Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Racconti 1

662654
Capuana, Luigi 4 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il suo tono vivo, argentino si era alquanto abbassato, e aveva preso un che indefinibile di piú melodioso e di mesto che un giorno, mi sembrava, non ci era affatto. Ma riflettendo meglio, credetti di scorgere un'uguale mestizia nei suoi occhi, anzi un po' piú apertamente manifesta che non fosse nella voce. Che cosa le era accaduto? E, innanzi tutto, come si trovava ella in Catania? Le cento interrogazioni che mi rivolgevo affollatamente rimasero per quel gi orno tutte senza risposta. La mia memoria ha di rado un vivo ricordo dei luoghi e delle fisonomie; è un difetto che non son riuscito a correggere per quanto me ne fossi impegnato. Il giorno appresso però i luoghi mi vennero in mente con notevole precisione. Ricordavo benissimo di aver veduto quella donna in Firenze quattro o cinque volte, non piú, sui Lungarni, alle Cascine, a San Miniato al Monte, in casa di una persona a me carissima, la quale amareggiò da indi a poco la mia vita con un'indegna azione. Ricordavo di averle anche ind irizzato una o due volte la parola; a che proposito e in quali circostanze mi era completamente sfuggito. Non sapevo però capacitarmi per quale ragione l'impressione ora ricevuta fosse cosí potente da commuovermi, ed agitarmi come se io avessi riveduto in lei qualcosa di piú che una semplice conoscenza. Le sensazioni di cinque anni fa si erano rinnovate, rese piú appariscenti. Avevo tutto l'agio di osservarle, di studiarle; e piú le fissavo piú si facevano intense e fresche, tanto da produrmi l'illusione di una realtà lí presente. Gli atteggiamenti, i vestiti, la voce, il sorriso mi ritornavano alla memoria net ti, precisi, benché avessi la certezza che allora ci avevo badato assai poco; e questo fenomeno cosí strano o molto fuor del comune contribuiva in gran parte ad accrescere la mia curiosità. Ritornai due giorni di seguito alla Villa Bellini, gironzolai per le principali vie della città senza lasciar passare inosservato un sol viso di donna; ma nulla di nulla. Corsi al Grande Albergo. Chiesi ad un cameriere se vi fosse alloggiata una signora piccola, delicata, bionda; una lombarda dall'abito color perla, con un cappellino di velluto nero a fiori turchini, un manicotto di vera martora e un mantello color marrone a frange della stessa stoffa (indicazioni troppo vaghe e confuse, ma non potevo darne delle altre). Il cameriere rispose di no. Gli sembrava però di aver veduto, giorni fa, entrare nell'albergo una persona che quasi corrispondeva a quelle indicazioni; ma, dopo aver mangiato alla tavola rotonda, era ita via. - Sola? - chiesi ansiosamente - Sola, mi pare -. Quel "mi pare" intorbidò un pochino il piacere che avevo provato alla prima parola. Corsi allo stesso modo per altri due o tre dei principali alberghi della città e con ugual resultato Cominciavo ad arrabbiarmi. E piú che colla cattiva sorte, me la prendevo con me stesso. Perché non me gli ero avvicinato quando la incontrai sullo spianato della Villa? Ella mi aveva guardato a lungo, aveva quasi fatto le viste di riconoscermi; perché avevo esitato? Passò una settimana. Quella donna mi aveva intanto messo il cuore sossopra. Già da due notti non chiudevo occhio. Ero, al mio solito, caduto in preda di una di quelle subitanee, irragionevoli passioni che mi han reso cosí infelice, e dal principio venivo condotto a non presagire nulla di bono per la mia salute e la mia pace. Avessi almeno potuto rivederla! Il decimo giorno, un giovedí, mi recai alla Villetta della Marina, e stavo da un'ora appoggiato ad uno dei piloni del ponte della ferrovia, senza sentir nulla della musica e senza intender verbo di un lungo discorso del mio amico Michele che mi parlava di positivismo e di filosofia, un discorso opportuno! Divoravo cogli occhi tutte le signore che mi passavano davanti, provando spesso un sussulto, un fremito a un color di veste, ad un agitarsi di cappellino che scambiavo per la veste e pel cappellino di lei; e soffrivo una vera tortura in quel vano attendere, in quel frequente ingannarmi, in quel persistente sperare. Finalmente, quando la folla era piú densa, quando il passeggio era piú lieto e piú svariato, mentre la banda militare suonava il magnifico valzer del Fausto di Gounod, ecco affacciarsi al cancello della Villetta chi? Lei, proprio lei! E sola! Fui sul punto di venir meno, tanto il sangue mi rifluí violentissimo al cuore. Passò davanti a me, a pochi passi di distanza; ma non potè vedermi, impacciata come pareva del rivolgersi degli occhi di tutti curiosamente su lei: sincero e tacito elogio della sua grazia, della sua bellezza e della sua eleganza. Un giovane uffiziale la salutò. Ella rispose con un piccolo cenno del capo ed un sorriso. Io ne avevo un gran dispetto. Un vivo sentimento di gelosia si era già destato a poco a poco dal fondo del cuore, e potevo a stento frenarmi di non impertinenzare tutti coloro che osavano met terle gli occhi addosso e far chiose e comenti. Non volli avvicinarmele nemmen questa volta. Ero troppo commosso. Mi sarei imbrogliato. Tant'occhi si sarebbero fissati sopra di noi due! Ella girò pei viali, fermossi un istante sul ponticello di legno che cavalca il piccolo canale dove nuotano i cigni e uscí fuori della Villa. Lasciai Michele con un pretesto, deciso di seguirla con cuore tremante fino all'uscio di casa. Le andai dietro un gran pezzo lungo la via Etnea, tenendomi sempre a distanza, ma non tanto che l'occhio potesse facilmente smarrirla. Evidentemente essa ritornava al solito posto della Villa Bellini. Avrei amato meglio che fosse andata a casa. Chi sa? Nella Villa Bellini mi sarebbe forse di bel nuovo mancato il coraggio di farmele innanzi. Il mio turbamento infatti era straordinario davvero; ne stupivo io medesimo. Perché quella donna mi trascinava dietro a sé come legato da una catena invisibile, ma possente? Che sarebbe accaduto tra me e quella donna dopo che mi sarei fatto riconoscere? Speravo e temevo. La testa era confusa, il cuore palpitava rapidissimo. Riflettevo però come tutte le volte che mi era accaduto di amare avessi sempre amato a quel modo, con improvvisa violenza. In due, tre giorni l'amore era celeramente montato per tutti i gradini della passione, saltandone forse qualcuno; e prima che avessi avuto tempo di riflettere era giunto alla cima; forza era stato subirlo in santa pace, rassegnarsi a godere e a soffrire. Quello che in questo caso mi dava piú pensiero era un intuito confuso, inesprimibile di un passato che la memoria non riusciva ad afferrare; un sentimento egualmente confuso ed inesprimibile di gioie amare, di dolori profondi che l'avvicinamento di quella donna mi avrebbe fatto patire. Eppure la seguivo, e con acre vol uttà avevo a poco a poco fatto sparire la distanza; talché, passato appena il cancello della Villa Bellini, mi ero trovato a pari passo con lei. Si volse, ci guardammo un momento, io aspettando che fosse lei la prima a farmi un accenno, ella quasi tacitamente richiedendo ch'io fossi il primo a rompere quel diaccio importuno. Ci risolvemmo tutti e due nello stesso punto, tutti e due pronunziammo con vera soddisfazione un unisono "Oh! Lei!" e ci stringemmo la mano. Cominciò una conversazione disordinata, arruffata. Eravamo impacciati allo stesso modo. Si taceva, ci facevamo delle domande, si tornava a tacere. Io godevo ch'ella potesse notare la mia confusione. - La donna - pensavo - è cosí acuta! Ne indovinerà subito il motivo. Qual donna non ha avuto la certezza di essere amata almeno due mesi avanti di sentirselo dire? Ci fermammo innanzi alla gabbia delle tortorelle e dei fagiani. Io dissi una delle solite trivialità sull'amore pacifico delle tortorelle. Ella notò invece il fagiano dal mantello bianco brizzolato, dalla cresta rossa, vellutata, che passeggiava altiero attorno alla modesta sua femina e di tanto in tanto la beccava. - Creda - ella disse - non son le tortorelle l'ideale del la donna. Ecco una grulleria data ad intendere dai poeti! Se tutte le donne avesser agio di vedere questa scena dei fagiani, le direbbero di una voce che voglion essere amate a quella guisa. Il ragionare si metteva su di una buona via. Ma io tacqui, assorto com'ero in ciò che udivo; beato di vedere le sue labbra piccole, rosee, sottili muoversi e dare il varco ad una voce flautina, la quale pareva uscire proprio dal profondo del petto. Sedemmo sur uno dei sedili dello spianato, a mano destra della cattiva statua di Androne. Non c'era anima viva. La giornata non pareva di gennaio. Il cielo limpidissimo. Il sole caldo come nel maggio. Le campagne attorno coperte di verde come nel meglio della primavera. L'aria tiepida, profumata, voluttuosissima. - E non l'ha piú riveduta? - fece ella, riattaccando improvvisamente il discorso (Accennava alla persona un dí a me cara che aveva poi, come dissi sul principio, avvelenata la mia vita con una indegna azione.) Risposi col capo di no. Guardavo ora il suo irrequieto piedino imprigionato in un elegantissimo stivaletto, ora le sue manine rivestite di guanti color perla, pari all'abito (lo stesso abito di quando l'avevo incontrata l'altra volta), ed ero come trasognato. - Sono stata troppo importuna - soggiunse subito quasi mortificata - richiamandole alla niente dei dolorosi ricordi. Gliene chiedo perdono. La piaga non ha forse ancora fatto il margine, ed io ... - Ella s'inganna - mi affrettai a rispondere - non vi è nemmen cicatrice. Quella persona, quei fatti son già per me divenuti assai meno che un ricordo, quasi meno che un sogno. Sa? Io ho un'abitudine poco comune (forse dovrei dire: un singolare organismo); dei casi della vita ricordo i lieti soltanto. Mi pare che i dolori si succedano cosí frequenti nei pochi giorni della nostra esistenza da non dover poi tenerli, come si suol fare, in gran conto. Chi ne avrà mai difetto? Ma le gioie! Ecco: io ho segnato co n delle gioie, piccole o grandi importa poco, i piú notevoli punti della mia vita ... Dio volesse potessi aggiungervene presto un'altra che oso appena sperare! - Ah! - esclamò ella con un tono tra la sorpresa e il disinganno. Ed abbassò il capo e chiuse gli occhi come per raccogliersi meglio e pensare. A me pareva di aver detto, colle ultime parole, una gran cosa. Se ella fosse stata curiosa di domandarmi qual'era quella gioia che osavo appena sperare, la risposta era pronta sulle mie labbra; non l'avrei fatta mica attendere. Ma quell'"ah!" pronunziato a quel modo! Restammo silenziosi un buon pezzo. Io avrei voluto rimaner lí, al suo fianco, per tutta l'eternità. Ero, oso dire, inebriato dal dolce profumo della sua persona, e godevo in vedere il fascino che mi aveva soggiogato, accrescersi a dismisura, invadermi e penetrarmi tutto con sensazione ineffabile. Quei popoli che chiamano il fiore e la donna collo stesso nome, hanno indovinato un mistero. Vi son dei momenti però nella vita della donna nei quali il suo profumo si spande piú soave e piú ricco intorno a lei. Che un uomo capace di gustarlo e di apprezzarlo le passi allora di accanto, foss'anche alla sfuggita; sarà vinto, ammaliato, non potrà non amarla. Or io in quel punto non respiravo altro che questi divini profumi. Ad ogni boccata d'aria me gli sentivo confondere col sangue, immedesimar proprio colla pura essenza dell'organismo. Già i minuti, segnati dal battito accelerato del mio cuore, contavano piú assai degli anni nella vita di quell'affetto nato da poco oltre una settimana. Piú stavo lí, al fianco di lei, e piú un'intima, rapida trasformazione mi faceva perdere il senso della realtà e delle convenienze sociali Mi pareva naturale ch'ella dovesse aver coscienza di ciò che il suo potere aveva operato dentro l'anima mia; mi pareva ancora piú naturale ch'ella sentisse nel suo cuore quel profondo rimescolarsi della vita che io prova vo nel mio. Sicché il tagliar corto a tutti i preamboli, il fare a meno delle delicate transizioni, il lasciar da banda le riguardose reticenze mi sembrava una cosa non solo opportuna, ma urgente. Come la vita interiore, che batteva il suo ritmo sublime in noi due, non aveva niente di comune coll'andare ordinario del mondo, cosí non era sciocchezza l'assoggettarla nella sua rivelazione alle stupide leggi del mondo? Io pensavo questo e ben altro durante quei momenti di silenzio, mentre gli occhi si deliziavano nella contemplazione di quella bellezza gentile. Ed ella intanto a che mai pensava? Sembrava assai trista. I suoi occhi stavano, è vero, fissati sull'Etna che si elevava orrido e maestoso lí rimpetto, ma pareva guardassero senza vedere. Da certi quasi impercettibili movimenti della pupilla, da certo sorriso leggiero e sfumatamente ironico che appariva ad intervalli sulle sue labbra, io capivo benissimo che quell' anima era anch'essa agitata; che un mondo forse di ricordi, forse di sogni e di speranze si muoveva confuso innanzi alla sua mente e la rapiva e teneva assorta. Ma, entrava il mio povero fantasma in un breve cantuccio di quel mondo? O era ella tanto lontana da me col cuore quanto io le ero vicino? Scosse e levò in alto, sospirando, la bionda testina, come per cacciar via i tristi pensieri che le si affollavano innanzi, e si volse a me cogli occhi e colle labbra sfavillanti di una luce e di un sorriso inattesi. Io, che non avevo perduto il piú piccolo dei suoi movimenti, le avevo letto nell'anima. Mi era parso di vederla fortemente lottare, esitare a lungo, poi decidersi a un tratto con risoluzione improvvisa. Aspettavo quindi ansioso che da quelle sue labbra cosí fresche e cosí belle uscisser parole da spiegarmi il mistero. Giacché io non avevo siffattamente perduto il senso della realtà da non piú comprendere che quanto accadeva tra me e quella donna non fosse una cosa ordinaria; ma, circostanza ben strana, non ne provavo meraviglia. Vi sono certe situazioni dello spirito cosí complicate e sorprendenti, che un breve minuto può talvolta formare il tormento e la consolazione di tutta la vita. In quel punto (lo sentivo senza intenderlo) mi trovavo in una di esse. - Chi l'avrebbe mai creduto - diss'ella cavandosi un guanto - che un giorno ci saremmo riveduti qui, in faccia al suo Etna e con questo magnifico sole che quasi sembra ci festeggi? Eppure, ora che ci siamo, mi par la cosa piú naturale del mondo - Le cose piú naturali - risposi - non sono punto quelle che piú facilmente comprendiamo. Potrà ella, per esempio, spiegarmi perché non ebbi il coraggio di avvicinarmele la prima volta? Perché la memoria non mi diè subito i ricordi che la mia curiosità le chiedeva? Perché questi ricordi mi si destarono in mente a poco a poco, provocando nel cuore un lavorio, un turbamento, una smania che non si sono ancora acchetati? Intanto, che cosa di piú naturale? - Davvero? - E questa parola fu da lei pronunziata con un accento cosí dolce e cosí nuovo che voleva significare mille sentimenti ad una volta, cioè una sorpresa ingenua, una gioia pudica, una soddisfazione, un rimpianto, qualcosa di appassionato e di triste, d'infantile e di materno che mi colmarono di stupore e mi fecero perdere il cervello. Senza che io me ne accorgessi, senza alcuna sua resistenza presi tra le mie mani una delle sue manine e accarezzandogliela (non osavo ancora stringerla) tutto di un fiato le dissi: - Sí, Delfina, nulla di piú naturale, quantunque nulla di piú arcano. A certi istanti, lo confesso schietto, ho avuto fin paura, osservando lo sconvolgimento di tutto l'esser mio che la sua persona ha operato. Ero lieto, tranquillo, spensieratissimo. La vita mi correva come un limpido ruscello tra le aiuole di un giardino. Provavo anzi un immenso piacere nel ricordare il passato cosí buio, cosí tristo e confrontarlo col presente. Non temevo, non speravo nulla dall'avvenire. Vivevo come un fanciullo ... Mi riposavo della vita ... Ed ecco, Delfina, veggo lei ... e tutta questa pace incantevole, tutta questa felicità semplice, ma benefica, sparisce ad un tratto! Non mi sento però infelice. L'arcano è qui! È un nuovo mondo che sta per aprirsi all'anima mia. Lo sento ... ne son certo; e la chiave è tra le sue mani. Sarà, mi pare, una felicità diversa ma non meno bella; agitata, ma non meno benefica ... Fosse anche un dolore! Non monta nulla! Ho un presentimento vago, indeterminato, che cotesto dolore mi dovrà esser caro piú di molte e molte gioie ... Ben venga dunque! Oh! Creda! Io, io pel primo, son cosí sorpreso di quanto le sto dicendo e di quel che le dovrò dire! Ma c'è dentro di me una forza superiore alla mia volontà che mi costringe mio malgrado. Una voce insistente mi susurra all'orecchio: "o ora, o non mai!" ed io parlo e parlo senza nulla curarmi di ciò ch'ella può pensare! La mi perdoni, Delfina! ... Vorrei meglio dire: perdonami, Delfina! ... Tornerebbe lo stesso ... E oramai! ... Mi son messo fuor della legge, e mi piace di starci. Che avverrà di me? Non mi curo di saperlo. Quello che io so di certo è che non ho mai provato nulla di simile, e che tutto è mistero. Quello che io so di piú certo è che vi sono al mondo due sole parole per rivelare le mille sensazioni che in questo momento mi opprimono, e sono: t'amo! Qui, come se queste due sillabe pronunciate basso e all'infretta mi avessero scottato le labbra, baciai commosso la sua mano quasi per attutire il bruciore con qualcosa di fresco, e mi alzai atterrito del mio insolito ardire. Se qualcuno ci avesse già visti! Girai gli sguardi da ogni lato. Fortunatamente nei viali piú lontani non appariva persona. Mi voltai allora trepidante verso di lei. Che avrebbe ella risposto? Ella mi guardava sorridente, quasi tranquilla, cogli occhi che nuotavano nelle lagrime a stento rattenute. Il suo petto si alzava e si abbassava con una respirazione accelerata. Nulla però che accennasse o la sorpresa o lo sdegno. Pareva piuttosto quasi trasfigurata e come raggiante. Il suo volto acceso d'una fiamma leggiera aveva rapidamente acquistato un che di piú diafano meraviglioso. Gli sguardi, il sorriso le spandevano attorno alla fronte ombreggiata dal cappellino un'aureola a dirittura. Non sembrav a piú dessa. Io non mi sarei punto imaginato ch'ella potesse mai divenir bella a quel grado, e il piacere e la meraviglia che ne provavo guardandola mi fecero dimenticare per poco ciò che accadeva fra noi due. Infatti quando corsi a sedermi nuovamente al suo fianco, ero cosí fuor di me da non capire piú né quel che facevo, né dove mi trovavo. Ella prese, alla sua volta, la mia mano, e stringendola forte: - Grazie, Eugenio - esclamò; - grazie! - Né potè piú proseguire. Era troppo commossa Tratteneva a stento i singhiozzi. - Oh sí - continuò dopo essersi alquanto rimessa in calma; - noi siamo avviluppati dal mistero. Non viviamo forse in questo momento fuori del mondo? Non siamo come sopraffatti da una magica potenza che par trasmuti ogni cosa attorno e dentro di noi? ... Eugenio! - indi soggiunse dopo un istante di esitazione - pensi di me quel che lei vuole; mi creda pure una matta, mi creda, che piú? una sciagurata, la quale abbia perduto ogni pudore ... ma io non tacerò per questo, non posso affatto tacere! Io pre sto cieca fede a tutto quello che or ora mi ha detto; non la credo capace di mentire. Un uomo che fingesse avrebbe fatto altrimenti ... Ma sia! E cominci pure col disprezzarmi. Son sicura che alzandosi da questo sedile ella mi avrà piú amore, perché mi avrà piú stima. La sua stima mi è cara. Questo momento, non è vero? È per lei proprio inatteso. Ma io, io l'ho invocato a lungo, l'ho sospirato degli anni, non ho mai disperato che giungesse! Dal giorno che la seppi partito da Firenze, pallido, sofferente , quasi sfinito di forze, da quel giorno fino alla mattina che il vapore mi recò a Siracusa io non sognai altro che la Sicilia, quest'immenso giardino. Quante ore passate ad imaginarmi queste città cosí diverse dalle nostre, la sua casa, la sua famiglia! E, a giorni, come fui felice per la sola illusione di avere, con un miracolo dell'amore, veduto davvero! - Ma scusi, Delfina! - balbettai io, che a quelle parole mi sentivo sconvolgere il senno - Ho io inteso bene? Un miracol dell'amore? Possibile? Dio mio! Possibile? - È una storia breve, trista, semplicissima; ma è tutta la mia vita. Stia dunque a sentire Sono di già cinque anni e par proprio ieri! L'Emilia mi trasse fuori della sala ove era riunita la solita società di casa F***, e mi condusse nel salottino verde facendomi trattenere in mezzo all'uscio. Aspettava lei. Voleva parlarle prima che fosse visto dagli altri. Io ero ritornata in Firenze da fresco Ero stata a Pisa sei mesi col babbo, e però poco o nulla sapevo del loro amore. L'Emilia cominciò, non richiesta, a dirmi ogni cosa, e con un tono cosí ironico e pungente ch'io previdi subito una rottura. Però dal discorso, tutto pieno di pretesti, non ci volle molto a comprendere che il torto stava dalla sua parte. Allora, Eugenio, mi entrò nel cuore una grande pietà di lei! Pensai: chi sa com'egli l'ama? ... E intanto! E insieme alla pietà un sentimento di disprezzo per quella trista ragazza; vergognai di esserle amica. L'Emilia diceva di averle scritto una letteraccia, proprio cosí: ed era ansiosa di sapere in che modo l'avesse lei presa. "Ma insomma - le dissi - tu vuoi romperla ad ogni costo!" "È troppo serio - mi rispose - i mutrioni gli abborrisco" "Questo cuore non ha mai amato! Una simile leggerezza sarebbe inesplicabile. Ha creduto di amare e si è illuso!" pensavo io per vincere la mia stizza. Ma m'ingannavo. Quel cuore calcolava! Suonò il campanello Era lei. Io mi nascosi frettolosa nella stanza appresso e dietro la tappezzeria potei sentir tutto e vedere ... Tremavo, sudavo diaccio. Non mi ero mai trovata a un caso simile. Intesi il suo passo sul tappeto della stanza, poi la sua voce che pronunziava affettuosamente il nome di Emilia ... Ci furono alcuni momenti di silenzio. Indi cominciò tra voi due un dialogo che mi è rimasto impresso nella memoria parola per parola, un dialogo straziante, una vera lotta dell'amore colla freddezza e coll'egoismo, ma d ignitosa e sublime! Quanta passione nelle sue parole! Quanta mestizia nel suono della sua voce commossa! E insieme quanta fierezza nei suoi sguardi e quanta nobile alterezza in tutto il suo contegno! L'Emilia godeva e fremeva. Vedersi vinta nel suo stesso trionfo! Non se la sarebbe aspettata. Già la rottura, dall'indirizzo del ragionamento, si poteva omai dire inevitabile ... Era lo scopo della letteraccia e di quell'abboccamento preparato con arte ... Ma il modo le spiaceva, la contrariava; la si sentiva avvilita. Eugenio! È impossibile far capire ciò che io provai in quegli istanti. Ascoltavo trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva violentemente nel petto, come se da quel discorso fosse dipesa la felicità o l'infelicità della mia vita. Vi fu un punto in cui non seppi piú frenarmi di trarre la tappezzeria un pochino da parte per meglio udire non solo, ma anche per vedere. L'Emilia era stesa sulla poltrona, cogli occhi bassi, il viso contratto, e rodeva rabbiosamente la punta del suo collare di merletto ... Ella invece stava in piedi, lí presso, col viso bianco come un cadavere, il capo abbassato e le mani immobili nelle tasche dei pantaloni. Di sotto le sue sopracciglia scappavano certe occhiate che pareva volessero fulminare. Parlava con accento basso, represso, profondo: la voce tremava. Quale scena per me! Non potrò mai dimenticarla. Finalmente ella si scosse, passò una mano fra i capelli e sulla fronte, fece un moto colle spalle e poi disse: "Addio, Emilia! Non ci pensiamo piú!" Ma non si mosse. Attendeva forse una risposta. L'Emilia tacque. Ella, indegnato, voltò allora subito le spalle e andò via di corsa. Io avevo le lagrime agli occhi. Dovetti buttarmi su di una sedia per non cadere a terra ... Mi sentivo mancare "Poverino! - esclamavo; - poverino!" E non sapevo dir altro. Ma quella parola diceva tutto. Quando l'Emilia mi chiamò per rientrare in sala, io non potei trattenermi dal dirle: "Sei stata crudele! Hai commesso una vera indegnità! Mi hai fatto proprio male!" Ritornai a casa come istupidita, e corsi con un pretesto a mettermi subito a letto. Non potei chiuder occhio. L'avevo sempre dinanzi! E dentro le orecchie la sua voce! Era una cosa non mai provata per me. Il giorno appresso stetti sempre attristata, silenziosa, esclamando di quando in quando: "Poverino! Chi sa che farà mai? Come dovrà soffrire a quest'ora! Se potessi consolarlo! Oh, lo farei volentieri!" E mi arrabbiavo di esser donna. Poi stupivo di quel nuovo stato dell'animo mio, e mi chiedevo, spaurita, che voleva egli dire; ma non riuscivo a darmi una risposta, o rispondevo soltanto: "Passerà!" Ma non passava. I giorni si seguirono: il mio turbamento divenne maggiore. Provavo una smania di rivederla, rivederla da lontano, anche senza esser vista da lei ... e quando, tre o quattro giorni dopo, io lo incontrai sui Lungarni, presso al ponte alla Carraia, appoggiato alla spalliera del fiume, cogli occhi fissi sulle acque, mi sentii dare un tuffo al sangue: mi parve di morire, tanta fu la stretta del cuore. Allora cominciò per me un vero martirio senza nome. Che giornate! Che settimane! Che mesi! La sua imagine era diventata una necessità dell'anima mia; non sapevo saziarmi di fissarla e di adorarla. Amai quindi il mio patimento, e mi compiacqui di prolungarlo e di gustarmelo da tutti i lati. Mi pareva, che mattezza! che quel mio affetto cosí segreto, cosí fuori d'ogni speranza dovesse servirle di consolazione, di compenso pel vile tradimento dell'Emilia; e credevo che per cotesto santo fine non avrei mai pati to abbastanza! Era la prima volta, che il cuore mi si apriva alla vita ineffabile dell'amore! Né doveva amare piú mai! Tre mesi dopo ella lasciò Firenze e la Toscana quasi disperato della salute. Il mio dolore fu immenso! L'unico e debole filo di speranza di che osavo talvolta lusingare i miei sogni e i miei delirii, si spezzava ad un tratto. Già tra me e lei, credevo, c'era omai di mezzo l'infinito. Dio mio! E sarei morta senza essere riamata un istante; senza che l'amor mio fosse da lei conosciuto! Potei rassegnarmi anche a questo; e divenni, se era possibile, piú sua; giacché mi strinsi, giurando solennemente, ad un voto : non mi avrebbe avuto alcun altri! Ho mantenuto. Due anni appresso sposai, per crudele necessità di famiglia, un uomo il quale mi amava davvero, piú di quel che non meritassi e mi ama sempre. Sposa fedele, obbediente, servizievole, io non gli ho concesso che il mio corpo. Oh l'anima mia, no, non l'avrà mai! Son io colpevole? Non lo so; non voglio saperlo. Quando anche la fossi? Per me val lo stesso. Già ho tentato di amarlo, ma non ci son potuta riuscire. Tu, Eugenio, sei rimasto nella mia mente come una figura celestiale, bello di giovinezza immortale, s empre lo stesso, sempre l'Eugenio di quella sera fatale, col cuore immeritamente lacerato, coll'anima nobilmente dignitosa sotto un'onta vigliacca, e la tua immagine si scancellerà dal mio petto coll'ultimo respiro della mia vita! Quando mio marito mi annunziò che il suo officio d'ingegnere delle strade ferrate lo chiamava in Sicilia, fui, dalla contentezza, sul punto di ammattire. Mi pareva che la Sicilia fosse come una sola città e che ti avrei infallibilmente riveduto. Ahimè! Messina, Siracusa, Augusta, Catania dove saresti tu mai? Avrei voluto fin morire in Sicilia per rimanerti vicina! Giorni fa, oh! tu non puoi credere che festa fu la mia! E insieme che tormento! "Non mi ha riconosciuta!" dissi all'amica che avevo allato. Ma non voleva dir nulla! Ti avevo trovato! Finalmente! Ed ero decisa a cercarti. Oh non volevo andar via cosí lontano, in Oriente, senza dirti il mio segreto, senza sgravarmi il cuore da un peso affannoso! ... Come sono ora felice! Tu mi dimenticherai presto lo so; ma che m'importa? Mi hai amato un momento, almeno me l'hai detto, e voglio illudermi e credere. Non osavo sperar tanto. Ripetimelo! T'amo anch'io, Eugenio! T'amo! T'amo! Ed ora andiamo via - soggiunse tosto - e si levò da sedere - Delfina! Delfina! - esclamai trattenendola per la mano, né sapendo aggiunger altro - Lasciami! Andiamo! - diss'ella con un accento dolce e quasi di preghiera - Ma quando, ma dove potrò rivederti? - le chiesi allora atterrito - Rivedermi? - fece ella, diventando seria tutto ad un tratto - Rivedermi? Mai piú! Credi che io sia tanto forte da sfidare il pericolo? No, Eugenio. Sono stanca. Lasciami, andiamo per pietà! Non le ritenni piú la mano e il suo braccio cadde come un corpo inerte. La guardai in viso. Un pallore mortale aveva improvvisamente tinto le sue guance e scolorito fin le sue labbra - Tu soffri? - le chiesi piú atterrito di prima - T'amo! - rispose con voce spenta. E si avviò a capo chino Fatti pochi passi, si rivolse verso di me che le tenevo macchinalmente dietro. - Ti chiedo una grazia - disse, sforzandosi ad un sorriso: - mi giuri di accordarmela? - Te lo giuro! - risposi non sospettando nulla di quel che avrebbe richiesto. - Non seguirmi! - Oh! - Hai giurato! - riprese con autorevole dignità - Poi è inutile rivederci! Domani l'altro partirò con mio marito per Costantinopoli, ove la società delle ferrovie lo manda a dirigere e a sorvegliare i lavori. Perché metterci al repentaglio di mutarci in un rimorso questi tristi, ma grandi, ma solenni momenti di gioia? - Scendemmo pei viali, silenziosi come due condannati a morte; io traendo a stento i passi, senza vedere né pensare; Delfina lesta e quasi affrettata. Giungemmo al cancello. - T'amo! - ella mi disse sottovoce come addio, e mi strinse la mano. - T'amo! - risposi. E mi appoggiai ad uno dei candelabri che sono lí innanzi. Si allontanò per la via diritta andando in su, poi torse a destra. E quando vidi sparire dietro la cantonata l'ultimo lembo della sua veste, mi parve che metà della mia vita fuggisse via dietro a lei!

L'aveva incontrata sull'uscio del salotto, piú bella del solito, col viso acceso, stretta nel semplicissimo vestito di faglia nera che ne modellava il corpo come una tunica di statua greca; col seno rigonfio, e le pupille scintillanti sotto il velo abbassato fino a metà della faccia. Al vederla cosí, contrariata dalla di lui presenza e pur risoluta di andar fuor i, Giovanni s'era sentito mordere il cuore. - Non andare! - le aveva detto con voce tremante. Ella fece una spallata e si fermò davanti allo specchio per aggiustarsi il cappellino. - Non andare! - Perché? - rispose, voltando appena la testa. - Perché ... voglio cosí! - A quel voglio che gli costava un grandissimo sforzo, ella era scoppiata in un risolino ironico, sdegnoso, e aveva preso in mano l'ombrellino. - Virginia!!! - Sei impazzito? - rispose, sentendogli alzare la voce. - Sí, si sentiva diventar pazzo al vederla andar via tranquillamente, quasi fosse stato nulla; e balzò a sbarrarle l'uscita col corpo che gli fremeva tutto, e gli occhi che non ci vedevano piú. Virginia si fermò, interdetta, e lo guardò fisso; poi, indietreggiando di un passo: - Levati di lí! - gli disse con voce repressa: - levati di lí! - Giovanni restava piantato lí, supplicando con lo sguardo, senza dir motto. - Levati di lí! - ella ripeté. Brandiva l'ombrellino, mordendosi il labbro inferiore, spirante minaccia. E Giovanni s'era fatto da parte e l'aveva lasciata passare, intimidito come un fanciullo, dando in uno scoppio di pianto, peggio d'un fanciullo, avvilito dalla coscienza della propria fiacchezza e pentito di quella resistenza servita soltanto a irritare sua moglie di piú. Oh, ella sapeva di poter tutto su quell'uomo! Quando con arti da sirena gli buttava l'elemosina d'una parola dolce, o gli permetteva di prendersi qualche bacio su le labbra ancora calde d'altri baci, Giovanni dimenticava subito ogni cosa e le perdonava, ammaliato dai bagliori azzurri di quegli occhi, dalle carezze di quelle mani bianche e delicate che, senza tremare, gli passavano le dita tra i capelli, quasi mani di sposa immacolata. - È un'infamia! La trista donna l'ha stregato! - diceva la mamma di lui. E i suoi pregiudizi da provinciale l'avevano fin spinta a fargli benedire di nascosto i vestiti dal parroco, per distruggere la malia: e neppur l'acqua santa era giovata! La povera donna malediva l'ora e il momento che ella e il suo vecchio s'erano risoluti a venire in Milano per agevolare la carriera del loro unico figlio. Soprattutto, non riusciva a darsi pace di aver favorito quel matrimonio, mentre suo marito non voleva saperne aff atto d'una nuora cosí bella, cosí superba e che non gli pareva punto adatta al mite carattere del suo Giovanni. Per ciò, ora, ella se ne stava zitta quando suo marito buttava in faccia al figlio tutte le infamie della nuora; e si era sentita morire quella volta che il vecchio gli aveva detto: - Ammazzati! - ritto sulla persona, coi bianchi capelli che gli si sollevavano irti sul capo, tremendo come un giudice che pronunzi una sentenza. Da quel giorno, quel misero figliuolo era tornato in casa dei genitori d ue o tre volte soltanto, quando poteva essere sicurissimo di non trovarvi il padre. La voce compassionevole della povera vecchia gli addolciva il cuore. Ella gli dava un po' di ragione, non gli diceva: - Ammazzati! - non aveva parole dure per la disgraziata che, infine, portava il nome di lui. - Credi, mamma, è una malattia come un'altra - le ripeteva sinceramente. - Un giorno dovrà guarire; guarirà! - E al vederlo cosí calmo, cosí rassegnato nel suo infinito dolore, ella non osava palesargli che giorno e notte pregava Iddio perché togliesse da questo mondo quella malefica donna che lo rendeva tanto infelice. Era sempre il suo bimbo quell'uomo di trentacinque anni, quel raro ingegno di architetto, cosí ben voluto da tutti per la squisita bontà del carattere. E nei momenti piú tristi, ella si stri ngeva fortemente al seno la cara testa un po' brizzolata e l'andava accarezzando, come faceva - anni addietro! - ogni volta che il babbo lo sgridava per qualche scapataggine da scolare. Anzi ora la sua tenerezza materna era maggiore. Oh! Non ne dubitava piú: la megera glielo aveva stregato. Quella sciagurata sguazzava intanto nel fango a testa alta, sorridente, senza curarsi di nulla. Dalla fiacchezza del marito si sentiva dispensata fin dall'obbligo di mentire. I suoi amanti non si contavano piú; non sceglieva, accettava quanti gliene capitavano tra' piedi. Tormentata da voglie e da capricci stranissimi, quando si sentiva o stanca o sazia, tornava, per contrasto, al marito. E allora erano settimane d'idillio, che lo rendevano felice, pover'uomo! - Non l'avevo detto che sarebbe guarita? - E faceva progetti di viaggi, di villeggiature, liete fantasie da innamorato, per sottrarla all'aria cittadina che doveva averle prodotto quello sconquassamento di nervi. - Andremo a Nizza. - No, in un posto solitario, su la riviera ligure - ella rispondeva con voce strascicante. - Su la riviera ligure; sarà meglio -. Giovanni non tentava spiegarsi quell'improvviso cambiamento - Misteri dell'organismo! - E le andava dietro, da una stanza all'altra, zitto, dimesso, aiutandola a riporre questo o quello oggetto, come il giorno che eran partiti per il viaggio di nozze. Con la veste da camera di cascimirra celeste ricamata in bianco, e i capelli che le cascavano in pioggia d'oro dietro le spalle, Virginia aveva qualcosa di verginale nell'aspetto, qualcosa d'immensamente dolce, allorché i suoi occhi si velavano di una sfumatura di tristezza. Giovanni se ne sentiva turbare fino al midollo delle ossa. Ah, quella gola e quel collo, staccantisi con toni lievemente dorati tra il biondo dei capelli e la candida spuma delle trine che guarnivano la scollatura della veste - gola, e collo da regina! Egli non si saziava di baciarli; li avrebbe anche morsi, se non avesse temuto di farle male e di romper cosí l'incanto del sogno da cui non voleva svegliarsi. Queste tranquille giornate di preparativi, passate in casa dalla mattina alla sera, con lunghi riposi su per le soffici poltrone del salottino o alle finestre dell'appartamento che davano sulla via Principe Umberto, gli rimanevano impresse nella memoria proprio come un sogno quando l'incanto si rompeva, pur troppo!, come gli aveva prognosticato suo padre. Il vecchio non sapeva darsi pace. In che modo un uomo cosí intelligente, vero artista nella sua professione, lasciava calcarsi, senza lamento, dai fangosi stivaletti di una miserabile che la nostalgia della mota trascinava pei rigagnoli, frenata appena appena dalle ipocrisie sociali? - Che posso farci? Ella si è impossessata assolutamente di me. Me la sento nel sangue, nelle fibre, nell'anima! Che posso farci? E quando apprese che anche lei, finalmente, trovato un padrone, si era fermata nella sua corsa vertiginosa, e che il nuovo amante la dominava, alla sua volta, da tiranno, e la faceva piegare alla propria volontà quasi pezzetto di cera da modellarsi col calor delle dita, Giovanni si rallegrò dell'avvenimento come di beneficio immenso. Ed era grato a quel mostriciattolo scarno, nero, nano, dal naso spropositato, dalla testa pelata piú di una zucca e che non giungeva a mascherare la bruttezza con la raffinata eleganza dei vestiti, gli era grato della sosta prodotta nella vita sfrenata di Virginia. Fino a questo era arrivato! Ella era felice di sentirsi interamente assorbita da quel mostriciattolo che già la trattava con pochi riguardi, troppo sicuro del fatto proprio. E quando la minacciava di piantarla, senza tante cerimonie, se ella resisteva un po' a qualche dispotico capriccio di lui, Virginia rompeva in pianto come non aveva mai fatto. Le avesse ordinato di leccargli le scarpe, e lei si sarebbe buttata carponi, a leccargli le scarpe, come una bestia domata; e sarebbe stata orgogliosa di quella viltà, tanto sentivasi ardere , la prima volta, da passione vera, di quelle che scoppiano come mine nelle profondità dell'organismo. Per lui, per quel mostriciattolo, una mattina Giovanni se la vide comparire dinanzi bella e sfacciata come una cortigiana, con tutte le tenerezze ch'ella sapeva mettere nella voce, e tutte le seduzioni che le vibravano dalla persona, da quegli occhi azzurri, limpidissimi, da quelle labbra porporine che gli imprimevano un bollo infocato su le carni le poche volte che le toccavano. Da parecchi giorni, gli si mostrava insolitamente gentile e premurosa. Due o tre volte era andata a trovarlo nello studio, fra qu ei larghi tavolini ingombri di disegni, di matite, di regoli, di compassi, di pennelli, di vasetti d'inchiostro di China. S'era anche fermata a guardare il proprio ritratto incastrato nella magnifica cornice dorata, ritratto che era stato la disperazione del Cremona quando lo aveva dipinto, ed era riuscito un capolavoro, con la bionda figura che veniva innanzi sul fondo grigio e il sottile tralcio - poche foglie verdi e pochi fiori cerulei - che le si rizzava a lato elegantissimamente. Tutte e due volte era entrata con qualche esitanza, senza saper dire perché, quand'egli le aveva domandato se le bisognava qualcosa; e, dopo d'essersi aggirata con aria indolente fra quei tavolini, buttando stanche occhiate su i disegni, domandando rare spiegazioni, era andata via. - Vuoi qualche cosa? - aveva insistito Giovanni, facendosele accosto, accompagnandola fino all'uscio. - No - rispose. - Volevo ... volevo soltanto vedere se eri solo -. Gli avea lasciato però nella stanza il forte profumo femminile che lo inebbriava, che gli faceva girare la testa e non gli permetteva piú di lavorare. Poi, tre giorni dopo, era entrata risolutamente, sul punto che Giovanni usciva di casa per un affare importante. - Senti! - gli disse, tenendolo per le mani, guardandolo negli occhi con sguardo da maga ... - Non mi dirai di no! .... Giovanni si sentí rammollire le ossa e dové sedersi su la prima seggiola che gli capitò sotto mano; accennò di sí col capo e aspettò che parlasse. Allora ella gli si sedé sulle ginocchia. - Senti! - riprese a dire ... - Farai di me quel che vorrai ... Non ti darò piú il minimo dispiacere ... Sono stata una pazza ... Perdonami: sei tanto buono! ... Ma ... ho bisogno di tremila franchi, oggi stesso, fra due ore ... Non mi dirai di no! ... La sarta ... i fornitori ... certe cambiali, capisci ... - Non le diceva di no, certo. La guardava, muto, sbalordito di quella richiesta alla quale sapeva di non poter soddisfare interamente cosí presto com'ella voleva. Ah! Se si lasciava sfuggire quell'occasione che gliela rigettava tra le braccia, non l'avrebbe mai piú riafferrata. Questa idea lo atterriva. Ella era rimasta seduta su la poltrona osservandolo di traverso, trattenendo il respiro, mentre Giovanni rovistava in fondo alla cassetta di un mobile, nell'angolo piú scuro della stanza. E allorché lo vide ritornare contando i biglietti di banca gialli e rossi che teneva fra le mani, gli corse incontro e lo baciò in fronte. Giovanni voleva parlare, ma ella gli turò la bocca, carezzevolmente: - Non scusarti se non mi dai di piú! - E calcò i biglietti nella tasca del vestito, con gli occhi nuotanti in un'onda di soddisfazione straordinaria, le mani che le sbalzavano dall'agitazione, le gote fiammeggianti sotto i riflessi d'oro dei capelli, le labbra increspate dal convulso della vittoria. Lungo la strada, Giovanni cacciava via, con un gesto vago, la importuna mosca della riflessione che veniva a ronzargli dentro il cervello per quelle tremila lire ... - È la prima volta che mi chiede denaro. E lo ha chiesto in un certo modo! ... Chi sa? ... Non è cattiva, no; non è cattiva. Forse, se avessi saputo ben guidarla ...! Questa volta però i sintomi della guarigione sono proprio evidenti -. E alzava la testa e apriva i polmoni, per respirar meglio l'aria ossigenata dei giardini pubblici che gli sorridevano d'attorno con le magnolie, i cedri del Libano, e le aiuole tutte fiorite. - Come sarei stato felice, se avessi potuto prendere, lí per lí, le tremila lire e mettergliele in mano! - Ma sapeva benissimo dove andare a trovare il resto; per ciò era tranquillo. Quegli azzurri occhi sereni, quelle tiepide labbra porporine, quel tesoro di capelli biondi gli facevano risplendere in cuore un sole assai piú bello di quello che stendeva i suoi strati d'oro sul verde dei prati e su la polvere bigia dei viali. Qualcosa gli cantava dentro, assai piú dolcemente dei calenzuoli e dei cardellini che cinguettavano tra le fronde degli ippocastani, tremolanti in quel brulichio di luce. Aveva fretta, e intanto indugiava. - Aspettino! Voglio godermela intera questa festa che mi folleggia dentro improvvisamente, quando meno me l'attendevo -. E lungo il corso Venezia si fermava davanti le vetrine, guardava le stampe in mostra, i pesciolini dorati dell'acquarietto di un salumaio, e il via vai della gente, delle carrozze, degli omnibus, tutta la ressa della vita cittadina che non riusciva a reprimergli l'intimo tumulto. Aveva salito con passo affrettato le scale di casa, tenendo stretto nel pugno l'involtino delle altre mille e cinquecento lire ch'era andato premurosamente a farsi prestare da un amico. Sentendo una voce d'uomo nel salottino, s'era fermato; poi, in punta di piedi, era andato ad appostarsi dietro l'uscio dell'altra stanza, da dove poteva ascoltare e vedere senz'essere scoperto. Il cuore gli sbalzava con ispasimo, mentre osservava dal buco della serratura, il mostriciattolo dell'amante raggirarsi pel salottin o su e giú, con le mani in tasca e il naso enorme all'aria, intanto che Virginia gli parlava da una poltrona, seguendolo con gli occhi, beata; e quegli, per risposta, scrollava le spalle, faceva smorfie, non voleva crederle; e mandava fuori grugniti, sprezzante, da padrone che non si degna di rivolger la parola a una schiava. Gli occhi gli si annuvolarono, gli orecchi gli zufolarono ... In quel momento non pensò piú alla propria onta, no, ma all'avvilimento di lei in faccia a quel rospo ch'ella avrebbe dovuto schiacciare col tacco degli stivalini! E quando vide che colui, strappatigli di mano i biglietti di banca e contatili, glieli schiaffava in viso e alzava la mano per picchiarla, si sentí colpito lui sul volto, a traverso l'uscio. Dentro, una molla gli scattò. Il mostriciattolo non aveva avuto tempo di scappare all'urtone che aveva quasi fracassato i battenti. Con le mani fra' capelli, senza un grido, immobile, Virginia guardava atterrita i corpi, aggrovigliati come due serpenti, che si divincolavano sul tappeto in lotta feroce Il nano guaiva fra la morsa di quelle braccia di acciaio, sotto quei pugni che gli piombavano addosso come colpi di maglio e gl'illividivano e gl'insanguinavano la faccia. - No, Giovanni! No, Giovanni! - balbettava Virginia con voce strozzata. - No, Giovanni! Giovanni però non le dié retta finché non sentí quella carogna quasi sgonfiarsi come un otre e restare immobile sul pavimento. Piú morta che viva, ella si lasciò prender per mano dal marito. Giovanni, diventato calmo a un tratto, vergognoso d'essersi lasciato trascinare a un atto insolito, già pareva un altro, con quelli sguardi concentrati, tutto sudicio, tutt'arruffato. - Bada! - le disse, spingendola bruscamente in camera. - Se ricominci, ti tiro addosso come a una cagnaccia arrabbiata! Parola d'onore, ti tiro addosso come a una cagnaccia arrabbiata! - Ah, questa volta egli diceva davvero! Cosí avvenne in lei una trasformazione incredibile. Nei primi giorni si sentiva stordita; e guardava, indignata e diffidente, l'uomo da cui vedevasi soggiogata con tanta violenza e in un modo che ella non giungeva a spiegarsi. Dunque suo marito non era l'essere fiacco da lei creduto fin allora? E lo fissava, attratta da crescente ammirazione di donna che non sapeva piú rivoltarsi, con avidità nuova, con curiosità strana, alla quale si mescolava, di giorno in giorno, un sentimento indefinito ... - Di grat itudine? Di affetto? - Non lo capiva bene; ma certamente qualcosa che la meravigliava e la deliziava, qualcosa che la faceva rimanere come tra sonno e veglia, con la dolcezza del sogno e la paurosa coscienza ch'esso dovesse subito finire ... Giovanni, invece, come piú si andava accorgendo del mutamento di lei, provava forte nausea, repugnanza invincibile per la creatura cosí perdutamente adorata quando prodigava il bel corpo agli innumerevoli amanti. La guardava appena, le rispondeva con soli monosillabi, lasciando ben scorgere dal suono della voce, dalla glaciale cortesia dei modi, la sorda irritazione prodottagli da quell'umile pentimento, infame profanazione dell'amore, com'egli lo qualificava ripensandoci su giorno e notte. Perché ora, sí, lo amava lei, colpita profondamente da quell'atto di forza brutale che aveva lasciato mezzo morto sul tappeto del salottino il vigliacco che stava per picchiarla! Si desolava, lei, del freddo contegno di suo marito, che pure le usava la carità di non farle scorgere intera la forte nausea, la insormontabile repugnanza! Sí, gli si aggirava lei attorno, muta, con sguardi smarriti, dimessa come una serva, senza implorare pietà, mentre sentivasi rifiorir nel cuore qualcosa di nuovo, e tutto il passato le si anda va dileguando via via dal corpo con le invisibili scaglie della pelle, che si rinnovava e diventava piú fina, piú trasparente, senza riflessi, d'un candore di marmo! Quando si trovavano da solo a solo nel salotto - egli a sedere, coi gomiti appoggiati su le ginocchia, la testa fra le mani, la fronte corrugata, guardandola di sottecchi di tanto in tanto; ella, in piedi, discosta, presso la finestra o accanto a un mobile, bella sempre, ma a testa bassa e col cuore in tumulto - Virginia provava una contentezza ineffabile nel vedersi là, dinanzi al marito, in quell'attitudine di donna spregiata che la riscattava ai propri occhi da tutte le colpe passate; timida e pur speran zosa sempre di vederlo alzare un bel giorno da la seggiola per avvicinarsele e dirle, aprendole le braccia: - Ti ho perdonato! - Giovanni però non si muoveva, non le diceva nulla. Una volta, avendo ella osato accostarglisi e posargli una mano su la spalla, era balzato con uno scatto. - No, no! - le aveva detto. - È impossibile! - E quella voce dura, e quella faccia buia, l'avevano trafitta peggio d'un pugnale. S'era sentita agonizzare. Non era giusto che fosse cosí? Si meritava peggiore gastigo! Su tutta la casa si era aggravato un silenzio penoso. Ella non metteva piú un dito sul pianoforte. La gabbia dei canarini pendeva ancora nel vano d'una finestra, ma un ragno v'aveva tessuto dentro la sua tela che dava un aspetto desolato alla gentile prigione di fil di ferro. I fiori, le piante da salotto erano morte; le foglie cascavano per terra al minimo alito. Non riceveva piú nessuno, non metteva un piede fuori delle stanze addette alla famiglia; contenta di quella tetra pace succeduta al gran chiasso precedente; inebbriata di sacrifizio per meritarsi una parola benevola, un'occhiata pietosa. All'inverso, Giovanni sentiva rivoltarsi ogni giorno piú dal lezzo del passato che si sprigionava da quel corpo di donna maculato di baci e di carezze altrui. Gli pareva che esso già si disfacesse dalla cancrena di tutti i turpi abbracciamenti ai quali s'era abbandonato. Soltanto il ritratto del Cremona, quella divina figura immortalata dall'arte, gli faceva battere il cuore come una volta. Era stato fatto nei primi mesi del loro matrimonio quando lo splendido fiore della bellezza di lei non era stato ancora inquinato; e tutta la pudica innocenza della vergine diventata appena donna s'era rifugiata su la meravigliosa tela dove il pittore aveva diffuso piú largamente la magica fosforescenza del suo pennello. Giovanni rimaneva ore ed ore in faccia a quel ritratto, che talvolt a gli si muoveva sotto gli occhi quasi agitato da soffio vitale; e se, dopo, incontrava per le stanze lei che lo guardava con gli occhi ingranditi nel volto pallido, ella gli sembrava un'ombra, un fantasma dei giorni tristi; e le voltava le spalle. Poi non piú nausea o repugnanza, fu odio a dirittura. Perché quella donna restava lí? Perché aspettava d'esser scacciata via a colpi di granata, quasi immondezza? Perché non voleva morire, ma gli si teneva fitta alle costole simile a un cattivo destino? Dio! Dio! ... Chi lo tratteneva dallo schiacciarla come un vile insetto, cosí? E una volta, avendola sorpresa piangente, diventò furibondo, cominciò a urlare: - Ah! ... Tu osi piangere? Ah! ... Tu osi rimproverarmi, a questo modo, la mia immensa bontà? Gli s'era inginocchiata ai piedi, credendo d'intenerirlo, e s'era sentita afferrare pel collo da due granfie di belva che tentavano strozzarla. - Perché non me l'hai lasciata finire? - egli disse a suo padre sopraggiunto per caso. - Perché non me l'hai lasciata finire? - Suo padre lo guardò stupito. - Oh, mi sentivo piú felice ... allora! - esclamò Giovanni. E scoppiò in singhiozzi. Mineo, 24@ 24 luglio 1881@. 1881.

E uscí la prima, senza voltarsi addietro, traversando con passo fermo e rapido la breve fila delle stanze fino all'uscio che aprí ella stessa; scese le scale quasi di corsa, perché quei gradini le scottavano i piedi; e si sentí arrossire sotto il velo abbassato su la faccia, quando scorse il servitore che già apriva lo sportello della carrozza inchinandosi un po', serio, quasi volesse mostrarle che egli stava dalla parte del padrone. La carrozza uscí lentamente dall'atrio, poi i cavalli presero il galoppo verso la stazione; e la signora Rosati sentiva uno sbalordimento strano alle scosse del legno sull'acciottolato delle vie. Quelle scosse le si ripercotevano nel cervello, le impedivano di pensare, le recavano una specie di sollievo nell'abbandono di tutta la persona, fra la penombra rotta di tanto in tanto da bagliori, a traverso le palpebre chiuse, ogni colpo di sole che penetrava nel legno. E quando il rumore delle ruote si ammortí s ulla polvere della strada fuori la città, ed ella sentí piú viva l'impressione della luce e dell'aria libera, riaperse gli occhi e si mise a guardare gli alberi fuggenti dietro lo sportello; le figure dei pedoni che, appena apparse, sparivano sopraggiunte da altre; e la campagna che correva vertiginosa dattorno, verde e bella; e le montagne in fondo, sfumate sull'orizzonte lontano, che giravano lente; e le vicine casette, bianche in mezzo al verde, che pareva le si precipitassero incontro. Guardava tranquil la, quasi l'immenso dolore le si fosse addormentato per sempre nell'intimo petto, quasi ella partisse di casa al solito, per una visita ai parenti che sarebbero andati a riceverla a braccia aperte alla stazione d'arrivo. - Con questa corsa parte poca gente - disse Giulia. - Non è la diretta -. Infatti nella sala di aspetto di prima classe non c'era nessuno. Dal posto dov'era andata a sedersi, a traverso i vetri dello sporto chiuso, la signora Rosati guardava distrattamente ora le sbarre di ferro della stretta tettoia, ora la frangia di zinco, intramezzata di colonnine di ghisa, che disegnava i suoi trafori sul cielo azzurro; ora, piú in là, il fusto d'una pompa col tubo di tela spenzolante; ora piú in qua, i vagoni delle merci segnati di cifre bianche, e che lasciavano appena una striscia di cielo frastagliata tra la loro massa scura e la frangia di zinco dell a tettoia. Era stupita di sentirsi cosí calma dopo la gran tempesta di quella mattina. Oh non volea ripensarci, finché era possibile! E girava gli occhi attorno per le pareti quasi nude della stanza; e rileggeva gli avvisi letti tante volte in altre occasioni di partenza; e tornava a osservare gli affissi degli alberghi, dei stabilimenti di bagni, e quella figura di donna seduta alla macchina da cucire, con la esse iniziale del nome della fabbrica che le si attorcigliava addosso come un serpente. - Siamo arrivate troppo presto? - Manca un quarto d'ora alla partenza - rispose Giulia, mostrando i biglietti. Ripostigli nel borsellino, si sedette discosto, senza dire una parola; e rivolgendo di tratto in tratto lunghe occhiate alla signora, pensava: - Poverina! È innocente come la Madonna. Nessuno può saperlo meglio di me -. Appena però il vagone, dov'erano rimaste sole, fu tratto via dalla vaporiera urlante e fischiante, la signora Rosati sentí di nuovo un gran nodo al cuore e scoppiò in pianto. Si vedeva dinanzi agli occhi i parenti già avvisati, com'egli le avea detto; i parenti che questa volta, certamente - che ne sapevano essi della sua innocenza? - non sarebbero accorsi - specie la madrigna - per ricevere alla stazione la indegna, fattasi scacciare di casa dal marito. - Signora, coraggio! ... È un malinteso; sarà presto dissipato. Il padrone verrà a riprenderla egli stesso, pentito, appena si avvedrà che ha avuto torto ... - Non metterò piú piede in quella casa! - ella rispose sdegnosamente, come aveva risposto a colui. E cessò subito di piangere, stizzita della propria debolezza, raccogliendosi tutta nell'angolo, con la testa rovesciata indietro, quasi tentasse di dormire. Al rumore monotono e incalzante del treno che correva per l'aperta campagna, tornava intanto a domandarsi: - È proprio vero? - Sperava ancora di sognare, quantunque i ricordi che le si affollavano limpidissimi nella mente, le dicessero chiaramente che era sveglia pur troppo. - Ah, quel momento di debolezza dopo due anni di resistenza! - E si rivedeva correre a rapidi passi per le vie mezze deserte, proprio come quel giorno, gettando occhiate di paura ai negozi, alle botteghe, ai rari passanti; e provava la stessa sensazione di freddo provata allora lungo la via Torta, stretta e scura, dalle vecchie case silenziose - di cui il sole poteva illuminare soltanto la cima - dalle botteghe che sfondavano le facciate, quasi grandi buchi neri, sotto le finestre socchiuse ... E sboccava nella vasta piazza ... Ed ecco, di faccia, la casa gialla a tre piani e il portone sormontato dallo stemma della Ricevitoria del Registro ... Ella tremava a quella vista e voleva tornare indietro, quasi presaga ... E provava, precisamente, la stessa spinta in avanti come allora che era entrata atterrita dalla minaccia di lui - Mi uccido, se non venite! ... - Era andata per questo, unicamente per questo! ... Ora si rammentava benissimo dell'ombra nera vista alla sfuggita, di traverso, che si era fermata in pieno sole a osservarla ... Non ci aveva badato, risoluta di compiere quel che le pareva, piú che altro, un atto di carità, un pietoso dovere ... Oh, era andata per questo! Se lo ripeteva mentalmente, per rassicurare la sua coscienza, come al destarsi da un sogno, tutte le volte che il treno rallentava la corsa per una prossima fermata; e tornava a ripeterlo, insistente, al riprender della corsa, mentre i ricordi ripigliavano l'aire anch'essi, coi particolari piú minuti. E sentiva, come allora, il rumore secco dei propri tacchi frettolosi su per quelle scale che ella saliva quasi inseguita dalle voci delle persone incontrate su l'uscio della Ricevitoria - ragionavano di interessi e non l'avevano nemmeno guardata! - e lassú, affacciato alla ringhiera del pianerottolo, spenzolato verso di lei, il capitano in uniforme ... La ragione le s'intorbidava: - Come mai s'era risoluta? Come mai? Protestava, si difendeva dinanzi a se stessa. Non era tornata pura, superba della propria vittoria, in casa di suo marito? Non vi era anzi tornata quasi migliore di quella che n'era uscita? E a poco a poco lasciavasi allettare dalla persuasione di Giulia: - Il malinteso si sarebbe presto dissipato: suo marito verrebbe a riprenderla, pentito, appena accortosi del torto ... - Oh, no! L'ho giurato: non riporrò piú piede in quella casa -. E sobbalzò, quasi per sfuggire a lui venuto a riprenderla in quel punto. - C'è ancora la fermata di Frugarolo - disse la cameriera. - Un'altra sola fermata! - Avrebbe voluto ricominciar da capo il viaggio, non arrivar mai a casa, e correre a quel modo eternamente, per evitare l'umiliazione della trista accoglienza che l'attendeva: - Non mi crederanno! ... Non mi crederanno neppur loro! ... - E si copriva gli occhi con una mano per non vedere il viso severo del babbo e quello arcigno della madrigna che le si affacciavano dinanzi con la precisione della realtà. - Non mi crederanno neppur loro! - Cominciò a tremar tutta al rallentarsi della corsa del treno, e si sentiva quasi mancare al replicato grido: - Alessandria, chi scende -. Le sarebbe parso d'essere ancora ragazza in quella camera e in quel salotto dove, uscita di collegio, aveva passato due anni spensierati e allegri, consapevole della propria bruttezza, che ella per giovanile orgoglio si esagerava un pochino; le sarebbe parso d'essere ancora ragazza, fra i libri, i geniali lavori e la musica prediletta, senza la muta severità del padre e della madrigna che le riusciva piú dura d'ogni rimprovero aperto. - Non ha risposto neppur oggi! - Nelle prime settimane, la signora Ersilia non diceva altro, sul punto di mettersi a tavola, quasi avesse voluto avvelenarle i bocconi con quella rigidezza di madrigna. La signora Rosati, che aveva sconsigliato invano l'invio della lettera del babbo, taceva agitata da fremiti interiori. Lo sapeva che non avrebbe risposto ... E non le importava che rispondesse. Oramai! Poi, al principio dell'autunno, ecco il babbo che sul punto di mettersi a tavola - lo faceva di proposito, per avvelenarle i bocconi? - le ripeteva: - Non manderà il bambino, vedrai. Lo lascerà in collegio anche durante le vacanze -. Al ricordo del bambino, ella sentiva gonfiarsi gli occhi di lagrime; ma le ricacciava subito indietro. Né moglie, né madre! ... Voleva essere cosí, snaturata, se tutti si ostinavano a crederla tale. Le lagrime che soffocava; il sordo rimpianto della tranquilla felicità di pochi mesi addietro, che la riassaliva piú frequente; la crescente indegnazione dell'immeritato gastigo, da cui si sentiva di giorno in giorno piú offesa, scoppiavano però tutti a una volta, con terribile grido della sua anima in ambascia, quando ella faceva urlare, turbinare, squillare dal pianoforte la Cavalcata delle Walküre del Wagner, che assordava il salotto e scuoteva fino i vetri. Sin dalle prime note, piane, con richiami tris ti, prolungati, e che montavano, montavano nel crescendo, come se da ogni punto di un cielo nuvoloso venisse risposto a quegli appelli, ella provava per tutto il corpo lo stesso brivido diaccio salitole su su per la schiena fino alla cima dei capelli, allorché, il marito, entrato da lei pallidissimo, le aveva detto con voce strozzata, bruscamente: "Signora! ..." E si era vista perduta. E in quelle note che già s'incalzavano frementi con tumulto irresistibile, ci erano ed il pianto, e le proteste, e i giu ramenti di lei: "Enrico, è la verità! ... Enrico, sono innocente! ..." E tosto che fra quel turbine musicale squillavano le note chiamanti soccorso, lunghe, stridenti, e si disperdevano, grido supremo di lotta, pel folto della foresta e per l'aria, squillava in esse egualmente la desolazione del suo cuore, come lungo quel triste viaggio, come all'arrivo, come nella solitudine dove era a un tratto piombata ... - Senza marito, senza figliuolo, senza che nessuno - neppure i suoi! - le rendesse almeno giustizia! - E rotta, sfinita da questo sforzo, cadeva bocconi sul leggio: - Nessuno? ... Nessuno? - Sí, se n'era già accorta; chi le aveva reso giustizia, chi nel grande eccitamento d'una incredibile passione, - ora gli credeva, sí, sí! - aveva saputo rispettarla ... - e avrebbe potuto facilmente abusare della propria forza, delle circostanze, della sconsigliata debolezza di lei - chi non l'aveva offesa era soltanto colui che, ahimè!, si trovava lontano, molto lontano, senza saper nulla dell'accaduto; colui che aveva solennemente promesso di non farsi piú vivo per non recarle dispiacere, perché cosí gl i era stato imposto dalla stessa bocca di lei, la prima e l'ultima volta che si erano visti da solo a solo! ... Eppure, la mattina, quando Giulia si raggirava per la stanza attigua ravviando, ripulendo - ed ella, ancora a letto, la sentiva smuovere una seggiola, un oggetto, o leggermente tossire - non la maschia e bruna figura del capitano Fasciotti, inconsapevole autore di tanto danno, le si presentava alla memoria nella tenerezza del primo risveglio; bensí quella del marito, alto e biondo; e la voce di lui, come una volta, tornava a dirle: "Giustina, avremo gente a pranzo ... Giustina, tornerò tardi ... Giust ina, questo ... Giustina, quello ..." E, dietro l'illusione della voce, veniva la visione della casa signorile che l'avea accolta sette anni, con i mobili storici, gli oggetti d'arte, le cosettine bizzarre che egli andava scovando qua e là, piú per vanità d'arricchito che per fine gusto di dilettante. E in quelle stanze tappezzate di arazzi antichi, di quadri, di panoplie di armi barbariche, e ingombre di statuette, di gingilli giapponesi, di idoli chinesi, ecco, il mostro di avorio, panciuto, accoccolato per terra, che rifaceva da un angolo le sue sconce boccacce; ecco, da una parete, la ignota figura di donna, del cinquecento, rigida sul fondo nero del quadro e che la guardava fisso con occhi tranquilli; e, dietro la giardiniera pompadour di Sèvres, tra le ricche foglie della dracena, ecco la snella figura della tuffolina dalle braccia distese in avanti, della maglia da bagno serrata attorno il bel corpo di marmo, a irritarla per l'eterna immobilità dell'incomodo atteggiamento. E poi, massime da una settimana, non i terribili momenti d'inattesa commozione, piombati improvvisi a turbare il tranquillo andamento della sua vita; bensí le giornate serene, il dolce cullarsi di tutto il corpo nella lieta pace domestica, la bella indifferenza, la graziosa ironia per le false agitazioni del cuore, l'ingenuo egoismo d'indolente felice; bensí la convinzione della propria bruttezza, per cui non aveva mai badato all'efficacia dei lineamenti virili che lo splendore delle pupille, nerissime in m ezzo al bianco dei grandi occhi, e la voluttuosa curva delle labbra carnose trasfiguravano addirittura. E tutto questo le si presentava alla mente, al primo destarsi, quantunque ella non volesse, e si sforzasse di scacciarlo via, e cercasse d'abituarsi, d'affezionarsi anche, al profondo silenzio della solitudine dove intendeva oramai fortificarsi e agguerrirsi contro la malignità della sorte ... E questo passato, allegro incantesimo subissato in un attimo senza che ella ne avesse colpa, per una lieve imp rudenza, non sarebbe tornato piú! ... Ed ella doveva soffrirne le conseguenze e piangerne la desolazione, quasi avesse commesso l'imperdonabile delitto di cui veniva accusata! Balzava dal letto, dove le coperte la soffocavano, e apriva la finestra per tuffarsi nell'onda di sole che già invadeva la facciata, e dimenticare ogni cosa sotto la mordente impressione dell'aria, e svagarsi, tra il rumore del movimento della via, osservando gli arrivi e le partenze dei passeggieri dell'albergo di faccia, fantasticando interminabili romanzi. Come quel giorno che era arrivata, senza bagaglio, - da dove? Da qualche città vicina o da Pisa, o da Genova, o da Milano - quella signora vestita di bianca stoffa grave, col cappellino di paglia nera semplicissimo ed elegante, e la spolverina di seta grezza sul braccio, accompagnata da quel signore dai baffetti grigi che le aveva steso la mano per aiutarla a scendere dalla carrozza e si era fermata davanti il portone dell'albergo a parlarle in un orecchio, sorridendo; e colei gli aveva risposto di sí, sorr idendo, con soli cenni del capo. Chi potevano essere? Due amanti, senza dubbio; altrimenti non si sarebbero parlati all'orecchio con tanta carezzevole intimità ... Oh, almeno essi andavano incontro all'avvenire decisi, coscienti! ... Poco dopo, avevano aperto la finestra dirimpetto a quella della sua camera; e dietro alle stecche socchiuse della persiana, ella aveva potuto osservarli, non vista. La signora si era tolto il cappellino. Ancora giovane, non molto bella ma simpaticissima ed elegante, dai c apelli neri pettinati senza ricercatezza, dalle labbra sottili e irrequiete, teneva stretta una mano di lui nell'affacciarsi a guardare curiosamente la via sottostante e la finestra di fronte, quasi sospettando d'essere spiati. No, non aveano sospettato, perché, a un tratto si erano baciati e aveano richiuso le imposte. Oh, non li invidiava! ... Era mai giunta a comprendere quei pazzi trasporti di passione? ... Le ripugnavano anzi, per natura ... La finestra era rimasta chiusa fino alle quattro di sera; poi coloro erano partiti, ma non piú lieti quali all'arrivo. Forse doveano dividersi per molto tempo, forse non rivedersi piú! ... Andavano via lentamente, a piedi, tra gl'inchini dei camerieri che li aveano accompagnati fino al portone augurandogli il buon viaggio ... E le si erano fissati negli occhi, come se li avesse già conosciuti da un pezzo e avesse ora partecipato al gran dolore di quel distacco ... - Almeno - aveva ripetuto - questi qui corrono incontro al loro destino, decisi, coscienti; sanno di dover soffrire o di meritar di soffrire. Ma io? ... E la Cavalcata delle Walküre tornò a urlare, a turbinare, a squillare piú potentemente, quasi piú rabbiosamente degli altri giorni. E alla fremente musica del Wagner tenne dietro, con breve intervallo, il folleggiamento di un pezzo del Freischütz. Alla divina voce musicale dello stormire delle fronde nella foresta, del mormorio delle acque scorrenti, del ridestarsi dell'aurora salutata dal canto degli uccelli alla pia voce, inebriante come delicato profumo, che le andava accarezzando il cuore calmandovi ogni agitazione e sanandovi momentaneamente ogni piaga, Giustina aveva sentito un improvviso rifiorire della sua lieta giovinezza; e il doloroso passato le era quasi svanito dalla memoria col dileguar di quelle note smorzatesi assottigliandosi, sfuman do, simili a nebbia dietro a cui ricompariste la campagna raggiante di sole. - Signora, è già in tavola - annunziò la cameriera. Giustina indugiò alquanto, commossa da quella musica preferita per le difficoltà d'esecuzione, per la grande idealità, gustata con fino intendimento d'artista: - Specialmente ora - lo aveva già notato; - specialmente ora -. E pensava ai lieti prognostici del maestro, in collegio; pensava all'unico trionfo nella sala del conservatorio di Milano, in una festa di beneficenza, quando agli applausi scoppiati forti e unanimi si era sentita venir male; e aveva dovuto replicare il pezzo, ottenendo maggiore trionfo. Il suo maestro aveva forse ragione, ripetendole: - Peccato, questo talento perduto! - Aveva forse ragione cercando d'abbagliarla col miraggio d'un avvenire di gloria, di ricchezze, di vita vera; pregandola: - Dia retta a me! - quasi di quella ricchezza e di quella gloria qualcosa avesse dovuto toccare anche a lui. Ma ella, no, non si era sentita attrarre da nessuno di quegli splendori. Pigra, indolente, amava la quiete della famiglia, da modesta borghesina ... Ed ecco! ... Ed ecco ora! ... Sul punto di uscir dalla stanza, col gran fiotto d'indignazione che tornava a montarle dal cuore, si ricordò di lui, di suo marito che non poteva soffrire quella musica astrusa, musica da bestie feroci com'egli soleva qualificarla. - Ah! gli piacevano le canzonette della Belle Hélène, il cancan dell'Orphée aux Enfers ... Villano! ... Tieni! ... - E con profondo disprezzo di donna offesa anche nel sentimento dell'arte, gli suonò quasi sul muso le prime quattro battute del cancan dell'Orfeo ... - Tieni! ... Villano! - Il pranzo fu piú triste del solito. La madrigna, magra, ritta sulla vita, mangiava a bocca stretta, con gli occhi nel piatto, facendo di tanto in tanto, col coltello o con la forchetta, un rumore vibrato, quasi per stizza repressa che le scuotesse le mani. Il padre, dal viso smorto e abbattuto, a testa bassa, biasciava quel po' di pietanza che metteva in bocca, e allontanava presto il piatto con gesto di nausea, facendo segno alla serva che glielo levasse d'innanzi. Giustina s'era messa a tavola con un po' d'appetito, eccitata; ma da lí a poco sentí mancarsi anche lei ogni voglia di mangiare, al funebre silenzio che le annunziava certamente qualche disgrazia. - Babbo! ... - disse a un tratto - Il bambino ... forse? - E guardava ansiosamente ora lui che aveva levato il capo senza comprendere, ora la madrigna diventata piú rigida e piú severa. - Che cosa è accaduto insomma? - Niente. - Niente - ripeté la signora Ersilia. In quella stanza da pranzo semplicemente arredata, davanti a quella tavola ovale, coperta da tovaglia bianchissima, su cui le posate d'argento e le bottiglie e i bicchieri di cristallo luccicavano in un canto, nei soli tre posti occupati; con la vecchia serva che aspettava silenziosa, o portava attorno le pietanze, andando e venendo in punta di piedi quasi per paura di far rumore; dopo le poche parole strappate a stento e che non le apprendevano niente, Giustina era rimasta un momentino interdetta: - Si tratta di me, senza dubbio; di qualche nuova indegnità di mio marito! ... E sbucciando una mela, per tenere occupate le mani, cercava d'indovinare: - È per l'amministrazione della dote? ... Per una separazione legale? ... - Smaniava, ma non voleva farsi scorgere; e guardava, simulando indifferenza, i brutti disegni del soffitto, senza curarsi del caffè che le si freddava nella tazza. Il signor Federico s'avviò lentamente verso il salotto, tenendo le mani dietro la schiena, strascicando un po' i piedi. Sua moglie, vicino alla credenza, dava alcuni ordini alla serva e a Giulia sopraggiunta. Giustina, andata dietro al babbo, l'aveva già fermato, supplicandolo: - Babbo, parla, per carità! ... Parla; di che si tratta? - Giacché tu vuoi saperlo ... Leggi, leggi qui! E, spiegato a stento il numero del "Secolo" di Milano cavato di tasca: - Leggi - ripeté il signor Federico; e il gesto quasi teatrale del vecchio avvocato indicava un lungo frego di lapis rosso. Atterrita, ella divorava con gli occhi il brano di cronaca, tolto da un giornale di Firenze, che riferiva minutamente la storia del duello, coi nomi e con ogni altra indicazione, aggiungendo - dietro il solito: Cherchez la femme - anche i particolari dell'antefatto, compiacendosi della narrazione, drammatizzando le scene, inventandone di sana pianta; quasi il cronista imbecille fosse stato presente; quasi non avesse dovuto riflettere che quelle righe avrebbero colpito mortalmente, se non la donna stimata co lpevole e non piú degna di riguardi, la sua famiglia che, per la sventura, meritava qualche rispetto! ... Ma che importava a lei del cronista, del duello, del povero capitano ferito? E altiera della propria innocenza, rossa di vergogna: - Tu non gli credi, - disse - tu non gli credi, è vero? ... Torno a giurartelo: Sono innocente! Mentiscono tutti. Fu soltanto un'imprudenza. Credimi almeno tu, tu solo! - Sciagurata! Vai in casa d'uno scapolo, d'un militare, già sul punto di partire e mutar di guarnigione ... e pretendi che la gente non sospetti niente di male? Ah! Minacciava di ammazzarsi? Che te ne faceva a te, se non lo amavi? - Sí, babbo, hai ragione: che me ne faceva, se non lo amavo? ... Ma non lo amavo, te lo giuro per la santa memoria della mamma! ... Temetti uno scandalo, fui mal consigliata ... Oh, credimi tu, tu solo! Non sono indegna d'esserti figlia! - Il vecchio scoteva tristamente il capo: - E quando ti avrò creduto io? - Ella gli stringeva ancora le mani, bagnandogliele di lagrime, quasi in ginocchio davanti a lui, quando la signora Ersilia intervenne. - Vuoi farlo morire di crepacuore? - Sentendosi presa pel braccio e cosí rimproverata dalla matrigna, Giustina si rizzò: - Sí, sí, dite bene! - balbettò con ironia disperata, fra i singhiozzi. E andò via lentamente, aspettandosi d'essere richiamata indietro, aspettando che il babbo le gridasse: - Ti credo! - e le stendesse le braccia. E il babbo l'aveva lasciata andar via senza richiamarla, senza dirle niente! Era una cosa enorme! E all'arrivo, egli l'aveva ascoltata attentamente, e quei suoi: - Quand'è cosí! ... Quand'è cosí! - le erano parse parole di perdono! ... Parlava a voce alta in camera, gesticolando, andando su e giú a grandi passi; e il suono della propria voce la eccitava, la indignava di piú. L'aveva lasciata andar via, senza richiamarla, senza stenderle le braccia. E mentr'ella qui veniva cosí ingiustamente vilipesa, colui agonizzava, laggiú, non meno ingiustamente, colpevole soltanto d'averla amata e rispettata; agonizzava, chi sa?, maledicendola per la palla che gli aveva lacerato il petto e forse intaccato un polmone! ... Istintivamente portò le mani al seno; le parve sentire proprio la viva impressione di quel sangue spricciante caldo caldo dalla ferita, e venne meno in mezzo alla camera , cadendo sul tappeto senza rumore. - Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! - Era rimasta parecchi giorni tutta rimescolata da questa idea, quasi una ruota di mulino le girasse, rumorosamente, senza un istante di tregua, dentro il cervello. Niente aveva potuto distrarla; neppure gli occhi sorridenti d'immensa gratitudine con cui il ferito la guardava dalla sua immobile posizione, essendogli vietato di parlare; neppure le brevi e frequenti strette alla mano, ch'egli voleva continuamente tenere tra le sue per convincersi che la presenza di lei in quella camera sul Viale dei Colli, piú in là di porta San Gallo, non fosse un'allucinazione di sensi sconvolti. - Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! - E il cuore le si era gonfiato di repugnanza, in quella camera dalla carta di parato pretensiosa e volgare, dalle tende che parevano uscite allora allora da un negozio a buon mercato, dalle seggiole rivestite di cretonne sbiadito, dal canapè di stoffa blu che mostrava negli angoli i dentini bianchi della trama, dalle pareti con le oleografie del Capponi stracciante i patti di Carlo VIII e della battaglia di Gavinana, ove Ferruccio moriva, premendo una mano sul petto, come un tenore da melodramma. - Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! - E aveva assaporato, con trista voluttà, l'amaro beveraggio del proprio avvilimento ogni volta che s'era vista squadrare, frugare, quasi oggetto di curiosità, dagli sguardi indiscreti e delusi - non la trovavano punto bella - dei giovani uffiziali che venivano a visitare il ferito. Poi s'era accasciata, lassamente; e nella monotonia delle lunghe giornate d'infermiera, dopo che gli uffiziali, per riguardi facili a capirsi, diradarono le loro visite, con l'unica distrazione di qualche lettura che spesso non riusciva a interessarla, quel nuovo stato d'abbattimento le era riuscito anche gradevole. - Come ho potuto resistere? ... Come resisto ancora? ... Ah, il dolore non uccide! - In certi momenti però, tutt'a un tratto, la sua povera testa vertiginava, e il libro le cascava di mano. Sprazzi di luce le sfolgoravano interiormente, nel buio della memoria, vicini, lontani, senza legame di sorta. In che maniera persone dimenticate da tanto tempo, paesaggi veduti di sfuggita anni addietro, insignificanti impressioni di passeggiate, di tramonti, di serate di teatro allora avvertite appena; in che maniera parole, mezze frasi, semplici inflessioni di voci sconosciute, che l'avevano colpita n on ricordava piú quando, si ridestavano ora vivissime, con senso di ripercussione, e tutto il resto taceva, quasi non fosse mai esistito? Non riusciva a spiegarselo. - Sto forse male? - Le dispiaceva soltanto per lui, quantunque il dottore avesse annunziato che da ora in poi non sarebbe piú venuto due volte il giorno; non occorreva ... - Con un'infermiera come la signora -. Il capitano sorrise. - Fuori di pericolo, finalmente! - disse Giustina, appena rimasero soli. - Che m'importerebbe di morire, dopo che vi ho vista qui? - rispose il capitano con voce fioca. - Se sapeste ... - Zitto, non vi affaticate. - Parlate almeno voi ... Non dite mai niente. - V'affaticherei lo stesso. Avremo tanto tempo fra poco! - Ella arrossí della pietosa bugia che le aveva scottato le labbra. Che poteva mai dirgli? Con tutta la grande pietà verso quell'uomo che si era dibattuto fin allora tra la vita e la morte a cagion di lei, quantunque senza sua colpa, ella si sentiva tuttavia estranea colà, e trascinatavi per forza. - Ed è passato un mese e mezzo! - Abbastanza tranquilla da poter riflettere, da poter osservare se stessa, da alcuni giorni, a intervalli, l'assoluta mutezza del suo cuore - cosí ostinata anche dopo che la sua ragione non aveva saputo resistere all'urto degli avvenimenti - l'assoluta mutezza del suo cuore la rendeva sgomenta. - E se durerà sempre cosí? - Le minute cure d'infermiera però sopraggiungevano sempre in tempo per riscuoterla e distrarla. Allora, seduta presso la finestra, a ogni svoltar di pagina del libro che teneva in mano, ella volgeva lo sguardo verso le colline dove le ville, biancheggianti tra il verde cupo degli alberi, parevano arrampicarsi qua e là, come agnelle disperse. E alla vista di quel cielo di limpida profondità azzurrina, e senza nuvole, che serviva di fondo agli svelti campanili e alle brune case di Fiesole; alla vista di quel m are di verzura steso dattorno, a perdita d'occhio, e che quasi gettava le sue ultime ondate lí sotto, a pochi passi, con gli alberi che proiettavano l'ombra sul viale polveroso, un'impressione di refrigerio al cuore la faceva sorridere d'ammirazione per quel gentile accordo di tinte. - Bello, eh? - egli le disse, vedendola guardare cosí intenta. - Andremo assieme lassú, la prima volta che mi sarà permesso uscir di casa. - Affrettatevi - rispose Giustina. - Siete voi che mi guarite, coi vostri occhi. Fate piú presto -. Quel viso di sofferente, su cui la barba lasciata crescere rendeva piú visibili il dimagrimento e il pallore, si rianimò luminoso. E stettero tutti e due un pezzettino a guardarsi senza dir altro; egli quasi ancora incredulo di quella non mai sperata o sognata fortuna d'amante, ella commossa da carità d'infermiera, che le soavi impressioni di quel momento rendevano piú viva. Poi quando all'orizzonte il cielo si tinse d'un rosso tendente al violetto, e i campanili, le cupole, le mura di Fiesole parvero di fuoco contro gli ultimi raggi del sole al tramonto, e il vasto mare di verdura diventò scuro scuro fra i vapori azzurrognoli che salivano lentamente nella maestà della sera, Giustina sentí una tristezza piú intima, piú straziante delle altre volte, di creatura vigliaccamente abbandonata da tutti; e rimase a lungo con la fronte appoggiata ai cristalli, lasciando sgorgare di nasc osto le lagrime che le venivano su, proprio dal cuore. Il capitano intanto, dal suo letto in fondo alla camera, scoccava bacettini verso quella mezza figura di donna spiccante in nero sui cristalli della finestra, ai rossicci riflessi dei fanali di fuori. Giustina si sentiva assai meno tranquilla ora che il ferito rifioriva, ora che gli era permesso di muoversi, sedersi sul letto, e parlare. Egli l'attirava dolcemente, con tutte e due le mani, verso la sponda: - È vero? ... Siete proprio qui? - E in quell'accento pieno di carezze si sentiva il primo sfogo della gioia dovuta comprimere e soffocare durante i penosi giorni della convalescenza. - Vi ho fatto molto male ... Perdonatemi. È stato senza volerlo. - Oh, non parliamo del passato! - Avete ragione; non parliamo del passato -. E la fissava con gli occhi raggianti d'affetto umile, rispettoso dinanzi a quella severa ritrosia che era d'imbarazzo per tutti e due. Oh, egli non aveva fretta! L'aveva amata due anni senza nessuna speranza, senza nessuna lusinga, inebriato dal filtro della gioconda serenità che le sorrideva nello sguardo, della gentile espressione di dolcezza e di pace che traspariva dagli irregolari lineamenti di quel volto bruno, ridondante di salute. - Vi ricordate dove ci siamo incontrati la prima volta? - No. - È naturale; mi guardaste appena: nel salotto della signora Pietrasanta. Suonavate qualcosa del Berlioz musica strana, e come non l'ho risentita da nessun altro. Da quel momento non ebbi piú pace. Che cosa amavo maggiormente in voi? Non avrei saputo spiegarlo. Amavo voi, tutta voi ... che intanto non potevate neppure soffrirmi! - egli soggiunse sorridendo. - No; v'ero grata, credetemi ... - Mi sarebbe bastato, se me l'aveste lasciato scorgere da un lieve segno. - Non volevo incoraggiarvi. Temevo, a ragione ... - Ed ora siete qui! ... Siete mia! ... Mi pare assurdo ... - Tentò di passarsi le braccia di lei attorno alla vita e cingerla con le sue; ma Giustina si trasse indietro. - Scusate ... Certi ricordi mi fanno ancora male ... - Dimentichiamoli. - Dimentichiamoli! - ella replicò con un sospiro. - Lascerete queste brutte stanze, - riprese Fasciotti dopo un momento di silenzio. - Troveremo un nido degno di voi, da vivervi senza soggezioni importune. Io verrò a trovarvi, discretamente ... - Ella lo ascoltava, intenerita di tutti quei bei castelli in aria ch'egli si compiaceva di fabbricare con giovanile prodigalità, rovesciato sul mucchio dei guanciali, tenendola per le mani presso il letto, esitante ancora di chiederle che questa piccola familiarità d'amico si mutasse, per grazia, in un bacio d'amante. La tenerezza di lei diventava però dispetto e fino rabbia contro se medesima, appena ella si sentiva rattrappire come piú la voce del capitano suonava commossa, come piú l'accento si turbava nella crescente effusione delle confidenze, come scoppiavano in quegli occhi i forti bagliori d'un desiderio rattenuto a stento e che già pareva spazientirsi. E scappava via con qualche pretesto, per abbandonarsi nella sua camera alla desolazione del proprio tormento: - Sono dunque di ghiaccio? ... Come mai non lo amo? ... Come mai resto impassibile di fronte a tanta delicatezza di passione che può chiamarsi eroismo? ... E durerà sempre cosí? ... No! no! - rispondeva spaventata. Avrebbe voluto fermare il tempo: - Se la convalescenza di lui fosse piú lenta! - Ah, diventava anche crudele! Quella mattina, scorgendolo in piedi in mezzo alla camera, ella trasalí, come davanti a un agguato. - Entrate, c'è qualcosa che vi aspetta - le disse Fasciotti, additandole il pianoforte verticale aperto tra le due finestre dov'era prima il tavolino. - Come siete buono! - Dite egoista - rispose andandole incontro. - È stato dunque per questo che mi avete costretta a fare una passeggiata? - Volevo farvi una sorpresa -. Ella resta sull'uscio, appoggiandosi su l'ombrellino, indecisa. Nella camera, tutta illuminata dai vivi riflessi del sole di giugno che splendeva fuori, qualcosa d'insolito e di sottinteso la metteva in diffidenza. Egli le porse la mano.. - È un Pleyel - disse Giustina avvicinatasi al pianoforte. - Molto da strapazzo. - Come la suonatrice. - Questo dovrà dirlo il pubblico: io. Sono inesorabile, sappiatelo! ... Dove siete stata? - Per la campagna, da questa parte. Lasciai subito la carrozza. Sono tornata a piedi ... Che giornata di paradiso! ... Ho rubato dei fiori per voi. - Grazie -. Ella guardava il pianoforte, tentata. La passeggiata per la campagna l'aveva scossa. Si sentiva per tutto il corpo un senso di freschezza e di leggerezza. Il fremito delle fronde e delle erbe al lieve alitare del vento, riprendeva a vibrarle dentro eccitato; e socchiudeva gli occhi, quasi ancora offesa dalla troppa luce, come poco prima sotto l'ombrellino, all'aria aperta. - A che pensate? - le domandò Fasciotti, vedendola immobile e silenziosa. - A niente -. Non era vero. Ella pensava al bel bambino veduto saltellare, a cavalluccio di un bastone, su la terrazza d'una villetta ... Pensava alla bionda signora vestita di stoffa grigia, e che sorrideva di gioia materna dinanzi al bel bambino saltellante ... Cosí aveva fatto anche lei, una volta! ... - A niente! - replicò. E per frenarsi, stese una mano su la tastiera del pianoforte, facendovi scorrere su, con scatto nervoso, le dita, quantunque impacciati dal guanto. Quelle poche note la punsero come colpo di sprone. Si tolse in fretta in fretta il cappellino e i guanti: - È il ringraziamento; compatitemi - disse. Appena il pianoforte cominciò a susurrare, a balbettare sotto voce, con suoni che s'interrompevano e si riprendevano, tremolanti, accarezzantisi fra loro, egli si allungò su la poltroncina, rovesciando indietro la testa, socchiudendo gli occhi, cedendo alla deliziosa sensazione che gli si rinnovava nel cuore. - Berlioz! - mormorò sorridente di riconoscenza. A un tratto, i bassi insorsero cantando un coro grandioso, che riempiva tutta la camera di mistica sonorità. Ed ella si rizzò su la vita, irrigidendo le braccia, quasi cercasse far ostacolo alle vibrazioni che sopraffacevano, squassandole i nervi, già tesi per lo sforzo di quell'esecuzione a memoria. Fasciotti si era levato lentamente in piedi, rapito, esaltato dalla voluttuosa frase musicale che in quel momento tintinniva e guizzava rapidissima sul cupo accordo insistente. A un tratto, le si avventò, divorandosela dai baci. - No! No! - ella balbettava supplichevole, quasi svenuta. E le corde del pianoforte ondulavano ancora fra l'incessante scoppiettio. Nell'immediato turbamento, aveva pensato fuggire e scrivergli: "Perdonatemi! ... Il sagrifizio è superiore alle mie povere forze!" - Ma, dopo? - aveva subito riflettuto. - Come ne godrebbero coloro che mi hanno dato la spinta! Prima tradí il marito; ora abbandona l'amante, e non ha aspettato neppur molto! Cosí direbbero, cosí. È orribile! Dunque una persona buona e onesta può diventar cattiva e miserabile anche quand'ella non vuole? E c'è chi grida: "La ragione! La ragione! ..." A che giova, a che mai, se non è buona a salvarci dall'improvviso accecamento d'un dispetto, se ci lascia addentare e stritolare da una circostanza che deci de, senza rimedio, dell'avvenire d'una vita? - E trambasciava al ricordo di quei baci, come a rinnovantesi offesa. - Che posso piú farci? ... È inevitabile. In un pazzo impeto, non son venuta a dirgli: "Mi accusano d'essere la vostra amante; e sia, almeno; eccomi qui!" Ah! Si era figurata che bastasse soltanto dir ciò, per diventare amante come tant'altre. Invece, la gentile raffinatezza dell'uomo innamorato che le stava attorno senza chieder nulla, appagandosi di poco, aspettando, paziente ... forse perché era sicuro; invece, quella gentile raffinatezza si mutava in martirio per lei. - Oggi andremo fuori insieme - egli le disse una mattina. - Cercheremo il vostro nido. Mi è stato indicato un bel posto. - Grazie. Voi pensate a tutto - rispose Giustina, sorridendo tristamente. - È per vedervi meno seria ... Mi sembrate cangiata. Dov'è andata la vostra bella serenità? Dove la tranquilla dolcezza del vostro sguardo? ... Non lo negate: siete cangiata. - Come potrei essere la stessa? - Non osavo dirvelo; per non importunarvi; ma io vi vorrei come prima. Vi ho amata a quel modo e, sí, vi voglio a quel modo! - Scendiamo -. Il cocchiere, per isbaglio, li menava lungo una strada di campagna, inoltrandosi verso Porta a Pinti senza ch'essi vi badassero. Quell'aria tiepida, smagliante di luce; quel rigoglio di fronde che traboccava fuor dei muri di cinta con lieta foga primaverile; quel cinguettio di uccellini nidificanti tra le siepi o inseguentisi su pei rami, pigolando d'amore; quella gioconda fioritura di erbe e di piante selvatiche che profondeva sui cigli e lungo i lati della strada tesori di ciocche pavonazze, di bocci ross i e bianchi, di calici gialli, violetti, sanguigni, turchini, aperti e tremolanti su gli steli o mezzi nascosti tra le foglie; quella gran pace sorridente all'ombra degli alberi o al sole, su i vigneti, sugli orti umidicci, su i seminati dalle spighe quasi bionde; ... oh, quel magnifico spettacolo essi non se l'aspettavano punto! E continuando a tenersi per mano, tacevano, distratti. - Via Lungo il San Gervasio? - domandò il cocchiere a un contadino. Bisognava tornar indietro. Fasciotti rise del contrattempo e disse: - Indovinate che pensavo? - Se fossi stata indovina! - ella rispose. - Pensavo ... No, non voglio dirvelo -. Giustina tacque. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi un affettuoso rimprovero meritato, e non volle mentire per iscusarsi. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi anche un'improvvisa fierezza d'amante risoluto di trionfare, come trionfava lí attorno tutta quell'irrompente forza di amor vegetale, ed ebbe paura di provocarla. - Siete muta oggi - egli le disse, vedendo che lo lasciava parlare senza interromperlo, o gli rispondeva con monosillabi. - Vi ascolto. Dite tante belle cose! - Ma il suo accento era triste. E al ritorno, scendendo l'ariosa via tracciata dalla nuova Firenze a piè dei colli fiesolani, sentendolo ragionare allegramente del grazioso nido trovato per lei nella palazzina al numero venti di via Lungo il S. Gervasio, sentiva un grande accoramento: - Quella carezzante allegria non era forse un'insidia? - Piuttosto avrebbe preferito ch'egli avesse adoprato la forza: - Cosí sarebbe finita! - E nelle notti insonni, ripassando a una a una le mute sollecitazioni indovinate in un bacio piú caldo o piú lungo, in un'occhiata, in una reticenza, ella s'incoraggiava. Chi sa? Quell'illogica repugnanza del suo corpo si attutirebbe nel possesso; sarebbe forse vinta; chi sa? ... Oh, non voleva piú avere l'apparenza d'un'ingrata! Sentendolo ritornare a casa, dopo una giornata di servizio alla Fortezza, gli uscí incontro sul pianerottolo. E la stessa rassegnata dolcezza che pietosamente le sorrideva negli occhi, le tremava anche nella mano stesa a dargli la buona sera. - Che ore eterne per me! - egli le diceva in camera, accarezzandole i capelli e dandole dei bacettini su la fronte mentr'ella tentava di sfibbiargli dal fianco il cinto argentato della sciabola. Le parve piú bello in quel punto, stretto nella divisa, con le spalline e i bottoni che luccicavano, e il maschio volto, dai baffi neri fieramente rilevati, rizzato sul collo chiuso nel goletto bianchissimo; e fece uno sforzo e gli tese le braccia teneramente. Ma nelle ombre della sera che invadevano la camera silenziosa, al mormorio di quelle affettuose parole che le sfioravano la guancia, calde del fiato di lui, la riluttanza le si ridestava già e piú brusca, piú forte, quasi i nervi e il sangue, ribellati all'impero della volontà, la spingessero a gridare: "No, non dev'essere! ..." mentre avrebbe voluto dire il contrario. Egli lo capí, da quel lieve tremito che l'agitava, da quelle labbra ghiacciate che non rendevano i baci: - Voi non mi amate ancora! L'ho sospettato. - No, Emilio, t'amo! T'amo! - ella mentí, disperatamente, ingannando anche se medesima. E poco dopo, mentre colui la ringraziava sotto voce, grato del possesso vittorioso, ella diceva internamente: - Almeno m'ha creduto! - E gli si abbandonava tra le braccia, scossa da un gran convulso di ribrezzo. - Devi annoiarti in questa solitudine. - Ho pianoforte, musica, libri! ... E poi, mi dai tu forse tempo? - Faccio quel che posso. - Fai troppo. Non è un divertimento salire cosí spesso fin quassú. - Non è neppure una marcia. In quei primi mesi discorrevano talvolta cosí, alla finestra del salottino di via Lungo il San Gervasio, intanto ch'egli fumava, un po' impensierito di quella specie di stanchezza della voce di lei; e Giustina, co' gomiti appuntati sul cuscino del davanzale, continuava a rispondergli guardando ora il bel panorama di Firenze che rizzava laggiú, nella pianura, la cupola di Brunellesco, il campanile di Giotto e la guglia merlata di Palazzo Vecchio torreggiante sui tetti; ora il piazzale Michelangelo che pareva là, a due passi, col David che quasi si poteva toccare stendendo il braccio; ora monte Morello e gli appennini di Pracchia, sfumati fra i vapori, lontano. - Ti annoi; perché negarlo? - Ti dico di no. - Tanto meglio -. Quella volta, verso le sette di sera, presero una strada di campagna, poi svoltarono per una viottola solitaria, serpeggiante su la collina. - Che bella veduta! - ella disse. - Bellissima! - E si sedettero sulla spalletta rustica d'un ponticello, simili a innamorati che abbiano ancora mille cosine da confidarsi. Infatti egli le confidava la sua speranza d'un prossimo avanzamento di grado; s'era già preparato a un esame. - Quando saremo maggiore, - aggiunse scherzando - avremo piú autorità. Ordineremo: "Cara signora, vogliateci un po' piú di bene." E la signora - la disciplina soprattutto! - ci vorrà un po' piú di bene. Con un maggiore non si canzona. Giustina sorrideva: ma in quei grandi occhi tranquilli e su quelle grosse labbra colorite, il sorriso prendeva un'indefinibile espressione di dolorosa tristezza. Il ragionare, dietro una cosa e l'altra, era cascato intorno all'amore. - Perché m'ami? - gli domandò improvvisamente Giustina. - Non sono bella, tutt'altro; non sono capricciosa ... - Che ne so io? Sei qualcosa di meglio; lo giudico dagli effetti. - Non hai detto la stessa cosa a tant'altre? Sinceramente, s'intende. - Oh! Io credo che si possa aver amato cento volte e non aver mai provato una passione. - Non lo capisco. - Lo capisco ben io. Tu m'ami; mi vuoi certamente bene, ma ... - Quando una donna ha già dato all'uomo tutta se stessa ... Gli uomini non possono figurarsi, neppure dalla lontana, che cosa significhi: darsi! - Vi date forse? Vi lasciate prendere. - Povere donne! E ne menate anche vanto. - Ma lasciarvi prendere è la vostra forza. Nella guerra di amore, qualunque vittoria risulta sempre al rovescio. Chi capitola detta i patti e le condizioni. - Come s'indovinerebbe il militare, anche senza la divisa! - Ecco, per esempio, questo bacio qui ... - Emilio! - ... parrebbe, a prima vista, una violenza. Ma potevo non dartelo? La violenza l'ho sofferta io, da questi occhi, da questa bocca, da questa personcina che s'appoggia trionfante al mio braccio, e quasi mi sgrida ... per un bacio! - Emilio! - Gli ulivi stormivano attorno, nel gran silenzio della sera. - Faremo tardi, - ella disse dopo breve pausa. - Avremo la "celeste paolotta ..." E additava, ridendo, la luna montante, rossa e grande, su le colline scure, nel cielo a pecorelle: - Pare che salga di fretta dietro le nuvolette biancastre. - - Di notte, la campagna mi fa paura - rispose Giustina. - Anche quando l'esercito marcia in armi al tuo fianco? - In verità ella aveva assai piú paura di quell'allegra eccitazione rivelata dalle parole, dagli slanci improvvisi, dal tono stesso della voce. Scendevano silenziosi, a passi corti e lesti, per la viottola deserta, mentre i grilli trillavano al lume di luna, e i "chiú" di due assioli si rispondevano, distanti, a intervalli, e il gracidio delle rane dal vicino Mugnone saliva, quasi coro, monotono e solenne. Egli andava accarezzando sul suo braccio la mano di lei. E a quella carezza insistente che le produceva su la pelle delicata un sottile bruciore, Giustina sentiva riempirsi il cuore d'immensa commiserazione di sé. La vita le sarebbe parsa quasi f elice, se tutto si fosse limitato a quella dolce intimità piú dello spirito che del corpo. Perché a lui non bastava? E il ricordo della terribile sensazione di ribrezzo che la frequenza, ahimè!, non attutiva e che l'illuso orgoglio dell'amante scambiava per tutt'altro, le faceva correre un brivido freddo per la persona e le inumidiva le palpebre. - Ecco un fanale; sei contenta? - egli le disse. - Siamo quasi in città ... Ma che hai? - soggiunse subito, vedendole inaspettatamente portare agli occhi il fazzoletto. - Sciocchezza! ... Pensavo ... a quella bambina di cui ti parlai l'altra volta. Povera creatura! ... Mi è venuta in mente tutt'a un tratto, con quel visino magro e palliduccio che sparisce tra i folti capelli castagni ... Quando s'affaccia alla finestra dirimpetto, raccolta nello scialletto anche in agosto, e mi guarda, e mi guarda intentamente ... mi fa quasi male. E nel pensare a lei ... che sciocchezza! Parlava affrettata, come chi vuole ingannare, con un misto di pianto e di riso che l e tremolava nella voce; e intanto si asciugava gli occhi. - Via - disse Fasciotti, senza sospettare niente - quando ne avremo una anche noi ... - No, no! - ella lo interruppe. Aveva dovuto mentire. Il bambino suo, il caro bambino suo le era venuto in mente in quel momento, quasi il venticello che faceva stormire gli ulivi le avesse portato all'improvviso qualche profumo della villa Rosati, situata in mezzo al ristretto parco, presso lo Scrivia, dov'ella passava l'estate col figlio e il marito, lieta della fresca serenità di tutto quel verde e di tutta quell'ombra, tra i gridi allegri e i colpi dei cacciatori risuonanti dalle macchie a piè del colle. E cosí mentiva tutti i giorni, ora che il rimpianto del passato tornava a riprenderla, ora che la sua ragione non dava piú torto a quegli altri che l'avevano spinta nell'abisso. Non provava piú contro di essi il cieco sdegno di prima; non ne parlava piú con quell'accento duro e sbalzante, vibrato come guizzo di frusta dalle sue labbra convulse, nei giorni seguiti all'arrivo di Giulia da lei richiamata. - Tu che sai! ... - le aveva ripetuto interrottamente. E il cuore le si era vuotato d'ogni resto di fiele. Era stata ingiusta, al pari degli altri, forse piú; lo riconosceva. Le apparenze non stavano tutte, tutte!, contro di lei? Qual testimone poteva ella invocare per giustificarsi pienamente davanti a suo marito e a suo padre? ... E non aveva, con quel colpo di pazzia, dato ragione all'accusa? Si strizzava le mani, si mordeva il labbro, aggirandosi smaniante pel salotto, quando non le riusciva di co ntinuare a leggere perché i caratteri le si confondevano sotto gli occhi turbati e il pensiero andava via via, lontano, quasi a piangere dietro il portone della casa di suo marito, dietro il cancello della villa in mezzo al parco presso lo Scrivia, dietro l'uscio della casa paterna; a piangere e a domandar l'elemosina d'un perdono ch'ella sentiva di meritare e che sapeva, pur troppo!, non le verrebbe mai accordato. E il pianoforte gridava allora, ripeteva la sua confessione, domandava perdono in nome di lei con le dolenti melodie dello Schumann e dello Chopin, con le divine suonate del Beethoven, con le rubeste sinfonie del Wagner e del Listz, che chiamavano alle finestre dirimpetto e a quelle del primo piano della casa i visi attenti e maravigliati di parecchi inquilini; e tutti gli amati fantasmi della sua vita le sorridevano attorno in quei momenti, la colmavano di carezze e la lasciavano commossa e spossata tosto che si dileguavano lontano, lontano, piú lontano della stessa infanzia, quasi in un'altra esistenza! ... - Ah, il mio bambino! ... Ah, il mio caro bambino! - sospirava con le lagrime agli occhi, vedendo quel visino affilato di creaturina malaticcia che ella trovava sempre alla finestra dirimpetto, ogni volta che, terminato di suonare, s'affacciava a cercare con la faccia ardente la fresca impressione dell'aria aperta. Un giorno la bambina le sorrise. - Come stai, carina? - ella le domandò. E la tenerezza di mamma desolata le addolciva la voce. La bambina non rispose, e continuò a sorriderle timida. - Che fai lí? - Mi diverto a sentirla suonare. - Vieni qui, col permesso della tua mamma; suonerò a posta per te -. Non le era parso vero d'aver potuto attirarsela in casa. Fasciotti la trovò agitata, rimescolata, con quella magra creaturina seduta su le ginocchia, stretta tra le braccia, e che aveva negli occhi la meraviglia di tutte quelle carezze inattese. - Se tu sentissi che vocina! Pare un flauto - ella gli disse. - Cosí, con lei, non ti annoierai in questa settimana di mia lontananza. - Vai via? ... Per l'esame? - Questa sera, coll'ultimo treno. - Signor maggiore, buon viaggio! - Era anche allegra in quel momento. Ci voleva tanto poco per renderla quasi felice. Appena però gli lesse in viso il malumore per la presenza della bambina, non ebbe piú coraggio d'accarezzarla, di baciarla, e la mise a terra, con cuore soffocato. - Vo a casa - disse la bambina. Giustina non osò trattenerla; e l'accompagnò fino all'uscio, facendosi promettere piú volte che sarebbe tornata - Verrai tutti i giorni, è vero? - Se la mamma vorrà. - Perché non dee volere? - E riprese a baciarla, indugiando. Un dubbio la tenne su la corda: - Sospettava egli qualcosa? - Era partito evidentemente malcontento dell'insolita resistenza di lei la sera del commiato. E per calmarlo, per scancellargli la brutta impressione, per cacciargli di mente ogni sospetto, gli aveva scritto parecchie lettere lunghe, affettuosissime. - Mentiva forse scrivendogli cosí? No. Gli era grata di quella passione che pareva moltiplicasse la sua delicatezza e la sua forza nella crescente intimità della loro vita; e lo amava, sebbene in modo diverso, con grande slancio dell'anima ... Che poteva farci se il suo corpo resisteva? ... Ah, se ella avesse avuto un po' piú di coraggio! Se avesse potuto essere sincera e dirgli ... Come dirglielo? Era impossibile. Gli dovea questo gran sacrifizio, dopo che quegli per poco non le aveva sacrificato anche la vita. E quand'egli le rispose: "Tu m'ami meglio da lontano. Scherzi a parte, nelle tue lettere mi sembri un'altra. Strana creatura! Una frase, una sola frase di queste trovate ora, come tu dici, in fondo al cuore, pronunziata dalla tua bocca, mi avrebbe fatto salire ai sette cieli. Ed hai taciuto, cattiva! ... Mille baci sui ditini che hanno tenuto la penna"; quand'egli le rispose cosí, il foglio le cascò di mano, e il subito lentore dello scoramento la fece anche impallidire. - È suo marito che le scrive? Tornerà presto? - disse la bambina, raccattando il foglio. Essa trasalí, ammutolita. I signori Castrucci, andati a farle una visita di ringraziamento per le tante cortesie verso la loro bambina, l'avevano fatta trasalire allo stesso modo, due giorni avanti, domandandole: - Suo marito sta bene? - Grazie - ella aveva risposto. La signora Castrucci, che ciarlava volentieri, si era messa a compatire le povere mogli degli ufficiali: - Dev'essere una vitaccia! ... Ora qua, ora là, come gli zingari. Le spalline e la sciabola, sí, fanno un cert'effetto; ma un cantuccio di terra ben ferma sotto i piedi ... Suo marito è capitano? - Capitano -. E se la conversazione si fosse prolungata un tantino di piú, i Castrucci l'avrebbero vista tramortire a quel: "Suo marito, suo marito" che le andavano ripetendo con l'idea di farle cosa grata. Ah, la terribile logica d'un passo falso! ... Non era mai giunta a persuadersi come si potesse mentire ... ed anche quest'altra volta aveva dovuto, stando zitta, mentire! Sí, il vero marito ella non se lo sentiva piú solamente dentro la testa, ma nel sangue, nei nervi, in tutto il corpo, incancellabile marchio di possesso fino a quel punto non avvertito! E il ribrezzo, il terribile ribrezzo che ogni volta quasi l'annientava, era appunto la sorda protesta di quel possesso, il rifiorire di quel marchio. Lo comprendeva finalmente, ora che la sua ragione vedeva chiaro, ora che poteva misurare dalla profondità del proprio abisso l'altezza da cui era precipitata in un momento di p azzia. - Si sente male? - le domandò la bambina. Ella la prese tra le braccia, coprendola tutta di baci. Ah, quelle gotine magre e palliducce non erano le gote piene e rosee della sua creatura lontana! Voleva però illudersi, voleva stordirsi; voleva, soprattutto, vincere il terrore che già la invadeva all'annunzio del ritorno del maggiore che quella lettera aveva recato. E il martirio stava per ricominciare! La giornata era grigia, come l'anima sua; l'aria afosa e pesante. Piú tardi, l'umidore della pioggiolina - che gettava un gran velo cinericcio su la pianura, sui colli attorno, su le montagne lontane - la penetrava fino al midollo, le si mutava addosso in tedio spossante, in torpida oppressione. Tuttavia ella ritornava spesso a osservare il tempo dietro i vetri della finestra, e rimaneva là con gli occhi fissi, quasi con l'orecchio teso ad ascoltare il lontanissimo fischio della vaporiera che in quel moment o doveva forse montare su pei fianchi degli Appennini, divorando la strada, infilando le gallerie, spuntando gioiosamente all'aria aperta sull'orlo degli abissi e attraverso le fosche vallate, com'ella si rammentava d'averlo visto una volta, in un'altra giornata di pioggia, col sole che si affacciava di tanto in tanto dalle nuvole squarciate e faceva sorridere ogni cosa. E il treno correva, correva, serpeggiando, arrampicandosi; le parea proprio di vederlo. E vedeva anche lui, in un angolo di vagone, sdraia to, con gli occhi socchiusi, sorridente alle visioni della prossima felicità che gl'ingannavano l'impazienza dell'interminabile viaggio. Ma il cuore le rimaneva triste, quantunque il cielo già si rischiarasse al soffio del vento che spazzava le nuvole verso monte Morello e verso Pracchia, gettando incontro al treno che veniva a gran velocità - le pareva ancora di vederlo - quello sprazzo d'oro risplendente su la campagna lavata allora allora dalla pioggia. - Signora, c'è l'uomo coi fiori - disse Giulia sull'uscio. - Sono le cinque? Aveva ordinato quei fiori per le cinque di sera, e la giornata era trascorsa cosí rapidamente ch'ella ne provava stupore. - Il pranzo è per le sette e mezzo? - Sí. Giustina andava disponendo quei fiori un po' da per tutto, con arte gentile, scegliendoli dal gran canestro che Giulia le portava dietro. Giulia, di tratto in tratto, arrischiava qualche parola: - Il signor capitano ... il signor maggiore - ora bisogna dirgli cosí, è vero? - chi sa come sarà contento! ... Dovrà fare una bella figura a cavallo; andremo a vederlo a le riviste ... - Giustina non rispondeva, e spargeva sul tappeto gli ultimi fiori rimasti, lasciandoseli cader di mano lentamente, preoccupata. L'odore delle rose, dei ciclamini e dei giacinti tuberosi riempiva il salotto. - E il martirio stava per ricominciare! - Ogni minuto che passava era un precipitarsi verso il fatale momento dell'arrivo. Colui tornava piú innamorato, piú illuso di prima. Vi aveva contribuito ella medesima; vi contribuiva ancora, abbigliandosi come per una festa, scancellando dal suo volto ogni traccia di sofferenza, tentando di farsi una maschera per continuare ad illuderlo ... - Poiché questa illusione lo rende felice! ... Non sarebbe assai peggio se dovessimo soffrire tutti e due? - E lo guardava quasi contenta, quasi illusa nei primi momenti, lasciandosi baciare una mano in ringraziamento delle bellissime lettere lette e rilette, e imparate a memoria ... - E tutti questi fiori? - Non hanno nulla di guerresco - ella rispose. - Decorazione sbagliata. Dimenticavo la marcia! - Suonate però poche battute della marcia del Tannhäuser, si levò dal pianoforte. La musica la eccitava, e non ne aveva punto bisogno. - Raccontami, raccontami tutti i particolari dell'esame. - Chi se ne rammenta piú? E poi ... lascia andare!. - Irrequietamente Giustina si levava da sedere col pretesto d'aggiustare un mazzo di fiori, di moderare la fiamma d'un lume, di spostare senza un perché qualche gingillo; e tornava a sederglisi allato, ripetendo: - Raccontami, raccontami - con tremito della voce che si comunicava a quella di lui. - Che vuoi che ti racconti? La cosa piú bella, piú deliziosa del mio viaggio è stato - occorre dirlo? - il ritorno; sono questi momenti, sono questi ... Giustina tentava di schermirsi: - Può venire Giulia lascia andare -. Tenendola stretta stretta tra le braccia, egli intanto le ripeteva nell'orecchio una frase dell'ultima lettera: - E hai taciuto! ... Cattiva! - Bevevano il caffè. Seduto presso il tavolino, sorridendo, tra un sorso e l'altro, Fasciotti spingeva verso di lei boccatine di fumo, come altrettanti colpi d'incensiere: - Non sei il mio idolo? Giustina, in piedi, assaporando lentamente col cucchiaino la calda bevanda e aspirandone il profumo, lo ringraziava con accenni del capo e degli occhi, ridiventata seria in quell'intimità del salotto che l'ora tarda e il paralume rosso, a testa di gufo, rendevano piú raccolta del solito. Nel punto che Giustina posava la tazza, egli la prese per la mano - Vieni, siedi qui -. E le passava un braccio attorno alla vita e le teneva stretti i ginocchi sui suoi ginocchi. - Voglio sentirti accosto, cosí. Fino a due settimane addietro, nel venire quassú, facevo la strada simile a un sonnambulo, dubitando sempre che e tu e questa palazzina e questo salotto e la nostra vita di amanti non avessero a sfumarmi dinanzi con lo svanire d'un sogno durato apparentemente sette mesi e in realtà qualche minuto. E quando penso che c'è stato un tempo in cui tutto questo non poteva avere per me neppure la fluida apparenza d'un sogno! ... Ti vedevo di rado; tu mi evitavi. Se potevo passart i accanto e sentire il suono della tua voce ... Ricordi? ... Ricordi? Parlava sommesso, come in un soliloquio, tenendo gli occhi socchiusi fissi in un punto della parete dirimpetto, dove quelle visioni del passato gli apparivano e sparivano, dissolvendosi nella rapidità dello sfogo: - Ricordi? ... Ricordi? - E Giustina gli rispondeva di sí, di sí, con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in dist anza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri ... - Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi! ... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, sí, c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima! ... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai que l che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te ... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? - Ella seguiva a dir di sí con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di là, in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respira va appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile ... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti: - Per pietà, no! ... Per pietà! - E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! - Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante. - Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile. E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante: - Emilio! ... Emilio! ... - Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo. - Emilio, siate generoso! ... Fatemi male quanto volete ... Ah! - Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava. Fu un baleno. - Perdonatemi ... il torto è mio. Entrate in letto ... vi ammalerete ... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo: - Il torto è mio ... Avrei dovuto avvedermene -. E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi. La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità ... e per sempre. Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava là, rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui. Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma: - Vado di là, un momentino. - Perché? - Ho bisogno d'aria ... - Aprite pure quella finestra ... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado. - Oh, non dubitate! ... So il mio dovere -. Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava - Perché dunque è venuta da me? ... "M'accusano d'essere la vostra amante, e sia! ..." Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? - Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare - Che ho mai fatto! ... Che ho mai fatto! - La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano lí, raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! - La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava. - Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -. E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d' ostentazione, una lieve ombra di vendetta ... - Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -. Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima. - Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -. Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove. Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il "Fanfulla", senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione ... - Assurda, ne conveniva. Ma ... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava là, col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! - L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata ... - Ora, forse? ... - Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne: - Se volete andare a letto ... Io resterò qui un altro poco ... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia ... Giulia sopra tutti. - Come vi piace. Buona notte -. Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano. - Buona notte -. E Fasciotti gliela strinse leggermente. Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco ... - Fino a che ora rimarrà in salotto? - Alle due era ancora là. Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata. Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio! La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male? - No, perché? - Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato. - Ah! ... Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime. Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto ada ttarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore. La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti. Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere ... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva. - Oh, Dio! ... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? - Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: - Il Dio della musica! ... E Dio ce n'è uno solo! - Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: - Tralalalliero, tralalalà! - Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. - Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? - E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora. Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli. - Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz ... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -. Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi. - Sí, Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione. - Allora, no! - ella rispose. - Dunque non m'ama piú! ... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. Sí, sí; lo vorrei detto piú chiaramente? ... Non m'ama piú! Non mi ama piú! Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano: - Non m'ama piú? - Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale. - Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? - Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte? ... - E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? - Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui? ... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia. - Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi ... - Che fareste? - Non lo so -. Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto - Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere ... - Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri. - Me lo dite voi? - Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse. - Non m'ama piú! ... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata. - Come? ... Lui mi tradisce cosí? Lui! ... E perché non mi ama piú? Perché? - Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi. Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando - Signora, debbo chiamare il dottore? - No. - Che si sente, signora? - Qualcosa qui ... Non è nulla -. E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa. - Dunque andrete a Pisa? - Per un'ispezione; due, tre giorni. - Mi scriverete? - La mia lettera arriverebbe insieme con me. Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria ... - Questo profumo ... L'avete addosso voi? - Io? - ... Mi va al capo, mi stordisce. Sí, l'avete addosso voi. - Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa. - Oh, no ... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima. - Vi fa proprio male? - Sí, molto! - Allora vado via; scusatemi. - A rivederci -. Si sentiva morire. Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite. Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa: "La signora è in pericolo di morte." Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo? La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia: - Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -. Fu telegrafato. Nessuno rispose. La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando: - Enrico! ..., Te lo ... giuro! Babbo! ... Sono innocente! ... Credimi almeno tu ... tu solo! ... - La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere. Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto: - Enrico! ... Enrico! ... - Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi. Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta: - Enrico! ... Perdonami! ... En ... rico! ... - Povera signora! ... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis! ... - Mineo, 25@ 25 marzo 1885@. 1885.

Il cappellino di paglia scura, con nastro e fiori rossi, che le sormontava la testa era quasi tutto avvolto da un gran velo denso, accortamente abbassato sul viso, il quale m'impediva di accertarmi se le mie supposizioni fossero state, o no, bene azzeccate. Avevamo da un pezzo preso una scorciatoia a traverso i campi; e non tanto per evitare d'incontrar gente che la riconoscesse, quanto per trovarci a tempo alla piccola stazione di Bicocca. Vi arrivammo infatti che già spuntava il sole. Il treno avrebbe tardato un quarto d'ora a passare. Spossata dal viaggio e piú, forse, dalle emozioni, domandò un bicchier d'acqua. Il capostazione invitolla gentilmente a montare nella stanza di sua moglie: lassú avrebbe anche potuto riposarsi un po' meglio che sulle panche di legno della stanzuccia di aspetto. Le tenni dietro. Smaniavo di vedere in viso la persona alla quale dovevo tener compagnia non solamente per altri due lunghi giorni di viaggio, ma finché il mio amico non avrebbe potuto venire presso lei senza punto farsi scorgere. Allorché la moglie del capostazione le presentò il bicchier d'acqua, la signora alzò il velo poco piú in su delle labbra e bevve lentamente. Aveva un collo stupendo. La carnagione brunetta tirava un po' al pallido. Dei capelli nerissimi, un viso ovale piuttosto piccolo, un mento gentile, una bocchina stretta come un anello, ma seria per naturale atteggiarsi delle labbra: ecco quello che potei vedere con un'occhiata investigatrice, nell'intervallo di due secondi, tra l'alzata e l'abbassata del velo. Bella, nello stretto significato della parola, non mi parve potesse essere; intendo di quella bellezza scintillante, sfolgorante, che non si lascia discutere, ma s'impone. Però simpatica sí, molto simpatica, che per me, infine, voleva quasi dire piú di bella. Nel viso di una persona simpatica non par di trovare qualcosa di affine al nostro essere che ci si assimili subito, mentre la persona bella ci rende sorpresi, ammirati, ma ci mantiene come in distanza? Una donna perfettamente bella, a mio modo d'intend ere, non può essere amata. Non avevo però veduto la vera espressione del viso, la sua vera anima, gli occhi: e bisognava attendere per pronunciare un giudizio. Frattanto m'abbandonavo a un lavoro di ricostruzione simile a quello dei naturalisti. Dati quel collo, quel mento, quella bocca, quel colorito della pelle, quella statura, quei capelli, qual'avrebbe dovuto essere l'intiero volto e, piú specialmente, la espressione degli occhi? E una serie di visi ora accennati, ora sbozzati, ora disegnati con accuratezza e coloriti con amore t remolava, brillava, si sbiadiva, spariva, ricominciava ad apparire innanzi i miei occhi fissati sulla panchina agghiaiata, sottostante alla finestra. La signora intanto, seduta presso il capezzale del letto sur una sedia di paglia, il capo appoggiato ai guanciali, le mani ferme sulle ginocchia, pareva si riposasse dalla fatica del cavalcare e pensasse Dio sa a che! Il servitore e i due contadini rimasero lí per tornare a casa coi cavalli. Correva poco meno di un giorno di cammino dal posto dove eravamo andati a prendere la fuggitiva, e i poveri animali avevan bisogno di ristoro. Nel vagone fummo soli, lei, la cameriera ed io. Credetti che lí quel velo importuno sarebbe stato alfine rimosso ... Ma niente affatto! Ella adagiossi in un canto come per cercar di dormire, ed io dovetti rassegnarmi a scambiare qualche parola colla cameriera, che non era né giovane né bella, ma aveva una fisonomia intelligente, maliziosa, e prodigava l'"eccellenza". Cavai di tasca il portasigari e domandai se la signora soffrisse pel fumo. - Eccellenza no - rispose la cameriera - e nemmeno io. - Fumi pure - soggiunse la signora senza rimuoversi dalla posizione in cui si trovava. - Non mancherebbe altro ch'ella avesse anche questa noia! Sarebbe un troppo grande sacrifizio: fumi, fumi, la prego -. Il Jonio scintillava come un immenso specchio contro il sole. La spiaggia disegnava in quel punto una vasta curva, dolcissima, dove l'onda del mare veniva a morire lentamente quasi per languore amoroso. Giardini ancora bagnati della rugiada del mattino, che profumavan l'aria colla loro zagara, strisce di prati, scogliere, gole di colline, strappi di mare e poi giardini di bel nuovo, tutto mi passava velocemente di fianco con la rapida corsa del treno; ed io guardavo sí, ma senza distinguere gli oggetti, com e se il velo della mia fuggitiva si fosse anche steso su quella meravigliosa natura, destatasi fresca e gioconda ai primi raggi del sole. Infatti rimanevo lí serio, indifferente, intontito, fantasticando a seconda della facile corrente dell'imaginazione e contento di prestarmi ai suoi piú bizzarri capricci. Nella stazione di Siracusa ci attendeva una carrozza a due cavalli: ripartimmo immediatamente. - Ed ora che non ci è piú degli importuni da temere - dissi appena chiuso lo sportello - ella può liberarsi della seccatura del velo. - Ma ... ma ... - balbettò. Intanto spinse risoluta le mani dietro il capo e, staccato uno spillo, rimosse via quell'ingombro. La guardai sorpreso. L'avevo già vista altrove? Mi pareva di riconoscerla. Via! non poteva darsi: sapevo con certezza che la vedevo allora la prima volta. Pure nei suoi lineamenti doveva esserci qualcosa di a me noto che produceva quell'effetto; ma non trovavo, lí per lí, una spiegazione plausibile. Era simpatica. Altro! Gli occhi però non corrispondevano preciso con quelli da me imaginati dopo visti il mento e la bocca. Erano neri, vivaci, ma piccoli, dallo sguardo profondo che a un lieve aggrottar delle sopracciglia assumeva un'espressione di indefinibile tristezza. Mi sentivo imbrogliato. Quegli occhi, senza fallo, gli avevo veduti prima di allora; quell'indefinibile espressione di tristezza non mi giungeva punto nuova. Ma non mi raccapezzavo. Ella mi tolse dalla confusione domandandomi: - Si arriverà tardi? - Alla Marza? Domani - risposi, ricomponendomi subito. - E viaggeremo tutto questo giorno e la notte seguente? - disse un po' meravigliata. - No, questa sera ci fermeremo in Rosolini: ripartiremo di buon'ora. - È un bel posto la Marza? - chiese dopo qualche minuto. - Stupendo - risposi - massime in questa stagione. Vedrà: qualcosa di strano ch'ella non può imaginare. - Molte piante? - Nessuna. - Una campagna rasa, un deserto? - Presso a poco -. E mi fissò tra incredula e dispiaciuta. Le abbozzai, per tranquillarla, una breve descrizione della Marza, che produsse quasi subito l'effetto voluto. Indovinando poi facilmente il suo naturale ritegno, mi decisi ad essere il primo a parlare di "lui". - Paolo - dissi - forse non potrà esser lí prima dell'altra settimana. - Come? - ella fece, - non verrà fra tre giorni? - Potendo - ripresi. - Ma bisogna esser cauti ... capisce? - Non correrà pericolo, è vero? - chiese, voltandosi piú direttamente verso di me. - Oh per questo stia tranquilla! - Dio mio! Vergine santa! - esclamò ripetutamente, guardando in viso la cameriera, come per persuadersi se quella partecipasse i suoi terrori. - Voscenza stia zitta - rispose la cameriera, che comprese a volo la muta interrogazione degli occhi. - Non facciamo cattivi auguri. Bedda matri! Si cheti! - Dopo un quarto d'ora il diaccio di ogni primo incontro era bello e rotto, e ragionavamo tranquillamente di mille cose. Spesso però ella interrompeva il discorso per ritornare col pensiero a Paolo, alla famiglia, a ciò che doveva accadervi in quel momento, alla lettera diretta alla sorella, lasciata sul marmo del comodino della sua stanza, e il volto le si abbuiava, e le pupille le si velavano di lagrime; ma infine faceva uno sforzo, sospirava e riattaccava il discorso. Verso il tramonto, assai prima di arrivare in Rosolini, si avvolse nello scialle, rannicchiossi nel suo angolo di carrozza e stette cosí, pensosa, cogli occhi socchiusi, senza pronunciare una sillaba, fino al momento che, a sera inoltrata, la carrozza fermossi innanzi il portone dell'albergo. Ci rimettemmo in viaggio prima che fosse l'alba. Ella scese le scale in fretta, con dei movimenti di freddolosa e, appena entrata in legno, - Vorrei essere di già arrivata! - esclamò con accento di grande stanchezza. La carrozza partí di galoppo, accompagnata da una musica di sonagli, di chiocchii di frusta e di "ohé! ohé!" del cocchiere. Avevo dormito poco, interrottamente e mi ero svegliato di malumore. Mi sentivo oppresso da uno di quegli inesplicabili sentimenti che non lasciano ben distinguere se un malessere fisico ne produca in quel punto uno morale, o se un patema d'animo agisca sui centri nervosi, li contragga e li faccia soffrire. Mentre il piede destro picchiava con dei colpettini irrequieti il fondo zingato della vettura, gli occhi fissavano, macchinalmente, a traverso i cristalli, la tinta uniforme della notte, e l'imaginazione vi gettava ad intervalli dei grandi sprazzi di luce. Era un angolo di paesaggio ridente di sole; era una stanzetta ben nota; era una testina di donna che non giungevo a ravvisare; era un tramonto, veduto non ricordavo piú quando; una pianticina fiorita, un muro coperto di screpolature bizzarre; erano cento simili visioni che dipingevansi di tratto in tratto su quel fondo oscuro come per l'istantaneo aprirsi e chiudersi di una lanterna magica posta sul cielo della carrozza; ed io continuavo, tra sonno e veglia, a osservare senza preoccuparmi d'intendere quali attinenze potessero esistere fra quelle apparizioni disparate e il mio improvviso malumore ... Ma forse avevo nel cuore una segreta paura d'intenderle! Quando l'alba dipinse dei suoi miti colori lo spazio di cielo inquadrato nello sportello della carrozza, accorciai le gambe, mi rizzai sul busto, e vedendo che la signora se ne stava sempre zitta, con un lieve sorriso sulle labbra. - Eccoci a un terzo del cammino! - esclamai dopo aver dato un'occhiata al posto che traversavamo in quel momento. - Credevo che lei dormisse - disse la signora - e avevo paura di svegliarlo. - Non ho dormito - risposi - ma intanto ho sognato. - Desto? - ella fece con un grazioso movimento di sorpresa. - È il miglior modo di sognare. - Ah! Non sapevo - replicò la signora. - Mi pareva che si sognasse soltanto dormendo. - Basta prenderci il verso - risposi. - Io vede? sogno a piacere. Due minuti di raccoglimento, una speciale giacitura del corpo, un particolar modo di fissare la pupilla, ed è bella e fatta: il sogno prende l'aire. Ed ha questo di meglio sul sogno ordinario: posso anche indirizzarlo verso un soggetto determinato, senza timore che perda la sua incoerente natura -. La signora fece un movimento degli occhi e della bocca come per dire: - Sarà! Ma stento a prestarle fede! - Durante il silenzio che seguí questo dialogo, io riflettei che trovarsi accanto a una donna simpatica, nel piccolo spazio di una carrozza, coi vetri tirati su, entro quell'atmosfera riscaldata dal solo calore dei fiati, è una sensazione gradevole, quasi voluttuosa che merita di esser provata almeno una volta, specie quando la donna che viaggia con noi non ci appartiene, e non si possono avere verso di essa altri sentimenti fuorché la stima e il rispetto. Ma dopo cotesta breve riflessione, appena mi accorsi di non essere osservato, tornai, come il giorno innanzi, a guardare attentamente la fuggitiva. L'idea della sua rassomiglianza mi tormentava tuttavia. Anzi non era tanto il non averla ancora trovata quel che mi desse noia, quanto il veder agitarsi dentro di me, e per effetto di essa, un sentimento indefinito di sentimenti dolcissimi provati una volta, che ora venivan lenti a galla dal piú profondo del cuore. - Ma che stavo a confondermi? Che m'importava a me di quella benedetta rassomiglianza? Era ciò che mi domandavo la mattina dopo sulla terrazza del villino di Cozzu di Pietra, aspettando che la signora Emilia uscisse dalla sua stanza per far colazione rimpetto al mare, in piena luce di sole. Però quando apparve sull'uscio non seppi frenare un piccolo grido di sorpresa: era trasfigurata! Indossava un abito d'indiana colore fior di pomo, brizzolato di minuti tondini rossi, guarnito di un galloncino nero a disegni che davan risalto alla foggia. Il busto le abbracciava strettamente la vita e la faceva parere piú snella. I capelli, semplicemente tirati su e trattenuti sulla testa da un nastro di velluto celeste, luciccavano di ondeggianti riflessi azzurrognoli attorno alla fronte elevata, e ricadevano sulle spalle increspati e abbondanti. Mi porse la mano domandandomi scusa dell'essersi fatta aspettare; poi dette una rapida occhiata al mare immenso, tremolante dei mille bagliori del sole, un'altra occhiata alla campagna che scendeva, a sinistra, tutta verde di messi quasi fino alla spiaggia; e alzando le sopracciglia e aprendo gli occhi con una viva espressione di piacere: - Che magnificenza! - esclamò. E rivolgendosi a me, che stavo lí immobile a fissarla: - Non è vero? - soggiunse. In quel momento io mi sentivo interdetto: respiravo appena. La rassomiglianza, cosí ostinatamente cercata e non potuta trovare, mi era all'improvviso saltata agli occhi, dandomi una fortissima scossa. - Che stupido! Come non me n'ero accorto subito? Come avevo potuto aspettare fino a quel momento per riconoscere ciò che avevo confusamente avvertito, appena veduta quella donna? Sospettando di avere addosso qualcosa di strano che mi facesse impressione, la signora Emilia osservò, voltandole e rivoltandole, attentamente le sue mani, distese ad una ad una le pieghe del davanti della sua veste, e non scoprendo nulla che giustificasse quel mio fissarla cosí insistente, - O perché mai ...? - domandò quasi mo rtificata, senza finire la frase. - Scusi, scusí! - mi affrettai a dire. - È proprio un caso incredibile! - Che cosa? - ella fece, confusa d'intendere assai meno di prima. - Oh! Nulla - risposi. - Ella somiglia tanto, ma tanto! a una persona di mia conoscenza ... - Non è che questo? - m'interruppe ridendo. - È una fortuna per me. - Ma cosí identicamente - continuai senza punto badare al complimento, - cosí identicamente che non può nemmeno idearlo! - Una persona ... molto cara ... m'imagino! - disse, pronunziando le parole con tono di graziosa malizia. - Molto! - risposi vivamente. - Tanto meglio - ella riprese. - Cosí patirà meno la noia di questo esilio della Marza. - Non mi sarei annoiato lo stesso. - Grazie! - disse la signora tornando a ridere. - Ma ora son certa che vi rimarrà con piacere. - Coll'egual piacere di prima. - Però cotesta sua amica - ella osservò - non sarebbe forse molto contenta se sapesse che ha già stentato due giorni prima di riconoscerla nei miei tratti. - Ah! V'era qualcosa che me lo impediva - risposi: - il suo vestito, la sua acconciatura del capo, la ... - E poi forse - m'interruppe con un sorrisetto di celia - questa identità che mi assicura non sarà proprio un'identità. - Sí, è vero - risposi. - Per esempio, le voci hanno due intonazioni diverse. - E niente altro? ... - Parmi, sí, qualcosa ... ecco, nell'aria della persona - dissi ingenuamente, ma esitando; - l'altra è piú dimessa, piú seria. - Cosí? - E prese un atteggiamento di serietà senz'affettazione né caricatura. - Precisamente, Dio mio! - Starò seria tutto il giorno, se può farle piacere! - Oh! ma non creda ... - dissi con simulata indifferenza. Poi, per far divergere il discorso: - Se qui ci fosse una tenda! - esclamai; - vi si potrebbe qualche volta anche desinare col sole. La sera però, volendo, potremo cenare al chiaro di luna come si fa nei romanzi. - Ha dormito bene? - quindi le chiesi dopo alcun istanti di silenzio. - Poco - rispose. - Che vuole? - E fece una mossa del capo e degli occhi, quasi volesse dire: - Sono forse tranquilla? Rimasi per tutta la giornata col capo intronato. Non sapevo capacitarmi che i lineamenti della mia Iela potessero quasi ripetersi in un'altra persona. Iela! Il mio ideale, il dolce sogno della mia giovinezza! La sola donna che io abbia sempre amata anche amandone delle altre? Tu sai bene, amico mio, che non posso ancora, dopo tant'anni, pronunciar questo nome senza tremare di commozione! Tu sai che la imagine di lei non solamente ha resistito nel mio cuore a tutte le offese del tempo e dei mille casi della vita, ma che ogni mese, quasi a giorno fisso, torna a stringermi affettuosamente tra le sue braccia ideali, con un raccoglimento piú che religioso, con una vera estasi di parecchie ore, durante le quali l'idillio della mia giovinezza ricanta allegramente le sue gentili canzoni . - Fanciullaggini! Ridicolezze! - tu mi hai spesso ripetuto sentendomene a parlare. Ed io ti ho sempre risposto - Può darsi, ma fanciullaggini divine! Da chi ho mai ricevuto consolazioni piú profonde? Da chi conforti piú ineffabili? - Purificata, idealizzata da un lungo e segreto lavorio, pel quale il carattere, le circostanze della vita e l'indole dei miei studi si porsero a vicenda la mano, la malinconica figura della Iela assunse presto pel mio cuore e pel mio spirito il valore di un simbolo. Pavento anch'oggi come una sciagura il momento in cui potrò forse dimenticarla, o mi rimarrà indifferente. Ed ecco perché il vederla cosí riprodotta, vivente, nella persona della signora Emilia mi sconturbava tanto e mi rendeva come ingrullito. Avrei provato verso questa donna gli stessi sentimenti che per la Iela? Gli avrebbe essa modificati? Alterati? Il gentile e sacro ideale della mia vita avrebbe patito per tale incontro una mutilazione, che mi metteva i brividi al solo pensarvi? Tentavo distrarmi da queste idee, ma non riuscivo. Eravamo andati a visitare l'antico casamento della Marza, un tratto assai breve di passeggiata. L'atrio merlato; il cortile ingombro di erbe; la chiesa in rovina e già ridotta a fienile; le stanze vaste ma inabitabili; le rovine di un altro casamento lí accanto, una volta dei frati carmelitani, deviavano di quando in quando la mia mente da quella fissazione ostinata. Dovevo farla da cicerone, dovevo dare degli schiarimenti, dovevo appagare le mille curiosità femminili destate da un sasso, da una grondaia, d a un gruppo di rigogliose viole a ciocche cresciuto sull'architrave della porta della chiesa, e rispondere alle cento domande che il posto naturalmente suggeriva. - Quella bianca cupola in fondo, cosí staccata sul grigio della pianura? - È della chiesa di Pachino. - E quel colle con quel vasto e severo edificio sulla cima? - Il colle di San Basilio e la villeggiatura dei proprietari. - E quel tondo nero in mezzo al mare, non molto lontano dalla spiaggia? - L'isoletta dei Porri -. La giornata era splendidissima. Un vero sole di primavera; un'aria profumata dagli odori particolari delle messi e delle erbe selvatiche in fiore. Ma quel sole, quelle messi, quelle erbe selvatiche in fiore mi richiamavano alla mente un'altra giornata di maggio e una piú bella compagna. La Iela appoggiavasi, sorridente, al collo rustico di un pozzo sulla spianata accanto all'aia. I piccioni domestici beccavano ai suoi piedi i grani di orzo e di frumento ch'ella faceva cadere a poco a poco dal pugno della mano destra levata in alto; un cane bigio scodinzolava fisso, col muso in aria, quasi aspettasse anch'esso qualcosa. - A che pensa? - mi chiese la signora, vedendomi rimanere cosí assorto e poi uscire da tale stato con un profondo sospiro. - Penso - risposi - che è bene ci siano al mondo delle felicità che non si possono mai possedere! - Perché? Una felicità che non si possiede è piuttosto un dolore. - Perché - ripresi - per possedere certe felicità e possederle per sempre (aggravai la voce sul "certe" e sul "sempre"), l'unico mezzo, cara signora, è il non possederle giammai. - Una donna - ella osservò - non parlerebbe a questo modo. - Perché? - chiesi alla mia volta. - Perché nella vita noi siamo molto piú pratiche. - Questo mi sorprende dopo quanto mi ha detto sui mille romanzi che ha letti. - È vero, ho letto molto - ella fece con scherzevole serietà; - ma piú creda, ho vissuto! - Mi tornò alla memoria quel po' della sua vita che mi aveva confidato la sera innanzi. Sentivo susurrarmi all'orecchio: "Ho sofferto, ho lottato!" E poi in tono piú severo, come l'ultimo resultato della sua triste esperienza: "Non c'è che il possesso che renda felici; tutto il resto è illusione!" Ma io protestavo internamente: - Oh! Non è illusione! - Si accorse presto del mio debole, e mi sorrideva in viso maliziosa, quantunque non osasse apertamente canzonarmi. Richiamava spesso il discorso sul "mio ideale", com'ella diceva, e m'interrogava con curiosità, quasi provasse del gusto a delicatamente tormentarmi. - Era molto piú piccola di me? - mi domandò una volta ex abrupto,- mentre appoggiata al mio braccio saliva uno dei tanti mucchi di sabbia del piccolo Sahara della Marza. - Piú gracile assai - risposi a malincuore, non sapendo dove quella interrogazione avrebbe voluto condurmi. - E, maritata, è rimasta sempre la stessa? - Sempre. Rivedendola dopo un lustro, mi parve soltanto un po' piú pallida e assai piú triste. - Non è dunque felice? - Ahimè, poverina! - esclamai. - La colpa è un po' anche sua! - fece ella sorridendo e piegando di lato il collo per guardarmi negli occhi, mentre agitava in aria l'indice della mano sinistra con un gesto accusatore. - Dica del caso, delle circostanze: eravamo tanto ragazzi tutti e due! - Ma un po' l'avrà, credo, consolata ... dopo - insinuò con un accento di fina malizia che mi fece trasalire. - Oh! No! - dissi risoluto, levando alta la fronte. - Quella donna è per me proprio morta. Io non amo che la ragazza, un ricordo, un fantasma! Infatti ciò che rende questo sentimento piú fiero e piú orgoglioso della sua purezza, è l'idea ch'essa lo ignori. - Che assurdo! - esclamò con vivacità. - Una donna amata può, se vuole, anche fingere di assolutamente ignorare; ma ignorare per davvero ...! - Le assicuro che ignora - insistevo. E intanto sentivo battermi il cuore all'idea che quel mio sentimento non vibrasse ignorato. Avrei però voluto esser io solo a sospettarlo. La signora Emilia divertivasi a salire, a discendere pei mucchi di sabbia sparsi, come tanti tumoletti, lungo la spiaggia; e, attaccata al mio braccio, mi spingeva ridendo a correre per quella stesa mobile, gialliccia che s'inoltra a perdita d'occhio, di lungo e di traverso, come un deserto in miniatura. Era uno spettacolo affatto nuovo per lei; e le riesciva piú gradito perché le dava l'impressione di una grandissima lontananza da casa sua. Evidentemente ella provava un forte bisogno di dimenticare qualcosa, e le si leggeva negli occhi, benché volesse darlo a comprendere poco. Vi ritornammo parecchie volte nei giorni appresso, ora ad ammirarvi l'alzata del sole, ora a provarvi il calore meridiano per formarci una idea approssimativa del vero deserto, ora a godervi gli effetti del chiaro di luna. I raggi lunari, investendo della loro luce bianchiccia quella vasta e brulla estensione di sabbia, davan risalto colle ombre a tutte le disuguaglianze del terreno, e il luogo assumeva cosí un aspetto strano e pauroso che nessuno, di giorno, si sarebbe imaginato. Le onde svogliate del mare, battendo monotonamente sulla spiaggia poco discosta, facevano un perfetto contrasto col silenzio che incombeva dall'altro lato su quella solitudine sconfortata. Pareva di essere chi sa a quante miglia da ogni creatura viv ente, sperduti, senza speranza di soccorso, entro un oceano di sabbia. La configurazione del terreno contribuiva, celandone i limiti, a far credere immensa quell'estensione di poche miglia. La signora Emilia lanciava ad ora ad ora per l'aria cheta un allegro scoppio di risa che suonava piú argentino del solito e vi si perdeva senz'eco. Io, quando stavamo zitti, canterellavo una romanza. E intanto andavamo su e giú, facendo il giro dei pantani, gettando delle manate di sabbia fra i giunghi attorno per far levare le anitre, le folaghe ed i gheppi lí rimpiattati. Ma io, dico il vero, non mi svagavo di molto. Nei giorni precedenti mi ero piú volte sorpreso intentissimo a guardare la signora Emilia con un sentimento di dolce compiacenza che non scaturiva soltanto della sua somiglianza colla Iela. Ed ora, in quel posto, tornando silenziosi verso casa, avvertivo con stizza che il calore del suo braccio, appoggiato con naturale stanchezza sul mio, mi faceva pensare a qualcosa di vagamente sensuale che s'infiltrava nella pura atmosfera del mio spirito e cominciava a viziarmela. Pur troppo era vero! La signora Emilia mi aveva rapidamente svegliato nel cuore tutti gli ardori dei miei sedici anni e con l'uguale freschezza di una volta. No, non vivevo insieme ad essa alla Marza, ma colla mia Iela evocata lí, per miracolo, da una misteriosa potenza che ne aveva, un pochino, alterato i lineamenti e le gracili forme. Capivo però benissimo come oltre a quei sentimenti se ne fossero sviluppati dei nuovi che legavansi strettamente a quegli altri e quasi servivano a completarli: temevo appunto di questi. Alcune parole, alcune frasi della signora Emilia, mi turbavano da qualche giorno in un modo incredibile. Certe occhiate, certi sorrisi, certe inflessioni della voce che piú vivamente riflettevano o rammentavano, anche dalla lontana, le occhiate, i sorrisi, le inflessioni della voce della Iela, mi facevan provare delle scosse, dei tremiti, dei languori che talvolta arrivavano perfino a spossarmi. Ed io soffrivo di questo sovrapporsi di lei, di questo suo impertinente sostituirsi alla cara imagine che formava da tanti anni il culto piú sacro della mia vita. Soffrivo, ma non resistevo, non reagivo; mi lasciavo sopraffare. Provavo qualcosa di simile a quelle tiepide correnti sottomarine, delle quali ci parlano i pescatori di corallo, che intorpidiscono nelle mute profondità delle acque il sentimento della vita e fanno assaporare la morte come una delizia ineffabile. Sentivo che ormai quel fascino mi aveva avviluppato in modo da non poterne piú vincere la malefica azione. - E poi? - mi chiesi una sera indignato, piantandomi rimpetto alla mia ombra proiettata dal lume sul muro bianco della stanza. E siccome l'ombra non rispondeva, - Tu sei un vile! - schiaffai sul viso di quell'altro me stesso che mi vedevo coll'imaginazione confuso ed abbiosciato lí innanzi. E andavo su e giú tirando buffi di fumo fantastici da un sigaro spento. - Miserabile! - continuavo - tu carezzi dei desideri che non osi schiettamente confessare nemmeno a te stesso! Già stai per trascinare nel fango il piú puro sentimento che abbia nobilitato la tua vita! Già non sei piú ben sicuro se, tradendo la fiducia del tuo amico, commetti un'indegna azione! E tornavo a spasseggiare, stritolando fra l'indice e il pollice la punta del sigaro col pretesto di ravvivarlo. Queste parole mi facevano montare le fiamme al viso, proprio come se fossero state pronunziate da un'altra persona, da un amico severo, venerato pegli anni e per l'esperienza della vita. E cercavo di scusarmi; e mentalmente rispondevo: - Andiamo! Via! Tu esageri: non son capace di tanto! Tradir la fiducia del mio amico? Nemmeno per ridere! Volessi pure, quella donna lí ... Ma non completavo il periodo. Sentivo di mentire e mi fermavo esitando, un po' per persuadermi che m'ero forse potuto illudere, un po' per l'involontaria compiacenza di scoprire che pur troppo non m'ero illuso. Quella donna non sarebbe stata forte! Lo indovinavo. Da che? Da mille piccoli e quasi impercettibili indizi che sarebbero sfuggiti ad ogni altr'occhio meno in teressato del mio. - E poi? E poi? - ripetevo con insistenza. E rimanevo sbalordito, addolorato, vedendo come l'imagine della mia Iela avesse un momentino potuto offuscarsi; indegnato che la rassomiglianza mi fosse, mio malgrado, servita da mezzana per sentimenti affatto opposti a quelli ispiratimi da lei. - Che debolezza! Che vigliaccheria! - Oh! No, volevo esser omo; resistere, vincere anche sfidando il pericolo: dovevo al culto della mia Iela una riparazione di questa fatta! E andiedi a letto consolato. Avevo noleggiato una barca che venne a prenderci allo spuntare del sole. Un marinaio dai larghi e corti calzoni rivoltati in su fino all'anguinaglia ci portò in collo di peso, una appresso all'altro, nella barca; poi diede una spinta alla poppa, e la barca, che era mezzo arenata, si cullò tosto mollemente sulle onde dopo aver traballato un pochino pel peso del marinaio saltatovi dentro. Il mare era una tavola. Dei larghi riflessi verdognoli, azzurri, rossastri lo colorivano in diverse direzioni, divisi da strettissimi orli fosforescenti; le varie correnti marine lo striavano a fior di onda come tanti solchi di rotaie sur un immenso piazzale. La signora Emilia batteva le mani e dava in esclamazioni di sorpresa e di gioia. L'acqua doveva produrle dei fascini violenti che le lampeggiavano nelle pupille con incredibile vivacità. Di quando in quando, ad un'ondata che turbava il moto regolare della barca, ella cacciava un piccolo grido (non sapevo ben discernere se di paura o di piacere) e mi diceva ridendo: - Se si cadesse in mare? - E scoteva la testa e la persona quasi già provasse i brividi del freddo contatto delle onde. Io la guardavo tranquillo, dominando le mie impressioni, lieto di vedere che potevo opporre qualcosa alle involontarie seduzioni di lei. I miei sensi erano calmi, l'equilibrio del mio spirito perfetto; ma questa contentezza interiore doveva certamente tradurmisi sul volto in un'insolita serietà e in un raccoglimento che mi faceva star zitto. - Si annoia? - ella mi chiese dopo un buon tratto di silenzio. - No davvero - risposi. - Eppure si sospetterebbe che il suo pensiero non sia qui: non dice nemmeno una parola! - I grandi spettacoli della natura mi rendono muto. - Oh, non le faccio torto dell'annoiarsi! - ella continuò. - Però mi dispiace che debba annoiarsi per cagion mia. Anche l'amicizia ha i suoi pesi! - Ma niente affatto. Non merito ch'ella si formi di me una sí cattiva opinione -. Approdammo all'isoletta dei Porri, un largo scoglio quasi piano, sollevato di qualche metro fuori del mare che vi balla attorno spumante. Lo percorremmo in pochi minuti, poi ci sedemmo nel centro rimpetto alla spiaggia. La campagna ci si spiegava sotto gli occhi colle sue linee larghe, colle sue mille tinte di verde che si armonizzavano insieme. Lontano, in fondo, entro una nuvola di vapori dorati, torreggiavano nel cielo opalino le cupole e i campanili di Spaccaforno infiammati dal sole. Il mare rumoreggia va da ogni lato dell'isoletta con urli sordi, con scrosci interrotti. Di tratto in tratto vedevamo qua e là sollevarsi gli spruzzi iridati dei cavalloni irrompenti sui fianchi piú bassi. - Ecco un posto - ella disse - ove abiterei volontieri, ed ove vorrei morire tutt'a un colpo, ingoiata dal mare quasi prima di accorgemene. - Che fantasia! - esclamai ridendo. - E vorrebbe vivervi sola? - Oh! No - rispose; - dicono che soli non si starebbe bene neppure in paradiso: ma in due, con un'altra persona che avesse il medesimo gusto, che trovasse nella mia compagnia, come io nella sua, una ragione bastevole per non farle rimpiangere il mondo! ... Sciocchezze, è vero! - soggiunse sospirando. - Bisogna invece contentarsi della dura realtà! Ecco: pel mio cuore di donna, questo misero scoglio potrebbe valere l'intiero universo. Ma pel cuore di un uomo? Com'è triste il pensare che noi, nel cuore del l'uomo, possiamo appena appena essere un accessorio! - Oh! Scusi - dissi. - Non è sempre cosí. Vi son delle donne che riempiono tutta la nostra vita del loro benefico influsso; che diventano la miglior parte dell'anima nostra, del nostro spirito, e sopravvivono in noi anche quando le relazioni esterne della vita son rotte per sempre. - Iela! - esclamò, fissandomi in volto con uno sguardo ove sorpresi un lampo di dolore e d'invidia. Quel nome, pronunciato dalla sua bocca, mi diede i brividi. Vedendo che io tacevo, la signora Emilia mi prese amichevolmente una mano: e con accento interrotto, pieno di rimpianto e di affetto represso, - Come dev'esser felice quella donna! - mi disse. - Darei metà della mia vita per essere amata allo stesso modo. - Dio mio! Sento già tremare questa mano al solo ricordo, e veggo quegli occhi inumidirsi ... E son già dodici anni! - Ma quanti dolori! - soggiunse - quante tristezze! - Una felicità troppo cara e che certamente, ahimè! non esisterebbe se invece di essere stati proprio a tempo divisi, ella avesse potuto vivere unito alla sua Iela, o l'avesse posseduta un istante tutta intiera fra le sue braccia! ... Ma, caso o no, quella donna intanto dev'essere troppo felice. Chi non cangerebbe la propria con la sua sorte? Chi non vorrebbe provare la sua tremenda voluttà di doversi, col corpo, concedere all'uomo che non ama, e di dar si nel punto stesso, collo spirito, al suo assente adorato! - Oh no! no! - interruppi indignato. - È un amore di altro genere. Ella non lo intende ... non può intenderlo! E mi rizzai in piedi. Avevo bisogno di esser scortese ... "La tremenda voluttà di doversi concedere!" Queste parole mi eran sonate all'orecchio come una profanazione. Oh! La signora Emilia mesceva la sua bassa sensualità ad un sentimento che non avrebbe appannato il cuore piú puro. Sí, avevo bisogno di esser scortese! E non solamente per protestare, ma anche per difendermi dalle strane impressioni della sua voce che mi s'infiltravano per tutto il corpo come un'onda di latte. Sentivo dolcemente vellicarmi i nervi con un'irritazione delicata, raffinata e temevo di dimenticare troppo presto le belle risoluzioni della notte innanzi. Ma fu un momentino. Mi sedetti subito ammansito: volevo correggere quell'impeto troppo violento che l'aveva un po' mortificata. - Perdoni - le dissi; - oggi son nervosissimo. Quel ricordo della Iela mi disturba. Osservi: ho le mani fredde, un diaccio! - E toccavo le sue. Ella mi guardava ammirando, colle sopracciglia un po' aggrottate, colle labbra strette e la faccia alquanto sollevata verso di me come per fissarmi meglio. Era la Iela, preciso la Iela! Distorsi gli occhi. Se stavo a guardarla ancora, forse non sarei piú stato padrone di me e avrei commesso qualche sciocchezza. Me la prendevo con Paolo che non veniva. Intanto i giorni passavano apparentemente uniformi, ma il mio cuore era sconvolto. Oramai non lottavo piú, non resistevo; ma ragionavo, ma tentavo scusare agli occhi della coscienza la mia vigliacca debolezza. Non ero ancora arrivato al punto di dimenticare i miei doveri di amico; non osavo ancora pensare che, come tant'altri, quest'amore avrebbe potuto scivolare anch'esso sul mio cuore senza lasciarvi segno, senza ledere i diritti del purissimo affetto della Iela; no, tal ragionamento mi sarebbe parso un'empietà. La rassomiglianza della signora Emilia con la Iela era cosí grande; la passione (perché non dirlo?) che quella mi destava era un cosí vivo riflesso del ricordo di questa, che non avevo il coraggio di gi ustificare innanzi ai miei occhi neanche la possibilità di un tal caso. Mi limitavo a concedere che non era poi un gran delitto amar quasi di bel nuovo la Iela in quel suo ritratto vivente; riamarla colla stessa semplicità di cuore, colla stessa purezza dei miei sedici anni. Mi sembrava anzi che il culto del mio spirito verso di lei si sarebbe rinfocolato meglio al contatto di una quasi realtà; una seconda giovinezza mi sarebbe rifiorita nel cuore! La signora Emilia era troppo esperta della vita da non comprendere colla sua acutezza femminile quel che avveniva nel mio interno. Se ne compiaceva, vi si divertiva: veniva, alla sua volta, allettata dalla stranezza del caso e dal suo amor proprio di donna cosí fortemente lusingato. - E Paolo? E la fuga? E la sua passione? - Ahimè! Nulla di piú vero di quel tristo proverbio: gli assenti hanno torto. Già ella forse non si accorgeva di venir meno al suo dovere: forse, al par di me, e lottava e cedeva e transigeva ... Chi lo sa? Forse anche provava contro quell'incognita amata delle gelosie di rivale. Non sapeva perdonarle di venire fin lí ad invasarmi in tal guisa il cuore da contrastarle perfino quel piccolo tributo di simpatia che la donna la piú onesta è lieta di ricevere come un buffo d'incenso alla bellezza o alla bontà! E voleva vendicarsene, voleva avvilire la povera rivale colla stessissima ar me della rassomiglianza con cui essa era venuta ad assalirla nel suo piccolo regno! Spesso le intravvedevo negli occhi qualcosa di piú, come una sfida, una rabbia di provarmi che non soltanto l'amor puro, l'amore ideale lasciava perenne il suo ricordo nel cuore; ma che vi potevano esser dei baci, degli abbracciamenti, da scuotere da cima a fondo tutta l'essenza della vita e assai piú terribilmente, assai piú durevolmente di quelle vaghe fantasie da collegiale che io nella mia inesperienza giudicavo la suprema delle felicità che un uomo potesse raggiungere al mondo. E allora i suoi sguardi lanciavan delle fiamme che venivano a lambirmi il cuore colle loro lingue di fuoco; e la sua bocca sembrava transudasse delle picciolissime stille di un liquore inebbriante che attirava con forza irresistibile le mie labbra per succhiarlo e assaporarlo fino all'ultima gocciolina, fino a ridurre le labbra di lei piú aride di un sasso ... Mi occorreva certamente un gran sforzo per restar ragionevole e savio. Un giorno ella mostrommi il desiderio di voler raccontata tutta intiera, per filo e per segno, la storia della Iela. Non seppi rifiutarmi. Da prima ero deciso di accennarle soltanto i sommi capi di quel delirio, di quell'estasi di amore durata tre anni. Ma, narrando, mi sentii di mano in mano soavemente travolto dai miei cari ricordi; piú non seppi che scegliere, e mi lasciai andare a briglia sciolta dietro i bei fantasmi della mia giovinezza, quei fantasmi che hanno avuto una cosí grande influenza su tutto il resto della mia vita. Ella ascoltava intentamente, avidamente, con una agitazione ed una commozione che aumentavano come piú il mio racconto si coloriva e si animava. A un certo punto però fece un brusco movimento delle palpebre e del capo; e: - Basta per oggi - mi disse con affettata indifferenza. - Veggo che si riscalda troppo: non vorrei le nuocesse -. Si alzò dalla sedia che aveva fatto recare sulla terrazza, scese i pochi scalini della gradinata, girò sbadatamente pel piano lí innanzi, tutto coperto di erbe selvatiche e di stelline gialle e bianche tremolanti sui loro lunghissimi steli ad ogni piccolo soffio, poi fermossi innanzi ad una statuetta greca che giaceva ancora distesa presso il posto dove l'avevano scavata. - Ha letto - mi chiese con un tono di voce tranquillo - la iscrizione che orna i lembi del pallio di questa Dea? - Seguivo coll'occhio turbato tutti i suoi movimenti. Avevo subito compreso quel brusco interrompermi, quella forzata indifferenza, e mi sentivo venir meno la forza di dissimulare di aver capito. Se non davo retta ad un ultimo fievolissimo rimprovero della coscienza, mi precipitavo senz'altro pegli scalini, e correvo a buttarmele ai piedi per baciarle furiosamente le mani e dirle le cose insensate che già mi gorgogliavano in gola ... Quella domanda mi calmò. - L'iscrizione è monca - risposi. - Pare dovrebbe dire: "Ad Heraz la sacerdotessa (il nome è illeggibile) nella festa di marzo". - Povera Dea! - esclamò quasi non sapesse che dire. A me intanto parve avesse voluto sottintendere: - Povera Iela! - E mi sentii stringere il cuore. La notte presi un'energica risoluzione: decisi di fuggire. Se, per poco, cedevo a quella tempesta di sensi scoppiatami cosí improvvisamente nel petto, non sarebbe stato soltanto il culto ideale della Iela quello che avrebbe naufragato; ma insieme ad esso, la mia dignità di uomo e, soprattutto, la lealtà del mio carattere di amico. Decisi di fuggire, ma all'insaputa dell'Emilia (già nel mio interno avevo soppresso il "signora"); ero certo che, di viso a viso, non avrei piú messo in atto quell'urgentissima ri soluzione. Scrissi, la sera, due paroline di lettera e la situai sul tavolo di mezzo, onde desse subito agli occhi. Mi levai prima dell'alba. La mia stanza, come tutte le altre, aveva una finestra molto bassa che rispondeva sulla terrazza. Apersi l'imposta con cautela, scavalcai senza stento il davanzale e mi avviai in fretta verso la stalla. Il contadino, che custodiva le cavalcature messe a mia disposizione dal fittaiuolo dell'ex feudo, dormiva vestito sulla ticchiena, una specie di letto murato. Lo svegliai, lo aiutai a insellare una giumenta e presi la carreggiata. Contavo di recarmi in Spaccaforno, confidare il mio caso a un vecchio amico e pregarlo di andar lui, per qualche paio di giorni, a tener compagnia alla signora; Paolo aveva già scritto che fra due settimane sarebbe arrivato. Quell'amico era un uomo serio, e in quanto a discrezione potevo dormire fra due guanciali. Doveva, da giovane, essere anche stato molto galante; conservava tuttavia il motto arguto e l'aneddoto gaio a dispetto dei suoi acciacchi, nei quali la galanteria della giovinezza entrava forse pe r qualche cosa. La Emilia non si sarebbe certamente annoiata con quel vecchietto che pareva aver concentrato tutta la vita negli occhi. E se si fosse anche annoiata? A me premeva soltanto di evitare il pericolo. La giumenta andava lentamente: chi badava a spronarla? Ero troppo assorto nei miei pensieri. Avevo dispetto di commettere la viltà di quella fuga, e tentavo di trovar in fondo al cuore una dose di fortezza bastevole a guarentirmi; ma non la trovavo. Ero ridicolo. Cento altri al mio posto non avrebbero avuto tanti scrupoli. Io stesso, se non ci fosse stata di mezzo la rassomiglianza colla Iela, sarei poi rimasto cosí virtuoso? Non dicevo né sí, né no, ma sorridevo sarcasticamente: mi canzonavo da me. La giumenta, lasciata in pieno suo arbitrio, rallentava il passo: sí fermava a strappare delle grandi boccate di erbe, e si voltava di qua e di là colla testa, quasi per interrogarmi su quel che avrebbe dovuto fare. Ad intervalli io mi riscotevo, le davo una stretta immeritata di sproni, tiravo in su la briglia, e la giumenta, poverina, riprendeva il trotto. Era già l'aurora. Le allodole trillavano festosamente sui campi di frumento; mille altri uccelli rispondevano dalle siepi e dagli alberi. Le messi, ai lati della strada, ondeggiavano come un mare ai soffi del venticello mattutino, facendo un rumore secco, stridente colle teghe delle loro spighe. Un misto di odori di erbe fresche, di profumi di fiori e di acri emanazioni di terreni coltivati mi si affollava alle narici e alla gola, e mi faceva provare la speciale sensazione dell'aria della campagna, che par fortifichi le fibre ed allarghi i polmoni. Questa sensazione mi produsse l'effetto di un vero calmante. Senza darmene per inteso, feci rivoltar addietro la giumenta e ripresi il cammino verso la Marza. Ero vergognoso: non volevo nemmen rammentarmi di aver tentato quella fuga. Dalla strada spiavo le finestre del villino di Cozzu di Pietra: erano sempre chiuse. La mia lettera non poteva fortunatamente essere stata scoperta. E davo di sproni alla giumenta, che scuoteva la testa costernata di quell'insolito trattamento. Volevo arrivare senz'esser veduto. Ma sí! Quando fui a pochi passi dal villino, la finestra dell'Emilia si aprí, ed ella sporse fuori il capo curiosa di vedere chi potesse venire a cavallo. - Oh, lei, signor Carlo! - esclamò con sorpresa. - Buon giorno! - risposi, cercando di dissimulare il turbamento che quell'incontro mi produceva. - Ha fatto una passeggiata troppo mattiniera, perbacco! - Una gran bella cosa! - feci io, accostandomi colla giumenta proprio sotto la finestra, involontariamente curioso di vederla daccosto. Ella era nel piú bel disordine del mattino, appena levata da letto. I capelli le scendevano tutti scinti arruffatamente pel collo; un leggero scialle a colore le copriva le spalle, aprendosi innanzi il petto e lasciando vedere gli smerli della camicia ampiamente scollata che contornavano la sua fresca carnagione poco piú in giú della gola; la pelle del suo volto aveva ancora quel che di madido che vien dal calore delle coltri; gli occhi erano contornati da certe pesche sfumatamente azzurre, le quali davan r isalto al magnifico splendore delle pupille. Accostava quel piccolo scialle alla vita con un atteggiamento che voleva esser pudico ed era procace. Le braccia, sfuggenti ignude dalle corte maniche della camicia, reggevano a stento le vesti tirate su in fretta, cadenti da ogni parte con voluttuoso abbandono, e le davano l'aria di una donna uscita allora allora dalla stretta di focosi abbracciamenti, coll'ambrosia sulle labbra dei baci dati e ricevuti. A tale vista sentii subito fremere nelle mie vene tutte le indomite potenze del sangue: ebbi degli abbagliamenti, delle vertigini. La casta e malinconica figura della Iela, offuscata dagli splendori di quell'apparizione sfolgorante, non trovò piú forza di farsi scorgere dalle mie pupille intorbidate. - Una gran bella cosa! - ripetei, senza proprio sapere quel che mi dicessi, divorandomi intanto cogli occhi quel corpo semivestito, a cui la licenza della mia imaginazione levava dattorno ogni velo. - A rivederci! - ella disse, arrossendo di scorgersi cosí avidamente guardata. E con un movimento di gazzella impaurita chiuse le imposte dopo avermi fatto un sorriso ed un inchino col capo. Era sparita! Ma io però, rimasto lí immobile, la vedevo tuttavia nettamente dietro i cristalli, come se le vibrazioni luminose prodotte dal suo corpo fosser rimaste impresse nell'aria e ve ne mantenessero l'apparenza. Ero già pentito di essere ritornato. Mi vedevo sull'orlo dell'abisso e sentivo il terribile fascino delle profondità: una piccola spinta, e cadevo lanciato nel vuoto. Dei brividi mi correvano per la persona. Oh quel Paolo maledetto! E la Iela, il mio gentile ideale? M'ingegnavo di persuadermi ch'esso avesse pur troppo bisogno di questa specie di nuova incarnazione per ridursi completo; la sua forma affatto spirituale prendeva nell'Emilia le agili letizie del corpo; oh! Sarebbe rimasta sempre lei, la mia Iela, ma avrebbe assunto qualcosa che me l'avrebbe resa piú omogenea. Futili sottigliezze del cuore che non voleva confessare la propria debolezza; artifizi della coscienza che non aveva il coraggio di accettare la sua colpa a viso aperto e dire per iscusa: è piú forte di me! La giornata era calda; l'estate batteva all'uscio. I raggi del sole penetravano il corpo di una lassezza piacevolissima, come di voglia di sonno. Le farfalle erravano turbinose di qua e di là; le mosche verdi volavano impertinenti attorno il viso, con quel loro ronzio prolungato, un vero adagio musicale di ninnananna che cullava i sensi e li legava col suo torpore. Ad ogni muover di passo fra le erbe, i fiori, il timo, la nepitella e il cardospino, migliaia di piccoli insetti si levavano a volo e tornavano, quasi subito, a rannicchiarsi di bel nuovo all'ombra delle foglie e dei calici per ripararsi dal sole. Appoggiata al mio braccio, ella ora percoteva colla punta del suo piedino i cespugli fioriti, ora allungava la sua canna da pesca appoggiata alla spalla per disturbare le carezze delle farfalle sul letto dorato delle pratoline; e intanto canticchiava delle parole inintelligibili, dondolando lievemente la testa. La spiaggia formava lí presso un piccolo seno scavato nella costa dal continuo rodere dell'onda. Un letto di sassi lisci, arrotondati, di diversi colori, poco piú largo di uno stanzino, veniva circondato dalla curva della costa all'altezza di due metri; vi si scendeva per una rozza scalinata, la quale non accusava certamente la mano dell'uomo. - Vedrà che magnifica pesca! - ella disse, adagiandosi sur un sasso da me preparatole per sedile. - Oh! - risposi ridendo; - i pesci saranno lietissimi di esser pescati da una mano cosí gentile -. E, inescato il suo amo, lanciai il filo nell'onda. L'onda ci lambiva i piedi; quella piccola diga di sassi ne smorzava la stesa. Nelle fonticine formate fra sasso e sasso dagli spruzzi dell'acqua e dai meati della diga, vedevansi correre i piccoli granchi marini sul fondo arenoso. Le patele solitarie stavansene aggrappate ai sassi col loro grigio gusciolino che si lasciava scorgere appena. L'olio di mare agitava le sue filamenta a seconda dell'onda, o le arricciava e le formava ad arco per assorbire dai muschi le sue impercettibili prede. Dopo aver dato un po' la caccia ai granchi marini e alle patelle, inescai alla mia volta l'amo e mi sedetti accanto a lei, sui ciottoli, il piú comodamente che potei. L'atmosfera era pesante ed immobile. Un silenzio grave regnava intorno. L'acqua che veniva a scherzarci ai piedi aveva dei mormorii voluttuosi di sirena, dei mormorii seduttori. Nissuno di noi due diceva una parola. Quella solitudine si faceva complice dei nostri segreti pensieri; pareva che una corrente magnetica ci tenesse in comunicazione e rivelasse all'una i piú riposti movimenti del cuore dell'altro. Ella aveva lasciato abbandonatamente cadere la sua mano destra poco discosta dalla mia testa (sedevo piú basso di lei). Stetti alcuni minuti a guardarla, come un goloso, coll'acquolina in bocca. Piccola, dalla pelle fina e lucente, dalle ugne color di rosa, sfiorarla colla guancia e colle labbra divenne una tentazione insistente. Mi spingevo in là senza parere, quando l'improvviso scostarsi di alcuni ciottoli sui quali poggiavo il gomito accelerò il movimento, e andai proprio a posare la guancia sulla mano di lei ... che non si mosse! Allora non mi mossi nemmeno io. Cominciai ad accarezzargliela con un lieve strofinio, che mi faceva gustare tutta la delicatezza di quella pelle sotto cui non si sentivano gli ossi. Avevo già perduto ogni coscienza di me stesso. I ciechi istinti animali mi facevano nelle fibre una fanfara di trionfo. Spinsi gli occhi verso di lei. Ella, avvertito forse quel movimento, chinava in quel punto il viso dalla mia parte, colle labbra semiaperte al sorriso quasi ebete che rivela il venir meno della persona dalla eccessiva emozione, cogli occhi lampeggianti di sensualità sconfinata. - Carlo! ... Carlo! ... - disse dolcemente, languidamente. Ero già levato sui ginocchi e la stringevo tra le braccia, soffocandola dai baci. Fu un minuto! - Fortuna che nessuno ci abbia visti! - esclamò l'Emilia quando, rientrato quasi repentinamente in me, le sciolsi le braccia dal collo. E rise di quel suo riso allegro, sonoro, che in quel punto mi parve tristamente triviale. Non c'era in esso nessun'eco della commozione profonda che doveva agitarle tutto il corpo; ma una contentezza, un appagamento, uno scoppio di soddisfazione volgare ... Avrei preferito che quella pigra ondata del mare spirante sui sassi si fosse a un tratto levata su sdegnosa e mi avesse travolto e annegato. Avrei preferito che mentre io ricercavo avidamente la sua bocca e la stringevo al mio petto, Paolo fosse improvvisamente comparso sul ciglio della spiaggia e mi avesse fulminato con una parola, o mi si fosse lanciato addosso con tutto il furore dell'amico e dell'amante tradito. Ma nulla di questo! L'onda continuava il suo monotono mormorio. Il silenzio meridiano incomb eva attorno non turbato nemmeno dal ronzio di un insetto. Ella non capí niente di quel che avveniva dentro di me. - Fa troppo caldo! - disse. - Fa troppo caldo! - ripetei collo stesso tono di voce. E raccolte le canne da pesca, le porsi la mano per aiutarla a montare la rozza gradinata e riuscire sui campi. Giungemmo a casa senza scambiare una parola. Avevo il cuor grosso. Che nottataccia! Al cader della sera mi si erano ridestate piú violente nel cuore le bufere della giornata. Smaniavo, pestavo coi piedi, mi strappavo i capelli. - Perché non spingevo quell'uscio? Perché non entravo ad un tratto nella stanza di lei? Verso le due dopo la mezzanotte il mio delirio giunse al colmo. Mi tolsi le pantofole e, a piedi scalzi, trattenendo il respiro, traversai il salottino e la camera che dividevano la mia dalle sue stanze. Origliai un gran pezzo all'uscio per persuadermi se fosse sveglia. La sua respirazione calma ed uguale, era il solo rumore che si sentisse. Grattai leggermente all'uscio; nessun movimento. La sua respirazione continuava calma ed uguale. Dal buco della serratura vedevo il lumino da notte agonizzare sur un tavolo in fondo. Ai piedi del letto scorgevansi le sottane e il corpetto buttati disordinatamente sopra una sedia e un po' strascicanti per terra. Che malia in quelle ombre appena diradate, in quella respirazione ascoltata a traverso l'uscio! Ritornai vergognoso, disilluso nella mia stanza, e molto tardi cedetti al sonno. Chi svegliommi la mattina dopo? La voce di Paolo. Era arrivato improvvisamente per farci una piacevole sorpresa! - Poltrone! - mi urlava dietro all'uscio. - Come si fa, in campagna, a dormire fino alle dieci? - Sei giunto a proposito - gli dissi dopo la colazione. - Ero sul punto di andar via senza piú aspettarti un minuto. - Come? Non rimarrai almeno un par di giorni, ora che ci son io? - insistette Paolo. - No - risposi - è impossibile -. Non sapeva darsene pace. La signora Emilia aggiungeva anche lei qualche parola, ma non cosí insistente e calorosa come quelle di lui. Avevo a stento la forza di guardar Paolo in viso; la sua schietta cordialità mi feriva il cuore come uno stile. Fui fermo. Verso le cinque di sera, sul punto di montare a cavallo, - Senti - mi disse Paolo - io sono in collera. Non ti accompagnerò nemmeno fino al limite dell'ex feudo -. Infatti rimase sulla terrazza. Poi volgendosi alla signora Emilia che ritta in mezzo alla spianata, a pochi passi da me, mi guardava con certi occhi sdegnosi e turbati, - Ma pregalo te! - le disse. - Forse l'insistenza di una signora lo piegherà -. La signora Emilia mi si accostò, guardandomi fisso negli occhi, e con accento represso, vibrato, - Perché mi fuggi? - mormorò impallidendo. E si morse le labbra. - Ma se rimango - risposi anch'io a bassa voce - noi commetteremo un'infamia! - Grullo! - esclamò con inesprimibile gesto di disprezzo, voltandomi bruscamente le spalle. Quella trista parola mi rese tutta la mia coscienza d'uomo e la mia fierezza di carattere. Salutai, montai a cavallo, e mi rivolsi appena una volta indietro per rispondere ad un ultimo addio di Paolo. La serata era calma, splendidissima di tutte le glorie del vicino tramonto. Di mano in mano che mi allontanavo dalla Marza, mi pareva veder il cielo vestirsi gradatamente di un sorriso piú bello; e su quella profonda limpidezza, oh gioia!, tornava ad apparire la soave figura della mia Iela, casta e pietosa come prima e sorridente di perdono. Mineo, 25@ 25 marzo 1876@. 1876.

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