Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Un giorno a Madera

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Il dottor Haug ... pareva parlasse a sé stesso e non mi guardava più in volto; ma appena ebbe abbassato gli occhi sopra di me, si accorse che quelle sue parole erano colpi di pugnale contro di me; se ne pentì, ruppe bruscamente il filo delle sue parole, e continuò con diverso accento. - In ogni modo, ora non è il caso di parlar di questo. Di certo non pensate né oggi né domani a prender marito ... Sarebbe una follia. Occupatevi di guarire, vogliate guarire e guarirete. Mi alzai commossa e decisi di andarmene a Madera, e vi andrò. Non ti scrivo più una parola. Ci siam imposti otto giorni di esilio l'un dall'altro; e presto l'esilio sarà finito. Ed io allora ti comparirò dinanzi superba d'aver fatto per amor tuo un grande sacrifizio e ti dirò ad alta voce: La tua Emma è disposta a partire per Madera; la tua Emma è disposta a non vederti più per mesi ed anni, perché ti vuol obbedire in tutto e per sempre, perché la tua Emma non vive che per te e fuori dell'amor tuo non sa vedere che la disperazione e la morte. Addio, mio William: il mio calvario è conquistato. I tre oracoli della scienza britannica son consultati. La tua volontà è stata adempiuta. EMMA A WILLIAM. Londra, mercoledì, 11 ant. Questa mattina ho fatto una scoverta e voglio comunicartela sùbito, ché non potrei aspettare fino a domani, quando tu verrai da me. Io era tutta occupata a godermi quella voluttà del cuore che ho imparato da te, famosissimo libertino del sentimento. Stava copiando quella mia lettera che ti ho scritto ieri, e la stava collocando fra due delle tue lettere; così come sempre ho fatto, dacché ho saputo che tu facevi lo stesso. E sdrajata sul mio sofà, andava scorrendo quel libro che mi è più caro di ogni cosa al mondo, e mi compiaceva vivamente nel vedere intrecciati amorosamente i miei pensieri coi tuoi. Qualche volta la fantasia e la gioia, dandosi mano, mi facevano credere che le mie parole fossero liete di adagiarsi sulle tue, e mi pareva di vedermele danzar dinanzi agli occhi per tanta loro fortuna. Quel volume è tutto profumato dall'odore delle viole, l'odore che a te è più caro d'ogni altro. Or bene, mio William, leggendo molte e molte pagine delle mie lettere e delle tue, ho scoperto che noi abbiamo lo stesso stile, che adoperiamo perfino le stesse parole per esprimere le stesse cose, che infine ci sarebbe a scommettere che un profano, ad occhi chiusi, non saprebbe molte volte indovinare di chi sia la lettera che si leggesse. Appena mi passò per la mente questo pensiero, volli mettere alla prova la mia scoperta, e saltando come una pazzarella dal mio letto, corsi nella camera vicina, dove stava la zia Anna e le feci la scommessa che non saprebbe indovinare chi fosse l'autore d'uno scritto che le andrei leggendo, ma di cui ella non avrebbe potuto vedere i caratteri. La buona mia zia si mise a ridere e si sottopose volentieri all'esperimento. - Io non ti leggerò che scritti di William e scritti miei; mi hai a dire di quale di noi due siano essi. - Sta bene, incomincia. Le lessi mezza pagina. - E chi ha scritto questo, zia Anna? - Emma. Ed io ridendo come una pazza: - No; lo ha scritto William. - E quest'altra frase, di chi è? - Oh, questa poi è di William, senza fallo è sua. - No, no, zia Anna, questa frase è mia. Quattro volte ancora rifeci la prova, scegliendo con arte maliziosa alcuni pensieri che abbiamo comuni: e la zia Anna si ingannò sempre. Ora, mio caro William, la scoperta è fatta non solo; ma è appoggiata, come tu suoli dire, al criterio dell'esperimento. Ma chi di noi due è il ladro dello stile e delle parole; chi di noi due è l'autore originale e chi il modesto imitatore? Rispondi alla mia domanda subito subito. Lo sai, che fino a domani ci siam data la parola di non vederci ed io ti mando John. Egli aspetterà nella tua anticamera finché tu gli abbia consegnato la soluzione del problema. Addio, William; fra noi due c'è un ladro, fa di scoprirlo. Addio. Rispondimi subito. WILLIAM AD EMMA. Londra, mercoledì, 11 pom. Il furto c'è, mia Emma, ma il ladro non si trova. Io e tu ci rubiamo a vicenda pensieri, affetti, parole: ma il ladro non c'è perché non prendiamo che cose già nostre. Mi duole di toglierti la compiacenza della scoperta, ma reclamo per la proprietà. Già da molti mesi, anzi dacché ci scriviamo, io ho trovato che il nostro stile sembra uno solo, e che le nostre mani si ritrovano anche quando vanno a frugare nel dizionario. Ma dimmi, mia cara, quand'io ti stringo le mani e ti guardo profondamente, ardentemente, chi di noi è il ladro dell'anima, ch'io non mi sento più la mia, e parmi sentir trepidare il tuo cuore nel mio petto? E quando parliamo a lungo, chi di noi interroga, e chi risponde? E quando guardiamo insieme le stelle, e là nel cielo infinito si smarrisce il nostro pensiero, chi di noi due dà la mano all'altro per scendere in terra, e chi è che dà, e chi è che riceve in quell'estasi senza nome? E quando ci separiamo, e il dolore dell'ultimo saluto ci ravvicina cento volte e cento volte ci rinnovella il saluto, chi è che si distacca dall'altro? chi è che lascia maggior parte di sé stesso nel cuore dell'altro? E quando ci inebriamo della santa gioia di vederci, d'intenderci, di sentirci portati in una sfera elevatissima, di sentirci nell'adempimento dei nostri doveri degno l'uno dell'altro, chi di noi dà, chi di noi riceve quell'ebbrezza divina? I fisiologi hanno osservato più volte che due sposi che si amano, dopo aver vissuto lunghi anni insieme, vengono a somigliarsi sicché talvolta sembrano più fratelli che consorti. Non avviene lo stesso anche di noi due? Non siamo noi due foglie gemelle pendenti da un solo picciuolo, non siamo noi due petali d'una stessa corolla? C'è dunque il furto, ma il ladro non si trova. Emma non ha pensieri suoi; perché William pensa le idee di Emma; non esiste in noi due che una gioia sola, che un sol dolore; un'idea sola, un'anima sola. Ecco la soluzione del tuo problema. A domani. WILLIAM A EMMA. Londra, domenica. Tu mi hai dette più d'una volta, mia Emma, mia dolcissima Emma, che noi pensavamo sempre insieme le stesse cose; e che quando io ti esponevo le mie idee, fossero pur nuove e strane, tu subito le intendevi e ti pareva di averle già pensate; e più che capirle, ti pareva ricordarle. Ebbene se ciò è vero, se le fantasie del tuo cuore non ti trasportano nel mondo degli spiriti, tu jeri, devi con me aver navigato un grosso mare, devi aver lottato contro una orrenda procella, devi infine esserti ritirata stanca, ma confortata nel porto della consolazione. Stammi a sentire, dolcissima Emma, siediti in quella tua seggiolina azzurra, bassa bassa, dove suoli rannicchiarti quando mi guardi in alto, sicché io, stando in piedi, bevo la luce dei tuoi occhi in quell'abisso profondissimo delle tue pupille. Intreccia le tue dita; sicché una mano sappia quel che l'altra sente, e piegata sopra te stessa, come se tu fossi in un nido, fa silenzio e stammi a sentire. Ieri mattina io m'era alzato di mal umore, né sapeva il perché. Per quanto adoperassi e stancassi quell'organo del cervello umano che ha l'incarico di cercare la ragione delle cose (anche quando queste non hanno ragione alcuna fuorché di essere quel che sono) io non sapevo spiegarmi perché tutto vedessi attraverso un velo di morte ... Il cuore mi suggeriva la pietosa menzogna che io era triste, perché da tre giorni non ti aveva veduto; ma l'amore della verità di cui tu hai saputo fare in me una religione, mi diceva che quella cagione del mio dolore non era vera; perché molte volte aveva passata una settimana e più lungo tempo ancora senza vederti e non aveva sentito quel tormento dell'anima che mi faceva toccare un'ortica dappertutto dove muovessi un dito, mi faceva vedere una luce odiosa dappertutto dove avessi rivolto il mio sguardo. Infine, trascinandomi al mio studiolo, dissi fra me:- Sarà il mio debito di dolore che devo pagare come uomo nato sotto la luna. Quando si nasce ci scrivono sulla schiena con un gesso, come fa il doganiere sui bauli e sui sacchi da notte, una cifra. È il tanto di dolore che dobbiam pagare prima di morire. Sarà fame, o sprezzo degli uomini, sarà mal di denti o amore straziato; ciò importa poco alla natura. Purché ognuno paghi il proprio tributo di dolore, sia poi in lacrime o in convulsioni, in piombo muto che riga il cuore senza lamento o in strazio di nervi. Ebbene, dissi io, oggi è venuto l'esattore per esigere la mia quota e la pagherò. Non v'ha sorriso di cielo, non lampo di genio, non forza di volontà che possa piegare alla gioia un malumore che nasce nelle nostre viscere senza ragione. Mi avvicinai al mio caminetto e faceva fumo: mi alzai indispettito, passeggiai in su e in giù nella camera, e come un automa mi piantai dinanzi ad una delle mie librerie: proprio dinanzi agli occhi miei stavano Giovenale e Marziale. Mi parve di aver toccato un rospo con la mano che cercava una viola. Feci un brusco giro sulle mie calcagna e mi piantai dinanzi alla libreria opposta. Vidi davanti a me il libro sulle prigioni di Howard. Chiusi gli occhi perché non voleva più vedere libro alcuno e corsi alla finestra. Il cielo era invisibile: una nebbia fitta copriva ogni cosa e appena mi lasciava vedere qualche tinta del muro di faccia. In quella palude di nebbia si sentivano voci confuse di viandanti, ma spiccava assai vivo il pianto di un fanciullo che forse aveva fame e freddo ... Non mi scoraggiai per tutto questo; tu lo sai, mia Emma, che le cose difficili mi son sempre piaciute. Voleva rompere le catene che mi legavano a un mondo di tristezza: voleva, se mi permetti di parlarti con una immagine orientale, voleva intorbidire le acque del mare col succo dell'euforbia, per potervi poi pescare nel fondo la gioia. Chiamami pazzarello; ma in un quarto d'ora feci queste tre cose. Lessi dieci delle tue lettere più liete e più rosee, suonai sul pianoforte quattro waltzer di Strauss e scorsi un volume delle caricature di Cham e poi mi buttai sul mio tavolo da studio, afferrai la penna, come se fosse stata la spada della vittoria e mi misi a scrivere liete cose, per persuadermi che avevo vinto. Eccoti ciò che ho scritto: Come è ridente il cielo, come è bella la terra! Tutto ciò che è a me d'intorno mi rallegra e mi stende la mano amica; gli uomini sono tutti fratelli miei, io li amo tutti e tutti amano me; come è gioconda la vita, come è perfetto l'uomo! Sì, l'uomo è perfetto e felice, sebbene talvolta io vedo il suo volto bagnato di lacrime, quel pianto è una procella fugace che lascia poi il cielo più ridente e sereno. Sì, la gioja abbattuta dall'uomo risorge dopo il pianto, ma sul volto che pianse, la lagrima ardente lasciò un solco che più non scompare; ma la lagrima che non è raccolta dalla mano o dal labbro di un'anima amica filtra lenta lenta nel cuore, e vi lascia un segno come goccia di piombo che cade sul legno. Ma a che parlo io di lagrime, quando l'uomo è fatto per il riso, e quando i piaceri infiniti di questa vita fanno sparire nel mare della gioia le lagrime solitarie? E che può mai una stilla di fiele caduta in un oceano di latte? Sì, ma a quella goccia di fiele se n'aggiunge un'altra e poi un'altra ancora e sempre più amara; e al palato squisito dell'uomo che sente si fa sentire nel fondo del vaso l'amaro che vi era celato. E quell'amaro discende anch'esso, filtrando nel cuore e vi lascia il suo solco e quell'amaro serpeggia col sangue in ogni fibra, in ogni midolla e l'uomo non si sente felice. Sì, l'uomo è infelice; è nato al pianto, è incatenato da una legge fatale ad una grama esistenza che abborre e desidera nel tempo stesso. Incapace di togliersi il tormento che lo cruccia, non ha il coraggio di morire, né la scienza di vivere; non ha il sentimento che per raddoppiare il dolore, non ha la mente che per intendere tutta l'immensità dei suoi patimenti. L'uomo è un eterno desiderio saldato a fuoco con un eterno pianto. La mente lo trasporta in orizzonti che i suoi piedi non possono toccare; il suo cuore vuol espandersi, quando una mano di ferro lo stringe. L'uomo è la più imperfetta, la più miserabile, la più ammalata creatura dell'universo. E qui, mia buona Emma, lasciai cadere la penna che pochi momenti prima aveva afferrato col piglio di un generale vittorioso, e mi confessai vinto. In questa confessione però vi era più malinconia che amarezza; perché il lottare eleva l'uomo anche quando la battaglia è senza vittoria e solo è spregevole chi rifiuta la lotta e si dà vinto prima di battersi. Mi sembrava di aver trasformato il dolore in qualche cosa di utile e di bello, solo perché l'aveva piegato sotto il giogo del mio pensiero, solo perché lo aveva distillato su questo foglio attraverso la cannuccia della mia penna. Forse, diceva io, questi poveri pensieri saranno trovati belli dalla mia Emma: il mio malumore non sarà stato un male assoluto. L'uomo più si eleva e più si sente degno di esser uomo, quanto più abbraccia del mondo che lo circonda; se sente più grande quando ad ogni cosa che vien dal di fuori, amica o nemica, dà l'impronta potente del suo individuo. Il mio malumore era venuto in me a dispetto di me e contro di me - io l'aveva combattuto, io lo aveva trasformato in un pensiero. Perdonami questi pensieri da egoista. Più innanzi nel corso della giornata, con una ginnastica insistente e ferocissima, riuscii a trasformare il malumore in malinconia. Mi pareva di aver distillato il fumo e di averne fatto dell'aceto ... perdonami questo scherzo. La malinconia è sempre più benevola e meno cattiva del malumore; ed ecco che cosa scrissi sotto la sua ispirazione. Dammi la mano, o cara, fa ch'io ti possa sentire a me vicino: il turbine della vita mi spaventa, ho bisogno di non esser solo. I miei occhi son corsi arditi a ricercare il vero nei luoghi più reconditi, studiando le meraviglie delle piccole cose; credetti, superbo, di scoprire i misteri della natura creatrice, ma gli occhi miei si son coperti di un velo e non ho più visto nulla. Dammi la mano, o cara, ho bisogno di non esser solo. Gli occhi miei si son levati dalla terra dove pazienti ed acuti si erano indarno affaticati, e li portai nei cieli. Stolto, ricercai i confini dell'universo infinito, ma lo splendore di tanti soli accecò la mia vista e non vidi più nulla. Dammi la mano, o cara, ho bisogno di non esser solo. La mia mano temeraria penetrò là dove la natura, coprendosi d'un pudico velo, cela i più sublimi misteri: là dove la vita, nascendo dalle rovine della morte, ci fa sentire il suo primo palpito; ma la mia mano di ferro soffocò, distrusse il germe delicato, e non più un palpito vi rispose. Metti la tua mano, o cara, sulla mia fronte, e spegni il fuoco che la divora. Per ogni lato dove la mia mente si volge cercando il vero; per ogni luogo dove andò ricercando i misteri della vita, si trovò sbarrata la via; e mai sapendosi accontentare dei vuoti suoni di cui l'andavano vezzeggiando i sapienti fortunati, dopo una lotta inutile e forsennata per spezzare i confini segnati all'umana ragione, giacque spossata ed affranta. Dammi la mano e stringi la mia, sicché io possa sentire d'averti vicino; ho bisogno di non sentirmi solo. Il mio vergine cuore si è fatto sentire e mi si è schiuso un nuovo orizzonte, ristretto da ridenti colline e da prati fioriti ed io apersi le braccia per stringere al mio seno quel paradiso ... Ma dammi la mano, o cara, e stringi la mia ancor più forte, ché il solo ricordarlo mi spaventa, ed io ho bisogno di non sentirmi solo. Ma a che lacerare una piaga che è chiusa da pochi giorni? Le lotte sfortunate della mente, le sconfitte della ragione umana hanno ancora un'eco remota che soddisfa la nostra superbia; ma gli sconforti del cuore hanno un'eco lontana, che non si cancella col tempo, che si ricorda sempre con immenso dolore. O cara, appoggia la tua mano sul mio cuore, e calmane i moti concitati. Fammi sentire che io non son solo. Per tutto il giorno di ieri mi tormentò un solo pensiero, quello di trasformare il malumore in qualche cosa di utile e di bello. La natura ha fatto nascere l'ortica, e l'uomo ne ha cavato un tessuto sottile e soave con cui la bella indiana asciuga il sudore della fronte. La natura ha dato un potente veleno ad una liana del tropico, e l'uomo ne ha cavato un rimedio per guarire il paralitico. Anche la collera, anche l'odio, anche il malumore devono essere trasformati in una forza che innalzi gli uomini sopra gli altri. L'assenzio della tristezza deve essere, colla chimica potente della volontà umana, convertito in un rimedio che guarisca le noie del volgo profano e gli isterismi del genio solitario. Un sonno tranquillo ha sepolto il mio malumore e i miei sogni alchimisti di trasformazione delle forze, e questa mattina ti scrivo col labbro ridente, guardando con infinita compiacenza il cielo azzurro attraverso i vetri della mia finestra. Addio, addio mille volte! Fra le reliquie di William troviamo una pagina senza data e che porta la sola nota di Un dì d'aprile. Ho socchiuso la bocca per aspirare l'aria profumata della primavera e mi parve che essa avesse lambito le labbra vellutate della mia Emma. Ho colto una viola e mi è parso che quell'aroma delicato mi scendesse fino al cuore, e me ne vellicasse le fibre più sensibili, come quando l'anima mia si sente vicina alla sua Emma. Ho sprofondato gli occhi nei campi azzurri del cielo infinito; e i fiocchi vaganti delle nubi mi pareva segnassero coi loro scherzi il nome di Emma, con caratteri d'argento in campo d'oltremare. In me stesso, nelle mie memorie, nelle mie speranze, non poteva trovare altra cosa che te sola, e tutto, tutto mi richiama l'immagine di Emma. Perfino le boccette del mio laboratorio, le immagini dei miei quadri, i libri della mia biblioteca mi sembrano tutti specchi, nei quali Emma, mirandosi un istante, avesse lasciato la sua immagine divina. In me e fuori di me, nel mondo degli spiriti e della materia, nella veglia e nel sonno, nella gioia e nel dolore, nella pace e nell'ira io non vedo, io non sento che una sola cosa, la mia Emma. Io non sono cosa alcuna senza di lei, e senza di lei non sento di pensare e di vivere. Le nostre esistenze non formano altro che un'esistenza sola ... EMMA A WILLIAM. Londra, 17 luglio. Dunque, mio buon William, per amor tuo conviene lasciarci. Io parto per Madera; lo vuole anche il vecchio medico di mio padre. Egli vive ritirato da molti anni nella sua villa di Brompton e ieri ho fatto una gita a casa sua insieme alla zia Anna. Era molto tempo che non lo vedeva, ma dalla zia aveva già saputo tutto, ché tu lo sai, egli è il consigliere nostro in ogni cosa importante. In lui vive ancora un raggio della vita e della mente di mio padre. Non posso vederlo senza sentirmi gli occhi gonfi, e quando mi dirige la parola con una calma lentezza e con una dolcezza penetrante e affettuosa, mi sento tutta commossa. Egli ha più di ottant'anni, ma nessuna delle infermità della vecchiaia lo rende riluttante o molesto agli altri. Gli anni non gli hanno dato che un'indulgenza senza fine per le miserie e le colpe degli uomini, e gli hanno scolpito sul volto un eterno sorriso. La zia Anna mi ha detto che sorride sempre, anche quando dorme. Ha tutti i capelli bianche e li tien lunghi e ben pettinati; il volto grasso, rotondo, ben rasato; ei mi ricorda Franklin. Quando si giunse a Brompton, egli era in giardino tutto occupato a rimondare un cespuglio di rose. Appena mi vide, mi venne incontro e mi abbracciò, come se fossi una sua figliuola, e mi fece entrare colla zia nel suo studio, e là, seduto accanto a me, mi tenne per un pezzo una mano stretta nella sua, e, guardandomi amorosamente, non sapeva dir altro che: - La nostra Emma! La nostra brava Emma! Gli raccontai per filo e per segno la mia visita ai tre oracoli della medicina inglese; ed egli sorrise più d'una volta. - Sì, sì, mia cara Emma, voi dovete andar a Madera: dovete rimanervene là un paio d'anni almeno, finché siate completamente ristabilita. E poi, e poi si ritorna in Inghilterra per mettere alla prova la salute conquistata, e se in altri due inverni inglesi non abbiamo tosse né catarro, e se intorno a questi ossicini riusciamo a mettere un poco di carne e di lardelli, allora Emma fa un'ultima confessione al vecchio dottor Thom, e questi le dà l'assoluzione completa di tutti i peccati e le permette di sposare il suo William. Non va bene così? - Caro dottore, possano le vostre parole esser sante, possa ascoltarle il mio povero padre. - Sì, vostro padre ci ascolta; e quando io in nome suo vi dirò Sposate William, voi lo potrete fare con piena coscienza di non mancare alla vostra parola; ai vostri giuramenti. - Ma, mio buon dottore, io ho pur giurato a mio padre di non prendere mai marito! - Cara creatura, questo è verissimo, ma noi dobbiamo esser servi delle idee e non delle parole. Quando la vostra salute fosse completamente ristabilita e la vostra costituzione rifatta, mancherebbero le ragioni per le quali vostro padre esigeva da voi una solenne promessa. Non vi ha egli detto che in ogni caso aveste a consultarmi e a seguir ciecamente ciò che vi avrei detto di fare? - Sì, mio dottore, e per questo vi ubbidirò ora e sempre, senza esitare, senza domandar spiegazioni, senza guardarmi indietro. Non aveva veduto mai quel mio dottore più bello, più sereno. Io lo avrei baciato e ribaciato cento volte. Mi accorgeva chiaramente che egli, consolandomi, non mi ingannava, ma ch'egli stesso credeva che potrei guarire, e che potrei essere tua, un giorno. E quelle parole così piene di felicità pronunciate da una bocca che mi pareva santa, mi trasportavano in un mondo di paradiso. E il buon vecchio se n'accorgeva e i suoi occhi fermandosi a lungo sovra di me, nuotavano in un sorriso che era lagrimoso tanto era tenero. Si rivolse a mia zia: - Ma, e il signor William saprà aspettare tanto tempo, saprà vivere in tanta incertezza per quattro o cinque anni? Risposi io alla domanda fatta alla zia, e sentendomi diventar rossa rossa, dissi con accento molto lesto: - Oh sì, certamente, William mi aspetterà. Ho fatto molto male, caro William, a prometter tanto, a farmi mallevatrice di tanta pazienza? smentiscimi subito, se lo vuoi. - Oh! a proposito -, m'interruppe ridendo forte il dottor Thom, - il signor William deve darvi la sua parola che non sarà mai a trovarvi a Madera, che vi lascerà sola col vostro egoismo (ne avete dell'egoismo?) tutta intenta a guarire. Alla fine, se volete guarire è per lui, è per lui solamente. Io ti rifaccio a modo mio questo dialogo, ma sono sicura che aggiungo molte parole che noi non abbiam detto. S'era in tre: ma ci intendevamo a mezze parole, e i sorrisi e i segni entravano nei nostri discorsi più che le parole. - Io vi manderò a Londra un libriccino manoscritto che porterete con voi a Madera: sarà il vostro medico. Vi darò anche una lettera per il mio amico, il dottor Sonthey, ma non la si presenterà che quando aveste la disgrazia di essere obbligata a stare a letto; e spero che ciò non avverrà mai in quell'aria di latte tiepido. E con chi andate a Madera? - Con me -, rispose la zia Anna. Avrei voluto che tu fossi presente a quella scena, mio William; avrei voluto che tu sentissi quanta bontà era nascosta nell'accento semplice, naturale, tenero con cui la zia Anna pronunciò quelle parole: con me La bontà di mia zia è così profonda, così uniforme nella sua tenerezza, e così intimamente fusa colla sua natura, che i giorni e i mesi passano, senza che io abbia tempo o luogo a pensare ch'ella è buona; ma quando in un'occasione come è questa si getta lo scandaglio in quel suo carattere così infinitamente buono, si rimane sorpresi dinanzi a tanta serenità limpidissima. La sua bontà è un cielo eternamente sereno, e non lo sa apprezzare che chi ha conosciuto in altre terre la nebbia, la pioggia e gli uragani. Anche il dottor Thom rimase commosso dall'accento dolcissimo, dalla sublime naturalezza con cui la zia Anna aveva pronunciato quelle due parole, e dando al suo sorriso un'espressione calda e riconoscente, le disse: - Voi già siete sempre la stessa Anna di ora è mezzo secolo: neppur gli anni v'hanno potuto dare un pochino d'egoismo; morrete impenitente. Il dottor Thom era buono, era dolce: ma non amava molto arrestarsi sulla tenerezza. - È affar finito, dunque; verrò io stesso a Londra per salutarvi prima della vostra partenza. Venite a vedere il mio giardino, e voi, Emma, venite a visitare la mia nuova serra: vi farò conoscere molte piante che io qui tengo prigioniere, e che a Madera vedrete fiorire lussureggianti a cielo sereno. Oh, venite, venite; ho ricevuto da quindici giorni un solanum del Brasile che è di una rara bellezza. In Inghilterra non siamo che io e il duca di Devonshire che abbiamo questo solanum. Si rimase ancora un'ora a Brompton, ma ti confesso che lungo le aiuole linde linde del giardino e nell'aria calda della serra del dottor Thom io pensavo sempre a te e a Madera; e la nuova fase in cui stava per entrare la mia vita mi pareva un sogno. La speranza, la paura, il terrore dell'ignoto, l'affetto per te si facevano così aspra guerra nel mio cuoricino, ch'io di quando in quando udiva le parole del dottore e di mia zia senza intenderle e non sapeva in qual mondo mi fossi. Vieni a trovarmi, mio William; ora dobbiamo vederci tutti i giorni, finché io rimango ancora in Inghilterra. Verrà pur troppo presto l'oceano a separarci per mesi ed anni. Mio William, mio solo William, la tua Emma ti aspetta. WILLIAM AD EMMA. Londra, 8 agosto. Tu mi hai promesso, Emma, che porterai con te questa mia lettera e che non la leggerai che a Madera. Qualche cosa di mio ti sarà compagno nel tuo viaggio, e appena sbarcata in un paese straniero, una mia parola ti darà il primo saluto. Oh perché non posso io chiudere in questo foglio fortunato tutto me stesso? Perché mai la fantasia umana che ha creato gli spiriti, le ombre, i fantasmi, non ha tanta potenza da trasformare i corpi viventi in questi spiriti invisibili? Perché mai i medici non possono conservare un uomo vivo e addormentato per anni ed anni? Perché mai il pensiero corre sempre più in là della mano? Perché tanta sproporzione fra il pensiero e l'azione? In questa mia lettera il mio spirito ti saluta, o Emma, e aleggiandoti intorno, vuole che l'isola su cui hai posto il piede sia per te un giardino, un paradiso; vuole che il suolo di Madera sia per te una terra benedetta che ti dia la salute, la pace, la gioia. Io avrò il coraggio di amare quell'isola che mi ha tolto la mia Emma per tanto tempo, avrò il coraggio di benedire Madera. E tu mi hai scacciato dalla tua isola, come Dio scacciava i nostri padri dal primo paradiso, né mi hai concesso di venirti a trovare una sola volta, un'ora sola. Hai voluto far segnare la mia condanna colla penna di un medico per te venerando, ma tu fosti il giudice crudele e maliziosamente ti sei nascosta dietro la toga di un magistrato inappellabile. E colla tua solita grazia, col tuo pennello d'artista, nelle tue lettere e nelle nostre conversazioni interminabili degli ultimi giorni, mi hai voluto fare un quadro molto lusinghiero del tuo dottor Thom; me ne hai fatto un tipo del medico filosofo, dell'uomo di cuore saldato insieme all'uomo di scienza; me l'hai fatto un tipo di sublime bontà; ma non sei però riuscita a farmelo amare. Per me il dottor Thom è pur sempre il giudice che ti ha esiliata dall'Inghilterra e ha scacciato il tuo William dalla terra promessa, dove egli possiede tutti i suoi tesori. Io non l'amo punto il tuo Franklin divenuto medico, il tuo dottor Thom. In mezzo al mio dolore ho un'immensa consolazione. Io so di sicuro che a Madera qualche cosa ti mancherà; ti mancherà tutto quello che manca a me. Né l'aria imbalsamata, né i fiori, né le valli ridenti della tua isola, né la bontà della zia Anna potranno riempire quel vuoto. Guai a me se a Madera ti sapessi completamente felice. Vedi Emma, io ti amo troppo, e tanta superbia ho del mio amore, che non ho mai concepito l'idea che io potessi divenir geloso di un altr'uomo. E chi sarebbe tanto temerario d'amarti come io; qual luce oserebbe brillare dinanzi al sole del nostro amore? Chi mai avrebbe il diritto in questo mondo di alzare il capo e di dire: - Io amo Emma più di William? - Io dunque non sono geloso di alcun uomo su questa terra; e se Dio scendesse sotto la forma d'un uomo, io non sarei geloso di Dio. Il tuo William, invece, è geloso della natura e d'ogni cosa bella che ti sta intorno. Io temo sempre che nel contemplare il mare azzurro e il cielo stellato, che nel folleggiare tra i prati fioriti e profumati, tu debba rivolgere un pensiero d'amore a quelle belle cose, e senza che io abbia la mia parte in quel pensiero. Tu ami tanto le belle cose! T'ho udito più volte parlare lungamente, con vera passione, d'una farfalla o d'uno scoglio coperto di muschio; t'ho udita discorrere con entusiasmo d'una quercia su cui si arrampicava un'edera e che avevamo veduta insieme nei giardini di Kent. Ecco, tu dicevi, una creatura che possiamo amare senza rimorsi e senza dolori, la possiamo amare con passione, anche senza che sia cosa nostra. L'amore per la natura è una passione sempre vergine, e nessuno ha potuto chiudere tutta quanta la natura dietro le pareti di un serraglio o le inferriate d'un carcere: ve n'ha per tutti, anche per l'uomo più povero del mondo. Ora, mia Emma, tu sei in un paese cento volte più bello dell'Inghilterra, dicono più bello dell'Italia ed io son geloso di Madera. Quanti volumi non ho io letto in questa ultima settimana su quella tua isola! E per mia fortuna non ho potuto trovare a Londra tutte le opere che parlano di Madera: per cui posso tormentare ancora il mio libraio; posso ancora aspettare nuovi libri dagli Stati Uniti, dalla Germania, dal Portogallo. Ho fatto scolpire dietro un mio disegno una piccola biblioteca, dove non collocherò che opere che parlano della tua isola. Ho già saputo però che è l'isola dei fiori, che gli eliotropii si mietono come l'avena, perché invaderebbero i campi; ho saputo che si passeggia all'ombra delle passiflore, e che i boschi son pieni di lauri, di alberetti sempre verdi, di eriche alte come un uomo. Tu che ami tanto le eriche e le hai vedute nelle nostre serre alte un palmo, potrai passeggiare e perderti in un bosco di erica arborea Ti ricordi quando mi dicevi che le mimose e le eriche erano i merletti d'Inghilterra nel mondo delle piante, ed io, ridendo, ti diceva una secentista, un poeta barocco? Ebbene, tu vedrai ora i merletti giganteschi di Madera. Il primo pensiero di William che tu trovi nell'isola è dunque un pensiero di gelosia, d'immensa gelosia per quella bella natura che ti possederà tutta quanta per chi sa quanti mesi; è un'invidia infinita per quei fiori che andrai cogliendo a piene mani, che ti inebrieranno coi loro profumi. Come troverai fredde e nuvolose le mie lettere che ti giungeranno ancora imbevute della nostra nebbia inglese! Con quanta compassione penserai a noi poveretti che viviamo per cinque mesi dell'anno senza foglie sugli alberi, senza fiori nei prati! Vedi, mia Emma, prima di gettarti in braccio della bella natura che ti circonda e di cui non hai sentito fino ad ora che il profumo lontano, tu mi devi fare una promessa. Tu mi hai a promettere di lasciarmi un posticino, fosse pur piccolissimo, in ogni tuo fiore, in ogni tua ammirazione per Madera. Soltanto in questo modo potrò amare anch'io la tua isola. Quando, portata sul dorso del tuo cavallo, dall'alto di una rupe nera nera guarderai giù nella valle e vedrai fra le canne ondeggianti dello zucchero i cespugli fioriti delle rose, e il vento te ne porterà gli odori inebrianti; quando tutt'all'intorno ti vedrai un mare sereno e tranquillo e non saprai dove fermare il tuo occhio innamorato in mezzo a tutto quel mare di bellezze, tu hai a dire:- Che cosa penserebbe William, se mi fosse qui accanto? E quando ti porterai trionfante a casa nel tuo canestro tutto un bottino di fiori, tutto un diluvio di fiori, di gelsomini, di eriche, di ramoscelli di mirto; e quando nella tua cameretta sospirerai profondamente, respirando tutta quell'aria profumata, m'hai a dire: - Non senti, William, questa voluttà che rassomiglia tanto alle gioie dell'anima? E quando alla sera porterai alla spiaggia il tuo scialle, e là sdraiata, coi tuoi piccoli piedi presso all'onda del mare, ti perderai nel profondo di un cielo trasparente come lo zaffiro, accompagnando i tuoi sogni e i tuoi pensieri coll'alterna carezza dell'onda, anche allora, Emma, pensa subito:- Come sarebbe felice William, se fosse qui con me, coricato anch'egli sulla fresca arena! Vedi, mia Emma, non mi chiamare esigente: no, chiamami soltanto innamorato. L'amore è la vita intiera divenuta un desiderio, è la vita tutta quanta, con tutta la sua forza, con tutto il suo caldo, con tutti i suoi misteri trasformati in una cosa sola, in un desiderio insaziabile, onnipotente, infinito. Intendi, Emma, che cosa voglia dire un uomo tutto trasformato in un desiderio? intendi che cosa voglia dire avere in un pugno solo la bellezza, la gioventù, l'ingegno, l'ardore dei sensi, l'ambizione, l'odio, il pensiero, la poesia, tutte le forze umane e sentirle tutte quante consumarsi in una sola scintilla, bruciare dello stesso fuoco? E sentirsi pronto da un minuto all'altro a gettar tutta quella forza, tutta la vita ai piedi di una creatura per averne un sorriso, e amar la vita, soltanto per poter dire ad una donna: - Io posso morire per te? - E dopo tanto ardore e dopo tanto vulcano, sentir sempre nelle viscere, eterno, insaziabile, infinito quel desiderio, che è poi la vita intera, che è tutto l'amore? Il fiato di Dio nella creta dell'uomo è l'amore; l'infinito del futuro legato alla creatura d'un giorno è l'amore; la scintilla strappata al cielo da Prometeo è l'amore; o almeno tutto questo è l'amore ch'io sento per te. E la parola è ancora ben povera cosa per dirti quel che sento, per circondarti di un'atmosfera che per tutto il tempo che vivrai a Madera ti dica sempre, in ogni ora del giorno e della notte: William è qui. William è sempre qui con me. La parole è il segno che nel deserto mostra al pellegrino la via; ma la via si conquista sulle ali della fantasia e sul dorso d'un cavallo ardente. Se è vero che con venti lettere noi possiamo esprimere tutti i nostri pensieri; se è vero che il genio con sette note ci trasporta nei mondi sconfinati dell'armonia; se è vero che la natura colle tavolozze di sette colori basta all'impresa di dipingerci l'universo; è pur sempre vero che al di là del pensiero scritto, al di là dell'armonia del maestro, al di là della tela del quadro vi ha un mondo misterioso che la nostra mente chiama suo e che non fu ancora acquistato dal poeta, dal maestro, dal pittore. È questa la nostra grandezza, che vi sia un mondo dove lo spirito non trova frontiere, dove non lo arresta alcun doganiere; dove la fantasia e il sentimento spaziano senza battere il capo impaziente contro le pareti della forma, contro le inferriate della scienza. L'uomo sente assai più di quel che possa dire, e tutte le lingue parlate e tutte le forme strappate dalla mano temeraria del poeta al mondo dell'infinito, non bastano ad esprimere quel che l'uomo può sentire in un istante solo d'odio o di amore, di voluttà o di dolore. O mia Emma, dove mi sono io smarrito! Voleva darti il benvenuto al tuo arrivo a Madera; e ti ho parlato di gelosia e fors'anche t'ho fatto della metafisica. Tu che mi intendi, anche quando non parlo, m'avrai inteso anche questa volta. Tu avrai inteso e perdonato la mia gelosia, in cui non sento ombra d'amarezza; in cui credo non si nasconde la più piccola vanità, il più innocente egoismo. Tu sei una cosa mia, come sono miei i miei pensieri, i miei occhi: tu sei mia come son mie le mie mani; tu sei più che la metà di me stesso e ora che sei lontana mi sento avvinto più ancora di quando mi sei vicina; e pensando a te con infinito dolore, mi pare che una parte di me stesso sia in me malata, sicché io di essa sola mi occupo: per essa sola mi tormento e mi cruccio. La gelosia di un'anima onesta è il bisogno di volere che il nostro calore riscaldi tutte le nostre membra, che nelle nostre viscere non entri che il nostro sangue. La gelosia, così com'io l'intendo, è la coscienza piena di sé stesso, è l'amore di sé stesso, è l'istinto della propria conservazione, è il più santo dei diritti naturali. La massima parte di me stesso è a Madera ed io l'accompagno con immenso amore ed io la circondo d'un fiato che me la conservi, che me l'accarezzi, sicché quel ch'è mio rimanga mio soltanto e mio sempre e innanzi a morire non m'abbia a veder dilaniate le membra e sanguinanti escirmi le viscere da un'ampia ferita. L'uomo solo non esiste, te l'ho pur detto le cento volte; non esiste la donna sola; ma solo io conosco un uomo- donna vivente, vivente di quella ch'io soltanto chiamo vita. Fa dunque, mia Emma, di serbarmi il mio posticino sui basalti muschioso dell'isola e alla spiaggia del mare e nel tuo canestro di fiori. E che l'aria imbalsamata di Madera ti accarezzi soavemente le chiome, e ti entri mollemente nel petto e ti risani e ti ritorni a me presto presto. Che sotto i tuoi piedi fioriscano i prati e sul tuo capo facciano cadere una pioggia di fiori anche gli alberi della foresta; che intorno a te Madera divenga un paradiso di armonia, di profumi e di dolcezza e che in quel paradiso tu abbia a serbare un posticino per il tuo William innamorato. EMMA A WILLIAM. Madera, 3 ottobre 18... Già da parecchi giorni, mio William, io mi sentiva languida e oppressa: ogni movimento mi dava pena e l'ozio non mi riposava. Passava le ore alla mia finestra, quasi sdraiata sul seggiolone e leggeva e rileggeva le tue lettere; mia primissima gioia quando sono lieta, mio unico conforto quando sono triste. Fra l'una e l'altra lettera, guardava fisso il mare, questo eterno compagno della meditazione e il mio occhio, per lente oscillazioni, passava senza saperlo dalla scena della vita presente e vicina all'ultima linea sfumata e incerta dell'avvenire. Prima il porto solcato dalle bianche vele, rotto dai remi numerosi, increspato dalle mille onde che io potevo distinguere e numerare: la vita in azione col suo chiasso, coi suoi mille movimenti, coi suoi contorni netti e recisi. Più in là il mare era azzurro e senza rumori: una vela lontana si perdeva in quell'orizzonte più sereno, e pareva un'ala di uccello marino. Là era la vita del pensiero, che attinge ancora la lena dall'azione, ma che già si solleva nei campi dell'infinito, non più confini precisi, non più chiasso; ma il fluido eterno che mai non posa e sempre si muove. E poi giù, nel fondo, l'occhio faceva ancora un passo e si trovava di nuovo in un mare grigio che si perdeva fra le nebbie dell'orizzonte: là né il chiasso che distrae, né il sereno che riposa od eleva, ma un quadro incerto e sconfinato, ma l'infinito deserto del mistero, entro cui l'uomo si smarrisce e si confonde. Era in quella parte del quadro che il mio pensiero triste e vagabondo amava meglio perdersi e divagare. Ora la linea bigia rimaneva immota, ed ora, sollevandosi lenta lenta in fiocchi di fumo, pareva plasmare una terra lontana, la terra delle eterne speranze, e dei sogni senza fine: quella terra di nubi che tante volte strappò un grido di gioia ai compagni disperati di Colombo. Là in quell'abisso di deserti nebbiosi, nessun colore, nessuna forma; ma il caos infinito da cui Dio trasse l'ordine e l'uomo la poesia; là un'eternità di movimento, là un'onda che, eternamente eguale a sé stessa, alimenta il crostaceo microscopico e la balena gigante; che eternamente impassibile copre e lambe le ossa di un pescecane morto decrepito e le reliquie di due sposi che, naufraghi e moribondi, si strinsero in un ultimo amplesso e lasciarono le loro ossa intrecciate sul piano dell'arena profonda. Là un bigio immenso che non rallegra, che non riposa, ma che affascina l'uomo perché egli lo desidera sempre senza mai abbracciarlo, perché sempre lo studia senza mai intenderlo; che affascina l'uomo perché rimane eternamente vergine innanzi alle sue braccia innamorate. Dopo aver passato più giorni a questo modo, senza aver fiato a far altro, ricordai le tue parole, o William, ricordai che l'ozio è una delle colpe maggiori; e fattami forte, coraggiosa in un momento, chiesi a mia zia che mi accompagnasse ad una gita a Machico. Aveva udito parlare vagamente di una triste storia avvenuta in quel luogo, uno dei più pittoreschi dell'isola: e voleva farvi un triste pellegrinaggio. La mia buona zia, felicissima di vedermi uscire da quel letargo mortale in cui era piombata, disse subito allegramente di sì: fece sellare una buona mula per lei e apprestare un'amàca da viaggio per me. Ti ho già scritto altre volte che questo modo di viaggiare così comune in quest'isola, mi ripugna assai, perché ad ogni movimento penso che due uomini si affaticano e sudano per me, e mi domando subito: - Perché mai Dio ha fatto gli uomini di modo che una metà abbia a servir l'altra? La zia calma alquanto i miei scrupoli, mostrandomi i due bruni e robusti arrieiros; pei quali la tua Emma sottile e smilza sarebbe stata più leggera d'una canna. Si va a Machico per una valle tutta verde e tutta ridente, e le fanno cornice basalti neri, acuti, profondamente lacerati come merli d'un antico castello che si confondono coi crepacci serpentini aperti dal tempo nelle sue pareti. I campi di Madera così piccoli e ridenti e tranquilli in mezzo a quella natura di neri giganti mi sembrano nidi d'usignuoli sospesi al cratere d'uno spento vulcano. Fra quelle masse rozze, ciclopiche di roccie, alza il capo più alto il Picco Castanho. Il moto oscillante e lento dell'amàca mi cullava per modo che di quando in quando io sonnecchiava e allora sognava di essere imbalsamata in un'amàca del Perù, fra due palme ove due neri avvoltoi venivano a cantarmi l'inno funebre, appoggiati simmetricamente con una gamba sola sulle due corde della mia amàca. L'acre saliva mi scendeva intanto giù per la gola, e un colpo dure e secco di tosse veniva a svegliarmi improvvisamente, ed io, spaventata, cercava gli avvoltoi e non vedevo dinnanzi a me che la caramuza ridicola del mio arrieiro che mi scacciava d'improvviso i tristi pensieri. Era Arlecchino che veniva col suo bastone a scacciare dalla scena un direttore di pompe funebri. Saltai lesta dall'amàca appena giunti a Machico, e mi sentii ben diversa da quando era partita da Funchal. Poche ore di moto, e un soffio d'aria diversa da quella che soglio respirare, mi cambian d'un tratto e mi sento un'altra donna. Machico è un povero, è un poverissimo villaggio; ma sembra venirti incontro sorridendo e vorresti subito collocarvi un romanzo e un'elegia, e l'elegia ve la trovai senza bisogno d'inventarla. Dopo aver ammirata la spiaggia larga ed estesa e la piccola fortezza che sta sul mare e che chiamano desembarcadouro, andai alla chiesa, e là mi si narrò dal sagrestano questa semplice storia: In un anno del 1300, non si sa quale, una piccola nave giunse dall'Inghilterra su questa spiaggia e sbarcò un uomo e una donna, due bellissimi giovani inglesi, condannati a vivere e a morire nell'Isola di Madera. Si chiamavano Machim ed Anna. Si ignora qual delitto avessero commesso quei giovani, ma di certo il peccato deve essere stato ben lieve o il giudice molto pietoso, dacché furon puniti col dover vivere e col morire insieme in un luogo di paradiso. A pochi passi dalla spiaggia si innalzava un cedro antico quanto l'isola, una vera foresta, una cupola di nera verdura, un labirinto di rami e di foglie che filtrava il sole e rompeva l'urlo delle procelle. Nel suo seno ospitale, il caldo dell'estate diveniva languido tepore, l'aquilone dell'inverno una fresca brezza. Là i due amanti reietti dall'Inghilterra si fecero una capanna, il loro nido d'amore, e là vissero felici, chi sa quanti anni e senza figliuoli. La tradizione dice che essi non si muovessero mai da Machico. Senza figliuoli, senza amici, senza nemici, non ebbero altro tempio che la volta sempre verde del loro cedro; non ebbero altro orizzonte che l'orizzonte sempre azzurro del mare; non ebbero altro amore che il loro amore. Anna morì prima di Machim, e Machim la seppellì sotto quel cedro; ne tagliò un ramo e con esso scolpì una croce, la più bella che mai si fosse veduta. Piantò la croce, ne fece un'altra perfettamente eguale, e scavò accanto alla prima fossa un'altra fossa. Appena l'ebbe finita morì. Nessuno dei vicini udì una parola escire dalle labbra di Machim dopo la morte di Anna. Un mattino lo trovarono morto, steso al suolo, colle braccia avvinghiate intorno alla croce che lo copriva. Convenne distaccarlo a forza, e lo si seppellì accanto alla compagna. Per molti e molti anni quel cedro fu creduto sacro all'amore, gli amanti traditi andavano a piangervi la loro sventura; gli amanti sventurati andavano ad implorarvi la gioia di essere amati; forse ancora gli amanti felici vi andavano a mormorare parole di amore felice. I venti sussurravano sempre dolcemente fra i rami del cedro, e le onde del mare mormoravano soavemente ai piedi di quelle croci. Un giorno il governatore Tristâo Vaz Teixeira, quello stesso che insieme a Zarco colonizzò Madera, con una scure crudele stramazzò quel cedro, e vi trovò tanto legno da farne una chiesa; e fu edificata appunto sulla tomba dei due amanti inglesi. Il tempio del Signore si innalzò sopra un tempio d'amore, e una santa poesia si appoggiò sopra un'altra poesia tutta tenerezza. Di Machim e di Anna, dopo cinque secoli, rimangono due reliquie. Rimane il nome di Machico dato ad un povero villaggio; rimane un frammento della croce che Machim aveva scolpita per la tomba di Anna, e che il sagrestano mostra al viaggiatore pellegrino. Caro William, ho baciato quel pezzo di cedro e ho domandato a me stessa, se anche noi, quando saremo morti, non saremo messi l'uno accanto all'altro. Il moto dell'amàca mi aveva stancato e il mare era tranquillo come lo specchio d'un lago. A Machico si prese un guscio, si giunse a Canical: poche capanne e una chiesa più brutta e più triste delle capanne; si visitò la cappella di Nossa Senhora da Piedade e si ritornò per mare a Funchal. Il mio letargo s'era cambiato in una soave e tranquilla malinconia; il mio respiro era più libero ed io era contenta di aver scoperto una gemma di poesia, perché la poteva mandare al mio William. EMMA A WILLIAM. Madera, 19 ottobre 18... Ho vissuto per quindici giorni nella poesia raccolta a Machico: avrei voluto essere un poeta per poter deporre anch'io sulla tomba di Machim e di Anna la mia corona di fiori; avrei voluto il genio per rendere immortali quei due fortunati esuli che riposano da cinque secoli fra le radici di quel cedro che fu il nido d'un amore senza nubi e senza procelle. Sopra tutto poi avrei voluto essere Anna e avrei voluto che tu fossi Machim. Perché tanta poesia doveva sfumare a un tratto dinanzi a un quadro desolante e d'una dura realtà? Perché l'azzurra poesia del passato doveva esser coperta brutalmente dal drappo nero d'un funerale? Ti ho promesso di non esserti avara della più piccola delle mie gioie, di non risparmiarti nessuno dei miei dolori: or vedi con quanto scrupolo mantengo la parola. E poi mio William il dolore che ho sentito quest'oggi mi ucciderebbe se non l'avessi a dividere teco e poi è un dolore che ci ammaestra e ci eleva: devo essergliene grata. Quando il dolore bruscamente ci piglia per il braccio e ci guida sulla via del dovere, noi dobbiamo ringraziarlo. È un medico che taglia e brucia, ma guarisce. Ah! dovere, dovere, tu sei un Dio di ferro, ma ci tempri l'anima ad alte cose; tu sei crudele, ma tu solo ci dai il santo orgoglio di esser qualcosa più d'una creatura che nasce, mangia e muore, qualcosa più d'un verme che, dopo aver divorato tante creature vive, dà alla sua volta le proprie carni in pasto di altri vermi minori. Se qualcosa d'immortale è in noi, è l'esempio che i nati lasciano ai nascituri e il nostro dovere è il palladio della dignità umana che le generazioni si trasmettono l'una all'altra, e tutti dobbiamo esserne gelosi custodi, sacerdoti incorrotti. Se tutti prestassero a questo Dio il culto ardente che io gli presto fin dalla prima fanciullezza, qual paradiso non sarebbe il mondo! Or stà a sentire, mio William. Ieri io mi ero svegliata piena d'energia e per tutta la notte non aveva tossito che una volta sola. Son così avida della mia saluta, son così ardente di conquistar nuove forze per far piacere a te, che volli subito mettermi alla prova; e sola sola, col mio ombrellino che voleva adoperare non contro il sole ma per farne un alleato pietoso dei miei piedini ancora deboli, escii di casa presto presto e prima ancora che la mia buona zia Anna si fosse svegliata; e mi mossi arditamente verso la strada più ripida che da Funchal si dirige verso il nord e conduce al piccolo Curral. Quei di Madera chiamano questa strada con parola molto felice e poetica caminho do foguete o strada dei razzi. Or bene la tua Emma voleva far arrampicare i suoi polmoni su per il caminho de foguete ed ogni passo affaticato dedicava al mio William. Come si diventa egoisti, quando si ama; quanto si diventa egoisti, quando il nostro amore ha bisogno della nostra salute! Io guardai all'erta del cammino e mi spaventai; ma poi subito dopo chinai gli occhi, misurai i passi coll'alternar del respiro e lentamente, ma sicuramente, riuscii ad ascendere forse cento passi senza stancarmi e senza tossire. Come era felice di quella mia bravura, quanto era superba della mia conquista del caminho de foguete! E tutta la mia bravura, le mie conquiste erano per te, mio William. Dopo quei cento passi la strada si faceva piana; due muricciuoli la stringevano, quasi un torrente pieno di sassi e chiuso da dighe; ma giù per quei muricciuoli cadevano cespugli di eliotropii profumati d'un violetto oscuro, così belli che la mia mano correva impaziente a volervi far bottino. Tu conosci però le mie abitudini: non so sciegliere il fiore d'un prato, il ramoscello di una foresta senza chiederne licenza al padrone del prato, al padrone della foresta. Non è ancora questo un nostro dovere? Qui il proprietario non poteva esser lontano; feci ancora pochi passi, vidi che il muricciuolo si apriva per un cancello verde, basso e socchiuso, si entrava in un campo di ignami e di maiz. Un viale tutto fiancheggiato da alte banane conduceva ad una modesta e linda casetta colle persiane d'un verde vivissimo e le pareti d'un bianco bigio. Dinanzi alla casa vidi un cortiletto, dove alcune galline beccavano avidamente la loro colazione, e ad un lato un alto fico che faceva ombra densa e fresca a quel luogo modestamente pulito. Appoggiata al muricciuolo del cancello, mi alzai sulla punta dei piedi per spiare se vi fosse in tutto quel verde un'anima viva, e la scopersi subito. Sotto al fico stava seduto sopra una sedia di paglia un uomo robusto; in manica di camicia, e che mi dava le spalle. Pareva guardar fisso a qualcosa che avesse in grembo e ch'io non poteva distinguere. Se l'avessi veduto di faccia, avrei subito letto nel suo volto se potessi chiedergli un fiore, ma né sulle sue spalle, né sul colore de' suoi calzoni, né nella forma delle sue ciabatte poteva trovare elementi per giudicare della sua cortesia, e segnando colla punta del mio ombrellino sull'arena del viale molti W, or grandi, or piccini, esitava, sperando che quella creatura viva mi avrebbe presto mostrato il volto, che mi avrebbe veduto. Ma quegli eliotropii eran troppo belli: ed io era lieta e petulante come una fanciulletta, tanto mi avevano rallegrato l'aria mattutina e la salita dell'erta. In cattivo portoghese e colla voce tremante osai indirizzar la parola a quelle spalle ostinate nel loro silenzio: - Signore, mi perdoni ... - Chi è là? E dicendo questo, l'uomo dalle spalle ostinate, si rivolse e mi guardò. Aveva sulle ginocchia una fanciullina sui dieci anni che pareva dormisse. - Signore, voi avete sul muricciuolo del vostro orto degli eliotropii così odorosi e belli che mi hanno tentata e son venuta a chiedervi licenza di coglierne alcuni. - Signora mia, son tutti vostri, non sapeva che fossero fioriti: coglietene quanti ne volete. Intanto io guardava quell'uomo e quella fanciullina, e la mia allegrezza petulante andava rapidamente passando nella tristezza più cupa. Io avevo di certo dinanzi a me il quadro di una grande sventura. Il padrone degli eliotropii era un campagnolo di Madera, dalle spalle tarchiate, e il volto bruno faceva contrasto con un collo ancor più bruno. Non aveva cravatta, e la camicia ampiamente aperta mostrava che quel collo non aveva mai avuto paura del sole. Il volto allungato, con barba nera, naso aquilino, faccia franca rozza, più rughe in volto, e sopratutto sulla fronte, che capelli bianchi in capo. Sul fondo d'una giovialità ingenua ed un cuore espansivo si leggevano le tracce d'un profondo dolore. Neppure per parlare quell'uomo poteva riposare le rughe che dalle sue sopracciglia si arrampicavano lungo un solco profondo scavato in mezzo alla fronte, là dove se ne spicca il naso. Né quel solco, né quelle rughe procellose, però, gli impedivano di essere cortese. - Accomodatevi su questa sedia, signora, voi siete stanca, avete il respiro affannoso; non avete voi il petto gracile? E pareva che, mano mano egli s'andava accorgendo ch'io era malata, il suo accento si raddolcisse e le sue sollecitudini per me andassero crescendo. Mi porse egli stesso una sedia vuota che stava accanto alla sua, senza posar per questo la bambina che le sue braccia robuste e vellose portavano come una pagliuzza. Dove vedo un uomo che soffre, dove sospetto un dolore, io senza volerlo, senza saperlo mi arresto, affascinata da un'irresistibile attrazione. Mi sedetti e dimenticai gli eliotropi, che, pur senza ch'io li vedessi, mi andavano imbalsamando l'aria all'intorno. - Sì, mio buon signore, son malata di petto, son venuta a Madera per guarire, vi son da un anno e sto assai meglio. Quell'uomo non aveva ascoltato di certo le mie ultime parole. Colla palma della mano sinistra, ampiamente aperta, si picchiò sulla fronte, sicché tutta la coperse, e più che parlare, gridò: - Ah maledetta, maledettissima malattia! Sempre e dappertutto dei tisici. Perché mai Domeneddio, onnipotente, e onniscente, ha mai fatto dei polmoni più fragili della carta asciugante? Voi, mia signora, guarirete, guarirete senza dubbio; ma io ... ma io ... E sospirava e guardava la fanciullina che allora osservai anch'io. Era in camicia; era pallida, magra: aveva una mano bianca appoggiata sul petto che si alzava e si abbassava nei moti alterni di un respiro affannoso. Il volto era quello d'un angelo e aveva in sé la bellezza della razza latina e dell'inglese; un ovale perfetto, un mento piccino e rotondetto, come una nocciuola ancor verde; due labbra rosee, ma secche e socchiuse; un nasino affilato grazioso, sopracciglia nere nere e stranamente folte; ciglia lunghe e nere e palpebre grandi che coprivano due occhi neri che vagavano fra i crepuscoli d'un sonno febbrile. Dalla fronte reclinata all'indietro cadeva un torrente di capelli biondi con vene castane, dorate, rosse; tutta una tavolozza di tinte che con un disordine di rara bellezza fermavano l'occhio lungamente. - Vedete questa mia Dolores, è l'ultima che mi resta, e l'ho chiamata Dolores, perché è nata pochi giorni prima della morte di sua madre. Sì, mia signora, ho perduto la moglie, ho perduto tre maschi e due bambine, tutti tisici. Ed io, soggiunse ridendo in un modo crudele, non posso mandare i miei figli a Madera, perché guariscano; in casa mia si nasce a Madera, ma si muore anche a Madera. Allora Dolores, svegliandosi improvvisamente, si mise a sedere sulle ginocchia del padre e a tossire; e tossiva così forte che le guancie le divennero porporine e sudanti, e gli occhi lagrimosi. - Vedete, vedete, anche questa farà come gli altri. Maledizione! Maledizione! Quel dolore però era troppo grande, perché potesse a lungo mescersi coll'ira: e quel pover'uomo, chinando il capo su quel volto d'angelo, lo baciò, lo ribaciò cento volte, e quando lo rialzò, i suoi occhi eran rossi, gonfi di lagrime. - Sono un uomo rozzo io, sono un villano tirato su a piantar viti e patate, ma son vent'anni che ho malati e morti in casa; e il cuore per Dio (e qui col grosso pugno peloso stretto stretto batteva sul cuore fino a far rimbombare il petto) non mi si è fatto ancora di pietra, piango ancora io. - Caro signore, voi siete infelice, ma Dolores guarirà. In una famiglia di tubercolosi non muoiono mai tutti. Anch'io, sapete, ebbi undici fratelli e sorelle e tutti son morti tisici, ma ho già venticinque anni e vivo e penso di guarire. Dolores sarà delicata, avrà spesso la tosse, ma guarirà, guarirà sicuramente. - Lo spero anch'io: sarebbe troppo crudeltà lasciarmi solo. Se avessi a seppellire anche questa, darei - fuoco alla mia casa e me n'andrei a imbarcarmi come marinaio sulla prima nave che partisse per l'America, per il Portogallo, per la casa del diavolo ... scusatemi, signora. - Ma come mai, voi nato qui, in un paese dove la tisi è rara, specialmente fra gli agiati, avete tanta sventura? - L'è una storia ben triste, mia buona signora; e, vedete, la racconto a tutti, perché almeno abbia a giovare a chi può ancora approfittare di una lezione. Avete voi marito? - No. - Ebbene, allora anche a voi la mia storia può esser utile. E poi, vedete, voi avete il petto gracile, voi avete un'aria tanto gentile che subito subito mi avete aperto le cateratte del cuore, che in me stanno chiuse per giorni e settimane e mesi. Più volte mi chiudo in casa tutto solo, coi miei dolori: passeggio per le camere deserte, colla mia Dolores per mano, e più spesso colla mia Dolores fra le braccia. Ho venti camere, capite, in questa mia casa, e son tutte vuote meno una dove dormo e vivo e mangio colla mia figliuola. Capite voi in qual deserto io viva? E mi fa molto bene quando posso trovare una persona come voi a cui raccontare i miei dolori. Io ho quarant'anni soli, sapete, quarant'anni con tanti capelli bianchi e tante rughe, e tutti me ne dànno almeno cinquanta e anche più. Non me ne meraviglio; piuttosto stupisco di esser ancor vivo, ma già è la mia Dolores che non mi lascia morire. Anch'io ebbi i miei vent'anni; anch'io cavalcava sul più ardente dei cavalli di Madera, e senza sella amava gettarmi al galoppo nei sentieri che rasentavano gli abissi più profondi e precipitarmi giù per le chine, con una mano robusta nella criniera e un'altra nella coda, e giù, e giù, sicuro di non distaccarmi mai dal mio cavallo; amava sentirmi intorno l'aria vertiginosa che mi sollevava i capelli e mi fischiava nelle orecchie. Aveva braccia così robuste che più d'una volta andava a strappar la zappa dalle mani dei contadini di mio padre, e mi metteva a zappar profondamente, fortemente, finché non mi sentissi correre il sudore a ruscelletti lungo le spalle giù per il petto infuocato. Aveva ereditato da mio padre la passione della terra: odiava la città e i villaggi; voleva sempre esser fra i campi di maiz o all'ombra dei lauri. Non guardava mai in faccia alle donne: non so perché, ma mi pareva una smorfia da cittadini il fare all'amore. Aveva una febbre nei muscoli che volevano sempre muoversi; aveva una smania nel petto di respirare l'aria più pura, e respirarla a onde e tutti i picchi più alti dell'isola hanno veduto i miei piedi: c'è qualche roccia che io solo e l'aquila abbiamo toccato. L'amore mi prese come un fulmine, come una palla da cannone che vi colpisca in mezzo al petto. Un giorno me n'era andato a Funchal e stava passeggiando sul molo del porto, aspettando un amico con cui dovevo imbarcarmi per Porto Santo. Voleva andare a caccia di conigli. Zufolava, impazientito che il mio amico mi facesse aspettare, quando dinnanzi a me vedo una carrozzina in cui stava una pallidissima creatura che, se non avesse tenuto gli occhi aperti, io avrei giudicata morta. Dietro al carrozzino stava un'altra creatura giovane e bellissima che lo spingeva innanzi e che ad ogni tratto amorosamente si chinava a domandare alla povera signora moribonda che cosa volesse. Quella signora doveva essere una cameriera, ma questo a me non importava nulla: quel ch'io ricordo è che i suoi occhi azzurri, i suoi folti capelli biondi, la sua carnagione di rosa mi innamorarono talmente che quando l'amico mi venne incontro col suo fucile ad armacollo, gli dissi che non partivo più per Porto Santo. Era la prima donna ch'io aveva guardato in volto, ma mi parve subito che non avrei potuto vivere senza di lei, e il mio amore dovette essere così violento, così contagioso, che dopo otto giorni anche Jessy era innamorata di me. Ella era una cameriera, ma una cameriera inglese che parlava tre lingue, che leggeva molto, che scriveva; era un cuore di zucchero innamorato della sua padrona, con cui viveva tutto il giorno, con cui dormiva di notte, di cui era innamorata. Qui si dice che la tisi non è contagiosa, ma io so che la mia Jessy, che era bella e fresca come una rosa, pigliò il male dalla sua padrona, e che quando questa fu morta ed io doveva sposare Jessy, ella fu colta da un male che i medici di Funchal chiamarono bronchite, ma che infine era una tisi bella e buona. Fu malata due mesi, ma la convalescenza non finiva mai. Mangiava, camminava, ma era debole, e la tosse non se n'andava mai ed ella era magra magra. Ad onta di tutto questo Jessy era allegra come un pesce, e mi diceva di esser magra, perché era innamorata di me, e che quando ci fossimo sposati, saremmo guariti. Mio padre mi diceva sempre: - Sebastiano, Sebastiano, quella donna non è per te; è troppo delicata, tu la perderai presto e avrai dei figli malati. Sebastiano, va a Lisbona a trovar tuo zio, dimentica Jessy, io mi sono innamorato dieci volte prima di sposar tua madre e vorrai tu sposare la prima donna che t'è venuta fra i piedi? Mio padre aveva ragione, ma nessun medico mi sconsigliò da quel matrimonio: ma a che servono i medici? Servono a tormentare i malati, ma non a tener sani i sani. Eravamo tanto innamorati! Ci sposammo: Jessy rimase subito incinta e durante la prima gravidanza cessò la tosse, ingrassò un pochino; io mi credeva il più felice degli uomini; ma venne il parto e d'allora in poi la vita di Jessy fu una lenta agonia ed io, ignorante come una bestia, la vedevo migliorare ad ogni gravidanza, e aveva sempre nuovi figli. Nessun medico mi diceva che ad ogni parto mia moglie era più debole di prima, che ogni figliuolo le dava una spinta verso la tomba. Il buon clima di Madera la tenne viva otto anni, che tanti ne durò il nostro matrimonio; in Inghilterra sarebbe morta in pochi mesi. Il cielo della nostra isola le concesse una lunga, una dolorosa agonia. E non solo mi è morta la mia Jessy, ma mi sono morti tutti i miei figliuoli. Tutti rassomigliavano alla mamma; nessuno seppe prendersi le mie spalle, i miei polmoni di ferro. Se li aveste veduti! Com'eran belli! Eran tutti come Dolores, alcuni più belli ancora; biondi rosei intelligenti, amorosi. Son vent'anni che ho preso moglie e per vent'anni la mia casa è stata un ospedale e un cimitero. Io ho fatto da infermiere a Jessy, a Michele, a Sebastiano, ad Antonio, a Lisa, a Robinia; io li ho seppelliti tutti, mia signora. E capite voi cosa voglia dire avere un figliuolo moribondo nel letto, e un altro che sputa sangue e sta coricato sotto gli alberi del giardino, perché non ha fiato di muoversi? Capite voi che cosa vuol dire andare a tavola e leggere coll'occhio ansioso nel volto dei vostri figliuoli i primi segni della fatal malattia? E capite voi che cosa voglia dire svegliarsi di notte e d'improvviso sentir tossire il più robusto dei vostri figli, quello che pareva voler sfuggire alla sorte comune? Capite voi che cosa voglia dire andar errando il mattino di letto in letto a veder le macchie rosee che la saliva insanguinata d'una vostra bambina ha lasciato sul guanciale nel respiro affannoso della notte? E capite voi che cosa voglia dire vivere fra l'agonia dei vivi e l'agonia dei moribondi e dover sorridere per tranquillare i figli sgomenti e dover mentire oggi, mentire domani, mentir sempre, inventando ai malati sempre nuove e più crudeli menzogne, inventando menzogne ai sani che già temono di esser malati? Capite voi tutto questo, avete voi letto nei vecchi libri che vi sia tortura più crudele di questa? Una volta, me lo ricordo ancora, era un dì di dicembre e pioveva e pioveva, e un freddo umido penetrava fin nelle ossa. Si ritornava coi miei figliuoli dal cimitero dove avevamo accompagnato la mia bellissima Lisa, fanciulla di quindici anni. Eravamo allora quattro ancora; io, Robinia, Dolores e Michele. Avevamo tutti i vestiti inzuppati d'acqua fredda e nessuno parlava. Mentre si saliva sull'erta che avete salito voi, pochi momenti or sono, Michele si mette a tossire; una tosse secca, crudele feroce; e poi si avvicina il fazzoletto alla bocca, lo guarda, quindi facendosi pallido e pur sorridendo, lo mostra a Robinia: era tutto insanguinato. Io veniva dietro ai miei figliuoli e vedeva tutto. Robinia si voltò a me improvvisamente, e piangendo e singhiozzando, mi gridava: - Papà, papà, dobbiamo noi morir tutti, proprio tutti? Caddi seduto sul muricciuolo della strada; Robinia, Michele e la piccola Dolores mi si strinsero tutti intorno alle ginocchia. Dolores piangeva senza sapere il perché, e Michele mi accarezzava e diceva: - Papà, papà, non sarà nulla; ho una gengiva ferita; è sangue venuto dalle gengive. - Ma un anno dopo, mia buona signora, si seppelliva anche Michele, e ritornando a casa noi eravamo tre soli. Ch'io sia maledetto, ch'io sia maledetto! Ora non ho più che Dolores, e seppellirò anche questa accanto a Jessy, ed io mi farò seppellir vivo accanto a tutti i miei figliuoli. Ch'io sia maledetto: non si ha il diritto di dare una vita moribonda ai propri figliuoli, no, no, non si ha il diritto di mettere al mondo uomini condannati a morir fanciulli, a morir giovinetti nell'età delle gioie e delle speranze. No, no, ch'io sia maledetto, la vita è un peso: convien dare insieme ad essa forza e salute per sopportarla. La vita non è un dono, è un peso, è una croce. Non siete voi forse, mia buona signora, figlia di un padre o di una madre tisica?» Mio William, io mi alzai a queste parole come una pazza, gridando: - Basta, basta, signore, voi mi uccidete insieme ai vostri figliuoli. E fuggii da quell'orto e fuggii a casa e mi gettai piangendo e singhiozzando fra le braccia della zia, che mi veniva incontro. William, tutto questo t'ho voluto scrivere; mi è sembrato che fosse mio dovere il farlo. MISS ANNA A WILLIAM. Londra, 3 Agosto. William, la nostra Emma è morta; ed io non trovo altra parola, ed io non so immaginare ipocrisia pietosa che valga a farmi tacere. Ah, William, tu che l'hai tanto amata, tu che vivrai eternamente colla memoria di quell'angelo che abbiam perduto, capirai la mia brutalità. Perché tenterei nasconderti l'orrenda novella fra le pieghe di lunghi periodi, perché tenterei nasconderla nell'ultima pagina della mia lettera? Son sicura che nell'aprir questo foglio, tu sentiresti nell'aria l'odore della fossa, ed io non potrei ingannarti. Potrei tacerti ancora per qualche tempo l'orribile parola, ma il mio silenzio sarebbe ancor più crudele. Ella ti aveva giurato di scriverti ad ogni corriere, e tu non avresti più ricevute notizie di Emma. Vi ha qualche cosa peggiore della morte, ed è l'agonia. Son quindici giorni che la nostra Emma riposa nel bosco dei pini, nel parco, vicino al ponticello; e solo perché oggi parte il corriere, dopo una lunga tortura ho potuto prender la penna e scriverti. William, come possono tollerare la vita coloro che non credono in Dio, come possiamo sentirci strappar vivente il cuore a brani a brani, mentre siamo ancor vivi, senza credere che rivedremo un giorno i nostri cari? Ho letto che gli abitanti dell'Abissinia strappano dai bovi brandelli palpitanti di carne che poi fanno cuocere per loro alimento: e così di giorno in giorno macellano e straziano quei poveri animali, finché non rimangono che le ossa e le viscere, mal vive o mal morte. Ma non siamo noi nel corso della nostra vita in tutto eguali ai bovi dell'Abissinia? Non perdiam noi lembo a lembo i nostri più santi affetti, e chi vive a lungo non si trova all'ultimo ridotto ad uno scheletro senza carni e senza gioia, ma che pur cammina, spossato ed esangue per la lunga abitudine di aver vissuto? William, pensa che la tua Emma è morta sicura di rivederti in un mondo migliore, ha chiuso gli occhi tranquilla e serena, confidando che tu saprai resistere al tuo dolore, che tu non affretterai d'un minuto l'orologio della tua vita. Io piangerò finché vivo la mia Emma, che ho amato come una figliuola, ma nel mio pianto avrò sempre la cara speranza di rivederla. E anche tu, William, devi piangerla a questo modo; ritorna in Inghilterra a baciare la sua tomba, ritorna fra noi. Io sono rimasta sola sola, ultimo avanzo d'una famiglia numerosa, spenta in pochi anni. Tu che sei mio figlio d'adozione, vieni ad abitare con me. Vieni a dare qualche conforto ad una povera vecchia che cammina silenziosa in un vasto palazzo, e sente paura nell'udire i suoi passi, solo avanzo di tanta vita, di tanto rumore. Già da molti anni non si udiva il lieto schiamazzo dei bambini, le grida di pianti innocenti, le esclamazioni della vecchia zia Anna; ma da un anno Emma aveva riempito la casa di una vita nuova. Dove si moveva quell'angelo, dove respirava, vi era un giardino sempre fiorito. Non diceva una parola che non fosse una poesia vivente; non aveva un sorriso che non fosse una carezza; malinconica, malata, sofferente, ella non aveva che gioie e benedizioni per le creature che l'avvicinavano. Quanto vuoto lascia in questo mondo una creatura che si ama! Vieni, William, a raccogliere tutta questa eredità di profumi e di passioni. È tua, soltanto tua, nessuno prima di te verrà a profanarla. Ho chiuso la casa ai curiosi, ai parenti lontani, agli amici. La casa dove ha vissuto gli ultimi giorni la tua Emma, è tutta tua, soltanto tua. Permetti a me sola di esserti guardiana del tuo cimitero. Troverai ancora il cembalo aperto, e sul leggìo l'ultima musica che ha suonato. Troverai nel suo bicchiere accanto al letto dove è morta, i suoi fiori inariditi e pur profumati ancora; vedrai il suo orologio che camminò ancora sette ore dopoché ella era morta; troverai ancora vivo il suo canarino. Vedrai sul suo cavalletto un disegno non finito; troverai i suoi vestiti, i suoi libri prediletti: tutto troverai, fuorché la nostra Emma che dorme in pace nel parco accanto al padre. Vieni, William, non morire su terre lontane, fra stranieri che non ti intendono, fra gente che non l'hanno conosciuta; vieni a raccogliere l'ultimo fiato di quell'anima che non ha vissuto che per te e per te solo. Vieni a baciare su questo nido il suo spirito che aleggia intorno intorno, come una farfalla che batte le sue ali tenerelle contro i vetri della finestra per cercare i raggi di un sole che più non tramonta. La nostra Emma sentiva la morte vicina e, ad onta della sua fermezza, ne aveva paura. Già da più giorni non voleva più rimaner sola, e quando aveva presso di lei una cameriera o un'amica, si indispettiva per un nonnulla, e contraddiceva ogni cosa e montava in collera. Ella, sempre pazientissima, sgridava aspramente le sue cameriere, e poi se ne pentiva e chiedeva loro perdono. Diceva di sentirsi bene, ma tossiva più del solito e non aveva appetito; e dopo aver detto poche parole, si stancava; e pochi gradini della scala la facevano ansare orribilmente. Le proposi di far chiamare un medico; ma montò sulle furie a questa mia proposta, e divenne così rossa in volto da farmi credere che una febbre gagliarda l'avesse assalita colla rapidità del fulmine. Irascibile, irrequieta, malcontenta di tutto, si sdraiava sul letto, e poi si metteva a sedere, e poi di nuovo accasciata si gettava col capo fra i cuscini. In un'ora sola faceva cento cose; in un'ora sola leggeva, scriveva, suonava il cembalo, tentava di dipingere, domandava i giornali, frugava la libreria, e tutto la scontentava. Nelle ore più calde della giornata la prostrazione delle forze era tale che non esciva dalla camera. Io la vedeva soffrire e non poteva consolarla. Tentai ogni via per farlo, ma era un dolore profondo, insanabile, che le rodeva le viscere; ed io non insistetti ad importunarla colle mie domande e i miei consigli. Ella che ha sempre saputo leggere nel cuore di chi la circondava, senza bisogno delle parole, mi era grata del mio silenzio rispettoso. Una mattina, e fu l'ultima della sua vita, mi alzai tardi perché mi sentiva malata, e avendo chiesto di Emma, mi fu risposto che si era alzata per tempissimo e che ravvolta nel suo scialle era uscita di casa, dicendo alla cameriera: - Direte a mia zia che sono andata col primo treno a Bath, per fare una visita alla tomba di mio padre, ma che sarò di ritorno all'ora di pranzo. Fui tutto il giorno inquieta, e i miei occhi cercavano impazienti l'orologio e più di una volta mi avvenne di metterlo all'orecchio, perché mi sembrava che dovesse essersi fermato, tanto il tempo mi sembrava lungo. Finalmente alle quattro ella venne: le corsi incontro: era pallida come la morte, non poteva parlare, tanto le era cresciuto l'affanno del respiro per aver montate le scale. Volle sorridermi, quasi col labbro muto volesse rispondere alle cento domande che mi si affollavano alla mente e che esprimeva colla faccia angosciata e il gesto straziante. Si precipitò nella cameretta da letto e si lasciò cadere quasi stramazzone sul suo sofà, senza aver tempo né forza di levarsi lo scialle, il cappello, i guanti. Aveva le mani gelate e non mostrava di esser viva che con brividi ripetuti e con sospiri profondi e affannosi. Tirai il campanello con tanta forza che ne strappai il cordone: gridai che subito si chiamasse il medico di casa, e poi, fuori di me, appoggiandomi alla sedia e alle pareti, credendo di dover cadere svenuta ad ogni passo, e ad ogni passo ripigliando tutta la mia forza di volontà, escii dalla camera per cercare non so che cosa. Voleva fare un mondo di cose in una volta sola; avrei voluto aver senape, fuoco, acqua di Colonia; avrei voluto avere con me tutti i medici, tutti i farmacisti di Londra; ma sopratutto io cercava William. Mi pareva che tu fossi in quel momento la cosa più necessaria alla mia Emma. Rientrai pochi minuti dopo, udii un grido forsennato di Jessy che gridava: La mia padrona è morta! Miss Emma muore! - e si strappava i capelli. Mi avvicinai al letto e vidi la mia figliuola divenuta del color della cera: le sue labbra livide e insanguinate nuotavano sul cuscino in un lago di sangue che innondava anche il letto ed era caduto sul tappeto. E quelle labbra si aprivano e si chiudevano, e l'ultimo fiato gorgogliava nel sangue. Mi gettai sulla mia figliuola, la abbracciai stretto stretto, e le gridai: Emma, Emma! con una forza tale che il mio grido mi spaventò. Ella aperse gli occhi, volle parlare, sollevò una mano e mi fece cenno allo scrittoio e poi, agitandosi e raccogliendosi in uno sforzo supremo, appoggiò le sue labbra al mio orecchio e chiaramente pronunciò il tuo nome, o William; e poi mi cadde a rovescio ed io perdetti i sensi. Mio William, io rimasi fuor di me due giorni e due notti e non riapersi gli occhi che per piangere, tutto quel che mi resta di anni o di mesi in questo mondo, non riapersi gli occhi che per sentirmi infelice e sola. Parecchi giorni dopo la morte della nostra Emma, ricordai quel gesto supremo con cui mi aveva fatto cenno allo scrittoio, e con religiosa paura andai là e apersi il cassetto. Subito mi cadde sotto gli occhi una lettera suggellata e diretta a te. Te la mando, o William, dopo averla baciata cento volte. Io sento che in quelle pagine il nostro angelo deve aver chiuso qualche santo pensiero che sarà un balsamo per te, che l'hai tanto amata. Sento che in quelle pagine tu troverai il coraggio per vivere, la forza per sperare; e non so distaccarmi da quell'ultimo tesoro senza dolore e senza una orribile trepidazione che, in sì lungo viaggio, possa andare smarrita. Possa un angelo accompagnare quel foglio attraverso l'Oceano; possa giungerti intatto ... William, io so di averti dato con questa mia lettera lo strazio più crudele che possa sopportare il cuore di un uomo; ma anch'io piango e soffro e vivo perché t'aspetto: e conterò i giorni e le ore, perché so che col primo postale di Panama tu sarai qui con me. Fin allora io terrò lontano dalla casa dove visse la nostra Emma, ogni curioso, anche gli amici. Nessuno toccherà i suoi libri, i suoi fiori, il suo cembalo, tutto ciò che fu suo. Nessuno porterà i suoi passi profani là, sotto i pini, dove ella riposa accanto al padre. Più d'una volta ella m'aveva detto che là voleva dormire l'ultimo sonno; e là l'ho coricata per sempre. Vieni a piangere colla tua vecchia zia Anna su quella fossa. Vieni William, vieni subito: io ti attendo. Eccovi le ultime parole di una delle più belle e più sante creature che abbian sorriso e pianto sotto i raggi del sole. L'ultima lettera di Emma portava la data del 14 luglio, vigilia della sua morte. Londra, 14 luglio, 18… William, mi sento morire. Non l'ho detto alla buona zia Anna, non l'ho detto al medico, perché sento che tutto sarebbe inutile. Il dolce clima di Madera aveva messo un velo sottile sulla mia piaga, ma le nebbie di Londra me l'hanno riaperta e più crudele che mai. Io non posso più vivere e solo mi duole che morrò senza averti veduto. Guardo ad ogni ora, ad ogni minuto il tuo ritratto, e ti guardo con così intenso desiderio, che mi pare tu m'abbia a rispondere, che tu abbia a venire a vedermi un'ultima volta - Ma tu non morrai. - E poi mi spaventa ancora il pensiero di dover morire improvvisamente. Sento nel mio petto un fuoco ardente; mi par di sentirvi qualcosa che abbia a scoppiare da un momento all'altro. Tutto questo è nulla, mio William, muoiono tutti: deve esser cosa molto facile il morire. Io ho in me una gioia divina che mi dà coraggio, che mi fa superba d'aver vissuto, che mi fa beata d'averti conosciuto, di averti amato, d'esser stata tanto amata da te! Come siamo egoisti; sto per morire e tripudio come una fanciulla nella beata sicurezza che tu non sarai di nessuna donna, che non sei stato e non sarai d'altri che della tua Emma. M'hai troppo amato! Ti lascio troppo ricco tesoro di memorie, troppo splendida eredità di affetti, perché tu possa essere di un'altra. Questo pensiero mi fa delirar di gioia. Ho bisogno di mettermi le due mani al mio povero seno, e stringerle forte forte, perché il cuore mi palpita tanto che sembra volermi soffocare. La mia fede nel tuo amore è così sicura come la mia fede in Dio. Ah, padre mio, ho fatto il mio dovere. Domani andrò a visitare la tua tomba, andrò a mormorare al tuo orecchio che la tua Emma ha tenuto la sua parola, che è degna di te, che ella muore senza aver messo al mondo altri infelici che come lei sarebbero morti, ma che forse avrebbero maledetta la vita e chi glie l'aveva data. Tu, no, mio padre, non hai avuto colpa alcuna di avermi messo al mondo; tu non sapevi di esser malato quando mi davi la vita. Non vedi, mio William? Io aveva ragione di resistere al tuo amore, di resistere alle tue speranze. Il clima di Madera m'aveva cicatrizzata una ferita, non mi aveva guarita. Se t'avessi dato la mano di sposa, avremmo avuto figli maledetti nel grembo della madre. Un rimorso eterno avrebbe avvelenato il nostro amore; io non avrei potuto pensare a mio padre. Sarebbe stato un inferno. Ma tu devi vivere, mio William, tu me l'hai a giurare, mio William; qui al fondo di questo foglio su cui per l'ultima volta si è appoggiata la mano pallida e magra della tua Emma, tu hai a scrivere il tuo giuramento; tu hai a giurare in nome di questa margheritina, di questo primo fiore che mi hai colto nel Parco di Bath, quando tu mi hai detto, senza parole, d'amarmi. Tu me l'hai a giurare su questa ciocca di capelli, dove tu un giorno, in un delirio d'amore hai deposto un bacio. Sono le reliquie della tua Emma. Quando verrà il tuo ultimo giorno, fatti seppellire con esse; fa di serbarmele, finché ci rivedremo in cielo. Mio William, tu non hai soltanto a vivere, ma tu hai a rendere feconda la tua vita di opere coraggiose, di opere grandi. Il tuo splendido ingegno può trovare dappertutto un campo d'attività. Nella scienza, in viaggi, pericolosi e nuovi, nel terreno ardente della politica, tu puoi, tu devi essere un uomo grande, utile, potente. Fa tutto quel bene che non ho potuto fare io stessa, che non abbiam potuto fare insieme. E anch'io non avrò vissuto inutilmente, perché la mia memoria ti accompagnerà nelle tue lotte, nelle tue fatiche, nei tuoi affanni. Io muoio coll'orgoglio di averti ispirato sentimenti elevati, di averti ispirato opere utili e grandi. Quando nel silenzio del tuo studio il tuo ingegno detterà pagine sublimi che insegnino agli uomini ad essere onesti, ricordati che l'ombra della tua Emma ti sta vicino; che ella incrocia le sue mani sottili e pallide nel suo grembo; sappi che ella ti contempla e sorride al lampo del tuo ingegno. E quando, nella lotta delle passioni politiche, tu combatterai per la libertà; quando nel turbine degli affari lampeggeranno i tuoi occhi battaglieri e sublimi, ricordati che nella folla si nasconde l'ombra della tua Emma; ricordati che ella applaude ai tuoi trionfi, che piange di gioia di essere stata amata da un uomo nobile, grande, e generoso. E quando ti recherai nella casa del povero, e quando asciugherai una lagrima, quando studierai i tristi problemi del pauperismo e del dolore, ricordati che io ti vedo, che io ti ascolto, che io piango e m'allegro con te. E quando contemplerai le bellezze della natura, che abbiamo adorato insieme tante volte come due fedeli sacerdoti del bello, e nell'azzurro d'un cielo sereno, e nel raggio mesto della luna, e nel mistico silenzio dei folti boschi, e fra le erbe dei prati profumati, e nell'onda querula dei laghi, e nel muggito del mare, ricordati ch'io son con te; io nascosta, ma tremebonda di amore; muta ma sospirosa, beata di accompagnarti in ogni luogo, di vivere ancora nelle tue speranze, nella tua memoria. Dedica a me ogni tua opera buona, ogni santo proposito, ogni slancio generoso, e la tua Emma sarà superba di tutto il tuo ingegno, di ciò che farai di grande. Ella ti aspetta, sì, t'aspetta sicura di stringerti al cuore con un amplesso eterno, senza cure, senza affanni, senza rimorsi; sitibonda di una sete che avrà durato per secoli infiniti, ma che l'infinito avrà ad appagare. La tua Emma parte e t'attende dove tu pure verrai. Addio. Vivi e sii grande; vivi e sii uomo utile; vivi e non far soffrire anima viva; vivi e mi ama, come io t'amerò eternamente. Tracciato con caratteri convulsi e tremanti sotto a questa pagina si leggono queste linee: Ti giuro, mia Emma, di vivere. Ti giuro di essere uomo utile e laborioso, te lo giuro per amor tuo. Quito, 27 ottobre 18... WILLIAM. Dacché ho ricevuto le reliquie di Emma e di William, ho sempre atteso religiosamente e in silenzio che una lettera mi dicesse qualche cosa del mio sventurato amico e ho sempre atteso invano. Dieci anni son passati ed io ho diritto di pubblicare queste pagine ardenti di due fra le più nobili creature che io abbia conosciute. Ad onta del mio diritto, ho scritto in Inghilterra più volte a William, alla zia Anna, ma non ebbi risposta alcuna. E dopo aver sperato fino all'ultima ora una parola del mio amico, ho pensato di pubblicare i fogli che mi aveva inviato. Ho la ferma convinzione che l'averli letti non farà male ad alcuno, potrà fare bene a molti.

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