Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 12 occorrenze

La folla, oramai, confusa, stordita, fremente di mistica impazienza, non riconosceva più il gruppo degli antichissimi santi del primo tempo di Napoli, sant'Aspreno, san Severo, sant'Eusebio, sant'Agrippino e sant'Attanasio, santi vecchissimi, un po'oscuri, un po'ignoti: rumoreggiò come tuono, quando apparvero le statue dei cinque Franceschi che vegliano intorno a san Gennaro, nel Succorpo: san Francesco di Assisi, di Paola, di Geronimo, Caracciolo, Borgia; urlò nuovamente quando apparve sant'Anna, la madre della Madonna, a cui, dice il popolo, nessuna grazia è negata, mai: nessuno si occupò molto di san Domenico, l'inventore del rosario, poiché nessuno nella confusione di quell'ora pomeridiana, riconobbe il fiero monaco spagnuolo, salvo il fosco impiegato dell'Intendenza, don Domenico Mayer, che era stato respinto contro una muraglia dalla folla, e che teneva il cappello a cilindro abbassato sugli occhi, le braccia conserte in atto fiero e tetro sul soprabitone nero, e una dolorosa smorfia di scetticismo gli piegava le labbra. I santi passavano, passavano, sboccando dalla gran volta nera del Duomo, avviandosi verso Forcella, un po' più presto, adesso, e la folla si agitava a destra e a sinistra, quasi volesse liberarsi dall'incubo di quella attesa. La processione dei santi era lì lì per finire, durando da quasi un ora per la lentezza dell'incesso, finiva con san Gaetano Thiene, con l'angelico san Filippo Neri, con i santi dottori Tommaso e Agostino, finiva con santa Irene, con santa Maria Maddalena de' Pazzi, con la grande santa Teresa, in estasi, tutta ardore, tutta passione, la magnifica santa di Avila, che morì in una combustione di amor divino. Quando i santi cessarono la loro sfilata e i primi canonici della cattedrale comparvero, vi fu un immenso movimento nella gente che aspettava. Tutti tendevano il capo per veder meglio, per non perdere una linea dello spettacolo religioso, e l'attenzione era anche indomabile commozione. Finirono anche i canonici, e finalmente, sotto il grande pallio di broccato gallonato, frangiato di oro, pallido, con il volto raggiante di una espressione profonda di pietà, con le labbra che mormoravano una preghiera, apparve il Pastore della chiesa napoletana. Otto gentiluomini tenevano alti i bastoni del pallio: otto chierichetti, intorno, agitavano i turiboli fumanti d'incenso: e l'arcivescovo, che era un principe della Chiesa, un cardinale, camminava solo sotto il baldacchino, lentamente, con gli occhi fissi sulle proprie mani congiunte: e da tutte le genti che affollavano le vie, i portici, i balconi, le finestre e le terrazze, da tutte le donne che pregavano, da tutti i bambini che balbettavano il nome di san Gennaro, non al pallio, non ai paramenti d'oro, non alla mitria gemmata, si guardava: ma si guardava alle ceree mani congiunte dell'arcivescovo, si guardava teneramente, entusiasticamente, piangendo, gridando, chiedendo grazia, chiedendo pietà, magnetizzando ciò che l'arcivescovo stringeva fra le mani, tremanti di sacro rispetto. Lì, lì, tutti gli sguardi, tutti i sospiri, tutte le invocazioni. Il cardinale arcivescovo di Napoli teneva fra le mani le ampolline, dove era conservato il Prezioso Sangue. Nella grande e bella chiesa di Santa Chiara, tutta bianca di stucco e carica di dorature, simile a un amplissimo salone regale, la folla aspettava il miracolo di san Gennaro. Non era ancora notte, ma migliaia di ceri, sull'altar maggiore, nelle cappelle, e specialmente agli altari della Madonna e dell'Eterno Padre, illuminavano la vasta chiesa, ricca ed elegante. Sull'altar maggiore, sopra la bianca finissima tovaglia, in un piatto d'oro, era esposta la testa di san Gennaro, con la mitria vescovile gemmata, con la faccia rivestita d'oro: e più in mezzo erano le due ampolline del Prezioso Sangue coagulato, esposto alla venerazione dei fedeli. Intorno intorno all'altar maggiore, dentro la balaustra di legno antico scolpito che separa l'altar maggiore e un grande spazio dal resto della chiesa, erano le quarantasei statue di argento, che fanno la guardia di onore alle reliquie di san Gennaro: e innanzi all'altar maggiore il cardinale arcivescovo, insieme coi canonici, officianti il santo patrono di Napoli perché volesse fare il miracolo: dentro la balaustra, accanto all'altar maggiore, un solitario, e favorito, e fortunato gruppo di vecchi e di vecchie, tutti vestiti di nero, con fazzoletti e cravatte bianche al collo, gli uomini a capo scoperto, le donne col velo nero sui capelli, il gruppo osservato, commentato, invidiato da tutti gli altri devoti, il gruppo dei parenti di san Gennaro, il gruppo che solo aveva il diritto di salire sull'altar maggiore, di vedere il miracolo a mezzo metro di distanza. Poi l'immensa folla: nella grande unica navata di Santa Chiara e in tutte le cappelle laterali, fin fuori le due grandi porte, fin sugli scalini, fin nel chiostro di Santa Chiara, donde gli ultimi arrivati si rizzavano sulla punta dei piedi, presi dal bagliore di quelle migliaia di cerei, cercando di vedere qualche cosa, tormentandosi invano per spingersi un passo innanzi, mentre non vi era posto più per nessuno. E tutti agitati, inquieti, dal cardinale arcivescovo che orava, inginocchiato innanzi all'altare, all'ultima, umile femminetta del volgo, tutti attendevano che il divo Gennaro compisse il miracolo. Fervorosamente, col capo abbassato sulla sedia che aveva dinanzi, con la ingenua pietà del suo cuore giovanile, Bianca Maria Cavalcanti pregava, in quell'appressamento del miracoloso istante: pregava san Gennaro nel nome del suo Prezioso Sangue, di dar la pace al cuor di suo padre, di dar la fede al cuore di Antonio Amati: e candidamente, nella grande, saggia, profonda bontà dell'anima sua, nulla chiedeva per sé, bastandole che il cuore turbato, ammalato, straziato di suo padre avesse la tranquillità, bastandole che nel forte e fermo cuore di Antonio Amati, accanto all'amore umano, entrasse la più alta tenerezza dell'amore divino. Ecco, fra poco si sarebbe compito uno dei più grandi miracoli della religione: non poteva san Gennaro fare il miracolo in quei cuori, che essa adorava con tutte le sue forze? Bianca Maria, con le guance insolitamente accese di un sottil foco, di un sottil rossore, pregava con una forza contenuta di mistico entusiasmo, con una passione nova che era entrata a far divampare la sua gelida vita. Sull'altar maggiore, con la faccia volta al cielo, e traspirante una immensa fede, con la voce tremante di una commozione invincibile, il cardinale arcivescovo aveva detto le preghiere latine, dedicate al divo protettore di Napoli: e tutta la folla aveva risposto un lungo e tonante amen; amen vevano risposto le monache patrizie di Santa Chiara, nascoste dietro le inaccessibili graticciate del grande coro e dei coretti. Dopo gli oremus, i furono due o tre minuti di profondo silenzio, e il soffio precursore delle grandi cose parve fosse passato su quel popolo orante. Il gruppo dei parenti di san Gennaro, sull'altar maggiore, intuonò il Credo, n italiano, con grande impeto, e tutta la chiesa continuò il Credo; finito il Credo, ue minuti di aspettativa, molto inquieti, per vedere se cominciava il miracolo. Ma fu ripreso subito un secondo, un terzo Credo, on tale vigorìa d'intonazione, come se tutto il popolo proclamasse di credere, giurasse di credere sulla propria coscienza, dandosi alla fede, nello spirito e nelle fibre, con un grande fragore; inginocchiato, col volto fra le mani, il cardinale arcivescovo orava ancora, in silenzio. Dietro a lui, impetuosamente, a brevissimi intervalli, intuonati dai parenti di san Gennaro, ripetuti da tutta la folla, i Credo ontinuavano, e qua e là, fra il rombo generale, spiccava qualche nota profondamente grave di cuor desolato, spiccava qualche nota acutissima di fibre tormentate… Io credo, ridava la popolazione, con uno schianto di voce in cui parea si rompessero mille speranze, mille voti, mille preghiere. Ah! anche Luisella Fragalà, seduta in un angolo della chiesa, accanto alla malinconica signora Parascandolo, credeva profondamente: tanto che nella piccola convulsione, che cresceva nei suoi nervi di creatura pietosa e religiosa, le lagrime già le scorrevano su le guance, in silenzio: e nella oscura previsione di una sventura che ella sentiva avanzarsi, avanzarsi, senza vederla, senza distinguerla, ma sentendola implacabile nel suo viaggio, ella chiedeva a san Gennaro la forza che egli ebbe nel suo atroce martirio, per sopportare il misterioso cataclisma che le sovrastava. Anche la signora Parascandolo pronunciava il Credo, nsieme col popolo, con voce fioca: ma nelle pause quasi paurose per la trepidazione del miracolo imminente, la povera signora, orfana di tutti i suoi figli, chiedeva a san Gennaro, perché le ottenesse una grazia, perché la togliesse dalla terra d'esilio, donde tutti i suoi figliuoli erano fuggiti, lasciandola sola, brancicante nell'ombra e nel freddo. E la felice madre della rosea e bruna Agnesina come la madre infelicissima, egualmente trafitte, una dal passato, l'altra dall'avvenire, ambedue domandavano, con le lacrime negli occhi, la forza per vincere, la forza per morire. Ma l'ansia del popolo pregante cominciò al quindicesimo Credo; e parole della fede suonavano squillanti, come una sfida gittata alla incredulità, ma portavano il tremore di non so quale ignota paura: la pausa fra un Credo l'altro si prolungava, gittando il popolo in un accasciamento d'attesa, che pareva ne troncasse i nervi: la ripresa era fatta entusiasticamente, quasi il gran sentimento rinascesse formidabile, come tutti i sentimenti delle folle. Le più furiose di passione mistica erano le vecchie dell'altar maggiore: ma dietro di loro, una vampa correva da un cuore all'altro, portando l'incendio divoratore anche nei molli, indolenti temperamenti, anche fra gli scettici che fremevano, quasi una rivelazione ancora oscura li avesse colpiti e si venisse chiarendo ai loro occhi. Al ventunesimo Credo, l silenzio dell'aspettazione ebbe qualche cosa di angoscioso. Tutti gli occhi andavano dalla testa del santo, giacente nel vassoio di oro, alle ampolline di cristallo trasparentissimo, dove si vedeva il grumo nerastro e duro del sangue. La testa scintillava nella sua mitria gemmata, nella sua maschera gialla d'oro, dai riflessi metallici, un po' lividi: il sangue era lì cagliato, una pietra che le preghiere non arrivavano a spezzare, e al ventiduesimo Credo, ntuonato con uno scoppio di collera, qualche grido si udì, di chiamata, di invocazione, disperatamente: - San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro… Le febbrili preghiere recitate dal gran popolo orante nella chiesa di Santa Chiara, le preghiere che umilmente, nervosamente, convulsamente, invocavano il miracolo dal santo patrono di Napoli, erano pronunciate con grande fervore da due donne inginocchiate tra la folla, appoggiate coi gomiti alle sedie di paglia, col volto fra le mani, con tutto un abbandono dell'anima e della persona alla grazia che chiedevano. Donna Caterina la tenitrice di lotto clandestino e donna Concetta la strozzina, si erano votate in comune a san Gennaro, per un anello vescovile di oro massiccio, con una grossa pietra di topazio, se faceva loro la grazia di risolvere il loro cruccio: o cambiar il cuore dei due fidanzati, Ciccillo e Alfonso Jannaccone, rendendoli indulgenti alle speculazioni delle due sorelle, o cambiar il cuore delle due sorelle, distaccandolo dall'amor del denaro. Un anello, un anello, un anellone magnifico al miracoloso santo, se faceva quello spirituale miracolo: così pregavano, a bassa voce, ambedue, con lo stesso fervore, col capo abbassato, ripetendo monotonamente la loro offerta, levando ogni tanto i supplici occhi inondati di lacrime, sull'altar maggiore, dove il gran mistero era imminente. Ma il popolo era già dominato dalla paura di quel ritardo: provava il gran terrore che proprio in quell'anno, dopo due secoli e mezzo, il santo, sdegnato forse dei peccati della popolazione, si rifiutasse a fare quel miracolo, che è la pruova della sua benevolenza. E il Credo, ipreso dopo pause più lunghe, più profonde e quindi più emozionanti di silenzio, aveva qualche cosa di pauroso, di collerico quasi, sgorgava come un impulso disperato: ma soprattutto le voci delle vecchie sull'altar maggiore si facevano irose, spaventate, tremanti di dolore e di terrore - e in un silenzio, a un tratto, una di esse disse, con voce dove tremava una familiarità devota, uno scherzo umile e un'impazienza invincibile: - Vecchio dispettoso, ci vuoi far aspettare, eh! - San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro! - urlò il popolo, eccitato bizzarramente. Laggiù, verso il fondo della chiesa, presso la muraglia dove dolcifica la vista coi suoi scialbi colori quella smorta e soave Madonna, che dicono sia di Giotto, la figura di don Pasqualino l' assistito ra tutta una preghiera: stava ritto, ma aveva la testa e le spalle piegate, in un atto di profondo ossequio, e quando, ogni tanto, stanco o ispirato, levava la faccia, guardando il cielo dorato e pitturato della chiesa, il bianco dell'occhio pareva stragrande, smisurato, e ogni colore era svanito sulle guance, dove un livido pallore andava crescendo. Attorno a lui, per un magnetico potere di attrazione, tutti coloro che credevano in lui e nelle sue visioni, si erano venuti raccogliendo: tutti turbati in volto, tutti in preda a una disperazione repressa che pure scoppiava sulle diverse fisonomie: tutti giunti in fondo a un abisso di dolore, poiché anche quel sabato aveva portato loro una delusione immensa, due ore prima, con l'estrazione dei numeri: tutti curvati sotto un rimorso mordente, sentendosi ognuno colpevole verso gli altri e verso sé stesso: il marchese di Formosa, curva, quasi decrepita la bella e nobile persona, sentendo l'onta della sua vita senza decoro, dove tutto periva, anche sua figlia, in un agonia di infermità e di miseria; Cesare Fragalà, la cui situazione commerciale sempre più si complicava, sentendo egli la freddezza dei suoi amici negozianti, dei suoi corrispondenti, sentendo la malinconia palese di sua moglie e le sue segrete apprensioni, e sperando sempre, e sempre invano, di accomodar tutto, con una grossa vincita; Ninetto Costa, pallido e sorridente, con gli occhi cerchiati dalle veglie e dalle preoccupazioni, pensando, ogni tanto, alla sua catastrofe, scegliendo, ogni tanto, mentalmente, fra la fuga disonorante e il colpo di rivoltella che non assolve, ma che pacifica; il barone Lamarra, grosso, grasso, floscio, maledicente i suoi sogni ambiziosi di pezzente risalito, fremente all'idea di quella cambiale, firmata da lui e da sua moglie; l'avv. Marzano, il cui dolce sorriso pareva quello di un ebete, e che ogni settimana aumentava le sue privazioni per poter giuocare, avendo cessato di fumare, di prender tabacco, di bere vino, avendo impegnato la sua cartella di pensione, essendo malamente complicato in equivoci affari; Colaneri e Trifari, il professore e il dottore, che non trovavano più studenti, e il primo specialmente, sentendo intorno a sé il sospetto, il discredito, temendo ogni mattina, quando entrava in iscuola, di esser cacciato via da un ordine superiore, di essere accoppato dagli studenti: tutti, tutti, in preda a quella desolazione del sabato sera, l'ora negra, l'ora terribile in cui solo la coscienza parlava, alta, dura, inflessibile. Eppure erano in chiesa, e i più indifferenti, i più increduli mormoravano qualche parola di preghiera: eppure erano ancora attorno all' assistito lo guardavano ardentemente a pregare, e si capiva in quell'attrazione che ancora li aveva vinti, in quegli sguardi bruciati, che, passata la dolorosa cogitazione di quel momento, di quell'ora, la passione attendeva per riprenderseli. Ah, ma quell'ora, quell'ora, in quella grande folla che esalava nella preghiera tutta la sua infelicità, era tremenda per essi, colpevoli, come la fatale notte di Getsemani fu tremenda al Grande Innocente. Disperati, tutti, fissavano l'altar maggiore dove ardevano i cerei e si riflettevano sulla metallica faccia del santo. - San Gennaro, san Gennaro, - urlava la gente, a ogni Credo he finiva. E lo sgomento che il miracolo non accadesse soffiava su quelle teste, scoppiava in quelle voci. Le parenti di san Gennaro erano convulse di dolore e di collera; si era giunti al trentacinquesimo Credo, 'ora passava, con una lentezza di minaccia: ed esse, sentendosi nel medesimo tempo offese dal ritardo del loro santo antenato, e disperate della sua collera, lo interpellavano così: - San Gennaro, faccia d'oro, non ci fare aspettare più! - Sei in collera, eh? Che ti abbiamo fatto? - Vecchio rabbioso, fa il miracolo al popolo tuo! Ed era inesprimibile il sentimento d'ira, di tenerezza, di devozione, di agitazione, che spirava in queste ingiurie, in queste pietose invocazioni. Dice la leggenda che san Gennaro ama molto di farsi pregare e non si sdegna delle parole che le sue parenti e il popolo gli dirigono, e l'emozione del popolo era tanta che, al trentottesimo Credo, versetti della preghiera furono detti disperatamente, come se ogni parola fosse strappata da uno strazio supremo e in fondo scoppiarono le grida: - Faccia verde! - Faccia gialluta! - Santo malamente! - Fa il miracolo, fa il miracolo. Il trentottesimo Credo u clamore: lo dicevano tutti, da un capo all'altro della chiesa, il cardinale, i preti, le vecchie parenti, uomini, donne bimbi, tutti, tutti, presi da un grande furore mistico. E a un tratto, nella pausa di immenso silenzio che susseguì alla preghiera, l'arcivescovo si voltò al popolo: la faccia del sacerdote, irradiata di una luce quasi divina, pareva trasfigurata: e la bianca mano, levata in alto mostrava al popolo l'ampollina: il Prezioso Sangue, nel sottilissimo involucro di cristallo, bolliva. Quale urlo! Ne parvero scosse le fondamenta dell'antica chiesa; ebbe echi così forti e lunghi, che sgomentarono i viandanti delle strade circonvicine; e parve che le sonore campane del campanile vibrassero sole; e il gran pianto, il gran singhiozzo di tutto il popolo inginocchiato, buttato a terra, singultante con la bocca sul freddo marmo, levante le braccia, dibattendosi sotto la grande visione del Sangue che bolliva, non ebbe termine. Come morte, giacevano prostrate sull'altar maggiore le vecchie parenti; una sola possente forza aveva piegato tutta la folla; era tutto un lamento, tutto un sussulto tutta una preghiera; ognuno in quel minuto lunghissimo diceva ad alta voce, fra le lacrime calde e il tremor della voce, la sua parola di dolore. Sull'altar maggiore l'arcivescovo e il clero, tutti in piedi, a voce spiegata, superante la gran voce dell'organo, cantavano il Te Deum.

Ella tacque, aveva abbassato il capo e guardava la sua bimba che dormiva placidissimamente; poi, sottovoce, ma con un fremito indomabile, disse al marito: - Tu vuoi impegnare i miei gioielli, per giuocare al lotto. - Non è vero. - gridò lui. - Non dire bugie. Puoi dirlo innanzi a me, innanzi a tua figlia, che non servono per il lotto? - Non parlarmi così, Luisella, - balbettò lui, con le lacrime agli occhi. - Servono per il lotto, abbi il coraggio del tuo vizio, non aggravarti la coscienza di menzogne, - replicò la moglie, con la ferocia della disperazione. - Non è un vizio, Luisa, era a fin di bene che ho giuocato, a fin di bene, per te, per Agnesina… - Un padre di famiglia non giuoca. - Era per aprire il magazzino a San Ferdinando, mi ci volevano settantamila lire, Luisa, e non le avevo, sai che abbiamo tutto il denaro in giro. - Non giuoca, un padre di famiglia. - Per la felicità di noi tutti, Luisa, te lo giuro, credimi, per quanto voglio bene ad Agnesina! - Tu non le vuoi bene: se le volessi bene, non giuocheresti. - Luisella, non mortificarmi, non avvilirmi, sii buona, sai quanto ti ho amata, quanto ti amo. - Non è vero; se mi amassi non giuocheresti, - gridò lei, esasperata. Egli si buttò sopra una sediolina di ferro, appoggiando le braccia e la testa a un tavolinetto di marmo: si nascondeva la faccia fra le mani, non sapendo sopportare la collera di sua moglie e il peso dei suoi rimorsi. Non provava che un dolore grande, che un immenso dolore, sormontato solo da quel bisogno di denaro, acuto, trafiggente. E con quel cruccio, nuovamente, levò la testa e le disse: - Luisella, se hai caro il mio onore, non farmi fare cattiva figura, domani: dammi i tuoi gioielli, te li ridarò lunedì. - Prendi i gioielli, sono tuoi, - diss'ella lentamente, con gli occhi bassi: - Ma non dire che me li restituirai lunedì, poiché non è vero. Tutti i giuocatori mentiscono così. La roba impegnata non ritorna mai a casa. Prendi tutto. Che posso io dirti? Ero una povera ragazza senza dote e tu un ricco negoziante; ti sei degnato sposarmi e mi hai fatto cambiare stato; non debbo io ringraziarti di ciò, per tutta la vita? Prendi tutto, sei il padrone della casa, di me, di tua figlia. Oggi tu prenderai i gioielli e ne giuocherai il valore; domani venderai i mobili di prezzo, il rame della cucina, la biancheria di casa; si fa sempre così. Anche il marchese Cavalcanti, quello che abita sopra a noi, non ha fatto così? Sua figlia non ha più un tozzo di pane da mettere in bocca: e se il dottore Amati non li soccorresse segretamente, morirebbero di fame. Chi ci soccorrerà, noi, quando fra un anno, fra sei mesi, ci troveremo come loro? Chissà! Forse anche io impazzirò, come minaccia d'impazzire, quella povera signorina del terzo piano, lassù. Suo padre le fa apparire gli spiriti, è uno schianto, fra tutti quelli che la conoscono. Ma che farci! I padri, i mariti sono padroni. Prendi i brillanti, impegnali, vendili, gittali nell'abisso dove è caduto e si è perduto il tuo denaro, io non ci tengo più. Erano il mio orgoglio di sposa felice, quando li mettevo alle orecchie e nei capelli; quando aprivo il cassetto per guardarli, io benedicevo il tuo nome, Cesare, poiché fra le altre consolazioni, tu mi avevi dato questa. È finita, è finita, abbiamo chiuso il libro delle consolazioni, l'ultima parola è stata scritta. - Luisella, per carità! - strillò lui, mezzo pazzo, sentendosi abbruciare la carne e l'anima da quelle roventi parole. - La carità! La cercheremo noi, Cesare, fra breve. Oggi i brillanti, domani gli altri oggetti preziosi, poi tutto, tutto quello che possediamo, tutto sparirà, tutto sarà stato un fugace sogno, - replicò lei, guardando innanzi a sé, ostinatamente, come se già vedesse l'orribile spettacolo della decadenza. - Eppure io ne ho bisogno, ne ho bisogno, - gridò lui, con la dolorosa cocciutaggine dell'uomo disperato, che sente solo l'impulso della sua tendenza malsana. - Chi ti nega nulla? Anche Agnesina ha i suoi orecchinetti di perle, uniscili, la somma sarà più forte: la sua culla è ricca di merletti antichi, regalatile dalla signora Parascandolo, hanno un bel valore, prendili, aumenta la somma. - Ascolta Luisella, ascolta, - riprese il marito affannosamente, l'emozione gli mozzava il fiato, - io ti giuro che questi denari non mi servono per giuocare, non avrei osato chiederli a te, che sei una santa donna, che hai mille ragioni di avvilirmi; ma è un debito per il giuoco che ho fatto! È un debito terribile, usurario, pel quale domani mi si minaccia il protesto, la citazione, il sequestro E questo non può essere, no, non può essere! Il negoziante a cui si protesta una cambiale, deve morire. - È vero, - ella disse, piegando il capo. - Forse… - egli soggiunse, dopo una brevissima esitazione, - forse ne avrei presa una piccola parte, di questo denaro, per tentare solo di rifarmi, solo per questo, Luisa… - Ma insomma, - gridò la moglie, esasperata, - tu non puoi astenerti dal giuocare? Egli tremò come un fanciullo colpevole e non rispose. - Non puoi astenerti? - domandò lei, nuovamente, assalita dal più terribile fra gli sgomenti. - Senti, senti, è una passione perfida, non sai che cosa sia, bisogna averla provata per conoscerla, bisogna aver palpitato e sognato, per sapere che è! Cominci a giuocare per ischerzo, per curiosità, per una piccola sfida buttata alla fortuna, e continui, punto sul vivo dalle delusioni, eccitato da un vago desiderio che si va formando: guai se prendi qualche cosa. un ambo, un piccolo terno! Guai, poiché ti appare la possibilità del guadagno, nella sua forma reale, poiché tu diventi certa, capisci, sei certa che guadagnerai una grossa somma, una immensa somma, poiché hai vinto la piccola, e ci rimetti non solo quello che hai guadagnato, ma il doppio, il triplo, nelle settimane che seguono la vincita, è il denaro del diavolo che ritorna all'inferno! Oh che passione, che passione, Luisa! Guai se non guadagni e guai se guadagni! Allora il sogno che per sette giorni ti alimenta l'esistenza e l'ottavo giorno ti dà un'amarissima delusione, finisce per abbruciarti il sangue; e per aumentare la probabilità, per vincere a qualunque costo, le giuocate aumentano strabocchevolmente, fantasticamente, e il desiderio della vincita diventa un furore e l'anima si ammala, si ammala, e non si vede, non si sente più nulla, non vi è famiglia, non vi è posizione, non vi è fortuna che resista a questa passione. - Oh Dio! - diss'ella, pianamente, quasi fosse sui punto di cadere in un abisso. - Hai ragione, Luisella, hai ragione di maltrattarmi, di calpestarmi col tuo disprezzo. Hai ragione tu, sono un cattivo marito, un pessimo padre, ho rovinato la mia famiglia hai ragione, - ripeteva Cesarino convulsamente. - Io era un giovanotto allegro e laborioso, tutti mi volevano bene, i miei affari andavano magnificamente, tu eri la mia gioia e Agnesina era la mia consolazione. Ah qual fascino mi ha vinto, che maledetta idea mi è venuta, di voler guadagnare sessantamila lire al lotto, per mettere bottega a San Ferdinando? Oh una dannata idea che mi ha messo nel sangue le fiamme dell'inferno! Ho voluto arricchirvi col giuoco, capisci, quando i danari si guadagnano solo col lavoro! Ho voluto arricchirvi giuocando, quando mio nonno e mio padre mi hanno insegnato, con l'esempio, che solo contentandosi del poco, solo mettendo un soldo sopra un soldo si giunge alla ricchezza! Che pazzia mi ha preso, che malattia mi ha reso così infelice, che passione, che orribile passione! Pallida, con le labbra stirate da un moto nervoso che ella faceva per reprimere i singulti, addossata alla spalliera del suo seggiolone la povera donna udiva quell'angosciosa confessione, oppressa da un'angoscia senza nome. - Quanto ho giocato? - riprese Cesarino, che oramai parea che parlasse con sé stesso, senza vedere più sua moglie, senza udire più il placido respiro della sua figliuola addormentata. - Non lo so, non mi rammento più, è una gran liquefazione di denaro, come in un crogiuolo, donde fuggisse tutto il metallo. Sulle prime giuocavo moderatamente, cercando di mettervi della temperanza, dell'abilità: come se il giuoco del lotto non fosse l'ironia più beffarda, che fa la fortuna all'uomo! Allora segnavo i denari che giuocavo, sopra un taccuino dove segno le mie spese ordinarie: ma dopo, dopo, è stato tale un aumento di febbre, che io non mi rammento più, Luisella, non mi rammento quante migliaia di lire ho gittate via, così, pazzamente, in un brutto sogno, in un delirio che ogni venerdì ripeteva il suo accesso furioso. Ah Luisella, tu non sai, non sai, ma noi siamo rovinati… - Lo so, - ella disse, pian piano, guardando il roseo volto della piccolina dove il sonno manteneva la bella serenità infantile. - Non sai, non puoi saper tutto! Io ho dato fondo ai denari che mettevo da parte, per i pagamenti semestrali e annuali: io ho giuocato quelle migliaia di lire che avevamo messe sulla cassa di risparmio, intestate ad Agnesina, le ho rubato il denaro che le avevo donato, il suo denaro! Io ho mancato ai miei impegni commerciali e le case corrispondenti hanno perduto la fiducia nel mio credito, non vogliono più saperne di me, non mi mandano la merce; lo vedi, la bottega si va vuotando, io non ho i contanti per riempirla di mercanzia; io non ho più pagato neppure la rata dell'assicurazione, se domani si brucia la bottega, io non prendo un centesimo, sono un cattivo pagatore! Non sai! non sai! Io ho cercato denaro qua e là, disperatamente, mettendomi in mano agli Strozzini, mangiato sino all'osso, massime da don Gennaro Parascandolo… - Dal compare di Agnesina! - esclamò dolorosamente Luisella, nascondendosi il volto fra le mani. - Innanzi al denaro, non vi è parentela o amicizia, il denaro indurisce tutti i cuori. Questi debiti sono la mia vergogna e il mio tormento. Un negoziante che prende il denaro all'otto per cento al mese, tutti lo giudicano rovinato e hanno ragione, l'usura è una cosa indegna per chi la fa e per chi la subisce! Come farò? La stagione è infame, per i poveri e per i ricchi, e fosse anche magnifica, i guadagni non basterebbero a pagare neppure l'interesse dei miei debiti! Pensa che è un miracolo, se Cesare Fragalà, il capo della casa Fragalà, non è stato dichiarato ancora in istato di fallimento, di fallimento doloso, poiché un negoziante non può togliere il denaro ai suoi creditori per giuocarlo al lotto, poiché questo è un furto, capisci, un furto, e i ladri vanno in galera! Dopo aver messo la mia famiglia alla miseria, io toglierò loro, per questa infernale passione, anche l'onore! E non potendo più sostenere il peso della sua infelicità, egli scoppiò in singhiozzi, affogato, piangendo come un bimbo. Ella, tremante di emozione, sentendo nel cuore una immensa pietà per suo marito e un immenso spavento dell'avvenire, aveva levato il capo, energicamente. - Non vi è rimedio, dunque? - ella disse, con la sua voce ferma di donna buona e amorosa. - Non ve n'è, - rispose lui, aprendo le braccia, con un cenno desolato. - Siamo in un precipizio, lo capisco, lo vedo, ma un rimedio vi deve essere, - ribattè lei, ostinata, non volendo cedere. - Prega la Madonna, prega, - mormorò lui, come un fanciullo, più smarrito di un fanciullo. - Troviamo un rimedio insieme, Cesare, - replicò ancora ella, con dolcezza. - Cercalo tu, io non so più niente, io non ho più né volontà, né forza, cerca tu, cerca, poiché io sono perduto e credo che nulla varrà a salvarmi. La desolata parola ebbe come un'eco lugubre, in quel gaio bianco magazzino, tutto smagliante di rasi e di porcellane. Poscia, un silenzio profondo si fece, fra i due sposi. Ella, raccolta in sé, con la fermezza di sguardo interiore delle donne forti, misurava l'estensione di quella sventura. Non provava più sdegno, ogni collera si era dileguata innanzi alla voce straziante di quel giovane uomo che era stato così sereno, così lieto, e che adesso balbettava affannosamente le parole del suo incurabile errore. Quello che ella aveva inteso, nell'angoscia sgorgante dall'imo cuore di suo marito, quello che ella aveva intravveduto, quello spettacolo doloroso e imponente, avevan fatto un'opera di epurazione, e dalla sua anima generosa ogni personale risentimento era sparito. Ella non provava che un infinito desiderio di abnegazione, che l'ardente bisogno di salvare suo marito e la sua casa. Sparite le grettezze che potevano, in qualche ora, restringere il suo spirito femminile, la sua anima si elevava alle altruistiche altezze del sacrificio. Egli restava terra terra, avvinghiato dalla sua passione, non trovando in essa neppure la violenta grandezza del marchese Carlo Cavalcanti: e il suo dolore, il suo lamento avevano la monotonia e il ritmo del pianto di un bimbo. Ella, invece, al contatto della sciagura, si spiritualizzava, lasciando che tutta la parte nobile del proprio carattere signoreggiasse. Si sentiva, dopo quella incomposta confessione, più che la giovane sposa di suo marito, la sua provvida sorella, la sua madre misericordiosa, come una proteggitrice alta e magnanima, dimentica di tutte le pretese naturali della moglie e della donna. Egli piangeva, là, buttato con le braccia e con la testa sopra un tavolino, abbattuto come una misera creatura la cui infelicità è veramente infinita e irrimediabile: mentre ella, raccolta, studiava il gran mezzo della salvazione. Ma, subitamente, col zittìo delle labbra, ella gli impose di tacere. Agnesina, la bambinella, si era svegliata così, dolcemente, come ella soleva, senza piangere e senza gridare; seduta saviamente sulla sua sediolina, guardava sua madre, con gli occhioni spalancati, scintillanti di dolcezza. Luisella si levò dal seggiolone, dove era restata confitta e si chinò a baciare lungamente la sua creatura, quasi che in quel bacio ella ricevesse forza e ricambiasse affetto. La piccina guardava, senza parlare, suo padre che avea il capo abbassato sul marmo del tavolino; poi domandò: - Papà dorme? - No, no, - disse la madre, passando nella retrobottega a prendere la mantellina e il cappello. - Va a dargli un bacio. Va, digli così: papà, non è niente, non è niente. La bimba, obbediente, andò accanto a suo padre e appoggiando gli la testina alle ginocchia gli disse, con la sua bella voce cantante infantile: - Papà, dammi un bacio: non è niente; non è niente. Allora il cuore gonfio del povero giovane si spezzò, e sui neri capelli della sua creaturina, piovvero le lacrime più cocenti che avesse versato nella sua vita. Annodandosi i nastri del cappellino, udendo quei singulti disperati, Luisella fremeva per reprimere le sue lacrime, ma non interveniva, lasciava che quel cuore desolato si sfogasse e si racconsolasse, baciando la piccina: e la piccina, meravigliata, andava ripetendo, sotto quelle lacrime, sotto quei baci: - Papà mio… papà mio.., non è niente. - Andiamo via, - disse Luisella, rientrando nella bottega, mordendosi le labbra, cercando d'impietrarsi il cuore. Ancora commosso, Cesarino tolse in braccio la fanciulletta, come faceva ogni sera, quando ella si addormentava in bottega: le mise il cappuccetto di lana sulla testa, annodandoglielo sotto il mento. Luisella andava mettendo ancora un po' d'ordine nella bottega, levando la chiave dalla cassaforte, sentendo se tutti i cassetti del bancone fossero chiusi, con quell'istinto di ordine che è nelle alacri mani di tutte le donne giovani, sane e buone. Abbassarono il gas, mentre Luisella accendeva un cerino: se ne andarono per la retrobottega e per la piccola porta che metteva nel vicolo dei Bianchi. Pioveva sempre e il caldo vento sciroccale batteva sul volto la pioggia tiepida di estate: ma erano poco lungi dalla casa. Cesarino aprì l'ombrello e la moglie gli si mise sotto il braccio, per ripararsi dalla pioggia: la bambina, raccolta sull'altro braccio, gli appoggiava la testina sulla spalla. E tutti tre andavano chini, sotto la tempesta estiva, senza parlare, stretti stretti, l'uno all'altro, come se solamente l'amore potesse scamparli, nella gran bufera della vita, che li voleva travolgere. Nella notte, sotto l'ira del cielo, pareva che andassero, andassero a un destino di dolore, ma le due creature innocenti che si stringevano affettuosamente al misero colpevole, pareva che chiedessero e portassero salvezza. Niente avevano detto, finché giunsero in casa, su, dove la serva li aspettava con la porta aperta, e stese le braccia a prendere Agnesina, per portarla in camera sua, per spogliarla ed addormentarla. Ma la creaturina, quasi avesse intesa la gravità di quell'ora, volle ancora farsi abbracciare dal padre e dalla madre, dicendo loro, con quel suo dolce linguaggio infantile: - Mammà, beneditemi: papà, beneditemi. Al fine furono di nuovo soli, nella loro stanza, dove la lampadetta di argento ardeva innanzi alla madre di Gesù, la pia, la dolorosa madre. Cesare era accasciato. Ma Luisella schiuse subito la porta a cristallo del suo grande armadio di palissandro, dove chiudeva i suoi oggetti più preziosi, stette un po'a cercare in quella penombra, e ne cavò fuori due o tre astucci di pelle nera. - Ecco, - disse a suo marito, offrendogli i suoi gioielli. - O Luisa, Luisa! - gridò lui, straziato. - Li dò volentieri. Per l'onor nostro. Non oserei tenere queste pietre, queste gioie, inutili, quando siamo in pericolo di mancare all'onestà. Prendi. Ma per tutto quello che è stato di dolce il nostro passato, ma per tutto quello che può essere di terribile il nostro avvenire, per l'amore che mi hai portato, per quello che ti porto, per quella creaturina nostra, sulla cui testa adorata hai pianto, questa sera, Cesare, te ne prego con tutta l'anima, te ne prego come si prega Cristo all'altare, concedimi una promessa… - Luisa, Luisa, tu vuoi farmi morire… - gridò lui, mettendosi le mani nei capelli. - Prometti di lasciare in mia mano tutti gli affari del nostro commercio, debiti e crediti, compera e vendita? - Prometto… - Prometti di dirmi tutto ciò che devi dare, acciò che io possa pensare al rimedio? - Prometto… - Prometti di dare a me tutto il denaro che hai, che puoi avere, e di non cercarne altro, che non sappia io? - Tutto, tutto, Luisa… - Prometti di credere solo a me, di udire solo i miei consigli, di ascoltare solo la mia voce? - Prometto… - Prometti che nessuno varrà più di me, prometti che mi ubbidirai, come a tua madre, quando eri fanciullo? - Come a mia madre, obbedirò. - Giura tutto questo. - Lo giuro innanzi alla Madonna, che ci ascolta. - Preghiamo, adesso. Ambedue, piamente, si inginocchiarono innanzi alla sacra immagine. Ambedue dissero, insieme, sottovoce, il Pater noster, più forte, alla fine, levando gli occhi, ella disse: - Non c'indurre in tentazione… E lui, ripetette, umilissimamente, sconsolatamente: - Non c'indurre in tentazione…

In piazza San Ferdinando le carrozze da nolo, dal soffietto levato, erano tutte lucide di pioggia, stillanti acqua da tutte le parti: bagnati sino alle ossa, grondavano di pioggia i lunghi e magri cavalli dalla testa abbassata: raggricchiati, col cappelluccio sformato sugli occhi, col capo abbassato sul petto, con le mani convulsamente ficcate nelle tasche dello sdrucito cappotto, i cocchieri ricevevano pazientemente l'ondata che cadeva dal cielo; e tutto era triste, intorno, il palazzo reale, la piazza, il porticato e la chiesa di San Francesco di Paola, la Prefettura, il Comando di Piazza e i grandi caffè, tutto triste, malgrado la grandezza e i tanti lumi accesi dietro i cristalli, triste anche la maestosa mole del teatro San Carlo, tutto il notturno paesaggio avvolto nella fragorosa burrasca che non aveva posa, traendo, dalla stanchezza, nuova forza a batter case, strade e uomini. I passanti erano rari; e apparivano come ombre di creature infelici, sotto gli ombrelli sgocciolanti di pioggia, oppure rasentavano le muraglie, non avendo l'ombrello, col bavero alzato, e il cappello molle, fradicio di acqua. Qualche raro viandante scantonava, da Toledo a via Nardones, una via abbastanza larga posta nel miglior centro della città, e intanto conservante un aspetto equivoco, quasi di strada male abitata e mal sicura: una via senza tetraggine, ma spirante la diffidenza delle chiuse finestre, dei balconi scarsamente illuminati, dei portoncini socchiusi, dove lo sguardo si perde in un buio androne. Qualche grande portone, ogni tanto, spezzava questa impressione di sospetto, col chiarore del suo gas e l'ampiezza del suo cortile: ma qualche bottega, dai poco puliti cristalli velati di una stoffa rossastra, ermeticamente chiusa, illuminata fiocamente, dietro cui si disegnavano delle bizzarre ombre piccolissime o gigantesche, gittava di nuovo un vago turbamento nell'animo di coloro che se ne tornavano alle loro case, piegati sotto il peso delle cure e della lunga fatica. A un certo punto, una donna, appena coperta da uno scialle nero, sul vestito di lanetta gialla e sulla camiciuola bianca, scantonò, da Toledo, salendo lentamente la via Nardones, tenendo le due cocche del fazzoletto che le copriva il capo, strette fra i denti e riparandosi dalla pioggia, sotto un ombrello piccolo piccolo. Ella andava con precauzione, levando i passi in modo da bagnare il meno possibile le sue scarpette di pelle lucida e mostrando le calzette rosse di cotone. Quando passò sotto un lampione dalla luce rossiccia, levò il capo e apparve il volto, oramai stanco e triste, sotto il belletto grossolano, di Maddalena, la infelice sorella di Annarella e di Carmela. Ella arrivò innanzi alla equivoca bottega dalle tendine rossastre, e si fermò davanti ai cristalli, come se tentasse di vedere una persona, un fatto che accadesse là dentro, senza osare di aprire. Ma, salvo il movimento di certe ombre nere incappellate, non si distingueva nulla: ed ella, dopo aver esitato un bel pezzo, si decise a metter la mano sulla maniglia e a schiudere uno sportello della bottega: introdusse la testa dallo spiraglio, timidamente, e chiamò: - Raffaele, Raffaele… - Ora vengo, - rispose la voce del giovanotto camorrista, di dentro, con una lieve intonazione di impazienza. Subito, ella rinchiuse: e sotto la pioggia, pazientemente, si mise ad aspettare. Qualche uomo passava e le gittava una strana occhiata, eccitato da quell'incontro, in quella bizzarra temperatura burrascosa in quell'ora della notte che si avanzava, in quella via deserta. Ma ella chinava gli occhi, quasi si vergognasse: e sogguardava l'estremità di via Nardones, per vedere chi ne spuntasse, temendo continuamente di esser sorpresa. A un tratto trasalì: due popolani si avvicinavano, risalendo la via Nardones, senza discorrere fra loro, prendendosi sulle spalle tutta la pioggia: un vecchio sciancato, trascinante la gobba e la gamba più lunga, il lustrino Michele, senza la sua cassetta dove lustrava le scarpe, e un altro, magro, pallido, con certi occhi ardenti nelle occhiaie incavate, Gaetano, il tagliatore di guanti. Nel riconoscere il marito di sua sorella Annarella, suo cognato, Maddalena fu presa da un fremito di paura; si strinse al muro, come se volesse rientrarvi, abbassò l'ombrello e pregò, mentalmente, perché Gaetano non la riconoscesse, con le labbra che non arrivavano a balbettare le parole della preghiera. Fremeva, fremeva…temendo che la bottega si aprisse in quel momento e che Gaetano riconoscesse colui che usciva di là dentro. Ma Gaetano, il tagliatore di guanti, ricevendo sul capo l'ondata della pioggia, non badava a coloro che si trovavano nella strada, fortunatamente per Maddalena: né la porta della bottega si schiuse, quando egli passava. Anzi i due popolani scomparvero, uno dopo l'altro, in un portoncino lontano una quarantina di passi, dove anche qualche altro uomo, prima di loro, era sparito. Ma sotto il suo rossetto, Maddalena si sentiva le guance gelide dalla paura e riaprì la porta della bottega, pregando, invocando, sottovoce: - Raffaele, Raffaele… - Vengo, vengo, - rispose il giovanotto, seccato, senza nemmeno accorgersi che la povera donna aspettava da tempo, sotto la pioggia, nella notte, nella via spazzata dal vento. Ella sospirò, profondamente, e gli occhi che non avevano più bisogno di bistro, tanto li sottolineava un ombra nera di stanchezza e di dolore, si riempirono di lacrime. La pioggia adesso aveva inzuppato l'ombrello di cotone verdastro e scendeva sul capo di Maddalena, le immollava i neri capelli lucidi e le rigava la faccia e il collo, un'acqua tiepida, come se fosse di lagrime. Ma ella non sentiva neppure quello scorrere della pioggia, fatta insensibile, e non vide le altre tre o quattro persone, che sbucando da Toledo, risalendo verso l'altitudine di via Nardones, scomparvero nel portoncino, dove si erano cacciati Michele il lustrino e Gaetano il tagliatore di guanti. Di dentro la bottega, le ombre si agitarono, mentre un fragore di voci che discutevano, si levava, ed ella tese l'orecchio, ansiosamente, sentendo che Raffaele bestemmiava e minacciava. Ah! non potette resistere al tumulto delle voci irose e schiuse nuovamente la porta, gridando, supplicando: - Raffaele, Raffaele! Ancora altre parole colleriche scoppiarono, dall'una parte e dall'altra, fra coloro che bevevano e giuocavano in quel losco caffettuccio. E Raffaele, messosi in capo il cappello con un pugno, uscì dalla bottega, come respinto da chi vi si trovava: trovandosi avanti quella figura umile di Maddalena, tutta bagnata, col rossetto stinto sulle guance, con la faccia stravolta dalla disperazione, egli bestemmiò come un sacrilego, e le diede uno spintone brutale. - Andiamocene, andiamocene, - disse lei, senza badare a quell'atto e a quelle parole di bestemmia. Il camorrista la mandò a farsi uccidere, furiosamente. Ma pioveva e egli non aveva ombrello, il giacchettino corto lo riparava assai male, e si mise sotto l'ombrello, bestemmiando fra i denti, ancora. - Abbi pazienza, abbi pazienza, - diceva lei, allungando il passo sul selciato, per stare sempre vicino a lui, abbassando l'ombrello dalla sua parte, per non farlo troppo bagnare. - Ma non lo sai, che al bigliardo non ci devi venire? - le disse il giovanotto, con una collera repressa. - Io mi secco di far la figura del ragazzo, che lo vengono a prendere, alla scuola. Mi secco! - Abbi pazienza, non ho potuto resistere, - mormorò lei, bevendo le lacrime che le scendevano sulle guance e che non poteva asciugare. - Io ti lascio, quanto è vero il nome di Gesù, ti lascio! Hai il difetto di tua sorella, tu: stracciata che mi faceva schifo, mi veniva a cercare, dovunque, per farmi burlare dai miei amici. L'ho lasciata per questo, capisci? - Povera sorella mia, - mormorò lei, lamentandosi. - Tu non sei stracciata, tu: ma mi fai scorno lo stesso, capisci? - Capisco. - Se no, ti lascio come ho lasciato Carmela: sono un giovanotto d'onore, hai capito? - Ho capito. - E non ci venir più. - Non ci verrò più. Continuavano ancora questo dialogo, egli furioso della perdita al giuoco dello zecchinetto, della rissa coi compagni e della mancanza di denaro, ella, contrita, sentendo che quei maltrattamenti erano la giusta punizione del tradimento fatto a sua sorella: tanto che, mentre egli mordeva, nell'angolo delle labbra, il suo mozzicone spento e seguitava a malmenarla, rinfacciandole la sua infelice esistenza, vilipendendola con ogni ingiuria, ella andava accanto a lui, pallida, poiché tutto il rossetto si era dileguato sotto la pioggia, con la camiciuola intrisa di acqua che le si attaccava alle spalle e i capelli che le s'incollavano sulla fronte, andava, abbassando maternamente l'ombrello dalla sua parte, sopportando l'insulto, ebbra di dolore e di pentimento, ripetendo macchinalmente: - È poco, è poco… Lassù, tutti quelli che erano entrati nel portoncino a mano destra di via Nardones, erano saliti per una scaletta di un piano solo, dirimpetto alla scala principale, un po' più grande: erano entrati in un quartierino di due stanzette che si affittavano per uso di studio, ome diceva il padrone di casa, visto che non vi era cucina. Ma le due stanzette erano così basse di soffitto e così scarsamente illuminate da due finestrelle, erano così freddi i pavimenti dai mattoni rossastri, così sporche le carte da parati e così unta la vernice delle porte e delle finestre, che nessun meschinissimo notaio, o avvocato povero, o medico senza clienti, o commerciante di loschi affari, vi restava più di un mese. Il ciabattino che serviva da portiere e gli abitanti che passavano dalla scala grande, erano dunque abituati a veder salire e scendere continuamente visi nuovi, giovani e vecchi, uscieri e mezzani d'affari, una sfilata di persone dalle facce scialbe e dagli equivoci sguardi. Chi si occupava delle persone colà abitanti? Nessuno, neppure il portiere che non aveva stipendio dagli inquilini del quartierino, e che non si curava, quindi, dei cambiamenti di affittuario. Sulla scala principale abitavano persone affaccendate, affittacamere, maestri di calligrafia, un dentista di terz'ordine, una levatrice e altra gente curiosa, bizzarra, che saliva e scendeva, presa dai suoi interessi, dai suoi affari, dalla sua decente miseria, o dalla sua inutile corruzione: gente che badava poco al vicinato, tanto che lo studio empre in preda a un nuovo inquilino, o deserto di abitanti si potea dire isolato. Il cartello si loca i stava, sul portone, tutto l'anno: tanto non era possibile trovare un affittuario ad anno, e ogni mese si era alle stesse. Quando il quartierino era affittato, allora la chiave, all'imbrunire, la portava via l'inquilino: quando era vacante, il ciabattino la teneva sul suo banchetto, e, assentandosi, la consegnava alla carbonaia dirimpetto. La scaletta del quartierino era qua e là, sbocconcellata: lubrica e pericolosa per chi non avesse buone gambe e buoni occhi. Adesso, in quell'agosto, da un paio di mesi, la casetta era stata presa in affitto da un signore giovane, decentemente vestito, come un provinciale quasi elegante, grasso, grosso, con un collo taurino, e una faccia dove il rosso del pelo si mescolava al rosso della carnagione, dandogli una fisonomia scoppiante di sangue. Così lo studio i iapriva ogni tanto nella settimana, per qualche ora, e due o tre persone vi venivano, talvolta di più. Scomparse nella scaletta, non si udiva più nulla, nulla appariva dietro gli sporchi vetri delle finestre: solo, dopo qualche ora, quelle persone ricomparivano, ad una ad una, alcune rosse in viso come se avessero lungamente gridato, altre pallide come se le divorasse una collera repressa. Sparivano, ognuna per la sua strada, talvolta senza che le vedesse neppure il portinaio. Ma in una sera della settimana, sempre la stessa, convenivano nello studio ette od otto uomini: una lampada a petrolio, sudicia, coperta da un paralume di carta verde, che poteva costare tre soldi, illuminava la stanzetta nuda e sporca: i soli mobili erano un tavolino greggio e otto o dieci sedie scompagnate. In quella sera il conciliabolo durava sino oltre la mezzanotte e spesso, sui vetri, si disegnava bizzarramente qualche ombra gesticolante, che qualche volta si appoggiava agli sportelli, guardando macchinalmente nella tetra oscurità del cortiletto, quasi vi vedesse le apparizioni del proprio spirito agitato; il ciabattino, stanco della sua dura giornata gittava una occhiata indifferente alle finestre del quartierino, le vedeva ancora illuminate e crollando le spalle se ne andava a dormire in uno stambugio, una specie di sottoscala. Il cortiletto restava al buio, il portone era socchiuso: ancora qualcuno andava e veniva, con precauzione, dalla cosidetta scala grande, qualche misterioso cliente notturno del dentista, qualche cliente frettoloso che veniva a chiamare la levatrice: e costoro schiudevano senza far rumore la porta, per andarsene. Era dopo la mezzanotte che gli ospiti del dottor Trifari se ne andavano dall'ammezzato, tutti insieme, silenziosi, accalcandosi uno dopo l'altro, per uscir via più presto. L'ultimo si tirava dietro la porta del quartierino, con un rumore di legno vecchio crocchiante. Le due stanzette, che componevano lo studio, icadevano nella loro solitudine, e per la città si perdevano coloro che avevano colà palpitato, nell'ansietà del loro sogno. Ma in quella triste serata, il povero ciabattino, febbricitante, sentendo nelle ossa il brivido della terzana e l'umidità dell'aria temporalesca, era andato a letto dall'imbrunire, lasciando aperto il portone, ravvolgendosi nella sdrucita coperta e nel cappotto lacero, che portava durante la giornata. Così, nello stordimento della febbre che gli era sopraggiunta e che gli metteva un macigno sul petto, egli intese lo scalpiccìo di coloro che salivano e scendevano, dalla scala grande e da quella dell'ammezzato, e due o tre volte gli parve che delle voci si levassero, dallo studio, ove oveuna delle finestre era aperta, mentre il vento sciroccale che portava la pioggia, ingolfandovisi, faceva vacillare la fiammella della lampada a petrolio. Sul pavimento dissestato del cortiletto, continuava a cadere la pioggia, coprendo qualunque altro rumore: a un certo punto, la finestra fu chiusa e non si udì più nulla. Poi, più tardi furon chiuse anche le imposte e tutto ricadde nell'ombra profonda. Pure, colà dentro erano raccolti degli uomini. E primo a giungere era stato Trifari, il padron di casa del quartierino: aveva acceso il lume ed era penetrato nella seconda stanza, ad accomodare certe cose, andando e venendo, col cappello un po' indietro sulla fronte: malgrado lo scirocco, per la prima volta, sulla faccia rossastra era scomparso il colore: e sulla fronte qualche gocciolina di sudore appariva. Ogni tanto si fermava, quasi si pentisse di quello che andava facendo o che andava pensando: ma si rianimava da quel momento di abbattimento, subito. E quando lo stridulo campanello dello studio innì la prima volta, il dottor Trifari ebbe un sussulto e stette incerto, quasi non osando di aprire. Pure, andò: e schiudendo solo a metà il battente, con precauzione, lasciò passare Colaneri che aveva una faccia assai torbida e tutte le spalle bagnate, poiché il piccolo e gramo ombrello gli riparava solo il capo. Scambiarono la buona sera, a voce bassa. L'ex-prete, dagli sguardi guardinghi dietro gli occhiali, si asciugava con un fazzoletto di dubbia bianchezza le mani bagnate, le mani grasse e floscie e biancastre, che sono speciali ai sacerdoti. Non si parlavano. Una medesima, complessa angoscia li opprimeva, tanto che la consueta verbosità meridionale ne era domata; e tutto l'eccitamento del passato, vinto da una serie di delusioni, pareva si fosse risoluto in un esaurimento di tutte le forze. A un tratto, levando il capo, Colaneri domandò: - Verrà? - Sì, - soffiò fra le labbra, il dottore. - Non ha sospetti? - Nessun sospetto. Una raffica di vento s'ingolfò nella stanza e fu per smorzare il lume, fu allora che Trifari andò a chiudere i vetri. - Tutto quello che facciamo, è necessario, - soggiunse il professor Colaneri, ripetendo ad alta voce la scusa, che andava ripetendo, da qualche giorno, alla sua coscienza. - È impossibile andare più innanzi, - osservò, con voce tetra, il dottore, mentre, per darsi un'aria di disinvoltura che non aveva, accendeva un sigaro, lungamente, lasciando spegnere i fiammiferi. - Il rapporto che hanno fatto contro di me al Ministero è terribile. - disse Colaneri, sottovoce, con gli occhi bassi. - Ho una quantità di nemici, giovanotti che ho riprovato agli esami, capisci. Mi hanno denunziato al preside del liceo, dicendogli che ho venduto il tema dell'esame a dieci studenti: hanno messo anche i nomi… - Come hanno potuto saper questo? - chiese il medico, lentamente. - Chissà! Ho tanti nemici… il preside ha fatto un orribile rapporto, io sono minacciato. - Di destituzione? - Non solo… di processo… - Eh, via! - Tanti nemici, Trifari, tanti! La minaccia è grave: come potrò provare la mia innocenza? - Li hai poi venduti, questi temi?… - borbottò cinicamente il dottore, buttando via il suo sigaro. - La paga è così meschina, Trifari ! E gli esami sono tutta una impostura! - Se ti fanno un processo, è male… - Sono perduto, se mi processano. Bisogna aver la fortuna in mano, questa volta, per forza, capisci? È necessario: se no, sono rovinato. Non mi resta che tirarmi un colpo di rivoltella, se mi processano. Dobbiamo vincere, Trifari! - Vinceremo, - affermò l'altro. - Io ho una quantità di guai, al mio paese e qui. Mio padre ha venduto tutto; mio fratello invece di tornare a casa. dopo aver fatto il soldato, per la miseria, si è arruolato come carabiniere; mia sorella non si marita più, non ha più un soldo, è ridotta a cucire i vestiti delle contadine ricche… Avevamo poco, io ho mangiato tutto… una quantità di debiti, di obbligazioni… Il padre di quello studente che firmò la cambiale a don Gennaro Parascandolo, vuole darmi querela per truffa… dobbiamo vincere, Colaneri, non possiamo più vivere una settimana senza vincere… io sono più rovinato di te… Suonarono pian piano. - È lui, forse! - domandò Colaneri, con un leggiero tremito nella voce. - No, no, - rispose Trifari. - Viene più tardi, quando ci saremo tutti… - Chi lo porta? - Cavalcanti. - Egli non ha sospetti, dunque? - No, niente. - E lo spirito, nulla gli dice? - Pare che lo spirito non si possa opporre alla fatalità, perché nulla gli dice. - Fatalità! fatalità! Suonarono nuovamente. Trifari andò ad aprire. Era l'avvocato Marzano, il vecchietto arzillo, bonario, sorridente. Ma una improvvisa decrepitezza parea che lo avesse assalito: il pallore del volto si era fatto giallastro, i mustacchi pepe e sale erano tutti bianchi e pioventi radi sulle labbra. Il sorriso era scomparso, come se per sempre, e all'approssimarsi della morte, fosse sparito dalla sua anima il criterio buono dell'esistenza. Entrando, sospirò. Era tutto bagnato; il soprabito luccicava di goccioline d'acqua, dovunque, e le scarne mani tremavano. Si sedette, silenzioso: tenne il cappello sul capo, abbassato sulle orecchie, e la bocca solamente conservava l'antica consuetudine di muoversi continuamente, masticando cifre. Adesso aveva appoggiato al bastone il mento aguzzo, dove una barba incolta cresceva, e si assorbiva nei suoi pensieri, senza neppur udire quello che dicevano fra loro Trifari e Colaneri. A un tratto, anche lui, avendo lo stesso pensiero dominante, domandò: - Verrà? - Verrà, sicuramente. - risposero insieme, gli altri due. - Non se lo immagina? - Non s'immagina niente. - Questi assistiti, vedono assai, o non vedono nulla. - Meglio così, - mormorarono gli altri due. Il dottor Trifari, udendo bussare alla porta, andò prima nella seconda stanza a prendere tre o quattro altre sedie e le collocò intorno al grezzo tavolino. Entrarono Ninetto Costa e don Crescenzo, il tenitore di Banco lotto, al vico del Nunzio. L'agente di cambio aveva perduto tutta la sua eleganza. Era vestito alla meglio, con un abito da mattino, su cui un troppo chiaro soprabitino aveva larghe chiazze di acqua: sulla cravatta di raso nera, era confitto uno spillo di strass. con l'eleganza era anche sparito il suo bel sorriso di uomo felice, che gli scopriva i denti bianchi. L'agente di cambio andava, a stento, di liquidazione in liquidazione, senz'arrischiarsi più, non osando più giuocare, avendo perduta tutta la sua audacia; e arrivando solamente a tenere a bada i suoi creditori, che gli avevan ancora fede, così, perché il suo nome era conosciuto in Borsa, perché suo padre era stato un modello d'integrità e perché egli stesso era stato così fortunato, che tutti ancora credevano alla sua fortuna; ma il disgraziato sapeva che era giunta l'ora della crisi, che non avrebbe potuto neppure pagare gli interessi dei suoi debiti, e che il nome di Ninetto Costa sarebbe stato quello di un fallito, fra poco. Oh, aveva smesso tutto, casa sontuosa, equipaggi, amanti di lusso, viaggi, pranzi e vestiti inglesi di Poole, ma tutto questo sacrificio non bastava, non bastava, poiché il cancro che gli rodeva il seno, il cancro che rodeva tutti, non era stato estirpato, poiché egli continuava disperatamente a giuocare al lotto, preso oramai totalmente, anima e corpo, chiudendo gli occhi in quella tempesta, per non veder venir l'onda che lo avrebbe sommerso. Accanto a lui, don Crescenzo, dalla bella faccia serena, dalla barba castana ben pettinata, aveva anche lui le tracce di una decadenza iniziale. A furia di stare a contatto coi febbricitanti, come chi tocca le mani troppo calde, qualche cosa gli si era attaccato: e innanzi alle disperate insistenze dei giuocatori, egli era arrivato a far credito ai giuocatori. In qual modo resistere alle supplichevoli domande di Ninetto Costa, alle pretese che nascondevano una vaga minaccia di Trifari e Colaneri, alle nobili promesse del marchese Cavalcanti, a quelle diverse forme di preghiere? Sul principio faceva loro credito dal venerdì al martedì mattina, giorno in cui preparava il versamento allo Stato, ed essi rinnovando ogni settimana il miracolo, arrivavano a restituirgli quello che gli dovevano, perché egli potesse essere puntuale, il mercoledì; ma alla lunga, esaurite le risorse, qualcuno di costoro cominciò a pagare una parte, o a non pagare niente: egli cominciò a rimetterci del suo, per non farsi sequestrare dallo Stato la cauzione. I giuocatori non osavano ricomparire che quando avevano di nuovo denaro, scontavano una parte del debito e il resto lo giuocavano: uno era addirittura sparito, il barone Lamarra, il figliuolo dello scalpellino, che era divenuto appaltatore e riccone. Gli doveva più di duemila lire, a don Crescenzo, il barone Lamarra, e quando costui lo ebbe aspettato, per due o tre settimane, andò a rincorrerlo a casa. Trovò la moglie, in uno stato di furore; il barone Lamarra aveva falsificato la firma di lei, sopra una quantità di cambiali, e ora le toccava pagare, se non voleva diventare la moglie di un falsario, doveva pagare, purtroppo, ma aveva già fatto domanda di separazione: il barone Lamarra se n'era fuggito a Isernia, donde non dava segno di vita. Don Crescenzo fu cacciato via, in malo modo. Duemila e più lire perdute! Giurò di non far più credito a nessuno: e malgrado che ogni tanto pagassero qualche somma, i suoi debitori, restavano sempre sette od ottomila lire arrischiate, con poca speranza di riaverle: ottomila lire, giusto la somma dei suoi risparmi di vari anni. D'altronde, non li poteva tormentare troppo, i suoi debitori; non avevano, oramai, che certe risorse disperate che saltavano fuori solamente innanzi all'ardente e scellerata volontà di giuocare. Ed era adesso lui che s'interessava vivamente al loro giuoco, che desiderava le loro vincite, per poter rientrare nelle sue economie, per riacquistare quel denaro messo così imprudentemente al servizio di quei viziosi, sorvegliando i giuocatori, perché non andassero a giuocare altrove, inquieto, ammalato, anche lui, oramai, al contatto di tanti infermi. Per questo, il misterioso disegno che si doveva compiere quella sera, gli era noto: non gli si poteva nascondere più nulla, tutti gli dovevano del denaro. E malgrado che una segreta amicizia, diremo quasi una complicità, lo unisse a don Pasqualino, l' assistito egli taceva sul misterioso disegno e il silenzio pareva un'approvazione. Erano già in cinque, nella stanzetta, seduti intorno alla tavola, in pose diverse di raccoglimento, anzi di preoccupazione: non parlavano, alcuni col capo abbassato, segnando ghirigori con le unghie sul greggio piano del tavolino, altri guardando il fumoso soffitto, dove la lampada a petrolio gittava un piccolo cerchio di luce. - A Roma si è pagato settecentomila lire - disse don Crescenzo, per ispezzare quel penoso silenzio. - Beati loro, beati loro! - gridarono due o tre, con un impeto d'invidia ai fortunati vincitori di Roma. - Se ciò che facciamo, riesce, - mormorò tetramente Colaneri, i cui occhiali avevano un triste scintillìo, - il governo paga a Napoli tre o quattro milioni. - Dobbiamo riuscire, - ribattè Ninetto Costa. - L'urna sarà comandata questa volta, - disse misticamente il vecchietto Marzano. Bussarono nuovamente, pian piano, come se una timidezza indebolisse la mano che bussava. Trifari disparve, ad aprire, dopo aver domandato, attraverso la porta, chi era, insospettito subitaneamente. Gli fu risposto amici riconobbe la voce. E i due popolani, Gaetano il tagliatore di guanti, Michele il lustrino, entrarono: si cavarono il berretto, augurando la buonasera: restarono sulla soglia della stanzetta, non osando sedere, innanzi a quei galantuomini. uori, infuriava lo scirocco e la pioggia: e una grondaia carica d'acqua traboccava nel cortiletto, con un forte scroscio. Adesso, sotto le impannate della finestra, dalla fessura, entrava un rivolo di acqua continuamente, bagnava il poggiuolo della finestra e colava a rivoletti sul terreno: gli ombrelli chiusi, ma sgangherati, appoggiati ai muri, negli angoli, colavano acqua sul pavimento impolverato, e, sotto le scarpe bagnate, si formava una poltiglia di fango: gli uomini seduti non si muovevano, in un immobilità grave, in un silenzio lugubre, quasi che stessero lì a vegliare un morto, colti dalla stanchezza, dall'oppressione, dai loro funebri pensieri. I due popolani, in piedi, uno scarno, scialbo, con le spalle curve di chi fa il mestiere di tagliatore, coi capelli già radi alla fronte e alle tempie, l'altro sciancato, gobbo, bistorto come un cavaturaccioli, vecchio e pur vivace nella faccia rugosa e arguta, i due popolani tacevano anche essi, aspettando. Solo Ninetto Costa, per darsi un qualunque aspetto di disinvoltura, aveva cavato un vecchio taccuino, residuo della sua antica eleganza, e vi scriveva delle cifre, con un piccolo lapis, bagnandone in bocca la matita. Ma erano cifre fantastiche: e la mano gli tremava un pochino: gli amici dicevano che erano gli eccessi dell'esistenza, che la facevano tremare. Così passarono una quindicina di minuti, minuti lunghi, lenti, gravi sulle anime di tutti coloro che aspettavano, per mettere a esecuzione il loro segreto progetto. - Che tempaccio! - disse Ninetto Costa, passando una mano sulla fronte. - Si è aperto il cielo - osservò don Crescenzo, sbadigliando nervosamente. - Dottore, che ora fate? - domandò il vecchio avvocato Marzano, con una vocetta tremolante di decrepitezza. - Sono le dieci meno cinque, - disse il dottore, cavando un brutto orologio di nichelio, di quelli che non si potevano impegnare, e che era raccomandato a un sordido laccetto nero. - Per che ora è l'appuntamento? - chiese Colaneri, fingendo l'indifferenza. - Sarebbe alle dieci, ma chi sa! - rispose il medico, abbassando la voce, imprimendo a quello che diceva, tutta la sua incertezza e tutto il suo dubbio. - Chissà! - disse Ninetto Costa, profondamente. E un lungo sospiro gli sollevò il petto, quasi non potesse resistere al peso che l'opprimeva. - Siete ammalato? - gli chiese Colaneri. - Vorrei esser morto, - borbottò l'agente di cambio, desolatamente. Qualcuno crollò il capo, sospirando: qualcuno annuì con l'espressione della faccia, e la dolorosa parola si allargò nella stanzetta umida e sudicia, sotto la lampada che fumicava, fra il rumore scrosciante del temporale. Poi, per un poco, la bufera estiva si venne calmando e si udirono le stille più rade battere sui cristalli della finestra, poi, di nuovo, un gran silenzio. E attraverso il muro, senza sapere donde venisse, come una voce lenta, ammonitrice, un grave orologio suonò le dieci ore, con rintocchi melanconici. I colpi erano spaziati e gittarono un dato di spavento, fra quella gente riunita là, a complottare non so quale truce proponimento. - Lo spirito! - disse don Crescenzo, tentando di scherzare. - Non scherziamo, - ammonì duramente Trifari, - qui si tratta di cose serie! - Nessuno vuole scherzare, - riprese Ninetto Costa, - tutti sappiamo quello che facciamo. - Qui non ci sono Giuda, non è vero? - disse il medico guardando intorno, tutti quanti. Vi fu un mormorìo di protesta; ma debole. No, nessuno di essi era un Giuda, né per loro vi era un Cristo, ma tutti sentivano, vagamente, così, nel fondo della loro febbre, che venivano a commettere un tradimento. - Non è Giuda nessuno, - gridò il medico, impetuoso. - Giuro a Dio che se vi è, farà la mala morte!… - Non giurate, non giurate, - disse il vecchio Marzano. impaurito. Bussarono alla porta. Tutti si guardarono in faccia, improvvisamente fatti pallidi e trepidanti, messi al cospetto della loro colpa. E come se dietro alla porta vi fosse un grave pericolo, nessuno si mosse ad aprire. - Ci sarà? - osò dire Colaneri, senza levar gli occhi. - Forse… - mormorò Costa, che girava convulsamente il taccuino fra le mani. E subito, tutti quanti disperarono che fuori la porta vi fosse l' assistito. a stessa ombra di feroce delusione stravolse i loro visi, che s'indurirono, nella crudeltà del malvagio che vede sfuggire la sua preda. E l'istinto di ferocia che dorme in fondo a tutti i cuori umani, sospinto dalla lunga passione mal soddisfatta, sviluppatosi in quella forma di delirio in cui li metteva il vizio, urgeva in tutti, nei giovani e nei vecchi, nei signori e nei popolani. Le facce erano chiuse e dure, impietrite nella ferocia, e fu con un atto energico che il dottor Trifari si avviò ad aprire. Per rassicurare l'assemblea, di là, che l' assistito ra venuto, lo salutò subito, ad alta voce, lui e il marchese Cavalcanti. - Buona sera, buona sera, marchese, - don Pasqualino, tutti vi aspettavano. E si mise da parte, per lasciarli entrare. Di là, respiravano con una gioia truce: non vi era più pericolo che l' l'assistito oro sfuggisse. E colui che parlava con gli spiriti ogni giorno e ogni notte, colui che aveva comunicazioni speciali di grazia con le anime errabonde, colui che doveva sapere tutte le verità, entrò quietamente nella stanzetta, dove erano i congregati, senza nulla supporre. Gittò, al solito, una obliqua occhiata intorno, ma le facce dei cabalisti non gli dissero niente di nuovo: avevano quel pallore, quello stravolgimento, quel febbrile turbamento consueto del venerdì sera, non altro. Solo il marchese Cavalcanti, accompagnandolo, due o tre volte era stato scosso da un brivido e quasi pareva avesse voluto tornare indietro. Ma il marchese era così nervoso, da tempo! Balbettava, parlando: e la sua nobile figura era oramai degradata dalle ignobili tracce della passione, mal vestito, disordinato, con le scarpe sporche e il solino sfilacciato, con la faccia dalla barba mal rasa, faceva ribrezzo e pietà. Era così nervoso, da che non trovava più denaro, da che la sua figliuola si era fidanzata col dottor Amati! L' assistito on ne poteva avere più denaro e lo fuggiva, vedendolo soltanto nelle riunioni dei venerdì sera, via Nardones: ma in quella settimana le relazioni erano ricominciate, il marchese cercava dovunque l' assistito, nella giornata gli aveva dato cinquanta lire, prendendo convegno, per la sera, alle dieci. Anzi, si era ostinato ansiosamente per questo convegno: e l' assistito 'aveva attribuito all'ardore dei giuocatori delusi per avere i numeri, il contegno del marchese, durante la strada, era stato dubbio: pure, don Pasqualino, abituato alle bizzarrie dei giuocatori, non vi aveva badato. E andò a sedersi al suo posto di ogni settimana, presso la tavola, mettendosi una mano sugli occhi, per ripararsi contro la fiammella della lampada a petrolio. Intorno era il silenzio in cui ogni tanto un sospiro si udiva: e guardando tutte quelle facce pallide, mute, ardenti, l' assistito bbe un primo, vaghissimo sospetto. E cercò di fare il suo solito lavoro fantastico d'ingarbugliamento: - Piove, ma il sole uscirà a mezzanotte. - Chiacchiere - gridò Trifari, scoppiando in una ironica risata. Gli altri, attorno, mormorarono, ghignando. Oramai, non ci credevano più, alle parole misteriose di don Pasqualino. E questa sfiducia risultò così chiaramente, che l' assistito i trasse indietro, come se volesse schermirsi da un attacco. Ma tentò di nuovo, credendo di poter profittare, come sempre, della immaginazione bollente di quei cabalisti, facendo stridere le corde capaci di dar suono: - Piove, il sole uscirà a mezzanotte: ma chi porta lo scapolare della Madonna, non si bagna. - Don Pasqualino, voi scherzate, - disse sarcasticamente il tagliatore di guanti. L' assistito li vibrò una occhiata collerica. - Senza che mi guardiate come se voleste mangiarmi, don Pasqualino: col permesso di questi bravi signori, voi volete burlarvi di noi…e noi non siamo gente da farci burlare. - Marchese, fate tacere questo stupido, - mormorò l' assistito, on un cenno di disprezzo. - Non tanto stupido, don Pasqualino, - disse Cavalcanti, reprimendo a stento la sua commozione. - Che volete dire, marchese? - chiese vivacemente con Pasqualino, levandosi da sedere e facendo per andarsene. Ma Trifari che non si era mai mosso dalle spalle dell' assistito, enza parlare, gli mise una mano sul braccio e lo costrinse a sedersi di nuovo. L' assistito iegò un minuto il capo sul petto, a meditare, e guardò obliquamente la porta. - Restate seduto, don Pasqualino, - disse lentamente Cavalcanti. - qui dobbiamo parlare a lungo. Una lieve espressione di angoscia passò sul volto di colui che evocava gli spiriti: e ancora una volta, guardando gli astanti, egli non vide che fisonomie dure, ansiose, indomabili nel desiderio del guadagno. Capiva, adesso, confusamente. - Gaetano, il tagliatore di guanti, non è uno stupido, quando dice che voi vi burlate di noi. Quello che ci state facendo, da tre anni a questa parte, pare una burla. Sono tre anni, capite, che voi ci andate ripetendo le cose più strampalate, con la scusa che ve le dice lo spirito: tre anni che ci fate giuocare l'osso del collo, con queste vostre strampalerie, e ognuno di noi, non solo non ha mai guadagnato niente, ma ha buttato la sua fortuna, dietro le vostre chiacchiere, ed è pieno di guai, alcuni dei quali irreparabili. Coscienza ne avete, don Pasqualino? Voi ci avete rovinati! - Rovinati, rovinati! - gridò un coro di voci straziate. Spesso, il parlatore con gli spiriti, aveva udito queste lamentazioni massime negli ultimi tempi: ma la fiducia era ricomparsa subito, negli animi dei suoi affiliati. Adesso, lo intendeva, non ci credevano più. Pure, nascondendo la sua paura, tentò di discutere. - Non è colpa mia, la fede vi manca. - Frottole! - gridò il vecchio, esasperato, mentre gli altri tumultuavano contro l' assistito, he ripeteva loro l'eterna ragione della delusione. - Frottole! Come, manca la fede a noi, che abbiamo creduto in voi, come si crede in Gesù Cristo? Manca la fede, quando, per premiarvi delle troppe parole che ci avete dette, vi abbiamo pagato profumatamente? Avete incassato migliaia di lire, in questi tre anni, non lo negate! Non abbiamo fede, noi che abbiamo fatto dire tridui, messe, orazioni, rosari, noi che ci siamo inginocchiati, ci siamo battuti il petto, chiedendo al Signore la grazia? Non abbiamo fede, quando la dobbiamo avere per forza, per forza, capite, altrimenti lo sperpero, lo sciupio del denaro, l'infelicità nostra e quella delle nostre famiglie, sarebbero altrettanti delitti?! Non abbiamo fede, quando voi siete stato il nostro dio, per tre anni, e ci avete ingannati, e non vi abbiamo detto niente e abbiamo seguitato a credere in voi, che ci avete tolto tutto, tutto? - Tutto ci avete tolto! - urlò l'assemblea. - Voi mi offendere, basta così, - disse risolutamente l' assistito, evandosi. - Io me ne vado, buona sera. - Voi non uscirete di qui! - urlò il marchese Cavalcanti, giunto al colmo del furore. - È vero che non uscirà di qui? - domandò all'assemblea dei cabalisti. - No, no, no! - urlò ferocemente la congrega di quei pazzi feroci. L' assistito veva compreso. Un mortale lividore gli covrì le guance pallide e scarne: lo sguardo smarrito errò intorno, a una ricerca disperata di fuga. Ma i truci cabalisti si erano levati e gli si erano stretti addosso in un breve cerchio: alcuni di loro erano pallidissimi, quasi reprimessero una forte emozione, altri erano rossi di collera. E negli occhi di tutti, l' assistito esse la medesima, implacabile crudeltà. - Io voglio andarmene, - disse lui, sottovoce, con quel tono roco, che dava tanta misteriosa attrazione alla sua voce. - Nessuno di noi vi vorrebbe trattenere, don Pasqualino, - rispose con ossequiosa ironia il marchese Cavalcanti, se non avessimo bisogno di voi. Se non ci date i numeri, di qua non uscite, - finì gridando, preso da un impeto di furore. - I numeri, i numeri, - fischiò la voce sottile di Colaneri. - Se no, non si esce! - strillò Ninetto Costa. - O i numeri, o qua dentro! - tuonò il dottore Trifari. - Sono finite le burlette, dateci i numeri, - disse, digrignando i denti, Gaetano, il tagliatore di guanti. - Don Pasqualino, persuadetevi che questi signori non vi lasciano andar via, se non date loro i numeri. Persuadetevi!… - osservò saviamente don Crescenzo, che volea fingere di essere disinteressato nella questione. - La settimana ventura… ve li prometto… ora non li ho…ve lo giuro sulla Madonna! - balbettò l' assistito, olgendo gli occhi al cielo, desolatamente. - Che settimana ventura! - urlarono tutti. - Deve esser stasera, o domattina, presto! - Non li ho, non li ho, - balbettò lui, nuovamente, crollando il capo. - Ce li dovete dare, a forza, - ruggì il marchese. - Non ne possiamo più. O vinciamo questa settimana, o siamo perduti, don Pasqualino. Abbastanza abbiamo atteso: vi abbiamo creduto troppo, ci avete trattati indegnamente. Lo spirito ve li dice i numeri veri voi li sapete; li avete saputi sempre; ma ci avete sempre burlati, raccontandoci delle sciocchezze. Non possiamo aspettare la settimana ventura: fino allora possiamo morire, o veder morire qualcuno o andar in galera. Questa sera o domattina: i numeri veri, apite? apite?- I veri, i veri! - fischiò Colaneri. - Non ci dite stupidaggini, non è più tempo! - gridò Ninetto Costa, al massimo della indignazione. Eppure, malgrado che si sentisse vinto e preso, in balia alla irragionevole passione di cui egli stesso aveva acceso le fiamme, l' assistito oleva combattere ancora. - Lo spirito non dà numeri per forza, - dichiarò lentamente. - Lo avete offeso, non mi parlerà più. - Bugie, bugie! - ribattè il marchese. - Centomila volte, ci avete detto che lo spirito vi obbedisce, che voi fate di lui quello che vi pare, che voi ne ottenere tutto: centomila volte, ci avete detto che l'urna dei novanta numeri è comandata. ite la verità, è meglio, ve lo assicuro, è meglio. Siete a un mal passo, don Pasqualino: lo spirito vi deve aiutare. La nostra pazienza è esaurita, sono esauriti i nostri denari e anche quelli degli altri: lo spirito vi deve are arei numeri. Allora egli tacque un poco, come se si concentrasse, e gli occhi gli si stravolsero, mostrando il bianco della cornea. Tutti lo guardavano, ma freddamente, abituati a questi suoi stralunamenti. - Fra breve fioriranno le camelie, - egli disse, a un tratto, tremando tutto. Ma nessuno dei cabalisti si commosse, a questa enunciazione mistica dei numeri. Il dottor Trifari, che portava sempre la chiave dei sogni n tasca, non cavò neppure lo sdrucito libro, per vedere camelie fiorite, che numero corrispondessero. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina, - ripetette, tremando sempre più, l' assistito. essuno si mosse. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina e sulla montagna, - replicò per la terza volta, tremando di ansietà, guardando in faccia i suoi persecutori. Una sghignazzata d'incredulità gli rispose. - Ma che volete da me? - gridò lui, con un singhiozzo di spavento. - I numeri veri, - disse freddamente Cavalcanti, - queste cose che ci dite, non le crediamo: cioè, per uno scrupolo, noi giuocheremo i numeri che rispondono alla montagna, alla Marina e alle camelie fiorite. Ma altri debbono essere i numeri veri: così aspettandoli, noi giuocheremo questi tre, ma vi terremo chiuso qua dentro. - Sino a quando? - chiese lui, precipitosamente. - Sino a quando i vostri numeri saranno usciti, - ribattè il marchese duramente. - Oh Dio!… - disse l' assistito, ian piano, come un soffio. - Capite, don Pasqualino, questi signori vogliono avere una garanzia e vi vogliono tenere in pegno, - spiegò don Crescenzo, il tenitore del Banco del lotto, volendo legittimare il sequestro. - E a voi che fa? Che fatica vi costa dire la verità? Se li avete tenuti in asso, finora, è il tempo di parlare sul serio, don Pasqualino: questi signori hanno ragione, e lo so io, di essere esasperati. Parlate, don Pasqualino, mandateci via contenti. Voi rimarrete qui fino a domani, alle cinque: e appena fatta l'estrazione, vi verremo a prendere, in carrozza, per una scampagnata. Su, su, fate quel che dovete fare. - Non posso - disse l' assistito, prendo le braccia. - Non mentire, voi potete e non volete; gli spiriti vi obbediscono, - disse Colaneri, scattando, in un impeto di furore. - Diteli questa sera, è meglio, è meglio per voi, - mormorò Gaetano, il tagliatore di guanti, con un malvagio tono di voce. - Levatevi questa preoccupazione, - consigliò fraternamente Ninetto Costa. - La verità, la verità, - balbettò il vecchio avvocato Marzano. - Non posso, - disse ancora l' assistito, guardando le finestre e le porte. Allora i cabalisti, a un cenno del marchese Cavalcanti, si riunirono nel vano della finestra: presso l' assistito, estò soltanto Trifari, dalla feroce faccia minacciosa, che gli aveva posta la mano grassa, corta, coperta di pelame rossiccio, sulla spalla. I cabalisti confabularono fra loro, a lungo: discutevano, in cerchio, tutte le teste riunite, parlandosi nel volto. Poi, decisi, ritornarono. - Questi signori dicono che sono fermi nella loro intenzione, anzi nel loro diritto di avere i numeri, dopo i tanti sacrificii che hanno fatti, - parlò, freddamente, il marchese Cavalcanti, - e che quindi don Pasqualino resterà qui, chiuso, sino a che non si sarà deciso di far paghi i nostri giusti desiderii. Di qui non si può andar via: d'altronde, il dottor Trifari, che non ha paura di niente, resterà in compagnia di don Pasqualino. Fare del chiasso sarebbe inutile, tanto i vicini non udrebbero; e se per caso don Pasqualino volesse ricorrere alle autorità per farsi ragione, noi teniamo pronta una querela di truffa, con testimoni e documenti, da mandare in carcere venti assistiti. meglio, dunque, chinare la testa, per questa volta, e cercare di scamparsi, dando i numeri veri. oi siamo fermi. Fino a che non avremo guadagnato, don Pasqualino non esce il dottor Trifari si sacrificherà a tenergli compagnia. In quell'altra stanza, vi è da dormire per due, e da mangiare per vari giorni. Fra questa notte e domani, uno di noi, per turno, verrà, ogni quattro ore, a vedere se don Pasqualino si è deciso. Speriamo che si decida presto. - Voi volete farmi morire, - disse l' assistito, on un'angelica rassegnazione. - Voi potete liberarvi, se volete. Vi auguriamo la buona nottata, - conchiuse, implacabile, il marchese Cavalcanti. E i sette sciagurati cabalisti passarono davanti all' assistito, ugurandogli sardonicamente la buona notte. L' assistito tava in piedi, presso la tavola, con una mano lievemente appoggiata sul piano del legno, con una espressione di stanchezza e di pena sulla faccia, guardando ora questo, ora quello dei cabalisti, come se li interrogasse, se alcun di loro fosse più pietoso. Ma le delusioni dolorose avevano indurito i cuori di quegli uomini: e l'esaltamento del loro spirito impediva loro d'intendere che commettevano una colpa. Passavano innanzi all' all'assistito, alutandolo, dicendogli una frase fredda a mo' di consolazione, senza veder la penosa espressione del suo volto, la supplica dei suoi occhi. - Buona notte, don Pasqualino: Dio v'illumini, - disse il vecchio avvocato Marzano, crollando il capo. - Chiediamo troppo a Dio, - rispose l' assistito, on una grande malinconia nella voce. - Buona notte: dormite tranquillo, - augurò ironicamente il tagliatore di guanti in cui tutto parea fosse diventato tagliente, la parola, la voce, la figura. - Così vi auguro, - rispose enigmaticamente l' assistito, bbassando le palpebre, a smorzare il lampo crudele di vendetta che gli era balenato negli occhi. - Buona notte, buona notte, don Pasqualino - mormorò Ninetto Costa, con un po' di rammarico, tanto la sua frivola natura si opponeva a quel dramma. - A rivederci presto. - E già! - mormorò l'uomo degli spiriti, con un lieve sogghigno. - Buona notte, - osò dire il lustrino Michele, che si era ficcato complice in quella congiura di signori, e che parea nobilitato da tanta compagnia. - buona notte e mantenetevi forte… L' assistito on gli rispose neppure, non si degnò neppure di abbassare lo sguardo sopra lo sciancato, appartenente a quel vile popolo cui anche egli apparteneva, e da cui non arrivava mai a cavar denaro. - Pasqualino, li volete dare, questi numeri certi? - domandò Colaneri, passandogli innanzi, sempre accanito. - Non li posso dare, così, violentato… - Voi scherzate, noi siamo tutti amici vostri, - squittì il professore. - Fate come credete, buona notte. - Buona notte: la Madonna vi accompagni, - mormorò l' assistito, iamente, aumentando l'intensità mistica della sua voce. - Caro don Pasqualino, via, un buon movimento, prima che andiamo via, - disse con una improvvisa bonomia il marchese Cavalcanti, - dateci i numeri certi e la vostra prigionia dura sino a domani, alle cinque. - Non so niente, - disse l' assistito, ardeggiando uno sguardo di odio sul marchese, poiché era stato il nobile signore a condurlo in quel mal passo. Essi si riunirono sotto la porta, per partire, per lasciarlo solo col dottor Trifari che andava e veniva dalla stanza accanto, pacificamente e freddamente, con quella gelida volontà che mettono i malfattori nati, nella esecuzione dei loro misfatti. L' assistito ino allora, salvo qualche ombra che gli era passata sul viso, lasciandovi la sua traccia di fastidio, di dolore, salvo un'umile espressione di preghiera che era nel suo sguardo, aveva dato segno di molto coraggio: ma quando vide che essi partivano, quando comprese che sarebbe rimasto solo, col dottor Trifari, per lunghe ore, per giorni, per settimane, forse, tutta la sua forza d'animo cadde, la viltà dell'uomo imprigionato sorse, ed egli, stendendo le braccia gridò: - Non ve ne andate, non ve ne andate! A quel grido straziato, gli uomini complici di quel carceramento si fermarono: e le loro facce di giustizieri violenti, furono coperte da un improvviso pallore. Fu quello il solo momento di tutta la tetra serata, in cui essi pensarono che dannavano a una pena atroce, una creatura umana, un cristiano, un uomo come loro, fu il solo momento in cui videro tutta l'entità di quello che commettevano, nella sua portata legale e morale. Ma il demone del giuoco aveva messo sede nella loro anima, impossessandosene completamente: e tutti quanti insieme, tornando indietro, circuirono l' assistito, omandandogli ancora i numeri, i numeri certi i veri numeri che egli conosceva e che fino allora non aveva voluto loro dare. E allora, soffocato dall'emozione, comprendendo di aver rivolta contro sé l'arma di cui sino allora li aveva feriti, colui che li aveva a poco a poco sommersi sotto le onde di un naufragio lento, colui che aveva preso il loro denaro e le loro anime, innanzi a quella insistente malnata ferocia che niente più poteva placare, innanzi a quel vero Spirito del Male, con cui, realmente, egli si era messo in comunicazione, l' assistito, igliaccamente, provò una immensa paura e si mise a singhiozzare come un fanciullo. Gli altri, interdetti, sconvolti, lo guardavano: ma più forte, più forte era il Demonio, di tutte le loro volontà riunite insieme. L'ora suprema della loro esistenza era giunta, pel vecchio e pel giovane, pel signore e per il plebeo, l'ora tragica in cui niuna cosa arriva a dissuadervi dalla tragedia. Udendo piangere come un bimbo quell'uomo che si asciugava le lagrime con un lurido e lacero fazzoletto, nessuno di loro provò pietà: tutti sentirono più ardente, più acre il desiderio di avere i numeri del lotto, per salvarsi dalle ruine che minacciavano le loro teste. Lo lasciarono che piangeva, vilmente, come uno sciocco pauroso: e a uno a uno, senza far rumore, uscirono lentamente da quella casa, che era diventata una prigione. Egli, pur continuando a singultare, tese l'orecchio: udì richiudere la porta, lugubremente, con quel rumore che si ripercuote nell'anima. Trifari, dietro la porta, andava mettendo catenacci e lucchetti, serrandosi dentro il carcere con il nuovo carcerato, senz'aver paura, né di lui come uomo, né degli spiriti che egli avrebbe potuto evocare. La faccia dal pelame rossastro, quando appariva nel giro luminoso della lampada a petrolio, aveva qualche cosa di animalesco, come crudeltà e come ostinazione nella crudeltà. E rientrando, il dottore aveva respirato di sollievo: si era guardato intorno, quasi che la partenza di tutti quei cabalisti, amici suoi, che lo avevano delegato a far da carceriere, gli fosse piaciuta. Adesso, ancora andava e veniva dalla stanza accanto, portando e riportando non so quali cose; poi rientrò, essendosi cambiato di vestito, avendo indossata una vecchia giacchetta, in cambio del soprabito. L' assistito eguiva con l'occhio tutte le mosse del suo carceriere, come tutti i prigionieri che studiano l'unica loro compagnia, con tutta la profondità dell'osservazione. A un certo punto avevano scambiato una occhiata fredda, dura, da carcerato ad aguzzino. - Volete fumare? - aveva chiesto il dottore, da un cantuccio della stanza. - Non fumo, - aveva risposto, cupo, l' assistito Non sedete? - aveva chiesto all' assistito, ottovoce. ottovoce.- Grazie, - aveva risposto costui, lasciandosi cadere sopra una seggiola. - Volete dormire? - No, grazie. Il dottore sedette allora anche lui, accanto alla tavola, mettendosi una mano sugli occhi, quasi a ripararsi dal lume. Silenzio profondo notturno. Fuori, anche la pioggia era cessata. Dentro, la lunga e tetra veglia cominciava.

Allora, quietamente, essa aveva chiuso il volume sdrucito e lo aveva posato sul cuscino: aveva abbassato la testa fra le mani, e il poco chiarore della lampada che ardeva innanzi alla Madonna Addolorata rischiarava solo il candore delle mani affilate e la nerezza delle grosse trecce brune raccolte e strette sulla nuca. Così stava da tempo, tanto immobile che quella figura vestita di bianco, nell'ombra della piccola cappella, sembrava una di quelle statue oranti, che la pietà del Medio Evo inginocchiava sulle tombe in eterno atto di orazione. Ella parea non sentisse l'ora che passava sul suo capo; non parea sentisse il fine soffio di freddo, che la sera di autunno metteva nella cappella e guardando fra le dita la faccia dolorosa della Madonna, parea che continuasse a meditare, a pregare, come se nulla la potesse strappare a una infinita preghiera. Pure nella sera che era discesa, la piccola cappella si era fatta assai tetra. Di giorno non era che povera e fredda, essendo in sostanza una stretta camera interna, scarsamente illuminata da una finestra, che dava sopra un cortiletto di servizio, nel palazzo Rossi, già Cavalcanti. Una volta un gramo tappeto ne ricopriva il pavimento, ma era così vecchio e polveroso che Bianca Maria aveva ordinato si togliesse: era quindi nudo il pavimento, fatto di mattoni lucidi e glaciali. L'altarino era di legno dipinto, di un azzurro smorto, l'azzurro pallidissimo dei legni chiesastici: e lo copriva, sulla sacra pietra, una tovaglia di tela assai fine, ma dalla tinta gialla di vecchiaia, come giallo di vecchiaia era il largo merletto antico che adornava la tovaglia. Tutto vi era invecchiato e appannato; i candelieri, le preghiere stampate nelle loro cornici metalliche, il messale dalla fodera di cuoio rosso cupo, le meschine frasche i argento poste lì per mistico adornamento, la portellina di legno dorato che chiudeva la pisside. Di giorno anche la statua della Vergine Addolorata, vestita di seta nera a ricami d'oro, col goletto monacale piegolinato di battista bianca, e le sette spade che le trafiggevano il cuore, a raggiera, pareva meschina, poveretta, con le sue mani rosee, di stucco, che stringevano un fazzolettino di battista bianca orlato di merletto: anche il grande torso dell' Ecce Homo, grandezza umana, di legno e stucco, pareva poveretto come tutto l'ambiente. Invano innanzi all'altare erano posti i due inginocchiatoi di legno scolpito, con lo stemma dei Cavalcanti, marchesi di Formosa: e sugli inginocchiatoi vi erano, invano, due cuscini di velluto rosso. La cappelletta conservava, malgrado ciò, la sua aria di gelida miseria, mostrando, nella luce del giorno, lo sbiadimento dei colori, l'appannamento e l'ammaccatura dei metalli, le mille traccie dei tarli nel legno e la consunzione del velluto dei cuscini. Anche le fiammelle delle due lampade accese giorno e notte, innanzi alla Madonna Addolorata e all' Ecce Homo, ella luce parevano due linguette giallastre, crepitanti… Ma nella sera - e quella sera, stranamente, ardeva una sola lampada, innanzi alla Vergine - scompariva la miseria e solo grandi ombre fluttuanti empivano la cappella. Scomparsi i metalli, le tinte dei legni, si distingueva solo il biancore funerario della tovaglia: non una scintilla partiva, e solo all'agitarsi della fiammella, il viso doloroso di Maria dei Dolori assumeva come una espressione straziante: e siccome la fiammella agitata da un soffio di vento invisibile si inchinava a dritta e a sinistra, la faccia, le mani, il petto, il costato di Gesù pareano sanguinare veramente. Immersa nella sua meditazione, Bianca Maria, che aveva la consuetudine di quella cappella, non ne sentiva né il freddo, né la tetraggine. Fu a un certo punto che si riscosse, parendole di aver inteso un forte rumore nell'appartamento: fu allora che si accorse esser spenta la lampada dinanzi al Cristo e che un brivido di freddo e di spavento la colse, parendole che la madre piangesse sul martirio del Figliuolo sanguinante: rapidamente Bianca Maria uscì dalla cappella, portando seco il libro di pietà, segnandosi frettolosamente, come inseguita da qualche maligno terrore. Nell'anticamera, un servitore vecchio, nella livrea azzurro cupo filettata di bianco, di casa Cavalcanti, leggeva un vecchio giornale, alla luce di uno di quegli antichi lumi di ottone, a tre becchi, che si vedono ancora nelle provincie e nelle case molto aristocratiche. Quando intese il passo lieve di Bianca Maria si levò in piedi, guardandola negli occhi. - Giovanni, - ella disse, con la sua voce pura, armoniosa - nella cappella si è smorzata la lampada innanzi all' all'Ecce Homo. 'antico servitore la guardò, esitando un poco, prima di rispondere: - …non l'ho accesa, - mormorò poi, chinando lo sguardo e tormentando con le mani scarne il giornale. - …non avevate olio, forse? - chiese lei, con un lieve tremito nella voce e voltando in là la pensosa faccia. - No, Eccellenza, no, - rispose subito, premurosamente, il servitore. - La dispensa, anzi, è piena di olio. È stato per un ordine di Sua Eccellenza il marchese, che non ho acceso la lampada… - Egli vi ha ordinato questo? - chiese lei, stupita, marcando le ciglia. - Sì, Eccellenza. - E perché? Ma subito dopo si pentì di questa domanda, in cui le parve menomato il profondo rispetto che doveva a suo padre. Pure, la parola era sfuggita. Avrebbe voluto andar via, per non udire la risposta, qualunque essa fosse: ma temette di far peggio e ascoltò, con gli occhi sbarrati, pronta a dominare la sua anima meravigliata e paurosa. - Il marchese è arrabbiato con Gesù Cristo, - disse il servo, con quel tono umile, ma famigliare con cui il popolo napoletano parla spesso della Divinità. - Sabato scorso egli aveva domandato una grande grazia a quell' Ecce Homo osì miracoloso: ma la grazia non è venuta. E allora il signor marchese non ha voluto che si accendesse più la lampada innanzi alla statua. - Vi ha detto il marchese tutto questo? - chiese lei, come fremendo tutta. - Sì, Eccellenza. Ma se Vostra Eccellenza vuole, io vado ad accendere… - Obbedite al marchese - mormorò ella, freddamente, allontanandosi verso il salone. Mentre si aggirava, solitaria, nell'ampio salone illuminato malamente da un lume a petrolio, cercando il panierino del suo lavoro serale, non trovandolo, passandovi venti volte accanto senza vederlo, ella si pentiva ancora, amaramente, di aver interrogato quel servo: poiché attraverso il sempre crescente decadimento della sua famiglia, quello che più l'amareggiava era quando innanzi ai servi, agli estranei, ella era costretta, dalle loro parole, a giudicare suo padre. Invano ella chiudeva gli occhi per non vedere, passava le sue giornate fra la sua stanza, la cappella e il convento delle Sacramentiste, dove aveva una zia: invano ella taceva, cercando di non udire i discorsi altrui, le esclamazioni di Margherita, la cameriera moglie di Giovanni, le domande inquiete della sua stessa zia monaca, le allusioni di alcuni vecchi parenti che ogni tanto capitavano a trovarla e le parlavano con una pietà che le faceva salire le lacrime agli occhi: il giudizio sopra suo padre ella era costretta a farlo, internamente, chinando gli occhi, mentre i suoi interlocutori crollavano il capo, commiserandola. E quello che più la scuoteva, a traverso le difficoltà finanziarie invano dissimulate, attraverso quella decente miseria che si avviava all'ora in cui avrebbe perduto anche la santità del mistero, erano le improvvise, talvolta feroci, talvolta strazianti bizzarrie di suo padre. Ora, quietata un poco, seduta presso un tavolino quadrato, coperto di panno verde, un tavolino da giuoco dove era posato il solo lume a petrolio del salone, lavorava a un suo finissimo merletto, sul tombolo, agitando con un movimento vivace i leggeri bastoncelli del filo, intorno agli spilli del disegno. Forse avrebbe meglio desiderato chiamare a sé Margherita, la cameriera, a lavorare insieme al rammendo della biancheria di casa, su cui la buona vecchia si acciecava, nella sua stanzetta: ma don Carlo Cavalcanti, marchese di Formosa, era fierissimo e non avrebbe tollerato una serva nel salone, né avrebbe sopportato che sua figlia si piegasse a quegli umili uffici. Avrebbe voluto, Bianca Maria, passare la serata nella propria stanza, leggendo o lavorando: ma il padre voleva trovarla nel salone, ogni sera, quando rientrava. Egli lo chiamava pomposamente il salone, enz'avvertirne la gran nudità, poiché i quattro stretti e lunghi divani di broccatello verde, tutto sciupato e scolorito, le dodici sedie secche e dure di broccatello, messe lungo le muraglie, e le due mensole di finto marmo grigio, e i due tavolini da giuoco, e i piccoli tappetini innanzi a ogni divano e a ogni sedia, perduti in quella vastità, ne accrescevano l'aria deserta. Il lume a petrolio, poi, non arrivava che a rischiarare il tavolino presso cui sedeva la silenziosa Bianca Maria e il tombolo di teletta bruna, su cui si agitavano le sue mani, più candide assai del bianco filo. Ogni tanto, come presa da un pensiero dominante, ella si arrestava, le mani si abbandonavano, come stanche. - Felice notte - disse una forte voce, alle sue spalle. Ella si levò subito, posò il tombolo e, appressandosi al padre, la pensosa faccia della giovinetta aveva uno stiramento. Ella si chinò a baciargli la mano. Il marchese di Formosa accettò l'omaggio, e dopo toccò fugacemente la fronte di sua figlia con la mano, fra la carezza e la benedizione. Ella aspettò un momento, in piedi, che egli si sedesse, per sedere anche lei: ma visto che egli cominciava a passeggiare su e giù per il salone, come aveva l'abitudine di fare, lo interrogò con lo sguardo, chiedendogli il permesso di sedere. Egli annuì con un cenno del capo, continuando la sua passeggiata. Seduta presso il tavolino, ella aveva ripreso il suo lavoro di trina, aspettando di essere interrogata per parlare. Il marchese di Formosa, il cui passo ancora elastico e sonoro empiva di rumore gli echi del nudo salone, era un bellissimo uomo, malgrado i sessant'anni, malgrado i capelli bianchi come la neve. Alto, svelto, più asciutto che magro, tanto la persona come la testa conservavano in quell'età avanzata che era già quasi vecchiaia, una nobiltà, un carattere di forza a cui spesso i subiti rossori del volto davano aria di violenza. Gli occhi bigiastri, il naso forte, i folti mustacchi bianchi e sopratutto l'ampiezza della fronte ispiravano ammirazione e rispetto. Giovane, dicevano, il marchese di Formosa aveva fatto peccare più di una donna della corte di Ferdinando Il di Borbone: dicevano che era stato rivale fortunato presso una dama di Sicilia, finanche dello stesso re, e, nella lotta incruenta della galanteria, aveva vinto il più galante dei ministri borbonici, il don Giovanni di quella generazione, il celebre ministro di polizia marchese Del Carretto. Certo, qualche cosa d'imperioso che era venuto aumentando con l'età, induriva la fisonomia del marchese di Formosa e gli dava, talvolta, un aspetto ripugnante. Ma l'antichità della famiglia che si vanta discendente del grande Guido Cavalcanti, e l'altezza della posizione, e una naturale fierezza d'animo, autorizzavano anche quella imperiosità. Ora, il marchese invecchiava: e spesso lo sguardo scintillante si faceva smorto e l'alta persona, maestosa malgrado la magrezza, si curvava. Pure, imponeva un grande rispetto: e quando lo vedeva apparire, sua figlia, Bianca Maria, aveva come un tremito di venerazione e le fuggivano dalla mente tutti i mali giudizii della gente e suoi su suo padre. - Sei stata al monastero, oggi? - chiese il marchese di Formosa, passando accanto alla figliuola. - Sì, papà. - Sta bene, Maria degli Angioli? - Bene, sta: ma vorrebbe vedervi. - Non ho tempo, ora: ho un grande affare, un grande affare… - disse lui, facendo un gesto largo e vago. Ella tacque, lavorando con grande alacrità, astenendosi dall'interrogare. - Si è assai lagnata di me, Maria degli Angioli? - domandò lui, senza mai cessare la sua concitata passeggiata. - No - diss'ella timidamente - vorrebbe vedervi… ve l'ho detto… - Vedermi, vedermi… per raccontarmi dei guai, per sentire il racconto dei miei guai… bel modo di occupare il tempo. Eppure, se ella volesse, Maria degli Angioli, se volesse… i nostri guai sarebbero finiti. Le mani tremanti di Bianca Maria confusero i bastoncelli dove era avvolto il filo, intorno agli spilli del disegno. - Queste sante donne, - soggiunse lentamente il marchese di Formosa, come se parlasse in sogno, - queste sante donne, che pregano sempre, hanno il cuore puro, sono in grazia del Signore e dei suoi santi, godono grazie speciali, vedono cose che noi poveri peccatori non vediamo… suor Maria degli Angioli potrebbe salvarci se volesse… ma non vuole, non vuole, è troppo santa, non sente più nulla delle cose di questa terra, non le importa se noi soffriamo, o non lo capisce…Non mi ha voluto dir niente, mai, mai… Levato il capo, abbandonate le bianche mani sul merletto, Bianca Maria fissava suo padre con certi occhi pieni di una penosa maraviglia. - Tu non le hai mai chiesto nulla, di', Bianca? - disse lui, fermandosi presso sua figlia. - Che cosa? - chiese ella, smarrita. - Maria degli Angioli ti ama, ti sa infelice, a te avrebbe detto tutto, per aiutarti… perché non le hai domandato nulla? - proseguì, con la voce concitata dove già una tempesta di collera si addensava. - Che le dovevo domandare? - ripetè lei, sempre più smarrita. - Ah, tu fingi di non capire? - gridò lui, già furioso - Tutte così queste donne, tutte una mandra di pecore, o pazze o egoiste. Che state a dire, le ore intiere, tu e tua zia, nel parlatorio del convento? Su quali morti piangete? Pensate ai vivi! Non lo vedete che casa Cavalcanti scende alla miseria, al disonore e alla morte? - Che Dio ci scampi! - mormorò la figliuola, a bassa voce, segnandosi pianamente. - Pazze ed egoiste, le donne! - urlò lui esasperato da quella mancanza di resistenza, da quella dolcezza. - Ed io che penso solo a questo dalla mattina alla sera e che m'inginocchio, ogni sera e ogni mattina, innanzi alle sacre immagini, per ottenere la salvazione dei Cavalcanti! E tu che potresti, domandando a tua zia il segreto delle sue visioni, tu che con una parola sua potresti salvare te e me, e il nome, e tutto, tu fingi di non capire? Ingrate e perfide, le donne!… Ella, abbassato il capo, si mordeva le labbra per non scoppiare in singhiozzi. Poi, con voce tremula, rispose: - Un'altra volta, le domanderò… - Domani - ribattè imperiosamente il padre. - Domani. Subito, lo sdegno di lui cadde, improvvisamente calmato. Avvicinatosi a lei, le toccò fugacemente la fronte china, con quell'atto paterno che gli era consueto, che era metà benedizione, metà carezza. Allora, come se non potesse più resistere, sentendosi struggere il cuore, ella cominciò a lagrimare, in silenzio. - Non piangere, Bianca Maria, - disse lui, quietamente, - non piangere. Io ho buone speranze. Siamo così infelici da tanto tempo, che certo la Provvidenza ci deve preparare una grande gioia. Il tempo, naturalmente, non ci è dato di conoscerlo, ma non deve essere lontano. Se non è una settimana, sarà un'altra. Che sono le ore, e i giorni, e i mesi, di fronte alla grossa fortuna che ci si prepara, nell'ombra? Saremo così ricchi, così ricchi, che tutto questo lungo passato di ristrettezza e di oscurità ci sembrerà un breve sogno di spasimo, un'ora di incubo che la luce del sole ha fatto scomparire. Così ricchi, saremo! E chissà di quale istrumento si servirà la Provvidenza… forse di Maria degli Angioli, che è un'anima buona… tu le domanderai, domani, non è vero? Forse di qualche altro buono spirito, fra i miei amici che vedono forse di me, indegnamente, così peccatore come sono stato e come sono… ma io lo sento, ci salverà la Provvidenza, e per quel mezzo, solo con quel mezzo!… Parlando, aveva ripreso le sue passeggiate su e giù per il salone, dirigendo sempre il suo discorso a sé stesso, come se si fosse abituato a pensare ad alta voce. Solo ogni tanto, a traverso la sua esaltazione, intravvedeva la figura di sua figlia e riprendeva da lei il suo ostinato vaneggiamento intorno a una sola idea: - D'altronde, Bianca, che scampo potremmo avere? Il lavoro? Io sono vecchio e tu sei una fanciulla: i Cavalcanti non hanno mai saputo lavorare, né in gioventù, né in vecchiaia. Gli affari? Siam gente, il cui unico affare è stato di spender generosamente il proprio danaro. Solo una grande fortuna, conquistata in un giorno solo… lo vedrai, l'avremo. La tengo per sicura, mille rivelazioni, mille sogni me lo hanno detto… vedrai. Avrai di nuovo, Bianca Maria, cavalli e carrozze, la victoria er le passeggiate alla riviera di Chiaia, dove riprenderai il tuo posto, la elegante vettura chiusa, per la sera, per andare a San Carlo… vedrai, figlia, vedrai. Ti voglio comperare una collana di perle, otto file di perle legate da un solo zaffiro e un diadema di brillanti, come lo hanno avuto tutte le donne di casa Cavalcanti, fino a tua madre… Egli si arrestò a questa frase, come se una improvvisa emozione lo vincesse; ma la contemplazione del suo sogno di lusso, di fulgore lo distrasse subito. - …ogni giorno corte bandita: penseremo ai poverelli, agli affamati, a quanti mancano di soccorso; le elemosine pioveranno, ci sono tanti sofferenti… ho fatto anche un voto, un voto di dotare delle ragazze povere e oneste… tanti altri voti, ho fatto, per ottenere questa grazia. E tacque, come contemplando nella penombra del salone tutto lo splendido miraggio di fortuna, che la sua fantasia eccitata gli faceva palpitare innanzi agli occhi. La figlia lo ascoltava, rifattasi calma, pensosa: e nel cuore quella voce paterna le risuonava, nei consueti discorsi che gli sgorgavano ogni sera dall'animo troppo caldo, le risuonava con echi angosciosi, come un lento tormento. È vero, ella non credeva a quelle visioni, ma esse le facevano paura, ogni sera sgorganti nella frase impetuosa, talora tenera, talora collerica, di suo padre; né si poteva abituare a quegli sfoghi di passione che facevano trasalire e sussultare la sua anima innamorata di pace e di silenzio. - L'avvocato Marzano - annunziò Giovanni. Entrò un vecchietto piccolo, un po' curvo, con un folto mustacchio sale e pepe, e gli occhi fra arguti e dolci: era vestito di panni assai modesti. Passando accanto a Bianca Maria la salutò piano e con un cenno le chiese permesso di tenere il cappello in capo. E tenne anche il bastone grosso di canna d'India. Dopo aver regolato il suo passo su quello del marchese di Formosa, furono in due ad andare su e giù, parlando a voce bassissima. Quando passava accanto al lume, l'avvocato Marzano, si vedeva che gli occhi gli scintillavano di compiacenza e il grosso mustacchio, un po' militaresco, si agitava, come se egli facesse dei calcoli mentalmente. Ogni tanto, Bianca Maria che s'immergeva sempre più nel suo lavoro di trina, esagerando la sua attenzione, per non ascoltare: ogni tanto, involontariamente udiva qualche frase del gergo cabalistico, pronunziata da suo padre o dall'avvocato Marzano. - La cadenza i sette deve trionfare… - Potremmo anche avere il due di ritorno - La giuocata per situazione troppo forte… - Il bigliettone necessario… Parlavano, fra loro, assorbiti, con certi occhi lampeggianti e smarriti in quelle fantasticherie, che hanno il falso aspetto preciso e affascinante della matematica, quando Giovanni entrò di nuovo ad annunziare: - Il dottore Trifari. Entrò un uomo trentenne, tarchiato, grosso, con una grossa testa, dal collo troppo corto, la faccia rossastra resa ancor più vivida da una barba rossa e riccia con le labbra gonfie, come tumefatte, e gli occhi azzurri a fior di testa: occhi sospettosi, diffidenti, che ispiravano diffidenza. Era vestito ruvidamente, con un goletto stretto che gli segava il collo, con un grosso brillante falso sulla cravatta di raso nero, conservando sempre l'aria del provinciale, che né l'Università di Napoli né la laurea eran giunti a fargli perdere. Appena appena se salutò Bianca Maria: e posato il cappello sopra una mensola, si mise all'altro lato del marchese di Formosa. Camminarono su e giù tutti e tre, più piano. Ogni tanto, il dottor Trifari diceva qualche parola, facendo un atto energico, pur parlando sottovoce: e il suo sguardo obliquo interrogava sospettosamente i suoi interlocutori e le ombre intorno come se ne temesse il tradimento. Il marchese di Formosa conservava la sua ciera vivace di vecchio impetuoso, l'avvocato Marzano ostinatamente e bonariamente rideva dagli occhi furbi e dolci, mentre il dottor Trifari si muoveva con precauzione, pur parlando violentemente, come se temesse sempre un tradimento. Quando i due vecchi levavano un po' la voce, egli subito li reprimeva con un gesto, indicando loro le finestre, le porte: arrivò, a un momento, a indicar loro Bianca Maria: il marchese fece un gesto largo d'indulgenza, come a dire che era una creatura innocente; quando, ancora, Giovanni entrò ad annunziare: - Il professor Colaneri. Immediatamente, vedendolo, si indovinava il prete spretato. Sulle guance sempre rase era cresciuta una folta barba nera: ma i capelli tagliati corti sulla fronte e cresciuti male sulla chierica conservavano una piega ecclesiastica; ma la forma della mano in cui il pollice un po' curvo pareva attaccato all'indice; ma il gesto con cui egli si assoggettava meglio gli occhiali sul naso; ma l'altro gesto involontario con cui si passava due dita nel goletto, come se si allargasse il collarino pretino assente; ma il modo di guardare, facendo cadere lo sguardo dall'alto, era tutto un insieme di linee, di moti, di atti così evidentemente clericali, che si capiva subito il suo carattere. Formosa lo ricevette un po' freddamente, come sempre, quell'apostasia procurando un brivido di repulsione al suo misticismo. Il Colaneri anche parlava con cautela: e oramai, non potendo passeggiare più in quattro senza far udire i loro discorsi, si fermarono in gruppo, nel vano scuro di una finestra. Fu là che li venne a raggiungere Ninetto Costa, un bel giovanotto bruno, elegantissimo, che mostrava i denti bianchissimi in un continuo sorriso ed era uno dei più fortunati agenti di cambio della Borsa di Napoli: e infine un uomo che Giovanni aveva annunziato più sottovoce, solo col nome, sbadatamente, don Crescenzo, un tipo fra l'impiegato e il commesso, che scivolò nel salone con una certa timidità, ma che pure quei signori trattarono da paro a paro. Nel vano della finestra, fra i sei uomini la discussione ferveva, ma il tono della voce non si elevava. Bianca Maria continuava a lavorare, macchinalmente, ma era combattuta da un crudele imbarazzo: non osava andarsene senza il permesso di suo padre e capiva di esser superflua in quel salone. Quei parlari misteriosi, in un gergo che non intendeva e che le sembrava un linguaggio di folli, con quell'eccitamento, con quell'accanimento di tutti, quelle occhiate fra stralunate e torve, quegli sguardi dove si leggeva il sorriso di una pazzia cocciuta, quelle faccie che ora impallidivano, ora arrossivano, quei gesti violenti, concitati, tutto ciò cominciava per turbarla e finiva per ispirarle uno spavento invincibile: suo padre, specialmente suo padre, le pareva perduto in mezzo a tutti quegli esaltati, alcuni freddamente esaltati, alcuni furiosi, ma tutti eccessivamente ostinati: ella lo guardava ogni tanto, disperatamente, come se lo vedesse naufragare e non potesse dare un passo, fare un grido per salvarlo. A un certo punto, lentamente, i sei uomini uscirono da quel vano di finestra, e muti, in fila, uno dopo l'altro, andarono a sedersi intorno all'altro tavolino da giuoco, dove non vi era lume; strinsero le sedie intorno al tavolino, per avvicinarsi anche più, appoggiarono i gomiti sul piano di panno verde e si presero la testa fra le mani, identicamente, tutti sei, nella penombra, cominciando a discorrere, sottovoce, l'uno nella faccia dell'altro, soffiandosi le parole nel viso, guardandosi negli occhi, come se facessero un'opera di magia e di fascino. Bianca Maria non vi resistette. Facendo il minor rumore possibile, avvolse il suo tombolo in una striscia di tela nera, si levò senza muovere la sua sedia per non farla scricchiolare e uscì dalla vasta sala rapidamente, come se temesse che la potessero richiamare, sentendo sempre dietro di sé una impressione di paura, come se qualcuno continuasse a inseguirla. Fu rassicurata un poco solo quando entrò nella sua stanza, una semplice stanza da fanciulla buona e pia, nitida, un po' fredda, piena d'immagini sacre, di rosarii, di cerei pasquali. Lì dentro Margherita, la cameriera, che aveva udito il suo passo, la venne a raggiungere e le chiese, con un umile affetto, se voleva coricarsi: - No, no, - disse la fanciulla, - non ho sonno, aspetterò. Non ho salutato mio padre. - Il marchese farà notte tarda, - mormorò la cameriera, - Vostra Eccellenza si stancherà ad aspettare, qui, sola sola. - Leggerò; voglio aspettare. Ubbidiente, la vecchia cameriera sparve. Bianca Maria prese da una piccola scansia un romanzo religioso di Paolina Craven: Le mot de l'énigme, n libro pio e consolante. Ma la sua mente non poteva esser confortata, quella sera, dalle dolci parole della scrittrice francese; ogni tanto Bianca Maria tendeva l'orecchio, per udire se alcun rumore giungeva dal salone, se gli amici di suo padre se ne andavano o se altri ne giungevano. Niente. Nessun rumore. La gran congiura settimanale cabalistica continuava, soffiava di volto in volto, come se fosse un'opera tremenda di stregoneria; e questa impressione cresceva tanto nell'anima di Bianca Maria, che, ora, lo stesso silenzio la sgomentava. Ella ritentò, due o tre volte, di leggere il dolce libro, ma i suoi occhi si arrestavano, immobili, sulle linee nere stampate, senza più vederle, e il senso delle parole lette a forza le sfuggiva, mentre tutto il suo spirito si tendeva a cogliere i rumori del salone. Silenzio, sempre, come se non vi fosse dentro anima viva. Ella chiuse il libro e chiamò la sua cameriera, non sentendosi di sopportare quella solitudine piena di fantasmi. Margherita accorse subito e aspettò, muta, gli ordini della sua giovane padrona: - Diciamo il rosario, - mormorò costei, sottovoce. Ogni tanto, quando più le ore sembravano lunghe alla solitaria nepote dei Cavalcanti, quando l'insonnia le teneva gli occhi aperti, quando troppo lugubri le si aggravavano le fantasie nella mente, ella amava pregare ad alta voce, con la sua domestica, per ingannare il tempo, la veglia e l'agitazione. Temeva la conversazione dei servi, la evitava per una naturale fierezza, ma il pregare insieme non le pareva che un semplice atto di affettuosa umiltà cristiana. - Diciamo il rosario, - ripetette, sedendosi presso il suo bianco letto di fanciulla. Margherita sedette presso la porta, a una distanza rispettosa. Bianca Maria pronunziava le preghiere preliminari, annunziava il mistero diceva metà del Pater noster; 'altra metà la pronunziava Margherita. Così delle avemmarie, a prima metà la diceva Bianca Maria: l'altra metà spettava a Margherita. Pregavano sommesse: ma l'una distinguendo bene la voce dell'altra, riprendendo sempre a tempo il frammento della preghiera. A ogni diecina di avemmarie o posta el rosario, le due donne si segnavano pianamente: al principio di ogni Gloria Pater hinavano la testa, profondamente, per salutare lo Spirito Santo. Così, fra la mistica attenzione della preghiera e la emozione naturale che le suscitavano quelle consuete ma sempre poetiche orazioni, fra il ronzìo della propria voce e quello della voce di Margherita, la fanciulla dimenticava per un poco il grande dramma paterno che si svolgeva di là. Tutto il rosario fu detto così, lentamente, con la pietà delle anime veramente e ingenuamente credenti. Alle litanie della Vergine, prima di cominciarle, Bianca Maria s'inginocchiò innanzi alla sua sedia, appoggiando i gomiti sulla paglia; nel suo cantuccio s'inginocchiò la cameriera: la fanciulla invocava, in latino, la Vergine, sotto tutte le tenere apostrofi che le dedicarono i suoi devoti, e la cameriera rispondeva l' ora pro nobis. a dal principio delle litanie un rumorìo crescente di voci giungeva dal salone; rumorìo che turbava la preghiera di Bianca Maria, la quale cercava di non udirlo, levando sempre più la sua voce. Ma era impossibile oramai sottrarsi a quel chiasso di voci che diventavano alterate, rabbiose. - Che sarà? - diss'ella, arrestandosi nelle invocazioni alla Madonna. - Niente, - rispose Margherita. - Parlano dei numeri. - Litigano, mi pare… - soggiunse Bianca Maria timidamente. - Sabato sera rifaranno la pace… - mormorò Margherita, con la sua filosofia popolana. - E come? - chiese la fanciulla, lasciandosi trascinare al dialogo. - Perché nessuno di loro vincerà niente. - Preghiamo, - rispose Bianca, levando gli occhi al cielo della stanza, come se cercasse il firmamento stellato. Impossibile, adesso, di finire le litanie. La discussione, in salone, era diventata vivace così, che si udiva tutto; le voci, ora si allontanavano, ora si avvicinavano, come se i cabalisti si fossero nuovamente levati dal tavolino dove si soffiavano in volto le loro congiure e passeggiassero, su e giù, presi da quel bisogno di andare, di andare, avanti, indietro, in giro, in giro, che è di tutte le persone esaltate. - Chiudo la porta? - domandò Margherita. - Chiudete, preghiamo, - disse Bianca Maria, con rassegnazione. Le voci giunsero più fioche; le litanie poterono proseguire sino alla fine, senza interruzione, ma l'anima della fanciulla non apparteneva più alle parole che diceva: ella le pronunziava in preda a una profonda distrazione: la Salve Regina inale che riassume tutte le glorie di Maria fu sbrigata presto, come se il tempo le si affannasse alle spalle. - La Madonna benedica Vostra Eccellenza, - disse Margherita, levandosi, dopo essersi segnata. - Grazie, - rispose semplicemente la giovanetta, sedendosi di nuovo accanto al suo letto, dove passava, meditando o leggendo, tante ore della sua giornata. Margherita, allontanandosi, aveva lasciata la porta aperta. Ora le voci scoppiavano, irose. Gli arrabbiati cabalisti contendevano fra loro, furiosamente, ciascuno vantando a grandi grida i propri studii, le proprie visioni, ciascuno cercando di togliere la parola all'altro, interrompendolo, strillando più forte, essendo a sua volta bruscamente interrotto. - Ah non ci credete, voi, non ci credete alla forza di Cifariello, l ciabattino? - gridava l'avvocato Marzano, col furore intenso delle persone molto dolci, molto bonarie. - Forse perché è un ciabattino? Forse perché scrive le sue cabale con la carbonella, sopra uno sporco pezzetto di carta? Eccole qua, eccole qua; vi è il ventisette che è uscito secondo invece di quarto, ma è uscito! E vi è l'ambo, l'ambo del quattordici e settantanove, che ho avuto la disgrazia di abbandonare, a che è uscito tre settimane dopo che l'ho abbandonato. Son fatti questi, signori miei, fatti e non parole! - Sono le sessanta lire che gli date al mese, perché non faccia più il ciabattino e vi faccia la cabala! - interruppe vivamente il dottor Trifari. - Cifariello un'anima ignorante, innocente: egli mi ha dato il quattordici e settantanove, e io l'ho abbandonato! - Anche padre Illuminato mi ha dato quattordici e settantanove, - ribattè il dottor Trifari, - ma nella settimana buona. - E avete preso? Non avete detto niente agli amici? - domandò, concitato assai, il marchese Formosa. - Niente ho preso! Ho diviso i due numeri, in due biglietti diversi. Non ho capito la fortuna che mi dava padre Illuminato; quello solo li sa i numeri, signori miei, e nessun altro, nessun altro, perdio! Quello tiene in mano la nostra fortuna, il nostro avvenire. È una cosa forte: quando gli tasto il polso per vedere se ha la febbre, io mi sento tremare tutto… - Padre Illuminato è un egoista, - fischiò la voce sarcastica, tagliente del professor Colaneri. - Perché vi ha cacciato di casa sua, un giorno, che volevate a forza i numeri! Egli non dà numeri ai sacerdoti che hanno buttato via la tonaca: è un credente, padre Illuminato… - Io li vedo da me, i numeri! - strillò acutamente il Colaneri. - Mi basta non cenare, la sera, quando vado a letto: e meditare per un'ora, per due ore, prima di dormire: e poi li vedo, capite che li vedo? - Ma poi non escono, non escono! - urlò il marchese di Formosa. - Non escono perché ho la mente ottenebrata dagli interessi umani, perché non so staccarmi completamente dal desiderio di vincere, perché ad avere la visione lucida, bisogna avere l'anima pura, purissima, lasciare ogni torbidezza di passione, elevarsi nel dominio della fede. Ah io li vedo, ma spesso, ma quasi sempre uno spirito maligno ottenebra i miei occhi… - Sentite, sentite, - disse forte Ninetto Costa, l'elegante e ricco agente di cambio, - io ho fatto di più, io ho saputo che una giovane modista che abita al vico Baglivo Uries, aveva reputazione di dare i numeri buoni, i numeri veri: essa, non può giuocarli, come sapete, le è proibito sotto pena di non conoscere più i numeri. Ma li dà! Me le sono messo attorno, con la scusa di un amore improvviso, pazzo, le ho fatto dei regali, la vedo ogni sera e ogni mattina, sono giunto finanche a promettere di sposarla. - E vi ha dato niente? - chiese ansiosamente il marchese di Formosa. - Niente ancora! Evita il discorso, quando io gliene parlo, timidamente. Ma li darà, perdio, se li darà! Oh! come Bianca Maria avrebbe voluto che quel rosario recitato così distrattamente, quella sera, continuasse ancora, per non farle udire quei folli discorsi, di cui non perdeva una parola e che le turbinavano nel cervello, dandole la sensazione di un vortice in cui fosse travolta la sua anima. Come non avrebbe voluto udire gli impeti di quelle menti stralunate, assorbite nella idea fissa! Ora parlava il marchese di Formosa, vibratamente: - Sta bene l'ignoranza sapiente del ciabattino Cifariello, ta bene la santità di padre Illuminato, stanno bene le visioni lucide del nostro amico Colaneri, ma dove è il risultato? Che si vede? Che abbiamo ottenuto? Noi qui ci giuochiamo l'osso del collo, ogni settimana, cavando denari dalle pietre, ognuno di noi, e vincendo, ogni cento anni, la miseria di un piccolo ambo, o la più grande miseria di un numero per estratto. Qui ci vogliono mani più potenti! Qui ci vogliono forze più alte! Qui ci vogliono miracoli, signori miei! Si dovrebbe far decidere mia sorella monaca, Maria degli Angioli, a dare i numeri! Mia figlia dovrebbe farla decidere. Qui ci vorrebbe mia figlia stessa, che è un angelo di virtù, di purezza, di bontà, che chiedesse i numeri all'Ente Supremo! Un profondo silenzio seguì queste parole. Suonò il campanello della porta di entrata. Bianca Maria che, tremando tutta, si era trascinata sin dietro la tenda della sua porta, vide passare ed entrare nel salone un uomo miserabilmente vestito, dall'aspetto ignobile, con le guance smunte, livide, striate di rosso e la barbaccia nera di un convalescente che esce dall'ospedale, un'apparizione penosa e paurosa. All'entrata del bizzarro individuo nel salone, era subentrato il silenzio, come se improvvisamente si fossero placati tutti gli animi, come se una grande misteriosa tranquillità fosse apportata dallo sconosciuto. Bianca Maria, appoggiata allo stipite della sua porta, tendeva l'orecchio, ansimando. Forse i cabalisti erano ritornati al loro tavolino, portandosi seco loro quel nuovo arrivato. Durò a lungo il silenzio. Immobile, quasi rigida, essa si aggrappava al legno della porta, per non cadere: quello che aveva udito era troppo crudelmente doloroso, per non sentirsi spezzar l'anima. La teneva un'umiliazione, un'angoscia senza nome, come se tutta la sua sensibilità non fosse oramai che un dolore solo. Soffriva in tutto, nella fierezza natia, nel suo riserbo di fanciulla offesa dal suo nome buttato così, in una disputa di pazzi, da suo padre: soffriva nella sua tenerezza filiale, per sé e per suo padre, come avrebbe sofferto per ambedue, se egli l'avesse schiaffeggiata in pubblico: l'angoscia le saliva al cervello come se volesse abbruciarlo fra le sue strette roventi. Quanto tempo ella stette così, quanto tempo durò il silenzio, nuovamente, nel salone? Ella non lo avvertì. Solo, nel suo affanno, udì passare dietro la tenda della sua porta e uscire chetamente di casa, come tanti cospiratori, uno ad uno, tutti gli amici di suo padre. Allora, macchinalmente, uscì dalla sua stanza per cercare di lui. Ma il salone era scuro: era scura la piccola stanza da studio dove il marchese di Formosa entrava ogni tanto, a consultare qualche vecchio libro di cabala. Bianca Maria cercava suo padre affannosamente. Alla fine, una luce la guidò. Don Carlo Cavalcanti era entrato nella piccola cappella; aveva ravvivato la lampada innanzi alla Vergine Addolorata; aveva acceso la lampada spenta per suo ordine, innanzi all' Ecce Homo aveva acceso le due candele di cera nei candelabri dell'altare e li aveva trasportati innanzi a Gesù Cristo. Non contento di ciò, aveva anche portato nella piccola cappella il lume a petrolio del salone e in quella grande illuminazione si era prostrato, buttato giù, disperatamente, innanzi al Cristo, e trasalendo, sussultando, singhiozzando, pregando ad alta voce, diceva al Redentore: - Ecce Homo io, perdonatemi, sono un ingrato, sono uno sconoscente, sono un misero peccatore. Ecce Homo perdonatemi, perdonatemi, non mi fate scontare i miei peccati. Fatemi la grazia per quella figlia che languisce, per la mia famiglia che muore! Io sono indegno, ma beneditemi per quella creatura! O Vergine dei Dolori, voi che tutto avete sofferto, capitemi voi, soccorretemi voi! Mandatela voi una visione a suora Maria degli Angioli! O anima santa di Beatrice Cavalcanti, moglie mia benedetta, se io ti ho addolorata, perdonami, perdonami se ti ho abbreviata la vita, fallo per tua figlia, salva la tua famiglia, comparisci a tua figlia, che è innocente, digliele a lei le parole che ci debbono salvare…anima santa, anima santa… La fanciulla, che tutto aveva inteso, fu presa da tale invincibile paura che fuggì, tenendosi la testa fra le mani, con gli occhi chiusi; ma giunta nella sua camera, le parve udire come un profondo, triste sospiro dietro a sé, le parve che una lieve mano le si posasse sulla spalla; e folle di terrore, senza che un grido potesse uscire dal petto, crollò per tutta la sua altezza sul pavimento e giacque come morta.

Il gatto si era levato su, sulle grosse zampe nere, e teneva il capo abbassato. Poi tutte insieme, le tre donne, dopo essersi inchinate tre volte al Gloria patri, issero la Salve Regina. e preghiere erano finite. La fattucchiara prì il cassetto di ferro lavorato, tenendone sollevato il coperchio, in modo da nascondere quello che vi era dentro, e vi frugò con le dita, a lungo. Poi avendone preso certi oggettini, celandoli ancora con la mano, impallidì mortalmente, gli occhi le si stravolsero, come se vedesse un orribile spettacolo. - Madonna mia, assistici, - pronunziò sottovoce Annarella che tremava di paura. Chiarastella, adesso, con un cerino giallastro acceso, aveva fatto bruciare due pastiglie dall'odore bizzarro, pungente e pesante nel medesimo tempo: e intentamente guardava nelle volute, negli anelli di fumo, quasi vi dovesse leggere una parola arcana: due o tre volte gli occhi le si dilatarono, mostrando il bianco striato d'azzurro. Quando il fumo si fu dileguato, restò il profumo acuto e grave: le due sorelle provavano già uno stordimento al cervello, forse per quell'odore. E monotonamente, senza guardarle, Chiarastella domandò: - Sei tu risoluta di far la fattura a tuo marito? - Sì, purché non soffra nella salute, - rispose fiocamente Annarella. - Vuoi legargli le mani, due o tre volte, perché in nessun giorno, in nessun'ora egli possa giuocare al lotto? - Sì, - disse l'altra, con slancio. - Sei in grazia di Dio? - Così spero. - Raccomandati alla Madonna, ma in te stessa. Mentre Annarella levava gli occhi, come per trovare il cielo, la fattucchiara avava dal cassetto di ferro una sottile cordicina nuova: la guardava, questa cordicina, mormorando certi versi curiosi, lunghi e corti, in dialetto napoletano, che invocavano la potenza del cielo, dei suoi santi e insieme di certi spiriti buoni, dai nomi strani: e la cantilena proseguiva, Chiarastella sempre stringendo nella mano la cordicina, sempre guardandola, quasi infondendovi il suo spirito. Anzi, tre volte, vi soffiò sopra: tre volte baciò devotamente la corda. Mentre ella faceva queste operazioni, le sottili mani brune le tremavano: e il gatto andava su e giù sul tavolone, agitato, gonfiando il pelo nero del muso. Annarella, adesso, si pentiva più che mai di esser venuta colà, di aver voluto fare la fattura a suo marito: sarebbe stato meglio, assai meglio, rassegnarsi alla mala sorte, anziché venire a chiamar fuori tutti quegli spiriti, anziché mettere quel gran mistero pauroso nella sua umile vita. Ah se ne pentiva profondamente, col respiro oppresso e la faccia afflitta, desiderando di fuggire di là, subito, di trovarsi lontano, nel suo oscuro basso, ove preferiva soffrire la miseria e il freddo! Era una sua sorella che l'aveva indotta a quel mezzo estremo: l'aveva fatto più per pietà di sua sorella che ella vedeva così malinconica, così desolata, così consumata di dolore, per l'abbandono di Raffaele. Non è bene, no, tentare così la volontà di Dio, con le fatture e con gli scongiuri: già, tanto, nessuna potente fattura avrebbe mai vinto la passione di suo marito. Ella gliela aveva letta, negli occhi inferociti, un giorno di sabato, l'indomabilità di quel vizio; ella lo aveva visto maltrattare i suoi figli, con quella rabbia compressa di chi è capace anche di maggiore brutalità. E quella fattura, vedete, quella fattura così paurosa nei suoi preludii, nella sua composizione, le sembrava un altro passo dato sulla via di una oscura catastrofe. Ora, Chiarastella, il cui viso sembrava assottigliato, la cui pelle bruna luccicava, i cui occhi ardevano, aveva fatto i tre nodi fatali alla cordicina, fermandosi ad ognuno, per dire qualche cosa, sottovoce: e alla fine, d'un colpo, dal seggiolone dove era sempre restata seduta, si era buttata in terra, inginocchioni, col capo abbassato sul petto. Il gatto nero, come furioso, si era buttato anche lui giù e adesso roteava, roteava intorno alla fattucchiara, on quel giro convulso dei felini che stanno per morire. - Madre dei Dolori, non mi abbandonare, - gridò Annarella, fremendo di paura. Ma la fattucchiara, opo essersi segnata, furiosamente, più volte, si alzò e in tono solenne disse alla moglie del giuocatore: - Prendi, prendi, questa è la corda miracolosa che legherà la mente, che legherà le mani di tuo marito, quando Belzebù gli suggerirà di giuocare: credi in Dio, abbi fede in Dio, spera in Dio! Tremando, provando alla bocca dello stomaco il calore delle supreme emozioni, Annarella prese la cordicina della fattura che doveva mettere addosso al marito, senza che costui se ne accorgesse: e ora avrebbe voluto andarsene, fuggire via, sentendo più forte l'afa di quella stanza e il profumo che dava le vertigini al cervello. Ma Carmela, smorta, sconvolta, da quanto aveva visto e da quanto sentiva ribollire nel suo animo, le rivolse uno sguardo supplichevole, per farla aspettare, ancora. Chiarastella aveva già cominciato a fare la fattura, perché Raffaele amasse nuovamente Carmela; aveva chiamata Cleofe, la decrepita serva, e le aveva detto qualche cosa all'orecchio; la serva era uscita ed era rientrata, portando nelle mani un piatto di porcellana bianca, un po' fondo, pieno di acqua chiara; lo aveva portato, tenendolo con precauzione fra le mani, guardando l'acqua, quasi ipnotizzata, per non farne versare una goccia; poi, era scomparsa. Chiarastella, piegata la faccia sul piatto, mormorava parole sue, sull'acqua: poi vi bagnò un dito, lasciando cadere tre goccie sulla fronte di Carmela che, a un suo cenno, si era inclinata innanzi a lei: le tre goccie non si disfecero, la fattura sarebbe riescita. Poi la fattucchiara ccese un candelotto di cera vergine, che le aveva portato Carmela; e mentre borbottava continuamente parole latine e italiane, lo stoppino del candelotto strideva, come se si fosse buttata dell'acqua sulla fiammella: - Hai portato i capelli, tagliati sulla fronte, un venerdì sera, quando la luna cresceva? - domandò Chiarastella, con la sua voce roca, interrompendo le sue preghiere. - Sì, - disse Carmela, traendo un profondo sospiro e consegnando una ciocchetta dei suoi neri capelli alla fattucchiara. al cassetto di ferro Chiarastella aveva cavato fuori un dischetto metallico, di platino, lucido come uno specchio, sulla cui superficie erano incisi certi geroglifici e vi aveva messo la ciocchetta di capelli, elevando tre volte in aria il dischetto, come se ne facesse offerta al cielo. Poi espose la ciocchetta dei capelli neri alla fiammella crepitante del candelotto, un po' in alto: la fiammella si allungò per divorare i capelli, in un minuto secondo, e attraverso il fetido odore dei capelli bruciati, non si vide sul dischetto che un pizzico di cenerina puzzolente. L'incanto procedeva, mentre Chiarastella cantava, sottovoce, il suo grande scongiuro per l'amore: una bizzarra mescolanza di sacro e di profano dal nome di Belfegor a quello di Ariel, da san Raffaele protettore delle fanciulle, a san Pasquale protettore delle donne, un po'in dialetto napoletano, un po'in italiano scorretto. Prese, dopo, una boccettina dal cassetto di ferro lavorato, che conteneva tutti gli ingredienti per le fatture: e versò nell'acqua del piatto tre goccie di un liquore contenuto nella boccetta; l'acqua diventò subito di un bel colore di opale dai riflessi azzurrastri, dove la fattucchiara uardò uardòancora, per leggere in quella nuvola biancastra; la nuvola si avvolgeva: si avvolgeva in spire, in volute, e Chiarastella vi versò il pizzico di cenere dei capelli abbruciati. Man mano, sotto lo sguardo della maga, l'acqua del piatto si chiarì, diventò limpida di nuovo: e allora lei, fattasi consegnare da Carmela una bottiglina di cristallo, nuova, comperata di sabato, di mattina, dopo essersi fatta la comunione, la riempì pian piano di quell'acqua del piatto: il filtro amoroso era fatto. - Tieni, - disse la fattucchiara Carmela, col suo accento solenne della fattura compita, - tieni, conserva gelosamente quest'acqua. Ne farai bere qualche goccia nel vino o nel caffè, a Raffaele: quest'acqua gli infiammerà il sangue, gli brucierà il cervello, gli farà consumare il cuore di amore per te. Credi in Dio; abbi fede in Dio; spera in Dio! - Non è veleno, non è vero? - osò dimandare Carmela. - Bene gli può fare e non male: fida in Dio! - E se continua a disprezzarmi? - Allora vuol dire che ama un'altra: e questa fattura qui non basta. Allora bisognerà che tu sappia chi è questa femmina per cui egli ti tradisce; che mi porti qua un pezzetto della camicia, o della sottana, o della veste di questa femmina, sia lana, sia tela, sia mussolina. Io farò la fattura contro lei: sopra un limone fresco inchioderemo con un grosso chiodo e con tanti spilli il pezzetto della camicia o del vestito: e tu butterai nel pozzo della casa, dove abita questa femmina, questo limone affatturato. Ogni spilla di quelle, figliuola mia, è un dispiacere: e il chiodo è un dolore al cuore, di cui ella non guarirà mai… hai capito? - Va bene, va bene - mormorò Carmela, desolata alla sola idea del tradimento di Raffaele. - Andiamocene, andiamocene, - le disse Annarella che non ne poteva più. - Grazie della carità, sie' hiarastella. hiarastella.- Grazie, - soggiunse anche Anna. - Ringraziate Iddio, ringraziatelo, - esclamò la fattucchiara, saltatamente. saltatamente.E si buttò un'altra volta inginocchioni, pregando fervidamente, mentre il grosso gatto nero miagolava dolcemente, strusciando il muso roseo sulla tavola. Le due donne uscirono, pensose, preoccupate. - Questa fattura non è cosa buona, - disse Annarella, con malinconia, a Carmela. - E allora che si deve fare, che si può fare? - chiese l'altra, torcendosi le mani, con gli occhi pieni di lacrime. - Niente, - disse Annarella, con voce grave. Esse scendevano, lentamente, stanche, abbattute da quella lunga scena di magia, superiore alla loro semplicità intellettuale, accasciate dopo quella tensione di sentimenti. Un uomo ascendeva gli scalini del vicolo Centograde, lestamente, dirigendosi verso la casa della fattucchiara. ra don Pasqualino de Feo, l' assistito. e due femmine non lo videro: andavano, sentendo più grave il peso della loro vita sventurata, temendo di aver oltrepassato i limiti che alle pie creature umane si concede, temendo di aver attirato, sul capo delle persone che amavano, la misteriosa punizione di Dio.

Non osava guardarsi intorno, aveva il capo abbassato sul petto, chiudeva gli occhi, si mordeva le labbra; mentre lui, in preda alla ostinazione della sua follia, guardava fiso la sua figliuola, credendo scorgere in lei quel disordine spirituale, che deve fatalmente accompagnare questi grandi miracoli delle anime. - Che hai? - domandò lui, profondamente, intensamente, quasi volesse strappar dall'anima la verità. - State qui, state qui, - disse ella, battendo i denti dal terrore. - Vedi qualche cosa? - chiese lui, suggestivamente, con una intensità di voce e di volontà che dovea piegare quel fragile involucro femminile, tutto sconquassato dall'urto nervoso. - Ho paura di vedere, ho paura, - ella disse, pianissimamente, appoggiando la fronte sui braccio di suo padre. - Non temete, cara, non temere, - le susurrò lui, teneramente, carezzandole con atto paterno i neri capelli. - Tacete, tacete, - diss'ella, con un tremore acuto. E rimase appoggiata alla sua spalla, nascondendo la faccia, raggricchiandosi tutta. Il marchese passò il braccio alla cintura di sua figlia, per sostenerne il debole corpo convulso: e mentre ella più si nascondeva, attaccata a suo padre, come a una tavola di salvezza, egli sentiva ogni tanto sussultare tutto quel povero corpo di creatura inferma nelle fibre, nei nervi e nel sangue. - Che hai? - egli domandava, allora. - No, no, - faceva ella, più col gesto che con la voce. - Guarda, guarda, non aver paura, - suggeriva l'allucinato. - Tacete, - replicava lei, rabbrividendo. Con pazienza, egli la sosteneva, aspettando, con la ostinazione del folle che attenderebbe ore, giorni, mesi e anni, purché la realtà della sua follia potesse avverarsi. - Figlia mia, figlia mia, - mormorava il marchese, ogni tanto, incoraggiandola teneramente. Ella rispondeva, sospirando: un sospiro che pareva un lamento, che pareva un singhiozzo di fanciullo sofferente. Tenendola appoggiata al suo petto, il marchese di Formosa sentiva la rigidità nervosa di quel povero corpo giovanile e malaticcio, percorso da lunghi fremiti. Quando la fanciulla tremava, tutta, suo padre ne sentiva il contraccolpo e parendogli che la rivelazione così invocata fosse imminente, le diceva un'altra volta, ostinato, spietato: - Che hai? Ella faceva un cenno con la mano, di orrore, come se volesse scacciare un pensiero spaventoso o una spaventosa visione. Che importava a lui lo strazio di quel cuore giovanile, lo squilibrio funesto di quei nervi? Egli in quella stanza glaciale e verginale, in quella penombra dove la lampada accesa innanzi alla Madonna gittava un cerchio di luce sul soffitto, con quel corpo convulso di fanciulla fra le braccia, con quell'anima tremante innanzi ai misteri spirituali, egli sentiva di essere in un momento solenne, in cui ogni circostanza di tempo, di età, scompariva, e lui, Formosa, si trovava finalmente in faccia al grande mistero. Dalla bocca innocente di sua figlia lo avrebbe saputo, il segreto della sua vita, del suo avvenire: le fatali cifre che contenevano la sua fortuna, sarebbero state dette a Bianca Maria dallo spirito, da Bianca Maria a lui. - Bianca, Bianca, prega lui he venga, che ti dica se dobbiamo vivere o morire. Pregalo, Bianca, poiché lui, lo spirito, è una emanazione del Divino, di dirti la divina parola...pregalo, se è qui, presso a te, o in te, se è innanzi ai tuoi occhi o alla tua fantasia, pregalo, Bianca, pregalo, ne va la vita nostra, salvaci, Bianca, salvaci, figlia mia, figlia mia... Continuava a parlare, incoerentemente, invocando la presenza dello spirito, dirigendo a lei, dirigendo a lui le preghiere più impetuose e più dolorose. La fanciulla, trasalendo, rabbrividendo, batteva i denti dal terrore; le mani che teneva strette al collo del padre, come un bambino che soffre, si avvinghiavano a guisa di tenaglia. Non parlava più, adesso: ma si capiva che l'ora, l'ambiente e le parole del padre esaltavano la sua convulsione. Un singhiozzo sommesso le sollevava il petto: e quando non singhiozzava, un piccolo lamento fioco fioco, instancabile, di bambino che agonizza, le usciva dalle labbra. Egli le parlava, sempre: ma quando le sue parole diventavano più incalzanti, quasi colleriche nel loro dolore, egli sentiva le braccia della figliuola torcersi per la disperazione. Poi, a poco a poco, un nuovo fenomeno si era manifestato. Sul principio, le mani e la fronte di Bianca Maria erano gelide, come sempre, poiché l'anemia di cui languiva, le toglieva ogni calore vitale. Anzi, in quella convulsione, egli aveva inteso, il vecchio allucinato, che era agghiacciato tutto il corpo della povera creatura. Ma ad un certo punto, in alcuni intervalli in cui il batter dei denti taceva, in cui le braccia si rilasciavano per un accasciamento, egli sentiva un sottile calore correre sotto la pelle delle mani, un sottile calore salire alla fronte della fanciulla. Pareva una fluida corrente di calore che si diffondesse in tutta la persona giovanile di Bianca Maria: un calore che inondava le vene impoverite di caldo sangue e che crescendo, crescendo, ne rendeva scottante la fronte e le mani. Egli udì che il respiro della fanciulla si facea affannoso e ogni tanto, quasi le mancasse l'aria, un lungo sospiro le sollevava il petto oppresso. Due volte egli fece per riporre il capo sui cuscini del letto, ma ella ebbe un fremito di paura. - Non mi lasciar sola, per amor di Dio, - balbettava, quasi infantilmente. - Non ti lascio: dimmi che cosa vedi, - ripeteva lui, indomito, implacabile. - Oh è orribile, è orribile...- balbettava Bianca, tremando ancora, tremando sempre, come se il suo corpo fosse diventato quello di una vecchia settantenne. - Che, è orribile? Parla, Bianca, raccontami tutto, dimmi che cosa hai visto? - Oh! - faceva lei, lamentandosi, disperandosi. Adesso, cessato il batter dei denti, col respiro corto che parea le uscisse a stento dalla gola, ella ardeva tutta, il suo alito breve bruciava il collo del padre, dove la sua testa si appoggiava. A questo fiato ardente si univa il batter rapido, rapido dei polsi pieni, e il battito rapido e pieno delle tempie. Ma il marchese Cavalcanti, preso intieramente dalla sua follia, nella notte gelida, in quella penombra misteriosa, accanto a quella povera anima addormentata in quell'involucro tormentato, aveva smarrito il senso del reale: e la sua ammalata fantasia assaporava acutamente il dramma di quell'ora, senza intenderne la crudeltà. Egli, anzi, vibrava di gioia, poiché credeva giunto il gran momento della rivelazione dello spirito: la fortuna di casa Cavalcanti, ecco, in quel minuto si decideva. Le ansie, i terrori, le convulsioni, le tronche parole di sua figlia si spiegavano: era l'approssimazione della Grazia. Tanto tempo, tanto tempo era passato nella infelicità e nella miseria: e ora tutto si risolveva: l'indomani, lui e sua figlia sarebbero ricchi a milioni. Oppressa, affannata, Bianca Maria era scivolata dal petto di suo padre sui cuscini e si udiva il sibilo del suo respiro, si vedevano i suoi occhi brillare stranamente. Inchiodato dalla morbosa curiosità, il marchese si tenea ritto presso il letto, spiando, al lume della lampada, ogni gesto, ogni atto della sua figliuola, abbattuta su quel letto di dolore. A un tratto, come per una scossa elettrica, le mani della fanciulla brancicarono convulsivamente la coltre: un grido rauco le uscì dalla strozza. - Che è? - gridò il marchese, scosso anche lui. - È lo spirito, lo spirito, - balbettò lei, con la voce cambiata di tono, profonda, cavernosa. - Dove è? - disse il padre, sottovoce. - Sulla soglia, è là, guardatelo, - disse ella, fermamente, energicamente, sbarrando gli occhi verso la porta. - Non vedo niente, niente, sono un povero peccatore! - gridò disperatamente il marchese Cavalcanti. - Lo spirito è là, - sussurrò lei, quasi che nulla avesse inteso. - Come è vestito? Che fa? Che dice? Bianca, Bianca, pregalo! - È vestito di bianco...non si muove... non dice nulla, - mormorò ella, parlando in sogno. - Pregalo, pregalo che ti parli, tu sei innocente, Bianca! - Non parla... non vuol parlare. - Bianca, scongiuralo, per il nostro Dio, per la sua forza, per la sua potenza Tacquero. Tutta l'intensa attenzione del marchese Cavalcanti era su quella porta, dove solo sua figlia vedeva lo spirito, mentre tutto l'animo di lui era una preghiera. Ella giaceva, sempre più affannata, mentre le ardenti mani sottili stringevano convulsivamente, fra le dita, le pieghe del lenzuolo. - Che dice? - Nulla, dice. - Ma perché non vuol parlare? Che è venuto a fare, se non vuol parlare? - Non mi risponde, - replicò lei, sempre con quella voce, che pareva venisse da una profonda lontananza. - Ma che fa? - Mi guarda... mi guarda fisamente... ha gli occhi così tristi, così tristi... mi guarda con pietà; perché mi guarda così, come se fossi morta? Sono forse morta, io? - Ora andrà via, senz'averti detto niente! - urlò il marchese di Formosa. - Domandagli che numeri escono, domani! La figliuola emise un lamento straziante. - Mi pare che pianga, adesso, quasi che io fossi morta, questo mi pare. Gli scendono le lacrime sulle guancie... - Il pianto, sessantacinque, - disse Formosa a se stesso, come se temesse che qualcuno lo udisse. - Leva la mano, per salutarmi... - Guarda quante dita solleva, guarda bene, non ingannarti! - Tre dita: mi saluta, mi saluta, se ne vuole andare.. - Digli che ritorni, pregalo, pregalo... - Accenna col capo di sì, - riprese, dopo una lieve pausa Bianca Maria, - se ne va, se ne è andato, è scomparso... - Lodiamo Iddio, - gridò Cavalcanti, inginocchiandosi ai piedi del letto. - Tre le dita, inque la mano, essantacinque il pianto, isogna sapere che numero fa la fanciulla morta, ingraziamo il Signore!... - Sì, sì, - mormorò la ragazza, con accento bizzarro, - bisogna che vediate quanto fa la fanciulla morta .. ..bisogna saperlo... - Lo sapremo, lo sapremo, - esclamò Formosa, ridendo come un folle. Non pensava più a sua figlia, la cui febbre era arrivata al più alto grado, con la violenza delle effimere he pare vogliano portare via in ventiquattr'ore un'esistenza. Ella affannava, bevendo l'aria dalla bocca schiusa, simile a un uccelletto che muore: il sangue batteva così precipitosamente alle pareti delle vene che sembrava le spezzasse, e tutto quel fragile corpo abbruciava come un ferro rovente. Invece, il marchese di Formosa era in preda a una impazienza giovanile: due volte era andato alla finestra, per vedere se spuntava il giorno; ancora qualche ora da aspettare, per andare a giuocare il biglietto dello spirito. Pensava di non aver più denaro: come avrebbe giuocato? Non una lira, era una cosa feroce, questa continua sete che nulla arriva a soddisfare! Oh, ma li avrebbe trovati i denari per giuocare, avesse dovuto vendere gli ultimi mobili di casa e mettere in pegno la propria persona; li avrebbe trovati, perdio, ora che la rivelazione era stata fatta, ora che lo spirito assistente si era degnato entrare nella sua casa! La sua fortuna era nelle sue mani, ci avrebbe rimesso tutto, per giuocare tutto sul biglietto dello spirito. Oh! Ecce Homo, Ecce Homo i casa Cavalcanti, eravate stato voi a fare quella grazia, per voi ci voleva una cappella apposta e quattro lampade di argento massiccio, sempre accese, in memoria della grazia che avevate fatto. I denari li avrebbe fatti trovar anche lui, l' Ecce Homo, l buono e potente Ecce Homo, rotettore della casa: i denari, i denari per giuocare! E trascinato dal suo fervido, appassionato pensiero, il marchese Cavalcanti parlava ad alta voce, passandosi la mano nei capelli, gesticolando, dandosi a girare nella stanza, come un pazzo. Sottovoce, poiché le mancava il respiro, Bianca Maria continuava a delirare, con dolcezza, parlando a frasi vaghe, nominando adesso Maria degli Angioli o parlando ogni tanto, con una infinita malinconia, di un fresco e ridente paese di campagna, di un paese verde dove avrebbe voluto andare a vivere, laggiù, lontano, lontano. Ma il vecchio, infuocato dall'attesa, non ascoltava più sua figlia e mentre l'alba fredda di marzo sorgeva, in quella stanza si confondevano i due delirii, del padre e della figliuola, tragicamente. Alla livida e glaciale luce dell'alba, pallido e con gli occhi stralunati, il marchese di Formosa girava con passo vacillante pel suo appartamento, cercando nei cassetti vuoti e sui rari mobili, qualche cosa da vendere o da impegnare. Non trovava nulla e con le mani brancolanti tornava ad aprire i cassetti, battendoli forte, macchinalmente, e si guardava attorno con la follia nello sguardo, pensando di voler vendere o impegnare le nude mura di quella casa che era stata sua. Nulla, nulla! A poco a poco, divorati dal giuoco del lotto, erano scomparsi i gioielli di immenso valore, le pesanti argenterie antiche e moderne, i quadri dei grandi pittori, i libri preziosi, le rarità artistiche di bronzo, d'avorio, di legno scolpito: la casa si era denudata, rimanendovi solo i mobili che sarebbe stato vergognoso voler impegnare o vendere. Ahi, che non trovava nulla per far denaro, per giuocare i numeri dello spirito. Egli si torceva le mani dalla disperazione, mentre aveva lasciata Bianca Maria nel sopore affannoso, febbrile, in cui ancora qualche confusa parola le sfuggiva, mentre i due vecchi servi ancora dormivano. Entrò finanche nella cappella, come un pazzo: ma le lampade che vi ardevano, erano di ottone: ma le frasche, ull'altare, egli stesso le aveva comprate, di metallo in imitazione d'argento, quando aveva venduto quelle di argento vero: pensò per un momento a prendere la coroncina di argento dal capo della Madonna Addolorata e di toglierle dal cuore quelle sette spade d'argento, le piccole spade che raffigurano i dolori della Gran Madre straziata, ma lo trattenne un timore mistico. Uscì, senz'aver potuto neppur dire una preghiera, tanto lo tenea, in quell'alba, l'allucinazione della notte, e la fretta febbrile della mattinata di sabato. Pensava, ora, a chi avesse potuto chieder denaro in prestito: ma non trovava la persona e si stringeva le tempie tumultuose fra le mani, per concentrarsi, per arrivare a ottenere lo scopo. Tutti gli amici del suo ceto, i suoi larghi parenti, dopo la morte di sua moglie, si erano allontanati da lui, ma solo dopo che egli li aveva messi a contribuzione, tutti quanti, per giuocare. Gli amici di adesso? Tutti giuocatori: tutti, in quella mattina, faceano dei tentativi disperati per giuocare ancora, e non prestavano, certo, denaro, ognuno pensava a sé, cercava per sé. Amici nuovi? Quella passione non gliene aveva fatti trovare, fuori di quella morbosa cerchia di pazzi, dannosi come lui. E ci voleva molto denaro, molto, poiché lo spirito si era degnato di rivelarsi: bisognava far fortuna in quel giorno, o mai più. A un tratto, un lampo di luce lo colpì: un nome gli si era affacciato alla mente. Costui gli potea dare del denaro; era un galantuomo, ne avea molto, del denaro, non avrebbe rifiutato un piccolo prestito a un Formosa. E mentre, seduto presso la sua scrivania, sopra un foglietto strappato da un taccuino pieno di cifre, egli scriveva al dottor Antonio Amati, pensava che non era vergogna quel prestito chiesto a un estraneo, poiché egli avrebbe restituito quel denaro la sera istessa. uando ebbe scritto, un pensiero lo fece tremare: e se Amati dicesse di no? Era un indifferente, un estraneo, il denaro indurisce tutti i cuori. - Porta questa lettera al dottor Amati e torna qui - egli disse a Giovanni, che si era presentato, mal desto, al suono del campanello. - Dormirà... - Porta! - comandò Formosa. E si mordeva le labbra, adesso, sicuro che Amati avrebbe rifiutato, sentendo il rossore della vergogna salirgli alle guance. Ma doveva aver denaro, ne doveva avere, a qualunque costo! Buttato sulla poltrona, guardando, senza vederle, le cifre scritte sulle carte disperse sulla scrivania, egli si sentiva vincere da quella collera irrefrenabile della passione, alle prese con la realtà. - Quando si sveglia, darà la risposta, - disse Giovanni, rientrando, e aspettando in silenzio gli ordini del suo padrone. - Giovanni, dammi l'altro denaro che hai, - disse sordamente Formosa. - Non ne ho, Eccellenza... - rispose l'altro, assalito da un tremito. - Non dir bugie: hai altre cinquanta lire, dammele subito... - Eccellenza, le ho prese in prestito da un usuraio, debbo restituirle a tanto la settimana, non me le togliete... - Non me ne importa niente, - disse superbamente Carlo Cavalcanti. - Non me le togliete, Eccellenza, se sapeste a che servono... - Non me ne importa niente, - replicò ferocemente il marchese. - Dammi le cinquanta lire... - Servono per far mangiare la marchesina... - Non me ne importa niente! - urlò Formosa. - Quando è così, ubbidisco, - disse disperatamente il servo. E cavò le altre cinquanta lire; il marchese le afferrò con l'atto di un ladro e se le mise in tasca rapidamente. - Tua moglie anche ha denaro, cercaglielo, - riprese Cavalcanti, freddamente. - Chi glielo ha dato, a mia moglie? - Ne ha: fattelo dare e portalo qui. Risparmiami una scena. Se tua moglie nega, potete andarvene dalla mia casa, subito. - Nossignore, nossignore, Eccellenza: vado subito, - disse umilmente il servo. Ma di là, vi fu la scena. Il dialogo fra marito e moglie fu lungo, agitato, la donna non voleva lasciarsi portar via il denaro: gridava piangeva, singhiozzava. Alla fine vi fu un silenzio: e poi come un lamento. Giovanni rientrò, con la vecchia faccia sconvolta, più curvo, quasi colpito da un tremor paralitico. E deponendo altre cinquanta lire sulla scrivania, in silenzio, con gli occhi rossi delle scarse e brucianti lacrime dei vecchi, egli colpì tanto il marchese, che costui, placato a un tratto, disse bonariamente: - Sono trecento lire, fra ieri sera e stamattina: stasera avrete tutto. - E il pranzo di oggi? - Verrò io, alle quattro, disse vagamente il marchese. - La signorina è ammalata, vorrà un po'di brodo, stamane - mormorò il servo. Allora, cercandosi in tasca, con la smorfia dolorosa dell'avaro, il marchese di Formosa diede tre lire al servo, seguendole con lo sguardo avido. Avevano bussato, Formosa trasalì, era la risposta del dottor Amati: non importa, adesso, se diceva no! Ma come ebbe nelle mani la busta, alla divinazione del tatto comprese che i denari chiesti vi erano, e rosso di gioia, si mise la busta in tasca senz'aprirla. Usciva, adesso, usciva alle otto del mattino, come se lo portasse un soffio irresistibile: usciva senza voltarsi indietro, a guardare la figlia inferma, la sua casa nuda, i suoi servi piangenti che gli avevano dato tutto, il suo vicino a cui egli non aveva pagato le visite e a cui aveva osato chieder del denaro in prestito: usciva, portando seco trecentocinquanta lire, che avrebbe messe tutte sul biglietto dello spirito, mentre aveva lasciato digiuni i due poveri vecchi servi, e aveva lesinato sopra un po'di brodo per Bianca Maria. Niuno lo rivide, in casa, sino al pomeriggio. La fanciulla era restata a letto, vinta dalla febbre, ardendo, respirando faticosamente chiedendo ogni tanto da bere, niente altro. Margherita si era seduta accanto al letto, dicendo mentalmente il rosario, due o tre volte, per lasciar passare le ore: e ogni tanto metteva la mano sulla fronte dell'inferma, sgomentandosi del calore. La malata taceva: dormiva, con la respirazione oppressa. A un tratto, aprendo gli occhi, disse nitidamente a Margherita: - Chiamami il dottore... - Ora non sarà in casa. - Quando ritorna... E richiuse gli occhi. Il dottore non venne che alle quattro e mezzo. Si fermò sulla soglia della cameretta, odorando l'aria di febbre. - Potevate chiamarmi prima, - disse ruvidamente a Margherita. - Oh Vostra Eccellenza, se potessi dirvi. Egli le ordinò di tacere. La malata lo guardava coi suoi belli e dolci occhi, sbarrati, e gli tendeva la mano. E il forte uomo, dalla testa poderosa, dalla faccia genialmente brutta, prese, innanzi a quella fragile creatura, quella profonda aria di tenerezza che gli sgorgava spontanea dal cuore. Il medico sentì subito che quella febbre sarebbe finita: già decadeva, con la rapidità delle effimere: ma a lui restava confitta in cuore la spina di quella povera esistenza, traballante fra la vita e la morte, vinta da un morbo di cui egli non trovava le cause. - Ora vi ordino una medicina, - disse lui, dolcemente, alla malata, tenendone la mano fra le sue. - No - disse lei, piano. - Non la volete? - Ascoltate, - disse lei, attirandolo a sé, per farsi udir meglio. - Portatemi via. Tremava, dicendo questo. Antonio, improvvisamente pallido, colpito da una emozione indicibile, non potette neppure risponderle. - Portatemi via, - soggiunse ella, umilmente, come se lo supplicasse. - Sì, cara, cara, - balbettò lui. - Dove voi volete, subito... - In campagna, lontano, - sussurrò la poveretta, - dove non si vedono fantasmi, nella febbre, dove non ci sono ombre, né spettri paurosi... - Che dite? - disse lui, sorpreso. - Niente, portatemi via... in campagna, fra il verde, nella pace, con vostra madre... innanzi a Dio. - Oh cara, cara... - non seppe dire altro, il grande uomo, nel turbamento supremo, nella suprema dolcezza di quell'idillio. - Lontano... - mormorò, ancora ella, guardandolo coi grandi occhi buoni. E soli, dolcissimamente, castamente, senza parlarne, parlavano d'amore.

Era una comitiva simile alla prima, di quattro giovanotti coi calzoni chiari e stretti al ginocchio, con la giacchetta nera attillata e il cappelletto abbassato sull'orecchio. Quello che conduceva la comitiva, Carmela lo riconobbe, Ferdinando l' ammartenato, disse qualche cosa al cocchiere, pagandolo, e il cocchiere ascoltò, abbassando il capo; si allontanò lentamente, per la via donde era venuto, senza voltarsi. Le due comitive, guardandosi in faccia, seriamente, si salutarono con molta correttezza; e mentre Raffaele e i suoi continuavano a mangiare tranquillamente, quegli altri quattro si levavano i cappelletti e li appiccavano ai rami nudi degli alberi. Per loro i maccheroni furono serviti assai più rapidamente, poiché l'oste aveva fatto buttar nell'acqua bollente, quanti ne servivano per le due comitive: tanto che, a un certo punto, rallentando di mangiare la comitiva di Raffaele, e affrettando i bocconi quella di Ferdinando, si trovarono all'istesso punto: andarono procedendo di conserva, divorando a due ganasce le costolette di maiale e le foglie della lattuga in insalata, bevendo dei bicchieri di vino, uno dopo l'altro, come se fosse acqua. Quando bevevano, ogni tanto, le due tavole scambiavano qualche occhiata lunga ma improntata d'indifferenza. Malgrado il molto vino tracannato, tutti quanti pareva che conservassero la massima freddezza e qualcuno, talvolta, si arrovesciava sulla sedia, con un'aria di perfetta disinvoltura. Eppure tutta quella scioltezza, tutta quella spensieratezza, eguale nelle due tavolate. bizzarramente eguale, quasi che le due compagnie ubbidissero a un tacito accordo, mancava affatto di quella lietezza naturale alle scampagnate napoletane, dove le risate, le grida e le canzoni salgono al cielo, in un coro che non finisce mai. Ogni tanto, i giovanotti che circondavano Raffaele detto u farfariello, i piegavano verso di lui ed egli sorrideva alteramente: era l'unico segno di allegrezza di quella brigata; e alla tavolata di Ferdinando l' ammartenato on sorridevano neppure, buttavano giù i bicchieri di vino, sempre, senza perdere una linea della loro serietà. Di lassù, Carmela guardava: e i sorrisi del suo innamorato, e i bicchieri di vino tracannati dalle due brigate, e quella scioltezza pacifica non l'affidavano. Fra le altre cose, ella vedeva gli atti della conversazione, ma non udiva le parole; e le sembrava che un silenzio profondo regnasse fra tutta quella gente che s'intendeva a segni, un silenzio lugubre, oramai, nella gran pace della campagna. Una lenta ma sempre crescente angoscia le opprimeva il respiro, come se il cuore si fosse ristretto e non palpitasse che ad intervalli: ogni volontà, in lei, era vinta. Ella restava appoggiata, con la fronte al vetro impolverato della finestra, irrigidita, coi grandi occhi dolorosi fissi sul volto di Raffaele, quasi che vi volesse leggere quello che la mente di lui pensava. Adesso l'oste e il suo ragazzetto avevano portato le frutta, cioè le castagne secche bianche e un fascio di finocchi, dal torsolo bianco, dalle lunghe e sottilissime foglie verdi: insieme, altro vino. Poi, a un tratto, dopo aver udito qualche cosa all'orecchio, dal padre, il ragazzetto si tolse il grembiule bianco, si mise il berretto sulla testa e si allontanò correndo, per la via dei Ponti Rossi. E come la fine del pranzo si approssimava, Carmela sentiva vacillare la sua ragione, ella vedeva salire e crescere nell'anima sua un solo desiderio, quello di scendere di lì, di prendere pel braccio Raffaele e di portarselo via, con sé, lontano, dove non lo raggiungessero né camorristi né guappi. on osava. Da un mese Raffaele, già freddo, seccatissimo di lei, la fuggiva così ostinatamente, che ella arrivava nei posti ove egli era stato, sempre dieci minuti dopo: le aveva anche fatto sapere, che tanto, era inutile, che egli non voleva più saperne di lei. - Almeno mi dicesse lui, il perché, e mi contento, e me ne vado, - esclamava lei, piangendo, verso coloro che le riferivano le parole di Raffaele. Ma da un mese ella non lo aveva visto: e se aveva saputo che in quel giorno, due compagnie di guappi ovevano andare a un misterioso appuntamento, all'osteria di Babbasone i Ponti Rossi, era stata una indiscrezione, strappata a forza, a un padrino di Raffaele: e costui glielo aveva detto, guardandola negli occhi, con una intenzione segreta che ella dovette indovinare, perché lo lasciò subito e a piedi, dalla sua casa dei quartieri bassi, si era recata lassù, ansando, dolorando, mordendosi le labbra, per non gridare e per non piangere. Non osava scendere: capiva che Raffaele l'avrebbe vilipesa e scacciata, come aveva fatto sempre, villanamente, negli ultimi tempi: tremava di quella voce irata, di quelle parole di disprezzo. Adesso il pranzo finiva assai tranquillamente e già le due brigate fumavano i loro sigari, guardando in aria, con la seria beatitudine di chi ha bene pranzato e di chi si prepara a ben digerire; e in certi momenti era tanta la pace che trapelava da tutte le cose intorno, e tanta la tranquillità di tutti quei giovanotti, che Carmela, per un istante, sentiva addormentarsi la sua angoscia, sperando che tutto fosse un tragico sogno. Solo un istante, per poi ricadere di nuovo, più profondamente, in un abisso di dolore, in cui i minuti avevano una pesantezza drammatica. La tavolata di Ferdinando l' ammartenato i levò; e i quattro giovanotti, col movimento solito dei guappi i tiravano su i calzoni, stringendone le cinghie, si tiravano su le giacche, si mettevano i cappelletti, con un gesto altero, di traverso sul capo. Se ne andavano: passando accanto alla tavolata di Raffaele, seriamente si toccavano tutti il cappello con la mano, e gli altri risposero, con un lieve cenno del capo, dicendo tutti una parola che Carmela non potette udire e che era: - Salute. Se ne andavano: ella ebbe un respiro di sollievo. Ma invece di voltare per i Ponti Rossi, donde erano venuti e dove, forse, la carrozza li aspettava, Carmela li vide girare intorno alla casa, e a uno a uno, - ella era corsa all'altra finestra che dava sull'orto dell'osteria e sui campi, - ella li vide sparire, dietro una cortina verde di alberi. Affannata, di nuovo, era corsa alla finestra che dava sul piazzale dell'osteria, e dove la comitiva di Raffaele, o farfariello si apprestava anche a partire. Tutto era salvo, se costoro prendevano la via di Capodimonte, donde erano venuti: volea dire che quelli erano stati veramente due pranzi, niente altro, con nessuna premeditazione, con nessuna conseguenza. I preparativi erano alquanto lenti, ma a un motto di Raffaele tutti si affrettarono, mentre costui, col sigaro smorzato in un angolo della bocca, pagava il conto all'oste, quietamente. E si levò, tendendo le braccia a prendere il cappello sospeso a un ramo d'albero: mentre faceva quel gesto, il panciotto si sollevò un poco e Carmela vide luccicare qualche cosa, alla cinghia che faceva da cintura: era il calcio della rivoltella. Pure, per un ultimo minuto, sperò ancora. Forse se ne andava, pacificamente, per le quiete vie campestri, alla città rumorosa; tanto, Raffaele la portava sempre, la rivoltella di corta misura! Ma l'orribile fatto che temeva, in un secondo, le apparve come una realtà: pian piano, Raffaele e gli altri tre giovanotti voltarono, non per la via di Capodimonte, ma dietro l'osteria per l'orto, e per i campi, seguendo la stessa strada dell'altra comitiva, raggiungendola, cioè camminando pacatamente, col loro passo elastico, uno dietro l'altro. Ah ella non potette più durare, sentendo lacerarsi qualche cosa dentro; corse alla porta della dispensa, la trovò chiusa, l'oste l'aveva serrata dentro! Ella, furiosa, cieca di dolore e di collera, cominciò a scuotere con le mani quella porta che era vecchia e tarlata e che le oppose poca resistenza: il paletto che l'oste aveva tirato si schiantò alle scosse, ella per poco non precipitò sul pianerottolo, per l'urto. A dirupo discese la scala esterna, ma sull'ultimo scalino trovò l'oste, che aveva udito tutto quel rumore e che era pallido nel suo volto raggrinzito di contadino. Costui le sbarrò il passo: - Dove andate? - Lasciatemi! - Dove andate? Siete pazza? - Lasciatemi Egli le aveva afferrati i polsi e la guardava negli occhi: - Siete voi la femmina per cui si vonno ammazzare, eh? - Madonna, assistimi! Lasciatemi! - Vi volete fare uccidere? - Sì, sì, lasciatemi! - Volete che vi uccidano! - Non importa! - gridò lei, svincolandosi con una strappata possente. E correndo, affannando, singhiozzando, coi capelli disciolti sulla nuca che le sferzavano il collo, con la veste che le sbatteva intorno alle gambe, inciampando, rialzandosi, piangendo, empiendo quella serenità silenziosa campestre della sua disperazione, ella corse dietro alle due comitive, per la stessa via, voltando dietro la stessa collina di alberi verdi trovandosi in una stretta via di campagna, seguendola per istinto, comprendendo che quella era da seguirsi. Andava, andava, velocissimamente, scoppiando di singulti, tendendo l'orecchio, interrogando il silenzio. Ma a dritta, un rumore secco e stridulo la fece sussultare; e subito dopo un colpo di rivoltella si udì, seguito da altri. Ella si buttò nel campo dove le due schiere dei popolani duellatori. continuavano a tirarsi dei colpi, a poca distanza. Buttandosi addosso a Raffaele, ella urlò disperatamente. - Vattene, - disse lui, cercando di sciogliersi. - No, - urlò lei. - Vattene! - No. - Non è per te, vattene! - Non importa! Questo, in un minuto secondo: i colpi continuavano ancora, ripercuotendosi lugubremente nella campagna. In un intervallo, ella scivolò lentamente, per terra, con le braccia aperte, con una palla nella tempia. La caduta di Carmela fu il segnale della fuga: tanto più che, violato brutalmente il gran silenzio verginale della campagna dai molti colpi di rivoltella, si udiva adesso arrivar gente dal villagio di Capodimonte, dalla via dei Ponti Rossi. Precipitosamente, le due schiere si dettero, a traverso i campi, per vie non tracciate e sparvero subito; sul campo del dichiaramento on restò, per terra, versando un rivolo di sangue dalla tempia, che Carmela. Accanto a lei, Raffaele, un po' pallido, cercava stagnare la ferita, applicandovi un fazzoletto bagnato; ma il sangue continuava a sgorgare, come da una fontanella, gorgogliando, facendo una rossa macchia intorno al capo della fanciulla. Ella aprì gli occhi e chiese, fiocamente: - Dimmi per chi è stato. - Non ci pensare, pensa alla salute, - disse lui, agitato, guardandosi intorno. - Adesso viene gente: scappa, - diss'ella, intendendo, pensando solo alla salvazione di lui. - Ti lascio così?… - Non importa, qualcuno mi aiuterà. Scappa, o ti arrestano. - Addio, - disse lui, sollevato. - Ci vediamo all'ospedale dei Pellegrini: ti vengo a trovare. - Sì, sì, - mormorò lei, chiudendo gli occhi e riaprendoli. - Scappa: addio. Anch'egli fuggì, lestissimamente, senza voltarsi indietro; ella lo seguì con lo sguardo, mentre, sollevata a metà, si appoggiava il fazzoletto alla tempia e il sangue seguitava a colare nel collo, sulla spalla, in grembo. Era sola. Abbassava la testa, in una debolezza infinita; e quando arrivarono contemporaneamente dei contadini, il delegato di Capodimonte, due guardie, un carabiniere e un ortolano del Real Palazzo, dovettero sollevarla sopra una sedia, che l'oste Babbasone veva portata, là. Andavano lentamente, per la stessa via per cui ella era venuta, mentre ella giaceva, con le gambe battenti ai piuoli, con le braccia prosciolte, e il capo che le batteva qua e là, a ogni scossa della seggiola, versando larghe stille di sangue sul terreno. Innanzi alla osteria, dove ancora le due tavole erano coperte dalle tovaglie chiazzate di vino, la sedia fu posata: - Volete qualche cosa? - domandò il delegato, un uomo tarchiato e bruno. - Un poco d'acqua, per bere, - ella disse, schiudendo gli occhi lentamente, come se anche le palpebre le pesassero. Intanto, mentre si cercava una carrozza per trasportarla all'ospedale dei Pellegrini, le applicavano delle pezze bagnate nell'acqua fredda, sulla ferita. - Come state? - domandò il delegato, che voleva procedere all'interrogatorio, vedendo che le forze le mancavano. - Meglio: non è niente. - Chi vi ha fatto questo? - Nessuno, - diss'ella, quietamente. - Chi vi ha fatto questo? Ditelo, tanto lo sapremo lo stesso, - insistette il delegato. - Nessuno, - mormorò Carmela. - Era un dichiaramento, h? Quanti erano? - chiese con forza il delegato, il cui cuore era indurito, ormai. - Non lo so. - Quanti erano? - Non so niente. - Badate che, dopo, vi fo metter dentro! - Non importa, - ella disse, chiudendo gli occhi. - Era per voi, eh, che si sono tirati questi colpi di rivoltella? Per causa vostra? - No, no, - disse ella, dolorando nel volto improvvisamente. - E per chi era? - Non lo so: non so niente, - ella soggiunse, definitivamente, come se non volesse rispondere più altro. Il delegato si strinse nelle spalle, furioso. Ma un altro interlocutore giunse, dalla via dei Ponti Rossi: una donna dal vestito di lana verde tutto orlato color di rosa e dalla baschina di lanetta color granata, dai capelli neri lucidi tirati su, su, e dalle guance cariche di rossetto: era Maddalena, la disgraziata sorella di Carmela. Ella giungeva, affannata, con la fisonomia stravolta, con la pettinessa d'argento che non le reggeva più il cumulo dei neri capelli, con le scarpette di copale tutte impolverate, con un fazzoletto appoggiato alla bocca per reprimere i singulti: e quando vide folla intorno a una persona ferita, si buttò nel gruppo, disperatamente, gridando, scostando le persone, gittandosi alle ginocchia di sua sorella, avendo in quel gesto tutto l'abbandono di un dolore immenso, strillando: - Sorella mia, sorella mia, e come è stato? L'altra aprì gli occhi e mostrò sulla faccia un senso di doloroso stupore: con le deboli mani cercava carezzare i capelli neri di Maddalena, ma le dita livide tremavano: - Come è stato, sorella mia! - esclamava singhiozzando clamorosamente Maddalena, mentre calde lacrime le rigavano le guance e le disfacevano il rossetto. - Così, è stato, - disse Carmela, senz'altro. - Sorella mia, e chi ha avuto il coraggio di farti questo, chi è stato l'assassino, dove sta, dove sta, portatemelo avanti?! - gridava Maddalena. - Cercate di sapere la verità, - sussurrò all'orecchio della mala donna il delegato. E fece cenno agli altri di scostarsi un poco, di lasciare le due sorelle, sole. Ora avevano fasciata la testa della fanciulla, rozzamente, e sotto quella benda il viso sembrava più minuto, più consunto, affilato da una mano diminuitrice. - Sorella mia bella, sorella mia cara, - piangeva Maddalena, sempre inginocchiata, innanzi a Carmela. - Non piangere: perché piangi? - diceva la ferita, con una voce singolare, grave, profonda. - Dimmi chi è stato, - le chiese Maddalena. - È stato per Raffaele, non è vero? Ci è stata una rissa? Ah io lo sapeva, io lo sapeva, e non sono arrivata a tempo! Eh Madonna, Madonna, che non mi hai fatto arrivare a tempo! E debbo per questo vedere una sorella così ridotta! Un lividore si era cosparso sulla faccia della ferita, udendo queste parole, e gli occhi si erano sbarrati. Con un forte sforzo levò un po' la testa e disse a Maddalena, guardandola: - Dimmi la verità… - Che vuoi, core della sorella? - Voglio che mi dici… ma pensa come mi vedi, prima, pensaci… voglio che mi dici tutto… Allora l'altra, caduta in una nuova afflizione, tremò tutta: e tacque. - Hanno fatto un dichiaramento, - pronunziò a stento Carmela, tenendo gli occhi intenti in sua sorella. - Erano otto, erano: e ci stava Raffaele, ci stava Ferdinando l' ammartenato: l'hanno fatto per una femmina… - Madonna mia, Madonna, - seguitava a piangere Maddalena, con la faccia fra le mani. - Chi è questa femmina? - disse la ferita, mettendo le mani sul capo della sorella e quasi forzandola a levare il volto. Quella non fece che guardarla, con gli occhi pieni di lacrime. - Sei tu, sei tu? - disse con voce cavernosa la ferita. E la mala donna si ributtò indietro, levò le braccia al cielo e gridò: - Sono un'assassina, sono un'assassina! Il volto di Carmela si fece terreo; sottovoce, borbottando, come se più la lingua non l'aiutasse, diceva anche lei: - Assassina, assassina. - Hai ragione, hai ragione, sorella mia, sono una infame! - gridava Maddalena, torcendosi le braccia. Subito dopo, tutta la benda da cui era circondata la testa della ferita s'intrise di sangue, largamente: e cominciò a gocciolare sangue dal naso. Il delegato che era accorso, aggrottò le sopracciglia: e fece cenno alla carrozza, che si avanzava per trasportare la ferita all'ospedale dei Pellegrini, di fermarsi. - Sorella mia, perdonami, sorella mia cara, - piangeva Maddalena, stramazzata ai piedi della sedia. Ma quella non udiva più. Le rigava la bocca il sangue che le colava continuamente dal naso, e cadeva sul petto - e il terreo pallore del viso si allargava al collo; gli occhi socchiusi mostravano solamente il bianco, le mani appoggiate sulle ginocchia, raspavano la misera lanetta scura del vestito, come se cercassero, con quel gesto che fa una straziante impressione di terrore e di pietà. A un tratto schiuse la bocca, mancandole il respiro. - Sora mia, sora mia! - gridò Maddalena, comprendendo, levandosi sulle ginocchia, anelando. Ma dalla bocca, violetta già, uscì un altissimo e lunghissimo grido, profondo come strappato dalle viscere, straziante, doloroso come se in esso si unissero tutti i clamori di dolore di una vita, un grido così forte e lugubre che tutto parve si scotesse, intorno, uomini e cose, e che la campagna si scolorisse. La mano destra di Carmela, vagamente, cercò ancora qualche cosa e finì per trovare la testa di Maddalena, su cui si posò, su cui si raffreddò, su cui si gelò. Gelida era la fisonomia della morta: ma oramai tranquilla: e silenziosamente curva, sotto quella mano perdonante, la superstite: e tranquilla, silenziosa, la campagna, intorno.

Luisella Fragalà andava e veniva, da un balcone all'altro, col cappuccio abbassato, cercando invano un posticino per la famiglia Mayer che si era presentata senza essere invitata, e che tutte respingevano silenziosamente, per non lasciar prendere il proprio posto, dicendo fra loro che la madre e la ragazza non avevano il domino e che stonavano, ul balcone. Si posero in terza linea, la madre sempre reumatizzata e imbottita di flanella sino alla punta delle dita, la ragazza co' suoi grossi occhi sempre opacamente malinconici e le tumide labbra che si gonfiavano di una continua, repressa tristezza, il fratello sempre prodigiosamente affamato. - Non avremo neanche una bomboniera, - mormoravano volta a volta, per turno, borbottando nella loro perenne rabbia contro l'umanità. Ma la gran fluttuazione carnevalesca, il cui chiasso aumentava sempre, ravvolse anche questa misantropia; ora il vocìo si faceva immenso fra le carrozze da cui era cominciata la battaglia dei coriandoli, fra i piccoli carri, addobbati alla meglio, adorni di mortella, e pieni di mascherotti femminili e maschili, vestiti di teletta colorata. La casa Parascandolo, all'altro lato del palazzo Rossi, aveva tenuto chiusi i suoi balconi, la signora si considerava in lutto: ma don Gennaro Parascandolo in spolverina di tela russa, in berretto di tela e con la borsa delle bomboniere a tracollo, dopo aver fatto una passeggiata a piedi, per Toledo, chiamato da cento balconi, dove erano i suoi clienti passati, presenti e futuri, era salito al suo circolo, a Santa Brigida e di là, fra un gruppo di giovanotti buontemponi e di buontemponi attempati, faceva la vita, nche lui: si diceva così allora. Attorno a lui, scherzando, gli domandavano per quanti carri aveva prestato denaro e se era vero, che per quel carnevale, la sua collezione di cambiali si era aumentata di preziosi autografi principeschi. Ninetto Costa, l'elegante e fortunato agente di cambio, che aveva delle ragioni per carezzarlo, gli diceva, in forma di adulazione, che non un pugno di coriandoli si gettava in quel giorno, di cui egli non avesse interesse nella provenienza o nella dispersione: e don Gennaro Parascandolo rideva paternamente, non negando, rispondendo a quelli che gli chiedevano quattrini, per burla: - Mi son fatto prestare mille lire, per far carnevale, da un mio amico… Gli altri, intorno, urlavano, fischiavano, ma sempre adulandolo: non si sa mai, gli si poteva capitar nelle mani: e lui emergeva fra tutti, con la sua alta statura e il picciol berretto assai bizzarramente piantato sulla grossa testa, dando forti mestolate di coriandoli contro le carrozze e contro i piccoli carri. Sciatta, col suo vestito nero, la cui tinta era adesso diventata verdastra e lo scialletto la cui frangia si era tutta sfilacciata, Carmela, la sigaraia, si era appostata all'angolo del vicolo D'Afflitto, guardando le carrozzelle e i carri che passavano, coi suoi occhioni bistrati, con una mossa impaziente della bella bocca fresca, l'unico lineamento, ancora giovanilmente fresco nel volto consumato. Dai balconi, dalla via volavano le mestolate, le manate di coriandoli, che spesso la colpivano nella persona o nella faccia, ma ella faceva solo un picciol moto per pararsi, sorrideva al fastidio, e si ripuliva la faccia con un angolo dello scialle. Aspettava, lì, a veder passare il suo eterno fidanzato Raffaele detto Farfariello, he era in carrozza, con quattro altri compagni, con vestiti e cappelli eguali, ché anzi, per aver questo vestito, ella aveva dovuto rivendere certe casseruole di rame, un cassettone e due rami lunghi di fiori artificiali sotto campana, roba tutta che ella conservava per il suo matrimonio. Come le si era straziata l'anima a vendere quella roba, comperata pezzo a pezzo, a furia di stenti! Ma Raffaele le aveva volute, a forza, quaranta lire - sangue di una lumaca! - perché si disperava di far cattiva figura con i compagni ed ella, che impallidiva quando lo udiva bestemmiare, aveva venduto quegli oggetti, all'impazzata, contenta in fondo, quando gli aveva consegnata la somma, poiché egli aveva sorriso e le aveva promesso di portarla al Campo, lei e sua madre, l'ultima domenica di carnevale, in una osteria, se pigliava un ambo asciutto il sabato: ella, tutta gloriosa di questa fantastica promessa, aveva rinchiuso nel core la sua amarezza ed era andata, in quel giorno di festa carnevalesca, sciattata come una poveraccia, col treccione nero che si disfaceva sul collo, senza un soldo in tasca, a veder passare il suo bell'innamorato, altieramente in carrozza, fumando un napoletano, ol vestito e col cappelletto nuovo sull'orecchio, con l'aria di superba indifferenza che è la caratteristica del guappo, dell'aspirante guappo. azientemente ella aspettava, non pensando che a lui, senza curarsi della sua giornata, poiché alla fabbrica del tabacco avevano fatto vacanza: pazientemente ella sopportava tutto l'urto di quel pomeriggio carnevalesco, a cui non prendeva parte, poiché ella era assorta nella buddistica aspettazione dell'amor suo. Ma la gente, a piedi, in carrozza, passava, passava attraverso il gran velo dei coriandoli, delle bomboniere, dei fiori che volavano, attraverso la pioggia di mille cartine colorate, piovute dai terzi e dai quarti piani, che, esclusi dalla battaglia dei coriandoli, si divertivano così, solitariamente: e il vocìo diventato clamore ondeggiava sonoramente, saliva al cielo di quella dolce giornata sciroccale. Carmela, stordita dal rumore e dalla fantasmagoria di quel pomeriggio, in cui l'allegrezza napoletana prendeva proporzioni epiche, aguzzava gli occhi, per non perdere di vista le carrozze a due cavalli, che procedevano al passo, tutte bianche di gesso. Ogni tanto, uno dei grandi carri appariva: era la Sirena Partenopea, na immensa donna rosea, dalla criniera bionda, dalle gigantesche forme di cartone colorato, il cui corpo finiva nelle onde azzurre, una Sirena che si trascinava dietro un carro pieno di uomini travestiti da aragoste, da ostriche, da carpioni, da cefali: era un carro che figurava una gran Tartana ercantile, una nave con la sua attrezzatura e i suoi marinai vestiti di teletta a righe bianche e rosse, a righe azzurre e bianche, col berretto rosso, lungo: era un carro che figurava, intorno a un gran ceppo di fiori, otto o dieci Boîtes-à-surprise donde scattavano dei gentiluomini vestiti di raso; era un carro dove s'eran raccolte tutte le maschere napoletane, il Pulcinella, il Tartaglia, il don Nicola, Columbrina, il buffo Barilotto, il Guappo, la Vecchia, e finanche la più moderna maschera dei giovanotto lezioso e pretenzioso, il don Felice Sciosciammoca. Quando questi carri passavano, lentissimamente, quasi traballando sulle ruote, facendo piover coriandoli, confetti, bomboniere, scoppiavano gli applausi: la Sirena uscitava scherzi e facezie un po' salate, la Tartana areva pittoresca, le Boîtes-à-surprise avevano un successo di lusso e di eleganza, le maschere napoletane suscitavano dei gridi di riconoscimento, dei dialoghi rapidi, volanti, in dialetto, delle esclamazioni da tutti i balconi, a cui quelle maschere rispondevano vivacemente: e da un capo all'altro di Toledo era un movimento solo, di ondeggiamento sui balconi, di fluttuazione nella folla della strada, intorno ai carri e alle carrozze. Carmela guardava, guardava. Vide passare in una carrozza dai cavalli tutti infiorati e scintillanti di ottone nei finimenti, le due sorelle, donna Concetta, quella che imprestava denari con l'interesse e a cui ella stessa doveva trentaquattro lire, da tanto tempo, arrivando ogni tanto a darle un paio di lire, solo per l'interesse, e donna Caterina, la tenitrice di gioco piccolo, resso cui ella aveva giocati tanti biglietti a un soldo, o a due soldi, quando non aveva denari per giuocare al Lotto del Governo, o quando solo quei due soldi le erano restati. Le due sorelle erano in gran gaia, pettinate con un trofeo di capelli, sul culmine della testa, piene di catene d'oro, di collane pesanti, di orecchini di perle, di grossi anelli, e conservavano il loro aspetto guardingo e severo, con certe occhiate oblique, e l'atto un po' sdegnoso delle labbra chiuse e tumide. Due uomini le accompagnavano, in perfetta tenuta di operai indomenicati, zazzera lucida, cappelletto sull'orecchio, giacchetta nera e sigaro spento all'angolo della bocca: e i quattro personaggi, muti, gravi, si guardavano ogni tanto, con l'aria seriamente compiaciuta di persone soddisfatte, crollando il capo, ogni tanto, per far cadere i coriandoli dai capelli o dalle falde dei cappelli, sorridendo a coloro che li avevano buttati, guardando a destra e a sinistra, con una certa fierezza di popolani arricchiti. Carmela si morsicò le labbra, vedendo passare le due serene e feroci accumulatrici del denaro altrui, ma subito dopo, la sua solita parola le salì dal cuore alle labbra: - Non importa, non importa… Ma un carro assai originale discendeva dall'alto di Toledo, suscitando una gran risata colossale, a destra e a sinistra, giù e su: era un gran letto borghese, con la coltre imbottita di bambagina, e foderata di cotonina rosso-vivocome si usa a Napoli: un letto con un baldacchino aperto, dove, sulla parete, erano attaccate le immaginette della Madonna e i santarelli protettori: nel letto, dalle lenzuola bianche rimboccate, stavano coricate due persone, con due enormi teste di cartone, raffiguranti un vecchione col berretto da notte e una vecchiona con la cuffia, due vecchioni leziosi, smorfiosi, che faceano mille cenni con le grosse teste, che tiravano a sé la coltre con quel moto egoistico e freddoloso dei vecchi, che si offrivano del tabacco, facendosi dei saluti col capo, starnutando, dimenandosi, salutando la gente dei balconi, ringraziando alle fitte mestolate di coriandoli che ricevevano, scuotendo le coltri, restando incogniti sotto il mistero del cartone, mettendo in pubblico quella caricatura familiare, quell'angolo di stanza da letto, senza che nessuno trovasse la cosa troppo arrischiata, tanto l'idea di dormire all'aria aperta è naturale ai meridionali, e tanto la vita intima è vita pubblica, nel caldo e bonario paese. Che! tutti ridevano. Rideva finanche la gente nella bottega di don Crescenzo, dopo la piazza della Carità, all'angolo del vico del Nunzio. La bottega di don Crescenzo era veramente il Banco lotto numero 117: una bottega chiusa ordinariamente dal pomeriggio del sabato sino al martedì, e in cui la ressa cominciava dal giovedì, sino all'una pomeridiana del sabato. Don Crescenzo, il tenitore del Banco lotto, un bell'uomo con la barba castana, vi lavorava con due giovani uoi, che viceversa erano: un vecchietto settantenne, curvo, mezzo cieco, sempre col naso sul registro delle giuocate, che si faceva ripetere tre volte i numeri, per non sbagliare e li scriveva lentamente, lentamente: e uno scialbo tipo di nessuna età, con una faccia dalle linee indecise, una barba dal colore indefinito, uno di quei bizzarri esseri che si trovano a fare da testimoni agli uscieri, da mezzani al Monte di Pietà, da dispensatori di foglietti volanti e da sensali di stanze mobiliate. Don Crescenzo troneggiava sui due giovani. a in quel giovedì egli aveva trasformato la sua bottega, elevandovi una tribuna, drappeggiandola di panno bianco e cremisi e invitandovi la sua miglior clientela. Sì, erano tutti là, quelli che ogni settimana venivano a deporre il miglior frutto della loro vita, un denaro guadagnato a stento, o strappato alla economia domestica, o trovato a furia di espedienti, prima maliziosi, poi audaci e finalmente vergognosi. Tutti lì, nel Banco lotto, trasformato in tribuna carnevalesca: il marchese di Formosa, don Carlo Cavalcanti, con la sua aria di gran signore: e il dottor Trifari, rosso di capelli, di faccia, di barba, turgido come se scoppiasse e con lo sguardo infido dei suoi occhi di un azzurro falso; e il professore Colaneri che, in quel giorno, più che mai, manifestava l'indelebile carattere del sacerdote che non ha voluto più saperne della chiesa; e Ninetto Costa che aveva lasciato il Circolo, e don Gennaro Parascandolo, attirato da un desiderio prepotente, invincibile, e altri otto o dieci, un giudice del tribunale, un maggiordomo di casa principesca, un pittore di santi, malaticcio, il barbiere Cozzolino, gran cabalista: perfino, in un cantuccio della bottega, per terra, il lustrino Michele, sciancato, zoppo, gobbo, con le mille rughe della fisonomia di vecchio, pieno di una passione irrefrenabile, e, accanto a lui, Gaetano, il tagliatore di guanti, più smunto, più pallido, con gli occhi ardenti e la scontentezza, l'inquietudine che gli traspariva dal volto, a ogni moto. I clienti di don Crescenzo, nella bottega cara alla loro passione, celebravano il carnevale anch'essi ed essendosi quotati per comperare dei sacchi di coriandoli, ne lanciavano anche loro ai carri, alle carrozze e più ai passanti, dove ogni tanto salutavano una conoscenza. Nessuno si meravigliava di veder gente tanto diversa, un marchese, un agente di cambio, un giudice del tribunale, un medico, un professore e finanche un operaio riuniti lì. Carnevale, carnevale! La dolce follìa popolare aveva assalito tutti i cervelli, e la tiepida ora, e gli smaglianti colori, e la fantasia dei cento, dei mille veicoli passanti, e il clamore delle centomila persone avevan domato anche quelli che bruciavano di un'altra febbre, un'altra febbre respinta per quell'ora in un cantuccio dell'anima. Quando passò, a piedi, ridendo e gridando, Cesare Fragalà, in spolverina di tela di Russia, in berretto da viaggio, con due grosse sacche di coriandoli ai fianchi, che vuotava contro i balconi di sua conoscenza e andava riempiendo ad ogni angolo di via, dai venditori ambulanti, scherzando con tutti, grasso, forte, gioviale, con un bisogno di spandere la sua giovialità: quando Cesare passò innanzi alla bottega di don Crescenzo, fu un tumulto di saluti. Già sotto il palazzo Rossi, innanzi ai balconi della sua casa, egli aveva fatto, da basso, mezz'ora di combattimento coriandolesco, con sua moglie e con tutte le amiche di sua moglie: Luisella Fragalà, e Carmela Naddeo, e le Durante, e le Antonacci avevano trovata così originale l'idea di Cesare e così simpatico lui, con quel suo fare, che lo avevano accoppato, a furia di coriandoli: egli aveva dovuto fuggir via, ridendo, abbassando il capo, calcandosi il berretto sulle orecchie. Tumulto di saluti dunque, dalla bottega di don Crescenzo e chiamate, perché andasse là anche lui: non era forse anche un cliente, lui, sempre nella speranza di avere le ottantamila lire, in contanti, per aprire bottega a San Ferdinando? Ma Cesare era troppo contento di andare in giro, solo solo, ridendo e strillando con tutti, schiaffeggiato dai coriandoli, rosso, ansante di salute e di allegrezza. Andava, fra i carri, fra le carrozze, portato dalla folla: andava fra un parossismo, che l'ora rendeva più acuto. Oramai i più tranquilli commettevano delle follie e coloro che stavano sui carri, sulle prime semplicemente allegri, adesso parevano tanti indemoniati. In una carrozza era passato Raffaele, detto Farfariello, 'eterno fidanzato dell'appassionata Carmela: egli e i compagni suoi, per farsi veder meglio, avevano pensato di sedersi sul soffietto della carrozza, e salutavano la folla, agitando dei fazzoletti di seta bianca, in punta alle mazze, come bandiere. Ahimè, egli non la vide, la ragazza che lo aspettava da tante ore, all'angolo del vico D'Afflitto, ed ella che aveva gridato, agitato le braccia, agitato una pezzuola bianca, restò stordita, mormorando fra sé, per consolarsi: - Non importa, non importa… Ma ancora restò lì, inchiodata, in quel crescendo di frenesia carnevalesca. Sotto il balcone dove era la bella donnina vestita da giapponese, una folla più fitta si assiepava: e allora costei, eccitata, aveva cominciato a far cadere una pioggia di confetti, a manate, a scatole, quasi ne avesse un deposito in casa, prendendoli dalle mani della cameriera che glieli porgeva. Un urlìo di monelli, di popolani entusiasmati saliva al cielo, mentre ella da sopra, seria, seria, ma con una fiamma rossa sui pomelli, buttava giù, disperatamente, confetti, dolci, piccole bomboniere. Sul suo balcone parato di velluto azzurro con la rete di argento, il figlio dell'altissimo personaggio aveva combinato lo scherzo di attaccare una bottiglia di champagne, un pasticcio di caccia o una grossa bomboniera a una lunga canna e di abbassarli a livello delle mani tese dalla folla, sollevandoli, facendoli danzare, fra gli urli di desiderio della gente di sotto, e le mani alte, e le bocche aperte, fino a che un grande schiamazzo di trionfo, annunziava che un fortunato aveva strappata la bottiglia o la bomboniera o il pasticcio della nova cuccagna: la canna era ritirata e i giovanotti, che prendevano un gusto matto a quello scherzo, vi attaccavano qualche altra cosa da mangiare o da bere, una bottiglia di vino rosso, una forma di cacio ravvolta in una carta d'argento, un sacchetto di confetti, e il giuoco ricominciava, fra un tumulto inaudito, con la circolazione sospesa. Quelli dei carri, oramai, rifornite le provvisioni, mentre la sera si avvicinava, col passo sempre più rallentato, ballavano e cantavano e buttavano roba, dimenandosi come anime dannate. Fu in questo punto acutissimo della giornata che un nuovo carro sbucò da un vicolo di Toledo, fantastico, bizzarro, giunto in ritardo e trascinato dai cavalli a rilento. Rappresentava l'officina chimico-filosofica, dove lo sconfortato vecchio Faust bestemmia malinconicamente e gelidamente su tutte le cose umane: una camera bruna, con due scansie di libracci, con un fornello e una storta da alchimista, con un Alcoranus Mahumedis aperto sopra un leggìo di legno scolpito: sullo strano carro un vecchio curvo, con un zimarra di velluto nero e una lunga barba bianco-giallastra, camminava tremolando e gittando alla folla dei balconi e della strada delle bomboniere a foggia di libri, di storte, di alambicchi, di fornelli, dove qua e là si vedeva l'immagine di Mephisto, ma che erano riempite di buonissimi confetti. Allora una punta di fantastico si mescolò alla frenesia del carnevale e il carro del mago parve un'apparizione più sovrannaturale che reale. Il vecchio che le donne dai balconi, ridendo, chiamavano il diavolo, crollava il capo canuto coperto da una berretta nera e lanciava giù roba, magicamente cavandola dal sottosuolo del carro. E ogni tanto, fra il clamore del popolo, una voce sopracuta dirigendosi al decrepito mago, gridava: - I numeri, i numeri, i numeri! E quando, giunto a San Ferdinando, il carro di Faust voltò per rifare la strada fatta, sin sopra Toledo, fu vista una cosa curiosissima, indescrivibile. Cavandoli da un alambicco di rame, insieme alle bomboniere, il vecchio mago buttava alla folla e ai balconi, dei fogliolini lunghi e stretti, di carta gialla, su cui la gente cominciò a buttarsi furiosamente: e un grido precedeva, accompagnava, seguiva il carro di Faust: - Gli storni, gli storni, gli storni! Per realizzare una generosità nova, fastosa, bizzarra, e cara al popolo, il vecchio buttava dei polizzini di lotto da due e tre numeri, già giuocati, per il prossimo sabato, giuocati a due soldi l'uno: un biglietto che è detto storno di cui egli magnificamente gittava al popolo delle centinaia, ridendo nella sua folta barba bianca, scordandosi che era vecchio, per rizzare il capo con una gaiezza feroce. Oh che lungo grido, dovunque, nella via, per le finestre, per le logge, per i balconi, sino al cielo che si facea bianco nel tramonto: che lunghissimo grido di desiderio e di entusiasmo, di tutta una popolazione, che alzava le mani e le braccia, come se dovesse abbracciare la terra promessa, che si gittava a terra, si calpestava, per strappare furiosamente un polizzino del lotto, dove era una ipotetica promessa di dieci lire o di duecento lire di vincita! Oh che furore giocondo di uomini, di donne, di fanciulli, poveri e ricchi, bisognosi e agiati, che impeto invincibile che rispettava, per una sacra paura, il carro del mago, ma che gli faceva un trionfo, una gloria di acclamazioni, da un capo all'altro della via Toledo, quando egli aveva buttato alla folla diecimila polizzini, quando già egli era scomparso, senza che niuno sapesse dire come e dove. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonio Amati incontrò per le scale la cameriera Margherita che rientrava anch'essa, un po' stracca. E bruscamente, mentre forse non avrebbe voluto parlarle, le domandò: - Come sta la vostra signora? - Meglio, - disse a bassa voce la vecchia domestica, - perché Vostra Eccellenza non è più venuta a vederla? - Io ho molto da fare, - borbottò il dottore, senza suonare però alla sua porta. - È vero: ma Vostra Eccellenza è così buona. - Poi, non vi era bisogno di me… - soggiunse lui, esitando. - Eh, chi sa! - ribattè anche più sottovoce, e in tono misterioso Margherita. - Perché non entra adesso Vostra Eccellenza? - Verrò, -. disse lui, chinando il capo, come se cedesse a una volontà superiore. Ella introdusse una chiave nella serratura e aprì, precedendo, nel silenzio della casa, sino al salone, il dottore: ed egli, che pure era avvezzo a dominare immediatamente le proprie impressioni, sentì il freddo il silenzio, il vuoto di quel camerone. E si trovò innanzi la fanciulla, vestita di nero, che gli sorrideva vagamente, tendendogli la mano. Una manina lunga e fredda, che egli trattenne un minuto fra le sue, con la confidenza più del medico che dell'amico. - Siete guarita? - parlò lui, a bassa voce, subendo l'intimidazione dell'ambiente. - Non completamente, - diss'ella, con la sua voce pura e stanca. - Ebbi ancora un deliquio, una notte. Ma breve assai: credo, almeno. - Non vi soccorsero? - disse lui, con un rammarico profondo. - No, non se ne accorse nessuno: era notte, in camera mia… Non importa, - soggiunse poi, con un lieve sorriso. - Perché non siete andata in campagna? - Mio padre odia la campagna… - mormorò ella - e io non lo lascerei qui, solo. - Ma perché non siete uscita: oggi è carnevale, perché non siete andata a vedere? Volete morire di malinconia? - Mi avevano invitata, giù, dalla signora Fragalà: ma la conosco appena. Credo che bisognasse mascherarsi: mio padre non ama queste cose, ha ragione… Parlava con la sua bella voce dolce che una stanchezza spezzava, e Amati che era stato tutto il giorno a lavorare, all'ospedale e al letto degli ammalati, mentre tutti godevano il carnevale, riposava nell'armonia di quella voce e nella quiete stanca e languente di quella delicata giovinezza. Erano soli, seduti uno di fronte all'altro, in un gran silenzio, intorno: si guardavano appena, ma si parlavano come due anime che lungamente avessero vissuto insieme, nella gioia e nel dolore. - Dove eravate, poc'anzi? - domandò Antonio Amati, bruscamente. - Nella cappella, - rispose Bianca Maria, senza offendersi della domanda. - Pregate molto? - Non abbastanza, - disse ella, levando gli occhi al cielo. - Perché pregate molto? - Bisogna… - Voi non fate peccati… - mormorò il miscredente, tentando di scherzare. - Non si sa - disse lei, gravemente. - E bisogna pregare per tutti quelli che non pregano. E così dicendo, lo guardò fuggevolmente. Egli chinò il capo. - Passate troppe ore al freddo, in chiesa. Ciò vi nuocerà, signorina. - Non credo: e poi, che importa? - Non dite questo, - interruppe lui, subito. - Poche cose mi possono far male, - soggiunse lei, con una intonazione che egli intese e che non volle approfondire. - Andiamo, andiamo a vedere il carnevale dalla signora Fragalà, al primo piano, che ha invitato anche me, - e si levò, con un atto energico, a portarla via. - Restiamo qui, - ribattè Bianca dolcemente - qui vi è pace almeno. Non vi pare che sia buona anche questa calma, questo silenzio? - È vero, è vero, - confessò Amati, sedendosi di nuovo, soggiogato. - Mio padre è uscito coi suoi amici, - continuò lei, quietamente - per vedere il carnevale. Nel palazzo tutti sono fuori ai balconi, che dànno a Toledo, o fuori di casa: e qui, lo vedete, non giunge alcun rumore. Si guardarono così, puramente. Quella strana ora di deliquio in cui egli l'aveva salvata e in cui ella aveva inteso di esser salvata da lui, aveva stabilito fra loro come una vita anteriore. Quello che ella sentiva era un umile bisogno di protezione, di assistenza, di consiglio: quello che lui sentiva, era un tenerissimo sentimento di pietà. E non potette frenare una domanda che gli ronzava nell'anima. - E vero che volete farvi monaca? - egli chiese, con voce un po' soffocata. - Vorrei, - diss'ella, semplicemente. - Perché? - Per questo, - soggiunse, con la gran risposta dei cuori femminili. - Perché dovreste farvi monaca? Nessuna si fa più monaca. Perché dovreste voi farvi? - Perché se vi è una sola persona al mondo che dovrebbe entrare in convento, io son quella; perché io non ho né desiderii, né speranze, né nulla innanzi a me; e perché quando si è così, vedete, attraverso questo vuoto, questo deserto, questa desolazione, prima della morte, bisogna mettere almeno la preghiera. - Non dite questo, - supplicò lui, come se per la prima volta il soffio della fatalità avesse alitato sulla sua energia, distruggendola.

Uno dei primi era stato un lustrino, con la sua cassetta: un vecchio gobbo, sciancato, che sollevava la cassetta sul fianco più alto, piegato in due, avvolto in una vecchia palandrana verdastra, tutta macchie, tutta toppe, con un berretto senza visiera, abbassato sugli occhi. Sotto l'androne del palazzo dell'Impresa, il lustrino aveva deposta per terra la cassetta, egli stesso si era sdraiato per terra, come se aspettasse gli avventori: ma dimenticava di battere quei due colpi secchi della spazzola, sul legno, per richiamare la clientela: e con una lunga lista di bollette in mano, assorto profondamente, la sua faccia gialla e contorta di vecchio rachitico aveva una intensità di passione che la trasformava: mentre, innanzi a lui, come l'ora si approssimava, continuava a passar gente, e dal cortile sorgeva un brusìo di voci napoletane, fra stridule e grasse. Un uomo, un operaio, si fermò presso il lustrino; poteva avere trentacinque anni, ma era scialbo e aveva gli occhi smorti, la giacchetta buttata sulle spalle, che lasciava vedere la camicia di percalla colorata. - Lustriamo? - domandò macchinalmente il lustrino, abbassando la lista delle sue bollette. - Sì, proprio! - rispose l'altro sogghignando. - Ho voglia di lustro, io. Se avevo un altro paio di soldi, oggi, avrei giocato un ultimo biglietto da donna Caterina. - Gioco piccolo? - chiese sottovoce il lustrino. - Già: un poco al Governo e un poco a donna Caterina. - Sono tutti ladri, tutti ladri, - soggiunse poi l'operaio masticando il suo mozzicone nero e crollando la testa, con un atto di suprema sfiducia. - Hai fatto mezza festa, oggi? Non sei andato a tagliar guanti? - Non ci vado mai, di sabato, - fece l'altro, abbozzando un pallido sorriso. - Vado a cercar fortuna: l'ho da trovare, un sabato mattina! - E i denari della settimana, quando li prendi? - Eh! - disse l'operaio, levando una spalla, - per lo più al venerdì, non ho da prender niente. - Come fai a giocare? - Per giocare si trova sempre. La sorella di donna Caterina, quella del gioco piccolo, à denaro in prestito… - Interesse forte? - Un soldo a lira, ogni settimana. - Non ci è male, non ci è male, - disse il lustrino, con aria convinta. - Io le ho da dare settantacinque lire, - rispose il tagliatore di guanti, - e ogni lunedì è una tempesta. Mi aspetta fuori la porta della fabbrica, grida, bestemmia. Michele: è proprio una strega. Ma che ci posso fare? Un giorno o l'altro prenderò un terno e la pagherò… - E del resto della vincita, che ne fai? - domandò Michele, ridendo. - Lo so io che ne fo! - esclamò Gaetano, il tagliatore. - Col vestito nuovo, con la penna di fagiano al cappelletto, nella carrozza coi sonagli, andiamo tutti a scialare ai Due Pulcinelli, l Campo di Marte. - O dal Figlio di Pietro, Posillipo… - O da Asso di coppe, Portici… - Taverna per taverna… - Carne e maccheroni… - E vino del Monte di Procida. - Tanto, una volta sola si campa, - concluse filosoficamente il tagliatore di guanti, rialzandosi la giacchetta sulla spalla. - Io non faccio debiti, - soggiunse, dopo un minuto di silenzio, il lustrino. - Beato te! - Tanto, non troverei chi mi presti un soldo. Ma gioco tutto. Non ho famiglia, posso fare quello che mi piace. - Beato te! - ripeté Gaetano, il cui volto si era turbato. - Tre soldi per dormire, otto o dieci soldi per mangiare, - continuò il lustrino, - e chi mi dice niente? Ah, io non l'ho voluta prendere, la moglie, io! Avevo la passione della giuocata, io, e mi basta per tutto! - Sia ucciso chi ha inventato il matrimonio! - bestemmiò Gaetano, facendosi terreo. Le quattro si approssimavano e il cortile dell'Impresa si riempiva di gente. In quel centinaio di metri di spazio, una folla popolana s'infittiva, chiacchierando vivacemente, o aspettando in silenzio, rassegnatamente, guardando lassù, al primo piano, la terrazzina coperta, dove si doveva fare l'estrazione. Ma tutto era chiuso, lassù, anche le imposte di legno, dietro i cristalli del grande balcone. Come altra gente arrivava, sempre, la folla giungeva sino alla muraglia del cortile: delle donne respinte, si erano accoccolate sui primi scalini della scala: qualcuna, più vergognosa, si nascondeva sotto il terrazzino, fra i pilastri che lo sostenevano, addossandosi alla porta chiusa di una grande stalla. Un'altra giovane ancora, ma dal pallido e seducente volto consumato, dai grandi occhi neri, un po' malinconici, un po' stravaganti, con le occhiaie livide, dalla grossa treccia nera disfatta sul collo, era salita sopra un macigno abbandonato in quel cortile, forse dai tempi in cui era stato costruito o restaurato il palazzo; e lì sopra, tutta magra nella sua veste ritinta di nero, che le faceva cento pieghe sullo scarno petto e sui fianchi, dondolando un piede in uno stivaletto rotto e scalcagnato, rialzandosi sulle spalle, ogni tanto, un gramo scialletto anche ritinto di nero, ella dominava la folla, guardandola coi suoi occhi abbattuti e tristi. La folla era fatta quasi tutta di gente povera: ciabattini che avevano chiuso il banchetto nello stambugio che abitavano, avevano arrotolato il grembiule di pelle intorno alla cintura, e in maniche di camicia, col berretto sugli occhi, rimuginavano nella mente i numeri giuocati, con un impercettibile movimento delle labbra; servitori a spasso, che invece di cercar padrone, consumavano le ultime lire del soprabito d'inverno impegnato, sognando il terno che di servitori li facesse diventar padroni, mentre una contrazione d'impazienza torceva loro il volto smorto, dove la barba, non più rasa, cresceva inegualmente; erano cocchieri da nolo che avevano lasciata la carrozza affidata al compare, al fratello al figliuolo, e attendevano, pazientemente, con le mani in tasca, con la flemma del cocchiere che è abituato ad aspettare delle ore il passeggiero; erano sensali di stanze mobiliate, sensali di serve, che, nell'estate, partiti i forestieri, partiti gli studenti, languivano seduti sulle loro sedie, sotto la loro tabella che è tutta la loro bottega, agli angoli dei vicoli San Sepolcro, Taverna Penta, Trinità degli Spagnuoli, e avendo giuocato qualche soldino, sottratto al cibo quotidiano, disoccupati, oziosi, venivano a udir l'estrazione del lotto; erano braccianti delle umili arti napoletane che, lasciato il fondaco, l'opificio, la bottega, abbandonato il duro e mal retribuito lavoro, stringendo nel taschino dello sdrucito panciotto la bolletta di cinque soldi, o il fascetto delle bollette di giuoco piccolo, rano venuti a palpitare innanzi a quel sogno, che poteva diventare una realtà; erano persone anche più infelici, cioè tutti quelli che a Napoli non vivono neppure alla giornata, ma ad ore, tentando mille lavori, buoni a tutto e incapaci, per mala fortuna, di trovare un lavoro sicuro e rimuneratore, infelici senza casa, senza ricovero, così vergognosamente laceri e sporchi, da fare schifo, avendo rinunziato al pane, per quella giornata, per giuocare un biglietto, sulla faccia dei quali si leggeva la doppia impronta del digiuno e dell'estremo avvilimento. Tra la folla, anche qualche donna si distingueva: donne sciatte, senza età, come senza bellezza; serve senza servizio, mogli di giuocatori accaniti, giuocatrici esse stesse, operaie licenziate, e, fra tutte, il volto pallido e attraente di Carmela, quella seduta sul macigno, volto sfiorito, dai grandi occhi stanchi e addolorati. Più tardi, come maggiormente si appressava l'ora dell'estrazione, e più il chiasso cresceva, fra le poche faccie smorte muliebri e i laceri vestiti di percalla scolorita a furia di troppe lavature, una assai diversa figura di donna apparve. Era una popolana alta e robusta, dal viso bruno fortemente colorito, dai capelli castani tirati su, pettinati con molta cura e la cui frangetta, sulla breve fronte, aveva anche un'ombra di cipria; i pesanti orecchini di perle scaramazze, rotondi, bianco-verdastri, le tiravano le orecchie, tanto che aveva dovuto assicurarli sopra l'orecchio, con un cordoncino di seta nera, temendo che dovessero spezzare il lobo; una collana d'oro, con un grosso medaglione d'oro, posava sul giubbetto di mussola bianca, tutto ricami e gaie di merletto; ella sollevava ogni tanto, sulle spalle, uno scialle trasparente di crespo di seta nero e allora mostrava le mani, ricche di grossi anelli d'oro sino alla metà della seconda falange. L'occhio era serio e tranquillo, con una lieve aria di quietissima audacia, la bocca composta a severità; ma nell'attraversare la folla, nell'andare a mettersi sul terzo gradino della scala, per vedere e per udire meglio, ella conservava quella inclinazione della testa, speciale delle popolane napoletane, un po' civettuola, un po' mistica; conservava quella ondulazione della persona così seducente sotto lo scialle, e che le borghesi napoletane perdono subito nel vestito alla moda francese. Pure, malgrado la simpatia naturale che ispirava quella figura femminile, al suo passaggio vi fu un mormorio quasi ostile e come un movimento di repulsione tra la folla. Ella ebbe un moto di disdegno, levando le spalle; e restò sola, ritta sul terzo scalino, tenendo alzato lo scialle sulle braccia, e le mani cariche di anelli incrociate sullo stomaco. Il mormorio, qua e là, continuò: ella guardò la folla, due o tre volte, serenamente, anzi non senza fierezza. Le voci tacquero: le palpebre della donna batterono, due o tre volte, come per orgoglio appagato. Ma, finalmente, su tutte le altre, su Carmela dal volto sfiorito e dai grandi occhi dolorosi, su donna Concetta dalle dita inanellate e dalla frangetta incipriata, Concetta, la bella, robusta e ricca usuraia, sorella di donna Caterina, sorella della tenitrice di gioco piccolo, opra la folla del cortile, dell'androne, della via, una figura di donna emergeva, attirava almeno uno sguardo della gente raccolta. Era la donna, al primo piano del palazzo dell'Impresa, seduta dietro la ringhiera di un balconcino: seduta di fianco, si vedeva il suo profilo chinarsi e sollevarsi, ogni tanto, sul lucido ingranaggio d'acciaio di una macchina da cucire Singer; mentre il piede, uscendo dalla modesta gonna di percalla azzurra a pisellini bianchi, batteva metodicamente sul pedale di ferro, che si abbassava e si alzava, con moto uniforme. Fra il brusio delle voci, e i dialoghi da un capo all'altro del cortile, e lo stropiccio dei piedi, si perdeva il trillo sordo della macchina da cucire: ma sul fondo scuriccio del balcone, la figura della cucitrice si disegnava tutta, di profilo, con le mani che portavano il pezzo di tela bianca sotto l'ago saliente e discendente della macchina, col piede che piegava il pedale, instancabilmente, con la testa che si alzava e si abbassava sul lavoro, senza vivacità, ma senza stanchezza, continuamente. Di profilo si vedeva una guancia delicata, delicatamente rosea, e una grossa treccia castana modestamente ravviata e stretta sulla nuca, si vedeva l'angolo di una bocca fine, e l'ombra che le lunghe ciglia abbassate gittavano sull'alto delle guancie. La giovane cucitrice, da un'ora che la folla si addensava nel cortile, non aveva guardato che un paio di volte giù, gittandovi una breve occhiata indifferente, e riabbassando subito la testa sull'ingranaggio lucido della macchina, trasportando lentamente con le mani il pezzo di tela, perché la cucitura venisse diritta, diritta. Nulla la distraeva dal suo lavoro, né le voci, né le vive esclamazioni, né il calpestìo crescente della folla; ella non aveva guardato mai sul terrazzino coperto, dove si sarebbe proclamata l'estrazione, fra poco. La gente la guardava, di basso, la delicata e infaticabile cucitrice di bianco, ma ella proseguiva quietamente nel suo lavoro, come se neppure un eco di quella gran passione, fra segreta e palese, arrivasse sino a lei; ella sembrava così lontana, così schiva, così assorta in un mondo assolutamente staccato, diverso, che la fantasia poteva supporla più una immagine che una realtà, più una figura ideale che una persona vivente. Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell'androne, quella che era nell'androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un'ardente curiosità, prese da un'angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall'attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l'urna, per i novanta numeri. È grande, l'urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all'altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra: sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L'urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c'è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente virare sul suo asse tutta l'urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino erano vecchi, un po' curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò: - Andiamo, andiamo! Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall'urna i numeri dell'estrazione. Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell'Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, ome i napoletani chiamano l'ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo enza enzamadre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull'uniforme da serragliuolo, na tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell'innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all'altezza dell'urna. Di sotto, la folla tumultuava: - Bel figliuolo, bel figliuolo! - Che tu possa essere benedetto! - Mi raccomando a te e a San Giuseppe! - La Madonna ti benedica le mani! - Benedetto, benedetto! - Santo e vecchio, santo e vecchio! Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un'invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell'urna; e un po' discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v'era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell'estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano: - Pare un piccolo san Giovanni, pare! - Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia! - Core di mamma, quanto è caro! Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell'urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un'occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell'urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni dalla Smorfia o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta. - Due! - …la bambina! - …la lettera! - … fammi arrivare questa lettera. Signore! - Cinque! - …la mano! - … in faccia a chi mi vuol male! - Otto! - …la Madonna la Madonna, la Madonna! Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell'urna dell'estrazione dal piccolo serragliuolo estito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell'urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava: - Gira, gira, vecchiarello! - Ancora un giro per me! - Dammi la giusta misura! I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell'urna: per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza. - Tredici! - …le candele! - …il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia! - … smorziamo, smorziamo! - rombava il coro. - Ventidue! - …il pazzo! - …il pazzarello! - …come te! - …come me! - …come chi giuoca alla bonafficiata Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l'agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull'alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano: niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico: - Trentatré! - … anni di Cristo! - … anni suoi! … questo esce. - …non esce! - …vedrete che esce! - Trentanove! - …l'impiccato! - … nella gola, nella gola! - …così debbo vedere chi dico io! - …stringi, stringi! Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie: solo l'altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere: piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L'operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma: a ogni nuova diecina di numeri messi nell'urna, l'usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo. Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all'altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L'operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l'ultimo numero, anzitutto perché era l'ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: ovanta fa il mare: ovanta fa il popolo: insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l'omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione. Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l'altro usciere dava gli ultimi giri all'urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell'urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell'urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso. - Dieci, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella. Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi. Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell'urna. - Due, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella. Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell'urna, qualcuno gridò, angosciosamente: - Cerca bene, scegli bene, bambino! - Ottantaquattro, gridò l'usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella. Qui scoppiò il grande urlo d'indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l'estrazione e per i giuocatori. Con l'ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! ridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l'espressione paurosa della infinita delusione popolare. - Settantacinque, dichiarò con voce più fiacca l'usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella. Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente. - Quarantatrè, - finì di proclamare l'usciere, collocando il quinto ed ultimo numero. E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l'urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione. Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt'i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l'infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall'altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco: - e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell'alta matematica del lotto, dove vivono le figure, e e cadenze, e triple, a ragione algebrica del quadrato maltese le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa . Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell'esistenza. Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l'estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. - Niente? - domandò una voce sorda accanto a lui. Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l'accasciamento degli esaltati delusi. - Niente, - disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi. - E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò. - Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, - mormorò disperatamente il lustrino. - Addio, compare, - disse, con voce rude, il tagliatore di guanti. - Addio, compare, - rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato. Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

Ella aveva abbassato le palpebre: ma il viso rivelava sofferenza. Poi guardò il medico, quasi gli cercasse aiuto. - Volete qualche cosa? - domandò lui. - Vi è un uomo presso la mia porta; fatelo andar via, - pronunziò ella, sottovoce, paurosamente. Il dottore trasalì: trasalì don Carlo Cavalcanti. Infatti, fuori la porta, in quella sua eterna, miserevole attitudine di attesa, sporco, lacero, con la barba incolta e le guance smunte, malamente tinte di un sangue morboso, a strie, vi era Pasqualino De Feo, l' assistito. l marchese lo aveva lasciato nel salone; ma egli era scivolato sino alla soglia della stanza di Bianca Maria, con quel suo passo timido e silenzioso di straccione che teme di essere scacciato da tutti i posti. - Chi è quell'uomo? - disse il dottore con quel suo tono rude, accostandosi alla porta, come per scacciarlo. - È un amico… - rispose il marchese, con un vago gesto d'imbarazzo, affrettandosi ad accorrere. - Mandatelo via, - disse il medico, duramente. Fuori la porta, il marchese e don Pasqualino parlottarono, vivamente, sottovoce. Bianca Maria aveva un'aria d'attenzione, come se potesse udire quello che suo padre diceva di fuori: poi, a un tratto, crollò il capo. Il dottore che la guardava negli occhi, intuì il suo desiderio. - Volete che mandi via dalla casa quell'uomo? - Lasciatelo, - diss'ella, debolmente. - Farebbe dispiacere a mio padre. Ah egli non sapeva nulla di nulla, il dottore; e già, nel ritorno alla rude realtà, si rimproverava quel romanzo oscuro e doloroso che entrava nella sua vita: ma lo avvinghiava un sentimento imperioso, che egli credeva la forte curiosità scientifica. Le ore erano passate, scendeva la sera: egli non aveva fatto nessuna delle sue visite e rimaneva in quella gelida stanza di fanciulla, nobile, povera e inferma, quasi non potesse più staccarsene. - Debbo andare…- disse come fra sé. - Ma ritornerete? - chiese ella, sottovoce. - Sì…- rispose lui, risoluto a vincersi, a non tornare più. - Ritornate, - e la voce umile pregava, pregava. - Sono qui, accanto: se soffrite mandatemi a chiamare. - Sì, sì, - soggiunse, tranquillandosi all'idea della protezione. - Addio, signorina. - A dio, - fece ella, marcatamente, staccando le due parole. Margherita lo accompagnava, ringraziandolo pian piano di aver salvato la sua padrona; ma egli era ridiventato l'energico e frettoloso uomo di sempre, nemico delle parole. - Dove è il marchese? - volle sapere, senz'altro. - Nel salone, professore. E ve lo accompagnò. Giusto, don Carlo Cavalcanti e Pasqualino De Feo passeggiavano su e giù, taciturni. Era quasi notte: pure il dottore covrì l' assistito i una occhiata scrutatrice e diffidente. - Come sta Bianca? - chiese Formosa, uscendo da un sogno. - Meglio, ora, - soggiunse con voce breve e fredda, il dottore. - Ma è una fanciulla colpita prematuramente, nel morale e nel fisico, da uno squilibrio crescente: se non le date sole, moto, aria, quiete e giocondità, vi può morire, da un giorno all'altro. - Non dite così, dottore! - gridò il padre, sdegnato e addolorato. - Debbo dirlo, perché così è. La causa del suo male, di quello di oggi, mi è ignota… non voglio saperla. Ma ella è ammalata, capite, ammalata! Ci vuole sole e pace, pace e sole. Se volete un medico, io sono sempre pronto, è il mio mestiere. Ma la ricetta l'ho fatta. Mandate la fanciulla in campagna. Se rimane un altro anno in questa casa, vedendo solo voi e andando sempre al monastero, muore, ve lo affermo io. E insisteva, freddamente, come se questa verità dovesse essere proclamata in tutta la sua forza, come se volesse convincerne anche la ribelle anima sua. - Dottore, dottore! - si lamentò Formosa, cercando pietà. - È ammalata, muore. In campagna, in campagna! Buona sera, marchese. E se ne andò, quasi fuggendo. Il marchese e l' assistito he non aveva detto verbo, ripresero la loro passeggiata taciturna. Ogni tanto, Formosa sospirava profondamente. - Lo spirito che mi assiste…- soffiò l' assistito. Eh? - esclamò l'altro, trasaltando. -…mi avverte che donna Bianca Maria ha avuto una visione celeste…e che ve la comunicherà… sotto simbolo… - Voi che dite? È possibile? Questa grazia mi avrebbe concessa l'Ente Supremo? È possibile? - Lo spirito non inganna, - sentenziò l' assistito. È vero, è vero, - mormorò Formosa, con voce profonda, guardando nell'ombra con gli occhi stravolti.

Di pallido, il dottore si era fatto rosso rosso e pareva che gli occhi gli si fossero riempiti di lacrime: senza che quei due lo avessero potuto impedire, egli si era abbassato e aveva baciata la vecchia mano al padre e alla madre, la vecchia mano scura, rugosa e callosa, che aveva tanto lavorato. Nessun'altra parola era stata scambiata fra loro: egli era sparito. La sera non era rientrato nell'alberghetto; ma oramai a queste assenze non badavano più. Pure, il giorno seguente non era rientrato a pranzo, il che accadeva per la prima volta: avevano aspettato sino a sera, egli non era venuto e la contadina sgranava il rosario, ricominciando sempre: avevano finito per pranzare con un pezzo di pane e due arance, che si trovavano nella stanza. Il dottor Trifari non rientrò neppure la seconda notte e fu verso il meriggio del secondo giorno che arrivò una lettera diretta al signor Giovanni Trifari, albergo di Villa Borghese: na lettera impostata con un francobollo di un soldo, alla posta interna. Ah, essi eran contadini, con la fantasia ottusa e il cuore semplice, essi non immaginavano, non pensavano che assai scarsamente, eran gente corta e silenziosa: ma quando quella lettera fu loro portata e quando riconobbero l'assai nota e assai amata calligrafia del figliuolo, si misero a tremare, ambedue, come se una improvvisa, indomabile paralisi li avesse colti. Due o tre volte, con gli occhiali grossolani tremolanti sul naso, con la voce trepida della vecchiaia e dell'emozione, con la lentezza di chi sa legger male e deve frenare le lacrime, il vecchio contadino aveva riletta la lettera con cui il figliuolo, prima di partire per l'America, li salutava, teneramente, filialmente: sentendo quella lettura, imprimendosi bene nella mente quelle terribili e dolci parole del figliuolo, la vecchia contadina baciava i grani del suo rosario e gemeva sottovoce. Due volte un servitore dell'albergo era entrato, con la sua aria scettica di persona abituata a tutte le traversie della vita: e aveva chiesto loro se volevano mangiare, ma quelli, dimentichi, sordi, acciecati, non avevano neppure risposto. Quando, verso le sei, entrò don Crescenzo, dopo aver bussato inutilmente, li trovò quasi al buio, seduti vicino al balconcino, in un gran silenzio. - Vi è il dottore? Nessuno dei due rispose, come se il sopore della morte li avesse presi. - Volevo dire se vi è il dottore? - Nossignore, - disse il vecchio padre. - È uscito? - Sì. - Da quanto tempo? - È molto tempo, - mormorò il vecchio contadino e alla sua voce rispose un gemito di sua moglie. - E quando torna? - gridò don Crescenzo, agitatissimo, preso da un impeto di furore. - Non si sa, non si sa, - disse il vecchio, scrollando il capo. - Voi siete il padre, voi lo dovete sapere! - Non me l'ha detto… - Ma dove è andato, dove è andato, quell'infame? - In America, a Bonaria. Gesù! - disse solo don Crescenzo, cadendo di peso sopra una sedia. Tacquero. La madre stringeva devotamente il rosario. Ma ambedue parevano così stanchi, che don Crescenzo fu preso da una disperazione, trovando dovunque disgrazie diverse e maggiori della sua. Pure, si aggrappava alle festuche: e anzi tutto voleva sapere, voleva sapere tutto, con quell'acre voluttà di chi vuole assaporare tutta l'amarezza della sua sventura. Anche costui era fuggito, dunque, anche costui gli sfuggiva, anche questi denari erano perduti, perduti per sempre. - Ma chi gli ha dato i denari per andar via? - gridò, esasperato. - Siete amico suo, voi? - Sì, sì, sì! - Veramente? - Veramente, vi dico. - Ecco la lettera, tenete: così saprete tutto. Allora lui, alla poca luce del giorno che cadeva, lesse la lunga epistola del disgraziato che, roso dai debiti, roso dalla sua passione, senza saper dove dare la testa, scriveva ai suoi genitori, licenziandosi da loro, per cercar fortuna in America. Delle quattrocento lire se ne era prese un trecentocinquanta per pagarsi un posto di terza classe sopra un piroscafo, aggiungendovi qualche lira per vivere i due o tre giorni primi a Buenos-Ayres. Confessava tutto: tutta la rovina sua e della sua famiglia, maledicendo il giuoco, la fortuna e sé stesso, imprecando alla mala sorte e alla sua mala coscienza. Rimandava poche lire ai due poveri vecchi, pregandoli a ritornare in paese, a provvedersi come potevano, fino a che egli avesse potuto mandar loro qualche cosa, da Buenos-Ayres; tornassero al paese, egli non li avrebbe dimenticati, - e i denari appunto bastavano per due posti di terza classe, sino al paesello, non vi sarebbe neanche restato nulla per mangiare; - egli pregava, in ginocchio, che gli perdonassero, che non lo maledicessero, che non aveva avuto la forza di uccidersi, per loro, ma gli perdonassero, che se li lasciava così, non gli dessero, per il suo miserabile viaggio, senza bagaglio, senza denari, buttato in un dormitorio comune e soffocante di nave, anche il triste viatico di una maledizione. La lettera era piena di tenerezza e di furore: e le ingiurie ai ricchi, ai signori, al Governo, si alternavano con le preghiere di perdono, con le umili scuse. Due volte don Crescenzo lesse quella lettera straziante, scritta da un' anima inferocita contro di sé e contro gli uomini, che si vedeva ferita nella sola tenerezza della sua vita. La piegò macchinalmente e guardò i due vecchi: gli sembrò che avessero cento anni, cadenti di decrepitezza e di lavoro, curvati dall'età e dal dolore. - E che fate, adesso? - egli domandò, sottovoce, dopo un certo tempo. - Andiamo al paese, - mormorò il vecchio. - Domani, ce ne andiamo, col primo treno. - Sì, sì, ce ne andiamo, - gemette la povera contadina, senza levare il capo. - E che fate, là? - soggiunse lui, volendo approfondire tutto quel dolore. - Andiamo a giornata, - disse il vecchio, semplicemente. Egli li sogguardò ancora così vecchi, così stanchi, così curvi, che si apprestavano a ricominciar la vita, per aver pane, a zappar la terra con le braccia tremolanti, abbassando il volto bruno e i radi capelli bianchi sotto il sole di estate. E trafitto dall'ultimo colpo, sentendo intorno a sé crescere il coro delle disgrazie, non aprì bocca sui denari che doveva avere da Trifari: anzi, fievolmente, tanta era la pietà per i due vecchi, disse loro: - Vi serve niente? - No, no, grazie, - dissero quei due, con quel gesto desolato delle persone che più non aspettano soccorso. - E fatevi coraggio, allora… - Sì, sì, grazie, - mormorarono ancora. Li lasciò, senz'altro. Era notte, adesso, quando discese in istrada. Un minuto, sbalordito, atterrato, pensò: dove andare? E di nuovo, sospinto da uno stimolo tutto meccanico, prese la rincorsa e, attraversando Toledo, salì sino all'altezza della chiesa di San Michele, dove si ergeva bruno e alto il palazzo Rossi, già Cavalcanti. In quel palazzo abitavano gli ultimi suoi debitori grossi, i più disperati di tutti, e per non cominciare con un malaugurio, egli se li era riserbati per la sera. Ma non aveva trovato denaro in nessun posto, in nessuno: e adesso, per il naturale rimbalzo degli infelici che si ribellano alla infelicità, per quella forza di speranza che giammai non muore, adesso si metteva di nuovo a credere che Cesare Fragalà e il marchese Cavalcanti gli avrebbero dato del denaro, in qualche modo, piovuto dal cielo. Quando entrò nell'appartamento di Cesare Fragalà, introdotto dalla piccola Agnesina che era venuta ad aprire la porta portando una stearica mezza consunta, e guidato attraverso l'appartamento vuoto e scuro, egli si pentì subito di esser venuto. Marito, moglie e figlia ad una piccola tavola, sopra una tovaglia anche troppo corta per la tavola, pranzavano in silenzio, guardando ogni pezzettino di fegato fritto che si portavano alla bocca, per paura di lasciarne troppo poco agli altri due: e la bimba specialmente, dal grosso appetito delle creature sane, misurava i bocconcini di pane per non mangiarne troppo. Cesare Fragalà, serio, con la linea del sorriso sparito per sempre dal suo volto, guardava la tovaglia, con le sopracciglia aggrottate: e la moglie, la buona Luisa dai grandi occhi neri, sulla cui fronte aveva brillato la stella di diamanti della madre felice, aveva l'aria dimessa e umile, in un vestitino di lanetta. Quietamente, col suo occhio tranquillo, la bimba guardava il visitatore, come se capisse, come se aspettasse la domanda che egli doveva fare, serenamente, con la pazienza del martire. E dinanzi a quel dolce e pensoso occhio di fanciulletta, don Crescenzo sentì legarsi la lingua e fu con un grande sforzo che balbettò: - Cesarino, ero venuto per quell'affare… Una vampa di fuoco arse le guance di Cesarino Fragalà: la moglie si arrestò dal mangiare e la bimba abbassò le palpebre, come se il colpo fosse oramai disceso sulla sua testa. - È difficile che ti possa servire, Crescenzo: tu non sai in che imbarazzi ci troviamo… - disse fiocamente Cesarino. - Lo so, lo so, - disse l'altro, non sapendo frenare la sua emozione, - ma io sono in una situazione peggiore della tua… - Non credo, - mormorò malinconicamente il negoziante che da pochi giorni aveva compita la sua liquidazione, - non credo. - Tu hai salvato l'onore, Cesarino, ma io non lo salvo! Che vuoi che ti dica? Non posso aggiungere altro… E non potendone più, sentendo sul suo volto lo sguardo pietoso della piccola Agnesina egli si mise a piangere. Un po' di vento della sera, entrando da un balcone socchiuso, facea vacillare la lampada a petrolio, ed era un gruppo fantasticamente malinconico quello del marito, della moglie, della figliuola che stretti fra loro, infelicissimi, sogguardavano quell'infelicissimo che singhiozzava. - Non si potrebbe dargli qualche cosa, Luisa? - sussurrò timidamente Cesarino all'orecchio di sua moglie, mentre l'altro si lamentava vagamente. - Che deve avere? - disse Luisa, pensando. - Cinquecento lire.., erano di più… ho pagato una parte… - Ed è debito di… giuoco? - disse ella, freddamente. - … Sì. - Che diceva egli, di onore? - Egli ha fatto credito a noi, e se non paga, il Governo lo mette in carcere. - Ha figli? - …Sì. Ella sparve, di là. I due uomini si guardavano, dolorosamente, mentre la ragazza li guardava or l'uno, or l'altro, coi suoi occhi buoni e incoraggianti. Dopo un poco, Luisa ritornò, un po' più pallida. - Questa è l'ultima nostra carta da cento, disse, con la sua voce armoniosa. - Restano certi spiccioli, per noi: ma per noi, Dio provvede. - Dio provvede, - ripetette la bimba, prendendo la carta da cento dalle mani di sua madre e dandola a don Crescenzo. Ah, in quel momento, di fronte a quella povera gente che contava i bocconi del suo pane e che si disfaceva dell'ultima sua moneta per aiutarlo, in quel momento, fra quegli sguardi dolci e tristi di gente rovinata che pure serbava la fede, serbava la pietà, egli si sentì infrangere il cuore e vacillò come se dovesse perder conoscenza. Per un istante, pensò di non prender quel denaro, ma gli sembrava affatato, sacro, passato da quelle mani di donna buona e forte, passato per le manine di quella coraggiosa e placida fanciulletta: disse solo, tremando: - Scusate, scusate… - Non fa niente, - disse subito Cesarino Fragalà, con la sua bonarietà. - Siete stati così buoni, tanto buoni… - mormorava, licenziandosi, guardando umilmente le due donne che sopportavano così nobilmente l'infortunio. Cesarino lo accompagnò fuori l'anticamera. - Mi dispiace che sono poche… - gli disse, - non ti serviranno. - Per il cuore valgono centinaia di migliaia, - esclamò tristemente il tenitore del Banco lotto. - Ma ho da dare quattromila seicento lire al governo, e ho solo queste… - Gli altri… non ti hanno dato nulla? - Nulla: tutta una disgrazia, tutta una mala sorte. Andrò su, dal marchese Cavalcanti… - Non ci andare, - disse Fragalà, crollando il capo, - è inutile. - Tenterò… - Non tentare. Stanno peggio di noi: e ogni giorno hanno paura di veder morire la marchesina. Il padre ha perduto la testa. - Chissà… - Ascoltami, non andare. Ti puoi trovare a qualche brutta scena… - Brutta scena? - Sì, la marchesina ha delle convulsioni che le strappano grida terribili. Ogni volta che le sentiamo, ce ne usciamo di casa. Grida sempre: mamma, mamma. no strazio. - Ma è pazza? - No: non è pazza. Chiama aiuto, nelle convulsioni. Dicono che vede Non vi andare, è inutile. Fa buone cose. - Grazie, - fece l'altro. E si abbracciarono, tristi, commossi, come se non si dovessero vedere più. Adesso, quando don Crescenzo si trovò sotto il portone del palazzo Rossi, dopo esser disceso in gran fretta per le scale, quasi temesse udire scoppiare alle sue spalle le grida strazianti della marchesina Cavalcanti che moriva, quando si fu trovato solo, fra la gente che andava e veniva da Toledo, in quella sera dolce di primavera, egli pensò, a un tratto, che tutto era finito. Le cento lire che il suo pianto aveva strappato alla miseria dei Fragalà, erano chiuse nel suo vuoto portafoglio e il portafoglio messo nella tasca del soprabito; e a quel posto egli sentiva come un calore crescente, poiché quella moneta era veramente l'ultima parola del destino. Non avrebbe trovato più niente: tutto era detto. La sua disperata volontà, la sua emozione sempre più forte, i suoi sforzi di una giornata, correndo, parlando, narrando i suoi guai, piangendo, e il gran terrore della rovina che gli sovrastava, non erano riesciti che a togliere l'ultimo boccone di pane ai più innocenti fra i suoi debitori: cento lire, una derisione, di fronte alla somma che egli doveva pagare il mercoledì, infallibilmente: cento lire, niente altro, una goccia d'acqua nel deserto. E lo intendeva: poiché aveva esaurito un immensa quantità di forza e di commozione, arrivando solo a strappare quelle lire alla onestà della famiglia Fragalà, poiché si sentiva fiacco, debole, esaurito, era dunque quella, l'ultima parola, non vi erano altri denari, non vi erano più denari, per lui, doveva considerarsi perduto, perduto senza nessuna speranza di salvezza. Una nebbia - e forse erano lacrime - nuotava avanti ai suoi occhi: e la corrente della folla lo trascinava verso il basso di Toledo. Si lasciava trasportare, sentendosi in preda al destino, senza forza di resistenza, come una foglia secca travolta dal turbine. Non poteva fare più nulla, più nulla: tutto era finito. Qualcun altro, ancora, gli doveva del denaro, il barone Lamarra, il magistrato Calandra, due o tre altri, somme piccole, ma egli non voleva neppure andarvi: tutto era inutile, tutto, poiché dovunque egli era apparso, dovunque aveva portato la sua disperazione, egli aveva trovato il solco di un flagello eguale al suo, il flagello del giuoco che aveva messo fra la vergogna, la miseria e la morte, tutti quanti, come lui. Non osava entrare in casa sua, ora, malgrado che si facesse tardi. Era disceso per Santa Brigida e per via Molo alla Marina, dove abitava una di quelle alte e strette case, in cui si penetra dagli oscuri vicoli di Porto e che guardano il mare un po' scuro, fra la dogana e i Granili: e dalla via Marina, lungo la spiaggia dove erano ancorate e ammarrate le barche e le barcaccie dei pescatori, egli guardava, fra le mille finestre, la finestrella illuminata, dietro la quale sua moglie addormentava il suo bambino. Ma non osava rientrare, no; tutto non era dunque finito? Sua moglie avrebbe letto la sentenza, la condanna, sul suo volto, ed egli non reggeva a questa idea. Una fiacchezza lo teneva, sempre più grande, spezzandogli le braccia e le gambe, in quell'oscurità, in quel silenzio, dove solo le carrozzelle che portavano i viaggiatori ai treni partenti la sera, dove solo i trams he vanno ai comuni vesuviani mettevano ogni tanto una nota di vitalità, nella bruna e larga via Marina. Non reggendosi, si era seduto sopra uno dei banchi della lunga e stretta Villa del Popolo, il giardino della povera gente, che rasenta il mare: e di là, vedeva sempre, sebbene più lontana, lontana come una stella, la finestrella illuminata della sua piccola casa. Come rientrare, con qual coraggio portare le lacrime e la disperazione in quel pacifico, felice, piccolo ambiente? E quel bimbo innocente e l'altro che doveva nascere, e la madre così gloriosa di suo marito, del suo fanciulletto, doveva lui, lui, in quella sera farli fremere di dolore e di onta? Ah questo, questo gli era insopportabile! Un castigo così grande, così grande, piombato sulla testa di tutti, come se fossero i maledetti, distruggendo la salute, la fortuna, l'onore, tutto! E in una successiva visione, egli riannodò tutte le fila di quel castigo, partendo da sé, a sé ritornando, andando dalla propria disperazione a quella altrui, sempre guardando il breve faro luminoso, dove la sua famiglia aspettava. E rivide la faccia pallida e smunta di Ninetto Costa che partiva per un assai più lungo viaggio, certo, che quello di Roma, lasciando un nome di fallito e di suicida a sua madre; rivide il corpo colpito di apoplessia dell'avvocato Marzano, le labbra farfuglianti e la miseria atroce, per cui non aveva neppure il denaro necessario per comperare dell'altro ghiaccio, mentre su di lui si aggravava un'accusa disonorevole, svergognante la sua canizie; e il professor Colaneri, scacciato dalle scuole, accusato di aver venduto la sua coscienza di maestro, e dopo aver buttato l'abito talare, costretto a rinnegare la religione, dove era nato, di cui era stato sacerdote; e la tristezza del dottor Trifari, navigante in un battello di emigranti, senza un soldo, privo di tutto, mentre i due suoi vecchi genitori tornavano, per aver pane, a scavare l'arida terra; e la rassegnata dedizione di Cesare Fragalà, dedizione in cui era finito il nome dell'antichissima ditta e in cui eravi tutto un avvenire di miseria da affrontare; e infine, su tutto, la malattia di cui moriva la fanciulla Cavalcanti, mentre suo padre non aveva più un tozzo di pane da portare alla bocca. Tutti, tutti castigati, grandi e piccoli, nobili e plebei, innocenti e colpevoli; ed egli insieme con loro, egli e la sua famiglia, castigati in tutto quello che avevan di più caro, la fortuna, la felicità della casa, l'onore. Una schiera d'infelici, dove coloro che più piangevano, erano i più innocenti, dove le piccole creature, dove le fanciulle, dove le donne scontavano gli errori degli uomini, dei vecchi, una schiera di miserabili, a cui mentalmente egli aggiungeva gli altri che conosceva, di cui si ricordava: il barone Lamarra, sulla cui testa la moglie teneva sospesa l'accusa di falsario e che era tornato a far l'appaltatore, sotto il sole, nelle vie, fra le fabbriche in costruzione; e don Domenico Mayer, l'impiegato ipocondriaco, che in un giorno di disperazione, non potendone più dai debiti, si era buttato dalla finestra del quarto piano, morendo sul colpo; e il magistrato Calandra, dai dodici figliuoli, tenuto così in mala vista, che arrischiava ogni sei mesi di esser messo a riposo; e Gaetano il tagliatore di guanti che aveva ammazzato sua moglie Annarella, con un calcio nella pancia, mentre era incinta di due mesi, e nessuno aveva saputo nulla, salvo i due figliuoli che odiavano il padre, poiché anche a loro, ogni venerdì, prometteva di ammazzarli, se non gli davano denaro; e tutti, tutti quanti, agonizzanti e pur viventi fra le strette del bisogno e il rossore dell'onta; ed egli, infine, che aveva la sua famigliuola là, nella picciola casa, quietamente aspettante, mentre egli non aveva il coraggio di tornarvi, sapendo che la prima notizia della loro sventura gli avrebbe abbruciato le labbra. Tutto un castigo, tutta una punizione tremenda: vale a dire la mano del Signore che si aggrava sul vizioso, sul colpevole e lo colpisce sino alla settima generazione; anzi lo stesso vizio, la stessa colpa, quel giuoco infame, quel giuoco maledetto, che si faceva istrumento di punizione, contro coloro che di questo vizio, di questa colpa si erano fatti il loro idolo; nella istessa passione, come in tutte le altre, che sono fuori della vita, fuori della realtà, nella passione istessa il germe, la semente della durissima penitenza. Colpiti dove avevano peccato, anzi dal peccato istesso! Tutto un lungo scoppio di pianto, da tutti gli occhi, dai più puri, uno scoppio di singulti dalle più pure labbra: una folla di povere creature oneste, dibattentisi fra la fame e la morte, scontando gli errori altrui, dando ai colpevoli il rimorso di aver gittato le persone che più amavano, in quell'immenso abisso. Non uno salvo, non uno, di quelli che avevano dato la loro vita al giuoco, all'infame giuoco, al giuoco sciagurato, divoratore di sangue e di denaro: neppur lui salvo, neppur la sua famiglia, anche lui spezzato, anche i suoi figli ridotti, certo, a stendere la mano. Ah troppo grande, troppo grande, insopportabile il castigo! Che aveva egli fatto, per dover esser lì nella strada come un mendico che non osa rientrare al suo tugurio, non avendo potuto avere l'elemosina dal duro cuore degli uomini? Che aveva fatto lui, per dover andare in carcere, come un malfattore, perché sua moglie si vergognasse di appartenergli e i suoi figli non nominassero più il suo nome? Ah era troppo, era troppo: che colpa aveva dunque commessa? Una coppia di guardie passò nella via Marina e interrogò con lo sguardo le oscurità della banchina e della Villa del Popolo: l'ombra era profonda, le guardie non videro don Crescenzo, disteso sul sedile. Ma egli, come per un rapido cambiamento di scena, si vide dinanzi agli occhi, nel Banco lotto suo, al vico del Nunzio, le ardenti sere del venerdì e le affannose mattinate del sabato, in cui i giuocatori si affollavano ai tre sportelli del suo Banco, con gli occhi accesi di speranza e le mani tremanti di emozione: e rivide i cartelloni a grandi numeri azzurri e rossi, che incitavano i giuocatori a portare nuovo denaro al lotto: rivide i cento avvisi dei giornali cabalistici e i motti: Così mi vedrai! Sarò la tua fortuna! - Il tesoro del popolo! - L' infallibile! - Il segreto svelato! - La ruota della fortuna! - e le visite frequenti dell' assistito le fatali connivenze con tutti gli altri cabalisti, frati, spiritisti, matematici, che infiammavano i giuocatori col loro strano gergo, con le loro strane imposture: rivide le settimane di Natale, di Pasqua, in cui il giuoco diventa furioso, feroce, tanto è il desiderio del popolo di entrare nel sempre sognato Paese di cuccagna e si rivide sempre lui, contento di quelle illusioni che finivano in una dolorosa delusione, contento che quel miraggio acciecasse i deboli, gli sciocchi, gli ammalati, i poveri, gli speranzosi, tutti quelli che desideravano il Paese di cuccagna, contento che tutti, tutti quanti fossero attaccati da tale lebbra, che niuno se ne salvasse: contentissimo, quando, nelle grandi feste, cresceva l'ardore, e cresceva il giuoco, e cresceva il suo tanto per cento. Vide tutto, lucidamente, dalla sua persona che si curvava a scrivere sui registri le cifre maledette e le promesse fallaci, alle facce rosse o scialbe dei giuocatori, roventi di passione. E piegò il capo, abbattuto, sentendo di aver meritato il castigo, egli stesso, la sua famiglia, fino alla settima generazione. Il giuoco del lotto era una infamia che conduceva alla malattia, alla miseria, alla prigione, a ogni disonore, alla morte: ed egli aveva tenuto bottega di quell'infamia.

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