Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassati

Numero di risultati: 19 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Saggi di critica d'arte

262016
Cantalamessa, Giulio 1 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Ivi nel raccoglimento e nel silenzio, nella luce incerta che scendea dalle alte vetrate, sorprendea nella sincerità della loro espansione gli atti della preghiera, esaminando occhi lucenti fisi al cielo in un rapimento di beata speranza, o pudicamente abbassati, o avidi nell’assorbere il refrigerio che la fede distilla nelle anime esulcerate; vedea visi di donzelle moventi con umiltà alla comunione o infervorate nell’implorare una grazia. Tutti i contorni s’addolcivano o si perdevano nella vaporosità quieta del fondo, e spesso la nebbia stessa degli incensi sarà parsa alla fantasia del pittore quasi nuvola che lambisse amorosa quegli esseri a lui diletti, e li avvolgesse in nuova condizione di esistenza, mentre la luce arancia che scendea dagli altari ardenti di ceri e perdeasi nel chiarore grigio mattutino, dovea parer al pittore uno strappo di cielo apertosi repentino. Caldo di queste impressioni, colla mente piena di aspetti e di effetti pittorici, correva al lavoro e riversava sulle tele la vampa ond’era acceso, facendo portenti che il mondo ha sempre ammirati e che sono certo continuerà ad ammirare.

Pagina 140

Epistolario ascetico Vol.II

632286
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

« Porro unum est necessarium. » Abbassati, abbassati , e troverai la pace. Tu sei qui per conseguir la virtù, e non per far il censore agli altrui difetti. Iddio vuol questo da te, « salus et perfectio animae meae »: questa è la mia gran vocazione. « Martha, Martha, sollicita es, et turbaris erga plurima » ». E con queste ed altre simili parole, che direte a voi stesso, avvezzatevi a frenare la fantasia e raccogliervi tutto in voi stesso; a separare quello che spetta a voi per dovere, e quello che non ispetta a voi. Se voi foste Superiore, fareste quello che Iddio v' inspira nella direzione degli altri. Essendo suddito, la vostra santificazione e salute eterna consiste nel sottomettere tutti i vostri pensieri e volontà. Ecco il gran bene, il solo bene per voi! Coraggio adunque, mio carissimo fratello; credete a me: le vostre non sono che tentazioni ; non vi debbono far timore: voi le vincerete facilmente: sì facilmente, se non vi avvilite; ma non senza croce: [...OMISSIS...] 1.37 La cara vostra del 27 febbraio giunse opportuna a mettermi l' animo in tranquillità, temendo della salute vostra pel mancamento di notizie. Quanto alla dottrina circa la vocazione religiosa, egli è vero, considerata la cosa in generale, che non trattasi che di seguire consigli e non precetti; e però non v' è peccato per colui che non li segue; perocchè il peccato consiste sempre nella violazione di qualche precetto. Confesso, che la dottrina contraria a questa è falsa, che mette in angustie le anime, e anche che ne fu fatto abuso. Perciò guardatevi dall' essere troppo stretto in questa materia. Tuttavia egli è certo, che colui il quale non seguita la vocazione religiosa, quando potrebbe pur seguitarla, si priva di un bene infinito; e l' essere privo di un aumento di bene spirituale è, a dir vero, per chi ha lume di fede ed amor grande di Dio, un danno insopportabile. Oltracciò noi non possiamo conoscere quelle obbligazioni che nascono in altrui dalle comunicazioni interne della grazia; essendo certo che Iddio vuole in particolare da certi uomini quello che non vuole dal comune degli uomini, e che può diventare per essi precetto quello che non è, comunemente parlando, precetto. Ma noi non dobbiamo nella direzione delle anime parlare mai con troppa sicurezza su questo punto; poichè questo è secreto di Dio: dobbiamo solamente esortare le anime, acciocchè esaminino bene se stesse, e o per amor proprio, o per attacco ai beni terreni, non vogliano villanamente rifiutarsi agli inviti interni dello Spirito Santo. Vi raccomando fortezza d' animo e ilarità co' vostri compagni, i quali abbraccio di tutto cuore e benedico nel Signore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Io penso che una parola amica, che si versi in un cuore pieno di amarezza, non possa essere disaggradita. Questo pensiero mi determina ad inviarvi la lettera presente. E` un vostro confratello che la scrive; è un prete che partecipa da lontano a tutte le vostre angoscie: egli non ha, nè può avere fini secondari: non è inspirato che dalla pura carità fraterna. Da molto tempo questa lo fa gemere profondamente su di voi, e gli fa un bisogno di dirvi con semplicità: « E che facciamo? Non crediamo noi più alle parole di Gesù Cristo? E che sarà di noi se non gli crediamo? Vogliamo noi perder l' anima? »Ecco il semplicissimo, ma altrettanto terribile riflesso, che sembrami aver voi perduto di vista, e che può ben essere spregiato dalla mondana sapienza; ma spregiato, non diviene che più spaventoso. Io non presumo più di entrare con voi in alcuna controversia; voglio solo soddisfare al bisogno che prova il mio cuore di dirvi liberamente (deh! sostenete le mie parole, eziandiochè vi sembrino dure e temerarie, perocchè elle sono nella sostanza fedeli ed amorevoli): Pensate, o caro fratello, all' anima vostra. Ah! l' anima vostra si perde! l' anima vostra è sulla strada dell' abisso! E come no, se voi, la cui anima è stata riempita di grazia mediante i Sacramenti della Chiesa cattolica, voi tinto del sangue dell' Agnello, che v' impresse in fronte il carattere di cristiano e di sacerdote, cui porterete vivo e rosseggiante per tutta l' eternità, vi allontanate adesso da quella Chiesa cattolica, madre vostra, onde avete ricevuto la generazione spirituale, una dignità maggiore di quella degli Angeli, e il marchio indelebile della padronanza che ha su di voi in perpetuo Gesù Cristo? Possibile che, da quel punto che la Chiesa ha riprovata qualche vostra opinione, abbiano subitamente cessato di esser vere quelle parole: « Chi ascolta voi, ascolta me? »Possibile che ad un tratto vi siate dimenticato di quelle altre parole, che poco anzi risplendevano di tanta luce alla vostra mente e nutrivano il vostro cuore di tante speranze: « Tu sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell' inferno non prevarranno contro di lei? »Possibile che nell' anima vostra siasi estinta improvvisamente la fede nell' orazione di Gesù Cristo, al quale niente può esser negato dal Padre, e il quale pur disse a nostro conforto: « Rogavi pro te, Petre, ut non deficiat fides tua »? Deh! mio caro fratello, torniamo indietro senza indugio; ripariamoci al seno della nostra tenera Madre, dove solo è salute. I vostri scritti, dopo il vostro ritorno da Roma, mostrano tutti un animo immensamente tristo, profondamente piagato. E che? Non vorremo dunque sostenere con fortezza quelle prove, tuttochè dure, alle quali ci pone la divina Provvidenza? Avremo la viltà di disertare dalle bandiere della Chiesa, perchè il combattimento è difficile, o perchè i supremi capitani non dirigono la battaglia come piace ai soldati semplici? Ah! non entriamo noi negli eterni consigli di Colui, che invisibilmente, ma mediante un Vicario visibile, dirige la sua Chiesa e distribuisce le prove ai suoi servi! Gesù Cristo è quegli che dà la prova alla vostra fede, e che sta mirando se ella resiste, o se miseramente vien meno, per giudicarvi secondo l' esito. Ah! che non sia mai vero, che egli ritrovi vane le vostre operazioni passate! Ah! che non si dica, che tutto ciò che avete fatto, e che è pur tanto in apparenza, sia stato senza radice! La perturbazione dell' animo vostro, non può negarsi, merita ad un tempo compassione e compatimento; giacchè una immensa forza, e, direi quasi, sovrumana, si richiede a sacrificare dei pensieri che hanno per tanto tempo dominata l' anima intera. Ma qual dubbio, che se, umiliato nella polvere ai piedi del Cristo che abita nei nostri tabernacoli, voi dimanderete che la sua virtù divina si affretti in soccorso dell' umana debolezza, non partirete di là se non sentendovi divenuto un altro uomo, un uomo potente sovra voi stesso? D' altro lato, ella è appunto la perturbazione dell' animo, che vi rende ancor più difficile la sommissione fedele e sincera alle parole del Vicario di Gesù Cristo; perocchè quella perturbazione, annebbiandovi la mente, v' impedisce d' intendere le decisioni del Capo della Chiesa. In luogo di prendere queste decisioni nella loro semplicità, come furono proferite, voi aggiungete loro coll' immaginazione una quantità di altre cose, che esse non contengono punto. Però quasi direbbesi che l' anima vostra (permettetemi che non vel taccia), sdegnata forse per cose accessorie, non altro brami che di fare vendetta. Sembra che questo spirito ostile niente tralasci, acciocchè apparisca aver torto coloro che voi falsamente credete vostri avversarii, voglio dire la Santa Sede, e che, messovi in questo impegno, apponiate alla Santa Sede molte dottrine nè contenute nell' Enciclica, nè espresse nella lettera del Cardinal Pacca. Non è dubbio, che prima di scrivere tali cose, ve le siete persuase a voi medesimo; ma questa persuasione fittizia, questo inganno che vi avete fabbricato voi stesso, è appunto quello che vi rende immensamente più difficile un' umile e figliale sommissione. Voi credete e fate credere che nella lettera di Sua Eminenza il Cardinal Pacca sia proscritta la libertà civile e politica ; ma se voi rileggerete nella calma, che avrete ricevuta dinanzi a Dio, la stessa lettera, non vi ritroverete di riprovato altro che le « dottrine relative alla libertà civile e politica contenute nell' « Avenir » », che è tutt' altra cosa; e la ragion di questa riprovazione viene soggiunta nella lettera stessa, dove si legge che sono disapprovate perchè « tendono di lor natura a eccitare e a propagare per tutto uno spirito di sedizione e rivolta dalla parte dei soggetti contro i loro sovrani ». Voi parimenti vi siete persuaso, che in quella lettera si condanni sempre e in ogni caso « la libertà dei culti e della stampa »; ma veramente non si riprovano che « le dottrine dell' « Avenir » »su questi argomenti, e non più; e si riprovano perchè « sono state trattate con tanto d' esagerazione, e spinte sì lontano dai redattori di quel giornale ». Di più si dice in quella lettera espressamente, che « in certe circostanze la prudenza esige di tollerare quelle libertà per lo minor male ». E che? pretendereste che la libertà dei culti e la libertà della stampa non involgessero seco alcun male? Tutto ciò che voi possiate dire a lor favore, si è unicamente, che talora il male che hanno cagionato è minore del bene che apportano: che maggiore sarebbe il male che s' incontrerebbe togliendo via tali libertà. Ora dicendo voi così, non dite appunto quel medesimo che dice nella sua lettera il Decano del Sacro Collegio, il Santo Padre stesso, di cui è l' organo? A me sarebbe facile, e più facile sarà certamente a voi, di trovare nei vostri scritti espresso il medesimo sentimento, e nello stesso vostro lagrimevole libro ultimamente stampato col titolo: « Affaires de Rome », voi stesso dite aver desiderato che la Chiesa stabilisse « la libertè sur l' èternel fondement de tout ordre, la loi morale qui doit en règler l' usage, et qui en garantŒt la durèe ». A che dunque si riducono le cose decise dalla Chiesa coll' Enciclica? Tutto si riduce a dichiarare essere contrario allo spirito del Cristianesimo, che i soggetti si ribellino a quelli che li governano. In questa decisione non si tratta propriamente di alcuna forma di governo: ella si applica tanto all' Impero russo, quanto agli Stati Uniti, o ai Cantoni svizzeri. La Chiesa riconosce tutte le forme legittimamente stabilite, e ciò appunto perchè ella non si mescola delle cose temporali, se non allorquando elleno abbiano relazione colla eterna salute dell' anima, a cui presiede. Ora quale difficoltà ragionevole può mai trovarsi in una simile dottrina? Nell' antica legge si condannavano i tumulti popolari, e quelli che li fomentavano (Lev. XIX, 16): la nuova legge, tutta di carità e di mansuetudine, non poteva anche sotto questo riguardo che perfezionare l' antica. Quando i discepoli di Gesù Cristo volevano opporsi colla forza all' autorità pubblica che lo catturava, rispose loro delle parole sempre mai memorabili. Egli chiamolli a riflettere sulla temerità colla quale volevano accorrere alla sua difesa: fu un rimprovero ch' egli fece alla loro fede, quando disse loro, che se egli avesse voluto usare de' mezzi violenti, non avea mestieri di servirsi degli uomini; perocchè avrebbe ben avuto le schiere degli Angeli a' suoi comandi. E non vive e regna Gesù Cristo tuttavia? è egli debole? vuole il figlio della polvere prestare il suo braccio all' Onnipossente? Ma Gesù Cristo disse espressamente che non volea usare di cotali mezzi, e ne rese questa ragione, che non doveva egli conquistare il suo regno, siccome fanno i re del mondo, coi mezzi del mondo; ma che gli dovea venire il regno da un principio invisibile e soprannaturale, solo potente a soggiogare le anime: « Regnum meum non est de hoc mundo ». E chi siamo noi sacerdoti, se non discepoli di Cristo? Qual' è la nostra forza, se non la parola di Dio? Ecco la spada a due tagli, che, come disse S. Paolo, penetra le midolle, divide l' animo dallo spirito: e questa arma è onnipossente come Dio stesso, ma è l' unica del sacerdote. D' altro lato, che cosa è mai una ribellione? che cosa è se non un cumulo indicibile di misfatti e d' iniquità? e chi fomenta le ribellioni non è egli partecipe di tutti quei misfatti e di tutte quelle iniquità, appunto perchè egli se ne rende in parte l' autore? Voi mi dite che al di là di questo mare di delitti si trovano le isole fortunate, e che perciò bisogna varcarlo. Ma è stata mai questa la dottrina della Chiesa? la dottrina di Cristo? e sarà mai? Io leggo nell' Apostolo, che non sunt facienda mala, ut eveniant bona : io trovo concordi tutti i padri, tutti gli scrittori ecclesiastici, le coscienze di tutti i fedeli, in ritenere che il Cristianesimo è una dottrina di tanta rettitudine, di tanta giustizia che esso non permette il minimo peccato, quand' anche con esso si potesse salvare il mondo e aprire il carcere dell' inferno. D' altra parte, la Chiesa ha forse vietato di opinare, che la Provvidenza dell' Eterno tragga dei beni, dei sommi beni dalle rivoluzioni? Io dirò anzi che c' ingiunge di crederlo: perocchè non v' ha alcun male al mondo, che non sia da Dio permesso affine di trarne un bene maggiore. Ed è per questo appunto che Cristo disse: « Necesse est, ut veniant scandala »; ma giustifica questo chi li produce, chi se ne rende direttamente od indirettamente l' autore? « Vae autem », soggiunge, « homini illi, per quem scandalum venit! » Sì certo, tutti i tiranni che hanno sparso il sangue de' martiri, tutti gli empŒ che hanno predicata sopra la terra l' iniquità, tutti i viziosi che propagano il mal costume; sì certo, tutte le rivoluzioni degl' Imperi, le sovversioni delle città, i massacri, gli incendŒ, gli sterminŒ, hanno servito alla causa di Gesù Cristo. E che mai non serve a questa causa divina? L' eresia, lo scisma, l' apostasia, l' inferno stesso non travaglia che per la gloria del Redentore e della sua Sposa, che mai da lui si disgiunge. Lavoreremo adunque per la causa della Chiesa, o sia che lo vogliamo o che non lo vogliamo, o sia che ubbidiamo a lei o che le disubbidiamo, o con lei congiunti o anco divisi. Sia vero adunque, per una cotale supposizione, che vi riesca di mover i popoli alla rivolta; sia che dopo un abisso di calamità il mondo si rinnovi di felice giovinezza, sia che la Chiesa stessa se n' esca fuori più bella da tante rovine, e che ritornino i tempi de' primi cristiani: e che perciò, mio caro? Avrete voi fatto una buona opera? Certamente l' opera sarà stata buona nel suo effetto, ma non per voi. Voi avrete cooperato alla gloria della Chiesa, ma come vi cooperano quelli che sono disubbidienti alla Chiesa. Sarete stato uno strumento nelle mani di Dio, come lo sono i suoi nemici; ma non come lo sono i suoi amici che stanno innestati nella vite. Quid prodest homini ...? Un tralcio reciso si getta ad ardere. Voi siete adunque libero di pensare, che le rivoluzioni nelle mani di Dio sieno più o meno utili alla sua Chiesa: questa non è opinion condannata: voi siete libero di giudicare delle circostanze de' tempi minacciosi, e di metter fuori altresì, se così vi piace, le vostre predizioni. Ma non siete libero di farlo in modo da fomentar con ciò que' mali orrendi che vi sembrano necessari quai mezzi ad una ristorazione del mondo e della Chiesa. Ho osservato che voi volete trovare la Santa Sede in contraddizione seco stessa, perchè non proibisce ai cattolici irlandesi di difendere i loro diritti. Ma anche qui voi confondete due cause ben diverse. Il personaggio, che ha nelle cose d' Irlanda l' influenza maggiore, non fomenta la ribellione di quel popolo, anzi lo contiene nella dovuta sommessione: il suo programma è di adoperare i mezzi legali in vantaggio del suo paese. E credete voi che la Santa Sede proibisca ai popoli di usare dei mezzi permessi dalla legge? Voi adunque esagerate a voi stesso le decisioni della Sede Apostolica, cioè ci aggiungete quello che essa non dice, e così rendete a voi stesso, son per dire, impossibile la figliale obbedienza. No, la Santa Sede non si divide dai popoli, quando anzi ella è il loro centro di unione: ella abbraccia egualmente e popoli e re, e governi e sudditi, e a tutti egualmente predica la giustizia e la carità. La separazione della Santa Sede dai popoli è una conseguenza falsa che voi deducete da delle false premesse. Calmate, io ve ne scongiuro per amore del nostro comune Signore Gesù Cristo, quell' agitazione che v' impedisce di vedere tutta intera la verità. Se in uno stato di calma entrerete in voi stesso, se rileggerete in questo nuovo stato i vostri scritti, vi troverete un caos dove della luce celeste è mescolata con delle tenebre infernali. Talora il vostro stile sembra infuocato dal zelo di un Apostolo; e in un' altra pagina prendete il tono di un profeta romanziere, quasi scherzando colla parola di Dio, senza sentire spavento di quella sentenza che caratterizza i falsi profeti: « non mittebam eos, et ipsi currebant ». Talora vi ritirate da tutto il mondo, e allora la vostra patria è il cielo, e la vostra ricchezza è la nudità del Crocifisso; e poco stante dimostrate una nazionalità, che è ben tutt' altro dalla cristiana carità, e parlate di finanze, d' industria, di commercio, come se Gesù Cristo, costituendovi suo sacerdote, vi avesse dato la missione di occuparvi tutto delle cose terrene. Qua mettete in campo la mansuetudine dei confessori di Gesù Cristo, e riconoscete la potenza irresistibile della virtù e della verità; e colà all' incontro volete tutto operare colla violenza. Non siete mai tanto eloquente come quando detestate la forza bruta che aspirò sempre a farsi regina del mondo; e poi invece d' opporle la forza occulta e tutta spirituale, che opera nell' anima e che senza contrasto conquista il mondo, voi ricorrete a questa stessa forza bruta, e ne parlate in modo da far credere che in essa solo riponiate tutte le vostre speranze. Eh! no, la Chiesa non opera e non opererà mai così; perocchè il suo divin Fondatore ha già detto che il regno di Dio viene senza osservazione , e non coi tumulti e colle rovine. Persuadiamoci, o caro fratello, che niuno è necessario a Cristo ed alla sua Chiesa; e noi sacerdoti, in tempi sì calamitosi, udiamo la voce di Cristo, che dice: « Et vos vultis abire? » Ah! la nostra risposta sia unanime: « Domine, ad quem ibimus? » quale asilo troveremo noi abbandonando Cristo e la Chiesa? è egli possibile che ritirandoci dall' ordine spirituale, noi ci restringiamo nell' ordine puramente temporale? Questa parola, a cui mi sono abbattuto nei vostri scritti, mi ha inorridito. E che spera di ritrovare un Sacerdote di Gesù Cristo in un ordine puramente temporale? No, non sarà soddisfatto il suo cuore giammai: sarà un misero che, perduta la strada, erra in una selva deserta, e vi perisce di fame o divorato dalle fiere. Non aggiungo di più: sono stato anche troppo lungo e forse importuno. Rammentate però che questa importunità viene d' amor puro, sgomentato al pensiero della perdizione eterna di un mio confratello. Se voi darete un sol minuto a questo pensiero, se lancierete un solo affetto a Gesù, non resisterete più a lungo alla voce di Dio, che non tace sicuramente nell' anima vostra. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Io so bene che non siete legato con voti all' Istituto. Se foste legato con voti, non vi proporrei la questione che vi ho proposto « se lo spirito che vi ha mosso a fare una tale risoluzione sia stato spirito di Dio, o spirito di voi stesso »; in tal caso la cosa sarebbe certa, e non dubbiosa. Ma appunto, perchè siete libero di stare e di uscire, mi pare che dobbiate fare a voi stesso una simile questione: appunto perchè siete libero potrebbe allucinarvi l' amor proprio, il quale sa essere buon teologo, alcune volte, male a proposito. Ciò che io bramo si è, che allontanata qualsivoglia sottigliezza di ragionamento, davanti al vostro Creatore, esaminiate « se i motivi del vostro passo vengano dal pensiero dell' eternità e dal desiderio di piacere a Dio, oppure vengano da qualche miseria della vita presente ». Lo spirito di Dio è lo spirito di Gesù Cristo, e lo spirito di Gesù Cristo consiste in umiltà, mansuetudine, annegazione, mortificazione; ecco lo spirito di Dio: il contrario è lo spirito del demonio: « qui spiritu Dei aguntur, hi sunt filii Dei ». Non crediate adunque, che io abbia la temerità di decidere se voi abbiate peccato, o non peccato a fare quello che avete fatto. Anzi io debbo dire che non avete peccato, perchè un uomo non può condannare il suo fratello, se non v' ha un obbligo preciso , e se non trova che quest' obbligo sia stato da lui violato. Ora io non trovo che voi aveste nessun obbligo preciso di rimanervi nell' Istituto: dunque per me conchiudo decidendo, che non avete peccato. Ma che cosa è questa mia decisione? nulla per la vostra quiete: io, se fossi nel vostro caso, non la giudicherei soddisfacente; ma direi: « qui autem iudicat me Dominus est »: convien pensarci come se fossimo in punto di morte, in quel punto, nel quale svaniscono tante distinzioni frivole , colle quali possiamo talora addormentare la nostra coscienza, ma non modificare il giudizio di Dio. La legge, che io vorrei che consultaste, si è quella dell' amore: io v' ho scritto persuaso, che voi siate un vero amatore di Gesù Cristo, o che bramiate sinceramente essere tale. Se l' oggetto del vostro cuore è di piacere più che sia possibile a Gesù, se lo scopo dei vostri desiderii è la perfezione ; in tal caso interpreterete in sano modo le mie parole. Ogni peso sostenuto per amor di Gesù Cristo è in questo senso il dolce e soave giogo di Gesù; ogni mortificazione, patita con rassegnazione e umiltà dietro il suo esempio, è la croce santa e beata de' suoi discepoli. Il « tollite iugum meum super vos », e il « qui vult venire post me, abneget semetipsum et tollat crucem suam », sono voci del più tenero amore, e gli amanti le intendono: non si riferiscono solamente a de' voti religiosi, o a degli obblighi sotto pena di peccato mortale: esse invitano tutti a cosa maggiore; la legge di grazia non è legge rigorosa mosaica: conviene in questa felicissima legge che la giustizia abbondi: « nisi abundaverit iustitia vestra », ecc.. Tuttavia se voi mi diceste « io non voglio che fuggire il peccato mortale e nulla più »; io non avrei nulla a replicarvi, ma supplicherei nel silenzio la divina misericordia a dilatarvi il cuore: perchè Cristo non si trova che coll' amore, e l' amore desidera essenzialmente, senza confini, nè limiti di sorte alcuna: vi ripeto tuttavia, che non oserei mai per questo pensar male della vostra anima. Ma fino a tanto che io sono persuaso che voi bramiate la perfezione e che bramiate di spogliarvi intieramente di voi stesso per vestirvi di Gesù Cristo, e della sua umiltà, e della sua mortificazione, permettete, che vi stimoli a pensare seriamente « se col passo che avete fatto abbiate cercato di avvicinarvi alla perfezione »: io non posso crederlo, e tengo per certo che nè pur la vostra intima coscienza lo crede. Per quanto esamino i motivi del vostro divisamento, quali esponete nella vostra lettera, supponendoli tutti veri, io trovo bensì delle cose umilianti all' umanità; ma non dei motivi spirituali. Tutto si riduce ad un lamento dell' amor proprio sdegnato! Giudicate questo motivo colle massime e cogli esempi del nostro divin Maestro, e vedrete quanto poco vale. D' altra parte che vi sia toccato un superiore, che non si affà al vostro temperamento, è un puro accidente (disposto però dalla Provvidenza). E da un puro accidente volete far dipendere la mutazione dello stato? Finalmente non vi aveva io pregato di avvisarmi, se sentivate di non poter durare alla tentazione che vi cagionava l' unione con D. Luigi, promettendovi che vi avrei mutato di luogo? Ma voi, senza scrivermi, avete fatto un passo che a me cagionò sommo dolore, somma sorpresa a cotesto Monsignore, e grave danno alle sue vedute, grave sconcerto a noi stessi! Dov' è in questo procedere la prudenza, la carità, la convenienza? Io non attribuisco certamente ciò a vostra malizia, ma bensì alla vostra tentazione che vi ha fatto precipitare in un tal passo. Per questo appunto, persuaso, come io sono, che voi non abbiate operato colla debita tranquillità, ma che sia stata una caduta accidentale; non solo non ricuso di ricevervi di nuovo nello Istituto, se vi trovate coi sentimenti propri di un discepolo del Salvatore crocifisso; ma ben anco v' invito a ciò fare, e credo che la carità me lo imponga. Io vi scongiuro a fare orazione, a pensare alla morte, e a fare atti di disprezzo di voi stesso: conviene acquistare l' abitudine del contemnere se ipsum . Iddio vi benedica: consolatemi con una risposta pienamente conforme ai miei desiderii. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 La sua lettera mi ha empito di gioia. Sia benedetto quel Signore che è bontà essenziale, e che si comunica alla creatura che a Lui si rivolge, e l' ha creata per questa ineffabile comunicazione. Certo: « Qui coepit opus bonum, ipse et perficiet ». E chi considera bene questo stesso ch' io dico risponde a quella difficoltà che Ella vien toccando intorno all' altezza della perfezione. Se questa fosse puramente l' opera nostra, ella sarebbe disperata. Ma ella è l' opera di Dio, poichè la perfezione non è altro appunto, che la comunicazione del creatore alla sua creatura; e allora dice la creatura, maravigliandosi di sè stessa e quasi non sapendo spiegare un tal prodigio: « omnia possum in eo qui me confortat ». Qui batte la gran dottrina di san Paolo, che fa venire la giustificazione non ex operibus , quasi ella venisse da noi, ma ex fide , cioè dalla confidenza in Dio misericordioso. Leggevo tempo fa in un libro questa frase, che il pentimento è la « virtù dei mortali »: ella è frase eminentemente cristiana, e coincide colla fede di san Paolo, fede nell' onnipotenza della bontà divina, per la quale l' uomo, che sente sè stesso nulla, spera tutto; l' uomo che sente d' esser impotente alla perfezione, sa insieme che Iddio, che a quella lo chiama, a quella altresì gratuitamente lo porta; l' uomo che non vede in sè che peccato, vede nello stesso peccato l' occasione della massima gloria divina, che sta in un' infinita misericordia. Che fa dunque l' uomo con questa fede? Niente altro che sentire intimamente e confessare l' infinita sua imperfezione e impotenza di rispondere alla legge di perfezione che gli sta dinanzi, e in pari tempo credere che Iddio sia tanto buono e di bontà sì potente da tuttavia farlo salvo. Ecco ciò che empie l' immenso vallone che separa noi dal poggio della perfezione: l' UMILTA`. Perciò la dottrina dell' umiltà insegnata da Gesù Cristo, che disse: « « Ognuno che si umilia sarà esaltato » », è identica colla fede di san Paolo. Sia pur vero che noi siamo colpevoli; se saremo umili, saremo esaltati. Esser umili è credere alla verità, credere alla nostra imperfezione, credere alla potenza della grazia di Dio, che ci perfeziona: « Credidimus charitati », dice san Giovanni, « quam habet Deus in nobis (1, Io. III) ». Vero è che la grazia stessa che ci comunica Gesù Cristo, ha i suoi gradi; ma ogni grado, per minimo che egli sia, è sempre infinito, perchè è sempre una comunicazione dell' Infinito. Credo che ciò riuscirà maraviglioso, ma non incredibile a Lei che conosce i diversi ordini degli infiniti matematici, che hanno qualche analogia coi gradi della grazia. Ella vede, che solamente in questa dottrina dell' umiltà cristiana e della fede si trova la soluzione alla difficoltà fortissima che Ella propone sulla pratica inarrivabile della perfezione; e che tal soluzione non venne mai prodotta in alcuna filosofia: nuova prova della divinità della cristiana dottrina! Questa dottrina sovrumana non ha timore di dire all' uomo: « Numquid homo, Dei comparatione iustificabitur? Septies cadit iustus - cum omnia haec feceritis, dicite: servi inutiles sumus », perocchè tosto dopo atterratolo, lo solleva e conforta dicendogli ancora: « Voluntas Dei sanctificatio vestra: omnia quaecumque petieritis a Patre (meo) in nomine meo, dabit vobis - confidite: ego vici mundum! » Che ci resta dunque a fare? Metter solo il collo sotto il soave giogo di Cristo, umiliare incessantemente la petulanza cieca della nostra natura sensitiva e l' orgoglio ancor più cieco del nostro ingegno. Come nell' ordine morale giace in noi stessi una infinita imperfezione (astraendo dalla grazia di Cristo); così nell' ordine intellettuale giace in noi stessi un' infinita ignoranza. La pienezza della virtù non è meno ardua, alle sole forze dell' uomo, della pienezza della verità. Onde noi riceveremo la salute malgrado delle nostre imperfezioni, indi riceveremo la vital luce della mente, il lumen vitae delle Scritture, malgrado della nostra ignoranza. Oh questa è luce solare e ardente, quando la luce del secolo non ha che dei raggi biancastri e freddi! Sono certo, mio caro marchese, che appigliandosi Ella alla grazia, Dio La porterà innanzi, il quale ha detto e Le dice: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Coll' occasione che vengono a voi alcuni altri fratelli, bramo scrivervi poche parole, per rammentarvi la vocazione vostra nella santità della carità. Io prego e supplico tutti voi nelle viscere di Gesù Crocifisso, che niuno voglia divergere nè a diritta nè a sinistra, ma che direttamente tenda a quello a che è chiamato, cioè a procacciare a sè medesimo la santità che non consiste in veruna opera d' ingegno, nè in alcuna prodezza o gloria umana, nè buon riuscimento delle imprese esteriori; ma bensì nel praticare quelle virtù che Gesù Cristo, Salvatore e forma delle anime nostre, ha mostrato in sè stesso, massime pendente dalla croce: le quali sono l' umiltà, la povertà, l' abnegazione e l' ubbidienza, la mortificazione e la pazienza, e la carità ardente che tutte le contiene e non si perde in sottigliezze, ma cammina con semplicità e non cerca le cose proprie, ma quelle di Dio e del prossimo. In questo sta tutto l' Istituto della Carità che voi avete abbracciato, e che dovete avere continuamente innanzi agli occhi affine di perseverare in esso fino alla morte, non con sola l' unione dei corpi, ma con quella degli spiriti, affine di non ingannare voi stessi, perdendo di vista l' unica vera idea e forma dell' Istituto, nato al Calvario e uscito dal Crocifisso: in quanto che da lui sono uscite le virtù, in cui l' Istituto mira come in suo fine, e perciò lo costituiscono. Voi, o miei dilettissimi fratelli, avete tanto maggior bisogno di tenere fisso il vostro cuore a questo fine, non facendo conto che della pratica delle virtù evangeliche, come del solo bene (giacchè il resto è vanità), in quanto che il servizio di Dio costà ha congiunte difficoltà non poche, distrazioni e pericoli: i quali tutti però voi superare potrete, cooperando fedelmente alla grazia che Iddio non vi nega, e così essi diverranno altrettanti mezzi del vostro perfezionamento e trofei della vostra gloria futura. E questa cooperazione alla grazia non può consistere in altro, che nello aver presente la vostra vocazione per dirigervi secondo quella, uniformandovi allo spirito e alla lettera delle Regole, che vi sono prescritte, con sommessione perfetta. Ognuno in prima si persuada di non fidarsi troppo del proprio sentimento e giudizio, e piuttosto creda fermamente che fra tutti i pericoli della vita religiosa il più insidioso è quello che consiste nell' uso esclusivo del proprio raziocinio; perocchè l' uomo, essendo un essere ragionevole, inclina a ragionare, senza troppo considerare che i suoi ragionamenti sono brevi, limitati e spesso fallaci, a differenza di quelli di Dio che abbracciano in un modo infallibile le cose tutte, le presenti e le future, che rimangono nascoste agli occhi nostri. Perciò ciascuno nella propria condotta, invece di seguire le regole e i risultamenti del suo proprio ragionare, prenda a sua guida la sola altissima e semplicissima regola della volontà divina, a imitazione di Cristo, il quale, dando ragione del suo operare, non diceva già che operava per questo o quel motivo, ma diceva sempre che operava per fare la volontà del suo Padre Celeste, e acciocchè si adempissero le Scritture che contenevano appunto ciò che il Padre aveva ab aeterno prestabilito. Laonde tutto lo studio nostro, o carissimi, consista in pervenire a conoscere la volontà divina, e non in ragionare e disputare fra noi stessi, se questa o quella sia cosa buona o migliore secondo il proprio vedere limitato ed umano. Siamo solleciti unicamente di cercare quali siano i segni della divina volontà per eseguirla fedelmente e semplicemente, con pace interiore e senza contraddizione del proprio intelletto. E se voi attentamente considererete, scorgerete di leggeri, che i segni della divina volontà sono segnatamente tre, ai quali noi la riconosceremo senza fallo, se di puro cuore la cercheremo. Il primo segno è la legge di Dio , da Gesù Cristo apertaci con pienezza e perfezione; la qual legge è chiamata perciò dai teologi volontà di segno ; e perciò è anche scritto: « Voluntas Dei sanctificatio vestra ». Se dunque la volontà di Dio è la nostra santificazione, noi possiamo essere certissimi di operare conformemente a quest' amabilissima e santissima volontà divina, quando incessantemente lavoriamo a purificarci dalle nostre imperfezioni, e ad acquistare tutte le virtù che formano la santità. E ogniqualvolta una turbazione di animo ci pone in uno stato di perplessità e di dubbiezza, ricordiamoci di preferire fra i due quel partito che in sè stesso è più favorevole alla nostra santità, quello che più contiene di virtù evangeliche, appigliandoci senz' altro dubbio nè esitazione a ciò che meglio esercita la nostra abnegazione, povertà, ubbidienza, carità e disprezzo di noi stessi e delle cose nostre; perocchè facendo così, noi siamo certi di non isbagliare e di operare secondo l' altissima ed eccellentissima regola del divino volere che pur vogliamo seguire, e per questo siamo nell' Istituto. Il secondo segno che ci fa conoscere quest' ottimo e desiderabilissimo volere di Dio, si è l' ubbidienza a' nostri Superiori. A tutti voi io dico questo, e in prima al Padre Rettore e al Padre Ministro che debbono precedere coll' esempio nell' ubbidire semplicemente a' propri Superiori, e di poi lo dico a tutti gli altri fratelli soggetti. Conviene riflettere che questa è la dottrina della Chiesa cattolica, la quale insegna ed ha sempre insegnato che l' ubbidienza perfetta a' propri Superiori è la via più sicura a conoscere il divino volere e a perfezionare e salvare sè stessi. Non insorga adunque la temerità e la baldanza del proprio ragionamento, perchè così facendo non insorgerebbe già contro l' uomo che comanda, ma contro Dio che manifesta il suo volere per mezzo di quell' uomo. Egli è vero, che si può trovare nel comando del Superiore sbaglio o difetto, secondo il corto vedere umano; ma vero sbaglio o difetto non può cadere nel volere di Dio, di cui quel comando è segno indubitabile. Di maniera che è da credersi che eseguendo quel comando, sebbene accompagnato da qualche errore secondo le viste umane, tuttavia non si farà che ottimamente secondo le viste divine, e che Dio vorrà servirsi di quello sbaglio od errore del Superiore ai suoi altissimi e sapientissimi fini, che noi per la nostra cortezza ed ignoranza non arriviamo a conoscere. Non si dà nessuna eccezione a questa regola, fuor solo quando nel comando del Superiore vi avesse peccato. Fuori di questo caso, taccia il nostro intelletto davanti a ciò che viene comandato, non giudichi, non censuri, non calcoli cosa (se non forse per rappresentarla sommessamente al Superiore); ma presti con viva fede e con certezza di ubbidire a Dio, una ubbidienza intera, pronta, semplice ed umile. Quando poi non si può conoscere il voler di Dio nè col primo nè col secondo di questi due segni, perchè non v' è un comando del Superiore che prescriva il da farsi, nè la legge di Dio o l' amore della santità lo determina, allora convien ricorrere alla terza regola, molto necessaria ai Superiori, ed anche ai soggetti, ogni qualvolta i Superiori rimettono al loro giudizio il modo di operare. Questo terzo segno del divino volere si è la voce della divina Providenza , che si fa sentire negli avvenimenti esterni e nel complesso delle loro circostanze. Conviene che questa voce sia da noi raccolta col lume tranquillo della propria ragione, soccorsa dal lume della fede, con una maniera di vedere al tutto logica, senza prevenzioni nè fantasie, o niente che abbia del superstizioso e dell' arbitrario. Fare tutto il bene, che la divina Provvidenza ci presenta nelle occasioni esterne da noi non cercate, farlo senza ingiusta predilezione, ma sempre col debito ordine: ecco ciò che in questo caso vuole Iddio certamente da noi. Iddio è l' essenza del bene; dunque egli vuole da noi tutto il bene possibile, ed è quello che, venendoci presentato a fare dalla sua Provvidenza, non è scelto a nostro, ma a suo arbitrio. Questo terzo segno è subordinato al secondo, come il secondo è subordinato al primo, cioè a dire se la legge di Dio ci obbliga ad una cosa, a quella dobbiamo attenerci; ma se non ci obbliga, dobbiamo attenerci all' ubbidienza. Se poi neppur questa determina il da farsi, allora dobbiamo studiarci di conoscere il voler di Dio per mezzo del lume di ragione e della grazia che il deve accompagnare, il quale per non fallire non deve prevenire, ma seguire la Provvidenza nei fatti esterni. Dal primo poi e dal secondo de' tre segni scaturisce la necessità che voi tutti avete, quando pur vi piaccia di attenervi strettamente alla volontà del vostro Dio, di meditare attentamente e amorosamente le regole dell' Istituto da voi abbracciato, come quelle che contengono in compendio e applicano la legge di grazia portataci da Gesù Cristo, e come quelle, a cui debbono prestare egualmente ubbidienza e i Superiori e i soggetti. Ognuno adunque cerchi di vivere confidato grandemente in Dio, unito strettamente col proprio Superiore, in cui ravvisi come in imagine Dio stesso, uniti ancora tutti fra di voi in congiuntissima carità, la quale non sia turbata mai da cosa alcuna, sopportando i difetti altrui nell' abbondanza dell' amore, onde ciascuno dee avere ricolmo il cuore, avendo gran premura non solo del profitto proprio, ma ben anco di quello di tutti gli altri fratelli che formano con lui una famiglia in Gesù Cristo, edificandoli col suo contegno e cooperando alla loro purificazione e perfezione, secondo lo spirito dell' Istituto e la volontà de' Superiori. E così facendo voi, l' umile vostro fratello che ha tanto di fidanza di scrivervi queste cose con ogni libertà nel Signore, spera di dover partecipare della pienezza de' vostri meriti e delle vostre preghiere che con un cuor puro e retto innalzerete senza posa al trono di Dio, nel quale egli assai vi ama e dal quale vi prega ogni benedizione e aumento di grazia, consolazione e fortezza nelle tribolazioni e corona di gloria immarcescibile. [...OMISSIS...] 1.37 Se nelle confessioni non troviamo materia grave, è misericordia del Signore nostro, e nel dobbiamo ringraziare; peraltro ciò non ci dee distorre dalla confessione, la quale è un atto di profonda umiltà e di compunzione di tutti i nostri peccati in generale, i quali si possono sempre detestare e sottomettere di nuovo alla sacramental confessione; tanto più che possiamo sempre temere per cagion d' essi, sebbene sottomessi già al giudizio del sacerdote, non sapendo con assoluta certezza se le disposizioni nostre erano del tutto quelle che si richieggono ad ottenere da Dio un pieno perdono. D' altro lato la confessione, e sopratutto poi la comunione, aumenta la grazia e le forze spirituali. In quanto ai peccati veniali, conviene che li combattiamo con tutta pace e senza pretensione di riuscirvi in breve tempo. Vi ha un mezzo generale e soavissimo di far ciò, ed è quello di accrescere in noi la carità coll' orazione e con atti frequenti di amor di Dio e del prossimo: in ragione che cresce in noi la carità, vanno cadendo i peccati veniali, quasi senza che ce ne accorgiamo, ed ogni attacco a noi stessi ed alle cose proprie. Questo è un mezzo eccellente specialmente per quelli che fossero inclinati ad assottigliare, ai quali il troppo pesare e scrutare le minime cose può cagionare turbazione e inquietezza. Quanto poi alle opere di sopraerogazione, non conviene mai cangiarsele in doveri; perchè sarebbe un rendersi grave da sè stessi il giogo del Signore. Anche qui conviene procedere per la via di quell' amore che dilata il cuore; ma perchè questo stesso potrebbe affannare l' animo, pensando che è troppo scarso il nostro amore verso il bene infinito che dobbiamo amare, perciò ci è uopo d' altro lato riflettere che questo amore soprannaturale è esso stesso un dono di Dio, dono che egli ci fa in certa misura; e però si contenta che l' amiamo con quella misura colla quale possiamo amarlo, e non pretende di più. Perciò Gesù Cristo, comandandoci l' amor di Dio non ci ordinò di amarlo infinitamente , com' ei si merita; ma ci ordinò di amarlo con tutto il cuore ecc., che è quanto dire con tutta la potenza che abbiamo di amare. Di più non chiede; e però convien fare quel che possiamo, e poi starci contenti riposando in Lui e sperando in Lui; ed egli farà di più in noi. E quanto al precetto dell' amor del prossimo, che ci comanda di amare gli altri come noi stessi, non parla di uguaglianza , ma di somiglianza ; e parla dell' amor volontario e non dell' istintivo; e queste considerazioni debbono quietare, se ci sembra di non amar gli altri quanto noi stessi, bastando che li amiamo come noi stessi. Buona cosa è tuttavia e che fa fare all' anima molti progressi, l' occuparsi in opere di carità e specialmente di carità spirituale, che è la più eccellente, e nel promuovere tutte le opere sante. Quanto a ciò che mi dice circa la differenza di specie fra l' anima di un buono e di un malvagio, non si potrebbe sostenere, perocchè la specie umana è costituita dall' aver per lume l' essere iniziale , e questo l' hanno tutti o lo amino o no. Si potrebbe dire bensì che fra un buono e un malvagio vi ha una differenza maggiore che non sia dalle stelle alla terra e più ancora, voglio dire una diversità maravigliosa, incredibile, che nel Vangelo viene espressa con quel chaos magnum che sta interposto fra Lazzaro ed Epulone. Se si tratta di bontà soprannaturale la distanza è infinita, ed è certo che la grazia opera un cangiamento sostanziale e non puramente accidentale, come insegna San Tommaso. Mi è stata carissima la sua lettera e l' altra che mi ha scritta, e la prego di continuarmi la sua cara benevolenza, e comandi a me come ad uno che la stima e l' ama... [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Sebbene risponda tardi alla vostra lettera, non dovete credere che ella mi sia riuscita meno grata, nè prenderete errore se attribuirete la lunga dilazione in farvi risposta alle troppe mie occupazioni... Quanto a ciò che nella vostra lettera mi dite intorno agli studii, non si richiedono molte parole, giacchè essendo questo tempo del vostro noviziato sacro all' esercizio della virtù e della santità più fervente, il resto non è che accessorio; e dal Padre Maestro saprete quello che vi convenga di fare. Sommamente importante all' incontro mi parrebbe lo scrivervi qualche cosa sul conto del dubbio venutovi in cuore circa l' ubbidienza cieca , se già questo vostro Maestro e amorosissimo superiore non mi avesse fatto intendere, esservisi questo dubbio dileguato dall' anima. Tuttavia un nonnulla voglio dirvi su ciò, mio caro Giacosa, e questo si è in prima che il conoscere intimamente l' eccellenza altissima dell' ubbidienza cieca prestata per amor di Gesù Cristo, ella è cosa al tutto divina , e quelli soli ciò intendono, a cui lo Spirito Santo comunica questa sapienza sopraumana. Laonde vorrei esortarvi a domandare questa soprannaturale illustrazione con intensissime preghiere, annientandovi davanti al trono della Maestà di Dio e chiedendogli con gran fervore di poter intendere le lezioni che ci ha dato Gesù Cristo suo Figlio dalla sanguinosa cattedra della Croce. Ci potrebbe anco condurre all' intelligenza e al possesso di questo tesoro dell' ubbidienza cieca, un amore intensissimo che noi avessimo verso il nostro Signor Gesù Cristo; perocchè questo infiammato amore ci porterebbe indubitatamente ad intendere gli ammirandi suoi esempi e le parole con cui ce l' ha insegnata: parole ed esempi non compresi se non da quelli che l' amano svisceratamente, e che all' opposto sono stati e saranno gentibus stultitia . Un' altra via da poter giungere a capire la preziosità di questa virtù dell' ubbidienza, per la quale l' uomo spirituale è sempre pronto anco a morire, è quella della fede fermissima e viva nel magistero della Santa Chiesa, come quella che è colonna e firmamento di verità, e nell' esempio dei Santi che furono dalla Chiesa canonizzati. Perocchè chi ha questa viva fede, ha lo spirito e le parole di sua madre la Chiesa, e senz' altro ragionare si persuaderà pienissimamente che il cieco ubbidire è un atto di virtù squisitissima e di sommo merito presso Dio. Veramente Chiesa Santa l' ha creduto ed insegnato in tutti i secoli ed in tutti i luoghi; ed ha coronati gli eroi di questa virtù. E parimenti quegli che crede che i Santi sieno i veri sapienti, non dubiterà che ciò che hanno fatto tutti essi, nessuno eccettuato, cioè l' ubbidire ciecamente, non sia ragionevole, e giusto, e santissimo; e se insorgeranno a costui dubbii nella mente, chiamerà sè stesso scioccherello e pazzo, e si atterrà immobilmente al lume de' Santi, i quali, atteso lo Spirito Santo che avevano in sè, intesero assai bene la forza di quelle parole dette da Cristo, « qui vos audit, me audit ». Le quali parole del divin Maestro sono per vero un inconcusso fondamento all' ubbidienza cieca, imperciocchè esse furono dette per gli Apostoli alla Chiesa, e la Chiesa parla ed opera pe' suoi ministri, e massime per li superiori delle sante Religioni e Congregazioni. Sicchè vi è tanta ragione di ubbidire ciecamente ai Superiori, quanto ragion vi è di credere ciecamente a Cristo. E come credendo ciecamente a Cristo, si rinunzia bensì a tutte le altre ragioni, ma per attaccarsi ad una ragione altissima, ed unica vera ragione; così ubbidendo ciecamente ai superiori, si rinunzia bensì, in un senso, alla propria ragione individuale e a tutti i suoi speciali ragionamenti, ma nello stesso tempo, in un altro senso, si ubbidisce alla stessa propria ragione; perocchè è la propria ragione di chi ubbidisce, illuminata dalla grazia di Dio, che persuade al vero ubbidiente essere cosa convenientissima che egli ubbidisca, senza cercare altre ragioni che la bellezza stessa dell' ubbidienza. Qui poi osservate, mio caro, l' errore che commettete, dicendo nella vostra lettera che due soli sono quelli che ci possono comandare, la ragione nostra ed il superiore esterno. Voi lasciate fuori il principale, che è Dio che parla per mezzo del superiore e vale molto più della nostra ragione individuale, la quale è soggetta ad ingannarsi, ed anzi inganna sempre ed indubitatamente ogni qualvolta non vuole ubbidire ciecamente alla volontà divina, che Dio manifesta per la bocca del suo ministro e del suo rappresentante sopra la terra che è il superiore religioso. Dico che s' inganna sempre la ragione nostra individuale , quando ci persuade di non ubbidire. Imperocchè quando è, di grazia, che noi veramente c' inganniamo? Quando invece di cercare ciò che è meglio pel nostro fine, cioè a dire per l' acquisto della virtù, della perfezione, dell' umiltà, dell' annegazione, della mortificazione, della penitenza, della imitazione in una parola di Gesù Cristo Crocifisso, noi ci fermiamo a delle considerazioni umane e di altro ordine interamente diverso da quello delle virtù evangeliche. A ragion d' esempio, quando quel celebre solitario, insigne maestro di perfezione, comandava al suo discepolo, che ogni giorno portasse certa quantità d' acqua per inaffiare una pianta disseccata da molto tempo, se quel discepolo avesse disubbidito col pretesto di seguire la propria ragione, egli si sarebbe ingannato e avrebbe operato al tutto contro ragione. Perocchè era bensì vero che l' inaffiare quella pianta, come gli veniva comandato, era inutile e irragionevole, quando si consideri solo il fine di farla rinverdire, ma se all' incontro si considera quell' altro fine molto più sublime, che consiste nell' atto di virtù, di umiltà, di annegazione, di mortificazione, e in una parola d' ubbidienza (perocchè tutte quelle cose sono contenute nella sola ubbidienza); allora si vede manifestissimamente che l' ubbidire a quell' irragionevole comando era cosa ragionevolissima, sapientissima, e santissima. E tanto è grato a Dio questo cieco ubbidire, che si degnò, non di rado, di manifestare la sua approvazione coi miracoli; come accadde nel fatto che vi accenno; perocchè quella pianta disseccata, narrano le storie, che a quell' atto di ubbidienza rinverdì e rifiorì. Ed ora chi non vede, che in ogni atto di ubbidienza, fatto per amor di Dio, al proprio superiore, vi è sempre rinchiuso l' abbassamento di se stesso, l' annegazione, l' umiltà, e l' amor di Dio, e che queste virtù vi sono tanto più belle e grandi, quanto la cosa comandata è più ripugnante e contraria al nostro senso proprio ed al nostro proprio giudizio? E se Gesù Cristo ci ha insegnato che la perfezione nostra sta in quell' annientamento che l' uomo fa di se stesso per amor suo, ed a sua imitazione, chi non vede che vi è sempre una ragione di ubbidire a qualsivoglia comando, e che questa ragione è l' ultima di tutte le ragioni a cui tutte le altre debbono cedere? Perocchè la ragione del rendere noi stessi perfetti, annientandoci per amor di Cristo, è tanto grande che non ve ne può essere un' altra più grande: è il sole della ragione che ecclissa tutte le stelle. Deh! qual ragione di operare vi può essere più grande di quella di ottenere il fine, per cui siamo creati, e di ottenerlo nel più perfetto modo insegnatoci da Cristo? L' ubbidienza che si dice cieca è dunque un' ubbidienza illuminatissima , e con essa si rinuncia a tutte le ragioni frivole e vane per solo attenersi all' unica ragione vera, solidissima e beatissima. Ma tutto questo discorso da chi può venire inteso, se non dall' amatore di Gesù Cristo? Da chi può essere gustato, se non dal semplice ed umile di cuore? A chi risplende tal lume se non al poverello di spirito e al fanciulletto che ha lo sguardo schietto e sincero? [...OMISSIS...] Conviene adunque, mio caro, acciocchè capisca in noi la cognizione di questi tesori della sapienza e della scienza di Dio, che prostrati bocconi per terra innanzi al trono della Maestà, domandiamo, come dicevo, al Padre che ci tragga a Cristo Signor nostro; perocchè indubitatamente è vero quanto pronunciò l' oracolo dell' infallibile verità: « Nemo potest ad me venire, nisi Pater traxerit eum ». Che se il Padre, udendo quel prego che gli innalzeremo dal profondo del cuore in nome del suo diletto Unigenito, ci aprirà gli occhi dell' anima e ci farà cadere le cateratte che le nostre passioni su vi coagularono; allora non solo vedremo l' intrinseco prezzo inapprezzabile dell' evangelica virtù della ubbidienza cieca, ma vedremo di più che, povero il nostro naviglio, se avesse per proprio conduttore noi stessi e la nostra propria ragione e volontà! Vedremo andarsene esso a caso qua e colà trabalzato da flutti in mare immenso, tempestoso e tenebroso, senza discernere mai a che direzione sia volta la miseranda nostra navigazione. Vedremo il lume della ragione nostra, rimastosi solo, non valerci più ad altro che a farci conoscere la condizione disperata in cui siamo gittati. Vedremo che la sola stella che ci possa scorgere a certo segno, non è la povera e inutile nostra ragione umana, ma la sola luminosissima, benignissima, e sicurissima volontà di Dio; e che il nocchiero che possa guidarci dietro a quest' astro di presagio lietissimo, è quel superiore appunto datoci dalla Provvidenza e dalla misericordia di Dio nella religione qualunque ei sia; perocchè qualunque ei sia (purchè non ci comandi il peccato), egli è sempre l' inviato da Dio, è sempre l' interprete dei divini disegni e il ministro delle divine misericordie. Vedremo tutto questo rispetto a noi; ma vedremo molto più se ci viene dato il lume dell' umile sapienza di Cristo, rispetto al bene che potrebbe per noi farsi ai prossimi nostri ed alla santa Chiesa. Perocchè Dio Padre di tutti gli uomini è quegli che pensa a tutti, e Gesù Cristo, Capo della Chiesa ricomperatasi a prezzo di sangue, è quegli che pensa alla sua Chiesa. E Iddio padre e Gesù Cristo suo figlio non elegge alle opere della sua gloria in beneficio del mondo e della sua Chiesa, se non di quelli che, conformati a Cristo, crocifiggono se medesimi, e muoiono a se stessi nella virtù della santa ubbidienza, annegazione, umiltà e amore della croce. Nè altri, ma anzi il solo seguace della santa ubbidienza evangelica è colui che veramente si offerisce a Cristo ed al Padre, e che il Padre e Cristo, secondo il loro beneplacito, elevano, come dicevo, a loro ministro e l' adoperano a tutte quelle cose grandi a cui l' hanno ab eterno predestinato. Stringiamoci adunque all' ubbidienza dei superiori, rinunciando una volta per sempre a noi medesimi, e otteniamoci una grazia sì squisita coll' assiduità di un' umile e non mai interrotta orazione. Questo, o mio caro, io mi aspetto da voi e da tutti cotesti nostri Novizi carissimi; aspetto che tutti usciate infiammati d' amore divino, e atti ad appiccarne l' incendio ai quattro angoli della terra; aspetto che usciate pieni della umile sapienza di Gesù Cristo, che è stoltezza ai vani ragionari del mondo, ubbidienti, docili, mansueti, illuminati, morti alla terra, vivi a Dio, gloriosi di non sapere altro se non Gesù Cristo, e questo crocifisso, da cui vi prego salute e benedizione ne' secoli. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Le dovea pervenire questa mia lettera sul cadere di agosto secondo il promesso, se alcuni accidenti, fra gli altri quelli del corpo sempre malazzato di chi la scrive, non lo avessero trattenuto finora. Essa è incaricata di farle di nuovo molti ringraziamenti del prezioso dono della magnifica « Introduzione » della sua « Storia Universale », letta da me e trovata quale mi aspettavo, e più ancora che io non mi sapessi aspettare ampia e ricca di cose, specchio di una gran mente e di un animo buono e gentile come dee esser quello dello storico. Questa lettura mi ha captivato alla dolce fatica di dover leggere tutta altresì la storia che segue, cosa che ripugnerebbe a queste mie presenti strettezze di tempo e di forze che mi divietano la lezione di tante altre opere egregie e mi prescrivono severamente di non isvolgere altri libri se non i soli necessariissimi alla giornata; pure egli mi è forza ubbidire alla prepotenza che mi usò la sua « Introduzione ». Ma pazienza se questa fosse la sola conseguenza dell' essermi io arreso al suo cortese invito! Ella non vuole da me udire prette lodi, ma mi dimanda un parere, delle osservazioni: come di quelle mi sarebbe facile il mandargliene molte e sincere, così mi pare oltremodo difficile il mandarle di queste, che siano ragionevoli e discrete ed utili; nè sarebbero tali se non fossero anche nuove. E come Le dirò io cosa che non Le sia forse stata detta da altri, se non anco prima pensata e discussa da Lei stessa? Che le cose belle e grandi non mancano di censori numerosissimi, nè saprei dire se la sua stessa grand' opera sia stata più onorata dal pubblico colle lodi o colle censure. Tuttavia forse dirò cosa non detta da altri se parlerò della religione, che come la più importante di tutte, così è quella di cui men parlano i letterati. Tutta da capo a fondo è religiosa la sua « Introduzione », e per entro ad essa lo scrittore non si vergogna mai di far pubblica e dignitosa professione di cristiano. Tanto più posso parlarle liberamente con sicurezza, che il mio parlare non Le torni molesto anzi gradito, paresse quanto si voglia di soverchio sottile e scrupoloso. Ciò dunque che mi cadde in animo di dirle si è, che talora le espressioni e le maniere, che vengono qua e colà usate nell' « Introduzione » parlando del cristianesimo, mi parvero risentirsi e quasi avvicinarsi a quelle che si trovano in molti scrittori moderni, massimamente francesi, i quali parlano umanamente della cristiana religione e, per così dire, la rifanno a lor modo: sogliono evitare tutto il soprannaturale, almen tacendolo, se non negandolo: niente di miracoli, niente di misteri, niente della grazia divina, che è propriamente la vita della fede nostra; confondono la vera rigenerazione dell' uomo, che viene operata da Cristo in un attimo nel battesimo, con ciò che essi chiamano impropriamente rigenerazione , intendendo con questa parola il successivo incivilimento nazionale o sociale che si opera col decorso de' secoli. Le darò un solo esempio di ciò che intendeva. Alla faccia 2. dell' « Introduzione » si dice molto nobilmente: « il cristianesimo elevò la storia e la rese universale, dacchè proclamando l' unità di Dio proclamò quella del genere umano, e insegnandoci ad invocare il Padre nostro , ci fè riconoscere tutti per fratelli ». Niente di più vero nella sostanza: tuttavia osserverei, che il cristianesimo non operò tanta maraviglia col proclamare solamente l' unità di Dio. Questa unità era stata proclamata anche in principio del mondo, e non valse a sostenerlo dalla corruzione: la stessa tradizione antichissima della unità di Dio si conservò fino presso gli Otaiti, adoratori del grande Spirito, e non impedì quelle popolazioni di scadere a stato selvaggio: questa unità fu proclamata dai più insigni savi delle Indie, di Grecia e di Roma: Maometto la proclamò, e quasi direbbesi, più di Cristo, giacchè negò la Trinità delle Persone; e questo dogma della unità tanto proclamato non elevò la storia, non fece nulla di quello che fece il cristianesimo. Il dogma proprio e fecondo della Religione del Salvatore del mondo si è quello della Trinità, e il conseguente della Incarnazione. Pure il proclamare questi dogmi sarebbe stato un profferire delle vane o pazze voci, se la onnipotenza della grazia non avesse acceso il lume della fede nelle anime de' battezzati: ecco lo stromento segreto, che mancò a Maometto, a Confucio, a Platone, a quanti vissero savi in sulla terra dichiarati da Cristo latrones ; ma che non mancò al Verbo incarnato. Questi solo ebbe virtù di mettere in sulle labbra degli uomini il Padre nostro , parola che non poteasi pronunziare senza la dottrina della Trinità, perocchè quella parola tutto racchiude in sè questo mistero, non potendo Dio ricevere nome di Padre se non ha un Dio per figlio. - Siccome in questi ed in altri simili luoghi la grazia avrebbe espressa tutta la verità del pensiero dello scrittore, così dove si legge che « « i poveri, deboli, mal conosciuti, calunniati, coll' autorità, l' istruzione, le ceremonie, l' esempio propagarono il regno di Dio »(facc. 46) » si sente che manca il mezzo principale onde il cristianesimo si propagò, cioè quello de' miracoli ; giacchè, come osservò S. Agostino, se questi fossero mancati, un miracolo massimo sarebbe stata questa sì rapida diffusione della cristiana verità. Mio carissimo signor Cesare, io credo ora di averle dato prova della stima che fo di Lei e dell' affetto sincerissimo che Le porto comunicandole queste poche osservazioni sul suo egregio lavoro. Ella ne faccia quel conto che il suo senno Le suggerirà. Io son certo che le cose da me dette non tolgono all' opera sua l' esser un gran monumento dell' italiana letteratura, ed oso anche dire fin qui l' unico nel suo genere. Ella mi conservi la sua preziosa amicizia, e mi saluti il veneratissimo nostro don Alessandro. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.39 Il mio sentimento è che facciate i voti, essendo io appieno convinto, che, facendoli, voi farete cosa grata a Dio. Con questa persuasione intima ho messo il vostro nome nel decreto che mando al vostro Superiore, il caro D. Luigi, e al quale viene stabilito quali siano quelli, che costì faranno i voti. La sottigliezza del vostro ingegno e sopratutto la vostra fantasia, ecco i vostri principali nemici, che voi stesso conoscete. Cercate di vincerli coll' orazione e con atti generosi di volontà ripetuti molte volte. Gli atti generosi della volontà e le proteste fatte a Dio di frequente e i gemiti cavati dal profondo del cuore hanno grande virtù di ottenerci la grazia e la fortezza di cui abbisogniamo continuamente in questa nostra peregrinazione. Non riprendo che si ragioni ; ma io dico che vi sono delle ragioni primarie e di assoluta verità, e delle ragioni secondarie , e che hanno una verità relativa solamente e parziale. Ora noi dobbiamo dirigerci in tutte le nostre opinioni ed azioni con quelle ragioni primarie che sono poche, semplici, sublimi, universali, madri di costanza e di pace; e non colle ragioni secondarie che appartengono ad una sfera di cose più bassa ed angusta, e non sogliono essere concludenti per la pratica, nè mai si esauriscono, perchè ripullulano infinite, e però mettono l' animo in una perpetua inquietudine e turbazione. Questa non è solamente dottrina logica, è dottrina sacra: Gesù Cristo ha insegnato a' suoi discepoli a far conto solamente delle ragioni grandi o primarie, di cui parlo: elle sono quelle che formano la semplicità, la costanza e la magnanimità della vita dei Santi. Ecco alcuna di queste ragioni che hanno potenza col loro peso di annientare innumerabili ragioni secondarie, minute e querule. Vi ha una Provvidenza amorosissima che tutto regola e dispone: dunque io debbo essere contento di tutto ciò che non dipende da me: debbo tenere per certo, che anche ciò che mi sembra storto è l' istromento migliore per la massima mia santificazione e beatitudine se io me ne approfitto. Essendo Iddio infinitamente buono, debbo confidare e buttarmi in Lui, anche quando io sono cattivo, debole, infermo: debbo sforzarmi, come posso (ma senza ansietà e turbazione), a vincere me stesso e far le cose perfette; e mi riesca o no di farlo debbo considerare che gli stessi miei sforzi, gli stessi miei desiderii sono un dono suo e un pegno che Egli mi vuol soccorrere: i desiderii santi costantemente ripetuti in un cuore non possono andare a male, e perciò nella Scrittura si esprime un uomo santo col dire semplicemente Vir desideriorum . Debbo sommessamente seguire l' autorità della Chiesa, de' Sommi Pontefici, e oltracciò il senso e, per così dire, l' istinto de' Santi. Il senso de' Santi e l' autorità della Chiesa mi dicono che l' ubbidienza ai superiori religiosi è una via sicura di salute e di perfezione. Io mi accorgo, che Iddio mi fa sentire profondamente al cuore questa verità. Che importa dunque che i miei Superiori fallino? Io sono sicuro. D' altra parte se fallano i miei Superiori, come uomini che sono, non falla Iddio che permette il loro fallo, e son certo che lo permette pel mio massimo bene. I Superiori non sono che istromenti nelle mani di Dio: quel comando dunque, che è sbagliato se lo considero con una ragione secondaria e di bassa sfera, non è dunque sbagliato se lo considero con una ragione primaria e sublime: la ragione primaria mette la tranquillità nel mio cuore; m' infonde l' affetto e il compatimento verso i miei Superiori; mi rende dolcissimo e sommamente meritorio l' ubbidire in questi casi appunto, nei quali le ragioni secondarie mi offuscano la mente, mi turbano ed amareggiano il cuore, mi rendono disamorevole verso i miei Superiori, ritroso ad ubbidire, vacillante nella stessa vocazione. Periscano adunque queste ragioni secondarie, si scaccino, come le nubi dinanzi al sole, si faccia sereno il cielo dell' animo nostro. Non conviene ragionare con esse, ma colla forza onnipotente delle ragioni primarie soffocarle appena nate, annientarle, prima che nascano, senza misericordia. Debbo fare grande stima di tutti i miei prossimi e specialmente de' miei confratelli e de' miei Superiori; debbo presumere e interpretar bene ogni cosa, facendo che tutto il mio ingegno sia a piena disposizione della mia carità. Per l' opposto debbo diffidare infinitamente di me stesso, di tutti i miei giudizii, e pospormi a tutti in ordine alla virtù. Se io fo un atto generoso e santo, sono certo che non me ne pentirò mai: sono certo, che gli effetti di quest' atto saranno buoni per me: e se io mi butto in Dio (per quanto miseramente posso) son certo, che Egli non mi lascerà cadere in terra, ma mi raccoglierà nel suo seno. Queste ed altrettali ragioni primarie e sublimi, e che formano la base del nostro Istituto, danno gran pace al cuore e fanno andare innanzi i deboli e gl' infermi e i peccatori. Io sono persuaso che nel fondo del vostro cuore prevalgono queste ragioni primarie; ma mi sembra che, sebben vittoriose, non abbiano ancora distrutte ed annientate le ragioni secondarie, e che vi sia una grande attività nel vostro ingegno e nella vostra immaginazione tendente a fabbricare incessantemente di queste ragioni di bassa sfera, le quali sono veramente inesauribili e rendono l' uomo loquace, involgendolo in disputazioni che non han fine alcuno, e molto meno danno edificazione. Io vi esorto a distruggerle al tutto, facendo che le ragioni primarie e divine sieno le dominatrici pacifiche e sole dell' animo vostro. In questo senso vi esorto a far guerra alla vostra propria ragione, sottomettendovi ciecamente all' autorità ed ubbidienza, fermo in quella parola della Scrittura: « Vir obediens loquetur victorias ». Così si debbono intendere i Santi e i maestri di spirito, quando ci esortano a rinunziare alla nostra ragione e giudizio proprio: sublime ed altissimo documento, sicuro fonte di santità! Qual cosa più bella che il navigare con sicurezza di giungere al porto, sebben s' ignori la strada che dovrem percorrere ed i cimenti che incontreremo per essa? O bella e santa Fede! a te, quantunque abbi le bende agli occhi, io mi attengo con tutto il cuore. [...OMISSIS...] In quanto al modo, col quale fu governato l' Istituto fin qui, credetemi, carissimo mio fratello, che ignorando voi le più minute circostanze, non potete portarne un giudizio sicuro. Io ho riandato molte volte ciò che si è fatto e credo che nel complesso si sia fatta la volontà di Dio: si sia fatto tutto quello che si è potuto e saputo, e che il resto l' abbia fatto mirabilmente Iddio. Quanto alle mortificazioni, voglio rettificare un vostro concetto. Voi dite che quando una cosa è stabilita come appartenente alla vita comune, non si può a meno di conformarsi alla generalità de' fratelli per non dare scandalo. Se si tratta semplicemente di mortificazioni, io non sono del vostro avviso. L' Istituto pregia sopratutto l' umiltà; e se un nostro compagno che non può fare la mortificazione, riceve quella specie di umiliazione, che gliene viene, da Dio e nel suo interno ne cava profitto, umiliandosi e riconoscendosi debole; egli pratica con ciò una virtù molto propria dell' Istituto. Ma gli altri ne prenderanno scandalo? Questo è quello che non deve essere: io bramo, e spero che si otterrà col tempo, che tutti i membri dell' Istituto aborriscano i giudizi sui propri fratelli e sappiano stimarli altamente ed amarli anche se non fanno le mortificazioni comuni, pensando che nelle anime loro possono trovarsi infiniti tesori di grazie anco senza di ciò, e attribuendo il non fare la mortificazione a cause oneste ed anco sante. Il pensare il contrario e il perdere la stima dei fratelli per così piccole cose, è una vera ignoranza: io voglio che tutti i nostri fratelli sieno in ciò istruiti bene, e bene avvezzi a conservare una gran carità in cuore. Stimo e bramo più questa disposizione della stessa uniformità della vita comune: sebbene anche questa uniformità la desideri, per quanto ella è possibile. Desidero tuttavia nel medesimo tempo, che tutti facciano grande stima della penitenza e antepongano all' altre quella della comunità; perchè questo è lo spirito della Chiesa, e di Gesù Cristo, e de' Santi suoi, e il voto dell' Istituto nostro. Quanto ad opinioni, l' Istituto dà piena libertà a' suoi membri, secondo quella regola bellissima di sant' Agostino, « in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas ». Circa all' opinioni politiche, io son certo che voi vi atterrete alle dottrine espresse dal Sommo Pontefice nelle Encicliche pubblicate a condanna delle opinioni dell' abate De La Mennais. Forse voi avrete anco letta la lettera, che io ho diretta a questo sacerdote e che fu tradotta anche in francese. L' attenersi alle dottrine dell' Enciclica è cosa necessaria, « in necessariis unitas ». Del resto voi siete libero: ed ho piacere che mi diciate non professar voi alcuna opinione, perchè la materia essendo difficilissima e delicatissima, sarebbe un esporsi a grave pericolo il prendere un' opinione, senza averne studiata la questione complicatissima, da tutti i lati. Bramerei, che leggeste la mia opera intitolata « La Società ed il suo fine », dove ho cercato di render chiare alcune idee importanti, che hanno uno stretto rapporto con quella questione. Ma questa lettera è già lunga, e il tempo assolutamente mi manca di dir di più. Credo d' aver sostanzialmente toccate le cose principali da voi scritte. Coraggio adunque, libertà di coscienza, risoluzione generosa, irrevocabile. Iddio vi venga incontro e vi abbracci. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 La lettera vostra del 3 mi ha cagionato una dolorosa sorpresa. Voi vi mostrate vacillante sul punto di abitare in Italia. Ma il disegnare da se stessi il luogo in cui si deve abitare, non è ella cosa direttamente contraria al voto dell' ubbidienza religiosa, e specialmente al voto proprio dell' Istituto nostro, che esige l' indifferenza ad ogni luogo , come espressamente dichiarano le regole? Avete ben letto il « Memoriale della prima prova », e tutte l' altre regole nostre, che espressamente dichiarano tali cose? Avvertite che il sacrificio, che noi dobbiamo fare al Signore e che gli abbiamo fatto co' sacri voti, dee essere simile a quello di Gesù Cristo in sulla croce, nostro maestro ed esemplare. Ha forse detto Gesù Cristo al suo celeste Padre: io non voglio stare nella Giudea, perchè provo delle tristezze, o perchè mi espongo al pericolo della morte? Per lo contrario « obedivit usque ad mortem ». E notate che i Ss. Padri, tra i quali S. Basilio e S. Tommaso, dichiarano che l' ubbidienza religiosa obbliga sino alla stessa morte. E non vale mica il dire, io non intendevo di prendermi queste obbligazioni quando feci il voto; perocchè, questa sarebbe una maniera assai facile di sottrarsi da un' obbligazione così sacra; massime dopo essere precedute tutte le istruzioni sulle regole nostre, che dichiarano la forza de' voti. Ah non vogliate, mio caro, essere così illiberale col Signore, e far dei passi che al punto della morte vi potrebbero levare la tranquillità della coscienza! Egli è vero che potrete forse trovare dei consiglieri ed anco de' teologi che favoriscono le vostre imperfezioni e passioni; ma poco giovano certi consigli, fondati sopra sottigliezze, dinanzi al tribunale di Dio. Permettetemi che vi parli con libertà. Voi non sarete mai quieto fino a tanto che il sacrificio che fate di voi stesso a Dio non sia intero e perfetto ; e non sarà mai intero e perfetto se non la rompete generosamente con tutti gli attacchi a voi stesso e alle cose di questo mondo, e non vi stringete a Dio solo. « Deus meus et omnia », dee essere la vostra divisa, e la divisa di tutti noi. Quando voi vi mettete nelle mani di Dio (e nelle sue mani vi siete messo coi sacri voti e colla professione del nostro Istituto), allora dovete stare costante e quieto in quelle mani, vivo e morto . Iddio non abbandona certamente chi si fida intieramente a lui, e da lui riceve per mezzo de' propri Superiori il bene ed il male. Questo abbandono nella divina Provvidenza è essenziale al nostro Istituto, e non si dà vero sacrificio, non si dà vera imitazione di Gesù Cristo, senza di questo. Chi ragiona diversamente, ragiona umanamente, e però s' inganna. Se Iddio vedrà che al maggior bene, non del vostro corpo, ma dell' anima vostra, giovi che meniate una vita mista, egli farà nascere tali circostanze, che condurrete una vita mista. Se Iddio vedrà il contrario, egli permetterà il contrario; permetterà che siate anco attaccato da' nervi, perchè finalmente « virtus in infirmitate perficitur »; e voi, se rimarrete costante nella vostra vocazione e nelle prove che vi darà il Signore (le quali non sono mai superiori alle forze, purchè si preghi), diverrete giusto e caro agli occhi di Dio, giacchè « vir obediens narrabit victorias ». La necessità dunque della vita mista il Signore la vede, e se ella è reale per l' anima, e non per il corpo, vi provvede sicuramente a favore di un servo che gli è fedele; ma non di un servo che gli è infedele. Avvi anche pericolo che in queste cose giochi in gran parte la fantasia, la quale spesso c' inganna, e a cui convien resistere valorosamente, opponendole lo scudo della fede. Ma la fantasia non opererebbe, se in noi non ci fosse l' attacco a noi stessi, ai paesi da cui noi proveniamo, ai conoscenti, al proprio benessere, e alle sostanze temporali. Rompiamo dunque con forza tutti questi attacchi, e la fantasia cesserà di operare. Potremo allora cantare: « Laqueus contritus est et nos liberati sumus ». Il demonio c' inganna coll' attrattiva di una vita apostolica; ma la vita apostolica può ella essere priva delle più solide virtù? Si dà egli vita apostolica senza ubbidienza e senza povertà? Gli apostoli erano mandati : ma come può esercitare l' apostolato un religioso che non riceve la missione de' suoi Superiori, e che dice: io voglio fare l' apostolo per impedire l' attacco de' miei nervi? come può esercitare l' apostolato chi non vuole lasciare le sue reti e la sua barca? S. Paolo tremava, non forse predicando agli altri si facesse reprobo egli stesso; il che dimostra che le fatiche apostoliche non si debbono assumere nè per inclinazione, nè per gusto o consolazioni che vi si trovino; ma perchè Iddio vuole, perchè Iddio manda. Se dunque i vostri Superiori vi mandano, fate bene ad ascoltarli, e ad andare, perchè « qui vos audit, me audit »: ma se volete andare da voi stesso, o cercate che altri vi mandino, dovrete renderne conto a Dio, e il giudizio che vi si farà dei falli che voi commetterete nell' apostolato sarà inesorabile: « ego non mittebam eos, et ipsi currebant ». Ah! temiamo pure nell' accingerci alla grand' opera di ammaestrare gli altri, come temeva e tremava s. Agostino e tutti i Santi; e desideriamo piuttosto di prepararci all' apostolato, che non sia di esercitare l' apostolato stesso; desideriamo piuttosto di convertire noi stessi, e così di prepararci a convertire gli altri, quando e come il Signore lo vorrà. Se avremo vinto noi stessi, debellate le tentazioni, sacrificati i nostri gusti, resi noi stessi perfetti nell' ubbidienza e nell' annegazione; allora saremo divenuti istrumenti idonei nelle mani di Dio, e potremo sperare che egli forse si serva di noi a fare qualche bene. Ma fino che siamo così imperfetti, pieni di volontà propria, di giudizi proprii, così mal mortificati, abbiamo troppa ragione di temere di noi stessi. Quegli solo sarà un vero apostolo, che a imitazione di Gesù Cristo sa aspettare la missione celeste per 30 anni nell' oscurità della vita occulta. Ecco la virtù che non falla, perchè non lusinga l' amor proprio: la virtù che noi sacerdoti dell' Istituto della Carità ci siamo proposto di esercitare. Coraggio adunque, mio caro fratello nel Signore! Vada tutto, vada la vita, vada la roba, vadano i gusti e tutti i nostri giudizi particolari; ma non vada la virtù vera, evangelica e veramente apostolica che forma l' essenza della nostra professione. Abbandoniamo ogni altro nostro pensiero e desiderio fuor di quello di divenire veri membri dell' Istituto della Carità . Quest' unico pensiero vi occupi più che non ha fatto per lo passato. Il membro dell' Istituto della Carità è contento in ogni luogo, in ogni grado, in ogni ufficio, perchè cerca Iddio solo. Egli si stacca da tutto. La nostra povertà deve essere piena, assoluta, simile a quella di Gesù Cristo sulla croce. Io non potrei mai permettere che nessuno dei nostri compagni amministrasse i suoi beni proprii, o che menomamente ne disponesse o che impedisse all' Istituto il disporne, giacchè peccherei io stesso mortalmente contro il voto e farei peccare i miei compagni condiscendendo alla loro imperfezione. E perciò vi prego e vi scongiuro, mio carissimo fratello in Cristo; e non bastando ciò, vi comando altresì in virtù di santa ubbidienza (notate bene) di consegnare fedelmente tutto ciò che avete in beni mobili e stabili a questo mondo nelle mani del vostro Superiore, in maniera che non vi resti più nè bene alcuno, nè disposizione, nè amministrazione di sorta alcuna; acciocchè siate sciolto intieramente da tali imbarazzi, e possiate servire il Signore in una vera e intera povertà, e si compia in voi la volontà divina. Spogliato interamente dei beni temporali, la virtù della grazia di Dio si aumenterà in voi; e così reso più forte, e da Dio illustrata la mente, non finirete di benedire il suo Nome per la grazia grande che vi ha fatto. Intanto vi raccomanderò indegnamente al Signore, e spero che nella prossima vostra lettera mi restituerete quella consolazione che mi ha fatto perdere la precedente, per la giusta sollecitudine che ho dell' anima vostra. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Non dubito che la bontà e misericordia del Signor nostro non voglia da voi una sempre maggior perfezione. Quel tenerissimo nostro amico e Sposo picchia incessantemente alla porta del nostro cuore; vi entra se noi gli apriamo, e vi entra per renderlo più bello e per fugarne tutte le tenebre. Oh! ma quanta è mai la nostra miseria! Impastati di fango vilissimo, e peggio ancora, di vilissima carne, non siamo buoni da altro che da oppilare gli spiragli della luce celeste, che da turare gli occhi dell' anima nostra, fatti pure per ricevere quella luce e vivificarsene, e ostruire gli orecchi acciocchè non sentano le divine parole! Quand' io considero da una parte l' insistenza di Dio per fare del bene a me, sua povera creatura, e dall' altra non dico la mancanza della corrispondenza da parte mia, ma gli ostacoli ch' io oppongo al mio infinito benefattore e la guerra che gli faccio, inorridisco; e se egli stesso non mi aiutasse ancora, chi mi terrebbe dal non avvilirmi e disperarmi? Coll' esperienza mia propria adunque misuro benissimo e comprendo come simiglianti sentimenti ed anche agitazioni e desolazioni possano entrare nell' anime altrui, possano entrare anco nella vostra. Ma che perciò? non ci sarà per noi, mio carissimo, anche una larga vena di consolazione? Ah sì, ed infinita! Io la trovo sempre in quelle parole: « Surgam et ibo ad patrem meum ». Oh dolce nome di Padre! Quanti mercenari « in domo patris mei abundant panibus; ego autem hic fame pereo! » Alla nostra casa adunque, alla casa del nostro Padre! e vi troveremo ogni cosa che ci bisogna: gli amplessi paterni ci aspettano. E` vero che se noi dovessimo sperare in noi stessi, la sarebbe finita; ma noi possiamo contare talmente sulla tenerezza del nostro Padre Iddio, che da lui stesso possiamo aspettare fin anco che ci muti il cuore, fin anco che produca egli in noi la corrispondenza nostra alla grazia sua, fin anco che ci comunichi egli stesso il coraggio e la fortezza che ci manca per fare quelle risoluzioni generose e grandi di cui abbisogniamo. Non n' abbiamo noi il desiderio? E bene, questo desiderio benchè sterile è la caparra che ci dà Iddio di voler fare con noi de' prodigi di misericordia; perocchè lo stesso desiderio del bene è suo dono. Dietro a questo desiderio mandiamo a Dio delle voci, delle suppliche, de' gemiti almeno; se non possiamo pregar molto, preghiamo poco, ma con frequenza ed ardore; preghiamo che ci accresca il dono di pregare: egli ci esaudirà, e dietro la preghiera verranno a noi tutte l' altre grazie che ci bisognano, e più ancora. Non meritando che di essere mercenari nella casa paterna, ci troveremo senza saper come ridivenuti figliuoli, e della bella stola vestiti e dell' anello prezioso fregiati. Oh insomma non può nulla mancare a chi desidera, a chi spera, a chi fa quello che può, ed aspetta dal suo ottimo Creatore e Padre quello che non può! Coraggio adunque, fiducia illimitata, tranquillità nello stesso dolore, nella stessa umiliazione! Mio caro, quanto bramerei di potervi recare qualche sollievo nella vostra afflizione, se io sapessi il modo! Chi sa, che forse non vi gioverebbe l' assentarvi per qualche tempo da Roma, e dalle vostre ordinarie occupazioni! Nel caso che ciò trovaste potervi giovare, venite da me, staremo insieme: o se le mie occupazioni non mi lasceranno molto tempo libero, voi avrete la compagnia di alcuno de' miei compagni. Il riposo, la novità della vita e degli oggetti che vi circonderebbero, potrebbero ristorarvi. Non vi prometto però delizie, ma povera vita. Se non poteste fare il viaggio per la spesa, ciò non vi trattenga; pagherò io per voi. In somma disponete di me, come si fa de' veri amici. Farò pregare, pregherò; voi pure pregate. Il nostro caro Signore e la dolce nostra Madre, stiamone certi, ci esaudiranno: ci faranno suoi , che è quello solo che noi vogliamo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Ho aggradito la vostra lettera colla quale mi date notizia di voi stessa. Il consiglio principale che vi do si è, che vi mettiate sempre avanti gli occhi la vita di Gesù Cristo vostro sposo per imitarla, e i suoi celesti insegnamenti; fra gli altri quei due tanto da lui raccomandati dell' abbandono di sè nella Provvidenza , e della carità del prossimo . Egli ha detto che gli uomini conosceranno quali sieno i suoi discepoli, dalla carità che eserciteranno fra di loro. Questa è la vera perfezione, la più alta perfezione religiosa che si possa concepire: e questa è quella a cui siete chiamata nell' Istituto della Provvidenza. Badate di acquistare idee diritte, e di non credere che la perfezione religiosa consista nella clausura, in certa regolarità di preghiere, e in cose somiglianti. No, mia figlia, non consiste in queste cose la vera perfezione, sebbene tali cose possono esser buone ed aiutare a conseguire la perfezione, se Iddio ce le concede. Eleggete dunque per vostro maestro nella via della perfezione il solo Gesù Cristo: vedete che egli nè i suoi apostoli, esempi della più alta perfezione, non vissero chiusi e addetti a certo fisso regolamento; ma andarono dovunque li chiamava la Provvidenza divina e la carità del prossimo . Iddio vi aiuterà da per tutto dove andrete per amor suo, e per far bene alle anime da lui redente. Ciò che ora dovete fare si è d' impegnarvi grandemente a divenir perfetta nello stato in cui vi trovate e in cui certamente vi ha posta il Signore, cacciando ogni altro pensiero, che non farebbe che nuocere al vostro profitto, e innamorandovi del vostro Istituto, tutto sacrificato alla Provvidenza ed alla carità. Le tentazioni vi saranno, e verranno anche più forti; ma non temete. Iddio sarà con voi, se da parte vostra non vi lasciate distrarre con pensieri alieni, coi quali il demonio suole disturbare le anime coll' apparenza del meglio. Fate per me una santa comunione, e ogni qualvolta abbiate bisogno di consiglio, scrivetemi pure liberamente. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Niente ritrovo in quanto Ella mi espone che mi faccia menomamente dubitare che l' ecclesiastico, che dirige l' anima sua, non sia degno della piena sua confidenza; e però sono intimamente persuaso che la più compita ubbidienza al medesimo sia la strada più sicura per Lei di piacere a Dio, come desidera, e di far progresso nelle virtù. La voce del suo Direttore deve essere per Lei la voce di Dio stesso, e perciò se il Direttore Le concede licenza di accostarsi all' altare per ricevere la SS. Comunione tre o più volte la settimana, e in quei giorni ch' Ella desidera, questo è anco il voler di Dio; ed Ella non ha da far altro che di riempirsi di riconoscenza verso la bontà del suo Creatore, che con tanta generosità d' amore la chiama a sè mediante la voce del suo ministro e La ammette al suo divino banchetto; non ha da far altro che di confondersi nel suo niente, nella sua indegnità, accostandosi in pari tempo alla sacra mensa confidente, lieta, umile, magnificando il Signore coi sensi di Maria Santissima, perchè egli si degnò di riguardare alla bassezza della sua serva. Non si tratta qui della questione se siamo degni o no di un tal favore; trattasi di sapere se Iddio ce lo vuol fare o no un favore sì segnalato, sebbene noi siamo e ce ne riconosciamo pienamente fuor di questione indegnissimi; trattasi di sapere se noi ci possiamo credere di quegli avventurati zoppi e storpi e guerci dell' Evangelio, che pur furono, nonchè invitati, quasi cacciati dentro a forza nella sala delle nozze di quel gran signore. E come possiamo noi saperlo? Ce lo fa sapere la voce di Dio che noi udiamo dalla bocca del suo Ministro che ha cura dell' anima nostra: entriamo dunque con fiducia e col cuore esultante, perchè il Signore che abbiamo offeso si degna di sopraffarci in tal modo e vincerci in bontà: pensiamo che egli è infinito, e non ce ne faremo più meraviglia. Ma io sono stata una gran peccatrice, Ella mi dice, e dov' è la penitenza? Il desiderio di soddisfare alla divina giustizia colle opere penitenziali è cosa giusta e santa, e certo un tal desiderio non si dee reprimere quando Iddio lo fa nascere nell' anima nostra: tuttavia questo desiderio, come tutti gli altri buoni desiderii, dee sottomettersi alla più grande delle virtù, all' ubbidienza, e da questa esser interamente diretto. Se il suo Direttore non crede di permetterle alcune mortificazioni e penitenze esteriori, ch' Ella stimerebbe troppo giuste e desidererebbe grandemente di fare; Ella riconosca anche in ciò l' amabile volontà di Dio, riconosca che Iddio stesso La dispensa per ora da tali penitenze, che si contenta del suo desiderio, e sopra tutto poi della ubbidienza ch' Ella esercita, non facendole. Egli è tanto grande il merito che ha presso Dio l' ubbidienza, che nella Scrittura stessa vien detto che questa piace più a lui delle vittime. Nell' ubbidienza adunque stanno per Lei racchiuse le penitenze, di cui si sente verso Dio debitrice. Ella le fa tutte ubbidendo. Ma questa stessa dichiarazione, che Le fa Dio, dee di nuovo confonderla ed umiliarla, essendo un nuovo tratto della benignità di Dio verso di Lei, non dee diminuir punto nel suo cuore il sentimento di tutto ciò che deve a Dio in conseguenza delle sue colpe; dee considerarsi come doppiamente debitrice e per le soddisfazioni delle quali Iddio La dispensa, e per la grazia della quale Iddio La ricolma. L' essere dispensata in tal modo da certe penitenze dee oltracciò impegnarla ad accendersi di maggior tenerezza verso il nostro Signor Gesù Cristo, riflettendo ch' Egli La dispensa così dal patire per aver patito Egli a sua vece; giacchè se Gesù Cristo non avesse sborsato per noi peccatori il prezzo del suo sangue, noi non potevamo essere dispensati dal dovuto pagamento. Ecco la ragione per la quale il suo Direttore, qual organo di Dio stesso, Le può impedire alcune penitenze senza scapito della soddisfazione dovuta: la penitenza fatta da Cristo per noi n' è la gran ragione: sopra questa ci possiamo riposare. Come Ella vede, io parlo di alcune penitenze, delle arbitrarie ch' Ella stessa s' imporrebbe: non resterà perciò priva di penitenze e ben meritorie. Molte ne farà ricevendo con gran pace e contento tutte quelle che impone Iddio alle anime mediante i varii accidenti della vita, praticando quelle che riguardano la mortificazione interiore, quelle che s' incontrano nello studio stesso di piacere a Dio solo, nella meditazione delle cose eterne, nell' orazione, nel combattimento contro tutti i propri nemici spirituali non meno piccoli che grandi. Ella dice che non fa profitto nella emendazione de' suoi difetti: questa è una nuova penitenza, il sopportare se stessa. Ne vuole ancora di più? Eccogliene. Faccia per quanto può una vita di carità; faccia il maggior bene ch' Ella possa a' suoi prossimi, e quando non può farlo coll' opera, lo faccia loro col desiderio, colla compassione, coll' intercessione verso gli uomini, colla preghiera verso Dio. Oh quanto bene c' è da fare a questo mondo, mia pregiatissima signora, purchè si voglia! E non dubito ch' Ella lo faccia, che lo farà; e la carità sua riuscirà tanto più graziosa agli occhi di Dio, quanto più Ella procurerà di dirigerla non solo al ben dei corpi, ma ciò che più monta, alla salute eterna dell' anime de' suoi prossimi. Serva Ella dunque il Signore, che la favorì e La favorisce, con ampiezza di cuore senz' angustie, nè timori: dei difetti nè rimarranno, ma non se ne sgomenti: questi li permette il Signore per tenerci umili: approfittiamocene per questo appunto, staccandoci sempre più da noi stessi e dal mondo. Io sono stato più lungo in questa mia di quello che avrei voluto: se troppo, me ne scusi. Ma sopra tutto preghi il Signore anch' Ella (come io farò pure indegnamente per Lei) per i molti miei bisogni d' ogni specie. Mi son servito, com' Ella vede, della licenza ch' Ella mi diede di risponderle nella lingua italiana, e ne ho certo una buonissima ragione, il non saperne altra: il che però non vuol dire che io sappia questa in cui scrivo. [...OMISSIS...] 1.41 La sua cara lettera è un pegno di vera cristiana amicizia: uno di quei pegni che non si dimenticano più. Io ne La ringrazio con tutto il cuore. L' opuscolo di cui Ella mi parla, come messo in giro anche costì, ma da Lei non veduto, neppur io potei averlo ancor nelle mani. Ne seppi l' esistenza solo pochi giorni fa: una persona lo portò all' Em.mo Card. Tadini Arcivescovo di Genova, il quale lo mostrò ad un mio amico. Questi n' andò in traccia per Genova a fine di rinvenirlo: tutti i librai lo conoscevano, tutti ne parlavano, niuno seppe dirgli dove fosse, d' onde lo si potesse avere. Ho ragione di credere che una copia ne sia stata recata altresì all' Arciv. di Torino, e ad altri Prelati e Magistrati. Tosto che mi verrà fatto di procacciarmelo potrò dirle qualche cosa del contenuto. Le posso però parlare fin d' ora del più importante. Il più importante è la mia fede, che, come sento si attacca. Io non pretendo già di essere infallibile; ma guai se la fede cristiana dovesse riposare sull' infallibilità dell' uomo! essa riposa tutta sull' autorità di Dio rivelante, il quale ci fa conoscere la verità col mezzo della S. Chiesa. Su quest' autorità la mia fede, come quella di ogni altro semplice fedele, è basata: ella è dunque indipendente tutta dal ragionamento, ed io non ho mai fatto dei miei ragionamenti (Dio me ne guardi!) il sostegno e l' appoggio della mia credenza, gli ho considerati sempre come cosa affatto da questa diversa. Quindi, come ho sempre tenuto per falso quel ragionamento che fosse anco menomamente opposto all' autorità della Chiesa; così, qualora mi fosse avvenuto di fare un ragionamento, che senz' accorgermene riuscisse opposto a quanto avesse deciso quest' infallibile autorità, ciò proverebbe bensì in me dell' ignoranza e della fallacità di giudizio, ma non per questo la mia fede ne soffrirebbe. Ora io non sono già nato per esser dotto o per acquistarmene la gloria presso gli uomini, nè mai a questa fama ho rivolte le povere mie fatiche; ma sono nato bensì per esser credente e fatto degno delle promesse di Cristo, qual figliuolo devoto della sua Chiesa. Da questo Ella conoscerà, che io non posso valutar molto quella qualsiasi riputazione di letterato che Ella mi dice avermi per l' addietro acquistata, e che l' esser io convinto d' ignoranza, non è quel che mi pesa. Il mio tesoro è la santa fede, e qui è anco il mio cuore. Laonde se avvenisse, poniamo il caso, che la S. Sede Apostolica mia maestra, e maestra di tutto il mondo, trovasse di che riprendere nelle cose mie, non sarebbemi certo difficile il fare qualsivoglia pubblica dichiarazione, che rendesse la mia intemerata credenza più luminosa; giacchè tutto ciò che io avessi detto contro questa credenza, l' avrei detto certamente contro il mio proprio sentimento, e ritrattandomi non farei che esprimere quel pensiero immutabile, che m' ebbi sempre permanente nel cuore, e solo correggerne l' espressione esterna, che mancherebbe a rendere con esattezza quell' intimo pensiero, voglio dire, la mia piena fede. Che anzi Le dirò di più; a chi mi ebbe mostrato qualche mio sbaglio io professai sempre gratitudine, come voleva il dovere, nè alcuna difficoltà sentii mai a correggerlo per amore di quella verità che sola voglio ed amo in tutte le cose mie; e se questo feci e fo nelle cose più indifferenti, come nol farei io in un punto sì capitale come è quello della mia religione, dove, oltre l' offendere la verità e nuocere all' anima mia, mi esporrei al pericolo di rendermi maestro di errore al mio prossimo? Che cosa ho io voluto mai altro nei poveri miei scritti, che giovare alle anime? Ed ora le pervertirò io stesso? e ad occhi aperti? Iddio nol permetterà mai; io n' ho tutta e in lui solo la fiducia, in lui che m' infuse la fede bambino, e mi diede una illimitata devozione alle decisioni della S. Sede Apostolica, in lui che spande nel mio cuore la gioia quando posso fare un atto di fede, e che mi farebbe desiderar quasi d' esser caduto in un involontario errore, purchè senz' altrui danno, per potergliene rendere una confessione più alta e solenne. - Ma questo involontario errore ci sarà egli dunque nelle vostre opere? Ella mi domanda. Le risponderò con S. Paolo: « nihil mihi conscius sum, sed non in hoc iustificatus sum ». Mi parla nella sua lettera di errori di Baio, di Quesnello, di Giansenio, di Calvino, di Lutero: il solo sentir questi nomi, mette, a dir vero, raccapriccio. Le detestabili dottrine di questi eresiarchi, eretici, o fautori d' eresia sono state condannate giustissimamente dalla Chiesa: io le ho sempre condannate e detestate insieme con essa; e com' è egli dunque possibile che io segua costoro? e voglia esser anch' io un tralcio reciso dalla vite, buono da gittarsi solo sul fuoco? Dio mio! l' udir questo è certo una grande umiliazione. Le Bolle de' Sommi Pontefici che condannarono il giansenismo in tutte le sue diverse gradazioni, sono certamente sotto i miei occhi; e pure io non veggo che un solo dei sentimenti espressi nelle mie opere, e nominatamente nel « Trattato della Coscienza », che come credo, si prende specialmente di mira, s' approssimi ai sentimenti condannati di que' novatori. Che anzi più volte, io citai le proposizioni condannate in essi, a fin di mostrare qual sia la strada perversa in cui quelli eransi incamminati, e qual sia per ciò la contraria che noi dobbiamo percorrere; più volte mi son dichiarato in modo da non lasciare intorno a ciò il minimo dubbio. Che dunque si pretende con tali accuse? qual progetto si cova nascosto? vuol Ella che Le dica in fine di più ancora? vuol Ella che le apra tutta l' intima mia persuasione? vuol che Le faccia conoscere quanto la mente mia chiaramente prevede dover avvenir da quest' aggressione alle spalle, che or mi si fa? M' ascolti benignamente, e non attribuisca a presunzione alcuna quanto la chiara consapevolezza e il testimonio interiore dell' animo mio depone in me stesso, ed a Lei ingenuamente confido. L' autore dell' opuscolo, che secretamente si sparge, sarà stato mosso da buon zelo per la purità della fede; egli è probabile assai, che siasi grandemente riscaldata la testa, e che mal pratico delle dottrine filosofiche e dello stile rigoroso, che io stimai bene d' adoperare nel « Trattato della Coscienza » come nelle altre mie opere per ridurre le questioni complicate ai loro semplici principŒ, abbia preso, come si suol dire, delle cantonate. Egli è facile, appigliandosi a qualche frase staccata, a qualche periodo mal inteso, farne uscire un senso a rovescio; come è facile comporre un centone di passi che dicano tutt' insieme precisamente l' opposto di ciò che volle dire l' autore; ed ognuno sa che collo stile stesso e colle frasi del Vangelo si può benissimo scriver la vita di Cagliostro. Ma che perciò? Certo che dee nascere necessariamente da una tal frode qualche sussurro per ogni canto, massime che vi sono anche assai di quelli a cui buccinano da sè gli orecchi. Questo dee portare di conseguente una costernazione nei buoni, un gaudio nei tristi, un cotal sospetto nella moltitudine che non può giudicare del merito dei partiti ardenti, uno scatenarsi delle passioni; ciò appunto che voleva « inimicus homo, qui superseminavit zizaniam ». Io ne addoloro pel ben comune: per veder quelli che doveano esser meco uniti, così dividersi. Ma in fine, non vive egli Iddio? non regna egli Cristo? non vede egli i cuori? non conosce egli i suoi servi? non dispone egli forse tutto per la sua gloria e pel bene della sua Chiesa? che c' è a temere? gli darò io cagione di dirmi: « modicae fidei, quare dubitasti? » No certo, colla sua grazia. E in terra non ha egli il suo Vicario? il Papa non è egli ispirato e condotto dallo Spirito Santo? i giudizi della S. Sede hanno forse niente di comune coi giudizi precipitosi e riscaldati di alcuni uomini forse zelanti, ma non sempre secundum scientiam? Ecco dunque ciò che avverrà. La S. Sede tutto esaminerà colla sua solita posatezza, imparzialità, prudenza e sapienza divina: ella andrà al fondo della cosa, e giudicherà con piena cognizion di causa. Il suo giudizio è stato sempre la mia regola, sarà tale ancora. Io amerò egualmente una regola sì cara, sì dolce, sì certa, sì sicura qualunque ella sia, qualunque cosa Ella prescriva. Ma che cosa in fine prescriverà? Eccole la persuasione mia fermissima. Non solo giudicherà pure e sane le mie dottrine, e il suo autorevole giudizio le renderà più utili ai miei prossimi pei quali io le scrissi, credendo di scrivere quello che il lume del Signore mi suggeriva; ma di più la S. Sede riconoscerà in esse degli argomenti validissimi, coi quali sterpare fino le radici degli errori di Giansenio, Baio, Quesnello ed altri sopra nominati, e in questa vista veramente furono da me scritte. Ma Ella ritenga sempre, che questa mia persuasione dettatami dalla coscienza insieme e dalla cognizione non leggera delle materie nei miei scritti trattate, non ha ancora da far niente colla mia fede: la quale è semplice e in altro non fondasi affatto che in Dio e nella santa sua Chiesa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Mi consola assai il sentire che Ella è risoluta di amare a qualunque sia prezzo la verità e di non tradirla giammai. Io sono persuaso che questa sia la più bella disposizione che Ella possa avere per ottenere da Dio i lumi e la fortezza di cui Ella abbisogna nelle circostanze in cui Ella si trova, e che nella sua lettera mi descrive. Non è certamente bisogno, che io osservi che i doveri nostri verso la verità sono molti, giacchè noi dobbiamo non solo amarne quella bellezza che dimostra al nostro intelletto ( « agnoscere veritatem »), ma ben anco realizzarne colla condotta nostra quella bontà che propone alla nostra volontà ( « facere veritatem »). Questo secondo dovere è più difficile assai del primo, ed è quello ad eseguire il quale specialmente noi abbiamo bisogno del divino aiuto, e, per averlo, di domandarlo incessantemente. [...OMISSIS...] come dice S. Giacomo. Perciò io credo che Ella si troverà ben contenta se in tutti i suoi viaggi, tenendo presente Iddio, lo invocherà senza posa, praticando i doveri imposti dalla santa Chiesa Cattolica, e facendo uso, con viva fede e nihil haesitans , de' Sacramenti della medesima. Le sarà altresì di grandissimo aiuto e difesa contro ai pericoli l' abituarsi a non pregiare le cose e le cognizioni stesse, se non in ordine alla verità ed alla giustizia, e perciò a Dio ed alla santa Chiesa Cattolica, a cui ha la grazia di appartenere. Con questa retta intenzione viaggiando, Ella non si contenterà meramente di acquistare cognizioni, ma di mano in mano rifletterà all' uso che potrà fare delle cognizioni che Le verranno acquistate, e stimerà più quelle che più Le possono servire un giorno a far valere la causa della religione, della giustizia e dell' umanità. Questo stesso riflesso gioverà assai a farle considerare come mere vanità molte cose di questo mondo, intorno alle quali gli uomini impazziscono; e La difenderà da molti pregiudizi ed opinioni false, di cui sogliono essere imbevute le società particolari, e i particolari. [...OMISSIS...] 1.41 La vostra cara lettera di ier l' altro mi è un nuovo caro pegno di quella vera cristiana amicizia che mi professate. Vi assicuro per altro, che nella « Risposta al finto Eusebio Cristiano » ho temperate secondo il vostro consiglio alcune espressioni che riescivano un po' pungenti; sebbene sento ora che vi sembra ancor troppo acerba. E tale sarebbe anche agli occhi miei, se io avessi così scritto, perchè il mio avversario fu il primo ad offendermi e ferirmi nella parte più delicata, qual' è l' integrità della fede , come vi credete che io abbia fatto. Ma io protesto che questa è per me una ragione che non val nulla; giacchè, per grazia di Dio, non mi curo nulla delle ingiurie personali, nè me ne sono mai curato. Laonde se non avessi temute le conseguenze funeste per le opere della gloria di Dio e per la dottrina vera del nostro Signore, state pur certo che non avrei risposto nè pure una parola ad Eusebio. No, ve lo ripeto, per ispirito di vendetta, grazie a Dio, non iscrivo, nè ho mai scritto. Perchè scrivo io dunque? Scrivo pel bene pubblico; e dal momento che io stimo che questo sia il mio dovere, reputo di scrivere in quel modo, nel quale si possa ottenere più facilmente, più speditamente e pienamente questo bene che ho in vista. Per ottenere questo bene non si deve mentire, che Iddio me ne guardi! ma della verità si deve dire quella parte che sembra necessaria ad ottenerlo in maggior abbondanza. Talora questa verità è una pillola amara, ma anco i rimedi che danno i medici sono amari; e se v' ha un modo di fare del bene al mio avversario, io credo che sia questo da me adoperato, e di cui nostro Signore e tutti i Santi ci hanno dato l' esempio. Fino che considererete la causa, di cui si tratta, come mia personale, mi condannerete, può essere, come mancante di mansuetudine; ma quando considererete la causa come di Dio, allora vedrete che talora è mansuetudine e vera carità anche il parlar forte, e che il nostro divino Maestro non era meno mansueto nè men umile allorquando diceva volpe ad Erode, o ipocrita e cieco al fariseo, di quel che sia quando pregava pei suoi crocifissori. Il bene che si deve avere per fine è sempre un solo, e questo è la carità anche verso gli avversari, anche verso i nemici; ma i mezzi di esercitare la carità sono molti, talora vi ha anche quello di dire cieco al cieco, e di dir volpe a chi è volpe; come è pur troppo il caso mio, per quanto mi pare. Io non ho avuto in vista altro che di scuotere gli avversari, perchè intendano che sono deliberato di resistere fortemente, e di discoprire tutte le loro trame che vanno ancor tessendo continuamente contro l' Istituto, e che io debbo dalle loro tenebre tirare in manifesta luce. Credo che io sono nelle presenti circostanze obbligato a fare fronte, anche pel loro stesso bene. So che non farò nulla, e che le persecuzioni subdole e artificiose non cesseranno: ma si persuaderanno almeno che troveranno ostacolo a farle riuscire. Siamo d' accordo in dover fare tutto ciò che è più conforme allo spirito del divin nostro Maestro: e chi può dubitarne? Tutto il resto è inganno e pazzia. Ma io non ho inteso di dipartirmene, e vorrei morire più tosto che farlo scientemente. Continuate a pregare il Signore, perchè m' illumini se sono in errore, e non permetta giammai che altro spirito mi diriga fuor che il suo, che solo desidero ed amo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Ier sera prima di notte siamo giunti felicemente in questo seminario, dove questi ottimi sacerdoti ci accolsero colla loro solita cordialità. Non è però solo il darvi notizia del nostro viaggio lo scopo di questa mia, ma ancora il fare qualche risposta alla carissima vostra del 1 corrente: giacchè non ve n' ho potuto parlare nel mio passaggio da Milano con quella comodità che sarebbe stata necessaria, e se nulla affatto vi replicassi, sembrerebbe che io non avessi aggradita l' amorevole vostra ammonizione, o non ne facessi quel conto, che pure ne fo. Vi parlerò dunque con tutta candidezza, come sono solito e come voi volete certamente che io faccia. E in primo luogo vi dirò, che il sentimento vostro esposto con tanta sicurezza, m' incute timore, e comincio a dubitare non forse io abbia ecceduto nell' uso di espressioni biasimanti ed umilianti col mio avversario; spero che il vostro avviso mi sarà utile per l' avvenire, se non mi può più essere utile nella causa presente. Sia pur dunque vero, che io abbia errato, e voi condannatemi pure; ch' è io non intendo difendermi, sapendo troppo bene di essere capace di qualsiasi male, se Iddio non mi sostiene. Ma io crederei di ostentare una falsa umiltà e di mancare alla veracità e insieme all' amicizia, se ingenuamente non aggiungessi, che le ragioni, che voi adducete nella cara vostra, non sono punto solide, come vi sembra; e ne converrete anche voi, se vi farete sopra le seguenti riflessioni. Voi dite che non potete concepire come le ingiurie scagliate contro il prossimo possano servire di gloria a Dio; e dite certamente benissimo. Nè pur io posso concepire una tal cosa; perchè le ingiurie sono peccati, e i peccati si oppongono direttamente alla gloria di Dio. Ma le parole biasimanti e umilianti, sono esse sempre ingiurie? No certamente. Ingiuria vuol dire ingiustizia, e perciò le parole e gli appellativi di biasimo non sono ingiurie, se esprimono il vero; non è ingiuria, per esempio, il dire ladro al ladro , e perciò Gesù Cristo non ha detto un' ingiuria, quando ha chiamati ladri i venditori nel tempio. Voi dite poscia, che il nostro divin Maestro poteva usare degli epiteti umilianti come ne usò, perchè era Dio, a cui solo conviene il mihi vindictam , e nol possiamo mai noi, perchè siamo uomini che non veggiamo l' interno dei cuori. Ma se attentamente considererete la cosa, vi accorgerete che non si può dire che nostro Signore nella sua prima venuta abbia mai operato per vendetta , la quale fu intieramente da lui riserbata per la seconda sua venuta. Egli ha adoperato sempre per carità e per dare a noi esempio di essa, e non ha mai offesa la mansuetudine, nè pure quando disse stolti, tardi di cuore, ciechi, ladri, volpe , e a tutta la generazione degli ebrei nequam , e a Pietro satanasso , e tali altri epiteti: i quali tutti sono stati detti senza ingiuria alcuna, senza vendetta, e senza abbandonare la sua divina mansuetudine, e per insegnarci che talora conviene essere acerbi nelle parole e duri per carità ; il che ha luogo quando si crede che questo sia il mezzo di essere utili al prossimo, pel quale si parla. Ma per esercitare questo atto di carità, bisogna certamente essere spogli di passione umana e d' illusione; perocchè le parole forti, biasimanti ed umilianti stanno benissimo colla carità e colla mansuetudine: ma non così la passione umana e l' illusione che questa produce. Voi poi recate l' esempio di san Paolo che maladetto benediceva. E qual dubbio che questo sia dovere dell' uomo di Dio e del discepolo del Signore? Ma non si può egli benedire chi maledice, e nello stesso tempo parlargli forte e con epiteti umilianti? La civiltà non istà nella materialità esterna delle parole, ma nello spirito con cui sono proferite. Sono certo che voi ben vi ricorderete che san Paolo ebbe più volte l' occasione d' imitare Gesù Cristo anche nel dire parole acerbe contro i suoi avversari, o, per dir meglio, contro gli avversari della gloria di Dio. Al mago Elima sapete che disse niente meno che, « o plene omni dolo et omni fallacia »; e non contento di questo lo chiamò figliuolo del diavolo (imitato poi da san Policarpo, che incontrando a Roma un eresiarca, lo onorò col titolo di « primogenitum diaboli »; e non contento ancora vi aggiunse « inimice omnis iustitiae »). Nè si può dire che san Paolo era peccabile, e che avrà peccato, perchè sarebbe un manifesto giudizio temerario, e smentito da Dio stesso, che confirmò la condotta di san Paolo in tale occasione con un miracolo «(Act. XIII). » Considerate ancor l' altro fatto di san Paolo narrato al cap. XXIII degli « Atti ». Avendo san Paolo detto ingenuamente d' essere proceduto con buona coscienza , Anania, giudicandolo temerariamente, gli fece dare uno schiaffo. Allora san Paolo non dubitò di chiamarlo muraglia imbiancata ; nè con questo si può dire, che si sia vendicato, o che abbia offesa la mansuetudine o peccato contro la carità; ma più tosto imitato il Signore in un atto di zelo e in dire una verità acerba, credendola opportuna all' effetto del bene. Egli è poi vero che sono più i tratti di dolcezza usati dai Santi, che di durezza; ma ciò non vuol dire altro se non che le occasioni in cui giova usare questi secondi sono più scarse, che le occasioni in cui giovi usare quei primi. E certo in tutte le cause personali che riguardano noi o le cose nostre, dee aver luogo la mansuetudine e la dolcezza; ma nella causa della giustizia, della virtù, della verità cattolica e del bene del prossimo, qualche volta può aver luogo la durezza; la quale non è una vera durezza, perchè non viene da un cuor duro, ma anzi da un cuor tenero e mansueto, checchè del resto ne giudichino gli uomini. I tratti adunque di apparente durezza che si scontrano nelle parole e negli scritti dei Santi, cominciando da san Giovambattista che chiamava gli Ebrei razza di vipere , non si possono così facilmente imputare all' essere stati essi peccabili; ma dobbiamo piuttosto attribuirli al loro zelo, e all' adempimento di quel precetto dello Spirito Santo: « responde stulto iuxta stultitiam suam, ne sibi sapiens videatur »; il qual precetto dee potersi qualche volta mettere in pratica, se pur noi non vogliamo dire, che lo Spirito Santo abbia parlato inutilmente. Tuttavia queste cose non mi giustificano, se ho ecceduto nel mio scritto; ed io vi ripeto che non voglio scusarmene; e che, se non provano le vostre ragioni, prova però a me moltissimo il sentimento, che in voi ha prodotto la lettura del mio opuscolo; sebbene potrebbe essere che questo sentimento nascesse in voi dal non conoscere a pieno lo stato delle cose e delle circostanze, e la natura del male, a cui si deve opporsi. Ad ogni modo, nel dubbio in cui mi avete messo, io approfitterò del vostro avviso in altre occasioni; e voi vogliatemi compatire, acciocchè giunga a quello che solo desidero, a conoscere senza inganno alcuno il nostro Signore e ad imitarlo con sincerità e pienezza. Pregate anche, acciocchè Iddio benedica questi santi esercizi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Statevi certo che io non ho rancore con nessuno, ma che credo fermamente che la Verità e la Religione nostra santissima sono una cosa sola; e che le frodi e gli artifizi, se si svelano, non è che un bene che si fa alla Religione. Il nostro Dio è Dio di verità, e il Maestro nostro è la verità in persona. Ma pur troppo al mondo si ama poco la verità, e perciò poco si ama Iddio; e si crede in quella vece di onorarlo, formando dei partiti, e mettendo le apparenze nel luogo della sostanza! No, no; se noi amiamo Dio, amiamolo semplicemente e senza umani partiti: il credere che questi sono utili alla Religione, è un deplorabile inganno che ha fatto molto male alla santa Chiesa. Io credo, che voi converrete meco; perchè son certo che siete di quegli adoratori che adorano Iddio in ispirito e verità. Abbracciovi nella vivissima speranza che riceverete nel loro vero senso anche queste mie schiette parole, e non vorrete interpretarle male. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Voi avete fatto un ragionamento assai storto, quando avete argomentato che il vice7rettore, che presentemente è superiore di cotesta casa, non avesse facoltà di mutare gli ordini del rettore assente. Tenendo egli il luogo di superiore nella casa, egli può cangiare a quel modo che Iddio gli ispira essere migliore; come un superiore può sempre cangiare i proprii ordini, tostochè lo crede necessario. E qualora anco fosse vero (il che non è) che il vice7rettore non potesse cangiare gli ordinamenti del rettore assente, sapevate voi forse se il cangiamento non fosse stato accordato prima col rettore stesso o con un superiore maggiore? E poi tocca forse al suddito di fare il processo a suoi proprii Superiori? Dov' è qui, mio caro Arnoldo, la vera ubbidienza, quell' altissima virtù che contiene la vera soprannaturale sapienza? Avreste forse fatto un somigliante temerario ragionamento, se il nuovo ordine dato dal nuovo superiore vi fosse andato pienamente a genio? Esaminatevi bene: e badate attentamente, se la mancanza di quell' aurea indifferenza e di quell' annegazione che debbono professare i discepoli di GESU` sia stata forse la cagione che vi ha inalberata la mente fino a giudicare della condotta di quello che dovete considerare come vostro giudice e come indicatore dolcissimo della volontà divina. Lo stesso vi debbo dire su tutto ciò che mi venite esponendo nella lettera vostra del risentimento che avete sofferto per non essere stato ascoltato, come voi volevate, e interrotto da cotesto vostro superiore. Non sapete voi adunque ancora, mio caro Arnoldo, a quale altezza di perfezione siate stato chiamato da Dio? Non sapete ancora quale sia la scuola del nostro Signor GESUÙ Cristo, in cui vi trovate? E non intendete voi il senso profondo di quelle parole, « qui vult venire post me, abneget semetipsum »? Ah! pregate, pregate il buon GESU` che vi dia l' interno conoscimento della sua profondissima dottrina, tutta d' annegazione, di umiltà e di preziosissimi patimenti: perocchè questa dottrina non la potrete certo intendere se leggeste migliaia di volumi, non apprendendosi essa che a' piedi del Crocifisso. Quello che mi fece meraviglia, leggendo le espressioni vivaci e i ragionamenti assai umani della vostra lettera, si è che non abbiate conosciuto ancora, che i Superiori sono obbligati di esercitare i soggetti nell' umiltà, nella mortificazione, nella pazienza e nell' annegazione di ogni proprio volere; e non siate giunto a capire qual tesoro infinito di vera sapienza si contenga in queste divine virtù. Qual dubbio, che se lo capiste, ne sareste innamorato, le cerchereste giorno e notte, accogliereste lietissimo le occasioni d' esercitarle, e lungi dal risentirvi, se un superiore carico d' affari non può udirvi così pacatamente come vorreste, anzi gli sareste gratissimo, lo ringraziereste, lo preghereste di non volervi risparmiare l' amor proprio, ma anzi in ogni modo di abbassarvi, e in esso mortificarvi! Oh felici contraddizioni e mortificazioni per un' anima che ama GESU` Cristo e sospira di rendersi a lui simile il più che mai possa! Oh felice voi, mio Arnoldo, se otterrete dal Signore la grazia di tali lumi! Credete voi, che un servo di Dio, un religioso a lui consacrato, il quale non sia capace di ricevere con pace e con allegrezza nè pure di essere interrotto nel suo parlare dal proprio superiore o di non essere ascoltato, potrà mai rendersi degno ministro delle opere divine? Che farete, se or siete tanto delicato, quando si trattasse di esporvi a tutti i sacrifici e gl' insulti presso le nazioni infedeli, se ci foste mandato ad annunziarvi il Vangelo? E forse che sognate di poter resistere ai gravi combattimenti lontani, quando non siete capace di tollerare una parola, un tratto ruvido al presente, e nè pure dai vostri stessi Superiori? Oh qual enorme presunzione, qual deplorabile cecità sarebbe questa! Per carità di voi stesso, riconoscete da questa infausta esperienza, come pur troppo dentro di voi stia ancor molto da riformare, stia ancor molto da deporre dell' uomo vecchio. Umiltà, umiltà: ecco la sapienza veramente sublime! abbassamento di sè: stima e rispetto a tutti: ubbidienza pronta, allegra, indifferente, universale: ecco lo studio principale che io aspetto da voi: ecco la vera scienza dell' Istituto a cui Iddio si è degnato di chiamarvi, Istituto che professa di non saper altro se non JESUM CHRISTUM , et HUNC CRUCIFIXUM . State certo che io non avrò altra allegrezza da voi che questa di vedervi simile a Cristo: ubbidiente « usque ad mortem, mortem autem crucis »: non esaminatore de' comandi de' Superiori, ma fedele esecutore, pronto ed allegro. Ad arrivare a questo, veggo io bene che vi bisogna altresì di mettere lo studio in secondo luogo nell' ordine de' vostri affetti: nel primo luogo dee stare quella virtù che abbraccia tutte le altre, e perciò tutto il bene morale, la perfetta e mortificata ubbidienza: questa dee avere il primo seggio nel vostro cuore, e dovete riputare di aver fatto un gran guadagno quando per essa avrete dovuto lasciar lo studio e ogni altra cosa. Ricordatevi del gran detto dell' illuminatissimo S. Francesco d' Assisi: « Tantum scimus, quantum operamur ». Non vi do penitenza, perchè le vostre lettere mi fanno temere che non siate compunto del fallo. [...OMISSIS...] 1.42 Sì, mio caro in Cristo figlio, accogliete il lume della grazia, il quale non parla al cuore dell' uomo che dell' inenarrabile bene che egli è l' umiliarsi incessantemente: nè l' umiliazione è vera se non si trasfonde nel fatto. In quale fatto? Nel fatto sublime della CIECA UBBIDIENZA. Questo non opera dentro di noi che la sola parola di vita di Cristo. Beati quelli a cui la parola: « qui vult venire post me, abneget semetipsum » ha penetrato le ossa e le midolla! Ecco quali ossa esulteranno: « exultabunt ossa humiliata . Io veggo dalla cara vostra, che mi ha rallegrato, come il Signore sta ad ostium et pulsat »: spero che gli abbiate aperto, che gli aprirete sempre. State certo, che se cercate la verità e la giustizia, come grandemente confido, voi troverete l' una e l' altra nell' umiliazione del vostro cuore; perocchè abitano qui, ed altrove non vi ha di esse che il simulacro. Nè solo per amore della verità e della giustizia usate di lasciar da parte i ragionamenti interni favorevoli alle inclinazioni naturali e opposti all' ubbidienza; ma di più all' ubbidienza di Dio e all' amore della penitenza e della mortificazione sacrificate tutte le ragioni e i diritti che vi paresse d' avere secondo natura, per purissimo amor di Dio e ardore di rassomigliare al vostro dolce Maestro e Salvatore. Gustai molto il sentire che mi promettete indifferenza a tutto, anco a non istudiare, se Iddio pe' Superiori così dispone di voi. La rettitudine e la perfezione vuole assolutamente che siate disposto a fare a Dio anche questo sacrificio. E tutto farete per la grazia che vi darà valore. Ma vi arricorda di rivolgere sempre le vostre orazioni a dimandare la giustizia e la grazia di vincere interamente voi stesso. Or poichè vi credo ben disposto, darovvi anco la penitenza da voi desiderata; e sarà che leggiate e meditiate altamente le prime quattro regole del capitolo X delle Comuni , che procuriate di gustarne la bellezza, di scrivervele nel cuore, di domandare a GESU` Cristo che egli stesso ve le scolpisca. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sento con mio sommo dispiacere che in cotesta Casa non ci sia quella perfettissima unione, che è il segnale dei veri discepoli di Gesù Cristo, e perciò dei veri membri dell' Istituto, che non si propone che il discepolato del Signor nostro. Nella vostra lettera vi accusate è vero di molti difetti in generale, e in ispecie interni , ma non ispecificate nessuno di questi; anzi mi assicurate di amare i vostri fratelli e di esser sollecito della loro e della vostra perfezione. Ma nello stesso tempo mi dite che A. vi fugge da un mese e mezzo, e dite che « se vi dicono i vostri difetti, è allorquando hanno qualche cosa contro di voi, e non altramente », mostrando così di giudicare delle loro intenzioni, quando l' umiltà è il precetto di nostro Signor Gesù Cristo, che dice: « nolite iudicare ». Ah, mio caro, pur troppo è da temere che nel vostro cuore non sia ancora entrata nè l' umiltà, nè l' annegazione, nè la carità del nostro Signor Gesù Cristo! Altro è credere di amare i propri fratelli, altro è amarli veramente. Chi non sa umiliarsi ed annegare sè stesso, non sa amare come vuole Gesù Cristo. Può ben avere un' amicizia, come detta il mondo; ma non avrà mai la carità di Gesù. La prima è capricciosa ed instabile; ma questa seconda è immutabile e sempre uguale, perchè fondata in Cristo che non si muta. « La carità »dice san Paolo « è paziente, benigna, non ha gare e non pensa il male, « omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet » ». Ma voi invece di sofferire e sostenere ogni cosa, vi risentite, vi mostrate offeso; e Dio non voglia che abbiate voi stesso forse dato, se non in tutto, almeno in parte cagione al dissapore nato tra fratelli, che debbono essere in Cristo una cosa sola; perchè, come vi ripeto, nella vostra lettera vi accusate in generale de' difetti, ma nulla dite della causa di un tanto male. Ah! temo pur troppo che non abbiate inteso la gran parola, che è il fondamento dell' Istituto, che « non v' ha altro bene che la giustizia e la perfezione, e che quest' unico bene, questo tesoro si ottiene coll' abbassare, annegare e crocifiggere incessantemente sè stessi. [...OMISSIS...] . Il mio dubbio nasce da questo: se aveste ben inteso una dottrina così profonda e contraria all' inclinazione della natura, insegnata al mondo dal solo Verbo Incarnato nostro unico Maestro di verità, qual mai dubbio che vi mostrereste tutto sollecito di abbassare e impiccolire voi stesso, di darvi sinceramente il torto in ogni cosa, di cercare ne' vostri falli l' origine di tutti i mali, e di pregare e gemere e sospirare a' piedi del crocifisso Gesù, perchè egli vinca in voi e squagli ogni durezza di amor proprio, di superbia, di orgoglio, di confidenza ed opinione di voi stesso: egli che, come dice la Scrittura, fa squagliare col suo fuoco celeste le montagne stesse? qual dubbio che sareste insaziabile di umiliazioni, e fin anco d' obbrobrii, e che vi mettereste in ogni cosa, coi fatti, dico, e non colle parole, l' ultimo de' vostri compagni, considerandovi come il rifiuto e la peste della Casa? [...OMISSIS...] Ecco adunque il rimedio, mio caro: umiliarsi, ma interamente e non per metà, ma con tutta l' anima, e non con uno sterile sentimento e con più sterili parole; e perchè questa piena umiliazione dell' uomo non è che l' opera della divina grazia e misericordia che illumina e vivifica, pregare e pregare incessantemente, e con atti i più grandi di umiltà. Non occupare mai il pensiero de' difetti o torti che gli altri possano avere in verso di noi; ma occuparci unicamente delle nostre colpe, iniquità, ingiustizie, nequizie, impertinenze, sciocchezze, ignoranze, balordaggini, presunzioni, temerità, debolezze e miserie senza limite e misura; e non esser mai contenti di temere e tremare per noi stessi, di compungerci, e di sospettare dei nostri stessi sentimenti, dei nostri pensieri, delle nostre parole ed azioni, anche quando ci sembra che nulla di male sia in esse: tenendo per fermo che noi siamo stolidi e ciechi e che non possiamo mai esser sicuri di nulla, e che Iddio solo è il nostro giudice, che col suo sguardo acutissimo vede tutto, e se il nostro cuore è retto o non è retto, vede le magagne, e Dio non voglia, anche le cancrene più nascoste e più puzzolenti. Mio caro, che dunque sia finito fra voi e per sempre ogni segno di dissidio da parte vostra . Se gli altri non fanno il loro dovere, non vi affannate: affannatevi solo grandemente se non lo fate voi: di questo piangete pure e pregate, e Iddio vi ascolterà. Prefiggetevi che la vostra conversazione sia uguale con tutti , come vuole la carità e le regole nostre, senza affezioni: che il vostro tratto sia amabile, grave, senz' affettazione e sempre uguale. Se gli altri non corrispondono, dissimulate e non pretendete corrispondenza; piuttosto prendete occasione di umiliarvi in voi stesso, come di una giustizia che vi si usa. Non pretendete che i compagni vi correggano, perchè questo è contrario alle Regole (Reg. Com. 24); quantunque se lo fanno, dobbiate essere loro grato; ma vi stia ben a cuore che i compagni comunichino i vostri difetti al Superiore (Reg. Com. 22); e quando di questo vi sentirete allegrezza e verso di loro gratitudine, allora sarà segno che cominciate ad amare la virtù sinceramente . L' anima vostra dee essere aperta a' Superiori, pel canale de' quali Iddio comunica le sue grazie, e la sua volontà; e beati quelli che conoscono il prezzo infinito di quelle due parole lasciateci da Gesù: « qui vos audit, me audit »! Quanto poi alla grazia che mi domandate di essere dispensato dall' ufficio di Prefetto io ne scriverò a cotesto vostro Superiore. Gesù Cristo vi faccia sentire la verità delle cose che vi scrivo, e vi muova il cuore a praticarle, e allora solo condurrete a felice termine la santa vostra vocazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Mi ha grandemente consolato il sentire che siete risoluto di proporvi, colla grazia divina, un' ubbidienza perfetta, cioè a dire un' ubbidienza che inchiuda l' intero sacrificio di sè fino alla morte. Oh qual compendio di tutte le virtù non è questa obbedienza, qual via di renderci simili a Cristo, « qui factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis », a una morte cioè obbrobriosa, come dovuta ad uno scellerato! Ma ho poi trovato anche nella cara vostra delle cose, che sono ben lontane dalla vera sapienza spirituale. Sul detto comune « niuno è buon giudice in causa propria », voi distinguete: chi giudica sè stesso per passione, non è buon giudice; ma giudicando senza passione, ciascuno è ottimo giudice di sè stesso. Questa distinzione pecca di circolo: perchè si dice che niuno è buon giudice in causa propria? Appunto perchè niuno può essere ben sicuro di giudicare senza passione, appunto perchè la passione si nasconde agli occhi di quello che più la ha, appunto perchè Iddio nega i lumi a quelli che vogliono giudicare di sè stessi contro il giudizio dei savi e de' Superiori, punendo così la loro presunzione. Ah mio caro! I Santi diffidavano sempre di sè stessi, e volevano sempre esser diretti dall' altrui autorità e dall' altrui giudizio; e statevi pur certo che l' occuparsi a giudicare ed a giustificare sè stesso è cosa che impedisce il profitto nella vita spirituale, toglie la pace, distrugge l' umiltà vera dell' anima e vi semina la superbia, diminuisce la stima e la carità verso gli altri, e rende impossibile quella cieca obbedienza che è un tesoro inapprezzabile, e che voi stesso desiderate tanto di conseguire. Oh bella diffidenza di sè stesso! questa dee essere tanto grande quanto la confidenza in Dio, cioè infinita: questa non inganna: questa non è la scienza dell' albero vietato, ma è il frutto dell' albero della vita. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Nel tempo stesso che ho inteso con vero piacere che Ella sia pienamente contenta della cura, a cui sottomise costì la figlia maggiore, mi recò gran pena il sentire dal venerato suo foglio, che Ella stessa soffre per la malattia manifestatalesi. Io la farò raccomandare al Signore da delle anime buone, come Ella desidera, ed io stesso indegnamente presenterò le mie povere preghiere al trono dell' Altissimo, acciocchè egli benedica la cura, Le dia fortezza e consolazione in sopportarla, e faccia il tutto ridondare in aumento di meriti per l' anima sua, acciocchè diventi più pura e più bella, con questa occasione di patire, agli occhi di Dio. Infatti quantunque l' umanità se ne risenta, tuttavia lo spirito ammaestrato dagli insegnamenti e dagli esempi di N. S. GESU` Cristo, e sopratutto illuminato dalla sua grazia, sa ben conoscere che nel patimento delle malattie si nasconde una preziosissima occasione di meritare e di renderci simili al Signor nostro, praticando le virtù soprannaturali da lui praticate; e le riceve quindi come grazie speciali e segni dell' amore che Dio ci porta, poichè, come dice la Sacra Scrittura: « Iddio castiga quelli che ama ». Questi so e vedo dalla sua lettera che sono i sentimenti da cui Ella è penetrata, e però non dee sgomentarsi, se sente la ripugnanza che la natura nostra ha al patire, come quella che sarebbe fatta da Dio per godere, non essendo lo stato di patimento che una irregolarità prodotta dal peccato. Basta che nel fondo dell' animo nostro portiamo la rassegnazione e l' uniformità al volere divino, e stimiamo le cose col lume verace della fede; il qual lume ci mostra, che là appunto sta nascosto il maggior bene, dove la carne nostra peccatrice esperimenta il maggior male; e ci fa rallegrare e gioire immensamente di quello, di cui piange la carne e mena alti lamenti. Basta adunque che rivolgiamo i nostri sforzi, non già ad estinguere in noi il rincrescimento naturale dei mali, ma a far sì che unitamente con esso vi sia in noi una gioia soprannaturale, superiore e vincitrice di quello. Perciò io non ho punto dubitato a dirle in sul principio di questa mia, che sento un sincero dolore della sua infermità, perchè questo dolore secondo la natura non è male, ed esige solo di esser sottomesso a quella più alta considerazione dello spirito, che fermamente crede all' amorosissima bontà di Dio, e la ravvisa questa bontà nello stesso dolore e nella stessa tribolazione temporale, che da essa ci viene. Onde posso anche aggiungere con uguale sincerità, che, unitamente al rincrescimento del suo male, lodo il Signore che l' ha permesso per tutto quel gran bene, che egli ha destinato di cavarne. Imperocchè qual dubbio, che l' effetto di questo suo male sarà una maggior purificazione dell' anima sua e un maggior distacco dalle cose di questa terra, un' unione maggiore con Dio e ardente desiderio delle cose del Cielo, un disinganno e accrescimento di luce spirituale, un fervore nuovo e brama vivissima di spendere il tempo che le rimane di vita nelle opere della gloria del Signore, in lodarlo, e amarlo, e servirlo nei suoi prossimi? Ella offerirà quello che dovrà soffrire in isconto dei suoi debiti, e questa oblazione volontaria sarà ricevuta con gradimento: Ella avrà dei momenti in cui sentirà profondamente il proprio nulla, e farà di quegli atti di umiltà che sono la maggior giustizia che la creatura possa rendere al Creatore: Ella nelle sue angustie sentirà intimamente il bisogno di Dio, e gli dirigerà quelle preghiere, che non sanno fare se non le anime strette da ogni parte dalla tribolazione, e che giungono al cuore dell' Eterno; Ella insomma avrà occasione di far mille atti d' amor divino, che son quelli che migliorano le anime ed assicuran loro l' eterna salvezza. Tutti questi beni, che mi rappresento come il fine che ebbe il Padre celeste nel sottometterla a questa prova, sono argomenti di santa speranza e letizia; ed io fin d' ora la divido con Lei. Del resto affine di poter esercitare questi atti più perfettamente, e con maggior facilità ottenere che lo spirito pronto prevalga sopra la carne inferma, la consiglio ad aver presente ora più che mai il ricordo di GESU` Cristo: « Non vogliate pensare al giorno di domani ». Procurar di allontanare il pensiero dell' avvenire ed i timori che l' accompagnano, è già questo un grand' atto di virtù e di abbandono nelle mani amorevoli del Signor nostro: è ciò che forma il camminare semplice davanti al Signore tanto lodato nelle divine Scritture. E perchè dipingerci innanzi alla mente quello che non sappiamo e che Iddio ha voluto celarci? e perchè accrescerci il male che abbiamo coll' immaginazione di mali temuti che non sono, e che forse non saranno giammai? Non è egli meglio lasciare la cura di noi intieramente a Dio, senza volerne saper cosa alcuna, e viverci tranquilli di giorno in giorno, e di ora in ora, persuasissimi che l' amor suo verso di noi vince l' amore di ogni madre più tenera? Questa tranquillità non c' impedisce d' altronde di rivolgerci a lui incessantemente colla più filial confidenza, dicendogli non solo i nostri bisogni, ma ancora i bisogni creati dalle nostre debolezze e dalle nostre ignoranze. Poichè egli non se ne adonta; ma ascolta anche questi e ci compassiona nella sua immensa tenerezza; e o ci fortifica, o a quei bisogni stessi immaginari maternamente sovviene. Nè pure c' inquieti la vista dei propri difetti. GESU` Cristo è morto per noi; ci ha conservata fin qui la vita, perchè abbiamo tempo di lavarci nel suo sangue: la penitenza nostra non importa che sia lunga, ma che sia cordiale: la migliore poi di tutte le penitenze è la pazienza nelle croci che egli ci manda, adattandole amorosamente alle nostre spalle, ed aiutandoci a portarle. Dunque larghezza di cuore, mia veneratissima signora contessa, e dolore sì dei peccati, ma dolor confidente, dolore che si perda e trasmuti in amore: i timori per altro, che talora inevitabilmente si suscitano nell' imaginazione, nè sono peccati, nè distruggono la rassegnazione: talora non sono che nuove pene da sopportarsi come tutte le altre con ispirituale pazienza. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La partenza vostra da Stresa ha lasciato, quasi direi, un vuoto nell' anima mia. L' uomo s' abitua alle cose dolci, ed io m' ero così abituato alla cara e pia vostra conversazione, benchè sì brevemente da me goduta, che ne ho sentito, ve n' assicuro, la mancanza. La consensione pienissima nei religiosi sentimenti è pur cosa soave e confortante, massime dopo che il Signore ha detto: [...OMISSIS...] . Io non cesso d' innalzare al nostro Padre quella stessa preghiera che gl' innalzate voi: « da quod iubes, et iube quod vis ». Oh volontà dolcissima del Signor nostro, nel cui solo compimento sta tutta la nostra beatitudine! Ella poi è tanto alta, di una sapienza e d' una bontà sì sproporzionata al vedere ed al sentir nostro, che non la possiamo nè raggiungere per acume d' intelletto, nè adempire per forza di volontà; sicchè non ci resta che di pregare colla faccia in terra che ella si manifesti a noi colla sua luce, e ci avvivi colla sua vita, e si compia in noi da sè medesima colla sua efficacia in noi trasfusa. Per questo dobbiamo essere in verità fanciulletti, come ci ha insegnato il Maestro nostro, e così entrare nel regno dei cieli, che è il regno degli umili che non hanno volontà propria, ma la cui volontà è quella di Dio. In questa nostra nullità possiamo bene sperare contra speranza; giacchè la grandezza di Dio si manifesta e spiega in quelli che sono nulla; e la volontà sua si rivela e compie in quelli che hanno perduta la volontà propria, perchè non saprebbero più cosa volere, se non lo stesso voler di Dio. Io certo quando mi sento più infermo nel corpo e nell' anima, allora Iddio mi dona maggior fiducia, veggendo io che egli ha qui un' occasione maggiore dove spiegare la magnificenza della sua carità. E parmi che allora appunto quando siamo e ci sentiamo più infermi, dobbiamo dimandar cose più grandi ancora, giacchè è infinito il Signore a cui le dimandiamo, e le nostre miserie non gli possono metter limite, ma anzi dilatano i limiti della sua gloria. Teniamoci adunque pur certi, mio caro signore, che seguitando noi a dire quel FIAT, FIAT VOLUNTAS TUA, col desiderio che egli disponga di noi senza limiti , e facendo che sulla bilancia della nostra stima non pesino che i motivi della maggior perfezione morale nostra propria (il solo bene assoluto per noi), avverrà che la volontà divina sarà fatta in noi in un modo ancor più grande di quello che noi possiamo concepire, o che osiamo espressamente sperare. La santità, il desiderio della santità , tutto verrà dietro a questo: i disegni di Dio si compiranno: la legge di Dio ha una virtù nascosa: nella sua massima semplicità è infinitamente feconda: la Provvidenza è tutta rivolta in servigio di quelli, che nella legge di Dio volunt nimis , e in essa (non nei proprii disegni) ripongono tutta la loro speranza. La Chiesa non ha da sperar altro che dalla santità , a cui serve tutto. La parte dell' uomo consiste nello studio di emendare sè stesso e di ottenere la giustizia e la santità: Iddio dopo di ciò fa il resto, elegge quelli che egli si degna d' impiegare a vantaggio della sua Chiesa, li manda, li dirige, li assiste. Beati allora cotesti che non vanno da sè stessi, ma sono mandati! Sta dunque il tutto nel fare la dovuta stima della propria perfezione, e quivi trovare ogni fiducia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La dolorosa nuova della perdita che abbiam fatto della sì buona, sì amabile, sì edificante contessa d' Auzer mi riuscì tanto più amara, quanto più improvvisa. Avevo bensì udito dal M. Gustavo, quando passò rapidamente di qui, che le era tornata la febbre, ma s' attribuiva a cagione affatto accidentale, e venivo già rassicurato che stava meglio. Ma il Signore aveva disposto altramente. Egli è buono anche quando ci castiga. Per altro parmi veramente di poter dire, che il padrone è venuto nel suo giardino e n' ha colto la frutta che n' ebbe trovata matura: egli ne volea imbandire la celeste sua mensa. Vero è che per noi che l' abbiamo conosciuta e l' abbiam trattata, e specialmente per le sue indivise sorelle, per tutti i suoi congiunti, a cui s' era resa tanto amabile, e da cui era tanto amata, egli è pur questo un acerbo distacco! Mia venerata signora, mi creda che nol capisco solo, ma l' esperimento nel fondo dell' anima. Nel tempo che io mi sono trattenuto in Torino, e fui gentilmente alloggiato in casa Cavour, io m' ebbi tante prove della bontà e purità di quell' anima, ne ricevetti tanto buono esempio, e mi trovai sì fattamente legato di stima ad essa per quella sua religiosa cordialità, per quel suo candore, per quell' avidità insaziabile di sentir parlare delle cose di Dio, per la rettitudine delle sue intenzioni, e in somma per la solida sua virtù; che l' annunzio che ella mi dà del gran passo che ha fatto la buona dama in lasciandoci quaggiù per sempre, mi trapassa il cuore, e mi fa troppo partecipare all' angoscia di lei, ed a quella della duchessa di Tonner e di tutta cotesta famiglia, di cui ella era divenuta per affetto sì cara parte. Se non che dando poi luogo alla riflessione, io ben mi accorgo che quegli stessi aurei pregi della defunta che ce la fanno tanto rincrescere e piangere, debbono esserci in pari tempo un gran lenimento al dolore e un' ampia fonte di spirituale consolazione. A quanti superstiti a cui muoiono i parenti, anche dopo esser giunti al colmo delle umane prosperità, manca poi questa solida ragione di conforto, senza la quale è ben piccola ogni altra! Ecco donde io credo che potremo, mia cara signora, attingere quella consolazione vera che Ella mi domanda nella sua lettera. Quanti motivi non abbiamo, per grazia di Dio, di credere che la sua amata sorella or si trovi in uno stato migliore di prima! Noi non la troviamo ora più in quella sua stanza, in quel suo letticciuolo, accanto al quale passavamo delle ore gradevoli: ma invece abbiamo motivo di contemplarla in Cielo. Sì, quella virtuosa ha già superato il gran passo, ha già compita questa faticosa navigazione piena di pericoli e ancor di naufragi, è pervenuta alla sponda, è entrata in porto. Ella ha portata seco la vera fede, di cui le aveva Iddio fatto dono conducendola alla Chiesa cattolica, caparra della sua predestinazione; ha portato seco una vita immacolata, è stata oltracciò lungamente provata e appurata nel crogiuolo delle tribolazioni. Quando l' oro è reso tutto puro e mondo dal fuoco, allora l' artefice lo riversa nello stampo e fonde una statua preziosa, ornamento al gabinetto del re. Così noi abbiamo troppo a sperare, che il Re celeste abbia già formato della nostra cara Contessa un bell' ornamento del suo Paradiso. Non lasciamoci ingannare dalla carne: il punto della morte è penoso, è vero; ma finalmente non è che un punto, e questo punto per la defunta è passato. Hanno pur troppo ragion di temere per dopo la morte coloro, che durante la vita non hanno amato il loro Creatore. Ma quelli che lo amarono, le anime buone e rette, come la nostra Contessa, quelle che visser di fede e di viva speranza nella divina misericordia, ah! per queste fortunate che è mai la morte? Un istante di merito, un sospiro prezioso; dopo il quale ogni patire è cessato per sempre, la salvezza è assicurata, il gaudio eterno incomincia, un gaudio perfetto, di cui non possiamo formarci un' idea adeguata, ma di cui però sappiamo che l' unire insieme colla nostra imaginazione tutti i piaceri e le soddisfazioni della vita presente, tutti gli onori e le grandezze, tutti i tesori, ogni cosa insomma desiderabile, non è ancora che formarcene in mente un' idea imperfettissima; vincendo la realtà di quello stato di gaudio quanti desiderii e quante brame sappia accendere in sè l' uman cuore. Allorquando adunque l' umanità nostra si sente oppressa nel suo dolore, concediamole pure il suo sfogo, mia veneratissima signora Marchesa; ma poscia ritiriamoci dentro noi stessi, e nell' anime nostre, dov' è stata infusa la fede col santo Battesimo, troveremo insieme con questo lume divino un grande sollievo, un immenso conforto. Oh come le cose cangian di aspetto al lume della fede! oh come questo lume di soprannatural verità tramuta i mali più intollerabili alla natura, in argomenti d' indicibil letizia! E nel vero, facciamo un po' tacere in noi questa cieca nostra natura, per contemplare in quella vece silenziosi al lume di santa fede, quale di presente dobbiamo noi sperare che sia la persona amata che piangiamo perduta. La vedremo noi forse pentita e dolente di aver abbandonata la terra? Anzi ella se ne chiama felicissima, benedice quel prezioso momento, nel quale lasciò questa valle di lacrime e ruppe quei ceppi della carne che le impedivano di goder pienamente il suo Dio, e nel quale uscì per sempre da ogni battaglia di spirito e da ogni sofferenza di corpo: ella ora guarda in giù ed ha compassione di noi, che ci vede ancor nell' esilio, e sorride alla nostra semplicità scorgendo che, compassionando lei felice, spargiamo lagrime amare e meniamo lamenti di tanto suo bene. Non rifiuta ella l' amor nostro, ma vorrebbe comunicarci un po' del suo; vorrebbe comunicarci di quel lume intellettivo, col quale ella apprezza tanto meglio di noi il vero valor delle cose: vorrebbe che noi potessimo uscir colla mente e col cuore dai limiti di questo mondo sensibile, e che sull' ali dello spirito salissimo sino a lei, infino alla sua gloria, infino al suo trionfo, e che colassù, invece di gemere oppressi dal dolore, godessimo insieme con lei del suo gaudio, del suo regno che è quello di Dio medesimo. Ecco quanto brama ora da noi la nostra buona dama, innalzata al grado di regina, e di regina celeste; perocchè tal grado sortono tutti in Paradiso gli eletti. Riprendiamo adunque salutarmente, mia venerata Marchesa, la nostra umana sensitività, dicendo a noi stessi: come sarebbe assai strano che una sorella piangesse l' altra sorella perchè la vede trascelta alle nozze di un re, così egli è assai più strano che noi piangiamo sull' avventurata sorte di un' anima che abbiamo ragione di credere eletta sposa di sua Divina Maestà. Egli è vero, che ci si farà innanzi eziandio il pensiero che, non ammettendosi nella reggia del Cielo niente che porti il minimo segno di terra, che serbi la minima macchia od adombramento, ed essendo pur tanto grande la umana infermità e fragilità, possiam dubitare che anco all' anime che ci paiono le più monde, uscite di questa vita rimanga tuttavia qualche imperfezioncella a rimondare nel purgatorio. La grande stima che noi portiamo ai cari defunti non ci renda adunque meno solleciti a suffragarne le anime con sagrifizi e preghiere, e da parte mia ho celebrato a tal fine questa mattina per la cara estinta, e le feci fare altri suffragi. Ma da una parte questi stessi suffragi che rilevano l' efficacia loro dal sangue di Cristo, il cui merito è infinito, debbono esserci nuovo motivo di consolazione, pensando che il buon Dio ci ha voluto dare anche questo soccorso, prova della tenerezza che egli ha per le sue inferme creature; dall' altra possiam riflettere che le anime sante del Purgatorio, benchè patiscano, patiscono però sì volentieri, che elle non vorrebbero mai accettare il partito di ritornare su questa terra, e sono veramente felici in isperanza, onorate dagli angeli perchè sante, piene di dignità perchè spose di Dio: la gloriosa loro destinazione è assicurata per sempre, non si tratta che d' un po' di ritardo posto al sospirato momento, in cui venga lo Sposo divino, e tutte belle e lucenti le introduca nel suo talamo, a' suoi amplessi. Entriamo adunque nei sentimenti di quella che noi amiamo e che a torto piangiamo; e ci si cangierà la scena; ci cadranno piuttosto lagrime di dolce letizia per la sua felicità che di dolore per la nostra solitudine. Sarà questa una prova che le daremo di vero amore, cioè d' un amore spirituale e sublime, e troppo a lei più caro di quello della natura; chè ella non desidera oggimai da noi, se non il nostro vero bene, e si rallegra solo in veggendoci fare atti di virtù, di rassegnazione, di fortezza, di uniformità perfetta al divino volere, di rendimento di grazie a Dio che in ogni cosa è buono egualmente, e che tutto dispone collo stesso amore infinito per noi. Che se noi oltracciò piglieremo questo avvenimento, sì grave al cuore di carne, come un' occasione dataci dal Signor nostro ed un avviso acciocchè ci disinganniamo vie più delle cose terrene, e ci innamoriamo delle celesti, ed a queste ci prepariamo; oh quanto renderemo contenta quella che ci ha preceduti nel gran viaggio! Ella altro non vuole da noi, altro non aspetta, altro non ci domanda: ed altro non domanda altresì per noi al celeste suo Sposo. Che se noi dopo di ciò, dopo tutti questi riflessi, sentiamo tuttavia quaggiù un vuoto difficile da riempirsi; se di quando in quando quasi senza accorgerci, cerchiamo col cuore e cogli occhi il noto volto, le care parole, la dolce consuetudine di Colei che ci fu tolta; se all' improvviso ella ci si affaccia alla mente come per dirci che non c' è più, che non la rivedremo mai più in questa vita; e se questo pensiero che ci restituisce di nuovo in vita Colei che è morta, per rapircerla subitamente, questa imaginazione che ci mette lì come ancora esistente e parlante quella con cui eravamo soliti di passare tante ore, per dissiparci un momento dopo crudelmente la cara illusione, se tutto questo ci stringe il cuore e ci manda agli occhi delle lagrime involontarie; e che per ciò? Non inquietiamoci punto; chè non sarà per questo meno perfetta la nostra rassegnazione, men piena la nostra conformità al divino volere. Fino che viviamo in terra, noi siamo pur troppo due esseri in uno: e questi due esseri, la carne e lo spirito, combattono insieme: ma la battaglia adduce la vittoria, e la vittoria reca alla corona. E` l' orazione, mia signora Marchesa, che ci conduce alla vittoria dello spirito; come è il tempo che medica le ferite profonde, di cui si risente la carne. Godo che il mio buon abate Molinari sia stato in Torino in questa occasione ed abbia potuto colle sue parole contribuire a consolare tante persone afflitte: egli ha un cuore dolcissimo ed è pieno di quella carità, che val meglio di ogni balsamo in tali occasioni. M' imagino anche il dolore del mio carissimo marchese Gustavo, rientrando massimamente in famiglia. Sono stato sfortunato quest' anno per non averlo potuto aver meco a Stresa qualche giorno, come avrei desiderato e m' avea fatto sperare. Ora dovendo io partire in sui primi di settembre per Bergamo, dove debbo dettare gli spirituali Esercizi a quel Clero; nè posso recarmi a Torino, nè posso sperare di rivederlo a Stresa quest' autunno; ben prevedendo che in ottobre egli farà la sua solita campagna. La prego, mia venerata signora Marchesa, di presentare i miei ossequi al signor Marchese, alla signora Marchesa madre, alla signora Duchessa ed ai suoi figliuoli; e di partecipar loro ad un tempo i sentimenti dell' umana mia condoglianza per la perdita fatta, e più ancora quelli della spirituale consolazione, co' quali ho procurato di attemperare, scrivendole la presente, il mio ad un tempo ed il suo dolore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ho ricevuto le vostre due lettere da Lione e da Londra, e ho ringraziato di cuore il Signore, e l' Angelo suo, che v' abbia sì felicemente condotto. Rispondo alla prima intorno a ciò che dite sulla facilità di ricevere all' Istituto. Vi posso assicurare che il desiderio di accrescere il numero dei nostri non mi muove a ricevere alcuno. Sono contentissimo del piccol numero che ci manda il Signore: vedo anche in questo la sua sapienza e bontà; l' adoro e ne giubilo. Vi spiegherò dunque le massime che io tengo in ciò, e che sono conformi a quelle delle nostre « Costituzioni ». Io distinguo fra il ricevere in Casa e il mandare avanti nei successivi gradi dell' Istituto quelli che abbiamo ricevuti. Quanto al ricevere semplicemente, ricevo tutti quelli che domandano e che mi lasciano qualche speranza di riuscimento. Questa speranza me la danno tutti quelli che nella prima prova dichiarano e promettono di intendere e praticare le cose contenute nelle « Massime » e nel « Memoriale della prima prova », senza ch' io abbia una ragione positiva da dover giudicare assai probabilmente il contrario. Le ragioni che mi muovono ad essere così facile nella prima ammissione sono le seguenti: 1 Temo assai di giudicare temerariamente de' miei fratelli, onde inclino sempre a presumere bene di essi, e, piuttosto di fare il contrario, mi espongo volontieri ad essere ingannato, a sostenere delle spese, a patire degli incomodi. Non mi sono mai pentito di aver operato così: questa condotta mi reca una gran pace e consolazione interiore: e il Signore non ha mai permesso che gl' inganni che mi sono stati fatti, avessero ree conseguenze. 2 Parmi questa una maniera di imitare la bontà di N. S. Gesù Cristo, il quale dice: « et venientem ad me non eiiciam foras »: parole che ci mettono davanti a questo proposito le Costituzioni, e che citano pure allo stesso proposito le più celebri regole de' santi Fondatori. E` vero, che molti vengono a noi coi piedi e non col cuore; ma non posso io giudicare che facciano così, fino che non ho delle prove positive. D' altra parte, io considero la venuta a noi d' un fedele di Cristo sotto due aspetti: come mandato acciocchè forse egli diventi un membro dell' Istituto, e come mandato acciocchè l' Istituto eserciti verso di lui la carità. Essendo tale lo spirito dell' Istituto ch' egli vuol accettare, purchè possa, tutte affatto le occasioni che gli presenta la Provvidenza d' esercitare la carità; anche questa, dico io, n' è una; accettiamo dunque questo fedele di Cristo, ed usiamogli intorno tutta la carità possibile del corpo e dell' anima. Il N. S. Gesù Cristo vedrà di buon occhio che noi facciamo così con colui; e l' Istituto non ne avrà da questo scapito, ma vantaggio di buone opere. Il fratello che venne a noi sentirà intanto la parola di Dio; e quand' anco egli non riesca nostro membro, egli porterà via quel seme che forse frutterà un giorno nel suo cuore. 3 Quanto l' Istituto è alieno dal cercar cosa alcuna di proprio moto, altrettanto egli si propone di esser attento e premuroso di non trascurar niente di quel bene che gli offre la divina bontà, andando incontro premurosamente alla Provvidenza divina, non risparmiandosi in nulla per secondarla. Or se io rimando un aspirante senza esser certo che gli manchi la vocazione, non m' espongo io a rifiutare forse un dono che mi voleva fare la divina bontà? Uno dei segni della Provvidenza è la domanda del prossimo. Dunque, se un mio fratello in Cristo mi domanda, e non ho ragioni positive in contrario, io debbo accoglierlo non solo, ma affaticarmi con pazienza e carità intorno a lui, e durar tanto in questa fatica fino che mi sono persuaso che egli non può riuscire membro dell' Istituto: allora solo io sono giustificato davanti a Dio, se lo licenzio; ed anzi debbo tosto licenziarlo. Ma se l' Istituto non fa tutto quello che può da parte sua con pazienza longanime per formare quell' aspirante, istruendolo, educandolo, provandolo, non deve sempre temere di essersi da sè stesso privato di un membro che Iddio gli volea forse dare, ma gliel volea dare a condizione che sel guadagnasse col merito delle fatiche, coll' orazione per lui fatta al trono della sua Maestà? Perocchè, stiamone certi, Iddio vuole, non che aspettiamo da lui le cose belle e fatte per intero, ma che ce le procacciamo coi nostri sudori, che egli è pronto a benedire, se li spandiamo con viva fiducia in lui solo. Niente, niente trascuriamo mai per indolenza da parte nostra: « particula boni doni non te praetereat », dice la sacra Scrittura. Queste massime vorrei io seguite con semplicità da ogni Superiore dell' Istituto che ha facoltà di accettare gli aspiranti: queste sono le massime delle Costituzioni. Resta a farne l' applicazione; e questa riesce diversa nelle circostanze diverse, restando le massime sempre le stesse. A ragione d' esempio egli è certo che un Superiore può avere maggior lume di Dio da conoscere prontamente chi è chiamato e chi non è; e in tal caso, avendo maggior lume, potrà anche non accettare o licenziare più prontamente gli aspiranti che giudica inetti. Ma i Superiori debbono diffidare in questo di sè stessi, non dando luogo a giudizi suggeriti dalla fantasia, che è la madre dei giudizi temerari; ed è più sicuro il procedere per via di ragioni intellettive e positive, ricorrendo anche al giudizio dei consultori, ai quali, appunto perchè ne sento il bisogno, io sempre, quando posso, ricorro. Un' altra varietà cade nell' applicazione delle dette massime, a cagione delle circostanze esterne. Se queste fanno sì che il ricevere gli aspiranti di riuscita dubbiosa sia di troppo gran peso e danno all' Istituto, come sarebbe in Inghilterra, dove mancano i mezzi di esercitare verso essi la carità temporale e spirituale, si deve certamente restringersi a ricevere i migliori e di vocazione più chiara. Aggiungasi ancora un' altra osservazione, che m' era scappata, su quello che voi dite intorno all' ingegno ed altre doti di cui bramereste forniti i nostri. Il vero scopo dell' Istituto, che non si deve mai perdere di vista, si è la santità. Tutto il resto dobbiamo riputarlo niente affatto; e dobbiamo avere speciale tenerezza per i nostri fratelli poveri, difettosi secondo la carne, e anche idioti. Vi assicuro che a me è tanto caro il più semplice e plebeo dei nostri fratelli, purchè sia buono e santo, quanto il più dotto, di nobil lignaggio ed avente splendide doti in faccia al mondo; ed anzi più quel primo, se ha più virtù, standomi in mente l' amore che portava Gesù Cristo ai poveri ed agli spregiati. Penso dunque che dobbiamo ricevere tutti gli uomini di buona volontà nell' Istituto. E` vero che quanto più i nostri compagni hanno ingegno ed altre doti anche esterne possono fare più del bene al prossimo, se sono buoni, e possano fare andar più avanti l' Istituto. Ma io mi contento che si faccia al prossimo tutto quel bene che si può, e che l' Istituto vada avanti come può. Accogliamo tutti i mezzi, tutte le doti, tutti i talenti che ci dà Iddio; non ne vogliamo di più, ma nello stesso tempo non ne rifiutiamo nessuno; e dopo raccolti questi talenti colla maggior cura perchè niuno ce ne cada di mano, traffichiamoli tutti colla maggior industria e fedeltà possibile. Tutti i talenti vengono buoni all' Istituto, anche i più piccoli e di minor conto, perchè l' Istituto non ricusa nessun' opera di carità. Chi non è buono da fare il predicatore, sarà buono da far l' infermiere; e chi non avrà destrezza di trattare un negozio o dottrina da comporre un libro, verrà utilissimo come maestro di scuola, foss' anco per insegnare l' abbiccì. Vengo ora al secondo punto, cioè alle massime che soglio tenere, quando si tratta di promuovere gli aspiranti a de' gradi ulteriori. Quanto mi sembra di dover facilitare in ricevere gli aspiranti, altrettanto stimo bene di essere rigoroso nel promoverli ai successivi gradi. Come non ricuso nessuno senza avere delle ragioni positive per rifiutarlo, così stimo essere assolutamente necessario di aver delle ragioni e prove positive che l' alunno abbia le qualità richieste al grado, prima di promuoverlo ad esso. Se l' alunno dà delle prove positive di non essere chiamato, non indugio un solo istante a licenziarlo, tosto che abbia potuto su quelle prove formare un giudizio prudente: se non mi dà prove positive nè per l' una parte nè per l' altra, porto pazienza, procurando che gli sia usata ogni carità d' istruzioni, d' eccitamenti, fino che possa aversi un ragionevole scioglimento della cosa. Abbiamo avuto persone in Casa per lungo tempo senza che neppure siano state ammesse al Noviziato. La trafila per cui devono passare i nostri è lunghissima, come sapete, vi ha tempo di conoscerli, e possono essere sempre licenziati. Così operando, parmi che non debbano seguire quelli sconci che voi temete; e quantunque s' abbiano degli incomodi e dei piccoli danni da questo procedere, conviene riflettere, che il volere evitare tutti gl' incomodi e i danni non è un buon principio, secondo la perfezione e semplicità evangelica; ma è un principio che ha dell' umano. Siamo pazienti e longanimi, e il nostro Signore ci proteggerà. Col dirvi questo, non intendo scusare tutto ciò che è stato fatto; ma unicamente esporvi le massime che generalmente parlando ho seguìto, e che potrò seguire più pienamente in progresso. Nei cominciamenti di un Istituto vi sono molte difficoltà che non si preveggono. Raccomandiamo adunque al Signore Iddio l' Istituto, e poi andiamo avanti semplicemente e con coraggio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sentendo i vostri sentimenti, quali me li esprimete nella lettera vostra, e la fiducia che Iddio v' ispira al cuore di dovervi consecrare tutta a lui solo in servigio de' prossimi, io non dubito punto che siate chiamata, come dite, all' Istituto della Provvidenza. Queste Suore fanno appunto quello che vi proponete far voi, una rinunzia totale al mondo e ad ogni sua lusinga, un sacrifizio totale di se stesse, per servire Gesù Cristo, sposo delle anime loro, ne' prossimi, attendendo specialmente all' eterna salute di questi. Un' umiltà profonda, un' annegazione continua, una perfetta ubbidienza, una carità ardente, uno studio d' imitare in tutte le cose il divino loro Maestro: ecco a che si riducono le loro regole. Nessun' opera di carità è aliena dal loro Istituto: quella poi a cui attendono con più cura presentemente, si è l' educazione delle fanciulle povere e ricche, per le città e per le ville, dove la divina Provvidenza le vuole. Esse si compiacciono del titolo di povere serve delle serve dei poveri . Professano la povertà per imitare anche in questo Gesù Cristo, fanno i tre voti, da prima ogni anno (dopo il noviziato) e poscia di tre in tre anni, finalmente anche perpetui, se i Superiori lo permettono. Se questa adunque è la via a cui vi sentite chiamata, fatevi coraggio; chè non manca il Signore di aiutar sempre le anime, che lo scelgono per unico loro bene, signore, maestro, esempio e sposo. A lui alzate le vostre voci, domandategli la grazia di poter consumare il vostro sacrificio a imitazione sua sulla croce santissima della religione, confittavi co' tre chiodi de' sacri voti; e poi lasciate fare a lui: vi esaudirà certamente, vi aprirà la via soavemente, sarete consolata: ma quando? Questo egli solo lo sa: a voi appartiene solo il desiderare, il pregare, il sospirare notte e giorno verso lui con rassegnazione e tranquillità. Egli vi ha dato un buon padre terreno, che può anche farvi da padre spirituale. Qual grazia non è già questa! Aprite tutto il cuore con vostro padre. Appena che gli avrete date prove della vostra solida virtù; appena che si sarà convinto che non è il vostro un fervore passeggiero, ma una vera vocazione divina; son persuaso, che non avrete più bisogno della mia mediazione: egli da se stesso vi condurrà a me, ed io vi riceverò fra le povere serve e felici spose del Signore. Rassegnazione adunque e preparazione al gran passo. Conviene prepararvisi con tutta la maturità, la considerazione, l' orazione, il santo affetto, la pratica d' ogni virtù. Io so che lo farete, e perciò non dubito punto del buon esito: MARIA Santissima, a cui sono tanto devote le Suore della Provvidenza, v' accoglierà nella sua famiglia: la farò pregare anche a questo fine. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Noi dobbiamo guardarci assai di non far torto a quell' infinita bontà e misericordia di Dio, che vince gli ostacoli stessi che noi poniamo coi nostri mancamenti e peccati alle copiose sue grazie; quando noi facciamo due cose, cioè SPERIAMO e PREGHIAMO. Ah dolcissima speranza del mio Signore che niuno confonde! oh preghiera potentissima! Io non vorrei che vi lasciaste dall' inimico rinserrare mai il cuore, quando Iddio anzi vuole che lo dilatiamo, perocchè « viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum ». DILATAZIONE adunque di CUORE: ecco ciò che sopra ogni altra cosa vi raccomando. Noi siam cattivi, ma Iddio è INFINITAMENTE buono. Oh quanto poco si pensa a questa parola INFINITAMENTE! Se ci si pensasse, non cadrebbero a terra tutti i nostri timori? non ci terremmo sicuri della vittoria sopra tutti i nostri nemici? non diremmo: « si exurgat adversum me praelium, in hoc ego sperabo »? Non ci lasciamo adunque ingannare dall' inimico che tende talora a spargere la tristezza nei nostri cuori, angustiandoli col pretesto talora di compungerci dei nostri peccati. No, la compunzione nostra sia sempre congiunta ad una INFINITA SPERANZA; perchè questa è ragionevole, e perchè Dio la gusta dalle sue creature. Guai a confidare in noi stessi! ma quanto al nostro Dio non ci stanchiamo di dire: « In te Domine speravi, non confundar in aeternum », e di ringraziarlo: « Quoniam tu Domine singulariter in spe constituisti me ». Chi spera è forte, chi spera può tutto; quest' è àncora immobile, quest' è arma invincibile. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ella m' onora colle sue domande più ch' io non merito. Non le direi certamente cosa ch' ella non sappia: e tuttavia per ubbidire a quanto m' ingiunge nella cara sua non tralascerò di accennarle, che a mio parere il maggior studio a cui dee applicarsi chi predica a' giovanetti, si è quello di far loro ben intendere la religione, che sol intesa è amabilissima per sè stessa. A tal uopo è più necessario che non si creda, che l' istruttore religioso studi assai prima di tutto per intenderla a fondo egli stesso: il che non è piccol affare trattandosi d' un sistema ampiissimo di dogmi misteriosi e di precetti sublimi. Forse quel volume che io ho stampato col titolo di « Catechetica », le potrà somministrare qualche concetto. Ma dovendo ella, come sento, spiegare il Vangelo, non potrà osservare un ordine di connessione nelle materie. In tal caso ogni ragionamento fa quasi un tutto da sè; e può egli solo esser chiarissimo e semplicissimo. La somma chiarezza e semplicità dello stile fa poi luogo all' affetto; e in niun esemplare si dee più guardare che nello stile del Vangelo. Poche idee alla volta, ma sublimi; pochi sentimenti, ma generosi. Oh quanto bene risponde a questi il cuore del giovanetto! Non ha bisogno che d' intendere la verità per amarla, che di vedere la virtù per eleggerla. Ma di solito la verità si copre di troppe vesti, e volendola troppo spiegare, s' oscura; la virtù poi si falsifica per troppe distinzioni umane, e la s' impiccolisce sperando così di renderla agevole. E pure l' animo innocente anela più tosto d' ergersi a volo, che di serpeggiare per terra. Se nel cuore d' un giovanetto si giunge a inserire un sentimento nobile ed elevato, la riuscita di lui può dirsi assicurata. E` dunque un errore quello di sdolcinare soverchiamente l' austerezza della virtù, e di abbassarne l' altezza: privata della sua eccellenza non più esige un santo entusiasmo; spoglia della sua maestà non riscuote più ammirazione, nè attira a sè l' uomo creato per l' infinito. Io vorrei che si parlasse ai giovanetti sempre in modo come si trattasse di farne degli eroi. Con questo pensiero non ha a far niente lo stile gonfio, ampolloso, concitato: anzi un tale stile produce l' effetto contrario. Il grande e lo squisito dee consistere nelle cose; del resto la dote precipua delle parole e mai studiata abbastanza, nel caso nostro è la chiarezza: chiarezza di elocuzione, chiarezza di pensieri, chiarezza d' ordine. Il conseguimento d' una dote che par sì facile costa sudori, meditazioni, prove e riprove, pertinacia di tentativi: è uopo che s' abbia in testa il tipo della perfezione, e nell' animo la volontà risoluta di conseguirla. Cose scritte per la gioventù ve ne sono tante, e molte di buone; io difficilmente potrei indicargliene di quelle ch' ella non conosca; e conoscerà senza dubbio anche il libricciuolo intitolato « La gioventù dabbene » stampato dal Pogliani in Milano. Vi ha in que' sei discorsetti un cotal principio di ciò che io voglio dire, ma ancor lontano dal perfetto. Del resto, come le dicevo, io non ho a dirle che quelle cose che ella già sa, e che d' altra parte non si possono restringere in breve lettera. Presenti, la prego, i miei cordiali saluti a' Padri Villoresi e Dalla Via, e i miei ossequi al M. R. P. rettore di cotesto collegio; e mi raccomandi al Signore. Godo di sentire, che i due valorosi giovani Dandolo e Gazzola approfittano, e benchè non li conosca, ho già cominciato ad amarli sulle sue parole. [...OMISSIS...]

Nanà a Milano

656180
Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Nanà sorridendo, cogli occhi abbassati, che si sarebbero fin detti modesti in quel punto, faceva saltar sul palmo la nappetta d'un cuscino che le stava accanto. E non rispondeva. Essa cominciava a trionfare e assaporava con voluttà il piacere della vittoria. Enrico ripetè: - Non volete? Nanà gli stese la mano, e rispose: - Ci si può riflettere. E lo piantò là, perchè... forse... qualcuno l'aveva chiamata. Nessuno assolutamente l'aveva chiamata. Tutti però segretamente la reclamavano. La conversazione, dove non era lei, languiva. Non per quello che ci mettesse lei, ma per quello ch'essa, senza volerlo, ispirava agli altri. Un ah! generale fra gli uomini l'accolse dunque quand'ella si staccò da Enrico e venne a sedere fra la Romea e la grande coquette prémièr rôle rôleAllora la conversazione si rifece generale. - L'assenza dell'oggetto che si ama - sclamò Bonaventuri che non faceva segreti delle sue ammirazioni per Nanà - l'assenza dell'oggetto amato fa lo stesso effetto del vento sulle fiamme: spegne le fiamme deboli e aumenta le forti. - Che filosofo! - Non sono io. È Larochefoucauld. - Voleva ben dir io! - Che cos'è l'adulterio? Ne ho letta una definizione nuova non so dove... aspettate... Non mi ricordo. L'adulterio è una bancarotta fraudolenta della moglie a cui il marito resta sotto col proprio capitale. Va bene? - Sì, e poi? - Soltanto che invece di essere disonorato chi ha fatto fallimento resta disonorato chi ci resta sotto. Verso le undici venne il thè. thè.Nanà aveva dichiarato a' suoi amici che avrebbe recitata la sua scena e cantati i couplets dopo il thè, per tenerli tutti riuniti fino ad ora tarda. Nel porgere la tazza ad Enrico gli disse sotto voce: - Ora mi vedrete nel mio costumino di Parigi, pettinata alla greca; e se mi direte che ho proprio una testa artistica forse... forse mi deciderò a venire da voi. Di lì a poco Nanà entrò nel suo penetral più sacro a travestirsi. Comparve mezz'ora dopo in un delizioso costumino di fantasia che faceva risaltar in modo mirabile le forme opime. Un applauso entusiastico l'accolse. Battevan palma a palma anche le donne, che pur fremevano di rabbia nel loro interno. Nanà era così innamorata di sè e degli applausi che non s'accorgeva o non pensava al dolore che essa procacciava alle proprie amiche, alle quali toccava assistere a' di lei trionfi intimi. Nessuna donna è più nemica di colei che si mostra seducente e adorata in sua presenza. Guardate in una festa da ballo, dove compaia a un tratto qualche astro, e vedrete le occhiate bieche, e gli sguardi di traverso, in tutte le altre donne che prima comparivano sciolte, sorridenti e felici. La Romea, per esempio, che si sapeva tanto diseredata di curve, arrabbiò come una dannata al mostrarsi di quella maravigliosa figlia di Eva, sfolgorante di gioventù e di bellezza, e si sentì presa a un tratto da un'immensa voglia di piangere. Fu la sola che non ebbe l'ipocrisia di battere le mani. Ben inteso che le altre fingevano di battere; ma accostavano adagino palma a palma per non aumentar il fracasso. Gli uomini invece pareva volessero impazzire di gioia e di ammirazione. E avevano perfettamente ragione. Chi non si scuote all'idea della bellezza artistica è un ciuco. Inebbriati da quella apparizione essi perdevano perfino la misura delle manifestazioni decenti e scordavano appunto che in mezzo a loro stavano sette infelici creature, che sorridendo si mordevano le labbra a sangue e soffrivano per quegli omaggi e per quei gridi, come se ricevessero in viso le più mortali ingiurie. Ma è così. Certi giovinetti non sanno dissimulare e mentire se non precisamente quando farebbero invece assai meglio a dire la verità. Un "zitto, silenzio, basta" s'elevò da ogni parte quando Nanà fè' cenno che avrebbe incominciata la scena. Ella si mise dunque a recitare abbastanza male un monologo che la si era fatta scrivere per un'occasione consimile, tutto pieno di motti a due tagli e di idee lascive. Gli spettatori, tranne O'Stiary, giubilavano. Le donne facevano mostra qualche volta di scandolezzarsi onde aver il diritto di dire poi di Nanà cose oscene, per ringraziarla del pranzo. Quel monologo era una birbonata qualunque, intermezzato da couplets, che Marliani accompagnava al piano. Gli applausi scoppiavano fragorosi, pazzi, ad ogni refrain. refrain.E le donne intanto sussurravano sottovoce agli uomini di condurle a casa. Una aveva l'emicrania, l'altra male al petto. La Romea protestava mal di denti. Non c'erano, che la buona Giannella e la signora Fanny, che avessero pigliato il loro partito e che lodassero schiettamente l'artista e la donna bella. Appena ebbe finito l'ultimo ouplet, Nanà fuggì via con un fare modesto ed infantile, che piacque immensamente agli uomini, e che fece sempre più bestemmiar le donne, in petto. Marliani tentò da balordo di seguirla verso la stanza da letto, ma Nanà gli chiuse bravamente l'uscio in faccia. Questo tratto sollevò una salva sterminata di nuovi applausi, e un ridere saporito e grasso in tutti quanti. - Che ne dite? - domandò Nanà a Enrico tornando nel salotto vestita come dianzi. - Voi siete adorabile, e io vi amo come un pazzo - disse Enrico. Nanà trasse un lungo e tacito respiro dal petto. - Verrete voi nel mio studio? - Domani alle due aspettatemi.

Pagina 182

PROFUMO

662639
Capuana, Luigi 1 occorrenze

I rulli dei tamburi, abbassati di tono, ora si sentivano più distinti, a inter- valli, simili a quelli d'un convoglio funebre. A ondate, arrivavano e le lamentose note della marcia funebre della Jone, suonata dalla banda musicale dietro il corteo, e il salmodiare dei preti che non si vedevano ancora, perché la via faceva gomito presso la chiesa del Rosario. All'inoltrarsi dei tamburini, un gran solco si apriva tra la folla. Nino il macellaio, Beppe l'orbo, facchino di piazza, e maestro Mario Patruzza, infagottati con le belle toghe di seta bigia, il cappello schiacciato, della stessa stoffa, pendente dietro le spalle, la cigna di cuoio con piastre di rame a traverso il petto e i tamburini su l'anca sinistra, proce- devano alteri, rullando assieme, con lunghe pause, tristamente; e la gente rideva, quando qualcuno li apostrofava al pas- saggio. "Ecco la confraternita del Santissimo Sacramento" diceva a Eugenia la signora Bisicchia. "L'altra che segue è del Santissimo Rosario; si distingue per la mantelletta verde. È la più ricca; ha tanti beni! Se li gode il cassiere." "Incappucciati a quel modo, con quei due buchi neri sul viso, i confrati mi hanno fatto sempre paura" interruppe Giulia. "Come sono brutti!" "Ecco la confraternita dei nobili" indicava la signora Bisicchia. "Tutti in bianco." "Dei nobili spiantati, bisogna dire" soggiunse Giulia ridendo. "La famiglia del barone Ciocia ha il privilegio di por- tare il gran lanternone d'argento dietro il Santissimo. Il vecchio barone, che si regge appena su le gambe, si farebbe ammazzare prima di cederlo a un altro. Reggono il lanternone da padre in figlio. Lo impegnerebbe volentieri, per desi- nar meglio un paio di giorni!" E la processione continuava a sfilare, lenta, interminabile; stendardi e confraternite, e poi stendardi e confraternite, e stendardi e confraternite ancora; un riverente silenzio si spandeva tra la folla. Ora venivano avanti le Congregazioni del- l'Immacolata e di San Rocco, precedute dai loro pennoni; le Società dei grossi massai, dei contadini, degli operai di ogni mestiere, tutti in abito scuro, gravi di portamento, con corone di spine in testa e in mano torce con lanternini di carta, su cui trasparivano rozzamente istoriati i vari attrezzi della Passione: tre chiodi, il martello, la scala, la spugna dell'aceto e del fiele, o il velo della Veronica, o la croce soltanto. "E i flagellanti?" domandò Giulia alla signora Di Maggio. "Seguono il Santo Sepolcro. Ecco le bandiere!" Una fitta d'ampie bandiere a due colori, bianco e rosso, bianco e cilestrino, rosso e giallo, s'inoltrava, ondeggiando all'aria in fondo alla via; pareva che i varii colori si azzuffassero, quando il venticello le agitava. "Questo è niente!" rimpiangeva la zia Vita. "Che concludono le sole bandiere? Una volta c'erano anche i giudei con gli elmi e le corazze, montanti su cavalli riccamente bardati. Allora, sì, era uno spettacolo degno d'essere veduto! Parlo di avanti il quarantotto; me ne ricordo appena." "Ruggero sbadiglia dalla noia" disse Giulia a Eugenia. "Avrebbe voluto andarsene con gli amici, a divertirsi tra la folla. Papà gli ha ordinato di rimanere in casa con noi." Eugenia si voltò dalla parte indicata. Ruggero e Patrizio si erano rincattucciati nel balcone della camera appresso, dove sedevano la signora Geltrude, Benedetta e il dottor Mola. Il giovanotto sorpassava Patrizio con l'intiera altezza della testa folta di capelli tagliati a spazzola. Accortosi della mossa di Eugenia, e supponendo ch'ella volesse dire qual- che cosa a Patrizio, gli accennò col gomito. "Mi vuoi costì?" domandò l'Agente. Eugenia rispose di no con un segno del capo, sorridendo; e si voltò subito a continuare a guardare la processione. Però quella florida figura di giovanotto, forte, dalle spalle larghe, dalla bruna tinta del volto, dai baffetti neri che s'in- curvavano appena, quantunque continuamente tormentati dalle dita ora dell'una ora dell'altra mano; quella figura, al cui confronto la persona di Patrizio si rimpicciniva e invecchiava, le rimase per alcuni istanti dinanzi agli occhi, quasi a ve- larle lo spettacolo della via. Un po' disordinatamente, già sfilavano là sotto le bandiere di seta a due colori, portate da ragazzi che ne reggevano le aste: una cinquantina. Appresso, in lunghe file, chierici e preti, in cotta e cappa nera, con la torcia in una mano, il pol- lice dell'altra agganciato alla borchia d'argento della cappa. Le loro lamentazioni a canto fermo si confondevano con lo strosciar della stoffa di seta delle bandiere sbattute dal vento. La folla, che s'era inginocchiata scoprendosi il capo al passaggio del baldacchino di broccato, sotto cui il parroco portava solennemente la reliquia della croce, si levava subito in piedi, agitata dalla curiosità, con vasto mormorio. E su quella marea di teste umane sorgevano qua e là braccia accennanti con la mano, e bambini levati in alto dai parenti per- ché vedessero anch'essi il Cristo morto e i flagellanti. Per alcuni minuti la processione fu interrotta. Al rumore secco della traccola scossa dal sindaco laggiù, laggiù, la barella dorata del Cristo morto, a foggia di tumu- lo, barcollava con i lanternini che la circondavano, quasi sornuotante su quel fiume di teste; e non riusciva ad aprirsi un passaggio. Gran rumore, misto di voci urlanti e di scrosci, come di catene sbattute insieme, sboccava dalla cantonata dove la via faceva gomito ... "I flagellanti! I flagellanti! Eccoli! Eccoli!" Pareva che la processione si fosse cangiata in tumulto. "Papà è là. Guardi!" disse Giulia a Eugenia. "I carabinieri tentano di far largo ..." "Che confusione!" esclamava la zia Vita. "Non c'è più rispetto per le cose sante." Il rumore della traccolina s'udiva di nuovo, prolungatamente. Eugenia vedeva il braccio del cavaliere levato in alto, con la mano guantata che agitava la traccolina per dare il segnale. Ma i confrati, che portavano a spalla il Santo Sepol- cro, reggendosi a le forcine su cui poggiavano le aste della barella nelle frequenti fermate, dovevano arrestarsi a ogni due passi, impediti dalla folla. Intanto la processione si riannodava; la gente, sospinta dai carabinieri, lasciava libero il passaggio. Il Santo Sepol- cro, con l'armatura di legno dorato, guarnita di grandi cristalli, veniva innanzi preceduto dai mazzieri del comune, dal segretario, dal sindaco che straccolava a ogni ventina di passi e si voltava a guardare verso i terrazzini di casa sua. Il tumulto aumentava. "I flagellanti! I flagellanti! Eccoli! Eccoli!" A due a due, ignudi, ricinti i fianchi da larga fascia bianca di tela, essi s'avanzavano, battendosi le spalle con le di- scipline laceranti, urlando: "Pietà, Signore, pietà! Misericordia, Signore!" Su per le braccia abbronzite e le vellose spalle, larghe righe di sangue scorrevano; piaghe, già nere pei grumi forma- tisi lungo la via, si riaprivano sotto i colpi. "Misericordia, Signore! Pietà, Signore, pietà!" E le discipline agitate per aria, incessantemente colpivano quasi con rabbia, aprendo nuove ferite, facendo sprizzare altre righe di sangue su quei corpi che già mettevano orrore. Coi capelli in disordine, con la faccia sanguinolenta per le lacerazioni prodotte alla testa e alla fronte dalla corona di pungentissime spine conficcata nella pelle e scossa dall'agitarsi di tutta la persona ricurva, essi non sembravano più cre- ature umane, civili, ma selvaggi sbucati improvvisamente da terre ignote, ebbri di sacro furore pei loro riti nefandi, co- me diceva in quel punto a Patrizio Ruggero indignato. "Poveracci! Non si reggono in piedi!" esclamò Eugenia. Non avrebbe voluto guardarli; ma quell'orrore l'attirava, facendole scorrere un gran brivido per le ossa. Giulia aveva le lacrime agli occhi. La zia Vita piangeva a dirotto, ripetendo sommessamente: "Pietà, Signore, pietà! Misericordia, Signore!" Così faceva ad alta voce, sul passaggio, parte della folla commossa; mentre parte, urtandosi, sospingendosi, insul- tandosi, si rovesciava dietro la banda, che in coda alla processione continuava a suonare la marcia funebre della Jone; ma la musica si sentiva appena, sopraffatta dal tumulto delle varie voci e dal sordo rumore delle discipline di ferro, sbattute dai flagellanti su le loro spalle sanguinose. "Che cosa è accaduto? Donna Geltrude si sente male?" disse Giulia, vedendo Patrizio, Ruggero e il dottore agitarsi premurosamente sul balcone. Eugenia accorse seguita da Giulia e dalle signore Vita e Di Maggio. "Si sente male?" domandò a Patrizio. "Un po' di intorpidimento alle gambe. Lo star seduta così a lungo, forse ..." "È malaticcia, povera signora!" diceva Giulia alla zia. "Ha un viso che non mi piace. Non vi sembra, dottore?" domandò la signora Di Maggio. "Zitta!" rispose il dottor Mola, mentre tirava in disparte Ruggero: "La portantina! Manda qualcuno dai Gennaro che la prestano volentieri. Si tratta di paralisi! ... Non dir nulla ..." E tornava subito presso la signora Geltrude. Due volte Patrizio aveva tentato di farla camminare, sorreggendola, ma invano. Ella lo guardava senza poter parlare; e pareva che tutta la potenza vitale del corpo le si fosse raccolta negli occhi. Anche le braccia cascavano inerti, appena Patrizio le rilasciava. "Dottore! Dottore che è mai?" "Niente di grave, forse ..." balbettò il dottore. "Non può rimanere qui ..." disse Patrizio. "Ed era venuta così volentieri!" Eugenia tremava come una foglia, quantunque non avesse ben capito di che cosa si trattasse; e indistintamente mor- morava: "Oh, Madonna santa! Oh, Signore!"

Racconti 1

662665
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

- Il signor Van-Spengel si lasciò spazzolare da capo a piedi, aggiustò tranquillamente gli occhiali che gli si erano abbassati fino alla punta del naso, mise in testa la tuba, prese in mano la mazza e disse alla serva, che andava a far colazione dal suo amico Goulard. Il Goulard intanto aspettò fino al tocco, ma invano. Il signor Van-Spengel non si fece vivo in tutta la giornata. Giudichi il lettore se sarebbe stato possibile indovinare, anche dalla lontana, quello che gli era accaduto. Il signor Van-Spengel, senza nemmeno entrare nelle stanze dell'ufficio, sceso in fretta le scale e attraversato il vicolo dei Roulets era riuscito a metà della via Grisolles. Il conte De Remcy, maggiore dei granatieri, che lo incontrò poco piú in là del Cafè de Paris e lo fermò alcuni minuti, ribadisce anche lui il racconto della serva intorno alla perfetta tranquillità d'animo del suo amico. Il signor Van-Spengel era (e come no?) vivamente impressionato dal caso di quello scritto. Fra le poche parole scambiate col De Remcy ci furono anche queste: "Van-Spengel: "Credete voi all'assurdo?" De Remcy: "Anzi!" Van-Spengel: "Ebbene, questa sera vi dirò una cosa che vi farà strabiliare". De Remcy: "Perché non ora?" Van-Spengel: "Ho fretta"". Il dottor Croissart riferisce altre quattro testimonianze di persone che fermarono il signor Van-Spengel lungo la via Grisolles; sono dello stesso tenore. Dalla chiesetta Saint-Michel fino allo sbocco della via Grisolles nella via Roi Léopold il signor Van-Spengel fu accompagnato dal signor Lebournant, sarto, che tornava a raccomandargli un suo affare. Fu questi che notò per primo un istantaneo e profondo sconvolgimento sul volto del direttore in capo della polizia. - Ah, mio Dio! Ah, mio Dio - avea esclamato il signor Van-Spengel. Sboccando dalla via Grisolles nella via Roi Léopold, avea visto una gran calca di gente presso il palazzo del visconte De Moulmenant, precisamente innanzi al portone della marchesa De Rostentein-Gourny. "Però - riferisce il signor Lebournant - quel turbamento gli durò poco. Io lo guardavo con sorpresa. Non era mica naturale che un uomo della sua fatta si turbasse per l'assembramento di un centinaio di persone. Sospettai che ci fosse per aria qualcosa di grave. La prima idea che mi si affacciò fu quella di andar a chiudere il mio negozio. Intravvidi le barricate.I ""Permettete", mi disse torcendo a destra per la via Bissot. Lo tenni d'occhio. Ritornò poco dopo con due poliziotti e insieme ad essi s'indirizzò verso la folla. Mi mescolai fra i curiosi. Tutti si fermavano domandando di che che si trattasse. Se ne dicevano di ogni colore". (pag. 7@). 7). Riconosciuto il direttore in capo della polizia, la folla si aperse per lasciarlo passare. Una scala era appoggiata al terrazzino centrale del palazzotto Rostentein-Gourny; e quando il signor Van-Spengel giungeva davanti al portone, la persona che discendeva diceva ad alta voce: - Hanno il sonno duro -. Il signor Van-Spengel impallidí. Il riscontro del suo scritto colla realtà era cosí evidente che anche una testa piú solida della sua ne sarebbe stata sconvolta. Bisogna dire che il suo carattere fosse proprio d'acciaio, se poté far violenza a se stesso e padroneggiare fino all'ultimo la sua crescente emozione. Lascio la parola al dottor Croissart. "È difficile - egli scrive - indovinar con precisione ciò che accadeva nell'animo del signor Van-Spengel alla terribile conferma data dai fatti alla sua visione di sonnambulo. Il giudice signor Lamère, appena arrivato sul luogo notò che l'aspetto del direttore era nervoso. Guardava attorno un po' stralunato; pacchiava colle labbra asciutte, impaziente. Era di un pallore mortale, quasi cenerognolo; respirava affannato. Il signore Lamère gli rivolse piú volte la parola senza spillarne altra risposta che uno o due monosillabi. Entrarono. Alla vista del cadavere del portinaio, il signor Van-Spengel lasciò sfuggire un "oh!" prolungatissimo, e si passò piú volte la mano sulla fronte. Nel salire le scale sudava. Cavò fuori ripetutamente il fazzoletto per asciugarsi le mani ed il viso. Nel salone di ricevimento si fermò immobile, davanti il cadavere della marchesina Rostentein-Gourny, tenendosi la testa con tutte e due le mani. Il signor Lamère si affrettò a chiedergli se si sentisse male. "Un pochino", rispose. E andò verso la finestra che dava sulla via Roi Léopold. Quando il giudice lo invitò ad assistere alla perquisizione, il signor Van-Spengel rispose secco secco: Fate. E rimase assorto nei suoi pensieri, a capo chino, colle mani chiuse l'una nell'altra, appoggiate al mento ed alle labbra, e le spalle rivolte alla via". (pag. 130@). 130). Il dottor Marol lo trovò in questa posizione. Ma poco dopo, quand'ebbe terminato l'esame della ferita della marchesina, vide che il signor Van-Spengel, coi gomiti sul davanzale della finestra e il mento sui pugni, guardava fisso tra la folla. Stette cosí forse una mezz'ora. Il giudice signor Lamère, compiute le sue indagini, gli si era accostato per consultarlo sul da fare. Egli credeva che i servitori, che almeno qualcuno dei servitori avesse avuto parte in quel misfatto: - Gli pareva prudente far arrestare senza indugio tutte le persone di servizio. I particolari del delitto mostravano quattro e quattro fa otto che lí c'era lo zampino di qualcuno di casa. - Un momento - rispose il signor Van-Spengel dopo alcuni istanti di riflessione. Andò lentamente a sedersi sul canapè nel lato opposto della camera, trasse dalla tasca del soprabito alcune carte piegate in lungo, saltò parecchie pagine e si mise a leggere con grande attenzione. In quel punto l'aspetto del signor Van-Spengel aveva un'espressione stranissima. Gli abbondanti capelli grigi che gli rivestivano la testa erano arruffati, quasi irti per terrore. Il luccichio dei cristalli degli occhiali, ogni volta che alzava il capo quasi cercasse una boccata d'aria, accresceva il sinistro splendore della pupilla e del volto. Le rughe della sua fronte parevano tormentate da un'interna corrente elettrica, e comunicavano la loro violenta mobilità a tutti i muscoli della faccia. Le labbra si allungavano, si contorcevano, si premevano l'uno sull'altro mentre i piedi sfre gavano continuamente sul tappeto, poggiando con forza. - Tutti i direttori di polizia sono cosí? - chiese il signor Lamère al dottor Marol. - Che volete ch'io ne sappia? - rispose questi piú stupito di lui. Passarono dieci minuti. Il signor Van-Spengel si slanciò verso la finestra ove il signor Lamère ed il dottor Marol erano rimasti ad aspettare. - Ebbene? - domandò il primo. - No - rispose - arrestereste degli innocenti. Attendete. Lasciatemi fare. Maresque! Poisson! - Le due guardie erano accorse subito. - Con permesso, fatevi in là - disse al dottore. - Affacciatevi con me, ad uno ad uno, - seguitò rivoltandosi alle guardie; - fingete indifferenza. Attenti alle mie indicazioni. Occhio desto! E si fece alla finestra col Maresque. Il signor Lamère sentí questo dialogo: "Van-Spengel: "Vedi tu quel biondo accanto all'uscio del gioielliere Cadolle?" Maresque: "Quello dall'abito bigio e dal berretto alla polacca?" Van-Spengel: "Bravo! Fissati bene in mente la sua figura." Maresque: "Lo riconoscerei fra mille, signor direttore"" (pag. 250@). 250). Rientrarono. - Ora te, Poisson! E ripeté coll'altra guardia la medesima cosa. In quel punto il signor Van-Spengel non pareva piú l'uomo di pochi momenti fa. Era calmo e impartiva gli ordini colla serietà delle persone del suo mestiere. - Via! - esclamò all'ultimo, sospirando. - Usciremo dal vicolo Mignon; qui c'è tanti grulli curiosi! Tu, Maresque, ti accosterai al nostro biondino senza far le viste di badargli. Son sicuro che il colore della tua divisa gli urterà subito i nervi. Prenderà il largo e tu dietro, da vicino, senza aver l'aria di pedinarlo. Poisson verrà con me. Signor dottore, signor giudice, fra un quarto d'ora uno degli assassini sarà qui. Abbiate la pazienza di attendere -. - Che dica sul serio? - chiese il giudice al dottore. - Ma! - rispose questi, stringendosi nelle spalle. - Ha detto il negozio del Cadolle, non è vero? - Sí, il gioielliere: eccolo lí! - E tutti e due si affacciarono alla finestra tra increduli e curiosi. Piú di tremila persone stavano accalcate in quel piccolo tratto di via, incatenate dalla curiosità di conoscere i resultati delle indagini dell'autorità giudiziaria, coi visi in alto, verso le finestre del palazzotto Rostentein-Gourny, colle immaginazioni riscaldate dai pochi e contradditori particolari che andavano attorno. Il Maresque si era fermato piú volte, prima di accostarsi verso il negozio del Cadolle. Il biondo indicato dal signor Van-Spengel, rimasto tranquillo per qualche minuto, faceva due passi, poi tre, poi dieci verso la piazzetta Egmont, e spariva senza voltarsi indietro. Il Maresque spariva dietro a lui. Il signor direttore e l'altra guardia li seguivano a dieci passi di distanza. Piú in qua della piazzetta Egmont Poisson si staccava dal direttore. Dopo questo, il giudice e il dottore non videro piú nulla. La loro sorpresa era immensa. Il biondo, secondo l'espressione del signor Van-Spengel, si era sentito urtare i nervi dalla divisa del Maresque ed aveva preso il largo con una indifferenza da ingannare il piú astuto. Sui trent'anni, con lunghi e folti baffi rivolti in giú, occhio ceruleo, limpido ma irrequieto, il biondo era uno di quegli esseri sociali che non si sa mai con certezza a quale classe appartengano. Indossava, colla eleganza che vien dall'abitudine a una vita molle e disoccupata, un vestito di fantasia, un'accozzaglia di fogge diverse, dal berretto polacco alla scarpa parigina, dalla giacchetta ungherese al pantalone inglese e alla cravatta americana; ma quest'accozzaglia non stonava armonizzata dal suo bizzarro portamento. Nessuno, a vederlo, avrebbe sospettato in quel giovane il menomo indizio di un assassino. Lo si sarebbe preso facilmente per un artista un poco matto. Dal signor Van-Spengel si erano avute parecchie prove veramente sorprendenti di quella lucida, elettrica intuizione - un vero colpo di genio - che distingue l'uomo dell'alta polizia dal commissario volgare. Si tratta di sorprendere intime relazioni fra avvenimenti che paiono disparatissimi; d'intendere il rovescio d'una frase, d'un motto o d'un gesto che cercherebbe di sviarvi; di dar grave importanza a certe cose apparentemente da nulla; di afferrare a volo un accidente da mettervi in mano il bandolo che già disperavate di trovare: lotta di astuzie, di finezze, di calcoli, di sorprese che colla soddisfazione del buon successo compensa l'uomo dell'alta polizia del suo ingrato lavoro. Ma qui la cosa andava diversamente. Il signor Van-Spengel, letta la seconda parte del suo lavoro di sonnambulo, vi aveva trovato, negli interrogatori anticipatamente scritti, i piú minuti particolari di quello che poi doveva accadere e si era messo, dirò cosí, ad eseguire punto per punto il programma della giornata, visto che la prima parte aveva corrisposto cosí bene. Svoltando a destra della piazzetta Egmont, il biondo s'era avveduto della guardia, colla coda dell'occhio, e avea capito che lo pedinava. Allungato il passo, vicino al chiassetto dei Trois Fous, aveva tentato un colpo ardito. S'era fermato davanti un portone e v'era entrato di un lampo. La casa aveva un'altra uscita nella via della Reine. Se poteva essere perduto di vista un venti secondi, il colpo gli riusciva. Profittando di alcuni carri che ingombravano la via della Reine verso il Restaurant des Artistes, girò con lestezza attorno ad essi, ritornò sui propri passi mentre il Maresque lo cercava coll'occhio tra la folla, e infilò un vicolo stretto, torto, sudicio, una di quelle tante anomalie che si trovano spesso nel cuore delle grandi città. Aveva fatto i conti senza l'oste. Il signor Van-Spengel lo aveva scoperto da lontano. Il biondo passò un usciolino sepolto fra le panche di erbaggi di una bottega di ortolano e i cenci di un rivendugliolo ebreo, spenzolanti in mostra dalla tabella. Il signor Van-Spengel, seguito dal Poisson e dal Maresque, diè un'occhiata allo stabile; poi, senza dir motto, cominciò a salire la scala che principiava quasi alla soglia. Trovarono un andito largo, una specie di corridoio senza volta, col pavimento sdrucito e i vecchi mattoni che vi formavano degli isolotti: un locale freddo, grigio, di aspetto sinistro. Sei usci segnati con grossi numeri rossi indicavano sei stanze: ma il perfetto silenzio che vi regnava faceva supporre che i locali fossero allora disabitati. Il signor Van-Spengel si accostò all'uscio numero 5@, 5, e picchiò colle nocche delle dita tre colpetti risoluti. - Chi è? - avea risposto una bella voce di uomo. - La legge! - Apparve sull'uscio un uomo in veste da camera. Pareva di essere sulla quarantina. Aveva il volto tutto raso, i capelli neri e molto lunghi, gli occhiali inforcati sul naso e un libro in mano. - Disturbo? - disse il signor Van-Spengel con impercettibile ironia, mostrando la sua fascia tricolore. - Niente affatto - rispose l'altro inchinandosi. - La legge è il miglior ospite di questo mondo. Ai suoi ordini, signore -. Le guardie scambiarono due occhiate interrogative, scrollando le spalle. - Caro dottor Bassottin - disse il signor Van-Spengel, appuntando in viso a quell'uomo i suoi sguardi di fuoco. - Caro dottor Bassottin, o meglio signor Colichart, o, se piú vi aggrada, signor Anatolio Pardin, scegliete! ... (l'altro al sentir pronunziare quei tre nomi avea fatto tre movimenti mal frenati di sorpresa). È provato che la notte scorsa voi, insieme ai vostri compagni Broche, Vilain, Chasseloup, Callotte e Poulain, col mezzo di due ordegni inglesi da voi fatti costruire l'ottobre passato dal Blak di Londra, penetraste alle due e un quarto dopo la mezzanotte, nella casa della signora marchesa De Rostentein-Gourny, via Roi Léopold, numero 157@ 157 ... L'uomo a cui erano rivolte queste parole lo guardava imperterrito, facendo segni negativi col capo. - Voi ne usciste l'ultimo - continuò il signor Van-Spengel - richiudendo il portone collo stesso ordegno servito ad aprire. Appena uscito vi metteste a cantare e a schiamazzare insieme agli altri. Poi vi sparpagliaste per diverse direzioni e vi riuniste dopo mezz'ora in questo locale a dividervi il bottino. - Ma, signore - interruppe l'altro con un tono calmo ed insinuante, sorridendo; - qui dev'esserci uno sbaglio. Io sono il dottor Bassottin in carne e in ossa, medico chirurgo di Bruges. Voi mi trovate fra i miei libri di scienza e i miei strumenti. Non ero preparato a questa visita. Signore ... oh! Dev'esser corso proprio uno sbaglio ... - Signore Anatolio! - replicò il direttore di polizia accostandoglisi all'orecchio. - Io so qualche cosa che i vostri complici non sanno: so dove avete nascosto quel diadema di brillanti che la vostra abilità di giocoliere fece sparire senza che quelli se ne accorgessero! - Ah! Voi siete il diavolo! ... - E Anatolio si appoggiava al muro, tremante come una foglia. - Cavategli quella veste da camera - disse il signor Van-Spengel. Il Pardin lasciò fare. - Strappategli quella parrucca -. Il Pardin non oppose la menoma resistenza. Com'erano ricomparsi i vestiti, ricomparvero allora anche i capelli biondi del giovane pedinato. Le due guardie stralunarono dalla sorpresa. - Se vuol rimettersi i baffi! - disse il signor Van-Spengel seriamente. E il Pardin, che pareva sotto l'oppressione di un potentissimo fascino, cavava macchinalmente di tasca i suoi baffi finti e se li adattava come gli avea prima. - Ed ora mettetegli le manette -. Il Pardin esitò un momentino a porgere le mani, ma non impedí che il Maresque gliele tenesse unite mentre il Poisson gli stringeva ai pollici il suo piccolo strumento di acciaio. Il signor Van-Spengel picchiò in vari punti del pavimento, indi smosse un mattone colla punta della sua mazza. Apparve una buca. Poisson ne estrasse parecchie scatole e due involti che depose sul tavolino. Il signor Van-Spengel aprí ad una ad una le scatole, osservò gli oggetti d'oro, le pietre preziose, e le richiuse con cautela. Mentre il signor Van-Spengel eseguiva questa operazioni, il giudice Lamère e il dottor Marol avevano fatte altre e piú minute osservazioni sulle diverse ferite delle vittime, perdendosi in un ginepraio di supposizioni intorno al modo con cui gli avvenimenti eran dovuti accadere. Un piccolo episodio li avea commossi. Erano nella camera della marchesina. - Perché non l'avevano trovata uccisa lí, ma nel salone di ricevimento? La marchesina era ancor sveglia verso le due e mezzo dopo la mezzanotte. Che cosa faceva? Il dottor Marol si accorse pel primo d'una lettera restata a mezzo, sul tavolino, ma non osò buttarvi gli occhi. La sua squisitezza di animo gli impediva di violare il segreto dei morti, il segreto di una signorina. Il giudice Lamère invece trattò quella lettera come un documento del suo futuro processo e la lesse. Eccola: fu pubblicata dai giornali belgi quell'anno. "Mia cara, Sono felice! Bisogna che ti dica subito queste due parole: le capirai meglio quando avrai letto fino all'ultima riga. Sono felice! Se ancora me le tenessi nel cuore, potrebbero farmelo scoppiare. Oh! sarò sempre in tempo a morire. Oggi sono felice! Troppo felice! Figurati! Mi son messa a scrivere alle undici e mezzo di sera. È già l'una dopo la mezzanotte ed ho appena incominciato. Ma in queste due ore e mezzo non ho fatto altro che parlare con te, ad alta voce, come se ti avessi avuta presente. Ah, mia cara! ... La penna non corrisponde alla foga del mio pensiero, al tumulto de' miei affetti. Perché le persone che si amano non s'intendono da lontano senza né scriversi né parlarsi? Ecco: io duro fatica a proseguire, ed ho cento cose da dirti. Via, siamo serie! ... Egli mi ama! Me l'ha detto questa mattina, in salotto, dove ci trovammo soli per due brevi minuti. Io tremavo come una bimba nel sentirlo parlare. Egli tremava piú di me. Non intesi bene le prime parole; ma le compresi egualmente e gli risposi ... cosí strampalata! Oh, fu di una delicatezza senza pari! Pareva chiedesse scusa di farmi felice. Scesi subito in giardino. Non potevo contenermi. Un fremito di piacere mi agitava da capo a piedi e mi rendeva leggiera come una piuma. Lí tutto sorrideva; tutto era pieno di profumi. I fiori mi salutavano scotendo il capino sullo stelo con grazia indicibile; le acque delle vasche mormoravano mille cosette maliziose che mi facevano provare certi brividi! ... Una gioia fino allora ignorata! Correvo pei viali; mi fermavo; odoravo i fiori, gli accarezzavano; agitavo colle mani convulse le acque della vasca ... Pare impossibile che una parola ci possa rendere cosí! Volevo esser seria e non riuscivo. Mi sembrava che io profanassi il divino sentimento dell'amore manifestando la mia allegrezza in quel modo cosí fanciullesco; ne avevo dispetto ... Ma tornavo a far peggio. Correvo di nuovo, saltavo ... Poveri fiori! Quelle mie carezze li maltrattavano, ne guastavano le foglioline e le corolle, li sfogliavano anche; ma! ... I felici sono crudeli, cara mia! Egli m'ama! C'era proprio bisogno che me lo dicesse? No, no! ... Ma pure non vivevo tranquilla; dubitavo sempre, mi torturavo da mattina a sera; mentre ora! ..." Il signor Lamère ed il dottor Marol avevano le lacrime agli occhi. Il cuore da cui erano sgorgate quelle righe piene di tanto affetto non batteva piú! Il Lamère ed il dottor Marol si guardarono in viso stupiti vedendo entrare il signor Van-Spengel seguito dal giovane arrestato fra le due guardie. Il Van-Spengel pareva in preda a un fierissimo accesso nervoso. Metteva paura. - Cancelliere - disse il signor Lamère - stendiamo dunque il verbale. - Se ne risparmi la fatica - balbettò il signor Van-Spengel, avanzandosi barcollante, con un sorriso da ebete. - Il verbale eccolo qui! ... E presentava il suo manoscritto, dando in uno scroscio di risa convulse. Era ammattito! Il libro del dottor Croissart, interessantissimo per tutti i versi (egli è direttore del manicomio di Brusselle) termina con profonde considerazioni su questo strano fenomeno di psicologia patologica, degne di esser lette e meditate. Egli conchiude: "Quando vediamo il nostro organismo mostrar tanta potenza in casi tanto eccezionali ed evidentemente morbosi, chi ardirà d'asserire che le presenti facoltà siano il limite estremo imposto ad esso dalla natura?" Catania, 25@ 25 marzo 1873@. 1873.

Racconti 3

662745
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

L'abate, con gli occhiali verdi e l'ombrello rosso aperto per ripararsi il sole, stava là, tenendo abbassati gli occhi e stringendo le labbra. Sembrava mortificato di tutti quegli elogi alla sua bestia e prestava attento orecchio alla discussione impegnata intorno al prezzo con uno che finalmente si era deciso a concludere il negozio. - Dieci once! In parola di onore è regalato! - Facciamo otto, compare! - Né la vostra né la mia parola: - disse il mezzadro - otto once e quindici tarí! Ecco il padrone; potete contargli il danaro -. L'abate «Castagna» alzò gli occhi, aperse le labbra a un dolce sorriso e fece atto di voler parlare - Ah! - esclamò il compratore. - Neppure un grano di piú! - Sta bene, sta bene. Debbo però avvertirvi ... - Niente! - replicò l'altro. - Lasciatemi dire. Per scrupolo di coscienza debbo però avvertirvi ... - Voscenza intaschi il danaro. Oramai il contratto è concluso, come davanti a notaio, con questi testimoni - disse il mezzadro. - Va bene - replicò l'abate. E preso pel petto della giacca il compratore lo tirò in disparte. - Sentite: è vero, l'asino è forte, infaticabile, ma quanto ad esser manso! ... Sentite: per scrupolo di coscienza debbo avvertirvi che, invece, è caparbio, capriccioso, morditore, tiratore di calci, intrattabile ... Se ora vi conviene ... - E quel pezzo d'imbroglione ... ! - Dovettero mettersi in mezzo i testimoni per impedire che colui non si azzuffasse col mezzadro. E l'asino quasi volesse schernire il padrone, si diè a ragliare, tra le risate della gente. Da che il Signore si era portata via in Paradiso suor Celeste, l'abate «Castagna» tra i mezzadri che lo spogliavano a man salva e i finti poveri che trovavano molto comodo il vivere alle sue spalle andando a lamentargli miserie in casa da mattina a sera, spesso spesso digiunava anche senza averne l'intenzione. Il prevosto, che era uomo di mondo e gli voleva un po' bene, alla sua maniera, lo ammoniva tutti i giorni, in sacrestia: - Santo, sí, diventate pure santo; ma sciocco, neppure un santo dev'essere sciocco! I poveri, la carità, non dico di no; i poveri sono fratelli di Gesú Cristo ... Ma bisogna distinguere. Io, prima di dare un grano di elemosina, ci penso su due volte, se chi la chiede se la merita, o no, davvero. Ci sono poveri che se la scialano meglio di voi e di me. E dico voi, cosí, per dire. Vi siete ridotto uno scheletro. E i vostri mezzadri sono grassi che scoppiano, e comprano buoi e fondi ... Voi tenete gli occhi fissi al cielo ... Abbassateli un po' e guardate attorno ... Santo sí; sciocco, no! Picchia oggi, picchia domani, l'anima ingenua dell'abate «Castagna» cominciò ad entrare in diffidenza di sé e degli altri. - Consigliatemi voi, signor prevosto! - Il prevosto lo squadrò da capo a piedi quasi volesse pesarlo e scrutarlo dentro; poi rimase un momento pensoso. Non era uomo di mondo per niente; correva voce che facesse anche lo strozzino; ma allora pensava di trar d'impiccio quel povero sciocco pur proponendogli un affare. - Dovreste fare un vitalizio. - Con chi, Dio mio? - Con me, se non vi dispiace. Stima di beni, calcoli giusti; la casa, da abitarvi fino alla morte. Venite a trovarmi, piú tardi, dal notaio Stella; ne riparleremo con comodo. Il paradiso ve lo siete già guadagnato; ve lo sareste guadagnato anche con meno. Dovete mutar vita. Santo, sí; ma sciocco, no! Datemi retta! - Povero abate «Castagna»! non gli erano riusciti i matrimoni, non gli era riuscito bene neppure il darsi a Dio facendosi prete! Forse non gli sarebbe riuscito neppure il vitalizio, ora che intendeva mutar tenore di vita. Santo non osava credersi; gran peccatore anzi, egli si umiliava innanzi a Dio! Sciocco però era stato ed era! Se ne accorgeva forse troppo tardi! E durante molte nottate, non potendo pigliar sonno, avea fantasticato di servirsi del vitalizio per quel po' che occorreva ai suoi ristretti bisogni, e accumulare il resto per fondare una buon'opera di carità, se il Signore gli dava la vita. Lo ripeté al prevosto, firmato l'atto: - Se il Signore mi darà vita! - Il Prevosto, dentro di sé, aveva detto: - Speriamo di no! - Ma il Signore, per punirlo, allungò gli anni all'abate «Castagna», che rimase un bravo sacerdote, se non fu un santo, e non si macerò piú con digiuni e penitenze per divenirlo a ogni costo. Ingrassò anzi, diventò proprio una castagna, quasi per onorare il suo nomignolo, non ostante che il prevosto lo guardasse ogni giorno con certi occhiacci da buttargli un maleficio addosso! E ogni sei mesi, quando l'abate gli si presentava per esigere la mezza rata del vitalizio, il prevosto lo guardava sbalordito, quasi non potesse credere ai suoi occhi e stentasse a riconoscere in quella vescica piena di sugna - com'egli diceva - il misero corpicciolo che lo aveva tratto in inganno. - Sempre piú grasso! - e pareva ringhiasse. - Per grazia di Dio! - rispondeva umilmente l'abate «Castagna». - Mangiate troppo! Vi prenderà qualche accidente, Badate! Vi si è fin raccorcito il collo! Cattivo segno! Badate! - Voleva impaurirlo, mettergli questa pulce nell'orecchio. - Siamo qua! Quando il Signore ci chiama ... - E l'abate intascava cheto cheto i quattrini. Parve che Domeneddio si divertisse a fare un dispetto a quello strozzino di prevosto! Chiamò prima lui, non si sa se in paradiso o all'inferno, e, otto giorni dopo, l'abate «Castagna» certamente in paradiso.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676112
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Essendoci di molto abbassati per sottrarci alle punture dell'aria rigidissima, giunsero al nostro orecchio dei suoni che parevano strida da pappagalli, misti ad ululati da jena. «Sostammo, e raccogliendo il volo sovra una superficie lucente, che da lungi ci era parsa un enorme ammasso di ghiaccio, il nostro piede avvertì una gradita esalazione di tepore. Immaginate la nostra meraviglia! Noi passeggiavamo sovra una tettoia di cristallo leggermente riscaldato, e sotto i nostri piedi si sprofondavano le muraglie di un vasto palazzo popolato di esseri viventi. Che mistero è codesto? quali saranno gli abitatori di questo immenso edilizio fabbricato sulle alture di una montagna oggimai divenuta inaccessibile? «Aggirandoci intorno al quadrilatero, osservando, ascoltando, ci avvenne di scorgere una giovane donna che correva, invocando soccorso, fra gli scoscendimenti di una valle poco discosta. Quel grido ci trafisse l'anima; accorremmo, e in meno ch'io ve lo dico, ci trovammo al fianco di quella donna. «- Se voi siete due angeli - esclamò ella con accento desolato - prendete sotto la vostra custodia questa mia creatura innocente; è un figlio dell'amore, del primo, dell'unico amore che abbia fatto trasalire le mie viscere. «Così parlando, la tapina ci sporse un paniere, dove tra bianchi pannilini giacea sopito il grazioso bimbo che ora posa su quel letto. «- Io sono inseguita - riprese ella con terrore; - inseguita da un uomo potente e feroce. Presto! esaudite il voto di una povera madre. Prendete quel fanciullo, dirigetevi su Milano e fate di scendere alla casa di quel santo che si chiama il fratello Consolatore. Nel paniere vi hanno due lettere, dirette l'una al buon Levita, l'altra a colui:.. «Ma la tapina non potè proseguire, sgomentata da uno strepito di passi. «Chi avrebbe esitato? Noi afferrammo il paniere dai due lati, e ansanti, desolati di non poter alla misera donna giovare altrimenti, con rapido volo ci allontanammo dal luogo nefasto. - Povera Maria! - sciamò l'Albani; - quel Cardano ... quel mostro ... l'avrà uccisa. - Egli l'amava troppo per ucciderla - disse il Levita. - Fui io stesso, che consigliai alla povera immolata il più grande dei sacrifizi, inducendola a seguire quell'uomo. Ed ecco, per mezzo di lei, alla provvidenza è piaciuto svelarmi l'autore della misteriosa disparizione di tanti neonati. Sì; avete ragione; Cardano è un mostro; ma egli è uno di quei mostri generati dall'orgoglio e della manìa di sapere, che in tanta copia si producono all'età nostra. Volendo conoscere le prime espressioni della favella umana e studiare gli istinti ingeniti della nostra specie, quello scienziato abbominevole esercitava la tratta dei neonati. Le piccole creature rapite alle madri venivano accolte e allattate da mute nutrici nel vasto edifizio destinato alle atroci esperienze. Parecchie centinaia di fanciulli d'ambo i sessi erano là da parecchi anni a stridere, ad ululare come animali selvaggi, avvoltolandosi nella terra, commettendo tutte le stranezze e gli abbominii suggeriti dall'istinto sfrenato ... - Orrore! orrore! - gridava l'Albani percorrendo la stanza a passi concitati. - Il dolore delle madri è salito al cielo! - disse il Levita. - E la giustizia umana compirà l'opera sua - soggiunse Lucarino. - Il fatto è segnalato. A quest'ora, sulle alture del Gottardo, migliaia e migliaia di cuori gridano: morte a Cardano. - E noi siamo ancora qui? Ciò detto, l'Albani con ardore paterno baciò in fronte il bambino, e ricoricatolo sul letticciuolo, uscì a passi precipitati dalla casa del Levita.

UN MATRIMONIO IN PROVINCIA

678071
Marchesa Colombi 1 occorrenze

Portando i capelli abbassati sulla tempia, non si vede neppure... L'idea di quei capelli, ravviati, appiccicati su quella mostruosità che dovevano nascondere, mi dispiacque piú del porro. Mi pareva che, se l'avesse portato con disinvoltura, sarebbe stato meno male. La matrigna riprese: - Ad ogni modo vederlo non t'impegna a nulla. Prima di rifiutare, vedilo. Chinai il capo rassegnata. Non che mi dispiacesse vederlo. Anzi era il mio desiderio. Ma mi dispiaceva che il matrimonio si presentasse in modo tanto differente da quello che avevo sognato. Era stato il signor Bonelli che aveva proposto per me il notaio Scalchi, come aveva proposto parecchi anni prima Antonio Ambrosoli per mia sorella. Pareva che quel lontano parente avesse la missione di darci marito. Fu dunque, per colmo d'imbarazzo, in casa sua, ed alla presenza della Maria, che dovetti vedere il mio pretendente. Andammo in casa Bonelli dopo il loro pranzo, verso le sette. Lo sposo non c'era ancora. Si parlava apertamente di quell'incontro, e del motivo che lo provocava. La Maria diceva: - È un bell'uomo, non ha che quel difetto. Del resto ha già rifiutato delle spose con dote, sai. Gli avevano proposto la signorina Vivanti, e non la volle perché era troppo piccola. Le fu presentata mentre stava seduta sopra un divano un po' alto, e lui vide che i piedi non le arrivavano in terra... La signorina Vivanti era un mostricciattolo che i parenti e gli amici cercavano di maritare da parecchi anni, senza mai riuscirvi. Cosa poteva essere un uomo a cui si proponeva quella specie di sposa? Venne quasi subito, e la prima impressione non fu sfavorevole. Era alto, un po' grosso, ma ben fatto. Aveva una foresta di capelli castano chiari, tutti dritti a spazzola. Si vedeva che non tentava neppure di portarli abbassati sulla tempia per nascondere il suo difetto. Del resto non avrebbe potuto; erano capelli ispidi che non si piegavano. Anche per lui la prima impressione dovette essere favorevole, perché, appena m'ebbe trovata collo sguardo, e fissata un minuto, si fece rosso come un giovinetto, e perdette l'aria disinvolta con cui s'era affacciato all'uscio. Quando me lo presentarono ebbe un momento d'imbarazzo, e, sorprendendo i miei occhi rivolti alla sua tempia destra, arrossí un'altra volta. Ma si rinfrancò subito, e prese parte al discorso che facevano gli uomini. Aveva una voce armoniosa, e parlava bene. S'intratteneva delle risaie del Vercellese; deplorava che fossero troppo vicine alla città, ma chiamava esagerata e sentimentale la compassione degli scrittori pei risaioli. Diceva che, trattati umanamente dai proprietari, possono attendere a quella coltivazione senza soffrirne. E spiegava tutto un sistema d'igiene per quei contadini, che mi annoiava molto. Avrei voluto che mi parlasse delle sue speranze, dell'impressione che gli avevo fatta... d'amore insomma. La Maria, da accorta padrona di casa, seppe procurarci un colloquio da soli. Ci fece uscir tutti sul balcone; poi, poco dopo, rientrò colla matrigna per fare il tè, e gli altri le seguirono. Rimanemmo soli sul balcone. Tenevo gli occhi fissi giú nella strada, e stavo zitta, ansiosa di sentire cosa direbbe. Parve che ci pensasse molto, perché stette un tratto senza parlare, poi s'appoggiò al davanzale accanto a me e disse: - Non ho sentito il suo parere signorina, sulla questione che si discuteva dianzi. Pensai che avessero discusso col babbo o col signor Bonelli sul nostro matrimonio; mi sentii salire al volto una vampa di rossore, e tutta confusa, domandai: - Quale questione? - Quella delle risaie. Credetti che scherzasse, e lo guardai stupefatta. Ma lui, senza far caso del mio stupore, continuò: - I miei fondi, i pochi che ho, perché non sono un gran possidente, sono in risaia. E ci vivo una parte dell'anno per sorvegliare io stesso i lavori. Per i proprietari di risaie è un obbligo di coscienza; altrimenti si deve affidarsi ai sensali ed allora sí che i poveri giornalieri, in quelle mani, sono oppressi da un lavoro soverchio, mal pagati, mal nutriti, alloggiati come Dio vuole, trattati da schiavi. Io risposi un po' stizzita: - Non me ne intendo, sa. Noi abbiamo pochissimi fondi verso Gozzano; boschi e vigneti. Le risaie non le conosco. - Ma potrebbe trovarsi nel caso di conoscerle, di possederle. E vorrei che comprendesse la necessità di sacrificarsi a sorvegliarle personalmente. Dico sacrificarsi, perché capisco che è un vero sacrificio, specialmente per una signora. Io, per esempio, ho una casa vasta, comoda, anche abbastanza elegante; ma non è una villeggiatura dove si possano fare degl'inviti, dove ci si possa divertire. Si fanno delle passeggiate lungo il giorno, ma la sera bisogna ritirarsi presto, star chiusi in casa ad accender il fuoco... Capii che mi voleva preparare alla vita che m'aspettava; ma avrei voluto che ci mettesse un po' piú di sentimento. Ero scoraggiata. Lui forse se ne avvide, perché disse: - Io mi ci sono avvezzo, e lo faccio volentieri, per un sentimento d'umanità; ma sento che se in quei mesi, in quelle lunghe sere nebbiose, avessi vicino qualcuno... Esitò un tratto; fece una pausa, forse cercava i miei occhi per averne un incoraggiamento a spiegarsi su quel qualcuno; ma io non osai voltarmi, e lui concluse con una risatina piena di mistero: "mi ci avvezzerei anche meglio". La Maria uscí con due chicchere di tè e nel porgermi la mia sussurrò: - Come va? E vedendomi rossa e confusa, accennò lei stessa che andava bene. Ero sconfortata, perché dinanzi a quell'uomo positivo e nella nebbia delle sue risaie, vedevo svanire i miei sogni sentimentali. Ma però ero risoluta a sposarlo per non restar zitellona. Tutti uscirono sul balcone colle chicchere sorseggiando il tè, persuasi che quei pochi minuti fossero bastati per farci decidere di tutta la nostra vita. Infatti erano bastati. Avevamo deciso. Il signor Scalchi se ne andò prima di noi, ed il signor Bonelli, che lo aveva accompagnato in anticamera, rientrò tutto soddisfatto dicendo: - Lui è felice, e protesta che non poteva desiderare una sposa piú bella, piú gentile. È innamorato addirittura, e teme soltanto di non essere accettato. Gli tremava la voce nel parlarmi. Mi strinse la mano col pianto alla gola: era tutto commosso. Rimasi sbalordita di quella commozione che era scoppiata soltanto in anticamera, mentre, dinanzi a me, non aveva saputo suggerirgli una parola. Però mi fece piacere e ne fui lusingata. Poteva anche aiutarmi ad uscir d'imbarazzo. Tutti mi guardarono aspettando il mio responso; e la matrigna, vedendo che stavo zitta, mi domandò: - E tu cosa dici? Ti piace sí o no? Io balbettai: - Se non avesse quel porro... - Ah! se non l'avesse sarebbe meglio di certo. Ma l'ha. Questo è inevitabile. Devi accettarlo con quell'aggiunta o rifiutarlo. Feci ancora un'obbiezione, per salvare la mia dignità. - Non potrebbe farselo togliere? Ci fu un momento di silenzio e d'imbarazzo. Tutti si guardarono, e mi parve di leggere su tutti i volti un'espressione di biasimo. Poi il signor Bonelli rispose: - Come si fa proporgli una cosa simile? Del resto, se fosse un'operazione possibile l'avrebbe fatta quand'era piú giovine... La matrigna mi disse severamente: - Ma ti pare! Esporre la vita d'un uomo per un capriccio... E la Maria osservò: - Sarebbe una mortificazione per lui, sentirsi rinfacciare il suo difetto, ora che t'ha conosciuta, ed è innamorato di te... Sii generosa; accettalo com'è... Il babbo la interruppe: - Non influenzarla, Maria. Lascia che ci pensi lei. Preghi il Signore che le dia una buona ispirazione; accenda anche una lampada alla Madonna, e poi faccia quello che il cuore le consiglia. Si tratta di tutta la vita. Se lo sposo non le piace è meglio che dica di no subito, per non pentirsi poi. Non ero punto disposta a dir di no. Chinai il capo in silenzio; ma tutti capirono che avrei accettato, e pel resto della serata si parlò del patrimonio di Scalchi, de' suoi fondi a Borgo Vercelli, dello studio di Novara, del suo socio, come di cose che ci toccassero molto davvicino. Il domani dissi definitivamente di sí. Lo sposo fu ammesso in casa. Mi portò i soliti doni nuziali, cercò l'alloggio e vi fece trasportare i suoi mobili da Vercelli, e finalmente si fissò il giorno delle nozze, che grazie alle buone condizioni finanziarie dello sposo, si dovevano fare con solennità. Da quel momento non ebbi piú tempo di pensare alle mie aspirazioni passate, e quasi neppure al mio sposo. Il matrimonio, colle sue formalità preventive, m'assorbiva tutta, ed assorbiva anche il resto della famiglia. Mia sorella aveva affidato il figliolo alla suocera, ed era venuta a Novara per aiutarci. Tutto il giorno eravamo in giro a far compere, o visite di partecipazione. E la sera, io e mia sorella, facevamo delle copie, colla nostra scrittura piú accurata, d'un epitalamio che il babbo aveva preparato per le mie nozze. A misura che una copia era finita, lui la correggeva, - c'era sempre da correggere nelle nostre copie, - poi la rotolava, la legava con un nastrino rosso, e ci scriveva sopra il nome dei destinatari, con una precisione notarile: "Signor Bonelli ingegnere Agapito, e genero e figlia, coniugi Crespi". "Signor Martino Bellotti, dottore in medicina, chirurgia ed ostetricia, e consorte". Intanto la matrigna combinava la colazione e gli inviti, e tratto tratto interrompeva il nostro lavoro, per consultarci e fare delle lunghe discussioni. A mia ricordanza non s'era mai fatto un invito a pranzo in casa nostra. Avevamo l'abitudine di desinare in cucina, al tocco, e quando capitava lo zio Remigio, o qualcuno degli Ambrosoli, o qualche altro parente di fuori, gli si offriva il nostro desinare di famiglia, senza nessuna aggiunta, su quella tavola di cucina, tra i fornelli ed il paravento della zia. Ora il paravento non c'era piú; ma ad ogni modo non era possibile servire una colazione nuziale in cucina. Bisognava apparecchiare in salotto. Quella novità ci mise in grande orgasmo. Si dovettero portar via i sacchi di granturco, le patate, le castagne e tutto; si dovettero scoprire i mobili, ed appendere le cortine, e togliere le tavole rotonde per sostituirvi quella grande della cucina. Poi non era lunga a sufficienza, e ci si aggiunsero ancora ai due capi le tavole rotonde un po' piú bassine, che facevano un effetto curioso e poco bello. Nessuna delle nostre tovaglie aveva le dimensioni di quella mensa cosí allungata. E le due tavole rotonde ebbero anche una tovaglia a parte, di modo che facevano come casa da sé, un gradino piú in giú della tavola centrale. Il babbo suggerí di nascondere il gradino sotto uno strato di fiori; ma rinunciò a mettersi, come s'era combinato prima, a capo tavola, perché, dovendo sedere piú basso, non avrebbe dominato tutta la mensa leggendo l'epitalamio. Scelse il posto nel centro, e la matrigna l'altro in faccia a lui, sebbene quella nuova moda francese non fosse di loro gusto. Anche la mia abbigliatura da sposa era stata argomento di molte discussioni. La solennità che si voleva dare alla cerimonia, non arrivava però al lusso dell'abito bianco. Un abito di seta colorata a strascico, sul quale avevo fatto assegnamento e di cui andavo superba, la Maria lo trovò disadatto alla circostanza e provinciale. Allora la matrigna fece la pensata di vestirmi da viaggio, e per quanto le si facesse osservare che non facevamo nessun viaggio, non si lasciò rimovere, ed il vestito da viaggio fu accettato. Finalmente venne quella mattina aspettata e temuta. Quando fui tutta vestita come una touriste che si disponesse a fare il giro del mondo, cominciai a piangere abbracciando tutti prima d'andare in chiesa, come se non dovessimo mai piú rivederci in questo mondo. Poi, durante la cerimonia piansi tanto che fu un miracolo se udirono il sí, che tentai di pronunziare fra due singhiozzi. Poi tornai a piangere zitta zitta durante tutta la colazione, rispondendo con un piccolo singhiozzo ogni volta che mi facevano un complimento, tanto che smessero di farne, e mangiarono tutti quieti, parlando di cose serie, dei raccolti, che quell'anno erano buoni, dei nostri vini dell'alto Novarese che non hanno nulla da invidiare a quelli del Piemonte, e del secondo vino, "il cosí detto vinello che è eccellente, e tanto conveniente per uso di famiglia". Poi, alle frutta, quando il babbo spiegò uno dei tanti fogli che avevo scritto io stessa, e cominciò a leggere ad alta voce: In questo dí, sacro ad Imene, io prego La Vergine ed i Santi a voi propizi, quei versi, che sapevo a mente, mi commossero al punto che scoppiai in un pianto dirottissimo, e dovettero condurmi via. Cosí, dopo tutti quegli anni d'amore, di poesia, di sogni sentimentali, fu concluso il mio matrimonio. Ora ho tre figlioli. Il babbo, che quel giorno dell'incontro con Scalchi aveva accesa lui la lampada che mi consigliava, dice che la Madonna mi diede una buona inspirazione. E la matrigna pretende che io abbia ripresa la mia aria beata e minchiona dei primi anni. Il fatto è che ingrasso.

Teresa

678727
Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Non dissero altro per tutta la strada prese entrambe dal freddo e dalla tristezza, coi veli abbassati sulla faccia e gli occhi semichiusi. Pochi furono quelli che giunsero al cimitero; un piccolo circolo si formò intorno alla fossa scavata di fresco, dove calarono lentamente la bare. - I morti non soffrono piú - disse Teresina volgendo altrove la testa. - No. È una consolazione. - Non soffrono piú, ma forse sentono ancora ... - È assurdo. La pretora disse questa parola distrattamente pensando a' suoi bambini che erano tornati indietro. Successe un lungo silenzio. Le due amiche rifacevano la strada. A un tratto Teresina sospirò così dolorosamente sotto il suo velo, che la pretora comprese subito dove andava quel sospiro. - È un pezzo che non hai notizie? - Dieci giorni! - esclamò Teresina, ascoltando con sbigottimento il suono della propria voce, sembrandole che dieci giorni pronunciati forte si raddoppiassero di lunghezza. - Sono molti nevvero? - Molti? non saprei; tutto è relativo ... - È andato a Milano. - Allora si capisce! - Ma no, non è una ragione. Tanto può scrivermi da Milano come da Parma. - Se è andato per affari ... - Sicuro. Ha tutti quei progetti in mente ... Passò un prete alto, ben vestito, colle calze pavonazze e le scarpe lucide ornate di grosse fibbie d'argento. La pretora urtò col gomito Teresina, sussurrando: - È Monsignore. La fanciulla gli volse uno sguardo indifferente. Di lì a poco incontrarono la signora Luzzi, con un cappellino bizzarro, fatto di stoffa d'oro. - Guarda! - esclamò la pretora. Ma la fanciulla questa volta non girò nemmeno il capo. Allora l'amica riprese il discorso di prima. - Tuo padre non s'è mai accorto che continui la corrispondenza? - Se lo sapesse, povera me. - La mamma però? ... - Oh! la mamma ... le dico tutto. - Fai bene - sentenziò la pretora - e sai perché la mamma ti compatisce? Perché è donna. Non c'è che le donne per comprendere l'amore. - Amano anche gli uomini però. - Sii ... alla loro maniera; ma non è mai come le donne. Incominciava a nevicare. Dal cielo tutto bigio cadevano le falde bianchissime, non molto larghe, fitte, quasi pungenti. - Dio che brutta giornata! - A casa ci riscalderemo. Teresina scosse la testa, quasi fosse persuasa di non potersi riscaldare mai piú. Aveva freddo nell'anima; sentiva una tristezza invincibile, sempre crescente, come un veleno che le circolasse a poco a poco nel sangue. "Che farà egli ora? Penserà a me? Sarà triste come me?", così sospirava colla bocca soffocata nel velo, oppressa da un irresistibile bisogno d'amore. All'imboccatura della via di San Francesco trovarono il procaccio Egli aveva una lettera per Teresina. - Allegra - esclamò la pretora. - Ora non avrai piú freddo. Le due amiche si lasciarono senza quasi salutarsi; l'una correva a vedere i suoi bambini, l'altra a leggere la lettera. "Non ti ho scritto prima, ma credi senza colpa. Appena giunto mi trovai ingolfato in un ginepraio d'affari e di divertimenti, di piaceri e di seccature che non mi lasciarono un momento libero. Non hai idea della vita giornalistica, come non puoi averla di Milano. Ho già fatto una quantità di conoscenze; ho trovato dei compatrioti, degli amici, dei compagni d'università. Tutte le sere vado a teatro. Alla Scala c'è uno spettacolo stupendo; la Wrozlinger è la piú bella prima donna che io abbia mai vista; anche il ballo è spettacoloso. Insomma mi vedi in estasi come un vero provinciale. Invece di una settimana prolungherò il mio soggiorno a tutto gennaio. Avvennero dei cambiamenti che non posso spiegarti per lettera; modifico i miei progetti relativi alla fondazione di un giornale. Persone competenti me ne hanno sconsigliato, almeno per ora. Non rinuncio però alla carriera di pubblicista; il mio avvenire è qui. Vorrei dirti mille tenerezze, ma sono interrotto. Domani, quando riceverai questa lettera sarò a pranzo della contessa Bernini, una parente degli Arese". Non c'era altro. Per quanto Teresina voltasse e rivoltasse il foglio da tutte le parti, la parola d'amore che essa cercava, Egidio non l'aveva scritta. Egidio si divertiva, Egidio era felice ... La sua tristezza crebbe del doppio, sentì tutto l'orrore dell'isolamento. Quegli amici, quei teatri, quei balli le rubavano il suo innamorato, e per quanto le sembrasse egoistica l'invidia, ebbe invidia di tutte quelle persone che lo vedevano, che parlavano con lui, che gustavano la gioia de' suoi sguardi e de' suoi sorrisi, che gli portavano via il tempo, i pensieri, la vita. Che valeva il suo ardente amore? che valevano quattro anni di pensieri non interrotti, di aneliti smaniosi, di aspettative agonizzanti, di insonnie, di torture, di martirio continuo? Eccola sola a piangere, sola a soffrire. Guardò la neve che continuava a scendere lentamente e le parve che tutta la cingesse di un mantello di ghiaccio. Rabbrividì, un vago desiderio di morte le attraversò il cervello, insieme al pensiero della povera donna che avevano seppellita allora. Poi si gettò sulla lettera, stringendola appassionatamente, cogli occhi pieni di lagrime, col cuore che le si schiantava fra l'amore e il dolore, mormorando tra i singhiozzi: - Egidio! Egidio! Egidio!

Pagina 224

Tenendo gli occhi abbassati, vedeva, di sghembo, i suoi lunghi baffi castagni che si agitavano lievemente, gettando un'ombra sulla bianchezza soda del mento. Pensava: Se fosse qui lui Univa l'anima dell'assente alle sensazioni materiali di quel momento. Il dottore provava forse qualche cosa di simile; presente col corpo, aveva l'immaginazione lontana. Fissava lo sguardo come chi ha davanti una visione, e tracciava colla sua canna delle lettere incomprensibili sull'arena. Senza sapere in qual modo avesse incominciato, si trovò a parlar d'amore. - Nei drammi e nei romanzi di una volta incontriamo spesso questa situazione: una donna cade nell'acqua, un uomo la salva, si amano. Ma come? Che ne sanno essi? Hanno provato a intendersi nei lunghi silenzi dove parla il cuore? Hanno pianto, hanno riso insieme? Sanno solamente come mangiano, come dormono? in qual modo il loro spirito si esilara e fino a qual punto vibrano i loro nervi? Difficilmente la bellezza che colpisce è quella che trattiene. L'amore, il vero, nasce da un complesso di circostanze, di affinità intime e continue. È un certo modo di guardare, di sentire, di esporre le idee; è una piega del labbro, la voce, il gesto, la forma della mano, l'odore della pelle. È l'attrazione prolungata dei corpi, per cui piú si sta vicini e piú si starebbe; è lo scambio rapido e completo dei pensieri; è l'afferrare insieme la stessa sensazione, il fondersi, il completarsi l'un l'altro in un assorbimento progressivo dell'anima e dei sensi ... - È vero, è vero. Cogli occhi chiusi, appoggiata al tronco di un alberello, Teresa mormorò ancora: - È vero! - Si sentiva cullata da quella voce, quasi addormentata nel suo eterno sogno d'amore; mentre la terra intorno a lei le mandava forti e selvaggie esalazioni e i fiori si rizzavano, opulenti; e l'erba, le foglie, ogni stelo ogni cespuglio odorava nella frescura umida della sera, imperlato dalle recenti goccioline. - ... L'amore è lo sguardo che vola ratto come il dardo, è la parola che il labbro balbetta appena, è il desiderio che l'emozione paralizza ... - È vero, è vero. Ella si sentiva morire in un rapimento di voluttà, nella delicata eccitazione di quella voce d'uomo che parlava d'amore. Bruscamente, il giovane tacque. La notte era scesa, fresca, dolcissima, piena di carezze. Raggiavano in cielo le prime stelle; il geranio notturno olezzava col suo profumo intenso, quasi carnale, protendendo i rami verso la luce argentea; e in quel silenzio cadevano le goccie lambendo le corolle, strisciando sui gambi, toccando terra con un piccolo rumore secco, che turbava i moscherini nel loro primo sonno, e faceva fuggire, spaurite, le lucciole di fiore in fiore. Quando il giovane tornò a parlare, la sua voce era cambiata, disse: - Buona sera - in fretta, afferrando un pensiero che gli era venuto nella dolcezza tentante di quella notte. Salutò, senza nemmeno guardare e sparve nelle ombre del portico. Teresa si scosse, strinse i denti, chiuse gli occhi e sospirando e sollevando le braccia al di sopra del capo, le stirò, con un abbandono al quale risposero tutte le sue fibre, gemendo. Nel salotto terreno, nell'umido e buio gineceo, il signor Caccia terminava i suoi giorni, confinato sul divanuccio dove la signora Soave aveva trascorsa tanta parte della vita, lagnandosi dolcemente cogli occhi volti al cielo. Egli finiva, battuto, vinto nelle sue forze maggiori; ridotto così gramo da dover implorare l'altrui compassione, spoglio d'ogni potere, in balia dell'unica figlia che gli era rimasta accanto. E quella figlia non era la prediletta; l'aveva anzi disconosciuta spesso, rendendola vittima del suo assolutismo. Si trovavano di fronte, soli, con tutto un passato che li divideva, coll'amarezza indistruttibile dei dolori sofferti. Tacevano, ma nel silenzio della figlia c'era forse un rimprovero; in quello del padre un rimorso - e piú che un rimorso, per quel carattere superbo, l'umiliazione di dovere a lei un prolungamento d'esistenza. La osservava, qualche volta, con un'ira sorda, qualche altra con un improvviso impeto di tenerezza. Teresa era calma. Non esagerava le dimostrazioni d'affetto; era attenta, docile. Compieva i suoi obblighi senza entusiasmo e senza fiacchezza, seria. Ma tutta la sua gioventù sfiorita sembrava rimasta nella casa, intorno a lei, in quelle pareti che l'avevano vista fanciulla, dove era caduto ogni giorno, ogni ora, come da una clepsidra, un raggio della sua bellezza; dove ella aveva assistito al succedersi degli anni, alle lente evoluzioni della famiglia e di se stessa. Guardava il suo passato nello stesso modo che avrebbe guardata un'altra persona, evocando la Teresina di quindici anni, così lieta, il giorno in cui era partita per Marcaria, su quello stradone lungo, tutto soleggiato, che non finiva mai, dove il sediolo di Orlandi correva in mezzo a un nuvolo di polvere. Ripensandoci, le pareva una profezia; egli le era passato accanto, fuggendo. Ah! come avrebbe voluto ricominciare la vita ora che la conosceva meglio. Quando era assalita da questo rammarico, si struggeva, con una melanconia acuta, con un livore che la rimescolava tutta, fino nei rimpianti lontani, fino nei desideri piú gelosamente custoditi che ella credeva domati per sempre. Le lunghe, le penosissime ore che trascorsero così, padre e figlia! - sempre uniti, dignitosi, sopportando fieramente il peso del loro dovere, trascinando l'odiosa catena delle consuetudini, degli affetti imposti. Una lettera di Carlino venne a portare l'ultimo colpo ai due che rappresentavano ancora l'unione della famiglia Caccia. Il giovane annunciava, brevemente, il suo matrimonio colla figlia di un oste, che egli aveva sedotta. Non una parola di scusa, non un atto di deferenza all'autorità paterna. Nulla. Era la volontà brutale di un uomo libero, che non ha bisogno di nessuno. Il signor Caccia ne fu scosso in modo da far pietà. Il medico, accorso per un peggioramento nello stato dell'infermo, disse subito che non si sarebbe riavuto da quel colpo. Infatti continuò a peggiorare, e sul principio d'autunno, avendo già perdute le facoltà della parola e della memoria, attaccato da paralisi al cuore morì. Tutti in paese credettero che Teresina andrebbe a stare colle sorelle; ma Teresina non si mosse. Assistí il padre fino all'ultimo sospiro, lo collocò nella bara, lo vegliò morto. Nel momento che lo portavano via, pianse. Poi riprese le abitudini tranquille, vagolando, come un'ombra nella casa deserta. Invano qualcuno, il dottore, la pretora, le vicine Ridolfi tentarono di farla uscire, di procurarle delle distrazioni. Ella rifiutò tutte le proposte, così calma, così fredda, che finirono col giudicarla insensibile. "Poveretta!" pensava la pretora "ha sofferto tanto che il cuore le si è indurito, non sente piú nulla". Pure, come risorsa estrema, valendosi dell'antica amicizia, la tentò un giorno dal lato dell'amor proprio, e le disse: - Ho paura che rassomigli davvero alla Calliope; non esci mai, tieni la casa sbarrata ... mettiti un po' a farmi gli sberleffi, vediamo se riesci. Ma anche da questa parte Teresina si mostrò invulnerabile. Un sorriso serio, profondamente malinconico, era la sua risposta a tutto ed a tutti. Passarono due mesi. Negli ultimi giorni dell'anno ricevette una lettera di Egidio. Egli era ammalato, povero, senza aiuto alcuno. Le scriveva come un figlio scriverebbe alla madre, con una fede illimitata. Teresa fece molte riflessioni su quella lettera, molte meditazioni, e per tutta la notte non dormì; e il giorno dopo tornò a riflettere e a meditare. La pretora, non vedendola, venne a prendere sue nuove. La trovò in camera, circondata da abiti, da oggetti di biancheria gettati alla rinfusa su per i mobili, con una valigia in terra, aperta. - Che cosa vedo? Ti decidi finalmente ad andare dai Luminelli? Teresa non rispose subito. Era molto preoccupata; ma dopo un momento, prese le mani dell'amica e parlando piano, con una gravità pensierosa: - Egli mi ha scritto. La pretora non comprese subito. Da sei o sette mesi non era stato pronunciato, fra loro, il nome di Orlandi. Non nascose quindi la sua meraviglia, al contrario l'accentuò: - Ti ha scritto ancora? Che vuole? - Nulla. La pretora crollò il capo. Teresina soggiunse: - È ammalato. - Ah! - Solo. La pretora questa volta non pronunciò sillaba. Successe un silenzio, breve, penoso. Teresa piegava un abito sul letto, dando le spalle all'amica. Rapidamente, come si strappa un dente, disse: - Vado via domattina. E si voltò, coll'abito sul braccia. Gli sguardi delle due donne si incrociarono. La pretora aveva compreso. Tacque un momento, intanto che Teresa assettava la valigia. Quand'ebbe finito, per impulso simultaneo si appoggiarono tutte e due al letto, serie e commosse: - Hai riflettuto? - Sì. - E sei decisa? - Decisa. La pretora tentò la via del sarcasmo, dicendo con un sorriso freddo: - Vai a fare l'infermiera! - Quel che Dio vuole - rispose Teresa. Allora l'altra riprese: - Che cosa penseranno le tue sorelle, tuo fratello? Si strinse nelle spalle. - La gente? - Oh! la gente poi ... E sorrise col suo sorriso malinconico, al quale si aggiunse una punta di ironia. - Tuttavia ... se mi facessero delle osservazioni, a me, tua amica? - Ebbene dirai ai zelanti che ho pagato con tutta la mia vita questo momento di libertà. È abbastanza caro nevvero? Tornò a sorridere e si lisciò colle mani - due piccole manine di cera gialla - i capelli che incominciavano a perdere i riflessi bruni. La pretora restò con lei quasi tutto il giorno. All'indomani mattina, tutta vestita di nero per il lutto, con un velo che le nascondeva mezza la faccia, Teresa chiudeva la porta della sua casa. L'amica, fedele fino all'ultimo, le era vicina. - A rivederci, a rivederci, sai? - Speriamo - rispose Teresa, con accento profondo, già impressionata dei misteri del futuro. Don Giovanni Boccabadati, tutto ravvolto in una pelliccia, mise il capo alla finestra. Teresa si ricordò il giorno in cui egli pure era partito, partito col sole e colle rondini, in un mattino di primavera. - Hai una brutta giornata - disse la pretora. Ella guardò in alto, con indifferenza, e s'avviò coll'amica verso la stazione. Prima di entrare nella sala d'aspetto, si fermarono ancora qualche istante per salutarsi, per rinnovare la raccomandazione di scriversi. Nel momento che Teresa varcava la soglia, avendo già consegnato il biglietto, l'amica le si slanciò contro, abbracciandola. Voleva dirle qualche cosa ancora, ma ammutolì nell'amplesso. Si guardarono intensamente, senza profferire una sola parola. - Partenza! partenza! La pretora corse al cancello che chiudeva la via ferrata. Fu in tempo a vederla un'ultima volta. Si salutarono colla mano e cogli occhi, finché fu possibile. Poi il velo nero di Teresa cessò di fluttuare allo sportello del carrozzone; il treno si mosse. Nevicava. 101

Pagina 313

La stampa terza pagina 1986

681497
Levi, Primo 1 occorrenze

A M. venne in mente che avrebbe potuto anche lui giocare sulla sorpresa: non aveva mai praticato alcun genere di lotta, ma qualcosa gli era pure rimasto delle sue letture, e gli balenò in mente, da un remoto passato, una frase letta trent' anni prima in un romanzo del selvaggio Nord: "Se il tuo avversario è più forte di te, abbassati, gettati contro le sue gambe e spaccagli le ginocchia". Indietreggiò di qualche passo, prese la rincorsa, si raccolse a palla e rotolò contro le gambe tozze del marinaio. Questi abbassò una mano, una sola, arrestò M. senza sforzo, lo afferrò per un braccio e lo rialzò: aveva un' espressione stupita. Poi rifece il solito gesto. Il cane frattanto si era avvicinato, e annusava i pantaloni di M. con aria minacciosa. M. udì un passo secco e rumoroso alle sue spalle: era una ragazza in abiti vistosi, forse una prostituta. Superò il cane, M. e il marinaio come se non li vedesse, e scomparve in fondo al vicolo. M., che aveva vissuto fino allora una vita normale, cosparsa di gioie, noie e dolori, di successi e di insuccessi, percepì una sensazione che non aveva mai provata prima, quella della sopraffazione, della forza maggiore, dell' impotenza assoluta, senza scampo e senza rimedio, a cui non si può reagire se non con la sottomissione. O con la morte: ma aveva un senso morire per il passaggio in un vicolo? A un tratto, il marinaio acchiappò M. per le spalle e lo spinse verso il basso: possedeva veramente una forza straordinaria, e M. fu costretto a inginocchiarsi sui ciottoli, ma l' altro continuava a premere. A M. dolevano le ginocchia in modo intollerabile; tentò di scaricare una parte del peso sui calcagni, per il che dovette abbassarsi ancora un poco e inclinarsi all' indietro. Il marinaio ne approfittò: la sua spinta da verticale si fece obliqua, e M. si trovò seduto con le braccia puntellate dietro di sé. La posizione era più stabile, ma poiché ora M. era assai più basso, la pressione dell' altro sulle sue spalle si era fatta proporzionalmente più intensa. Lentamente, con spunti convulsi e inutili di resistenza, M. si trovò appoggiato sui gomiti, poi coricato, ma con le ginocchia ripiegate e alte: almeno quelle. Erano fatte di ossa dure, rigide, difficili da vincere. Il ragazzo emise un sospiro come fa chi deve fare appello a tutta la sua pazienza, afferrò i calcagni di M., uno per volta, e gli distese le gambe contro il suolo premendo sulle rotule. Era questo dunque il significato del gesto, pensò M.: il marinaio lo voleva disteso, subito; non tollerava resistenze. L' altro cacciò via il cane con un comando secco, si tolse i sandali reggendoli in mano, e si accinse a percorrere il corpo di M. come si percorre in palestra l' asse d' equilibrio: lentamente, a braccia tese, guardando fisso davanti a sé. Pose un piede sulla tibia destra, poi l' altro sul femore sinistro, e via via sul fegato, sul torace sinistro, sulla spalla destra, infine sulla fronte. Si infilò i sandali e se ne andò seguito dal cane. M. si rialzò, si rimise gli occhiali e si rassettò gli abiti. Fece un rapido inventario: c' erano vantaggi secondari, quelli che il calpestato ricava dalla sua condizione? Compassione, simpatia, maggiore attenzione, minore responsabilità? No, poiché M. viveva solo. Non ce n' erano, né ce ne sarebbero stati; o se sì, minimi. Il duello non aveva corrisposto ai suoi modelli: era stato squilibrato, sleale, sporco, e lo aveva sporcato. I modelli, anche i più violenti, sono cavallereschi, la vita non lo è. Si avviò al suo appuntamento, sapendo che non sarebbe stato mai più l' uomo di prima.

Pagina 0077

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682196
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il battello si era inclinato verso prua, e i due immensi fusi si erano abbassati di parecchi metri, risalendo poscia lentamente. "Che cosa accade?" si chiese il Mister Kelly, al colmo dello stupore. "Se non ci trovassimo in pieno oceano direi che il battello ha urtato, ma contro che cosa?" Guardò attorno e non vide nessun ostacolo. L'atmosfera sola circondava il vascello aereo. Alzò il capo e s'accorse che i due palloni erano immobili; sentiva la brezza mattutina sibilare attraverso i cordami. "Cosa può averci arrestati?" si domandò, maggiormente stupito. "Che i due coni si siano arenati su qualche banco situato a fior d'acqua?" Stava per spiegare la carta dell'Atlantico settentrionale, al fine di accertarsi se in quella latitudine e longitudine segnalasse qualche scoglio o qualche banco, quando una seconda scossa, più violenta della prima, lo atterrò. L'inclinazione della scialuppa verso prua fu tale, che O'Donnell e il negro Simone rotolarono l'uno addosso all'altro. "By God! "esclamò l'irlandese, sbarazzandosi precipitosamente della coperta di lana che lo copriva. "Si cade?" "Massa! ... massa! Aiuto!" si mise a strillare Simone, il quale credeva che il pallone precipitasse nell'oceano. "Il caso è strano!" esclamò l'ingegnere, che si era prontamente rialzato. "Se le mie ancore fossero munite di punte, si potrebbe supporre che qualche pescecane avesse addentato qualche braccio; ma sono coni lisci." "Un pescecane?" chiese O'Donnell. "Siamo presi a rimorchio, Mister Kelly?" "No, poiché siamo perfettamente immobili." "Che cosa accade dunque?" "Ecco quello che cerco di spiegare, ma invano, O'Donnell." "Diamine! che qualcuno si sia aggrappato ai coni?" "Chi mai?" "Non vedete alcuna nave?" "No, non vedo che l'oceano." Un'altra scossa fece inclinare i due aerostati verso la prua. Non vi era più da dubitare. Qualche mostro aggrappatosi al cono che era stato calato a prora del battello cercava di trascinare con sé il Washington, il quale, però, data la sua forza eccezionale, non cedeva, tornando sempre al precedente livello. Quelle scosse potevano causare qualche grave danno: o guastare la seta dei due fusi, o spezzare le funi, o disarticolare la scialuppa. I tre aeronauti afferrarono la guide-rope di prua e operarono una energica trazione, ma il mostro che imprimeva all'aerostato quelle scosse doveva essere estremamente pesante e dotato di una forza eccezionale, poiché non abbandonò il cono. "Ma in che modo è rimasto aggrappato?" chiese O Domiell. "Che qualche pescecane di gran mole lo abbia inghiottito?" "Un pescecane non può avere tale gola da assorbire un cono che contiene duecento trenta litri." "Sarà una balena." "Nemmeno, poiché la balena ha il canale tanto stretto da non poter inghiottire dei pesci più grossi del nostro braccio." "Sarà un capodoglio. So che quei cetacei hanno delle gole enormi." "A quest'ora ci avrebbe trascinati sottacqua o avrebbe troncato la fune." "Ma quale mostro volete che sia?" "Non lo so." "Che cosa decidete di fare? Tagliare la corda e abbandonare l'ancora?" "Sarebbe una grande imprudenza perdere uno dei nostri coni. Manderò Simone a vedere." "Lui! ... quel pauroso! ... Con il vostro permesso, andrò a vedere io, Mister Kelly." "Ci sono trecentocinquanta metri da discendere, e voi non potete tentare una così pericolosa impresa, O'Donnell. Simone è agile come una scimmia delle foreste africane e può toccare il cono senza stancarsi." "Ma come salirà poi?" "Lo solleveremo noi fino alla navicella, ritirando la fune. Orsù, Simone, prendi una rivoltella e và a vedere che cosa accade laggiù."

La virtù di Checchina

682463
Serao, Matilde 1 occorrenze

Poi: sei sedie di legno nero, dal colore smorto, che sembravano sempre impolverate - una mensola coperta di marmo bigio, su cui stavano sei tazze di porcellana bianca, la caffettiera e la zuccheriera; due scatole da confetti, vuote, vecchie, una di raso verde pallido, l'altra di paglia, a nappine; un piattino di frutta artificiali, anche queste in marmo, dipinte vivacemente, il fico, il pomo, la pesca, la pera e un grappoletto di ciliegie - un tavolino da giuoco, coperto di panno verde, coi pezzi laterali abbassati - all'unica finestra le tendine di velo ricamato, molto trasparenti, molto strette, colle bende di cretonne . Innanzi al divano un piccolo tappeto. Era tutto. Vi faceva freddo, con quella lamentevole mattinata autunnale, in quel salotto glaciale. Isolina si strinse nel suo paltoncino nero, che le dava un'aria snella. Poi si slanciò, con una grande effusione, al collo di Checchina che le stava davanti, sorridendo tranquillamente. - Ti si rivede, finalmente, core mio! Non potevo più stare senza te, nina mia: ti giuro che mi pareva mill'anni di rivederti. Quel Frascati! Ti ci sei divertita, almeno? - Sì - rispose Checchina, senza battere palpebra. - Infatti, sei più bella, più colorita: peccato che tutto questo si perda, con quello scemo di Toto, che non capisce nulla! E perchè porti la frangetta sulla fronte che nessuno usa più? - Ma… è più comoda, ci si pettina in un momento: Susanna non sa fare altro. - Che, che! Si compra un ferro per arricciare i capelli, si mette un carboncino acceso in uno scaldino e si fanno i riccioli, ogni mattina. Ecco, come me. Ma ci vuole anche la reticella di capelli, per tenerli fermi, i riccioli. - Susanna non sa fare tutto questo * rispose Checchina, ostinatamente. - Perchè non la mandi via, Susanna? è antipatica. - Antipatica? - Uh! queste serve, queste serve, tutte nemiche pagate. Io, vedi, sarei felice di mandar via Teresa che è ladra, insolente e… non ti dico altro, se ne va per ore intiere dalla casa. Ma, come faccio? Sa tutti i fatti miei, è sveltissima, di una fedeltà che mi costa molto, ma di cui mi posso valere. Capirai, non posso mandarla via: se quella racconta tutto a mio marito? Anche ieri ho dovuto darle quella vestaglia di flanella rossa, che era ancora portabile, quella che piaceva tanto a Rodolfo. Oh! l'amore è un gran tormento! - È un gran tormento * mormorò macchinalmente Checchina. - Che ne sai tu? Sei una scema, te l'ho sempre detto. Ti sei innamorata, forse, a Frascati? - Isolina! - Non ti offendere: tutto può accadere. Oh! io sono innamorata più che mai. - Di Rodolfo? - Ma che Rodolfo, che Rodolfo! Quello era uno stupido, un avvocato, figùrati, come mio marito! Non vi era gusto, capisci: meglio Gigio, poi. Ma questo, questo qui, è ufficiale di cavalleria, lo amo, immensamente, come non ho mai amato nessuno. O Checchina, che passione! Io ne morirò. Mentre diceva queste parole, un fiotto di sangue le colorava il bel viso bruno, gli occhi brillavano e le labbra tumide, rosse, pare già sentissero la golosità dei baci. Checchina la guardava con la sua aria seria e pacata di femmina senza temperamento, senza avere un fremito nella bella persona, che il goffo vestito di lana nera non arrivava a render brutta. - E Gigio? - chiese, col suo buon senso naturale. - Oh! Gigio è geloso, gelosissimo, mi ammazza se sa che io amo Giorgio. - E non hai paura? - Ho paura, certo; se non avessi paura che gusto ci sarebbe ad amare Giorgio? Esporsi alla morte per colui che si ama, non è forse la maggior prova d'amore? Se sapessi che cruccio che mi dà quest'amore! Già non ho mai quattrini e ce ne vogliono, capisci, per darne a Teresa, per le carrozze, pei guanti, pei fiori - mi presti venti lire? - Come vuoi che te le presti? Non le ho. - Dio mio, come faccio? Domani, sai, è giorno di appuntamento e debbo andarci, assolutamente; ho da comprarmi un velo di garza che costa cinque lire e mi serve, a ogni costo; ho da comprarmi una corazza di maglia che costa quindici lire, e per andare da lui ci vuole la carrozza… - Ti posso dare sei lire: le ho risparmiate sulla spesa * disse sottovoce Checchina. - Sei lire…e che faccio con sei lire? - Parla piano, che non ti senta Susanna. - Sei lire… basta, dammele, farò alla meglio. Grazie cara; sei buona, nina mia. Fra me e te, vedi, è un'amicizia straordinaria. Così potessi servirti in qualche cosa, una volta… - No, no - disse Checchina, presa da un lieve tremore. - Tutto può accadere: non ci facciamo forti, core mio. Addio, a rivederci, me ne vado, debbo impostare questo bigliettino per Giorgio. Hai un francobollo da un soldo? - Come vuoi che io lo abbia? Non scrivo mai. - Scommetto che non hai neppure la carta da scrivere? - Ne ha Toto, nel suo studio, con l'intestazione sua. - Poveretta, poveretta, come ti compatisco! L'amore è una gran bella cosa, Checchina mia. E se ne andò, gaia, leggera, con una effusione di sorriso interiore sul volto, come chi porta un tesoro di dolcezza nell'anima. Checchina stette un minuto a pensare, poi si adattò attorno alla vita, sul vestito nero, un grembiule di tela bianca e andò a strofinare l'armadio, col petrolio, mentre Susanna strofinava il cassettone.

IL PAESE DI CUCCAGNA

682493
Serao, Matilde 6 occorrenze

Aveva fatto questo conto freddamente, tenendo gli occhi abbassati, ma con una chiarezza non consueta nel suo bizzarro parlar misterioso. Il marchese Carlo Cavalcanti annuiva col capo, a ogni nuova spesa annunciata dall' dall'assistito, rovandola ragionevole. -… E per voi? - chiese, dopo aver contate le quaranta lire nelle mani di don Pasqualino. - Sapete che non ho bisogno di niente, - disse quello, schivandosi. - E quando ci vediamo? - Domattina, dopo la mia veglia, se lo spirito i lascia vivo. Venerdì scorso mi bastonò talmente, che mi sentivo morire, - disse con enfasi, ma a bassa voce, l' assistito. Io fido in voi, - mormorò il marchese Carlo Cavalcanti. - Fidiamo in lui, ribattè l'altro, fervidamente, mostrando il bianco degli occhi. - Pregatelo, pregatelo, - scongiurò il marchese. Si lasciarono, dopo che il marchese ebbe strette due dita molli e umide, che don Pasqualino gli stendeva. De Feo risalì verso Tarsia, Cavalcanti discese verso Toledo: andava al Banco lotto numero 177, all'angolo del vico Nunzio, dove era tenitore del banco il bel don Crescenzo dalla barba castana, e dove giuocavano Cavalcanti e i suoi amici. La bianca bottega, sulle cui mura da poco era stata passata la calce, divampava di luce: tre becchi a gas erano accesi, in tutta la loro forza, sul grande banco di legno, ad alta graticciata di fil di ferro, che tagliava in fondo la bottega, andando da una parete all'altra. Dietro questo banco, seduti su tre alti seggioloni, di fronte a tre sportelletti aperti nella graticciata di ferro, lavoravano don Crescenzo e i suoi due commessi, i giovani, osì chiamati, malgrado che uno, don Baldassarre, avesse settant'anni e un'aria così decrepita che pareva avesse un secolo, malgrado che l'altro avesse uno di quei visi scialbi, dalle linee e dalle tinte indefinite, che non hanno età. Tenevano innanzi squadernato un grande registro, detto a madre figlia, ioè col duplice polizzino giallo: vi scrivevano sopra i numeri con una grossa penna, a tre punte, per avere una calligrafia molto forte e molto chiara: e scrivendo due volte i numeri, li ripetevano macchinalmente, si vedevano le loro labbra agitarsi, pronunciando le cifre: poi tagliavano il polizzino con un colpo secco delle grandi forbici che tenevano a destra, rapidissimamente lo passavano, per farlo asciugare, nell'arena nera contenuta in una scodella di legno, e lo consegnavano al giuocatore, dopo averne ritirata la moneta. Don Crescenzo conservava la sua bell'aria contenta, di soddisfatto mangiator di maccheroni, sorridendo nella sua barbetta nera, mentre il vecchissimo don Baldassarre, così curvo che pareva gobbo, col naso adunco, che pareva gli piombasse nella bocca rincagnata, sulle gengive senza denti, lavorava con molta flemma, e don Checchino, lo scialbo scrivano, scriveva correndo, per finire, per andarsene. Quando il marchese Cavalcanti giunse, verso le nove e mezzo, la bottega era piena di gente che giuocava. Il giuoco comincia debolmente la mattina del venerdì, nel pomeriggio va crescendo, e nella sera diventa una fiumana. Il marchese di Formosa fece un cenno, e don Crescenzo, premurosamente, aprì la porticina del banco e gli porse una sedia. Il venerdì sera il marchese Cavalcanti lo passava lì, in un cantuccio, seduto, guardando tutta la gente che giuocava, volendo eccitarsi in quello spettacolo ed eccitandosi fino a un grado forte di esaltazione. Egli aveva in tasca la sua giuocata, coi denari: ma non la faceva mai appena entrato, delibava questa voluttà, lungamente, guardandola delibare, di un tratto, a cento e cento altri. Folta di gente, la bottega: vi si entrava dalle due porte spalancate, una in via Toledo, una nel vicoletto del Nunzio, e la fiumana si avvolgeva e si svolgeva, continuamente, venendo a battere contro quel bancone di legno, unto da tanti contatti umani. La folla era di tutte le condizioni, di tutte le età, con tutta la varietà dei volti umani, belli e brutti, sani e malaticci, lieti, dolenti, stupefatti, ebeti, una folla venuta da tutte le strade, là intorno, dalle Chianche della Carità e dalla Corsea, dal Chiostro San Tommaso di Aquino e dal piccolo rione del Consiglio, da Toledo e dal vico San Liborio. Certo, a poca distanza, in giù, a via Magnocavallo, vi era un altro Banco lotto; a poca distanza, in su, in via Pignasecca, ve ne era un altro, di Banco lotto; e sempre, nel raggio circolare di due a trecento passi, ve ne erano degli altri, di Banco lotto, tutti aperti, tutti fiammeggianti di gas, tutti riboccanti di gente: ma se il venerdì sera e il sabato mattina, per le vie principali di Napoli, si aprisse un Banco lotto, ogni tre botteghe, tutte queste botteghe della popolarità della fortuna avrebbero la folla. Del resto, anche i Banco lotto hanno la loro simpatia e la loro antipatia, fruiscono della impopolarità o della popolarità: e quello del vico del Nunzio, come quello in piazza Plebiscito, come quello della Strada Nuova Monteoliveto, godevano una grande reputazione di fortuna. Vi si erano guadagnate somme enormi: e molta gente, quindi, si muoveva di lontano, per giuocare proprio lì la lira, le cinque lire, le cento lire. I tre gruppi di gente, innanzi ai tre sportelli del Banco lotto di don Crescenzo, si confondevano in un gruppo solo, fluente e rifluente, sempre: e il marchese di Formosa, col cappello messo un po'indietro, con la nobile fronte scoperta, su cui compariva qualche stilla di sudore, guardava questo spettacolo, con gli occhi incantati, tenendo, fra le gambe, la sua mazza di ebano. Ogni tanto, riconoscendo una persona amica o conoscente, innanzi a uno dei tre sportelletti, gli occhi scintillavano di soddisfazione, lusingato profondamente che la sua passione fosse la passione di tante altre illustri e buone persone. Spalancava gli occhi, per vedere tutto, per abbracciare quel quadro sempre cangiante, tendeva l'orecchio per cogliere tutti i dialoghi, tutti i soliloqui, - poiché spesso i giuocatori di lotto parlano da soli, ad alta voce, e anche in pubblico, - per udire fra i tanti numeri pronunziati, quali più fittamente ritornassero sulla bocca di tutti, per poterli giuocare nella serata o all'indomani. Faceva caldo e la luce era forte, in quella piccola bottega piena di gente: ma il marchese di Formosa provava un benessere singolare, un senso pieno e largo di vitalità, sembrandogli di essere ringiovanito, nel trionfo della salute e della forza. Intanto la folla non diminuiva, cresceva. Mentre innanzi allo sportelletto dello scialbo don Checchino lo scrivano, un gruppo di studenti tumultuava, strillando i propri numeri, ridendo e dandosi degli urtoni; allo sportello del vecchissimo don Baldassarre, innanzi alla minuta folla, erano due o tre forti giuocatori, che giuocavano filze intere di numeri, arrischiandovi diecine e centinaia di lire, che il commesso scriveva lentamente, flemmaticamente, rileggendoli, prima di consegnare i polizzini; e allo sportello di don Crescenzo, dove il lavoro i sbrigava più presto, la scena mutava ogni minuto, l'impiegato succedeva al soldato attendente che era venuto a giuocare i numeri pel colonnello, l'operaio torvo lasciava il posto alla nutrice contadina dalla faccia stupida, la vecchia pinzocchera si ficcava dietro il magistrato in ritiro, e tutti avevano o un'estrema parlantina, o un'aria estatica, o un profondo quasi doloroso raccoglimento. Giusto, don Domenico Mayer, il misantropo vice-segretario all'Intendenza di Finanza, ora stava fermo innanzi a don Crescenzo e con gli occhi bassi, con voce cavernosa, gli veniva dettando dieci terni, terni secchi, su cui don Domenico Mayer giuocava audacemente due lire per terno, per prendere diecimila lire, salvo la ricchezza mobile. Al terzo terno, domandò, trucemente: - Quanto è la ricchezza mobile? - Tredici e venti per cento, - rispose, ridacchiando, don Crescenzo, la cui mano bianca e grassa di lieto divorator di pasta al pomidoro, aveva una quantità di gesti eleganti. - Governo mariuolo! - esclamò una voce stridula, dietro don Domenico. Era il lustrino Michele che aspettava, per fare la giuocata piccola del venerdì sera: la giuocata grande l'avrebbe fatta al sabato mattina, quando donna Concetta, la strozzina, gli avrebbe prestato le quaranta lire. Intanto provava il gusto di stare là, di attendere il suo turno. Al settimo terno secco, don Domenico spiegò la sua giuocata: - Non m'importa di vincere l'ambo, quindici lire non mi fanno niente. - Già, - disse il compiacente don Crescenzo. Prese le venti lire dell'impiegato, gentilmente piegò i polizzini, e glieli consegnò. Già, rizzandosi sulla punta dei piedi per arrivare allo sportello, il gobbo sciancato dettava i suoi numeri, e a ogni biglietto dava la spiegazione. - Questo lo giuoco da ventidue anni… questo è il terno di padre Giuseppe d'Avellino… questo è l'ambo della giornata… questo è il terno del morto ucciso in piazza degli Orefici… Ma erano piccole giuocate, in tutto sette ad otto lire: e quelli che aspettavano dietro a lui, s'impazientivano. Invece, da don Baldassarre il quasi centenne, per una singolare attrazione, si fermavano i giuocatori di grosso. Ninetto Costa, elegantissimo, con la marsina che s'indovinava sotto il soprabito, col gibus messo un po'di traverso sulla zazzeretta arricciata e profumata, coi denti bianchissimi che comparivano nel sorriso delle rosse labbra, aveva consegnato una lista allo scrivano, e fumando un avana, disinvolto, sempre allegro, si prestava gentilmente alle domande di don Baldassarre, che, non meravigliato delle grosse giuocate, ma per precisione, si faceva ripetere le somme arrischiate: - Al primo biglietto settanta sul terno, venti sulla quaterna? - Sì, - e gittava uno sbuffo di fumo odoroso. - Al secondo terno secco, centocinquanta? - Centocinquanta. - Al terzo, tutto il bigliettone, uecentoquaranta lire? - Duecentoquaranta. Il marchese Formosa che aveva scambiato un sorrisetto con Ninetto Costa, tendeva l'orecchio a udir le cifre, e trasaliva, punto da una lieve invidia, rimpiangendo di non aver tanti denari da giuocare. E quando udì la cifra totale, milleseicentocinquanta lire, e vide Ninetto Costa cavare lietamente questa somma e consegnarla a don Baldassarre, impallidì, pensando quanto si potea guadagnare con tal rischio. Quasi soffocando, uscì sulla porta, a prender aria; Ninetto Costa ve lo raggiunse e ambedue guardarono Toledo, e la sua folla, e i suoi mille lumi, senza vederli. - Siete fortunato, - balbettò il vecchio nobile. - Avete denaro… - Se sapeste, - disse l'altro, sottovoce, diventato grave improvvisamente. - Ho impegnato dei gioielli che ho pagato ventimila lire, e non ne ho avuto nemmeno cinquemila: il Monte di Pietà diminuisce i suoi prestiti il venerdì e il sabato, tanta è la roba che s'impegna… - Che importa? Vincerete! - disse il vecchio, roteando gli occhi esaltati, alla visione della vincita. - Lunedì ho la liquidazione in Borsa, ventimila lire di perdita, non ho un soldo in saccoccia. Se non prendo, ove batterò la testa? - E avete buoni numeri? - chiese con ansietà. - Ho giuocato tutto: Pasqualino de Feo ha voluto cinquanta lire per ingraziarsi lo spirito, mi ha dato tre terni, due ambi e un situato quella ragazza popolana a cui fo la corte, - le ho regalato un orologetto, - mi ha dato certi numeri, ma sotto simbolo: avrò indovinato? Poi i numeri della cabala che facciamo in comune: poi quelli del ciabattino di Marzano, l'avvocato…che so io? So che se non vinco, marchese, una grossa somma, debbo fallire, - e la voce dello spensierato agente di cambio ebbe un tremore tragico. - Vado a ballare, buona sera, - disse poi, riaccendendo il suo avana. E si allontanò, col suo passo svelto. Esaltato da quel dialogo, il marchese di Formosa rientrò nel botteghino del lotto. Ora, innanzi a don Checchino, lo scrivano pallido e floscio, appoggiata col gomito al piano del bancone, Carmela, la sigaraia, che aveva dato per dieci lire i suoi orecchini a donna Concetta l'usuraia, fiaccamente, a pause, veniva dettando i numeri, giuocando tre o quattro biglietti popolari: - Sei e ventidue, giuocatemi mezza lira; otto, tredici e ottantaquattro, due soldi per l'ambo, otto per il terno; otto e novanta, ambo, altri quattro soldi… - Spicciati, spicciati! - gridò una voce di donna impaziente. E si fermava, ogni tanto, come se altri dolorosi pensieri se la portassero via, e una fiamma saliva a colonne le guance delicate. E quando don Checchino le fece il conto, quattro lire e otto soldi, ella cavò il rotoletto dei denari di rame, e si mise a contare, lentamente. - Spicciati, spicciati! - gridò una voce di donna impaziente. Ella si voltò e riconobbe la donna, una serva vecchia, donna Rosa, quella che serviva nella casa, dove stava la disgraziata sua sorella, e parlarono sottovoce. - O donna Ro'… e come sta Maddalena? - Bene sta: tribolata: ha mandato a giuocare questo biglietto: anzi lo hanno giuocato in tre ragazze… Siccome vi è stato un ferimento, per disgrazia… - O Gesù! Dio la benedica, povera sorella: e voi, fino qua venite? - Abito alle Chianche e torno a casa. - Salutatela, Maddalena, - mormorò appassionatamente Carmela. E stringendosi nello scialletto, se ne andò, crollando il capo, quasi una infinita stanchezza la vincesse. Le succedette, accanto a Rosa, la serva delle povere infelici, il barone Annibale Lamarra, grosso, smorto, ansante della sua affannosa passeggiata a piedi, da un Banco lotto all'altro. Egli giuocava molti biglietti da venti, da cinquanta, da cento franchi l'uno, ma temendo di essere spiato dall'avara sua moglie di cui mangiava la dote, malgrado le orribili scenate, temendo di essere sorpreso da suo padre, un pezzente risalito da scalpellino ad appaltatore, da appaltatore a possidente, aveva inventata la furberia di giuocare un biglietto per parte. Da un Banco lotto all'altro, correva sbuffando, non volendo pensare che al sabato, all'estrazione in cui avrebbe vinto e ritirato la cambiale data a don Gennaro Parascandolo, quella cambiale, che portava la firma sua e di sua moglie, che lo faceva rabbrividire di terrore. Quando uscì dal Banco lotto di don Crescenzo, respirò e contò mentalmente. Delle duemila lire ne aveva date duecento all'avvocato Ambrogio Marzano, il buon vecchietto ridente, come intermediario fra lui e don Gennaro Parascandolo; ne aveva giuocato milleseicento per i Banco lotto da Chiaia a San Ferdinando, da San Ferdinando alla piazza della Carità. Gli restavano duecento lire; le avrebbe giuocate l'indomani; forse la notte avrebbe potuto sognare qualche buon numero, non bisognava arrischiare così la riserva. Intanto dall'altra porta, mentre egli usciva, entrava giusto don Ambrogio Marzano, che si fermò col marchese di Formosa: - Avete qualche buon numero? - chiese ansiosamente Cavalcanti, che riteneva il lindo e ridente vecchietto come un buon portafortuna. - Ci ho un quarantanove secondo, he è un amore, marchese! - mormorò l'appassionato, per non farsi udire. - Ah! e che altro? - Ventisette, lo sapete, è il simpatico i questa fine di mese… - Ce l'ho anche io. E del quattordici, che ne dite? - È bello, archese mio. Ma volete proprio, proprio sapere il numero lampo, il numero fulmine? - Dite, dite, dite. - Ve lo dico per amore di fratello, perché quando ci ho un tesoro, non so essere egoista e tenerlo per me: abbiatelo per prova di affezione, è il trentacinque!… - Ah! - disse il marchese di Formosa, con grande stupore di ammirazione. Intanto, sempre tutto sereno, don Ambrogio Marzano andò a giuocare da don Crescenzo. Veramente aveva dovuto dare le solite quindici lire al suo cabalista ciabattino e ignorante, dieci ne aveva date all' assistito on onPasqualino, sebbene vi credesse poco, e altre trenta gli era costato un viaggio a Marano, da padre Illuminato, per portargli una tabacchiera di tartaruga, ma queste le aveva prese da un anticipo di spese processuali, fattegli da un suo cliente: sicché le duecento lire erano intatte e le giuocò tutte. Gaetano, il tagliatore di guanti, il marito della misera Annarella cui moriva il figliuolo, aspettava il suo turno per giuocare: ma era una dura settimana, non aveva trovato un soldo in prestito e a stento aveva potuto avere una anticipazione di cinque lire dal suo padrone; ne giuocò quattro, conservò la lira per i numeri che avrebbe potuto avere il sabato mattina. Ora, come la notte si appressava, don Crescenzo e i due commessi, stanchi, storditi, avevano una cert'aria inebetita, simili a chi ha assistito a un troppo lungo spettacolo musicale e coreografico, con un abbarbagliamento negli occhi e un assordamento negli orecchi; ma continuavano a lavorare, era la gran messe settimanale, una raccolta di migliaia, di centinaia, di diecine, per il Governo, su cui si prelevava il tanto per cento; e don Crescenzo dava un soprassoldo ai giovani elle buone settimane! Anche la gente che arrivava continuamente a giuocare, adesso aveva un aria curiosa: chi era affannato, chi si guardava attorno con una certa diffidenza, chi si trascinava stanco, chi aveva gli occhi vaganti delle persone che non sono in sé. Erano coloro che solo allora avevano saputo i numeri, o avuto i denari per giuocare; serve che terminato il servizio, prima di andare a letto, scappavano al Banco lotto; commessi di negozio, che avevano chiuso bottega, allora; giovanotti che facevano una scappatina fra un atto e l'altro del teatro Fiorentini; cabalisti del Caffè Diodato delle sale del Caffè Testa d'Oro, he erano clienti di don Crescenzo e che dopo aver lungamente confabulato, capitavano ad arrischiar quanto possedevano, in quella sera! Un magistrato carico di figli e di miseria, che tornando da una partita di scopa, a un soldo, arrischiava le venti lire con cui dovevano mangiare per quattro giorni, in casa; il pittore di santi, malaticcio, smonto, che aveva esatto anticipatamente i denari di una Santa Candida, a quell'ora, e li veniva a giuocare, salvo a rigiuocare, la mattina, quelli promessi da donna Concetta, per la statua di una Immacolata Concezione. Finanche una elegantissima piccola vettura chiusa si fermò e una mano guantata di grigio perla, ingemmata di brillanti al braccio, consegnò una carta e del denaro dallo sportello, a un servitore gallonato: il marchese di Formosa, che per la nervosità aveva lasciato la sedia e si agitava fra i giuocatori che andavano e venivano, riconobbe il profilo di una dama del suo ceto, la spagnuola principessa Ines di Miradois. - È dunque vero che Francesco Althan la spoglia di tutto… - pensò fra sé il vecchio signore. Adesso egli si era unito al dottor Trifari e al professor Colaneri che arrivavano ancora frementi di collera. Per quelle settecentosessanta lire del povero Rocco Galasso, si litigavano da ore e ore, per la divisione: Trifari pretendeva di aver indotto Rocco Galasso, suo compaesano, a firmare e voleva cinquecento lire: Colaneri pretendeva che Rocco Galasso aveva firmato la cambiale, per aver poi il tema dell'esame da Colaneri, compromissione grande che egli, Colaneri, si assumeva tutta e per cui poteva essere destituito, quindi a lui cinquecento lire. La lite era stata tremenda: due volte erano stati per venire alle mani; ma Trifari, a malincuore, sbuffando di collera, cedette, perché sapeva che Colaneri, nella notte, aveva delle rivelazioni, cosa che a lui uomo pletorico, eretico e bestemmiatore, non accadeva; e Colaneri cedette, perché Trifari gli portava molti studenti, con cui egli faceva degli affari per gli esami, affari veramente pericolosissimi, di cui temeva egli stesso, ma a cui cedeva per soddisfare il suo vizio. Infine, si erano divise le settecentosessanta lire. Avevano incontrato l' assistito he aveva domandato loro, in tono da ispirato, se volevano fare la elemosina di cinque lire a San Giuseppe: ed essi dettero le cinque lire, pensando che quella domanda erano numeri, e che dovevano giuocare il cinque, la moneta e il diciannove, che è il numero di San Giuseppe. Tutto ciò che dice l' assistito, l venerdì sera e il sabato mattina, sono numeri. Tanto che Trifari e Colaneri, dopo aver fatto la giuocata sui numeri prelibati, scendevano man mano a giuocar quelli, secondo loro, meno probabili; poi giuocavano, tanto per uno scrupolo, i biglietti popolari, che erano tre o quattro; e infine, appoggiati al grande banco di legno, guardandosi in volto, col sorriso ebete, cercavano ancora, se nulla avessero dimenticato. Malgrado l'ora tarda, la gente continuava a ingombrare il Banco lotto di don Crescenzo, a cui, in quell'ultimo venerdì di marzo, per un riflusso di febbre viziosa, sarebbe toccato un grosso introito; uno di quegli impeti furiosi, collettivi, dell'inguaribile malore che consuma tutte le forze della fortuna napoletana. Erano persone che escivano dai teatri e che avendo pensato tutta la serata a un biglietto da giuocare, non volevano rimandarne al sabato l'esecuzione, per paura di dimenticarlo, nella breve mattinata; erano dei cocchieri di carrozze da nolo, di notte, che si fermavano innanzi alla bottega, scendevano dalla cassetta e aspettavano il loro turno di giuocata, con la indivisibile frusta in mano e gli occhi pazienti di chi è uso alle lunghe aspettazioni; erano quei laceri, miseri venditori ambulanti notturni, figure piene di ombre, che la vivida e calda luce del gas faceva fremere di timidità, il venditore di giornali, il venditore di frittelle, il trovatore di mozziconi, il venditore di pizze, l lupinaio, il venditore di gramigna per i cavalli delle carrozze di notte, tutti, passando, volta a volta, gridando la loro merce, si erano fermati innanzi al posto i lotto ed erano entrati, non potendo resistere alla voglia di giuocare una lira, mezza lira, sei soldi; vennero il conduttore e i due facchini dell' omnibus he aveva portato all'albergo dell' Allegria viaggiatori arrivati con l'ultimo treno, mentre i conduttori e i cocchieri degli omnibus n piazza della Carità, man mano che le corse finivano, e che essi dovevano ritirarsi stanchi morti, prima di andare a casa, erano venuti a giuocare il loro biglietto. Intanto Formosa non si era deciso a giuocare, con quella specie di transazione col tempo, che fanno tutti i grandi amanti e i grandi appassionati: sulla soglia della bottega, da un canto per far passare la gente, egli discorreva con Trifari e Colaneri, che neppure volevano andar via, malgrado avessero esaurito il piacere della giuocata, stando lì per godere di quella luce, di quel caldo, di quelle persone, di quei denari che fluivano, di quei polizzini che partivano, pegni di fortuna, pegni di ricchezza, fantasticando in quale di essi vi fosse la verità. Quale, quale? Ecco il dubbio tremendo e dolce, l'ignoto immenso e ardente, il mistero che vi sorride a traverso i suoi veli, che non si sollevano. Dopo aver fatto una passeggiatina per Toledo, non potendo resistere, l'avvocato Ambrogio Marzano era ritornato anch'esso e si era unito al gruppetto dei suoi amici cabalisti che confabulavano fittamente. Incapace di non parlare del suo numero, del suo fulmine, aveva detto il trentacinque, il famoso trentacinque, tanto che Colaneri e Trifari erano rientrati per giuocarlo, e lui, Marzano, era rientrato per giuocare il sessantatré datogli da Colaneri. No, Formosa non giuocava ancora. Ma il termine della voluttà si approssimava ed egli sentiva l'imminenza del gran momento: e mentalmente, in uno dei suoi fervidi slanci mistici, pregava il Signore, la Madonna di casa Cavalcanti, l' Ecce Homo he egli venerava nella sua cappella gentilizia, perché lo illuminassero, lo ispirassero, perché gli facessero l'unica, la suprema grazia che egli chiedeva da anni. Di nuovo, i suoi amici, dopo aver bevuto questo altro piccolo sorso di piacere, erano esciti fuori e parlottavano vivacemente di numeri, eccitandosi in quelle grandi ombre che oramai regnavano su Toledo, spezzato da quel quadrato luminoso che gittava sul marciapiede la luce del Banco lotto. In quest'ora videro entrare anche Cesare Fragalà. Dopo aver chiusa la bottega, il gaio pasticciere andava sempre a passare un paio di orette al suo Circolo, dove giuocava al domino, con altri commercianti di coloniali, di panni, di agrumi, di olio, di baccalà, arrischiando un soldo a ogni partita. Il venerdì sera, anche giuocava quelle lunghe partite, ma distratto, un po'nervoso, attraverso la sua inesauribile giocondità giovanile; e scappava via un po'più presto per andare dal suo caro don Crescenzo, a fare la sua gran giuocata settimanale. Veramente, al suo ardore di giuocatore si mescolava una certa ritrosia, come un piccolo senso di rimorso, una vergogna di buttare il suo denaro in quella maniera; e perciò arrivava al Banco lotto molto tardi, quando vi era minor gente che lo vedesse, che lo conoscesse; e quella sera, al saluto di Formosa, rimase interdetto, gli seccava di essere stato veduto dal suo vicino. Poi, si strinse nelle spalle e fermatosi presso il suo carissimo amico don Crescenzo, che continuava a scrivere, piegando la sua bella barba nera sul petto e facendo una quantità di volatine eleganti con la penna, si mise a dettargli de'numeri, a lungo, a lungo, mostrando i suoi denti bianchi, in un sorriso. Don Crescenzo scriveva, imperturbabile: da sei mesi che Cesarino Fragalà giuocava al suo Banco lotto, ogni settimana le somme arrischiate venivano crescendo. E in quel fluire di numeri dettati, don Crescenzo riconosceva, con la sua osservazione particolare, i numeri dati dall' assistito, ioè per simbolo, e che ognuno aveva interpretati a suo modo, tanto che Formosa, Colaneri, Trifari, Marzano, Ninetto Costa e Cesare Fragalà, e quanti prendevano la sorte dalle parole di don Pasqualino, giuocavano numeri diversi, molti numeri, così che ognuno di loro, ogni tanto, finiva per fare qualche piccolo pericolosissimo, guadagno, quindici o venti scudi sopra un numero situato, eicento lire sopra un ambo: raramente, è vero, ma tanto da attizzare fatalmente la loro passione e da renderli schiavi di tutte le nebulose frasi di don Pasqualino. Per il che, con un lieve sorriso, mentre faceva la somma delle giuocate, don Crescenzo disse: - Voi pure siete cliente di Pasqualino De Feo? - Lo conoscete? - disse ansiosamente Cesare Fragalà. - Eh, siamo amici…- mormorò don Crescenzo. - Sa i numeri, non è vero? - chiese Cesarino, con un tremito nella gola. - Spesso… - Come, spesso? - Quando il cliente è in grazia di Dio, - rispose il postiere, enigmaticamente. E volendo finire il discorso, con un atto gentile, consegnando i polizzini, disse al negoziante di generi coloniali: - Cinquecentoquaranta. Quello pagò flemmaticamente, con la tranquillità del negoziante, senza che la sua fisonomia si turbasse. Ma quando fu uscito dal Banco lotto, sulla porta, cadde il suo sorriso e si rammentò di aver fatto in quel giorno il suo primo debito usurario, si rammentò di aver dato fondo ai cassetti della bottega, levandone tutto l'introito, per formare quella grossa cifra che aveva giuocata. Fu per distrarsi da quei dolorosi pentimenti, che si unì al gruppo dei cabalisti. All'una dopo mezzanotte, fermi innanzi alla bottega del giuoco, essi non sentivano né l'ora che passava, né la notte avanzante, né l'umidità penetrante, ardendo del loro continuo fuoco interiore, che nella notte dal venerdì al sabato divampava. E lungamente, interrompendosi, ricominciavano mille volte le stesse istorie, riscaldandosi, eccitandosi, guardandosi in faccia con gli occhi stralunati e vividi di fluido, quasi fossero allucinati. Cesarino Fragalà ascoltava, cercando di prendere la medesima febbre, ma non riuscendovi; era uno spirito debole, niente altro, ma senza pazzie, senza nervosità. E quando tutti enumeravano le ragioni per cui giuocavano, la tale necessità materiale o morale, il tale bisogno urgente, impellente, a cui soltanto il lotto poteva dare un appagamento, egli ascoltava con malinconia; e a un certo punto egli potette dire: - Oh io… io… ho bisogno di sessantamila lire per aprir bottega verso San Ferdinando e fare la dote alla mia Agnesina. Una infinita tristezza lo teneva. Buono, onesto, incapace di mentire a sua moglie per qualunque cosa, egli la ingannava da molti mesi, come un ciurmadore, le toglieva di mano i libri di cassa, che ella spesso si fermava a sfogliare, cercava di nasconderle il suo vizio, con una cura di tutte le ore, smarrendo così il buon umore e la quiete. - Se non fosse questo magazzino… se non fosse per Agnesina…- mormorava, in preda a un rammarico inconsolabile. Adesso, verso l'una e mezzo di notte, veniva il momento di chiudere il Banco lotto, poiché la clientela si era fatta più rada, più rada, e il marchese di Formosa, deciso alla fine, entrò nella bottega del giuoco, a giuocare. Con la nota in mano, dicendo lentamente i numeri a don Crescenzo, un lieve tremito agitava la sua voce: e gli occhi fissavano la carta, dove aveva scritto la lunga filza delle cifre, quasi per una subitanea emozione di piacere. La bottega del giuoco, oramai, diventava deserta; e gli amici cabalisti, Colaneri, Trifari, Marzano, menando seco anche Cesarino Fragalà che si sentiva infelicissimo, si erano messi dietro al marchese di Formosa, ascoltando i numeri, battendo le palpebre per approvazione, o crollando il capo in segno di sfiducia, infine assistendo a quella non breve operazione del giuoco di Cavalcanti, con la gravità dei preti, che assistono il vescovo nel pontificale. Dietro il banco di legno, don Baldassarre, il vecchio decrepito, don Checchino dalla faccia smorta, stavano immobili, con gli occhi socchiusi, stanchi morti di quella sgobbata di dieci ore, pensando all'altra sgobbata dell'indomani, dalle sette all'una, nel grande ardore dell'ultima ora. Solo don Crescenzo conservava la sua disinvoltura e la placida beatitudine del napoletano, che ha il suo piatto di maccheroni assicurato, e che serenamente assiste alla corsa affannosa degli altri, dietro il fantastico piatto di maccheroni, o dietro molti fantastici piatti di maccheroni, nel grande, immaginoso paese di cuccagna. Carlo Cavalcanti, infervorato, giuocava, tanto che al pagare vi mise le lire che il suo cameriere Giovanni s'era fatto prestare dalla usuraia Concetta, le lire che la sua cameriera Margherita s'era fatte prestare dall'usuraio don Gennaro Parascandolo, e settanta lire che aveva avute dal Monte di Pietà, impegnando due antichi e artistici candelabri di bronzo dorato, ritrovati in una stanza di vecchiumi, a casa Cavalcanti, in tutto duecentoventi lire; e rimase pallido, scontento, malinconico, a un tratto sfiduciato sul valore di certi numeri, dolente di non aver potuto arrischiare di più su certi altri, e infine disperato di non poter giuocare tutti gli altri, utti quelli che erano nei suoi calcoli. Così l'amante, dopo aver lungamente desiderato un colloquio con l'amata, quando l'ha ottenuto, ne vede fuggire i momenti con rapidità crudele e, dopo, resta profondamente addolorato per non aver detto una parola di quello che sentiva, alla donna sua. Quel vecchio, in cui l'età non arrivava a domare la furiosa passione, piegava il capo, subitamente accasciato come se avesse vissuto dieci anni in un minuto; e lento, tacito, uscì con gli altri, lenti e muti, per la via buia, andandosene a casa sua. Avevano freddo, tutti, in quell'inoltrata ora notturna; li vinceva un brivido sottile, per cui si stringevano nei soprabiti e abbassavano la testa, senza parlarsi fra di loro. Così arrivarono in piazza Dante, sotto il palazzo Rossi, già Cavalcanti, e il discorso cabalistico ricominciò; due o tre volte andarono su e giù nella piazza, mentre la candida e severa statua del poeta parea li sdegnasse, con le sue bianche occhiaie vuote. Conducevano seco il povero Cesarino Fragalà, corroso adesso da un pentimento invincibile, per aver buttato via tanto denaro, il denaro della sua famiglia, quello della sua Agnesina: ma era inutile, egli giuocava, perché era una creatura debole e allegra, cui pungeva un po'di ambizione commerciale; non sarebbe mai stato un cabalista, la pazzia negli altri lo sorprendeva dolorosamente, ma non gli si comunicava. Pure, restava con loro, quasi non avesse la forza di rientrare a casa, per coricarsi accanto a sua moglie, con quel rimorso di aver gittato cinquecento lire; e ogni tanto, distraendosi, si metteva a guardare le ombre della gran piazza, fisamente, quasi si vedesse apparire qualche visione straziante. A un certo punto, Marzano salutò e si allontanò, verso l'arco di Porta Medina, abitando egli a via Tribunali: ma gli altri continuarono ad andare su e giù, farneticando in quell'oscurità, in quel freddo, che non sentivano più: e più fremente di tutti, il marchese Carlo Cavalcanti, dagli occhi scintillanti, la cui figura si ergeva nella oscurità, forte e salda, simile a quella di un uomo trentenne. Poi, a un certo punto, si licenziarono Colaneri e Trifari, che abitavano ambedue in una povera casa del Cavone. Allora Formosa continuò, monologando, dirigendo la parola a Cesare Fragalà, o alle tenebre, o a sé stesso: e pian piano, discendevano verso Toledo, un'altra volta, quando una tranquilla voce li salutò: - Buona notte a questi miei signori. - Buona notte, don Crescenzo, - disse il marchese. - Avete chiuso, eh? Buona giornata. - Trentaduemila cinquecentoventisette, - disse d'un fiato il tenitore del Banco. Vi fu un silenzio. - Voi non giuocate, don Crescenzo? - domandò Cesarino Fragalà. - No, mai. Buona notte. - Buona notte. Egli si allontanò, sveltamente. Essi, visto che il Banco lotto era chiuso, oramai, tornarono indietro, pesantemente. E fu con un sospiro, che bussarono pianamente al portone del palazzo: rincresceva loro di tornare a casa. Si licenziarono, al primo piano, con una stretta di mano e un'occhiata di allucinati.

Ella taceva, con gli occhi abbassati: e le due sorelle sentivano l'approssimamento, l'invasione di un gran mistero. - Abbiamo portato le dieci lire, - disse timidamente Carmela, cavandole dalla cocca del fazzoletto e posandole sulla tavola, accanto alla mano di Chiarastella. La fattucchiara on batté palpebra: solo il gatto nero levò il capo, mostrando i begli occhi gialli come l'ambra. - Avete intesa la messa? - chiese Chiarastella, senza voltarsi. - Sì, - mormorarono le due sorelle. Ella aveva una voce bassa e roca; una di quelle voci muliebri che paiono sempre cariche di una intensa emozione, e che producono una vibrazione nel cervello, nell'animo di chi ascolta. - Dite tre Avemarie, re Pater noster, re Gloria patri, d alta voce. In piedi, innanzi ad essa, le due sorelle dicevano le sacre parole delle orazioni: ella stessa le diceva, con la sua vibrante voce, con le mani congiunte a preghiera, nel grembo, sul grembiale di lana nera. Il gatto si era levato su, sulle grosse zampe nere, e teneva il capo abbassato. Poi tutte insieme, le tre donne, dopo essersi inchinate tre volte al Gloria patri, issero la Salve Regina. e preghiere erano finite. La fattucchiara prì il cassetto di ferro lavorato, tenendone sollevato il coperchio, in modo da nascondere quello che vi era dentro, e vi frugò con le dita, a lungo. Poi avendone preso certi oggettini, celandoli ancora con la mano, impallidì mortalmente, gli occhi le si stravolsero, come se vedesse un orribile spettacolo. - Madonna mia, assistici, - pronunziò sottovoce Annarella che tremava di paura. Chiarastella, adesso, con un cerino giallastro acceso, aveva fatto bruciare due pastiglie dall'odore bizzarro, pungente e pesante nel medesimo tempo: e intentamente guardava nelle volute, negli anelli di fumo, quasi vi dovesse leggere una parola arcana: due o tre volte gli occhi le si dilatarono, mostrando il bianco striato d'azzurro. Quando il fumo si fu dileguato, restò il profumo acuto e grave: le due sorelle provavano già uno stordimento al cervello, forse per quell'odore. E monotonamente, senza guardarle, Chiarastella domandò: - Sei tu risoluta di far la fattura a tuo marito? - Sì, purché non soffra nella salute, - rispose fiocamente Annarella. - Vuoi legargli le mani, due o tre volte, perché in nessun giorno, in nessun'ora egli possa giuocare al lotto? - Sì, - disse l'altra, con slancio. - Sei in grazia di Dio? - Così spero. - Raccomandati alla Madonna, ma in te stessa. Mentre Annarella levava gli occhi, come per trovare il cielo, la fattucchiara avava dal cassetto di ferro una sottile cordicina nuova: la guardava, questa cordicina, mormorando certi versi curiosi, lunghi e corti, in dialetto napoletano, che invocavano la potenza del cielo, dei suoi santi e insieme di certi spiriti buoni, dai nomi strani: e la cantilena proseguiva, Chiarastella sempre stringendo nella mano la cordicina, sempre guardandola, quasi infondendovi il suo spirito. Anzi, tre volte, vi soffiò sopra: tre volte baciò devotamente la corda. Mentre ella faceva queste operazioni, le sottili mani brune le tremavano: e il gatto andava su e giù sul tavolone, agitato, gonfiando il pelo nero del muso. Annarella, adesso, si pentiva più che mai di esser venuta colà, di aver voluto fare la fattura a suo marito: sarebbe stato meglio, assai meglio, rassegnarsi alla mala sorte, anziché venire a chiamar fuori tutti quegli spiriti, anziché mettere quel gran mistero pauroso nella sua umile vita. Ah se ne pentiva profondamente, col respiro oppresso e la faccia afflitta, desiderando di fuggire di là, subito, di trovarsi lontano, nel suo oscuro basso, ove preferiva soffrire la miseria e il freddo! Era una sua sorella che l'aveva indotta a quel mezzo estremo: l'aveva fatto più per pietà di sua sorella che ella vedeva così malinconica, così desolata, così consumata di dolore, per l'abbandono di Raffaele. Non è bene, no, tentare così la volontà di Dio, con le fatture e con gli scongiuri: già, tanto, nessuna potente fattura avrebbe mai vinto la passione di suo marito. Ella gliela aveva letta, negli occhi inferociti, un giorno di sabato, l'indomabilità di quel vizio; ella lo aveva visto maltrattare i suoi figli, con quella rabbia compressa di chi è capace anche di maggiore brutalità. E quella fattura, vedete, quella fattura così paurosa nei suoi preludii, nella sua composizione, le sembrava un altro passo dato sulla via di una oscura catastrofe. Ora, Chiarastella, il cui viso sembrava assottigliato, la cui pelle bruna luccicava, i cui occhi ardevano, aveva fatto i tre nodi fatali alla cordicina, fermandosi ad ognuno, per dire qualche cosa, sottovoce: e alla fine, d'un colpo, dal seggiolone dove era sempre restata seduta, si era buttata in terra, inginocchioni, col capo abbassato sul petto. Il gatto nero, come furioso, si era buttato anche lui giù e adesso roteava, roteava intorno alla fattucchiara, on quel giro convulso dei felini che stanno per morire. - Madre dei Dolori, non mi abbandonare, - gridò Annarella, fremendo di paura. Ma la fattucchiara, opo essersi segnata, furiosamente, più volte, si alzò e in tono solenne disse alla moglie del giuocatore: - Prendi, prendi, questa è la corda miracolosa che legherà la mente, che legherà le mani di tuo marito, quando Belzebù gli suggerirà di giuocare: credi in Dio, abbi fede in Dio, spera in Dio! Tremando, provando alla bocca dello stomaco il calore delle supreme emozioni, Annarella prese la cordicina della fattura che doveva mettere addosso al marito, senza che costui se ne accorgesse: e ora avrebbe voluto andarsene, fuggire via, sentendo più forte l'afa di quella stanza e il profumo che dava le vertigini al cervello. Ma Carmela, smorta, sconvolta, da quanto aveva visto e da quanto sentiva ribollire nel suo animo, le rivolse uno sguardo supplichevole, per farla aspettare, ancora. Chiarastella aveva già cominciato a fare la fattura, perché Raffaele amasse nuovamente Carmela; aveva chiamata Cleofe, la decrepita serva, e le aveva detto qualche cosa all'orecchio; la serva era uscita ed era rientrata, portando nelle mani un piatto di porcellana bianca, un po' fondo, pieno di acqua chiara; lo aveva portato, tenendolo con precauzione fra le mani, guardando l'acqua, quasi ipnotizzata, per non farne versare una goccia; poi, era scomparsa. Chiarastella, piegata la faccia sul piatto, mormorava parole sue, sull'acqua: poi vi bagnò un dito, lasciando cadere tre goccie sulla fronte di Carmela che, a un suo cenno, si era inclinata innanzi a lei: le tre goccie non si disfecero, la fattura sarebbe riescita. Poi la fattucchiara ccese un candelotto di cera vergine, che le aveva portato Carmela; e mentre borbottava continuamente parole latine e italiane, lo stoppino del candelotto strideva, come se si fosse buttata dell'acqua sulla fiammella: - Hai portato i capelli, tagliati sulla fronte, un venerdì sera, quando la luna cresceva? - domandò Chiarastella, con la sua voce roca, interrompendo le sue preghiere. - Sì, - disse Carmela, traendo un profondo sospiro e consegnando una ciocchetta dei suoi neri capelli alla fattucchiara. al cassetto di ferro Chiarastella aveva cavato fuori un dischetto metallico, di platino, lucido come uno specchio, sulla cui superficie erano incisi certi geroglifici e vi aveva messo la ciocchetta di capelli, elevando tre volte in aria il dischetto, come se ne facesse offerta al cielo. Poi espose la ciocchetta dei capelli neri alla fiammella crepitante del candelotto, un po' in alto: la fiammella si allungò per divorare i capelli, in un minuto secondo, e attraverso il fetido odore dei capelli bruciati, non si vide sul dischetto che un pizzico di cenerina puzzolente. L'incanto procedeva, mentre Chiarastella cantava, sottovoce, il suo grande scongiuro per l'amore: una bizzarra mescolanza di sacro e di profano dal nome di Belfegor a quello di Ariel, da san Raffaele protettore delle fanciulle, a san Pasquale protettore delle donne, un po'in dialetto napoletano, un po'in italiano scorretto. Prese, dopo, una boccettina dal cassetto di ferro lavorato, che conteneva tutti gli ingredienti per le fatture: e versò nell'acqua del piatto tre goccie di un liquore contenuto nella boccetta; l'acqua diventò subito di un bel colore di opale dai riflessi azzurrastri, dove la fattucchiara uardò uardòancora, per leggere in quella nuvola biancastra; la nuvola si avvolgeva: si avvolgeva in spire, in volute, e Chiarastella vi versò il pizzico di cenere dei capelli abbruciati. Man mano, sotto lo sguardo della maga, l'acqua del piatto si chiarì, diventò limpida di nuovo: e allora lei, fattasi consegnare da Carmela una bottiglina di cristallo, nuova, comperata di sabato, di mattina, dopo essersi fatta la comunione, la riempì pian piano di quell'acqua del piatto: il filtro amoroso era fatto. - Tieni, - disse la fattucchiara Carmela, col suo accento solenne della fattura compita, - tieni, conserva gelosamente quest'acqua. Ne farai bere qualche goccia nel vino o nel caffè, a Raffaele: quest'acqua gli infiammerà il sangue, gli brucierà il cervello, gli farà consumare il cuore di amore per te. Credi in Dio; abbi fede in Dio; spera in Dio! - Non è veleno, non è vero? - osò dimandare Carmela. - Bene gli può fare e non male: fida in Dio! - E se continua a disprezzarmi? - Allora vuol dire che ama un'altra: e questa fattura qui non basta. Allora bisognerà che tu sappia chi è questa femmina per cui egli ti tradisce; che mi porti qua un pezzetto della camicia, o della sottana, o della veste di questa femmina, sia lana, sia tela, sia mussolina. Io farò la fattura contro lei: sopra un limone fresco inchioderemo con un grosso chiodo e con tanti spilli il pezzetto della camicia o del vestito: e tu butterai nel pozzo della casa, dove abita questa femmina, questo limone affatturato. Ogni spilla di quelle, figliuola mia, è un dispiacere: e il chiodo è un dolore al cuore, di cui ella non guarirà mai… hai capito? - Va bene, va bene - mormorò Carmela, desolata alla sola idea del tradimento di Raffaele. - Andiamocene, andiamocene, - le disse Annarella che non ne poteva più. - Grazie della carità, sie' hiarastella. hiarastella.- Grazie, - soggiunse anche Anna. - Ringraziate Iddio, ringraziatelo, - esclamò la fattucchiara, saltatamente. saltatamente.E si buttò un'altra volta inginocchioni, pregando fervidamente, mentre il grosso gatto nero miagolava dolcemente, strusciando il muso roseo sulla tavola. Le due donne uscirono, pensose, preoccupate. - Questa fattura non è cosa buona, - disse Annarella, con malinconia, a Carmela. - E allora che si deve fare, che si può fare? - chiese l'altra, torcendosi le mani, con gli occhi pieni di lacrime. - Niente, - disse Annarella, con voce grave. Esse scendevano, lentamente, stanche, abbattute da quella lunga scena di magia, superiore alla loro semplicità intellettuale, accasciate dopo quella tensione di sentimenti. Un uomo ascendeva gli scalini del vicolo Centograde, lestamente, dirigendosi verso la casa della fattucchiara. ra don Pasqualino de Feo, l' assistito. e due femmine non lo videro: andavano, sentendo più grave il peso della loro vita sventurata, temendo di aver oltrepassato i limiti che alle pie creature umane si concede, temendo di aver attirato, sul capo delle persone che amavano, la misteriosa punizione di Dio.

Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

Era lì lì per parlare, per chiederle bruscamente dove si sentisse male; ma gli occhi dolci e fieri si erano abbassati, nella loro errabonda espressione di pensiero; e la bocca aveva quella linea severa di taciturnità che chiede, impone l'altrui silenzio. E la fanciulla sparve, senza che egli avesse detto nulla. Il dottor Antonio Amati si strinse energicamente nelle spalle, salendo in carrozza, immergendosi nella lettura di un giornale medico; così faceva ogni giorno, per occupare utilmente anche il po' di tempo del tragitto. La carrozza rotolava senza rumore sul selciato, che l'umidità copriva di un sottile strato di fanghiglia: l'umidità aveva steso una lievissima ombra sui cristalli della carrozza, e il medico sentiva nell'aria e in sé il fastidio di quella triste giornata sciroccale. Né l'ospedale poteva consolare la malinconia tutta fisica del dottore; per distrarsi egli s'immerse più profondamente nel lavoro pratico della visita medica e in quello scientifico della spiegazione agli scolari. Andava e veniva, da un letto all'altro, seguìto da una turba di giovanotti, più alto di tutti loro, con la breve fronte dell'uomo ostinato, che due rughe segnavano, dall'alto in basso, per il continuo aggrottamento delle sopracciglia, le rughe della volontà, della concentrazione: e dalla bruna spazzola dei neri capelli, piantati rudemente sulla fronte, dove già qualche ciuffo bianco si mostrava, tanta era l'attività del suo pensiero, della sua parola, della sua azione sempre pronta, che pareva che dovesse uscire il fumo dei vulcani in eruzione. Gli ordini ai coadiutori, agli assistenti, alle monache erano dati con durezza: tutti obbedivano in silenzio, subito, provando, malgrado la brutalità di quegli ordini, una simpatia per quella volontà ferrea, una ammirazione per colui che tutti chiamavano il grande salvatore. anche la sala a lui affidata, in quel giorno, aveva l'aspetto più triste, più lugubre; la oscurità dell'aria rattristava quei malati, l'umidità pesante e male odorante faceva loro sentire più acutamente i mali: e un lamentìo sommesso, come un lungo respiro affannoso, si udiva da un capo all'altro della sala e i pallori degli infermi diventavano gialli in quella scialba luce, le mani scarne distese sulle coperte parevano di cera. E malgrado che cercasse di stordirsi nel lavoro, nella parola, il dottor Antonio Amati sentiva più forte, più acuto, il fastidio della professione… e attraverso quella sala lunga e stretta, piena di letti allineati e di smorti volti stanchi di soffrire, piena di un costante odore di acido fenico, attraverso quello scurore e quella umidità sciroccale, in cui anche i rosei volti delle monache parevano esangui, egli ebbe un sogno, una visione sparente di una campagna soleggiata, verde e calda, chiara e odorosa, ebbe al cuore la strettura di un idillio apparso un minuto, scomparso per sempre. - Addio, signori, - disse Amati bruscamente agli studenti, licenziandosi. Essi sapevano che, quando li salutava così, non desiderava di essere accompagnato: sapevano, avevano inteso che il professore era in una delle sue cattive ore: lo lasciarono andare. Uno degli infermieri gli consegnò due o tre lettere, giunte mentre faceva la visita e la lezione: erano chiamate, biglietti pressanti per ammalati che lo invocavano: un padre cui la malattia di suo figlio facea perder la testa, delle donne disperate. Egli, leggendo crollava il capo, come sfiduciato, quasi che tutti i malanni della umanità lo trovassero scoraggiato della loro salvazione. Andava, sì, andava, ma lo teneva una stanchezza profonda, che gli doveva nascere dall'anima, perché aveva lavorato assai meno degli altri giorni: andava, taciturno, concentrato, quando un'ombra surse innanzi a lui, per le scale dell'ospedale. Era una povera donna, senza età, scarna, coi capelli radi e bigiastri, coi denti neri, coi pomelli sporgenti; una povera donna con una vestaccia lacera e sporca, mentre il bimbo che portava assopito fra le braccia, era poveramente coperto, ma pulito. - Eccellenza, Eccellenza… - mormorò costei, con voce di pianto, vedendo che il medico passava avanti, borbottando, senza curarsi di lei. - Che vuoi? Chi sei? - disse ruvidamente il dottore, senza guardarla. - Sono Annarella, la sorella di Carmela, quella che voi avete scampata dalla morte… - disse l'altra, - la misera moglie di Gaetano, il tagliatore di guanti. - Stamattina tua sorella, oggi tu! - esclamò il medico, impaziente. - Ah non per me, signore, non per me, - mormorò la moglie del giuocatore - io posso morire, non me ne importa niente, tanto che ci fo a questo mondo? Non trovo neppur modo di dar pane ai figli… - Sbrigati, sbrigati… - È per questa creaturina, per questo figliuolino malato, signore mio, - e si chinò a baciare la fronte calda del piccolo assopito. - Io non so che ha, ma ogni giorno va giù, va giù, e io non so che dargli a questo cuore mio… sanatemelo voi, signore mio… Il medico si chinò sul piccolo infermo, dal bel volto gracile e pallido, dalle palpebre violacee, dal respiro impercettibile, che appena schiudeva le labbrucce; gli toccò la fronte e le mani, poi guardò la madre. - Gli dài latte? - domandò brevemente. - Sissignore - diss'ella, con un lievissimo sorriso di soddisfazione materna. - Quanti mesi ha? - Diciotto. - E ancora dài latte? Tutte eguali, voi altre napoletane! Levagli il latte. - Oh, signore mio! - esclamò ella, spaventata. - Levagli il latte, - replicò lui. - E che gli dò? - diss'ella, quasi singhiozzando. - Il pane mi manca spesso, per me e per gli altri due: ma il latte no… deve morire di fame, anche quest'altra anima di Dio? - Tuo marito non lavora, eh? - chiese il medico, pensando. - Nossignore: lavora - diss'ella, crollando il capo. - Ha qualche altra donna? - Nossignore. - E che fa allora? - Giuoca alla bonafficiata, disse lei, chinando il capo. - Ah! ho inteso. Leva il latte al ragazzo. Ha la febbre. È il tuo latte che lo avvelena. Ella, dopo aver guardato il dottore e suo figlio, disse, sottovoce, soltanto: Gesù! E un singhiozzo le spezzò il petto materno. Amati aveva scritto una ricetta, col lapis, sul foglio di un suo taccuino. E scendeva le scale seguìto da Annarella, le cui lacrime cadevano sul volto del ragazzo e il cui singulto seguitava, cupo, come un lamento. - Questa è la ricetta e queste sono cinque lire per spedirla, - disse il medico, rapidamente, facendo un cenno, per impedire che Annarella lo ringraziasse. Ella lo guardava, con gli occhi imbambolati, mentre lui attraversava il grande e freddo cortile dell'ospedale per andare a mettersi in carrozza: sola, chinando gli occhi sul suo bimbo, ricominciò a piangere, e la ricetta nella sua mano tremava, tanto le era insopportabilmente amara, l'idea di aver avvelenato il suo figliuolo, col suo latte. - È stata la collera, è stata la collera - diceva fra sé, poiché fra il popolo napoletano il dolore i chiama spesso la collera. l dottor Amati aveva ancora crollato il capo, con un atto energico, come se avesse la più assoluta sfiducia nella guarigione della umanità. Mentre apriva lo sportello della carrozza, per salirvi, una donna che sino allora aveva chiacchierato col portiere dell'ospedale gli si accostò, per parlargli. Era una donna vestita di un nero vestito, di un nero scialle claustrale, con un fazzoletto di seta nera che le nascondeva il capo ed era legato sotto il mento, con un volto pallido e gli occhi neri di un colore opaco di carbone, gli occhi di chi vive nella penombra e nel silenzio. Ella parlava piano. - Vostra Eccellenza vorrebbe venire con me, per una carità urgente? - Ho da fare, - borbottò il medico, facendo atto di salire in carrozza. - È una persona che sta male, molto male, - insistette la donna, ma senza levare la voce. - Tutte le persone che debbo vedere, stanno male… - È qui vicino, Eccellenza, nel monastero delle Sacramentiste. Mi hanno mandata all'ospedale, per trovare un medico, non posso tornare senza medico… la persona sta assai male. - Sopra vi è ancora il dottor Caramanna, cercate lui, - ribattè Amati. - Sta male una monaca? - soggiunse, poi. - Nossignore, le Sacramentiste sono di clausura: non possono chiamare gli uomini in convento, - disse la servente, con un movimento delle labbra. - È una persona che si è sentita male nel parlatorio delle monache… è fuori clausura. - Vengo io - disse subito Amati. E spinse la servente nella sua carrozza, entrandovi e chiudendo lo sportello. La carrozza rotolò nuovamente per la via dell'Anticaglia così bruna, e sporca di fango, e triste di vecchiaia la servente e il medico non scambiarono neppure una parola, durante il breve tragitto. La carrozza si fermò innanzi alla porta del convento chiusa: la servente, invece di tirare la catenella di ferro che corrispondeva alla campanella dell'interno, mise una chiave nella toppa e schiuse il portone. Essa e il dottore attraversarono prima un gelido cortile dove sporgevano una quantità di finestre dalle gelosie verdi, poi un corridoio terreno, a colonne, lungo il cortile: dappertutto una completa solitudine e un perfetto silenzio. Entrarono in una vasta stanza anche terrena, con due porte-finestre sul corridoio. Lungo le muraglie della stanza, semplicemente biancheggiate di calce, vi erano delle sedie di paglia, niente altro: un grande tavolone, nel fondo, con una sedia dove sedeva la servente portiera. A una parete, un crocifisso. Lungo un'altra parete due grate fitte e, in mezzo, la ruota: di là si parlava e si passava qualche oggetto alle monache. Presso questa parete era distesa, su tre sedie, una forma femminile presso cui un'altra era inginocchiata, piegandosi sul volto di quella. Prima che il medico arrivasse alla giacente, la servente si accostò alla grata e parlò: - Sia lodato il Santissimo Sacramento. - Oggi e sempre! - rispose una fievolissima voce, all'interno, come se uscisse da una cava profonda. - Vi è il medico? - Sì, suor Maria. - Bene, - e un sospiro si udì, fievole e lungo. Intanto il dottor Antonio Amati si era accostato alla fanciulla svenuta, a cui Margherita bagnava la fronte con un fazzoletto molle di aceto, mormorando sottovoce: - Figlia mia, figlia mia. Il dottore che aveva posato il cappello in terra, s'inginocchiò anche lui, a esaminare più da presso il volto bianco della fanciulla svenuta. Le toccò il polso: delicatamente le sollevò una palpebra, l'occhio era vitreo. - Da quanto tempo sta così? - domandò a voce bassa, mentre le strofinava le mani gelide. - Da mezz'ora, - rispose la vecchia. - Che le avete fatto? - Solo l'aceto: me l'hanno dato dalla ruota: qui non vi è niente: è un monastero di clausura… - Ne soffre? - chiese lui, insistendo in altra forma. - Stanotte… stanotte ebbe un altro svenimento… l'ho trovata per terra, nella sua stanza… ho chiamato il padrone. - È rinvenuta da sé, stanotte? - Sì. - Ha avuto paura? - Non so… non credo… - disse quella esitando sempre. Parlavano a voce bassissima, mentre la servente si teneva ritta presso la grata, quasi a custodia. - Sta meglio? - chiese la fievolissima voce di dentro. - Lo stesso - rispose monotonamente la servente. - Oh Dio! - esclamò la voce, angosciata. Intanto il medico si era inclinato, per udire meglio il respiro. Pareva pensoso e preoccupato, mentre Margherita lo guardava con la disperazione negli occhi. - Ha avuto paura, mezz'ora fa, qui dentro? - ricominciò ad interrogare lui, mentre aveva delicatamente sollevata la testa di Bianca Maria e l'aveva appoggiata sul suo petto. - No… certamente, no… - susurrò Margherita. - Io era in chiesa, non ho udito quello che dicevano; mi hanno chiamata. - Chi è quella monaca? - chiese lui, accennando alla grata. - È suor Maria degli Angioli: la zia. Allora egli si levò e si accostò alla grata, mentre la servente faceva quel movimento delle labbra per indicare la clausura, quasi volesse opporsi alla conversazione del medico con la monaca. - Suor Maria, - disse lui, pian piano. - Oggi e sempre… - disse la voce tenue, precipitosamente, udendo la voce maschile. - Vostra nipote ha avuto qualche spavento? Silenzio dall'altra parte. - Qualche cattiva nuova? Sempre silenzio profondo. - Vi ha detto ella qualche cosa di spiacevole che le sia accaduto? - Sì, sì, - soffiò, tremando, la voce. - Potete dirmi di che si tratta? - No, no… - riprese subito, tremando sempre, quella di là. - Qualche cosa di assai doloroso…non posso dirlo. - Bene: grazie, - mormorò lui, rialzandosi. - E come sta? Non le date niente? - chiese la voce della suora. - La portiamo a casa: qui non si può farle niente. - Siamo povere monache… - mormorò la suora. - Come la portate? - In carrozza, - disse lui brevemente. Poi, accostandosi a Margherita, egli riprese, con voce bassa ed energica: - Ora vengo col mio cocchiere: qui essa non può restare, non posso darle nessun aiuto. La trasporteremo nella carrozza, qui fuori, e andremo a casa. - In questo stato? - chiese ella, incerta. - Volete farla morire qui? - interruppe lui, bruscamente. - Per carità… professore, scusate. Egli era già uscito, senza cappello, senza pastrano, attraversando il corridoio e la gelida corte. Ritornò dopo un minuto, col suo cocchiere, a cui aveva evidentemente date le sue istruzioni. Il dottore, delicatamente, sollevò il corpo della fanciulla svenuta, da sotto le braccia, facendole appoggiare la testa sul suo petto, mentre il cocchiere la sollevava dai piedi: era quasi rigida e pesante. Il cocchiere aveva il volto spaurito, gli pareva forse di trasportare una fanciulla morta, vestita di nero, attraverso quel nudo parlatorio, quel corridoio deserto, quel deserto e gelido cortile: e malgrado che, stando al servizio di un celebre medico, non fosse nuovo allo spettacolo del dolore fisico, quell'idea di trasportare un freddo corpo di fanciulla, un cadavere forse, gli dava tale ribrezzo, da voltare altrove lo sguardo. Dietro veniva la vecchia Margherita, il cui viso, nel chiarore del cortile, apparve più giallo, più incartapecorito, pieno di mille rughe dolorose: e il corteo silenzioso nella gran solitudine, nel gran silenzio, attraverso quel chiostro muto come una tomba, il corteo fatto dal dottore pensoso e turbato, dal servo sgomento, da quel corpo rigido ammantato tristamente di nero e dall'antica serva, curva dolorosamente sotto una nova angoscia ignota, il corteo, invero, era funebre. Delicatamente, con la precauzione che si usa a non risvegliare dal lieve sonno un bimbo dormiente, i due uomini posarono la povera creatura esanime nella carrozza, appoggiandole la testa sulla spalliera e i piedi sul sedile dirimpetto. Ella non aveva dato segno di vita, durante il trasporto: le due rughe si approfondivano fra le sopracciglia del dottore Antonio Amati, rughe di volontà e di concentrazione, caricandone la fronte di preoccupazione. Pure, gentilmente, cercò di riappuntare le trecce nere della fanciulla che si erano disciolte e le erano cadute sul petto: ma non ci arrivava. Con le scarne mani tremanti, Margherita che era anche salita nell'ampio landau raccolse lei carezzevolmente le trecce della padrona: e il dottore udiva che ella mormorava: - Figlia mia… figlia mia… Le tendine azzurre della carrozza erano state abbassate dal medico, contro gli occhi indiscreti: la carrozza andava al passo; e in quell'ombra, azzurrastra, acquitrinosa, con quel passo lento, il carattere di convoglio funebre si conservava, risaltava più forte. Anzi, a un certo punto, la carrozza si fermò; dopo un poco il cocchiere aprì lo sportello senza neppur guardare il corpo della fanciulla, e consegnò al dottore una boccettina chiusa ermeticamente, che costui fece odorare alla svenuta. Subito un acuto odore di etere si diffuse nella carrozza che continuava ad andare pian piano. Bianca Maria non si riscosse: dopo un poco, per solo segno di sensibilità, le palpebre chiuse le si arrossirono e grosse lacrime le sgorgarono fra le ciglia, rotolarono sulle guance, si disfecero sul collo. Il medico non distoglieva un momento il suo sguardo da quel viso, mentre teneva fra le sue la mano di Bianca Maria. Piangeva, ella, sempre immersa nello svenimento, senza dare altro segno di vita: come se nella mancanza di sensibilità, ancora la sensibilità del dolore le rimanesse, come se nella perdita di ogni memoria sopravvivesse ancora un ricordo angoscioso, un solo, quello. non rinveniva. Quando giunsero nel cortile del palazzo Rossi, appena aperto lo sportello, un mormorìo, un rumorìo nacque, crebbe, crebbe, impossibile a dominarsi. Vicino allo sportello la portinaia esclamava e strillava, quasi che la fanciulla fosse morta; tutte le finestre che davano sul cortile, tutte le porte che davano sul pianerottolo, si erano schiuse, e al vedere estrarre dalla carrozza la povera creatura esanime, bianca bianca, vestita di nero, con le trecce pendenti, strascicanti, accompagnata dal medico che invano cercava d'imporre silenzio, il gridìo di sorpresa, di compassione cresceva, cresceva, salendo per l'aria grave. Sul pianerottolo del primo piano era uscita Gelsomina, la nutrice di Agnesina Fragalà, tenendo nelle braccia la bella creaturina già florida: e dietro era apparsa anche la madre felice, Luisella Fragalà, vestita da uscire, col cappellino in testa. Ma appoggiata alla ringhiera di ferro, sorridendo vagamente alla sua bambina, ella s'indugiava, guardando con pietà quello strano trasporto; e una stanchezza preoccupata teneva la persona giovanile della bella borghese che, da poco tempo, ubbidendo a un istinto, a un presentimento, superando una certa fierezza, discendeva ogni giorno al magazzino di piazza Spirito Santo, legando i sacchetti dei dolci e i cartocci delle paste, con le sue mani bianche, sempre ricche di anelli. - Poveretta, poveretta… - mormorava Luisella Fragalà, con una compassione che aveva un senso più acuto, più profondo. Sollevando la tenda pesante di broccato giallo, dietro il doppio cristallo della sua finestra, anche al primo piano, era comparsa la scialba faccia della signora Parascandolo, la moglie del ricchissimo usuraio che aveva perduto tutti i suoi figli. Ella usciva raramente, chiusa nel suo magnifico appartamento che era pieno zeppo di ricchi mobili, tristi ed inutili, poiché ella non riceveva nessuno, da che le erano morti i figliuoli: solo ella compariva ogni tanto, dietro i cristalli, appoggiandovi la faccia scolorita, guardandosi intorno, con l'aria di dolente ebetismo che le era divenuta naturale. Per vedere Bianca Maria, portata in su in quel modo, la povera donna cui nulla più arrivava a scuotere, aveva aperto i cristalli, e la sua voce si univa al crescente mormorio, esclamando come una invocazione e una preghiera: - Gesù, Gesù, Gesù... Sul pianerottolo del terzo piano, lasciando le tre stanze del misero quartierino che sporgeva dirimpetto al teatro Rossini, era uscita tutta la famiglia misantropica dell'impiegato Domenico Mayer: il padre sempre con la faccia lunga e arcigna, con un par di maniche di lustrino sul soprabito, togliendosi a un lavoro di copiatura che compiva a casa tornando dall'Intendenza di Finanza; la madre, donna Cristina, guarita dal mal di denti, ma afflitta dal torcicollo: la figliuola Amalia, dai grossi occhi sporgenti, dalle grosse labbra, dal grosso naso, che aveva sempre il suo aspetto ingrugnato di fanciulla che ancora non trova marito: e Fofò, il figliuolo, sempre contristato da una fame che i suoi parenti dichiaravano una misteriosa malattia. Tutta la famiglia, si buttava giù, quasi, dalla ringhiera, per la curiosità, ed esclamava in coro, gridando, strillando: - Povera figlia, povera figlia, povera figlia!… Erano alla finestra la donna con la cuffia di batista e l'uomo in grembiale azzurro da spazzare, finanche la governante e il servitore del dottor Antonio Amati: né il vedere salire il loro padrone li distolse dal guardare, tanto l'eccitamento di tutto il palazzo Rossi, nelle sue finestre, nel cortile e sui suoi pianerottoli, era diventato invincibile. Quel trasporto per le scale, fra la compassione chiassosa di tutta quella gente diversa, fra quegli strilli metà di spavento, metà di pietà, che avevano una duplice nota esagerata, parve eterno al dottor Amati; in quanto alla vecchia Margherita, ella tremava di dispiacere e di vergogna, come se quel rumore, quella pubblicità offendessero la sua padrona. Quando la porta dell'appartamento si richiuse dietro a loro, ella disse a Giovanni, sgomento: - La marchesina sta male: non vi è Sua Eccellenza? - No, - disse quello, facendo largo a coloro che portavano la svenuta. Margherita crollò il capo, disperatamente, e accompagnò il dottore e il servo nella stanza di Bianca Maria: la fanciulla fu deposta sul suo letto. Il servo disparve. Ancora, il medico tentò di farla rinvenire con l'etere: niente. Egli si mordeva le labbra: due o tre volte disse: impossibile. ncora una volta sollevò le palpebre violacee, guardando l'occhio. Viveva, ma non rinveniva. - Il padre, dov'è? - chiese, senza voltarsi. - Non lo so, - mormorò la vecchia. - Avrà qualche posto dove va, ogni giorno: mandatelo a cercare, sbrigatevi. - Manderò… per ubbidire… - disse lei, sempre esitando, ma uscendo. Egli si era seduto presso il letto: aveva posato la boccetta dell'etere, oramai convinto della sua inefficacia. Quella piccola stanza, nuda, gelida, con un aspetto di purità nivale infantile, aveva un po' calmato la sua collera di scienziato che non giunge né a vincere il male, né a darsi ragione del male. Aveva visto, cento altre volte, dei lunghi e bizzarri deliqui: ma erano il portato di malattie nervose, o di temperamenti anormali, disordinati dal loro principio: ed erano stati vinti con mezzi ordinarii. La pallida fanciulla pareva che riposasse profondamente: e che ancora per molte ore, per molto tempo dovesse stare così, immersa nel buio regno della insensibilità. Egli si armava di pazienza, sfogliando mentalmente i volumi medici dove si parlava di questi deliqui. Due o tre volte Margherita era rientrata nella stanza, interrogandolo con lo sguardo, angosciosamente: egli le aveva detto di no, ol capo. Poi le aveva chiesto del cognac; lla era stata incerta: in casa non ve n'era; e Amati le aveva bruscamente ordinato di andarlo a cercare in casa sua, alla porta accanto. Con un cucchiarino, un misero cucchiarino che aveva perduto tutta la falsa argentatura, egli aveva aperto le labbra della fanciulla e, attraverso la chiostra serrata dei denti, aveva versato il liquore energico: senza risultato. Di nuovo, a Margherita che si agitava confusamente, egli aveva chiesto che mettesse a riscaldare dei panni di flanella; ma vedendola ancora impacciata, le aveva di nuovo ingiunto di andare a casa sua, a chiederne alla sua governante. Mentre ella era assente, rientrò Giovanni, trafelato: parlava ansando, al dottore. - Non l'ho trovato in nessun luogo, il marchese: né al posto i lotto di don Crescenzo, né alla Congregazione di Santo Spirito, né a casa di don Pasqualino l' assistito, ove si riuniscono ogni giorno. - Chi si riunisce? - chiese distrattamente il medico, udendo appena appena il discorso. Gli amici di Sua Eccellenza… ma ho lasciato detto, dovunque, che egli ritornasse a casa, perché la marchesina sta male. - Va bene: spedite questa ricetta, - disse il medico che l'aveva scritta, come al solito, col lapis, sopra un foglietto del suo taccuino. La faccia del vecchio servitore si decompose nel pallore. Il medico, sempre intorno alla svenuta, non aveva visto. - Andate, - disse, sentendolo ancora di là. - Gli è che… - balbettò il pover'uomo. Allora il medico, come aveva fatto per Annarella, la povera moglie del tagliatore di guanti, cavò dieci lire dal portamonete e gliele dette. - … non essendoci il padrone e non potendo dirlo alla padrona, - mormorò Giovanni, volendo giustificare la mancanza di denaro. - Va bene, va bene, - disse il dottore, tornando alla svenuta. Ma una forte scampanellata risuonò per tutto l'appartamento. Un passo vibrato si udì e il marchese di Formosa entrò. Parve non vedesse che la figliuola distesa sul letto e cominciò a baciarle la mano, la fronte, parlando forte, angosciandosi: - Figlia mia, figlia mia, buona figlia mia, che è, che ti senti, rispondi a tuo padre?! Bianca, Bianca, Bianca, rispondi! Dove hai il male, come ti è venuto, creatura mia, viscere mie, corona della mia testa, rispondi, rispondi! È tuo padre che ti chiama, sentimi, sentimi, dimmi che hai, io ti guarisco, buona figlia mia! E continuava a esclamare, a gridare, a singultare con parole confuse, volta a volta pallido e rosso nella faccia, mettendosi le mani nei capelli bianchi, piegando il corpo ancora robusto ed elegante, mentre il dottore, smorto, lo guardava acutamente. In un intervallo di silenzio, il marchese si accorse della presenza di Amati e lo riconobbe per il suo celebre vicino. - Oh dottore! - esclamò - datele qualche cosa, non ho che questa figliuola! - Vado provando, - disse il medico lentamente, a bassa voce, come se rodesse il freno della propria impotenza scientifica: - ma è un deliquio ostinato. - Le è venuto da molto tempo? - Da circa due ore; nel parlatorio delle Sacramentiste… - Ah! - esclamò il padre, impallidendo. Il dottore lo guardò. Tacquero. Il segreto sorgeva fra loro, avvolto nei veli più fitti e più profondi. - Datele qualche cosa… - balbettò don Carlo Cavalcanti, con la voce tremante. Ma vennero a chiamarlo. Giovanni gli parlò sottovoce: il marchese ebbe un momento di incertezza. - Ritorno subito… - disse, andandosene. Il dottore aveva raccolti i piedini della inferma nei panni caldi di flanella; ora voleva ravvolgerle le mani. Ma ad un tratto sentì una lieve pressione sulla sua mano. Bianca Maria, con gli occhi aperti, lo guardava, quietamente. La fronte del medico si corrugò per un minuto di meraviglia, fugacemente. - Come vi sentite? - chiese, chinandosi sulla inferma. Ella ebbe un piccolissimo sorriso stanco e agitò la mano, come per esprimere che aspettasse, che non poteva ancora parlare. - Va bene, va bene, - disse il medico, affettuosamente. - Non parlate. E impose anche silenzio a Margherita che rientrava. I poveri occhi stanchi della serva scintillarono di gioia, quando vide Bianca Maria sorridente. - State meglio? Fatemi un cenno, - chiese il medico affettuosamente. Ella fece uno sforzo e pian piano, invece del cenno, pronunziò la parola: - Meglio. Piccola, ma tranquilla la voce. Con la familiarità del medico, egli le aveva preso una mano e la teneva fra le sue: mano che si riscaldava. - Grazie, - diss'ella, dopo un intervallo. - Di che? - disse lui, interdetto. - Di tutto, - soggiunse lei, con un nuovo sorriso. Ora pareva che avesse riacquistato completamente la forza di parlare. Parlava, ma restava immobile, vivendo solo intensamente negli occhi e nel sorriso. - Di tutto, che? - domandò lui, punto da un'acuta curiosità. - Io ho inteso, - disse lei, con un'occhiata profonda. - Inteso? Tutto avete inteso? - Tutto: non potevo né muovermi, né parlare: ma ho inteso. - Ah! - mormorò lui, pensoso. E mandò Margherita ad avvertire il marchese di Formosa, che la signorina era rinvenuta. - Soffrivate? - Sì: molto, per non poter vincere il mio svenimento. Ho pianto. Avevo uno strazio, dentro il cuore. - Sì, sì,- disse lui, sempre più pensoso. - Non parlate più, riposatevi. Al marchese che entrava, il dottore fece cenno di tacere. Formosa si chinò sul letto della figliuola e le toccò la fronte con la mano, come se la benedicesse. Ella ebbe un battimento di palpebre e sorrise. - Vostra figlia ha avuto un deliquio lucido, na delle forme più rare di deliquio… - disse il dottore, a bassa voce. - Lucido? - chiese il marchese con una strana voce. - Sì: vedeva ed udiva tutto. È una sensibilità portata alla sua massima raffinatezza… Ora, dalla bottiglia versava ancora del cognac el cucchiaino, per farlo bere a Bianca Maria. Don Carlo Cavalcanti, la cui faccia si era stravolta, si chinò sul letto e domandò: - Che hai visto? Dimmi che hai visto? La figliuola non rispose, ma guardò il padre con una sorpresa così dolorosa che il medico, tornando, se ne accorse e aggrottò le sopracciglia. Non aveva udito che cosa avesse chiesto il padre alla figliuola, ma intese di nuovo sorgere il gran segreto della famiglia, vedendo la tenera e dolente occhiata di Bianca Maria. - Non le domandate nulla, - disse bruscamente il dottore a don Carlo Cavalcanti. Il vecchio patrizio represse un moto di sdegno. Covava la fronte della sua figliuola con lo sguardo, come se ne volesse strappare magneticamente un segreto. Ella aveva abbassato le palpebre: ma il viso rivelava sofferenza. Poi guardò il medico, quasi gli cercasse aiuto. - Volete qualche cosa? - domandò lui. - Vi è un uomo presso la mia porta; fatelo andar via, - pronunziò ella, sottovoce, paurosamente. Il dottore trasalì: trasalì don Carlo Cavalcanti. Infatti, fuori la porta, in quella sua eterna, miserevole attitudine di attesa, sporco, lacero, con la barba incolta e le guance smunte, malamente tinte di un sangue morboso, a strie, vi era Pasqualino De Feo, l' assistito. l marchese lo aveva lasciato nel salone; ma egli era scivolato sino alla soglia della stanza di Bianca Maria, con quel suo passo timido e silenzioso di straccione che teme di essere scacciato da tutti i posti. - Chi è quell'uomo? - disse il dottore con quel suo tono rude, accostandosi alla porta, come per scacciarlo. - È un amico… - rispose il marchese, con un vago gesto d'imbarazzo, affrettandosi ad accorrere. - Mandatelo via, - disse il medico, duramente. Fuori la porta, il marchese e don Pasqualino parlottarono, vivamente, sottovoce. Bianca Maria aveva un'aria d'attenzione, come se potesse udire quello che suo padre diceva di fuori: poi, a un tratto, crollò il capo. Il dottore che la guardava negli occhi, intuì il suo desiderio. - Volete che mandi via dalla casa quell'uomo? - Lasciatelo, - diss'ella, debolmente. - Farebbe dispiacere a mio padre. Ah egli non sapeva nulla di nulla, il dottore; e già, nel ritorno alla rude realtà, si rimproverava quel romanzo oscuro e doloroso che entrava nella sua vita: ma lo avvinghiava un sentimento imperioso, che egli credeva la forte curiosità scientifica. Le ore erano passate, scendeva la sera: egli non aveva fatto nessuna delle sue visite e rimaneva in quella gelida stanza di fanciulla, nobile, povera e inferma, quasi non potesse più staccarsene. - Debbo andare…- disse come fra sé. - Ma ritornerete? - chiese ella, sottovoce. - Sì…- rispose lui, risoluto a vincersi, a non tornare più. - Ritornate, - e la voce umile pregava, pregava. - Sono qui, accanto: se soffrite mandatemi a chiamare. - Sì, sì, - soggiunse, tranquillandosi all'idea della protezione. - Addio, signorina. - A dio, - fece ella, marcatamente, staccando le due parole. Margherita lo accompagnava, ringraziandolo pian piano di aver salvato la sua padrona; ma egli era ridiventato l'energico e frettoloso uomo di sempre, nemico delle parole. - Dove è il marchese? - volle sapere, senz'altro. - Nel salone, professore. E ve lo accompagnò. Giusto, don Carlo Cavalcanti e Pasqualino De Feo passeggiavano su e giù, taciturni. Era quasi notte: pure il dottore covrì l' assistito i una occhiata scrutatrice e diffidente. - Come sta Bianca? - chiese Formosa, uscendo da un sogno. - Meglio, ora, - soggiunse con voce breve e fredda, il dottore. - Ma è una fanciulla colpita prematuramente, nel morale e nel fisico, da uno squilibrio crescente: se non le date sole, moto, aria, quiete e giocondità, vi può morire, da un giorno all'altro. - Non dite così, dottore! - gridò il padre, sdegnato e addolorato. - Debbo dirlo, perché così è. La causa del suo male, di quello di oggi, mi è ignota… non voglio saperla. Ma ella è ammalata, capite, ammalata! Ci vuole sole e pace, pace e sole. Se volete un medico, io sono sempre pronto, è il mio mestiere. Ma la ricetta l'ho fatta. Mandate la fanciulla in campagna. Se rimane un altro anno in questa casa, vedendo solo voi e andando sempre al monastero, muore, ve lo affermo io. E insisteva, freddamente, come se questa verità dovesse essere proclamata in tutta la sua forza, come se volesse convincerne anche la ribelle anima sua. - Dottore, dottore! - si lamentò Formosa, cercando pietà. - È ammalata, muore. In campagna, in campagna! Buona sera, marchese. E se ne andò, quasi fuggendo. Il marchese e l' assistito he non aveva detto verbo, ripresero la loro passeggiata taciturna. Ogni tanto, Formosa sospirava profondamente. - Lo spirito che mi assiste…- soffiò l' assistito. Eh? - esclamò l'altro, trasaltando. -…mi avverte che donna Bianca Maria ha avuto una visione celeste…e che ve la comunicherà… sotto simbolo… - Voi che dite? È possibile? Questa grazia mi avrebbe concessa l'Ente Supremo? È possibile? - Lo spirito non inganna, - sentenziò l' assistito. È vero, è vero, - mormorò Formosa, con voce profonda, guardando nell'ombra con gli occhi stravolti.

Parlava presto, con gli occhi abbassati, come se prevedesse e non volesse vedere l'orribile occhiata fredda e desolata che scambiarono i due contadini, colpiti al cuore, gelidi. Stavano muti, il padre e la madre, guardando a terra: e allora lui, presto, affannosamente, cercando di raddolcire la sua aspra voce, li pregò, li pregò se gli volevano bene, che gli dessero quel denaro, se non lo volean veder morto. Ed essi, taciturni, s'incoraggiavano con un'occhiata: con le senili mani tremanti il padre sciolse il sacchetto di tela e ne cavò i denari, contandoli lentamente, con cura, ricominciando ad ogni cento lire, seguendo il denaro con un occhio torbido e con un moto convulsivo del labbro inferiore. Erano quattrocentoventi lire, tutta la fortuna di loro tre. Di pallido, il dottore si era fatto rosso rosso e pareva che gli occhi gli si fossero riempiti di lacrime: senza che quei due lo avessero potuto impedire, egli si era abbassato e aveva baciata la vecchia mano al padre e alla madre, la vecchia mano scura, rugosa e callosa, che aveva tanto lavorato. Nessun'altra parola era stata scambiata fra loro: egli era sparito. La sera non era rientrato nell'alberghetto; ma oramai a queste assenze non badavano più. Pure, il giorno seguente non era rientrato a pranzo, il che accadeva per la prima volta: avevano aspettato sino a sera, egli non era venuto e la contadina sgranava il rosario, ricominciando sempre: avevano finito per pranzare con un pezzo di pane e due arance, che si trovavano nella stanza. Il dottor Trifari non rientrò neppure la seconda notte e fu verso il meriggio del secondo giorno che arrivò una lettera diretta al signor Giovanni Trifari, albergo di Villa Borghese: na lettera impostata con un francobollo di un soldo, alla posta interna. Ah, essi eran contadini, con la fantasia ottusa e il cuore semplice, essi non immaginavano, non pensavano che assai scarsamente, eran gente corta e silenziosa: ma quando quella lettera fu loro portata e quando riconobbero l'assai nota e assai amata calligrafia del figliuolo, si misero a tremare, ambedue, come se una improvvisa, indomabile paralisi li avesse colti. Due o tre volte, con gli occhiali grossolani tremolanti sul naso, con la voce trepida della vecchiaia e dell'emozione, con la lentezza di chi sa legger male e deve frenare le lacrime, il vecchio contadino aveva riletta la lettera con cui il figliuolo, prima di partire per l'America, li salutava, teneramente, filialmente: sentendo quella lettura, imprimendosi bene nella mente quelle terribili e dolci parole del figliuolo, la vecchia contadina baciava i grani del suo rosario e gemeva sottovoce. Due volte un servitore dell'albergo era entrato, con la sua aria scettica di persona abituata a tutte le traversie della vita: e aveva chiesto loro se volevano mangiare, ma quelli, dimentichi, sordi, acciecati, non avevano neppure risposto. Quando, verso le sei, entrò don Crescenzo, dopo aver bussato inutilmente, li trovò quasi al buio, seduti vicino al balconcino, in un gran silenzio. - Vi è il dottore? Nessuno dei due rispose, come se il sopore della morte li avesse presi. - Volevo dire se vi è il dottore? - Nossignore, - disse il vecchio padre. - È uscito? - Sì. - Da quanto tempo? - È molto tempo, - mormorò il vecchio contadino e alla sua voce rispose un gemito di sua moglie. - E quando torna? - gridò don Crescenzo, agitatissimo, preso da un impeto di furore. - Non si sa, non si sa, - disse il vecchio, scrollando il capo. - Voi siete il padre, voi lo dovete sapere! - Non me l'ha detto… - Ma dove è andato, dove è andato, quell'infame? - In America, a Bonaria. Gesù! - disse solo don Crescenzo, cadendo di peso sopra una sedia. Tacquero. La madre stringeva devotamente il rosario. Ma ambedue parevano così stanchi, che don Crescenzo fu preso da una disperazione, trovando dovunque disgrazie diverse e maggiori della sua. Pure, si aggrappava alle festuche: e anzi tutto voleva sapere, voleva sapere tutto, con quell'acre voluttà di chi vuole assaporare tutta l'amarezza della sua sventura. Anche costui era fuggito, dunque, anche costui gli sfuggiva, anche questi denari erano perduti, perduti per sempre. - Ma chi gli ha dato i denari per andar via? - gridò, esasperato. - Siete amico suo, voi? - Sì, sì, sì! - Veramente? - Veramente, vi dico. - Ecco la lettera, tenete: così saprete tutto. Allora lui, alla poca luce del giorno che cadeva, lesse la lunga epistola del disgraziato che, roso dai debiti, roso dalla sua passione, senza saper dove dare la testa, scriveva ai suoi genitori, licenziandosi da loro, per cercar fortuna in America. Delle quattrocento lire se ne era prese un trecentocinquanta per pagarsi un posto di terza classe sopra un piroscafo, aggiungendovi qualche lira per vivere i due o tre giorni primi a Buenos-Ayres. Confessava tutto: tutta la rovina sua e della sua famiglia, maledicendo il giuoco, la fortuna e sé stesso, imprecando alla mala sorte e alla sua mala coscienza. Rimandava poche lire ai due poveri vecchi, pregandoli a ritornare in paese, a provvedersi come potevano, fino a che egli avesse potuto mandar loro qualche cosa, da Buenos-Ayres; tornassero al paese, egli non li avrebbe dimenticati, - e i denari appunto bastavano per due posti di terza classe, sino al paesello, non vi sarebbe neanche restato nulla per mangiare; - egli pregava, in ginocchio, che gli perdonassero, che non lo maledicessero, che non aveva avuto la forza di uccidersi, per loro, ma gli perdonassero, che se li lasciava così, non gli dessero, per il suo miserabile viaggio, senza bagaglio, senza denari, buttato in un dormitorio comune e soffocante di nave, anche il triste viatico di una maledizione. La lettera era piena di tenerezza e di furore: e le ingiurie ai ricchi, ai signori, al Governo, si alternavano con le preghiere di perdono, con le umili scuse. Due volte don Crescenzo lesse quella lettera straziante, scritta da un' anima inferocita contro di sé e contro gli uomini, che si vedeva ferita nella sola tenerezza della sua vita. La piegò macchinalmente e guardò i due vecchi: gli sembrò che avessero cento anni, cadenti di decrepitezza e di lavoro, curvati dall'età e dal dolore. - E che fate, adesso? - egli domandò, sottovoce, dopo un certo tempo. - Andiamo al paese, - mormorò il vecchio. - Domani, ce ne andiamo, col primo treno. - Sì, sì, ce ne andiamo, - gemette la povera contadina, senza levare il capo. - E che fate, là? - soggiunse lui, volendo approfondire tutto quel dolore. - Andiamo a giornata, - disse il vecchio, semplicemente. Egli li sogguardò ancora così vecchi, così stanchi, così curvi, che si apprestavano a ricominciar la vita, per aver pane, a zappar la terra con le braccia tremolanti, abbassando il volto bruno e i radi capelli bianchi sotto il sole di estate. E trafitto dall'ultimo colpo, sentendo intorno a sé crescere il coro delle disgrazie, non aprì bocca sui denari che doveva avere da Trifari: anzi, fievolmente, tanta era la pietà per i due vecchi, disse loro: - Vi serve niente? - No, no, grazie, - dissero quei due, con quel gesto desolato delle persone che più non aspettano soccorso. - E fatevi coraggio, allora… - Sì, sì, grazie, - mormorarono ancora. Li lasciò, senz'altro. Era notte, adesso, quando discese in istrada. Un minuto, sbalordito, atterrato, pensò: dove andare? E di nuovo, sospinto da uno stimolo tutto meccanico, prese la rincorsa e, attraversando Toledo, salì sino all'altezza della chiesa di San Michele, dove si ergeva bruno e alto il palazzo Rossi, già Cavalcanti. In quel palazzo abitavano gli ultimi suoi debitori grossi, i più disperati di tutti, e per non cominciare con un malaugurio, egli se li era riserbati per la sera. Ma non aveva trovato denaro in nessun posto, in nessuno: e adesso, per il naturale rimbalzo degli infelici che si ribellano alla infelicità, per quella forza di speranza che giammai non muore, adesso si metteva di nuovo a credere che Cesare Fragalà e il marchese Cavalcanti gli avrebbero dato del denaro, in qualche modo, piovuto dal cielo. Quando entrò nell'appartamento di Cesare Fragalà, introdotto dalla piccola Agnesina che era venuta ad aprire la porta portando una stearica mezza consunta, e guidato attraverso l'appartamento vuoto e scuro, egli si pentì subito di esser venuto. Marito, moglie e figlia ad una piccola tavola, sopra una tovaglia anche troppo corta per la tavola, pranzavano in silenzio, guardando ogni pezzettino di fegato fritto che si portavano alla bocca, per paura di lasciarne troppo poco agli altri due: e la bimba specialmente, dal grosso appetito delle creature sane, misurava i bocconcini di pane per non mangiarne troppo. Cesare Fragalà, serio, con la linea del sorriso sparito per sempre dal suo volto, guardava la tovaglia, con le sopracciglia aggrottate: e la moglie, la buona Luisa dai grandi occhi neri, sulla cui fronte aveva brillato la stella di diamanti della madre felice, aveva l'aria dimessa e umile, in un vestitino di lanetta. Quietamente, col suo occhio tranquillo, la bimba guardava il visitatore, come se capisse, come se aspettasse la domanda che egli doveva fare, serenamente, con la pazienza del martire. E dinanzi a quel dolce e pensoso occhio di fanciulletta, don Crescenzo sentì legarsi la lingua e fu con un grande sforzo che balbettò: - Cesarino, ero venuto per quell'affare… Una vampa di fuoco arse le guance di Cesarino Fragalà: la moglie si arrestò dal mangiare e la bimba abbassò le palpebre, come se il colpo fosse oramai disceso sulla sua testa. - È difficile che ti possa servire, Crescenzo: tu non sai in che imbarazzi ci troviamo… - disse fiocamente Cesarino. - Lo so, lo so, - disse l'altro, non sapendo frenare la sua emozione, - ma io sono in una situazione peggiore della tua… - Non credo, - mormorò malinconicamente il negoziante che da pochi giorni aveva compita la sua liquidazione, - non credo. - Tu hai salvato l'onore, Cesarino, ma io non lo salvo! Che vuoi che ti dica? Non posso aggiungere altro… E non potendone più, sentendo sul suo volto lo sguardo pietoso della piccola Agnesina egli si mise a piangere. Un po' di vento della sera, entrando da un balcone socchiuso, facea vacillare la lampada a petrolio, ed era un gruppo fantasticamente malinconico quello del marito, della moglie, della figliuola che stretti fra loro, infelicissimi, sogguardavano quell'infelicissimo che singhiozzava. - Non si potrebbe dargli qualche cosa, Luisa? - sussurrò timidamente Cesarino all'orecchio di sua moglie, mentre l'altro si lamentava vagamente. - Che deve avere? - disse Luisa, pensando. - Cinquecento lire.., erano di più… ho pagato una parte… - Ed è debito di… giuoco? - disse ella, freddamente. - … Sì. - Che diceva egli, di onore? - Egli ha fatto credito a noi, e se non paga, il Governo lo mette in carcere. - Ha figli? - …Sì. Ella sparve, di là. I due uomini si guardavano, dolorosamente, mentre la ragazza li guardava or l'uno, or l'altro, coi suoi occhi buoni e incoraggianti. Dopo un poco, Luisa ritornò, un po' più pallida. - Questa è l'ultima nostra carta da cento, disse, con la sua voce armoniosa. - Restano certi spiccioli, per noi: ma per noi, Dio provvede. - Dio provvede, - ripetette la bimba, prendendo la carta da cento dalle mani di sua madre e dandola a don Crescenzo. Ah, in quel momento, di fronte a quella povera gente che contava i bocconi del suo pane e che si disfaceva dell'ultima sua moneta per aiutarlo, in quel momento, fra quegli sguardi dolci e tristi di gente rovinata che pure serbava la fede, serbava la pietà, egli si sentì infrangere il cuore e vacillò come se dovesse perder conoscenza. Per un istante, pensò di non prender quel denaro, ma gli sembrava affatato, sacro, passato da quelle mani di donna buona e forte, passato per le manine di quella coraggiosa e placida fanciulletta: disse solo, tremando: - Scusate, scusate… - Non fa niente, - disse subito Cesarino Fragalà, con la sua bonarietà. - Siete stati così buoni, tanto buoni… - mormorava, licenziandosi, guardando umilmente le due donne che sopportavano così nobilmente l'infortunio. Cesarino lo accompagnò fuori l'anticamera. - Mi dispiace che sono poche… - gli disse, - non ti serviranno. - Per il cuore valgono centinaia di migliaia, - esclamò tristemente il tenitore del Banco lotto. - Ma ho da dare quattromila seicento lire al governo, e ho solo queste… - Gli altri… non ti hanno dato nulla? - Nulla: tutta una disgrazia, tutta una mala sorte. Andrò su, dal marchese Cavalcanti… - Non ci andare, - disse Fragalà, crollando il capo, - è inutile. - Tenterò… - Non tentare. Stanno peggio di noi: e ogni giorno hanno paura di veder morire la marchesina. Il padre ha perduto la testa. - Chissà… - Ascoltami, non andare. Ti puoi trovare a qualche brutta scena… - Brutta scena? - Sì, la marchesina ha delle convulsioni che le strappano grida terribili. Ogni volta che le sentiamo, ce ne usciamo di casa. Grida sempre: mamma, mamma. no strazio. - Ma è pazza? - No: non è pazza. Chiama aiuto, nelle convulsioni. Dicono che vede Non vi andare, è inutile. Fa buone cose. - Grazie, - fece l'altro. E si abbracciarono, tristi, commossi, come se non si dovessero vedere più. Adesso, quando don Crescenzo si trovò sotto il portone del palazzo Rossi, dopo esser disceso in gran fretta per le scale, quasi temesse udire scoppiare alle sue spalle le grida strazianti della marchesina Cavalcanti che moriva, quando si fu trovato solo, fra la gente che andava e veniva da Toledo, in quella sera dolce di primavera, egli pensò, a un tratto, che tutto era finito. Le cento lire che il suo pianto aveva strappato alla miseria dei Fragalà, erano chiuse nel suo vuoto portafoglio e il portafoglio messo nella tasca del soprabito; e a quel posto egli sentiva come un calore crescente, poiché quella moneta era veramente l'ultima parola del destino. Non avrebbe trovato più niente: tutto era detto. La sua disperata volontà, la sua emozione sempre più forte, i suoi sforzi di una giornata, correndo, parlando, narrando i suoi guai, piangendo, e il gran terrore della rovina che gli sovrastava, non erano riesciti che a togliere l'ultimo boccone di pane ai più innocenti fra i suoi debitori: cento lire, una derisione, di fronte alla somma che egli doveva pagare il mercoledì, infallibilmente: cento lire, niente altro, una goccia d'acqua nel deserto. E lo intendeva: poiché aveva esaurito un immensa quantità di forza e di commozione, arrivando solo a strappare quelle lire alla onestà della famiglia Fragalà, poiché si sentiva fiacco, debole, esaurito, era dunque quella, l'ultima parola, non vi erano altri denari, non vi erano più denari, per lui, doveva considerarsi perduto, perduto senza nessuna speranza di salvezza. Una nebbia - e forse erano lacrime - nuotava avanti ai suoi occhi: e la corrente della folla lo trascinava verso il basso di Toledo. Si lasciava trasportare, sentendosi in preda al destino, senza forza di resistenza, come una foglia secca travolta dal turbine. Non poteva fare più nulla, più nulla: tutto era finito. Qualcun altro, ancora, gli doveva del denaro, il barone Lamarra, il magistrato Calandra, due o tre altri, somme piccole, ma egli non voleva neppure andarvi: tutto era inutile, tutto, poiché dovunque egli era apparso, dovunque aveva portato la sua disperazione, egli aveva trovato il solco di un flagello eguale al suo, il flagello del giuoco che aveva messo fra la vergogna, la miseria e la morte, tutti quanti, come lui. Non osava entrare in casa sua, ora, malgrado che si facesse tardi. Era disceso per Santa Brigida e per via Molo alla Marina, dove abitava una di quelle alte e strette case, in cui si penetra dagli oscuri vicoli di Porto e che guardano il mare un po' scuro, fra la dogana e i Granili: e dalla via Marina, lungo la spiaggia dove erano ancorate e ammarrate le barche e le barcaccie dei pescatori, egli guardava, fra le mille finestre, la finestrella illuminata, dietro la quale sua moglie addormentava il suo bambino. Ma non osava rientrare, no; tutto non era dunque finito? Sua moglie avrebbe letto la sentenza, la condanna, sul suo volto, ed egli non reggeva a questa idea. Una fiacchezza lo teneva, sempre più grande, spezzandogli le braccia e le gambe, in quell'oscurità, in quel silenzio, dove solo le carrozzelle che portavano i viaggiatori ai treni partenti la sera, dove solo i trams he vanno ai comuni vesuviani mettevano ogni tanto una nota di vitalità, nella bruna e larga via Marina. Non reggendosi, si era seduto sopra uno dei banchi della lunga e stretta Villa del Popolo, il giardino della povera gente, che rasenta il mare: e di là, vedeva sempre, sebbene più lontana, lontana come una stella, la finestrella illuminata della sua piccola casa. Come rientrare, con qual coraggio portare le lacrime e la disperazione in quel pacifico, felice, piccolo ambiente? E quel bimbo innocente e l'altro che doveva nascere, e la madre così gloriosa di suo marito, del suo fanciulletto, doveva lui, lui, in quella sera farli fremere di dolore e di onta? Ah questo, questo gli era insopportabile! Un castigo così grande, così grande, piombato sulla testa di tutti, come se fossero i maledetti, distruggendo la salute, la fortuna, l'onore, tutto! E in una successiva visione, egli riannodò tutte le fila di quel castigo, partendo da sé, a sé ritornando, andando dalla propria disperazione a quella altrui, sempre guardando il breve faro luminoso, dove la sua famiglia aspettava. E rivide la faccia pallida e smunta di Ninetto Costa che partiva per un assai più lungo viaggio, certo, che quello di Roma, lasciando un nome di fallito e di suicida a sua madre; rivide il corpo colpito di apoplessia dell'avvocato Marzano, le labbra farfuglianti e la miseria atroce, per cui non aveva neppure il denaro necessario per comperare dell'altro ghiaccio, mentre su di lui si aggravava un'accusa disonorevole, svergognante la sua canizie; e il professor Colaneri, scacciato dalle scuole, accusato di aver venduto la sua coscienza di maestro, e dopo aver buttato l'abito talare, costretto a rinnegare la religione, dove era nato, di cui era stato sacerdote; e la tristezza del dottor Trifari, navigante in un battello di emigranti, senza un soldo, privo di tutto, mentre i due suoi vecchi genitori tornavano, per aver pane, a scavare l'arida terra; e la rassegnata dedizione di Cesare Fragalà, dedizione in cui era finito il nome dell'antichissima ditta e in cui eravi tutto un avvenire di miseria da affrontare; e infine, su tutto, la malattia di cui moriva la fanciulla Cavalcanti, mentre suo padre non aveva più un tozzo di pane da portare alla bocca. Tutti, tutti castigati, grandi e piccoli, nobili e plebei, innocenti e colpevoli; ed egli insieme con loro, egli e la sua famiglia, castigati in tutto quello che avevan di più caro, la fortuna, la felicità della casa, l'onore. Una schiera d'infelici, dove coloro che più piangevano, erano i più innocenti, dove le piccole creature, dove le fanciulle, dove le donne scontavano gli errori degli uomini, dei vecchi, una schiera di miserabili, a cui mentalmente egli aggiungeva gli altri che conosceva, di cui si ricordava: il barone Lamarra, sulla cui testa la moglie teneva sospesa l'accusa di falsario e che era tornato a far l'appaltatore, sotto il sole, nelle vie, fra le fabbriche in costruzione; e don Domenico Mayer, l'impiegato ipocondriaco, che in un giorno di disperazione, non potendone più dai debiti, si era buttato dalla finestra del quarto piano, morendo sul colpo; e il magistrato Calandra, dai dodici figliuoli, tenuto così in mala vista, che arrischiava ogni sei mesi di esser messo a riposo; e Gaetano il tagliatore di guanti che aveva ammazzato sua moglie Annarella, con un calcio nella pancia, mentre era incinta di due mesi, e nessuno aveva saputo nulla, salvo i due figliuoli che odiavano il padre, poiché anche a loro, ogni venerdì, prometteva di ammazzarli, se non gli davano denaro; e tutti, tutti quanti, agonizzanti e pur viventi fra le strette del bisogno e il rossore dell'onta; ed egli, infine, che aveva la sua famigliuola là, nella picciola casa, quietamente aspettante, mentre egli non aveva il coraggio di tornarvi, sapendo che la prima notizia della loro sventura gli avrebbe abbruciato le labbra. Tutto un castigo, tutta una punizione tremenda: vale a dire la mano del Signore che si aggrava sul vizioso, sul colpevole e lo colpisce sino alla settima generazione; anzi lo stesso vizio, la stessa colpa, quel giuoco infame, quel giuoco maledetto, che si faceva istrumento di punizione, contro coloro che di questo vizio, di questa colpa si erano fatti il loro idolo; nella istessa passione, come in tutte le altre, che sono fuori della vita, fuori della realtà, nella passione istessa il germe, la semente della durissima penitenza. Colpiti dove avevano peccato, anzi dal peccato istesso! Tutto un lungo scoppio di pianto, da tutti gli occhi, dai più puri, uno scoppio di singulti dalle più pure labbra: una folla di povere creature oneste, dibattentisi fra la fame e la morte, scontando gli errori altrui, dando ai colpevoli il rimorso di aver gittato le persone che più amavano, in quell'immenso abisso. Non uno salvo, non uno, di quelli che avevano dato la loro vita al giuoco, all'infame giuoco, al giuoco sciagurato, divoratore di sangue e di denaro: neppur lui salvo, neppur la sua famiglia, anche lui spezzato, anche i suoi figli ridotti, certo, a stendere la mano. Ah troppo grande, troppo grande, insopportabile il castigo! Che aveva egli fatto, per dover esser lì nella strada come un mendico che non osa rientrare al suo tugurio, non avendo potuto avere l'elemosina dal duro cuore degli uomini? Che aveva fatto lui, per dover andare in carcere, come un malfattore, perché sua moglie si vergognasse di appartenergli e i suoi figli non nominassero più il suo nome? Ah era troppo, era troppo: che colpa aveva dunque commessa? Una coppia di guardie passò nella via Marina e interrogò con lo sguardo le oscurità della banchina e della Villa del Popolo: l'ombra era profonda, le guardie non videro don Crescenzo, disteso sul sedile. Ma egli, come per un rapido cambiamento di scena, si vide dinanzi agli occhi, nel Banco lotto suo, al vico del Nunzio, le ardenti sere del venerdì e le affannose mattinate del sabato, in cui i giuocatori si affollavano ai tre sportelli del suo Banco, con gli occhi accesi di speranza e le mani tremanti di emozione: e rivide i cartelloni a grandi numeri azzurri e rossi, che incitavano i giuocatori a portare nuovo denaro al lotto: rivide i cento avvisi dei giornali cabalistici e i motti: Così mi vedrai! Sarò la tua fortuna! - Il tesoro del popolo! - L' infallibile! - Il segreto svelato! - La ruota della fortuna! - e le visite frequenti dell' assistito le fatali connivenze con tutti gli altri cabalisti, frati, spiritisti, matematici, che infiammavano i giuocatori col loro strano gergo, con le loro strane imposture: rivide le settimane di Natale, di Pasqua, in cui il giuoco diventa furioso, feroce, tanto è il desiderio del popolo di entrare nel sempre sognato Paese di cuccagna e si rivide sempre lui, contento di quelle illusioni che finivano in una dolorosa delusione, contento che quel miraggio acciecasse i deboli, gli sciocchi, gli ammalati, i poveri, gli speranzosi, tutti quelli che desideravano il Paese di cuccagna, contento che tutti, tutti quanti fossero attaccati da tale lebbra, che niuno se ne salvasse: contentissimo, quando, nelle grandi feste, cresceva l'ardore, e cresceva il giuoco, e cresceva il suo tanto per cento. Vide tutto, lucidamente, dalla sua persona che si curvava a scrivere sui registri le cifre maledette e le promesse fallaci, alle facce rosse o scialbe dei giuocatori, roventi di passione. E piegò il capo, abbattuto, sentendo di aver meritato il castigo, egli stesso, la sua famiglia, fino alla settima generazione. Il giuoco del lotto era una infamia che conduceva alla malattia, alla miseria, alla prigione, a ogni disonore, alla morte: ed egli aveva tenuto bottega di quell'infamia.

E quando tutti ebbero saputo chi era quell'uomo, come una stupefazione li colse: i lumi delle lampade parve si fossero improvvisamente abbassati: un gran pallore parve caduto sulla vivezza dei volti, dei mobili, delle stoffe: un silenzio profondo si fece, dove ancora si trascinava, fioca, flebile, la mistica parola: - L' assistito, l' assistito 'istessa Luisella Fragalà, l'intrepida, impallidì nel bruno volto, e le mani che stringevano il ventaglio, tremarono. L' assistito aveva finito di mangiare e di bere, ora si riposava tranquillo, girando intorno il suo sguardo vago, incerto, non sapendo che cosa farsi delle sue mani scarne e giallastre; un po' di sangue gli era salito alle guance smunte, spuntando sotto la barbaccia nera; ma era un colorito malaticcio, a strie, un colorito di sangue guasto, di sangue povero, di sangue che è stato, o è consumato da una febbre che non si guarisce. Eppure così brutto, sporco, miserabile, ignobile come era, l' assistito veva concentrato su sé tutti gli sguardi, intenti, dell'assemblea; sguardi di curiosità, di lusinga, di ossequio, di speranza, sopratutto sguardi di rispettoso spavento, uno spavento fantastico che traluceva specialmente dagli occhi feminili. Poiché ancora le donne, nel lieve tremore dei loro nervi, ripetevano a sé stesse: - Dio mio, ecco l' assistito. come per una attrazione forte e naturale, man mano, intorno all' assistito un cerchio di persone si venne formando, stringendosi sempre più, un cerchio di facce lievemente ansiose, dove si leggeva il vivido lavorio della fantasia meridionale, la fuga di tutte quelle immaginazioni nel paese dei sogni e dei fantasmi. Alle persone meno timide, che per le prime si erano avvicinate, si venivano ad aggiungere le altre, più ritrose, ma infine vinte anch'esse, sognando anch'esse tutto il fantomatico corteo degli spiriti assistenti, l corteo degli spiriti buoni e degli spiriti cattivi, che ogni giorno, ogni notte, ogni ora del giorno e ogni ora della notte si agita, combatte, vince o è vinto intorno all'anima e intorno alla persona dell' assistito Il cerchio si era talmente ristretto che don Gennaro Parascandolo, uno dei primi accorsi, pur conservando il suo sorriso un po' scettico, si rivolse a Cesare Fragalà e gli disse: - Cesarino, presentami a questo signore. Cesare Fragalà che era molto imbarazzato, non trovando una via di uscita, colse al volo questa domanda e disse subito: - Il cav. Gennaro Parascandolo, mio compare: Pasqualino De Feo, un bravo amico. L' assistito sorrise vagamente e tese la mano: don Gennaro stese la sua e toccò una mano gelida e un po' molle di sudore, una di quelle mani repulsive che dànno un brivido di ribrezzo. Ma nessuna parola fu scambiata. Le donne che stavano fuori del cerchio e non osavano avvicinarsi, si domandavano, tormentate da un desiderio profondo: - Che dice, che dice? - Non dice nulla, - rispondeva donna Carmelina Naddeo, che era la più vicina all' assistito e che non lo perdeva d'occhio un sol minuto. Le donne si mordevano le labbra, intimidite dalla presenza degli uomini, un po' vergognose, non osando accostarsi all' assistito, entre ognuna di esse fremeva d'impazienza, fremeva di desiderio di sentire la fatidica parola di quell'uomo che viveva in continua comunicazione col mondo dei fantasmi e a cui gli spiriti buoni dicevano tutte le verità nascoste della vita, a cui gli spiriti che lo assistevano, rivelavano, ogni settimana, i cinque o almeno tre dei numeri del lotto. Che diceva? Nulla. Son gente che vive per lunghe ore, concentrata, perduta forse in un gran combattimento interiore, perduta dietro le voci dall'alto che le parlano e che ogni tanto, strappata alle sue visioni dalla realtà umana, pronuncia una frase, una frase fatale, dentro cui è il segreto che si vuole scoprire, avviluppato nel mistero di parole spesso informi, ma che s'intendono, miracolosamente, da chi ha una forte fede, una forte speranza. Tutti, uomini e donne, vinti da un grande sogno, balzati d'un tratto dalla quotidiana realtà nella ardente, consumatrice regione delle visioni, dimentichi del minuto presente, attendevano la parola dell' assistito, ome un verbo sovrumano. Ah, certo, don Gennaro Parascandolo conservava il suo sorriso di napoletano che ha viaggiato, che ha vissuto, che ha una grossa fortuna sicura; ma, in fondo al cuore, il vecchio istinto partenopeo, l'istinto del grosso guadagno, del guadagno illecito, ma non colpevole, senza fatica, improvviso, dovuto al caso, dovuto alla combinazione, a burla fatta al Governo, sorgeva, così, naturalmente, di fronte all'uomo che sapeva i segreti delle cose nascoste. Certo, certo, tutti quei Fragalà, quei Naddeo, quegli Antonacci, quei Durante, erano abituati a vendere i dolci stantii, le stoviglie di creta grossolana, i pannilana avariati e il puzzolente baccalà, nelle oscure botteghe nei freddi depositi i via Tribunali, di via Mercanti, alla Pietra del Pesce, alla via Marina: erano abituati a tutte le glacialità, le volgarità, le meschinità del commercio, dove per anni e anni si mette il soldo sopra il soldo, la lira sopra la lira, e infine, dopo due o tre generazioni, si arriva ad avere una fortuna: certo, tutti costoro sapevano che il valore del denaro è quello del lavoro, il valore dell'economia e della diligenza, ma che importa! Potere, per una frase detta da un misterioso personaggio, che costava solo la pena di raccogliere e d'interpretare, in una settimana, anzi in un sol giorno, guadagnare con una piccola posta una grossa somma, avere, in un giorno, il guadagno di venti anni di vendita di baccalà, di quarant'anni di vendita di zucchero marmoreo e di caffè arenoso, era un regalo così prelibato, era una visione così luminosa alle borghesi fantasie! Certo, tutti quei contabili, quei commessi di negozio avevano un'idea modesta, limitata del proprio avvenire, avevano vissuto di nulla, vivevano di poco, desideravano vivere con qualche cosetta di più, null'altro, umili a ogni desiderio; ma la figura dell' assistito quel pezzente così potente, quello straccione che discorreva ogni notte con gli spiriti superni e inferi, li buttava a un tratto in un mondo fantastico, dove i poveri miracolosamente si trasformavano in ricchi, dove essi, oscuri lavoratori, potevano, a un tratto, diventare dei signori. Ah, don Domenico Mayer, nipote, figliuolo, fratello, padre e zio d'impiegati, non aveva fede che nella santa burocrazia, gelida carriera di taciturni sofferenti: pure, stretto nel suo soprabitone nero, aveva lasciato in un cantuccio la sua misantropica famiglia, si era accostato al gruppo della gente che circondava Pasqualino De Feo, l' assistito, vibrava quelle sue occhiate fra severe ed ansiose, aspettando anch'esso la frase che lo doveva trarre, in un giorno solo, dall'ambiente sepolcrale della sua Intendenza di finanza. Ma le donne, le donne erano quelle che più ardevano nell'immaginazione! Certo, almeno dieci di esse, per la nascita, per il matrimonio, per le virtù proprie e per quelle dei loro parenti o mariti, erano ricche, possedevano la quiete della fortuna e l'avvenire dei figli assicurato: dieci di esse, almeno, godevano il lusso borghese dei mobili di broccato, dei gioielli, della biancheria a bizzeffe: e tutte le altre, per la saviezza, per la modestia, per l'economia, virtù proprie e virtù dei parenti e mariti, non mancavano del necessario - ma la vivace passione del sogno si era risvegliata in loro e le abbruciava; ma sorgevano loro nell'anima tutti i desiderii di benessere, di ricchezza, di lusso; ma esse volavano, volavano, pei campi del desiderio, con la forza, con la intensità che le donne più tranquille mettono in queste improvvise follie: ma le teneva una irrefrenata voglia di sapere il gran segreto; ma una crollante piramide di oro e di gioielli pareva accendesse di fiamme i loro occhi. Finanche la vecchia marchesa di Castelforte, curva, dal naso adunco, con la bocca rincagnata, rovina di una donna, avanzo isolato, solitario di una famiglia, senza parenti, senza eredi, avendo settant'anni e con la tomba per solo avvenire, si era levata su e portando seco la borsa di velluto nero, era venuta a tendere il suo profilo di vecchia civetta, fra due spalle di uomini. Perfino donna Carmela Naddeo, la bella, la ricca, la felice, la fortunata donna Carmela Naddeo, tendeva l'orecchio, convulsa di curiosità, istintivamente, dicendo a mezza voce: - Se mi dice i numeri, mi compro la stella di brillanti come quella di Luisella. Pure, l' assistito aceva: tanto che don Gennaro Parascandolo, sentendo dietro di sé l'impazienza della sala, arrischiò una domanda: - Vi è piaciuta la festa, don Pasqualino? Infine costui schiuse la bocca e dalle labbra sottili, violacee, tutte maculate dalla febbre, una voce bassa e fievole uscì: - Sì, - disse - è un bel battesimo. Anche il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano era bello… Immediatamente vi fu un mormorio, un agitazione nella sala; tutti parlavano fra loro, sottovoce o ad alta voce, commentando la frase, cercandone subito la spiegazione, formando circoli, crocchi, le donne discutendo fra loro, mentre il numero trentatré, l numero del Redentore, correva su tutte le bocche. Placidamente, come se prendesse la data di una cambiale, don Gennaro Parascandolo aveva trascritta la frase nel suo taccuino: e celandosi dietro una portiera, senza lasciare la sua gravità burocratica e misantropica, don Domenico Mayer ne aveva preso nota. La vecchia marchesa, che era sorda, andava domandando, rabbiosamente: - Che ha detto? Che ha detto? Finì per chiederlo a Luisella Fragalà, che, immobile, con gli occhi imbambolati, sedeva presso la malinconica signora Parascandolo, e Luisella non seppe dire altro: - Non so, comare marchesa, non ho inteso. Però don Gennaro Parascandolo, non contento, insisteva: - Vi sono piaciuti i dolci, don Pasqualino? Ho visto che li mangiavate con piacere. - Sì, - mormorò costui. - Io mangio, ma non mastico… - Non avete denti? - Non ho denti… E girò gli occhi intorno, in alto, vagamente, senza fissar mai nessuno, come se vedesse delle cose di là; fece un cenno con la mano, appoggiando tre dita sulla guancia. Vi fu lo stesso mormorio, la stessa agitazione: ma sorse anche una incertezza. La frase era ambigua: e il cenno con le tre dita, che significava? Anche don Gennaro Parascandolo, mentre prendeva la sua annotazione, si fermò, pensando: e il mistero di quella seconda frase, il mistero di quel cenno scatenava tutte quelle già frementi fantasie, in un mondo sovrasensibile. Oh la fede, la fede, ecco quello che ci voleva, per intendere le parole dell' assistito E ognuno, concentrando le potenze dell'anima, cercava di avere uno slancio sublime di fede, per sapere la verità, e per conoscere come si traducesse in numeri, e per cambiarla nei danari del lotto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A notte tarda, quando la casa fu vuotata di gente, Cesare Fragalà, insieme con le serve sonnacchiose, andò smorzando i lumi, chiudendo tutte le porte, come faceva, per prudenza, ogni sera. Rientrato nella stanza nuziale, trovò Luisella, semi spogliata, seduta nella penombra. La culla di Agnesina era stata portata nella stanza della nutrice; gli sposi erano soli. Pareva che la stanchezza li avesse ammutoliti. Pure, accostandosi alla sua giovane moglie, egli vide che ella piangeva, silenziosamente, a grosse lacrime che le si disfacevano sulle guance. - Che hai, Luisella, che hai? - chiese, abbracciandola, tremante anche lui di emozione. - Niente, - ella disse, piangendo ancora, nel silenzio, nella penombra.