Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassato

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Racconti 2

662688
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- E Corda-al-piede, abbassato il fucile, aveva tirato, per spavalderia su le macchie di rovi del ciglione, avanti che 'Nzulu spiccasse un salto per tentare di disarmarlo. Ahimè! I bei tempi delle grandi giornate di caccia erano già lontani; gli anni e, piú, la podagra, avevano ridotto il canonico a camminare come un invalido, reggendosi su la canna d'india, allorché s'avviava per andare a celebrare la messa, o a recitare l'uffizio. Le sue fermate da donna Totò, grassa e fresca a dispetto dell'età, erano diventate piú lunghe pei malanni e per l'abitudine. Il nuovo vescovo, rigido quanto il predecessore, nell'occasione della visita diocesana, fece al canonico un'altra lavata di capo. - Scandalo! Dovrò levarle la messa? - Che scandalo vuol ella che io dia, monsignore mio? - aveva risposto il canonico con voce di rimpianto. - Non vede come sono ridotto? - E il vescovo s'era stretto nelle spalle brontolando, e lo aveva lasciato in pace. Per ciò ogni mattina si vedeva il canonico Salamanca che, appoggiandosi alla canna d'India, trascinava per la salita le gambe indolenzite, fino alla porta di donna Totò. Ella lo attendeva al terrazzino, sapendo l'ora, e accorreva per aiutarlo con una mano a montare i pochi scalini, levargli il mantello e prendere il nicchio per riporli sul letto, e porgergli la pipa già preparata sul tavolino con accanto la scatola di latta dei fiammiferi di legno. Pareva che, senza quella pipata preventiva, il canonico non potesse né dir messa, né cantare al coro; pareva che, senza lo stimolo di quella tazza di buon caffè e il conforto dei crostini, non avesse potuto piú avere la forza di arrivare a casa. In verità, le sue visite erano oramai la cosa piú innocente di questo mondo. Il canonico si divertiva coi merli e con le gazze che donna Totò ammaestrava per proprio svago e chiamava figliuoli. A uno dei merli, al piú vecchio, ella aveva messo nome Canonico. Non cantava piú; stava appollaiato tristamente sulla stecca della gabbia, quasi seccato di vivere, e si cibava soltanto di zuppa di biscottini, di quelli che il canonico amava intingere nel caffè. Egli lo guardava, mandando fuori grandi boccate di fumo, quasi fosse stato il suo ritratto. - Invalido anche lui, quel povero Canonico, dentro la gabbia! - E gli fischiava, quasi dovessero intendersela bene fra loro, uno piú invalido dell'altro. Canonico rizzava la testa spiumata, scoteva le ali e la coda, mandava fuori un flebile chioccolio, e rimaneva lí, appollaiato su la stecca, immobile, aspettando di morire. Le due gazze intanto accorrevano a beccare familiarmente la punta delle scarpe del canonico, che si compiaceva d'incitarle. Vivaci, striminzite per le ali tagliate assai corte e il codione senza penne, esse gli s'arrampicavano su per le gambe, sporcandogli la zimarra, impertinenti, crocidanti, ciangottando parole con la lingua mozzata a posta per addestrarle a parlare. - Figlio! Figlio! - suggeriva donna Totò, contenta e superba delle sue bestioline. - Chi è? Chi è? - E le gazze ripetevano, roche e stridule: - Figlio! Figlio! Chi è? - Il canonico, continuando a fumare, diceva alla signora: - Prendetemi la cassettina -. Si occupava, là e a casa, fabbricando chioccolii per la caccia delle quaglie; e in quella cassetta, come nell'altra che aveva a casa, stavano riposti pelli di capretto conce, cannellini di stinchi di tacchino, minuzzoli di candele di cera fattisi dare dai sagrestani, matasse di refe grosso, forbici, aghi, un ditale e il legnetto intagliato a vite, con cui dare le pieghe a mantice ai sacchettini dei chioccoli. Ritagliava la pelle sul modello di cartone e ne cuciva gli orli combaciati attentamente; poi, foggiata con le dita una pallottolina di cera, la cacciava in fondo al sacchetto allestito; serviva per dare appoggio al chioccolo sul polpastrello del pollice, quando dovevano suonarlo. Indi, infilatovi il legnetto, avvolgeva la pelle con uno spago tra i pani della vite, perché prendesse le pieghe e servisse da mantice. E che ammattimento quei cannellini di osso, forati in mezzo, da adattare alla bocca del sacchet to con un tappo di cera, pel suono! E quei peduncoli di spago da appiccare in calce al chioccolo, per poterlo tener fermo! ... Lavoro di pazienza, insomma, che svagava molto il canonico. Gli rammentava i bei giorni d'estate tra i seminati della Piana, ai tempi ch'egli e 'Nzulu davano la caccia alle quaglie con reti e fucile! Quacquarà! Quacquarà! E le quaglie accorrevano al richiamo, incappando fra le vaste reti stese sui seminati che si piegavano, cascando fulminate da colpi infallibili: Tum! Tum! Gli pareva di sentirseli ancora dentro gli orecchi. Tum! Tum! Da donna Totò egli lavorava tranquillamente. A casa, sua sorella donna Agnese, a vedergli sciupare quelle buone pelli di capretto che costavano tanti quattrini, brontolava da mattina a sera: - Che ne fate dei chioccoli, ora che non potete piú andare a caccia? Pazzo, pazzo da legare! -E, se lo trovava a frugare pei cassettoni in cerca d'un mozzicone di candela, o d'una matassa di refe, lo sgridava peggio di un bambino: - Non sconvolgete ogni cosa! Non vi bastano ancora cento e piú chioccoli? - Egli stava zitto, e intascava i mozziconi di candele, se ne trovava. Quando non ne trovava, ricorreva fin alle candele benedette della Candelora, che donna Agnese teneva appese al capezzale e dovevano servire in punto di morte. - Scomunicato! E siete sacerdote! Anche le candele benedette! - Donna Agnese non se ne dava pace. Per questo, a ogni accesso di podagra che inchiodava il canonico su la poltrona, e lo faceva trambasciare, non lo compativa, indispettita: - È castigo di Dio! Dovreste intenderlo -. Faceva meraviglia come egli non perdesse la pazienza. - A che siamo co' chioccoli? - gli domandava 'Nzulu, che ora veniva piú di rado. - Quattrocento! - Dovreste darmene un paio; è la stagione delle quaglie. - Serviranno per me, quando sarò morto. - Come mai, signor canonico? - Gli ho destinati ai ragazzi poveri, per testamento; dovranno accompagnare la mia bara, suonandomi dietro: Quacquarà! Quacquarà! - E rideva. Con tal pretesto, non regalava un chioccolo neppure a 'Nzulu Strano. - Non vi si riconosce piú, signor canonico! - Non si riconosceva egli stesso, su quella poltrona maledetta, dove non trovava requie da un mese, né giorno né notte. 'Nzulu gli recava le notizie di donna Totò. Il vecchio merlo Canonico, morto di sfinimento; una delle gazze, la migliore, annegata in un catino d'acqua; donna Totò poverina, n'avea pianto quasi come per una figliuola! E non si sentiva bene neppur lei. Voleva il dottore ... Da lí a qualche giorno, le cattive notizie incalzarono: donna Totò stava male assai. Il canonico dondolava la testa: - Ah, se accade una disgrazia, 'Nzulu! ... - Dove sarebbe andato per la sua fumatina prima della messa? E, dopo, pel caffè coi crostini e i biscotti? Una mattina che si sentí in gambe, cominciò lentamente a vestirsi. 'Nzulu allora, atteggiando a compunzione il viso allampanato e giallastro, credette opportuno dirgli: - Restate in casa, signor canonico ... Fate la volontà di Dio! ... Siamo tutti destinati a morire! Due lagrime rigarono la faccia smunta del canonico; pure volle finire di vestirsi, e scese le scale reggendosi al braccio di 'Nzulu. - Almeno celebrerò la santa messa in suffragio dell'anima sua! - Presero però un'altra strada, per non passare davanti quella porta dove donna Totò gli veniva incontro per aiutarlo a salire i quattro scalini. In sagrestia, rivolti gli occhi al gran crocifisso di carta pesta che sormontava gli scaffali: - Signor Iddio! - esclamò lamentosamente il canonico: - O che non vi bastava Maria Maddalena in paradiso? - E lasciò infilarsi il camice dal sagrestano. Roma, settembre 1891@. 1891.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Il tenente, che aveva rapidamente puntato il fucile contro di loro pronto a far fuoco, dopo le parole del capo lo aveva abbassato tenendosi però in guardia, non fidandosi interamente di quegli indiani che ordinariamente vedono di cattivo occhio i bianchi stabiliti sulle loro terre. - Se vieni come amico, nulla hai da temere! - disse poi, rivolgendosi al capo che aspettava una risposta. - Mio fratello è russo? - chiese questi. - No, appartengo ad una tribù che è molto lontana da qui, verso il sole che tramonta. - Allora sei mio amico! - rispose il capo. Gettò a terra il vecchio fucile che teneva in mano, s'avvicinò al tenente e accostando il proprio naso a quello di lui glielo strofinò energicamente. Dopo questo segno di amicizia riprese: - Se mio fratello non teme l'ospitalità dei Tanana, mi segua: avrà una tenda, della carne e del fuoco. - Ti seguo. La banda gettò le armi sulle spalle e si addentrò nella grande macchia seguita dai due naufraghi. - Possiamo fidarci? - chiese Koninson. - Sì, ma fino ad un certo punto! - rispose il tenente. - Ad ogni modo abbiamo anche noi delle armi. Dopo dieci minuti di cammino, giungevano in una vasta radura in mezzo alla quale si rizzavano sei grandi tende di pelle di renna, di forma conica, sostenute da pertiche e sormontate da strani emblemi rappresentanti teste di orsi e teste di lupi. Alcune donne ancor più brutte degli uomini, più orribilmente dipinte, infagottate in pelli di orso e di foca e adorne, specialmente al naso, di conchiglie di "ki-a-qua" (dentalium), mossero incontro ai nuovi venuti: ma ad un gesto dei guerrieri si affrettarono a ritirarsi. Il capo condusse gli ospiti dinanzi ad una piccola tenda mezzo sdruscita e che pareva si reggesse per un miracolo di equilibrio e li invitò ad entrare, promettendo di raggiungerli fra pochi istanti. Koninson per il primo vi mise dentro la testa, ma la ritirò subito sternutando sonoramente. - Ma questo è un porcile - disse. - Sfido chiunque a sopportare l'orribile puzza che regna lì dentro. - Bah! Non bisogna essere schizzinosi, ragazzo mio! - rispose il tenente. - Credevi forse di trovare un palazzo? Animo, entriamo. Facendo uno sforzo, si cacciarono sotto la tenda dove si arrestarono mezzo asfissiati da un insopportabile odore di carne corrotta. Nel mezzo ardeva una strana lampada scavata in una pietra ollare, la quale spandeva all'intorno un luce rossastra e fetente. Negli angoli, ammonticchiate alla rinfusa, si vedevano diverse pelli di animali non ancora completamente seccate, poi interiori che finivano di marcire, pesci corrotti, dei sacchetti che parevano contenere carne secca e infine un gran numero di fiocine di ogni forma e dimensione, nonchè certi coltellacci d'una forma particolare montati in corno di narvalo o in un dente di morsa. - Questo deve essere il magazzino della tribù e anche l'arsenale - disse il tenente. - Che pulizia, signor Hostrup! Noi morremo asfissiati se non ci affrettiamo a uscire. - Se vivono i Tanana in queste brutte tende, possiamo viverci anche noi. - Ma forse le altre sono migliori. - Probabilmente saranno peggiori. - E l'orso? Tò, me lo ero scordato. - Quando verrà il capo sapremo qualche cosa. Ah! Eccolo che ritorna! Infatti il Tanana si avvicinava accompagnato da un guerriero il quale portava un grosso pesce, che pareva fosse stato allora allora levato dai carboni. - Mio fratello accetti il regalo che gli offre il capo - disse il Tanana entrando. - Sii il benvenuto, - rispose il tenente - e ricevi i nostri ringraziamenti. Il guerriero depose su di una pelle il pesce, poi uscì mentre il capo si sedeva per terra colle gambe incrociate. I due naufraghi non si fecero pregare a far onore al pasto e lavorarono così bene di denti che ben presto del pesce non rimasero che le pinne. Il Tanana, quando vide che avevano terminato, estrasse dal suo sacchetto che portava appeso alla cintura la pipa, la caricò flemmaticamente, l'accese, aspirò due boccate, poi la passò agli ospiti che fecero altrettanto. Terminata quella funzione che presso tutti gli Indiani dell'America settentrionale è della più alta importanza, poichè viene considerata come una dichiarazione di amicizia, il Tanana, che fino allora non aveva pronunciato sillaba, disse: - Mio fratello il viso pallido è contento dei suoi fratelli dal viso rosso? - Sì e ti ringrazio della cortese ospitalità accordatami. - Allora mi dirà perchè viaggia in queste terre che non sono le sue. - Siamo qui perchè la tempesta ci ha gettati, malgrado tutta la nostra buona volontà per non approdarvi. - Ah! I miei fratelli sono stati disgraziati adunque? Montavano forse una di quelle grandi barche che vengono così da lontano? - L'hai detto. - Ed ora dove vanno? - Cerchiamo di raggiungere un qualche forte o della Compagnia inglese o di quella russa. - Ma i forti sono molto lontani. - Ma le nostre gambe sono buone. - E non possedete un attiraglio? - Una slitta, ma senza cani per trascinarla. - E dov'è questa slitta? - chiese il Tanana, i cui occhi mandarono un lampo. - L'abbiamo lasciata a due ore di cammino di qui, sulla riva del Porcupine. - Mio fratello possederà dell'"acqua di fuoco"? - Dell'acquavite, vuoi dire? No, l'abbiamo consumata tutta. - Possederà della polvere da sparo. - Sì, ma non molta. - Doveva portarne un pò a suo fratello Tanana. - Basta appena per noi due. Il capo non dissimulò un gesto di dispetto che al tenente non sfuggì. - Ma perchè ha lasciato la sua slitta? - chiese il Tanana. - Per inseguire un orso bianco che ci aveva rubato un fucile. È tuo quell'orso? - No. - Sarà di qualche tuo guerriero. Io so che è entrato nel tuo campo e io conto sulla tua generosità per riavere l'arma. Il Tanana lo guardò per qualche istante senza rispondere, poi disse: - Tu l'avrai, ma ad un patto. - Parla. - Che tu venga quest'oggi con me nella foresta a cacciare l'alce. I volti pallidi sono tutti bravi cacciatori e tu e il tuo compagno mi sarete di grande aiuto. - Accetto. II capo si alzò, uscì dalla tenda e poco dopo ritornava portando il fucile che Koninson s'affrettò a prendere, mandando una esclamazione di gioia. - Ora mettiamoci in cammino! - disse il Tanana. - Le alci sono state già scoperte dai miei uomini e forse a quest'ora sono strette da ogni parte. Affrettiamoci, poichè conto di partire questa notte con tutta la mia tribù. - E per dove? - chiese il tenente. - Verso il sole che si leva, nel paese dei Malemuti - rispose il Tanana con un enigmatico sorriso. - Odi le grida dei cacciatori? In lontananza si erano improvvisamente udite delle alte grida seguite dall'abbaiare di numerosissimi cani. - Andiamo! - disse il tenente. Il Tanana uscì seguito dai due marinai, disse qualche parola ad alcuni guerrieri che lo attendevano fuori della tenda, poi si addentrò nel bosco. - Che vi pare di questo selvaggio? - chiese Koninson al tenente. - Mi ha un certo viso che non mi rassicura completamente. - Hai ragione, mio degno fiociniere, ma staremo in guardia e ci guarderemo ben bene alle spalle. Le grida e gli abbaiamenti si avvicinavano rapidamente e ben presto attraverso gli alberi si videro correre parecchi cacciatori preceduti da grossi cani, poco dissimili per altezza e per forme dai lupi. - Dove sono queste alci? - chiese Hostrup al capo. - Dinanzi a noi - rispose il Tanana. - Sono molti i cacciatori? - Una quarantina sparsi sulla nostra destra e sulla nostra sinistra. Camminarono per altri venti minuti sempre più inoltrandosi nella foresta e sempre preceduti dai cacciatori che continuavano a mandare urla selvagge, poi il Tanana si arrestò. Dinanzi a loro, a tre o quattrocento metri, stavano riunite venti o venticinque alci, superbi animali, grandi quanto un cavallo giovane, colle teste adorne di corna robustissime. Correvano or qua or là in preda ad un vivo spavento, cercando di fuggire fra gli spazi lasciati dai cacciatori, ma senza arrischiarsi, poichè subito ritornavano galoppando disordinatamente II tenente e il fiociniere puntarono le armi mirando ognuno un'alce, ma il Tanana con un gesto li trattenne. - Siamo a buon tiro - disse Hostrup. - Non è ancor giunto il momento - rispose il capo. - Aspetta che entrino nel recinto e poi farai fuoco a volontà. - In quale recinto? - Guarda laggiù. Il tenente guardò nella direzione indicata e non senza sorpresa vide, attraverso gli alberi, un grandioso recinto fabbricato con rami assicurati ai tronchi mediante strisce di pelle, il quale si restringeva a mò di collo di bottiglia. - È così che noi cacciamo - disse il Tanana. - Le alci hanno paura ad entrare, ma noi le costringeremo. - E non spezzeranno il recinto? - È semplice, ma molto solido. Attenzione e guardatevi dalle corna, poichè talvolta le alci, rese furiose, si gettano sui cacciatori a testa bassa. I suoi uomini si erano a poco a poco riuniti formando un semicerchio assai vasto il quale si univa colle due estremità del recinto. Ad un cenno del capo impugnarono le fiocine e si spinsero coraggiosamente innanzi raddoppiando le grida e aizzando i cani. Le alci si misero a caracollare confusamente mostrando delle intenzioni tutt'altro che pacifiche, ma quando si videro assalite dai cani e minacciate assai da vicino dai cacciatori, non esitarono più a fuggire e non trovando dinanzi che l'apertura del recinto vi si spinsero dentro. II capo, i due naufraghi e tutti gli altri le seguirono e si appostarono dietro a certi mucchi di neve muniti di una feritoia, che erano stati precedentemente costruiti. - Fuoco a volontà! - comandò il capo. Tosto da ogni parte partirono detonazioni ed alcuni alci, colpite mortalmente, caddero dibattendosi disperatamente. Le altre fecero di gran galoppo il giro del recinto cercando una uscita che ormai non esisteva più, essendo stata subito chiusa quella che poc'anzi c'era, poi si scagliarono contro i rami d'albero tentando di spezzarli a colpi di corna, ma invano poichè, come aveva detto il capo, erano solidissimi e ben legati. Vista l'inutilità dei loro sforzi, si rivolsero contro i cacciatori, ma una nuova scarica, che ne gettò a terra altre quattro o cinque, le costrinse a riprendere la fuga. Riunitesi in fondo al recinto, le povere bestie parvero consigliarsi, poi ritornarono verso i cacciatori a testa bassa mostrando minacciosamente le loro robuste corna. Alcune colpite dalle palle caddero, ma le altre passarono come un uragano fra cumulo e cumulo, si gettarono furiosamente contro il recinto che in quel luogo presentava una solidità molto dubbia, ne rovesciarono un tratto e fuggirono nel bosco allontanandosi verso est con tale rapidità, da par perdere ogni speranza di raggiungerle. Il tenente e il fiociniere fecero atto di inseguirle, ma il capo Tanana li arrestò. - È inutile - disse. - Abbiamo carne quanta ci basta per vivere un bel pezzo. Ed infatti aveva ragione. Nove alci giacevano a terra immobili e due altre si dibattevano negli ultimi aneliti. Mentre alcuni cacciatori uscivano traendosi dietro i cani per condurre colà le slitte, gli altri s'affrettarono a finire le ferite; poi, dato mano ai coltelli, si misero a scuoiare e a tagliare con tanta abilità e prestezza che due ore dopo la non facile operazione era finita. Al tramonto, quell'ammasso di carne ancor palpitante veniva caricato sulle slitte e portato all'accampamento dove erano stati accesi dei grandi fuochi. Il capo offrì ai due marinai una lauta ed abbondante cena, poi li ricondusse nella loro tenda che in quel frattempo era stata completamente vuotata. - Quando parti? - gli chiese il tenente, prima di coricarsi. - Domani all'alba - rispose il Tanana con un sottile sorriso. - Dormi in pace sotto la buona guardia dei miei guerrieri e all'alba riceverai i miei saluti e una provvista di carne da bastarti per un mese. - A domani, adunque! - risposero i due naufraghi. E si sdraiarono con accanto le armi.

Avevano abbassato i solidi cranii, mostrando le corna che sembravano assai aguzze e d'una durezza a tutta prova e dimenavano le brevi code con crescente rapidità, indizio certo della grande irritazione che li animava. Le femmine, dal canto loro, si erano affrettate a ritirarsi da una parte, onde lasciare maggior campo ai due campioni. Ad un tratto, i due combattenti mandarono un muggito lungo, sonoro, che si ripercosse stranamente per la stretta valle, e si scagliarono l'un contro l'altro con rabbia estrema e colla testa bassa. L'urto fu terribile: entrambi non ressero all'incontro e caddero l'un sull'altro; ma tosto si rialzarono con un'agilità che non si sarebbe supposta in quei corpi, tornando a caricarsi con maggior furore e avventandosi tremende cornate che laceravano la pelle e producevano profonde ferite dalle quali il sangue sgorgava a rivi. Per un buon quarto d'ora combatterono con varia fortuna mescendo i muggiti ai cupi colpi delle lunghe corna, poi uno, il più piccolo, cadde dibattendosi fra le convulsioni della morte. Dal ventre squarciato per un lungo tratto, assieme ad una vera pioggia di sangue, uscivano gli intestini. Il vincitore però non si arrestò, e quantunque pur lui ridotto a mal partito, colla fronte quasi interamente scoperta dalla quale pendevano brani di pelle sanguinolenta, un occhio levato e il petto sfondato, si scagliò un'ultima volta sul vinto, percuotendolo rabbiosamente cogli zoccoli e colle corna. - Ah brigante! - mormorò Koninson, che non poteva più star fermo. - Ora ti accomodo io. Stava per puntare il fucile, quando la banda tutta d'un tratto fece un rapido voltafaccia slanciandosi attraverso la valle, seguita, dopo una breve esitazione, anche dal vincitore. Il tenente e Koninson balzarono sulla roccia che li aveva fino allora nascosti e fecero fuoco dietro ai fuggiaschi che non si arrestarono, quantunque uno fosse stato veduto fare uno scarto e vacillare. - Inseguiamoli! - gridò il fiociniere. - È inutile, - disse il tenente. - Non vedi come trottano? Ci vorrebbero dei cavalli per raggiungerli. - Ma in qualche luogo si fermeranno. - Sì, ma dove e quando? Sono capaci di attraversare la catena di monti e di slanciarsi verso le pianure del sud. - Quegli animali si arrampicano anche sui monti? - Sì e come le capre. - Ma ditemi, signor Hostrup, perchè si chiamano buoi muschiati? - Perchè la loro carne è impregnata di muschio. - Sicchè noi mangeremo delle bistecche ... - Muschiate e molto muschiate, mio caro fiociniere. - Bah! Purchè sia carne fresca, non domando altro. - Non ne mangerai molta, te l'assicuro. - Ma se gli eschimesi la mangiano ... - Gli eschimesi vi sono abituati e poi, sai bene che hanno dei ventricoli capaci di tollerare qualunque cibo nauseante, come pesci corrotti, olio di foca e di balena, ecc. Orsù, andiamo a tagliare qualche pezzo di carne e poi torniamo alla tenda. Si diressero verso il bue che aveva terminato di agitarsi e a colpi di scure gli aprirono il ventre, staccandogli sei o sette costole. Koninson però non si accontentò e si impadronì anche della lingua che doveva essere eccellente. Raccolte le armi, si misero in cammino e verso le 6 pomeridiane giungevano alla tenda attorno alla quale trovarono numerose traccie di lupi, segno evidente che avevano tentato di entrarvi, ma senza riuscirvi. La lampada fu accesa e la pentola messa a bollire con un bel pezzo di carne che non pesava meno di due chilogrammi; ma i due balenieri per quanto si sforzassero e per quanta voglia avessero di porre sotto i denti un pò di quel manzo, fecero poco onore al pasto. Carne e brodo erano impregnati di muschio in siffatto modo, che un vero affamato avrebbe esitato lunga pezza. - Al diavolo i buoi e il loro muschio! - esclamò Koninson, - Non valeva la pena di fare tanta strada per guadagnarci questo pasto, - Te l'avevo detto - disse il tenente. - Ma ci hanno guadagnato le nostre gambe che avevano bisogno di una bella passeggiata per prepararsi alla gran marcia. - Quando partiremo? - Domani, se il tempo lo permetterà. - Allora buona notte, signor Hostrup. Richiusero la tenda, tirando per maggior precauzione la slitta dinanzi all'entrata e s'avvolsero nelle loro coperte dopo aver però caricato le armi onde essere pronti a qualsiasi assalto. Il mattino del 23 il tenente dava il segnale della partenza. Egli aveva fretta di allontanarsi da quelle spiaggie che non offrivano alcuna risorsa e che, stante la vicinanza della catena di montagne, le cui cime dovevano essere ricche di ghiacciai pronti a spezzarsi ai primi calori, potevano diventare pericolosissime. Piegata la tenda e insaccati i viveri, i due intrepidi balenieri si recarono sulla spiaggia a dare un ultimo sguardo a quel mare gelato nelle cui profondità dormivano i loro disgraziati compagni e che forse non dovevano mai più rivedere. I campi di ghiaccio erano ancora là, colle nevi che il sole non era ancora riuscito a intaccare e colle loro montagne dalle cime bizzarramente frastagliate, ma non presentavano più quella superficie compatta che avrebbe sfidato le mine e lo sperone delle corazzate dei due mondi. Qua e là, immensi crepacci si erano aperti ed in fondo a questi si vedeva il mare alzarsi ed abbassarsi e poi tornare a montare, quasi fosse stanco di quella lunga ed opprimente prigionia. Ogni qual tratto, un "iceberg" mal solido, o scosso dai continui urti di ghiacci minori, capitombolava con un fragore immenso che si ripercuoteva a grandi distanze in quell'atmosfera limpida e secca, o s'apriva improvvisamente, con uno scricchiolìo che si perdeva in lontananza, un largo crepaccio dentro il quale si rovesciavano confusamente colonne, cupole e piramidi che tosto scomparivano sotto lo spumeggiante oceano. Altre volte invece, una vera montagna di ghiaccio, sfondando col proprio peso il banco, scompariva e poi riappariva con un salto immenso lanciando, in mezzo ai ghiacci che l'attorniavano, degli enormi sprazzi di acqua che correvano in tutte le direzioni, formando qua e là dei torrenti e dei laghetti ove calavano subito a bagnarsi, gettando strida gioconde, bande di uccelli marini. - È pur sempre bello questo strano spettacolo che solamente qui si può ammirare - disse il tenente. - Bello sì, ma io vorrei esserne ben lontano - disse Koninson. - Vivessi mille anni mi ricorderò sempre di questa disgraziata campagna. - Non parliamone, amico mio, e partiamo. - Avete ragione, signor Hostrup. È meglio lasciar dormire i tristi ricordi e mettere la prua verso sud. Animo, Koninson, se vuoi salvare la pelle. Il fiociniere e il tenente, dato un ultimo sguardo all'oceano polare, si attaccarono alla slitta a cui avevano legato delle corde e si misero animosamente in marcia cercando di mantenere una via, più che era possibile, retta. La grossa crosta di ghiaccio che ancora copriva la terra, si prestava assai allo scivolamento del veicolo, ma le frequenti screpolature, manifestatesi qua e là, e di cui talune raggiungevano qualche metro di larghezza, i frequenti incontri di strati di neve non ancor ben solidificata o in via di scioglimento, entro i quali i due balenieri sprofondavano fino alle anche, e talvolta anche più, rallentavano e rendevano penoso il cammino. Ma la tenacia del tenente e la robustezza di Koninson la vinsero sugli ostacoli, ed a mezzogiorno la slitta si trovava già nella valle che menava direttamente ai monti. Colà si trovava ancora il bue muschiato ucciso il giorno innanzi, ma ridotto ormai uno scheletro dai denti degli affamati lupi. Fecero una breve fermata onde mangiare un boccone, indi ripresero il faticoso cammino, reso ancor più difficile dal notevole innalzarsi del terreno e dall'incontro di enormi lastre di ghiaccio staccatesi senza dubbio da qualche vicino ghiacciaio e scivolate fin là. La valle era deserta e selvaggia. A destra e a sinistra, bizzarre roccie di natura granitica, come lo sono tutte quelle che si incontrano in quelle gelate regioni, rivestite di neve e di ghiaccio, s'alzavano capricciosamente frastagliate e per lo più coi fianchi così ripidi da rendere impossibile una scalata. Qua e là gran numero di massi enormi coprivano il terreno e disposti in così strana guisa che parevano scagliati da qualche improvviso scoppio di uria poderosa mina ed in mezzo a quelli, piccole piante, magri licheni, mezzi divorati dai buoi muschiati o dalle renne, ranuncoli, sassifraghe e graminacee. Non un animale, non un uccello si scorgevano in quella brutta valle e regnava un silenzio profondo, triste, che faceva una strana impressione. - Che brutto luogo! - disse Koninson. - Si direbbe che stiamo per attraversare un cimitero. Ma dove si sono cacciati i lupi e i buoi muschiati? - Non lo so meglio di te - rispose il tenente. - Ma, se devo dirti il vero, non mi trovo bene in questa valle. - E perchè? Temete qualche cosa? - Forse, Koninson; ma andiamo innanzi. Continuarono ad avanzare, salendo sempre e raddoppiando gli sforzi, senza incontrare nè un lupo, nè una volpe, animali questi che si vedono dappertutto in quelle lontane regioni. Il tenente, man mano che procedeva, diventava più inquieto; l'assenza di quegli animali, anzichè tranquillizzarlo, lo rendeva pensieroso. Erano già giunti a due soli chilometri da un'alta montagna, i cui fianchi, coperti da immensi ghiacci tramandavano, sotto i riflessi del sole, una luce acciecante, quando il tenente si arrestò improvvisamente afferrando le braccia di Koninson. - Ascolta! - disse. Lassù, verso la montagna, si udiva uno strano rumore; pareva che si staccasse o si fendessse del ghiaccio e che poi scivolasse producendo dei lunghi fischi. - Cosa succede? - chiese Koninson. - Non v'è più dubbio, ci troviamo dinanzi ad un grande ghiacciaio - rispose il tenente. - E così? - Questi scricchiolii e queste sorde detonazioni indicano la imminente caduta dei ghiacci. Stiamo in guardia, Koninson. - Volete che pieghiamo verso est? - Credo che sarà meglio per noi. Piegarono a destra e si cacciarono dietro una lunga linea di roccie che potevano ripararli. Era tempo! Tutt'a un tratto, sulla montagna che giganteggiava dinanzi a loro, s'udirono spaventevoli detonazioni seguite da lunghi fischi e dall'alto si videro scivolare con straordinaria rapidità degli immensi blocchi di ghiaccio i quali, rovesciando e polverizzando gli innumerevoli "hummoks" formati dalla neve, si scagliavano attraverso alla valle come altrettanti treni diretti, alcuni filando verso nord in direzione del mare ed altri spaccandosi contro le roccie che nell'urto perdevano tutto il loro rivestimento invernale. A quella prima discesa ne tenne dietro una seconda, poi una terza, una quarta, una quinta ad intervalli di pochi minuti, empiendo l'aria di mille fragori e la valle di massi di ghiaccio. I due balenieri, riparati dalle roccie che si dirigevano verso est senza interruzioni, camminavano rapidamente per tema che altri ghiacci, passando sopra ai caduti, non finissero col sorpassare la linea che li proteggeva e che non era molto alta. Di quando in quando, dei massi di ghiaccio, rimbalzando a grande altezza, cadevano al di là delle roccie ed uno per poco non sfracellò la testa a Koninson. - Presto, presto, - ripeteva il tenente, facendo sforzi sovrumani, - o prima di domani nessuno di noi sarà vivo. - Dannata regione! - borbottava Koninson, che malgrado il freddo cominciava a sudare. - In mare i ghiacci stritolano le navi e in terra mirano le costole degli uomini! Spronati dal continuo capitombolare dei massi e dalle detonazioni che crescevano d'intensità annunciando altre e più pericolose cadute, verso le otto della sera, affranti, affamati, giungevano dinanzi ad una seconda montagna più bassa, meno irta e i cui fianchi non offrivano alla vista alcun ghiacciaio. - Alt! - disse il tenente. - Accampiamoci qui. - Saremo sicuri? - Lo credo, Koninson; però dormiremo con un solo occhio.

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