasto a dietro con Maria non potè trattenersi dal dire: Come è buffo quel vostro amico! Ti pare, zio Franco? Io non me n'ero mai accorta, è tanto buono e vuol tanto bene al babbo. La signora Velleda non ti ha mai fatto osservare che era un uomo buffo, volgare, impresentabile? No, Leda mi dice che ha un carattere onesto, che è molto studioso e molto dotto, ma della sua apparenza non abbiamo mai parlato. Dunque è buffo, e in cosa consiste questa sua ridicolaggine, zio Franco? Nel modo di camminare, di salutare, di vestirsi; ti pare che somigli a tuo padre o a me? No, - rispose la bambina. - E ora che me lo fai osservare, par buffo anche a me; mi dispiace perché gli voglio bene. La colazione era preparata nella stessa sala ove avevano pranzato la sera prima. Le grandi finestre erano chiuse a motivo dello scirocco e in questa stanza protetta dalle piante e rivestita di maiolica, regnava un fresco delizioso, mentre fuori l'afa era opprimente. Franco respirò e prese il posto assegnatogli da Velleda, fra questa e Maria, che egli si divertiva a trattar da signora facendola ridere. La conversazione si aggirava sugli scavi intrapresi nell'antica cittadella di Selinunte e ai quali lavoravano in quel tempo appunto. Il Lo Carmine, che era leggermente balbuziente, nel parlare di una cosa che stavagli tanto a cuore, faceva sentir maggiormente quel difetto di pronunzia e non riuscendo a pronunziare le parole speditamente, s'inquietava e diventava rosso. A un certo momento, in cui il professore non riusciva a dire che in quella mattina appunto aveva scoperto il cardine della porta della cittadella che metteva al mare, Franco guardò Maria, e la bimba si mise a ridere. Velleda aveva capito tutto; con una occhiata la richiamò al dovere e poi continuò la conversazione, alla quale Franco restava indifferente. Però accorgendosi che Velleda se ne affliggeva per il buon professore, si rivolse a Lo Carmine, e gli disse bonariamente : Io, caro professore, sono un grande ignorante e le chiedo scusa di non averle prestato tutta quella attenzione che meritava. Giungo da una terra classica per eccellenza, ma noi, romani moderni, del classicismo ci occupiamo poco e non guardiamo neppure i ruderi che attestano il grande passato della nostra città. Qui è peggio ancora; vedo colonne abbattute, sento parlare di scavi, di acropoli e di cittadelle, ma non so neppure che cosa fosse Selinunte in antico; vuole farsi mio maestro e mia guida attraverso l'antica città? Quando mi avrà istruito un poco, le prometto che non sarò più distratto come dianzi. Il duca aveva posto tanta grazia signorile nel confessare la propria ignoranza, che il professore ne rimase soggiogato e si affrettò a mettersi a disposizione del giovane. La prima visita ai templi fu fissata per la mattina dopo alle sette, poiché il sole era troppo caldo nelle ore successive. Zio Franco, - disse Maria quando si furono alzati da tavola, - perché non insegni anche tu qualcosa al professore? Che cosa potrei insegnargli? Egli è tanto dotto e io non so nulla. Insegnargli a mangiar meglio. Ah! birichina, te ne sei accorta anche tu della sua goffaggine. Oggi per la prima volta, zio; prima no. Come mai ridevi a tavola? - domandò Velleda alla piccina quando furono sole. Non lo so, - rispose arrossendo Maria. Vedrai che se ci pensi, te ne rammenterai. Ah! si; ridevo perché lo zio mi aveva guardato. Ridevi di lui? No; sai il Lo Carmine balbettava, e io non potevo star seria. Ma ha sempre balbettato e tu non hai mai riso ; mi dispiace veder mettere in ridicolo una persona per bene; tuo padre sarebbe dispiacentissimo se lo sapesse. Leda, non glielo scrivere, non lo farò più. Lo zio Franco mi aveva fatto osservare che il Lo Carmine era tanto buffo e quando l'ho visto arrossire, ho riso. Quella influenza malsana, che Roberto temeva per Maria, ecco che già manifestavasi. Oh quel Franco! Bisognava tenerlo lontano, assolutamente lontano, se no avrebbe avvezzata falsa la piccina; avrebbe disseccato in lei ogni sentimento di generosità, sviluppando gl'istinti malvagi che sono allo stato latente nel cuore di ogni bimbo. Toccava a Velleda a difenderla, quella piccina; toccava a lei; ma come fare? In preda a questi pensieri ella rimase triste tutto il giorno e non ebbe la forza di scrivere a Roberto una lettera serena. Aveva il presentimento che la presenza di Franco sarebbe stata fatale a tutti e non voleva che la penna la tradisse. Per questo annunziò con un telegramma l'arrivo di Franco e spedì la lettera tedesca di Maria, senza farvi nessuna postilla, riserbandosi a scrivere il giorno seguente.

Velleda aveva abbassato gli occhi e non era più lieta A Castelvetrano Roberto li lasciò. Voleva andare dal giudice istruttore a sapere a che punto era l'istruttoria. Velleda salí dal Moltedo, insieme con Franco e Maria. Il passo dei cavalli vivaci era stato riconosciuto da don Achille e da donna Giovannina e tutti e due erano andati in cima alla scala a ricevere i cari ospiti di Selinunte. Prima che Velleda potesse presentar Franco, don Achille gli aberrava la mano e gridavagli : Benvenuto, caro duca, è tanto tempo che vi aspettavo! Maria alzò la testa sentendo dare allo zio quel titolo e appena furono seduti nella stanza quasi oscura, attorno alla poltrona di don Achille; ella domandò a Franco : Dimmi, zio, sei duca tu? Sì, piccina, sono duca d'Astura. - E il babbo non è duca? 0157 - No; io, come maggiore, ho diritto a quei titolo, ma lui se volesse sarebbe marchese di Cevoli, conte di Pelerà. La bambina tacque, ma dopo un momento chiese sottovoce: Perché il babbo non ti chiama duca e non si fa dare quei titoli? Perché è democratico, e i democratici ambiscono a illustrare da sé il loro nome e sdegnano i titoli trasmessi dagli antenati. Anch'io dunque sarei marchesa e contessa? Franco capì che in quella bambina destavasi a un ti atto la vanità di casta e per recar pena a Roberto, che la voleva serbare semplice di modi e modesta, le disse : Mia cara nipotina, tu hai tutti questi titoli, ma un giorno ne avrai uno anche più bello. Io non prenderò mai moglie e il dì delle tue nozze regalerò a te e a tuo marito il mio titolo, tu sarai la sola duchessa d'Astura. Maria rimase pensosa e sbalordita dall' annunzio di quel dono ed evocando il ricordo delle novelle udite raccontare da Velleda, si figurò che le duchesse si vestissero diversamente dalle altre signore e portassero sempre la corona in testa. Dopo una lunga pausa, ella tirò per la manica lo zio e gli domandò : Com'é fatta la corona ducale? Franco cavò di tasca un portasigarette di cuoio bianco con una corona formata da piccoli brillantini in un angolo, e gliela fece vedere. Benché Velleda si accorgesse del dialogo fra Maria e Franco non potè afferrare le parole che si scambiavano. I Moltedo avevano fatto servire dei rinfreschi agli ospiti e Franco nell'offrire una granita alla piccina le disse con fare manierato : 0158 Questa è per te, duchessina! Maria sorrise lungamente a Franco, lusingata da quel titolo che le dava. Don Achille, col suo fare amichevole, narrava a Franco tanti piccoli incidenti sulla sua famiglia e notava la grande somiglianza fra la madre e lui. Siete un vero siciliano! - gli diceva con molta compiacenza. - Dovete venire spesso da noi; vi farò conoscere molta gente; a Selinunte siete troppo isolato ; voi non avete cola le occupazioni di vostro fratello, voi dovete annoiarvi. Non credo, - disse Velleda rispondendo per lui. Il signor Franco ha saputo adattarsi alla nuova esistenza e lavora anch'egli. Ora siamo nella stagione più triste, ma nel settembre la caccia e la vendemmia gli offriranno distrazioni. Il duca non capiva il sentimento delicato che spingeva Velleda a farlo apparire contento della suo sorte e la fissò senza aggiungere parola a quelle che ella aveva dette. L'arrivo di Roberto rianimò la conversazione, che languiva nel salotto quasi buio, attorno alla poltrona del vecchio infermo. Maria era andata a vedere una cova di canarini e Roberto potè parlare. Nulla di nuovo si è scoperto, - diss' egli. - Fra pochi giorni si farà il processo ai malandrini che hanno attaccato lo stabilimento; per quello di Alessio si aspetta di scoprire qualcos'altro. Egli è guarito e lo hanno trasportato alle carceri, in una cella segreta e non ha rivelato nulla, nulla; sempre più mi convinco che quell'uomo è innocente della intenzione che gli si attribuisce. Velleda non era del parere di Roberto e lo disse francamente. A mezzanotte non si entra armati in un giardino per divertimento. Quella corda, quella scala, perché cosa 0159 erano lì? Certo nessuno voleva rapire Costanza o rapir me! Alessio non parlerà, perché è sicuro che i suoi compiici non sono stati scoperti, ma se la convinzione mia, io potessi infonderla nei giudici, sarebbe condannato. Meno male che qui nessuno può udirvi, signora, disse don Achille, - ma in altro luogo vi consiglio a non esser tanto franca; voi non conoscete la Sicilia e potreste scontare dolorosamente il vostro zelo nel far condannare Alessio. Io non ho paura, e i colpevoli debbono essere puniti, - rispose la signora guardando Roberto e cercando negli occhi di lui l'approvazione, ma quella volto Roberto evitò lo sguardo della sua cara e un velo di tristezza gli oscurò la fronte. L'accanimento di Velleda gli dispiaceva. Roberto volle far visitare la città a suo fratello e chiamata Maria, disse addio ai Moltedo e uscì. La bambina aveva preso la mano del babbo e Velleda si trovò accanto a Franco, il quale le offrì il braccio. Camminavano per le vie deserte in quell'ora e ogni tanto Velleda si soffermava per riportare l'attenzione del duca sopra i cortiletti interni delle case, fioriti di oleandri, e sulle donne belle, sedute e intente al lavoro. Vede, sono greche, greche addirittura per le forme eleganti della persona e per la linea della fronte e del naso. Nessuna siciliana ha come queste un colorito più bello. Guardi come sono bianche e rosee, - diceva soffermandosi per accennargli ora una figura che passava con un'anfora posata sui capelli; ora un'altra con la testa curva sul lavoro. Franco non rispondeva e guardava indifferente. A un certo punto, vedendo che Roberto era avanti e non poteva udirlo, si fermò e fissando Velleda negli occhi, le disse: Mia cara signora, io non ho nessuna tendenza 0160 classica, e queste donne possono parere statue greche viventi. ma non fanno per me. Eppure son tanto belle! - esclamò Velleda con accento d'ammirazione. La sua natura d'artista era cosi possente, che dimenticando la sua qualità di donna, guardava le donne belle con una insistenza e con un compiacimento tutt'altro che femminile. La bellezza sola non mi basta: io sono un decadente, come hanno battezzato in Francia gli uomini della mia risma e del mio conio. La bellezza basta agli uomini semplici, ai caratteri che sentono l'entusiasmo. Per me ci vuole di più, e forse di meno. Più che la bellezza mi attrae l'eleganza, quel certo non so che delle donne che hanno veduto molto, che hanno amato, che capiscono tutte le depravazioni tutti i pervertimenti del gusto. Velleda ritrasse il braccio che appoggiava su quello di Franco e arrossì, ma egli, sfiorandola col suo soffio, aggiunse : Per me ci vuoi lei, Velleda. La piccola signora rabbrividì. Le faccio orrore, - disse il duca a denti stretti, senza smettere il sorriso un po' stupido. - Ma non è colpa mia se non c'intendiamo; lei ci mette così poca buona volontà! Del resto, quando il nostro orecchio è attratto da una voce prediletta, tutte le altre non si odono che come un ronzìo noioso. L'allusione non poteva sfuggire a Velleda, ma ella finse di non capirla. Non voleva mettersi in urto col duca per non affliggere Roberto, per evitare che egli le chiedesse spiegazioni. Tacque dunque, ma in cuor suo soffrì uno stazio atroce. Roberto s'era fermato con un signore del paese che ella non conosceva e dovette per questo restare accanto a Franco, il quale riprese a dire: Non vede quale vita insulsa io faccio? Io non ho 0161 a Selinunte i conforti che vi trova mio fratello. Dal viso stesso si vede la mia noia, la mancanza di ogni sollievo, di ogni consolazione, anche fugace. Ingrasso, imbolsisco, divento uno stupido, e tutto per colpa sua, Velleda. La signora fremeva; quelle offese le arrivavano dritte al cuore e in un impeto di ribellione esclamò: Senta: se non cessa di perseguitarmi, io vincerò ogni ritegno e dirò tutto a suo fratello. Mi pare di non aver fatto nulla per meritare i suoi insulti. Insulti li chiama? - rispose Franco. - Io non ho altro desiderio che quello di entrare nelle sue buone grazie, e sarei felice se volesse farsi la consolatrice della mia esistenza. Le ripeto che dirò tutto a suo fratello. Non lo farà mai. Io non sono profondo osservatore, ma scommetterei qualunque cosa che dalla sua bocca non uscirà mai una parola; non vuoi turbare la quiete di Roberto; gli vuoi troppo bene per dargli un dispiacere. Vile! - esclamò Velleda. - Doppiamente vile se crede quello che dice. Ne sono convinto, - rispose il duca con calma. Ma allora, quali consolazioni vorrebbe da me? Tutte quelle che io sono capace di sognare; se adora mio fratello, che me ne importa? L'amore, come lo intendo io, non ha nulla che vedere con i sentimenti. È l'appagamento di un desiderio, è l'unione di due corpi attratti da una irresistibile simpatia. L'odore che emana dalla sua pelle, le movenze del suo corpo, la sua bocca fresca, la sua voce, le sue mani, mi mettono la febbre addosso: io la desidero, io la voglio! Il duca non s'era esaltato punto nel parlare a Velleda. Ella invece era in preda a un parossismo di rabbia e alzando gli occhi su Franco, due occhi che avevano una guardatura sinistra e ai quali lo strabismo leggero dava una espressione minacciosa, disse : 0162 Basta; glielo impongo! - e senza curarsi di quello che avrebbe potuto pensare Roberto entrò in una botteguccia, di mercerie e rimase ritta, rigida dinanzi al banco, senza saper quello che chiedere. Roberto, quando ebbe lasciato l'amico, si volse per cercare Velleda. Dov'è? - domando a Franco. Sono forse il guardiano della signora? - rispose egli con dispero. - Mi ha lasciato da molto tempo. Roberto camminava ansioso per la via deserta spingendo l'occhio in ogni cortiletto e in ogni bottega. Quando la scorse con uno slancio di affetto le corse incontro, domandandole: Che cosa fa? Perché è sparita? Non vede? Compro nastri per Costanza: me ne ha chiesti. Franco; dalla porta della bottega seguiva la piccola scena e ripeteva fra sé: Non gli dirà nulla mai, ne sono sicuro! Quando uscirono tatti insieme per continuare la visita alla citta, Velleda aveva preso per la mano Maria. Le oro afose, le ore morte erano passate e la gente usciva dalle case. Ogni uomo si toglieva rispettosamente il cappello vedendo Roberto; ogni donna gli sorrideva, e quei saluti e quei sorrisi erano una consolazione per Velleda, la quale diceva a Maria: Vedi come tutti vogliono bene e rispettano tuo padre; tu puoi essere altera di lui; non v'è nulla di più bello che ispirare stima. Maria non rispondeva ed era straordinariamente distratta. Ella pensava alla promessa dello zio di farla duchessa e già parevate di veder d'intorno a sé, in atto umile, una corte di signori e di dame che le prestassero omaggio. A che pensi, Maria? - domandò Velleda. - Penso che è una bella cosa portare una corona ducale. 0163 Ma come mai ti vengono in testa certi pensieri? Non sono forse l' erede dello zio Franco, duca d'Astura? Ah! è un'infamia! - susurrò Velleda fra i denti. E in quel momento, forse per la prima volta, ebbe la visione precisa, delle sinistre intenzioni del suo persecutore.

Franco aveva abbassato gli occhi. Una doppia razione di vino fu distribuita agli operai, i quali sotto il cocente sole meridionale uscirono lieti dallo stabilimento a frotte. E mentre in tante parti del mondo un grido di ribellione e d'odio usciva dal petto 0146 dei lavoratori, e tante fabbriche erano in fiamme, e tanti ribelli cadevano colpiti dalle palle dei soldati, su quella spiaggia della lontana Sicilia un nuovo vincolo d'affetto era creato fra il padrone e gli operai. L'opera d'amore li un cuore buono e di una mente illuminata trovava la sua alta ricompensa. Velleda s'era accostata a Roberto e gli parlava sommessamente, fissandolo. Franco li avvolgeva con uno -sguardo invidioso, che non sfuggi a Costanza. Ella fremè li gioia e disse fra se: Ah! so come vendicarmi!

Franco non parlava; aveva abbassato lo sguardo sul letto e pareva in preda a un accesso di stizza, che avrebbe volentieri sfogato sul fratello. Perché vuoi mettere ostacoli alla mia risoluzione? gli disse freddamente. - A quali calcoli ubbidisci? Roberto impallidì sotto quell'offesa. Rammentava che la madre loro, ingiusta con lui, leggiera e spensierata come Franco, soleva accusarlo sempre di calcolo con le stesse parole usate ora dal fratello; e l'udirle ripetere da lui, in quel momento, lo turbava come il ricordo di una ingiustizia lungamente tollerata. Non rispose all'offesa del fratello, per non perdere la calma apparente, che era la sua forza dinanzi a quel debole, cui sentivasi legato da un profondo affetto, e disse soltanto: Franco, io ti voglio bene e non permetto che tu macchi la tua vita con una fine insulsa, indegna di un gentiluomo. Nessuno si è mai ucciso in casa nostra e tu non devi essere il primo che commetta questa viltà. Ma io son rovinato, capisci! - rispose l'altro a denti stretti, balzando dal letto e fissandolo coi suoi occhi freddi. Ebbene, se sei rovinato, a che cosa rimedi morendo? Paghi forse i tuoi creditori? Salvi forse il tuo nome dall'onta? No, Franco, quando si è avuto il coraggio di sciupare, bisogna aver quello di sopportare la vita tal quale ce la siamo fatta. Capisco che si uccida chi non ha da levarsi la fame, da ripararsi dal freddo, chi non trova lavoro e chi è consunto da una malattia mortale. Ma la mia casa ti è aperta, dalla vendita dei tuoi beni si potrà sempre salvar qualcosa, tu puoi lavorare, tu sei sano e devi vivere. Lavorare! - ripetè Franco. - E a che sono mai adatto io? A tutto si riesce quando si è giovani e si ha voglia. Ammetto che l'esilio volontario in America ti abbia spaventato. Che avresti fatto tu, là, preso nell'ingranaggio della lotta disperata per la vita? Nulla, nulla. Ma io ti offro un lavoro certo, ti offro l'esistenza onorata e il mio affetto. Vieni meco in Sicilia. Io svilupperò ancor più il mio commercio vinicolo e t'inizierò ai segreti del mestiere. Viaggerai nell'isola, e anche all'estero, e io intanto, con la pratica acquistata negli affari, cercherò di salvare in parte il tuo patrimonio. Non ti offro cosa che ti possa offendere. Rammentati che il nucleo di quella azienda è costituito dai beni dotali di nostra madre, ai quali tu rinunziasti quando lo zio ti istituì suo erede. Accetta questa soluzione onorifica per te; tu sarai in casa tua e la mia Maria ti allieterà l'esistenza. È una cara bambina la mia Maria. Franco sorrise. Rammentava di essere stato una volta con sua madre a Castelvetrano, nella piccola città quasi orientale, situata in mezzo a una solitudine ridente e solenne, e rivedeva le donne accorrere al rumore d'una carrozza, sulla porta delle case; da cui si scorgevano i cortili fioriti di gelsomini e di oleandri all'uso arabo. Che avrebbe fatto mai in quella solitudine? Senti, - continuò il fratello che leggevagli nell'animo le esitazioni, ma che incominciava a sperare, io non abito la città, come sai. A pochi passi dalle imponenti rovine di Selinunte ho costruito una villa; lo stabilimento è in riva allo splendido mare africano; vapori vanno e vengono, ho buoni cavalli, le campagne sono bellissime, l'attività non cessa mai nei magazzini e sul molo, e si può vivere piacevolmente e utilmente in quella solitudine, visitata da persone colte e intelligenti. Un uomo che ami i cavalli e il mare, non si può mai annoiare nel mio deserto. E vedi, - aggiunse in tono affettuoso, - io farò di tutto per renderti più lieta la esistenza. Inviterò amici di Palermo e di Trapani, ti farò prendere amore al lavoro, che da tante soddisfazioni, e forse un giorno ti sentirai più felice in quell'asilo che ti offro, che qui dove forse non hai un amico. Ma ho delle amiche, - disse Franco con una certa fatuità, - e tu mi rammenti che ne attendo stamani una appunto; una bella e buona creatura che mi ama con passione. Perché l'avevi invitata stamani appunto? Perché coprisse il mio cadavere di rose e piangesse accanto al mio letto di morte" Roberto aggrottò le sopracciglia, urtato da tanta fatuità e disse: Tu non ami quella signora; se tu l'amassi avresti avuto pietà del suo dolore e per un capriccio non l'avresti spinta a compromettersi irreparabilmente. - Di fatto, non l'ho mai amata e non l'ho neppur desiderata, - rispose Franco. - Se avessi voluto, Paola mi avrebbe seguito in capo al mondo, ma io non le ho chiesto nulla ... mai nulla. Ma allora tu commettevi una vera infamia facendola venir qui, in mezzo ai curiosi e agli indiscreti che sarebbero penetrati in camera tua per assistere alla tua agonia o per vederti morto. Non hai pensato che quella signora sarebbe stata screditata per sempre, che non avrebbe più potuto porre il piede nella casa del marito? No; ho pensato soltanto che mi avrebbe portato dei fiori e avrebbe pianto. Scrivile subito, - disse Roberto in tono fermo. Trova il pretesto che io sono qui e pregala di non venire. Non sciupare la vita di una creatura che ti vuoi bene. Non la precipitare nella rovina. Franco si alzò, e dominato dallo sguardo imperioso del fratello scrisse a Paola poche righe e suonò perché fossero recapitate. Quando i due fratelli furono di nuovo soli, Roberto, con molta serietà, disse al duca: La morte, come ti ho dimostrato, non rimedia a nulla. Occorre che tu viva, ma la tua esistenza bisogna che cambi. Se accetti la proposta che ti ho fatto, io ti risparmierò tutte le noie di una liquidazione. Io sarò il tuo mandatario, tratterò con i creditori, venderò quello che potrò, ma intanto che io mi occupo a salvarti abbastanza da vivere, tu devi prepararti al lavoro, alla nuova esistenza che t'impone la tua situazione. Ti senti la forza di rinunziare al lusso, di sparire per alcuni anni, di rompere tutti i rapporti con la gente che conosci, di divenire un altr'uomo? Tenterò, - rispose l'altro a occhi bassi, - e se questo sforzo sarà troppo duro per me ... . Che farai allora? Ricorrerò a quel rimedio infallibile, che tu non hai voluto che usassi stamane. Oh! non vi ricorrerai più! - esclamò Roberto in tono di sicurezza. - Io so che potenza di attrattiva ha il lavoro. Discaccia ogni pensiero che a lui non sia rivolto, e gli afflitti gli devono quelle pause al loro dolore che hanno sull'anima lo stesso effetto benefico che il sonno produce sui corpi stanchi. Ma per ottenere dal lavoro questo sollievo, bisogna amarlo profondamente, bisogna ricorrere a lui come all'amico più fido. Il lavoro mi salvò allorché dopo un anno di felicità assoluta io vidi morire la mia bella Maria nel mettere al mondo la nostra bambina. Se non volevo compromettere gli affari, bisognava lavorar subito e non concedermi il lusso di piangere. Al ritorno del camposanto mi mescolai di nuovo agli operai, sorvegliando i carichi, entrai nei magazzini e vedendo che ovunque v'era bisogno del mio consiglio e del mio ordine, perché la grande macchina camminasse, potei distrarmi, riprendere le consuetudini interrotte per pochi giorni, e il dolore mi diede ore di tregua e così potei vincerlo. Vedi, il lavoro tiene, nella vita di noi uomini moderni, il posto che avevano la religione e la fede in quella degli antichi: è il nostro conforto, la nostra àncora di salvezza, il nostro rifugio. Essi si rinchiudevano in un convento per meditare e pregare, preparandosi a una vita migliore, a una vita felice; noi, che poco speriamo, che non abbiamo la pazienza di attendere una consolazione lontana, ci gettiamo nel lavoro che ci distrae la mente e ci affatica il corpo. Stanchi, dormiamo, e così di ora in ora, di giorno in giorno il dolore viene ricacciato in fondo al cuore, dove rimane in una specie di letargo, finché un nuovo dolore non lo desta; ma almeno in quel periodo di sonno ci lascia tregua, ci da agio di prepararci alla nuova lotta, come certi rimedi che somministrano i medici, non perché abbiano virtù curativa, ma solo perché infondono all'organismo la forza necessaria per vincere la malattia. La fatica della mente e del corpo, la tensione dei nervi e dei muscoli, è la vera consolatrix afflictorum degli uomini d' oggigiorno ; fa che sia anche la tua. Ebbene lavorerò! - disse il duca d'Astura, - ma tu dovrai avere con me una pazienza da santo, perché non solo sono disadatto a qualsiasi occupazione, ma non ho neppure nel lavoro quella bella fede che ti anima, nè per il lavoro quell'amore che è la condizione prima per riuscire. Vieni dal mio avvocato subito; voglio farti una procura generale, e quello che salverai dal mio patrimonio, sarà tutto trovato. Nel mio studio troverai tutte le carte, il maestro di casa ti metterà al correlile degli affari. Credo che sia un ladro. - aggiunse Franco con un ironico sorriso, - perché mi hanno scritto molte lettere anonime in cui lo accusano di giocale alla Borsa, di mantenere una bellissima donna e di far vita dispendiosa col mio. Io non l' ho mandato via per tante ragioni, ma soprattutto perché mi trovava sempre le somme di cui avevo bisogno. Questa volta, però, mi ha detto che non poteva far nulla. Dunque è divenuto inutile e tu gli puoi chiedere i conti da oggi a domani, - aggiunge sorridendo. Il cinismo e l'indifferenza assoluta di Franco urtavano Roberto, ma egli voleva esser buono col fratello e soprattutto indulgente, voleva non accorgersi dei suoi difetti, che credeva frutto di una educazione sbagliata, e sperava, sorvegliandolo, guidandolo, di rigenerarlo. Come tutti i caratteri generosi, Roberto non si sgomentava degli ostacoli che offriva l'opera cui voleva dedicarsi; il fine lo seduceva anzi e sperava di vincerli, come aveva vinto il suo carattere violento, e come ora vinceva l'amore che voleva tiranneggiarlo. I due giovani stabilirono che Franco sarebbe partito la mattina dopo per Napoli e, giunto là, si sarebbe imbarcato poche ore più tardi per Palermo, Roberto rimaneva per licenziare la servitù, trattare con i creditori e sorvegliare l'avvocato, che aveva in mano tutte le fila intricatissime di quell' arruffata matassa. Poi avrebbe raggiunto il fratello a Selinunte. Dopo uno colazione che essi fecero in comune, andarono dall'avvocato per la procura generale, pranzarono insieme e durante tutto il giorno non fecero altro che parlare d'affari; e a mano a mano che Franco esponeva i ripieghi usati per aver denari, che enumerava le ipoteche messe da più creditori sullo stesso possesso, che diceva quali terreni aveva comprati, quante case erano in costruzione, quante sfittate, Roberto si faceva più serio, ma nessuna parola di biasimo gli usciva dalla bocca. Fidati a me, - gli disse la sera lasciandolo, - e sta pur sicuro che se vi sarà qualcosa da salvare, la salverò. Poi aprendo il portafoglio mise in mano al fratello un biglietto da mille lire per le spese del viaggio e promettendogli di andare la mattina seguente alla stazione, ritornò all'albergo. Non gli pareva vero di essere in camera sua, solo, e di poter scrivere all'assente, alla donna, cui viveva castamente vicino, amandola con passione, per prepararla all'arrivo del duca; ma tutte le commozioni di quella interminabile giornata lo avevano affranto e fece uno sforzo per prendere in mano la penna. Roberto Frangipani a Velleda Bianchi. Castelvetrano per Selinunte. Mia buona signora signoraLe mandai un telegramma appena sbarcato a Napoli e uno la sera del mio arrivo a Roma e ho avuto da lei due risposte brevi, ma esse sono state la mia sola consolazione da che sono qui. Maria dunque sta bene e domanda che io torni presto a lei, spera che la mia assenza sia breve. Come fanno bene queste parole affettuose a un cuore straziato come il mio! Le nascosi lo scopo del mio viaggio a Roma, perché speravo che le notizie che me lo avevano fatto imprendere tanto a malincuore fossero false; ma ora mancherei con lei di franchezza se non le dicessi tutto. In codesta solitudine; in mezzo al mio assiduo lavoro, mi pervenne la nuova della rovina di mio fratello, duca d'Astura. Le avevo parlato poco di questo fratello col quale non ho passato altro che la prima infanzia e non ho avuto nulla di comune nella giovinezza, e poi parlandogliene avrei dovuto rivelarle un dolore che mi ha sempre angustiato atrocemente. Ora che Franco sta per giungere costà e si rassegna a incominciare una nuova vita, conviene peraltro che io glielo faccia conoscere per impedire anche che egli possa avere una influenza perniciosa sul carattere di Maria. Mio padre era il fratello minore del duca d'Astura e lo stesso divario che corre fra Franco e me, sussisteva fra quei due fratelli. Lo zio Giovanni era un uomo che si drappeggiava con compiacenza nelle glorie passate della famiglia Frangipani, - era guelfo nell'anima e si vantava che l'ultimo degli Hohenstaufen fosse stato congegnato da essi a tradimento agli Angioini, - e credevasi un gran personaggio perché occupava diverse cariche alla Corte pontificia. Del suo valore personale non gl'importava nulla e parevagli cosa superflua, dal momento che all'annunzio del suo nome, accompagnato dal titolo, vedeva spalancare dinanzi a sé tutte le porte. Mio padre, invece, fino da giovane aveva dimostrato un grande amore allo studio, un desiderio vivo di essere il creatore di se stesso. Educato semplicemente, perché non era il primogenito e non poteva sperare in un vistoso patrimonio, seguì i corsi universitarj, s'addottorò in legge e non potendo esercitare a Roma, dove la sua famiglia era fra le prime, viaggiò molto creandosi numerosi amici ovunque. In uno di questi viaggi conobbe mia madre a Palermo. Ella era una Monteleone, di un ramo cadetto, e possedeva alcune terre fra Castelvetrano e il mare, che però non costituivano una ricchezza. Era molto bella, abbastanza colta, elegante, e mio padre se ne invaghì e la sposò. Non credo peraltro che la loro unione fosse felice, perché se rievoco la mia infanzia, vedo mio padre sempre solo nel suo studio, in mezzo ai libri, e la mamma circondata da molte signore e da molti amici, fra i quali non mancava mai il duca d'Astura, nè la moglie. Essi non avevano figli e Franco viveva più in casa loro che in casa nostra. Anzi, ricordo diverse dispute fra mio padre e mia madre per questo fatto, dispute che ella troncava dicendo che Franco era l'erede naturale delle ricchezze e dei titoli del duca e occorreva lasciarlo allo zio, dal momento che desiderava di vederselo crescere accanto. Non so quando nè come, ma rammento bene che Franco un giorno andò via di casa per non tornarvi più e che ogni tanto io andava a visitarlo al palazzo Astura e lo trovavo sempre in compagnia di un abate francese; che lo trattava con una deferenza da servo a padrone. Appena mio fratello non fu più insieme con noi, mio padre, forse per un accordo preso con mia madre, si diede a dirigere la mia educazione e mi fece studiare seriamente il greco e il latino e volle che ogni ora della mia giornata fosse dedicata allo studio. Mia madre mi abbandonava interamente e io non ero infelice per questo, anzi ero lieto sentendo che nuovi legami si stabilivano fra mio padre e me quanto più io rimaneva nella sua biblioteca e imparava da quell' uomo, che m'incuteva tanto rispetto, mille cose che un professore non avrebbe saputo insegnarmi. Egli era versatissimo non solo nel diritto, ma anche in letteratura, in istoria e in archeologia, e tutto ciò che sapeva voleva che io pure lo apprendessi, ripetendomi: " Queste cognizioni saranno un giorno la tua ricchezza " e sospirava forse pensando alla mia povertà relativa e al cospicuo patrimonio che avrebbe ereditato mio fratello, il quale montava a cavallo, guidava una pariglia di bellissimi sauri, aveva la sua servitù ed era educato con quel fasto proprio delle famiglie principesche romane, mentre io crescevo senza lusso, senza idee di grandezza, sgobbando sui libri e assuefacendomi a considerare il lavoro come una necessità della vita. Mia madre si ammalò gravemente mentre io avevo quindici anni, e dopo una lunga malattia, morì. Mi duole il confessarlo, ma io non provai un dolore profondo vedendola mancare, prima di tutto perché non ero assuefatto a lei, e la sua perdita non lasciava un vuoto nella mia vita, in secondo luogo perché ella mi feriva sempre vantando la disinvoltura, l'eleganza, l'intelligenza di Franco, per stabilire fra noi un paragone, nel quale io scapitavo molto; Franco era il suo figlio d'elezione. Ella mi tacciava di essere calcolatore, gretto d'animo, sornione e se osavo farle osservare che speravo crearmi una posizione col lavoro e occorreva che studiassi, ella faceva una risata assicurandomi che non sarei mai stato nulla, e che quelle fisime andavano lasciate ai plebei, ai borghesucci. " Del resto, - concludeva, - tuo fratello ti aiuterà; egli sarà tanto ricco! " Anche al suo letto di morte, negli ultimi momenti della vita, ella riuscì a ferirmi. Se mio fratello era assente, era rosa dall'impazienza che tornasse; appena entravo io in camera, con un cenno impaziente della mano, con una parola che tradiva la noia che io le procuravo, mi indicava l'uscio, e io chinavo il capo e obbedivo. E queste scene si ripeterono molte volte, perché l'agonia fu lunga e straziante. Durante quella agonia io avevo sperato che ella mi chiedesse un bacio; ma non lo fece. Ella spirò guardando Franco, accarezzandogli il volto, e io non ho mai potuto ripensare a quell' estremo disprezzo senza soffrire. Dopo la morte di mia madre, il babbo lasciò Roma e mio fratello rimase in casa del duca; noi ci stabilimmo a Castelvetrano. Mio padre continuò a farmi studiare i classici, a istruirmi nell' archeologia, ma volle pure che a queste cognizioni io unissi quelle dell'agricoltura e della chimica. Prese dunque presso di noi una specie d'intendente molto abile e nell'inverno mi faceva passare alcuni mesi a Palermo per seguire il corso di chimica. Mio fratello scriveva raramente e sempre più io mi avvicinava a mio padre e mi staccavo da Franco. Non avevamo nulla di comune e le nostre lettere erano fredde e insulse. Quando avevo appena ventidue anni, mio padre morì, ed io che sentivo in me tanto bisogno di attività, fondai lo stabilimento vinicolo di Selinunte, costruendo la villina che ella abita, per portarvi la giovane e bellissima Maria, che fu la mia compagna per un anno solo. Vi è un periodo nella vita in cui l'ammirazione per il bello, rappresentato dalla donna, vince ogni altro sentimento, ogni altra considerazione. Maria era una mezza popolana, incolta, senza educazione, ma era divinamente bella, bella come la piccola Maria, ed io la sposai, nonostante i sarcasmi di mio fratello, nonostante l'opposizione di mio zio, che giurò di non volermi più vedere. Queste ostilità servirono d'impulso alla mia voglia di lavorare. Volevo crearmi una posizione indipendente. I beni di mia madre, indivisi con mio fratello, non erano una base di ricchezza e bastavano appena a una modesta esistenza. Io volevo esser ricco, non per procurarmi le soddisfazioni che la ricchezza offre, ma soltanto per lasciare un patrimonio ai miei figli, per vedere la mia Maria nella cornice elegante che richiedeva la sua bellezza. Ella mi amava con una dolcezza da schiava, e la sua adorazione per me, la sua sottomissione, non mi facevano accorgere quanto le mancava per esser davvero la mia compagna. Ed io che ero soltanto innamorato della sua bellezza, non le chiedevo quelle soddisfazioni dello spirito che ella non poteva darmi. Quell'anno fu un sogno di felicità completa, troncato dalla morte, ma io mi domando se ora che gli anni mi hanno reso più esigente, io l'avrei amata egualmente, se sarei stato abbastanza generoso per non farle sentire la mia superiorità. Il dolore mi straziò, ma non mi vinse. Da quel giorno ho esteso il mio commercio, sono diventato possessore di molti terreni, ho lavorato con maggior lena pensando all'avvenire del fiore delicato, che avevo visto crescere sulla tomba della mia cara morta, alla quale rivolgo la mente come si ripensa a una bella e lieta primavera. Ella mi conosce bene, poiché è un anno che si è offerta per vegliare sulla mia Maria e che mi vede al lavoro e nella vita di famiglia, dunque è inutile che le parli di me. Ma è necessario che le parli di Franco, che sarà nostro ospite e che giungerà costà il giorno successivo a questa mia. La prego di fargli preparare il quartiere dei forestieri, che è nel centro dello stabilimento. Quelle quattro stanze basteranno a mio fratello. Vi faccia portare i tappeti che sono in camera mia e alcuni libri. Mi affido al suo gusto per dare a quelle stanze un aspetto allegro ed elegante. Al servizio di Franco destinerà il mio cameriere, che dormirà nella retrostanza, accanto al bagno. Mio fratello giungerà col treno delle cinque a Castelvetrano. Gli mandi la carrozza e faccia preparare un buon pranzo e una tavola elegante. Franco è assuefatto a tutte le raffinatezze del lusso e siccome voglio affezionarlo a Selinunte, egli non deve provare impressioni penose al suo arrivo. Prepari anche Maria a riceverlo affettuosamente, ma non permetta che egli passi tutto il giorno alla villa. Il suo tatto le sarà di guida per tenerlo distante di costì fin dal primo momento. Ponga a sua disposizione l' yacht i miei cavalli, lo spinga a far gite in terra e in mare, lo occupi, ma non gli faccia prendere la consuetudine di vivere fra noi e non gli affidi mai Maria. Mi dispiacerebbe che la bambina interrompesse per lui la sua vita metodica e che noi fossimo privati di quella libertà di leggere e di studiare che è il conforto delle nostre serate. Faccia conoscere Franco al sotto direttore degli scavi, al buon Lo Carmine, e lo conduca dai Moltedo a Castelvetrano, dove troverà sempre gente. Però la prego di non presentarlo come duca d'Astura, nè dargli in casa il titolo cui mi pare non abbia più diritto dal momento che ha sprecato il patrimonio che a quello andava unito. Non mi dilungo su questo tasto doloroso; ella si accorgerà che Franco manca assolutamente di educazione morale, come d'istruzione. Il mondo si compone di edificatori e di distruttori; a quest'ultima categoria appartiene mio fratello; ma io spero con l'esempio, con la dolcezza di piegarlo al lavoro, di fare di lui, che è passato fin qui nella vita come un flagello, un uomo utile. E forse in quest'opera di rigenerazione, ella mi aiuterà. Dovrò stare a Roma forse per settimane, forse per mesi; è un sacrifizio immenso che compio, ma non sarei degno della stima degli onesti, se non lo facessi. Si tratta di salvare dal disonore il nome di mio fratello. Se non riuscirò a salvare altro, avrò già compiuto un'opera buona. Mi accompagni col pensiero in questa difficile e dolorosa missione che m'impongo e vegli sulla mia Maria, cui mando mille teneri baci. Il suo affezionatissimo "ROBERTO FRANGIPANI. "

A due, a quattro, ne uscivano i lavoranti col cappuccio abbassato sulla fronte, e percorsa la larga via che metteva alla strada maestra, i più per questa proseguivano diretti a Castelvetrano; molti prendevano una viottola a sinistra, che traversava campi di fichi d'India; dalle rigide pale metalliche, per andare a Campobello; alcuni invece s'internavano a destra fra le sabbie per giungere ai Pilieri o a Porto Palo. Gli occhi della donna che tenevasi sempre celata, erravano incerti da un gruppo ali' altro come se ella volesse riconoscere fra quegli operai, tutti egualmente vestiti; colui che attendeva. Ma vedendoli procedere per la loro via, senza fermarsi, ella riportava lo sgaardo sulla porta dello stabilimento. Non solo gli occhi di quella donna bruna e snella rivelavano la passione; ma anche i lineamenti contratti, e la bocca, una bocca, che si protendeva ansiosa, quasi in cerca di baci. Era il vero tipo della greca siciliana, con la pelle giallognola arsa dal sole, con la fronte bassa, ombreggiata da capelli neri e grossi, con le labbra pallide, il naso breve e dritto; di quel tipo che si ritrova intatto a Piana de' Greci, centro delle colonie albanesi di Sicilia. La composta e classica bellezza di quella donna era posta in rilievo dal costume smagliante. La donna non si moveva, non batteva palpebra, ma ogni tanto dalle labbra protese le usciva una invocazione ardente ed ella susurrava: 0111 Maria, bedda matri matriA un tratto gli occhi mandarono lampi di fuoco vedendo uscire un operaio solo, l'ultimo, dallo stabilimento, e la donna fece un movimento per allargare le rame scure della carubba; che a guisa di manto regale, strascinavano sopra un tappeto di margherite gialle. Ma invece di uscir subito dal nascondiglio, ella lasciò che l'operaio si ingolfasse per una viottola, che passava a poca distanza, e lo lasciò scomparire in un quadrato di terreno, coperto di alte piante d'arancio e colà, dopo qualche tempo, lo raggiunse; guardando da una parte e dall' altra, per tema che la sua ampia sottana rossa fosse scorta da qualcuno. Costanza! - disse una voce d'uomo. Eccomi Giovanni, - rispose la donna avanzandosi, e appena fu accanto all'operaio, con voce ansiosa, gli domandò : Come sta Alessio; l'avete veduto? Sí - rispose Giovanni; sono stato all'ospedale; ma aveva una guardia accanto al letto e non ho potuto parlargli. Come sta, parlate; non vedete la mia ansia? Pazienza, Costanza mia, Alessio mi parve poco aggravato, perché mi riconobbe nella corsia e mi fissò con certi occhi da uomo vivo che cova un pensiero di vendetta. Madonna mia! - esclamò Costanza. - Se guarisce, se posso rivederlo, vi darò i coralli, gli orecchini di perle, tutto quello che ho. Che strazio di non poterlo assistere, che strazio! Buona sera. Costanza, - disse brevemente Giovanni. Lunedì tornate qui a quest'ora; vi dirò qualcosa. Tenete; - fece la donna ponendogli in mano una moneta di cinque lire. L'operaio la ripose nel taschino della sottoveste e sparì. 0112 Costanza rimaneva ancora per qualche tempo celata nell'aranceto e poi a testa bassa tornava alla villa, avendo cura di prendere la via della spiaggia, e di mettere in evidenza la sottana rossa. Di dove venite; Costanza? - le domandò Velleda dalla sala da pranzo, vedendola avanzare nel viale dei palmizj. Sono stata a preparare la capanna del bagno, - rispose la donna senza alzar gli occhi. Costanza, conducimi in giardino, - disse Maria prendendola per mano. - Lo zio Franco non è ancora giunto e io non ho passeggiato oggi. No, - disse Velleda che non aveva pace se la bambina si allontanava un istante, - tu starai qui, Maria; lo zio merita che tu gli usi dei riguardi. Signora. - disse Costanza, - per tanti anni ho badato io sola alla signorina; se ora non avete più fiducia in me, lasciatemi tornare al mio paese. Sapete Costanza che io mi uniformo in tutto e per tutto alle istruzioni che vengono da Roma. Il signor Roberto mi ha scritto di non lasciar uscire di casa Maria con nessun altri che con me, ed io mi attengo a quest'ordine. La donna si morse le labbra e dette a Velleda una guardata bieca. Maria; per consolarla del rifiuto sofferto, le disse sottovoce : Quando il babbo sarà tornato, allora tutto cambierà e io uscirò di nuovo con te. Anche lo zio Franco ha ordinato che io non esca di casa senza Leda e altri. È tutta colpa dei malandrini, che metton paura alla gente. A Maria era stato detto che il paese era malsicuro che i malandrini s'eran mostrati in diversi punti, affinchè non si sgomentasse della presenza dei carabinieri alla villa e anche perché fosse cauta. Costanza erasi fatta livida e balbettava; 0113 Darei la vita per difender la mia Maria; nessuno le vuoi più bene di me! Lo so, Costanza, ma perché esporre Maria inutilmente? Nel giardino può nascondersi qualcuno e farle paura. Noi tutti, che le vogliamo bene, dobbiamo risparmiarle ogni spavento. Velleda parlava in tono basso, ma fermo, e intanto fissava la nutrice per farle capire che la sua insistenza era intempestiva. Costanza stava per replicare; Velleda se ne accorse e accennando il duca che giungeva in compagnia del Varvaro, le disse: Andate a preparare le camera nostra e dite al cuoco che mandi in tavola. Costanza uscì a testa bassa, umiliata; ma appena fu nell'anticamera rialzò fieramente il capo e fece con la mano un gesto di minaccia all'indirizzo di Velleda. Me le pagherà tutte, quella prepotente, tutte! disse accompagnando le parole con uno sguardo feroce. - Io piango lagrime di sangue, e mi struggo come un cero ma lei, lei piangerà gli occhi. Che possa dannarmi, se non mi vendico! Questa minaccia era pronunziata a due passi dalla stanza da pranzo, dove Velleda con volto sereno accoglieva Franco e il Varvaro. Per un accordo preso fra loro non si parlava mai in presenza di Maria degli avvenimenti che potevano turbare la mente della bambina. Così il pranzo fu lieto in apparenza. Franco in quel giorno aveva fatto col " Selino " una gita fino a Porto Empedocle, conducendo seco i due architetti tedeschi, e narrava le piccole avventure della giornata. Maria si divertiva a sentir lo zio che imitava i due tedeschi quando volevano parlar italiano e rivolta continuamente a lui, lo interrogava per farlo ancora parlare. Il Varvaro approfittò di quel momento per dire a Velleda: 0114 Signora, oggi è stato da me il giudice istruttore, le cose si complicano. Velleda impallidi. - Come mai? - domandò. - - Uno dei malandrini arrestati ha fatto delle rivelazioni. Egli ha indicato esattamente come era stato ideato l'attacco allo stabilimento. Alessio non aveva nulla che vedere con quel fatto. L' affare della villa è cosa separata. - E Alessio, Alessio non parla? No, finge di non potere. Velleda avrebbe voluto sapere di più, ma aveva paura di destare l'attenzione di Maria e non rivolse altre domande al direttore. Era ansiosa di riprendere la conversazione e non vedeva il momento che il pranzo terminasse per esser più libera di parlare. Invece Franco aveva riportato dalla sua gita un grande appetito e si faceva riservire le pietanze. Tutto gli pareva squisito : il pesce, la caccia e specialmente un'insalata che riprese tre volte. Finalmente le frutta furono messe in tavola e Velleda ordinò a Saverio di portare il caffè sulla terrazza. Nel salire le scale, ella trovò maniera di dire al duca: Mi faccia il piacere, occupi Maria un momento in sala; io ho bisogno di parlare col Varvaro; dopo le dirò tutto. Franco seppe attrarre la bambina verso una tavola centrale, sulla quale erano posate molte opere illustrate. Apertane una sull'Egitto, egli prese a descriverle Alessandria, il Cairo, le moschee, e Maria non si mosse più dal suo fianco. Intanto Velleda domandava al Varvaro: Mi dica il resto, mi dica tutto! Ho poco più da narrarle, - rispondeva l' altro. Pare che il caso abbia fatto sì che il tentativo 0115 di ratto coincidesse con l'attacco allo stabilimento. Addosso a uno degli arrestati si sono trovate lime e grimaldelli. Quel ladro, messo alle strette, ha confessato tutto. I malandrini, sapendo che il signor Roberto era a Roma, e che io avevo fatto delle riscossioni importanti, si suppone avessero stabilito di penetrare nello stabilimento nel cuor della notte, d'impossessarsi dei guardiani e di svaligiare l'amministrazione. Essi erano già nello stabilimento, rimpiattati in un magazzino, quando hanno udito le fucilate alla villa e il suono della campana. Vedendo uscire i guardiani, hanno creduto di poter meglio compire il furto, mentre lo stabilimento era quasi abbandonato. Ecco quello che ha confessato il malandrino e a questa rivelazione lo ha spinto il timore di esser complicato in un affare più grave: quello del rapimento della signorina. Inoltre, pare provato che i malandrini non avessero nessun rapporto con Alessio, il quale la sera del fatto fu visto fino alle nove in un osteria a Castelvetrano, mentre gli altri erano già a quell' ora nei dintorni dello stabilimento e non si sa che sieno mai stati in città negli ultimi tempi. Ma Alessio allora? Probabilmente avrà altri compiici; ma il giudice istruttore è sicuro che il movente dell'attacco allo stabilimento era il furto, mentre qui era invece la vendetta. Ma come è possibile che tanta gente congiuri contro di noi! - esclamò Velleda presa dallo sgomento. I carabinieri, mentr'ella parlava, si mostrarono nel viale, tornando da una perlustrazione. Oh! se si potesse vivere in pace come prima! disse la signora. - Tutti questi timori che ci agitano di continuo, questo malvolere che ci circonda, queste cupidigie insensate che si manifestano con tentativi di rapine e con uccisioni, disgustano della vita e del 0116 soggiorno in questo luogo. Povero signor Roberto! Egli si studia con ogni mezzo di fare il bene e raccoglie invece dolori! E per il primo maggio, a proposito? Ha ricevuto istruzioni? Sì, doman l'altro gli operai lavoreranno fino a mezzogiorno soltanto. Questo è l'ordine. In quel giorno però scemeranno una parte delle sue responsabilità, aggiunse il Varvaro. Come mai? - domandò Velleda. La sera giungerà il signor Roberto: domattina egli parte da Roma. E non me lo diceva! - esclamò Velleda. Avevo ordine di non rivelare a nessuno l'arrivo di lui. Egli non vuole neppure la carrozza alla stazione. Andrà a dormire dai Moltedo; nella sera parlerà con il giudice istruttore e forse con Alessio, che domani sarà tolto dalla corsia comune dell'ospedale, perché nessuno assista alle interrogazioni che vuol rivolgergli il signor Roberto. Da Roma egli ha disposto tutto. Oh! creda, se fosse stato qui, nessuno avrebbe osato turbare la nostra quiete. Egli incute timore e rispetto; egli sa far rispettare la sua persona e i suoi averi. Maria corse sulla terrazza per chiedere un pezzo di zucchero e Velleda si alzò per darglielo. Avrebbe voluto interrogare ancora il Varvaro, sentirlo ancora parlare di Roberto con affetto e ammirazione, ma parevate di aver lasciato troppo tempo solo il duca e rientrò in sala. Ella prese un ricamo: una portiera di raso sulla quale trapuntava grandi fiori in seta, e curva su quella rimase a parlare con Franco. La felicità la rendeva eloquente, e senza dire che Roberto sarebbe tornato tra due giorni gli dipingeva con vivaci colori l'esistenza lieta che avrebbero menato allorché suo fratello fosse stato in mezzo a loro. - Tutto langue ora in questo luogo, - ella diceva, 0117 perché l'anima manca; ma vedrà come ogni piccolo avvenimento si cambia in festa, come ogni cosa risorge. Mentre parlava pareva a Franco che dietro la pelle alabastrina del volto di Velleda si accendesse una face, illuminandola dall'interno. Quella face è l'amore, - pensava Franco fissandola con sorda gelosia. - Basta che senta parlar di lui, che ne parli, perché ella si trasformi. Le spariscono dal volto le tracce delle sofferenze, le svaniscono dalla mente i timori e le ansie; ella rivive, palpita e ogni sguardo contiene un inno di adorazione, ogni parola è una carezza per l'assente. Oh! che adorabile, che unica amante deve essere quella donnina, che si concede tutta col pensiero, che non ha finzioni, non ha reticenze! E la guardava sempre più avidamente, fingendo di seguire con l'occhio i fiori delicati che pareva sbocciassero sotto le sue manine bianche, senza anelli, trasparenti come il volto; quelle manine di cui Franco sognava le carezze blande sulla faccia e nei capelli. A un certo momento il Varvaro si alzò per ritornare alla sua casa e il duca dovette seguirne l'esempio. Tutti e due, ogni sera prima di andarsene, facevano una ispezione al giardino dalla parte interna e poi da quella esterna, insieme coi carabinieri e affidavano a Saverio, che ora dormiva alla villa, la cura di chiudere le porte. Soltanto dopo essersi assicurati che non vi era nulla da temere, andavano allo stabilimento. Essi non permettevano che Velleda si esponesse più, e la signora, per non lasciare sola Maria in camera, vi si rinchiudeva insieme con lei e mentre la bambina dormiva, ella scriveva o leggeva. Costanza dormiva, come si è visto, nella camera accanto, e Saverio, sul ripiano della scala, sopra una materassa che poneva attraverso all'uscio della camera in cui Velleda vegliava. 0118 La felicità quella notte impedì alla signora di sentir la stanchezza. Ella rimase lungamente seduta a una scrivania, rileggendo la lettera memorabile di Roberto, quella cui ella non aveva potuto rispondere subito. Gli aveva scritto però il giorno dopo, senza reticenze, senza false vergogne, col cuore. Non s' era mostrata sorpresa della confessione dell'affetto di Roberto, ne della sicurezza che egli dimostrava di esser corrisposto. Accettava i voleri di lui perché non aveva più volontà propria, ne vita propria; perché soltanto accanto a lui poteva vivere. Dal momento che questo grande affetto mi ha soggiogata, - avevagli scritto, - io ho sentito che nel mondo sussisto la felicità, che la vita ha le sue gioie; come il deserto ha i suoi fiori, e che sui ruderi di una esistenza barbaramente angosciata; può costruirsene una nuova. E la felicità che provo io non la vedo limitata al presente, ali' età delle illusioni, alla breve gioventù che ci riinane; ma io la vedo estesa ai tardi anni della vecchiaia, la vedo raggiare dai nostri volti rugosi, estrinsecarsi in una grandiosa opera d'amore in cui i nostri cuori si rinnoveranno sempre, sempre giovani fino alla pausa suprema, alla quiete della tomba. In questi giorni stessi di angosce continue, io sento la carezza del suo affetto, sento la forza che m'infonde, la lucidità che presta al mio cervello; sento il legame che stabilisce fra noi, a tanta distanza, e che mi sostiene e mi sprona a proteggere tutto ciò che le è caro. L' assicurazione che ella mi da, che senza un ostacolo vivente mi avrebbe fatto il dono del suo nome, mentre mi strappa lacrime di tenerezza, non desta in me nessuna meraviglia. La stima di cui mi circonda; il dominio assoluto che mi ha dato sulla sua casa, la fiducia che ha in me, grande, completa, mi dicono ben chiaro che, liberi entrambi, ella mi avrebbe affidato il suo nome che io avrei accettato umilmente, sentendo tutta la grandezza 0119 del dono e tutta la felicità di riceverlo. Perché io non mi sento umiliata del mio passato. Se sono stata vittima delle colpe altrui, non ho fatto nulla che la coscienza mi rimproveri. E in mezzo alle tentazioni di una esistenza agitata credo mi abbia salvato il presentimento che un giorno avrei incontrato un uomo buono, onesto, dinanzi al quale dovevo poter alzare serenamente gli occhi, cui volevo poter offrire un cuore degno del suo. E questo giorno è venuto e io ho ora un premio insperato che mi compensa della vita solitària, dolorosa; che mi compenserebbe di mille martirj più atroci di quello sofferto. Io sono, mio buon signore in atteggiamento umile dinanzi a lei, come Maria all'annunzio dell'angelo, perché mi piace ringraziarla di tutti i doni che sparge sul mio capo, perché sono commossa; ma non chino la fronte contrita come la Maddalena dinanzi al Signore, il rossore non mi copre le guance; io sono degna di lei. Questo aveva scritto Velleda al suo buon signore, come ella lo chiamava qualche volta soltanto, ma le pareva di non aver saputo esprimere tutta la gioia che provava il suo cuore, di non aver saputo sciogliere l'inno di riconoscenza, che, come melodia divina, sentiva fluttuare nell'anima, e ripensando a quella lettera, guardava la penna posata accanto al calamaio, considerandola come strumento insufficiente a esprimere con parole un sentimento più grande delle cose che si prestano alla descrizione. E intanto che ella affrettava col pensiero il ritorno di Roberto e pregustava la gioia di rivederlo senza rammentare che le ore trascorrevano mentr' ella meditava, un'altra creatura vegliava, a pochi passi da lei; vegliava agitata, rosa dall'amore e dall'odio, due sentimenti che s'erano imposessati del suo cuore. Quella vegliante era Costanza. Da otto anni, cioè dal tempo della nascita di Marla 0120 ella era in casa di Roberto Frangipani. Egli l'aveva fatta venire dalla Piana de' Greci, il paese che dà le più belle nutrici alle famiglie signorili della Sicilia. Costanza aveva perduto il suo bambino un mese prima di partire da casa, e il buon posto che aveva trovato parve a lei e al marito una fortuna. La balia aveva allora diciotto anni ed era un fiore. La morte della signora, il grande affetto che Roberto aveva per la sua piccina, crearono a Costanza una situazione invidiata e comoda alla villa. Ella abitava al primo piano, era servita, pranzava sola e il padrone le faceva continui regali. Ebbe la fortuna che Maria crescesse bella e forte, e di questo si faceva un merito alla nutrice. Chiese un aumento di salario e l'ottenne; era vana ed ebbe vesti sfarzose, ricamate d'oro alla foggia del suo paese, e gioielli come ne portano le paesane della Piana dei Greci. Il benessere, la vita comoda, la speranza di non lavorare più la fecero affezionare alla casa e alla bambina; anzi l'amore per Maria si fece dispotico ed esclusivo; non voleva altre donne in casa, e al marito, che la richiamava supplichevolmente in famiglia, rispondeva inviando denaro perché comprasse terre, ma non movevasi di dov'era. Nell'esser sempre vicina al giovane signore, Costanza vagheggiò il pensiero di farsene amare, di essere la distrazione, se non la consolazione della vita vedovile di lui, ma dovette convincersi che Roberto non la guardava neppure e se non l'allontanava era soltanto perché credeva che nessuna donna avrebbe potuto voler bene alla bambina quanto lei, che avevale dato il suo latte. Di questo disprezzo della sua bellezza, Costanza sentì sempre una ferita alla sua vanità muliebre, ma la speranza di sanarla un giorno e il tornaconto che trovava nel rimanere in quella casa, la indussero a celarla con cura. Durante tutta l'infanzia di Maria, ella dominò alla villa. Il padrone, per non staccarla dalla bambina, la conduceva 0121 seco nelle gite in mare, in carrozza e se andava a Palermo, a Napoli o altrove, Costanza lo accompagnava sempre. Il marito di lei, vedendo aumentare ogni anno i loro possessi, aveva finito per consolarsi della lontananza della moglie e non la richiamava più. Spesso, fino dal tempo in cui Maria aveva cinque anni, Robetto aveva voluto a fianco una signora, ma Costanza aveva tanto pianto, si era tanto disperata, che il padrone commosso avevale lasciato la cura esclusiva di Maria. Ma quando la bambina ebbe circa sette anni Roberto chiamò un giorno Co' stanza e le disse: La signorina deve essere educata ed istruita. Se volete continuare a starle vicina, dovete assuefarvi al pensiero che in casa venga una istitutrice. Se vi opponete, se istigate la bambina contro di lei, vi rimanderò alla Piana de' Greci. Questa volontà ferma fu significata con un tono calmo; che non ametteva replica e Costanza chinò il capo e non dette in ismanie. Fu allora che Roberto scrisse a Firenze per avere una istitutrice. Per più mesi non si parlò più dell'arrivo di quella, ma in quel tempo sopravvenne un cambiamento notevole nei sentimenti di Costanza. Alla villa era stato chiamato a lavorare il più abili: falegname dello stabilimento: Alessio, al quale il padrone voleva molto bene. A lui, per dargli un salario maggiore e anche per poterlo meglio sorvegliare; aveva affidato un lavoro importante, che consisteva nel rivestire di scaffali il suo stadio per collocarvi la biblioteca, che. cresceva continuamente, poiché Roberto riceveva invidi libri quasi ogni giorno. Quelli che si riferivano alla vinicoltura, alla chimica erano tutti allo stabilimento ma i libri di arte, di letteratura, di storia di archeologia stavano alla villa, perché il giovane studioso aveva diviso in due parti la sua vita: una dedicandola al lavoro 0124 - Addio, e tu come ti chiami? - domandò Alessio. Costanza Arcanica. Costanza la strega, ti chiamerò io. Perché? Non lo so; a te, mi pare, debban somigliare le streghe. Tu sarai orribile da vecchia, Costanza. E tu sarai sempre bello, Alessio. La voce di Maria si fece udire dalla sala, e Costanza uscì in fretta dalla stanza. La mattina dopo- l'operaio s'era appena rimesso al lavoro che la donna comparve. Buon giorno, Alessio, - disse. Buon giorno, strega. Ti ho stregato forse? Oh! no, - ribattè il giovane con fare sprezzante, Ci vogliono altre donne che te per un pari mio. Costanza abbassò il capo umiliata. Nessuno mi ha detto mai che fossi brutta. Bella non sei, - disse l'operaio avvolgendola in uno sguardo freddo sotto il quale Costanza tremò da capo a piede e non ebbe più coraggio di restare in quella stanza. A mezzogiorno trovò il mezzo di andargli a portar la colazione nel tinello e lo serviva attentamente. Alessio la lasciava fare e ogni tanto le gettava una parola dura, sprezzante per vederla fremere da capo a piede, per fissarla negli occhi lampeggianti. Perché non te ne vai, come dianzi? - le domandò a un certo punto. Perché preferisco il tuo sprezzo alla tua lontananza ; perché mi hai messo il fuoco addosso. E come lo vuoi spegnere quel fuoco? Con le carezze, - rispose ella, - e con un gesto rapido del braccio destro, gli cinse il collo e lo baciò sugli occhi. Poi fuggì ansante in giardino premendosi il cuore, allargandosi il colletto dalla camicia, come se si sentisse soffocare. 0125 In tutto il giorno non ritornò nella stanza in cui lavorava Alessio, ma la sera era ad attenderlo sul viale della villa, mentre Maria giocava alla palla a poca distanza. Addio strega! - le disse l'operaio quando le fu vicino, - L'hai spento il fuoco? No, ardo più che mai da che ho posato la bocca sul tuo volto, Alessio. Egli fece una mossa indifferente con la spalla e si mosse per andarsene. Ella lo trattenne e gli disse: Alessio, abbi compassione di me; sarò la tua schiava, amami. Ti farò felice. Ho in serbo tesori di tenerezza e li spargerò tutti sul tuo petto. Alessio, amami! Ne riparleremo, - rispose lui e avvolgendosi nel mantello breve, si mise a camminare cantarellando. Costanza rimase a guardarlo per un pezzo, mentre si allontanava fra le piante d'appio e le palmette, ferma e rigida come una statua; poi umiliata, a testa bassa tornò accanto a Maria. Nella notte seguente non dormì mai. Stendeva le braccia in cerca di lui, protendeva le labbra e lo vedeva nelle tenebre sempre dinanzi, con quel ghigno di sprezzo sulle labbra, quegli occhi affascinanti e quei muscoli di uomo forte. Se le veniva fatto di figurarsi che la stringesse fra le braccia poderose, sentiva un brivido correrle per la schiena e intravedeva mille voluttà ignorate nella breve vita coniugale. Oh! se mi amasse! - diceva mordendosi le mani, e le parole sprezzanti di lui tornandole alla memoria acuivano i suoi spasimi amorosi. Era "una febbre violenta che l'aveva assalita, uno di quei ribollimenti improvvisi del sangue che si verificano nelle nature ardenti, condannate a una lunga castità. Così smaniò tutta la notte e all'alba girava per la casa silenziosa iu attesa di Alessio, da cui non osava sperare 0126 conforto, spinta da un desiderio prepotente a rivederlo a implorare da lui la felicità. Nella mattina non potè mai parlargli, perché il padrone era insieme con Alessio, sorvegliandone e dirigendone il lavoro, e in quell'attesa la smania di Costanza si convertì in spasimo. Appena ella vide il padrone uscir fuori della villa, entrò di corsa nella stanza ov' era Alessio, e, senza parlargli, gli buttò le braccia al collo, baciandolo furiosamente sulla bocca. Strega, vattene! - le diceva Alessio senza però respingerla, lusingato da quell' ardente passione che aveva destato nella donna e infiammato dai baci di lei. Costanza non gli dava retta e continuava a coprirlo di carezze. Ora lo baciava sul collo, su quella linea scura che lo circondava come un nastro e diceva fra i baci : Come sei bello! Amore! Vita mia! Da quel momento die ella non si vide più respinta, correva di continuo da Alessio a baciarlo. Ma quei baci non smorzavano il fuoco che la consumava; erano a quella fiamma nuovo alimento. Un giorno Alessio le disse fissandola: Dimmi, strega, quando si fanno le nozze? Ella credè impazzire, benché fosse preparata a quella domanda. Stasera, durante il pranzo del padrone; aspettami nella grotta dopo la capanna del bagno; non ti far vedere da nessuno, sii prudente. Egli fece un gesto come per dire che lasciasse fare a lui: non era un novizio, e con la testa le indicò la porta. Al tramonto s'incontrarono nella grotta, ove l'acqua del mare penetrava nei giorni di burrasca, lasciandovi un letto d'alghe. E su quel letto umido, odoroso e cosparso di conchiglie e di frammenti marmorei, quelle due creature quasi selvagge si unirono senza pronunziare 0127 una parola. Costanza tenne tutte le sue promesse, e quando si lasciarono ebri ancora, egli le disse brevemente : - A domani sera, strega. Ah! dunque tu mi desideri ancora! - ella esclamò trionfante. Alessio non rispose e si allontanò sollecitamente per raggiungere la distesa delle alte piante di fichi d'India, fra le quali era più facile camminare senza esser veduto. Costanza lentamente tornò a casa pallida, con gli occhi ardenti; e salita in camera sua si gettò in ginocchio a pregar la Madonna che proteggesse il suo amore e le serbasse Alessio. Ella non aveva neppure il sospetto di commettere un sacrilegio, tanto la sua religione era impastata di reminiscenze pagane penetrate nella sua coscenza col sangue e di superstizione alimentata giornalmente dalla ignoranza. Nei primi tempi Alessio non mancò mai ai convegni e ora s'incontrava con la Costanza nella grotta marina, ora sotto le lunghe rame di una carrubba, che li avvolgeva col suo fogliame scuro, ora in una casupola abbandonata a poca distanza della villa. Poiché egli fu sazio delle carezze ardenti della donna, si fece pregare, supplicare, e quelle suppliche sollecitavano la sua vanità. Spesso le dava un convegno e poi mancava. Costanza dava in ismanie, pregava la Madonna, poi faceva le carte per vedere se era tradita e non riacquistava la pace altro che quando lo stringeva fra le sue braccia frementi di passione e lo vedeva desideroso di lei. In questo tempo Velleda giunse alla villa e Costanza non l'accolse ostilmente, perché sperava di avere maggior libertà ora che la signora si sarebbe occupata di Maria. Velleda, con la sua grazia tranquilla esercitò subito una specie di fascino su quella creatura quasi 0128 selvaggia. La signora era inoltre delicata, e la bellezza parla sempre alle anime meridionali e le induce alla simpatia. Poi Velleda non era superba; anzi parlava a Costanza con bontà e non le diceva di uscire quando talvolta divertiva Maria narrandole novelle meravigliose, che la contadina ascoltava a bocca aperta, che la distraevano dal pensare ad Alessio e l'aiutavano a trascorrere meno angosciosamente le ore in attesa dei convegni. Alessio aveva terminato di lavorare alla villa e Roberto lo aveva generosamente ricompensato. Ma la generosità del padrone invece di commuovere quell' anima pervertita; gli dette sete di maggiori guadagni. Allo stabilimento lavorava di più e era pagato meno. Fu allora che si diede a sobillare i compagni, spingendoli a chiedere un aumento di salario. Il malcontento, nato nell'officina dei fusti, si propagò ben presto ai magazzini, e un sabato sera, mentre Roberto era occupato a firmar lettere nello studio, si presentò un guardiano ad annunziargli che una deputazione di otto operai chiedeva di parlargli. A Roberto non erano sfuggite le mene e i chiacchierii di quegli ultimi giorni e capì subito di che si trattava, ma dette ordine che passassero. Alla testa degli operai era Alessio ed a lui gli altri lasciarono la parola. - Noi non possiamo continuare a lavorare alle condizioni di prima. - disse. - Vogliamo un aumento di salario. Lo stabilimento prospera e noi abbiamo diritto a viver meglio. Roberto s'era alzato e dominava tutti con l'alta persona. La sua bella calma non lo abbandonava. Non posso dare aumenti e anche se potessi non cederei mai dinanzi al tuo " voglio ". Alessio. Tu guadagni più degli altri e mi fa specie che tu osi lamentarti. - Io difendo i diritti dei miei compagni e sono con 0129 loro solidale. Se non abbiamo la promessa di un aumento, lunedì nessuno di noi si presenterà al lavoro. Ebbene; lo stabilimento rimarrà chiuso, - rispose Roberto. - Potete andare, e con un gesto della mano indicò agli operai la porta. Fuori gli altri attendevano e quando Alessio riferì la risposta avuta, si udirono fischi e grida. Roberto non s'intimorì per questo. Uopo aver firmato le lettere, guardò la pendola sospesa al muro e vedendo che indicava l'ora del desinare, si alzò, prese il cappello e traversato il piazzale uscì dalla porta dello stabilimento, passando in mezzo alla turba eccitata. Nessuno lo salutò, ma nessuno osò torcergli un cappello. Il lunedì mattina neppur un operaio andò al lavoro; ma il giovedì già cento si erano raccomandati per venire riammessi e il lunedì successivo anche Alessio tornava, insieme con gli altri della deputazione. In quella settimana aveva fatto baldoria e spesso alla sera era andato a cercar Costanza nella grotta per chiederle danaro, che ella gli dava tutta lieta, dicendogli : Prendi; tutto quello che ho è tuo: non sono tua io? Pochi giorni dopo che era terminato lo sciopero, Roberto aveva trovato Alessio in combriccola insieme con altri operai nell'ora del lavoro e aveva sorpreso queste parole : Abbiamo dovuto chinar la testa, ma verrà il giorno che la chinerà lui. Il padrone aveva fissato Alessio per fargli intendere di aver capito tutto, ma non aveva aperto bocca. Però, essendosi accorto in seguito che molti lavoravano svogliatamente, aveva chiamato Alessio e gli aveva detto : Se l'ordine e la disciplina non ritornano nello stabilimento, tu sarai licenziato. 0130 Perché io? - aveva domandato sfrontatamente Alessio. Perché tu sei il mal seme, che occorre estirpare. Ti ho ammonto più volte, ho cercato di ricondurti sulla buona via; tutto è stato inutile, peggiori sempre. Alessio era andato via borbottando. La sera dopo Roberto, tornando da Castelvetrano a cavallo seguito da un guardiano aveva sentito due palle fischiargli all'orecchio. Non aveva fatto denuncia, anzi aveva ingiunto al guardiano di tacere, ma la mattina dopo s'era rinchiuso insieme con Alessio nello studio e gli aveva detto : Tu hai voluto uccidermi ieri sera. Se ritenti il colpo e sei più fortunato, vai in galera, perché io ho scritto un rapporto del fatto, designandoti come colpevole. Per ora non ti denuncio, ma ti mando via. Esci subito. Alessio non aveva detto una parola a sua discolpa e se n'era andato. Alla fine della settimana erano licenziati i suoi amici, e da quel giorno l'ordine, la disciplina e il rispetto per il padrone avevano regnato nello stabilimento. Però da quel momento era incominciata una vita d'inferno per Costanza. Alessio non aveva trovato lavoro non voleva andarne a cercare a Marsala e viveva alle spalle di lei. Prima le aveva finito tutti i risparmj, poi le aveva preso le gioie, e se la donna non si mostrava arrendevole, egli stava giorni e giorni senza farsi vedere. Più volte le aveva chiesto di farlo entrare di notte alla villa, per non esser sorpresi nella grotta o in aperta campagna, ma ella si era sempre rifiutata per timore d'essere scoperta dal padrone. Dopo la partenza di Roberto aveva ceduto ed Alessio era stato diverse notti nella camera di Costanza, salendo da una scala di corda che ella gettava già dopo le undici prima che la signora sciogliesse i cani e si ritirasse in camera. Un indugio di Velleda nella sera fatale aveva 0131 portato all'arresto d'Alessio, e ora nella camera che le rammentava tante voluttà, la selvaggia contadina in preda alla smania malediceva la signora e con la mano alzata in alto minaccioso, diceva: Madonna, fate che possa soffrire quanto soffro io!

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