Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

La lucerna, col lucignolo abbassato fin dove si può dire che la luce non guasta il buio, lasciava la stanza in una mezza oscurità, dentro la quale le tre figure parevano sprofondare. Nessun rosario fu più distratto, più scucito. Il Berretta rispondeva or sì or no, sia che i rumori e la paura lo tenessero impennato, sia che la stanchezza e i patimenti d'una giornata di fuga e senza cibo lo tirassero a reclinare il capo e a dormicchiare sopra i pensieri. Chi andava più lontana a battere la campagna, fuori d'ogni devoto sentiero, era la Colomba. Come se dalla corona si distaccassero, insieme alle avemarie, antiche reminiscenze, il suo cuore tornò indietro a ricordare un'altra notte di spavento, quella in cui era morta la madre di Ferruccio, un affare di vent'anni fa. Delle tre sorelle la Marietta era la più bella, la più viva, la più romantica com'erano tutte le sartine del suo tempo. Aveva sposato il Berretta, non già perché il cuore le dicesse qualche cosa per quel povero martoro di sarto, ma perché così avevan voluto, o perché bisognava maritarla quella figliuola. Nel dare alla luce Ferruccio (un certo nome che essa aveva trovato in uno dei suoi romanzi) tre giorni dopo fu assalita da una maligna infezione e in ventiquattro ore moriva abbruciata dalla febbre, col ventre gonfio, delirando come una pazza, confessando anche ciò che avrebbe fatto bene a tacere, poverina. "Hai sentito?" entrò a chiedere la Nunziadina, rompendo il filo dei pensieri che s'attorcigliavano al rosario. "Che cosa?" "Mi par di sentire..." "È quest'uomo qui." Il Berretta, puntellato ai ginocchi, dondolando, e balzando in piccole scosse, mandava dal naso un soffio pesante d'uomo che dorme. Si entrò nel secondo mistero. "Delirava la poverina, chiamando per nome tutte le ragazze della scuola, e i giovinetti che accompagnano le ragazze. A volte credeva di recitare sul teatro, faceva la tragedia e la commedia, sempre in mezzo a una fornace di febbre, sempre con quel ventre alto come una montagna, mentre il bimbo strillava di fame in un cesto. Il Berretta per consiglio del dottore era corso, a piedi, fino a Niguarda in cerca d'una balia. "Che giornata, che notte di purgatorio! Che cosa non usciva di bocca alla malata? a crederle c'era da ritenere la povera tosa peggiore d'una donna perduta; o bisognava credere che il demonio approfittasse del male per far ballare innanzi alla moribonda solamente le immagini carnevalesche dei veglioni e delle festine da ballo, apposta per perdere un'anima. "A crederle, Ferruccio non sarebbe stato figlio di quel pover'uomo, che col cuore in bocca correva a Niguarda a cercare la balia. Per fortuna, o per misericordia, il delirio cessò al tornare del Berretta colla contadina. La Marietta entrò in agonia, e non parlò più... Storie di vent'anni fa, che uscivano ora a farsi vive, sotto la scossa degli avvenimenti, mentre toccava al ragazzo di correre per salvare la vita di suo padre..." "Non ti pare ch'egli tardi troppo?" "Se tarda, è perché non ha trovato subito. Non è mica un bimbo d'un anno" brontolò la Colomba. "Siam sole, e se venissero le guardie?" "Che guardie d'Egitto! non farmi la stupida anche te…" A queste parole ruvide, pronunciate con forti scosse di testa, la Nunziadina oscillò sulle gruccette e raggrinzò il bianco faccino a un greppio duro di bimba che vuol piangere. Il portinaio, appoggiata la mano alla tempia sinistra, cominciò a russare raggirando un piccolo rantolo in fondo alla gola. "Verso la mattina la povera Marietta, carbonizzata dal male, con due occhi spiritati e gonfi, cacciò le gambe dal letto per scappare, e cominciò a gridare: ' Il prete, il prete; voglio confessarmi, portatelo via '. Non si fu svelti abbastanza, stramazzò e la riposero morta sul letto." "O Gesù, Giuseppe e Maria..." aspirò la Colomba, e con un sospiro mise giù la corona per non mescolare il bene col male. Le reminiscenze del passato erano quasi più forti dei bisogni del presente. Il Signore solo sa leggere i segreti della coscienza, e se il male non ha fatto mentire una moribonda, Dio doveva averla giudicata e compatita nella sua misericordia. E da vent'anni ormai la stessa Colomba s'era abituata a considerare le cose come oneste e naturali, allontanando sempre dal pensiero il sospetto, tutte le volte che le varie e le piccole circostanze della vita e l'indole di Ferruccio venivano a ridestarlo. Ma a certe scosse di terremoto che fanno crepar la terra, escono spaventati i più vecchi sorci: e Dio, che non paga al sabato, può benissimo far scontare a un figliuolo il peccato della mamma. "È qui, è il suo passo" disse la Nunziadina. La zia Colomba alzò lo stoppino della lampada, tolse il paralume, e alla luce diffusa e bianca credette vedere entrare dall'uscio la faccia profilata della povera sorella, com'era rimasta sul cuscino dopo l'ultimo respiro. "Mi ha cacciato come un cane, non mi ha lasciato parlare, mi ha coperto di vituperi..." Ferruccio gettò il cappello sulla sedia e fece un giro intorno al tavolo. "O povero me, io mi butto nel Naviglietto..." riprese a dire piagnucolando colla voce d'uomo che dorme il vecchio portinaio. "Ah, ti ha cacciato via..." domandò la Colomba senza levar gli occhi d'addosso al figliuolo. "Come un cane; non mi ha lasciato parlare." "E la signora Arabella?" "Io mi butto nel Naviglietto." "Voi fatevi coraggio," disse il ragazzo a suo padre "la signora Arabella ha promesso di occuparsi della vostra causa e domani mattina manderà una risposta. Per fortuna c'è questa buona signora..." "Dio la benedica..." esclamarono insieme le donne, congiungendo le mani. "Essa ha detto che ne avrebbe parlato al signor Tognino, il quale alle volte esagera apposta... Se non avessi ancora questa speranza, io non so quel che farei di me." Stringendo nei pugni i folti capelli, come se volesse strapparseli, girando inquieto per la stanza, esclamò: "Che cosa ho fatto io di male a Dio e alla gente, perché debba soffrire a questo modo? e quella donna lassù non guarda, non ha un poco di compassione del suo Ferruccio?" La zia Colomba corse verso il figliuolo e, abbracciandolo, cercò di soffocare contro il suo petto le parole che invocavano così fuor di proposito i poveri morti. Tutta la notte il Berretta rimase in cucina seduto in terra coi gomiti nella cenere del camino. Fu il solo che bene o male trovasse la maniera di dormire. Le donne provarono a mettersi a letto, ma di dormire non ci fu verso. Finché Arabella non avesse mandata una risposta era come voler dormire sopra un letto di brace. I quattro poveri martiri respirarono in questa speranza che la cara e buona signora finisse col commuovere il sor Tognino e facesse ritirare la denunzia. Ci sarebbe riuscita? a tutti pareva impossibile che si potesse negare una grazia a quella santa interceditrice. Verso il mattino la Colomba, pisolando, se la vide comparire a braccetto della povera Marietta, che mostravasi tutt'allegra e contenta; ma fu più l'ombra del suo pensiero che non un sogno vero. Ferruccio non si levò manco le scarpe, ma quasi tutta la notte passeggiò sulla ringhiera, nel raggio chiaro della luna, che s'imbianchiva sul muro e versava dalla gronda un'ombra lunga e quieta. Contò le ore fino alle tre e mezzo, sbattuto dalle sue agitazioni come un pezzo di legno in preda alle onde di un mare in burrasca. Cercò inutilmente nella serenità poetica della notte, nella pallida luce delle stelle, nell'aria frizzante che gli giocava nei capelli, un sollievo, una distrazione a quel senso doloroso e cocente, che gli pesava come una brace ardente sul cuore. A che pro' vivere onesti e buoni, credere alle cose sante, mortificare la propria giovinezza, chiedere all'ideale la virtù che ti porta in alto al di sopra di tutti gli altri, se ogni monello della via avrà il diritto di chiamarti figlio di ladri? come affrontare lo sguardo delle persone oneste, se puoi temere che ti si legga in viso la tua vergogna? Molti ti compatiranno e diranno: "Vedete quel povero giovane? ha il padre in prigione. Avrebbe potuto fare una buona carriera, è un giovane che ha studiato, ma non si può raccomandare, naturalmente, una persona che ha il padre al cellulare". E come, allora, presentarsi a cercare un impiego con questa terribile paura che ti leggano negli occhi il disonore? e poiché di un pane maledetto egli non ne voleva più mangiare, ecco, insieme al disonore, la miseria e la fame. Per poche bottiglie di vino un uomo ricco e potente cacciava un vecchio in carcere e un giovane nella necessità di dover stendere la mano. E un delitto di questa natura si osava compiere in nome della giustizia. Giustizia questa? "Ma, Signore, se è giustizia questa, io preferisco credere all'iniquità del ladro che ti assalta sulla strada. Allora, forza per forza, giustizia per giustizia, vendetta per vendetta, io stringerò il manico di un coltello, mi presenterò a quell'uomo che mi assassina l'anima, la fede, le speranze, tutto, e scriverò anch'io la mia sentenza nel sangue di quest'uomo." "O povero me!" sospirava davanti a questi pensieri, passeggiando su e giù per la ringhiera. Tacevano i giardini e gli orti nella luce smorta. Solo il vento usciva ogni tanto con un bisbiglio tra i rami in fiore e fra le tenere foglie del castagno. L'ora scoccava in quel silenzio chiaro dal vicino campanile, preceduta dal rantolo delle ruote e dei pesi, che scorrono dentro la torre. Al disopra delle case chiuse e addormentate, al disopra degli orticelli e dei muricciuoli, al disopra delle ombre e di tutte le cieche sensazioni che l'aria, l'ora, la luce, le ombre e le tristezze della notte versavano nell'animo travagliato del giovane, s'innalzava un pensiero che a volte pigliava i contorni d'una figura umana, a volte mandava i bagliori di una fonte, da cui stillasse a' suoi tormenti un soave refrigerio. Una dolcezza mistica, che usciva di mezzo ai patimenti, quale soltanto era dato ai martiri cristiani di provare nei deliri cocenti del supplizio, lo invitava a benedire la mano che percote. La sua disgrazia l'aveva avvicinato a quella donna, s'era inginocchiato davanti a lei, aveva pianto nelle sue mani; l'aveva fatta piangere ed essa gli aveva posta una delle sue manine d'angelo addosso. Queste immagini avevano la forza di eccitar l'entusiasmo della sventura. Non si poteva a un tempo soffrir di più e inebbriarsi di più del proprio martirio. Da lei sola stava per dipendere ora la libertà, l'onore, la vita di suo padre, la vita e l'onore di un povero giovane; e in questa totale dipendenza da lei, Ferruccio provava la spinta che ci trae ad abbandonarci nei momenti della disperazione nelle braccia aperte di una mamma. Verso la mattina piegò la testa anche lui sul letto e si addormentò di un sonno chiuso e senza sogni, quale prende un uomo sfinito dal lungo cammino. La Colomba raccomandò a Nunziadina di star quieta in letto, cacciò le gambe, si vestì in fretta e guidata dalla luce bianca del cielo, si preparava ad uscir di casa per parlare al padre Barca, uomo influente e giudizioso. Volle prima dare un'occhiata al vecchio e al ragazzo: dormivano tutti e due, l'uno colla schiena appoggiata al muro, l'altro raggomitolato sul letto. Fece il segno della croce e uscì dalla porta a vetri che mette sulla ringhiera. Ma si tirò indietro spaventata. Nel cortile c'erano due guardie di questura. Si attaccò colle mani alle imposte per reggersi, e sentì cinque o sei colpi tremendi nello stomaco, come se glielo picchiassero col martello. Chiuse la finestra e colle due mani sulle orecchie corse nello stanzino dove dormiva il ragazzo. Stette ancora un minuto sospesa, come se tardasse apposta, per carità, a dargli il terribile colpo; ma quando sentì che picchiavano all'uscio della scala, pose una mano sulle mani del nipote, lo scosse e disse: "Ferruccio..." "Che c'è? che c'è?" "Ci son le guardie." "Dove?" "In corte... Senti che picchiano." Ferruccio sollevò la testa e stette col viso stravolto, forse senza capire. "Che cosa si fa? O cari angeli, che cosa si fa?" Di fuori picchiarono più forte, finché anche il vecchio si scosse dal suo letargo. Ferruccio saltò dal letto, si abbottonò la giacca, ficcò le mani nella folta selva dei capelli e disse: "Non aprite, ci penso io". Andò in cucina intanto che suo padre, irrigidito dal freddo e intorpidito dal sonno e dalla cattiva posizione, cominciava a brancolare sul suolo per tirarsi su. Ferruccio ripeté: "Ci penso io..." E aprì il cassetto del tavolo di cucina per trarne un comune coltello. La zia Colomba che gli teneva dietro, lo afferrò ai polsi e mettendogli il viso quasi sul viso, con un'espressione risoluta gli disse tre volte di no, con tre rapide scosse della testa: "No, figliuolo, il coltello no: no". Ferruccio si lasciò dolcemente disarmare. In quel punto una delle guardie, che pareva il capo, comparve sulla ringhiera, sforzò senza molta fatica le vecchie e tarlate imposte della finestra lunga che metteva sul ballatoio, entrò, e disse con tono d'uomo ragionevole che sa di parlare a persone ragionevoli: "Stiano zitti, buona gente, che è il meglio che si possa fare. Siamo venuti di buon'ora apposta per non dare troppo disturbo. Siete voi il Pietro Berretta?" "Sono innocente, o misericordia! No, Ferruccio, salvami, fammi scappare..." pregò il vecchio portinaio, aggrappandosi alle braccia del figliuolo. E senza aspettare che gli mettessero le mani addosso, corse a rifugiarsi nello stanzino, affrettandosi a chiudere l'antiporto dietro di sé. La guardia ch'era nella stanza, vista la mossa, corse per tagliargli la strada; ma Ferruccio, acciecato da un fiotto di sangue che gli montò al capo, urtò con tutta la forza nel tavolo di cucina e lo rovesciò contro lo sbirro, che sospinto da quella strana macchina, barcollò sulle gambe e cadde mettendo i gomiti nei vetri della finestra. All'urto, al crepitìo dei vetri sull'ammattonato, la Colomba mandò un grido e corse a rifugiarsi nella stanza di Nunziadina, che alzò dal cuscino la piccola testa imbacuccata, per chiedere il motivo di quel diavolo in casa. Intanto il Berretta ebbe tempo di chiudere l'uscio per di dentro contro gli sforzi di una seconda guardia, che, entrata dalla porta principale, cominciava un lavoro di leva. L'uscio nella sua fragile costituzione non avrebbe resistito a lungo, se Ferruccio, inferocito dalla guerra, visto che il maggior pericolo era da questa parte, non avesse lasciato il primo sbirro intrigato nelle gambe del tavolo per scagliarsi sull'altro. Lo afferrò colle mani alla vita, e puntando un piede al muro collo slancio e col vigore elastico de' suoi vent'anni, riuscì a strappare la guardia dall'uscio, innanzi al quale si piantò lui, pallido come un cadavere, ansante, ruggente, non armato che della sua generosa sventatezza. La lotta stava per cominciare da capo, se la prima guardia, uscita tra la finestra e il tavolo, col viso e colle mani tagliuzzate dal vetro, per spirito brutale di vendetta non l'avesse assalito colla spada sguainata, correndo a colpirlo col pomo di questa sul viso e sulla testa, assalendolo di fianco e mandandolo ruzzolone col capo in sangue in un canto della stanza. Le due guardie non ebbero difficoltà a levar dai gangheri l'uscio e a metter le mani sul vecchio imprudente. Ma intanto al diavolo si erano risvegliati i pochi casigliani e la gente cominciò a radunarsi sulla porta delle "due beate". Da un piccolo male Ferruccio ne aveva fatto nascere dieci grossi, oltre ai pettegolezzi e al disonore e allo spavento delle donne. Ma a vent'anni non si sa ancora scegliere con giudizio in mezzo ai mali.

La morte dell'amore

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De Roberto, Federico 2 occorrenze

Se egli l’avesse desiderata, avrei sofferto le pene dell’inferno; perché la sdegnava, ella quasi perdeva ai miei occhi una parte del suo valore, io cominciavo a dubitare d’averla posta più in alto che non meritasse, d’essermi abbassato un po’ troppo, d’aver fatto ridere di me con tanta esagerazione… In quel momento, io non cessai certo d’amarla, ma fu questo il primo sintomo d’una lenta evoluzione che s’operò nel mio spirito e che finì per togliermi quella donna dal cuore!… –

Abbassato il capo e chiusi gli occhi, ella si raccolse un istante; e la sua faccia, non più illuminata dall’ardore degli sguardi, apparve qual era realmente: consunta dal tempo, rôsa dalle passioni, simile ad una maschera vecchia sulla quale tutti coloro che la portarono abbiano lasciato un’impronta. Quanti uomini avevano logorato a furia di baci quelle guance appassite, quelle labbra sbiancate, quelle rugose palpebre? Quante febbri avevano macerata quella carne flaccida e gialla? Quali spasimi avevano contorto gli angoli di quella bocca amara? Quali pensieri molesti, quali assidue cure avevano scavato i solchi di quella fronte? In quali notti di veglia s’erano brizzolati quei rari capelli che ella adesso stirava con una mano bianca e smagrita?… Bella non era mai stata, neppure ai giorni tanto lontani della prima giovinezza; ma qualcosa del fascino strano e irresistibile che aveva fatto di lei una creatura di turbamento rifulse ancora sul quel tragico volto quand’ella si scosse, guardò fiso lontano e riprese a parlare. – Chi di voi ha dunque affermato che il primo amore è l’amor vero? Non aveva ancora vissuto, costui; non sapeva i giuochi imprevisti dell’esistenza, l’avvicendarsi delle fortune, le rivoluzioni che s’operano da un giorno all’altro nel mondo e nell’anima! Dicono impossibile un secondo amore perché con la morte del primo la fede nella forza e nella durata della passione andò necessariamente dispersa; ma non si ricomincia piuttosto ad amare appunto perché questa fede è immortale e perché si riconobbe d’averla riposta in chi la tradì?… Sì, l’amor vero può essere il primo, ma può anche essere l’ultimo – se per amor vero intendete quello che altri vi porta come voi lo portate, quello che vi promisero i sogni e che mai vi consolate d’avere perduto. Poiché molte volte potete amare con tutte le forze dell’anima, molte volte essere amati sopra ogni cosa; ma non c’è amore integro se non nell’incontro, nell’accordo, nello scambio delle due passioni; e ciò è tanto raro che la turba infinita dei diseredati lo nega… Orbene ascoltate. Per un uomo io abbandonai la mia casa, distrussi la mia famiglia, avvelenai la vita di chi mi mise al mondo – feci, delle creature che misi al mondo io stessa, altrettanti orfani. Dovevo amarlo per far queste cose, è vero?… A giudizio del mondo egli mi costava sacrifizii non lievi – dite, è vero?… Ma se io li giudicavo insufficienti! Se non credevo d’avergli dimostrato abbastanza che mi teneva luogo di tutto, che era tutto il mio bene sulla terra, l’unico giudice del quale temessi le condanne! Che cosa non avrei fatto per dargli questa dimostrazione? Come lo scongiuravo, in ginocchio, con le mani giunte, di dirmi che cosa voleva da me per credere all’amor mio! Come sarei stata felice se fossi morta di sua mano! Egli m’uccise – altrimenti. Egli non credeva all’amor mio perché non credeva a nulla. Vi sono di questi esseri fatali su cui sembra pesare la maledizione divina: belli come l’arcangelo caduto, come lui aridi e falsi. Un sorriso che sembra beato ed è schernitore illumina i loro occhi, parole che voi credete mistiche e sono bugiarde escono dalle loro labbra. Se per vostra sciagura v’imbattete in qualcuno di essi, siete dannati. Alla loro seduzione non si resiste. Secondati dalle ingannatrici apparenze, voi non metterete più un freno alle vostre aspettazioni, educherete le più folli lusinghe e precipiterete tanto più in basso quanto più ardito sarà stato lo slancio. Voi crederete di trovare nella loro anima le rigogliose fioriture della vostra; crederete di fare un sol cuore e una sola vita; e quando v’accorgete che ciò non è, accuserete voi stessi! Come sospettare la loro colpa se tutto ciò che in essi è parvenza brilla ed incanta? E vi torturate, vi rimproverate torti imaginari, procurate di riscattare i difetti dei quali vi sentite pieni, sognate di conquistare tutte le virtù che vi mancano. E tutto ciò è invano; e voi pensate ancora: "La colpa è mia! Io non l’amo abbastanza, non so fargli vedere il suo pensiero all’origine d’ogni pensiero mio proprio, non riesco ad ottenere da lui la stessa fede ardente che io gli porto…". Infatti egli vi sfugge, e questa fede altri avrà forse saputo ispirargliela! Allora non vi rimproverate più nell’intimo della vostra coscienza, ma v’umiliate apertamente dinanzi a lui, lo scongiurate d’avere almeno pietà: almeno questo sentimento allignerà nel suo cuore! Improvvisamente, un atto, una parola, ve ne dimostra l’orribile vuoto: allora un crollo tremendo avviene dentro di voi; ma siete guarita – radicalmente –. Ella fece col braccio disteso, con le dita adunche, il gesto di svellere qualcosa. Tacque un poco battendo rapidamente le ciglia, poi continuò: – Questo fu il mio primo amore. Mi costava tutto, quell’uomo; ma io gli avrei tutto perdonato se non m’avesse tolto ciò che mi rimaneva di unicamente caro: il conforto d’esser stata compresa, almeno un giorno, almeno un’ora; la fiducia di non essermi perduta per niente – per niente! Gli avevo perdonato tante vergogne, tanti abbandoni, tanti tradimenti! Ero stata sorda agli stessi dileggi, agli stessi sospetti, agli stessi affronti! Credevo sempre in lui, suo malgrado. Volevo trovare qualcosa di buono in fondo al suo cuore; stimavo sempre che ne avesse. Mi accorgevo che l’amore boccheggiava in lui, che era già morto; ma pensavo almeno che fosse stato vivo, una volta! Con una parola infame egli mi tolse quest’ultima lusinga, calpestò la stessa illusione; quando volli ricordargli questo amore, le parole che m’avevano esaltata, i giuramenti che m’avevano ubbriacata, egli mi disse: "E tu li hai creduti?…". E con la stessa bocca che li aveva proferiti disse ancora: "Ma sono la moneta con la quale si pagano quelle che non son da comprare!…". Allora, vedete, l’unico mio scopo, l’unico mio bisogno, ardente, imperioso, vorace, fu di diventar come queste… – La sua voce, che s’era fatta rauca tanto da costringerla a tossire replicatamente, si schiarì ad un tratto. – Non lo accuso più. Compresi, tardi, che la colpa non era stata neppur sua, che egli non poteva esercitare virtù che non aveva. Non crede chi vuole. Forse, chi sa, affinch’egli soffrì –. Ed alzò le spalle e scosse un poco la testa con l’espressione indulgente di chi ha visto molte miserie. – Comprendete bene dunque – riprese – la condizione mia all’apparire dell’Altro. Intatta, insaziata, esasperata, io portavo con me la mia fede – e non ero più degna d’esser creduta. L’Altro mi credette. Per lui era il primo amore. Nessuna donna aveva ancora sospettato il tesoro di sentimenti che egli portava in cuore; e questo tesoro tanto grande che non v’era purezza capace di pagarlo, io, l’ultima delle creature, l’ebbi, tutto. No, il povero linguaggio umano non potrà mai dir che cosa fu questo amore, l’esultanza divina di due esuli ciascuno dei quali ritrova nell’altro tutta la terra, tutto il cielo della patria lontana. Il linguaggio umano può dire soltanto le umane miserie, i dubbii, gl’inganni, i tormenti – e chi sa la vita comprenderà quelli che fatalmente ci aspettavano. Per un uomo che m’aveva avvilita, profanata, perduta, io avevo dato tanto, che nulla più mi restava da dare a quest’altro – per cui avrei voluto versare il mio sangue fino all’ultima stilla. Io avevo imparato a costo della salute dell’anima che non basta sentirsi giurare un affetto, che bisogna anche ottenerne la prova. Ed io non potevo dargli altro che le mie parole, e sapevo che le parole possono mentire, e sentivo che in bocca mia la menzogna doveva esser giudicata facile e pronta. Allora il dubbio che egli non mi credesse più cominciò a insinuarsi in me. Era dubbio e divenne certezza. Se quell’uomo avesse potuto leggere nel mio cuore come vi legge Dio sarebbe stato sicuro che tutti i palpiti del mio cuore erano suoi. Ma questo potere egli non lo aveva. Egli doveva paragonare, invece, sé stesso al mio primo amante, il bene infinito che mi faceva al male spaventevole che il primo m’aveva inflitto; ed avvertire che mentre il male era stato da me ricompensato con il massimo dei beni, a lui non potevo dare più nulla. E badate: non era già l’orgoglio suo che lo persuadeva a stimarsi di tanto superiore al suo predecessore, a pretendere che io facessi per lui molto di più che per costui: io stessa glie lo dicevo, glie lo ripetevo, glie l’attestavo. Ma come più gli parlavo dell’influsso maligno esercitato da costui sulla mia vita – per esecrarlo – più egli pensava ad esso – per temerlo. Egli non sapeva le sciagurate contraddizioni del nostro cuore, temeva che fossi ancora attaccata a quell’uomo in ragione degli stessi dolori che mi costava. Come dunque, come provargli il suo inganno, la dispersione assoluta di ogni memoria di quel passato, la fine della stessa esecrazione – poiché tutto l’orrore nel quale ero affondata non m’impediva la nuova felicità? E vedete di quali reazioni continue è fatto il nostro pensiero: mentre il conseguimento di questa felicità attutiva il sentimento dell’indegnità mia, questo sentimento si ridestava da un’altra parte, più acuto, più torturante – poiché la mia indegnità mi toglieva di dare a quest’uomo la luminosa dimostrazione che egli era in diritto di esigere! Allora qualcosa di più strano – di più umano – accadde in me. Quando io avevo portato nell’amore un cuor nuovo, un’anima vergine, tutto ciò che questa vita può dare di meno indegno, io m’ero accusata di non meritare abbastanza il ricambio dell’amore mio; ora che non me lo meritavo davvero, sentivo la ribellione prepararsi sordamente dentro di me. Dinanzi all’ideale Giustizia io era nel torto per avere criminosamente sperperato quei beni che andavano invece serbati con cura gelosa in attesa di offerirli a chi solo avrebbero dovuto appartenere; dinanzi a quest’uomo io ero in debito – e noi siamo così fatti da non tollerare il rimprovero dei nostri torti… E se ancora quest’uomo m’avesse apertamente rimproverato la mia miseria, se m’avesse buttato in faccia la mia abiezione, se m’avesse torturata ogni giorno, forse sarei stata meglio difesa contro le folli aberrazioni dell’egoismo; ma egli non fece questo, mai! Una tristezza senza fine velava talvolta i suoi sguardi, ma il suo linguaggio era sempre quello della dolcezza, della devozione, dell’umiltà. Allora io pensavo che egli parlasse così per compassione, che intendesse farmi un’elemosina, che non contento ancora dei suoi tanti vantaggi, volesse finire di schiacciarmi con la sua generosità – e la sorda ribellione diveniva più minacciosa. Avrei dovuto stargli in ginocchio dinanzi, e mi sentivo distaccare a poco a poco da lui … Il nostro cuore è così miserabile che non sopporta la gioia assoluta: una dose d’amore è necessaria al suo nutrimento. Quell’uomo aveva una gran colpa, non mi faceva soffrire. E come io lo disconoscevo, anch’egli disconosceva me. Perché la vita m’aveva contaminata, pensava che non fossi più capace d’apprezzarlo, che altre avrebbero saputo amarlo meglio di me. Presumeva ch’io dovessi portargli una gratitudine eterna per avermi sollevato fino a lui, che il pensiero di cercare altrove un altro amore – il pensiero che egli stesso accarezzava! – non dovesse neppure affacciarsi alla mente mia. E troppo sicuro d’essere amato, rispondeva meno all’amor mio, non pensando che questo fosse un torto, o pensando che fosse un torto minore e più tollerabile di quelli che altri m’aveva fatti. Ma le azioni umane non hanno tutte un valore relativo a chi le commette, alle circostanze nelle quali sono commesse, allo stato di colui che le apprende? E la freddezza d’un uomo come lui m’era più grave, dopo ciò che avevo patito, di tutti i tradimenti dell’altro amante… Così, giorno per giorno, il dissidio cresceva. L’ingrato destino ci era stato largo d’un bene incredibile; noi ce lo lasciammo sfuggire. L’amor nostro fu il vero, il grande, il solo amore; non sapemmo riconoscerlo. Come potevo riconoscerlo, io? Non m’ero ingannata altre volte? Non dovevo inevitabilmente sospettare di ingannarmi anche ora? A quel segno poteva riconoscerlo, egli che non aveva termini di confronto? Così il nostro inganno procedeva da opposte ragioni. Mancava ad entrambi la prova. L’avemmo –. Ella ripeté: – Fu questa –. E passatasi una mano sulla fronte, lentamente, da una tempia all’altra, disse, come in sogno: – Io lo tradii –. Dopo una pausa riprese: Imaginate voi che cosa dev’essere un pazzo che abbia perduto, insieme con l’intelletto, la vista? Soltanto un pazzo cieco avrebbe potuto fare quel ch’io feci – ragionatamente, deliberatamente. Pensai che egli non mi amava più, che non m’aveva amata mai. Credetti alle parole d’un altro, di quelli che ci troviamo attorno nelle agonie del sentimento, corvi che hanno fiutato il cadavere. No, non lo credetti! Non credevo più nulla. Ma questo scetticismo, la certezza che non c’era più nulla, la persuasione d’esser discesa tanto in basso da non poter cadere più giù mi buttò incontro ad un altro. Egli s’era accorto di quest’altro e non aveva trovata una sola parola per salvarmi. Io pensai: "Vuol dunque gettarmi via come una cosa inutile e vile!". E volli io stessa lasciarlo. Quando glie lo dissi …– Ella s’interruppe, esitante; e ad occhi chiusi, rovesciando un poco la testa, irrigidita come per catalessi, con voce lenta e gelata soggiunse: – Dopo che sarò morta, dopo che m’avranno chiusa dentro una bara, dopo che la terra mi avrà ricoperta, io udrò ancora quell’urlo –. Rimase quasi assorta qualche momento, poi ricominciò: – Saremmo stati ancora a tempo. Ma la benda non era ancora tutta caduta dagli occhi nostri. Io credevo d’averlo ferito nell’orgoglio soltanto, trionfavo provandogli che valevo ancora per gli altri, ottenevo la rivincita! Egli vide confermato il suo giudizio sulla mia infamia. Un intimo senso di sollievo, quella calma ingannatrice che precede lo scatenamento delle tempeste, ci pervase entrambi. Egli scomparve ed io ricaddi. Allora, allora soltanto, quando un altro prese il suo posto, quando io mi sentii nelle braccia d’un altro, quando questa carne miserabile fu preda d’un altro, un gemito sordo e lungo, il gemito d’una disperazione mortale uscì dal mio petto –. E un sorriso indefinibile, d’ironia, di pietà, di sprezzo, rischiarò quel viso. – Io sapevo, per averla tanta provata, la nausea del risvegliarsi accanto a qualcuno che fino alla vigilia è stato un estraneo e che dopo l’ultima intimità sarà più estraneo di prima. Io avevo curata questa nausea col procurarmene un’altra maggiore, e poi un’altra ancora maggiore. Ora non ne provavo alcuna. L’insensato stupore, il tremendo e senza fine sterile rimorso m’agghiacciavano troppo. No, io non credevo alla realtà; mi sentivo come sotto l’impero d’uno di quei sogni mostruosi durante i quali sappiamo però di sognare. Ed un pianto sconsolato, inesauribile, grondava dai miei occhi; uno di quei pianti che sembrano stemperare l’anima stessa, che nei sogni ci destano. Ma il mio risveglio era più tetro del sogno. E come in sogno io pensavo che qualche misteriosa potenza aveva certamente cambiato le fattezze, gli sguardi, la voce dell’uomo che fino a qualche giorno innanzi era stato mio, e come in sogno io cercavo di rivederlo attraverso quest’altro. Io figgevo il mio sguardo nel suo, lungamente, intensamente, fino ad abbacinarmi, per discoprire nel suo sguardo i lampi del Perduto; poi chiudevo gli occhi ostinatamente, inflessibilmente, imponendogli di tacere, per illudermi, per credermi ancora insieme col Perduto. Ed accadde questo: che i miei avidi tentativi, i miei funebri ardori, la mia lunga pazzia accesero l’animo non del tutto volgare del mio nuovo amante; egli credé ch’io facessi tutto ciò per lui – per lui! – e al soffio della grande passione quel fuoco divampò alto e gagliardo, ed egli trovò inaspettatamente una parola, l’accento dell’Altro… Illusione terribile!… Io m’afferravo a lui, gli prendevo il capo fra le mani, gli dettavo le parole che ancora, che sempre mi risonavano all’orecchio, e gli ingiungevo di ripeterle, ed egli le ripeteva, pensando che l’amore le suggerisse. E per un attimo io Lo ritrovavo! No, la nausea d’un tempo non mi soffocava più; no, io non potevo scacciare quest’uomo quando l’orrore invadeva l’animo mio, giacché per suo mezzo recuperavo in qualche modo colui che avevo disconosciuto; giacché la nausea, l’orrore, il pianto lungo e cocente mi rivelavano ciò ch’io avevo negato: la forza d’una passione che era la mia stessa vita! Non potevo scacciarlo; potevo soltanto e dovevo disingannarlo, dirgli a che mi serviva, perché facevo tutte queste cose – e glie lo dissi! Gli dissi che mai, mai avevo avuto un palpito, un solo pensiero per lui; lo costrinsi ad ascoltare la confessione dell’amor mio per un altro, gli dissi che cercavo quest’altro in lui; che invece di farmi obliare egli dava nuova forza alla passione mia; che ora, la prima volta, grazie a lui, grazie al mio tradimento, acquistavo la prova luminosa, sfolgorante, irrecusabile di quell’amore. E nella resurrezione della fede il mio spirito acquistava una sovrannaturale chiaroveggenza, un intuito fatidico: io sentivo che una rivelazione eguale alla mia doveva essersi fatta nell’anima del Perduto; che, lontano da me, attraverso nuove esperienze ed impreviste vicende, egli doveva piangere com’io piangevo perché sapeva che lo piangevo… Un giorno lo rividi. Corsi da lui –. Ella quasi gridò: – Chi avrebbe potuto arrestarmi? – Riprese con voce più sorda: – Gli dissi: "Sputami in viso, ma ascolta. Tu non mi credesti quando ti giuravo d’amarti. Dell’amor mio non seppi, non potei darti nessuna prova perché io stessa ne dubitai. Questa prova ora la posseggo. Pensai dimenticarti, e la tua memoria mi ha schiacciata. Ti abbandonai, e t’ho ritrovato da per tutto. Ti porto con me. Nessuno ti strappa più da questo cuore. Metti i tuoi piedi sulla mia faccia, ma lasciati dire, ora, che t’amo…". Egli… egli…– Giunse le mani, girò intorno lo sguardo come smarrita, e a poco a poco l’espressione dell’estasi si dipinse sulla sua faccia smorta. – Egli mi si fece vicino, mi guardava tacitamente. Tremava. Mi disse, così piano ch’io compresi piuttosto dal moto delle pallide labbra: "Sei tu?". Io potevo ancora parlare. Gli domandai: "Non m’aborrisci?". Ei rispose: "Ti piango…". Vedete voi queste mani? Qui caddero le sue lacrime, ed erano calde come gocce di sangue. Io non piangevo, sentivo il cuore battermi in gola. Tra le lacrime egli diceva: "Sei dunque tu? Non ho dunque sognato?… Quando io ti sospiravo, l’anima tua se ne veniva incontro a me?… Tu sai ora veramente quanto mi amavi? Nessuno di noi lo seppe, mai!… Povere creature umane, quali inganni sono i nostri!… Come fummo ciechi e sordi e ostinati nell’errore!… Ora la luce s’è fatta…". A quelle parole, alla certezza che egli mi dava, il cuore avrebbe dovuto allargarmisi dalla gioia, la fascia che mi cingeva la fronte cadere, tutto l’essere mio esultare… e invece un’ambascia muta, un terrore infinito mi piegavano, un gran freddo mi faceva rabbrividire… Egli diceva ancora: "Bisogna che l’aria ci manchi, per riconoscere che ne viviamo!… Neanch’io potei darti la prova d’un amore nel quale non avevo fede… Che stolto!… No, non accusarti: io fui colpevole al pari di te. Come te, ora soltanto sono sicuro e posso dire di amarti. Non pensar mai con rimpianto a tutto ciò ch’io ti dissi e che feci per te nei primi giorni della nostra fortuna; non rimpianger mai i giuramenti che l’ebbrezza dettava: nessuna prova d’amore vale questa che ogni giorno ti do…". E il mio terrore cresceva, lo sguardo mi s’appannava, le vene mi si vuotavano: perché se egli avesse detto che tutto era finito tra noi, io non avrei avuto di questa fine una certezza tanto disperata come udendo quelle parole. Nondimeno, dissi: "Allora, se tu mi ami ancora…". Un sorriso più triste di tutte le sue lacrime, il sorriso di chi muore mentre sente promettersi la salute e i beni della vita, passò nel suo sguardo. Egli prese le mie mani e rispose: "Noi non ci vedremo più". Mai la sua voce fu così dolce. Egli baciò queste mani e questa fronte – soltanto!…– E due lacrime, grosse e roventi come quelle da lei versate quel giorno, solcarono lentamente le sue guance. Quando la sua ambascia si calmò, ella ripeté: – Fu questa la prova dell’amor nostro, ed è questa la grande prova dell’amore operante e attuale. Ma come una legge spaventevole vuole che tutto si sconti, anch’essa s’acquista quando l’amore è perduto –.

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