Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 5 occorrenze

con le palpebre abbassate, ma sorridente? Che ti ha detto? Una voce debole debole, nevvero? Qualche cosa che tu sola puoi aver udito? - Mio padre, voi volete che io muoia, - pronunziò ella, desolatamente. - Paure da femminetta, - diss'egli, con disdegno. - Chi è mai morto, per una comunicazione suprema? Il contatto dell'anima, con quella di uno spirito, è una fonte di vita. Bianca Maria, non essere ingrata, non essere crudele, dimmi tutto. - Voi volete che io muoia, - ripeté ella disperatamente e rassegnatamente. - Sei una sciocca. Vuoi che ti preghi, io tuo padre? Ebbene, ti pregherò, non c'è che fare: i figli sono ingrati e malvagi, rispondono al nostro amore con la crudeltà. Ti prego, Bianca, te ne prego come se tu fossi la mia santa protettrice, dimmi tutto. - Io morirò di ciò, mio padre, - mormorò lei, con la voce soffocata dai cuscini, dove frenava il suo pianto e i suoi singhiozzi. - Ascolta, Bianca - egli riprese, freddamente, frenando ancora il suo sdegno, - tu devi credermi. Io sono un uomo, sono sano, ho la mia ragione, ho la mia logica: ebbene, è per me articolo di fede, chiaro come la luce del sole, che tu hai avuto in questa notte, o avrai l'apparizione dello spirito, che verrà per benedire la nostra famiglia, che ti dirà le parole della felicità. Se ciò è accaduto, tanto meglio: ma il tuo obbligo di figlia ubbidiente, di figliuola amorosa della casa Cavalcanti, è di dirmi tutto, subito. - Non so nulla, - disse ella, seccamente. - Lo giuri? - Lo giuro. Non so nulla. - Allora questa visione verrà in queste consecutive ore della notte. Vado in cappella a pregare. Sono un peccatore, ma anche i peccatori possono chiedere una grazia. Pregherò perché tu veda e senta lo spirito. - No, non ve ne andate! - gridò ella sollevandosi sul letto e attaccandosi al suo braccio, con una stretta disperata. - E perché? - Non ve ne andate, per amor di Dio, se avete carità, restate qui! - Debbo andare a pregare, Bianca, - esclamò lui, esaltato, non intendendo lo stato convulso della sua figliuola. - No, no, restate, io non posso star sola qui, senza morire di spavento. E parlava affannosa, pallida, con le mani tremanti che stringevano sempre il braccio del padre. Non osava guardarsi intorno, aveva il capo abbassato sul petto, chiudeva gli occhi, si mordeva le labbra; mentre lui, in preda alla ostinazione della sua follia, guardava fiso la sua figliuola, credendo scorgere in lei quel disordine spirituale, che deve fatalmente accompagnare questi grandi miracoli delle anime. - Che hai? - domandò lui, profondamente, intensamente, quasi volesse strappar dall'anima la verità. - State qui, state qui, - disse ella, battendo i denti dal terrore. - Vedi qualche cosa? - chiese lui, suggestivamente, con una intensità di voce e di volontà che dovea piegare quel fragile involucro femminile, tutto sconquassato dall'urto nervoso. - Ho paura di vedere, ho paura, - ella disse, pianissimamente, appoggiando la fronte sui braccio di suo padre. - Non temete, cara, non temere, - le susurrò lui, teneramente, carezzandole con atto paterno i neri capelli. - Tacete, tacete, - diss'ella, con un tremore acuto. E rimase appoggiata alla sua spalla, nascondendo la faccia, raggricchiandosi tutta. Il marchese passò il braccio alla cintura di sua figlia, per sostenerne il debole corpo convulso: e mentre ella più si nascondeva, attaccata a suo padre, come a una tavola di salvezza, egli sentiva ogni tanto sussultare tutto quel povero corpo di creatura inferma nelle fibre, nei nervi e nel sangue. - Che hai? - egli domandava, allora. - No, no, - faceva ella, più col gesto che con la voce. - Guarda, guarda, non aver paura, - suggeriva l'allucinato. - Tacete, - replicava lei, rabbrividendo. Con pazienza, egli la sosteneva, aspettando, con la ostinazione del folle che attenderebbe ore, giorni, mesi e anni, purché la realtà della sua follia potesse avverarsi. - Figlia mia, figlia mia, - mormorava il marchese, ogni tanto, incoraggiandola teneramente. Ella rispondeva, sospirando: un sospiro che pareva un lamento, che pareva un singhiozzo di fanciullo sofferente. Tenendola appoggiata al suo petto, il marchese di Formosa sentiva la rigidità nervosa di quel povero corpo giovanile e malaticcio, percorso da lunghi fremiti. Quando la fanciulla tremava, tutta, suo padre ne sentiva il contraccolpo e parendogli che la rivelazione così invocata fosse imminente, le diceva un'altra volta, ostinato, spietato: - Che hai? Ella faceva un cenno con la mano, di orrore, come se volesse scacciare un pensiero spaventoso o una spaventosa visione. Che importava a lui lo strazio di quel cuore giovanile, lo squilibrio funesto di quei nervi? Egli in quella stanza glaciale e verginale, in quella penombra dove la lampada accesa innanzi alla Madonna gittava un cerchio di luce sul soffitto, con quel corpo convulso di fanciulla fra le braccia, con quell'anima tremante innanzi ai misteri spirituali, egli sentiva di essere in un momento solenne, in cui ogni circostanza di tempo, di età, scompariva, e lui, Formosa, si trovava finalmente in faccia al grande mistero. Dalla bocca innocente di sua figlia lo avrebbe saputo, il segreto della sua vita, del suo avvenire: le fatali cifre che contenevano la sua fortuna, sarebbero state dette a Bianca Maria dallo spirito, da Bianca Maria a lui. - Bianca, Bianca, prega lui he venga, che ti dica se dobbiamo vivere o morire. Pregalo, Bianca, poiché lui, lo spirito, è una emanazione del Divino, di dirti la divina parola...pregalo, se è qui, presso a te, o in te, se è innanzi ai tuoi occhi o alla tua fantasia, pregalo, Bianca, pregalo, ne va la vita nostra, salvaci, Bianca, salvaci, figlia mia, figlia mia... Continuava a parlare, incoerentemente, invocando la presenza dello spirito, dirigendo a lei, dirigendo a lui le preghiere più impetuose e più dolorose. La fanciulla, trasalendo, rabbrividendo, batteva i denti dal terrore; le mani che teneva strette al collo del padre, come un bambino che soffre, si avvinghiavano a guisa di tenaglia. Non parlava più, adesso: ma si capiva che l'ora, l'ambiente e le parole del padre esaltavano la sua convulsione. Un singhiozzo sommesso le sollevava il petto: e quando non singhiozzava, un piccolo lamento fioco fioco, instancabile, di bambino che agonizza, le usciva dalle labbra. Egli le parlava, sempre: ma quando le sue parole diventavano più incalzanti, quasi colleriche nel loro dolore, egli sentiva le braccia della figliuola torcersi per la disperazione. Poi, a poco a poco, un nuovo fenomeno si era manifestato. Sul principio, le mani e la fronte di Bianca Maria erano gelide, come sempre, poiché l'anemia di cui languiva, le toglieva ogni calore vitale. Anzi, in quella convulsione, egli aveva inteso, il vecchio allucinato, che era agghiacciato tutto il corpo della povera creatura. Ma ad un certo punto, in alcuni intervalli in cui il batter dei denti taceva, in cui le braccia si rilasciavano per un accasciamento, egli sentiva un sottile calore correre sotto la pelle delle mani, un sottile calore salire alla fronte della fanciulla. Pareva una fluida corrente di calore che si diffondesse in tutta la persona giovanile di Bianca Maria: un calore che inondava le vene impoverite di caldo sangue e che crescendo, crescendo, ne rendeva scottante la fronte e le mani. Egli udì che il respiro della fanciulla si facea affannoso e ogni tanto, quasi le mancasse l'aria, un lungo sospiro le sollevava il petto oppresso. Due volte egli fece per riporre il capo sui cuscini del letto, ma ella ebbe un fremito di paura. - Non mi lasciar sola, per amor di Dio, - balbettava, quasi infantilmente. - Non ti lascio: dimmi che cosa vedi, - ripeteva lui, indomito, implacabile. - Oh è orribile, è orribile...- balbettava Bianca, tremando ancora, tremando sempre, come se il suo corpo fosse diventato quello di una vecchia settantenne. - Che, è orribile? Parla, Bianca, raccontami tutto, dimmi che cosa hai visto? - Oh! - faceva lei, lamentandosi, disperandosi. Adesso, cessato il batter dei denti, col respiro corto che parea le uscisse a stento dalla gola, ella ardeva tutta, il suo alito breve bruciava il collo del padre, dove la sua testa si appoggiava. A questo fiato ardente si univa il batter rapido, rapido dei polsi pieni, e il battito rapido e pieno delle tempie. Ma il marchese Cavalcanti, preso intieramente dalla sua follia, nella notte gelida, in quella penombra misteriosa, accanto a quella povera anima addormentata in quell'involucro tormentato, aveva smarrito il senso del reale: e la sua ammalata fantasia assaporava acutamente il dramma di quell'ora, senza intenderne la crudeltà. Egli, anzi, vibrava di gioia, poiché credeva giunto il gran momento della rivelazione dello spirito: la fortuna di casa Cavalcanti, ecco, in quel minuto si decideva. Le ansie, i terrori, le convulsioni, le tronche parole di sua figlia si spiegavano: era l'approssimazione della Grazia. Tanto tempo, tanto tempo era passato nella infelicità e nella miseria: e ora tutto si risolveva: l'indomani, lui e sua figlia sarebbero ricchi a milioni. Oppressa, affannata, Bianca Maria era scivolata dal petto di suo padre sui cuscini e si udiva il sibilo del suo respiro, si vedevano i suoi occhi brillare stranamente. Inchiodato dalla morbosa curiosità, il marchese si tenea ritto presso il letto, spiando, al lume della lampada, ogni gesto, ogni atto della sua figliuola, abbattuta su quel letto di dolore. A un tratto, come per una scossa elettrica, le mani della fanciulla brancicarono convulsivamente la coltre: un grido rauco le uscì dalla strozza. - Che è? - gridò il marchese, scosso anche lui. - È lo spirito, lo spirito, - balbettò lei, con la voce cambiata di tono, profonda, cavernosa. - Dove è? - disse il padre, sottovoce. - Sulla soglia, è là, guardatelo, - disse ella, fermamente, energicamente, sbarrando gli occhi verso la porta. - Non vedo niente, niente, sono un povero peccatore! - gridò disperatamente il marchese Cavalcanti. - Lo spirito è là, - sussurrò lei, quasi che nulla avesse inteso. - Come è vestito? Che fa? Che dice? Bianca, Bianca, pregalo! - È vestito di bianco...non si muove... non dice nulla, - mormorò ella, parlando in sogno. - Pregalo, pregalo che ti parli, tu sei innocente, Bianca! - Non parla... non vuol parlare. - Bianca, scongiuralo, per il nostro Dio, per la sua forza, per la sua potenza Tacquero. Tutta l'intensa attenzione del marchese Cavalcanti era su quella porta, dove solo sua figlia vedeva lo spirito, mentre tutto l'animo di lui era una preghiera. Ella giaceva, sempre più affannata, mentre le ardenti mani sottili stringevano convulsivamente, fra le dita, le pieghe del lenzuolo. - Che dice? - Nulla, dice. - Ma perché non vuol parlare? Che è venuto a fare, se non vuol parlare? - Non mi risponde, - replicò lei, sempre con quella voce, che pareva venisse da una profonda lontananza. - Ma che fa? - Mi guarda... mi guarda fisamente... ha gli occhi così tristi, così tristi... mi guarda con pietà; perché mi guarda così, come se fossi morta? Sono forse morta, io? - Ora andrà via, senz'averti detto niente! - urlò il marchese di Formosa. - Domandagli che numeri escono, domani! La figliuola emise un lamento straziante. - Mi pare che pianga, adesso, quasi che io fossi morta, questo mi pare. Gli scendono le lacrime sulle guancie... - Il pianto, sessantacinque, - disse Formosa a se stesso, come se temesse che qualcuno lo udisse. - Leva la mano, per salutarmi... - Guarda quante dita solleva, guarda bene, non ingannarti! - Tre dita: mi saluta, mi saluta, se ne vuole andare.. - Digli che ritorni, pregalo, pregalo... - Accenna col capo di sì, - riprese, dopo una lieve pausa Bianca Maria, - se ne va, se ne è andato, è scomparso... - Lodiamo Iddio, - gridò Cavalcanti, inginocchiandosi ai piedi del letto. - Tre le dita, inque la mano, essantacinque il pianto, isogna sapere che numero fa la fanciulla morta, ingraziamo il Signore!... - Sì, sì, - mormorò la ragazza, con accento bizzarro, - bisogna che vediate quanto fa la fanciulla morta .. ..bisogna saperlo... - Lo sapremo, lo sapremo, - esclamò Formosa, ridendo come un folle. Non pensava più a sua figlia, la cui febbre era arrivata al più alto grado, con la violenza delle effimere he pare vogliano portare via in ventiquattr'ore un'esistenza. Ella affannava, bevendo l'aria dalla bocca schiusa, simile a un uccelletto che muore: il sangue batteva così precipitosamente alle pareti delle vene che sembrava le spezzasse, e tutto quel fragile corpo abbruciava come un ferro rovente. Invece, il marchese di Formosa era in preda a una impazienza giovanile: due volte era andato alla finestra, per vedere se spuntava il giorno; ancora qualche ora da aspettare, per andare a giuocare il biglietto dello spirito. Pensava di non aver più denaro: come avrebbe giuocato? Non una lira, era una cosa feroce, questa continua sete che nulla arriva a soddisfare! Oh, ma li avrebbe trovati i denari per giuocare, avesse dovuto vendere gli ultimi mobili di casa e mettere in pegno la propria persona; li avrebbe trovati, perdio, ora che la rivelazione era stata fatta, ora che lo spirito assistente si era degnato entrare nella sua casa! La sua fortuna era nelle sue mani, ci avrebbe rimesso tutto, per giuocare tutto sul biglietto dello spirito. Oh! Ecce Homo, Ecce Homo i casa Cavalcanti, eravate stato voi a fare quella grazia, per voi ci voleva una cappella apposta e quattro lampade di argento massiccio, sempre accese, in memoria della grazia che avevate fatto. I denari li avrebbe fatti trovar anche lui, l' Ecce Homo, l buono e potente Ecce Homo, rotettore della casa: i denari, i denari per giuocare! E trascinato dal suo fervido, appassionato pensiero, il marchese Cavalcanti parlava ad alta voce, passandosi la mano nei capelli, gesticolando, dandosi a girare nella stanza, come un pazzo. Sottovoce, poiché le mancava il respiro, Bianca Maria continuava a delirare, con dolcezza, parlando a frasi vaghe, nominando adesso Maria degli Angioli o parlando ogni tanto, con una infinita malinconia, di un fresco e ridente paese di campagna, di un paese verde dove avrebbe voluto andare a vivere, laggiù, lontano, lontano. Ma il vecchio, infuocato dall'attesa, non ascoltava più sua figlia e mentre l'alba fredda di marzo sorgeva, in quella stanza si confondevano i due delirii, del padre e della figliuola, tragicamente. Alla livida e glaciale luce dell'alba, pallido e con gli occhi stralunati, il marchese di Formosa girava con passo vacillante pel suo appartamento, cercando nei cassetti vuoti e sui rari mobili, qualche cosa da vendere o da impegnare. Non trovava nulla e con le mani brancolanti tornava ad aprire i cassetti, battendoli forte, macchinalmente, e si guardava attorno con la follia nello sguardo, pensando di voler vendere o impegnare le nude mura di quella casa che era stata sua. Nulla, nulla! A poco a poco, divorati dal giuoco del lotto, erano scomparsi i gioielli di immenso valore, le pesanti argenterie antiche e moderne, i quadri dei grandi pittori, i libri preziosi, le rarità artistiche di bronzo, d'avorio, di legno scolpito: la casa si era denudata, rimanendovi solo i mobili che sarebbe stato vergognoso voler impegnare o vendere. Ahi, che non trovava nulla per far denaro, per giuocare i numeri dello spirito. Egli si torceva le mani dalla disperazione, mentre aveva lasciata Bianca Maria nel sopore affannoso, febbrile, in cui ancora qualche confusa parola le sfuggiva, mentre i due vecchi servi ancora dormivano. Entrò finanche nella cappella, come un pazzo: ma le lampade che vi ardevano, erano di ottone: ma le frasche, ull'altare, egli stesso le aveva comprate, di metallo in imitazione d'argento, quando aveva venduto quelle di argento vero: pensò per un momento a prendere la coroncina di argento dal capo della Madonna Addolorata e di toglierle dal cuore quelle sette spade d'argento, le piccole spade che raffigurano i dolori della Gran Madre straziata, ma lo trattenne un timore mistico. Uscì, senz'aver potuto neppur dire una preghiera, tanto lo tenea, in quell'alba, l'allucinazione della notte, e la fretta febbrile della mattinata di sabato. Pensava, ora, a chi avesse potuto chieder denaro in prestito: ma non trovava la persona e si stringeva le tempie tumultuose fra le mani, per concentrarsi, per arrivare a ottenere lo scopo. Tutti gli amici del suo ceto, i suoi larghi parenti, dopo la morte di sua moglie, si erano allontanati da lui, ma solo dopo che egli li aveva messi a contribuzione, tutti quanti, per giuocare. Gli amici di adesso? Tutti giuocatori: tutti, in quella mattina, faceano dei tentativi disperati per giuocare ancora, e non prestavano, certo, denaro, ognuno pensava a sé, cercava per sé. Amici nuovi? Quella passione non gliene aveva fatti trovare, fuori di quella morbosa cerchia di pazzi, dannosi come lui. E ci voleva molto denaro, molto, poiché lo spirito si era degnato di rivelarsi: bisognava far fortuna in quel giorno, o mai più. A un tratto, un lampo di luce lo colpì: un nome gli si era affacciato alla mente. Costui gli potea dare del denaro; era un galantuomo, ne avea molto, del denaro, non avrebbe rifiutato un piccolo prestito a un Formosa. E mentre, seduto presso la sua scrivania, sopra un foglietto strappato da un taccuino pieno di cifre, egli scriveva al dottor Antonio Amati, pensava che non era vergogna quel prestito chiesto a un estraneo, poiché egli avrebbe restituito quel denaro la sera istessa. uando ebbe scritto, un pensiero lo fece tremare: e se Amati dicesse di no? Era un indifferente, un estraneo, il denaro indurisce tutti i cuori. - Porta questa lettera al dottor Amati e torna qui - egli disse a Giovanni, che si era presentato, mal desto, al suono del campanello. - Dormirà... - Porta! - comandò Formosa. E si mordeva le labbra, adesso, sicuro che Amati avrebbe rifiutato, sentendo il rossore della vergogna salirgli alle guance. Ma doveva aver denaro, ne doveva avere, a qualunque costo! Buttato sulla poltrona, guardando, senza vederle, le cifre scritte sulle carte disperse sulla scrivania, egli si sentiva vincere da quella collera irrefrenabile della passione, alle prese con la realtà. - Quando si sveglia, darà la risposta, - disse Giovanni, rientrando, e aspettando in silenzio gli ordini del suo padrone. - Giovanni, dammi l'altro denaro che hai, - disse sordamente Formosa. - Non ne ho, Eccellenza... - rispose l'altro, assalito da un tremito. - Non dir bugie: hai altre cinquanta lire, dammele subito... - Eccellenza, le ho prese in prestito da un usuraio, debbo restituirle a tanto la settimana, non me le togliete... - Non me ne importa niente, - disse superbamente Carlo Cavalcanti. - Non me le togliete, Eccellenza, se sapeste a che servono... - Non me ne importa niente, - replicò ferocemente il marchese. - Dammi le cinquanta lire... - Servono per far mangiare la marchesina... - Non me ne importa niente! - urlò Formosa. - Quando è così, ubbidisco, - disse disperatamente il servo. E cavò le altre cinquanta lire; il marchese le afferrò con l'atto di un ladro e se le mise in tasca rapidamente. - Tua moglie anche ha denaro, cercaglielo, - riprese Cavalcanti, freddamente. - Chi glielo ha dato, a mia moglie? - Ne ha: fattelo dare e portalo qui. Risparmiami una scena. Se tua moglie nega, potete andarvene dalla mia casa, subito. - Nossignore, nossignore, Eccellenza: vado subito, - disse umilmente il servo. Ma di là, vi fu la scena. Il dialogo fra marito e moglie fu lungo, agitato, la donna non voleva lasciarsi portar via il denaro: gridava piangeva, singhiozzava. Alla fine vi fu un silenzio: e poi come un lamento. Giovanni rientrò, con la vecchia faccia sconvolta, più curvo, quasi colpito da un tremor paralitico. E deponendo altre cinquanta lire sulla scrivania, in silenzio, con gli occhi rossi delle scarse e brucianti lacrime dei vecchi, egli colpì tanto il marchese, che costui, placato a un tratto, disse bonariamente: - Sono trecento lire, fra ieri sera e stamattina: stasera avrete tutto. - E il pranzo di oggi? - Verrò io, alle quattro, disse vagamente il marchese. - La signorina è ammalata, vorrà un po'di brodo, stamane - mormorò il servo. Allora, cercandosi in tasca, con la smorfia dolorosa dell'avaro, il marchese di Formosa diede tre lire al servo, seguendole con lo sguardo avido. Avevano bussato, Formosa trasalì, era la risposta del dottor Amati: non importa, adesso, se diceva no! Ma come ebbe nelle mani la busta, alla divinazione del tatto comprese che i denari chiesti vi erano, e rosso di gioia, si mise la busta in tasca senz'aprirla. Usciva, adesso, usciva alle otto del mattino, come se lo portasse un soffio irresistibile: usciva senza voltarsi indietro, a guardare la figlia inferma, la sua casa nuda, i suoi servi piangenti che gli avevano dato tutto, il suo vicino a cui egli non aveva pagato le visite e a cui aveva osato chieder del denaro in prestito: usciva, portando seco trecentocinquanta lire, che avrebbe messe tutte sul biglietto dello spirito, mentre aveva lasciato digiuni i due poveri vecchi servi, e aveva lesinato sopra un po'di brodo per Bianca Maria. Niuno lo rivide, in casa, sino al pomeriggio. La fanciulla era restata a letto, vinta dalla febbre, ardendo, respirando faticosamente chiedendo ogni tanto da bere, niente altro. Margherita si era seduta accanto al letto, dicendo mentalmente il rosario, due o tre volte, per lasciar passare le ore: e ogni tanto metteva la mano sulla fronte dell'inferma, sgomentandosi del calore. La malata taceva: dormiva, con la respirazione oppressa. A un tratto, aprendo gli occhi, disse nitidamente a Margherita: - Chiamami il dottore... - Ora non sarà in casa. - Quando ritorna... E richiuse gli occhi. Il dottore non venne che alle quattro e mezzo. Si fermò sulla soglia della cameretta, odorando l'aria di febbre. - Potevate chiamarmi prima, - disse ruvidamente a Margherita. - Oh Vostra Eccellenza, se potessi dirvi. Egli le ordinò di tacere. La malata lo guardava coi suoi belli e dolci occhi, sbarrati, e gli tendeva la mano. E il forte uomo, dalla testa poderosa, dalla faccia genialmente brutta, prese, innanzi a quella fragile creatura, quella profonda aria di tenerezza che gli sgorgava spontanea dal cuore. Il medico sentì subito che quella febbre sarebbe finita: già decadeva, con la rapidità delle effimere: ma a lui restava confitta in cuore la spina di quella povera esistenza, traballante fra la vita e la morte, vinta da un morbo di cui egli non trovava le cause. - Ora vi ordino una medicina, - disse lui, dolcemente, alla malata, tenendone la mano fra le sue. - No - disse lei, piano. - Non la volete? - Ascoltate, - disse lei, attirandolo a sé, per farsi udir meglio. - Portatemi via. Tremava, dicendo questo. Antonio, improvvisamente pallido, colpito da una emozione indicibile, non potette neppure risponderle. - Portatemi via, - soggiunse ella, umilmente, come se lo supplicasse. - Sì, cara, cara, - balbettò lui. - Dove voi volete, subito... - In campagna, lontano, - sussurrò la poveretta, - dove non si vedono fantasmi, nella febbre, dove non ci sono ombre, né spettri paurosi... - Che dite? - disse lui, sorpreso. - Niente, portatemi via... in campagna, fra il verde, nella pace, con vostra madre... innanzi a Dio. - Oh cara, cara... - non seppe dire altro, il grande uomo, nel turbamento supremo, nella suprema dolcezza di quell'idillio. - Lontano... - mormorò, ancora ella, guardandolo coi grandi occhi buoni. E soli, dolcissimamente, castamente, senza parlarne, parlavano d'amore.

La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

Di profilo si vedeva una guancia delicata, delicatamente rosea, e una grossa treccia castana modestamente ravviata e stretta sulla nuca, si vedeva l'angolo di una bocca fine, e l'ombra che le lunghe ciglia abbassate gittavano sull'alto delle guancie. La giovane cucitrice, da un'ora che la folla si addensava nel cortile, non aveva guardato che un paio di volte giù, gittandovi una breve occhiata indifferente, e riabbassando subito la testa sull'ingranaggio lucido della macchina, trasportando lentamente con le mani il pezzo di tela, perché la cucitura venisse diritta, diritta. Nulla la distraeva dal suo lavoro, né le voci, né le vive esclamazioni, né il calpestìo crescente della folla; ella non aveva guardato mai sul terrazzino coperto, dove si sarebbe proclamata l'estrazione, fra poco. La gente la guardava, di basso, la delicata e infaticabile cucitrice di bianco, ma ella proseguiva quietamente nel suo lavoro, come se neppure un eco di quella gran passione, fra segreta e palese, arrivasse sino a lei; ella sembrava così lontana, così schiva, così assorta in un mondo assolutamente staccato, diverso, che la fantasia poteva supporla più una immagine che una realtà, più una figura ideale che una persona vivente. Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell'androne, quella che era nell'androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un'ardente curiosità, prese da un'angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall'attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l'urna, per i novanta numeri. È grande, l'urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all'altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra: sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L'urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c'è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente virare sul suo asse tutta l'urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino erano vecchi, un po' curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò: - Andiamo, andiamo! Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall'urna i numeri dell'estrazione. Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell'Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, ome i napoletani chiamano l'ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo enza enzamadre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull'uniforme da serragliuolo, na tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell'innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all'altezza dell'urna. Di sotto, la folla tumultuava: - Bel figliuolo, bel figliuolo! - Che tu possa essere benedetto! - Mi raccomando a te e a San Giuseppe! - La Madonna ti benedica le mani! - Benedetto, benedetto! - Santo e vecchio, santo e vecchio! Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un'invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell'urna; e un po' discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v'era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell'estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano: - Pare un piccolo san Giovanni, pare! - Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia! - Core di mamma, quanto è caro! Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell'urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un'occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell'urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni dalla Smorfia o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta. - Due! - …la bambina! - …la lettera! - … fammi arrivare questa lettera. Signore! - Cinque! - …la mano! - … in faccia a chi mi vuol male! - Otto! - …la Madonna la Madonna, la Madonna! Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell'urna dell'estrazione dal piccolo serragliuolo estito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell'urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava: - Gira, gira, vecchiarello! - Ancora un giro per me! - Dammi la giusta misura! I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell'urna: per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza. - Tredici! - …le candele! - …il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia! - … smorziamo, smorziamo! - rombava il coro. - Ventidue! - …il pazzo! - …il pazzarello! - …come te! - …come me! - …come chi giuoca alla bonafficiata Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l'agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull'alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano: niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico: - Trentatré! - … anni di Cristo! - … anni suoi! … questo esce. - …non esce! - …vedrete che esce! - Trentanove! - …l'impiccato! - … nella gola, nella gola! - …così debbo vedere chi dico io! - …stringi, stringi! Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie: solo l'altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere: piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L'operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma: a ogni nuova diecina di numeri messi nell'urna, l'usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo. Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all'altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L'operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l'ultimo numero, anzitutto perché era l'ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: ovanta fa il mare: ovanta fa il popolo: insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l'omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione. Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l'altro usciere dava gli ultimi giri all'urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell'urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell'urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso. - Dieci, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella. Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi. Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell'urna. - Due, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella. Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell'urna, qualcuno gridò, angosciosamente: - Cerca bene, scegli bene, bambino! - Ottantaquattro, gridò l'usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella. Qui scoppiò il grande urlo d'indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l'estrazione e per i giuocatori. Con l'ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! ridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l'espressione paurosa della infinita delusione popolare. - Settantacinque, dichiarò con voce più fiacca l'usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella. Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente. - Quarantatrè, - finì di proclamare l'usciere, collocando il quinto ed ultimo numero. E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l'urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione. Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt'i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l'infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall'altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco: - e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell'alta matematica del lotto, dove vivono le figure, e e cadenze, e triple, a ragione algebrica del quadrato maltese le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa . Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell'esistenza. Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l'estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. - Niente? - domandò una voce sorda accanto a lui. Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l'accasciamento degli esaltati delusi. - Niente, - disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi. - E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò. - Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, - mormorò disperatamente il lustrino. - Addio, compare, - disse, con voce rude, il tagliatore di guanti. - Addio, compare, - rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato. Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

Dopo san Giuseppe e dopo sant'Andrea Avellino, ambedue protettori della buona morte quindi carissimi agli immaginosi napoletani che hanno la più grande paura della morte; dopo sant'Alfonso de'Liguori, che viene dolcemente e familiarmente chiamato cuolIo storto, erché ha la testa inclinata sopra una spalla; dopo san Vincenzo Ferreri che porta la fiamma dello Spirito Santo sulla testa e ha il libro della Legge aperto fra le mani; dopo che tutti questi santi popolarissimi erano passati fra le esclamazioni, i gridi, i sorrisi, le tenere invettive, un bel santo, così lucido, che pareva allora allora uscito dalle mani del cesellatore con la faccia rotonda e bonaria, con le mani schiuse e abbassate quasi a lasciar piovere grazie, era comparso, uscendo dal Duomo. Era san Pasquale Baylon, il santo protettore delle ragazze, quello cui esse fanno la novena per trovar marito, san Pasquale che manda il marito alle fanciulle, un santo accomodante, giocondo: e tutte le zitelle ne conoscono l'effigie, tutte lo riconobbero, quando egli apparve. E da un balcone dove era un'insegna di sarta, madama Juliano, ove stavano Antonietta, la bionda sartina con la sua amica Nannina, dalle mani della bionda Antonietta cadde, lentamente roteando, una rosa sul braccio di san Pasquale e tutte sentendo l'omaggio, il desiderio, in quell'atto, dai balconi, dalla via, una gran quantità di rose e di garofani furono lanciati a san Pasquale. -… come voi, tal quale, o beato san Pasquale, - pregavano le ragazze, alludendo al marito. Ora la processione si affrettava un poco; i santi passavano più presto, poiché l'impazienza della folla innanzi alla Cattedrale e per tutta la via del Duomo era diventata enorme. Correvano grandi brividi fra la gente: tutto quello sfolgorio di aureole di argento, di facce di argento, di mani di argento, tutto quel passaggio singolare sulle teste delle persone, e quell'allontanarsi laggiù, verso Forcella, e le continue nuove apparizioni argentee, nel grande vano nero della porta della cattedrale, avevano creata una emozione nervosa anche negli spettatori tranquilli. Cesarino Fragalà e l' l'assistito asqualino De Feo si erano fermati. anch'essi. sulla soglia di un caffeuccio, aspettando di veder passare la processione; e il mite pasticciere, che fuggiva oramai ogni giorno, quando poteva, la sua bottega di dolci per seguire il misterioso e scarno assistito, veva una faccia dove, all'antica giocondità giovanile e alla sicurezza della vita, si mescolava non so quale pallore morboso: una grave cura ne induriva le linee, ogni tanto. L' assistito, he ogni settimana pompava denari da tutto il gruppo dei cabalisti e da altri ancora, continuamente, aveva sempre quei suoi vestiti lerci e stracciati, quella sua biancheria non inamidata, sfrangiata al colletto e ai polsini, quelle sue cravatte aggrovigliate come un lucignolo, quella faccia gialla di febbricitante mal rimesso in salute, dove un sangue color mattone, indebolito, corrotto, veniva a mettere delle striature, simili ai filamenti malaugurati dello scirro. L'assistito si portava dietro, ormai, continuamente, Cesarino Fragalà, che si sforzava, col suo semplice cervello di commerciante, a tener dietro alle fantastiche elucubrazioni di don Pasqualino, non intendendole, arrovellandosi, prendendosela con sé stesso, per la sua mancanza di lucidità, per la sua mancanza di visione, accusando il proprio temperamento, troppo vivace, troppo sano, troppo grossolano, di non poter capire le malaticce spirituali raffinatezze di colui che aveva la fortuna di essere visitato e assistito dagli spiriti. Ora, don Pasqualino, assai chiaramente e a tutt'i suoi devoti, aveva detto che una gran fortuna sarebbe capitata loro, in quel sabato di maggio, consacrato al Prezioso Sangue di san Gennaro. Avidamente avevano intesa la parola, i giuocatori: da tante settimane, da tanto tempo, non avevano guadagnato un centesimo, i cabalisti! Salvo Ninetto Costa, l'agente di cambio che aveva fatto un grosso guadagno, con certi numeri datigli da un garzone vinaio, che era venuto a portargli una fattura da saldare, salvo l'avvocato Marzano che aveva preso un ambo di cinquanta lire, datogli dal ciabattino, nessun altro aveva guadagnato niente, malgrado il frate Illuminato, malgrado l' assistito malgrado gli spiriti buoni e cattivi, malgrado tutte le preghiere e tutte le cabale. Adesso, don Pasqualino che aveva succhiato molte ma molte centinaia di lire, in quell'inverno e in quella primavera, aveva detto che san Gennaro certamente avrebbe fatto una grazia, in quel primo sabato di maggio, e tutti i cabalisti ci avean creduto ed erano sparsi qua e là, tra la folla, per la via del Duomo, essendosi dati convegno pel vespero, a Santa Chiara. Ma Cesarino Fragalà, che più s'ingolfava nel vortice del giuoco e più si aggrappava all' assistito, vendo giuocato molto anche in quel sabato, non lo voleva lasciar più. Sottovoce, fra la gente, appena qualche santo compariva, l' assistito olgeva gli occhi al cielo e pregava fervorosamente: accanto a lui, distrattamente, Cesarino Fragalà si segnava. E tendeva l'orecchio, con ansiosa attenzione, alle parole che l' assistito ronunciava, quando un santo appariva. Ora passava santa Candida Brancaccio, una delle prime martiri cristiane napoletane, una giovanetta che guardava il cielo e che teneva nella mano destra una freccia lunga, la freccia dell'amor divino. Una voce gridò, fra la gente, prendendo la freccia per una penna: - Scrivi una lettera, per me, all'Eterno Padre, santa Candida! - Santa Candida scrive per voi, - soggiunse subito l' assistito, oltandosi a Cesarino Fragalà. - Così speriamo, così speriamo, - mormorò costui umilmente. Ma un clamore salutò san Biagio, un altro vescovo napoletano, che, nella statua, è effigiato in atto di benedire il popolo. Per due o tre anni la difterite, l'angina avevano terrorizzato il cuore delle madri napoletane, massimamente il cuore delle donne del popolo: e san Biagio è appunto il patrono dei mali di gola. Quando egli apparve, il santo d'argento, nella via, fra il clamore, vi fu un sollevamento di bimbi sulle braccia delle madri, dei padri, un tendere i piccoli figli a san Biagio, perché il santo vescovo li benedicesse e li liberasse dall'orribile flagello, che butta alla morte tanti bimbi innocenti. - San Biase, san Biase! - strillavano le madri, tenendo in alto i figli, convulse, singhiozzanti. Anche Annarella, la sorella di Carmela la sigaraia e di Maddalena l'infelice, aveva levato su i due figliuoli che le restavano: il più piccolo, dopo aver lungamente languito, era morto. Ah non l'avrebbe più aspettata sulla porta del suo basso seduto sullo scalino, mangiando un pezzo di pane, il povero piccolo Peppiniello, che pazientemente attendeva il ritorno di sua madre dal servizio, la povera creatura innocente! Non più, non più: Peppiniello era morto. Era morto di miseria, in un basso mido e puzzolente, mangiando male e scarsamente, dormendo coperto dai suoi vestitucci, attaccato a sua madre, per aver caldo: morto, morto, il piccolo fiore di sua madre, di miseria, morto per quella terribile bonafficiata, er quel terribile Lotto che perdeva Gaetano, il tagliatore di guanti, sino a fargli rubare il pane dei figli. Ah mai più si sarebbe consolata, Annarella, di quella morte! I due figliuoli che le restavano erano saggi, e buoni, e forti, ma non erano il suo piccolo fiore biondo e tenue; essi l'avevano trascinata a veder san Gennaro, e quando la misera ebbe visto in aria tanti piccoli, levò anche i suoi, piangendo, singhiozzando, pensando che il suo caro fiore non era stato salvato né da san Biase, né da san Gennaro, né da tutti i santi insieme del paradiso. Ma come l'ora si avanzava, l'emozione della gente cresceva, cresceva: ognuno era in preda a una commozione che si rinforzava dal minuto che trascorreva, che si raddoppiava dalla emozione del vicino. Agli occhi esaltati delle fanciulle, delle madri, dei poveri, degli infelici, degli sventurati colpevoli, di tutti quei bisognosi di soccorso, di soccorso morale e materiale, quella apparizione di santi diventava fantastica: li vedean passare in una visione luminosa, dove l'argento dell'aureola, del volto, della persona, dava riflessi abbaglianti, dove il nome finiva per sparire e rimaneva tutta la lunga processione di quelle beate immagini. La folla, oramai, confusa, stordita, fremente di mistica impazienza, non riconosceva più il gruppo degli antichissimi santi del primo tempo di Napoli, sant'Aspreno, san Severo, sant'Eusebio, sant'Agrippino e sant'Attanasio, santi vecchissimi, un po'oscuri, un po'ignoti: rumoreggiò come tuono, quando apparvero le statue dei cinque Franceschi che vegliano intorno a san Gennaro, nel Succorpo: san Francesco di Assisi, di Paola, di Geronimo, Caracciolo, Borgia; urlò nuovamente quando apparve sant'Anna, la madre della Madonna, a cui, dice il popolo, nessuna grazia è negata, mai: nessuno si occupò molto di san Domenico, l'inventore del rosario, poiché nessuno nella confusione di quell'ora pomeridiana, riconobbe il fiero monaco spagnuolo, salvo il fosco impiegato dell'Intendenza, don Domenico Mayer, che era stato respinto contro una muraglia dalla folla, e che teneva il cappello a cilindro abbassato sugli occhi, le braccia conserte in atto fiero e tetro sul soprabitone nero, e una dolorosa smorfia di scetticismo gli piegava le labbra. I santi passavano, passavano, sboccando dalla gran volta nera del Duomo, avviandosi verso Forcella, un po' più presto, adesso, e la folla si agitava a destra e a sinistra, quasi volesse liberarsi dall'incubo di quella attesa. La processione dei santi era lì lì per finire, durando da quasi un ora per la lentezza dell'incesso, finiva con san Gaetano Thiene, con l'angelico san Filippo Neri, con i santi dottori Tommaso e Agostino, finiva con santa Irene, con santa Maria Maddalena de' Pazzi, con la grande santa Teresa, in estasi, tutta ardore, tutta passione, la magnifica santa di Avila, che morì in una combustione di amor divino. Quando i santi cessarono la loro sfilata e i primi canonici della cattedrale comparvero, vi fu un immenso movimento nella gente che aspettava. Tutti tendevano il capo per veder meglio, per non perdere una linea dello spettacolo religioso, e l'attenzione era anche indomabile commozione. Finirono anche i canonici, e finalmente, sotto il grande pallio di broccato gallonato, frangiato di oro, pallido, con il volto raggiante di una espressione profonda di pietà, con le labbra che mormoravano una preghiera, apparve il Pastore della chiesa napoletana. Otto gentiluomini tenevano alti i bastoni del pallio: otto chierichetti, intorno, agitavano i turiboli fumanti d'incenso: e l'arcivescovo, che era un principe della Chiesa, un cardinale, camminava solo sotto il baldacchino, lentamente, con gli occhi fissi sulle proprie mani congiunte: e da tutte le genti che affollavano le vie, i portici, i balconi, le finestre e le terrazze, da tutte le donne che pregavano, da tutti i bambini che balbettavano il nome di san Gennaro, non al pallio, non ai paramenti d'oro, non alla mitria gemmata, si guardava: ma si guardava alle ceree mani congiunte dell'arcivescovo, si guardava teneramente, entusiasticamente, piangendo, gridando, chiedendo grazia, chiedendo pietà, magnetizzando ciò che l'arcivescovo stringeva fra le mani, tremanti di sacro rispetto. Lì, lì, tutti gli sguardi, tutti i sospiri, tutte le invocazioni. Il cardinale arcivescovo di Napoli teneva fra le mani le ampolline, dove era conservato il Prezioso Sangue. Nella grande e bella chiesa di Santa Chiara, tutta bianca di stucco e carica di dorature, simile a un amplissimo salone regale, la folla aspettava il miracolo di san Gennaro. Non era ancora notte, ma migliaia di ceri, sull'altar maggiore, nelle cappelle, e specialmente agli altari della Madonna e dell'Eterno Padre, illuminavano la vasta chiesa, ricca ed elegante. Sull'altar maggiore, sopra la bianca finissima tovaglia, in un piatto d'oro, era esposta la testa di san Gennaro, con la mitria vescovile gemmata, con la faccia rivestita d'oro: e più in mezzo erano le due ampolline del Prezioso Sangue coagulato, esposto alla venerazione dei fedeli. Intorno intorno all'altar maggiore, dentro la balaustra di legno antico scolpito che separa l'altar maggiore e un grande spazio dal resto della chiesa, erano le quarantasei statue di argento, che fanno la guardia di onore alle reliquie di san Gennaro: e innanzi all'altar maggiore il cardinale arcivescovo, insieme coi canonici, officianti il santo patrono di Napoli perché volesse fare il miracolo: dentro la balaustra, accanto all'altar maggiore, un solitario, e favorito, e fortunato gruppo di vecchi e di vecchie, tutti vestiti di nero, con fazzoletti e cravatte bianche al collo, gli uomini a capo scoperto, le donne col velo nero sui capelli, il gruppo osservato, commentato, invidiato da tutti gli altri devoti, il gruppo dei parenti di san Gennaro, il gruppo che solo aveva il diritto di salire sull'altar maggiore, di vedere il miracolo a mezzo metro di distanza. Poi l'immensa folla: nella grande unica navata di Santa Chiara e in tutte le cappelle laterali, fin fuori le due grandi porte, fin sugli scalini, fin nel chiostro di Santa Chiara, donde gli ultimi arrivati si rizzavano sulla punta dei piedi, presi dal bagliore di quelle migliaia di cerei, cercando di vedere qualche cosa, tormentandosi invano per spingersi un passo innanzi, mentre non vi era posto più per nessuno. E tutti agitati, inquieti, dal cardinale arcivescovo che orava, inginocchiato innanzi all'altare, all'ultima, umile femminetta del volgo, tutti attendevano che il divo Gennaro compisse il miracolo. Fervorosamente, col capo abbassato sulla sedia che aveva dinanzi, con la ingenua pietà del suo cuore giovanile, Bianca Maria Cavalcanti pregava, in quell'appressamento del miracoloso istante: pregava san Gennaro nel nome del suo Prezioso Sangue, di dar la pace al cuor di suo padre, di dar la fede al cuore di Antonio Amati: e candidamente, nella grande, saggia, profonda bontà dell'anima sua, nulla chiedeva per sé, bastandole che il cuore turbato, ammalato, straziato di suo padre avesse la tranquillità, bastandole che nel forte e fermo cuore di Antonio Amati, accanto all'amore umano, entrasse la più alta tenerezza dell'amore divino. Ecco, fra poco si sarebbe compito uno dei più grandi miracoli della religione: non poteva san Gennaro fare il miracolo in quei cuori, che essa adorava con tutte le sue forze? Bianca Maria, con le guance insolitamente accese di un sottil foco, di un sottil rossore, pregava con una forza contenuta di mistico entusiasmo, con una passione nova che era entrata a far divampare la sua gelida vita. Sull'altar maggiore, con la faccia volta al cielo, e traspirante una immensa fede, con la voce tremante di una commozione invincibile, il cardinale arcivescovo aveva detto le preghiere latine, dedicate al divo protettore di Napoli: e tutta la folla aveva risposto un lungo e tonante amen; amen vevano risposto le monache patrizie di Santa Chiara, nascoste dietro le inaccessibili graticciate del grande coro e dei coretti. Dopo gli oremus, i furono due o tre minuti di profondo silenzio, e il soffio precursore delle grandi cose parve fosse passato su quel popolo orante. Il gruppo dei parenti di san Gennaro, sull'altar maggiore, intuonò il Credo, n italiano, con grande impeto, e tutta la chiesa continuò il Credo; finito il Credo, ue minuti di aspettativa, molto inquieti, per vedere se cominciava il miracolo. Ma fu ripreso subito un secondo, un terzo Credo, on tale vigorìa d'intonazione, come se tutto il popolo proclamasse di credere, giurasse di credere sulla propria coscienza, dandosi alla fede, nello spirito e nelle fibre, con un grande fragore; inginocchiato, col volto fra le mani, il cardinale arcivescovo orava ancora, in silenzio. Dietro a lui, impetuosamente, a brevissimi intervalli, intuonati dai parenti di san Gennaro, ripetuti da tutta la folla, i Credo ontinuavano, e qua e là, fra il rombo generale, spiccava qualche nota profondamente grave di cuor desolato, spiccava qualche nota acutissima di fibre tormentate… Io credo, ridava la popolazione, con uno schianto di voce in cui parea si rompessero mille speranze, mille voti, mille preghiere. Ah! anche Luisella Fragalà, seduta in un angolo della chiesa, accanto alla malinconica signora Parascandolo, credeva profondamente: tanto che nella piccola convulsione, che cresceva nei suoi nervi di creatura pietosa e religiosa, le lagrime già le scorrevano su le guance, in silenzio: e nella oscura previsione di una sventura che ella sentiva avanzarsi, avanzarsi, senza vederla, senza distinguerla, ma sentendola implacabile nel suo viaggio, ella chiedeva a san Gennaro la forza che egli ebbe nel suo atroce martirio, per sopportare il misterioso cataclisma che le sovrastava. Anche la signora Parascandolo pronunciava il Credo, nsieme col popolo, con voce fioca: ma nelle pause quasi paurose per la trepidazione del miracolo imminente, la povera signora, orfana di tutti i suoi figli, chiedeva a san Gennaro, perché le ottenesse una grazia, perché la togliesse dalla terra d'esilio, donde tutti i suoi figliuoli erano fuggiti, lasciandola sola, brancicante nell'ombra e nel freddo. E la felice madre della rosea e bruna Agnesina come la madre infelicissima, egualmente trafitte, una dal passato, l'altra dall'avvenire, ambedue domandavano, con le lacrime negli occhi, la forza per vincere, la forza per morire. Ma l'ansia del popolo pregante cominciò al quindicesimo Credo; e parole della fede suonavano squillanti, come una sfida gittata alla incredulità, ma portavano il tremore di non so quale ignota paura: la pausa fra un Credo l'altro si prolungava, gittando il popolo in un accasciamento d'attesa, che pareva ne troncasse i nervi: la ripresa era fatta entusiasticamente, quasi il gran sentimento rinascesse formidabile, come tutti i sentimenti delle folle. Le più furiose di passione mistica erano le vecchie dell'altar maggiore: ma dietro di loro, una vampa correva da un cuore all'altro, portando l'incendio divoratore anche nei molli, indolenti temperamenti, anche fra gli scettici che fremevano, quasi una rivelazione ancora oscura li avesse colpiti e si venisse chiarendo ai loro occhi. Al ventunesimo Credo, l silenzio dell'aspettazione ebbe qualche cosa di angoscioso. Tutti gli occhi andavano dalla testa del santo, giacente nel vassoio di oro, alle ampolline di cristallo trasparentissimo, dove si vedeva il grumo nerastro e duro del sangue. La testa scintillava nella sua mitria gemmata, nella sua maschera gialla d'oro, dai riflessi metallici, un po' lividi: il sangue era lì cagliato, una pietra che le preghiere non arrivavano a spezzare, e al ventiduesimo Credo, ntuonato con uno scoppio di collera, qualche grido si udì, di chiamata, di invocazione, disperatamente: - San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro… Le febbrili preghiere recitate dal gran popolo orante nella chiesa di Santa Chiara, le preghiere che umilmente, nervosamente, convulsamente, invocavano il miracolo dal santo patrono di Napoli, erano pronunciate con grande fervore da due donne inginocchiate tra la folla, appoggiate coi gomiti alle sedie di paglia, col volto fra le mani, con tutto un abbandono dell'anima e della persona alla grazia che chiedevano. Donna Caterina la tenitrice di lotto clandestino e donna Concetta la strozzina, si erano votate in comune a san Gennaro, per un anello vescovile di oro massiccio, con una grossa pietra di topazio, se faceva loro la grazia di risolvere il loro cruccio: o cambiar il cuore dei due fidanzati, Ciccillo e Alfonso Jannaccone, rendendoli indulgenti alle speculazioni delle due sorelle, o cambiar il cuore delle due sorelle, distaccandolo dall'amor del denaro. Un anello, un anello, un anellone magnifico al miracoloso santo, se faceva quello spirituale miracolo: così pregavano, a bassa voce, ambedue, con lo stesso fervore, col capo abbassato, ripetendo monotonamente la loro offerta, levando ogni tanto i supplici occhi inondati di lacrime, sull'altar maggiore, dove il gran mistero era imminente. Ma il popolo era già dominato dalla paura di quel ritardo: provava il gran terrore che proprio in quell'anno, dopo due secoli e mezzo, il santo, sdegnato forse dei peccati della popolazione, si rifiutasse a fare quel miracolo, che è la pruova della sua benevolenza. E il Credo, ipreso dopo pause più lunghe, più profonde e quindi più emozionanti di silenzio, aveva qualche cosa di pauroso, di collerico quasi, sgorgava come un impulso disperato: ma soprattutto le voci delle vecchie sull'altar maggiore si facevano irose, spaventate, tremanti di dolore e di terrore - e in un silenzio, a un tratto, una di esse disse, con voce dove tremava una familiarità devota, uno scherzo umile e un'impazienza invincibile: - Vecchio dispettoso, ci vuoi far aspettare, eh! - San Gennaro, san Gennaro, san Gennaro! - urlò il popolo, eccitato bizzarramente. Laggiù, verso il fondo della chiesa, presso la muraglia dove dolcifica la vista coi suoi scialbi colori quella smorta e soave Madonna, che dicono sia di Giotto, la figura di don Pasqualino l' assistito ra tutta una preghiera: stava ritto, ma aveva la testa e le spalle piegate, in un atto di profondo ossequio, e quando, ogni tanto, stanco o ispirato, levava la faccia, guardando il cielo dorato e pitturato della chiesa, il bianco dell'occhio pareva stragrande, smisurato, e ogni colore era svanito sulle guance, dove un livido pallore andava crescendo. Attorno a lui, per un magnetico potere di attrazione, tutti coloro che credevano in lui e nelle sue visioni, si erano venuti raccogliendo: tutti turbati in volto, tutti in preda a una disperazione repressa che pure scoppiava sulle diverse fisonomie: tutti giunti in fondo a un abisso di dolore, poiché anche quel sabato aveva portato loro una delusione immensa, due ore prima, con l'estrazione dei numeri: tutti curvati sotto un rimorso mordente, sentendosi ognuno colpevole verso gli altri e verso sé stesso: il marchese di Formosa, curva, quasi decrepita la bella e nobile persona, sentendo l'onta della sua vita senza decoro, dove tutto periva, anche sua figlia, in un agonia di infermità e di miseria; Cesare Fragalà, la cui situazione commerciale sempre più si complicava, sentendo egli la freddezza dei suoi amici negozianti, dei suoi corrispondenti, sentendo la malinconia palese di sua moglie e le sue segrete apprensioni, e sperando sempre, e sempre invano, di accomodar tutto, con una grossa vincita; Ninetto Costa, pallido e sorridente, con gli occhi cerchiati dalle veglie e dalle preoccupazioni, pensando, ogni tanto, alla sua catastrofe, scegliendo, ogni tanto, mentalmente, fra la fuga disonorante e il colpo di rivoltella che non assolve, ma che pacifica; il barone Lamarra, grosso, grasso, floscio, maledicente i suoi sogni ambiziosi di pezzente risalito, fremente all'idea di quella cambiale, firmata da lui e da sua moglie; l'avv. Marzano, il cui dolce sorriso pareva quello di un ebete, e che ogni settimana aumentava le sue privazioni per poter giuocare, avendo cessato di fumare, di prender tabacco, di bere vino, avendo impegnato la sua cartella di pensione, essendo malamente complicato in equivoci affari; Colaneri e Trifari, il professore e il dottore, che non trovavano più studenti, e il primo specialmente, sentendo intorno a sé il sospetto, il discredito, temendo ogni mattina, quando entrava in iscuola, di esser cacciato via da un ordine superiore, di essere accoppato dagli studenti: tutti, tutti, in preda a quella desolazione del sabato sera, l'ora negra, l'ora terribile in cui solo la coscienza parlava, alta, dura, inflessibile. Eppure erano in chiesa, e i più indifferenti, i più increduli mormoravano qualche parola di preghiera: eppure erano ancora attorno all' assistito lo guardavano ardentemente a pregare, e si capiva in quell'attrazione che ancora li aveva vinti, in quegli sguardi bruciati, che, passata la dolorosa cogitazione di quel momento, di quell'ora, la passione attendeva per riprenderseli. Ah, ma quell'ora, quell'ora, in quella grande folla che esalava nella preghiera tutta la sua infelicità, era tremenda per essi, colpevoli, come la fatale notte di Getsemani fu tremenda al Grande Innocente. Disperati, tutti, fissavano l'altar maggiore dove ardevano i cerei e si riflettevano sulla metallica faccia del santo. - San Gennaro, san Gennaro, - urlava la gente, a ogni Credo he finiva. E lo sgomento che il miracolo non accadesse soffiava su quelle teste, scoppiava in quelle voci. Le parenti di san Gennaro erano convulse di dolore e di collera; si era giunti al trentacinquesimo Credo, 'ora passava, con una lentezza di minaccia: ed esse, sentendosi nel medesimo tempo offese dal ritardo del loro santo antenato, e disperate della sua collera, lo interpellavano così: - San Gennaro, faccia d'oro, non ci fare aspettare più! - Sei in collera, eh? Che ti abbiamo fatto? - Vecchio rabbioso, fa il miracolo al popolo tuo! Ed era inesprimibile il sentimento d'ira, di tenerezza, di devozione, di agitazione, che spirava in queste ingiurie, in queste pietose invocazioni. Dice la leggenda che san Gennaro ama molto di farsi pregare e non si sdegna delle parole che le sue parenti e il popolo gli dirigono, e l'emozione del popolo era tanta che, al trentottesimo Credo, versetti della preghiera furono detti disperatamente, come se ogni parola fosse strappata da uno strazio supremo e in fondo scoppiarono le grida: - Faccia verde! - Faccia gialluta! - Santo malamente! - Fa il miracolo, fa il miracolo. Il trentottesimo Credo u clamore: lo dicevano tutti, da un capo all'altro della chiesa, il cardinale, i preti, le vecchie parenti, uomini, donne bimbi, tutti, tutti, presi da un grande furore mistico. E a un tratto, nella pausa di immenso silenzio che susseguì alla preghiera, l'arcivescovo si voltò al popolo: la faccia del sacerdote, irradiata di una luce quasi divina, pareva trasfigurata: e la bianca mano, levata in alto mostrava al popolo l'ampollina: il Prezioso Sangue, nel sottilissimo involucro di cristallo, bolliva. Quale urlo! Ne parvero scosse le fondamenta dell'antica chiesa; ebbe echi così forti e lunghi, che sgomentarono i viandanti delle strade circonvicine; e parve che le sonore campane del campanile vibrassero sole; e il gran pianto, il gran singhiozzo di tutto il popolo inginocchiato, buttato a terra, singultante con la bocca sul freddo marmo, levante le braccia, dibattendosi sotto la grande visione del Sangue che bolliva, non ebbe termine. Come morte, giacevano prostrate sull'altar maggiore le vecchie parenti; una sola possente forza aveva piegato tutta la folla; era tutto un lamento, tutto un sussulto tutta una preghiera; ognuno in quel minuto lunghissimo diceva ad alta voce, fra le lacrime calde e il tremor della voce, la sua parola di dolore. Sull'altar maggiore l'arcivescovo e il clero, tutti in piedi, a voce spiegata, superante la gran voce dell'organo, cantavano il Te Deum.

Con le scarne mani tremanti, Margherita che era anche salita nell'ampio landau raccolse lei carezzevolmente le trecce della padrona: e il dottore udiva che ella mormorava: - Figlia mia… figlia mia… Le tendine azzurre della carrozza erano state abbassate dal medico, contro gli occhi indiscreti: la carrozza andava al passo; e in quell'ombra, azzurrastra, acquitrinosa, con quel passo lento, il carattere di convoglio funebre si conservava, risaltava più forte. Anzi, a un certo punto, la carrozza si fermò; dopo un poco il cocchiere aprì lo sportello senza neppur guardare il corpo della fanciulla, e consegnò al dottore una boccettina chiusa ermeticamente, che costui fece odorare alla svenuta. Subito un acuto odore di etere si diffuse nella carrozza che continuava ad andare pian piano. Bianca Maria non si riscosse: dopo un poco, per solo segno di sensibilità, le palpebre chiuse le si arrossirono e grosse lacrime le sgorgarono fra le ciglia, rotolarono sulle guance, si disfecero sul collo. Il medico non distoglieva un momento il suo sguardo da quel viso, mentre teneva fra le sue la mano di Bianca Maria. Piangeva, ella, sempre immersa nello svenimento, senza dare altro segno di vita: come se nella mancanza di sensibilità, ancora la sensibilità del dolore le rimanesse, come se nella perdita di ogni memoria sopravvivesse ancora un ricordo angoscioso, un solo, quello. non rinveniva. Quando giunsero nel cortile del palazzo Rossi, appena aperto lo sportello, un mormorìo, un rumorìo nacque, crebbe, crebbe, impossibile a dominarsi. Vicino allo sportello la portinaia esclamava e strillava, quasi che la fanciulla fosse morta; tutte le finestre che davano sul cortile, tutte le porte che davano sul pianerottolo, si erano schiuse, e al vedere estrarre dalla carrozza la povera creatura esanime, bianca bianca, vestita di nero, con le trecce pendenti, strascicanti, accompagnata dal medico che invano cercava d'imporre silenzio, il gridìo di sorpresa, di compassione cresceva, cresceva, salendo per l'aria grave. Sul pianerottolo del primo piano era uscita Gelsomina, la nutrice di Agnesina Fragalà, tenendo nelle braccia la bella creaturina già florida: e dietro era apparsa anche la madre felice, Luisella Fragalà, vestita da uscire, col cappellino in testa. Ma appoggiata alla ringhiera di ferro, sorridendo vagamente alla sua bambina, ella s'indugiava, guardando con pietà quello strano trasporto; e una stanchezza preoccupata teneva la persona giovanile della bella borghese che, da poco tempo, ubbidendo a un istinto, a un presentimento, superando una certa fierezza, discendeva ogni giorno al magazzino di piazza Spirito Santo, legando i sacchetti dei dolci e i cartocci delle paste, con le sue mani bianche, sempre ricche di anelli. - Poveretta, poveretta… - mormorava Luisella Fragalà, con una compassione che aveva un senso più acuto, più profondo. Sollevando la tenda pesante di broccato giallo, dietro il doppio cristallo della sua finestra, anche al primo piano, era comparsa la scialba faccia della signora Parascandolo, la moglie del ricchissimo usuraio che aveva perduto tutti i suoi figli. Ella usciva raramente, chiusa nel suo magnifico appartamento che era pieno zeppo di ricchi mobili, tristi ed inutili, poiché ella non riceveva nessuno, da che le erano morti i figliuoli: solo ella compariva ogni tanto, dietro i cristalli, appoggiandovi la faccia scolorita, guardandosi intorno, con l'aria di dolente ebetismo che le era divenuta naturale. Per vedere Bianca Maria, portata in su in quel modo, la povera donna cui nulla più arrivava a scuotere, aveva aperto i cristalli, e la sua voce si univa al crescente mormorio, esclamando come una invocazione e una preghiera: - Gesù, Gesù, Gesù... Sul pianerottolo del terzo piano, lasciando le tre stanze del misero quartierino che sporgeva dirimpetto al teatro Rossini, era uscita tutta la famiglia misantropica dell'impiegato Domenico Mayer: il padre sempre con la faccia lunga e arcigna, con un par di maniche di lustrino sul soprabito, togliendosi a un lavoro di copiatura che compiva a casa tornando dall'Intendenza di Finanza; la madre, donna Cristina, guarita dal mal di denti, ma afflitta dal torcicollo: la figliuola Amalia, dai grossi occhi sporgenti, dalle grosse labbra, dal grosso naso, che aveva sempre il suo aspetto ingrugnato di fanciulla che ancora non trova marito: e Fofò, il figliuolo, sempre contristato da una fame che i suoi parenti dichiaravano una misteriosa malattia. Tutta la famiglia, si buttava giù, quasi, dalla ringhiera, per la curiosità, ed esclamava in coro, gridando, strillando: - Povera figlia, povera figlia, povera figlia!… Erano alla finestra la donna con la cuffia di batista e l'uomo in grembiale azzurro da spazzare, finanche la governante e il servitore del dottor Antonio Amati: né il vedere salire il loro padrone li distolse dal guardare, tanto l'eccitamento di tutto il palazzo Rossi, nelle sue finestre, nel cortile e sui suoi pianerottoli, era diventato invincibile. Quel trasporto per le scale, fra la compassione chiassosa di tutta quella gente diversa, fra quegli strilli metà di spavento, metà di pietà, che avevano una duplice nota esagerata, parve eterno al dottor Amati; in quanto alla vecchia Margherita, ella tremava di dispiacere e di vergogna, come se quel rumore, quella pubblicità offendessero la sua padrona. Quando la porta dell'appartamento si richiuse dietro a loro, ella disse a Giovanni, sgomento: - La marchesina sta male: non vi è Sua Eccellenza? - No, - disse quello, facendo largo a coloro che portavano la svenuta. Margherita crollò il capo, disperatamente, e accompagnò il dottore e il servo nella stanza di Bianca Maria: la fanciulla fu deposta sul suo letto. Il servo disparve. Ancora, il medico tentò di farla rinvenire con l'etere: niente. Egli si mordeva le labbra: due o tre volte disse: impossibile. ncora una volta sollevò le palpebre violacee, guardando l'occhio. Viveva, ma non rinveniva. - Il padre, dov'è? - chiese, senza voltarsi. - Non lo so, - mormorò la vecchia. - Avrà qualche posto dove va, ogni giorno: mandatelo a cercare, sbrigatevi. - Manderò… per ubbidire… - disse lei, sempre esitando, ma uscendo. Egli si era seduto presso il letto: aveva posato la boccetta dell'etere, oramai convinto della sua inefficacia. Quella piccola stanza, nuda, gelida, con un aspetto di purità nivale infantile, aveva un po' calmato la sua collera di scienziato che non giunge né a vincere il male, né a darsi ragione del male. Aveva visto, cento altre volte, dei lunghi e bizzarri deliqui: ma erano il portato di malattie nervose, o di temperamenti anormali, disordinati dal loro principio: ed erano stati vinti con mezzi ordinarii. La pallida fanciulla pareva che riposasse profondamente: e che ancora per molte ore, per molto tempo dovesse stare così, immersa nel buio regno della insensibilità. Egli si armava di pazienza, sfogliando mentalmente i volumi medici dove si parlava di questi deliqui. Due o tre volte Margherita era rientrata nella stanza, interrogandolo con lo sguardo, angosciosamente: egli le aveva detto di no, ol capo. Poi le aveva chiesto del cognac; lla era stata incerta: in casa non ve n'era; e Amati le aveva bruscamente ordinato di andarlo a cercare in casa sua, alla porta accanto. Con un cucchiarino, un misero cucchiarino che aveva perduto tutta la falsa argentatura, egli aveva aperto le labbra della fanciulla e, attraverso la chiostra serrata dei denti, aveva versato il liquore energico: senza risultato. Di nuovo, a Margherita che si agitava confusamente, egli aveva chiesto che mettesse a riscaldare dei panni di flanella; ma vedendola ancora impacciata, le aveva di nuovo ingiunto di andare a casa sua, a chiederne alla sua governante. Mentre ella era assente, rientrò Giovanni, trafelato: parlava ansando, al dottore. - Non l'ho trovato in nessun luogo, il marchese: né al posto i lotto di don Crescenzo, né alla Congregazione di Santo Spirito, né a casa di don Pasqualino l' assistito, ove si riuniscono ogni giorno. - Chi si riunisce? - chiese distrattamente il medico, udendo appena appena il discorso. Gli amici di Sua Eccellenza… ma ho lasciato detto, dovunque, che egli ritornasse a casa, perché la marchesina sta male. - Va bene: spedite questa ricetta, - disse il medico che l'aveva scritta, come al solito, col lapis, sopra un foglietto del suo taccuino. La faccia del vecchio servitore si decompose nel pallore. Il medico, sempre intorno alla svenuta, non aveva visto. - Andate, - disse, sentendolo ancora di là. - Gli è che… - balbettò il pover'uomo. Allora il medico, come aveva fatto per Annarella, la povera moglie del tagliatore di guanti, cavò dieci lire dal portamonete e gliele dette. - … non essendoci il padrone e non potendo dirlo alla padrona, - mormorò Giovanni, volendo giustificare la mancanza di denaro. - Va bene, va bene, - disse il dottore, tornando alla svenuta. Ma una forte scampanellata risuonò per tutto l'appartamento. Un passo vibrato si udì e il marchese di Formosa entrò. Parve non vedesse che la figliuola distesa sul letto e cominciò a baciarle la mano, la fronte, parlando forte, angosciandosi: - Figlia mia, figlia mia, buona figlia mia, che è, che ti senti, rispondi a tuo padre?! Bianca, Bianca, Bianca, rispondi! Dove hai il male, come ti è venuto, creatura mia, viscere mie, corona della mia testa, rispondi, rispondi! È tuo padre che ti chiama, sentimi, sentimi, dimmi che hai, io ti guarisco, buona figlia mia! E continuava a esclamare, a gridare, a singultare con parole confuse, volta a volta pallido e rosso nella faccia, mettendosi le mani nei capelli bianchi, piegando il corpo ancora robusto ed elegante, mentre il dottore, smorto, lo guardava acutamente. In un intervallo di silenzio, il marchese si accorse della presenza di Amati e lo riconobbe per il suo celebre vicino. - Oh dottore! - esclamò - datele qualche cosa, non ho che questa figliuola! - Vado provando, - disse il medico lentamente, a bassa voce, come se rodesse il freno della propria impotenza scientifica: - ma è un deliquio ostinato. - Le è venuto da molto tempo? - Da circa due ore; nel parlatorio delle Sacramentiste… - Ah! - esclamò il padre, impallidendo. Il dottore lo guardò. Tacquero. Il segreto sorgeva fra loro, avvolto nei veli più fitti e più profondi. - Datele qualche cosa… - balbettò don Carlo Cavalcanti, con la voce tremante. Ma vennero a chiamarlo. Giovanni gli parlò sottovoce: il marchese ebbe un momento di incertezza. - Ritorno subito… - disse, andandosene. Il dottore aveva raccolti i piedini della inferma nei panni caldi di flanella; ora voleva ravvolgerle le mani. Ma ad un tratto sentì una lieve pressione sulla sua mano. Bianca Maria, con gli occhi aperti, lo guardava, quietamente. La fronte del medico si corrugò per un minuto di meraviglia, fugacemente. - Come vi sentite? - chiese, chinandosi sulla inferma. Ella ebbe un piccolissimo sorriso stanco e agitò la mano, come per esprimere che aspettasse, che non poteva ancora parlare. - Va bene, va bene, - disse il medico, affettuosamente. - Non parlate. E impose anche silenzio a Margherita che rientrava. I poveri occhi stanchi della serva scintillarono di gioia, quando vide Bianca Maria sorridente. - State meglio? Fatemi un cenno, - chiese il medico affettuosamente. Ella fece uno sforzo e pian piano, invece del cenno, pronunziò la parola: - Meglio. Piccola, ma tranquilla la voce. Con la familiarità del medico, egli le aveva preso una mano e la teneva fra le sue: mano che si riscaldava. - Grazie, - diss'ella, dopo un intervallo. - Di che? - disse lui, interdetto. - Di tutto, - soggiunse lei, con un nuovo sorriso. Ora pareva che avesse riacquistato completamente la forza di parlare. Parlava, ma restava immobile, vivendo solo intensamente negli occhi e nel sorriso. - Di tutto, che? - domandò lui, punto da un'acuta curiosità. - Io ho inteso, - disse lei, con un'occhiata profonda. - Inteso? Tutto avete inteso? - Tutto: non potevo né muovermi, né parlare: ma ho inteso. - Ah! - mormorò lui, pensoso. E mandò Margherita ad avvertire il marchese di Formosa, che la signorina era rinvenuta. - Soffrivate? - Sì: molto, per non poter vincere il mio svenimento. Ho pianto. Avevo uno strazio, dentro il cuore. - Sì, sì,- disse lui, sempre più pensoso. - Non parlate più, riposatevi. Al marchese che entrava, il dottore fece cenno di tacere. Formosa si chinò sul letto della figliuola e le toccò la fronte con la mano, come se la benedicesse. Ella ebbe un battimento di palpebre e sorrise. - Vostra figlia ha avuto un deliquio lucido, na delle forme più rare di deliquio… - disse il dottore, a bassa voce. - Lucido? - chiese il marchese con una strana voce. - Sì: vedeva ed udiva tutto. È una sensibilità portata alla sua massima raffinatezza… Ora, dalla bottiglia versava ancora del cognac el cucchiaino, per farlo bere a Bianca Maria. Don Carlo Cavalcanti, la cui faccia si era stravolta, si chinò sul letto e domandò: - Che hai visto? Dimmi che hai visto? La figliuola non rispose, ma guardò il padre con una sorpresa così dolorosa che il medico, tornando, se ne accorse e aggrottò le sopracciglia. Non aveva udito che cosa avesse chiesto il padre alla figliuola, ma intese di nuovo sorgere il gran segreto della famiglia, vedendo la tenera e dolente occhiata di Bianca Maria. - Non le domandate nulla, - disse bruscamente il dottore a don Carlo Cavalcanti. Il vecchio patrizio represse un moto di sdegno. Covava la fronte della sua figliuola con lo sguardo, come se ne volesse strappare magneticamente un segreto. Ella aveva abbassato le palpebre: ma il viso rivelava sofferenza. Poi guardò il medico, quasi gli cercasse aiuto. - Volete qualche cosa? - domandò lui. - Vi è un uomo presso la mia porta; fatelo andar via, - pronunziò ella, sottovoce, paurosamente. Il dottore trasalì: trasalì don Carlo Cavalcanti. Infatti, fuori la porta, in quella sua eterna, miserevole attitudine di attesa, sporco, lacero, con la barba incolta e le guance smunte, malamente tinte di un sangue morboso, a strie, vi era Pasqualino De Feo, l' assistito. l marchese lo aveva lasciato nel salone; ma egli era scivolato sino alla soglia della stanza di Bianca Maria, con quel suo passo timido e silenzioso di straccione che teme di essere scacciato da tutti i posti. - Chi è quell'uomo? - disse il dottore con quel suo tono rude, accostandosi alla porta, come per scacciarlo. - È un amico… - rispose il marchese, con un vago gesto d'imbarazzo, affrettandosi ad accorrere. - Mandatelo via, - disse il medico, duramente. Fuori la porta, il marchese e don Pasqualino parlottarono, vivamente, sottovoce. Bianca Maria aveva un'aria d'attenzione, come se potesse udire quello che suo padre diceva di fuori: poi, a un tratto, crollò il capo. Il dottore che la guardava negli occhi, intuì il suo desiderio. - Volete che mandi via dalla casa quell'uomo? - Lasciatelo, - diss'ella, debolmente. - Farebbe dispiacere a mio padre. Ah egli non sapeva nulla di nulla, il dottore; e già, nel ritorno alla rude realtà, si rimproverava quel romanzo oscuro e doloroso che entrava nella sua vita: ma lo avvinghiava un sentimento imperioso, che egli credeva la forte curiosità scientifica. Le ore erano passate, scendeva la sera: egli non aveva fatto nessuna delle sue visite e rimaneva in quella gelida stanza di fanciulla, nobile, povera e inferma, quasi non potesse più staccarsene. - Debbo andare…- disse come fra sé. - Ma ritornerete? - chiese ella, sottovoce. - Sì…- rispose lui, risoluto a vincersi, a non tornare più. - Ritornate, - e la voce umile pregava, pregava. - Sono qui, accanto: se soffrite mandatemi a chiamare. - Sì, sì, - soggiunse, tranquillandosi all'idea della protezione. - Addio, signorina. - A dio, - fece ella, marcatamente, staccando le due parole. Margherita lo accompagnava, ringraziandolo pian piano di aver salvato la sua padrona; ma egli era ridiventato l'energico e frettoloso uomo di sempre, nemico delle parole. - Dove è il marchese? - volle sapere, senz'altro. - Nel salone, professore. E ve lo accompagnò. Giusto, don Carlo Cavalcanti e Pasqualino De Feo passeggiavano su e giù, taciturni. Era quasi notte: pure il dottore covrì l' assistito i una occhiata scrutatrice e diffidente. - Come sta Bianca? - chiese Formosa, uscendo da un sogno. - Meglio, ora, - soggiunse con voce breve e fredda, il dottore. - Ma è una fanciulla colpita prematuramente, nel morale e nel fisico, da uno squilibrio crescente: se non le date sole, moto, aria, quiete e giocondità, vi può morire, da un giorno all'altro. - Non dite così, dottore! - gridò il padre, sdegnato e addolorato. - Debbo dirlo, perché così è. La causa del suo male, di quello di oggi, mi è ignota… non voglio saperla. Ma ella è ammalata, capite, ammalata! Ci vuole sole e pace, pace e sole. Se volete un medico, io sono sempre pronto, è il mio mestiere. Ma la ricetta l'ho fatta. Mandate la fanciulla in campagna. Se rimane un altro anno in questa casa, vedendo solo voi e andando sempre al monastero, muore, ve lo affermo io. E insisteva, freddamente, come se questa verità dovesse essere proclamata in tutta la sua forza, come se volesse convincerne anche la ribelle anima sua. - Dottore, dottore! - si lamentò Formosa, cercando pietà. - È ammalata, muore. In campagna, in campagna! Buona sera, marchese. E se ne andò, quasi fuggendo. Il marchese e l' assistito he non aveva detto verbo, ripresero la loro passeggiata taciturna. Ogni tanto, Formosa sospirava profondamente. - Lo spirito che mi assiste…- soffiò l' assistito. Eh? - esclamò l'altro, trasaltando. -…mi avverte che donna Bianca Maria ha avuto una visione celeste…e che ve la comunicherà… sotto simbolo… - Voi che dite? È possibile? Questa grazia mi avrebbe concessa l'Ente Supremo? È possibile? - Lo spirito non inganna, - sentenziò l' assistito. È vero, è vero, - mormorò Formosa, con voce profonda, guardando nell'ombra con gli occhi stravolti.

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