Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il fosso

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Era appena dolcemente tramontata la stella cometa del Presepe, che riapparvero in cielo gli aerei, dapprima altis- simi nell'algido sereno, piccoli nuclei luminosi con una scia di vapore dietro, in tutto simili anch'essi a comete; ma poi presero ad abbassarsi sulla montagna, a roteare puntando selvaggina umana, e il crepitio dei mitragliamenti ritambu- rellava echeggiato dalla cerchia montana torno torno all'o- rizzonte. Di tanto in tanto la slitta portava giù un alpino ben composto, mimetizzato in candore, con le mani sul Gott mit uns della cintura, o un pastore ravvolto nel pelliccione, una croce di stecchi fra le dita. I lampeggiamenti delle arti- glierie sulle creste della montagna annunziarono che la guerra si riaccendeva lungo tutto il litorale. Di nuovo lo spettro d'un possibile sfollamento annichilì gli animi. E a un tratto si seppe che in città l'indù Lokuvanni era stato fu- cilato. Ancor oggi s'ignora come sua moglie lo venisse a sa- pere. La videro le vecchie una mattina attraversare il sa- grato come una pazza, col piccino in braccio ravvolto in uno scialle, ed entrare in chiesa. Andò la Tanghetta a le- varle la creatura, poi giunsero, anch'esse di corsa, le donne di casa con le mani ai capelli. La riportarono su che pareva tranquilla, non piangeva, per via rivolle il figlio. Ma già le era andato indietro il latte, non ne ebbe più. A grandi blocchi anneriti la neve stava ancora in terra, ed ecco, a ricolmare ogni vuoto, e livellare la contrada in- tera, ne vien giù dell'altra. Mai, da cinquant'anni, s'era avuto a C. un così terribile inverno. Persino gli amburghesi stupivano di quel freddo. Ma da loro, su alla Kommandan- tur e ovunque alloggiassero, ardevano gran fuochi e si mangiava bene, poiché gli uomini del paese mantenevano aperta la via di comunicazione con la valle. Lavorarono a spalare anche una notte, con un'enorme luna splendente in cielo che solo a guardarla gelava gli occhi e, a chiuderli, resta- vano fili di luce confitti nelle pupille come aghi diacci. Al- l'alba incontrarono lo spazzaneve e, sulla via del ritorno, le donne, che portavano da mangiare e qualche straccio fem- minile da coprirsi un po' più. C'era, per suo padre, la ra- gazza dei Bonavia, che si teneva a fianco quella meschinuc- cia dei Sassoli, ingozzata in due stivaloni di gomma tutti a fette. Le si era indurito il moccio al naso e le lentiggini sul suo musetto di rossa si facevano livide. Quell'orsacchiotto mutolo di suo fratello le tolse l'involto senza neppure guar- darla. Avevano portato, in mancanza d'altro, infuso d'erbe da bere, ma era ormai freddo e gli uomini lo rifiutarono, addentando con le mascelle indolorite il pesante pane di granoturco. Solo la serva dei Sallesi aveva per il ragioniere pane di grano, ma il giovanotto non prese il suo involto, si rigirò invece lo sciarpone di sua sorella attorno alla bocca gelata fuor del bavero del pastrano. Aveva spalato tutta la notte come gli altri, all'ordine dello sterratore José capofila. Imbracciata di nuovo l'arma, i tedeschi dettero il comando di proseguire. Le donne si misero in coda. Eppure si ballò, nel febbraio, in talune case, e si fece musica, si offrirono tè. Baldoria la truppa ne faceva di conti- nuo, in partenza per il fronte, con grandi bevute, clamorosi cori e sparatorie alle finestre. In tal caso c'era sempre, nel suo abituccio nero coi lustrini da falena - un soldato vi po- neva su ridendo il proprio cappotto - la Felicina. Ma che si accogliessero spontaneamente quelli lì, e gli si suonasse Beethoven - come faceva la "borgomastra" - gli si presen- tasse in punta di dita la chicchera fumante - in ciò fu mae- stra alle paesane la bella Giulia - sembrava a taluni riprove- vole, a talaltri inaudito. Le vecchie, nonché temere l'appari- zione di una nuova stella di sangue, s'aspettavano che il cielo si mettesse a piovere fulmini a secco. Come s'udivano dalla casa accanto le prime note del pianoforte, la vedova di Lokuvanni andava a chiudersi in camera e si coricava nel letto accanto al piccino, tirandosi sul capo la coltre. E lì sotto ricominciava la tortura. (Essa non potrà mai più to- gliersi dal capo questa immagine orribile di lui - l'hanno fu- cilato alla schiena - che s'impenna come il muletto giovane, visto lì in mezzo alla strada appena Fritz, al momento di partire per il fronte, le ha detto che è vedova e baciata la mano.) Aveva molto amato il suo piccolo Dorabji, sebbene ora non riuscisse neppure a ricordarsi il tono di quella voce e a malapena raffigurava la fisionomia della faccia sottile se mirava a lungo il piccino. Gli occhi, sì. Gli occhi scuri e fissi che la guardavano sempre, che instancabilmente l'avevano guardata per tutto un anno, l'anno che era stato da loro. Confinato politico, suddito inglese, straniero in ogni fibra e nemico intoccabile, essa, suo malgrado, s'era messa ad amarlo. Ora, ecco, si ricorda, ma non con la memoria, sib- bene con tutti i sensi, della sua pelle, quella pelle scura e fina, che la morte ha inverdita per sempre. Anche nella vo- luttà impallidiva così, d'un tono verdognolo trasparente, essa sa com'è da morto. E ben sa che non d'altro era preso se non d'amarla con tutto il concentrato ardore ch'era nella sua piccola persona straniera. Per nulla l'hanno ucciso, per nulla. Adesso si ricorda com'erano stati in ginocchio nella chiesa, l'uno accanto all'altro, tenendosi per mano, e lui re- citava il padrenostro come lei gli aveva insegnato, interro- gandola con occhi seri se dicesse bene. E come aveva tanto insistito, chissà perché, su quei sette passi che avevano fatto insieme, giurandosi fedeltà, fino alla porta. S'erano sposati il giorno dopo, lui era come assente alla cerimonia. Veniva da Londra, ma anche da tanto più lontano, essa non lo ca- piva, s'erano solo molto amati. Dietro l'uscio, gonfio il viso per una nevralgia, ancora dentro la sciarpa di lei, il fratello la sentì gemere. Essi tutti di casa non osavano più nemmeno maledire a quello straniero, ora che c'è lì il suo bam- bino, con gli stessi occhi sotto la fronte. Più tardi uscirono gli ospiti dalla casa accanto, s'udì ancora un arpeggio sul piano, il riso di Giulietta, gli stridi d'altre ragazze, la voce profonda del viennese. (Già d'allora, sebbene non paresse, si sentiva ebbro, dal momento in cui essa l'ha guardato in quel modo porgendogli la chicchera di porcellana bianca e oro, e a lui d'un tratto vengono in mente le stufe di Schoenbrun - le aveva proprio viste come enormi chic- chere - e s'è sentito egli stesso crescere smisuratamente.) Già tutte le case del paese, trascorsa l'ora del coprifuoco, erano chiuse e scure come tombe. La comitiva, si seppe il giorno dopo, passò di lì a casa Dimarzio per ballare. Era oltre la mezzanotte quando s'udì il motore del camion ma- cinare asmatico sullo spianato del paese alto. Qualcuno sol- levò il capo dal guanciale, in ascolto, domandandosi chi mai andasse via così nel cuor della notte: un nuovo arresto, forse, o forse ordini, novità: c'era già qualcosa nell'aria di quello spirante febbraio, che gli altri anni aveva già visto violette alle prode dei fossi. Invece era la ragazza che par- tiva, avvolta nella sua argentea pelliccia e in una grigia co- perta militare. All'alba, prima che la gente si levasse, la madre Bonavia accompagnò dalle due vecchie della piazzetta, per sottrarla alle ire paterne, la ragazza che ingrossava. Quelle erano già deste, accoccolate nella loro cuccia, e non batterono ciglio alla novità. Ma già, come animali inquieti, annusavano qual- cosa di grosso nell'aria vaporosa del mattino. (A quell'ora, giù all'ospedale militare, la bella Giulia era spirata.) La madre Bonavia posò in terra il rotolo delle coperte, su cui la figlia sedè a viso asciutto. «Eh! comare» disse la Nicitrella «bisogna che ciò si compia, se è volontà di Dio.» La ra- gazza s'accasciò sulle ginocchia. «Volontà di Dio» asserì la Tanghetta arrotolando sulla nuca il codino bianco. «Mica tutto il seme attecchisce. Guarda quella... la p...» Non pronunziò la parola per riguardo alla giovane. Ma salace la Ni- citrella commentò: «Quella è più larga della porta della chiesa.» Fu la prima giornata d'un inverno senza fine ad addol- cirsi all'improvviso. Schiarì a oriente il cielo roseo, che tra- mutò a giorno fatto in un verdino agro cui la luce stentava a dar consistenza cerulea. Ma si capì che la spera era sciolta e quello un colore di vivo. Liberatasi dai vapori, la montagna riapparve, alta sulle case, tutta nuda, dorata screpolata e fre- sca sotto l'ammantatura di neve a mezza costa, che presto avrebbe scoperto i marezzi verdi dei pascoli. Tutta la ca- tena, lungo un nitido orizzonte, si delineò candidissima contro il vibrante celeste. Un silenzio alto attonito irreale regnò per tutto il giorno sulle case: non s'udivano più le ar- tiglierie. S'udì invece un gran rombar di motori lungo la via a valle. C'era agitazione alla Kommandantur. E anche tutte le donne, a una cert'ora, furono in moto nere e silenziose per le viuzze, come una catena di formiche. Sull'imbrunire, in gruppo, portarono alla intimidita sartina Celeste una pezza di seta bianca e una nuvola di tulle - allora allora tratti da sotterra overano stati seppelliti insieme agli og- getti più preziosi - perché ne facesse un abito nuziale. Era per la morta. Col tulle bisognava comporre una gran co- rolla a dissimulare la testa sfracellata. Le decane non uscirono, ne pronunziarono parole. Se ne stettero tutto il giorno al canto del fuoco, mentre la ra- gazza Bonavia, accasciata in terra, soffiava sui ceppi verdi sfrigolanti. Sigillato l'incavo delle bocche, erte le cocche della pezzuola come nere alette, esse si guardavano di tanto in tanto, sopraffatte dalla potenza del nume che già aveva parlato in loro da tempo: il fulmine è sceso. Che gli altri raccontino pure come quell'Oscar semiubriaco avesse do- vuto infine sparare sulla coppa che lei si teneva in capo sfi- dante, irridente: troppo bene esse sapevano donde era pro- venuto il castigo. Una folla di gente, fra cui le decane non c'erano, accom- pagnò il feretro al cimitero. La cassa, retta a spalla dagli uo- mini, era di buon legno chiaro lucidato, con borchie e ma- niglie di bronzo. Due fanciulle reggevano la gran corona di fiori bianchi, giunta dalla città sul camion che aveva portato via il viennese. Bisognò pesticciare nella fanghiglia con tutto il piede, immollarsi le scarpe, impillaccherarsi fin sulla schiena: stava ormai sciogliendo, il sole scaldava, già prima- verile. Dopo l'interramento, le donne s'accorsero che nei prati le erbicciole si scoprivano, spuntando dall'ultimo strato di neve, e si sparsero a cavarne per la cena coi coltel- lucci dei ragazzi. Il primo seme a esprimere un cespo di violacciocche da un'oncia di terriccio annidato nell'ansa d'una foglia di pie- tra del rosone fu certo quello del bavarese Karl. Poiché Karl ne ebbe un vivace risentimento appunto in quell'occhio. Se ne stava, in un campo, a fior di terra, così come l'avevano messo in fretta i compagni. L'umore dell'occhio, avendo ce- duto sé alla terra, le aveva fatto posto nel cavo dell'orbita. Ivi, a un tratto, avvenne qualcosa, una specie di titillamento di tentacoli sulle pareti ossee, e poi un fremito lungo che si divincolò in su tra i granelli cedevoli, sotto specie d'un qualcosa di tenue e bianchiccio, come un lemure. Ma poi scaturì, al lucente sole, un filo d'erba smeraldino. Per quella terra altri corpi erano sparsi come chicchi di grano. Il vento gagliardo di primavera passò su quella nuova dovizia e, spi- rando verso il Nord, dappertutto continuava a trovare quel seme, e per tutta la sua stagione spinse alle spalle quanto ancora non ne cadeva, sebbene già lanciato per la sua sorte dalla macchina seminatrice della guerra. Come i bruscoli di violacciocche nel terriccio dei trafori, così alcuni di quei chicchi umani andarono a cadere nelle fonde anfrattuosità rocciose della montagna di C., ove già ve n'erano dall'in- verno, come pure sotto i marezzi dei pascoli che hanno lassù un murmure come il grano alto. Altri invece passarono, destinati ad altra terra. Come fu al suo apice la prima- vera - ben frangiate d'erba le connessure dei ciottoli sulla piazzetta, erti gl'iris in pompa viola al sommo del muro - la contrada si liberò. Un mattino, sbattendo le imposte cigo- lanti delle finestrette, s'affacciarono le donne giovani con pezzuole fiorite al capo. Smorticci in viso per la lunga re- clusione uscirono gli uomini nelle strade, con clamori vio- lenti di giubilo. Allora anche il russo, bianco come la calce, uscì di sotto terra, e se ne andò. Dopo tanto che non si vedeva, riapparve la piccola guardiana al poggiolo dei Sassoli, col ventre che sollevava innanzi la sua veste di ragazzina e scopriva le gi- nocchia sporche.

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Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Al primo no del bimbo, viene usata dal presidente la parola abbassarsi. Il bimbo risponde ancora no, forse non capisce e si ricorre a un'altra espressione. "Ti ha costretto a piegarti?" "Nono." Il componente privato, un ispettore di scuola elementare, suggerisce in dialetto, accompagnandosi col movimento delle spalle: "Ti fece acciuccare, così?" Sempre no. Ottuso ostinato o veritiero, bisogna smetterla col bambino e mandarlo via. Anche Platonico, sulle mosse per tornare al proprio scanno di accusatore, ha sorriso. Appoggiandosi allo schienale della poltrona vuota sul passaggio, rivolto ai colleghi, in una maniera spicciola discorsiva _niente da mettere a verbale _e usando con naturalezza la voce, del resto poco virile, fa notare quelle che chiama le proporzioni. "Sette e quindici anni, due diverse grandezze," agita un dito come se scrivesse un'equazione, "ma non evidentemente l'uno la metà dell'altro..." Si tratta insomma dell'altezza, un'obiezione (da difensore) che chiarisce proponendo il confronto fisico, come dire di livello. "Magari non è il caso..." Con un risolino accenna all'insolito pubblico. Questo discorso del livello irrita il presidente Toma, lo scansa con un gesto in aria nel chiudere il fascicolo. È venuta meno la ritenutezza imposta dal suo contegno e si sa quanto in certe occasioni lo contrari. Da un colpo d'occhio severo all'aula. Le facce delle ragazze sono inespressive. L'imputato ha ripreso posto alla panca, imperterrito. La donna siede sull'unica sedia, rifiutata dal frate, col figlio davanti alle gambe. Può darsi che, così da lontano, Toma l'assomigli a uno dei suoi, la bambina bionda salita qualche volta da lui. Lo sguardo che posa sull'avvocato è di sollievo. Anche d'ufficio, se si fosse trattato di altra persona sarebbe stato imbarazzante, gli avvocati si dilungano nei particolari scabrosi. O poteva capitare un giovane, uno di quei pivelli che sistemano sul tavolo volumi giuridici e trattati di psicologia col segno fra le pagine e infliggono lunghe letture di brani, mai rinunciando all'arringa. Bisognava concludere al più presto l'incresciosa udienza prolungatasi già troppo, per di più avanti a delle fanciulle. Uno sguardo all'orologio: passata la mezza, si potrebbe terminare per l'una. "La parola al pubblico ministero." Stringendosi la toga sul cappotto, Platonico si rialza. Parlava malissimo e brevemente, ma appare subito chiaro che intende concedersi una delle sue rare puntigliose requisitorie. Ha posto un dubbio, col cavillo avvocatesco dell'altezza, incidente la sostanza se non la gravita dei fatti, il che lascia prevedere una richiesta alla quale si adeguerebbe senz'altro la difesa. Nondimeno vuole prima infliggere una lezione al ragazzo, il ragazzo non gli piace. Platonico è un lindo scapolo quarantenne, con certo infantilismo fisiologico, poco vitale, illibato e nervoso. Vive con la madre. "In questa abominevole parodia dell'amore," comincia, "oltre le ben note causali della vita promiscua di paese con la vicinanza dell'animale domestico che da spettacolo di natura, oltre gl'istinti dell'età ancora confusi, età di manifestazioni d'approccio deviate, e si badi alla genitrice qualificata da un epiteto irripetibile, il cui influsso potè in qualche modo riflettersi sul bambino e attirargli oscure brame, oltre la cosiddetta evoluzione del costume che allenta ogni freno, raggiungendo come una mortifera radiazione _ il confronto è attuale _ anche le pastorali contrade dei monti, oltre tutto questo, o Signori, c'è dinanzi a voi una natura particolarmente e sfrenatamente volta alla turpitudine. Guardatelo..." Le ragazze hanno smesso di dirigere la coda dell'occhio verso il giudice bello come per ritrovarvi le fattezze dell'attore preferito (ciò che realmente all'inizio facevano). A mano a mano, dal futile un po' vanesio armeggio di scolaresca femminile passando a un'attenzione sempre più sostenuta, avevano seguito l'avvicendarsi dei testi sulla pedana: i contadini, che a loro erano sembrati buffi, quei ragazzucci, e il frate, poi la donna e il bimbo. (Un bimbo da tirarselo una con l'altra esclamando com'è carino pare una femminuccia, non fosse stato per il luogo e se non avessero capito.) Dal fermento del principio finiscono per cessare ogni minimo moto, per ridursi a un'immobilità che tuttavia ha dell'intrepidezza. Così immobili fissano l'imputato. L'indagine che da mezz'ora il pubblico ministero conduce su di lui è punteggiata da continui "guardatelo" in falsetto. "Guardatelo," ripete puntando gli ossicini di un dito, "guardate che indifferenza, che cinismo..." Ma esse tenevano di mira il ragazzo fin da prima, prima che cominciasse "la predica" (e l'omino già tra loro se lo indicavano carne "la zitella"). Probabilmente non seguono la requisitoria, astnisa per le contorsioni di forma e l'arcaicità dello stile (sembra un classico scolastico). Può essere impudente, anzi lo è, un sopracciglio alto, la bocca in giù, il labbro rovesciato. E quel riprenderselo coi denti e masticarlo torcendo le guance gialle. È brutto, certo lo trovano ripugnante. Non si distolgono da lui neanche quando viene additata "la vittima della laida deflorazione, l'innocente". Contro le gambe grasse della donna, con le iridi d'un celeste velato sotto le ciglia bionde, il bimbo apre ignaro i labbrini rosa. Poi la visuale è parata, una volta dall'impermeabile un'altra dalla tonaca, distraendo l'attenzione su particolari, le mani ossute che gesticolano, il bianco marmoreo dei piedi nudi nei sandali. I due parlano all'orecchio dell'avvocato. E anche l'avvocato si muove annaspando con la mano indietro come se chiamasse. Il padre torna a curvarglisi all'orecchio. Contemporaneamente Platonico, per un moto consuetudinario verso il tavolo a cui d'abitudine siedono gli avvocati, o che intenda rivolgersi al pubblico ospite con una notazione psicologica, guarda da quella parte spiegando come la negativa pervicace sia caratteristica di certi reati. Indica la panca. Il ragazzo è di nuovo scoperto. Scoperto. Sembra considerarlo il giovane magistrato Oliva. È noto a qualcuno di certe sue vicende di famiglia. Penserà al fratello. Abbiamo tutti avuto un fratello. O noi stessi come uno sdoppiamento. Quando ancora si avevano i giochi in comune e a un tratto ci si stacca. Un fratello cresciuto da un giorno all'altro (magari davanti al proprio specchio) che sorprende con un grosso naso improvviso e fa trasalire con una voce gracchiante, che ha la bocca inspessita, i labbroni, e i capelli non gli si aggiustano non s'abbassano più. Alterato, in preda a un'innaturalezza così difficoltosa. A tavola siede sbieco, forastico perfino coi suoi. Oliva _ o chiunque altro _ potrebbe ricordarsi le celie del padre: fa il mascherone. Lo guardano e ridono. E viene questo momento che si capisce come anche alla tavola di casa il fratello _ o si tratta di se stessi? _ doveva sentirsi esposto, che si riparava mantrugiandosi di smorfie. Simile a uno che nasconda qualche cosa di vergognoso. È quando sorge l'insofferenza col padre, un antagonismo che rende irragionevolmente nemici, il ragazzo addirittura torvo. Non succede poi niente. Solo le fattezze di un uomo uscite da quell'impasto di faccia in lievitazione, un uomo normale, oggi padre a sua volta domani incapace di riconoscersi nel figlio quindicenne. Malgrado l'esperienza professionale, o forse perché ne ha ancora poca, perché è ancora giovane, può succedere a Oliva di ritrovarselo davanti _ un fratello, se stesso? _ sulla panca degli imputati (e credere di vederlo ponendosi nella dirczione di tutti quegli occhi femminili). È Risdonne Nicola. Riunisce le sopracciglia, gonfia la bocca, curva il collo addensando la peluria in pieghe nere, ha un che di losco. E colpisce come su quella panca, a quell'età, così facilmente somiglino a degenerati. Riscuote la voce del pubblico ministero nella cadenza inconfondibile delle conclusioni. Platonico modifica il reato in atti libidinosi violenti in luogo pubblico, dando adito alla concessione del perdono. Non resta alla difesa che la normale procedura di alzarsi e far sue le richieste dell'accusa. L'avvocato Lucrese si alza con stento. A coprirlo della toga provvede l'ufficiale giudiziario posandogliela a cappa sulle spalle. "Signori del Tribunale," dice Lucrese. Incespica leggermente con la lingua contro i denti. "Signori del Tribunale," ripete come per provare la voce. Sta già scivolandogli la toga dalle spalle. "Tutti noi abbiamo avuto... tutti noi a quell'età..." "Parli per sé, avvocato," ritorce Platonico. È solito interrompere la difesa, come movimenta platealmente le udienze, con le sue battute di uomo suscettibile, qualche volta mordace. Non ottiene successo presso i colleghi. Sorride l'ispettore di scuola, il cancelliere si copre la bocca con una mano e il miope ufficiale rimane a ridere solo stolidamente. Si conosce Lucrese come un vecchio dongiovanni finito nelle mani di una serva scorbutica che apre l'uscio ai rari clienti squattrinati e li avvia borbottando allo stanzino polveroso che funge da studio legale. Dopo un lungo silenzio, la voce dell'avvocato esce dall'insaccatura del grasso con imprevedibile pienezza. "La vostra sensibilità di dabbenuomini è stata offesa," dice senza impuntature. Il tono è vagamente aggressivo e la frase può suonare sarcastica. "La sua no?" s'impermalisce difatti Platonico. Cortesemente Toma rivolge un generico prego. "Diciamo allora che vi sono state delle sensibilità offese, ma se le elencassi vi sembrerebbero alla rovescia," prosegue l'avvocato dando una penosa impressione d'incocrenza. "Non le elencherò, o Signori. È la carne che offende e bisognerà pure parlarne." S'interrompe, abbozza un gesto. "Dirò solo di un ragazzo, quello che avete dimenticato là sulla panca, un semplice ladruncolo al quale è stato dato modo di erudirsi in un'eretta in materia assai diversa dal furto." Il presidente si scuote. "Che cosa... Perché non è stato portato via?" E all'agente che fa segno verso le carte del cancelliere per giustificarsi; "Fuori. Si attenda fuori." Toma non ha alzato la voce, ma un leggero rossore gli sale alle guance. Nessuno si sarebbe aspettato da Lucrese il piccolo colpo di scena forense. E ha colto nel segno. Ora se ne sta vacuo, la toga penzoloni da una spalla, l'ufficiale giudiziario va a rimettergliela a posto. Girando il capo incerto come un cieco, dirige la parola al seggio isolato del pubblico ministero. " Poiché l'illustre rappresentante dell'accusa ha voluto compiere un'indagine psicologica, o forse patologica, della personalità del minore... dovremmo chiamarlo in conseguenza quanto meno lo stupratore... io devo riportarla alle sue reali proporzioni." Evidentemente si accinge anche lui a un'arringa in piena regola. Platonica ostenta di consultare l'orologio. È l'una e mezzo e sta affacciandosi qualche avvocato che risale dalla corte d'appello, giù dev'essere tutto finito. Il presidente, che teneva nelle mani l'incartamento come in atto d'alzarsi, compie un affabile tentativo rammentando le miti richieste dell'accusa che possono essere condivise. Il giudice Oliva si. è spinto avanti col busto. "Rivendico il mio diritto e l'imprescindibile dovere... il dovere..." Affannando un po' Lucrese alza il braccio e gli cade la toga. Questa volta, all'ufficiale subito accorso, da segno agitandosi maldestramente di volerla infilare. Appena se la sente addosso rialza il braccio. "Non abuserò del vostro tempo, signor Presidente, signori del Tribunale. E se volessi usare di certi motivi... abusati... in voga..." Gli occorre una ripresa di fiato. "Potrei presentarvelo come un figlio del tempo. La guerra, gioventù bruciata eccetera eccetera... Potrei additarvi il padre. O risalire ancora più indietro, oltre i limiti, ragionevoli certo, dell'istruttoria, che non sembra farne cenno (un'istruttoria si sa non è un romanzo) risalire cioè ai primi mesi di vita del ragazzo. Non dico per ridere, Onorevoli Signori, esigo anzi la massima serietà. Anche il paesetto di..." Non trova il nome che ignora non avendo avuto il fascicolo. "Anche il paesetto sperduto di questa povera gente servì da bersaglio. Un solo spezzone, all'ultima ora. Ed ebbe una vittima. Una donna caduta nei campi. Allattava sotto un albero il bambino e glielo trovarono appeso alla mammella già fredda. Eccolo, quel bambino." L'avvocato Lucrese allunga il braccio in dirczione della panca. Platonico, stridulo: "Stiamo giudicando, alla distanza di quindici anni, un atto di libidine." "Come... è possibile... Ma se anche un trauma prenatale..." "Veniamo al sodo, avvocato." L'indignazione strozza a Lucrese la parola. Gli s'inturgidiscono le voluminose guance e le pieghe del collo, accendendosi fino alle orecchie d'un rosso denso apoplettico. Lentamente si decongestiona, rimangono scure le orecchie. S'impunta in un balbettio, ma poi dice fluidamente: "Bene, allora parliamo della carne." C'era stato fino a quel momento un vago imbarazzo, sopravviene il disagio. (Più tardi si penserà ai due ponce bollenti che i colleghi avevano offerto al vecchio intirizzito nel bar di fronte al tribunale poco prima di salire.) Il pubblico non ha inteso. Tutto di sghimbescio sulla panca, il ragazzo si tiene con una spalla alzata come per pararsi. "Ma bisogna prima tornare al bambino," riattacca Lucrese indicando l'imputato. "Consentitemi, Signori, di rintracciarlo e di presentarvelo. Bisogna sempre andare in cerca del bambino per poter perdonare un uomo. O un ragazzo... O anche uno... uno come me..." Con la mano corta e grassa si batte ripetutamente il petto. "Il bambino... Che cos'è un bambino? Dicono le donne del mio paese che è un chicco di malvasia. Quell'uvetta piccola, sapete, chiara e zuccherina, a goccia di miele. Ogni chicco è così trasparente nella sua pellicola che si vedono dentro i semini schietti. Un'uva delicata e soda, ha un sapore... di profumo... È uva da vino. Non so se... Ma del resto comunemente si paragonano agli angeli. Il bambino di ciascuno di noi... di ciascuno... insisto... fu un essere meraviglioso. Dicono... le donne del mio paese... che se gli guardi la schiena scopri le ali. O almeno un'impronta... un indizio... in quelle scapolette, sapete... Esseri meravigliosi di purezza. L'ir...irr... l'irrefragabile purezza dell'infanzia, che abbiamo visto per nulla ombrata e nemmeno lievemente offuscata in un'altra creaturina proprio nel corso di questo dibattimento." Senza vederci, Lucrese tenta di girare il collo dove siede la donna col figlio. "E così era, non molto tempo fa, colui che dovete giudicare. Ho domandato al padre come era da piccolo Nicolino. Dice: era riccio e timido. Sapete, certe risposte semplici che vengono su spontanee. Riccio e timido. Un bambino senza madre, senza nemmeno una madre come questa che si è presentata dinanzi a voi, da farselo attaccare alle gonne e ricucirgli la zaganella. Lei gli rimetterà la zaganella, l'avete sentito che in fondo era dolce. "E lasciamo stare il trauma, la guerra è passata, quindici anni per cancellare tutto, va bene. Era riccio. In campagna li tosano presto, ma il padre se n'è ricordato. Un segno di bellezza di grazia, brunetto coi ricciolini. Adesso è ispido. È scontroso fino a mostrarsi bieco. L'età ingrata, ne riparleremo. Ma per carità non esigete da loro le manifestazioni del pentimento, la compunzione, l'umiliazione, le lacrime. Esposto al ludibrio generale non batte ciglio. Indigna? È dietro la maschera del cinismo, a ogni modo una maschera, che si nascondono le più conturbate sensibilità dei ragazzi. "Signori, io non ho figli." Alla inopinata dichiarazione, segue una pausa. "È un vantaggio?" domanda Lucrese come tra sé. Sembra riflettere. "Ho la memoria diretta del... senza interferenze... ho memoria..." SÌ tocca in fronte. Raddrizzando la bassa statura assume un atteggiamento togato. "Non impazientitevi, Signori, e non temiate che divaghi. Al contrario, vengo al sodo, come ha detto così efficacemente l'illustre Pubblico Ministero. Ciò che voglio è che non gli si butti il perdono. Non per procedura. È colpevole. Ne sono convinto io stesso suo difensore, difensore d'ufficio, sì, il che non cambia nulla. È colpevole. Fino a che punto, fisiologicamente e giuridicamente, crea il dubbio di cui beneficierà per concessione dell'accusa medesima. Ma è il modo..." Una voce interrompe. "Nicoli," chiama il padre dalla transenna, "Nicoli l'hai fatto?" È rauco. Guardandolo negli occhi per essere senza meno creduto, il ragazzo risponde con forza rabbiosa: No. "... il modo, Signori. Non bisogna avere repugnanza, il perdono evangelico non la prevede. Quello evangelico, certo, obiezione accolta. L'età ingrata. Oh se siamo brutti, infelicemente brutti. Nella piena coscienza di esserlo e sempre in un acuto rendersi conto del proprio corpo. La spontaneità ci è preclusa. Eravamo fluidi sciolti leggeri, eccoci legati, materia dura e greve. Eravamo soavi, eccoci aspri. Il mosto ribollendo si fa aspro. E fangoso. Siamo sporchi. Poi il torbido riposando si fa chiaro. Ma non è questo. O meglio, per quanto mi sforzi non riesco a rimanere sul piano realistico. Ciò d'altronde significa che vi è del lirismo nella cosa." "In quale cosa," si sdegna Platonico. "È intollerabile." Lucrese non sente. "Vediamo un po', che gli è successo? Domandateglielo, e non lo sa. È una metamorfosi. Le metamorfosi sono dolorose... dolorosamente oscure... se ne esce come da una febbre altissima. Oltretutto una metamorfosi alla rovescia. Si ripiegano le ali dell'infanzia in un bozzolo di carne e può capitare di uscirne strisciando. Dopodiché bisogna mettersi in ginocchio e che ci sia permesso di rialzarci all'impiedi. Eh! "La carne, Signori. A un tratto cresce addosso al bambino... era tale ancora poco fa ieri era ancora un cherubino... e lo copre... l'ottunde... lo tarpa... Ci si trova chiusi, separati dal mondo della puerizia, rinserrati in una morsa. Eccolo, guardatelo, il ragazzo: è l'età in cui deve farsi strada attraverso la carne, questo avviluppamento, questa opaca pesantezza. E questo accrescimento. Domani, se tutto andrà bene, sarà la crescita... oppure..." Il vecchio sembra di colpo mimetizzarsi lui stesso a quell'età, nello stadio di plasmazione, col minuscolo naso aperto, la testa incassata, il corpo informe, un grosso abbozzo di creta umida. Suda. "Per uscirne bisogna dibattersi e premere. Ciò che spinge, che sollecita, che urge... qui è il mistero... ciò che spacca riaprendo alla vita... che è? da dove viene? Succede a volte così bestialmente male. Eppure non si tratta di mera bestialità, sappiatelo. C'è una pienezza, un traboccamento di sé irreprimibile. Qualche cosa di erompente e inarticolato, come un muto che sta per mettersi a parlare. È la carne che deve rompersi. Come il legno di un albero da cui si sprigiona il virgulto. Una cosa che scocca da noi, dal nostro essere più profondo, come un'ispirazione e come un delitto." Nella foga il vecchio si è scomposto, gli tremano le labbra, trema tutta la sua massa gelatinosa. Da l'impressione di vederci bene dietro le lenti doppie che gl'ingrandiscono l'occhio e che scruti la carne degli altri. Con una faticosa torsione di lato punta sulla donna flaccida, poi i contadini duri e scuri, la carne pallida dei giudici, quella arida livorosa di Platonico. Accusatore, probabilmente senza volerlo. C'è un po' di suggestione. Il frate ha addosso più carne di tutti ma la regge sui piedi nudi. Riprende la parola con l'impuntatura. "D... d... dicono le donne del mio paese che ognuno serba dentro il suo chicco di malvasia. Ben custodito nella lucida pellicola, la perla dell'infanzia. Ogni uomo, il più brutale che ci sia, la possiede nascosta. E se anche il marito le picchia, esse credono che è il suo bambino che gioca. Hanno una grande facoltà di perdono. Si. è dato il caso del brigante che andò a costituirsi nelle mani della propria moglie. Serbava ancora il suo chicco di malvasia. Si capisce che non bisogna andare a strizzarlo con le dita. E questa è una parabola. Ma noi... abbiamo parlato troppo... abbiamo sbagliato tutti... Noi ci siamo andati con le dita..." Rimane a guardarsele brancicando sul tavolo. Nell'aula non si sente che il respiro del vecchio avvocato stanco. Ansima. Gli è caduto lo sguardo e come se si alzasse allora per la sbrigativa difesa d'ufficio, improvvisamente spento, balbetta le richieste. Ha cessato di nevicare. I contadini, sempre in piedi alla transenna, specolano i vetri grigi forse tentando di ricavare l'ora da quella luce smorta. SÌ tengono alle gambe i ragazzucci che mangiano a testa sotto piccoli pezzi di pane, vergognosi dietro le signorine. Nessuna si è mossa. Gli atteggiamenti non tradiscono stanchezza o impazienza, neppure la preoccupazione femminile del proprio aspetto che spinge le mani ai capelli alla faccia al collo. Col trucco stinto e il rosso delle labbra succhiato, guardano davanti a sé. Le raggiunge qualche spira di fumo dalle sigarette che gli uomini hanno acceso non appena si è ritirato il Tribunale. Tre avvocati e il cancelliere circondano lo scanno del pubblico ministero, in conversazione. Si alza l'accompagnatore della scolaresca, benportante ma un pò molle, e dandosi un tocco al foulard va a unirsi al gruppo. Si tiene sul davanti a due mani i lembi del cappotto sovrapposti. "La gioventù di oggi è impavida," sta dicendo Platonico nel circolo. Si riferisce alle ragazze. Senza rispondere all'inchino del sopravvenuto ne alle sue parole di convenevole, gli guarda la bocca grassa. A lui forestiero non occorre sapere quello che nella città di provincia in passato fece scandalo e ormai si mormora, per catalogarlo. Docente, sposato con figli, ma sempre riconoscibile a un occhio esperto. Lo esamina con acume professionale quasi insolente, dai ricci nel collo fino alla posa donnesca delle mani. Nell'altro settore dell'aula Lucrese è rimasto infagottato contro il tavolo. Sulle enormi guance smunte le orecchie pendono come bargigli malati. Non ha fatto caso ai colleghi, benché il più giovane nel passare gli abbia teso la mano congratulandosi. Ora sembra intento a osservarsi le dita come se non le riconoscesse, muovendole con difficoltà. Alle sue spalle, a occhi bassi, le braccia incrociate dentro le maniche, il frate. Accanto l'uomo sparuto fissa i tristi occhi azzurri sul figlio. Il ragazzo sta per traverso, di schiena. Dietro gli si è andata a mettere la donna col figlio, abbracciando il termosifone e posandovi vezzosamente una guancia. Dallo scanno dell'accusa si voltano, ma in dirczione di Lucrese. Commentano l'arringa. Platonico ha dichiarato che detesta le piaggerie letterarie in dibattimento. "E dovunque," aggiunge tenendo la mano sulla rilegatura nera del codice. Un'arringa, è la sua opinione, che si potrebbe scambiare per un'autodifesa. Chioccia un risolino. Ridono anche gli altri, con discrezione. "Canto del cigno," suggerisce l'avvocato in auge dal bavero di pelliccia. Il collega anziano si pronuncia per l'influsso del biondo in aula, occhieggiando dalla parte delle ragazze. Ma il giovane è rimasto impressionato. Schiacciano le sigarette al suono del campanello, abbandonando la pedana. Il Tribunale rientra. Viene letta rapidamente la sentenza. Sono passate le due. Scomparsi i giudici, si muovono tutti insieme, i contadini affollandosi alla porta grande, le studentesse alla piccola. Il ragazzo, capitato in mezzo fra vestiti e capelli, arretra di nuovo contro la panca. Respira come se fiutasse o gli mancasse l'aria, sempre così giallo. Il padre lo raggiunge e insieme rimangono accantonati. Gli va quasi addosso la donna, che sorride conciliante. "Nicolì, eh?, t'hanno perdonato." Lui spalluccia. Scaturisce fra loro la testa del bimbo e se lo ritrova davanti col mento alzato e la bocchina aperta. Deve ricordarsi benissimo di avergli premuto le mani sulle spalle, anche se non ricorderà altro. Stringe gli occhi sforzandosi a qualche cosa, pare contargli i peli sulla testa con disgusto, forse non ricorda nemmeno che allora aveva i capelli lunghi a riccioli d'oro, vede solo un rossino tosato un po' deficiente. Nell'aula semivuota l'avvocato si rimette a sedere al suo posto. La gente s'è mescolata per il corridoio. Dalla porta a vetri cominciano a sfilare le studentesse, con le braccia sollevate per ricoprirsi la testa. I contadini s'accalcano intorno a frate Alessio che se li porta via. Arrivando sul pianerottolo, padre e figlio fanno in tempo a scorgerli per la gradinata sporca di poltiglia nerastra. Sotto si agitano le teste con cappucci e sciarpe. Quella bionda ancora scoperta. Vi corre l'occhio del ragazzo, sfuggente, come se ai capelli fosse connesso un senso di colpa. Lascia andare avanti il padre. Nel guardarsi alle spalle riconosce l'uomo miope che viene dal corridoio scuro accompagnando l'avvocato traballante a passettirii come un cieco. Ha l'aria di sentirsi aggricciare la carne. La carne la carne la carne. Odierà anche lui per tutto quello che ha detto, non voleva essere difeso. "Nicolì," chiama il padre rauco. È a mezza rampa, stringendosi al collo il bavero sottile dell'impermeabile. Dalla tromba sale un'aria gelata. "Nicolì." Lo spinge a muoversi il rumore di altri passi che sopraggiungono. Imbocca le scale a precipizio, ma poi rallenta dinoccolato. Si mette al muro, non può più nascondersi. Scendono i giudici. Platonico non vede il ragazzo, Toma non lo guarda. È il giovane Oliva a fermarsi. Sembra aver capito l'espressione della schiena, di uno che porti la vergogna addosso come una gobba. Forse rimuginava quel chicco di malvasia e si rende conto che lo rimandano punito per tutta la vita. In faccia lo trova protervo. Ma allunga una mano e lo tocca, gli dice qualche parola. Allora il ragazzo avvampa, violentemente, ingenuamente, si stacca dal muro con un impeto come se volesse uscirsene da se stesso. Mentre padre e figlio passano per ultimi il portone del tribunale, nella sala degli avvocati l'ufficiale giudiziario sta tentando di far parlare Lucrese, che si guarda le dita colpito da afasia.

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IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

E mentre, dopo la guarigione del Re, gli orecchi guastati dal suo vocione andavano guarendo senza bisogno di medicamenti, le voci, e per riguardo del Re, e per adulazione e poi per capriccio di moda, cominciarono ad abbassarsi, ad abbassarsi; e quello che poco prima era un paese di sordi, ora poteva dirsi proprio il paese degli sfiatati. Soltanto l'uomo delle pasticche, che mangiava a ufo e abitava nel palazzo reale, soltanto lui udiva il Re senza bisogno di accostargli l'orecchio alle labbra né farvi coppo con le mani, e poteva parlare con lui senza abbassare il tono della voce. Come andava questa faccenda? Sua Maestà non gli aveva detto mai, come agli altri: "Perché urlate? Non sono mica sordo!". Eppure colui gli parlava sempre con la voce naturale ch'era un po' strillante. Aveva dunque la lingua fatta diversa dagli altri? La curiosità della gente si accrebbe il giorno che il venditor di pasticche andò in furia, perché uno gli aveva detto per chiasso: - Mostrami la tua lingua! Vo' vedere com'è fatta. Non c'era niente di male in queste parole; ma colui, infuriato, pestando i piedi e piangendo, era andato a chiudersi nella sua camera del palazzo reale e non voleva uscirne più, perché nessuno potesse più dirgli: - Mostrami quella tua lingua! Vo' vedere com'è fatta. - Perché ti arrabbi? Vogliono vedere la tua lingua? E tu mostragliela, sciocco! Così! E fece l'atto. L'altro, sbadatamente, lo imitò; ed ecco la lingua scappargli di bocca, cadere per terra e farsi in mille pezzi quasi fosse stata di terracotta.Re: - Maestà, Maestà, la Principessa Senza-lingua! Oggi si compiono precisamente l'anno, il mese e il giorno. Il palazzo reale fu a un tratto sossopra. La gente affollata dietro l'uscio voleva entrare in quella camera e vedere la Principessa Senza-lingua. Invano il Re diceva: - Non può entrarvi nessuno, neppur io; ho dato la mia parola. Chi lo sentiva? Lo vedevano gesticolare con le braccia e muovere le labbra, quasi fingesse di parlare. Il Ministro accostò l'orecchio alla bocca del Re, facendo coppo con le mani; ma il Re, infuriato, con uno spintone lo sbatacchiò addosso alla folla. Per Fortuna, in quel punto l'uscio della camera s'aperse, e tutti stupirono alla vista del gran mucchio d'oro sovra cui stava comodamente sdraiata una bellissima giovane, vestita di broccato, ornata di perle e diamanti, con le bionde trecce sciolte su per le spalle, la faccia appoggiata a una mano, e un gran ventaglio nell'altra. Si faceva vento tranquillamente. Il mucchio d'oro era proprio lo stesso regalato dal Re al Mago, grosso quanto una botte. Il Re, in un baleno, si gettò ai piedi della Principessa e gli posò la fronte su le ginocchia. Ella lasciò il ventaglio, stese la mano, gli ficcò un dito tra i capelli e diè uno strappo. Il capello incantato fece una fiammata e le svaporò fra le dita. - Grazie, Principessa Senza-lingua! Grazie, mia Regina! - disse il Re col più bel suono di voce, che nessuno avesse mai udito. - Grazie, re Tuono, mio Signore e mio Re! Insieme con l'incanto dell'uno era sparito l'incanto dell'altra. La Principessa aveva acquistata la lingua, come le aveva predetto il Mago, adattandole quella artificiale cadutale poco prima per terra. - Il vostro destino voleva così! - disse il Ministro. - Dovevate essere sposi. E ora posso andarmene. - Perché mai? Perché? Il Re non finì di dire queste parole, che il Ministro, diventato un nanino vispo vispo, si ficcò, come un topolino, tra il mucchio dell'oro e sparì. Era un servitore delle Fate. Contenti come Pasque, il Re e la Principessa si sposarono, con feste e divertimenti d'ogni sorta. Il Re perdonò ai Ministri, li fece scarcerare e li rimise in carica. Non correvano più pericolo d'assordire. - Faranno sempre i sordi! Vedrete - prognosticò la gente. E il prognostico non fallì. Maturo è il frutto, secca la foglia; Dite la vostra, chi più n'ha voglia.

CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Alla superbiosa che se ne stava tutto il santo giorno alla finestra, ben pettinata, bene agghindata, con le mani in mano per non sciuparsele, nessuno badava; gli operai, perché sapevano che non si sarebbe mai degnata di sposare uno di loro; i signori perché non volevano abbassarsi a prendere per moglie la figlia d'un ramaio, e neppure farla insuperbire di più, mostrando di ammirarne la bellezza. Gli anni passavano, e inutilmente il ramaio ripeteva: - La maggiore la darò ai Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela. Qualcuno, per ripicco, gli rispondeva: - Ho paura, ramaio, che vi spighiscano in casa. E lui, picchiando più forte sull'oggetto che aveva per le mani, pentola, paiolo, padella o caldaia, rispondeva: - La maggiore la darò a un Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela. - La vanità gli ha fatto andar il cervello a spasso - pensava la gente. Nell'orticello a pianterreno c'era un albero di pesco. Da qualche tempo in qua, appena Cingallegra - anche il padre e la sorella la chiamavano così, ma con tono di sprezzo - appena Cingallegra si metteva a cantare, ecco un frullìo di ali che le faceva alzare gli occhi. Un pettirosso le volava sulla testa, quasi a portata di mano; si allontanava, ritornava, si posava in cima al pesco, riprendeva a volare cinguettando, trillando. Pareva volesse imitare il canto della figlia del ramaio, e che si stizzisse di non riuscirvi. E siccome essa, distratta dall'arrivo dell'uccellino, cessava di cantare, questi, dondolandosi su una rama, se ne stava zitto aspettando. - Vuoi sentirmi cantare, bell'uccellino? Il pettirosso con un trillo faceva intendere: si! si! E Cingallegra cantava. L'uccellino ascoltava, continuando a dondolarsi allegramente; e, appena essa taceva, riprendeva a provarsi di modulare il canto, tentando di imitarla, ma finiva sempre con un trillo di stizza, e volava via. Ora che Cingallegra aveva questo svago, a ogni momento di libertà, scendeva sùbito nell'orticello e si metteva a cantare. Il pettirosso però veniva a ore fisse, due volte al giorno, la mattina prima della levata del sole, la sera verso il tramonto. Quando egli non era là, Cingallegra si sentiva sola più dell'ordinario, e faceva di malavoglia le faccende di casa. La sorella, che se ne stava a grogiolarsi nel letto, non poteva soffrire il canto mattiniero di Cingallegra. - La vuoi smettere di cantare all'alba? Mi impedisci di dormire. - La vuoi smettere di dormire fino a tardi? Mi impedisci di cantare. Ah! Diventava impertinente? E la maggiore se ne lagnò col padre. - Ed anche si burla di me chiamandomi Reginotta! Il padre, che non ci vedeva dagli occhi per lei, rimproverò Cingallegra. - Le faccio la serva: non basta? Io spazzare, io spolverare, io fare il bucato, io sciorinare i panni, io preparare da mangiare! ... E non è vero che voi dite: La maggiore la darò al Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela? Dunque Reginotta le sta bene. Lasciatemi un po' sfogare col canto! E la mattina, prima del levare del sole, scendeva nell'orticello, si sedeva sotto il pesco e cominciava a cantare. Da li a poco, ecco un frullio d'ali: era il pettirosso che arrivava cinguettando, trillando, gorgheggiando. Si allontanava, ritornava, si posava in cima al pesco dondolandosi su una rama, e pareva che stesse ad ascoltare. E Cingallegra cantava, cantava cantava, piano, quasi volesse fargli la lezione e dargli agio di apprenderla bene. E appena ella taceva, il pettirosso riprendeva a provarsi di imitarla; ma finiva sempre con un trillo di stizza, e volava via. Intanto, di giorno in giorno, scendeva a dondolarsi su una rama più bassa. Le volte, però, che Cingallegra si rizzava in piedi e alzava un braccio per afferrarlo, scappava, senza mostrarsi molto spaurito, e tornava subito allo stesso posto. - Pettirosso, perché non ti lasci prendere? E il pettirosso rispondeva con un rapido trillo, quasi dicesse: - Questo no! - Pettirosso, mi vuoi bene? E il pettirosso rispondeva con un lieve gorgheggio, quasi volesse dire: - Tanto! Tanto! - Pettirosso, dovresti venire a posarti su questo dito; ti darei un po' di zucchero. E glielo mostrava. Il pettirosso faceva le viste di accorrere, aliava attorno alla mano con l'indice teso, e via su la rama a dondolarsi e a trillare. - Pettirosso, sei cattivo. Non canterò più. Il ramaio, dalla bottega, le dava la voce: - Cingallegra, con chi parli? Parlo da me! vi dispiace? Ah! Diventava impertinente! Indispettito della risposta, il ramaio la minacciò: - Per le matte c'è il bastone. E salito su, disse alla figlia maggiore: - Quando Cingallegra è nell'orto, affacciati alla finestra di cucina senza farti scorgere da lei. Guarda che cosa fa e con chi parla. Il giorno dopo egli fu stupito di sentire che Cingallegra parlava con un pettirosso. - Cingallegra ha trovato marito! - la schernì a cena la sorella. - Meglio di Reginotta, che non trova un cane che la voglia. Il ramaio le allungò un ceffone: - Non si risponde così alla sorella maggiore! L'indomani, il sole era alto, e Cingallegra non si era levata dal letto. - Cingallegra, c'è da. fare il bucato. - Reginotta ha le mani come me. - Cingallegra, e il desinare? - Reginotta ha le mani come me. Ma che cosa era accaduto da farla diventare tutt'a un tratto così impertinente? - Cingallegra, c'è tuo marito nell'orto. Ah ah! Il pettirosso trillava forte e gorgheggiava: pareva che chiamasse e si spazientisse di attendere. Alla intonazione di scherno e alla risata della sorella, Cingallegra balzò giù dal letto, dicendo: - Il Reuccio non è mai venuto a cantare per te! E, appena vestitasi, corse ad affacciarsi alla finestra, che dava nell'orticello. Il pettirosso si sgolava; volava attorno, saltellava da un ramo all'altro, e Cingallegra godeva di vederlo stizzito a quel modo. Gli aveva detto: - Pettirosso, sei cattivo! Non canterò più. E voleva mantenere la parola. Ma ecco che l'uccellino va a posarsi sul davanzale e si lascia prendere e accarezzare, e risponde alle carezze con delicati colpettini di becco sulle dita. - Ti sei finalmente deciso? Ora ti metto in una gabbia e starai sempre con me. Così erano due che cantavano da mattina a sera, con gran fastidio di Reginotta: Cingallegra, intanto: che spazzava, o spolverava, o faceva bollire il bucato, o sciorinava i panni, o preparava il desinare e la cena; e il pettirosso che dalla sua bella gabbia l'accompagnava con tali acuti trilli e gorgheggi da sembrare che facessero a gara a chi cantasse più forte. La gente si fermava ad ascoltarli dalla via. - Brava, la Cingallegra del ramaio! Brava! Brava! Reginotta masticava bile; e se qualcuno tornava a domandare, scherzando: - Ramaio, quando mariterete le figliole? - ella rispondeva, prima di suo padre: - Badate ai fatti vostri, e non vi curate di quelli degli altri! Il ramaio però, cocciuto, soggiungeva subito: - Presto. La maggiore la darò a un Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela. - Me la piglio io! Il ramaio si voltava di qua, e di là, per scoprire se qualcuno nascosto in fondo alla bottega avesse risposto in quel modo. - Chi sei tu, che vuoi pigliartela? - Io! Io! Io! Io! Io! Io! Era il pettirosso che sembrava rispondesse così; con uno dei suoi più squillanti trilli. Possibile? - Hai inteso? - disse il ramaio alla figlia maggiore che, non contenta di starsene, ben pettinata, ben agghindata, alla finestra, scendeva, da un pezzo, a sedersi davanti all'uscio della bottega, per mettersi più in mostra. - Hai inteso? Ti par naturale che un pettirosso risponda cosi? E ripeté: - Chi sei, che vuoi pigliartela? - Io! Io! Io! Io! Io! Io! A quel trillo squillante del pettirosso, Reginotta si rizzò a sedere inviperita, e corse su per afferrarlo e torcergli il collo. Ma appena toccò la gabbia per aprire la porticina: - Ahi! Ahi! Ahi! - le dita delle mani le si contorsero orribilmente; più non parevano di creatura umana, ma di qualche bestia mostruosa, con le ugne aguzze, e tutte coperte di scaglie. Sentendo strillare e piangere la sua prediletta, il ramaio accorse, furibondo; ma alla vista di quelle mani miseramente deformate, rimase di sasso. Accorse anche Cingallegra che non sapeva niente di quel che era accaduto. - Scellerata! Scellerata! Guarda che cosa ha fatto il tuo pettirosso! - La colpa non è mia, babbo! - Voleva ammazzarmi! Anche Cingallegra fu spaventata sentendo parlare il pettirosso. Era dunque un uccellino Fatato? Cingallegra ne aveva avuto qualche sospetto; ora però non ne poteva dubitar più. E non osava accostarsi alla gabbia, nè rivolgere la parola al pettirosso. Le mani contorte e scagliose di Reginotta le fecero gran pietà. Era stata punita giustamente del tentativo feroce; ma Cingallegra pensava che sua sorella aveva l'animo irritato dal non vedersi richiesta da nessuno, e che per ciò era degna di compatimento e di perdono, se non aveva saputo frenarsi. Si fece animo, si chinò sulla gabbia dove il pettirosso saltava da uno stecco all'altro, e mormorò teneramente: - Te ne prego, pettirosso mio! E intendeva dire: - Restituiscile le mani bianche e belle come prima. La porticina della gabbia si aperse da sé, e il pettirosso venne fuori, volò sulle mani di Reginotta, e cominciò a beccargliele delicatamente. In meno che si dice, erano diventate belle bianche come prima. La superbiosa non ringraziò neppure con un cenno del capo; voltò le spalle e andò ad affacciarsi alla finestra, come se niente fosse stato. E il mezzanino e l'orticello tornarono a risonare dei canti di Cingallegra e del pettirosso, e la bottega del ramaio dei colpi di martello con cui egli batteva, su l'incudinetta a paio, caldaie, pentole, paioli, padelle. Sempre di buon umore, dava la voce ai passanti di sua conoscenza; ma se qualcuno gli domandava: - Ramaio, quando mariterete le vostre figliole? - invece di rispondere al solito, picchiava rabbiosamente col martello su l'oggetto che aveva per le mani: pentola, padella, paiolo o caldaia, e brontolava le parole così sottovoce, da non far intendere quel che diceva. Diceva: - Pur troppo ho paura che mi spighiscano in casa! - E intendeva particolarmente la maggiore. Il pettirosso di Cingallegra, dopo quel che aveva visto e udito, lo faceva fantasticare. - Chi era quell'uccellino Fatato?Forse il Reuccio destinato alla figliola maggiore. Vedendo nell'orticello soltanto Cingallegra, l'aveva sbagliata, e forse anche si era lasciato lusingare dalla voce di lei. - Perché non canti tu pure? Chi sa non venga un pettirosso Fatato anche per te. Reginotta alzò sdegnosamente le spalle e non rispose. - Ne ho pensato un'altra. Comprerò una gabbia e un pettirosso identici a quelli di Cingallegra, li scambieremo, e ... Reginotta, senza neppure lasciarlo finire di parlare, alzò sdegnosamente le spalle e non rispose. Il padre, che le voleva troppo bene, si angustiava di vederla continuamente triste a quel modo; e malediva il momento in cui gli era venuto in testa di dire alla gente: - La maggiore la darò al Reuccio, l'altra a chi vuol pigliarsela! Una mattina entrò nella bottega un giovane, di aspetto rozzo, vestito da contadino, con scarpe grosse e cappellone di paglia. - Compare, che cosa cercate? - Una pentola e una moglie. - La pentola eccola qui. La moglie ... Sentite? Ho una figlia che canta meglio d'una Cingallegra; se la volete pigliatevela. - Non compro gatta in sacco. - Ve la faccio vedere. Ohe, Cingallegra! Invece di Cingallegra, si presentò Reginotta. - Questa non è per voi. - Allora ... tornerò domani. - E la pentola? - Pentola e moglie tutto a una volta. E appena colui era andato via, accorse Cingallegra. - Dov'eri? Che cosa facevi? - Governavo il pettirosso. - Hai perduto la fortuna: un marito. - Il marito che mi vuole sarà qui fra otto giorni. Il ramaio e la Reginotta si guardarono stupiti. E questa fece subito: - Dovrà sposare prima di me? Era diventata verde dalla bile. Otto giorni dopo;.il contadino tornava. - Compare, che cosa cercate? - Una pentola e una moglie. - La pentola eccola qui. La moglie ... Oh! Cingallegra! Se la volete pigliatevela. Invece di Cingallegra si presentava Reginotta. - Questa non fa per me. Tornerò domani. - Aspettate: ecco l'altra mia figliola. Il contadino quasi cantilenando disse: - Manine che per gli altri vi sciupate, D'oro e brillanti coperte sarete; Piedini che per casa troppo andate, Su bei cuscini vi riposerete; Vocina che nell'orto ora cantate, Gioia di casa mia diventerete. - Cingallegra, mi volete? - Vi voglio se vuole mio padre. - Ne riparleremo, compare, quando avrò maritata la maggiore. Reginotta aveva dato al padre un'occhiataccia; per questo il ramaio rispondeva così. - Allora ... tornerò tra un mese. - E la pentola? - Pentola e moglie tutto a una volta. Reginotta, dalla bile, era diventata ancora più verde. Quel zoticone, aveva osato dire: - Questa non fa per me! Cingallegra intanto era tornata su, e cantava, cantava, sventolando il fuoco sotto i fornelli. Il pettirosso che già aveva imparato bene, cantava insieme con lei, e si facevano udire per tutta la via. E la gente: - Brava Cingallegra e il suo pettirosso! Un mese dopo, rièccoti il giovane contadino. - Compare, che cosa cercate? - Una pentola e una moglie. - La pentola eccola qui ... La moglie ... - Eccola qua! Mi volete, Cingallegra? - Vi voglio, se vuole mio padre. - E pigliatevela e portatela via! Ma senza dote né niente! - rispose il ramaio che non ne poteva più. - La sola gabbia del pettirosso! - E una pentola, Cingallegra! - Niente, neppure una padellina! - disse il ramaio. - Tenetevi pentole, paioli, padelline, caldaie; sono tutti bucati e non servono! ... Il ramaio non aveva badato a queste parole. Ma non appena Cingallegra e il suo sposo erano andati via portando con sé soltanto la gabbia vuota, perché il pettirosso una mattina era scomparso, il ramaio cominciò a disperarsi. Quando era sul punto di dar l'ultimo colpo a una pentola, a un paiolo, a una padellina, a una caldaia, gli accadeva di picchiare così forte col martello, da farvi un buchino. E più egli tentava di rimediare quel guasto, e più il buchino si allargava. Gli avventori venivano, guardavano bene, e accorgendosene non compravano; e così la bottega si screditava. Di Cingallegra e di suo marito non si sapeva nessuna notizia. Ora il ramaio rimpiangeva quella figliola da lui maltrattata per dar ragione alla sorella maggiore; la casa era divenuta un sudiciume, non ostante che egli avesse dovuto prendere una donna per i servigi. Si desinava male, si cenava peggio: e per giunta gli affari andavano a rotta di collo con quelle caldaie, pentole, padelle, e quei paioli tutti bucati che nessuno voleva comprare. Intanto Reginotta continuava a menare la stessa vita di prima; si levava da letto tardi, e poi ben pettinata, bene agghindata, se ne stava alla finestra o giù in bottega per mettersi in mostra: e non si accorgeva che gli anni passavano e che lei, dalla bile, imbruttiva. Ma un giorno ci mancò poco che non le cogliesse un accidente. Era venuto un giovane signore a comprare molti oggetti di rame. Sceglieva questo e quello, senza osservarli bene e faceva mettere da parte gli oggetti di suo gradimento: un gran cumulo. Il ramaio si sentiva tremare il cuore pensando: - E se si accorge dei buchini? Quel signore continuava a scegliere senza osservare bene gli oggetti; sembrava che volesse proprio portar via tutta la bottega. - E questa quando la mariteremo? L'altra è stata fortunata, sposando un cugino del Re! - Un contadino, volete dire! - Un cugino del Re, ragazza mia. Come? non lo sapete? - E dove si trovano? - domandò il ramaio. - Come? Non lo sapete? Si cammina un giorno e una notte e si arriva a piè di una montagna coperta di boschi. In alto, a mezza costa, c'è il gran castello del cugino del Re. Per ora si trovano colà ... Facciamo il conto, ramaio. Il ramaio volle mostrarsi onesto, e gli disse: - Prima di pagare, signore, riguardare bene gli oggetti. Guarda, volta, rivolta, con stupore del ramaio, non c'era in nessuno di essi il minimo buchino. - Mettete ogni cosa da parte; manderò un servitore domani. Pagò e andò via. - Perché piangi, figliola? - Perché sono disgraziata! - Non disperare. Com'è venuta la fortuna per tua sorella, verrà un giorno o l'altro anche per te. Una mattina il ramaio vide fermarsi davanti alla bottega un ragazzaccio col vestito a sbrendoli e i piedi scalzi; sembrava mezzo scemo. - Che cosa vuoi? Come ti chiami? - Mi chiamo Reuccio. Il ramaio trasalì. E senza chieder altro, lo invitò a entrare, a sedersi e corse su dalla figliola. - É arrivato il Reuccio! Travestito, per non farsi riconoscere; i grandi sogliono fare così. Reginotta, fuor di sé dalla gioia e dalla vanità, si alzò, si agghindò, e scesa giù, si fece avanti con un grand'inchino: - Ben venuto, Reuccio! - Questa è mia figlia, Reuccio! Un grand'inchino anche lui, e soggiunse: - Comandate, ordinate; fate come se foste in casa vostra. - Datemi una bella fetta di pane. Non mangio da ieri. - Altro che pane, Reuccio! E mandò la donna a far spesa larga. A Reginotta quegli sbrendoli parevano una ricchezza. Pensava che il Reuccio, travestendosi a quel modo, le dava una gran prova di affezione. E vedendolo divorare come un lupo, a tavola, pensava che doveva costargli molto il fingere di essere affamato. Più Reuccio mostrava in viso il gran stupore di vedersi trattato così, e più il ramaio e la figlia si confermavano che fosse venuto in incognito per conoscerla meglio. - Ti ha detto niente? domandava il padre. - Niente. E a te? Aspettiamo! - Aspettiamo! Reuccio mangiava, beveva, dormiva, ingrassava a vista d'occhio, ma di chiedere la mano della figlia del ramaio non se ne ragionava. Il ramaio tentava di portare il discorso intorno alle nozze, ma Reuccio non capiva o fingeva di non capire. La figlia fu meno paziente del padre, e una mattina disse a Reuccio: - Se siete venuto per sposarmi, sposiamoci subito. - Ah! Ah! Ah! Reuccio si contorceva dalle risa. - Perché ridete, Reuccio? - Ahi Ah! Ah!.. Sposiamoci pure! - Così, con codesti cenci? - Fatemi voi un bel vestito. Ah! Ah! Ah! Reuccio rideva come un matto. Reginotta era dispiacente di dover sposarsi senza carrozze, senza festa, come una popolana qualunque; ma, pur di diventare Reginotta davvero, si rassegnava. La festa e il resto verrebbero poi; e allora toccava alla Cingallegra di crepare di invidia e di rabbia. Sposarono alla chetichella. Ma trascorsi parecchi giorni, e vedendo che le cose andavano come prima, cioè che colui mangiava, beveva, dormiva, ingrassava, e non accennava a condurla al palazzo reale del suo regno, Reginotta non si ritenne più: - Insomma, Reuccio, quando andiamo al palazzo reale? - Quando voi volete, moglie mia. La prese sotto il braccio e la condusse davanti ai palazzo reale. - Non entriamo? - Non s'entra, ci sono le guardie. - E voi non siete il Reuccio? Non comandate ad esse? - Mi chiamo Reuccio ma non sono Reuccio. - Non siete Reuccio? Ah furfante! E gli si gettò addosso, per accopparlo. Ma Reuccio le assestò certi pugni sul viso da illividirle le guance. Accorse gente, e li divisero. Tutti domandavano: - Che cosa è stato? Niente. La figlia del ramaio che letica col marito! Tornò a casa sola, mezza pazza dal gran disinganno. - Questa è una infamità di mia sorella Cingallegra! - Non era il Reuccio? - No babbo: si chiamava Reuccio! Che vergogna! Che vergogna! Bisogna andar via da questo paese, o m'impicco a una trave! Il padre che ora, vedendola così disgraziata, le voleva più bene, fece caricare tutta la roba su due carri. Partirono di nottetempo. Dopo un giorno e una notte, arrivarono a piè di una montagna coperta di boschi. A un punto della strada, incontrarono un cacciatore. - Non proseguite, buona gente. É straripato il fiume e ha inondato la campagna. - Grazie, cacciatore. E dove potremo ricoverarci? - Venite con me. Starete bene. Potevano mai immaginarsi di capitare nel castello dov'era sposa felice Cingallegra, e che quel cacciatore fosse il principe Pettirosso? Ma Cingallegra li accolse con tanta cordialità, che la superbiosa Reginotta sentì spezzarsi il cuore e pianse dolcissime lacrime di ravvedimento. Il ramaio poi non stava nei panni dalla contentezza di aver ritrovato sua figlia Principessa come si ostinava a chiamarla, non ostante che lei e il Principe gli ripetessero: - Siamo sempre Cingallegra e Pettirosso. Quel che avvenne dopo, e perché il Principe si chiamasse Pettirosso, ve lo racconterò un'altra volta, se vi piacerà di saperlo. Per oggi, al solito: Larga la foglia, stretta la via Dite la vostra che ho detto la mia.

Deve dunque abbassarsi fino al fango della terra? - Chi ha mai detto questo? Più buona che bella non significa fango, mi pare. - Vedrete che il Principino commetterà qualche sciocchezza. - Ne commettiamo tutti - Ah! Mi rinfacciate ancora?! .... E continuavano a bisticciarsi, fino al ritorno del principino Pettirosso. - Avete trovato? - Non ho trovato! - Mancano Principesse? - Manca quella che vorrei io. - E le altre donne? - Le buone non sono belle; le belle non sono buone, quelle che ho viste, intendo dire. Cercherò ancora, babbo! - Principessa, come voi! - E più buona che bella. Principessa o no, non importa. - Sì, mamma! Sì, babbo! E scappava via. Un giorno, finalmente, lo videro tornare con volo così impetuoso, che lo credettero inseguito da qualche uccello di rapina. Volava per la stanza, facendo giri, intrecci; sembrava ammattito. Ci volle un pezzetto prima che si calmasse. - Che cosa accade, Principino? - Ho trovato, mamma! Ho trovato! - Una Principessa? - Una più buona che bella? - Principessa, e più buona che bella! Sposerò Cingallegra. - Ah, figlio, figlio mio! La Principessa dètte in un pianto che mai. Chi era Cingallegra? Egli dunque s'immaginava di dover restare pettirosso per tutta la vita! Ci mancava quest' altra disgrazia! - Chi è Cingallegra? - gli domandò il Principe, angustiato anche lui. - Colei che canta nell'orto del ramaio. - É dunque una giovane? - Più buona che bella, come tu la volevi. - Ed è figlia di un ramaio? - É più Principessa di me che ora sono pettirosso - rispose ridendo. - Ah figlio! Figlio mio! E la Principessa, sentendogli dire queste cose, dava in un pianto più dirotto. Ora il principino Pettirosso andava via avanti l'alba e tornava col sole non ancora alto. - Donde venite, Principino? - Da Cingallegra, mamma cara. - Se mi volete bene, lasciatela andare. Cingallegra non fa per voi. - Se la sentiste cantare, non direste così. Ripartiva col sole vicino al tramonto e tornava prima che fosse sera inoltrata. - Donde venite, Principino? - Da Cingallegra, babbo caro. - E come canta Cingallegra? - Canta così. Ma non gli riusciva di cantare con voce umana; gorgheggiava, gorgheggiava, e, dopo un pezzetto, si interrompeva: - No, non è proprio così! E in camera, o su un ramo d'albero del giardino, gorgheggiava, gorgheggiava, provando, riprovando, interrompendosi all'ultimo: - No, non è proprio costi La Principessa era inconsolabile. Pensava: - Se non avessi distrutto il nido e rotto quegli ovicini, tutto questo non sarebbe accaduto! Ah, figlio mio, figlio mio! Né lei, né il Principe, intanto, si ricordavano che il principino Pettirosso era già sul punto di compire i vent'anni. Una mattina, che lo credevano volato via avanti l'alba, non vedendolo ritornare all'ora solita; Principe e Principessa stavano in gran pensiero. - Che gli sia accaduto, qualche disgrazia? - Non gli facciamo il cattivo augurio! E si misero alla finestra, guardando verso il punto d'onde pel solito lo vedevano spuntare. Sentirono rumor di passi alle spalle ... Principe e Principessa credettero impazzire dalla gioia. - Sono io, mamma! Sono io, babbol Il Principino aveva cessato di essere pettirosso, ed era un bel giovane, biondo come la madre, alto e ben fatto come il padre. I baci e gli abbracci non finivano più. La Principessa si immaginava che ora il Principino non avrebbe più parlato di Cingallegra. Invece ne riparlò subito. La madre ne fu desolata. Il padre, più condiscendente, diceva: - Poiché è più buona che bella! - La figliola di un ramaio! Non acconsento! Non acconsento! Il Principe, per calmarla, le disse: - Andiamo a prender consiglio dal mago Barba-d-oro. - Andiamo a prender consiglio dalla Fata Cicogna, che ne sa più di lui! Si decisero per la Fata Cicogna. Ma la mattina che stavano per partire, alzano gli occhi e che cosa veggono? La Fata Cicogna su una torretta del castello; il nido d'oro luccicava al sole sotto di essa, e tra l'intreccio delle barrette che figuravano da sterpi, si scorgeva il bianco degli ovi d'argento. - Oh, Fata Cicogna, noi venivamo da voi! ... Ha fatto mala bisogna Chi ha detto Fata Cicogna. - Fata Splendore! Fata Splendore! - gridò allora la Principessa. Tra le piume è nato un giglio, Non era figlio ed ora è figlio. Padella preparata, Frittata e non frittata! Aperse le ali, tese piedi, e la Fata Cicogna volò via. - Volete una risposta più chiara? - disse il Principe. La Principessa chinò il capo, abbattuta. - Padella preparata, è evidente, significa la figlia del ramaio. - E frittata e non frittata che vorrà significare? - Significa, credo, che tutto anderà pel suo meglio. Ci ha lasciato il nido d'oro e le uova d'argento; è il buon augurio agli sposi. Come il principe Pettirosso sposasse Cingallegra voi lo sapete da un pezzo e sapete anche che il ramaio e Reginotta furono accolti nel castello e beneficati da loro. Apprenderete oggi il resto, e le due fiabe saranno compiute. Quando il principe Pettirosso rispondeva, ridendo, al padre: - É più Principessa di me, che ora sono pettirosso - sapeva bene quel che diceva. In uno di quei giorni che volava attorno da mattina a sera in cerca di una sposa, Principessa come voleva sua madre, o più buona che bella come gli suggeriva suo padre, il Principino aveva incontrata la Fata Cicogna. - Dove vai, piccolo pettirosso? - Cerco la mia fortuna, una moglie. - Vieni con me, te la trovo io. - Principessa? - Principessa. - Più buona che bella? - Più buona che bella! Eccola là. E gli mostrò Cingallegra che cantava, sciorinando i panni nell'orto. - Più buona che bella può darsi, ma Principessa ... - Principessa quanto te e più di te. - Come mai? - L'hanno scambiata a balia: e i parenti non se ne sono accorti. La figlia del ramaio aveva una voglia di fragola sotto l'ascella, e Cingallegra non l'ha. Cingallegra è figlia di Principi. Ti basti di saper questo. Infatti un giorno, a tavola, il principe Pettirosso disse al ramaio: - Vostra figlia dovrebbe avere una voglia di fragola sotto l'ascella. - Certamente; sembrava una fragoletta davvero. - Ma Cingallegra non l'ha. - Non l'ha? E così fu confermato quel che aveva detto Fata Cicogna. Ma ora alla Principessa non importava più che Cingallegra fosse o non fosse figliola di ramaio. Non vedeva lume che per gli occhi di lei. Accade spesso così. Frittata e non frittata, La fiaba è terminata.

Racconti 1

662686
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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SCURPIDDU

662784
Capuana, Luigi 2 occorrenze

Le fiamme cominciavano ad abbassarsi. Scurpiddu , dalla vasca, guardava atterrito le due ombre nere che si muovevano sul tetto tra il fumo, agitando le braccia, facendo riluccicare le scuri a ogni colpo che davano. Tutt'a un tratto egli si ricordò dei polli e dei tacchini: - Povere bestie! E, finito di riempire la brocca che aveva in mano, in quattro salti fu al pollaio. - La chiave! La chiave! Non la trovava. Afferrò un tronco dalla catasta che era già mezza spenta, e cominciò a battere l'uscio con esso, finchè non l'aperse. Polli e tacchini sbucarono fuori con tale violenza che per poco non lo rovesciarono a terra. - I tacchini e i polli sono salvi, massaia! - si era affrettato ad annunziare. - Tegònia! Tegònia! - balbettava la massaia mezzo svenuta. La vecchia serva infatti non era con loro. Dormiva in uno stanzino, accanto alla stanza dove era morta la mamma di Scurpiddu ; e, nel trambusto, nessuno si era rammentato della poveretta, che forse il fumo soffocava lassù. Scurpiddu corse di fretta dietro il frantoio, e chiamò: - Z'a Tegònia! Z'a Tegònia! La stanzetta aveva un finestrone su una piccola terrazza che sporgeva su l'abisso della roccia. Bisognava essere uno scoiàttolo per arrampicarsi, e poi, il vento spingeva il fumo da quel lato, avvolgendo la terrazza, quasi l'incendio avesse ingoiato la stanzetta e chi vi dormiva. - Z'a Tegònia! Z'a Tegònia! Oltre il fumo, c'era l'abisso che si spalancava là sotto. Per tentar di appoggiare una scala nel punto dove la sporgenza della roccia permetteva di farlo senza pericolo, occorreva spiccare un bel salto e non mettere il piede in fallo. Scurpiddu diè un'occhiata attorno. Due grossi tronchi di fichi d'India, abbattuti mesi addietro, gli suggerirono l'idea di formare un ponticello, mettendoli per traverso. Sarebbe passato su di essi, e poi li avrebbe tirati dall'altra parte. Appoggiandoli al muro, vi si sarebbe arrampicato. Se giungeva ad afferrare la ringhiera di ferro della terrazza ... . Detto, fatto: due tronchi venivano trascinati con molto sforzo, buttati a traverso il profondo spacco della roccia; e Scurpiddu , curvo, con le braccia aperte per equilibrarsi, trattenendo il respiro, passava sul cedevole ponticello. Il difficile era ritirare i tronchi di là senza che il peso li facesse precipitare giù. Prima di avventurarsi, chiamò di nuovo: - Z'a Tegònia! Z'a Tegònia! Le vampe, dopo il crollo dei tetti della cucina e del frantoio, erano quasi spente, ma il fumo aumentava, e le scintille volavano portate via dal vento e piovevano addosso a Scurpiddu , scottandogli mani e faccia, Ora però che egli aveva appoggiato al muro i due tronchi, e che essi, con le loro sporgenze, gli davano agio di montare, non badava nè a fumo nè a scintille; e com'ebbe afferrato una sbarra della ringhiera, si spinse su poggiando i piedi al muro; poi saltò nella terrazza. Per fortuna i vetri erano chiusi, ma gli sportelli interni no. Con un mattone ch'era là, egli ruppe un vetro, passò un braccio nell'apertura fatta, girò il succhiello e spalancò la imposta a due bande, Un'ondata di fumo lo fece indietreggiare. Appena la stanza si fu vuotata per l'aria nuova penetrata, dentro, Scurpiddu si precipitò verso il letto, con uno strillo: - Z'a Tegònia! E scoteva il corpo della povera vecchia, che rantolava, buttata a traverso la materassa. Intanto, dalla fessura dell'uscio che dava nel frantoio, il fumo continuava a invadere la stanza! Come fare? Egli non poteva levar di peso la vecchia e portarla all'aperto. Udita sul tetto vicino la voce del Soldato e di massaio Turi che già si preparavano a scendere, Scurpiddu uscì su la terrazza e chiamò. - Che fai costì? - gli domando il Soldato , affacciandosi dall'orlo del tetto. - La Z'a Tegònia! ... Venite! ... .Sta per morire ... Io non posso toglierla dal letto. Il Soldato si lasciò scivolare lungo il muro che non era molto alto, e poi saltò su la terrazza. Era stupito di trovare Scurpiddu colà. - Come hai fatto? - Ve lo dirò dopo. E trassero la povera vecchia all'aria aperta. Quando l'incendio fu domato, tutti erano attorno a Scurpiddu per sentirgli raccontare come si era accorto delle fiamme e come aveva fatto per salvare la Z'a Tegònia. - Questo ragazzo è la nostra buona sorte, - diceva massaio Turi alla moglie. - Senza di lui, a quest'ora, saremmo quasi all'elemosina, se pur saremmo vivi! E si asciugava le lagrime.

Pareva che anche Paola prendesse gusto al gioco, perchè due volte che Scurpiddu non era stato lesto ad abbassarsi, essa non si era fermata, anzi era volata lontano verso i mandorli di Rossignolo. E fu per questo che Scurpiddu si accorse di quei due che con la mano gli facevano cenno di avvicinarsi, mezzi nascosti fra i tronchi dei mandorli. Aveva avuto paura vedendo luccicare le canne dei fucili che coloro tenevano in mano col calcio a terra. E siccome Scurpiddu intimorito, non si risolveva, quei due si mossero verso di lui. Allora egli vide che essi, oltre il fucile avevano le pistole ai fianchi infilate a traverso la cintura di cuoio. E in mezzo, una giberna, come quella dei carabinieri che giusto il giorno avanti erano passati di là e gli avevano domandato: - Hai visto nessuno? - Nessuno. - Coi fucili come noi? - Nessuno. Ed erano andati via, prendendo la strada del Monte, tra i fichi d'India. Più tardi, li aveva visti lassù, in cima al Monte, coi fucili che luccicavano e le striscie di cuoio bianco sul petto. Guardavano, con la mano su gli occhi per la via del sole. Erano passati, un mese addietro, due volte, ma allora non gli avevano domandato niente. Chi cercavano? Ladri, forse. E subito pensò che i ladri cercati dovevano essere quei due; perciò aveva paura. - Va' a dirgli: Ci sono due amici che vogliono qualche pagnotta e un fiasco di quello bono. Pel resto, si prenderanno un tacchino; e vi salutano tanto. Così devi dirgli. Va'? - E i tacchini a chi li lascio? - rispose Scurpiddu piagnucolando. - Li guarderemo noi, non aver paura. Digli: Ci sono due amici ... E colui che parlava - l'altro stava zitto - replicò le parole del messaggio, soggiungendo: - E digli: Devo portare tutto io e non altri. E non tardar troppo, va'! Scurpiddu si avviò subito, giacchè quell' amico comandava con modi bruschi; e di tratto in tratto si voltava indietro per vedere se tutti e due erano ancora colà. Poi si era messo a correre, e alla masseria era arrivato ansante, in sudore. Chiamato in disparte il massaio, gli aveva fatto l'imbasciata, senza dimenticare una sillaba. Massaio Turi aggrottò le sopracciglia, increspò le labbra, stette un istante a riflettere, e rispose: - Va bene; aspetta qui. E dopo pochi minuti, ricomparve tenendo pel collo un fiasco di terracotta coi mànichi, e una salvietta con le pagnotte richieste. - Dirai a quegli amici: Dice il massaio: se vi occorre un tacchino, prendetelo. E dice: che da queste parti non c'è aria bona, perchè tira vento quasi ogni giorno. E dice che vi saluta tanto, e che il Signore vi aiuti. Tu poi non fiaterai di questo con nessuno; hai capito? - Sissignore. - E spicciati. Andava di corsa. Intanto pensava perchè il massaio mandava a dire a quegli amici: - Qui tira vento ogni giorno? - Non era vero. Che vento? Uh! Ma del tacchino voleva fingere di essersene scordato. Quale avrebbero preso? Notaio ? Don Pietro ? Scurpiddu ? Questo poi no. Gli piangeva il cuore all'idea che potessero portargli via il suo prediletto. Quando arrivò lassù, non trovò gli amici . I tacchini si erano un po' sbandati. Posò per terra il fiasco e le pagnotte, e li rincorse. Scurpiddu era là che faceva la ruota, ponzando, col bernoccolo rosso allungato sul becco! Respirò. Tutt'a un tratto si vide davanti uno di quei due, senza fucile nè pistole, quasi fosse uscito di sotto terra. E prima di prendere il fiasco e la salvietta col pane, colui si fregò in una tasca del panciotto. - Tieni, questi sono per te. Gli mise in mano dieci soldi. - Dice il massaio ... . E Scurpiddu ripetè quel che massaio Turi gli aveva dato incarico di dire. Quando ripetè: Qui tira vento quasi ogni giorno , l'amico fece una smorfiaccia che voleva essere una risata. - Gli dirai: Grazie anche di questo. Il tacchino lo mangeremo alla sua salute. E tu… Mise l'indice su le labbra; voleva dire: Silenzio! - Sissignore. Dunque il tacchino se lo erano già preso! E cercò con gli occhi tra il branco. Mancava Notaio ! Alzò le spalle, quasi avessero portato via proprio il notaio di Palagonía che lo aveva scacciato dal servizio per una tacchina perduta. Non gli poteva perdonare la fame e il freddo patiti, e l'elemosina che aveva dovuto chiedere e i maltrattamenti dei ragazzi di colà; tutto per cagione di quel birbante! E Paola ? Dov'era? Cominciò a chiamarla con la voce e col fischio, guardando attorno. Non si vedeva, ne si sentiva gracchiare. - Paola ! Paola ! Stava a grattarsi il capo con tutte e due le mani, impensierito, quando lo zi' Girolamo gli gridò da lontano: - È quiii! È quiii! Volava da un bue all'altro, beccandoli sul dorso; e i buoi la scacciavano con la coda o con le corna. Scurpiddu corse fino alla punta del ciglione e chiamò: - Paola ! Paola ! La tàccola accorse ad ali spiegate, gracchiando allegramente; gli fece un bel giro attorno, in alto, e poi tornò dai bovi. - È in collera, povera bestia, perchè l'ho lasciata sola. Scurpiddu e la tàccola s'intendevano così bene, ch'egli non fu meravigliato di quell'atto. - Ora viene, senza che io la richiami, - pensava. E infatti poco dopo la tàccola volò diritto verso di lui e gli si posò su la spalla. - Non ti lascierò più sola, mai più! L'accarezzava con una mano, e Paola gli beccava delicatamente l'orecchio. Lo ammoniva davvero di non lasciarla più sola?

Racconti, leggende e ricordi della vita italiana (1856-1857)

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D'Azeglio, Massimo 1 occorrenze

E il mio cavallo, al quale volevo bene come a un fratello - già cavalli e cani sono i veri galantuomini - me lo custodivo da me, e sia in viaggio come a soggiorno, le mie bianche mani gli davano fieno od erba - biada non s'usa - lo strigliavano, lo ripulivano, e persino - ho sempre amata la pulizia - dovevano abbassarsi all'umile granata, perché la stalla e la lettiera non avessero imbratti. Chi vuole il fine voglia i mezzi - e non capisco smorfie. Il mio fine, che era di studiare non solo gli alberi, ma altrettanto gli uomini, a questo modo era ottenuto. La buona gente i credeva de' loro, non sentiva d'aver bisogno di nascondersi da me, la vedevo nella sua piena verità, colle sue idee, i suoi pensieri, i vizi, i difetti, ecc.; e siccome parlavo benissimo i loro dialetti, non rimaneva fra essi e me il minimo velo. Io che non ho mai fatto il democratico - non mi servirebbe a nulla - non anderò in estasi sulle virtú de' contadini e del popolo. Ne ho trovati de' buoni e de' cattivi come in tutte le altre classi. I sette peccati mortali e le sei virtú, fra cardinali e teologali, piú o meno come dappertutto; bensí, essendo io sempre stato del partito de' calpestati, e che quella povera gente, gli uomini piú che la Provvidenza le mettono innanzi un pan duro e che sa di muffa, mi son sempre sentito un po' di tenerezza per loro, e una parzialità che mi porta ad assolvere piú facilmente una loro birberia, che non quella di chi ha un destino migliore. Io ebbi talvolta amici fra loro. Amici che m'hanno voluto bene ed ai quali ne volli anch'io, ed ancora mi ricordo di loro con affetto. Nature rozze, fiere, ma che voltate al bene, sono veramente eccellenti. Mi ricordo d'un certo Venanzio del castello di Marino - antico feudo de' Colonnesi - giovane della mia età, vero tipo dell'antico sangue romano, quale ce lo mostrano i bassirilievi della colonna Traiana, con que' muscoli squadrati, la guardatura aggrottata, ec. Mi aveva preso a ben volere, ed ero diventato per lui come un fratello. Persino un giorno, non sapendo piú quale offerta farmi, che sempre qualche servigio voleva rendermelo, mi disse: - Vedi, Massimo, se qualcuno ti dà fastidio... una parola a Venanzio... è fatta! - E non era figura di rettorica: Dio ne guardi gli avessi insegnato chiunque, era fatta davvero. Poiché m'è venuto nominato Marino, per trovar un principio, è buono questo quanto ogni altro paese, e comincerò da Marino, dove in due volte passai da dieci a undici mesi. Marino, feudo, come dicevo, de' Colonnesi ab antico, un castello a 14 miglia da Roma, a mezza costa del monte Albano. Il deserto che circonda la città eterna finisce ad un miglio circa dalle sue porte, ove di nuovo comparisce la vegetazione. Vigne, uliveti, campi di cipolle, che sono la grande esportazione del paese e l'onore di PiazzaNavona, loro principale mercato. Al lato opposto comincia la celebre macchia della Paiola, selva che, senza interruzione, continua per le montagne di Regno, fino nelle Calabrie: e che è probabilmente sempre rimasta in piedi dai tempi in cui la selva Ercinia era sicura dalla scure, in virtú del tempio di Diana. Tempio, per parentesi, ove, a far da sacerdote, era impiego da non invecchiare. La congrua doveva però essere da far gola, poiché il posto non rimaneva vacante, malgrado la forma del concorso pel quale si acquistava. Concorso, cui forse pochi preti oggidí vorrebbero presentarsi. Il titolare di Diana Ercinia o Aricina era per legge costretto ad uscire sul piazzale del tempio, da chiunque ne fosse richiesto, e doveva battersi a daga con lui. Il superstite o restava o diventava titolare. Bisogna dire che fosse un benefizio riservato ai gladiatori in ritiro. La macchia della Paiola è ora il campo di rifugio di tutti coloro che non hanno una spiegazione preparata ad uso della giustizia: è il regno inviolato de' briganti; la cornice nella quale s'inquadrano infiniti racconti di rapimenti, omicidi, vendette, sorprese, e talvolta di venture d'amore; senza metter in conto che essa è miniera inesauribile di studi d'alberi d'ogni specie e di ogni età; de' loro cadaveri, de' loro scheletri che giacciono finché sian ridotti polvere; avanzi di piante superbe che nacquero, Dio sa quando, crebbero e caddero alla fine di vecchiaia; senza che l'uomo, nemico di tutto e di tutti, le tribolasse. Un bell'albero! E ci ha da essere al mondo chi non si cura d'un bell'albero! Ci ha da essere chi non comprenda che tutti i principi, tutti i poteri della terra uniti insieme potranno dire fiat d un palazzo di marmo, sto per dire d'oro o d'argento, ed il palazzo in un anno, in due anni sarà; ma dicano fiat d una quercia di quattro secoli, poveri impotenti? E ci ha da essere chi li fa segare al pedale per farvi su una casa a persiane verdi, facciata fior di pesca e stipiti di stucco? È vero che fra popoli veramente civili, di queste non se ne fanno: 1o Esempio: il palazzo di cristallo a Londra, che s'innalzò superbo senza credersi però dappiú di due belli alberi di Hyde Park; 2o Esempio: il Parco di Kew, dove un albero caduto (caduto, capisce!) è circondato da uno steccato onde salvare dalla ultima distruzione gli avanzi di una bell'opera del Creatore; 3o Esempio: la parola d'un gran principe. Un architetto proponeva ad Emanuele Filiberto d'abbattere un'antica quercia per dar luogo a costruzioni. - Non v'è potenza di principe che possa fare un bell'albero, rispose il vincitore di San Quintino voltando le spalle all'architetto. Ma era un uomo di cervello, e che aveva girato! Veramente, me n'accorgo, vo un po' troppo di palo in frasca, ma certe cose non si può proprio tacerle, quando viene la palla al balzo. Torno a Marino. Siede il paese su una pendenza assai ripida, formata dalla spina d'un colle che di qua e di là s'avvalla per scoscendimenti di rupi in burroni profondi, pieni d'ombre e d'acque correnti; e vi s'entra di verso Roma per una porta del Seicento a frontone spezzato, inghirlandata d'ellera, parietaria e simili; poi una via stretta fra casuccie basse e nere: poi la piazzacolla chiesa e il palazzoColonna, gran massa irregolare, bruna, ove c'è un pezzo di ogni epoca dell'architettura. Dalla piazza principia una strada piú larga. Le case sono piú pulite (siamo usciti di Marino vecchio e entrati in Marino nuovo) e s'arriva su in cima al paese dove sorgono torri merlate, avanzi di antiche cinte. Andando diritto per una scesa a precipizio, s'arriva dopo duecento passi a un fontanile posto all'entrata della Paiola, ed annesso alla porta del parco Colonna. Voltando invece a mano manca senza scendere, seguita la via larga un altro poco, e l'ultima casa che si trova a man ritta è un assai pulito casino piú rassettato delle altre fabbriche; v'entrano ipedoni per una porticella, ed i cavalieri o i carri per un cancello che mette nell'aia, o nel cortile che si voglia chiamare. In questa casa regna - (e governa lielo dico io) - il sor Checco Tozzi, mio grande amico, e padron di casa. Ma, prima d'entrare, due parole sui Marinesi. I Marinesi - la verità al solito e non adular nessuno - godono d'una cattiva riputazione. Riputazione però che se non li fa veder troppo di buon occhio quando capitano ne' castelli della montagna, come sarebbe Rocca Priora, Rocca di Papa, Grotta Ferrata, Castel Gandolfo, ecc., li fa altrettanto sicuri di non esser mai molestati; co' fatti già, nemmanco per idea, ma neppur colle parole, né con quegli appellativi gentili che inventò la carità cristiana de' paeselli a benefizio de' rispettivi vicini. Ho osservato che negli antichi feudi delle grandi famiglie del medio evo, Colonnesi, Orsini, Savelli, ecc., è rimasta nelle popolazioni l'impronta di quella vita d'odi, di guerre, e di patteggiare continuo, che era vita normale di tutto l'anno in que' felici secoli. Vi si trova fra' giovani quasi generale il vero tipo del bravo: l'idea di scoltellare il prossimo, e poi buttarsi in una chiesa o in una cappella: l'idea di farsi uom ligio a qualche signore, farne d'ogni sorta o per conto suo o per conto proprio, e salvarsi poi dalla corte e dal bargello mediante i suoi impegni e la sua protezione. E questa smania di menare il coltello, pazienza fosse soltanto la conseguenza di un'ingiuria, o d'una provocazione qualunque; ma è invece spesso conseguenza d'un semplice amor di gloria; è un modo d'acquistarsi una posizione rispettata, e d'esser guardato passare con meraviglia affettuosa dalle ragazze che stanno sugli usci o alle finestre i dí delle feste. E non s'intende già colpi a tradimento. Le ragazze marinesi non amano traditori. S'intende di sfide bell'e buone - ed avrò occasione di raccontarne - coll'arme che hanno, e che del resto portavano ed usavano onoratamente anche gli antichi cavalieri. Si tratta di mettersi uomo contr'uomo, e tal volta uno contro parecchi per bravura maggiore. Mi ricordo un giorno un tal giovane, col quale - come dirò in appresso - mi trovai poi in un brutto ballo. Era la domenica dopo vespro, e se ne stava in piazza con altri, colla camiciola sul braccio, quando a un tratto si move, va in mezzo alla strada, e col coltello fa una riga in terra. - Il primo che ci metta il piede l'ammazzo - dice, e se ne va in disparte. Nessuno volontariamente si pose in contravvenzione, che conoscevano Peppe Rosso; ma un povero diavolo che non ci aveva che far niente, capitò per caso e mise il piede sulla riga. Si prese a vista una coltellata, che non l'ammazzò per fortuna e guarí in un mese; mentre il sor Peppe svicolò fra la gente, e rimase fuggitivo qualche quindici giorni; quando poi l'altro si trovò in via di guarire, ottenne per mezzo delle donne di casa il suo consenso - sarà anche corso qualche scudo, - ritornò in paese a far la vita solita, e fu conto saldato. È anche un bell'uso codesto, non è egli vero? Basta trovar modo d'ottenere il consenso della parte offesa, e non c'è piú niente da spartire colla giustizia. E questo consenso s'avesse sempre almeno colle buone e con un compenso! Ma spesso s'ottiene per timore di peggio! I Marinesi, dunque, hanno una pessima riputazione, e ciò non solo in campagna; ma stanno scritti coll'inchiostro piú nero, sulla nerissima pagina del libro nero al palazzo del Buon Governo in Roma - nome rimastogli forse perché v'abitò, Dio sa in che secolo, qualche antico inquilino di questo nome; ma nessuno se ne ricorda. Ogni volta che il comune di Marino manda a Roma una deputazione onde ottenere un favore qualunque, i poveri ambasciatori son certi sempre d'esser ricevuti nel suddetto palazzo come i cani in chiesa; e l'assessore battendo sulla pagina fatale del fatalissimo libro, li accoglie costantemente con questa apostrofe: - Ah! ah! siete qui! carne cattiva di Marino!... - e gli altri hanno un bel moltiplicare eccellenze d inchini, tutto inutile: - Sí! sí! sappiamo!... vi conosciamo!... - e il piú delle volte se ne tornano colle trombe nel sacco. Ma ora che s'è detto il male, diciamo anche il bene. In Marino, in tanto tempo che l'ho abitato, non fu rubato mai un baccello o un grappolo da gente del paese. E le dame e damigelle di Marino avrebbero potuto dar undici punti su dodici a Lucrezia, alla madre de' Gracchi, e a tutto il bel sesso di Sparta. È anche vero che il Marinese non scherza - articolo donne - ma siccome a questo mondo il sistema offensivo prima o poi prende sempre il sopravvento al difensivo, e che chi vuole farla la fa, se non è oggi è domani, cosí bisogna lasciare alle donne di Marino la maggior parte del merito. Onore alle belle Marinesi! e sono belle davvero. Ora entriamo, e se l'oriolo della chiesa va bene e che manchi soltanto un quarto a mezzogiorno, dovrebbe star poco il sor Checco che torna dalle cave per pranzo. Ci troviamo intanto in una sala terrena, su un pavimento di lastre scalpellate come nelle rimesse. Vediamo su' muri pitture non delle peggio rappresentanti soggetti classici; e fra gli altri la famosa battaglia del sacerdote di Diana che difende bravamente con tanto di coltello in mano la sua parrocchiale. Questa sala, della quale benedico ancora il fresco che ci trovai cento volte tornando trafelato da lavorare sull'ore bruciate: sala da pranzo, da lavoro, da ballo, da consiglio; sala dove era il deposito de' miei attrezzi, de' cappelli, de' bastoni, delle vanghe, degli schioppi ad uso di tutti noi, mostrava che sotto un altro padrone aveva accolto una società molto piú distinta della nostra. V'era, oltre la pittura, qualche scaffale, qualche seggiola, qualche tavola che doveva aver fatto parte d'una mobilia assai piú elegante di quella che si usa comunemente da contadini. Era evidente che l'antico padrone dovesse appartenere alla classe di signori. Come mai una simile abitazione poteva ora essere proprietà del sor Checco Tozzi? Non per far misteri, che non è il mio genere, ma proprio in tutta coscienza, debbo confessare che mi è impossibile di rispondere con precisione a questa domanda. Me la son fatta a me stesso cento volte mentre abitai Marino, l'ho fatta a molti Marinesi, la feci ad esteri, la feci agli echi delle rupi, ed alle ninfe de' boschi. Tutto inutile: tutti muti ugualmente. Del signor Checco Tozzi non si sa, se non quello che vuol egli far sapere per sua particolar cortesia, ed è molto poco - non ho detto poca, intendiamoci. Quanto agli altri, ai Marinesi sopratutto - stanno al machiavellico proverbio - Parum de Dea, nihil de... hecco Tozzi. Dunque diremo che egli, secondo la lettera dell'assioma legale possideo quia possideo, ossedeva questa casa e vi manteneva il governo del despotismo illuminato e non tirannico di chi sa che la propria autorità è accettata senza la minima velleità di ribellione. Se non posso informare il lettore delle origini prime del sor Checco per l'ottima ragione che le ignoro, posso però dargli, senza assumerne la responsabilità, le voci che molto riservatamente, e molto raramente qualche persona mi ripeté all'orecchio. Il sor Checco non era sempre stato agiato a quel modo; aveva dovuto lavorar di braccia quand'era giovane - stava fra 50 e 55 anni - difatti senza bisogno preciso, ma pure per non lasciare di guadagnarsi qualche soldo, ed anche per un lungo abito d'attività, quando non c'era da far nulla intorno alle viti, all'ulive, al fieno, o che so io, andava alle cave di travertino, vi guadagnava la sua giornata, e a vedere come tirava via col mazzuolo di piombo, a guardargli quelle braccia asciutte, ma tutte nerbo e cotte dal sole, si capiva bene che non sempre aveva fatto lo scarpellino per pura passione a quel dilettevole esercizio. Si parlava poi di un certo imbroglio dei tempi de' Francesi - e qui i racconti diventavano scuri come in gola al lupo - d'una certa assenza di pochi giorni a' tempi di repubblica: non mi ricordo ora se quando Championnet andava verso Napoli, o quando Ferdinando veniva verso Roma. Tornato da questo viaggio di diporto, pare che, con una transizione discretamente rapida, il volto della dea Fortuna, che fino allora s'era mostrato al sor Checco d'un mal umore diabolico, si mutasse a un tratto nel bocchino ridente d'un'innamorata. S'eran veduti scappar fuori come per incanto, ora un pezzo di vigna, ora un campicello, e poi una casetta, e poi un tinello o una cantina e simili, che venivano aumentando l'asse attivo del sor Checco. V'era memoria d'una certa moglie; ma la storia taceva completamente sui tre punti: nascita, vita e morte. Siccome però viveva in casa una sora Maria che aveva dieci anni almeno piú del sor Checco, e che egli, e tutto il paese, riconoscevano qual moglie legittima, è da credersi che se questa era piú vecchia, la prima moglie fosse stata piú giovane del marito. La titolare attuale però - sempre si diceva - era ricca ed aveva portato buone vigne in dote al sor Checco. La sora Maria - povera donna! - lavorava sempre, taceva quasi sempre, e non rideva mai, era zoppa: e qui la cronaca si imbruniva. Si parlava di un certo capitombolo per le scale di casa, al quale il sor Checco non doveva esser stato estraneo interamente. Io però, per esser giusto, debbo dire che se non l'ho veduto mai farle gran finezze, neppure la vidi mai battere e maltrattare, come accade assai bene fra que' contadini. Qualche volta, è vero, a pranzo - avevamo certi tovaglioli che a metterli ritti ci stavano come fossero di cartone - il sor Checco dava il tovagliolo sul naso alla sora Maria, ma non ci si vedeva collera, era piuttosto una forma di memorandum, er richiamar viva la memoria di ordini ed ingiunzioni date una volta per sempre. Difatti questo fatto personale non turbava punto la serenità de' convitati, e la conversazione seguitava come prima. Per andar innanzi nella rassegna della famiglia - a suo tempo ci avrò il mio posto anch'io all'articolo ospiti - viene ora una zia, sorella della sora Maria, piú vecchia di lei, piccina, nera, tutta grinze, vittima di tutti in casa, e perciò oggetto della mia particolare protezione - che mi rimeritava è vero con una tenerezza piú che materna. Zia Anna anch'essa pare che avesse del suo in altri tempi: ma doveva averne fatto donazione al sor Checco, o vitalizio che fosse, coll'onere d'esser alloggiata, spesata, calzata e vestita. Non posso dire che il sor Checco violasse il patto. Ma certo, povera zi' Anna, ancora mi fa compassione se penso alle tribolazioni che passava. La vecchia, per esempio, amava un bicchier di buon vino; e forse cogli anni ne sentiva il bisogno. Ma era mai muso di riuscire a mandarne giú uno a pranzo o cena? Mai. Il sor Checco se la teneva accanto; appena a sedere, gli empiva il bicchier d'acqua e poi una lagrima di vino. E non l'aveva ancora finito di vuotare che glielo riempiva, dicendo: - Bevi! Lei poverina nel suo dialetto rispondeva: - Ma mo' propio so' beto! Le ho viste cader le lacrime persino, povera zi' Anna! Inutile. L'inesorabile sor Checco non diede vacanza un giorno a questo piacevole scherzo. Undici mesi passai a Marino; undici mesi durò né piú né meno. Io però ci provvedevo, e il vino che beveva senz'acqua lo deve a me. Questi erano i vecchi di casa. Passiamo ora ai giovani. La sora Nina, figlia del secondo letto del sor Checco e sua unica erede, era l'anello vivente che in casa Tozzi congiungeva la classe de' contadini in camiciola a quella de' cittadini in vestito a falde. Mentre le due vecchie portavano il pittoresco vestiario del paese: rete nera o verde-scuro in capo, come i briganti nell'Ernani, collo spadino d'argento di soprappiú; busto rosso e sottana turchina; la sora Nina vestiva invece un abito che ad enorme distanza e con qualche infedeltà, è vero, ma seguitava pure il figurino del Journal des Modes i Parigi. Non ho mai veduto, dopo che sono al mondo, essere piú apatico della sora Nina. Meglio assai a lei che non al Iustum et tenacem propositi virum 'Orazio, si sarebbe applicato il famoso impavidum ferient ruinae; osse cascato il mondo non v'era certo da sperare che desse segno di non esser un pezzo di legno. Io credo quasi che di dentro lo fosse! Ho visto star male gente di casa, starle male padre, o madre, o marito: star lei per morire, vivaddio! ma non ho avuta mai la consolazione di veder quel suo viso, color delle lasagne, alterarsi un momento od avere un minuto diverso dall'altro. Beata la sora Nina; se è ancora al mondo non c'è paura che n'esca per patema d'animo! Questa patata sotto forma umana aveva però avuta l'abilità d'ispirare al cuore del sor Checco tutta la tenerezza della quale era capace. Conseguenza di tal passione era stata il volerle procurare la promozione da contadina a signora. Forse v'entrava un po' d'ambizione. Se cosí è, non potremmo però darle la taccia che si dà a tutte le ambizioni, e dirla insaziabile: conoscendo il marito che le aveva fatto venir da Roma, e che teneva in casa. Si doveva invece classificarla fra le piú saziabili. Il sor Virginio Maldura era questo fortunato mortale, nipote, se non isbaglio, di un tal Maldura mezzo pittore, mezzo ristauratore e negoziante di quadri antichi che abitava da piazza Barberini. Pare che al signor Virginio, scapolo, non fosse riuscito mai trovare sulle sette colline o nelle loro rispettive quattordici valli, una posizione od occupazione od impiego che gli promettesse regolarmente ogni giorno, secondo il piú ardente de' suoi desideri, pranzo, colazione e cena; ed avesse aspetto di voler essere di parola. Ignoro completamente la storia degli amori del signor Virginio e della signora Nina, che, riguardo a questa specialmente, dové abbondare, se non d'emozioni e di palpiti, certo di circostanze curiose. Fatto sta che il sor Checco fu contento che si formasse il dolce nodo, a patto che il genero venisse a prendere in casa sua la naturalizzazione. La piccola, però, non la grande - non quella che in altri paesi, ove la sanno lunga - investe sola de' diritti politici. Ed il signor Virginio, cui bastavano i diritti civili, essendo sua passion dominante, come dicevo, vedere stabilito su inconcusse basi il grande affare della sua nutrizione, senza obbligo d'alzarsi troppo presto la mattina; prestò giuramento al governo del sor Checco, e non è a mia notizia che l'abbia infranto mai. Del resto era un buonissimo diavolo, con qualche coltura, amava leggere, e de' pochi libri che avevo gliene prestavo sempre qualcuno. La domenica compariva in vestito bleu, bottoni di metallo, per esser in armonia, andando alla messa, col gran cappello a penne della sora Nina. Fra settimana vestiva come noi, cioé come il sor Checco ed io: fedeli sempre alla camiciola di velluto. Il sor Checco, capivo, che nel suo interno mi stimava molto per questo mio disprezzo delle grandezze umane. Ed invece per quanto fosse stata sua volontà e suo desiderio di avere per genero un Romano in falde, capivo altrettanto che quel vestito bleu, coi bottoni d'oro, aveva il dono di muovergli la bile; tanto piú stizzosa quanto meno la voleva mostrare. - 'Sti paini! veniva dicendo talvolta, cosí da sé, e non sempre a proposito, ma alla sbadata, guardando per aria. Non trovava però modo di dar seguito all'esclamazione, perché non ci fu esempio mai che il signor Virginio volesse accorgersi che si trattava della sua persona. Una volta anzi dovetti io prender le sue difese. Eravamo a pranzo; da un gran pezzo non aveva piovuto, e un bel campo di carciofi, accanto a casa, se n'andava per l'alidore. Principia a tonare. Corre sull'uscio il sor Checco; da un'occhiata al cielo, e grida: - Piove a momenti: a' carciofi, ragazzi- euna lestezza! Bisogna sapere che si trattava di passare tutto il campicello, e piede per piede colla zappa, che per questo è tagliente abbastanza, recidere i gambi appassiti affinché coll'acqua la pianta potesse ricicciare al pedale. Saltiamo sulle zappe, ed eccoci tutti e tre all'assalto de' carciofi. Io ero piú forte del signor Virginio, e perciò lavoravo piú svelto di lui, che ci andava colla sua solita fiaccona. Colla coda dell'occhio mi accorgevo che nell'animo del sor Checco io ad ogni colpo di zappa salivo un gradino, mentre il sor Virginio ne scendeva due. Finalmente scoppia la bomba: - Ah paini!... e qui gli aggettivi piú sonori, ma altrettanto piú inesprimibili col mezzo della stampa, che abbia udito dacché odo aggettivi. La parola paini, ol suo plurale, pizzicava anche me, e mi pareva pure di menar la zappa con una rapidità degna de' piú grandi encomi. Mi fermai appoggiato sul manico, come un antico Romano (non occorre nominar il solito Cincinnato), e dissi serio: - Parlate bene, sor Checco! - e lui che trattava con me da potenza a potenza ed appunto per non compromettere quest'invidiabile posizione avevo subito voluto rispondere - mi disse borbottando: - Non dico a voi. - Ma tuttavia neppur al sor Virginio non aggiunse altri aggettivi, e la cosa finí bene per tutti, salvo per i carciofi: che il temporale svaní, ed andaron perduti. E passiamo innanzi nella rassegna. Dopo il signor Virginio rimane per ultimo a nominarsi un suo fratello piú giovane, che venne, mentr'ero in casa, a porsi fra i sudditi del sor Checco. Il signor Mario Maldura era un ragazzaccio di diciassett'anni, buono a poco, che però aveva saputo riuscire ad ottenere dal sor Checco - senza l'onere della sora Nina - quegli stessi emolumenti che pagava cosí caro il fratello. Viveva perciò in casa senza far nulla - tendenza gentilizia in casa Maldura. S'alzava tardi, diceva sciocchezze, non poteva pronunziare quattro o cinque lettere dell'alfabeto, era fratello della Coroncina - confraternita della quale era priore e basso profondo il sor Checco, mentre il sor Mario n'era postulante e contralto. Vestiva anfibio fra signore e villano; portava però la domenica la rosa sull'orecchio, e faceva all'amore colla figlia d'un contadino che viveva sul suo, e che non lo poteva patire. Difatti d'entrargli in casa non se ne discorreva, ed il sor Mario avrebbe, credo, piú volentieri messa la mano nella buca del porcospino. Ma siccome Titta de Santo, padre della ragazza, era una specie di variante del sor Checco, anche per passar sotto la finestra usava un'infinità di riguardi e diplomazie. Malgrado tutto il riguardo però, siccome non v'è buona diplomazia che una volta o l'altra non inciampi, anche quella del sor Mario trovò lo scoglio che la mandò a picco. Ed ecco come. Vi è l'uso in quelle parti che ogni castello abbia una banda o musica sua propria composta di dilettanti del paese - lo so io pur troppo che avevo nella casa dirimpetto il pretendente al posto di clarinetto. Dio forse gli perdonerà. Io mai! - Questa musica è guidata da un capo che si fa venir di fuori, e si paga assai bene. Nell'uniforme poi si sbizzarrisce la fantasia dei contadini influenti in comunità. Colori, tracolle, penne, cordoni, che compongono un insieme ove c'è del maresciallo di Francia, dell'Etman de' Cosacchi, del guardaportone e del guardia nobile di Sua Santità. Questa banda suona in paese, suona fuor di paese, va alle feste del Santo dei paesetti vicini, va a ricevere il curato che prende possesso, il vescovo in visita della diocesi, il nuovo gonfaloniere che entra in carica; è indifferente a sonare al sole, come alla pioggia e al freddo, per ore e ore; suona il giorno, suona la notte, non istuona piú del solito per quanti mortaletti le si sparino nell'orecchio, suona ai mortori come ai battesimi de' primi del paese, suona ai sposalizi come alle vestizioni, alle prime messe, ec., insomma purché le si dia da bere non le par vero di trovar occasione di mostrare la sua abilità ed il suo magnifico uniforme. Era una festa in Marino; e la banda di non so qual castello, venuta la mattina, aveva suonata messa cantata, i vespri, accompagnata la processione, e passata finalmente la sera all'osteria, trattata splendidamente dalla munificenza dei Marinesi. Pare che nell'idee del sor Mario Maldura s'operasse quella sera un gran fermento e che n'uscisse questo ragionamento: ?Io non m'azzardo passar sotto le finestre di Nanna, perché se son solo e che Padron Titta mi veda, è capace... ma se invece sarò bene accompagnato... allora s'avrebbe a discorrere?. Conseguenza di queste saggie riflessioni fu di proporre alla banda di far una serenata alla Nanna e la banda acconsentí. Dato ognuno di mano al suo istrumento, il sor Mario primo e gli altri appresso, si avviarono verso l'adorate mura collocate in una viuzza laterale di Marino vecchio. Quando il duce della compagnia giunse però a quaranta passi dall'uscio di de Santo, o fosse pudore d'innamorato, ovvero l'imponente memoria delle gloriose gesta di Padron Titta in quanto a menar le mani, fatto si è che non osò andar piú oltre. Dispose come Almaviva i suoi istrumenti; il clarinetto del capobanda diede il suo pipiripí i prova, poi egli col dito uno in levare, via!... Scoppio generale e fuoco su tutta la linea. Era passata la mezzanotte, ed in quelle casuccie piene d'addormentati fu come la tromba finale, e svegliò grandi e piccini. Se Padron Titta ne fosse piacevolmente sorpreso, è facile immaginarlo! Lo so io, e me ne ricordo bene, quand'ero di moda, e che mi facevano le dimostrazioni, che diletto sul primo sonno un Se tu dormi svegliati seguito dalla gran cassa, i campanelli, i piatti e l'ottavino! Io non ci trovavo rimedio, e subivo la mia condanna; ma sapete che rimedio pronto quanto infallibile trovò la feconda immaginazione di Padron Titta ?per aver pace da' nemici sui?? Prese lo schioppo carico a veccioni (quattro fanno la palla d'una oncia) che aveva a capo al letto, aprí la finestra, e giú una grande archibugiata in mezzo alla banda, chi piglia piglia!!!... Vi lascio immaginare che razza di bemolle in chiave n'uscí! che razza di scompiglio, di buscherio, di sottosopra, di sconfitta generale; e quando si dice!... proprio il Signore è misericordioso de' matti; di questo colpo che poteva metter per terra mezza dozzina di persone non ne nacque se non due ferite leggiere: una in una spalla e l'altra non mi ricordo dove, ma cose da nulla. In un momento fu in piedi tutta la via, ogni uscio, ogni finestra s'aprí; in un attimo si fece un mercato, e un monte di discorsi e racconti e ingiurie e imprecazioni, e anche risate - che alla fine non era morto nessuno - i feriti andaron pel medico, del sor Mario non se ne seppe piú nova, ma dell'amore guarí radicalmente; la musica se n'andò pe' fatti suoi, l'idea però d'andar a saper notizie di Padron Titta, e domandargli se gli pareva sentirsi meglio non venne in mente a nessuno. Dopo un poco bensí comparvero i tre giandarmi della stazione - molto spinosa - di Marino, e, non con un grandissimo gusto probabilmente, andaron essi a far visita a Padron Titta. Credete che era fuggito voi altri! Sí, proprio! Era a letto, felice, e si stupiva molto di vedersi i giandarmi in casa, e non sapeva nulla né di musica, né d'archibugiata: dormiva, lui; e siccome aveva il sonno grave non s'era accorto di niente. Ma non si può sempre aver l'occhio e la mente a tutto. Padron Titta non si ricordò in quel momento che aveva tranquillamente rimesso il suo schioppo accanto al letto al luogo solito. I giandarmi però gliene fecero memoria, domandandogli la spiegazione fisica del fenomeno che presentava quell'arma. La canna calda ed il focone nero che tingeva le dita. Questa spiegazione non la seppe trovare su due piedi, Padron Titta, e ci volle flemma; alzarsi, vestirsi e andar in prigione. Però l'indomani stesso ebbe al solito il consenso de' feriti; la serenata costò bensí qualche scudo a lui piú che al sor Mario, ma non passarono ventiquattr'ore che già le cose eran quietate interamente, tutto il mondo in pace e l'ordine regnava a Marino. E qui si farà punto per oggi, e stiamo a vedere se mi trovano divertente. In caso del sí, i tira innanzi, e farò di tutto per mandare il sor Checco Tozzi alla posterità. In caso del no, vrà la bontà di contentarsi della fama ch'ebbe in vita, si prende congedo da' benigni lettori, e resteremo amici come prima.

CENERE

663040
Deledda, Grazia 1 occorrenze

Margherita non può abbassarsi a me; ma finché non avrò compiuto la mia missione ho bisogno di lei come di un faro. Dopo posso morire contento.» E non pensava che la sua missione poteva prolungarsi indeterminatamente e senza esito; e l'idea che rinunziando alla sua missione avrebbe potuto sperare nell'amore di Margherita gli sembrava mostruosa. Il pensiero di ritrovare sua madre cresceva e si sviluppava con lui, palpitava col suo cuore, vibrava coi suoi nervi, scorreva col suo sangue; solo la morte poteva sradicarlo, questo pensiero, ed appunto alla morte di sua madre egli pensava quando desiderava che il loro incontro non si avverasse; ma anche questa soluzione, o il desiderio di questa soluzione, gli sembrava una grande viltà. Più tardi egli si domandò se era stata la sua natura sentimentale a creargli il pensiero della sua missione, o se questo pensiero aveva formato la sua natura sentimentale: ma alla vigilia della sua partenza egli accettava ancora le sue sensazioni ed i suoi sentimenti senza analizzarli; ed accettandoli così, come da bambino, non faceva che meglio radicarli nella sua anima e nella sua carne, in modo che nessuna logica e nessun ragionamento cosciente avrebbero poi potuto strapparglieli. Passò una notte febbrile. Ah, era già lontano il tempo quando egli si contentava di veder Margherita nei piccoli viali dell'orto, senza badare al colore dei suoi capelli e alla forma del suo busto. Allora egli sognava cose fantastiche, rapimenti, incontri, fughe in luoghi misteriosi, magari nelle bianche pianure della luna; ma se gli avessero dato la notizia delle nozze di lei non avrebbe sofferto. Una volta aveva progettato di convincerla a seguirlo su una montagna; là si avvelenavano, d'un veleno che non deformava i cadaveri; si stendevano sulle roccie, fra l'edera ed i fiori, e morivano assieme: ed in questo sogno non s'era delineato neppure il desiderio di un bacio o di una stretta di mano. Ma dopo era venuto il sogno idilliaco della fontana di Fonni, il bacio, l'abbandono di Margherita; e durante la sera della rappresentazione, il profumo dei capelli di lei, lo splendore dei suoi occhi, il calore che pareva emanasse dalla sua persona fiorente gli avevano dato ebbrezze ineffabili. Ed ora soffriva al pensiero che ella potesse diventare d'altri; e nel sonno febbrile si affannava, sognando, a scriverle una lettera disperata, alla quale univa un sonetto, uno dei molti sonetti dialettali che egli aveva già composto per lei. Si svegliò, s'alzò ed aprì la finestra. L'alba gli parve vicina; il cielo era limpido, sopra una guglia nera dell'Orthobene tremolava una stella rossastra, simile ad una fiammella su un candelabro di pietra; i galli cantavano, rispondendosi l'un l'altro con una gara di gridi rauchi, e parevano indispettiti reciprocamente di ciò che gridavano e tutti contro la luce che non arrivava. Anania guardava il cielo e sbadigliava: ad un tratto un brivido di freddo lo investì dai piedi alla testa. Oh, Dio, che accadeva in lui? Gli pareva che qualche cosa volesse staccarglisi dall'anima, restare sotto quel cielo, davanti al monte selvaggio le cui creste servivano da candelabri alle stelle. Come il viandante oppresso da un carico troppo grave vuol liberarsene in parte onde poter continuare la sua strada, così egli sentiva il bisogno di lasciare un po' del suo segreto a Margherita. Chiuse la finestra e sedette davanti al tavolino, tremando e sbadigliando. «Che freddo!», disse a voce alta. Il sonetto che egli voleva mandare a Margherita era già copiato a stampatello, su un foglio di carta rosea rigata traversalmente di viola: eccone la traduzione in prosa: «Una bellissima margherita cresceva in un verde prato. Tutti i fiori l'ammiravano, ma specialmente un ranuncolo pallido ed umile, cresciutole accanto, moriva di amore per lei. Ed ecco, in una splendida giornata di primavera, una bellissima fanciulla andava a passeggiare nel prato, coglieva la margherita, la baciava, la poneva sul morbido seno, mentre senza avvedersene schiacciava l'infelice ranuncolo che, d'altronde, privato dell'adorata vicina, si sentiva beato di morire». Rileggendo i versi il poeta provò una tristezza dispettosa; vedeva, al posto della simbolica fanciulla, un capitano dei carabinieri dai baffi provocanti; ripiegò il foglio, ma restò a lungo indeciso se doveva chiuderlo o no nella busta. Che avrebbe pensato Margherita? Avrebbe ricevuto lei il sonetto? Sì, perché quando il postino batteva al portone tre colpi terribili che parevano picchiati dalla ferrea mano del destino, Margherita correva lei a ricever la posta. Bisognava però che ella fosse in casa nelle ore in cui passava il postino, cioè verso mezzogiorno ed a sera. A mezzogiorno ella certamente era in casa; occorreva dunque impostar subito il sonetto. Un'agitazione febbrile invase Anania; senza esitare oltre uscì e camminò come un sonnambulo per le straducole buie e deserte. Dietro i muri dei cortili, nelle rozze tettoie delle case paesane, i galli continuavano i loro canti dispettosi; l'aria umida odorava di stoppia; una povera infornatrice di pane d'orzo, che tornava dal compiere il suo faticoso mestiere, attraversò una viuzza; il passo di due alti carabinieri risuonò sinistramente sul lastrico del Corso: poi più nessuno, più nulla. Anania rasentava i muri, pauroso d'esser riconosciuto nonostante il buio, e appena impostata la lettera si mise a correre. Ma non poté rientrare in casa; gli pareva di soffocare, aveva bisogno d'aria, di immensità. Scese verso lo stradale di Orosei, risalì il ciglione, e solo quando si trovò ai piedi dell'Orthobene respirò, aprendo le narici come un puledro sfuggito al laccio. Avrebbe voluto gridare di gioia e di spasimo. Albeggiava; tenui veli azzurrognoli coprivano le grandi valli umide, le ultime stelle svanivano. Non sapeva perché, Anania ripeteva i versi: Care stelle dell'Orsa, io non credea ... e cercava di ricacciare da sé il pensiero di ciò che aveva fatto, mentre se ne sentiva felice fino allo spasimo. Prese a salire l'Orthobene, strappando fronde, ciuffi d'erba, lanciando pietre e ridendo; pareva pazzo. I cespugli odoravano, il cielo dietro l'enorme scoglio cerulo di monte Albo diventava in color di ciclamino; Anania si fermò su una roccia, guardò l'immensa chiostra azzurra delle montagne lontane battute dal riflesso delicato dell'aurora, e ridiventò pensieroso. Addio! Domani egli sarebbe al di là delle montagne, e Margherita penserebbe invano all'ignoto ranuncolo che l'amava e che era lui. Ed ecco, una cinzia cantò nel suo nido selvaggio, nel cuore d'un elce, e nella sua nota tremolò tutta la poesia del luogo solitario; Anania ricordò allora il canto di un altro uccellino entro l'umido fogliame d'un castagno, in una lontana mattina d'autunno, lassù, lassù, in una di quelle montagne dell'orizzonte, e rivide un bimbo che scendeva lieto la china, ignaro del proprio triste destino. «Anche adesso», pensò rattristandosi, «anche adesso sono lieto di partire, e chissà invece che cosa mi aspetta!» Rientrò a casa pallido e triste. «Ma dove sei stato, galanu meu? Perche sei uscito prima dell'alba?», chiese zia Tatàna. «Datemi il caffè!», diss'egli, aspro. «Ecco il caffè, ma che cosa hai, cuoricino amato? Sei pallido; rimettiti, riprendi colore prima di recarti dal padrino. Come? Scuoti il capo? Non andrai stamattina dal padrino? Cosa guardi? C'è qualche formica nel caffè?» Egli guardava fisso la piccola scodella rossa filettata d'oro, che serviva esclusivamente per lui: addio piccola scodella; ancora domani e poi addio. Le lagrime gli salivano agli occhi. «Andrò più tardi dal padrino; ora finisco di preparare la roba», disse piano piano, come parlando alla scodella. «E se non ci rivedessimo più?», chiese poi alla donna. «S'io dovessi morire prima del ritorno? E forse sarebbe meglio ... Perché dobbiamo vivere a lungo? Giacché si deve morire è meglio morir presto.» Zia Tatàna lo guardò; fece un segno di croce per aria, e disse: «Tu hai fatto cattivi sogni, stanotte? Perché parli così, agnellino senza lana? Ti fa male il capo?». «Voi non capite niente!», proruppe egli, balzando in piedi. Entrò nella sua cameretta e cominciò a riporre in una piccola valigia i libri e gli oggetti più cari; e di tanto in tanto volgeva gli occhi alla finestra aperta, nel cui sfondo si scorgeva un lembo di cielo autunnale che pareva una tela graziosamente dipinta: una pianura bianchiccia con un laghetto azzurro. Che avrebbe egli veduto dalla finestra della cameretta che l'aspettava a Cagliari? Il mare? Il mare vero, le lontananze infinite dell'acqua azzurra sotto le infinite lontananze del cielo azzurro? Tutto quell'azzurro, veduto e desiderato, lo rasserenò: si pentì d'aver contristato zia Tatàna, ma che poteva farci? Sì, egli sentiva d'essere ingrato, ma i nervi son nervi e non si può loro comandare. Però egli non vuole essere completamente ingrato, no! Lascia la valigia, i libri, le scatole, si precipita in cucina, dove la buona donna scopa con aria tra melanconica e filosofica, forse pensando alle parole funebri dell'«agnellino senza lana», le va sopra, stringe lei e la scopa in uno stesso abbraccio, e le trascina in un giro vorticoso di ballo. «Ah, cattiva lana, che cosa c'è?», grida la vecchia, palpitando di gioia; ma sul più bello Anania scappa, correndo e imitando lo sbuffare del treno. Chiusa la valigia egli andò a congedarsi dai vicini di casa, cominciando da Maestro Pane. La bottega del vecchio falegname, di solito piena di gente, era deserta, e lo studente dovette attendere alquanto, seduto sullo scalino interno della porta, coi piedi fra gli abbondanti trucioli che coprivano il pavimento. Un leggero soffio di vento entrava per la porta, agitando le grandi ragnatele del tetto, cosparse di fili di segatura. Finalmente Maestro Pane arrivò: indossava una vecchia tunica da soldato, della quale curava molto i bottoni lucidissimi, e sorrise con infantile compiacenza quando Anania gli disse che sembrava un generale. «Ho anche il kepì!», disse con serietà. «Vorrei metterlo, ma i ragazzi ridono. E così tu parti, caro bambino? Dio ti accompagni e ti aiuti. Io non ho niente da regalarti!» «Ma vi pare, Maestro Pane?» «Il cuore non manca, ma il cuore non basta! Ebbene, io ti farò una scrivania quando sarai dottore: ho già il modello, vedi?» Cercò un catalogo di mobili, gelosamente nascosto sotto il banco, e fece vedere allo studente una splendida scrivania a colonnine e trafori. «Ti pare impossibile?», disse, risentito, accorgendosi che Anania sorrideva. «Tu non conosci Maestro Pane! Io non ho mai lavorato mobili preziosi e fini perché non avevo fondi, ma sarei buono ... » «Lo credo, lo credo, Maestro Pà! Ed io, quando sarò dottore e ricco, vi farò eseguire tutti i mobili del mio palazzo ... » «Davvero? e quanti anni ci vorranno ancora?» «Eh, chi lo sa? Dieci, quindici ... » «Troppo! Sarò in cielo, allora, nella bottega di San Giuseppe glorioso» (nonostante lo scherzo si fece devotamente il segno della croce). «E, dimmi», riprese, fissando una pagina del catalogo, «cosa vuol dire mobili al-la-Lui-gi-de-ci- mo-quin-to?» «Era un re ... », cominciò Anania. «Questo lo so», rispose vivacemente Maestro Pane, con un malizioso sorriso sulla gran bocca sdentata, «era un re al quale piacevano le ragazzine ... » «Maestro Pane», gridò Anania, strabiliato, «come sapete ciò?» Il vecchietto cominciò a ridere, togliendosi la giubba e piegandola accuratamente. «Ebbene», disse, fingendo un ingenuo stupore per non turbare oltre l'innocenza di Anania, «perché siamo ignoranti non dobbiamo saper nulla? A quel re piaceva giocare e divertirsi coi bambini, come alla regina Ester piaceva andar pei campi a cogliere spighe, ed a Vittorio Emanuele zappare l'orto ... » Ma Anania la sapeva più lunga di Maestro Pane, e chiese anche lui con finta ingenuità: «Avete dunque studiato, voi?». «Io? Avrei voluto, ma non ho potuto; fiore mio, non tutti nascono sotto una buona stella come te.» «E dunque, come sapete queste storie?» «Si raccontano, diavolo! La storia della Regina Ester l'ho udita da tua madre, e quella del Re da Pera Sa Gattu ... » Anania andò via inorridito, ricordando una storiella raccontata molti anni prima da Nanna, una sera d'inverno, nel molino delle olive ... Bussò alla porticina chiusa di Nanna, ma il vecchio pazzo, seduto su una pietra, disse che la donna non c'era. «L'aspetto anch'io», aggiunse, «perché Gesù Cristo ieri sera mi disse che ha bisogno d'una serva.» «Dove l'avete incontrato?» «Nel viottolo ... laggiù», indicò il pazzo; «aveva un cappotto lungo e le scarpe rotte. Ebbene, perché tu non mi dai un paio di scarpe vecchie, Anania Atonzu?» «Vi starebbero strette», disse lo studente, guardandosi i piedi. «E perché non vai scalzo, che una palla ti trapassi la milza?», chiese minaccioso il pazzo, corrugando le irte sopracciglia grigie. «Addio», disse Anania, senza rispondere alla minacciosa domanda, «io parto per gli studi.» Gli occhioni azzurri del vecchio presero una espressione maliziosa. «Tu vai ad Iglesias?» «No, a Cagliari.» «Ad Iglesias ci sono i vampiri e le faine. Addio, dunque: toccami la mano. Così, bravo; non aver paura, non ti mangio. E tua madre dove si trova ora?» «Addio, state bene», disse Anania, ritirando la sua piccola mano dalla manaccia dura del pazzo. «Anch'io devo partire», annunziò il vecchio. «Andrò in un luogo dove si mangiano sempre cose buone: fave, lardo, lenticchie, viscere di pecora.» «Buon pro vi faccia!» «Eh!», gridò il pazzo, quando lo studente si fu allontanato. «Bada alle coreggie gialle! E scrivimi.» Anania si congedò dagli altri vicini, ed anche dalla donna mendicante, che lo ricevette in una cameretta discretamente pulita e gli offrì una tazza di buonissimo caffè. «Tu andrai anche da Rebecca?», gli domandò, con invidia, «quella stupida si è data a mendicare, adesso! Non è una vergogna, una ragazza come lei? Diglielo, dunque!» «È piagata! può appena camminare ... » «No, è guarita. Cosa guardi lassù? È una falce da mietitore.» «Perché sta appesa sulla porta?» «Per il vampiro, che quando penetra di notte nella camera si ferma a contare i denti della falce, e siccome non arriva che al sette ricomincia sempre. Così arriva l'alba, e appena vede la luce il vampiro fugge. Tu ridi? Eppure è vero. Che Dio ti benedica», disse poi la mendicante, accompagnandolo fin sulla strada. «Buon viaggio; e fa onore al vicinato.» Anania entrò da Rebecca: ella pareva ancora una bambina, sebbene avesse più di venti anni, livida, calva, accoccolata nel suo buco nero come una fiera malata nella sua tana. Vedendo lo studente arrossì, e tutta tremante gli offrì, su un primitivo vassoio di sughero, un grappolo d'uva nera. «Lo prenda, dunque ... », balbettò. «Non ho altro ... » «E dammi dunque del tu!», esclamò Anania, strappando un acino dal grappolo. «Non ne sono degna! Io non sono Margherita Carboni; sono una povera immondezza!», rispose animandosi la fanciulla. «Lo prenda dunque questo grappolo! È pulito; io non l'ho neppure toccato! Me lo portò zio Pera Sa Gattu.» «Zio Pera?», chiese Anania, ricordando con disgusto la storiella di Maestro Pane. «Sì, poveretto! Egli si ricorda sempre di me, e tutti i giorni mi porta qualche cosa: il mese scorso sono stata malata perché mi si sono riaperte le piaghe, e zio Pera fece venire il medico e portò le medicine. Ah, egli fa per me ciò che farebbe mio padre se ... Ma egli mi ha abbandonata! Basta!» disse poi Rebecca, accorgendosi di aver toccato un tasto doloroso per Anania. «Lei dunque non vuole il grappolo? È pulito, però.» «E dallo qui! Ma dove lo metto? Aspetta: lo avvolgo in questo giornale. Io dunque parto, sai. Vado a Cagliari per gli studi. Arrivederci; sta bene e curati.» «Addio!», diss'ella, con gli occhi pieni di lagrime. «Anch'io vorrei partire!» Anania uscì e vedendo sulla porta della bettola la bella Agata si avvicinò per congedarsi anche da lei. Appena lo scorse, la ragazza cominciò a sorridergli, con gli occhioni lucenti, ed a fargli segni d'addio con la mano. «Tu facevi all'amore con quel mucchietto di marcia!», chiese accennando Rebecca affacciatasi alla porta. «Allontanati, che puzzi orribilmente.» Anania fece un gesto di raccapriccio, pensando istintivamente a Margherita. «Eppure», proseguì l'altra, ridendo e guardandolo languidamente, «essa è gelosa di me. Osserva come guarda! Stupida! Ella pensa sempre a te perché l'ultima notte dell'anno scorso, quando sorteggiammo gli innamorati, il tuo nome venne fuori assieme col suo!» «Lo so, dunque! Finiscila!», diss'egli infastidito. «Io parto domani; addio. Desideri qualche cosa?» «Prendimi con te!», ella propose con ardore. Un pastore, che aveva finito di sorseggiare un calice d'acquavite, uscì dalla bettola e pizzicò la fanciulla. «Sas manos siccas, lepre pelata!», gridò Agata; poi attirò Anania entro la bettola e gli chiese che cosa desiderava bere. «Niente, addio, addio.» Ma Agata gli versò un calice di vino bianco, e mentre egli beveva, ella, appoggiatasi languidamente al banco, guardava fuori e diceva: «Anch'io verrò presto a Cagliari; appena avrò un costume nuovo e i bottoni d'oro per la camicia, verrò a Cagliari e cercherò servizio. Così ci rivedremo ... Oh, diavolo, ecco che viene Antonino; egli mi vuole in isposa ed è molto geloso di te. Ah, gioiello mio, addio, vattene ... ». Dicendo così si gettò su lui con uno slancio felino e lo baciò sulla bocca; poi lo spinse ad uscire, ed egli andò via sbalordito e turbato; e incontrando Antonino capì finalmente perché costui lo guardava con odio. Per qualche minuto camminò senza avvedersi dove andava: gli pareva d'aver baciato Margherita e il desiderio di vederla lo rendeva fremente. «Ah», gridò ad un tratto, trovandosi fra le braccia d'una donna. «Figliuolino del mio cuore», disse Nanna, piangendo comicamente e porgendogli un involtino, «tu dunque parti? Il Signore ti accompagni e ti benedica come benedice la spiga del frumento. Noi ci rivedremo ancora, ma intanto ecco ... non rifiutare, sai, perché io ne morrei di dolore ... » Per impedire la morte di Nanna egli prese l'involtino; poi trasalì sentendo sulla sua guancia qualcosa di viscido e un pestilenziale soffio di acquavite. «Ebbene», balbettò Nanna, dopo averlo baciato, «non ho potuto resistere. Pulisciti la guancia: no, essa non deve restar macchiata pei baci odorosi come garofani, delle fanciulle d'oro che ti raccatteranno come un confetto.» Anania non protestò, ma quel terribile urto con la realtà lo rimise in equilibrio, cancellando la sensazione ardente del bacio d'Agata. Rientrato a casa svolse l'involtino e trovò tredici soldi che cominciò a far risonare fra le mani. «Sei stato dal padrino?», chiese zia Tatàna. «Andrò fra poco, dopo mangiato.» Ma appena mangiato uscì nel cortile e si sdraiò sopra una stuoia, sotto il sambuco. L'aria era tiepida; attraverso i rami Anania vedeva grandi nuvole bianche passare sul cielo turchino; egli guardava e sentiva una dolcezza infinita calare da quelle nuvole; pareva una pioggia di latte tiepido. Ricordi lontani, erranti e cangianti come le nuvole, gli sfioravano la mente, confusi con le impressioni recenti. Ecco, egli rivede il paesaggio melanconico vigilato dai pini sonori, dove suo padre ara la terra per seminare il frumento del padrone. I pini hanno un rombo che pare la voce del mare; il cielo è profondamente e tristemente azzurro. Anania ricorda due versi ... «I suoi occhi sono azzurri, vuoti e profondi come il cielo.» Gli occhi di Margherita? No; egli offende Margherita pensando così; ma intanto è felice di ripetere versi così originali ... «I suoi occhi sono azzurri, profondi e vuoti come il cielo.» Chi passa dietro il pino? Il portalettere dai baffi rossi: una cornacchia, con le ali aperte, batte forte il becco sulla fronte del povero uomo. Dun, dun, dun! Margherita corre ad aprire, prende la lettera rosea a fili verdi, e comincia a volare. Anania vorrebbe seguirla, ma non può: non può muoversi, non può parlare; ecco però il portalettere che si avvicina e lo scuote ... «Sono le tre, figlio mio; quando dunque andrai dal padrino?», chiese zia Tatàna, scuotendolo. Egli balzò in piedi con un occhio chiuso e l'altro aperto, una guancia pallida e rossa l'altra. «Che sonno!», disse stirandosi. «È che stanotte non ho dormito per niente. Ora vado.» Andò a lavarsi, si pettinò, perdette mezz'ora a farsi la scriminatura da una parte, poi nel mezzo, poi a farla scomparire del tutto. Il cuore gli batteva con angoscia. «Che è questo? Che diavolo ho?», pensava, e voleva dominarsi ma non ci riusciva. «Sei ancora lì? quando dunque andrai?», gridò la vecchia dal cortile. Egli si affacciò alla finestra. «Cosa dunque gli dirò!» «Che parti domani; che farai da bravo; che sarai sempre un figlio rispettoso.» «Amen! E lui cosa mi dirà?» «Ti darà dei buoni consigli.» «Non mi parlerà di quella cosa ... » «Di quale cosa?» «Dei denari!», diss'egli, abbassando la voce e portandosi le mani alla bocca. «Oh, benedetto!», rispose la vecchia sollevando le braccia. «Che ci hai da veder tu? Tu non sai nulla!» «E allora vado ... » Ma invece andò da Bustianeddu, poi nell'orto per congedarsi da zio Pera ed anche dai fichi d'India, dai cardi, dal panorama, dall'orizzonte ... Trovò il vecchio sdraiato sull'erba col randello posato anch'esso sull'erba con attitudine di riposo. «Dunque parto zio Pera, addio: state bene e divertitevi!» «Eh?», chiese il vecchio, che diventava sordo e cieco. «Parto!», gridò Anania. «Vado a Cagliari per studiare ... » «Il mare? Sì, a Cagliari c'è il mare. Dio ti accompagni e ti benedica, figlio mio. Il vecchio zio Pera non ha nulla da darti, ma pregherà per te ... » «Avete niente da comandarmi?», chiese Anania, curvandosi, con le mani sulle ginocchia. Il vecchio si sollevò, lo guardò fisso e sorrise: «Che vuoi che ti comandi? Anch'io devo partire!». «Anche voi?», esclamò lo studente, sorridendo per la smania che tutti, anche i vecchi decrepiti, avevano di partire. «Anch'io.» «E per dove, zio Pera?» «Ah, per un paese lontano!», disse il vecchio stendendo la mano verso l'orizzonte. «Per l'Eternità!» Soltanto sul tardi, dopo esser passato e ripassato sotto le finestre di Margherita senza poter scorgere la fanciulla, Anania entrò e chiese del padrino. «Non c'è nessuno in casa. Se attendi rientreranno fra poco», disse la serva con arroganza. «Perché non sei venuto prima?» «Perché faccio quel che mi pare e piace», diss'egli entrando. «È giusto, meglio perdere il tempo con quella schifosa d'Agata che venire a riverire i benefattori.» «Auff!», egli sbuffò, appoggiandosi alla finestra dello studio. Ah, la serva lo umiliava come in quella notte lontana quando egli con Bustianeddu eran venuti per chiedere una scodella di brodo: nulla era cambiato; egli era sempre un servo, un beneficato. Lagrime di rabbia gli inumidirono gli occhi. «Ma io sono un uomo!», pensò. «Posso rinunziare a tutto, lavorare la terra, fare il soldato, ma non esser vile. Ora me ne vado.» E si staccò dalla finestra, ma sfiorando la scrivania già illuminata dalla luna, scorse fra le carte buttate su alla rinfusa una busta rosea a righe verdi. Il sangue gli salì al capo; le orecchie gli arsero, percosse da una vibrazione metallica; incoscientemente si curvò e prese la busta. Sì, era quella, squarciata e vuota. Gli parve di toccare la spoglia di una cosa per lui sacra, ch'era stata violata; ah, tutto, tutto era finito per lui, l'anima sua era vuota e sbranata come quella busta. D'un tratto una viva luce inondò la stanza; egli vide Margherita entrare, ed ebbe appena il tempo di lasciar cadere la busta, ma si accorse che la fanciulla aveva indovinato il suo atto, ed una viva vergogna si unì al suo dolore. «Buona sera», disse Margherita deponendo il lume sulla scrivania, «ti hanno lasciato al buio.» «Buona sera», egli mormorò, deciso a spiegarsi e poi fuggire e non lasciarsi vedere mai più. «Siedi.» Egli la fissava con occhi attoniti; sì, quella era Margherita, ma in quel momento egli la odiava. «Scusa», cominciò a balbettare. «Non l'ho fatto apposta, non sono un vile, io, ma ho veduta quella ... questa busta», la toccò col dito, «e non ho potuto ... L'ho guardata ... » «È tua?» «È mia.» Margherita arrossì e si confuse, mentre Anania, come liberato da un peso, cominciava a distinguere le cose e a ragionare. Il suo orgoglio, offeso dalla vergogna patita, lo consigliava a dire che l'invio del sonetto era stato uno scherzo; ma Margherita, nel suo vestito da passeggio, con la vita stretta da un nastro verde lucente, era così bella e pura che mentire con lei sarebbe stato come mentire con un angelo! Anania avrebbe voluto spegnere il lume e restare al chiaro di luna, solo con lei, e caderle ai piedi, e chiamarla coi più dolci nomi; ma non poteva, non poteva, sebbene s'accorgesse che anche lei sollevava e abbassava gli occhi con delizioso terrore, in attesa del suo grido d'amore. «Ha letto, tuo padre?», egli chiese a bassa voce. «Sì, ha letto; e rideva», ella rispose, commossa. «Rideva?» «Sì, rideva. Alla fine mi diede il foglio e disse: "Chi diavolo sarà?".» «E tu? E tu?» «Ed io ... » Essi parlavano piano, ansiosi, già avviluppati dal mistero di una complicità deliziosa; ma improvvisamente Margherita cambiò voce ed aspetto. «Oh, ecco papà. C'è Anania!», esclamò correndo verso l'uscio; e uscì rapidamente, mentre Anania ricadeva nel massimo turbamento. Egli sentì la mano calda e molle del padrino stringere la sua, e vide gli occhi azzurri e la catena d'oro scintillare, ma non ricordò mai precisamente i buoni consigli e le barzellette che il padre di Margherita quella sera gli prodigò. Un dubbio amaro lo tormentava. Aveva o no capito Margherita il vero significato del sonetto? E che ne pensava? Ella non aveva detto nulla a proposito, nei preziosi istanti che egli s'era così stupidamente lasciato sfuggire. L'aspetto turbato di lei non gli bastava; no; ed egli voleva sapere di più, voleva sapere tutto ... «Che cosa?», si domandò con tristezza. Niente. Era tutto inutile. Anche se ella aveva capito, anche se ella gli voleva bene ... Ma questa era una stupidaggine. Eppoi tutto era inutile! Un vuoto immenso lo circondava, e in questo vuoto la voce del signor Carboni si perdeva senza essere ascoltata, come in un abisso deserto. «Sta lieto e non pensare ad altro che a studiare!», concluse il padrino, vedendo che Anania sospirava. «Allegro dunque! Sii uomo e fatti onore!» Margherita rientrò accompagnata dalla madre, che prodigò allo studente la sua parte di consigli e d'incoraggiamenti. La fanciulla andava e veniva per la stanza; s'era ravviata i capelli in modo civettuolo, lasciando un ciuffetto sulla tempia sinistra, e, quel che più importa, s'era incipriata. I suoi occhi scintillavano; era bellissima, ed Anania la seguiva con uno sguardo delirante, ripensando al bacio di Agata. Come attirata dal fascino di quello sguardo, quando egli andò via ella lo seguì e lo accompagnò fino al portone. La luna illuminava il cortile, come in quella sera lontana, quando la visione altera eppur soave di lei aveva destato nel bimbo la coscienza del dovere: anche adesso ella appariva altera e soave, e camminava leggera, con un fruscìo d'ali, pronta a volare: ed Anania credeva ancora di sognare, di vederla sollevarsi davvero e sparire nell'infinito, e di non poterla raggiungere mai più; e il desiderio di stringerle la vita sottile, cinta dal nastro lucente, gli dava le vertigini. «Non la vedrò più! Cadrò morto appena ella avrà chiuso il portone», pensò, quando giunsero al limite fatale. Margherita tirò il catenaccio, poi si volse e porse la mano allo studente. Era pallidissima. «Addio ... Ti scriverò ... Anania ... » «Addio», egli disse, tremando di gioia; ma invece di andarsene si ritrasse nell'ombra e attirò a sé Margherita. E parve ad entrambi che il contatto delle loro labbra facesse scoppiare qualche cosa di terribile e di grandioso nell'aria, perché, mentre si baciavano perdutamente, sentirono come il rombo e l'ardore e la luce del fulmine.

IN RISAIA

678070
Marchesa Colombi 1 occorrenze

Ma non fece altro che abbassarsi sul volto la pezzuola che aveva in capo, e rimase muta, senza voltarsi, divorando le sue lagrime. Martino fece spalluccie ed uscí nel cortile borbottando: - Non si sa come pigliarla. Pietro picchiava un piede in terra, e dimenava il capo con dispetto. Ma non disse nulla e continuò a sminuzzare un pezzo di pane col coltello. La mamma s'accostò a Nanna, la prese per un braccio e le disse: - Via, vieni qui; parla. Lo vuoi o non lo vuoi? Nanna strappò con mal garbo il braccio a quella stretta e gridò: - Piuttosto morire, guardate, che pigliarmi un vecchio e fare la matrigna! - Oh senti! - disse finalmente Pietro - Pacifico non è punto vecchio. Ha trentasei anni, e tu ne hai ventisette. I signori si sposano sempre cosí; il marito piú vecchio della moglie, magari di dieci anni. E poi Pacifico è un brav'uomo. Cosa vuoi trovare di meglio? È quello che ti conviene. - Sí eh? Conviene a voi altri perché se sposo un vedovo il letto lo ha lui, e non avete da rifarmelo. Ebbene, a me non conviene niente affatto. - E fa come ti pare. Ma ricordati ch'io non voglio star senza moglie pei tuoi capricci. Ora lo sposo l'avresti. Se non lo vuoi, peggio per te. - Sicuro - entrò a dire Martino - Pietro ha ragione. Di casa non ti si manda via. Ma non posso impedire che tuo fratello si faccia una famiglia. Se Pacifico non ti piace, non lo sposare; però, se non andrai d'accordo colla cognata non venirti poi a lagnare. Sarai stata tu a voler rimanere in casa. - Io non starò in casa. Andrò a fare la serva a Novara. - Questo poi no - ribatté Martino con un'energia tutta nuova in lui. - Di casa mia nessuno è mai andato a servire. Può darsi che tu trovi ancora da maritarti; e se troverai, il letto si farà; quello che è giusto è giusto. Altrimenti lavorerai in casa e fuori, ma a servire in città, dove ci sono servitori, soldati, bottegai, tutti sfaccendati che insidiano le ragazze, signora no; non si deve andare. Nanna non era donna da prendere una risoluzione da sé. Tenne il broncio per parecchi giorni, e rimase piú cupa di prima. Ma stette in casa. Ed il matrimonio di Pietro si concluse; Martino andò con Pacifico a Cerano a domandare la mano di Rosetta. Poi i due sposi coi babbi andarono a Novara a comperar l'oro. Maddalena fece imbiancare la stanza accanto alla sua, dissopra alla cameretta di Nanna ed al forno, lavò il pavimento e dispose tutto per ricevere il letto e la cassa della sposa. Nanna disse ai parenti che voleva andare alla mietitura del riso per non esser presente alle nozze. La mamma capí l'umiliazione che avrebbe patita; se ne discusse a lungo in famiglia e, contro tutte le regole, si stabilí di fare il matrimonio in quell'epoca di grandi lavori, per risparmiare un disgusto alla figliola disgraziata. E Nanna partí tanto piú volentieri, perché Pacifico, durante quegli apparecchi d'un matrimonio combinato da lui, era sempre in casa, ed essa l'aveva preso in uggia dopo la sua proposta; non poteva perdonargli d'averla chiamata una donna matura e punto bella; e non gli parlava piú affatto. Sul finire della mietitura Gaudenzio, dovendo passare presso la risaia dove lavorava Nanna, s'incaricò di portarle qualche provvigione e gli sponsali che le mandava Maddalena. - Quello è un bocconcin di sposa che ha portato a casa vostro fratello - le disse. - Bella come un fiore, forte come una colonna, vispa come un'allodola. Il cuore di Nanna era tutto fiele per quella cognata. Si abbandonò a pensare di donne che, dopo il primo parto, avevano perduto tutti i capelli, e di gravidanze che fanno uscire macchie gialle sul viso e cadere i denti. E si compiaceva di figurarsi che fra un anno quella bellezza avrebbe un figliuolo e non sarebbe piú bella. Poi Gaudenzio raccontava i particolari delle nozze. La settimana prima della cerimonia, la sposa, accompagnata dalla mamma, era andata in giro con un tondo di confetti in una salvietta, ad offrirli casa per casa ai signori del paese. Cosí si usa da tutte le spose; ed i signori prendono un chicco, e mettono una moneta nel tondo; per lo piú una lira. Ma Rosetta aveva tanta buona grazia che tutti erano stati generosi con lei, ed aveva raccolto de' bei quattrini. La mattina delle nozze poi, era vestita come una madonna, e c'erano state due carrozzelle ad accompagnarla da Cerano fino alla casa dello sposo. - Ma il piú bello - continuò a dire Gaudenzio - è stato nell'entrare in casa. La vostra mamma che è una donna all'antica, ha posto a terra la scopa traverso l'uscio. - Non occorre d'essere all'antica per questo, - interruppe Nanna, che maliziosa com'era, aveva già presentito in quell'accusa alla suocera un'intenzione di difesa per la nuora. - Tutte le mamme sbarrano l'uscio colla scopa. E se la sposa è una buona massaia la prende in mano per sgombrare il passo; e se è una trascurata passa lasciandola a terra. - Ma che! Queste sono idee della mia nonna! - disse Gaudenzio che faceva sempre pompa delle sue opinioni avanzate. - Quel folletto di ragazza aveva proprio necessità di sgombrare il passo! Bisognava vederla! Ha fatto un salto che ne avrebbe scavalcato una dozzina di scope. - Ha scavalcato la scopa? - esclamò Nanna coll'aria piú scandolezzata che poté assumere come avesse detto: - Ha dato fuoco alla casa? - - Sí! L'ha scavalcata! Che male c'è? Non lo sapeva di dover prenderla in mano per mostrarsi casalinga. - Che! Non lo sapeva. Se usa a Trecate, non si può ignorarlo a Cerano. Non c'è mica il mare di mezzo. È che non ha voglia di essere casalinga; ecco! Non ha presa la scopa! E Nanna gustava tutte le acri voluttà del male, in quel piccolo trionfo di cogliere in fallo la povera giovinetta E piú tardi, passando accanto ad un gruppo di fanciulle raccolte nell'aja intorno a Gaudenzio, che raccontava ancora ed ancora le meraviglie della loro giovane compagna, Nanna gridò con disprezzo: - Sí eh? Bella moglie, che non ha neppure presa in mano la scopa! Ma Gaudenzio, che di peli sulla lingua non ne aveva proprio, le rispose dinanzi a tutti: - Badate, Nanna, è l'invidia che vi fa parlare; perché gli anni passano, ed il marito non viene, e la sposa è piú bella di voi. Ah! Quel Gaudenzio era terribile! Egli pure non era piú giovane; aveva trent'anni. Ma col suo cappellino sull'orecchio e la sua aria disinvolta, era sempre irresistibile ad un modo; era sempre il lion del paese per tutta l'estensione a cui giungeva il suo carro, e nessuno avrebbe pensato di trovarlo troppo vecchio per la vita galante che menava. Le fanciulle erano tutte indulgenza per lui; ed a quella sua uscita contro Nanna, posero il visto con una risata, insolente. Tutto codesto non era fatto per stabilire i preliminari della pace fra le due cognate e Nanna tornò a casa piú che mai inviperita contro la sposa. Rosetta era veramente una bella giovane. Non una bellezza da romanzo; neppure una figurina elegante, ideale, com'era stata Nanna a diciassette anni. Ma una bella contadinotta, bianca, rossa, paffuta come un pomo, ben piantata su due gambe che parevano colonne, con fianchi e spalle da cariatide; doveva esser feconda come una Niobe, ed il suo petto era abbastanza vasto per nutrire i quattordici figlioli. La sua salute non smentiva quella florida apparenza. Dacché era al mondo nessun medico le aveva mai tastato il polso; e nel suo cuore esultava tutta la giocondità della gioventú e della salute. Ella s'era guadagnato subito l'animo dei vecchi suoceri. Il salto della scopa aveva finito nelle braccia di Maddalena, che l'aspettava a quel punto per giudicarla. Ma quell'abbraccio espansivo, che fu ad un punto da stramazzarla a terra, commosse vivamente la povera donna, che la sua figliola aveva da lungo tempo divezzata dalle carezze. Dalla cantina al solaio la casa echeggiava tutto il giorno della voce giuliva di Rosetta, e Martino diceva: - È il carnovale che ci è entrato in casa con questa sposa. Pietro invece era malinconico e taciturno. Aveva l'animo affettuosissimo; non esitava mai dinanzi ad un sacrificio per una persona cara; ma esitava terribilmente dinanzi ad una parola. Era timido fino alla selvatichezza. In quei primi giorni di nozze era sempre imbarazzato delle proprie emozioni; se ne vergognava, e mentre aveva il cuore gonfio di dolcezza, usciva sempre d'impaccio con uno sgarbo. Pover'uomo! Quanto avrebbe avuto bisogno l'isolamento incoraggiante del viaggio di nozze! Ma questo lusso d'espansioni da solo a solo è riservato ai signori. I contadini, che vivono in famiglia, alla patriarcale, sono condannati a far all'amore sotto gli occhi dei parenti, a frenare tutti gli impeti del loro cuore, povera gente! Appena Rosetta vedeva rientrare il suo uomo, come si dice in quelle campagne, gli saltava incontro facendogli festa. - Bentornato, uomo! Avete appetito? Abbracciate la vostra donnina. - Pietro l'avrebbe abbracciata con tutta l'anima, ma si faceva tutto rosso, sbirciava il babbo e la mamma, poi si schermiva con una mala grazia, dicendo alla sposa: - Sta un po' cheta! Sei matta. Rosetta non era una tempra abbastanza delicata per soffrirne tutta la mortificazione che ne avrebbe sofferto una delle mie lettrici. Capiva che il suo uomo si vergognava, e gli rispondeva con una risata. Quando giunse Nanna dalla risaia, la sposa era nell'orto. - Rosetta! - gridò Maddalena. - C'è la Nanna. Rosetta non fece altro che rimboccare il grembiale colmo dell'insalata che aveva raccolta, lo annodò in fretta dietro la vita, e via di corsa traverso le aiuole. In un minuto sbucò da dietro la casa gridando: - Dov'è questa cognatina? - e vedendola in arnese da viaggio cogli zoccoli da una mano ed il fagotto dall'altra, le saltò al collo e la baciò sulle guancie. Nanna si lasciò fare, freddamente, senza ricambiare quell'espansione; ed appena poté svincolarsi entrò in casa mormorando: - Che scene! - Mentre la sposa dal canto suo pensava: - È come Pietro. Sono tutti cosí. Non osano dimostrarsi; vogliono bene, ma se lo tengono in cuore; non lo sanno mettere fuori. Dopo il matrimonio di Pietro, Gaudenzio capitava spessissimo alla cascina dei Lavatelli. - Come va, Gaudenzio? - gli disse una volta Nanna con amarezza. - Avevate dimenticata la strada di casa nostra, ed ora l'avete ritrovata? - Io vado sempre dove ci sono le belle donne - rispose quel fatuo. - Ora che avete la cognata bella ci vengo. Nanna se la legò al dito. Era uno scherzo impertinente in cui la sposa non aveva che una parte passiva. Ma Nanna gliene addossò tutta la responsabilità, e vi soffiò dentro col suo odio fino a gonfiare quell'inezia alle proporzioni d'un adulterio. Intanto era venuto l'autunno colle lunghe serate e le veglie nella stalla. Rosetta colla sua cordialità aveva fatto parecchie conoscenze nei dintorni, ed attirava in quella stalla, altre volte cosí uggiosa, un gruppo di vicine, tutte in ammirazione del buon umore e della graziosità della bella sposa. C'erano parecchie fanciulle; Nanna sedeva con esse a filare; ma il suo capo ravvolto nella pezzuola, la sua taciturnità, il viso imbronciato, l'umore intollerante, i giudizi malignati e severi, la invecchiavano assai e la facevano stare a disagio e spostata in quella schiera giuliva. Rosetta invece, nella sua grave qualità di donna maritata, doveva collocarsi fra le massaie, ed attendere all'importante missione di rattoppare gli abiti del suo uomo. E lo faceva di cuore, ed agucchiava con tutta l'energia del suo braccio robusto, e tagliava nettamente il filo co' dentini bianchi. Ma i discorsi delle massaie che si narravano a vicenda le loro varie gravidanze, e gli allattamenti, ed i miracoli del santo del paese, e gli amuleti di famiglia, e le varie malattie, e le permanenze all'ospedale, non interessavano punto la giovane sposa. La sua esperienza di diciott'anni non le offriva il menomo argomento per prender parte a quei gravi parlari. Ed intanto il chiacchierio civettuolo e pettegolo delle fanciulle trovava la via di venirle all'orecchio e da lontano ella mandava il suo razzo in quel fuoco d'artificio, e le ragazze lo accoglievano ridendo, ed ella rideva piú forte di loro. E tutta quella ilarità giovanile passava e ripassava come una palla, dissopra al capo seriamente coperto di Nanna, senza lasciarsi impaurire nemmeno per ombra dalla sua severità. E Nanna sentiva, nel suo cuore inviperito che la cognata era felice suo malgrado, e ne fremeva. Pietro, assiduo al lavoro, era spesso fuori di sera pe' suoi trasporti. Gaudenzio invece era divenuto un costante frequentatore della stalla. Il suo arrivo era una festa per tutte quelle giovani, ed un tormento per Nanna, per la quale egli aveva sempre qualche crudele verità in pronto, mentre invece era tutto galanteria per la cognata. Oh, se Nanna avesse potuto allontanarlo per sempre, far nascere una lite che lo mettesse alla porta! Le pareva che gli altri non si sarebbero accorti che era vecchiotta e brutta, se quel giovane temerario non fosse stato là a ripeterlo ad ogni momento. Se voleva fare un complimento a Rosetta pe' suoi capelli, Gaudenzio non sapeva farlo senza dire una scortesia a Nanna. - Ci avete anche la parte di vostra cognata. Se la sposa si vantava di non esser mai stata un giorno a letto, di non aver mai preso una medicina. - Precisamente come Nanna - diceva con ironia Gaudenzio. Era un tormento. Quando poi si parlava di nozze la povera zitellona era sempre in ballo. - Gaudenzio, sapete chi si fa sposa? - Chi? La Nanna? E tutte a ridere, ed a dirgli di buffone per vezzeggiativo. E Pacifico, l'unico uomo che l'aveva domandata, ed in che modo! Era là, ed udiva tutti quei discorsi, che erano una conferma del suo giudizio: matura e punto bella. E Nanna si faceva ogni dí piú sospettosa e cattiva. Odiava la cognata, odiava Gaudenzio, odiava tutte le persone giovani e belle e felici. Aveva torto. Ma loro mie signore, che mi leggono sedute nel loro salotto accanto ad uno sposo che le adora, loro in cui l'educazione ha raffinato il senso morale, mi dicano, colla mano sulla coscienza, possono giurare che non avrebbero fatto altrettanto alla prova di quelle piccole torture d'ogni momento? Una sera di novembre Pietro giunse col suo carro, e staccato il cavallo, andò a raggiungere la famiglia nella stalla Rosetta aveva smesso di corrergli incontro e abbracciarlo, a forza di vedersi respinta dalla timidezza selvaggia del marito. Aveva accanto Gaudenzio che le diceva mille corbellerie, e si limitò a gridare: - Addio Pietro; buona sera - senza scomodare né sé né il suo cavaliere e Nanna si legò al dito anche questa. - Mamma - disse Pietro a Maddalena. - Sono stato a Cerano. La mamma di Rosetta ha avuto Lucia colle febbri intermittenti dopo la mietitura del riso. Dice che il medico l'ha consigliata di farle cambiar aria; e, se voleste, la manderebbe qui da voi, con sua sorella. Nanna ebbe un nuovo sussulto. Lo dissi già; in tutte le donne giovani e belle vedeva un'avversaria. - Quanto a me - disse Maddalena, - la vedrò volentieri sicuro; ma dove vuoi che la mettiamo a dormire quella ragazza? - Quando io sono fuori può dormire colla mia donna; sono sorelle ed andranno d'accordo. E le notti ch'io passerò a casa, starà nel letto con Nanna. Nanna fremette all'udire quella combinazione. Ma non ebbe neppure l'idea di opporsi. Nelle campagne le donne vivono in una sommissione assoluta. Soltanto le massaie possono far valere in una certa misura la loro volontà; ma le ragazze sono sottomesse, e sarebbe sembrata una stravaganza da parte di Nanna il non voler dividere il suo letto con quella fanciulla che non conosceva; come non si supponeva neppure che la giovane ospite potesse manifestare la menoma ripugnanza a dormire con Nanna. L'indomani Pietro partí per portare della legna a Cerano, ed al ritorno condusse la cognatina. Era una fanciulletta di sedici anni, delicatina, allungata ed impallidita dalle febbri, gentile, bianca, cogli occhi azzurri ed i capelli bruni, con una boccuccia piccina che rideva spesso e volentieri, ed una vocina infantile. Pareva una signorina vestita da campagnola. Portava per le prime volte l'argento, e si lagnava che le dava il mal di capo. Era stata alle scuole comunali, sapeva leggere, scrivere, e persino fare il pizzo all'uncinetto. Una meraviglia! Gaudenzio, com'era da aspettarsi, volle attirare l'attenzione della nuova venuta, e le parlò con quella deferenza graziosa con cui si parla ai bambini. Egli però non la trovava di suo gusto. Il peso specifico di quella bimba convalescente non rispondeva al suo ideale, ed egli non era uomo da mettere sulla bilancia l'azzurro profondo di quegli occhioni ingenui, e la grazietta della persona. Ma le si mostrava galante per riguardo alla sorella sposa, che era di peso quella. La povera piccina non istette a lungo ad accorgersi che quel Gaudenzio era l'aspirazione di tutte le fanciulle della stalla; ed il suo piccolo amor proprio fu lusingato al vedere che si occupava piú specialmente di lei. E dall'essere lusingata dalla preferenza d'un uomo a preferirlo, poco ci corre. Nanna s'accorgeva di tutto questo. Dell'inganno della bimba, della sua simpatia nascente. E, sebbene vedesse che pigliava un granchio, poverina, se ne aveva male anche con lei, e godeva che non fosse corrisposta come credeva. La prima sera dopo l'arrivo della piccola Lucia, Pietro giunse nella stalla conducendo un suonatore d'organetto. Tutte le giovani, fanciulle e maritate, balzarono in piedi salutando quella sorpresa con grida di gioia. Nanna, per istinto, per rimembranza, s'era alzata anch'essa. Ma quando tutti i giovani ebbero scelta la ballerina si trovò sola ad impacciare le coppie danzanti, dovette tornare a sedere accanto alle mamme. Gaudenzio, vedendo che Pietro si disponeva ad aprire il ballo colla sposa, s'era affrettato a pigliare la forestiera. Nel ricondurre a posto la giovinetta vide Nanna piú avvilita del solito per quello sfregio patito e le disse: - Non ce ne sono piú eh! Di ballerini per voi, Nanna? - Io non ho voglia di ballare - gli rispose Nanna che cercava di salvare almeno l'apparenza. Ma con Gaudenzio non c'era verso di salvar nulla Egli aveva bisogno di mettere i punti sulla i, anche quando le leggi dell'urbanità protestavano contro quelle dell'esattezza. Egli ribatté con malignità brutale: - Sí eh! Quel che non si può avere si dà via per carità. - Lucia, che aveva lo spirito un po' piú coltivato, sentí tutta la crudeltà di quelle parole, e cercò di mitigarla come poteva dicendo: - Vuoi ballare con me, Nanna? In quella Pietro cessava di ballare con Rosetta, e la conduceva a sedere accanto a Maddalena. Gaudenzio piantò la zitellona e la bimba, e corse alla giovane sposa che sollevò come un conquistatore, e si diede a ballare con lei, alla sua maniera sguaiata e compromettente. Nanna ricusò la gentile offerta di Lucia e seguí con occhio scrutatore la coppia danzante. Ella ne sapeva qualche cosa di quelle strette, di quei dondolamenti, di quegli sfioramenti di guancie, di quelle parole ansimate in un caldo sussurro fra capo e collo. Le impressioni che avevano destate in lei, ora le vedeva riprodotte nella giovane cognata, e fatte piú vive dalle gioia di sentirle condivise dal suo meraviglioso ballerino. Rosetta infatti, espansiva, chiassosa, gioconda, non si trovava bene con quel marito raggomitolato in sé stesso come un istrice. Aveva soggezione di lui. Non osava fargli una gentilezza perché sapeva che non sarebbe corrisposta. Non osava dirgli una corbelleria, perché non ne avrebbe riso. Invece cogli altri non aveva che ad aprir la bocca per sentirsi dire: - Che demonietto di donna! Che granello di pepe! Le studiate tutto voi! Ne sapete una piú del diavolo. Con voi di malinconia non se ne patisce sicuro! Gaudenzio poi era anche piú espansivo e piú complimentoso degli altri. Egli, con quell'audacia che lo distingueva, non esitava ad esprimerle a bruciapelo la sua ammirazione per la sua bellezza. - Che pezzo di donna! Voi non avete paura che il vento vi porti via. Perché non vi levate un poco la pezzuola dal collo se il danzare vi riscalda! Io non guardo - e si poneva davanti agli occhi le mani colle dita discoste per mostrare il suo desiderio indiscreto di vederla scollata. - Del resto - soggiungeva - lo so bene che è tutta roba imbottita. - E sorrideva di quella facezia, come se il dirle ch'era grassa e non aveva imbottiture fosse il piú grande vanto che le si potesse fare. Rosetta non era donna da raffinature. Era allegra e pigliava tutto in buona parte. Vedeva soltanto l'intenzione di farle un complimento, e l'accettava senza esaminarla troppo; ed era contenta, perché Gaudenzio le piaceva, e si trovava bene con lui. - Ecco - pensò Nanna; - sono pochi mesi che è maritata, e fa già all'amore cogli altri. Era spingere troppo oltre il giudizio temerario; ma ella aveva bisogno di aggravare le cose, per giustificare ai propri occhi l'odio che risentiva, ed il suo progetto di svergognare la cognata e di allontanare quel Gaudenzio che la avviliva sempre. Ella andò a sedere accanto a Pietro e gli disse: - Ora hai finito di ballare con tua moglie. È impegnata per tutta la sera... - Avrebbe voluto aggiungere: - con Gaudenzio - ma non ne ebbe il coraggio. Pietro però, comprese malgrado la reticenza. Adorava la sua bella sposa con tutta l'intensità dei sentimenti concentrati, i quali sembrano aumentarsi di quella tanta parte d'affetto che non espandono in manifestazioni. Provava già un senso d'invidia per chiunque possedeva quella facile espansione ch'egli non aveva, e che rendeva gli altri piú simpatici di lui. Ne era istintivamente geloso, perché l'apprezzava come una superiorità. La parola di Nanna bastò a fargli volgere su Gaudenzio quella vaga gelosia. Sofferse profondamente di quel sospetto; ma non lo manifestò, come non manifestava il suo amore. Egli pure, come Nanna, racchiudeva in sé tutti i suoi sentimenti. Era appassionatissimo, e sentiva ardentemente l'aspirazione ad un amore esclusivo. Ma Nanna si vendicava di non poterlo inspirare. Pietro invece, profondamente buono, ne soffriva soltanto. Non provava come lei l'acre bisogno di far patire anche agli altri la propria sofferenza, di accusarli del proprio male, di odiarli. Si doleva sinceramente di non valere quanto gli altri, che, nell'umiltà del suo cuore, credeva superiori a lui; e la cagione dei torti che sopportava, la cercava in sé stesso. Diceva: - Non so farmi amare da quella donna. - E pensava cosa potrebbe fare per guadagnare il cuore della sposa. La prima domenica di dicembre alla messa cantata, la moglie del salumaio di Trecate, che era una giovane sposa, comparve in chiesa con un magnifico spillo d'argento in filigrana puntato nel velo. Figurava un ramo di gelsomini, ed era montato sopra un gambo a spirale, in modo che tremava ad ogni movimento del capo. Fu una grande agitazione fra le donne. L'angelo che portò al Padre Eterno il resoconto di quella messa, ebbe a riferire una quantità di distrazioni e peccati di desiderio. Il nono comandamento pesò quel giorno sulla coscienza di tutte le donne dai quindici anni ai cinquanta. Tutte avevano desiderato lo spillo della salumaia. La sera nella stalla, non si parlò d'altro. Pietro non era là. Aveva dovuto partire nel pomeriggio della domenica per giungere la mattina del lunedí a prendere un grosso carico di materiali da fabbrica, da condurre alla chiesa di Galliate, che allora era in costruzione, e piú tardi crollò, prima d'esser finita. Gaudenzio c'era, l'immancabile. Egli pure aveva osservato lo spillo, ed anche la salumaia, che in quanto a grassezza non aveva nulla da invidiare ai generi del suo commercio. Trovava che quello spillo, tremolante come una gelatina, le stava molto bene. - Che gioia di marito dev'essere quel salumaio! - esclamò Rosetta. - Se Pietro mi regalasse uno spillo cosí, lo mangerei a baci. - Pietro non può fare simili spese, - disse Maddalena. - Quanto può costare quello spillo? - domandò Gaudenzio. - Da quindici a venti lire. - Eh! Un uomo che vuol bene davvero ad una donna non bada a venti ed anche a cinquanta lire per accontentarla. Gaudenzio sparò questa bomba di generosità guardando fisso Rosetta negli occhi come per dire: - Io sarei capace di spendere cinquanta lire per voi. Era il suo bisogno di mettere i punti sulle i. E li pose troppo chiari. Nanna capí. Ed anche Lucia, nella sua semplicità, capí che in quello sguardo c'era un commento al discorso. Ma lei, povera bimba, non pensava che il commento potesse riguardare personalmente Rosetta, che aveva già marito. Uno sguardo d'amore e d'intelligenza rivolto a sua sorella doveva alludere a lei. Gaudenzio le faceva un po' la corte e faceva la corte a Rosetta perché combinasse un matrimonio fra loro. Cosí aveva inteso onestamente le cose quella testina di sedici anni. Per lei era come se avesse udito Gaudenzio dire a Rosetta: - Io lo pagherei anche cinquanta lire lo spillo per la vostra sorellina. Nell'uscire dalla stalla non seppe resistere al bisogno di espansione che è tanto prepotente in quell'età e in quei sentimenti. Ella domandò a Nanna: - Ce l'ha l'innamorata Gaudenzio? - Che! Potrebbe non averla? Un bel giovane cosí! - rispose Nanna acremente. - E chi è? - tornò a dire con voce insinuante la piccina. - Oh, io non dico nulla. Si vedrà. Se saranno rose fioriranno - e seguendo il suo pensiero crudele, soggiunse - e colle spine anche. Ma la ragazza non fece caso di quella parola e continuò ad interrogare come la spingeva la curiosità appassionata: - È della nostra stalla? Dimmi soltanto se è della nostra stalla - Sí. È della nostra stalla. Ed è a lei che porterà il fiore. Oh, s'hanno a vedere di grandi cose qui. Lucia salí a coricarsi presso la sorella, coll'animo pieno di speranza. Ella aveva interpretato tutto il discorso di Nanna in suo favore. Le ironie non avevano trovato la via nel suo animo sincero, e si teneva certa che la donna amata era lei, e che lei avrebbe lo spillo. Passarono i primi giorni della settimana. Pietro tornò la sera del lunedí e ripartí il giovedí all'alba. Udí egli pure tutti i parlari delle donne sullo spillo della salumaia. Capí che la sua sposa lo desiderava ed avrebbe voluto dirle: - Io te lo porterò. - Ma ebbe soggezione della mamma, del babbo, della sorella. Gli pareva di udire i commenti che si farebbero alle sue spalle: - È innamorato come un ciuco della sua donna. Fa tutto quello che piace a lei. Butta i denari dalla finestra per accontentarla. Egli arrossí a quel pensiero per la sua dignità d'uomo. Avrebbe voluto dare a Rosetta lo spillo, ma segretamente, o in una maniera che giustificasse quella larghezza. La sera del giovedí era il dodici dicembre. Pietro non era anche tornato. Quando egli era assente, la conversazione della stalla era sempre piú animata, perché Rosetta sfogava il suo umore chiacchierino ed allegro senza soggezione, e Gaudenzio le faceva la corte senza paura di suscitare dei guai. - A Novara - disse Gaudenzio - la città è tutta in festa questa sera. - Già - rispose la piccola Lucia ch'era stata a Novara un po' di tempo colla Rosetta, da una sua zia erbivendola - È la vigilia di Santa Lucia. Sotto le arcate dei portici vi sono tanti banchi illuminati, con ogni sorta di chicchi, e Sante Lucie di zuccaro. E tutti i negozi hanno nella bacheca un mondo di belle cose. Ti ricordi Rosetta? - Altro, che mi ti ricordo! Quell'anno che eravamo dalla zia abbiamo messo fuori dalla finestra il nostro panierino anche noi, e Santa Lucia ha portato la strenna. - Ebbene? E perché non lo mettete fuori anche questa sera il paniere? - domandò Gaudenzio guardando sempre Rosetta negli occhi. - Chissà che Santa Lucia non passi di qui? - Che! - disse la sposa. - Come volete che passi? Pietro non è a casa. - E come c'entra Pietro con Santa Lucia? - Oh, ci credete bene sciocche! - protestò Lucia. - Fino i bimbi di Novara dicono: Santa Lucia Mamma mia Colla borsa del papà Santa Lucia la venirà - Ah voi siete troppo smaliziata - disse Gaudenzio ridendo. - Lo metterà Nanna il paniere; lei ci crede ancora a Santa Lucia; vero, Nanna? - Io credo tutto, sono una scema - rispose Nanna risentita. - Eh sí! Scema voi! Ne sapete da menarci a scuola tutti - disse Gaudenzio, cui premeva di rabbonirla per indurla ad approvare la proposta dei panieri. Nanna sorrise a quel complimento che le era fatto dinanzi a tanta gente. Gliene capitavano cosí di rado, che li gradiva anche quando le venivano per forza. - Dunque lo metterete fuori il paniere? - insisté Gaudenzio. - Non è per me che l'avete detto. - L'ho detto per tutte e tre. Quello che fa una cognata lo deve fare anche l'altra. - Oh per me... mi sprezzano tutti. - Vuol dire che tutti vi amano. Chi sprezza ama. - E poi se trovo il paniere vuoto? - Date retta; non lo troverete vuoto. Santa Lucia mi ha fatto sapere che passerà dalla vostra finestra. Via, siate buona. Neppure nei tempi andati Gaudenzio aveva mai parlato a Nanna con tanta deferenza; non l'aveva mai pregata cosí. Non l'aveva mai guardata con quegli occhi supplichevoli. Per la prima volta, dopo tanto tempo, non aveva l'aria di canzonarla. Tutti tacevano nella stalla. Tutti guardavano Gaudenzio e lei. Gaudenzio che la implorava, lei arbitra di farlo contento o di crucciarlo con un sí o con un no. Fu un momento di trionfo insperato per Nanna. Tutta la sua parte di vanità umana e di vanità di donna le si portò al cervello per suggerirle un mondo di speranze e d'illusioni: ed ella disse nel suo pensiero: - Chi sa? E nel guardare in giro per assaporare quel momento di gloria, incontrò gli occhi di Lucia, intenti su Gaudenzio e su lei, con una velatura cristallina di lagrime. Capí che la povera bimba era gelosa, e quel sentimento, che inspirava per la prima volta, finí di far perdere la testa a Nanna - Sí: metterò fuori il paniere - disse. E senza ragionarvi sopra, dimenticando i precedenti che l'avevano messa in sospetto contro la cognata, con tutta la cecità della vanità lusingata, si figurò di trovare il domani nel suo paniere la strenna di Gaudenzio. Il carrettiere uscí di buon'ora dalla stalla. Aveva i suoi preparativi da fare. Nanna cercò di congedar presto le vicine perché l'impazienza la rodeva. Rientrata in casa disse alle due giovani: - Mettiamo ciascuna la nostra pezzuola da collo sul paniere, perché Santa Lucia possa distinguer l'uno dall'altro. Ma Lucia aveva il cuoricino gonfio! Non volle metter fuori il paniere. - Non sono di casa - disse. Lo posero Nanna e Rosetta all'unica finestra della cucina che dava sull'orto. Poi le due sorelle salirono coi vecchi, e si ritirarono nella loro stanza, e Nanna entrò anch'essa nella sua. Ma depose soltanto il lume, poi uscí pian piano nel forno, che aveva una finestra accanto a quella della cucina, da cui era separata semplicemente da un uscio; e là, dietro le gelosie socchiuse, stette in agguato. Non andò a lungo, che vide un'ombra avanzarsi cautamente fra le aiuole dell'orto, e riconobbe Gaudenzio. Egli andò alla finestra dov'erano i panieri. Nanna, senza lasciare il suo posto d'osservazione, pose la mano sul chiavistello dell'uscio, ed aspettò stando in ascolto. Due minuti ancora, ed udí il passo cauto di Gaudenzio che si allontanava. Aperse pian piano; uscí e si trovò sotto la finestra della cucina. Alzò la mano al suo paniere col cuore palpitante. C'era un oggetto duro, sferico. Lo prese, lo guardò alla scarsa luce della finestra, palpò, trovò il filo. Era un gomitolo. Era una satira atroce. Dipanar filo, nel gergo del paese, vuol dire rimaner zitellona. In quell'oscurità, Nanna arrossí come una vampa. Se avesse avuto sotto mano quell'uomo, in quel momento lo avrebbe ucciso. Toccò fremendo nel paniere della cognata, e sentí il fiore di filigrana. Intanto Gaudenzio si allontanava pian piano traverso le aiuole. Ella non prese tempo a riflettere. Ravvolse fiore e gomitolo nella pezzuola di Rosetta, e la spinse con impeto dietro il donatore insolente. Poi rientrò nel forno, e tornò a guardare traverso le imposte. Gaudenzio stava fermo in piedi, ed osservava attentamente qualche cosa. Forse la pezzuola di Rosetta. Nanna provò un momento di amara soddisfazione. L'aveva fatto apposta a respingere i doni nella pezzuola della cognata. Egli li crederebbe respinti da lei, e gliene serberebbe rancore. Quell'insulto finí di avvelenare il cuore di Nanna. Da quella sera il suo odio contro Gaudenzio e la cognata divenne sragionato, implacabile. Non era piú gelosia; non era piú invidia; era odio, era sete di vendetta. Invece di porre ostacoli al loro amore, come aveva fatto fin allora, desiderava che accadesse qualche enormità per sorprenderli e svergognarli. - Ch'egli le renda soltanto la pezzuola - pensava - poi dirò tutto. E pregustava l'amara soddisfazione, di confondere ed avvilire la bella Rosetta. Si figurava di vedere la cognata rientrare in casa colla pezzuola al collo, e di domandarle: - Come? Non l'avevi perduta quella pezzuola? Non te l'avevano rubata? E l'altra inventerebbe delle scuse: - Sí; ma l'ho trovata nell'orto, - oppure: - Me l'ha portata il tale; o la tale - e non nominerebbe Gaudenzio per non dire d'avergli parlato da sola. Ed allora lei, Nanna le direbbe dinanzi a tutti, il babbo, la mamma, il marito geloso, tutti: - Bada; dici la bugia. È Gaudenzio che te l'ha data. Io lo so, perché sono stata io che l'ho gettata a lui la notte di Santa Lucia. E direbbe del fiore; e Pietro rimanderebbe la moglie infedele ai suoi parenti; e la casa sarebbe liberata per sempre dalla bella Rosetta e dal suo amante insolente... Quell'anima avvilita s'inebriava di tali visioni crudeli. Ma non si realizzarono. Appena fu giorno, Rosetta corse in cucina per vedere se Santa Lucia le avesse portata la strenna, e fece un chiasso da non dire per la scomparsa della pezzuola. Se ne lagnò con tutti. Quella perdita reale, le fece dimenticare il dono vagamente sperato. - Oh, chi ha trovato la mia pezzuola? - andava gridando nel cortile. - Pacifico, se andate fuori, guardate se vi riesce di trovarmi la pezzuola lungo il viale - e s'avviava ella stessa a cercarla dall'altro lato nell'orto. - Non vorrei che la riavesse subito da Gaudenzio, poi venisse a dirci di averla trovata, ed io non potessi smentirla - pensò Nanna. E si pose a fianco della cognata, per verificare che la pezzuola non si trovava Ma i suoi calcoli l'ingannarono. Aveva contato senza l'astuzia di Gaudenzio. Egli non era un cavaliere errante. Non pensò a tenersi quella pezzuola sul cuore, ad assorbire il profumo della donna amata. Gli premeva di non suscitare scandali, di non destare il sospetto ch'egli fosse entrato nell'orto, di notte. Quando le due cognate furono presso la siepe, Rosetta mise un grido: - Ecco! È qui! - Nanna fu tutta scossa. Nella sua idea fissa, credeva di vedere Gaudenzio. Vide invece la pezzuola, distesa sui rami della siepe. Era sconfitta. Nessuno poteva dire chi l'avesse posta là. Se avesse dichiarato che era Gaudenzio non l'avrebbero creduto. Sarebbe stato rivelare inutilmente lo scherno del gomitolo di cui soffriva tanto. - È Santa Lucia che t'ha fatta la grazia di toccare il cuore al ladro - suggerí Maddalena. Nanna lasciò dire, e si propose di vendicarsi in altro modo. - Li riprenderò - pensava. - Quello spillo deve darglielo. Egli non ci rinuncierà cosí facilmente; ed io non frapporrò altri ostacoli. Ma appena sarà nelle mani di Rosetta, allora parlerò. Ci sarà la prova. Quel grullo di Pietro è tanto cotto della sua sguaiata di donna, che senza prova non vorrebbe darmi retta. La sera nella stalla non perdette una parola né uno sguardo di Gaudenzio. Egli teneva il broncio a Rosetta; ma era chiaro che Rosetta non ne capiva il motivo. Era tutta sorpresa. Gaudenzio, per dimostrarle meglio il suo risentimento, corteggiava Lucia. - Vi ha portata la strenna la vostra santa? - le domandò. - Non ho messo fuori il paniere - rispose la bimba, tra meravigliata e contenta di vedere quel gallo della checca occuparsi di lei, mentre la sera innanzi era stato galante con Nanna. - Perché non l'avete messo? - domandò ancora Gaudenzio. - Perché sapevo già che Santa Lucia non mi porterebbe nulla. - È vero. Santa Lucia porta la strenna ai bimbi, e voi siete una giovane da marito. Lucia sorrise e si fece rossa; un istinto di civetteria, da innamorata, le inspirò il desiderio di dire, o almeno di far capire, il vero motivo geloso per cui non aveva messo il suo paniere cogli altri due. - Nanna e Rosetta sono piú grandi di me, e l'hanno pur messo fuori il paniere. Aveva preparato senza volerlo la via al discorso cui mirava Gaudenzio. Invece di domandarle com'ella s'aspettava, perché lei sola non avesse fatto come le altre, le disse: - Dunque Rosetta e Nanna l'hanno avuta la strenna? - Síí! - gridò Rosetta - Bella strenna che ho avuto io! Mi hanno rubata la mia pezzuola. - Ve l'hanno rubata? - ripetè Gaudenzio con piglio incredulo. - Sicuro; e poi si sono ravveduti, e l'hanno lasciata sulla siepe dell'orto. - Siete ben certa di non esser sonnambula, e non averla fatta andare voi stessa sulla siepe dell'orto? - Ma che! Ho dormito tutta la notte d'un fiato. Allora Gaudenzio si pose a scherzare su quel sonno profondo, come un uomo che non ci credesse. Era persuaso che Rosetta avesse respinto il suo dono, e se ne pigliava una piccola vendetta da amante offeso ripicchiando le parole di lei, e corteggiando la sorellina che era tutta rossa di gioia Rosetta si fece triste, e quella sera si coricò senza parlare a Lucia. Ella pure era gelosa. Quando la bimba fu addormentata stette a guardare a lungo quel visino gentile, ancora infiammato dalle emozioni della serata, e sorridente nel sonno. Provò un momento di dispetto al vederla tanto bellina. La domenica tornò Pietro, e la sera nella stalla disse che per tutta la novena di Natale non andrebbe piú a fare trasporti, e lavorerebbe nell'orto. - Sarebbe ben meglio - disse Nanna, - che tu stessi a casa sempre. - Perché? - domandò Pietro. - Perché... perché... via il gatto i sorci ballano. - E gli occhi delle due cognate s'incontrarono. Rosetta, che aveva sulla coscienza la storia del paniere, e la speranza con cui l'aveva messo alla finestra, s'affrettò a parare il colpo. - Sí; ne abbiamo fatte delle nostre questa settimana - disse al marito. - Nanna ed io abbiamo messo fuori il paniere per Santa Lucia. - E Santa Lucia ha rubato la pezzuola di Rosetta - aggiunse Nanna. - Ma l'ho riavuta, sai. Era sulla siepe dell'orto. Pietro guardava sospettosamente le due donne. Capiva che Nanna aveva l'intenzione di accusare sua moglie. Ma di che? Forse aveva ricevuta una strenna? Egli domandò col cuore serrato: - E cosa ci avete trovato nel paniere? - Nulla - disse Rosetta - M'è rincresciuto assai di trovarlo vuoto. - Cosa ti aspettavi di trovarci? Lo spillo della salumaia? - domandò Nanna con ironia. Gaudenzio, che aveva scoperto studiando Rosetta ch'ella non sapeva nulla dello spillo dato e respinto, a quella parole di Nanna si confermò nel sospetto già concepito contro di lei. Rosetta invece non indovinò la cosa, e colse l'occasione per insidiare al marito l'idea di quel dono. - Lo spillo non me lo potevo aspettare - disse - perché Pietro era fuori. - Ma che! - gridò Maddalena spaventata per la seconda volta da quel pensiero ruinoso. - Quand'anche fosse stato qui, Pietro non avrebbe potuto fare una spesa simile. - Che cosa ne sapete voi, se posso o se non posso? - rispose con impeto Pietro, a cui aveva fatto piacere il sentire che la moglie aspettava il gioiello desiderato solamente da lui. Ma dopo quella risposta si vergognò d'aver osato dir tanto, ed uscí dalla stalla. Allora Gaudenzio prese il suo posto. - A Novara - disse - per Natale si mette fuori dalla finestra una scarpa. Ed allora è il Bambino che porta la strenna. - Io non metto fuori piú nulla - rispose Rosetta. - Provate. Non avete udito, che Pietro non si sgomenta del prezzo di quello spillo? Date retta. Mettete fuori lo zoccolo. Chissà che lo spillo non venga. - E vedendo che le vecchie parlavano tra loro soggiunse a bassa voce: - O dal vostro uomo, o da... Gesù bambino - concluse incontrando lo sguardo di Nanna. Egli stava in guardia, ora che la sapeva informata di tutto; ma tuttavia persisteva a voler fare il suo dono a dispetto di lei. Faceva a fidanza sull'ambizione di Rosetta e sulle proprie attrattive. - Si vede che le piaccio. Sfido! Accetterà lo spillo, ed inventerà una zia, una parente qualunque per dire che gliel'ha regalato, e per poterlo portare. Le donne sono tutte cosí. Un gioiello ed un bell'uomo, e addio virtú. Nanna dal canto suo, aveva bisogno che quel dono si facesse, per servirsene di arma contro la cognata; e lasciava fare fingendo di non avvedersi di nulla. - Sí - disse; - metteremo fuori i nostri zoccoli. Questa volta ci starà anche Lucietta. Lei che è piú giovane ci porterà fortuna. Poco dopo uscí dalla stalla per andare a coricarsi. Pietro era seduto sulla trave nel cortile. Egli le domandò: - Si va a dormire? - Io ci vado - rispose Nanna. - Non ho nessuno che mi faccia la corte io. - Ed entrò in cucina, e di là nel forno, poi nella sua stanza, lasciando il fratello con una spina di piú nel cuore. Poco dopo la raggiunse Lucia che, dacché Pietro era a casa, dormiva con lei. La bimba era tutta esaltata da quell'idea della strenna. - Gli zoccoli si distinguono meglio dei panieri - diceva. - I miei sono verdi; i tuoi sono neri lucidi; e quelli di Rosetta sono rossi a fiori gialli. Non si possono confondere. La vigilia di Natale, Nanna disse a Maddalena: - Mamma, me la lasciate fare a me la torta per domani? - Possiamo farla insieme. - No; lasciate che la faccia io, mentre gli uomini saranno fuori per la messa della mezzanotte. Mi piace di stare alzata la sera di Natale, finché suonano le campane. Debbo dire delle orazioni lunghe. Maddalena non fece altre difficoltà. La sera andarono prestissimo nella stalla. Quasi subito giunse Gaudenzio. Gli uomini dovevano recarsi insieme all'osteria, e di là alla messa della mezzanotte. Lucia cinguettò tutta la sera di zoccoli e di strenne. Rosetta non osava parlare. Gli occhi del marito erano intenti su di lei, e dopo la piccola scherma di parole sostenuta colla cognata per l'affare della pezzuola, la povera sposa era sempre impaurita. Non aveva nulla di grave da rimproverarsi. Tra lei e Gaudenzio non esisteva nessuna intimità. Ma sentiva di volergli bene piú che non dovesse; si conosceva debole accanto a lui; aveva capita la sua intenzione di regalarle lo spillo, e non aveva il coraggio di respingerlo. E tutto codesto la turbava, e la faceva tremare dinanzi al marito come una colpevole. Ed il marito s'era fatto piú cupo. Il suo sguardo era pieno di sospetti e di misteri. Prima delle dieci gli uomini si alzarono per uscire. - Dunque lo zoccolo? Lo metterete fuori? - disse Gaudenzio senza rivolgersi particolarmente a Rosetta perché si sentiva vigilato da Pietro. - Sí - disse Lucia con entusiasmo. - Sí - disse Nanna fingendo la stessa animazione. Rosetta non disse nulla. Gaudenzio non poteva decidersi ad uscire. Pietro s'avviò pel primo; ma si fermò sull'uscio nell'oscurità. Gaudenzio, che lo credette nel cortile profittò del momento per accostarsi a Rosetta dondolandosi sui fianchi e canticchiando: Va là va là Pepin... - L'avete a mettere fuori anche voi lo zoccolo - sussurrò. E s'avviò per uscire riprendendo la sconcia canzone. Nanna che era accanto alla porta udí un sospiro represso, e vide Pietro che s'allontanava soltanto in quel momento, affrettandosi prima che Gaudenzio giungesse alla porta. - Bene - pensò. - Sospetta già qualche cosa. Mi sarà piú facile aprirgli gli occhi - e gli tenne dietro collo sguardo, e lo vide che se ne andava con passo lento, a capo chino, in atto di profondo scoraggiamento. In quel momento tutto il passato di quel fratello, timido, amoroso e buono, le passò nella mente come una visione. La sua ammirazione infantile per lei, la spontaneità con cui s'era offerto d'andare nelle risaie per aiutarla a guadagnarsi l'argento, le cure che le aveva prestate nella sua malattia lontana da casa, l'offerta generosa di rifarle il letto nuziale co' suoi risparmi. E provò una fitta al cuore pensando al dolore che si disponeva a recargli. Ma tutto codesto passò in un lampo. Il tempo che Gaudenzio impiegò a traversare la stalla. Rosetta usciva anch'essa. Senza interrompere la sua canzone, quando furono nel buio della porta, Gaudenzio allungò un braccio, prese Rosetta per la vita e la strinse forte, gridando a squarciagola: Te gh'et la donna bella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Poi se ne andò cantando sempre, senza avvedersi di Nanna che era celata nell'oscurità. Quell'abbraccio fece dileguare nel cuore geloso della fanciulla tutta la pietà pel fratello. - Non sono io che gli faccio del male - diceva tra sé. - È questa scostumata di bellezza che si è tirata in casa. Sarà il dolore di un minuto; come strappare un dente. E poi quando l'avrà rimandata ai suoi parenti vivrà tranquillo con noi, e non avrà piú dispiaceri, ed io non avrò piú umiliazioni. Infine quello che faccio, lo faccio pel suo bene. Ed uscí dall'ombra, e si diresse verso la cucina. Rosetta si voltò al rumore degli zoccoli, vide che Nanna era dietro a lei, e capí che aveva assistito a quella scena di cui era ancora tutta agitata. In cucina Rosetta, impaziente di ritirarsi nella sua stanza, prese la lucerna che era sulla tavola. Nanna le si accostò per accendere la sua. La luce le rischiarò tutte e due in volto. Nanna fissò la cognata negli occhi; questa li abbassò. Si sentiva scrutata fin in fondo al cuore. Arrossí vivamente e salí in fretta nella sua camera. Ma Lucia la seguí gridando: - Dammi lo zoccolo. - No, lascia. - Sí, me lo devi dare. Sai pure che Gaudenzio ha raccomandato di metterlo tutte e tre. Via, sii buona, dammelo. E la piccina corse alla cassa, ne tolse uno zoccolo da festa rosso a fiori gialli, e fuggí tenendo in alto la sua conquista col braccio disteso. - Quella ragazza è innamorata - pensava Rosetta. - Si figura che Gaudenzio le voglia bene; ed egli fa la corte a me che sono maritata. Oh santo Dio! E nell'ottava di Natale bisognerà andare a confessarsi. Cosa ho da fare io? Non me lo posso cacciare via dal cuore, cosí come una mosca. Io non ci ho colpa. Non ho fatto nulla per volergli bene. È venuto da sé. Oh, se Pietro fosse un altro uomo! - Intanto la bimba proseguiva allegramente la sua raccolta. Scese, entrò nella stanza di Nanna, prese lo zoccolo nero lucido; poi aperse il fagotto che le teneva luogo di valigia, cavò fuori il suo zoccoletto verde, piccino piccino, e corse in cucina a schierarli sulla finestra. - Guarda, Nanna, come stanno bene. Ci batte sopra la luna. Si distinguono perfettamente. Il Bambino non può sbagliare. - Bene - disse Nanna. - Ora va a coricarti, se vuoi avere la strenna. Il Bambino non vuol essere veduto. - Síí! Il Bambino! È un bambino grande, quello... - rispose la fanciulletta con malizia; e si ritirò ridendo nella camera di Nanna, e si cacciò in letto, e fu ben presto rapita in sogni deliziosi di strenne, di fiori d'argento, d'amori, di nozze. Nanna rimase sola, e s'affrettò a porre le mani in pasta per la torta del Natale. Era agitata, convulsa. Le sanguinava ancora il cuore ogni volta che si ricordava quel gomitolo, ed il modo indegno con cui s'era cercato d'illuderla per farsi beffe di lei, in omaggio alla cognata. E lo ricordava sempre. - A questo modo non si va avanti - pensava. E ripeteva in sé stessa molte considerazioni sull'onore della famiglia, sulla pace del fratello; e si forzava di persuadersi che la cognata fosse una grande colpevole, per rinfrancarsi nei suoi propositi vendicativi, e per vincere un vago sgomento che l'assaliva all'idea della catastrofe che stava per suscitare. Quella torta dovette riescire soffice come una spugna, grazie all'energia febbrile con cui Nanna maneggiò la pasta, stirandola, battendola, ravvoltolandola in tutti i sensi. Finalmente suonarono le undici e mezza: - A momenti sarà qui - pensò Nanna. - Porterà la sua strenna prima della messa, per dar tempo a Rosetta di pigliarla avanti che torni Pietro. Ma non la piglierà. Ci sarò io prima di lei a raccogliere il fiore. E la bellezza dovrà spiegare a suo marito da che parte viene. Ed intanto stese la torta rapidamente, l'arrotondò, v'impresse col dito tante piccole fossette, la spolverò di zuccaro; poi si lavò le mani, e si pose in ascolto dietro la finestra del forno. Gaudenzio era già entrato nella siepe. Nanna lo seguí coll'occhio fino alla finestra accanto, ed il suo cuore balzava come quando era stata presa dal tifo. Questa volta non si affrettò ad aprir l'uscio e guizzare in cucina. Sapeva già cosa potrebbe trovare, e non voleva respingere nulla. Dal canto suo Gaudenzio, dopo aver deposto qualche cosa negli zoccoli, non ebbe premura di allontanarsi. Voleva vedere se gli respingerebbero il dono come l'altra volta. Si pose nell'ombra presso il muro tra le due finestre, ed aspettò. Nanna udiva il respiro affannoso del carrettiere traverso le gelosie, e reprimeva con fatica il suo. Quei due cuori battevano collo stesso impeto, nel silenzio della notte, soli, ad un passo l'uno dall'altro; ma fra i sentimenti che li agitavano c'era un abisso; dall'odio all'amore. - Se non se ne andasse! - pensò Nanna. Ed un momento vide rovinare tutti i suoi progetti. Aspettò ancora alcuni minuti. Un tempo infinito per la sua impazienza angosciosa, poi s'udí scoccare il primo segno della messa. Tese l'orecchio, ma il suono della campana le impediva di udire se Gaudenzio si movesse. - Pure alla messa ci deve andare - pensò. - Pietro lo aspetta, non mancherà. In quella una figura alta uscí dall'ombra della casa, e s'avviò rapidamente traverso l'orto alla siepe. Nanna aveva indovinato. L'innamorato correva alla messa per non destare sospetti nel marito colla sua assenza. Ella stette a guardare quel portamento baldanzoso, quel cappello sull'orecchio, finché la grande ombra ebbe varcata la siepe. Poi si nascose il volto fra le mani, e rimase a lungo assorta ne' suoi pensieri d'odio, di vendetta. Suonò l'ultimo segno della messa. - Che Natale, mio Dio! - mormorò Nanna. - Ho mai avuto tanto veleno nel cuore. Che cosa ho fatto per essere disprezzata, avvilita, come sono? Ma è venuta la mia volta. Li avvilirò anche loro e resterò io la padrona di casa. La campana tacque e s'udí un passo lento avanzarsi verso il cortile dalla parte del viale. Nanna balzò in cucina, nell'idea di impadronirsi dello zoccolo di Rosetta, e portarlo nella sua stanza, per presentarlo poi la mattina alla cognata dinanzi al marito, e dirle: - Ecco la strenna che ho trovato nel tuo zoccolo, chi ce l'ha posta? Si alzò sulla punta dei piedi aggrappandosi al davanzale della finestra, e guardò. Il suo zoccolo e quello della bimba erano pieni di chicchi; ne uscivano le carte frastagliate. Questa volta l'avevano trattata bene anche lei. Non s'era voluto irritarla. Nello zoccolo rosso e giallo di Rosetta, c'era ancora il famoso fiore in filigrana. Nanna alzò la mano per pigliarlo, ma in quella l'uscio della cucina venne aperto, ed entrò Pietro. Rimase confuso al vedere la sorella là accanto alla finestra. Anche Nanna fu turbata sulle prime. Non si aspettava quella venuta improvvisa, e non era preparata a fare sul momento la sua terribile rivelazione. Esitò un minuto; poi il suo cattivo genio le suggerí questo pensiero perfido: - È il Signore che lo manda perché io gli apra gli occhi. - E disse forte: - Stavo guardando gli zoccoli... Gli occhi di Pietro esprimevano una paurosa ansietà. Fece un passo verso la finestra, ma non osò andare innanzi. Si vergognava, colla sorella invidiosa, della galanteria che voleva fare alla moglie. Nella sua timidezza morbosa, sentí il bisogno di scusarsi. - Ho portato lo spillo per quella donna, che ne ha tanta voglia - disse senza guardare la sorella, e mettendo sulla tavola un involtino leggero. Il piú difficile era detto. Nanna si fece pallida di rabbia; ma Pietro senza darle tempo di parlare continuò a scusare quella gentilezza coniugale: - Sono sempre troppo asciutto con lei! Le metto soggezione, e non so farmi voler bene... Dacché questo fiore le fa piacere... Non mi è poi costato tanto. E continuava ad attorcigliare la carta dell'involto intorno al gambo del fiore, ed a tenerci intenti gli occhi, che non osava alzare per timore di scontrare quelli di Nanna. Era ansioso di mettere il fiore nello zoccolo e di assicurarsi se Gaudenzio non l'aveva prevenuto. E tuttavia, intimidito dalla presenza della sorella, rimaneva là seduto sulla panca presso la tavola. Neppure quel dubbio orrendo che aveva nel cuore poteva fargli vincere la debolezza della sua natura fiacca. - Ecco com'è amata quella sguaiata! - pensava Nanna. - È lí annientato per lei. Piú maltratta gli uomini, e piú l'adorano. Io non sono piú nulla dacché è entrata in casa. Babbo, mamma, fratello, amanti, sono tutti per lei. Ah! Se potessi schiacciarla! E nell'esasperazione del suo cuore invidioso attinse il coraggio feroce di dire a quel povero uomo: - Sei giunto tardi; ce n'è già un altro fiore. Un grido disperato, straziante, uscí dal petto di Pietro, e finí in un singulto che lo scosse tutto. Si coperse il volto colle mani, e singhiozzò disperatamente: - Ah! Lo sapevo che sono di troppo a questo mondo! - Ed era tutto tremante e convulso, mentre stringeva qualche cosa nella tasca del farsetto. Poi si alzò, e si avviò verso l'uscio. Nanna fu atterrita. In quel momento soltanto vide tutta l'enormità dell'azione che stava per commettere, lo scioglimento orribile che potrebbe avere. Ella aveva pensato soltanto a quanto desiderava lei. Ma ora vedeva che un marito innamorato e tradito non si limita a rimandare la moglie, ed a vivere tranquillamente co' parenti. È una parte della sua vita che si stacca da lui. I parenti non sono nulla dinanzi a tanto dolore. Le si affacciò agli occhi una scena di sangue di cui s'era parlato a lungo pochi mesi prima. Un marito geloso del proprio fratello l'aveva ucciso, poi aveva uccisa la moglie. Pietro nella sua profonda umiltà non avrebbe cercato di punire nessuno. Ma avrebbe ucciso sé stesso. Nanna lo indovinò dalla sua disperazione; e tutte le passioni ignobili che l'avevano esaltata si dileguarono dinanzi a quella paura. Tutto questo le passò come un lampo nella mente e nel cuore e, prima che avesse tempo di fare un atto o di dir nulla, una parola di Pietro la confermò nel suo pauroso sospetto. Egli si voltò nell'atto di aprir l'uscio e le disse: - Nanna, abbi cura dei nostri poveri vecchi! - Pietro, dove vai? Cosa pensi? - gridò Nanna correndo a lui. - Eh! A nulla; va là - disse Pietro respingendola; e poi sussurrò: - È meglio finirla che vivere a questo modo. Nanna ebbe bisogno in quel momento di tutta la forza del suo carattere concentrato ed energico. Capí che le suppliche non avrebbero giovato a nulla su quella natura selvatica. Bisognava distruggere il sospetto geloso ch'ella stessa aveva suscitato con tanta perfidia. Non c'era altro mezzo per combattere la risoluzione di Pietro. Fece violenza all'angoscia che aveva di dentro, e si pose a ridere sguaiatamente. - Ah grullo! Ci sei cascato! Ora lo so che sei geloso. Ah grullo! Ah! Ah! Ah! Pietro si fermò a guardarla colla bocca aperta e gli occhi sbarrati dallo stupore. L'eccitazione nervosa di Nanna era ben dissimulata dal ridere convulso. Un raggio di speranza gli rischiarò il volto di tanta espressione di conforto, che Nanna se ne sentí incoraggiata e prese a sghignazzare piú forte. - Ah grullo di uomo! Geloso dopo pochi mesi di matrimonio! Ah! Ah! Ah! - Ebbene, se sono geloso di chi è la colpa? - disse Pietro tutto confuso. - Sei stata tu a venirmi a dire delle sciocchezze, di Gaudenzio, e di quella donna... - Se lo dico che ci sei cascato, e che sei un grullo! Non l'hai capito che facevo apposta per farti ammattire? E tu subito a farti scorgere, a far il geloso. Stupido, va'! Dammi qui il fiore che lo metta nello zoccolo della tua donna. Pietro sporse il fiore, esitante, quasi inebetito tra la speranza ed il timore. Ma appena l'ebbe dato gli tornò il dubbio angoscioso, ed afferrando Nanna pel braccio le domandò a bassa voce: - Ma l'altro? Hai detto che ce n'è un altro. In che zoccolo l'hanno posto? - E fissandola negli occhi continuò: - Non può essere nel tuo, Nanna. Quest'ultima parola era crudele. Nanna ne risentí una fitta al cuore. Ma aveva veduto troppo davvicino l'orrore del male. Represse l'impeto del suo orgoglio offeso, e rispose con uno sforzo di generosità, eroico sotto la sua forma volgare e grottesca: - L'altro è nello zoccolo di Lucia. Ce l'ha posto Gaudenzio; che è innamorato di lei, e si confida con Rosetta. E la ragazza pure è cotta di lui. Anche questo non l'avevi capito? Che ci hai la cateratta agli occhi? Ah! Povero sciocco! A quelle parole i nervi di Pietro, tanto lungamente eccitati, si allentarono; abbandonò il braccio di Nanna, ricadde a sedere, e gettando sulla tavola un coltello affilato che teneva nella tasca del farsetto, disse con voce cupa: - Hai giocato un brutto gioco, guarda. Mi sarei ammazzato! E scoppiò in un pianto convulso. Nanna a quella vista, al pensiero ch'era stata sul punto di uccidere il fratello, fu presa da un brivido che la scoteva tutta; e per nascondere la propria agitazione andò ad aprire la finestra per mettere il fiore di Pietro nello zoccolo di Rosetta. Pietro la guardava con un resto di dubbio. Non poteva credere a tanta gioia. - Perché tremi a quel modo? - le domandò. - Se credi che dia gusto sentir a parlare d'ammazzarsi, e vedere dei coltelli... - E rabbrividí ancora. - Giura che quel fiore è nello zoccolo di Lucia; giuralo! - gridò Pietro con impeto. Nanna aveva già la mano sullo zoccolo di Rosetta per deporvi il secondo fiore; afferrò rapidamente il primo, lo pose nello zoccoletto della bimba, e poi disse colla coscienza sicura: - Lo giuro. Vieni a vedere. Pietro non rispose altro. Sospirò con soddisfazione, chiuse lentamente il coltello, e lo pose nel cassetto della tavola; poi rimase immobile coi pugni alle tempia guardando fissamente la tavola. Pensava forse tutte le angoscie sofferte; era ancora abbattuto, ma era calmo. Nella rettitudine del suo cuore non poteva sospettare che la sorella giurasse il falso; e dopo quel giuramento non dubitava piú. Considerava la cosa sotto un aspetto diverso. Dacché Gaudenzio era innamorato di Lucia, tutte le sue confidenze a Rosetta si spiegavano da sé. Le parlava della bimba e del suo amore. Rosetta, dalla finestra della sua stanza che dava anch'essa sull'orto, aveva veduto giungere e ripartire il bel Gaudenzio. Aveva aspettato trepidamente che suonasse l'ultimo segno della messa per esser sicura che tutti gli uomini fossero fuori. Nanna a quell'ora doveva aver finito di preparare la torta, ed essersi coricata. Era il momento buono per scendere a togliere lo spillo dallo zoccolo. Il rimorso e la paura le torturavano il cuore. - Vorrei che non l'avesse portato - pensava. - Non avrò che il fastidio di nasconderlo. E poi? Avrò un'obbligazione con Gaudenzio. Cosa pretenderà in compenso? Ah! Quel demonio di uomo è tanto bello, e sa tanto fare; non gli si può dire di no. Oh Signor Iddio benedetto! Come andrà a finire? Io voglio essere una brava donna. Mi piace di ridere; ma non voglio fare del male. Pietro non lo merita. È un po' selvatico; ma mi vuol bene, ed è buono come il pane, poveretto. Ed intanto scendeva pian piano, passando scalza, con quel freddo, dinanzi alla camera dei vecchi. Nell'aprire l'uscio della cucina rimase sorpresa di trovarci il lume acceso. Vide il marito e la cognata, e si fermò esitante non osando entrare. Nanna comprese che, se non l'aiutava, quella comparsa avrebbe ridestato i sospetti del fratello. - Oh! Qui c'è Rosetta - disse forzandosi di apparire tranquilla - Ti sta sul cuore, eh, la strenna del Bambino? - Oh no... - rispose Rosetta affrettandosi alla finestra, senza osare di alzare gli occhi. - So bene che non mi porterà nulla. Voglio soltanto ritirare il mio zoccolo dalla finestra. Temo che l'umido della notte lo guasti. Sta per nevicare. Pietro, che aveva gli occhi gonfi dal pianto, andò sull'uscio dicendo: - Non mi pare che voglia nevicare. E stette a guardare il cielo nell'oscurità per nascondere la sua commozione. Intanto Rosetta prese il suo zoccolo, e sentendoci dentro il fiore, allungò la mano per gettarlo a terra di fuori. Ma Nanna le tirò dentro rapidamente il braccio e le sussurrò: - Non lo gettare. È lui che ce l'ha posto. Ringrazialo. - E la spinse verso Pietro. Rosetta guardò la cognata, la vide commossa e rimase atterrita. Che sarebbe di lei? Che sarebbe del fiore di quell'altro? Intanto Pietro rientrava. Nanna spinse di nuovo la cognata verso di lui, e disse: - Ne vuoi sentire una buona, Rosetta? Questo povero grullo, grande e grosso com'è, aveva paura di Gaudenzio. Era geloso. - Ma che! Geloso! Non è vero - disse Pietro tutto confuso. Quanto a Rosetta, non capiva ancora. S'era fatta pallida; credeva che la cognata le preparasse una perfidia. Ma Nanna ripigliò: - Non istar a negarlo. Forse che non t'ho visto piangere? E questo l'avevi comperato per mandar cipolle? - E pigliato il coltello nella tavola, lo teneva alzato dinanzi a Rosetta, che rabbrividiva tutta a quella vista. Poi rivolgendosi a lei continuava: - Figurati! Egli credeva che Gaudenzio l'avesse con te. Come se non ci fossero altre donne che la sua a questo mondo, aveva paura che gliela mangiassero. - Oh! Io non penso a Gaudenzio - disse Rosa che cominciava a comprendere d'aver nella cognata un appoggio. - Síí! Vaglielo a dire. Ho dovuto raccontargli tutto; che Gaudenzio è innamorato della bimba, che te lo confida, che ha messo il fiore d'argento nel suo zoccoletto verde; tutto, se ho voluto che mi credesse. Ed ora si vergogna; ma non sarà tranquillo, guarda, finché non glieli fai vedere sposati. Io lo conosco. Pietro era sugli spilli per la vergogna. - Vuoi finirla? - disse con mala grazia. - Io non ci penso neanche. Rosetta, troppo agitata per poter parlare, saltò al collo del marito e lo baciò con trasporto, malgrado i suoi sforzi per respingerla. Si sentiva salvata. - Sí, sí - gli disse con uno slancio di cuore. - Lucia è innamorata, e debbono sposarsi. - E soggiunse con tutta l'espansione che le era naturale: - Ne sono tanto contenta! È come se mi facessi sposa io stessa un'altra volta. E voi, uomo, siete contento? - E lo abbracciò e poi abbracciò Nanna esclamando: - Avremo sponsali in famiglia; saremo tutti felici. - E le strinse la mano sussurrandole all'orecchio: - Grazie, Nanna. Mi hai proprio fatto da sorella. Era cosí sollevata dal sentirsi sfuggita ad un pericolo, che non dubitava del consenso di Gaudenzio, non dubitava di nulla, si sentiva riconciliata con sé stessa ed era felice. Nanna lasciò soli gli sposi ed uscí nel cortile. Dopo tanta concitazione provava il bisogno di piangere, e pianse a lungo in silenzio. Un profondo pentimento le era entrato nell'anima. Dinanzi alla disperazione di Pietro, alla riconoscenza sincera di Rosetta, era tornata buona, e sentiva orrore de' suoi sentimenti malevoli; e diceva: - Povera giovane: non ha che diciotto anni infine. Dovevo avvertirla prima, e mi avrebbe ascoltata. Ma avevo il demonio in cuore. Se gli avessi dato retta, che Natale d'inferno si sarebbe fatto in casa! Ma il Signore mi ha toccato il cuore. Quella campana di Natale mi rimescolava tutta laggiú nel forno... E nondimeno tremava pensando all'avvenire. Ora, nell'impressione del primo momento, sentiva tutta la dolcezza d'aver fatto del bene, ed era soddisfatta. Ma poi? Quell'entusiasmo cesserebbe. Le cose prenderebbero il loro corso abituale. Gaudenzio sposerebbe Lucia, o cesserebbe di frequentare la casa. Piú probabilmente la sposerebbe, perché Lucia s'era fatta fresca come una rosa dacché era alla cascina; era giovane, bella, aveva qualche cosuccia, e Gaudenzio era già avanti negli anni; e poi Rosetta troverebbe modo di persuaderlo per la pace di tutti. Pietro e Rosetta, ravvicinati da quella catastrofe, si amerebbero bene fra loro, e non potrebbero avere per la sorella vecchiotta e zitellona che un affetto secondario. Ella si troverebbe d'impaccio fra loro. I vecchi avevano poco da tirar innanzi. E lei povera Nanna, rimarrebbe ancora sola, ancora isolata, senza nessuno a cui volere tutto il suo bene, e che ne volesse altrettanto a lei. Ed allora, come farebbe a non invidiare quelli che hanno una famiglia e sono felici? Tornerebbe al male senza volerlo, in causa delle sue circostanze, del suo isolamento. Pensò tutto codesto con angoscia, e pianse, e pregò con fervore: - Oh Signore Iddio! Datemi una buona inspirazione. È la notte di Natale. Uscita la sorella, rimasto solo colla sposa, ed incoraggiato dalle espansioni di lei, Pietro le aveva narrato piangendo le sue gelosie, i suoi timori, la sua disperazione, ed il proposito orrendo di uccidersi. Erano commossi entrambi. Ed in quell'intimità infinita che lega gli sposi, in quelle prime lagrime versate insieme, si sentivano profondamente felici. Ad un tratto qualcuno bussò con furia all'uscio, e la voce di Pacifico gridò: - C'è qualcuno alzato? - Sí, ci sono io. - disse Pietro scostandosi in fretta dalla moglie, e correndo ad aprire. - Venite con me. Temo vi siano i ladri nella mia stanza, ci vedo un lume, ed ho lassú la bambina. I due uomini s'affrettarono su per la scala, e Rosetta, che era coraggiosa, li seguí in silenzio. Pacifico spinse l'uscio, e rimase immobile dallo stupore. Vide una lucerna sulla cassa ai piedi del letto; e Nanna inginocchiata accanto alla culla della bambina. Pietro si fece rosso come una vampa al vedere la sorella di notte nella camera d'un uomo, e le gridò con mal garbo: - Nanna, cosa fai qui? - Sto guardando il mio dono di ceppo, e ne ringrazio il Signore - disse Nanna alzandosi. - Egli s'è ricordato anche di me, sebbene io sia vecchia e brutta; e mi ha mandato questa bambolina; e mi ha dato un cuore di mamma per volerle bene. Non è vero Pacifico, che debbo essere la sua mamma? Pacifico nell'eccesso della gioia corse a lei colle braccia protese come per abbracciarla. Ma non osò fare quella scena davanti a tutti; e lasciandosi cadere le braccia penzoloni rimase come istupidito a guardarla a bocca aperta Rosetta fu la sola che comprese tutto. E colla sua espansione spontanea, abbracciò Nanna e le disse: - Iddio ti benedica, Nanna, per quello che fai a questa bimba, e a questo pover'uomo che ti vuol tanto bene. - Oh sí, per me vi voglio bene - disse Pacifico. - Davvero? - domandò Nanna con un lampo di gioia nello sguardo. - Non lo sapete forse? Non vi ho forse già domandata per moglie? Siete stata voi che non mi avete voluto. - Ma per la bambina, mi avete domandato. - Per la bambina, ed anche per me. - E dicevate che ero vecchiotta e punto bella... - disse Nanna con un po' d'ironia, incapace di sacrificare quel meschino risentimento alla bella parte che stava rappresentando. Appunto forse perché non rappresentava una parte, e nella sincerità dell'animo, si mostrava qual era, una donna con le sue debolezze nel bene come nel male. - Ebbene - rispose Pacifico senza curarsi di disdire quelle parole per cortesia, - a me piacevate cosí. Di vecchiotte e punto belle se ne trovano tante. Ma avete ben veduto s'io ne ho cercata un'altra. Sarei stato sempre solo, guardate. - E curvandosi per non essere udito soggiunse: - È da quando ci trovammo in risaia che vi voglio bene. Rosetta capí che avevano bisogno di restar un momento soli, e dando un urto col gomito al marito, gli fece segno di uscire con lei sul balcone. Allora Nanna, con un'espressione di civetteria, che dissimulava male l'ansietà passionata di scoprire quanta parte d'amore le fosse ancora dato sperare da quello sposo, gli disse: - Mi volevate bene, e ne avete sposata un'altra? - L'ho sposata, perché ho dovuto sposarla, Nanna. Ora posso dirvelo, dacché lei è morta e voi sarete presto la mia donna. Quella poveretta, requie per l'anima sua, s'era trovata con mio fratello in una di quelle risaie del Piemonte dove giovani e ragazze lavorano appaiati alla trebbiatrice. E neanche i riguardi dell'onestà ci avevano in quella fattoria. Uomini e donne dormivano sullo stesso fienile. E, capite. Quei due ragazzi si volevano bene... Basta; dopo i lavori a mio fratello toccò d'andare soldato. Aveva preso le febbri in risaia e partí che non era ben guarito. Un po' di cruccio, un po' di male vite, che so io, si pigliò un tifo che lo mandò all'altro mondo in pochi giorni. Un pezzo d'uomo!... Basta; quando andai a trovarlo all'ospedale militare. mi disse: "Quello che mi fa piú rincrescere di morire, è quella povera Caterina. Se il suo babbo lo sa, l'ammazza, o me la mette sulla strada". - E piangeva che era una compassione. Io pensai soltanto a consolarlo e gli risposi: "Senti, Michele. Siamo sempre stati buoni fratelli; metti il tuo cuore in pace, che alla Caterina ci penso io". - E capite, Nanna; io avrei voluto sposare voi; ma la promessa fatta ad un moribondo si deve mantenerla. L'ho sposata io quella povera disgraziata, e le ho fatta buona compagnia; di rimorsi non ne ho; ma ho sempre voluto bene a voi. - Ma allora questa bambina...? Disse Nanna quasi in atto di respingere la culla. - Non ha piú né babbo né mamma - disse Pacifico in tono supplichevole; - ed io le ho preso a voler bene... - Ed io pure gliene vorrò, e sarà come se fosse nostra - mormorò Nanna curvandosi verso la bimba addormentata, e baciandola sulla bocchina socchiusa. Poi soggiunse carezzandole i bei ricci biondi: - E non andrà mai in risaia. L'indomani era una benedizione vedere tutta quella gente alla mensa di Natale. Rosetta vezzeggiava il suo ispido uomo come se lo avesse sposato allora. I vecchi erano felici di maritare la figliola. Pacifico, lasciamo stare. Era sempre a guardare Nanna colla bocca aperta, e tratto tratto le diceva: - Dunque sarete la mia massaia? Demonio di ragazza! Se vi siete fatta sospirare! Il letto è pronto; quand'è che comincerete a scodellare la minestra a casa mia? - Ed altre espansioni rustiche in cui metteva tutta l'anima, pover'uomo, come i loro sposi, mie belle lettrici, in un verso sentimentale. Gaudenzio c'era anche lui; era andato al mattino a dar il buon Natale per sentire cosa ne era stato del fiore d'argento, e Rosetta l'aveva persuaso facilmente. A conti fatti non era una passione di quelle che logorano il cuore, la sua. Aveva un capriccio per quella bella sposa; ma l'idea di sposare quel gioiello di bimba, ed innamorata poi che lo lasciava traspirare da tutti i pori, gli andò a sangue; e fu un affare concluso; tanto piú che Rosetta lo assicurò d'essere stata a sedici anni sottile come un gambo di canape. Tutta quella floridezza le era piovuta intorno dai diciassette ai diciotto. Egli si figurava la sua sposina fra un anno triplicata almeno, ed era contento, e si dondolava più che mai, e si metteva il cappello tanto sull'orecchio che era un prodigio. E Lucia era in estasi dall'ammirazione, saltava di gioia, e trionfava col suo bel fiore d'argento nei cappelli bruni. Ed esclamava contemplando il ciuffo spropositato del suo sposo: - L'avevo capito da un pezzo io, che parlavate sempre con Rosetta di me, e che mi volevate dare il fiore d'argento. Oh! Se l'avevo capito! Povero cuore innocente! Non sapeva sotto che tempeste era cresciuto il suo fiore di ceppo.

Teresa

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Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Egli stesso non vi pretendeva; lo capiva forse di non essere ascoltato; e vedendo quelle teste abbassarsi via via sui petti, ciondolanti, vinte dal sonno; vedendo quella interminabile fila di sbadigli, quella immobilità rigida dei corpi intorpiditi, egli, il buon curato, precipitava le parole affogandole in gola, troncando le finali; finché la predica si riduceva ad un mormorio indistinto, dolce come una ninna nanna, piú dolce, piú cullante che mai in quella brutta giornataccia di novembre, propizia al sonno. Stretta contro a un pilastro, quasi per trovarvi una nicchia, Teresina non ascoltava nemmeno lei. Sulle prime era stata un po' distratta, guardando la gente che arrivava in ritardo, che non trovava un posto, e che lo cercava insistentemente facendosi largo tra la fila degli ombrelli gocciolanti, che rigavano il pavimento. Le signore che stavano sedute colle gonne rialzate da terra, attorcigliate intorno alle gambe, cercavano di non muoversi, socchiudendo gli occhi in un mistico raccoglimento; ma un ombrello che cadeva, un gomito sgarbato contro la tesa del loro cappellino, le obbligava a scuotersi, a farsi da parte. Quando tutti furono accomodati e il respiro dei dormienti salì, ora lieve ora fischiante, da quella moltitudine di persone, perdendosi sotto le alte navate, come un accompagnamento corale alle parole del predicatore, e Teresina si sentì quasi sola, un pensiero venne a tenerle compagnia - il solito pensiero che da un mese le stava fisso nel cervello, che la accompagnava nelle sue faccende domestiche, che la seguiva per la via, che si coricava con lei tutte le sere, e ch'ella trovava, ogni mattina, per il primo sul guanciale. La sua buona mamma dormiva, come gli altri, al suo fianco; le gemelle davanti sembravano statue. Teresina sollevò la testa, guardando in fondo alla chiesa, verso la porta maggiore; ma un gruppo di contadini, in piedi, glie ne toglieva la vista. Allora fissò gli occhi, distratta, sui finestroni a ogiva, dai quali entrava una luce scialba. Pioveva sempre, e quelle goccie continue sui vetri impolverati, tracciavano dei rigagnoletti piú chiari sulla trasparenza densa del cristallo. "il giorno del giudizio o peccatori". Questa frase monca, che per un movimento del predicatore era giunta abbastanza distinta al suo orecchio, la scosse; procurò di stare attenta alla parola divina, aggrottando le ciglia, stringendo le mani sopra il suo libro di preghiere. Ma dopo qualche istante le mani tornavano ad allontanarsi, gli occhi ripresero le vie aeree su per i cornicioni, nel fogliame dei capitelli, dentro lo sfondo della cupola, e ancora sulle ogive pallide battute dalla pioggia. Un sorriso impercettibile le sfiorò le labbra; per un giuoco strano della fantasia ella aveva visto improvvisamente quel finestrone illuminato da un tramonto d'autunno e le saliva alla testa, con un profondo sospiro, un profumo acuto di basilico; proprio come se avesse davanti i ciuffi rigogliosi di quell'erba. Chiuse gli occhi, abbagliata. Per un po' di tempo s'avrebbe potuto credere che ella pure dormisse, tanto era immobile, assorta nella visione. "Così avverrà quando, per la misericordia di Dio, ci troveremo riuniti in paradiso". La predica era finita. Tutti si alzarono, stirando le gambe, sbattendo le palpebre per cacciare un resto di sonno. Teresina aperse il manuale, a caso, temendo avesse qualcuno ad accorgersi delle sue distrazioni, volendo cacciarle coll'intensità della preghiera. Non era il posto della messa, ma ella lesse egualmente, con un ardore inquieto, pronunciando le parole, spiccandole, piena di fervore. "Vi abbraccio, o Gesù, mia gioia e mia consolazione. O anima mia, creata ad immagine di Dio, ama il tuo Dio da cui sei tanto amata. O Gesù, se non vi amo abbastanza, accendete in me il fuoco del vostro amore, che mi abbruci, che mi consumi, che mi faccia tutta vostra". Il celebrante trascinava l'ultima parte della Messa, assorto nel mistico raccoglimento della comunione. La signora Soave, rispondendo ad una inchiesta delle gemelle, disse: - Or ora, abbiate pazienza. Fate l'atto d'adorazione. L'Ite missa est fu accolto con un movimento di soddisfazione generale. Teresina chiuse il libro, in apparenza composta, ma con un tremito in tutto il corpo. Si segnò, fece la riverenza; il cuore le batteva disordinatamente. Appena fuori di chiesa, sulla soglia, prima ancora di aprire l'ombrello, ella guardò ansiosa in un certo angolo della piazzetta. Orlandi era là, riparato sotto un'ampia gronda all'antica, colle spalle al muro, l'occhio intento. Scambiarono uno sguardo rapidissimo, lor due soli; e poi, quando furono vicini, il giovane salutò. - Come fa Orlandi ad essere ancora qui? - disse la signora Soave. - Dovrebbe trovarsi a Parma già da un mese. Teresina non rispose; ma il suo viso divenne rosso infiammato. Non osava piú alzare gli occhi; camminava automaticamente, fissando i quattro stivaletti delle gemelle i quali battevano il lastrico davanti a lei. Dalla chiesa di San Francesco alla lor casa erano pochi passi. Sulla porta furono raggiunte da Orlandi, che si scusò dell'ardire, annunciando che l'indomani partiva per Parma, ed era venuto a chiedere se la signora Caccia avesse qualche imbasciata per Carlino. La signora, grata e sorridente, lo invitò ad entrare; egli volle schermirsene; ma siccome discorrevano sotto la pioggia, le gemelle apersero la porta, e Orlandi si tirò indietro per lasciar passare le signore. Entrarono prima le gemelle, la mamma e da ultimo Teresina, la quale, piú morta che viva, sentì prendersi rapidamente la mano e far scivolare in essa una lettera. Non ebbe tempo né di rifiutarla né di parlare e nemmeno di guardare l'audace che, ritto sulla soglia, protestava di non voler entrare a dar disturbo, bastandogli una parola per Carlino. Il ricevitore uscì dal suo studiolo, alla voce d'Orlandi; le gemelle salirono lentamente la scala, strisciando le scarpe per farle asciugare. Teresina le seguì. Quella lettera le bruciava il palmo della mano; non sapeva dove metterla. Si spogliò con un pugno chiuso, a movimenti febbrili; divorando cogli occhi le due ragazze che non terminavano mai di levare gli abiti. Sotto il portico, Orlandi, il signor Caccia e la signora Soave scambiavano dei complimenti; poi Orlandi se ne andò. Teresina col viso contro i vetri lo vide allontanarsi verso la piazza. - Non siete ancora pronte? ... - Che te ne importa? Facciamo il comodo nostro. Le gemelle erano cattive e maligne; l'istinto le avvertiva che annoiavano Teresina restando in camera, e vi restarono piú a lungo. Teresina colla fronte appoggiata ai vetri guardava a piovere; aveva messo la lettera in tasca, e vi teneva sopra la mano, stringendola con furore. Finalmente se ne andarono. La fanciulla balzò all'uscio, tirò il catenaccio e, tremante come fosse sul punto di commettere un delitto, aperse la lettera. "Ho bisogno di parlarle da solo a sola; non mi neghi questo favore. Stassera, dalle dieci alle undici, passeggerò finché ella abbia la bontà di aprire la finestra terrena. Aspetto e spero. E. ORLANDI. Era piú, ed era meno di quello che supponeva. Da un mese il giovinotto le faceva, visibilmente, quantunque delicatamente, la corte. Una dichiarazione formale non poteva essere molto lontana dalle idee di Teresina; se la fanciulla avesse avuto il coraggio di interrogare se stessa, avrebbe trovato il desiderio di quella dichiarazione in tutti i sospiri che gettava al vento, nelle ansie della domenica, quando doveva andare a messa e sapeva di vederlo, là, al solito posto; nelle distrazioni frequenti, nei sonni agitati: - sì, la dichiarazione era attesa. Ma quella lettera non diceva una sola parola d'amore, e le chiedeva invece, senza preamboli, una cosa tanto grave, qual'era un appuntamento. Teresina non sapeva che risolvere; si trovava in una agitazione strana. Per fortuna nessuno venne a bussare al suo uscio, così che ebbe tempo di rimettersi alquanto, almeno in apparenza. Nascose la lettera in seno; ma era troppo alta, la sentiva scricchiolare ad ogni movimento; aperse il busto, e la spinse piú avanti, vicino al cuore; allora le venne il dubbio che potesse scivolarle giú per la vita e perdersi per la casa; ne provò un terrore pazzo; tornò a slacciarsi tutta, assicurando la carta con uno spillo alla camicia. Ancora non si sentiva tranquilla, e ad ogni tratto andava tastando colle dita se la lettera fosse al posto. Che voleva Orlandi da lei? Era possibile che l'amasse davvero? Egli, il piú bel giovane del paese! Si batté la fronte: - oh! - proruppe in un oh! di rabbia, di dolore. Ricordava una fotografia trovata nella valigia di Carlino, il ritratto di una bella donna che suo fratello aveva chiamata l'amante d'Orlandi. Uno strazio, una smania orribile la prese, una gelosia rapida, quasi fulminea; un bisogno di interrogare suo fratello, di sapere chi fosse quella donna, se Orlandi l'amava molto, se l'amava ancora, dove era, che faceva, tutto tutto. E Carlino era a Parma! Si morse le mani dal dispetto; almeno glie lo avesse domandato subito, lo saprebbe. Ma che glie ne importava allora? - E adesso? Lo amava già tanto quell'Orlandi, lo amava al punto di soffrire, da piangere per lui? perché piangeva, non dirottamente, ma con quelle lagrime scarse e brucianti che lasciano il solco. Non sarebbe andata all'appuntamento, oh! no. Gli avrebbe rimandata la sua lettera, con un silenzio sdegnoso. Ma se la storiella del ritratto non fosse vera? Se Carlino avesse affibbiata all'amico quella innamorata, così per celia? In fatti, perché tenere nella sua valigia il ritratto dell'amante di un altro? Si chetò. Rifece, dolcemente, la breve tela de' suoi incontri col giovane; la prima volta che si erano conosciuti, nella passeggiata alla Fontana; l'improvvisata che egli le aveva fatta, trovandosi subito la domenica appresso sulla porta della chiesa. Ripensò i suoi sguardi così espressivi, quella bella persona, quella testa intelligente, quel sorriso che pareva un raggio di sole. Una soavità d'amore la invase; sentì correre per le vene un giubilo novo, come se una grande felicità l'attendesse, come la sua vita, chiusa fino allora, si aprisse ad orizzonti sconfinati. Ma volle frenarsi, dopo tutto non sapeva che cosa le avrebbe detto Orlandi. Pensò un istante di chiedere consiglio alla pretora. Se fosse stata presente, le avrebbe narrata ogni cosa. Ma la pretora, quel giorno non si fece vedere. Prima di scendere Teresina cedette a un desiderio invincibile di rileggere la lettera. Era la terza o la quarta volta che si sbottonava l'abito, che sentiva correre sulla pelle quel foglietto di carta levigata, morbido come una carezza, pungente come una ferita; ed alla carezza sorrideva, alla puntura gettava un piccolo grido smorzato dal piacere, tutta tremante, sembrandole che quel foglio, uscito dalle mani di un uomo e che ella nascondeva in seno, togliesse il primo velo al suo pudore di vergine. Quando andò a raggiungere la madre nel salotto terreno, ella si era composta una fisonomia calma, ma così seria, così piena di mistero, che la signora Soave le domandò subito che cosa avesse. Teresina mentì, come mentono tutti gli innamorati. Ma in fondo al cuore le doleva quella menzogna alla mamma, non sapendo poi nemmeno lei perché taceva, perché mentiva. La signora Soave, colle manine di cera abbandonate sui ginocchi e lo sgabello sotto ai piedi, incominciò a parlare di Carlino, delle camicie che bisognava mandargli, dei fazzoletti che non erano orlati ancora; ogni tanto interrompeva la litania monotona con un: - Te ne rammenti, nevvero, Teresina? Teresina diceva di sì. - Tuo padre si lagna sempre; dice che non facciamo economia, che quel ragazzo gli costa un occhio, e che, se noi non sappiamo limitarci nelle spese, sarà costretto a fargli sospendere gli studi ... Un lunghissimo sospiro sollevò il petto gracile della signora Soave, per un po' non ebbe voce; indi riprese, affievolita, tenendosi una mano sul cuore: - Ho raccomandato all'Orlandi di dargli dei buoni consigli … che posso fare, mio Dio, che possiamo fare noi donne? A quel nome di Orlandi, Teresina aveva trasalito impercettibilmente, volgendo gli sguardi al gran quadro meccanico che conteneva l'orologio. Erano le due. Otto ore ancora! Le gemelle intanto si accapigliavano nel vano della finestra, mute, senza chiedere soccorso a nessuno. Convenne dividerle; cinque minuti dopo si abbracciavano, al medesimo posto, facendo sberleffi alla loro sorella maggiore. L'Ida si annoiava con quella giornataccia: in causa della pioggia non poteva uscire nel cortile a giuocare. La noia pei bambini è sinonimo di capricci; ella incominciò a far tante diavolerie, che la signora Soave, colla testa intronata, sentendo un principio di emicrania, pregò Teresina di occuparla. E Teresina, pazientemente, si pose a ritagliare degli ometti di carta, e poi delle carrettelle, e dei vasi da fiore, e poi delle casette col tetto, colla porta, colle finestre da chiudere e da aprire. Era calma, sorrideva; ma ad ogni quarto d'ora i suoi occhi cercavano con ansia le sfere dell'orologio, e ad ogni ora che suonava, il sangue le dava un tuffo. Per lo sforzo del contenersi, era diventata pallida. Aveva dimenticato di far colazione; si sentiva appetito, ma non la voglia di mangiare. Anche il parlare le costava fatica. Avrebbe voluto chiudersi nella sua camera, e non far altro che pensare a lui, intensamente, esclusivamente. Non era possibile. Verso le quattro dovette andare in cucina ad ammannire il desinare; la mamma l'aiutava, debolmente, sedendosi ad ogni minuto, stringendo colle manine gialle il capo che le doleva. - Va', va', mamma; faccio io. - Le gemelle potrebbero darti una mano ... - No, mamma; hanno i loro compiti di scuola. Le gemelle erano l'incubo di Teresina. Ella se le vedeva crescere accanto astiose, diffidenti, ricambiando con una musoneria fredda tutte le sue premure. Avrebbero potuto essere le sue amiche, le sue confidenti, e invece una barriera di ghiaccio le divideva. Questo era un grande sconforto per Teresina. Così, tutta sola nella cucina bassa, intenta a uffici volgari, la fanciulla ingannava l'eternità dell'aspettativa avvinta docilmente alla sua catena, imparando la grande virtù femminile del dominarsi, la profonda abilità femminile di nascondere un tormento dietro un sorriso. Nel muoversi rapidamente, nel chinarsi, ella sentiva ancora lo sfregamento della lettera sulle carni delicate del seno; allora stringeva le labbra, palpitando lievemente, come per assaporare meglio quella sensazione che era ad un punto dolore e piacere.

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Oro Incenso e Mirra

678743
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Lelio s'accorse di essere vicino a commettere una odiosa sciocchezza: con uno sforzo supremo di volontà costrinse la propria collera ad abbassarsi e mirandosi nello specchio rispose: - Hai ragione, ho lavorato tutta la notte. La principessa si alzò gaiamente per contemplarlo nello specchio invece di guardarlo in faccia: un'altra risata accolse questo scherzo, ma Lelio rimesso del tutto si era già tratto il cappello e le tendeva la mano. Ella la strinse come al solito. Poi si levò proponendo a tutti quei giovani di accompagnarla in un giro lungo tutto il Pavaglione; Lelio si era rivolto a proposito verso il banco per ordinare un vermouth chinato. - Non viene lei, signor Fornari? - gli domandò con accento vibrante di sottile ironia la principessa. - Mille grazie, ma ho un altro appuntamento. - Con chi era il primo? - Potrei forse dirlo se fosse andato a vuoto. - Altrettanta fortuna pel secondo - rispose dall'uscio salutandolo con un gesto amichevole. Egli si morse le labbra per rattenere una ingiuria plebea. Erano le cinque, l'ora del passeggio elegante sotto il portico del Pavaglione prima di rincasare per il pranzo; i negozi erano affollati, la giornata splendida, il sole di marzo aveva messo nell'aria una mollezza tiepida e profumata. Lelio sperando che la principessa sarebbe tornata a casa forse sola, a piedi, andò verso il suo palazzo per tagliarle la strada; in quel momento avrebbe voluto con lei una spiegazione a qualunque costo, anche a quello di uno scontro col marito o di sembrare grottesco a tutta la città. Ma anche quel fanciullesco proposito gli andò a vuoto, perché la principessa rientrò nel proprio palazzo dentro la carrozza della contessa Ghigi e col marito di questa. Lelio dovette rispondere al loro cortese saluto, quantunque gli sembrasse di leggere negli occhi verdi della principessa una bravata di canzonatura. Ormai quel duello lo preoccupava tutti i momenti. I compagni lo tentavano malignamente su quell'avventura, che lo aveva tanto mutato: si notavano le sue frequenti distrazioni, il suo imbarazzo nei discorsi offensivi che si tenevano su lei, si erano osservate le loro occhiate a teatro, certi fremiti in lui, quel minuscolo dramma di silenzi, di parole, di bugie pressoché uguale in tutti gli amori. Egli per difendersi affettava un cinismo anche più volgare verso tutte le donne, e si era lasciato trascinare a più di una cena con ballerine di ultima fila. Intanto il tempo passava. Una sera sui primi di maggio la contessa Ghigi invitò la principessa ad una gita sulle colline di Ozzano ad un suo podere, ove era solita recarsi tutti gli anni, almeno una volta, a pranzo dalla propria balia. Ella v'andava in confidenza entro un vecchio calesse, senza livree, col cavallo di un fattore: il principe Giulio presente all'invito domandò di esservi compreso, perché sarebbe stata per lui una eccellente occasione per apprendere se in quelle colline vi fossero delle quaglie. Lelio Fornari sopravvenne in quel punto. Ma la contessa Ghigi sembrava poco disposta ad accettare il marito dell'amica per non turbare il carattere di quella visita: i contadini avrebbero avuta troppa soggezione, e la piccola festa sarebbe diventata un'ordinaria gozzoviglia di signore in campagna. - Io sono cacciatore, trattatemi a pane di granturco: non sarà la prima volta che ne mangio - insisteva il principe. - Niente, poi nella calesse non ci si cape in più di due signore. - Ebbene, un'altra idea: vi raggiungeremo lungo la strada, magari solo al podere, io e il signor Fornari. Ella accetta, non è vero, signor Lelio? sul mio biroccino da caccia. Oh! vi attacco sempre delle rozze, io vesto male anche in città, quei contadini non mi riconosceranno. - Ma il signor Fornari - intervenne la principessa - consentirà a non essere elegante? Io - aggiunse ironicamente - mi farò prestare un abito dalla cameriera. - Io invece verrò in maniche di camicia - ribatté Fornari sul medesimo tono. La contessa rise, la partita era vinta: Lelio e la principessa si guardarono negli occhi, quindi si separarono senz'altro. L'indomani sul mezzogiorno, perché le signore malgrado tutte le vanterie della sera innanzi si erano alzate tardi, la contessa Ghigi e la principessa Irma arrivavano al podere Cà de' Varchi al disopra della vecchia badia, precedute dal principe Giulio e da Lelio Fornari montati sopra un rozzo biroccino e vestiti da caccia. Lelio conservava un certo aspetto signorile, il principe invece pareva davvero uno di quei fattori da buoi, arrossati dal sole dei mercati e dal vino delle bettole. Secondo il solito, credendo tutti quattro di andare incontro ad una grande gioia, rimasero seccati sino dal primo momento: i contadini, tranne il reggitore e i due vecchi, erano scappati per la soggezione, la casa era sporca, l'aia piccola, la buca pel letame si apriva presso la porta della cucina, unica porta di tutta la casa. Due gelsi brulli, già sfogliati pei bachi, dei quali si vedevano le stuoie dalle piccole finestre del piano superiore, battevano coi rami sui tetti. Si dovettero porre i due cavalli nella stalla dei buoi, chiamando a grandi grida uno dei ragazzi fuggiaschi pei campi, perché venisse a cavarne prima un paio di vitelli; la calesse e il biroccino rimasero sull'aia, momentaneamente all'ombra di due grossi fienili. Siccome la contessa aveva mandato avanti il cuoco con molte provviste, il pranzo era quasi pronto in una camera attigua alla cucina, e dalla quale con grave incomodo dei contadini si erano dovuti sgombrare un letto e due cassettoni. La balia, vecchia e secca, affettava molta servilità verso la contessa, che credeva ingenuamente di essere adorata da lei e da tutta la famiglia, mentre invece quella gita non riusciva loro grata se non pei cinquanta franchi, che ella lasciava sempre per regalo nelle manine sporche del ragazzo più piccolo. Né la contessa né i suoi invitati, quando per caso ne accompagnava qualcuno, avevano il senso o il gusto della campagna: volevano mostrarsi indulgenti verso le maniere o la povertà dei contadini, ed invece li umiliavano doppiamente senza trovare mai un solo accento, che destasse un'eco della loro vita. Lelio Fornari invece entrò nella cucina e coll'acuta sensibilità dell'artista si mise subito all'unissono con tutti: il cuoco già brillo vi si affaccendava col reggitore ed il nonno, intanto che la balia vestita cogli abiti della domenica doveva accompagnare la contessa, che le aveva passato il braccio sotto il braccio per mostrarsi buona in faccia agli altri invitati. Poco dopo capitò nella cucina una ragazza alta, scalza, bruna, cogli occhi ancora tutti pieni di sole, chiamata improvvisamente dal campo per girare l'arrosto. Le due signore e il principe seduti nell'aia all'ombra dei fienili si volgevano spesso verso la cucina, dalla quale venivano sino a loro risa, fumi e profumi, colla voce del cuoco e quella di Lelio, che scherzavano colla ragazza. Questa, passata sull'aia a testa bassa per la presenza dei signori, si era tosto rimessa; il cuoco diceva qualche barzelletta in bolognese, Lelio le acuminava e la ragazza imporporata dalle fiamme del focolare, sul quale girava il lungo spiedo carico di polli e di piccioni, sembrava anche più bella. Il busto rozzo, da cui la rozza camicia bianca emergeva vivamente, le dava una apparenza fantastica, coi capelli così scarduffati, più neri nell'ombra densa del camino, e le braccia nude e gagliarde, che avrebbero potuto brandire subitamente quello spiedo come un'arma. Lelio non aveva ancora pronunciata una sola parola d'italiano in quella cucina, movendovisi come se vi fosse sempre stato: anzi la sua disinvoltura, solleticata dalla loro famigliarità, lo aveva fatto trascendere sino a sturare una bottiglia dell'eccellente vino bianco, mandato su dalla contessa per berla tutta insieme nei bicchieri piccoli. - Signor Fornari - chiamò con voce secca la principessa dalla finestra, sorprendendolo, mentre pizzicava scherzosamente il collo alla ragazza. Egli invece di uscire corse all'inferriata. - Che cos'è, principessa? - e mise le mani presso le sue nel medesimo ferro. Egli stesso aveva il volto rosso, caldo; il principe Giulio e la contessa Ghigi volgevano loro in quel momento le spalle. La principessa sentì la voluttà di quel bel viso giovane. - Perché non esce sull'aia? - gli domandò con sussiego forzato dandogli del lei per la prima volta, mentre si erano trattati sino allora col voi francese. - Siete voi che lo desiderate? - l'altro replicò appressandole maggiormente il volto al volto. Nella cucina si era fatto un silenzio improvviso; la ragazza si volse di sbieco. - Vedete, principessa, avete fatto loro paura: venite dentro. Ella ebbe una smorfia di ripugnanza, Lelio si staccò dalla finestra freddamente. - Se voi amate le serve, a me non piacciono i servitori. Un lampo di collera si accese negli occhi neri di Lelio, ma seppe frenarsi, e senza nemmeno rispondere tornò al focolare presso la ragazza. Il pranzo parve anche più squisito in quella cameruccia dalle pareti scalcinate, a travi sudice, su quella tavola un po' zoppa, che la balia aveva coperta colla propria migliore biancheria; ma le posate erano rugginose, perché il cuoco aveva dimenticata a casa la sporta delle argenterie. Il principe avvezzo ai contrattempi della caccia ne rise, ma le due signore dovettero fare qualche sforzo per vincersi, mentre la vecchia balia a fianco della contessa ne restava umiliata, e suo figlio, il reggitore, bel pezzo di contadino già sui cinquanta, che serviva a tavola, cercava di scusarsi offrendo di forbirle subito un'altra volta colla sabbia. Poi l'allegria ricominciò. Lelio sentendosi in vena seppe divertire le signore con una girandola di motti fini ed originali, che finirono di guadagnargli il cuore dei contadini: nella cucina si udiva ridere, giacché tutti i ragazzi vi erano tornati dai campi. Solo la principessa ridiventava tratto tratto accigliata. Lelio la punse scherzosamente più volte, e allora ella si atteggiò nella sua bella posa di sognatrice; mangiava poco, abbandonandosi sulla sedia rustica, mentre la contessa sempre così serena le diceva dolcemente: - Ecco che ti annoi! te lo avevo predetto. - No, mia cara, sono anzi contentissima, è una giornata deliziosa. In quel momento Lelio le premé sotto la tavola un piede, ella si volse, ma non lo ritirò. Allora il dialogo si fece più scintillante; il principe, gran mangiatore, ratteneva sempre il reggitore in quella sua intensa preoccupazione di mutare i piatti per parlargli di quaglie; i prati sui colli vicini dovevano esserne pieni, perché le quaglie vi nidificano in gran numero, e l'inverno era quasi stato senza neve. Lelio corteggiava amabilmente la vecchia balia tenendo sempre fra i propri piedi un piedino della principessa, della quale il volto si velava sempre più di una fantasticheria poetica. Fuori il sole incendiava tutta l'aia di una gloria di luce, mentre da lontano gli alberi verdi sussurravano mollemente. Ogni tanto, all'aprirsi dell'uscio, si vedeva la cucina piena di gente, che mangiava in piedi, seduta, in tutte le pose; la bella ragazza scalza era sempre nell'angolo del focolare con un piatto sulle ginocchia. - Lasciate aperto - disse Lelio; - è più bello così! Ci vediamo tutti. - Sì - ripeté il principe; - democrazia almeno in campagna. Ma la principessa sorprendendo una occhiata di Lelio alla ragazza ritirò bruscamente il piedino. Lelio si sentì nel cuore un grido di trionfo; temerariamente allungò daccapo un piede sotto le sue sottane, e lasciandosi cadere il tovagliolo, le sfiorò un'anca. - Vi piacciono le contadine, signor Fornari? - domandò la principessa. - Non osereste la stessa domanda col principe. - Lo so, lo so, a lui piacciono, e a voi? - Perché negarlo? Sì. - Così sudicie - ella soggiunse a bassa voce con una moina di ripugnanza. - Come la frutta: chi lava le ciliegie in campagna? - Ben detto! - esclamò il principe. - Ah! voi dovreste tacere - gli si rivolse minacciandolo col dito la contessa: - vi si conosce anche troppo. Siete tutti così voialtri! - Che cosa trovate dunque voialtri uomini di meglio nelle contadine? - insisté la principessa. - Chi ha detto meglio? - ribatté il principe. Ma la domanda era rivolta a Lelio. - La sincerità. - O la facilità? - Spesso sono la medesima cosa -, e il suo sguardo la dominò dall'alto. Erano alle frutta. Lelio andò in cucina con una bottiglia sturata e un gran piatto di dolci per far bere i ragazzi, il principe lo seguì mettendo mano al portasigari; la confidenza tornava in tutti, ridevano fra un tintinnire di bicchieri e di piatti, perfino il vecchio cane pastore bianco era riuscito ad introdursi. Volevano scacciarlo, ma Lelio protestò gettandogli un gran pezzo di pagnotta, che l'altro scappò subito a mangiare dietro i fienili. Le due signore rimaste sole attendevano il caffè. Il cuoco brillo lo preparava in un pentolino sul focolare, ma avrebbero dovuto berlo nei bicchierini, perché si era scordato egualmente delle chicchere e del caffè, e la balia aveva dovuto andarne a cercare un cartoccino nella propria cassa. Ella sola ne prendeva qualche volta in famiglia. - Signor Fornari - chiamò la contessa - ci lasciate sole, tutti. - Usciamo piuttosto, qui si soffoca: prenderemo il caffè all'ombra del gran susino dietro la casa. Infatti uscirono tutti, anche la balia: furono portate delle sedie, si formò il crocchio. Giù da quella eminenza la valle si stendeva incantevole sino a Bologna restringendosi dietro verso i colli, che la chiudevano come un immenso muraglione giallastro. Potevano essere le due: si parlò ancora, si rise, poi la conversazione venne languendo in quella fatica della prima digestione. A poco a poco anche la cucina si era vuotata, il reggitore dopo aver condotto i cavalli a bere in una pozza non era più uscito dalla stalla, si udivano da lungi cantarellare voci fresche sui gelsi che i ragazzi sfogliavano per i bachi, e una pace dolce, voluttuosa, veniva da tutta quella campagna in fiore, colle grandi erbe ondeggianti e i grani, che si doravano lentamente alle prime intensità del sole. Lelio era caduto in una contemplazione di artista accanto alla principessa, coll'occhio vagante sulla vallata; improvvisamente si sentì addosso il suo sguardo. Si levò, anch'ella fece altrettanto; il principe discorreva tranquillamente di agricoltura colla balia e colla contessa, ma vedendoli alzarsi, tutti domandarono ad una voce: - Dove si va? - Bisogna pur muoversi. - Con questo sole! - esclamò la contessa, cui l'aria aperta metteva una bianchezza più fulgida sulle carni. - Appunto nel sole. Ah! contessa, non vi diventereste più bella perché è impossibile, ma vi mutereste per qualche giorno di bellezza. - Sì, davvero! A Rimini nel tempo dei bagni divento di un bruno orribile. - Confessate però che nessun uomo ve lo ha ancora detto. Anche la contessa, il principe e la balia si erano levati; entrarono tutti nell'aia cacciandosi nella poca ombra fra il calesse e i fienili. Il sole era ardente, la balia propose di salire nelle stanze superiori a vedere i bachi, e infatti ogni tanto si scorgeva dalla finestra il busto rosso della ragazza che li mutava di stuoia. - Ah! sei tu... - esclamò Lelio, che aveva girato il pagliaio, scorgendo il cane accosciato con un osso fra le zampe. Il cane agitò la coda come ad un saluto, ma si scostò appena di qualche passo per riaccovacciarsi subito. - La brutta bestiaccia! - disse la principessa arrivando dall'altra parte. - È un povero.... Ella era ancora così melanconica, ma negli occhi verdi le tremava una luce insolita; il sole dardeggiando sul fieno l'aveva arroventato e faceva intorno ad essi come un'aureola d'incendio. Ella alzò una mano per ripararsi la fronte. - Irma! - egli proruppe piegandosele sul volto col viso pallido e gli occhi ardenti. Erano soli; dietro il fienile un altro terrapieno si curvava quasi in una svolta, nessuno poteva vederli, ma udivano sempre dall'altro lato la vecchia balia vantare i bachi, che dormivano della seconda. - Se vogliamo andare a vederli... - Aspettiamo che abbiano finito di dar loro la foglia, si veggono meglio - rispose la contessa. - Irma! - ripeté Lelio, ma questa volta con voce così strozzata che l'altra ribatté come sfidandolo improvvisamente: - Che cosa vi prende? - Egli si guardò attorno, l'altra ebbe un moto di spavento, ma era tardi: l'aveva già afferrata alla cintura, premendola nella parete del fienile. Ella si sentì raschiare il collo, ardere la schiena, mentre il sole le batteva sugli occhi accecante, trionfale. - No, no... - Gridate dunque! - Ella fece ancora uno sforzo, ma l'altro la soverchiò con una demenza sùbita ed irresistibile. Fu un attimo. Ella dovette abbassargli il capo sulla spalla sotto la furia dei baci che le mangiavano il collo, presa dentro una stretta delirante, nella quale tutte le sue resistenze di donna svanivano, mentre una paura orribile, inutile le cresceva dalle voci parlottanti sempre all'altro lato. - No! - rantolò ancora sentendosi ardere improvvisamente i ginocchi da un raggio di sole, poi credette di svenire nella sensazione delle punte, che le foravano gli abiti sottili e le mani. Non era forse stato più di un minuto. Ella si ricompose per la prima, vinta, offesa, guardando istintivamente il cane, che non si era mosso; Lelio più sbalordito non riusciva a parlare, poi delicatamente, con due dita, le trasse una festuca dai capelli. - Questa la conserverò - disse finalmente. - Oh! - ella esclamò con accento tremulo e guardandosi intorno - se... - Io arrischiavo la vita, voi no - rispose l'altro superbamente. - Bestiaccia! - Perché dunque vi pare così brutto questo povero cane? - ribatté Lelio ad alta voce per farsi udire dall'altra parte. - Non gli guastate l'unica festa dell'anno: vedete bene che anche in questa gli toccano solamente le ossa. Questa disinvoltura finì di vincerla: Lelio calmo non si affrettava a ritornare dall'altro lato. - Andate, andate - ella diceva affannosa. - Perché? - rispose gettando un sorriso trionfante d'ironia attraverso il fienile. - Oh! Lelio! vai.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679088
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Da lungi egli vide una comitiva che si dirigeva al castello, e poco dopo vide abbassarsi il ponte levatoio. - Ecco già un pretendente alla mano di Oretta! - pensò il povero giovane, e in fretta discese le scale e si appostò nel cortile. Era infatti una specie di ciarlatano vestito di stoffa di molti colori e seguìto da due servi e da due muli, carichi di cassette. - Guidami dal tuo signore, - disse rivolto a Leone, - io gli porto un rimedio infallibile. Il giovane scudiero, sgomentato dalla sicurezza con cui parlava il ciarlatano, diceva fra sé: - La bella e delicata Oretta andrà nella mani di questo villano? Dio mio, non lo permettete! E intanto non si moveva per guidarlo al conte Sigismondo. - Ho parlato a te; - disse con piglio di comando il ciarlatano, - ubbidisci! Leone salì le scale con la testa bassa, e poco dopo introduceva il ciarlatano alla presenza del Conte. - Ho udito il tuo bando, e vengo a portarti la guarigione, nobile signore. Non è il desiderio di acquistar ricchezze che mi ha spinto a prestarti i miei lumi, ma la fama della bellezza di tua figlia. Prima di cominciare la cura, lascia che io veda la mia sposa. Leone si sentì morire udendo quelle parole, e quando vide entrare Oretta tutta turbata e vergognosa, avrebbe volentieri punito con la spada lo screanzato che osava offenderla con lo sguardo. - La fama non mentisce, - disse il ciarlatano, dopo che ebbe squadrato la fanciulla da capo a piede. - Ora, signore, assegnami alcune stanze nelle quali io possa preparare i miei unguenti e in breve avrò debellato il tuo male. Il ciarlatano fu subito condotto a un quartiere destinato agli ospiti, e Oretta ritornò nelle sue stanze a piangere. Ella era figlia sottomessa, ma le pareva un sacrifizio troppo grande quello di unirsi con un uomo come quello screanzato ciarlatano. Quanto soffrisse poi il povero Leone, non si descrive; e la notte, senza poter prendere sonno, stette sempre a pensare al modo di strappare Oretta a quell'uomo indegno di lei. La mattina dopo il ciarlatano incominciò la cura e coprì di empiastri le gambe del Conte. Ogni momento egli domandava: - Come ti senti, nobile signore? - Male, - rispondeva il conte Sigismondo. E infatti smaniava, urlava, minacciava di gettar via gli empiastri, tanto lo spasimo erasi fatto intollerabile, e il ciarlatano sorridendo esclamava: - Pazienza, queste sofferenze sono la prova più chiara, più evidente che questo mio specifico, il quale rese la salute a tanti re, imperatori e papi, produce l'effetto voluto. Domani, nobile signore, sarai guarito, completamente guarito. E il Conte pazientò tutta la notte; ma il domani, vedendo che le sue gambe si erano gonfiate in modo spaventoso e soffrendo pene atroci, buttò via gli empiastri e ordinò a Leone di cacciare subito dal castello il ciarlatano. Figuriamoci se il giovane scudiero eseguisse con piacere l'ordine ricevuto! In pochi momenti il ciarlatano, i servi e tutte le carabattole portate da loro, erano fuori di Porciano, e il povero scudiero respirava liberamente. Ma il sole non era ancora tramontato, che eccoti un nuovo ospite. Era questi un uomo magro allampanato, tutto vestito di nero, che si spacciò per un fisico di vaglia, sciorinando attestati di signori. Leone dovette introdurlo presso il Conte e guidarlo nelle stanze destinategli. Al contrario dell'altro, costui parlava poco e non chiese di vedere Oretta. Però volle esser lasciato solo col Conte, dicendo che non avrebbe potuto curarlo in presenza di terzi, e si rinchiuse nella camera del malato. Leone, che era molto affezionato al suo signore, non era punto tranquillo. Che cosa voleva mai fare così solo quello sconosciuto? Egli avvertì Oretta di questo fatto, e la buona fanciulla, che ormai aveva gli occhi sempre pieni di lagrime pensando alla sorte che l'aspettava, gli disse: - Leone, non ti muovere dalla porta della camera di mio padre; veglia su di lui e avvertimi se avviene qualche cosa d'insolito. Gli ordini d'Oretta erano sacri per Leone. Il giovine si appostò all'uscio della camera del Conte, e in tutta la notte non lo sentì mai lamentarsi. Quel silenzio del malato, che avrebbe dovuto rassicurarlo, invece lo agitava. Quali farmachi aveva mai usati lo sconosciuto per farlo così lungamente e profondamente dormire? La mattina Leone riferì ad Oretta il risultato della veglia e la supplicò di ottenere una parola dal Conte, anche attraverso la porta chiusa. Oretta andò all'uscio e chiamò: - Padre mio! Nessuna risposta. - Padre mio, come ti senti? Nulla. Allora la fanciulla incominciò a tremare e ingiunse al fisico di aprire. - Voi, madonna, volete rovinarmi; - rispose questi, - finché vostro padre non è guarito, nessuno deve vederlo. - Io sono sua figlia e voglio entrare. - Voi non entrerete, perché io non aprirò. Oretta fece un cenno a Leone ed il giovane, con un pugno, abbatté la porta. Il Conte giaceva esanime sul letto, più pallido di un cadavere. - Voi l'avete addormentato; destatelo, - ordinò Oretta al fisico. Questi, per tutta risposta, si gettò ai piedi della fanciulla e disse: - Madonna, da più ore tento di destarlo, ma non vi riesco. Gli ho amministrato una bevanda per calmare i suoi dolori, e ora non posso distruggerne l'effetto. - Impostore! - esclamò Oretta, - che sia rinchiuso in una prigione; e se il Conte soccombe, egli morrà! L'ordine di Oretta fu subito eseguito con giubilo da Leone, il quale, tornato dalla fanciulla, le chiese il permesso di recarsi dall'eremita, per indurlo a pregare per il Conte. Intanto la settimana era trascorsa e il vecchio attendeva Leone sul limitare della sua cella, rivestita di borraccina. Quando lo scòrse da lungi, gli fece un amichevole saluto e gli disse: - So tutto; un angiolo mi è apparso in sogno e mi ha rivelato qual pericolo corre il Conte. Per salvarlo dalla morte tu devi subito ungergli il corpo con l'olio di gelsomino e introdurgli in bocca questa ghianda, che ho trovato accanto a me nel destarmi, e che l'angiolo solo può avermi recato. Dopo, confido di guarirlo dalla gotta e di farti assegnare l'ambito premio. Leone spronò il cavallo, e in poco tempo giunse a Porciano. Il Conte era sempre privo di conoscenza; Oretta si struggeva in lagrime. - Come faremo ora a trovar l'olio di gelsomino? - diss'ella quand'ebbe udito la narrazione del sogno del romito. - Rimonta a cavallo, o scudiero fedele, e riportamelo più presto che sia possibile. Leone sapeva che le monache di San Giovanni Evangelista di Pratovecchio, solevano distillare essenze, e si rivolse a quel monastero. - Ti aspettavo, - disse la Badessa al giovine allorché ebbe esposta la sua richiesta. - Stanotte mi è apparso un angiolo e mi ha detto: "Madre Badessa, prepara olio di gelsomino in gran quantità per guarire il signor di Porciano". Dopo queste parole, Leone non dubitò più che il suo signore non guarisse e che Oretta non fosse un giorno sua sposa. A spron battuto egli tornò al castello, e dopo che ebbe unto con l'olio di gelsomino tutto il corpo del suo signore, gli pose in bocca la ghianda, e attese. Di là a poco il Conte dischiuse gli occhi e disse: - Quanto ho dormito, o mio fedele scudiero. Mi pare di aver riposato un'eternità. Oretta fu subito avvertita del fatto, ed ella disse a Leone, appena le fu dato di trovarsi con lui: - Tu meriti una grande ricompensa per la tua devozione; chiedi. - Quello che io ambisco, mia dolce signora, è vera follia. - Ma parla, Leone! - Il vostro affetto, madonna. Oretta non rispose, ma toltasi dal petto una rosa carnicina, l'offrì al giovine, che vi posò le labbra. Il Conte si riebbe presto dallo spossamento cagionatogli dal lungo letargo; ma la gotta lo tormentava sempre ed egli invocava un sollievo, quando un giorno si presentò al castello il romito e chiese di parlare al signore. Leone, nel vederlo, fremé. Come, quel vecchio, cui aveva aperto l'animo suo, quel vecchio che gli aveva promesso aiuto, veniva ora a curare il Conte per ottenere il premio promesso? Il sospetto si avvalorò nell'animo di Leone, vedendo che il romito fingeva di non conoscerlo e di non averlo mai veduto prima. Il Conte però, che si era ormai insospettito, non accolse il romito a braccia aperte, come aveva fatto col ciarlatano e col fisico, e volle sapere quali rimedî avrebbe usati per guarirlo. - Un rimedio semplicissimo, - rispose il vecchio. - Ho portato meco alcune bottiglie di un'acqua sorgiva efficacissima; tu ne berrai due bicchieri al giorno, e in capo a una settimana la gotta non ti tormenterà più. Il Conte sorrise e rispose: - Io non credo all'efficacia della tua acqua, ma siccome mi pare cosa innocua, mescila ed io la berrò. E infatti ne trangugiò un bicchiere intero. Il romito chiese il permesso di ritirarsi in una stanza lontana per pregare a suo agio, e disse che la mattina dopo sarebbe tornato dal Conte. Questi, sera e mattina, beveva l'acqua e ne risentiva grande giovamento. Il terzo giorno i dolori erano cessati, il quinto camminava speditamente e il sesto poté inforcare un cavallo. Allora, ricordando il bando fatto, ordinò a Oretta di tenersi pronta per la celebrazione delle nozze, poiché l'acqua del romito lo aveva guarito e intendeva compensarlo degnamente. Oretta pianse tutta la notte. Le era impossibile di accettare quel vecchio cadente per marito; ma pure occorreva chinar la testa e ubbidire. Per ordine del padre ella dovette vestirsi sontuosamente e attendere lo sposo. Ella sperava almeno che il romito avrebbe lasciato quell'abito di rozza saia, rattoppato, che portava, ma invece egli si presentò nella sala, in cui erano adunati tutti i Porcianesi, scalzo e con la tonaca tutta a brandelli. Oretta piangeva, Leone fremeva dal dispetto. Il romito offrì la mano alla bella fanciulla che pareva una vittima che andasse al supplizio, non che una sposa sorridente alla futura felicità, e insieme si diressero alla cappella del castello e s'inginocchiarono dinanzi all'altare. Ma quando il cappellano prese l'anello per benedirlo, il romito si alzò dal suo posto e rivoltosi al Conte, gli disse: - Signore, è vero che ti ho guarito, non per virtù o scienza mia, ma per volere di Dio. Sappi peraltro che io fui intenerito dai lamenti del tuo fedele scudiero Leone, il quale si strugge d'amore per la tua Oretta. Ed io, per consolarlo, ho pregato il Signore di guarirti, e l'Onnipotente mi ha mandato due volte i suoi angioli; una volta ho potuto salvarti dal letargo e dalla probabile morte, mercè i suggerimenti di un angiolo; un'altra, ho potuto scoprire la sorgente che ti ha liberato dalla penosa infermità. Io dunque potrei, secondo la tua promessa, condurre in sposa Oretta; ma ti supplico invece di concederla al tuo fedele scudiero, a Leone, che l'ama teneramente. Leone impallidì, Oretta rimase a capo chino sull'inginocchiatoio, pazza di gioia, ansiosa e tremante, attendendo la risposta del padre. - Santo romito, - disse quegli, - tu hai saggiamente parlato. Una giovane fiorente non può essere la compagna di un vecchio, né si deve unire la splendida primavera al gelido inverno. L'amore, inoltre, comanda amore, e Leone avrà la figlia mia, ma non prima che egli si sia meritati in qualche battaglia gli sproni di cavaliere; che egli parta, che si copra di gloria e torni qui, dove troverà un padre affettuoso e una sposa fedele. Al cappellano non rimase altro che andarsi a spogliare degli abiti sacerdotali. Il romito tornò ai suoi boschi, e Leone partì, dopo aver ricevuto in dono dal Conte un cavallo bellissimo e una spada, e da Oretta una sciarpa di seta, riccamente trapunta dalle sue mani. Pochi mesi dopo, una sera si udì echeggiare il corno sotto le mura del forte castello e uno scudiero andò ad annunziare che il cavaliere Leon Forte desiderava rendere omaggio al signor di Porciano. Il ponte levatoio fu subito abbassato, e il cavaliere e la sua scorta penetrarono sotto le vôlte di pietra della feudale dimora. Il Conte non riconobbe a prima vista nel bel cavaliere, vestito di maglia, il giovinetto partito poco prima da Porciano in cerca di gloria; ma allorché Leone alzò la visiera dell'elmo, egli gli buttò le braccia al collo, chiamandolo: - Figlio, figlio mio! Allora il cavaliere chiese che fosse avvertita la sua sposa, e inginocchiatosi dinanzi a lei disse: - Per te ho combattuto e vinto, diletta del mio cuore. Partendo di qui, mi sono unito ai cavalieri di Carlo d'Angiò, che movevano alla conquista del reame di Sicilia. Ho combattuto a Tagliacozzo, nelle prime file, sempre col nome tuo sulle labbra; ho fatto strage di nemici, e il re, per ricompensarmi, mi ha creato cavaliere e mi ha investito di un feudo, cui ha dato il nome di Forte. Oretta, sono degno di te; supplica tuo padre che egli esaudisca i nostri voti. Oretta non ebbe bisogno di parlare; il Conte, alzatosi, aveva presa la mano di lei e l'aveva posta in quella del prode cavaliero. Alcuni giorni dopo furon celebrate le nozze; il romito non vi assisté. Egli era sparito senza lasciar traccia di sé, sparito per sempre. Leone raccolse la croce di legno, costruita da quelle sante mani, e volle che essa fosse collocata nella cappella in memoria di colui che era stato il suo protettore. Il Conte, ormai guarito, aveva ripreso la sua vita attiva di cacce e di scorrerie, e visse lunghi, lunghissimi anni vedendo Oretta felice con lo sposo di sua scelta, e con i suoi numerosi figli. La sorgente scoperta dal romito s'era esaurita, ma il Conte morì di vecchiaia e non ebbe più bisogno di ricorrere a nessun'acqua curativa. Leone, dopo la sua morte, amministrò saggiamente il feudo della moglie, e l'affetto unì quei due cuori in modo indissolubile per tutta la vita. Il professor Luigi, quando la Regina ebbe terminato di narrare, le fece al solito i complimenti, e quindi volle sapere dove si trovava Porciano. Cecco si offrì di accompagnarvelo il primo giorno di festa. Dopo questo, il discorso fu riportato sul grande avvenimento della settimana, che occupava grandi e piccini: sul matrimonio dell'Annina. - Che farà ora? - domandò Vezzosa. - Ve lo dirò io. L'Annina, in questo momento, è a tavola, - disse il professor Luigi. - Ma se la signora Durini pranza allo scoccar di mezzogiorno! - Non vi ho mica detto che pranzava alla villa. Oggi i proprietarî dell'albergo, che sono a Camaldoli, festeggiano la sposa futura con un pranzo sull'erba, verso l'eremo. Io non sono profeta; ma un uccellino, che mi onora delle sue confidenze, me lo è venuto a dire mentre leggevo in giardino. - Ed io aggiungerò, - disse Beppe, che era stato ad accompagnare i forestieri e tornava in quel momento, - che il signor professore sbaglia. Il pranzo c'è stato, ma a quest'ora gli invitati lo hanno quasi digerito e, se non sbaglio, si divertono a lanciar razzi e dar la via a palloni. Dirò di più, e questo il signor professore non lo sa: l'Annina ha trovato sotto il tovagliolo un orologio e una catena d'oro. La Carola, che aveva ascoltato in silenzio, incominciò a singhiozzare. - Ohè, ci sono i lucciconi? - domandò Maso. La Carola non rispose, e i bimbi rimasero a bocca aperta. In famiglia non vi era nessuno che avesse l'orologio d'oro. Il capoccia e i fratelli avevan certi cipolloni d'argento, buoni per cuocerci le uova, ma che formavano l'ammirazione dei ragazzi. Gigino stette un momento pensieroso e poi disse: - L'Annina mi vuol tanto bene: se glielo chiedo, me lo darà. - Aspettalo! - gli risposero. - Vedrete! Tutti risero alla scappata del bimbo e la veglia si sciolse.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679357
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Entrando nell'onorato ma modesto sentiero in cui lo spingeva il bisogno, egli sentiva di abbassarsi, non in faccia agli altri ma in faccia a sè stesso; non voleva abbassar con sè l'altissimo ideale, la scienza; per Lei, per l'amor suo, pel suo culto ogni maggior sacrificio; ma ambiva di farle la carità delle sue veglie senza ch'Ella sapesse che cosa costassero al suo sacerdote. Come aveva diviso in due parti il proprio tempo, così aveva diviso in due parti sè stesso. Rientrando dopo le sue lezioni per riaprire i dotti volumi, egli spogliavasi per così dire la pelle del maestro e ridiventava il pensatore; se sotto quella pelle alcuno sguardo indiscreto avesse potuto scoprire quest'ultimo, egli se ne sarebbe sentito abbandonato completamente; gli pareva che l'Idolo lo avrebbe guardato con faccia meno benevola, gli pareva che lo avrebbe profanato. La fortuna gli arrise. Non era scorso un anno e la sua fama di professore aveva già fatto il giro delle sale più aristocratiche di Londra, sicchè egli aveva ormai abbandonato l'uggioso e gretto insegnamento delle lingue per non dar che lezioni di lettere e di estetica, lezioni che gli venivano largamente retribuite e che, introducendolo, intermediarii l'ingegno e la coltura, nelle più cospicue famiglie, dovevano trovar preparata al medico futuro una vasta e invidiabile clientela. Gli agi non lo tolsero alla sua vita di privazioni; anzi affilarono, per così dire, l'aculeo che lo spingeva allo studio, talchè in due anni egli fece ciò a cui altri non sarebbe riuscito di fare, in doppio spazio di tempo. Pochi mesi mancavano al giorno in cui sarebbe stato in possesso di tutte le patenti volute dalla legge per professare la scienza salutare, quando un avvenimento sopraggiunse che doveva decidere di tutta la sua vita. Una delle famiglie con cui per mezzo delle lezioni egli era entrato in più intimi rapporti, - rapporti direi quasi di dimestichezza se dimestichezza fosse possibile fra inglesi e stranieri, - era la famiglia di Riccardo Hutley, antico capitano della Grande Compagnia. Arricchitosi di molto nelle Indie, il vecchio viaggiatore terminava in una quiete ben meritata la laboriosissima vita, in uno dei più begli appartamenti della City, educando principescamente insieme colla sua signora, l'unica figlia, miss Jenny, una fanciulla di dieciotto anni, un miracolo di virtù e di bellezza. Oltre le ore dedicate alla lettura e ai commenti dei nostri poeti a fianco di miss Jenny, erano molte quelle che il giovane De Emma passava nelle sale da pranzo e di conversazione e in quella del bigliardo, invitato con sempre maggiore frequenza dal capitano che aveva preso stranamente ad amarlo. Il vecchio scorridore dell'Oceano prendeva un gusto da non dire udendo il professore leggere le terzine di Dante; mai, egli andava dicendo a chi voleva o a chi non voleva sentire, mai egli aveva meglio provato l'influenza dei versi ... e notate che non capiva una sillaba di italiano! Bizzarria britanna! Frequentando così assiduamente quella famiglia, obbediva egli ad un sentimento di cordialità, di gratitudine? Tutti i colleghi che conoscevano quel giovane sempre pensieroso, sempre accigliato, il quale, - finite le ore dello studio non divideva cogli altri le lietissime dell'andarsene a zonzo, - che adocchiava, dalle vetrine dei librai, - le nuove edizioni, - nella attitudine di Adamo davanti al frutto proibito. - Tutti quei giovani inglesi lo guardarono, lo contemplarono, e finirono per ammirarlo. L'idolo è custodito: ecco perchè i passi di De Emma furono seguiti da altri passi. Quella frequenza contraria alle parche abitudini del giovane italiano, nella casa del vecchio capitano fece dire, dopo poco tempo, ad un primo. - È innamorato di miss Jenny! - È il suo amante, - ripetè il secondo. - Quel vecchio babbeo! ... osservò il terzo. E così di seguito. Che c'era di vero in tutto ciò? Eccolo detto in poche parole: De Emma non era l'amante di Jenny, il padre di Jenny non era un babbeo; ma il primo interlocutore aveva ragione. - De Emma era innamorato. E il padre di Jenny se ne accorgeva. Innamorato senza volerlo, quasi senza saperlo; come si è innamorati per la prima volta; innamorato non tanto della creatura come della poesia che ella espandeva; assorto in questa come in una visione; infelicissimo quasi sempre e più che mille volte felice in un giorno. Venne l'ora in cui constatò la propria malattia, e se ne atterrì come mai forse non si era atterrito al capezzale di nessun infermo. Due soli rimedii potevano salvarlo: uno d'ambrosia, l'altro di tossico; al primo non poteva, non doveva nemmeno pensarci; quanto al secondo, c'erano novantacinque probabilità su cento che invece di guarirlo lo avrebbe ucciso. De Emma scelse quest'ultimo. Il giorno stesso in cui si era convinto della dolce e crudele verità, egli ricevette un invito come al solito dettato nei termini della più squisita gentilezza, in cui lo si invitava in campagna ad Hutley House, per l'indomani; era sottoscritto «Jenny». Il povero giovane rispose immediatamente di non poter aderire all'invito attestando occupazioni che gli avrebbero reso necessario per assai tempo il soggiorno alla capitale. È vero che lacerò per ben tre volte il biglietto prima di poterlo scrivere in modo che la sua disperazione non trasparisse dalla sconnessione delle frasi e dei caratteri. Quel giorno errò come un pazzo per le strade e pei parchi preceduto da un fantasima di fanciulla dagli occhi azzurri e dai lunghi, disciolti capelli biondi, che ora pareva sorridergli con ingenua famigliarità, quasi facendogli coraggio a seguirla, ora sembrava comporre a corrucciata espressione l'angelica faccia, come chi vorrebbe rimproverare e non osa, e tiene il broncio di fuori e di dentro ha il rovello. Quella notte la visione sedette davanti a lui, insonne e febbricitante, nè lo abbandonò che coll'alba, quando l'orologio della torre lo richiamò dalle plaghe della inesorabile fantasia ai solchi della crudele realtà. Ma i libri su cui si gettò come si precipita sulla fontana il pellegrino assetato non erano più quelli del giorno prima: che insipida presa, che gelata selva di formule, che arida landa di dubbii, di supposizioni, di errori! Come mai tutto ciò aveva potuto, per tanto tempo, formare la sua delizia, il suo orgoglio, l'esistenza sua tutta intiera? Egli si vide allora spalancato un abisso in cui si sentiva irresistibilmente trascinato; come un ragno a cui la verga di uno spensierato fanciullo abbia infrante tutte le fila cui era sospesa la pensile dimora. Fu dapprima uno sgomento inenarrabile, una perturbazione spasmodica, se così è lecito esprimersi, di tutte le fibre dell'animo suo; uno stupore, una meraviglia, di sè, degli altri, di tutto, come sarebbe quella di un uomo che addormentatosi tranquillamente nel proprio letto, si risvegliasse d'improvviso sull'ultima vetta dell'Imalaia, o all'estremo confine delle sabbie del Sahara. Questi dolori sogliono condurre per mano la pazzia a destra, a manca l'abbrutimento: la rassegnazione sta in mezzo talvolta ..... ma è una rassegnazione forse meno invidiabile dell'abbrutimento e della pazzia. Guardata faccia a faccia la via del dovere, l'angusta via del dovere come la chiama il poeta, quella che lo separava per sempre da Jenny, il giovane De Emma non trovò il coraggio di batterla che esagerandone le scabrosità, moltiplicandone le spine, tenendo a bella posta aperte e sanguinolenti le piaghe che gli rallentavano il cammino. Il suo dolore a poco a poco andava trasformandosi in voluttà. Come il viaggiatore del deserto, sorpreso dalla notte, poichè ha acceso un gran fuoco onde tener lontane le bestie feroci, per paura di addormentarsi si abbrucia un dito, e come appena lo spasimo è cessato, lo riabbruccia, e così continua finchè l'alba tropicale non spunti in suo aiuto; così il signor De Emma cercava la propria salvezza, e, povero illuso, credeva trovarla, martirizzandosi nella fiamma fatale di quell'amore; nè si accorgeva che in tal modo, lungi dall'allontanarli si riscaldava e rinvigoriva ogni sorta di mostri nel cuore. Ragionava, sillogizzava sulla sua passione; ciò che è terribile. Si arrestava, avvolto in certi pensieri che, se altri avesse potuto leggergli dentro all'involucro cerebrale avrebbero fatto dubitare della sua ragione. Continuava, ma macchinalmente, gli studi di medicina; il resto del tempo impiegava (oh dov'era l'uomo serio d'una volta!) rileggendo e meditando le istorie innumeri degli amori e degli amanti infelici. Con esse cominciò ad insinuarsegli nell'animo il veleno che dalle pagine sublimi del Werther e dell'Ortis si era versato in tutta la letteratura dell'epoca. La sirena del suicidio venne a cantargli nell'animo le sue terribili ed affascinanti canzoni. Accade in questi rabbuiamenti del senso morale come nell'orgie: il ritornello vi trascina. E il giovine De Emma si trovò una brutta notte a ripeterlo colla passiva incoscienza dell'uomo soggiogato da una fissazione sopra il parapetto del Tamigi. Pioveva una belletta negra, figlia dei nembi e della caligine delle officine. L'acqua del fiume correva densa, scura, con dei vaghi riflessi plumbei. Scena atta veramente a disgustare del mondo. Egli diceva fra sè, con tutta calma, che non c'era ragione di rimanervi. Ma s'ingannava: per sua buona sorte, la ragione ci fu e tale da riconciliarlo perfettamente con la vita. A sua destra, lontano una cinquantina di passi, le finestre illuminate di una palazzina gettavano sulla superficie liscia, oleosa del Tamigi i suoi riflessi simili a pezzi di tela sudicia. Subitamente gli colpì l'occhio di sbieco qualcosa di bianco che scendeva tuffarsi là dentro. E, fra lo scroscio sordo e pigro dell'onda e il rombo cupo delle macchine che rantolavano la loro veglia, distinse un tonfo leggiero. Non ci avrebbe posto mente (aveva ben altro per il capo) se non ne fosse seguito una specie di tumulto nella casa vicina. Si gridava aiuto, accorreva gente con delle lanterne, si staccavano delle barche. Si mosse istintivamente e discese anch'egli alla riva. Sul fiume era cominciata la ricerca; tre barche in crocchio scendevano la corrente e, in mezzo ad esse, qualcuno gettavasi a nuoto e tuffavasi: a brevi intervalli, quando veniva a galla, i barcaiuoli gli gettavano dei monosillabi di consiglio, di avvertimento. - Si trattava certo di qualcuno caduto nel fiume. De Emma, in mezzo alla folla raccolta sulla sponda, guardava, aspettava con grande ansietà: avrebbe voluto essere dalla partita di salvataggio. Cosa strana; il sentimento della vita spento dal tedio della propria esistenza, rinasceva in lui dalla compassione per quell'infelice. Finalmente una esclamazione venne dal fiume ad annunziare il successo dell'impresa. Una barca si staccò innanzi alle altre e si avvicinò rapidamente alla riva. Recava il corpo inanimato di una donna. I barcaiuoli la portarono in una casupola vicina. e chiusero i battenti dell'uscio in faccia alla curiosità invadente della folla. Dopo qualche minuto, un finestrello s'aperse; una voce gridò: - Un medico! ... - Eccolo, rispose De Emma, che era rimasto là in mezzo. L'uscio si riaperse e fu introdotto nella camera. La donna distesa sopra un mucchio di reti non s'era punto riavuta. Egli si assicurò che il cuore le batteva fievolmente. Era giovane e bellissima: indossava una splendida veste di raso bianco e aveva un stupendo monile di brillanti al collo. Quella brava gente aveva esaurito senza frutto tutti i soliti mezzi empirici per richiamarla alla vita. De Emma si curvò e, posate le proprie labbra sulle sue, con quanta forza aveva nei polmoni inspirò a più riprese nel petto della giovane. Dopo un quarto d'ora un debol soffio indicò che le funzioni respiratorie si rianimavano. Due o tre curiosi erano riusciti a penetrare in casa col dottore; mentre egli era curvo intento all'operazione sporgevano il capo sopra le sue spalle per vedere. Uno di essi, un vetturale della vicina stazione, sclamo: - Tò la ballerina della palazzina verde. Qualcun altro confermò le sue parole. De Emma domandò: - Sta qui vicino? - A due passi. Il luogo non era adatto alle cure necessarie nella crisi che stava per dichiararsi. Per suo ordine i barcaiuoli la presero e la trasportarono in casa sua. Colà nessuno s'era accorto della sua assenza; un servitore che dormiva in anticamera si alzò in soprassalto e, tutto sbalordito, li guidò nella camera della signora. Attraversando l'appartamento la triste comitiva si imbattè nel finale di un banchetto d'uomini. Nella sala da pranzo dormicchiavano distesi nella posa di volgari ubbriaconi lords e gentlemens dei più noti del gran mondo. I meno cotti, all'inatteso spettacolo, pensando si trattasse di una burletta di quella matta di Rosilde, che quella sera li aveva invitati, come diceva il biglietto «all'ultima cena» levarono alte risa e batterono le mani; e afferrato un candeliere fecero scorta recitando le preci dei defunti. Figuratevi come rimanessero quando si accorsero che la cosa era pur troppo seria. Due, che giocavano in un salotto attiguo, assorti nella loro partita non intesero e non videro nulla: nel silenzioso stupore di quel momento si sentivano distintamente le loro irose osservazioni. Un reporter di un giornale del mattino scarabocchiava in un boudoir il suo cenno descrittivo. Fu il solo ad afferrar subito il vero: ma, avvezzo per professione a non meravigliarsi di nulla, seguì colla matita sulle labbra il convoglio, ne osservò i particolari, assunse a bassa voce minute osservazioni e tornò tranquillamente a terminare l'articolo, felice di potere nella chiusa impreveduta di esso regalare ai suoi lettori una ghiotta primizia. Il dottore riuscì non senza stento a congedare tutta quella marmaglia in giubba nera e non permise di rimanere che al barcaiuolo che avea pescata la giovinetta. Dopo un'ora di sforzi Rosilde cominciò davvero a riaversi. Aprì gli occhi, e al ritrovarsi nella sua camera, fe' una smorfia di disgusto. Volle sapere come c'era tornata e bisognò contentarla. Quando il signor De Emma ebbe terminata la sua breve relazione, lei si tolse dal collo il monile di brillanti e porgendolo al barcaiuolo: - Prendi, spetta a te; io l'avevo portato per chi avesse ripescato il mio cadavere. Tu mi hai servita un po' troppo sollecitamente, - ma non importa, la colpa è dello stupido mio destino. - Quanto a voi, disse poi al dottore, non vi date troppo fastidio, il miglior servizio è lasciarmi finir presto. De Emma, nella sua passione di medico, non si sgomentò per questo. Non vide in lei che un organismo da conservare a dispetto della sua volontà e prese a cuore il suo compito. Per parecchie settimane fu una guerra continua fra il medico e l'inferma. Egli faceva valorosamente il suo assedio, ed ella, benchè soggiogata da quel fermo proposito, si schermiva con delle segrete astuzie, con delle resistenze dissimulate. Però la crisi fu più lunga di quello che il dottore si riprometteva: quando credeva d'averla vinta scoprì d'aver di fronte un nemico formidabile. La Rosilde era affetta da un serio male di cuore che il suo tentativo di suicidio aveva aggravato. Era questa la causa della sua disperata risoluzione; la disperazione di guarire l'aveva buttata nelle braccia della morte per finirla colle ansie, colle terribili delusioni di una lenta consunzione, che pareva inevitabile. Quel giorno Rosilde gli gettò come una sfida queste dure parole: - Per far tanto armeggio bisognerebbe almeno sapermi rifare questo ordigno guasto. E picchiava coll'indice sul suo seno ansimante per l'asma, eh! che ne dite, patria? - Lo spero, rispose gravemente il De Emma con una sicurezza che non era punto una simulazione. - Davvero? ebbene proviamo. Da quel giorno fu di una docilità assoluta. Ella amava la vita. Il romanzo della ballerina del Covent-Garden, rivestito di tutte le grazie letterarie dei giornali, corredata delle ipotesi e delle spiegazioni con cui si fabbrica il mistero, menò grandissimo rumore. Tutti gli amici vennero a trovarla; molte notabilità vollero esserle presentate: ella fu per due mesi grandemente alla moda. Malgrado il divieto del medico, per due ore il giorno si teneva nella stanza di lei una sceltissima conversazione. Un po' la nuova speranza, un po' la cura del De Emma cominciavano a trionfare del male. La giovinetta rifioriva. Quelli che sapevano della sua malattia dichiarata incurabile da due celebrità mediche del paese ne facevano le meraviglie. Quando essi la complimentavano della sua guarigione, essa rispondeva: - Non so nulla io, è tutto merito del mio genio taciturno. Voleva dire il De Emma. Nessuno l'aveva mai veduto. Qualche volta egli veniva mentre c'era gente; e la Rosilde s'alzava per ricevere il «genio»; di solito rientrando congedava seria seria la compagnia. Si cominciò a scherzare del misterioso personaggio: poi ad esserne curiosi. Il baronetto Mac Snagley aveva un fratello che soffriva di cuore: pregò Rosilde di presentargli il suo medico. De Emma ebbe la sorte di guarire il giovinetto Arturo Snagley, idolo della famiglia. La sua riputazione si estese nella alta società di Londra. Parecchie altre cure felici finirono per metterlo in voga. La sua non era soltanto fortuna. Per il primo aveva indovinato, allora al tempo delle cliniche dirette e operative, l'importanza dell'igiene nella cura delle lente alterazioni organiche: non violentava il male, aiutava indirettamente la natura a correggerlo, a sopprimerlo. La novità del suo metodo, la gradevole facilità di eseguirlo aggiungevano attrattiva alla sua assistenza. Quando venne la primavera Rosilde per suo consiglio affittò un grazioso villino dalle parti di Brighton. L'aria aperta, la quiete della vita campestre compierono la sua guarigione. De Emma le rare volte che fu colà a visitarla si confermò nella certezza di avere rimosso definitivamente ogni minaccia del male. Gli istinti della sua prima giovinezza avevano ripreso il dominio della sua vita, Ella ritornava la gaia fanciulla di Castelletto. Aveva stretto relazione con la moglie del ministro e l'accompagnava nelle sue visite di beneficenza per le capanne dei contadini. Qualche volta ne invidiava ad alta voce gli uffici. I suoi sentimenti di donna e di campagnuola vi avrebbero trovato intera soddisfazione. Ella e De Emma si dovevano scambievolmente la vita. In lui i tristi fantasimi del suicidio eransi dissipati dinnanzi all'amore rinato della scienza e alla fiducia in sè stesso, - a ciò venne dopo qualche mese ad aggiungersi un alleato anche più poderoso. Una mattina di estate, all'ora in cui il dottore era solito ricevere in casa, il servo introdusse un signore nel quale il dottore ravvisò non senza meraviglia il signor Hutley, il padre di Jenny. Costui gli tenne questo strano discorso: - Voi siete un orgoglioso: avete lasciata la mia casa dove tutti vi volevano bene; ora io vengo umilmente a pregarvi di ritornare. Zitto, non ricusate, vi scongiuro; mia figlia è malata; voi siete medico, guaritela. Nessuno seppe mai bene come terminasse questo colloquio; pare che i due si trovassero nelle braccia l'un dell'altro. La stessa scena dovette ripetersi la sera in casa del signor Hutley e c'era presente una giovanetta un po' pallida che singhiozzava di gioia. Il dottore De Emma sposò poco dopo la sua Jenny; e partì con essa per un viaggio sul continente. Ma, come dicono i contadini, il Signore non vuole nessuno contento. Furono richiamati tosto a Londra dalla triste notizia che Hutley era stato colpito da una apoplessia. Gli sposi tornarono appena in tempo di ricevere la sua benedizione. Dopo la morte del padre, Jenny fu colta da una così profonda malinconia che il marito pensò a levarla dai luoghi che le rammentavano troppo vivamente la disgrazia. E Jenny accettò con viva riconoscenza la proposta di venire in Italia. Il dottore aveva ereditato in Lomellina da un lontano parente una vistosa tenuta: e poichè egli poco ambizioso, tutto assorto negli studi scientifici poco ci teneva alla sua clientela risolvettero di fissare la loro dimora a Zugliano, dove avevano passati i momenti più lieti del loro viaggio di nozze. Frattanto De Emma aveva, se non dimenticata, almeno perduta di vista la Rosilde. Solo aveva risaputo ch'ell'era tornata verso il fine dell'estate a Londra ed era risalita sul palcoscenico. Egli si proponeva di recarsi a salutarla prima di lasciar l'Inghilterra ma preoccupato dei preparativi della partenza rimandava di giorno in giorno la visita. Una mattina, era pressapoco l'anno da quella sera lugubre del loro primo incontro, ricevette l'invito dì passare da lei. La poveretta era ricaduta malata: l'aria pesante di Londra e gli strapazzi del palcoscenico avevano risvegliate le sue sofferenze di cuore. Il dottor De Emma ebbe rimorso di abbandonare così colei che era la causa di ogni sua fortuna, e si trattenne tutto quell'inverno. Anche allora egli riuscì a scongiurare la crisi minacciata. Le sue cure vinsero la violenza del male. Verso il fine di febbraio Rosilde tornò a stare meglio, ma era tanto debole stavolta, tanto sfinita che la convalescenza progrediva molto stentatamente. La rigidezza dei clima la teneva in continue oscillazioni. Il dottore pensava con viva inquietudine ai venti e alle pioggie del marzo imminente. Una settimana di tempesta poteva uccidere l'Inferma. Allora egli suggerì il ritorno in Italia. Rosilde non disse nè sì nè no, ma non si decideva mai. Il dottore indovinò il segreto motivo della sua esitanza. Ella non aveva più parenti all'infuori di Mansueta che stava a servire dal curato di Sulzena: la malattia aveva esauriti quasi interamente i suoi risparmi. In Italia come e dove avrebbe vissuto? Il dottore ne parlò a Jenny, le ricordò le obbligazioni ch'egli aveva alla Rosilde, gli confidò il suo stato e la pregò di trovar modo di aiutarla. La giovine sposa, buonissimo cuore, interpretò rettamente e liberalmente il suo desiderio. Si recò essa stessa dall'inferma e tanto fece e tanto disse che l'indusse a seguirli in Italia. Per qualche mese le cose andarono a meraviglia, l'accordo delle due giovani pareva perfetto; quando Rosilde parlava di partire i signori De Emma le davano sulla voce, ed ella messi da parte i pensieri dell'avvenire accettava con gioia la generosa ospitalità. Ma, dicono i montanari, due galli in un pollaio, due donne in una casa non fanno il paio. Il sereno non tardò ad intorbidarsi. Colla salute rinverdiva la mirabile bellezza di Rosilde; la sua fisionomia vivace, espressiva, gareggiava vittoriosamente colla figura forse un po' tranquilla di Jenny. Tutti ne parlavano in Zugliano e nei dintorni; facevano dei confronti, aggiungevano delle supposizioni che appunto per il loro carattere di maldicenza trovavano larga e pronta accoglienza. Qualche ciarla cominciò a salire fino all'orecchio della signora De Emma. Ella cominciò a dubitare, poi a sospettare. Il sospetto è un miraggio che ha l'aria di una rivelazione. Tutte le cose pigliano attraverso a quello un'apparenza menzognera che, per disgrazia, è più verosimile del vero, s'incontrano in una logica più stretta perchè più artifiziale della realtà. La effusione tutta italiana con cui Rosilde manifestava al dottore la propria riconoscenza, parve a Jenny, più contegnosa, l'espressione di un sentimento più caldo e meno lodevole. Essa vide in lei non già una rivale, ma una minaccia al suo avvenire, alla tranquillità della casa; e la sua amicizia per Rosilde al soffio gelato della gelosia inaridì. Tuttavia non trascese in volgari ostilità: dissimulò nobilmente il suo sospetto, il suo timore, tutto, fuorchè una cosa, la sua freddezza. Ma questa bastò a Rosilde per indovinare tutto il resto. La triste scoverta la fe' pensare ai suoi casi, alla precaria sua condizione, all'incerto avvenire, ma sovr'ogni altra cosa all'umiliazione di essere a carico de' suoi ospiti. A tutta prima ella, come poi confessò al dottore, ebbe un accesso di odio per colei che coi suoi sospetti veniva a turbar la sua quiete: ma si persuase poi che la signora De Emma aveva ragione. Rosilde era innocente: aveva invidiata la felicità della casa in cui era stata raccolta ma l'aveva rispettata: non mai il suo cuore erasi aperto a delittuosi desideri. Voleva bene al dottore come ad un amico, ad un fratello maggiore com'egli si mostrava con lei: i loro caratteri entrambi risoluti, franchi, fieri non eran fatti per amarsi diversamente. L'amicizia si contenta spesso della somiglianza, l'amore esige quasi sempre l'antitesi dei caratteri; cerca l'armonia nelle differenze. Per invaghire un'indole così vivace e quasi virile come quella di Rosilde ci voleva un animo più tenero, più pieghevole, direi quasi più femmineo Ella deliberò di lasciare senz'indugio la casa De Emma e annunzio a tavola il suo divisamento senza preamboli, senza mezze confidenze, senza misteriose titubanze a tutti due i suoi ospiti insieme: disse che Mansueta l'aveva invitata a passare qualche tempo con lei e che intendeva recarsi a Sulzena l'indomani, - così senz'altro. Poi, con singolare tristezza, sorridendo, mutò discorso risparmiando al dottore l'imprudente ingenuità di farle delle preghiore e alla signora l'impaccio di nascondere la sua soddisfazione. Con lei si mostrò gentilissima, serena, volendo dissipare in lei persino l'ombra del dubbio. Questa fu la sua vendetta. Jenny ne fu commossa, Nel congedarla il giorno dopo non potè esimersi dal dirle: - tornerete? Rosilde le rispose: - A salutarvi. Molto probabilmente io lascierò di nuovo l'Italia. E le strinse la mano perfettamente tranquilla. Il dottore s'era accorto all'ultimo delle inquietudini della moglie e, contentissimo di essere liberato da una posizione molesta, si guardò bene dal rattizzarla con delle imprudenze. Riconoscente di tutto cuore a Rosilde della sua discrezione, finchè ella rimase a Sulzena, non cercò una volta sola di vederla. La ritrovò una sera per caso in quelle circostanze strane descrittemi dallo speziale. La povera giovine sorpresa nel proprio segreto gli contò allora la sua vita degli ultimi mesi, un romanzo di trista e funesta dolcezza. L'infelice s'era lusingata di tradurre in pratica il suo sogno di Brighton. La quiete del Presbitero l'aveva sedotta, ammaliata il carattere timido, pensieroso e malinconico di Don Luigi, allora giovane di aspetto e di forze malgrado i suoi quarant'anni sonati. Per certe donne l'amore non è che una forma più squisita della compassione: danno il loro cuore per un sentimento affine a quello per cui si farebbero suore di carità. Rosilde era di questi caratteri che pensano sempre agli altri e mai a sè stessi, che si guardano ansiosi intorno per trovare se c'è persona da soccorrere, da consolare e si feriscono spesso a morte per risanare il primo capitato da una scalfittura. La triste solitudine di quest'uomo così buono, così degno d'affetto la commosse. Ella non dava per sè stessa una grande importanza alle passioni amorose, ma come la madama Warens di Rousseau, e come la maggior parte delle donne, credeva che gli uomini non potessero farne senza, e veramente gli uomini che ella aveva incontrati, il mondo corrotto in cui aveva vissuto non potevano darle una più retta opinione. Perciò le pareva di scorgere nella vita di don Luigi un vuoto doloroso. Ella, così pronta a sacrificarsi senza chiedere ricambio, non capiva che si potesse fare di un'idea, di un sentimento soprannaturale l'interesse massimo della vita. Gli è che il suo cuore arrivava molto più in alto della sua mente incolta. Quando ella, nascosta dietro le stecche delle persiane o fra i cespugli del giardino, vedeva don Luigi appoggiarsi meditabondo al muricciuolo dell'orto, e là rimanere immobile per dell'ore colla fronte corrugata, gli occhi fissi alle cascatelle del torrente: poi levarsi repentinamente e passeggiare e poi fermarsi di botto e riprendere a camminare a passi ineguali, - ella s'immaginava che fossero le torture di un'indole passionata costretta a ripiegarsi dentro di sè. Ella non aveva torto interamente. La gioventù, ingagliardita dal lungo ritegno, tentava allora l'ultima e più formidabile ribellione contro le rigidezze del povero prete, mascherando i suoi assalti con quel misticismo, - potente e fuorviata sensualità delle indoli caste, - il quale penetra l'umana natura nelle sue più intime fibre, e la colpisce nell'arcano principio onde si congiunge l'elemento morale colla materia. Don Luigi attraversava quella crisi in cui il senso aggredisce la volontà violentemente, all'improvviso senza più avvertirla colle tentazioni, - e riesce spesso a sopraffarla. Egli andava inconsciamente contro il pericolo, dissimulato dai sintomi più diversi e più lontani. Sentiva un grande distacco dalle cose terrene, una stanchezza scevra di desideri, - eppure egli non era mai stato così debole di fronte ai piaceri mondani: non li temeva, perciò non stava in guardia. Così è, quando il vapore aderge troppo alto si scioglie e precipita nel rigagnolo. Qualche volta Rosilde sbucava fuori dal suo nascondiglio e andava raccogliendo fiori, camminando dall'una all'altra aiuola queta e silenziosa, come le premesse di non frastornar le sue meditazioni. Egli non tardava a scorgerla. Non l'evitava punto; la seguiva placidamente cogli occhi; guardava la sua manina bianca passar coll'agilità di una farfalla dall'uno all'altro cespo fiorito a farvi la sua preda, senza neppur farne cadere una stilla della rugiada che ne imperlava le fronde. Di solito se le accostava lentamente, e, mentre essa componeva ghirlande e mazzolini per l'altare, avviava con lei, senza sforzo, la conversazione. Parlavano dei fiori, del paese, ma nei discorsi più indifferenti trapelava l'alto pensiero di lui, il sentimento vivace di lei. Così poco alla volta, quel loro mattutino colloquio divenne una necessità della loro vita. Rosilde non mancò più di farsi trovare in giardino; e Don Luigi ci si recava dopo la messa inconsciamente per una abitudine che non gli costava nulla e gli era molto più cara che non credesse. Rosilde era uno di quegli eccezionali temperamenti di donna che, per la loro ventura, il poeta e il filosofo, - questi ossessi dell'idea e dell'immagine, - dovrebbero trovare sempre sull'aspro cammino della loro vita cogitabonda. Indoli fatte per riconoscerne, per ammirarne più che per capirne la superiorità. per tollerarne con pietosa e quasi inconscia abnegazione le debolezze, vigilanti alla felicità dell'uomo distratto dalle alte cure, pazienti ad attenderlo, sollecite ad aggiungere olio alla lampada della loro devozione come le vergini dell'evangelo. Nei primi giorni che ella passò al presbiterio malata, sfinita di cuore e di forze ella non vedeva Don Luigi che molto raramente; ma sentiva intorno a sè, in tutte le cose, la carità benefica delle sue premure, la sua pietà nobile, generosa, schiva di mostrarsi. Ad ogni momento Mansueta le usava qualche riguardo, qualche nuova cortesia, - e sempre ne attribuiva il merito al padrone: - don Luigi così ha detto, don Luigi ha pensato, don Luigi ti manda questo e quest'altro. Ell'erasi così bene avvezza alle dolcezze di quella casa che il pensiero d'uscirne la sgomentava tutta. Però quando, convalescente, ella venne a ringraziar don Luigi, comprendendo che per discrezione dovea prendere finalmente congedo, tremava e i suoi occhi erano assai più fecondi di lagrime che le sue labbra di parole. Ma il buon prete alle prime parole di riconoscenza la interruppe; il suo viso pallido arrossì subitamente dalla commozione, e scotendole la mano: - Che dite mai, che dite mai .... un piacere, un dovere .... Rosilde ebbe la soave, intima certezza che la sua presenza colà non era molesta, e non finì il discorsetto preparato e incominciato. Don Luigi aveva soggiunto: - Che volete, siete capitata in un eremo, e in un brutto mese; ma ora viene la bella stagione e vi ci troverete molto meglio: non manca in questa solitudine una certa selvaggia bellezza: vedrete dei luoghi di una singolare amenità. La giovinetta accolse queste parole con un sorriso di gratitudine, come la più cortese maniera d'invitarla a rimanere. Ma forse il sentimento che le inspirava era ancora più nobile. Ho dovuto convincermi per esperienza che don Luigi non pensava mai alla partenza dei suoi ospiti. La loro domanda di congedo era sempre per lui una sorpresa che, secondo i casi, combatteva con una viva e affettuosa resistenza, o, come nel caso mio, subiva come una triste necessità. Ella rimase dunque. Ispirata dalla calda sua riconoscenza, dalla indipendenza del suo carattere e della sua educazione bizzarra, si convinse che non solo era di troppo, ma poteva recare qualche conforto a quella malinconica vita di anacoreta, Ed aveva istintivamente abbracciato, prima che compresa la sua missione: - umile e sublime missione! Il suo mestiere l'aveva avvezza a riguardare sè stessa come un giocattolo: come uno svago, - ed ora, dopo aver rallegrato colle sue danze le noie di tanti oziosi e buoni a nulla, le pareva di nobilitarsi col fare omaggio di sè stessa a un uomo di merito e di cuore, ad uno che l'aveva ospitata, che le aveva usato riguardo senza esservi spinto nè dalla concupiscenza nè dalla vanità. Però fu con viva gioia ch'ella si accorse d'essergli cara. Ciò bastava al suo orgoglio e non aveva la pretesa nè di dare, nè di ottenerne amore. Era troppo modesta per questo. Certo ella non scandagliava troppo in fondo i proprii sentimenti, non notomizzava con analisi soverchiamente rigorosa l'effetto che produceva nel suo cuore lo sguardo affettuosamente grave di don Luigi, il suo viso allora giovanile e incorniciato da ricche ciocche ricciute di capelli nerissimi. Ella ci teneva a non farsi illusioni, - e forse questa sua modesta smania di realtà era la più grande, la più generosa delle illusioni. Però ella non la smentì mai neppure con sè stessa; se i desideri, i timidi suggerimenti del suo cuore si levarono alla fine contro di essa per dissiparla, - ella seppe vincerli, frenarli, farli tacere. Ella non pensò mai a calcolar sull'avvenire di lui e del presente non prese mai che le ore di riposo: e quando si avvide che ella poteva influire sul suo destino, nuocergli, ebbe il coraggio di .... Ma non precipitiamo gli avvenimenti. Rosilde e don Luigi si vedevano dunque regolarmente tutte le mattine. A quell'ora, dopo la messa prima, si faceva nel Presbiterio e nel villaggio una gran pace. Il campanile dopo aver confidato agli echi della montagna i suoi squilli di benedizione taceva. Baccio, svestito, coll'abito di sacrestia, il sacro carattere delle sue funzioni, usciva in campagna con tutta la sua famiglia. Mansueta attendeva al governo del suo pollaio: governo assoluto, personale, faccenda di colossale importanza. Essi rimanevano soli in mezzo alla vasta e gioconda quiete mattinale. Era giunta la primavera. L'aria olezzava di primolette e di viole. Nei campicelli scaglionati sui clivi, una verzura pallida annunziava colla lirica verginale delle sue tinte delicate l'epopea splendida delle spighe d'oro. In tanta gloria di cielo, in tanta serenità di paesaggio, i loro colloqui erano tutti tranquilli e lieti. Quantunque Rosilde avesse per don Luigi un grande rispetto, l'umiltà vera di lui, la sua repugnanza per ogni apparato. per ogni posa anche la più legittima della sua dignità, davano alla conversazione un tono perfetto di uguaglianza. Schivo di tutte le affettazioni, egli non la chiamava mai figliola e, neppure sorella, diceva senz'altro Rosilde. Egli, come io stesso ne feci la prova molti anni di poi, era anzi istintivamente disposto a riconoscere una certa superiorità nella gente che avesse vissuto nella città. L'attrattiva del mondo era allora anche più possente sulla fantasia dell'anacoreta. Riguardava con uno sgomento d'ammirazione quella debole giovinetta che aveva da sola attraversata quella vita che gli ascetici suoi maestri gli avevano paurosamente descritta come un vortice divoratore. Era una delizia inenarrabile il sentirla parlare dei suoi viaggi e Rosilde, vedendo che ciò lo divertiva, gliene parlava sovente. Poco alla volta il racconto della sua vita teatrale venne a frammischiarsi ai discorsi placidi dei primi giorni, e ad interromperli sovente. Don Luigi, affascinato, si dimenticava; si avvezzava senza volerlo, senza accorgersene, a carezzare col pensiero, sulla fronte bianca, sulle treccie bionde, sulle labbra rosee della bella narratrice, le malie, gl'incanti ch'ella gli suscitava colle sue parole dinanzi alla mente. Se qualche volta, sopraffatto dalle immagini lusinghiere, chiudeva gli occhi, riaprendoli trovava dinanzi a sè il sorriso sereno, soave di Rosilde. E, infine, sorrideva egli stesso, - e, in quel momento di debolezza, egli era vinto; il suo cuore, colto alla sprovveduta, cedeva al fascino di quella bontà e di quella bellezza. Nè l'uno nè l'altro aveva pronunziato mai la parola fatale; eppure l'idillio era incominciato: - e la passione per un sentiero sparso di fiori, molle di muschi trascinava la loro innocenza nei suoi abissi profondi. Oh se i loro cuori avessero conosciuto le cose per il loro vero nome: se l'amore non si fosse celato per lei sotto le sembianze della devozione, e per lui sotto quelle più candide dell'amicizia, nulla sarebbe accaduto. Se don Luigi avesse dovuto lottare, o anche solo formulare un'aspirazione, un desiderio ... egli avrebbe arretrato impaurito; la sua volontà allarmata avrebbe vinto. Ma nulla di tutto questo. Ella offriva. egli non aveva che a chinarsi per accettare.

Se questo è un uomo

680929
Levi, Primo 1 occorrenze

Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare "Jawohl" ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, "Jawohl" ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola. Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo. Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell' artiglieria. Tutti si dicevano a vicenda che i russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace. Perché nei Lager si perde l' abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite. Come della gioia, della paura, del dolore medesimo, così anche dell' attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i più fra noi erano troppo esausti perfino per attendere. A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell' armistizio in Italia, dell' inizio torbido e disperato della resistenza partigiana, dell' uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne. Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese. Soltanto Sòmogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione. 26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L' ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L' opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell' uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l' esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l' uomo è stato una cosa agli occhi dell' uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al tempo. Ma a migliaia di metri sopra di noi, negli squarci fra le nuvole grige, si svolgevano i complicati miracoli dei duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti inermi, uomini del nostro tempo cercavano la reciproca morte coi più raffinati strumenti. Un loro gesto del dito poteva provocare la distruzione del campo intero, annientare migliaia di uomini; mentre la somma di tutte le nostre energie e volontà non sarebbe bastata a prolungare di un minuto la vita di uno solo di noi. La sarabanda cessò a notte, e la camera fu di nuovo piena del monologo di Sòmogyi. In piena oscurità mi trovai sveglio di soprassalto. "L' pauv' vieux" taceva: aveva finito. Con l' ultimo sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l' urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del capo. _ La mort l' a chassé de son lit, _ definì Arthur. Non potevamo certo portarlo fuori nella notte. Non ci restava che riaddormentarci. 27 gennaio. L' alba. Sul pavimento, l' infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sòmogyi. Ci sono lavori più urgenti: non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. E inoltre, "... rien de si dégoûtant que les débordements", dice giustamente Charles; bisogna vuotare la latrina. I vivi sono più esigenti; i morti possono attendere. Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno. I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sòmogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia. Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere berretto. Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sòmogyi il solo che morì nei dieci giorni. Sertelet, Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest' ultimo non ho finora parlato; era un industriale francese che, dopo operato di peritonite, si era ammalato di difterite nasale), sono morti qualche settimana più tardi, nell' infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho incontrato a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno. Qualcuno, molto tempo fa, ha scritto che anche i libri, come gli esseri umani, hanno un loro destino, imprevedibile, diverso da quello che per loro si desiderava e si attendeva. Anche questo libro ha avuto uno strano destino. Il suo atto di nascita è lontano: lo potete trovare in una delle sue pagine, la p. 17. di questa edizione, là dove si legge che "scrivo quello che non saprei dire a nessuno": era talmente forte in noi il bisogno di raccontare, che il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita. Ma ho scritto il libro appena sono tornato, nel giro di pochi mesi: tanto quei ricordi mi bruciavano dentro. Rifiutato da alcuni grossi editori, il manoscritto è stato accettato nel 1947 da una piccola casa editrice, diretta da Franco Antonicelli: si stamparono 2500 copie, poi la casa editrice si sciolse e il libro cadde nell' oblio, anche perché, in quel tempo di aspro dopoguerra, la gente non aveva molto desiderio di ritornare con la memoria agli anni dolorosi appena terminati. Ha trovato nuova vita solo nel 195., quando è stato ristampato dall' editore Einaudi, e da allora l' interesse del pubblico non è più mancato. È stato tradotto in sei lingue, ridotto per la radio e per il teatro. È stato accettato dagli studenti e dagli insegnanti con un favore che ha superato di molto le aspettative dell' editore e mie. Centinaia di scolaresche, in tutte le regioni d' Italia, mi hanno invitato a commentare il libro, per iscritto o possibilmente di persona: nei limiti dei miei impegni, ho soddisfatto tutte queste richieste, tanto che ai miei due mestieri ne ho volentieri aggiunto un terzo, quello di presentatore e commentatore di me stesso, o meglio di quel lontano me stesso che aveva vissuto l' avventura di Auschwitz e l' aveva raccontata. Nel corso di questi numerosi incontri coi miei lettori studenti mi è accaduto di dover rispondere a molte domande: ingenue o consapevoli, commosse o provocatorie, superficiali o fondamentali. Mi sono accorto presto che alcune di queste domande ricorrevano con costanza, non mancavano mai: dovevano dunque scaturire da una curiosità motivata e ragionata, a cui in qualche modo il testo del libro non dava una risposta soddisfacente. A queste domande mi sono proposto di rispondere qui. 1. Come mia indole personale, non sono facile all' odio. Lo ritengo un sentimento animalesco e rozzo, e preferisco che invece le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile, nascano dalla ragione; per questo motivo, non ho mai coltivato entro me stesso l' odio come desiderio primitivo di rivalsa, di sofferenza inflitta al mio nemico vero o presunto, di vendetta privata. Devo aggiungere che, a quanto mi pare di vedere, l' odio è personale, è rivolto contro una persona, un nome, un viso: ora, i nostri persecutori di allora non avevano viso né nome, lo si ricava da queste stesse pagine: erano lontani, invisibili, inaccessibili. Prudentemente, il sistema nazista faceva sì che i contatti diretti fra gli schiavi e i signori fossero ridotti al minimo. Avrete notato che, in questo libro, si descrive un solo incontro dell' autore-protagonista con una SS (p. 200), e non per caso esso ha luogo solo negli ultimi giorni, nel Lager in disfacimento, quando il sistema è saltato. Del resto, nei mesi in cui questo libro è stato scritto, e cioè nel 1946, il nazismo e il fascismo sembravano veramente senza volto: sembravano ritornati al nulla, svaniti come un sogno mostruoso, giustamente e meritatamente, così come spariscono i fantasmi al canto del gallo. Come avrei potuto coltivare rancore, volere vendetta, contro una schiera di fantasmi? Non molti anni dopo, l' Europa e l' Italia si sono accorti che questa era una ingenua illusione: il fascismo era ben lontano dall' essere morto, era soltanto nascosto, incistato; stava facendo la sua muta, per ricomparire poi in una veste nuova, un po' meno riconoscibile, un po' più rispettabile, più adatta al nuovo mondo che era uscito dalla catastrofe della seconda guerra mondiale che il fascismo stesso aveva provocata. Devo confessare che davanti a certi visi non nuovi, a certe vecchie bugie, a certe figure in cerca di rispettabilità, a certe indulgenze, a certe connivenze, la tentazione dell' odio la provo, ed anche con una certa violenza: ma io non sono un fascista, io credo nella ragione e nella discussione come supremi strumenti di progresso, e perciò all' odio antepongo la giustizia. Proprio per questo motivo, nello scrivere questo libro, ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi. Non vorrei tuttavia che questo mio astenermi dal giudizio esplicito fosse confuso con un perdono indiscriminato. No, non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonarne alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso sì, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico e cristiano di perdonare il mio nemico; ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico. 2. Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al mondo di ieri gode di un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L' informazione è oggi "il quarto potere": almeno in teoria, il cronista e il giornalista hanno via libera dappertutto, nessuno può fermarli né allontanarli né farli tacere. È tutto facile: se vuoi, senti la radio del tuo paese o di qualunque altro paese; vai in edicola e scegli il giornale che preferisci, italiano di qualunque tendenza, o americano, o sovietico, entro un vasto ventaglio di alternative; compri e leggi i libri che vuoi, senza pericolo di venire incriminato di "attività antiitaliane" o di tirarti in casa una perquisizione della polizia politica. Certo non è agevole sottrarsi a tutti i condizionamenti, ma si può almeno scegliere il condizionamento che si preferisce. In uno Stato autoritario non è così. La Verità è una sola, proclamata dall' alto; i giornali sono tutti uguali, tutti ripetono questa stessa unica verità; così pure fanno le radiotrasmittenti, e non puoi ascoltare quelle degli altri paesi, perché in primo luogo, essendo questo un reato, rischi di finire in prigione; in secondo luogo, le trasmittenti del tuo paese emettono sulle lunghezze d' onda appropriate un segnale di disturbo che si sovrappone ai messaggi stranieri e ne impedisce l' ascolto. Quanto ai libri, vengono pubblicati e tradotti solo quelli graditi allo Stato: gli altri, devi andarteli a cercare all' estero, e introdurli nel tuo paese a tuo rischio, perché sono considerati più pericolosi della droga e dell' esplosivo, e se te li trovano alla frontiera ti vengono sequestrati e tu vieni punito. Dei libri non graditi, o non più graditi, di epoche precedenti si fanno pubblici falò sulle piazze. Così era in Italia fra il 1924 e il 1945; così nella Germania nazionalsocialista; così è tuttora in molti paesi, fra cui duole dover annoverare l' Unione Sovietica, che pure contro il fascismo ha eroicamente combattuto. In uno Stato autoritario viene considerato lecito alterare la verità, riscrivere retrospettivamente la Storia, distorcere le notizie, sopprimerne di vere, aggiungerne di false: all' informazione si sostituisce la propaganda. Infatti, in tale paese tu non sei un cittadino, detentore di diritti, bensì un suddito, e come tale sei debitore allo Stato (ed al dittatore che lo impersona) di lealtà fanatica e di obbedienza supina. È chiaro che in queste condizioni diventa possibile (anche se non sempre facile: non è mai agevole violentare a fondo la natura umana) cancellare frammenti anche grossi della realtà. Nell' Italia fascista riuscì abbastanza bene l' operazione di assassinare il deputato socialista Matteotti, e di mettere l' impresa a tacere dopo pochi mesi; Hitler, e il suo ministro della propaganda Joseph Goebbels, si mostrarono di gran lunga superiori a Mussolini in quest' opera di controllo e di mascheramento della verità. Tuttavia, nascondere al popolo tedesco l' esistenza dell' enorme apparato dei campi di concentramento non era possibile, ed inoltre non era (dal punto di vista nazista) neppure desiderabile. Creare ed intrattenere nel paese un' atmosfera di terrore indefinito faceva parte degli scopi del nazismo: era bene che il popolo sapesse che opporsi a Hitler era estremamente pericoloso. Infatti, centinaia di migliaia di tedeschi furono rinchiusi nei Lager fin dai primi mesi del nazismo: comunisti, socialdemocratici, liberali, ebrei, protestanti, cattolici, e tutto il paese lo sapeva, e sapeva che in Lager si soffriva e si moriva. Ciò nonostante, è vero che la gran massa dei tedeschi ignorò sempre i particolari più atroci di quanto avvenne più tardi nei Lager: lo sterminio metodico e industrializzato sulla scala dei milioni, le camere a gas tossico, i forni crematori, l' abietto sfruttamento dei cadaveri, tutto questo non si doveva sapere, ed in effetti pochi lo seppero, fino alla fine della guerra. Per mantenere il segreto, fra le altre precauzioni, nel linguaggio ufficiale si usavano soltanto cauti e cinici eufemismi: non si scriveva "sterminio" ma "soluzione definitiva", non "deportazione" ma "trasferimento", non "uccisione col gas" ma "trattamento speciale", e così via. Non senza ragione, Hitler temeva che queste orrende notizie, se si fossero divulgate, avrebbero compromesso la fede cieca che il paese gli tributava ed il morale delle truppe combattenti; inoltre, sarebbero venute a conoscenza degli Alleati e sfruttate come argomento propagandistico: il che, del resto, avvenne, ma per la loro stessa enormità gli orrori dei Lager, descritti più volte dalle radio degli Alleati, non furono generalmente creduti. Il riassunto più convincente della situazione tedesca di allora l' ho trovato nel libro Der SS Staat (Lo Stato delle SS) di Eugen Kogon, già prigioniero a Buchenwald, poi professore di Scienze Politiche all' Università di Monaco: A mio parere, nessuna di queste affermazioni è falsa, ma un' altra dev' essere aggiunta a completare il quadro: a dispetto delle varie possibilità d' informazione, la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere. È certamente vero che il terrorismo di Stato è un' arma fortissima, a cui è ben difficile resistere; ma è anche vero che il popolo tedesco, nel suo complesso, di resistere non ha neppure tentato. Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l' illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta. Sapere, e far sapere, era un modo (in fondo non poi tanto pericoloso) di prendere le distanze dal nazismo; penso che il popolo tedesco, nel suo complesso, non vi abbia fatto ricorso, e di questa deliberata omissione lo ritengo pienamente colpevole. ". Queste sono fra le domande che mi vengono rivolte più di frequente, e perciò esse devono nascere da qualche curiosità o esigenza particolarmente importante. La mia interpretazione è ottimistica: i giovani di oggi sentono la libertà come un bene a cui non si può in alcun caso rinunciare, e perciò, per loro, l' idea della prigionia è legata immediatamente all' idea della fuga o della rivolta. Del resto, è vero che secondo i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è tenuto a cercare di liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di combattente, e che secondo la Convenzione dell' Aia il tentativo di fuga non deve essere punito. Il concetto dell' evasione come obbligo morale è continuamente ribadito dalla letteratura romantica (ricordate il conte di Montecristo?), dalla letteratura popolare e dal cinematografo, in cui l' eroe, ingiustamente (o magari giustamente) incarcerato, tenta sempre l' evasione, anche nelle circostanze meno verosimili, e questa è invariabilmente coronata dal successo. Forse è bene che la condizione del prigioniero, la non-libertà, venga sentita come indebita, anormale: come una malattia, insomma, che deve essere guarita con la fuga o la ribellione. Però, purtroppo, questo quadro assomiglia assai poco a quello vero dei campi di concentramento. I prigionieri che tentarono la fuga, per esempio, da Auschwitz, furono poche centinaia, e quelli a cui la fuga riuscì qualche decina. L' evasione era difficile ed estremamente pericolosa: i prigionieri erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti, avevano i capelli rasi, abiti a strisce subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e silenzioso; non avevano denaro, e in generale non parlavano il polacco, che era la lingua locale, né avevano contatti nella zona, che del resto neppure conoscevano geograficamente. Inoltre, a reprimere le fughe, si adottavano rappresaglie feroci: chi veniva ripreso era impiccato pubblicamente sulla piazza dell' Appello, spesso dopo torture crudeli; quando veniva scoperta una fuga, gli amici dell' evaso venivano considerati suoi complici e fatti morire di fame nelle celle della prigione, l' intera baracca veniva fatta stare in piedi per ventiquattro ore, e talvolta venivano arrestati e deportati nel Lager i genitori del "colpevole". Ai militi delle SS che uccidevano un prigioniero nel corso di un tentativo di fuga veniva concessa una licenza premio: perciò accadeva sovente che una SS sparasse ad un prigioniero che non aveva alcuna intenzione di fuggire, solo allo scopo di conseguire il premio. Questo fatto aumenta artificiosamente il numero ufficiale dei casi di fuga registrati nelle statistiche; come ho accennato, il numero effettivo era invece molto piccolo. Essendo questa la situazione, dai campi di Auschwitz evasero con successo solo alcuni prigionieri polacchi "ariani" (cioè non ebrei, nella terminologia di allora), che abitavano poco lontano dal Lager, e che quindi avevano una meta verso cui dirigersi e la sicurezza di essere protetti dalla popolazione. Negli altri campi le cose si svolsero analogamente. Per quanto riguarda la mancata ribellione, il discorso è un po' diverso. Prima di tutto occorre ricordare che in alcuni Lager delle insurrezioni si sono effettivamente verificate: a Treblinka, a Sobibor, ed anche a Birkenau, uno dei campi dipendenti da Auschwitz. Non ebbero molto peso numerico: come l' analoga insurrezione del ghetto di Varsavia, rappresentano piuttosto esempi di straordinaria forza morale. In tutti i casi, esse furono disegnate e guidate da prigionieri in qualche modo privilegiati, e perciò in condizioni fisiche e spirituali migliori di quelle dei prigionieri comuni. Questo non deve stupire: solo a prima vista può apparire paradossale che si ribelli chi soffre meno. Anche fuori dei Lager le lotte raramente vengono condotte dai sottoproletari. Gli "stracci" non si ribellano. Nei campi per prigionieri politici, o dove i politici prevalevano, l' esperienza cospirativa di questi si dimostrò preziosa, e si giunse spesso, più che a rivolte aperte, ad attività di difesa abbastanza efficienti. A seconda dei Lager e dei tempi, si riuscì ad esempio a ricattare o corrompere le SS, raffrenandone i poteri indiscriminati; a sabotare il lavoro per le industrie di guerra tedesche; ad organizzare evasioni; a comunicare via radio con gli Alleati, fornendo loro notizie sulle orrende condizioni dei campi; a migliorare il trattamento dei malati, sostituendo medici prigionieri ai medici SS; a "pilotare" le selezioni, mandando a morte le spie o i traditori e salvando prigionieri la cui sopravvivenza avesse per qualsiasi motivo importanza particolare; a prepararsi, anche militarmente, a resistere nel caso che, con l' avvicinarsi del fronte, i nazisti decidessero (come infatti spesso decisero) di liquidare totalmente i Lager. Nei campi con prevalenza di ebrei, come quelli della zona di Auschwitz, una difesa attiva o passiva era particolarmente difficile. Qui i prigionieri, in generale, erano privi di qualsiasi esperienza organizzativa o militare; provenivano da tutti i paesi d' Europa, parlavano lingue diverse, e perciò non si capivano fra loro; soprattutto, erano più affamati, più deboli e più stanchi degli altri, perché le loro condizioni di vita erano più dure, e perché spesso avevano già alle spalle una lunga carriera di fame, persecuzione e umiliazione nei ghetti. Come ulteriore conseguenza, la durata del loro soggiorno in Lager era tragicamente breve, erano insomma una popolazione fluttuante, continuamente diradata dalla morte, e rinnovata dagli incessanti arrivi di nuovi convogli. È comprensibile che in un tessuto umano così deteriorato e così instabile non attecchisse facilmente il germe della rivolta. Ci si può domandare perché non si ribellassero i prigionieri appena scesi dai treni, che attendevano per ore (talvolta per giorni!) di entrare nelle camere a gas. Oltre a quanto ho detto, devo aggiungere qui che i tedeschi avevano perfezionato per questa impresa di morte collettiva una strategia diabolicamente astuta e versatile. Nella maggior parte dei casi, i nuovi arrivi non sapevano a cosa andavano incontro: venivano accolti con fredda efficienza ma senza brutalità, invitati a spogliarsi "per la doccia", talvolta veniva loro dato asciugamano e sapone, e promesso un caffè caldo dopo il bagno. Le camere a gas, infatti, erano camuffate come sale di docce, con tubazioni, rubinetti, spogliatoi, attaccapanni, panchine eccetera. Quando invece i prigionieri davano anche il più piccolo segno di sapere o sospettare il loro destino imminente, le SS e i loro collaboratori agivano di sorpresa, intervenendo con estrema brutalità, con urla, minacce, calci, spari, e aizzando contro quella gente perplessa e disperata, macerata da cinque o dieci giorni di viaggio in vagoni sigillati, i loro cani addestrati a sbranare uomini. Stando così le cose, appare assurda ed offensiva l' affermazione che talvolta è stata formulata, che gli ebrei non si siano ribellati per codardia. Nessuno si ribellava. Basti ricordare che le camere a gas di Auschwitz furono collaudate su un gruppo di trecento prigionieri di guerra russi, giovani, allenati militarmente, politicamente preparati, e non impediti dalla presenza di donne e bambini; e neppure loro si ribellarono. Vorrei infine aggiungere una considerazione. La coscienza radicata che all' oppressione non si deve acconsentire, bensì resistere, non era molto diffusa nell' Europa fascista, ed era particolarmente debole in Italia. Era patrimonio di una cerchia ristretta di uomini politicamente attivi, ma il fascismo e il nazismo li avevano isolati, espulsi, terrorizzati o addirittura distrutti: non bisogna dimenticare che le prime vittime dei Lager tedeschi, in numero di centinaia di migliaia, furono appunto i quadri dei partiti politici antinazisti. Essendo venuto a mancare il loro apporto, la volontà popolare di resistere, di organizzarsi per resistere, è risorta molto più tardi, grazie soprattutto al contributo dei partiti comunisti europei, che si gettarono nella lotta contro il nazismo dopo che la Germania, nel giugno 1941, aveva aggredito improvvisamente l' Unione Sovietica rompendo l' accordo Ribbentrop-Molotov del settembre 1939. In conclusione, rimproverare ai prigionieri la mancata ribellione rappresenta oltre a tutto un errore di prospettiva storica: significa pretendere da loro una coscienza politica che oggi è patrimonio pressoché comune, ma allora apparteneva solo ad una élite. 4. Sono ritornato ad Auschwitz nel 1965, in occasione di una cerimonia commemorativa della liberazione dei campi. Come ho accennato nei miei libri, l' impero concentrazionario di Auschwitz non era costituito da un solo Lager, bensì da una quarantina: il campo di Auschwitz propriamente detto era costruito alla periferia della cittadina dello stesso nome (Oswiecim in polacco), aveva una capacità di circa ventimila prigionieri, ed era per così dire la capitale amministrativa del complesso; c' era poi il Lager (o più precisamente il gruppo di Lager: da tre a cinque, a seconda dei momenti) di Birkenau, che giunse a contenere sessantamila prigionieri, di cui circa quarantamila donne, ed in cui erano in funzione le camere a gas ed i forni crematori; ed infine, un numero continuamente variabile di campi di lavoro, lontani anche centinaia di chilometri dalla "capitale": il mio campo, chiamato Mònowitz, era il più grande di questi, essendo giunto a contenere circa dodicimila prigionieri. Era situato a circa sette chilometri ad est di Auschwitz. L' intera zona si trova attualmente in territorio polacco. Non ho provato grande impressione nel visitare il Campo Centrale: il governo polacco l' ha trasformato in una specie di monumento nazionale, le baracche sono state ripulite e verniciate, sono stati piantati alberi, disegnate aiuole. C' è un museo in cui sono esposti cimeli miserandi: tonnellate di capelli umani, centinaia di migliaia di occhiali, pettini, pennelli da barba, bambole, scarpe da bambini; ma è pur sempre un museo, qualcosa di statico, riordinato, manomesso. Tutto il campo mi è sembrato un museo. Quanto al mio Lager, non esiste più; la fabbrica di gomma a cui era annesso, ora in mani polacche, si è talmente ingrandita che ne ha completamente occupato il territorio. Ho provato invece un' impressione di angoscia violenta entrando nel Lager di Birkenau, che non avevo mai visto da prigioniero. Qui niente è cambiato: c' era fango, e c' è ancora fango, o polvere soffocante d' estate; le baracche (quelle che non sono bruciate durante il passaggio del fronte) sono rimaste com' erano, basse, sporche, di tavole sconnesse, col pavimento di terra battuta; non ci sono cuccette ma tavolacci di legno nudo, fino al soffitto. Qui niente è stato abbellito. Era con me una mia amica, Giuliana Tedeschi, superstite di Birkenau. Mi ha fatto vedere che su ogni tavolaccio di m 1,.0 per 2 dormivano fino a nove donne. Mi ha fatto notare che dalla finestrella si vedono le rovine del crematorio; a quel tempo, si vedeva la fiamma in cima alla ciminiera. Lei aveva chiesto alle anziane: "Che cosa è quel fuoco?", e le avevano risposto: "Siamo noi che bruciamo". Di fronte al triste potere evocativo di quei luoghi, ognuno di noi reduci si comporta in un modo diverso, ma si possono delineare due categorie tipiche. Appartengono alla prima categoria quelli che rifiutano di ritornarvi, o addirittura di parlare di questo argomento; quelli che vorrebbero dimenticare, ma non ci riescono, e sono tormentati da incubi; quelli che invece hanno dimenticato, hanno rimosso tutto, ed hanno ricominciato a vivere da zero. Ho notato che in generale tutti questi sono individui che sono finiti in Lager "per disgrazia", cioè senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è stata una esperienza traumatica ma priva di significato e di insegnamento, come un infortunio o una malattia: il ricordo è per loro un qualcosa di estraneo, un corpo doloroso intruso nella loro vita, ed hanno cercato (o ancora cercano) di eliminarlo. La seconda categoria è invece costituita dagli ex prigionieri "politici", o comunque in possesso di una preparazione politica, o di una convinzione religiosa, o di una forte coscienza morale. Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente, un imprevisto della Storia. I Lager nazisti sono stati l' apice, il coronamento del fascismo in Europa, la sua manifestazione più mostruosa; ma il fascismo c' era prima di Hitler e di Mussolini, ed è sopravvissuto, in forme palesi o mascherate, alla sconfitta della seconda guerra mondiale. In tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell' Uomo, e l' uguaglianza fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi. Conosco molti ex prigionieri che hanno capito bene quale terribile lezione è contenuta nella loro esperienza, e che ogni anno ritornano nel "loro" campo guidando pellegrinaggi di giovani: io stesso lo farei volentieri se il tempo me lo concedesse, e se non sapessi che raggiungo lo stesso scopo scrivendo libri, ed accettando di commentarli agli studenti. 5. Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle cose che ho subìte e viste. I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori: infatti non conoscevo questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo, quando tutto il mondo li ha appresi. Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei Lager russi: per mia fortuna non ci sono stato, e non potrei che ripetere le cose che ho letto, cioè quelle che sanno tutti coloro che a questo argomento si sono interessati. È chiaro che tuttavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un' opinione. Accanto ad evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager nazisti mi pare di poter osservare sostanziali differenze. La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell' umanità: all' antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire press' a poco dal 1941, essi diventano gigantesche macchine di morte: camere a gas e crematori erano stati deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani sulla scala dei milioni; l' orrendo primato spetta ad Auschwitz, con 24 000 morti in un solo giorno, nell' agosto 1944. I campi sovietici non erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno sia gradevole, ma in essi, neppure negli anni più oscuri dello stalinismo, la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma, un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica. In questo lugubre confronto fra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i "colpevoli" venivano talvolta condannati a pene lunghissime (anche quindici o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma una sia pur lieve speranza di libertà sussisteva. Da questa fondamentale differenza scaturiscono le altre. I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, non sono "superuomini" e "sottouomini" come sotto il nazismo. I malati, magari male, vengono curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una protesta, individuale o collettiva; le punizioni corporali sono rare e non troppo crudeli; è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con viveri; la personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro, almeno per quanto riguardava gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana. Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, riferito a tutti gli ingressi, e questo è certamente un dato intollerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la mortalità era del 90-9. per cento. Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo cui alcuni intellettuali dissenzienti vengono sbrigativamente dichiarati pazzi, rinchiusi in istituti psichiatrici, e sottoposti a "cure" che non solo provocano crudeli sofferenze, ma distorcono ed indeboliscono le funzioni mentali. Ciò dimostra che il dissenso viene temuto: non è più punito, ma si cerca di demolirlo con i farmaci (o con la paura dei farmaci). Forse questa tecnica non è molto diffusa (pare che questi ricoverati politici, nel 1975, non superassero il centinaio), ma è odiosa, perché comporta un uso abietto della scienza, ed una prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si prestano così servilmente ad assecondare i voleri dell' autorità. Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto democratico e le libertà civili. Per contro, e per quanto riguarda appunto l' aspetto quantitativo, resta da notare che, in Unione Sovietica, il fenomeno Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al 1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di "Amnesty International" (un' associazione apolitica che si prefigge di soccorrere tutti i prigionieri politici, in tutti i paesi e indipendentemente dalle loro opinioni) essi sarebbero oggi (1976) circa diecimila. In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre una manifestazione deplorevole di illegalità e di disumanità. Essi non hanno nulla a che vedere col socialismo, ed anzi, sul socialismo sovietico spiccano come una brutta macchia; sono piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell' assolutismo zarista, di cui i governi sovietici non hanno saputo o voluto liberarsi. Chi legge le "Memorie di una casa morta", scritte da Dostoevskij nel 1.62, non stenta a riconoscervi gli stessi lineamenti carcerari descritti da Solzenicyn cento anni dopo. Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza Lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo senza Lager invece non è pensabile. 6. La maggior parte dei personaggi che compaiono in queste pagine sono purtroppo da ritenere scomparsi già nei giorni di Lager o durante la tremenda marcia di evacuazione di cui si parla a p. 196; altri sono morti più tardi per malattie contratte durante la prigionia, e di altri ancora non sono riuscito a ritrovare le tracce. Alcuni pochi sopravvivono, ed ho potuto conservare o ristabilire il contatto con loro. È vivo, e sta bene, Jean, il "Pikolo" del Canto di Ulisse: la sua famiglia era stata distrutta, ma si è sposato dopo il ritorno, ed ora ha due figli, e conduce una vita molto tranquilla come farmacista in una cittadina della provincia francese. Ci incontriamo talvolta in Italia, dove viene per le vacanze; altre volte sono andato io a trovarlo. Stranamente, ha dimenticato molto del suo anno di Monowitz: in lui prevalgono i ricordi atroci del viaggio di evacuazione, nel corso del quale ha visto morire di estenuazione tutti i suoi amici (fra questi era Alberto). Vedo anche abbastanza sovente il personaggio che ho chiamato Piero Sonnino (p. 66), e che è lo stesso che compare come "Cesare" in La tregua. Anche lui, dopo un difficile periodo di riinserimento, ha trovato un lavoro e si è fatta una famiglia. Vive a Roma. Racconta volentieri, e con grande vivacità, le traversie che ha subìte in campo e durante il lungo viaggio di ritorno, ma nelle sue narrazioni, che spesso diventano quasi monologhi teatrali, tende a mettere in evidenza i fatti avventurosi di cui è stato protagonista piuttosto che quelli tragici a cui ha assistito passivamente. Ho rivisto anche Charles. Era stato preso prigioniero sulle colline dei Vosgi, presso la sua casa, dove era partigiano, solo nel novembre 1944, ed era stato in Lager soltanto per un mese; ma questo mese di sofferenza, ed i fatti feroci a cui aveva assistito, lo avevano segnato profondamente, togliendogli la gioia di vivere e la volontà di costruirsi un avvenire. Rimpatriato dopo un viaggio non molto diverso da quello che io ho raccontato in La tregua, ha ripreso il suo mestiere di maestro elementare nella minuscola scuola del suo villaggio, in cui insegnava ai bambini anche ad allevare le api e a coltivare un vivaio di abeti e pini. Da pochi anni è in pensione; ha sposato di recente una sua collega non giovane, ed insieme si sono costruiti una casa nuova, piccola ma comoda e graziosa. Sono andato a trovarlo due volte, nel 1951 e nel 1974. In quest' ultima occasione mi ha detto di Arthur, che abita in un villaggio non molto lontano: è vecchio e ammalato, e non desidera ricevere visite che possano ridestare in lui antiche angosce. Drammatico, imprevisto, e pieno di gioia per entrambi, è stato il ritrovamento di Mendi, il "rabbino modernista" a cui si accenna in poche righe alle pp. .5 e 132. Ha riconosciuto se stesso leggendo casualmente nel 1965 la traduzione tedesca di questo libro: si ricordava di me, e mi ha scritto una lunga lettera indirizzandola presso la Comunità Israelitica di Torino. Ci siamo scritti a lungo, informandoci a vicenda dei destini dei nostri amici comuni. Nel 1967 sono andato a trovarlo a Dortmund, in Germania Federale, dove allora era rabbino: è rimasto com' era, "tenace, coraggioso e acuto", ed inoltre straordinariamente colto. Ha sposato una reduce da Auschwitz, ed hanno tre figli ormai grandi; l' intera famiglia ha intenzione di trasferirsi in Israele. Non ho più rivisto il Doktor Pannwitz, il chimico che mi aveva sottoposto ad un gelido "esame di Stato", ma ho avuto sue notizie da quel Doktor Müller a cui ho dedicato il capitolo "Vanadio" del mio ultimo libro "ii sistema periodico". Nell' imminenza dell' arrivo dell' Armata Rossa nella fabbrica di Buna, si è comportato con prepotenza e viltà: ha ordinato ai suoi collaboratori civili di resistere a oltranza, ha vietato loro di salire sull' ultimo treno in partenza per le retrovie, ma ci è salito lui all' ultimo momento approfittando della confusione. È morto nel 1946 di un tumore al cervello. 7. L' avversione contro gli ebrei, impropriamente detta antisemitismo, è un caso particolare di un fenomeno più vasto, e cioè dell' avversione contro chi è diverso da noi. È indubbio che si tratti, in origine, di un fatto zoologico: gli animali di una stessa specie, ma appartenenti a gruppi diversi, manifestano fra di loro fenomeni di intolleranza. Questo avviene anche fra gli animali domestici: è noto che una gallina di un certo pollaio, se viene introdotta in un altro, è respinta a beccate per vari giorni. Lo stesso avviene fra i topi e le api, e in genere in tutte le specie di animali sociali. Ora, l' uomo è certamente un animale sociale (lo aveva già affermato Aristotele): ma guai se tutte le spinte zoologiche che sopravvivono nell' uomo dovessero essere tollerate! Le leggi umane servono appunto a questo: a limitare gli impulsi animaleschi. L' antisemitismo è un tipico fenomeno d' intolleranza. Perché una intolleranza insorga, occorre che fra i due gruppi a contatto esista una differenza percettibile: questa può essere una differenza fisica (i neri e i bianchi, i bruni e i biondi), ma la nostra complicata civiltà ci ha resi sensibili a differenze più sottili, quali la lingua, o il dialetto, o addirittura l' accento (lo sanno bene i nostri meridionali costretti ad emigrare al Nord); la religione, con tutte le sue manifestazioni esteriori e la sua profonda influenza sul modo di vivere; il modo di vestire o gesticolare; le abitudini pubbliche e private. La tormentata storia del popolo ebreo ha fatto sì che quasi ovunque gli ebrei manifestasse o una o più di queste differenze. Nell' intrico, estremamente complesso, dei popoli e delle nazioni in urto fra loro, la storia di questo popolo si presenta con caratteristiche particolari. Esso era (ed in parte è tuttora) depositario di un legame interno molto forte, di natura religiosa e tradizionale; di conseguenza, a dispetto della sua inferiorità numerica e militare, si oppose con disperato valore alla conquista da parte dei romani, e fu sconfitto, deportato e disperso, ma quel legame sopravvisse. Le colonie ebraiche che si andarono formando, su tutte le coste del Mediterraneo dapprima, e successivamente in Medio Oriente, in Spagna, in Renania, nella Russia meridionale, in Polonia, in Boemia ed altrove, rimasero sempre ostinatamente fedeli a questo legame, che si era andato consolidando sotto la forma di un immenso corpo di leggi e tradizioni scritte, di una religione minuziosamente codificata, e di un rituale peculiare e vistoso, che pervadeva tutti gli atti della giornata. Gli ebrei, in minoranza in tutti i loro stanziamenti, erano dunque diversi, riconoscibili come diversi, e spesso orgogliosi (a ragione o a torto) della loro diversità: tutto questo li rendeva molto vulnerabili, ed infatti furono duramente perseguitati, in quasi tutti i paesi ed in quasi tutti i secoli; alle persecuzioni gli ebrei reagirono in piccola parte assimilandosi, ossia fondendosi con la popolazione circostante; in maggior parte, emigrando nuovamente verso paesi più ospitali. In tal modo si rinnovava però la loro "diversità", che li esponeva a nuove restrizioni e persecuzioni. Sebbene nella sua essenza profonda l' antisemitismo sia un fenomeno irrazionale di intolleranza, esso, in tutti i paesi cristiani, ed a partire da quando il cristianesimo si andò consolidando come religione di Stato, assunse una veste prevalentemente religiosa, anzi teologica. Secondo l' affermazione di sant' Agostino, gli ebrei sono condannati alla dispersione da Dio stesso, e ciò per due motivi: perché in tal modo essi vengono puniti per non aver riconosciuto in Cristo il Messia, e perché la loro presenza in tutti i paesi è necessaria alla Chiesa cattolica, che essa pure è dappertutto, affinché dappertutto sia visibile ai fedeli la meritata infelicità degli ebrei. Perciò la dispersione e separazione degli ebrei non dovrà mai avere fine: essi, con le loro pene, devono testimoniare in eterno del loro errore, e di conseguenza della verità della fede cristiana. Dunque, poiché la loro presenza è necessaria, essi devono essere perseguitati, ma non uccisi. Tuttavia, non sempre la Chiesa si mostrò così moderata: fin dai primi secoli del cristianesimo fu mossa agli ebrei un' accusa ben più grave, quella di essere, collettivamente ed eternamente, responsabili della crocifissione di Cristo, di essere insomma il "popolo deicida". Questa formulazione, che compare nella liturgia pasquale in tempi remoti, ed è stata soppressa solo dal Concilio Vaticano ii (1962-65), sta all' origine di varie funeste e sempre rinnovate credenze popolari: che gli ebrei avvelenano i pozzi propagando la peste; che profanano abitualmente l' Ostia consacrata; che a Pasqua rapiscono bambini cristiani, col cui sangue impastano il pane azzimo. Queste credenze hanno offerto il pretesto per numerosi e sanguinosi massacri, e tra l' altro, per l' espulsione in massa degli ebrei dapprima dalla Francia e dall' Inghilterra, poi (1492-9.) dalla Spagna e dal Portogallo. Attraverso una serie mai interrotta di stragi e di migrazioni, si arriva al secolo xix, contrassegnato dal risveglio generale delle coscienze nazionali e dal riconoscimento dei diritti delle minoranze: ad eccezione della Russia zarista, in tutta l' Europa cadono le restrizioni legali ai danni degli ebrei, che erano state invocate dalle Chiese cristiane (a seconda dei luoghi e dei tempi, l' obbligo di risiedere in ghetti o in zone particolari, l' obbligo di portare sugli abiti un contrassegno, il divieto di accedere a determinati mestieri o professioni, il divieto dei matrimoni misti, ecc.). Sopravvive però l' antisemitismo, vivace soprattutto nei paesi dove una rozza religiosità continuava ad additare negli ebrei gli uccisori di Cristo (in Polonia e in Russia), e dove le rivendicazioni nazionali avevano lasciato uno strascico di generica avversione contro i confinanti e gli stranieri (in Germania; ma anche in Francia, ed alla fine del XIX secolo, i clericali, i nazionalisti ed i militari si trovano concordi nello scatenare una violenta ondata di antisemitismo, in occasione della falsa accusa di alto tradimento mossa contro Alfred Dreyfus, ufficiale ebreo dell' esercito francese). In Germania, in specie, per tutto il secolo scorso una serie ininterrotta di filosofi e di politici avevano insistito in una teorizzazione fanatica, secondo cui il popolo tedesco, per troppo tempo diviso ed umiliato, era depositario del primato in Europa e forse nel mondo, era erede di remote e nobilissime tradizioni e civiltà, ed era costituito da individui sostanzialmente omogenei per sangue e per razza. I popoli tedeschi avrebbero dovuto costituirsi in uno Stato forte e guerriero, egemone in Europa, rivestito di una maestà quasi divina. Questa idea della missione della Nazione Tedesca sopravvive alla disfatta della prima guerra mondiale, ed esce anzi rafforzata dall' umiliazione del trattato di pace di Versailles. Se ne impadronisce uno dei personaggi più sinistri ed infausti della Storia, l' agitatore politico Adolf Hitler. I borghesi e gli industriali tedeschi porgono orecchio alle sue orazioni infiammate: Hitler promette bene, riuscirà a deviare sugli ebrei l' avversione che il proletariato tedesco tributa alle classi che l' hanno condotto alla sconfitta ed al disastro economico. Nel giro di pochi anni, a partire dal 1933, egli riesce a trarre partito dalla collera di un paese umiliato e dall' orgoglio nazionalistico suscitato dai profeti che l' hanno preceduto, Lutero, Fichte, Hegel, Wagner, Gobineau, Chamberlain, Nietzsche: il suo pensiero ossessivo è quello di una Germania dominatrice, non nel lontano futuro ma subito; non attraverso una missione di civiltà, ma con le armi. Tutto ciò che non è germanico gli appare inferiore, anzi detestabile, ed i primi nemici della Germania sono gli ebrei, per molti motivi che Hitler enunciava con furore dogmatico: perché hanno "sangue diverso"; perché sono imparentati con altri ebrei in Inghilterra, in Russia, in America; perché sono eredi di una cultura in cui si ragiona e si discute prima di obbedire, ed in cui è vietato inchinarsi agli idoli, mentre lui stesso aspira ad essere venerato come un idolo, e non esita a proclamare che "dobbiamo diffidare dell' intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la nostra fede negli istinti". Infine, molti fra gli ebrei tedeschi hanno raggiunto posizioni chiave nell' economia, nella finanza, nelle arti, nella scienza, nella letteratura: Hitler, pittore mancato, architetto fallito, riversa sugli ebrei il suo risentimento e la sua invidia di frustrato. Questo seme d' intolleranza, cadendo su di un terreno già predisposto, vi attecchisce con incredibile vigore ma in forme nuove. L' antisemitismo di stampo fascista, quello che il Verbo bandito da Hitler risveglia nel popolo tedesco, è più barbarico di tutti i precedenti: vi convergono dottrine biologiche artificiosamente distorte, secondo cui le razze deboli devono cedere davanti alle forti; le assurde credenze popolari che il buon senso aveva sepolte da secoli; una propaganda senza soste. Si toccano estremi mai sentiti prima. L' ebraismo non è una religione da cui ci si può allontanare col battesimo, né una tradizione culturale che si può abbandonare per un' altra: è una sottospecie umana, una razza diversa ed inferiore a tutte le altre. Gli ebrei sono solo apparentemente esseri umani: in realtà sono qualcosa di diverso: di abominevole e indefinibile, "più lontani dai tedeschi che le scimmie dagli uomini"; sono colpevoli di tutto, del rapace capitalismo americano e del bolscevismo sovietico, della sconfitta del 191., dell' inflazione del 1923; liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo sono sataniche invenzioni ebraiche, che minacciano la solidità monolitica dello Stato nazista. Il passaggio dalla predicazione teorica all' attuazione pratica è stato rapido e brutale. Nel 1933, solo due mesi dopo che Hitler ha conquistato il potere, nasce Dachau, il primo Lager. Nel maggio dello stesso anno si accende il primo rogo di libri di autori ebrei o nemici del nazismo (ma più di cento anni prima Heine, poeta ebreo tedesco, aveva scritto: "Chi brucia i libri finisce presto o tardi col bruciare uomini"). Nel 1935 l' antisemitismo viene codificato in una monumentale e minuziosissima legislazione, le Leggi di Norimberga. Nel 193., in una sola notte di disordini pilotati dall' alto, vengono incendiate 191 sinagoghe e distrutti migliaia di negozi di ebrei. Nel 1939 gli ebrei della Polonia testè occupata vengono rinchiusi nei ghetti. Nel 1940 viene aperto il Lager di Auschwitz. Nel 1941-42 la macchina dello sterminio è in piena azione: le vittime saliranno a milioni nel 1944. Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la loro realizzazione l' odio e il disprezzo diffusi dalla propaganda nazista. Qui non c' era solo la morte, ma una folla di dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza. Si ricordi il tatuaggio di Auschwitz, che imponeva agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in vagoni bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati (uomini, donne e bambini!) a giacere per giorni nelle proprie lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome; la mancata distribuzione di cucchiai (eppure i magazzini di Auschwitz, alla liberazione, ne contenevano quintali), per cui i prigionieri avrebbero dovuto lambire la zuppa come cani; l' empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l' oro dei denti, i capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli. Lo stesso modo che fu scelto (dopo minuziosi esperimenti) per lo sterminio era apertamente simbolico. Si doveva usare, e fu usato, quello stesso gas velenoso che si impiegava per disinfestare le stive delle navi, ed i locali invasi da cimici o pidocchi. Sono state escogitate nei secoli morti più tormentose, ma nessuna era così gravida di dileggio e di disprezzo. Come è noto, l' opera di sterminio fu condotta molto avanti. I nazisti, che pure erano impegnati in una durissima guerra, ormai difensiva, vi manifestarono una fretta inesplicabile: i convogli delle vittime da portare al gas, o da trasferire dai Lager prossimi al fronte, avevano la precedenza sulle tradotte militari. Non fu condotta a termine solo perché la Germania fu disfatta, ma il testamento politico che Hitler dettò poche ore prima di uccidersi, coi russi a pochi metri, si concludeva così: "Soprattutto, ordino al governo e al popolo tedesco di mantenere in pieno vigore le leggi razziali, e di combattere inesorabilmente l' avvelenatore di tutte le nazioni, l' ebraismo internazionale". Riassumendo, si può dunque affermare che l' antisemitismo è un caso particolare dell' intolleranza; che per secoli ha avuto carattere prevalentemente religioso; che, nel iii Reich, esso è stato esacerbato dalla predisposizione nazionalistica e militaristica del popolo tedesco, e dalla peculiare "diversità" del popolo ebreo; che esso fu facilmente disseminato in tutta la Germania, e in buona parte dell' Europa, grazie all' efficienza della propaganda fascista e nazista, a cui occorreva un capro espiatorio su cui convogliare tutte le colpe e tutti i risentimenti; e che il fenomeno fu condotto al parossismo da Hitler, dittatore maniaco. Tuttavia devo ammettere che queste spiegazioni, che sono quelle comunemente accettate, non mi soddisfano: sono diminutive, non commisurate, non proporzionali ai fatti da spiegare. Nel rileggere le cronache del nazismo, dai suoi torbidi inizi alla sua fine convulsa, non riesco a sottrarmi all' impressione di una generale atmosfera di follia incontrollata che mi pare unica nella storia. Questa follia collettiva, questo sbandamento, viene di solito spiegato postulando la combinazione di molti fattori diversi, insufficienti se presi singolarmente, e il maggiore di questi fattori sarebbe la personalità stessa di Hitler, e la sua profonda interazione col popolo tedesco. È certo che le sue personali ossessioni, la sua capacità d' odio, la sua predicazione di violenza, trovavano sfrenata risonanza nella frustrazione del popolo tedesco, e da questo ritornavano a lui moltiplicate, confermandolo nella sua convinzione delirante di essere lui stesso l' Eroe profetizzato da Nietzsche, il Superuomo redentore della Germania. Sull' origine del suo odio contro gli ebrei si è scritto molto. Si è detto che Hitler riversava sugli ebrei il suo odio contro l' intero genere umano; che riconosceva negli ebrei alcuni suoi stessi difetti, e che odiando gli ebrei odiava se stesso; che la violenza della sua avversione proveniva dal timore di poter avere "sangue ebreo" nelle vene. Ancora una volta: non mi sembrano spiegazioni adeguate. Non mi sembra lecito spiegare un fenomeno storico riversandone tutta la colpa su un individuo (gli esecutori di ordini orrendi non sono innocenti!), ed inoltre è sempre arduo interpretare le motivazioni profonde di un individuo. Le ipotesi che vengono proposte giustificano i fatti solo in misura parziale, ne spiegano la qualità ma non la quantità. Devo ammettere che preferisco l' umiltà con cui alcuni storici fra i più seri (Bullock, Schramm, Bracher) confessano di non comprendere l' antisemitismo furibondo di Hitler e della Germania dietro di lui. Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: "comprendere" un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l' autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l' esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la "comprendiamo". Ma nell' odio nazista non c' è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell' uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi. Erano "capi carismatici", possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente esercitata e appresa. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse, e in generale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Ho5ss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent' anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent' anni dopo, massacratori in Vietnam. Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate. È chiaro che questa ricetta è troppo semplice per bastare in tutti i casi: un nuovo fascismo, col suo strascico di intolleranza, di sopraffazione e di servitù, può nascere fuori del nostro paese ed esservi importato, magari in punta di piedi e facendosi chiamare con altri nomi; oppure può scatenarsi dall' interno con una violenza tale da sbaragliare tutti i ripari. Allora i consigli di saggezza non servono più, e bisogna trovare la forza di resistere: anche in questo, la memoria di quanto è avvenuto nel cuore dell' Europa, e non molto tempo addietro, può essere di sostegno e di ammonimento. .. Parlando rigorosamente, non so e non posso sapere che cosa sarei oggi se non fossi stato in Lager: nessun uomo conosce il suo futuro, e qui si tratterebbe appunto di descrivere un futuro che non c' è stato. Ha un certo significato tentare previsioni (del resto sempre grossolane) sul comportamento di una popolazione, ed invece è difficilissimo, o impossibile, prevedere il comportamento di un singolo, anche sulla scala dei giorni. Allo stesso modo, il fisico sa pronosticare con grande esattezza il tempo che impiegherà un grammo di radio a dimezzare la sua attività, ma non sa assolutamente dire quando si disintegrerà un singolo atomo di quel radio. Se un uomo si avvia verso un bivio, e non infila la strada di sinistra, è ovvio che infilerà quella di destra; ma quasi mai le nostre scelte sono fra due sole alternative: poi, ad ogni scelta ne seguono altre, tutte multiple, e così all' infinito; e infine, il nostro futuro dipende fortemente anche da fattori esterni, in tutto estranei alle nostre scelte deliberate, ed anche da fattori interni, di cui però non siamo coscienti. Per questi notori motivi non si conosce il proprio avvenire né quello del nostro prossimo; per gli stessi motivi nessuno può dire quale sarebbe stato il suo passato "se". Una certa affermazione posso però formularla, ed è questa: se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano e scadente in storia, mi interessavano di più la fisica e la chimica, ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non aveva niente in comune col mondo della parola scritta. È stata l' esperienza del Lager a costringermi a scrivere: non ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile mi sembravano ridicoli, ho trovato miracolosamente il tempo di scrivere pur senza mai sottrarre neppure un' ora al mio mestiere quotidiano: mi pareva, questo libro, di averlo già in testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere sulla carta. Adesso sono passati molti anni: il libro ha avuto molte vicende, e si è curiosamente interposto, come una memoria artificiale, ma anche come una barriera difensiva, fra il mio normalissimo presente e il feroce passato di Auschwitz. Lo dico con esitazione, perché non vorrei passare per un cinico: nel ricordare il Lager oggi non provo più alcuna emozione violenta o dolorosa. Al contrario: alla mia esperienza breve e tragica di deportato si è sovrapposta quella molto più lunga e complessa di scrittore-testimone e la somma è nettamente positiva; nella sua globalità, questo passato mi ha reso più ricco e più sicuro. Una mia amica, che era stata deportata giovanissima al Lager femminile di Ravensbrück, dice che il campo è stata la sua Università: io credo di poter dire altrettanto, e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo. Devo però affrettarmi a precisare che questo esito positivo è stata una fortuna toccata a pochissimi: dei deportati italiani, ad esempio, solo circa il 5 per cento hanno fatto ritorno, e fra questi, molti hanno perduto la famiglia, gli amici, gli averi, la salute, l' equilibrio, la giovinezza. Il fatto che io sia sopravvissuto, e sia ritornato indenne, secondo me è dovuto principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giocato fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di montagna, ed il mio mestiere di chimico, che mi ha concesso qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l' animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune a molti), ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale.

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

A M. dolevano le ginocchia in modo intollerabile; tentò di scaricare una parte del peso sui calcagni, per il che dovette abbassarsi ancora un poco e inclinarsi all' indietro. Il marinaio ne approfittò: la sua spinta da verticale si fece obliqua, e M. si trovò seduto con le braccia puntellate dietro di sé. La posizione era più stabile, ma poiché ora M. era assai più basso, la pressione dell' altro sulle sue spalle si era fatta proporzionalmente più intensa. Lentamente, con spunti convulsi e inutili di resistenza, M. si trovò appoggiato sui gomiti, poi coricato, ma con le ginocchia ripiegate e alte: almeno quelle. Erano fatte di ossa dure, rigide, difficili da vincere. Il ragazzo emise un sospiro come fa chi deve fare appello a tutta la sua pazienza, afferrò i calcagni di M., uno per volta, e gli distese le gambe contro il suolo premendo sulle rotule. Era questo dunque il significato del gesto, pensò M.: il marinaio lo voleva disteso, subito; non tollerava resistenze. L' altro cacciò via il cane con un comando secco, si tolse i sandali reggendoli in mano, e si accinse a percorrere il corpo di M. come si percorre in palestra l' asse d' equilibrio: lentamente, a braccia tese, guardando fisso davanti a sé. Pose un piede sulla tibia destra, poi l' altro sul femore sinistro, e via via sul fegato, sul torace sinistro, sulla spalla destra, infine sulla fronte. Si infilò i sandali e se ne andò seguito dal cane. M. si rialzò, si rimise gli occhiali e si rassettò gli abiti. Fece un rapido inventario: c' erano vantaggi secondari, quelli che il calpestato ricava dalla sua condizione? Compassione, simpatia, maggiore attenzione, minore responsabilità? No, poiché M. viveva solo. Non ce n' erano, né ce ne sarebbero stati; o se sì, minimi. Il duello non aveva corrisposto ai suoi modelli: era stato squilibrato, sleale, sporco, e lo aveva sporcato. I modelli, anche i più violenti, sono cavallereschi, la vita non lo è. Si avviò al suo appuntamento, sapendo che non sarebbe stato mai più l' uomo di prima.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 5 occorrenze

Spinto dal vento, che si manteneva costantemente favorevole, soffiando sempre dal sud-ovest, si librava ancora alla stessa altezza: però fra breve avrebbe dovuto abbassarsi a causa del restringimento dell'idrogeno, che è molto sensibile ai cambiamenti di temperatura. L'oceano aveva assunto una tinta cupa, e non si udivano che i suoi brontolii. Pareva che sotto l'aerostato si stendesse un immenso velo nerastro, o meglio uno strato di veli, il quale lasciasse trasparire, di quando in quando, dei vaghi riflessi, dovuti alle incerte luci degli astri. L'aria era di una purezza ammirabile, d'una trasparenza cristallina, ed in alto scintillavano a milione le stelle, le quali parevano seguissero il corso del vascello volante. All'orizzonte, una tinta lievemente argentea annunciava il prossimo spuntare dell'astro notturno e si rifletteva sulle lontane acque dell'oceano, che prendevano, in quella direzione, una tinta madreperlacea d'un effetto ammirabile, veduta da quell'altezza. O'Donnell, sorpreso e stupito, guardava quella scena senza parlare, curvo sulla poppa del battello d'alluminio; Kelly continuava le sue osservazioni e guardava particolarmente i suoi barometri per rendersi conto della discesa dell'aerostato; il negro Simone, più che mai spaventato, batteva i denti per il freddo, che diventava acuto, e per il terrore, tenendosi sempre aggrappato, con la forza della disperazione, alle corde di sostegno. "Tremila metri" disse ad un tratto l'ingegnere. "E scendiamo ancora?" "Sempre." "Che il nostro peso sia soverchio?" "No: è l'idrogeno che si restringe per il freddo." "Che sfugga invece da qualche apertura?" "Sentite odore di gas?" "No." "Tutto dunque va bene." "Ma fino a quando scenderemo?" "Lo sapremo più tardi." "Finiremo per toccare l'oceano?" "Forse nelle notti seguenti; ma ora no: la forza ascensionale del nostro aerostato è per ora troppo potente. Oh! Oh!" "Cosa avete?" L'ingegnere non rispose. I suoi occhi si erano fissati sulle due bussole, e la sua fronte si era corrugata. "Che la corrente da me studiata, e che soffiava costantemente dal sud-ovest verso il nord-est, finisca qui?" mormorò. "Ciò sarebbe grave." "Ma che cosa avete?" insistette l'irlandese. "Ho da darvi una seria comunicazione, O'Donnell." rispose l'ingegnere. "Noi abbiamo virato di bordo, come dicono i marinai." "E cosa importa?" "Voi sapete dove ci spingerà ora il vento?" "Io no." "Intanto ci riconduce verso l'America." "In direzione del banco!" "No: verso il nord-ovest, dritti allo stretto di Davis, fra la Groenlandia ed il Labrador." "Brutta scoperta, in fede mia! Cosa pensate di fare? Mi spiacerebbe assai ritornare nel Canada." "Se ci trovassimo vicini alla superficie dell'oceano, getterei le mie ancore: ma siamo tanto alti che tutte le nostre funi riunite non toccherebbero l'acqua." "E non ci si può abbassare di più?" "Sì, ma dovremmo sacrificare una parte del nostro gas, e capirete che per noi è troppo prezioso per lasciarlo fuggire." "A quale distanza ci troviamo dal banco di Terranova" "A centosettanta miglia." "E ritorniamo?" "Con una velocità di sessanta miglia all'ora. Continuando in questa nuova direzione, avvisteremo il Labrador fra quattro o cinque ore." "Dannato vento! Speriamo che cambi. Mister Kelly, quantunque non mi dispiaccia di andare al polo invece che in Europa. Sarebbe una magnifica scoperta." "Che per il momento lascio ad altri, O'Donnell, non avendo portato con me vesti adatte a quei terribili freddi, né una cucina portatile per farci qualche bevanda calda. Se il vento ci spinge in quella direzione, scenderemo alla prima terra e riprenderemo il tentativo più tardi, su un'altra costa." "Mi spiacerebbe assai." "E anche a me. Speriamo però che la corrente si ristabilisca col levar del sole." "Che la vostra corrente si mantenga a 3500 metri?" "Può essere che al di sotto di quell'altezza ne esista un'altra, quella che ora ci porta al nord-ovest." "Gettiamo zavorra e innalziamoci." "Sarebbe una grande imprudenza, O'Donnell: ci priveremmo di un peso che più tardi potrebbe esserci di estrema necessità, e quando il sole dilaterà il nostro idrogeno, noi saliremmo a tale altezza da non poter resistere. A 8000 metri la rarefazione dell'aria è mortale, o poco meno; a 9000 nessuno di noi resisterebbe." "Lasciamo dunque che il vento ci porti al nord-ovest, e domani vedremo." "Continuiamo a scendere?" "Sì," rispose l'ingegnere. "E da questa discesa spero assai di fermare l'aerostato. Eccoci già a 2500 metri, e non ci arrestiamo ancora: l'idrogeno si raffredda rapidamente: tanto meglio!" Infatti il pallone, o meglio i due palloni, a causa dell'umidità della notte, che li rendeva più pesanti, e del freddo acuto che restringeva l'idrogeno, calava a vista d'occhio, facendo dei bruschi salti. Si arrestava un momento, poi scendeva, come se le sue forze venissero improvvisamente meno e l'idrogeno perdesse la sua potenza ascensionale, poi tornava a fermarsi per riprendere, qualche minuto dopo, le sue ricadute. O'Donnell, quantunque avesse grande fiducia in quel vascello aereo e nel suo inventore, cominciava a diventare inquieto. In quanto a quel poltrone di Simone, ad ogni ricaduta mandava sordi gemiti e guardava con occhi smarriti la cupa superficie dell'oceano, che si avvicinava rapidamente. Quel povero diavolo si riteneva ormai perduto ed aspettava, con inesprimibile angoscia, il momento in cui l'aerostato sarebbe stato inghiottito. L'ingegnere invece era tranquillo, anzi benediceva in cuor suo quell'umidità e quel freddo, che gli permettevano di gettare le sue ancore e arrestare quella marcia verso regioni affatto opposte a quelle che sperava di raggiungere. Alle 9 di sera l'aerostato non era che a mille metri dall'oceano. Si udivano distintamente i sordi muggiti delle cupe ondate, e si distingueva nettamente la spuma che le copriva. Alle 10 era a 500 e alle 11 e un quarto a 300. La discesa si arrestò: l'equilibrio si era ristabilito. "Giù le ancore" disse l'ingegnere. "Avremo funi sufficienti?" chiese O'Donnell, respirando liberamente. "Unendo le tre funi delle guide-ropes e tutte le altre, ne avremo a esuberanza." "Non scenderà più l'aerostato?" "Non credo: anzi lo alleggeriremo d'un peso notevole e lo costringeremo, per di più, a fermarsi. Aiutatemi, O'Donnell." I due grandi coni d'alluminio, della capacità totale di quattrocentosessanta litri, vennero trasportati uno a prua e l'altro a poppa e legati alle lunghe corde, che erano state rapidamente annodate. L'ingegnere e l'irlandese, aiutati da Simone che si era finalmente deciso a muoversi, calarono nell'oceano i due grandi coni, i quali tosto si capovolsero, riempiendosi d'acqua. L'aerostato scaricato di quel peso, tese subito le due corde e interruppe bruscamente la sua fuga verso il nord-ovest. I due immensi fusi virarono di bordo e si piegarono verso la direzione del vento; ma i due coni tennero fermo, opponendo una resistenza incredibile. Per alcuni istanti il vascello aereo rimase perfettamente immobile; poi il vento, che urtava con violenza le sue immense superfici, si diede a trascinarlo nella direzione primitiva. Ma la velocità della marcia era minima: l'ingegnere constatò che l'aerostato percorreva a mala pena tre miglia all'ora. "Questo risultato sorpassa le mie previsioni" disse. "In una sola ora di buon vento possiamo riguadagnare ciò che perdiamo in otto o dieci ore di marcia contraria. Volete ora un consiglio, O'Donnell?" "Parlate, Mister Kelly." "Avvolgetevi in una grossa coperta di lana e dormite, finché Simone veglia. Non corriamo alcun pericolo e possiamo chiudere gli occhi in attesa del nostro quarto di guardia." "Mi terrete compagnia?" "Fino alla mezzanotte. Alle quattro del mattino voi mi sostituirete." "Non domando di più. Buona notte, Mister Kelly, e se vi occorre qualche cosa, tiratemi le gambe senza riguardo, o fatemele tirare da Simone." I due aeronauti si avvolsero nelle loro coperte per ripararsi dall'umidità e dal freddo della notte e s'addormentarono profondamente, mentre il Washington filava lentamente verso nord-ovest, trascinando le due ancore, che fendevano le onde con sordi fragori. A mezzanotte Simone, che a poco a poco riprendeva coraggio e che non aveva osato chiudere gli occhi per tema di svegliarsi in fondo all'oceano, chiamò l'ingegnere. "Nulla di nuovo?"chiese questi al negro. "Nulla, massa" rispose l'interrogato. "Andiamo sempre verso il nord-ovest?" "Sì." "Va a dormire, e non fare brutti sogni." Si sedette a poppa del battello, accese una sigaretta e gettò uno sguardo sull'oceano, che brontolava a meno di 250 metri di distanza, mentre il raffreddamento dell'idrogeno continuava con l'abbassarsi della temperatura notturna. Nessun lume si scorgeva sulla nera superficie dell'Atlantico. Solo all'orizzonte le acque riflettevano il primo quarto della luna, tingendosi di una luce biancastra, e la luce rossastra od azzurrognola delle stelle prossime al tramonto. Il silenzio era solamente rotto dal fragore prodotto dalle ancore, che cercavano di opporre resistenza al vento, il quale spingeva l'aerostato e dai brontolii sordi delle onde. Alzò il capo e vide i due immensi fusi dondolarsi lentamente con le punte volte verso il nord-ovest. Il vento produceva dello pieghe sulla loro superficie, ingolfandosi nella seta; ma era debole e non poteva produrre alcun guasto. L'ingegnere avrebbe potuto eliminarle, gonfiando i due palloncini con la piccola pompa premente, ma non essendovi alcun pericolo, sarebbe stata una fatica vana. Più tardi, il calore solare si sarebbe incaricato di rendere lisce quelle superfici. L'ingegnere continuò a fumare tranquillamente, dolcemente cullato dalla navicella, che il vento faceva oscillare, in attesa di venire sostituito dall'irlandese, il quale russava sonoramente sotto un banco, strettamente avvolto nella sua coperta di lana. Già verso l'oriente una luce incerta cominciava ad apparire, tingendo il cielo di riflessi madreperlacei e facendo impallidire gli astri, quando l'ingegnere fu bruscamente strappato dalle sue meditazioni da un lontano muggito, che pareva si avvicinasse rapidamente. Si alzò e guardò sotto di sé; ma nulla scorse sulla nera superficie dell'oceano. Girò intorno lo sguardo e vide, verso l'ovest, tre punti luminosi solcare l'orizzonte con fantastica celerità. "Uno steamer," mormorò "una nave che va in Europa, o che si dirige verso gli stabilimenti della baia di Hudson." Ad un tratto mandò un grido. Una fiamma rossa era balenata fra quei tre punti luminosi, seguita poco dopo da una detonazione, e un proiettile era passato, fischiando, fra i due aerostati, ricadendo in mare con un sordo tonfo.

Le due valvole si chiusero, ma l'aerostato continuò ad abbassarsi con notevole rapidità. I due coni e la guide-rope sommersero e tosto rallentarono la sua marcia discendente, mantenendolo a sessanta metri dalla superfìcie dell'oceano. "Vedete nulla?" chiese O'Donnell all'ingegnere che aveva puntato un canocchiale da notte. "Sì, mi pare di scorgere una piccola striscia nera scivolare sull'oceano." "È lontana?" "Tre o quattro chilometri." "Allora fra poco il naufrago sarà qui. Come mai un ragazzo si trova perduto in mezzo all'Atlantico e solo?" "Lo sapremo più tardi. Udite lo sbattere dei remi?" "Mi pare di udire un lontano rumore. Ci vedrà quel mozzo ?" "Accendete una torcia: gli servirà da faro." La sottile striscia nera avanzava sempre verso il pallone e si distingueva ormai senza bisogno di cannocchiale e si udiva anche nettamente lo sbattere dei remi. In capo a mezz'ora era lontana poche centinaia di metri, su di essa si scorgeva una forma umana di piccole dimensioni, la quale manovrava i remi con grande energia. "Coraggio, giovanotto!" gridò Mister Kelly. "Grazie signore," rispose il naufrago. In pochi minuti superò la distanza, abbandonò il canotto, si fermò alcuni istanti sul primo nodo della guide-rope per riposarsi, poi si arrampicò con l'agilità di un gatto e raggiunse la navicella. O'Donnell lo afferrò per le braccia e lo depose nella scialuppa. "Grazie," ripeté il naufrago. Poi, dopo aver girato lo sguardo ardente sulle casse e sui barili che ingombravano la scialuppa, mormorò: "Da bere! ... Da bere, signori! ... Muoio di sete!"

"Quale salasso avrà dovuto fare ai palloni Mister Kelly per abbassarsi così presto! Fortunatamente c'è la riserva nei cilindri e la zavorra è ancora abbondante. Dannato polipo! E stato la causa di tutte le nostre disgrazie e della fine orribile del povero Simone. Per mille merluzzi! Sento gelarmi il sangue quando penso a quel tronco umano che ho visto sollevarsi sulle onde e quel ... " S'arrestò bruscamente, girando intorno lo sguardo spaurito. Gli era sembrato di sentire un rauco sospiro e un tonfo sordo. "Qualche pesce-cane?" mormorò battendo i denti. "Che sia destinato anch'io ad avere per tomba lo stomaco di uno squalo? Ventre di balena! C'è da impazzire, anche senza essere paurosi." Stette in ascolto parecchi minuti, trattenendo perfino il respiro: ma non udì più nulla. Credendo di essersi ingannato, riprese le mosse verso il sud, nella cui direzione cominciava già a scorgere il Washington che pareva ancorato a breve distanza dalla superficie dell'oceano. L'onda larga, investendolo e coprendolo di spuma, lo stancava, paralizzandogli le forze, che cominciavano ad esaurirsi. Si sentiva le estremità irrigidirsi a poco a poco e provava una grande oppressione al petto, che gli rendeva penoso il respiro. Tuttavia, la paura di venire assalito da qualche torma di squali affamati, lontano dall'aerostato, lo spingeva a tirare innanzi senza prendere riposo. Il Washington spiccava ora nettamente sul fondo madreperlaceo dell'orizzonte, avvicinandosi rapidamente l'alba, ma pareva che la distanza non scemasse mai. Per maggior disgrazia, la paura invadeva poco a poco il disgraziato irlandese, il quale credeva di udire dietro di sé i rauchi sospiri dei mostri marini e temeva che s'avvicinassero sott'acqua. Allora ripiegava le gambe e si arrestava in preda a un'angoscia indescrivibile, impallidiva come un morto e, malgrado il freddo che quel bagno prolungato gli procurava, si sentiva scendere sulla fronte grosse gocce di sudore. "Arriverò vivo al Washington o lascerò le mie gambe in quest'oceano?" si chiedeva ad ogni istante, con terribile perplessità. Alle cinque il sole apparve bruscamente sull'orizzonte, inondando l'oceano di raggi abbaglianti. O'Donnell respirò e salutò l'astro con un vero e proprio grido di gioia. "Almeno potrò vedere qualcosa e scorgere forse a tempo gli squali." disse. Guardò verso il sud. L'aerostato non era lontano che un miglio, e nella navicella scorgeva l'ingegnere, il quale alzava le braccia come per incoraggiarlo a fare presto. Raddoppiò gli sforzi e avanzò in quella direzione, respirando a grande fatica. Ma, percorsi tre o quattrocento metri, si arrestò con i capelli irti e il viso sconvolto da un'inesprimibile angoscia. A venti passi aveva scorto un punto nerastro emergere dalle onde e poi una larga pinna natatoria, che era subito scomparsa. "Gran Dio!" esclamò. "Ecco il nemico!" Abbandonò il salvagente, impugnò il bowie-knife e si tuffò. L'acqua era limpida, e si poteva scorgere, a grande profondità, un pesce di grosse dimensioni. Guardò a destra e a sinistra e vide una grande ombra che pareva s'immergesse venti o trenta metri più lontano. La seguì con gli occhi smarriti finché poté, poi tornò in superficie, aggrappandosi al salvagente. Non vide nulla. Aveva scambiato qualche grosso delfino con uno squalo, o lo squalo non l'aveva ancora visto? Si sa che questi terribili mostri, specialmente i tintoreas ci vedono assai male, e poteva darsi che il mostro che si trovava in quelle acque non avesse scorto la preda umana. O'Donnell rimase parecchi minuti immobile, con gli orecchi tesi e gli occhi ben aperti, poi si decise a riprendere il faticoso esercizio. Comprendeva che ormai la sua salvezza non dipendeva che dalla sua rapidità, perché lo squalo non avrebbe tardato a scoprirlo. Fece un ultimo e disperato appello alle proprie forze e si spinse innanzi con la maggior velocità possibile, ma procurando, nello stesso tempo, di non far rumore. Alle sei non era che a cento passi dal Washington, il quale si trovava trattenuto dalle due àncore a soli sessanta metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere aveva calato le guide-ropes, alle cui estremità pendeva l'ancorotto a patte, che non era stato più staccato dopo l'abbordaggio con la nave dei morti. "Coraggio, O'Donnell!" gli gridò Kelly. "Ancora uno sforzo e siete salvo." "Vengo, Mister Kelly." rispose l'irlandese che era esausto. "Ma dov'è Simone? È morto ... ?" "Mor ... to." rispose O'Donnell, rabbrividendo. "Forse che ... " L'ingegnere si era bruscamente interrotto, gettando un grido di terrore.

Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

Fortunatamente non aveva cambiato direzione, e il Washington continuava ad abbassarsi. In un altro momento quella discesa sarebbe stata rimpianta dagli aeronauti: ora invece la benedicevano, poiché permetteva loro di abbordare il rottame senza sacrificare l'idrogeno. Alle quattro pomeridiane l'oceano non era che a centocinquanta metri e la nave a soli dieci chilometri. A così breve distanza, con l'aiuto del cannocchiale, l'ingegnere e l'irlandese potevano scorgerla nettamente. Era un veliero della portata di forse milleduecento tonnellate, di forme svelte, dipinto di nero. I suoi alberi pareva fossero stati tagliati rasente la coperta, poiché non si vedevano che due corti tronconi; qua e là, disperse a prua e a poppa, pennoni, lembi di vele e cordami. Dalle barcacce di babordo e di tribordo si vedevano pendere in acqua i paterazzi, le sartie e le griselle. Quella nave, che doveva essere stata attrezzata a brick o a brigantino, era inclinata sul babordo. Pareva che il suo carico si fosse improvvisamente spostato, forse durante qualche grande tempesta. Sul ponte non si scorgeva persona alcuna: però si vedeva correre da prua a poppa una forma nera che non si poteva ancora ben distinguere. "Che sia qualche animale?" chiese O'Donnell. "Sarà forse un cane" rispose l'ingegnere. "Abbandonato dell'equipaggio?" "Certamente." "Allora il disastro deve essere recente: se risalisse a qualche settimana, quel povero animale sarebbe già morto di fame." "Lo credo anch'io." Alle cinque il Washington si trovava a soli tre chilometri dalla nave. Il venticello lo spingeva proprio sopra di essa. L'ingegnere fece attaccare l'ancorotto a patte alle guide-rope e calò quasi a fior d acqua: per maggior precauzione fece calare anche i due coni, per fermare prontamente l'aerostato, se il vento lo avesse sospinto al largo. Alle cinque e un quarto il Washington si trovava a poche decine di passi dal rottame, il quale era immobile come un cadavere abbandonato in mezzo ad un bacino d'acqua tranquilla. Sul ponte, un cane enorme, dal pelame nero, guardava con due occhi ardenti il pallone che s'avvicinava, facendo udire dei sordi brontolii. "Attento all'àncora. O'Donnell" gridò l'ingegnere. "Fila dritta sulla baraccia di babordo e prenderà fra le sartie pendenti o le gru delle imbarcazioni" rispose l'irlandese. Il Washington si trovava proprio sopra la nave. Ad un tratto provò una forte scossa, i due grandi fusi s'abbassarono bruscamente, poi virarono su di loro e rimasero immobili. L'àncora, guidata dal braccio dell'irlandese, aveva preso, fissandosi fra le sartie e le griselle pendenti della barcaccia poppiera di babordo. Il cane, un enorme molosso, s'avventò rabbioso verso l'àncora, emettendo minacciosi ululati. "Diavolo!" esclamò O'Donnell. "Sarà un po' difficile ammansire quel guardiano! Se la prenderà coi nostri polpacci, Mister Kelly." "Lo uccideremo, O'Donnell. Ma ... " "Che cosa?" "Non sentite delle pestifere esalazioni salire fino a noi?" "Per mille merluzzi! E odore di morti questo!" esclamò l'irlandese, impallidendo. Ed era vero. Da quel vascello abbandonato sull'oceano, senza alberi, senza vele, semirovesciato, preda sicura del primo uragano, saliva un tanfo di carne corrotta che appestava l'aria. Si sarebbe detto che portava un carico di cadaveri: come un sinistro cimitero galleggiante!" L'ingegnere e O'Donnell, entrambi in preda a grand'emozione, cercavano di discernere qualcosa attraverso il boccaporto maestro, che era spalancato come la bocca d'una tenebrosa voragine, ma invano. "Gran Dio!" esclamò l'irlandese. "Quale lugubre scoperta abbiamo fatta! Che sia questo il vascello fantasma dell'olandese maledetto, o la nave-feretro?" "Siete coraggioso, O'Donnell?" chiese l'ingegnere. "Lo credo" rispose l'irlandese. "Allora seguitemi!" "E Simone?" "Rimarrà a guardia dell'aerostato. Un altro spavento lo farebbe impazzire." "Non fidatevi, Mister Kelly. Guardate i suoi occhi e il suo viso." L'ingegnere si volse verso il negro e lo vide curvo sul bordo della scialuppa, con gli occhi fissi sulla nave; ma quegli occhi tradivano una paura orribile, e il volto era diventato grigio, cioè pallidissimo. "Simone!" disse l'ingegnere. Il negro non rispose e non abbandonò la sua posa. Pareva che cercasse d'indovinare la causa di quelle esalazioni pestifere, che salivano fino all'aerostato, a ondate. "Simone," ripetè "cosa fai?" Questa volta il negro alzò il capo e guardò il padrone con due occhi smarriti. "Dei morti?" chiese, battendo i denti. "Io paura." "Ma quali morti, pauroso?" "Là! Là!" balbettò il negro, rabbrividendo e indicando il boccaporto. "È la nave dei morti!" "Tu sogni, Simone" "No" disse l'africano con strana energia. "Rimanete a guardia del Washington Mister Kelly" disse l'irlandese. "Quel povero pazzo può farci un brutto scherzo." "Quale?" "Può tagliare la fune e lasciarci su quella nave del malanno." "Rimanete qui voi, O'Donnell. Scenderò io." "Ma laggiù vi è un carnaio, signore, e un cane idrofobo." "Non ho paura. Rimanete a guardia di Simone e, se vi sarà bisogno d'aiuto mi raggiungerete." "Ah no, signore. Voi siete il capitano qui e non dovete abbandonare l'aerostato ed esporvi a dei pericoli." Poi, prima che l'ingegnere pensasse a opporsi, il bravo irlandese superò il bordo della scialuppa, s'aggrappò alla fune e si lasciò scivolare. "Badate al cane" gridò l'ingegnere. "Ho la rivoltella" rispose O'Donnell. Di mano in mano che scendeva, il puzzo diventava così orribile che si sentiva asfissiare. Gli pareva di scendere in una immensa fossa di cadaveri putrefatti. Giunto all'ultimo nodo, si fermò e guardò sotto di sé. L'enorme molosso stava presso all'ancora e lo guardava con due occhi che mettevano paura, mandando dei sordi brontolii. Aveva il pelo arruffato, la coda penzoloni e delle lunghe bave alla bocca. "È idrofobo!" esclamò O'Donnell che si sentì correre un brivido per le ossa. "Bel guardiano a questa nave dei morti!" Impugnò la rivoltella con la mano destra, mentre con la sinistra si teneva aggrappato alla fune, e scaricò quattro colpi contro quel cagnaccio, il quale stramazzò sul ponte della nave. "È morto?" gli chiese l'ingegnere, dall'alto. "Lo credo" rispose O'Donnell. "Se si rialza ho altri due colpi." Si lasciò andare e cadde sulla tolda. "Corna di cervo!" esclamò. "Che profumi! Ma che cos'è accaduto qui? Che l'equipaggio si sia scannato?" S'avvicinò al cane e vedendolo ancora agitarsi lo fulminò con una quinta palla in un orecchio; vincendo la ripugnanza che lo invadeva e coprendosi il naso con una pezzuola, avanzò verso il boccaporto maestro, che era, come si disse, aperto. Guardò in quella voragine e vide che era semipiena di botti accatastate confusamente le une sulle altre e addossate alle pareti di bordo. In mezzo ad esse, scorse il cadavere di un marinaio in piena putrefazione. "Non può essere quello solo che manda queste pestifere esalazioni" mormorò. Si diresse verso il quadro di poppa, e sulla ruota del timone lesse queste parole: Benito Juarez. Vera Cruz. "È una nave messicana" gridò, volgendosi verso l'ingegnere, che lo guardava con ansietà. "Vi sono dei morti?" chiese l'ingegnere. "Ho veduto un solo marinaio; ma temo che nel quadro e nella camera di prua ve ne siano ben altri, dalla puzza orribile che qui si sente." "Udite nessun rumore, nessun gemito?" "Regna un silenzio di tomba. Mister Kelly. Qui devono essere tutti morti, e forse da qualche settimana." "Temo un grave pericolo, O'Donnell." "Bah! I morti non si muovono." "Ma avvelenano, uccidono." "Ho la pelle dura" rispose l'irlandese, che forse non aveva compreso l'allusione dell'ingegnere. Senza aggiungere parola, scese coraggiosamente la scaletta che metteva nel quadro, malgrado la puzza orrenda che ne usciva. La sua assenza fu breve. L'ingegnere lo vide risalire rapidamente, coi capelli irti, il viso sconvolto, pallido come un cadavere, e precipitarsi verso l'ancora, che con un colpo di mano staccò dai paterazzi e dalle griselle. "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" gridò con accento di terrore. S'aggrappò alla guide-rope e, senza rispondere all'ingegnere per non perdere tempo, si mise a salire facendo sforzi sovrumani per far più presto che poteva. In un minuto superò la distanza e si issò sulla scialuppa, ripetendo con voce atterrita: "Fuggiamo, Mister Kelly, fuggiamo!" "Ma che cosa avete veduto, O'Donnell?" chiese l'ingegnere. "Siete pallido e sconvolto." "Ho ... che forse noi, che abbiamo respirato ... quei miasmi, ... siamo perduti." "È scoppiata una epidemia su quella nave?" "Sì, e forse la più tremenda: la febbre gialla!" "Fuggiamo" ripeté l'ingegnere, il quale, nonostante il suo coraggio, aveva provato un brivido. Rovesciarono i coni, che mantenevano il pallone prigioniero, e gettarono un sacco di zavorra. L'aerostato, scaricato di quel peso, s'innalzò rapidamente, fuggendo dalle mortali esalazioni che irrompevano da quel cimitero galleggiante.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682227
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il fiammingo continuava ad abbassarsi verso terra, anzi aveva appoggiata la mano sinistra sul pavimento di legno, come se avesse voluto tentare il famoso colpo del cartoccio e s'allungava innanzi, tenendo sempre la draghinassa in linea. Il guascone seguiva attentamente tutte quelle mosse misteriose, domandandosi, non senza una certa inquietudine, che specie di colpo stava per portargli quell'uomo barbuto. Certo avrebbe preferito un attacco furioso, accompagnato da urla e da gran colpi. Nondimeno quell'accidente d'uomo conservava una calma ammirabile e non staccava un solo istante i suoi sguardi da quelli del fiammingo. Si sarebbe anzi detto che cercava di affascinarlo come i serpenti affascinano i piccoli volatili. Nella sala continuava a regnare un assoluto silenzio. Tutti attendevano con ansietà quel terribile colpo che doveva, probabilmente mandare all'altro mondo uno o l'altro dei due avversari. Ad un tratto il fiammingo, che non aveva cessato di abbassarsi contro il pavimento, allungandosi come un crotalo, scattò con impeto terribile. La sua lama scintillò un momento solo e andò a colpire il guascone, non già verso il cuore, bensí verso il basso ventre. Si udí un colpo secco e con immenso stupore di tutti la draghinassa del fiammingo, invece di squarciare gl'intestini di don Barrejo, saltò verso il fondo della sala, spaccando alcune bottiglie che si trovavano su un tavolo. Il fiammingo si era prontamente rialzato, guardando con spavento il guascone, il quale rideva a crepapelle, mentre gli spettatori prorompevano in un applauso fragoroso, gridando: - Bella parata! ... - Meravigliosa! ... - Siete un famoso spadaccino! ... - Offriamogli da bere, caramba! ... L'uomo barbuto, rosso di collera, s'avvicinò al guascone, dicendo: - M'avete vinto: uccidetemi! ... - Ma che! ... Non ammazzo nemmeno i mosquitos io, eppure quelli qualche volta non mi lasciano dormire. Che cosa volete che ne faccia della vostra pelle, io? Fosse quella d'un giaguaro o d'un coguaro varrebbe almeno qualche cosa; quella umana non può servire che agli antropofaghi del Darien e quelli sono un po' troppo lontani. - Siete una piazza inattaccabile, voi? - Una roccia guascone, - rispose don Barrejo. - Che cosa posso fare ora per voi? Riprendere la mia draghinassa e ricominciare il duello? - Adagio, caballero, - disse il taverniere, avanzandosi. - Voi non riavrete la vostra spada, se prima quel signore là non mi pagherà le quattro bottiglie d'aguardiente e le due di malaga autentica che mi ha spezzate. - Chi è quello là? - chiese il guascone. - Voi. - E volete che io paghi? - Dieci piastre. - Bah! ... Cane d'un ladro! - urlò il guascone. - Ci hai rubato prima un doblone, dandoci da bere dei veleni, ed ora vuoi derubarci ancora? - Basta! - vociò il taverniere, furibondo. - Ne ho fino sopra i capelli di voi! ... Va' fuori, mascalzone! ... - A me! ... - Corpo di Satana! - gridò il fiammingo. - L'oste è diventato matto! Dammi la mia draghinassa o ti getto in aria anche le botti che hai in cantina. - Pagatemi le dieci piastre! - strillò il taverniere. Il guascone fece colla sua draghinassa un terribile molinello, tuonando: - Avanti i guasconi, i baschi ed i fiamminghi! ... Finiamola con quell'impertinente! L'impertinente però, se non era un uomo di spada, non era nemmeno un pauroso, poiché scaraventò addosso ai due filibustieri ed al fiammingo che si era unito a loro, una casseruola, mentre i suoi aiutanti, non meno inferociti di lui, facevano volare piatti e bottiglie, facendo un fracasso infernale. I bevitori, spaventati, temendo di tornarsene a casa colla testa rotta, spalancarono la porta, scappando a tutte gambe. Il guascone, Mendoza ed il fiammingo facevano intrepidamente fronte all'assalto dell'oste e dei suoi quattro uomini, scaraventando sedie e sgabelli in tutte le direzioni, e fracassando fiaschi e bottiglie. Xeres, Malaga, Alicante, Porto e Aguardiente scorrevano sui banchi e sui tavoli, mentre piatti, bottiglie, casseruole, secchi, padelle e spiedi continuavano a volare attraverso la sala, aumentando i danni. - Accoppiamo questi manigoldi! - urlava ferocemente il guascone, il quale battagliava furiosamente contro quella grandine di proiettili, menando colpi di draghinassa. Il fiammingo aveva sradicata una tavola e, dopo averla rovesciata, vi si era nascosto dietro, rimandando al loro indirizzo bottiglie e tondi, con una rapidità prodigiosa, mentre il basco non cessava di lanciare sgabelli. Quella battaglia durava da qualche minuto, quando uno dei bevitori usciti poco prima, rientrò, gridando: - La ronda! ... Scappate! Il guascone afferrò la tavola dietro la quale si riparava Mendoza e la scaraventò contro il taverniere ed i suoi aiutanti, fracassando una cinquantina di bottiglie che stavano allineate sul banco. I cinque uomini, spaventati dal fracasso prodotto da tutti quei vetri, infilarono la porta, urlando a squarciagola: - A noi, guardie! ... Ci accoppano! ... - Scappiamo, - disse il fiammingo. - Signori, vi è un'altra uscita dalla parte della cucina. - Guidateci, - disse il guascone. - E la mia draghinassa? - L'ha portata via quell'oste maledetto. - Furfante! ... - Ve lo avevo detto io che era un ladrone patentato! - disse don Barrejo. - Ci ha rubato un doblone! - Scappiamo! - gridò Mendoza. I tre avventurieri si precipitarono verso la cucina, saltando sopra i tavoli e gli sgabelli che ingombravano il suolo. - Satanasso! - gridò l'uomo barbuto. - Hanno chiusa la porta! ... - Si salta dalla finestra, - disse il guascone. - Ve ne sono due qui, se non m'inganno. Signor basco sfondatene una. - Lasciate a me quest'incarico, - rispose il fiammingo. - Sono forte come un toro! ... - Infatti avete delle buone spalle, molta polpa e molte ossa, disse il guascone. Il fiammingo, vedendo appesa alla parete una grossa mazza di legno che serviva certamente ai cuochi del taverniere per battere le costolette, l'afferrò e percosse cosí furiosamente le imposte d'una finestra, da farle cadere sulla via con un fracasso indiavolato. Quattro o cinque voci si erano subito alzate. - Ohé! ... Volete accoppare la gente? - Che cosa succede in questa taverna, questa sera? - È scoppiata una rivoluzione? Il guascone fu lesto a saltare sul davanzale ed a gettarsi sulla via, cadendo in mezzo ad un gruppo di nottambuli. - Chi siete? urlarono in coro. - Scappate! gridò il guascone. - È fuggito un giaguaro che stava chiuso in una gabbia e sta divorando l'oste! I nottambuli, udendo quelle parole, alzarono i tacchi, scomparendo con velocità fulminea attraverso le viuzze della città. - Voi siete un uomo di genio, - disse il fiammingo, il quale a sua volta era saltato sulla strada. - Chi sarebbe entrato lí dentro, sapendo che vi è un giaguaro? Ah! ... La splendida trovata! Anche il basco aveva fatto il suo salto. - Lasciate i giaguari ed i coguari e giuocate di gambe, - disse. - Volete farvi prendere dalla ronda? - A vento in poppa! - gridò il guascone, allargando le sue lunghissime e magre gambe. - Facciamo correre la ronda. Signor fiammingo, badate che i guasconi ed i baschi sono agili come i cervi. - Lo so, - rispose l'omaccio barbuto, prendendo lo slancio. Si erano messi tutti tre in corsa, seguendo la riva d'un torrentello il quale pareva che tagliasse a metà Pueblo-Viejo. Avevano percorso un due o trecento passi, quando sbucarono in una via trasversale, che era ingombra di persone. Vedendo comparire i tre fuggiaschi, un grido si alzò fra quei nottambuli. - Ecco i ladri! ... - Ferma! ... Ferma! ... - Chiama la ronda! ... - Maledetto oste! - vociò il guascone, sguainando la sua draghinassa. - È sempre fra i miei piedi! ... Ora lo sgozzo come un pollo! ... - Apriteci invece il passo! - gridò il fiammingo, il quale si trovava inerme. Il guascone piombò in mezzo al gruppo, dando piattonate a destra ed a sinistra, mentre Mendoza punzecchiava colla sua spada i piú vicini, urlando: - Largo! ... Largo! ... Abbiamo un giaguaro alle spalle ed è rabbioso! Fu un'altra fuga generale. Il taverniere però, che sapeva di non aver nella sua cantina alcuna bestia feroce, si gettò da un lato, continuando a gridare: - Aiuto! ... I ladri! ... Avanti la ronda! Il guascone ed i suoi due compagni avevano ripreso lo slancio, mentre dalla taverna che era vicinissima, uscirono precipitosamente due alabardieri e due archibugieri difesi da corazze d'acciaio e da elmetti. - Accoppateli! - urlò l'oste. - Sono filibustieri! Non ci voleva di piú per mettere le ali ai piedi della ronda. I filibustieri erano troppo temibili per lasciarli scappare impuniti, sicché i quattro bravi militi si slanciarono dietro ai fuggiaschi, urlando a loro volta: - Ferma! ... Ferma! ... I filibustieri! ... All'armi! ... All'armi! ... - Tonnerre! - gridò il guascone. - Eccoci sulle spalle un grosso affare! ... Gambe, Mendoza! ... Gambe fiammingo! ... - Io non ho i garretti dei baschi e dei guasconi! - brontolò l'omaccio barbuto, il quale soffiava come un mantice. - I fiamminghi non sono cani da corsa! Bene o male, sagrando e sbuffando, teneva però dietro ai lesti figli del mar di Biscaglia, i quali filavano come lepri inseguite dai bracchi. Quella seconda corsa non durò però molto, poiché il guascone, che stava dinanzi a tutti, tutto d'un tratto si fermò, facendo poi tre o quattro salti indietro. - Che cosa c'è? - chiese Mendoza, il quale giungeva buon secondo. - La via è chiusa! - Non c'è un passaggio? - No, compare. - Date la scalata alla casa che ci chiude il passo! ... Ai guasconi nulla è impossibile. - Non sono un gatto. - Allora siamo presi! ... La ronda ci è alle spalle! - disse il fiammingo. - Datemi un spada. - Per cosa farne? - chiese il basco. - Per cacciare la ronda. - E farci fucilare? Contro gli archibugi non valgono le armi bianche. - Io credo, signori, - disse don Barrejo, ringuainando la draghinassa, - che la divertentissima scena finisca proprio in fondo a questa via senza uscita. La colpa è della vostra barba, signor fiammingo. Se voi rimanevate zitto, io accoppavo quel ladrone di taverniere e tutto sarebbe finito lí. - Se l'avessi saputo prima, me la tagliavo, - rispose il fiammingo. - Ecco la ronda, - disse Mendoza, ringuainando pure la spada. Siamo fritti. - Non ancora, compare, - rispose il guascone. - Lasciate fare a me e vedrete che colpo giuocherò io in Pueblo-Viejo! ... - Io sono certo di prendere d'un colpo solo dos paiaros e un golpe come dicono questi spagnuoli. - Signor fiammingo, avete un sigaro? - Dei cubani e dei migliori. - Datemene uno e voi accendetene un altro. Diamine! ... Si può ben fumare in barba alla luna. In quel momento i due alabardieri ed i due archibugieri si precipitarono entro la via senza uscita, gridando con voce minacciosa: - Arrendetevi o facciamo fuoco! ...

IL RE DEL MARE

682242
Salgari, Emilio 1 occorrenze

La Marianna si era arenata su uno di quei banchi che le acque nascondevano e che, in quel momento, cominciava ad apparire, continuando la marea ad abbassarsi. La ruota di prora aveva toccato molto profondamente, in modo da rendere impossibile lo scagliamento col solo mezzo delle àncore gettate a poppavia e alate all'argano. - Cane d'un pilota! - esclamò Yanez, dopo d'aver osservato attentamente il banco. - Non ce la caveremo prima di mezzanotte. Che cosa ne dici, Sambigliong? Un malese che aveva il viso assai rugoso ed i capelli biancastri, e che tuttavia sembrava ancora robustissimo, si era accostato all'europeo: - Dico, signor Yanez, che nessuna manovra riuscirebbe a toglierci di qui senza l'aiuto dell'alta marea. - Hai fiducia in quel pilota? - Non so, capitano, - rispose il malese, - non avendolo mai veduto prima d'ora. Nondimeno ... - Continua, - disse Yanez. - Quello d'averlo trovato solo, così lontano da Gaya, in un canotto incapace di resistere ad un'ondata e di essersi subito offerto di guidarci, non mi pare chiaro. - Che abbia commesso una imprudenza ad affidargli il timone? - si chiese Yanez, che era diventato pensieroso. Poi, scuotendo il capo come se avesse voluto scacciare lungi da sè un pensiero importuno, aggiunse: - Per quale scopo quell'uomo, che appartiene alla vostra razza, avrebbe cercato di perdere il migliore e più poderoso praho della Tigre della Malesia? Forse che noi non abbiamo sempre protetti gli indigeni bornesi contro le vessazioni degli inglesi? Forse che non abbiamo rovesciato James Brooke per ridare l'indipendenza ai dayaki di Sarawak? - E perchè mai, signor Yanez, - disse Sambigliong - i dayaki della costa si sono messi in armi improvvisamente, contro i nostri amici? Eppure Tremal-Naik, creando fattorie su queste spiagge, che prima erano quasi deserte, ha dato loro il mezzo di guadagnarsi da vivere comodamente, senza correre i rischi della pirateria che li decimava. - È un mistero questo, mio caro Sambigliong, che nè io nè Sandokan siamo ancora riusciti a spiegare. Questo improvviso scoppio d'ira contro Tremal-Naik deve avere una causa che per ora ci sfugge, ma certo qualcuno ha soffiato sul fuoco. - Che Tremal-Naik e sua figlia Darma corrano un vero pericolo? - Il messo che ci ha mandato a Mompracem ha detto che tutti i dayaki sono in armi e sembrano presi da una improvvisa pazzia, che tre delle fattorie sono state saccheggiate e poi incendiate e parlavano di massacrare Tremal-Naik. - Eppure non c'è un uomo migliore di lui in tutta l'isola, - disse Sambigliong. - Non comprendo come quei furfanti guastino e saccheggino le sue proprietà. - Ne sapremo qualche cosa quando giungeremo al kampong di Pangutaran. La comparsa della Marianna sul fiume calmerà un po' i dayaki e se non deporranno le armi, li mitraglieremo come si meritano. - E conosceremo le cause che li hanno indotti a sollevarsi. - Oh! - esclamò ad un tratto Yanez, che aveva volti gli sguardi verso la foce del fiume. - Vi è qualcuno che pare voglia dirigersi verso di noi. Un piccolo canotto, munito d'una vela, era sbucato dietro gli isolotti che ingombravano la foce del fiume ed aveva puntato la prora verso la Marianna. Un solo uomo lo montava, ma era così lontano ancora da non poter distinguere se era un malese o un dayako. - Chi può essere costui? - si chiese Yanez, che non lo perdeva di vista. - Guarda, Sambigliong, non ti sembra indeciso sulla sua manovra? Ora si dirige verso gli isolotti, ora se ne allontana per gettarsi verso le scogliere corallifere. - Si direbbe che cerchi d'ingannare qualcuno sulla sua vera rotta, signor Yanez, - rispose Sambigliong. - Che sia sorvegliato e che cerchi d'ingannarli? - Pare anche a me, - rispose l'europeo. - Va'a prendermi un cannocchiale e fa' caricare una spingarda a palla. Se si cercherà d'intralciare la manovra di quell'uomo, il quale evidentemente mira a raggiungerci, faremo fuoco. Un momento dopo puntava l'istrumento sul piccolo canotto che allora si trovava a non meno di due miglia e che aveva finalmente abbandonato le isolette della foce, per spingersi risolutamente verso la Marianna. Ad un tratto gli sfuggì un grido: - Tangusa! - Quello che Tremal-Naik aveva condotto con sè da Mompracem e che aveva innalzato alla carica di fattore? - Sì, Sambigliong. - Finalmente sapremo qualche cosa su questa insurrezione, se è veramente lui, - disse il dayako. - Non m'inganno: lo vedo benissimo. Oh! - Che cosa avete, signore? - Vedo una scialuppa montata da una dozzina di dayaki che mi pare voglia dare la caccia a Tangusa. Guarda verso l'ultima isola: la vedi? Sambigliong aguzzò gli sguardi e vide infatti un'imbarcazione stretta e molto lunga, lasciare la foce del fiume e slanciarsi velocemente verso il mare, sotto la spinta di otto remi poderosamente manovrati. - Sì, signor Yanez, danno la caccia al fattore di Tremal-Naik, - disse. - Hai fatto caricare una spingarda? - Tutte e quattro. - Benissimo: aspettiamo un momento. Il piccolo canotto che aveva il vento in favore, filava diritto verso la Marianna con sufficiente velocità, nondimeno non pareva che potesse gareggiare colla scialuppa. L'uomo che la montava, accortosi di essere seguìto, aveva legata la barra del timone ed aveva preso due remi per accelerare maggiormente la corsa. Ad un tratto, una nuvoletta di fumo s'alzò sopra la prora della scialuppa, poi una detonazione giunse fino a bordo della Marianna. - Fanno fuoco su Tangusa, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Ebbene mio caro, io mostrerò a quei furfanti come tirano i portoghesi, - rispose l'europeo colla sua solita calma. Gettò via la sigaretta che stava fumando, si fece largo fra i marinai che avevano invaso il castello di prora attirati da quello sparo e s'accostò alla prima spingarda di babordo, puntandola sulla scialuppa. La caccia continuava furiosa ed il piccolo canotto, nonostante gli sforzi disperati dell'uomo che lo montava, perdeva via. Un altro colpo di fucile era partito da parte degli inseguitori e senza miglior successo, essendo generalmente i dayaki più abili nel maneggio delle loro cerbottane che delle armi da fuoco, non conoscendo l'alzo. Yanez, calmo, impassibile mirava sempre. - È sulla linea, - mormorò dopo qualche minuto. Fece contemporaneamente fuoco. La lunga e grossa canna s'infiammò con un rombo strano che si ripercosse perfino sotto gli alberi che coprivano le sponde della baia. Sul tribordo della scialuppa si vide alzarsi uno sprazzo d'acqua, poi si udirono in lontananza delle urla furiose. - Presa, signor Yanez! - gridò Sambigliong. - E fra poco affonderà, - rispose il portoghese. I dayaki avevano interrotto l'inseguimento ed arrancavano disperatamente per raggiungere uno degli isolotti della foce, prima che la loro imbarcazione affondasse. Lo squarcio prodotto dalla palla della spingarda, un buon proiettile di piombo misto a rame, del peso d'una libbra e mezzo, era così considerevole da non permettere di prolungare molto quella corsa. Ed infatti i dayaki distavano ancora trecento passi dall'isolotto più vicino, quando la scialuppa, che si riempiva rapidamente d'acqua, mancò loro sotto i piedi, scomparendo. Essendo i dayaki della costa tutti abilissimi nuotatori, perchè passano la maggior parte della loro esistenza in acqua al pari dei malesi e dei polinesiani, non vi era pericolo che si annegassero. - Salvatevi pure, - disse Yanez. - Se tornerete alla carica vi scalderemo i dorsi con della buona mitraglia a base di chiodi. Il piccolo canotto, liberato dai suoi inseguitori, mercè quel colpo fortunato, aveva ripresa la rotta verso la Marianna spinto dalla brezza che aumentava col calar del sole e ben presto si trovò nelle sue acque. L'uomo che lo guidava era un giovane sulla trentina, dalla pelle giallastra, ed i lineamenti quasi europei, come se fosse nato da un incrocio di due razze, la caucasica e la malese; di statura piuttosto bassa e assai membruto; aveva il corpo avvolto in brandelli di tela bianca che gli fasciavano strettamente le braccia e le gambe e che apparivano qua e là macchiati di sangue. - Che l'abbiano ferito? - si chiese Yanez. - Quel meticcio mi sembra assai sofferente. Ohe, gettate una scala e preparate qualche cordiale. Mentre i suoi marinai eseguivano quegli ordini, il piccolo canotto, con un'ultima bordata, giunse sotto il fianco di tribordo del veliero. - Sali presto! - gridò Yanez. Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione a una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda. Un grido di sorpresa ed insieme d'orrore era sfuggito al portoghese. Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo. - Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa? - Le formiche bianche, signor Yanez, - rispose il malese con voce strozzata facendo un'orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava. - Le formiche bianche! - esclamò il portoghese. - Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne? - I dayaki, signor Yanez. - Ah! Miserabili! Passa nell'infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente. - Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki. - Va bene, mettiti nelle mani di Kickatany che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Ora ho altro da fare. Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolto la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi lilà, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo. - Oh diavolo! - mormorò il portoghese. - Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche. - Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l'audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse. - Palle d'acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez. - Falle portare in coperta e da' ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati? - Anche quelli. - Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all'assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota! Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente. - Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche? - Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, - rispose il malese. - Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità? - Non credo, padrone. - Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale. - Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po' risentito: - Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone. - Vedremo in seguito, - rispose Yanez. - E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 8 occorrenze

I soldati manciuri, avendolo veduto abbassarsi, si erano slanciati attraverso le vie della città, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile. - Badate! - gridò il capitano a Rokoff e a Fedoro. - Tenetevi stretti. Do fuoco. Quasi nel medesimo tempo una spaventosa detonazione rimbombava sotto di essi. Una fiamma immensa squarciò l'aria, lanciando in tutte le direzioni una tempesta di macigni e di rottami. Lo "Sparviero", quantunque si trovasse a mille metri, fu violentemente spostato dalla spinta dell'aria e sbalzato innanzi, atterrando di colpo Fedoro e Rokoff, i quali non avevano avuto il tempo di aggrapparsi alla balaustrata. Urla terribili si erano alzate dalla città, urla d'angoscia e di terrore sfuggite da venti e forse da trentamila petti. - Ebbene, dov'è la torre e dov'è andato a finire il bastione? - chiese il capitano con voce tranquilla. - Guardate, signor Rokoff, e ditemi se l'aria liquida non vale meglio della dinamite. Il cosacco, quantunque ancora stordito dal terribile scoppio, si era curvato sulla balaustrata. Che spaventevole disastro! La torre era scomparsa e al posto dove poco prima si elevava il bastione, si vedeva una buca immensa, come se cento mine fossero scoppiate insieme. - Che cosa avete messo in quel tubo? - esclamò, guardando con terrore il capitano. - Un semplice pezzo di lana immerso prima in una miscela d'aria liquida e di glicerina; null'altro. - E avete ottenuto una simile esplosione! - Vi sorprende? - Voi allora potreste distruggere in pochi minuti una città intera. - Lo credo - rispose il capitano, freddamente. - Quale terribile strumento di guerra è il vostro "Sparviero"! Guai se tutte le nazioni dovessero possederne alcuni! - Verrà il giorno che ne avranno; allora la guerra sarà finita per sempre, ammenoché non pensino a corazzare le città minacciate. Macchinista a tutta velocità! Andremo a dormire al di là della grande muraglia. Lo "Sparviero" aveva ripreso lo slancio muovendo direttamente verso il nord, dove si vedevano delinearsi in lontananza alcune catene di montagne, assai frastagliate. Il suolo s'innalzava gradatamente, interrotto da boschetti di giuggioli, che producono una specie di dattero, da cui i cinesi estraggono una bella tinta gialla; da lauri splendidissimi e da lunghe file di alberi del sevo, bellissimi vegetali dal fogliame verde chiaro e cosparse di mazzetti di bacche che sono ricoperte da una sostanza molto grassa dalla quale si estrae una specie di cera assai bianca, che produce una fiamma brillante e che surroga benissimo quella delle api. Di quando in quando si vedevano anche delle piantagioni di tabacco, che riesce molto bene nella Cina settentrionale, di cotone che produce un filo splendido adoperato nella fabbricazione del famoso Nanking, e d'indaco verde. Graziosi villaggi, seminascosti sul margine dei boschi o delle piantagioni, apparivano bruscamente ed allora era uno scompiglio fra i contadini. Gli uomini urlavano, le donne piangevano, i ragazzi fuggivano disordinatamente, nascondendosi fra le piante, ma si rassicuravano presto, perché il terribile mostro alato continuava la sua corsa gareggiando vantaggiosamente cogli aironi che s'alzavano fra le risaie, coi beccaccini, colle oche selvatiche e cogli immensi stuoli di corvi gracchianti. Qualche colpo di fucile, sempre inoffensivo, sparato dietro qualche folto cespuglio o presso qualche capanna salutava di quando in quando gli aeronauti. II maldestro bersagliere s'affrettava però a fuggire all'impazzata, per paura che il formidabile drago lo facesse a pezzi col suo rostro. Alle sei di sera lo "Sparviero", che s'affrettava sempre, solcando lo spazio con una velocità di trenta miglia all'ora, si librava sopra la grande muraglia cinese. Questa gigantesca opera, che per molti secoli fu creduta immaginaria, è una delle più colossali e anche delle più meravigliose, perché si estende ininterrottamente per ben seicento leghe, ossia per duemila miglia, attraverso deserti, a steppe, a montagne e a fiumi dal largo corso, quali l'Hoang-ho, svolgendosi attraverso le più selvagge regioni della Mongolia e del Kuku-noor. Il primo imperatore che ne concepì l'idea fu Tsing-chi-hoang-ti, il secondo della dinastia dei Tsin. Vedendo succedersi le invasioni dei tartari, i quali ogni anno mettevano a ferro e a fuoco i confini dell'Impero, tutto distruggendo sul loro passaggio, ordinò di chiudere i passi pei quali quei bellicosi predoni entravano in Cina. I principi, che soffrivano assai da quelle scorrerie, ne imitarono l'esempio e la grande muraglia sorse, scorrendo attraverso regioni deserte e spingendosi perfino su monti quasi inaccessibili. Vista dalla parte del territorio cinese, questa grande muraglia parrebbe una costruzione semplicissima di terra battuta, coronata da merlature e da torri; osservandola invece dal lato esterno si presenta solidissima, piantata su larghi basamenti di pietra che i secoli non hanno potuto ancora danneggiare. In certi luoghi, reputati allora pericolosi, si innalza per venti e anche venticinque piedi ed è tanto larga che potrebbero avanzarvisi sei cavalli di fronte; ed in altri invece è molto più bassa. In tutta la sua lunghezza è guardata da massicce torri di forma quadrata e da fortezze nelle quali, ai tempi delle invasioni tartare, vi potevano stare perfino un milione di combattenti. Oggidì però, che la Mongolia è sottomessa all'impero, la muraglia non offre più la compattezza d'una volta. Vasti tratti sono stati lasciati a rovinare e i posti di guardia sono rari, eccettuato nel tratto settentrionale, destinato a coprire la provincia di Pechino. - Non credevo che fosse ancora in così buono stato - disse il capitano, nel momento in cui lo "Sparviero" la superava, tenendosi a un'altezza di trecento metri. - Si vede che i cinesi erano maestri in fatto di costruzioni. - E che torri poderose - disse Rokoff, il quale guardava con viva curiosità quelle solide bastionate. - Ma che soldati paurosi - aggiunse Fedoro. - Vedo là alcune guardie che fuggono come se avessero le ali ai piedi. Queste non valgono i manciù di Tschang-pin. Un gruppo di montagne, non troppo alfe e dai fianchi boscosi, si estendeva al di là della grande muraglia. Il capitano le indicò al macchinista, dicendo: - Andremo a riposarci lassù; nessuno verrà di certo a disturbarci. - Prenderemo terra? - chiese Fedoro, meravigliato. - E perché no? - rispose il capitano. - "La notte è stata creata per dormire" dicono i cinesi, e quando il sole tramonta tutti gli uccelli interrompono i loro voli e si cercano un rifugio. Noi, che siamo i figli dello "Sparviero", faremo altrettanto, signore. Il paese d'altronde mi sembra deserto e le guardie della muraglia non oseranno venirci a cercare. Lo "Sparviero", aiutato dalle due eliche orizzontali, s'innalzava gradatamente, volando sopra folte boscaglie di pini, di querce e di lauri, e a profondi burroni in fondo ai quali si udivano scrosciare impetuosi torrenti. Giunto sulla prima vetta, che appariva piana e ingombra solamente di cespugli assai bassi, che l'oscurità non permetteva bene di discernere, descrisse un ampio giro, poi cominciò ad abbassarsi lentamente, tenendo le immense ali alzate e lasciando solamente funzionare le eliche orizzontali. Cinque minuti dopo il fuso si coricava dolcemente fra le piante, senza alcuna scossa. - Ditemi se con un aerostato si sarebbe potuto discendere in questo modo - disse il capitano. - No, signore - risposero a una voce Fedoro e Rokoff. - Ciò vuol dire, dunque, che il mio "Sparviero" è superiore a tutti i palloni più o meno dirigibili e a tutte le macchine volanti finora inventate. - Dobbiamo ammetterlo senza riserve - disse Rokoff, con entusiasmo. - Verrete con me? Mi annoiavo di essere solo o quasi. - Non vi lasceremo, se così vi piace. - Macchinista, accendi il fuoco in mezzo a questi cespugli profumati e preparaci un buon pranzo. Abbiamo ancora alcune bottiglie di brodo di coda di canguro che abbiamo preparato in Australia e che ci daranno una zuppa eccellente. - Del brodo che viene dall'Australia! - esclamò Fedoro. - Gelato a quaranta gradi sotto zero - rispose il capitano, ridendo. - Sarà squisito, ve lo assicuro, quantunque messo nella mia ghiacciaia venticinque giorni or sono. Abbiamo anche dei pasticci, della carne di montone, del bue, dei puddings e anche dello champagne, che salterà ben alto. Ah! Sapete signori dove si è adagiato il mio "Sparviero"? In mezzo a una piantagione di tè! Signor Fedoro, voi sapete di certo prepararlo. Ne faremo una buona provvista, visto che i cinesi non vogliono lasciarci avvicinare. Mezz'ora dopo i quattro aeronauti, seduti presso un allegro fuoco, essendo la temperatura assai fredda, cenavano con un appetito invidiabile, facendo buona accoglienza alla zuppa di coda di canguro, ad un pasticcio di gamberi preparato chissà in quale città dell'America o dell'Australia, a un cosciotto di montone e a un superbo grappolo di banane ottimamente conservate. Il capitano fece servire dell'eccellente vino di California, poi una bottiglia di champagne, il cui vetro era incrostato di ghiaccioli. - Signor Rokoff - disse il comandante, messo in buon umore da quel delizioso vino bianco. - È l'aria delle alte regioni o la mia tavola che vi mette in appetito? - L'una e l'altra - rispose l'ufficiale, che aveva divorato per due e che da vero cosacco faceva gli occhi dolci a una veneranda bottiglia di whisky recata dal macchinista. - Voi, signore, avete una dispensa ammirabile. - Che cercheremo di vuotare presto per rinnovarla con qualche cosa di meglio. Entriamo in una regione ricca di selvaggina e il mio macchinista è un cuoco famoso. - Siete anche cacciatore? - Mi vedrete presto, alla prova. Nel deserto di Gobi gli yacks selvaggi abbondano e anche le lepri sono numerose. Faremo delle belle battute. - Attraverseremo il deserto? - Tale è la mia intenzione. - E poi? - chiese Fedoro. - Il Tibet mi tenta colle sue montagne spaventevoli, coi suoi altipiani immensi, coi suoi lama e il suo Buddha vivente. Tutto però dipende da certe circostanze. - E quali, se è lecito conoscerle? Il capitano, invece di rispondere, caricò flemmaticamente la sua pipa, l'accese, poi cambiando bruscamente tono, disse: - Signor Fedoro, voi che dovete aver viaggiato molto pei vostri commerci, siete mai stato a Kiakta? - No, signore - rispose il russo. - Meglio così - mormorò il capitano. - Perché dite questo? - Ah! Voi conoscete molto bene la preparazione del tè? - Ma ... - disse Fedoro, sorpreso da quel continuo cambiamento di discorso. - Come negoziante ... - Questo è vero. - Ne troveremo da raccogliere in questa piantagione? - Uhm! Ne dubito, capitano. La stagione è ancora troppo fredda. - Mi rincrescerebbe, perché la mia provvista è finita ed i cinesi non vogliono saperne di avvicinarsi a noi. - In tutte le case se ne trova qui - disse Rokoff. - Mi hanno detto che il cinese rinuncia piuttosto al riso anziché al tè. - E che cosa volete concludere? - Che la prima fattoria che troveremo la metteremo a sacco - rispose Rokoff. - Da noi si fa così, quando i soldati mancano del necessario. - È vero - disse il capitano, sorridendo. - Mi dimenticavo che voi siete cosacco. Signori, è tardi e le nostre cabine hanno dei buoni letti. - Andremo a dormire a bordo? - chiese Fedoro. - Ah! Voi non avete ancora veduto l'interno della mia aeronave. Macchinista, una lampada. - E vi fidate a dormire senza sentinelle? - Chi volete che di notte vada a passeggiare sulle montagne? Andiamo. Prese la lampada che il macchinista aveva acceso e condusse i suoi ospiti a bordo, facendoli scendere pel piccolo boccaporto situato dinanzi alla macchina. L'interno dell'immenso fuso di metallo era disposto con cura estrema e anche con molto lusso. Vi era un bellissimo salotto lungo quattro metri e largo quanto l'intera aeronave, due gabinetti da toletta, quattro cabine con soffici letti e un salottino da lavoro ingombro di carte geografiche e di strumenti di varie specie. Le due estremità erano occupate dalle ghiacciaie riboccanti di viveri d'ogni specie e dalle macchine destinate alla riproduzione dell'aria liquida. - Buona notte. - Domani faremo una lunga volata al disopra del Gobi e andremo a pescare le trote nei laghetti del Caracorum.

Le aquile, dopo essersi tenute ad una considerevole distanza volando sempre sopra lo "Sparviero", avevano cominciato ad abbassarsi descrivendo degli ampi giri che sempre più restringevano. - Canaglie! - esclamò Rokoff. - L'hanno con noi perché disputiamo loro l'impero dell'aria! Le signore sono molto stizzose! Vi calmeremo con un po' di piombo che vi guasterà le penne e anche la pelle. Il capitano vedendone una che stava per piombare sullo "Sparviero", sparò il primo colpo alla distanza di sessanta passi. I pallottoloni le fracassarono di colpo le zampe e l'ala destra. Il volatile per un po' si sostenne, battendo furiosamente quella che era rimasta incolume, poi incominciò a scendere verso il deserto, descrivendo dei bruschi angoli. - E una - disse Rokoff. - A me la seconda! Tre colpi di fucile rimbombarono, seguiti da altrettanti. Anche Fedoro e lo sconosciuto avevano fatto fuoco, quasi contemporaneamente. Due aquile capitombolarono come corpi morti e un'altra le seguì poco dopo, facendo sforzi disperati per sorreggersi. Le altre un po' calmate da quell'accoglienza punto incoraggiante, s'innalzarono precipitosamente, senza però decidersi a lasciare in pace il trenoaereo. - Sono ostinate - disse Rokóff. - Non ne hanno ancora abbastanza. - Ritenteranno l'assalto - rispose il capitano. - Non è la prima volta che il mio "Sparviero" viene assalito da quei rapaci volatili. Nel traversare le Montagne Rocciose m'hanno dato una caccia accanita per sette e più ore e m'hanno lacerata tutta la seta dell'ala destra, mettendomi in un gravissimo imbarazzo. Se non avessi avuto le eliche il mio viaggio sarebbe terminato in America. - Sono ben coraggiose - disse Fedoro. - Il mio macchinista porta ancora la traccia d'un colpo di rostro che gli aveva stracciato il cuoio capelluto. Se fosse stato più leggero, l'avrebbero portato via. - Che sia vero che talvolta le aquile osano rapire perfino delle persone? - chiese Rokoff. - Degli adulti no, ma dei ragazzi sì - rispose il capitano - Questi volatili posseggono una forza muscolare incredibile e veramente prodigiosa. Non si trovano imbarazzati a rapire dei montoni e dei camosci che poi portano nel loro nido per divorarseli con maggior comodità. - E anche dei fanciulli? - Nella Scozia, per esempio, dove le aquile sono molto numerose, ogni anno ne rapiscono e anche qui nel deserto. Le madri mongole hanno anzi tanta paura che non osano lasciare soli i loro bambini e se li tengono sempre presso, quando s'accorgono della presenza di qualche aquila. - Signore, tornano - disse il macchinista. - Ancora? Sono cariche le vostre armi? - chiese il capitano. - Sì - risposero il russo e il cosacco. - Mirate le ali. Le aquile si erano riunite in gruppo e tornavano ad abbassarsi. Questa volta pareva che avessero preso di mira i piani inclinati, la cui seta, che luccicava ai raggi del sole, doveva aver attirata maggiormente la loro attenzione. Calavano con furia, tenendo le ali aperte e le zampe allungate, con un gridio assordante. - Sono a buon tiro! - gridò il capitano. I cinque aeronauti, perché anche il macchinista si era armato abbandonando per un momento il timone, fecero due scariche l'una dietro l'altra in mezzo al gruppo. Fu una vera strage. Cinque su nove, caddero moribonde, volteggiando e starnazzando, mentre le altre fuggivano rapidamente, verso gli altissimi picchi dei Tian-Scian. - Che batosta! - esclamò Rokoff. - Capitano, se ci abbassassimo a raccogliere i morti? - Per cosa farne? - Degli arrosti. - Che sarebbero più coriacei della carne dei muli vecchi - rispose il comandante. - Mangiare degli uccelli che hanno forse uno o due secoli di vita! Preferisco i miei pasticci di canguro. - È selvaggina, signore - Che non vale una pipa di tabacco. D'altronde se siete amanti dei selvatici, presto ne troveremo in abbondanza. Il Tibet è ricco d'argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti. - E li cacceremo da qui? - E perché no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna. In quell'istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo "Sparviero". Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili. - Una carovana! - esclamò il capitano. - Da dove è sbucata che prima non l'avevamo veduta? - Da quel bosco di betulle e di larici - disse Rokoff. - Ma ... to'! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole. - Sono calmucchi - disse il capitano. - Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro. - Non mi rincrescerebbe - rispose Rokoff. - E poi, non sono che una dozzina - disse Fedoro. - Prenderemo le nostre armi. - Macchinista! Scendiamo - comandò il capitano.

Lo "Sparviero" cominciava ad abbassarsi lottando faticosamente coi venti, che continuavano ad investirlo. Sorpassò le rocce e si adagiò dolcemente sullo strato di neve che copriva il fondo di quella depressione del terreno. Furono visitate innanzi tutto le ali e le eliche, per vedere se avevano sofferto, poi tutti s'affrettarono a entrare nel fuso, dove era stata accesa una piccola stufa a carbone. Al di fuori, dopo la scomparsa del sole, il freddo era diventato intenso e il vento crudissimo e nembi di neve turbinavano sugli altipiani. Chiusero il boccaporto, cenarono alla lesta e si cacciarono sotto le coperte, ben contenti di trovarsi in un ambiente riscaldato, dopo tutta quella neve e quelle raffiche. La notte passò tranquilla. D'altronde, chi poteva importunarli, su quei deserti di ghiaccio, dove nessun essere umano poteva abitare? Alle otto del mattino lo "Sparviero" riprendeva la sua corsa verso il sud-est, diretto verso la catena dei Crevaux e gli altipiani del Kuku-Nor. Il tempo era pessimo. Nevicava abbondantemente e il vento spazzava il deserto con foga incessante, facendo scricchiolare le armature d'acciaio delle due ali. - Avremo bufera - disse il capitano con qualche inquietudine. - Non sarebbe stato meglio fermarci dove ci siamo accampati? - chiese Rokoff. - Il vento ci avrebbe guastato le nostre ali sbattendole al suolo. Preferisco affrontare la burrasca. Ci terremo però vicini al suolo, non essendovi altezze da superare, almeno fino ai Crevaux, che non raggiungeremo prima di questa sera. Sapete che seguiamo una via già percorsa da un europeo? - Da chi? - chiese Fedoro. - Da Donvalot nel 1889-90. - Capitano! - esclamò Rokoff. - Vedo delle abitazioni in quell'avvallamento. - Anche Donvalot ne aveva trovato in questa parte dell'altipiano. Quale esistenza devono condurre quei disgraziati! - Da esquimesi, se non peggio. Non lasciano le loro casupole che nell'estate, per dedicarsi alla caccia o per condurre i loro montoni e i loro cammelli al pascolo. - E quali piante possono spuntare su questi desolati altipiani? - Delle misere graminacee e pochi ciuffi d'un'erba corta e legnosa che non deve essere troppo eccellente anche per le bestie più accontentabili. - E quella costruzione che vedo laggiù in fondo a quell'orribile burrone, che cos'è? - chiese Fedoro. - Un monastero buddista - rispose il capitano. - Fabbricato in mezzo a questo deserto? - Questo deserto è santo, mio caro amico, al pari dei dintorni del Tengri-Nor e di Chassa. Tutto il Tibet è terra venerata, perché tutto appare meraviglioso agli occhi dei pellegrini. Qualunque spaccatura, pei fanatici, è stata aperta dal Dio; qualunque piramide deve essere d'origine divina; perfino i sassi sono cose sante e si portano religiosamente via come reliquia d'una delle trecentosessanta montagne che si elevano in questa regione. - E che cosa fanno quei monaci in queste gole e fra questi dirupi? - Raccolgono le salme dei pellegrini morti in causa delle lunghe sofferenze, delle fatiche e della fame, o delle frecce o delle palle dei briganti, per cremarle e quindi mandare le ceneri ai monaci del Tengri-Nor affinché le gettino nell'acqua più sacra della terra. - Se scendessimo presso quel monastero, ci accoglierebbero male? - chiese Rokoff. - Nella nostra qualità di stranieri non buddisti, avremmo più da temere che da sperare un cordiale ricevimento - rispose il capitano. - Continuiamo perciò il nostro viaggio e teniamoci lontani da tutti. Il viaggio però minacciava di diventare molto difficile e anche assai pericoloso. La bufera di neve aumentava di violenza, e i venti, ormai scatenati, soffiavano con furia irresistibile minacciando di travolgere lo "Sparviero". Una fitta nebbia si estendeva a poco a poco sull'altipiano, coprendo le spaccature, i burroni, gli abissi e facendo velo alle montagne. La neve cadeva a larghe falde, turbinando burrascosamente, levandosi poi in cortine così fitte che talvolta Fedoro, il capitano e Rokoff non riuscivano a scorgere più il macchinista e il silenzioso passeggero che si trovavano a poppa del fuso. Lo "Sparviero", quantunque le sue ali e le sue eliche funzionassero rabbiosamente, descriveva dei bruschi soprassalti e piegava ora a destra e ora a sinistra, imitando il volo incerto e irregolare dei pipistrelli. Talvolta il vento riusciva a vincerlo, abbattendolo verso qualche abisso, ma passata la raffica il fuso si risollevava slanciandosi nuovamente attraverso gli altipiani. Nondimeno tutti erano inquieti, compreso il capitano, il quale temeva di dover cedere o di doversi abbassare in mezzo al turbine di neve. E poi vi era anche un altro pericolo gravissimo, quello di trovarsi improvvisamente dinanzi a qualche picco che la nebbia, che diventava sempre più fitta, alzandosi verso lo "Sparviero", non permetteva di distinguere a tempo. - Come finirà questa corsa? - chiese Rokoff al capitano. - Potremo noi continuarla senza riportare qualche grave avaria? Pensate che una delle ali è stata spezzata sull'Hoang-ho. - Lo so - rispose il comandante, la cui fronte si abbuiava. - E dove scendere? L'altipiano non si scorge più e potremmo cadere in qualche abisso. - Se ci alzassimo ancora? - Nelle alte regioni il vento sarà più impetuoso. Guardate le nuvole come vengono scompigliate e lacerate dalle raffiche. - Sapete dove ci troviamo? - So che corriamo verso i Crevaux. - Saranno ancora lontani? - Lo suppongo. - Non ci fracasseremo contro quei picchi? - Non sono molto alti, signor Rokoff; uno solo, il Ruysbruk mi dà molto da pensare, ignorando le sue dimensioni. - Speriamo che il vento non ci spinga da quella parte. Dove si trova quella montagna? - All'ovest. - E il vento soffia sempre dall'est, signore - disse il cosacco. - E non poter vedere più nulla! La nebbia avvolge tutto l'altipiano e aumenta sempre, salendo verso di noi. - E l'ala ferita scricchiola - disse il capitano, le cui preoccupazioni aumentavano. - Finiremo per vederla ripiegarsi. - E cadremo? - Ci sono i piani orizzontali, signor Rokoff, e ci sosterranno benissimo. Una discesa, anche con questo vento, non mi spaventa. La situazione dello "Sparviero" si aggravava di momento in momento. Le raffiche, sempre più violente, lo gettavano a ogni istante fuori di rotta, travolgendolo nonostante le battute poderose delle ali e pareva che anche il timone non servisse quasi più. Il fuso cadeva, si rialzava, volteggiava in mezzo al turbine, poi tornava ad abbassarsi: non aveva più alcuna direzione. E intanto la nebbia saliva avvolgendolo e la neve, spazzata dai venti, investiva gli uomini, impedendo loro di tenere quasi aperti gli occhi. D'un tratto lo "Sparviero" si rovesciò violentemente su un fianco. Rokoff aveva mandato un grido: - L'ala ha ceduto! Cadiamo! Era vero. L'ala, già guastata dalla palla dei cinesi e poi raccomodata dal macchinista, si era nuovamente spezzata a metà piegandosi in due. Il capitano, vedendola cadere sul fuso, era diventato pallido, però aveva subito riacquistato il suo sangue freddo. - Arrestate la macchina! - gridò. - Si rovescerà lo "Sparviero"? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - No, non c'è pericolo - rispose il capitano. - Lasciamoci portare dal vento. - Dove cadremo? - chiese Rokoff. - Non lo so, vedremo poi. Lo "Sparviero" cadeva, ma lentamente, essendo sempre sorretto dai piani orizzontali e dalle eliche, le quali funzionavano ancora. Il vento lo spingeva verso ponente, facendogli descrivere degli zig-zag che impressionavano il russo e il cosacco, i quali temevano sempre che venisse trascinato contro qualche picco e fracassato. Il capitano, curvo sulla balaustrata di prora, cercava di discernere la terra che la nebbia e la neve turbinante gli nascondevano. Dove cadeva lo "Sparviero"? Sull'altipiano, sulla cima di qualche rupe o in fondo a qualche spaventevole abisso? - Non vedete nulla? - chiese Rokoff, che si teneva da un lato onde il fuso non si squilibrasse. - Nulla, ma la terra non deve essere lontana. - Il vento ci porta e minaccia di travolgerci. Toccheremo rudemente. - Tenetevi saldi; possiamo venire rovesciati. - Maledetta nebbia! - Macchinista! - Signore! - Ferma anche le eliche. - Capitano! - esclamò a un tratto Fedoro. - Il vento è improvvisamente cessato. - Me ne sono accorto. - Dove siamo dunque noi? - Suppongo che scendiamo in un abisso. Non udite dell'acqua scrosciare? Pare che qualche cascata ci sia vicina. - Sì, l'odo anch'io - disse Rokoff. - E a me pare d'aver veduto un'enorme muraglia fra uno squarcio della nebbia - disse Fedoro. - Dobbiamo scendere in qualche abisso - rispose il capitano. - Diversamente il vento continuerebbe a soffiare. Preparatevi a saltare a terra appena toccheremo. Lo "Sparviero" continuava la sua discesa, lentamente, senza scosse, come un aquilone che viene tirato al suolo. Il vento non ruggiva più attorno ad esso, anzi regnava una certa calma. Doveva aver già raggiunto l'orlo dell'altipiano spazzato dalla bufera; la nebbia però non permetteva agli audaci aeronauti di vedere dove calavano. Lo scrosciare della cascata si udiva sempre verso destra e diventava anzi più assordante. Qualche enorme colonna d'acqua, proveniente da qualche ghiacciaio, doveva precipitarsi attraverso quella spaccatura, o burrone, o abisso che fosse. Il capitano cercava d'indovinare dove scendevano e non gli riusciva di discernere le pareti del vallone che la nebbia ostinatamente teneva celate. Era già trascorsa quasi una mezz'ora dalla rottura dell'ala, quando il fuso subì una scossa, piegandosi per un momento sul fianco destro. - Capitano! - gridò Rokoff, aggrappandosi fortemente alla balaustrata. - Abbiamo toccato. Il comandante si era spinto fuori dal bordo per riconoscere l'ostacolo e vide confusamente una punta aguzza che si piegava sotto il peso del fuso. - È la cima d'un abete o d'un pino - disse. - Pare che vi sia una foresta sotto di noi. - Potremo scendere? Invece di rispondere il capitano si slanciò verso la macchina mettendo in movimento l'elica anteriore. Cercava di spingere innanzi lo "Sparviero", temendo che dovesse cadere in mezzo a qualche foresta, ciò che avrebbe prodotto qualche catastrofe o per lo meno dei gravi danni. E infatti il fuso, non trovando spazio sufficiente, poteva rovesciarsi e piombare in mezzo alle piante fracassando i piani orizzontali e lacerandosi le ali. Sembrava però poco credibile al capitano che sotto di lui si estendesse una vera foresta, essendo gli altipiani del Tibet settentrionale quasi privi di piante d'alto fusto. Qualche abete o qualche pino, trovato il terreno favorevole, poteva essere cresciuto, ma non di più. Fortunatamente lo "Sparviero", rimorchiato dall'elica, a poco a poco si spostava, cadendo molto lontano da quell'ostacolo che aveva sfiorato l'estremità inferiore del fuso. Il capitano, che non aveva abbandonato il suo posto a prora, non ne aveva scorto altri. La nebbia però era sempre foltissima, anzi più che sull'altipiano. D'improvviso il fuso tornò a toccare. Si udì un urto, seguito poco dopo da uno scricchiolare di tavole o di rami, accompagnato da grida acute. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Schiacciamo della gente noi? - Mi pare che siamo caduti su un'abitazione - disse il capitano. Urla di terrore risuonavano fra la nebbia, mentre il fuso s'inclinava verso poppa, trattenuto da un impedimento che non gli permetteva di adagiarsi orizzontalmente. A un tratto però l'ostacolo cedette sotto il peso e si sfasciò con mille scricchiolii. L'abitazione doveva essersi spezzata, perché lo "Sparviero" riprese il suo appiombo, rimanendo immobile. - Le armi! Le armi! - gridò il capitano. Attraverso la nebbia aveva scorto delle ombre umane agitarsi. Il macchinista e il suo muto compagno avevano portato in coperta degli Snider e dei Remington. Il capitano era balzato a terra assieme a Fedoro e a Rokoff, gridando in lingua mongola. - Pace! Pace! Non temete! Siamo amici! Degli uomini coperti di pellicce che li facevano rassomigliare ad orsi, si erano accostati. - Chi siete! - chiese una voce imperiosa. - Amici - rispose il capitano. - Da dove siete caduti? Avete schiacciato la mia capanna. - Siamo pronti a indennizzarvi dei danni che vi abbiamo recato. - Siete mongoli? - Europei che non vi faranno alcun male. - Che cosa sono questi europei? - Degli uomini bianchi - rispose il capitano. - Chi comanda qui? Conduceteci dal vostro capo. Quindici o venti uomini si erano radunati attorno al capitano e ai suoi compagni, mentre altri s'aggiravano presso lo "Sparviero", cercando di distinguere che cosa fosse quella massa enorme che cadeva dall'alto schiacciando le case. Un uomo, grosso come una botte, che aveva un enorme berretto di pelo e una casacca di grosso feltro, si era avvicinato al capitano, dicendo: - Se cercate il capo del villaggio, sono io. Che cosa volete? Da qual parte siete scesi in questa valle senza chiedermi il permesso e mettendo in pericolo i miei sudditi? Per poco non avete schiacciato una intera famiglia. - È l'uragano che ci ha fatto cadere qui. Se il vento non ci avesse spinti, non saremmo discesi. - E che cos'è quella bestia? Sarà poi una bestia? - È la nostra casa. - Gettata giù dal vento? E non vi siete uccisi? Siete uomini o demoni? - Vi ho già detto che siamo degli uomini bianchi. - Venite nella mia capanna; voglio vedere se somigliate a quelli che sono passati per di qui molti anni or sono. - Vi consiglio di far ritirare tutti i vostri uomini e di non toccare la nostra casa. Potrebbe scoppiare e farvi saltare tutti in aria. - Allora la vostra casa è una bestia cattiva! - esclamò il tibetano, retrocedendo vivamente. - Non toccatela e non farà male ad alcuno. Se ci accordate ospitalità, noi vi faremo dei regali. - So che gli uomini bianchi sono generosi. Anche gli altri mi hanno fatto dei regali. - A quali europei allude? - chiese Rokoff, cui il capitano traduceva le risposte del tibetano. - A quelli della missione Bonvalot - rispose il comandante. - Questo selvaggio probabilmente ha veduto il principe Enrico d'Orléans, il figlio del duca di Chartres e cugino del pretendente al trono di Francia. Giacché acconsente a offrirci ospitalità, andiamo subito nella sua capanna. Qui fa un freddo cane e non si vede a due passi di distanza. - E il macchinista e il vostro amico? - chiese Fedoro. - Rimarranno a guardia dello "Sparviero". - Che corrano qualche pericolo? - Ho detto loro di montare la piccola mitragliatrice e con un simile arnese possono tenersi sicuri. D'altronde non mi pare che questi montanari abbiano intenzioni ostili. Andiamo nella casa di questo capo. I tibetani, dopo aver ronzato un po' attorno allo "Sparviero", senza poter indovinare che cosa fosse, in causa della foltissima nebbia che lo avvolgeva, a poco a poco si erano dileguati. Era rimasto solamente il capo, il quale continuava a infagottarsi nelle sue pelli. - Vi seguiamo - disse il capitano, dopo essersi fatto dare dal macchinista dei viveri, alcune bottiglie e delle bazzecole che contava di regalare al montanaro. Tenendosi per mano onde non smarrirsi, si lasciarono condurre. A destra e a manca scorgevano confusamente delle masse oscure che dovevano essere o tende o capanne e che erano avvolte fra un denso fumo che il nebbione impediva di disperdersi. Dopo trenta o quaranta passi il tibetano aprì una porta e li introdusse nella sua abitazione formata da una sola stanza ingombra di pelli, di caldaie di rame, di quarti di jacks quasi gelati e ammassi di vecchi tappeti di feltro che dovevano servire da letto. Nel mezzo, su quattro sassi, bruciava dell'argol, il quale non è altro che dello sterco di toro indurito, l'unico combustibile usato sull'altipiano e che produce fumo in abbondanza. Un'apertura però, fatta nel tetto, permetteva che bene o male uscisse; ve ne rimaneva tuttavia tanto dentro, che gli aeronauti credettero per un momento di morire asfissiati. - All'inferno i palazzi tibetani! - esclamò Rokoff, che tossiva fragorosamente. Questa è una tana da volpi! - Ci abitueremo presto a questo fumo - rispose il capitano. Il capo si era intanto sbarazzata del suo immenso mantello, formato da una intera pelle di jack, che portava col pelo all'infuori, e del suo berrettone di pelle d'orso, che gli nascondeva mezzo volto. Era il vero tipo del montanaro tibetano, basso di statura, secco, con occhi piccoli, un po' obliqui come quelli della razza mongola, senza un pelo sul volto e invece con una capigliatura lunga e abbondante, molto ruvida e che portava raccolta in trecce cadenti sulla fronte bassa e depressa e sulle spalle. Aveva gli zigomi molto più pronunciati dei cinesi, il naso grosso, la bocca larga fornita di denti lunghi e acuti come quelli delle belve, male disposti e sporgenti in modo che gli uscivano dalle labbra. La sua pelle poi scompariva sotto un vero strato di sporcizia. Probabilmente quell'uomo non si era mai lavato dal giorno che era venuto al mondo. Prima d'accostarsi agli aeronauti, fece un goffo inchino alzando poi i pollici delle mani fino all'altezza della fronte e cacciò fuori dalle labbra una lingua lunga quasi mezza piede, che lasciò penzolare per alcuni istanti. - Per le steppe del Don! - esclamò Rokoff, guardandolo con stupore e con disgusto. - Sta appiccandosi costui? - Ci saluta - rispose il capitano. - Con quella lingua! Da dove l'ha cacciata fuori! - Tutti i tibetani l'hanno così lunga. - Dite mostruosa. È ributtante! Sembra quella d'un orso formichiere. - Se saremo costretti a fermarci qui ne vedrete ben altre più enormi. - Mille storioni! Il tibetano, dopo quel saluto, con una mimica molto espressiva, aveva invitato i suoi ospiti a sedersi attorno al fuoco, dove già si trovavano dei grossolani tappeti di feltro. Tutti i montanari di quei desolati altipiani, per lo più non si esprimono che con moti, come se incontrino qualche difficoltà nel parlare. Dipende forse dalle mostruose dimensioni della loro lingua e anche dalla pessima disposizione dei loro denti? Il fatto sta che fra di loro non parlano quasi mai. Si esprimono e si comprendono benissimo con moti della bocca e della lingua, agitando le labbra in vari sensi, aiutandosi anche coi pollici delle mani per meglio far comprendere i loro desideri. Anche quando vogliono salutare, invece di dare un cordiale "buon giorno" o la "buona sera", si limitano a sporgere più che possono la lingua. Il capo andò a prendere un coltellaccio e da un quarto di jack che era sospeso alla parete, staccò alcuni enormi pezzi che depose dinanzi agli ospiti invitandoli a mangiare. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Questo scimmiotto ci prende per tigri o per lupi per darci della carne cruda. - Non usano cucinarla - disse il capitano. Questi montanari vivono nel modo più primitivo che si possa immaginare e non si nutrono che di farina d'orzo e di carne cruda. Immaginatevi che non conoscono nemmeno il tè! - Io non farò onore a questo pasto da cannibali - disse Fedoro. Abbiamo le nostre provviste e vedrete che il capo non si farà pregare per assaggiarle. Aveva portato delle scatole di carne conservata, un pudding gelato, dei biscotti, dello zucchero per prepararsi il tè e due bottiglie di ginepro. Depose ogni cosa intorno al fuoco e invitò il capo a prendere parte al pasto. Il montanaro, vedendo gli ospiti lasciare intatta la carne cruda era rimasto un po' confuso, però aveva subito accettata la parte che il capitano gli offriva, gettandosi avidamente sul pezzo di pudding e sulle gallette e guardando cogli occhi accesi i pezzetti di zucchero. - Io conosco quei pezzi di pietra - disse. - Gli uomini bianchi che sono passati per di qua molti anni or sono, me ne hanno fatto assaggiare. - To'! Li chiama pezzi di pietra! - esclamò Rokoff, dopo aver udita la traduzione. - A te, mio caro selvaggio, addolcisciti la bocca; poi te la riscalderai col ginepro. Terminato il pasto il capo, che era diventato molto loquace dopo parecchi bicchieri della forte bevanda, spiegò al capitano che erano caduti in una profonda vallata racchiusa fra montagne tagliate a picco, che aveva una sola uscita verso il Ruysbruck, il più alto ed imponente picco dei Crevaux e che il suo villaggio si componeva di sessanta famiglie di pastori. Si dimostrava però sempre curioso di sapere in qual modo erano caduti da una così spaventevole altezza senza fracassarsi le ossa e di sapere che cosa era quella massa enorme che aveva schiacciata una capanna. La spiegazione fu laboriosa ma senza successo, non avendo quel tibetano mai udito parlare né di palloni, né di macchine volanti e tanto meno di uomini che viaggiavano fra le nubi. - Se è vero quello che tu mi racconti - concluse il montanaro - tu devi essere l'uomo più potente della terra. Finché però non ti vedrò volare come le aquile, non ti crederò mai, perché solo Buddha, potrebbe tentare una simile cosa. Volle in seguito vedere i fucili degli aeronauti senza poter comprendere come facessero fuoco non avendo la miccia. Gli sguardi d'ardente cupidigia che lanciava su quelle armi erano tali da impressionare il capitano. - Finirà per chiedercele - disse a Rokoff ed a Fedoro. - Noi però non gliele daremo. Si accontenti del suo moschettone a miccia. Dopo un paio d'ore lasciarono la capanna, non fidandosi di dormire in compagnia del capo. Il nebbione non si era ancora alzato e la neve cadeva abbondante anche nel vallone. Il macchinista e lo sconosciuto per riparare il ponte del fuso, avevano in quel frattempo tesa una immensa tenda di tela cerata e messa in batteria una piccola mitragliatrice a sette canne disposte a ventaglio, arma sufficiente per tenere in rispetto i tibetani, nel caso che avessero tentato di saccheggiare o di guastare lo "Sparviero". - È venuto nessuno ad importunarvi durante la nostra assenza? - chiese il capitano. - Abbiamo veduto, a più riprese, aggirarsi fra la nebbia alcune ombre che si sono subito dileguate al mio grido d'allarme - rispose il macchinista. - Si direbbe che voi non siete tranquillo - disse Fedoro, un po' sorpreso. - I tibetani non vedono volentieri gli stranieri - rispose il capitano. - E poi qui, in queste gole, non vivono che dei briganti, non essendovi pascoli fra questi orridi dirupi. E poi sapete che cosa m'inquieta? - Dite, signore. - L'assenza completa delle donne; ne avete vedute voi? - Io no. Dunque non credete che le capanne e le tende siano abitate da famiglie. - Solamente da uomini. - Che ci diano delle noie? - chiese Rokoff. - Non mi sorprenderei. Durante la buona stagione, all'epoca dei pellegrinaggi, tutte le vie che attraversano gli altipiani sono infestate da banditi. Chi mi assicura che non lo siano anche questi? Vegliamo amici e non lasciamoci sorprendere. - Brutto affare, collo "Sparviero" immobilizzato. - Aiuteremo il macchinista ad accomodare l'ala. I pezzi di ricambio sono già pronti. - Sarà lunga la riparazione? - Non avrò terminato prima di domani a mezzodì - disse il macchinista. - Il vento ha spezzato più di mezze verghe. - Al lavoro - disse il capitano. - Intanto uno di noi veglierà passeggiando intorno al fuso, onde i Tibetani non ci guastino i piani orizzontali. Se sventrano la seta, per noi sarebbe finita e l'idea di un viaggio a piedi attraverso il Tibet, specialmente in questa stagione così fredda, vi assicuro che non mi sorride affatto. - M'incarico io del primo quarto di guardia - disse Rokoff. Si gettò sulle spalle un ampio gabbano di tela impermeabile, si calcò in testa il suo berretto di pelo simile a quello che portano i tartari della steppa e armatosi dello Snider balzò a terra, scomparendo nella nebbia.

Arrestato il movimento turbinoso delle tre eliche, l'aerotreno che aveva già raggiunto la punta estrema dell'isolotto, cominciò ad abbassarsi lentamente, sorretto dai piani inclinati, i quali agivano come due immensi aquiloni. Passò sopra i primi alberi sfiorandone le cime, poi calò dolcemente proprio in mezzo a quel brano di terra, coricandosi fra i cespugli. Le due ali, con un mezzo giro dell'albero motore, si erano distese orizzontalmente, in modo da rimanere perfettamente nascoste a qualunque navigante che scendesse o salisse il fiume. - Che cosa ne dite di questa discesa? - chiese il capitano con voce assai lieta. - Che non poteva riuscire migliore - rispose Rokoff. - Potete andare superbo della vostra macchina, signore. Eppure io avrei giurato che saremmo precipitati in mezzo al fiume. - Sì, se il mio "Sparviero" non fosse stato munito dei suoi piani inclinati - disse il capitano. - Andiamo a vedere l'avaria prodotta da quella maledetta palla. Sbarcarono balzando fra gli sterpi, sotto i quali si udivano pigolare numerosi uccelli e si vedevano fuggire bande di piccoli rosicchianti, ed esaminarono l'ala. Il proiettile aveva spezzato nettamente l'asta principale, a circa metà altezza, asportandone un pezzo lungo trenta centimetri e forando la seta, sicché le nervature superiori, non più sorrette, si erano ripiegate. Era una mutilazione grave, ma non irreparabile. - Quanto tempo ti è necessario? - chiese il capitano al macchinista. - Non meno di dodici ore - disse l'interrogato. - Rispondi della saldatura? - Sarete soddisfatto. Abbiamo una buona scorta d'aste d'alluminio e la fucina. - Ti possiamo essere utili? - Farò tutto da me. - Portami dei fucili da caccia. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse: - Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po' di carne fresca spero che l'accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli. - Una passeggiata la faccio volentieri - rispose Rokoff. - E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni. - Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

Lo "Sparviero", sorretto solamente dai piani inclinati, continuava ad abbassarsi dolcemente. L'irbis sempre più spaventato dalle ondulazioni che subiva il fuso, continuava a brontolare e a dare segni d'inquietudine. S'alzava sulle zampe posteriori fiutando rumorosamente l'aria e girava continuamente la testa in tutti i sensi. A un tratto avvenne un urto: lo "Sparviero" aveva toccato terra. - Attenzione! - gridò il capitano. Il leopardo con un salto immenso aveva varcata la balaustrata precipitandosi sulla neve. Stette un momento immobile, stupito forse di trovarsi a terra, poi spiccò tre o quattro salti dirigendosi verso un gruppetto di betulle nane. Il capitano, Rokoff e Fedoro si erano precipitati sulle carabine. - Fuoco! ... Tre spari rimbombarono formando quasi una sola detonazione. Il leopardo che si trovava a solo cento passi dal fuso, si rizzò di colpo mandando un urlo prolungato, girò due volte su se stesso, poi cadde in mezzo alla neve, agitando pazzamente le zampe. Quasi nel medesimo istante si udirono dei clamori selvaggi, poi degli spari. - Mille folgori! - esclamò Rokoff. - Che cosa succede ancora? - I mongoli! - gridò il capitano. - Su, alziamoci! - E il leopardo? - Lo lasceremo a quei banditi; ci manca il tempo di raccoglierlo. Presto: grandina e s'avanzano al galoppo. Un istante dopo lo "Sparviero" s'alzava maestosamente, salutato da una scarica di fucili.

Il capitano aveva ordinato al macchinista di abbassarsi sperando di fare un buon colpo sugli argali che si vedevano sempre numerosissimi, ma quei sospettosi e agilissimi animali non si lasciavano accostare. Appena scorta l'ombra proiettata dallo "Sparviero" s'affrettavano a cacciarsi nei boschi, rendendo così impossibile l'inseguimento. Verso le tre pomeridiane, ossia due ore dopo lasciato l'accampamento dei calmucchi, il treno aereo sboccava nello Sciamo meridionale, presso la via carovaniera di Chami e d'Urumei. Quasi subito, fra due colline, apparve un aggruppamento di costruzioni in legno e di tende. - Turfan - disse il capitano. - È ora di svegliare il monaco - disse Rokoff. - Anche per nostra salvaguardia - aggiunse Fedoro. - È incaricato di proteggerci. - Aprirà poi gli occhi? - chiese il cosacco. - Sarà ancora ubriaco. - Gli somministreremo un po' d'ammoniaca in un bicchier d'acqua - disse il capitano. - Se dovessimo sbarcarlo in questo stato, i calmucchi sarebbero capaci di prendersela con noi. Il macchinista, il quale aveva ceduto il timone allo sconosciuto, che si era sempre tenuto da parte senza mai parlare, portò il bicchiere e forzò il monaco a berlo. Il povero diavolo lo mandò giù facendo delle smorfie e sternutendo sonoramente parecchie volte. - Questo non è koumis! - esclamò. - Briganti di servi! Che cosa avete dato al vostro sacerdote? Probabilmente credeva di trovarsi ancora sotto la sua tenda. Accortosi dell'errore e vedendo sopra di sé agitarsi le immense ali dello "Sparviero", impallidì e si portò le mani alla fronte. - Dove sono? - si chiese, con accento smarrito. - Sopra Turfan - rispose il capitano, ridendo. - Su, in piedi, se volete diventare ghetzull o hellung. - Turfan! - esclamò il calmucco, che penava molto a raccapezzarsi. D'un tratto mandò un grido: - I figli della luna! - Pare che l'ubriachezza gli sia finalmente passata - disse Rokoff. - E che sia molto spaventato - aggiunse Fedoro. - Non c'è più alcool nel suo corpo che gli dia del coraggio. - Gliene faremo ingollare dell'altro. Il monaco, aiutato dal capitano, si era alzato aggrappandosi alla balaustrata. Appena ebbe dato uno sguardo all'abisso che gli si apriva sotto i piedi, retrocesse vivamente, agitando le braccia come un pazzo. - Ho paura! - esclamò. - Non gettatemi giù! Sono un povero mandiki. - Che cosa vi salta pel capo, ora? - chiese il capitano. - Volevate andare a Turfan coi figli della luna e noi vi abbiamo accontentato. - E non ci ammazzeremo tutti? - chiese il monaco, che sudava freddo. - Giungerete in ottimo stato, ve lo prometto. - E questa bestia non mangerà nessuno? - Non le piacciono gli uomini, specialmente quelli della vostra razza. Il mandiki, un po' rassicurato, si riaccostò alla balaustrata, poi tornò a retrocedere, coprendosi gli occhi colle mani. - Cadiamo! - gemette. - Animo - disse il capitano. - pensate che da questa discesa dipende il vostro avanzamento. Ecco gli abitanti che vi acclamano. Una folla numerosissima si accalcava sulla piazza del villaggio, mandando urla di sorpresa e anche di terrore. Si vedevano donne e fanciulle fuggire e uscire invece dalle tende uomini armati di fucili e di tromboni. - Fatevi vedere - disse il capitano al monaco. - Se fanno fuoco io non scenderò e sarete costretto a rimanere con noi. - Ho paura! Ho paura! - balbettava il mandiki. - Se non obbedite vi getto giù! A quella minaccia il calmucco impallidì come un cencio lavato e fu lì lì per lasciarsi cadere. Vedendo però il capitano avanzarsi, si fece animo e si curvò sulla balaustrata, gridando alcune parole. Le urla erano subito cessate. I calmucchi avevano lasciato cadere le armi, facendo gesti di maraviglia e di stupore. Il loro mandiki scendeva dal cielo, portato da quel mostruoso uccello! La cosa doveva sembrare ben meravigliosa a quei poveri nomadi, che non avevano mai udito parlare né di aerostati, né tanto meno di macchine volanti. La loro sorpresa era tale, che parevano come pietrificati. Lo "Sparviero" intanto scendeva descrivendo dei larghi giri che a poco a poco si restringevano, poi le sue ali rimasero tese formando un paracadute assieme ai piani orizzontali e la massa si lasciò cadere proprio in mezzo alla piazza. La folla, vedendolo abbassarsi, si era ritirata precipitosamente per non farsi schiacciare, mentre il monaco, che aveva riacquistato il coraggio, ritto a prora con un'aria da trionfatore, trinciava benedizioni a destra e a manca, invocando Buddha. Grida d'ammirazione scoppiavano da tutte le parti. Si urlava, si applaudiva il monaco che aveva saputo, certo per opera del dio, domare quell'enorme mostro e renderlo docile ai suoi voleri. Tuttavia nessuno osava accostarsi a quell'uccellaccio di nuova specie, anzi alcuni avevano armato i fucili, temendo un improvviso attacco. Il mandiki, con un gesto da sovrano, impose silenzio alla turba e gridò con un vocione da basso profondo: - Giù le armi, figli miei. Questa bestia non farà male a nessuno, perché io l'ho domata e fate buona accoglienza agli uomini che mi accompagnano, che sono i figli di Buddha. - Ah! Il volpone! - esclamò Rokoff. - Per lui eravamo figli della luna; ora siamo diventati, per gli altri, nientemeno che figli del dio. Sfrutta bene l'ignoranza di questi poveri calmucchi. Il mandiki, dopo molti sforzi e anche coll'aiuto del cosacco e di Fedoro, era riuscito a scavalcare la balaustrata, muovendo, con incedere maestoso, verso la folla che gli si era subito stretta intorno disputandosi l'onore di baciargli l'orlo della veste. I calmucchi parevano in preda a un vero delirio. Finirono per sollevare il monaco, nonostante il suo enorme peso, portandolo in trionfo per la piazza. - Ci lascia? - chiese Rokoff. - Non sarei stupito che se ne andasse dimenticandosi d'inviarci i promessi montoni. Ma il cosacco giudicava male il mandiki, perché questi, appena calmatosi un po' l'entusiasmo della folla, si fece deporre a terra e s'avvicinò allo "Sparviero", dicendo al capitano: - Signore, degnatevi d'accettare l'ospitalità nella tenda della principessa che comanda in Turfan. Si sta preparando il pranzo pei figli di Buddha. - Durante la nostra assenza nessuno toccherà il mio uccello? - Oh! Non temete! Questi stupidi hanno troppo paura e non oseranno nemmeno accostarsi. Non sono sacerdoti essi. - Per prudenza lasciamo qui il macchinista e quel signore - disse il capitano. - E noi, signor Rokoff e voi, Fedoro, armiamoci delle rivoltelle. Non si sa mai quello che può accadere. Nascosero le armi sotto le larghe fasce, delle rivoltelle di grosso calibro, vere Colt americane e seguirono il monaco fiancheggiati da due o trecento calmucchi, i quali però si tenevano a una certa distanza. - Sarà giovane o vecchia questa principessa? - chiese Rokoff al capitano. - Se sarà bella e giovane, vi concedo il permesso di corteggiarla - rispose il comandante, ridendo. - Non rimarrà insensibile agli omaggi d'un figlio di Buddha. - Non mi comprenderà. - Ah, sì, mi dimenticavo che non parlate nemmeno il cinese. - Ditemi, capitano, comandano le donne qui? - Sarà la vedova di qualche capo. - Allora sarà vecchia. - Aspettate a giudicarla. All'estremità della piazza s'alzava una vastissima kibitka di forma quasi ovale, coperta di grosso feltro impermeabile, con un'apertura sulla cima per lasciar penetrare la luce e uscire il fumo, non conoscendo i calmucchi, al pari dei duzungari loro vicini e anche dei mongoli, i camini. Il mandiki alzò un lembo della tenda e li introdusse, pregandoli di aspettare la principessa, la quale stava abbigliandosi in una tenda vicina. L'interno era montato con un lusso, che stupì perfino il capitano. In un canto vi era un letto monumentale, con una coperta di seta azzurra a fiorami rossi e gialli, con baldacchino pure di seta e tende bianche e rosa. Dinanzi stava un divanetto con un ricco tappeto di provenienza persiana o tibetana e in disparte un ricco cofano d'origine cinese, a colori brillanti e lacca, carico di coppe ricolme di riso e di frumento, di sonagliuzzi di varie grandezze, con due bambole vestite di seta, simili a quelle che vendono i cinesi. In mezzo si vedeva una statuetta di Buddha coperta da una mussola ricamata in oro. Intorno poi alla tenda v'erano numerosi cuscini di seta, posti su piccoli tappeti, destinati di certo ai visitatori. - Che lusso! - esclamò Rokoff, che non poteva star zitto un minuto. - La principessa deve essere bella e molto graziosa per avere un così ricco letto. Mi rincresce di dover starmene muto dinanzi a lei. - Eppure voi, che siete cosacco, dovreste conoscere qualche parola di calmucco - disse il capitano. - Questa razza, nomade fra le nomadi, si è sparpagliata fino ai confini dell'Europa e ha tribù numerose perfino nel Caucaso e nell'Astrakan. - Ha invaso mezza Asia? - Se non di più, signor Rokoff. È una razza di conquistatori, che ha avuto, secoli indietro, parecchie fasi di gloria e di potenza, e che sotto il famoso Genghiz Khan portò le sue armi vittoriose fino in Russia. Sapete che si dice che gli unni, che con Attila invasero perfino l'Italia, siano stati gli antenati di questi nomadi, che ora vedete così miserabili? - Ne ho udito parlare. Ora però non sono capaci d'altro che di condurre al pascolo i loro montoni e i loro cammelli. - Perché si sono troppo dispersi e suddivisi in un numero infinito di tribù indipendenti le une dalle altre. - Ecco la principessa - disse Fedoro. I tre aeronauti si erano alzati guardando curiosamente verso l'entrata della tenda, che l'enorme monaco teneva alzata. - Ah! La brutta vecchia! - esclamò Rokoff. - Ma questa è una strega! La principessa si era avanzata, facendo colle mani un saluto rispettoso. Era una donna piccola, magra come un chiodo, colla pelle del viso color del pan bigio, grinzosa e incartapecorita, con due occhietti neri ancora vivaci e di una mobilità straordinaria. Quale età poteva avere? Ottanta o cent'anni? Rokoff gliene avrebbe dati anche di più. Come tutte le ricche calmucche, indossava una lunga veste che le scendeva fino ai piedi, aperta in alto in modo da lasciar vedere la camicia di seta bianca. Sul capo portava una specie di berretto colla parte superiore quadrata e l'inferiore rialzata da una parte e aveva i capelli raccolti in trecce e ancora neri e abbondanti, chiusi in una fodera di seta nera. Le dita ossute erano coperte di anelli d'oro e d'argento e anche al collo portava pesanti monili formati da tael cinesi e da grani d'oro. Nonostante quello sfarzo di gioielli, il colore azzurro della veste e le ricche babbucce di pelle rossa con ricami d'argento, la principessa era d'una bruttezza ripugnante. Il monaco, che pareva all'apice del suo trionfo, presentò alla vecchia i figli viventi di Buddha, chiamandoli suoi amici e suoi protettori, poi li fece sedere sui cuscini mentre egli prendeva posto sul divanetto assieme alla principessa. Quasi subito entrarono parecchi servi portando quattro capretti arrostiti interi, vasi ricolmi di koumis e focacce di frumento e di riso. - Diamo un saggio della capacità degli stomachi dei piccoli Buddha - disse Rokoff. Il mandiki, nella sua qualità di monaco, aveva servito agli ospiti dei pezzi enormi su piatti d'argento, invitandoli a far onore alla modesta cucina della principessa Khurull-Kyma-Chamik. - Mi pare che abbia sternutato - disse Rokoff. - No, ha pronunziato il nome della bella principessa - rispose Fedoro. - Un nome superbo! Compiango suo marito, se ne ha avuto uno, costretto a sternutare forse cinquanta volte al giorno per chiamare la sua sposa. Si erano messi a mangiare con molto appetito, trovando tutto squisito. Anche la principessa, quantunque quasi sdentata, si sforzava di tener dietro agli ospiti, masticando come meglio poteva e bevendo molto koumis. Durante quella laboriosa operazione, alzava sovente il viso, guardando di sfuggita i tre uomini bianchi e fermando soprattutto i suoi occhi su Rokoff, le cui forme erculee e la barba rossastra dovevano averle prodotto un certo effetto. Anzi, sovente si curvava verso il monaco, che divorava per quattro e beveva per otto, mormorandogli all'orecchio qualche parola e indicandogli il cosacco. Il capitano, che si era accorto di quelle manovre, urto Rokoff, dicendogli: - Badate! La principessa fa troppa attenzione a voi. Temo che le abbiate toccato il cuore. - Per le steppe del Don! Non ditelo nemmeno per scherzo. - E che, non vi piacerebbe diventare principe di Turfan? - Con quella vecchia! - Non è poi tanto brutta - disse il capitano, frenando a stento le risa. - Che il diavolo se la porti! - E sarà anche ricchissima. - Non continuate, o scappo via. - Non guastate le nostre buone relazioni con questi calmucchi. Sarebbero capaci di mandarci in pezzi lo "Sparviero". - Dopo il pranzo ce ne andremo. - Dobbiamo assistere alla festa delle lampade. La popolazione sta già facendo i preparativi. - Chi ve lo ha detto? - Il mandiki. - Avrei preferito andarmene. - Più tardi, quando avremo ricevuto i montoni promessi. Mentre chiacchieravano, la principessa continuava a guardare sottocchi il cosacco e bisbigliare col monaco il quale, troppo affaccendato a rimpinzarsi di pasticci e di focacce, si limitava a rispondere con dei cenni del capo. Avevano appena terminato il pasto, quando al di fuori si udirono rullare dei tamburelli e strepitare dei gong. Il monaco si era alzato dicendo: - Ecco che la sulla comincia. I figli del possente Buddha onorino la festa colla loro presenza. Tutti uscirono dalla tenda, preceduti dalla principessa. La notte era calata, ma miriadi di lumi brillavano nelle vie della borgata e intorno alle tende, avanzandosi verso la piazza come un immenso serpente fiammeggiante. Dinanzi alla dimora della principessa, dei servi avevano alzato una specie d'altare, il dender, formato con rami d'abete intrecciati e piantati su pezzi di legno coperti d'erba. Su due lati ardevano due piccoli falò ed in mezzo ai rami s'alzava una statua di Buddha formata d'argilla seccata al sole e abbellita di pezzi di carta dorata e da collane di tael. La festa della sulla ossia della lampada, è una delle più grandi ed anche delle più originali che celebrano i calmucchi ed ha qualche somiglianza coi quella delle lanterne dei vicini cinesi. Giacché riesca di maggior effetto, si aspetta la notte. Allora tutta la popolazione della tribù si schiera, munita di lampade ripiene di grasso, i cui lucignoli sono formati dagli steli d'una pianta ben secca, avvolti in un po' di cotone, e devono essere tanti quanti sono gli anni di colui che deve portare il lume. Preceduti da una musica indemoniata, devono fare tre volte il giro dell'altare, sempre ballando e procurando di non cadere, perché la via che devono percorrere deve essere prima stata interrotta da fossati e da buche scavate appositamente. Un uso molto curioso poi, vuole che un bambino nato il giorno prima della sulla, debba venire considerato l'indomani come già vecchio d'un anno. Mentre la principessa attendeva l'arrivo della tribù che s'avanzava fra un clamore assordante, il monaco si era accostato al capitano, impegnando con lui una misteriosa conversazione, accompagnata da gesti maestosi. - Che cosa può raccontare il mandiki? - si chiese il cosacco, il quale, senza conoscere il motivo, non si sentiva punto tranquillo. - Deve essere molto interessante, perché vedo che il capitano ride a crepapelle. - Io non so, ma vedo una cosa. - Quale? - Che la principessa, a poco a poco si avvicina a te e che non ti stacca di dosso gli sguardi. - Che quella vecchia pazza ... - Signor Rokoff - disse il capitano, che gli si era accostato. - Sono stato incaricato, dal mandiki, d'una commissione per voi. Permettete che fin d'ora vi faccia le mie congratulazioni. Corbezzoli! Quanto v'invidieranno i sudditi di Khurull-Kyma-Chamik. - Una commissione per me? - chiese il cosacco, che si sentiva bagnare la fronte da freddo sudore. - Quattromila montoni, trecento cammelli, sette tende e non so quanti cofani pieni di pezzi di seta e di gioielli ed un titolo! Sono fortune che non capitano tutti i giorni. - Che cosa c'entrano i montoni ... i cammelli ... Il capitano, fattosi serio disse, inchinandosi comicamente: - Io saluto in voi il principe di Turfan. - Io principe! - gridò Rokoff che pareva in procinto di scoppiare. - Mi hanno pregato di chiedere la vostra mano da parte della bellissima, ricchissima e potentissima principessa Khurull-Kyma-Chamìk, che si è degnata di scegliervi per suo quinto sposo. - Fulmini del Don! - Fortunato amico! - gridò Fedoro, schiattando dalle risa. - E il briccone si lagnava d'avermi accompagnato in Cina!

Magra speranza, perché l'aerotreno non accennava ad abbassarsi nemmeno d'un metro. Sorretto dai piani inclinati e dalle eliche orizzontali e rimorchiato da quella proviera, continuava la sua marcia, quantunque il vento non accennasse ad aumentare. Solamente la sua velocità da trenta miglia all'ora era discesa ad appena dieci e se i mongoli avessero voluto, avrebbero potuto facilmente raggiungerlo e moschettarlo. Alle dieci le colline non si trovavano che a cinquecento metri. Formavano una immensa doppia collina, la quale si estendeva dall'est all'ovest per parecchie decine di miglia. Più che colline erano rocce colossali e aridissime. Non si vedeva spuntare, né sui loro fianchi né sulle loro cime, la menoma pianticella ed erano così rigide da non permettere la scalata nemmeno a una scimmia. Non essendo alte più di trecento metri lo "Sparviero", che manteneva i suoi quattrocento metri, poteva facilmente sorpassarle senza urtarvi contro. I mongoli, accorgendosi che la preda agognata stava loro per sfuggire, sferzavano violentemente i cavalli e raddoppiarono i loro clamori, ricominciando un fuoco violentissimo, quantunque ancora inefficace per la poca portata delle loro armi. Si agitavano furiosamente sulle loro cavalcature, snudavano le loro scimitarre trinciando colpi a destra ed a manca ed insultavano gli aeronauti i quali si accontentavano di sorridere a quell'impotente rabbia. - Ci prenderete un'altra volta? - gridò a loro Rokoff, minacciandoli col fucile. - Per ora non abbiamo tempo di occuparci di voi. Una scarica violentissima fu la risposta, ma ormai lo "Sparviero" filava maestosamente sulla prima catena di rocce, attraversando un immenso abisso. I mongoli s'arrestarono dinanzi a quegli ostacoli insormontabili, continuando a sparare, poi si slanciarono a corsa sfrenata verso l'est. - Che cerchino di girare le colline? - chiese Rokoff. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?

Vedo la nube abbassarsi con rapidità spaventevole. - Stiamo giocando una carta disperata - rispose il comandante. - Non credevo che questa bufera dovesse scatenarsi con tale violenza. - Dove siamo noi? - In mezzo al lago, suppongo. - Riusciremo a toccare la riva opposta, prima che il vento ci fracassi le ali o che le folgori ce le incendino? - Chi può dirlo? Come vedete, ho impresso al mio "Sparviero" tutta la velocità possibile, ma i venti ci travolgono. Temo di dover cedere e di lasciarmi trasportare dalle raffiche. - E tornare verso la costa settentrionale? Il capitano non ebbe il tempo di rispondere. Una tromba d'aria, formata dai venti che pareva s'incontrassero proprio in mezzo al lago, aveva preso lo "Sparviero", facendolo girare su se stesso con rapidità spaventevole. Le ali, impotenti a lottare, si torcevano e scricchiolavano paurosamente, come se da un momento all'altro dovessero spezzarsi e perfino i robusti fianchi del fuso gemevano. Il treno aereo, sempre roteando, veniva spinto in alto, verso il vertice della tromba, dove si vedevano le nubi disgregarsi, formando come un immenso cono rovesciato. Per alcuni istanti, in fondo a quel tubo, si vide apparire una specie di disco rosso che pareva fosse incandescente, forse il sole, poi un'oscurità profondissima avvolse lo "Sparviero" e gli aeronauti. Dove si trovavano? Erano stati spinti o meglio assorbiti dalla immensa nuvola nera? Il capitano lo credette. A un tratto però a quell'oscurità successe una luce intensa, abbagliante, seguita da tuoni formidabili che sembravano scoppi di mine colossali o di polveriere. Linee di fuoco correvano a destra e a sinistra degli aeronauti atterriti, facendo scintillare il fuso, il quale pareva che fosse diventato incandescente. Erano folgori che passavano a pochi metri e che subito scomparivano in mezzo alle masse di vapore che il vento travolgeva burrascosamente. Un odore acuto, che pareva di zolfo, si espandeva all'intorno soffocando gli aeronauti. Tutto era in fuoco. Migliaia di scintille correvano sulle ali, sui piani inclinati, sulle eliche, sul ponte, sulle vesti stesse degli uomini. Perfino la barba di Rokoff era piena. - Capitano! - gridò il cosacco cercando di dominare, colla sua robusta voce, quei rombi e quegli scoppi. - Che cosa succede? - Siamo in mezzo alla meteora - rispose il comandante, con voce soffocata. D'improvviso quelle luci si spensero, i tuoni cessarono bruscamente, i ruggiti del vento si quietarono. Non si udiva altro che un continuo crepitio, come se della grandine minuta percuotesse i fianchi del fuso. Una calma profonda era successa a tutto quel tramestio. Lo "Sparviero" aveva cessato di roteare e s'abbassava lentamente verso il lago, sempre avvolto fra una fitta nebbia che impediva di vedere a due o tre passi di distanza. - Signore, cadiamo - disse Fedoro, slanciandosi verso il capitano. - Ho fermato le ali e le eliche - rispose questi. - Il lago sta sotto di noi. Non udite le onde muggire? - A suo tempo arresteremo la discesa. Cerchiamo per ora di uscire da queste nubi o verremo tutti fulminati. Non spaventatevi, signor Fedoro, e nemmeno voi, signor Rokoff. Credo che il momento più terribile sia passato. - Ma questa calma? - chiese Rokoff. - Scendiamo nel centro della tromba. Ecco il vento che riprende il suo movimento circolare; tentiamo di spezzare le sue spire. Macchinista! A tutta velocità! I ruggiti del vento ricominciavano e lo "Sparviero" tornava a roteare su se stesso. Le ali ben presto si rimisero a battere a colpi vigorosi, precipitati e il fuso, forando con uno slancio irresistibile la colonna d'aria, sfuggì alla stretta della formidabile tromba. Ma anche fuori da quella meteora, l'uragano imperversava con furia incredibile. Lo "Sparviero", dopo qualche istante, veniva trascinato verso settentrione, senza essere più capace di tenere testa alle raffiche. Correva all'impazzata, travolto, sbattuto in tutti i sensi, ora salendo e ora abbassandosi fino quasi a sfiorare i cavalloni del lago. Vibravano le ali, incurvavansi i piani, fremevano i fianchi del fuso. Certi momenti pareva che fosse lì lì per rovesciarsi e precipitare, fra le acque spumeggianti, gli aeronauti. Quanto durò quella corsa? Venti minuti o un'ora? Nessuno sarebbe stato capace di dirlo. Delle grida strapparono Rokoff dal suo sbalordimento. Guardò giù. Un promontorio si prolungava sul lago e su un'alta rupe scorse, alla luce dei lampi, un vasto edificio a tetti arcuati. Su una specie di terrazzo, degli esseri umani si dimenavano, alzando le braccia verso lo "Sparviero", che l'uragano trascinava in una corsa vertiginosa. - Signore! - gridò. - Una casa ... un convento ... una fortezza ... non so ... là ... guardate ... guar ... Non poté proseguire. Un lampo abbagliante aveva avvolto il fuso, mentre una linea di fuoco piombava in mezzo al ponte. Fece per aggrapparsi alla balaustrata, ma prima che l'avesse toccata si sentì scaraventare nel vuoto, mentre un rombo formidabile scuoteva l'atmosfera. Erano scoppiati i serbatoi dell'aria liquida o la macchina? Non poté saperlo. Udì vagamente un tonfo seguito da un grido, poi si sentì sprofondare e coprire da un'onda spumeggiante. Quando, ancora stordito da quell'improvviso capitombolo e ancora abbagliato da quella luce che per poco non gli aveva abbruciato gli occhi, tornò alla superficie, lo "Sparviero" era scomparso! - Per le steppe del Don! - esclamò. - È saltato in aria o l'uragano l'ha trascinato entro la nube nera? Un'onda che lo investì impetuosamente, riempiendogli la bocca d'acqua amara e salata, gli tolse, almeno pel momento, l'idea di occuparsi dei compagni. - Pensiamo a salvare la pelle, per ora - disse. - Poi vedremo di sapere che cosa è avvenuto dello "Sparviero". Dove sono caduto? Sarà lontana la riva? Avrò molto da lottare per uscire vivo da questo lago. Le onde si succedevano alle onde, ora spingendolo in alto, ora precipitandolo negli abissi mobili e ora coprendolo e sballonzolandolo in tutti i versi. Anche il lago era in tempesta e non era cosa facile sottrarsi ai suoi assalti. Rokoff era però un valente nuotatore. Si lasciò portare dalle onde e come poté si sbarazzò della sua lunga casacca, che gl'impediva di muoversi liberamente. Era rimontato a galla, quando sentì sotto mano qualche cosa che le onde trastullavano. Credendo che fosse qualche albero o qualche oggetto caduto dallo e Sparviero", allungò le braccia e strinse un corpo umano che pareva privo di vita. - Mille steppe! - gridò, rabbrividendo. - Qualcuno dello "Sparviero"? Con uno sforzo supremo sollevò il capo dell'annegato, cercando di ravvisarlo. Proprio in quel momento un lampo vivissimo illuminò le acque del lago. Un urlo di disperazione gli sfuggì. - Fedoro! È morto forse? Gran Dio! No ... non è possibile! Pur continuando a nuotare con suprema energia per non venire subissato dalle onde che lo incalzavano da tutte le parti, col braccio sinistro si strinse al petto l'amico, cercando di tenergli la testa fuori dell'acqua. Nel fare quell'atto gli parve che un tremito avesse scosso quel corpo che poco prima aveva creduto inerte. - No ... non è morto! - gridò. - Salviamolo! La cosa però era tutt'altro che facile, perché non sapeva dove si trovasse, quantunque si rammentasse vagamente di aver scorto, poco prima della caduta, un promontorio e una vasta costruzione. E poi le onde erano ben lungi dal calmarsi e aveva da sostenere l'amico. - Se non potrò salvarlo, almeno morremo insieme - pensò il bravo cosacco. - Ah! Se ci fosse qui anche il capitano ad aiutarmi? Ma chissà se sarà ancora vivo. Nuotava con furore, facendo sforzi prodigiosi per non venire travolto dai marosi, girando gli sguardi in tutte le direzioni per vedere se scopriva la riva. I muggiti delle onde e i fischi acuti del vento lo stordivano, eppure continuava a lottare coll'energia che infonde la disperazione. No, non voleva morire. Nuotava da dieci minuti, quando gli parve, fra le urla del vento e lo scrosciare delle acque, di udire delle grida umane. Alzò gli occhi e distinse confusamente su una rupe la medesima costruzione che aveva veduto poco prima di venire precipitato nel lago. - La costa è vicina - pensò. - Cerchiamo di raggiungerla e badiamo soprattutto di non venire sfracellati contro le rocce. Si lasciava portare dalle onde, nuotando solamente coi piedi, per tema che la violenza della risacca gli strappasse dalle braccia Fedoro. A un certo momento si trovò dinanzi una superficie spumeggiante, quasi calma. Non più marosi e non più controndate. Era entrato in qualche piccola baia difesa da uno o più promontori o da qualche linea di scogliere? Almeno lo suppose. Comunque fosse, colà l'acqua era tranquilla e se vi era una terra vicina, l'approdo non doveva essere né difficile, né pericoloso. - Ecco una fortuna insperata - disse Rokoff. - Se ... Non proseguì. Le sue gambe avevano toccato un fondo duro, probabilmente roccioso, irto di punte. Si rizzò e s'accorse d'aver l'acqua solamente fino al petto. - Siamo salvi! - esclamò. A cinquanta o sessanta passi si estendeva un breve tratto di costa, una specie di punta abbastanza bassa per potervi approdare senza fatica. Più oltre, invece, s'alzava una rupe gigantesca sulla quale Rokoff aveva scorto, alla luce dei lampi, quella massiccia costruzione che gli era sembrata un monastero o una fortezza. Le onde, in causa d'una ripiegatura della costa e d'una scogliera altissima, non potevano giungere fino al luogo dove trovavasi il cosacco. Si frangevano con mille muggiti contro quegli ostacoli che non potevano rovesciare, provocando, in quella specie di baia o di cala, solamente una certa ondulazione. Tenendo sempre alto Fedoro, il quale non dava ancor segno di tornare in sé, Rokoff attraversò velocemente l'ultimo tratto e raggiunse la spiaggia, arrestandosi sotto la gigantesca rupe che cadeva a piombo. - Se vi fosse qualche rifugio - mormorò, gettando un rapido sguardo verso la parete. L'oscurità era però così fitta da non poter vedere a dieci passi di distanza, essendo ormai calata la notte e il cielo sempre coperto da quell'immensa nuvola nera che il vento non era ancora riuscito a disgregare e lacerare. - Lo cercherò più tardi - pensò. - Ora occupiamoci di Fedoro. Depose l'amico su uno strato di sabbia fine e lo spogliò della casacca e del panciotto, mettendogli una mano sul petto. - Il cuore batte - disse con voce giuliva. - Quale fortuna averlo trovato subito! Se le onde mi spingevano pochi passi lontano, era finita per questo povero Fedoro. Gli aprì la bocca, prese la lingua e si mise a tirarla con movimenti lenti e eguali per riattivare il funzionamento dei polmoni. Coll'altra mano intanto gli alzava ora l'uno ora l'altro braccio. La pioggia cadeva a torrenti e il vento spazzava rabbiosamente la spiaggia, ma Rokoff non se ne preoccupava e continuava a operare quelle trazioni con delicatezza. A un tratto un profondo sospiro sfuggì dalle labbra del russo. - La respirazione è riattivata - disse Rokoff - tutto va bene. Lasciò la lingua e si mise a strofinargli vigorosamente il petto con un pezzo di lana strappata dalla fodera della giubba. Fedoro tornava rapidamente in sé, rigettando di quando in quando, sotto quelle pressioni, delle boccate d'acqua. Finalmente anche i suoi occhi si aprirono. - Dove ... sono ... io? - chiese con voce debole. - Rokoff ... capitano ... - Eccomi, sono presso di te - rispose il cosacco, coprendogli il petto. - Tu ... amico ... Rokoff ... che cos'è accaduto? - Una catastrofe, un accidente, non lo so nemmeno io. Siamo stati scaraventati entrambi nel lago, forse dalla folgore e ti ho trovato per puro caso, nel momento in cui stavi per andare a tenere compagnia ai pesci. - Ah! Sì ... mi ricordo ... quella luce ... quel rombo ... poi le onde ... E mi hai salvato? - Ti ho portato qui. - E il capitano? - Non ne so più nulla. - E lo "Sparviero"? - Scomparso, forse caduto nel lago, fracassato dalla folgore o dallo scoppio dei serbatoi d'aria liquida o della macchina. - No ... no! ... - esclamò Fedoro. - No, caduto. - Come lo sai tu? - chiese Rokoff sorpreso. - Quando le onde mi hanno portato a galla, io l'ho veduto ... sì ... me lo ricordo ... il vento lo trascinava verso il nord ... rapidamente ... - Non è scoppiato? - No, Rokoff. - Quanto mi sarebbe rincresciuto che quel meraviglioso treno-aereo fosse stato annientato e che quel valoroso capitano fosse stato ucciso. Sei certo d'averlo veduto fuggire, Fedoro? - Sì, Rokoff, il vento lo travolgeva. - E non bruciava? - No. - Allora non sono i suoi serbatoi che sono saltati? - È stata la folgore che è piombata sul ponte e che ci ha precipitati nel lago. - Ah! Respiro! ... - esclamò il cosacco. - Allora lo rivedremo tornare dopo cessato l'uragano. - Ma noi dove ci troviamo? - Presso un monastero o una fortezza. - Non facciamoci scoprire, Rokoff - disse Fedoro. - Rimaniamo nascosti fino al ritorno dello "Sparviero". Il capitano verrà a raccoglierci, ne sono certo. - Non lo dubito nemmeno io. Sarà però necessario cercarci un nascondiglio; il monastero sta sulla cima di questa rupe e domani potremmo venire scoperti. Rimani qui, vado a vedere se posso trovare qualche crepaccio o qualche caverna. Mi pare che questa parete sia tutta screpolata. - Tu sei senza casacca! - esclamò Fedoro. - Indossa la mia. - Ho dovuto abbandonarla alle onde per poterci salvare entrambi, tuttavia non preoccuparti di me. Ho la pelle dura io e il freddo non ha presa sulle mie carni. Non muoverti e aspetta il mio ritorno. Il cosacco s'allontanò seguendo la rupe che appariva tutta screpolata alla sua base. Essendo i lampi cessati, era costretto a procedere a tentoni e cercare il rifugio colle mani. La burrasca, lungi dal calmarsi, imperversava con rabbia estrema. Onde gigantesche correvano pel lago, frangendosi furiosamente contro le coste con boati e muggiti formidabili e dalle nevose vette dei monti scendevano raffiche gelate e d'una tale violenza, che talvolta il cosacco si sentiva mancare perfino il respiro. - Sarà impossibile allo "Sparviero" poter tornare finché dura quest'uragano - pensava Rokoff, senza cessare di perlustrare. - Il vento soffia sempre dal sud e chissà dove lo avrà trascinato. A un tratto si fermò, mandando una imprecazione. Fra le tenebre aveva scorto dei punti luminosi gialli, verdi, rossi e azzurri che s'avanzavano seguendo la parete. Parevano lanterne cinesi, o qualche cosa di simile. - Che i monaci ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini, un momento prima che la folgore avvolgesse lo "Sparviero". Gridavano e alzavano le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se questa parete è tagliata a picco? Stette un momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava. - Lui conoscerà i tibetani meglio di me - disse. I punti luminosi o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Subito le rive del fiume si allargarono considerevolmente e cominciarono ad abbassarsi, quasi al livello dell'acqua. In lontananza si disegnò la grande isola di Sangor, che segna il confine fra le acque del fiume e quelle del mare. - Il mare! - gridò il marinaio installato sulla crocetta della maestra. Tremal-Naik, bruscamente strappato dalle sue meditazioni da quel grido, si slanciò a prua, mentre i marinai s'arrampicavano sulle sartie e sulle griselle. Tutti gli sguardi si volsero verso le Sandheads (teste di sabbia) immensi banchi pericolosissimi proiettati dal Gange nel golfo del Bengala. Nessun vascello appariva sulla linea dell'orizzonte, né al di qua, né al di là dell'isola Sangor; nessun lume brillava nella semi-oscurità. Un grido di rabbia irruppe dalle labbra di Tremal-Naik. - Gabbiere! - gridò all'indiano che si trovava sulla crocetta dell'albero, col cannocchiale puntato. - Capitano! - Si scorge? - Non ancora. - Udaipur, carica le valvole. - Abbiamo la massima pressione, - osservò il macchinista. - A sei atmosfere! - gridò Hider, che si mordeva la barba. - Quattro uomini di rinforzo nella macchina. - Saltiamo in aria, - brontolò Udaipur. Quattro indiani discesero nella camera della macchina. I fornelli furono riempiti di carbone. La cannoniera non correva più; saltava sulle onde azzurre del golfo, fischiando e tremando. Un calore torrido saliva dalla stiva e un fumo nerissimo usciva furiosamente dal tubo. - Dritto all'isola Raimatla! - gridò Hider, al timoniere. La distanza che li separava dall'isola spariva rapidamente. Tutti gli indiani si erano issati sulle imbarcazioni sospese alle grue od alle sartie od alle griselle dell'albero e scrutavano l'orizzonte. Un silenzio profondo regnava sul ponte, rotto solamente dalle febbrili pulsazioni della macchina e dai sibili del vapore che usciva dalle valvole. - Nave a prua! - gridò ad un tratto il gabbiere. Tremal-Naik provò una scossa come fosse stato toccato da una pila elettrica. - La vedi? - tuonò egli. - Sì, - rispose il gabbiere. - Dove? ... - Al sud. - Ed è? ... Il gabbiere non rispose. S'era alzato in piedi sulla crocetta, per abbracciare maggior orizzonte e guardava fisso fisso col cannocchiale. - Nave a vapore! - gridò poi. - La fregata! ... La fregata! ... - urlarono gl'indiani. - Silenzio! - tuonò il quartier-mastro. - Ehi, gabbiere, dove va quella nave? - All'est, radendo l'isola Raimatla. - Guarda la prua. - La vedo. - Come è? - Ad angolo retto. Il quartier-mastro si slanciò verso Tremal-Naik che stava sulla lunetta. - È la fregata, - gli disse. - Non v'è in India che la Cornwall che abbia lo sperone ad angolo retto. Tremal-Naik in preda ad un'indicibile emozione, emise un grido di trionfo. - Dove va? - chiese egli con voce stridula. - Osserva bene. - Sempre all'est. Gira l'isola, al di fuori, temendo forse di non trovare acqua bastante nel canale. - Sei certo? - Certissimo. - Sicché la incontreremo? ... - Al di là dell'isola, se ci inoltriamo nel canale. - Governate in modo da incontrarla. - Ma ... - disse Hider. - Silenzio, comando io. Tremal-Naik lasciò la lunetta e discese nel quadro di poppa; Hider si collocò invece alla ruota del timone. La cannoniera, che camminava tre volte di più della fregata, non impiegò molto a girare l'isola. Alle dieci del mattino usciva dal canale formato da Raimatla e le terre vicine, celandosi dietro l'estrema punta di un isolotto deserto, che sorge di fronte a Jamera. Hider con un solo sguardo si assicurò che la nave nemica era ancora lontana. - Tremal-Naik! - gridò. Il cacciatore di serpenti apparve sul ponte, ma non era più lo stesso uomo di prima. La tinta bronzina della sua pelle era diventata olivastra quanto quella di un malese; gli occhi apparivano assai ingranditi, mediante segni biancastri ben tracciati; i denti, poco prima bianchi come l'avorio, erano diventati neri come quelli del più arrabbiato masticatore di betel. Così sfigurato, con un cappellaccio di fibre di rotang sul capo, una cotonina rossa ai fianchi, due lunghi kriss (pugnali serpeggianti a punta avvelenata) sospesi alla cintura, era affatto irriconoscibile. - Mi riconosci? - chiese al quartier-mastro che lo guardava con ammirazione. - Ti riconosco perché a bordo non ho visto malesi. - Credi che il capitano mi riconoscerà? - No, non è possibile. - Dimmi ora, come si chiamano i due affiliati imbarcati sulla Cornwall. - Palavan e Bindur. - Terrò in mente questi nomi. Fa' mettere in mare un'imbarcazione. Ad un cenno del quartier-mastro la yole fu calata. - Cosa vuoi fare? - chiese dipoi. - Aspettare qui la fregata e poi salire a bordo. - Ed io? - Tu andrai a nasconderti nel canale di Raimangal. Alla prima detonazione che odi, uscirai in mare e mi raccoglierai. Afferrò una corda e discese nella yole la quale rullava vivamente sotto le ondate. La cannoniera emise un fischio sonoro e s'allontanò rapidamente. Un'ora dopo non era più che un punto nero sull'orizzonte, appena visibile. Quasi nel medesimo istante, al sud, appariva un altro punto, sormontato da un pennacchio di fumo. Tremal-Naik lo guardò. - La fregata! - esclamò. - Ada, dammi la forza di compiere la mia ultima impresa. Poi sarai mia sposa ... e saremo finalmente felici! ... Afferrò i remi e si mise ad arrancare furiosamente, allontanandosi dall'isola le cui coste cominciavano a confondersi coll'azzurro del cielo. La fregata si avanzava forzando la macchina e ingrandiva a vista d'occhio. Tremal-Naik continuava a remare cercando di tagliare la via. A mezzodì cinquecento passi appena dividevano la yole dalla Cornwall. Era il momento aspettato dal cacciatore di serpenti. Attese che un'onda inclinasse la yole, poi si gettò violentemente a babordo e la rovesciò, aggrappandosi alla chiglia. - Aiuto! ... aiuto! ... - gridò con voce tonante. Alcuni marinai si slanciarono sulla prua della fregata, poi una imbarcazione montata da quattro uomini fu calata in mare e si diresse verso il naufrago. - Aiuto! ... ripeté Tremal-Naik. L'imbarcazione volava sulle acque nel mentre che la fregata rallentava la sua corsa. In cinque minuti fu presso la yole. Il naufrago afferrò le mani che un marinaio gli tendeva e salì a bordo borbottando: - Grazie, ragazzi! I marinai ripigliavano i remi e ritornarono alla Cornwall. Una scala fu gettata ed il falso malese grondante d'acqua, cogli occhi abilmente stravolti, fu condotto in presenza dell'ufficiale di quarto. - Chi sei? - gli domandò questi. - Paranga di Singapura, - rispose Tremal-Naik, guardandosi attorno con curiosità. - Appartenevi a qualche nave? - Sì, all'Hannati di Bombay, calata a picco quattro giorni or sono, a cento miglia dalla costa. - A mare tranquillo? - Sì s'era aperta una falla sotto poppa. - E l'equipaggio? - Si è annegato. Le imbarcazioni erano avariate e appena calate in acqua andarono a picco. - Hai fame? - Sono dodici ore che ho mangiato il mio ultimo biscotto. - Olà, mastro Brown, conducete questo povero diavolo in cucina. Il mastro, un vecchio lupo di mare con una barba grigia, cavò di bocca il suo mozzicone di sigaro mettendoselo delicatamente nel berretto, e, preso per mano il falso malese lo condusse sotto prua. Una pentola ripiena di fumante zuppa fu messa dinanzi a Tremal-Naik, il quale l'assalì vigorosamente. - Hai un buon appetito, giovanotto, - disse il mastro, studiandosi di sorridere. - Ho lo stomaco vuoto. A proposito, come si chiama questo vascello? - La Cornwall. Tremal-Naik, guardò con sorpresa il lupo di mare. - La Cornwall! - esclamò. - Ti spiace il nome forse? - Tutt'altro. - E allora! - Mi ricordo che su di una fregata che portava un nome simile, si erano imbarcati due indiani miei amici. - To'! che combinazione! E si chiamano? - L'uno Palavan, e l'altro Bindur. - Questi due indiani sono qui, giovanotto. - Qui a bordo? - Sì, a bordo. - Bisogna che li veda. Oh! Quale fortuna! - Te li mando subito. Il mastro risalì la scala e poco dopo due indiani si presentavano a Tremal-Naik. L'uno era lungo, magro, dotato d'una agilità da scimmia; l'altro di mezzana statura, membruto, più somigliante ad un malese che ad un indiano. Tremal-Naik si guardò d'attorno per vedere se erano soli, poi tese la mano dritta mostrando a loro l'anello. I due indiani caddero ai suoi piedi. - Chi sei? - chiesero con voce soffocata. - Un inviato di Suyodhana, il figlio delle sacre acque del Gange - rispose Tremal-Naik, sottovoce. - Parla, comanda, la nostra vita è nelle tue mani. - Corriamo pericolo di essere uditi? - Tutti sono sul ponte, - disse Palavan. - Dov'è il capitano Macpherson? - Nella cabina; dorme ancora. - Sapete dove va la fregata? - Tutti lo ignorano. Il capitano Macpherson ha detto che lo dirà quando saremo giunti a destinazione. - Dunque anche gli ufficiali non sanno nulla? - Assolutamente nulla. - Quindi uccidendo il capitano si spegnerà con lui il segreto. - Senza dubbio, ma noi temiamo che la fregata si rechi a Raimangal ad assalire i fratelli. - Non vi siete ingannati, ma la fregata non sbarcherà i suoi uomini. - Ma come? ... Perché? ... - La faremo saltare in aria prima che arrivi all'isola. - Quando tu lo vorrai, daremo fuoco alle polveri. - Quando giungeremo a Raimangal, secondo i vostri calcoli? - Verso la mezzanotte. - Quanti uomini ci sono a bordo? - Un centinaio. - Sta bene. Alle undici ucciderò il capitano, poi faremo saltare il vascello. Una parola ancora. - Parla. - Bisogna che il capitano, alle undici, dorma profondamente. - Verserò un narcotico nella sua bottiglia di vino, - disse Palavan. - Si potrà giungere alla sua cabina senz'essere veduti? - La cabina comunica colla batteria. Questa sera la porta sarà aperta. - Basta così. Alle undici verrete a prendermi qui. Tremal-Naik si rimise a mangiare. Divorò di poi un beefsteak capace di nutrire tre persone, vuotò una dietro l'altra, parecchie tazze di eccellente gin, si fece dare una pipa, poi si arrampicò su di un'amaca e vi si sdraiò mormorando: - Salire sul ponte non è prudente. Il capitano potrebbe riconoscermi. Cercò di addormentarsi, ma lo stato del suo animo era troppo agitato. Mille e mille pensieri si cozzavano tumultuosamente nel suo cervello. Pensava alle vicende passate, pensava alla sua adorata Ada, ed al momento in cui finalmente, dopo tante sofferenze, dopo tanti pericoli, la rivedrebbe e la farebbe sua sposa, e all'ultimo colpo che stava per giuocare. Cosa strana, incomprensibile per lui; ogni qualvolta pensava all'assassinio che stava per commettere, si sentiva invadere da un sentimento per lui nuovo. Si avrebbe detto che quel delitto gli faceva orrore. Le ore scorsero così, lente, lente. Nessuno era disceso nella cabina, né egli ardiva mostrarsi sul ponte. Persino i due affiliati non si erano più fatti vedere. Tremal-Naik cominciava a provare qualche timore e si domandava se era toccata, ai due thugs, quella disgrazia. Alle otto il sole scese all'orizzonte e la notte calò rapidamente sulle azzurre onde del golfo di Bengala. Tremal-Naik, in preda alla più viva ansietà, salì la scala e sporse la testa sul ponte. Soldati e marinai erano in coperta, alcuni affollati a prua cogli occhi fissi fissi all'oriente ed altri arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sulle crocette e sui pennoni. A poppa scorse degli uomini che stavano armando alcune imbarcazioni. Guardò sulla lunetta. Quattro ufficiali passeggiavano fumando e chiacchierando con vivacità. Il capitano Macpherson non c'era. Ritornò nell'amaca ed aspettò. La suoneria di bordo batté le nove, poi le dieci e quindi le undici. L'ultimo tocco non era ancora cessato, che due ombre scendevano silenziosamente la scala. - Presto, - disse una voce imperiosa. - Non abbiamo un minuto da perdere. Abbiamo Raimangal in vista. Tremal-Naik riconobbe i due affiliati. - Il capitano?- domandò con un filo di voce. - Dorme, - rispose Bindur. - Ha bevuto il narcotico. - Andiamo. Nel pronunciare questa parola la voce di Tremal-Naik tremava. Provò un brivido tanto forte, che lo scombussolò. Palavan aprì una porticina ed entrarono nella batteria, arrestandosi dinanzi ad una seconda porta che mettevano nel quadro di poppa. - Siete risoluti? - chiese Tremal-Naik. - Abbiamo messo la nostra vita nelle mani della dea Kâlì. - Avete paura? - Non sappiamo che cosa sia la paura. - Uditemi. I due thugs s'avvicinarono a lui cogli occhi fiammeggianti. - Io vado a uccidere il capitano, - diss'egli con voce triste. - Tu, Bindur, scenderai nella Santa Barbara e accenderai un bel fuoco. - Ed io? - chiese Palavan. - Voglio fare qualche cosa anch'io. - Tu ti fornirai di tre salva-gente, poi verrai da me. Andate e che la vostra dea vi protegga. Tremal-Naik afferrò una scure, varcò la soglia e penetrò nella cabina illuminata da una lanterna di talco. Prima cosa che vide fu uno specchio che riflesse la sua immagine. Nel mirarsi ebbe paura. La sua faccia era orribilmente stravolta, irrigata da grosse goccie di sudore e gli occhi fiammeggianti come le lame di due pugnali. Abbassò lo sguardo su di un letto coperto da una fitta zanzariera. Un leggiero sospiro giunse fino a lui. - È strano, - mormorò. - Non ho mai provato nulla di simile. Fece tre passi e con mano tremante sollevò il velo. Il capitano Macpherson era sdraiato sul letto e sorrideva. Senza dubbio quell'uomo sognava. - I thugs, lo vogliono, - mormorò l'indiano. Alzò sull'addormentato la scure, ma la riabbassò subito come se le forze gli fossero improvvisamente mancate. Si passò una mano sulla fronte e la ritrasse bagnata. Si guardò attorno con profondo terrore. - Cos'è? - si chiese, sorprese, stupito. - Avrei io paura? ... Chi è quest'uomo? ... Cos'è questa terribile emozione che mi scuote? ... Tornò ad alzare la scure e per la seconda volta la abbassò. Non gli era mai accaduto una cosa simile. Gli parve che una voce interna gli mormorasse che quell'uomo era per lui sacro, che quel sangue che stava per versare non era sangue straniero. - Ada! Ada! - esclamò quasi con rabbia. Ad un tratto impallidì indietreggiando vivamente. Il capitano s'era alzato a sedere e lo guardava con due occhi sbarrati. - Ada! ... - esclamò Macpherson con viva emozione. - Chi pronuncia il nome di mia figlia! ... Tremal-Naik, pietrificato, spaventato, era rimasto immobile. - Ada! - ripeté il capitano. - Il nome di mia figlia! ... Poi s'accorse della presenza dell'indiano. - Cosa fai tu qui, nella mia cabina? - chiese. Un lampo attraversò il cervello di Tremal-Naik; un terribile sospetto gli era entrato nel cuore. - Ma chi siete voi? - chiese con voce strozzata. Di quale Ada intendete parlare? Della mia forse? - Della tua! ... - esclamò il capitano stupito. - Parlo di mia figlia! ... - Dov'è? - Dov'è? ... Nelle mani dei thugs! ... - Possente Brahma! ... Se fosse vero! ... Una parola, capitano, un nome, vi prego! ... Come si chiamava vostra figlia? - Ada Corishant. Tremal-Naik si nascose il volto fra le mani emettendo un grido d'orrore. - La mia fidanzata! ... Ed io stavo per ucciderle il padre! ... Ah! ... l'orribile trama! ... Poi cadendo ai piedi del letto esclamò: - Perdono! ... perdono! ... Il capitano, stupito, guardava Tremal-Naik chiedendosi se sognava o se era desto. - Ma spiegati infine! ... - esclamò. Tremal-Naik, colla voce rotta dai singhiozzi, in poche parole gli svelò la trama infernale di Suyodhana. - E tu sai dov'è mia figlia? - chiese il capitano che era già balzato in piedi, pallido per l'emozione. - Sì, ed io vi condurrò dove si trova, - disse Tremal-Naik. - Ritornamela e ti giuro che se ella ti ama sarà tua. - Ah! grazie, capitano! La mia vita è vostra. - Non perdiamo tempo; corriamo a Raimangal. Io stavo appunto per recarmi ad assalire i thugs nel loro covo. - Un istante: ho due complici a bordo e forse stanno per far saltare la nave. - Li appiccheremo. Uscirono correndo e salirono sul ponte. - Quattro uomini nella Santa Barbara e si arrestino i traditori che stanno per far fuoco alle polveri. Invece di quattro, venti uomini si precipitarono nei depositi delle munizioni. Poco dopo s'udirono due tonfi seguiti da alcuni spari. - Si sono gettati in mare, - disse un ufficiale lanciandosi sul ponte. - Che si anneghino, - disse il capitano. Sono sicure le polveri? - Ai traditori è mancato il tempo di spezzare i barili. - Iddio ci protegge! ... A tutto vapore al Mangal! ...

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

A due chilometri dal capo di Galles la costa americana, che fino allora si era mostrata dirupatissima, cominciò ad abbassarsi e apparvero immense paludi sulle quali si vedevano volteggiare migliaia di oche, di gabbiani, di gazze marine, di strolaghe e di urie. Le loro grida, portate dal vento, giungevano fino a bordo del "Danebrog". Alcuni di quegli uccelli vennero fin presso la nave, e il tenente si divertì a sparare alcune fucilate. Durante la notte del 12-13 - notte per modo di dire, poichè il sole splendeva sempre - il vento crebbe considerevolmente, accelerando la corsa del "Danebrog", e la temperatura, fino allora dolcissima si abbassò improvvisamente a 0o. L'indomani il legno girava il capo Espemberg e passava dinanzi al golfo di Kotzebue che s'insinua entro terra per ben venti leghe su una larghezza di ventitrè. Le sue coste erano alte, spalleggiate da gruppi di montagne e apparivano affatto deserte. Nessun canotto solcava le acque tranquille del golfo, dove in certe epoche si recano a pescare gli indiani Kitgoni che abitano le sponde settentrionali, e gli indiani Kiumisi che abitano le meridionali. Di balene nessuna traccia. Invece furono segnalati alcuni delfini gladiatori, nemici accaniti delle prime, dotati di una forza prodigiosa e di una voracità straordinaria. Qualcuno era lungo più di otto metri. Il 14, presso il capo Krusenstern, Koninson che guardava sempre attentamente il mare sperando di trovare quelle materie oleose che si lasciano addietro le balene, segnalò un banco di "boete", il quale aveva fatto cangiare tinta all'acqua, che appariva bruna anzichè verdastra. Questi banchi, che le balene cercano avidamente, sono formati da piccoli crostacei in forma di gamberi ma il cui diametro non supera i due millimetri e si producono in primavera e in estate. Talvolta hanno una lunghezza di quindici e persino venti leghe, una larghezza di una o due e uno spessore di quattro o cinque metri. - Una volta, quando s'incontravano questi banchi, si trovava sempre una balena o anche due - disse malinconicamente Koninson, volgendosi verso il tenente che gli stava presso. - Mio caro fiociniere, oggi le balene sono assai scemate rispose Hostrup. - Non sono molti secoli che si vedevano a frotte nel mare di Biscaglia, ed ora se si vuol trovarne una bisogna risalire in questi mari. - Sono forse diminuite a causa di qualche malattia? - No, a causa della caccia accanita dei balenieri. Ogni anno se ne distruggono un numero grandissimo, anzi non si esita ad affermare che nessuna balena può raggiungere il suo completo sviluppo, perchè prima di questo cade sotto il rampone dei fiocinieri. - E siamo solamente noi a distruggerle? - Purtroppo no. Le balene hanno altri nemici e forse più accaniti di noi. - E quali mai? Chi osa sfidare simili giganti che hanno una coda così possente? - Il più feroce è un crostaceo detto "pidocchio di balena", il quale aderisce talmente alla pelle dei cetacei che per staccarlo bisogna farlo a brani. - Ma come può, un crostaceo, uccidere una balena? - Nel modo più facile, Koninson. Questo pidocchio le si aggrappa nei punti più delicati, o sulle labbra, o sugli organi generativi e comincia a rodere cacciandosi entro le carni, causandole dolori sì atroci che dopo un certo tempo la disgraziata è costretta a morire. - Che mostro! - Ma ci sono altri nemici e non meno feroci. I capodolii, come ben sai, assalgono le balene tutte le volte che le incontrano e le mordono, così orribilmente da ucciderle. - Ho assistito una volta a una simile lotta. - Ve ne sono degli altri: i pescispada e i narvali, che si divertono a cacciare il loro acuto corno nel ventre dello sfortunato cetaceo; e i delfini, specie quelli detti gladiatori, che gli si cacciano, in bocca e ne divorano la lingua. - Che canaglie! E di tutti questi nemici quale è il più terribile? - L'uomo, il quale ogni anno ne distrugge centinaia e centinaia. - Allora verrà un giorno che non se ne troverà più una. - Sì, se le balene non si affrettano a rifugiarsi al di là dei ghiacci eterni, sotto il polo. - E nell'oceano australe sono pure così accanitamente cacciate dai balenieri? - Tanto come su questi mari. - E le balene di quell'oceano sono eguali a quelle di questo? - No, Koninson; ve ne sono tre specie e tutte differenti dalla balena franca che noi cacciamo. Vi si trova il "rightwhale", un cetaceo molto grande e che è privo della pinna natatoia; l'"hump-back" con due pinne biancastre e che è grosso come una balenottera, infine il "finback", d'una tinta bronzina, di una irrequietezza straordinaria e assai rumoroso. - E tutti danno olio? - Tutti, Koninson., - Ah! Vorrei provare il mio rampone anche contro quei giganti. - Lo proverai fiociniere. Se usciamo salvi da questa spedizione, l'anno venturo andremo a pescare nel mari del sud. Il capitano me l'ha promesso. - Quel giorno che metteremo la prua a sud sarà il più bello della mia vita, signor Hostrup. - Lo credo, fiociniere.

Qua e là, immensi crepacci si erano aperti ed in fondo a questi si vedeva il mare alzarsi ed abbassarsi e poi tornare a montare, quasi fosse stanco di quella lunga ed opprimente prigionia. Ogni qual tratto, un "iceberg" mal solido, o scosso dai continui urti di ghiacci minori, capitombolava con un fragore immenso che si ripercuoteva a grandi distanze in quell'atmosfera limpida e secca, o s'apriva improvvisamente, con uno scricchiolìo che si perdeva in lontananza, un largo crepaccio dentro il quale si rovesciavano confusamente colonne, cupole e piramidi che tosto scomparivano sotto lo spumeggiante oceano. Altre volte invece, una vera montagna di ghiaccio, sfondando col proprio peso il banco, scompariva e poi riappariva con un salto immenso lanciando, in mezzo ai ghiacci che l'attorniavano, degli enormi sprazzi di acqua che correvano in tutte le direzioni, formando qua e là dei torrenti e dei laghetti ove calavano subito a bagnarsi, gettando strida gioconde, bande di uccelli marini. - È pur sempre bello questo strano spettacolo che solamente qui si può ammirare - disse il tenente. - Bello sì, ma io vorrei esserne ben lontano - disse Koninson. - Vivessi mille anni mi ricorderò sempre di questa disgraziata campagna. - Non parliamone, amico mio, e partiamo. - Avete ragione, signor Hostrup. È meglio lasciar dormire i tristi ricordi e mettere la prua verso sud. Animo, Koninson, se vuoi salvare la pelle. Il fiociniere e il tenente, dato un ultimo sguardo all'oceano polare, si attaccarono alla slitta a cui avevano legato delle corde e si misero animosamente in marcia cercando di mantenere una via, più che era possibile, retta. La grossa crosta di ghiaccio che ancora copriva la terra, si prestava assai allo scivolamento del veicolo, ma le frequenti screpolature, manifestatesi qua e là, e di cui talune raggiungevano qualche metro di larghezza, i frequenti incontri di strati di neve non ancor ben solidificata o in via di scioglimento, entro i quali i due balenieri sprofondavano fino alle anche, e talvolta anche più, rallentavano e rendevano penoso il cammino. Ma la tenacia del tenente e la robustezza di Koninson la vinsero sugli ostacoli, ed a mezzogiorno la slitta si trovava già nella valle che menava direttamente ai monti. Colà si trovava ancora il bue muschiato ucciso il giorno innanzi, ma ridotto ormai uno scheletro dai denti degli affamati lupi. Fecero una breve fermata onde mangiare un boccone, indi ripresero il faticoso cammino, reso ancor più difficile dal notevole innalzarsi del terreno e dall'incontro di enormi lastre di ghiaccio staccatesi senza dubbio da qualche vicino ghiacciaio e scivolate fin là. La valle era deserta e selvaggia. A destra e a sinistra, bizzarre roccie di natura granitica, come lo sono tutte quelle che si incontrano in quelle gelate regioni, rivestite di neve e di ghiaccio, s'alzavano capricciosamente frastagliate e per lo più coi fianchi così ripidi da rendere impossibile una scalata. Qua e là gran numero di massi enormi coprivano il terreno e disposti in così strana guisa che parevano scagliati da qualche improvviso scoppio di uria poderosa mina ed in mezzo a quelli, piccole piante, magri licheni, mezzi divorati dai buoi muschiati o dalle renne, ranuncoli, sassifraghe e graminacee. Non un animale, non un uccello si scorgevano in quella brutta valle e regnava un silenzio profondo, triste, che faceva una strana impressione. - Che brutto luogo! - disse Koninson. - Si direbbe che stiamo per attraversare un cimitero. Ma dove si sono cacciati i lupi e i buoi muschiati? - Non lo so meglio di te - rispose il tenente. - Ma, se devo dirti il vero, non mi trovo bene in questa valle. - E perchè? Temete qualche cosa? - Forse, Koninson; ma andiamo innanzi. Continuarono ad avanzare, salendo sempre e raddoppiando gli sforzi, senza incontrare nè un lupo, nè una volpe, animali questi che si vedono dappertutto in quelle lontane regioni. Il tenente, man mano che procedeva, diventava più inquieto; l'assenza di quegli animali, anzichè tranquillizzarlo, lo rendeva pensieroso. Erano già giunti a due soli chilometri da un'alta montagna, i cui fianchi, coperti da immensi ghiacci tramandavano, sotto i riflessi del sole, una luce acciecante, quando il tenente si arrestò improvvisamente afferrando le braccia di Koninson. - Ascolta! - disse. Lassù, verso la montagna, si udiva uno strano rumore; pareva che si staccasse o si fendessse del ghiaccio e che poi scivolasse producendo dei lunghi fischi. - Cosa succede? - chiese Koninson. - Non v'è più dubbio, ci troviamo dinanzi ad un grande ghiacciaio - rispose il tenente. - E così? - Questi scricchiolii e queste sorde detonazioni indicano la imminente caduta dei ghiacci. Stiamo in guardia, Koninson. - Volete che pieghiamo verso est? - Credo che sarà meglio per noi. Piegarono a destra e si cacciarono dietro una lunga linea di roccie che potevano ripararli. Era tempo! Tutt'a un tratto, sulla montagna che giganteggiava dinanzi a loro, s'udirono spaventevoli detonazioni seguite da lunghi fischi e dall'alto si videro scivolare con straordinaria rapidità degli immensi blocchi di ghiaccio i quali, rovesciando e polverizzando gli innumerevoli "hummoks" formati dalla neve, si scagliavano attraverso alla valle come altrettanti treni diretti, alcuni filando verso nord in direzione del mare ed altri spaccandosi contro le roccie che nell'urto perdevano tutto il loro rivestimento invernale. A quella prima discesa ne tenne dietro una seconda, poi una terza, una quarta, una quinta ad intervalli di pochi minuti, empiendo l'aria di mille fragori e la valle di massi di ghiaccio. I due balenieri, riparati dalle roccie che si dirigevano verso est senza interruzioni, camminavano rapidamente per tema che altri ghiacci, passando sopra ai caduti, non finissero col sorpassare la linea che li proteggeva e che non era molto alta. Di quando in quando, dei massi di ghiaccio, rimbalzando a grande altezza, cadevano al di là delle roccie ed uno per poco non sfracellò la testa a Koninson. - Presto, presto, - ripeteva il tenente, facendo sforzi sovrumani, - o prima di domani nessuno di noi sarà vivo. - Dannata regione! - borbottava Koninson, che malgrado il freddo cominciava a sudare. - In mare i ghiacci stritolano le navi e in terra mirano le costole degli uomini! Spronati dal continuo capitombolare dei massi e dalle detonazioni che crescevano d'intensità annunciando altre e più pericolose cadute, verso le otto della sera, affranti, affamati, giungevano dinanzi ad una seconda montagna più bassa, meno irta e i cui fianchi non offrivano alla vista alcun ghiacciaio. - Alt! - disse il tenente. - Accampiamoci qui. - Saremo sicuri? - Lo credo, Koninson; però dormiremo con un solo occhio.

Le colonne di fuoco continuavano ad innalzarsi ed abbassarsi con le contrazioni dei serpenti, cambiando di frequente tinta che variava dal bianco trasparente al giallo e al rosso ardente e formando delle nebulosità abbaglianti. Poi, a poco a poco, s'innalzò un arco immenso, brillante, il quale sollevando tutti quegli sprazzi di luce variopinta balzò da est ad ovest per poi ritornare, con altro brusco e più rapido salto, ad est. Il fenomeno era allora nel suo pieno splendore. I raggi che si alzavano sul grand'arco, gli uni sottilissimi e gli altri grossi, rossi alla base, verdastri nel mezzo e biancastri all'estremità, si spingevano sino alla testa dell'Orsa Maggiore, formando una specie di cupola di una bellezza incomparabile. I campi di ghiaccio, gli "icebergs", gli "hummocks", le piramidi, i coni, le colonne parevano tutti in fiamme e riflettendo quei vigorosi bagliori illuminavano la regione polare fino agli estremi confini. Ben presto però l'immenso arco fu visto ondeggiare come se fosse stato scosso da un impetuosissimo colpo di vento, formando immense pieghe in senso orizzontale e ben presto sull'orizzonte più non si vide che un ammasso di luce la cui intensità era tale che i due naufraghi furono costretti a difendersi gli occhi colle mani. - Si direbbe che tutto il polo è in fiamme! - disse Koninson, che non parlava più di rientrare nella capanna. - È uno spettacolo che non si è mai stanchi di vedere, e che non si è mai osservato abbastanza bene. - È vero, fiociniere! - rispose il tenente. - Pare di assistere sempre ad un fenomeno nuovo. - Sapreste dirmi, signor Hostrup, da cosa deriva? - Hum, è un po' difficile saperlo, mio caro fiociniere, poichè gli scienziati non sono ancora d'accordo, su ciò. Pare che sia causato da un accumulamento di elettricità e per mio conto credo che sia l'ipotesi migliore e più giusta, considerati i pochi uragani e l'estrema siccità dell'aria che s'oppone alla sua dispersione. - È vero, signor Hostrup, che l'aurora altera le bussole? - Verissimo, Koninson, e non solo quando esse sono in vista della luce, ma anche quando si trovano lontane dal cerchio luminoso, il che fa supporre che le aurore boreali siano in relazione col magnetismo. - E sono sempre uguali queste aurore? - Se ne sono osservate di quelle strane. Mairan ne vide una nel 1726 trovandosi a Breville-Ponte, che era formata da un gigantesco segmento nero traforato regolarmente da punti luminosi. - Questi fenomeni sono però molto frequenti. - Secondo gli anni. Lotten, che fece parte della spedizione d'Islanda per studiare i fenomeni della regione polare, nell'osservatorio da lui stabilito a Bossekop ove rimase otto mesi negli anni 1838-39, ne vide ben 143 in 206 giorni e le più frequenti fra il 17 novembre e il 25 gennaio. - Speriamo di vederne molte anche noi. - Ne vedremo, Koninson. Intanto l'aurora continuava le sue oscillazioni e i suoi bruschi salti, ora scemando di proporzioni ed ora ingigantendo. Tre ore durò, poi nuovi raggi apparvero, fra cui uno biancastro altissimo, indi ricominciò ad ondeggiare, a indebolirsi e finì con lo sfasciarsi e scomparire. Le tenebre, ripreso il loro impero, tornarono a distendersi sui campi di ghiaccio e sull'orizzonte, poco prima infuocato, non rimasero a brillare che gli astri.

I PREDONI DEL SAHARA

682427
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il sardo però, che stava attento alle mosse degli assedianti, aveva avuto il tempo di abbassarsi, sicché le palle non fecero altro che scrostare la cima del parapetto. "Anche se non hanno polvere inglese, non tirano mica male," brontolò il sardo. "È meglio scendere e riempire la pentola." Scese poi la scala a precipizio, mentre una seconda grandine di palle cadeva sibilando sulla terrazza. "Pare che ora l'abbiano più con te che con questo signore," disse il marchese. "Sono male armati, caro il mio Rocco. Hanno certi moschettoni, che fanno più fracasso che danno." "E qui, come la va?" domandò all'ebreo. "Sono fuggiti." "Sfido io! Dopo quel caffè!" "Nondimeno mi pare che altri tornino alla carica," osservò l'ebreo. "E noi saremo pronti a riceverli, signor ... " "Ben Nartico," rispose l'ebreo. "Si direbbe dal nome che siete mezzo arabo e mezzo spagnuolo." "Può essere, signor ... " "Marchese di Sartena." "Un corso, forse?" chiese l'ebreo. "Sì, signor Nartico. Un isolano al pari del mio fedele Rocco il quale invece è sardo." "Ecco là i marocchini, li vedete? ... Per bacco! ... giungono a passi di lupo. Alto là! ... Qui ci siamo noi!" Due colpi di rivoltella accompagnarono quelle parole, seguiti dai due colpi di pistola dell'ebreo. "Tira bene l'israelita," mormorò Rocco, vedendo uno degli assalitori girare su se stesso e piombare a terra. A quei due colpi di rivoltella e di pistola rispose però un nutrito fuoco di fucileria che fece balzare indietro i tre assediati. I marocchini avevano cominciato la battaglia sul serio. Le palle fischiavano attraverso la porta schiacciandosi contro le pareti e staccando larghi pezzi di calce, si cacciavano, con sordo rumore, nel pancone di legno crepandolo. Essi avanzavano a masse compatte, incoraggiandosi con urla feroci, risoluti questa volta ad opprimere i tre kafir che osavano sfidare una intera popolazione. "Signor di Sartena," disse l'ebreo, "sta per suonare la nostra ultima ora." "Ho ancora tre palle," rispose freddamente il gentiluomo. "Ed io ho le mie cariche intatte," aggiunse Rocco. "La vita di otto uomini." "E le mie braccia non le contate, marchese? Valgono qualche cosa." "Ma vi sono almeno mille uomini sulla piazza," disse l'ebreo. "Avete un pugnale?" "E me ne servirò, signore, non dubitate." "Abbiamo già un bel numero e ... Toh! Cos'è questo fracasso? Si direbbe che la cavalleria carichi sulla piazza." Fra le urla della folla si udivano distintamente dei nitriti di cavallo, un fragor di zampe ferrate che percuotevano le pietre e grida di: "Balak! ... Balak! ... [largo! ... largo! ... ]" "Pare che ci giungano dei soccorsi," disse Rocco, il quale guardava fuori. "Vedo la folla che si precipita a destra e a manca e scorgo dei cavalieri." "Che quel brav'uomo di governatore si sia finalmente deciso a non lasciarci scannare?" disse il marchese. "Giunge un pò in ritardo, però ancora a tempo per salvare la pelle nostra e anche quella dei suoi amministrati. M'immagino la scena che ci farà." "Con una buona borsa d'oro si calmerà subito, signore," disse Ben Nartico. "Se mi permettete gliela offrirò a vostro nome." "Un favore che non rifiuterò, perché in questo momento non ho più un luigi in tasca. Più tardi vi rimborseremo." "Oh! Signor marchese!" esclamò Ben Nartico. "Tocca a me pagare e vi sarò per sempre riconoscente." "Ecco un ebreo che è un pò diverso dagli altri," mormorò Rocco. "Deve essere un buon ragazzo." Intanto, i cavalieri, dopo aver respinto brutalmente la folla adoperando le aste delle lance, si erano fermati di fronte al caffè. Erano una trentina, tutti di alta statura e neri come carboni, giacché le migliori truppe vengono reclutate fra i negri dell'interno, importati prima come schiavi, uomini coraggiosi e fidati che non esitano a dare addosso ai mori, agli arabi ed agli ebrei che formano la maggioranza della popolazione marocchina. Indossavano tutti degli ampi caffettani, azzurri o rossi, cappe bianche e fez a punta ed avevano le gambe nude ed i piedi chiusi in babbucce di cuoio giallo, armate di speroni a due punte di ferro, molto lunghe. Montavano cavalli piccoli, cogli occhi ardenti, la fronte un pò schiacciata, la testa bellissima ed il ventre stretto, animali impareggiabili che corrono come il vento, che resistono alle fatiche e alla sete e che volteggiano con una rapidità ed agilità veramente straordinarie, quantunque portino una sella altissima e assai pesante. Precedeva il drappello un uomo d'aspetto maestoso, dalla tinta molto bruna, con una barba imponente, un turbante bianco, cappa azzurra ricamata in oro, calzoncini rossi, stivali di cuoio giallo ed un caic bellissimo, di stoffa trasparente. "Il governatore!" esclamò il marchese, il quale aveva subito riconosciuto quel superbo cavaliere. "Ben gentile, l'amico! ... " "O troppo pauroso?" disse Rocco. "Scommetterei che ha creduto di vedere le corazzate francesi ed italiane navigare sulle sabbie del deserto." "Per venire a bombardare la sua città," aggiunse il marchese. Il colosso in tre colpi abbatté la barricata e intanto il governatore era giunto dinanzi alla porta. Questi, vedendo uscire il marchese colla rivoltella ancora in mano, corrugò la fronte e fece indietreggiare vivamente il suo cavallo. "Non temete, Eccellenza," disse il corso. "Quali imprudenze avete commesso per scatenare contro di voi tutta la popolazione? Voi avete dimenticato di essere uno straniero e anche un cristiano," disse il governatore, con accento severo. "Datene la colpa ai vostri amministrati, Eccellenza," rispose il marchese, fingendosi in collera. "Come? Non si può passeggiare per le vie di Tafilelt forse? In Francia ed in Italia questa libertà non è negata a nessuno straniero, sia pure anche un marocchino." "Voi avete ucciso dei sudditi del sultano." "Dovevo lasciar uccidere i miei servi? ... " "Mi hanno detto che non si trattava d'uno dei vostri servi bensì d'un immondo ebreo." "Quello che voi chiamate, con poco rispetto, un immondo ebreo era un mio servo, Eccellenza." "Voi avevate un israelita ai vostri servigi?" chiese il governatore, stupito. "Perché non me lo avete detto? L'avrei fatto rispettare, non amando il sultano avere fastidi colle potenze europee." "Credevo che non fosse necessario dirvelo." "Così vi siete messo in certi impicci che possono avere conseguenze gravi. I miei concittadini sono furibondi e reclamano giustizia. Volete un consiglio? Consegnate loro l'ebreo e lasciate che lo appicchino." "Non ho l'abitudine di lasciar trucidare i miei servi senza difenderli e mi vedrei costretto ad impegnare la lotta contro i vostri concittadini." "Uno contro mille! ... Vi ucciderebbero subito." "E la Francia più tardi vendicherebbe la mia morte come l'Italia vendicherebbe quella del mio compagno." Udendo quelle parole, la fronte del governatore si era oscurata. "Ah, no!" disse. "Non voglio complicazioni diplomatiche che potrebbero condurre ad una guerra disastrosa per noi ... Se non volete consegnare l'ebreo, almeno affrettate la vostra partenza; io non posso rispondere sempre della vostra vita." "Fatemi preparare la carovana ed io me ne vado." "Badate, il gran deserto è pericoloso e qualcuno potrebbe seguirvi." "Mi difenderò." "Venite con me, ora. Questa sera partirete." "Volete condurmi al vostro palazzo?" "È l'unico luogo ove potrete essere al sicuro. Mettetevi in mezzo alla mia scorta assieme ai vostri compagni." "Come arrestati? ... " "Lasciate che dia alla folla questa piccola soddisfazione. Avrete tutto da guadagnare." "Sia pure," disse il marchese. "Rocco, Nartico, andiamo e non lasciate le armi. Non c'è da fidarsi." "E mia sorella?" gli chiese l'israelita. "Ah! ... diamine! ... Mi dimenticavo che voi avete una sorella. Bah! ... Troveremo un mezzo per farla avvertire che voi siete salvo. Per ora accontentatevi di essere ancora vivo."

Eva

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Verga, Giovanni 1 occorrenze

Provavo mostruosi desiderii, e invidie, e scoramenti, e alterezze per la mia arte che sentivo abbassarsi sino ai miei desiderii, e pel mio ingegno che mi pareva si elevasse sino a guardarla a faccia a faccia; e in fondo a tutto questo un amaro rammarico di trovarmi in quel meschino posto di platea e senza guanti. Poi tutta quella visione scomparve in un lampo di luce e in un'onda di musica. Tutto tornò bujo. Rimasi ancora come sognando, con quei suoni negli orecchi e quelle larve davanti agli occhi. Mi alzai quando gli altri si alzavano; uscii barcollando, urtando nel vestibolo tante belle signore, e calpestando tante code, rischiando venti volte di gettarmi sotto i piedi dei cavalli in istrada. Quella notte non potei dormire; mi sentivo come se avessi tutti i nervi agitati; avevo bisogno di sfogarmi in qualche modo delle mie impressioni, e giacché mi parve che il pennello non avrebbe potuto esprimerle tutte, mi misi a scrivere un vero delirio, un sogno da febbricitante, però senza pretese, e senza altro scopo che quello di accendere il fuoco quando avrei avuto freddo. Ahimè! la stagione era mite; il caldo del cuore durava ancora troppo per lasciare sentire il freddo alle membra, - ecco perché quello scritto che non raggiunse il suo scopo di comunicare la fiamma alle fascine del caminetto arse il mio cuore e consunse la mia vita. *** Un mio amico, appendicista molto conosciuto, veniva spesso a trovarmi - eravamo giovani, artisti entusiasti, matti del pari - noi fumavamo spesso la pipa insieme, e digerivamo la gloria di là da venire. Il mio cuore, o piuttosto la mia immaginazione, aveva bisogno di espandersi; gli parlai delle impressioni ricevute con tanto calore che egli volle leggere il mio scritto e lo trovò bello. "Dammelo," mi disse "voglio farti amare da quella donna." "Eh?!" risposi come sbalordito da quell'enormità. "Che ci trovi d'impossibile? La donna è così vana! e la ballerina ha tanto bisogno di simili entusiasmi che le facciano la réclame e si comunichino agli altri!" "Oh! amarmi! lei ... amar me!... sei matto!" "Chi lo sa! E poi mi renderai un servigio; mi risparmierai buona parte dell'appendice teatrale che dovrei scrivere. Il tuo articolo è proprio bello; me ne farò onore." E lo portò via diffatti, e la sera dopo trovai in camera il giornale ed una letterina del mio amico. " Non te l'avevo detto? " mi scriveva, " il tuo articolo ha fatto furore l'Eva desidera conoscerti. Stasera trovati in teatro, ti presenterò. " Provai come una fitta al cuore. Presentarmi a lei!... io!... così fatto!... a quella bellezza circondata da tante seduzioni, da tanti splendori, che non avea nulla di terreno!... proprio io!... E in me successe una lotta di mille pensieri diversi, e l'intima soddisfazione ch'ella avesse letto il mio articolo, avesse scorto una parte del mio cuore, e ne fosse lieta ... e la ripugnanza di svelare al pubblico e a lei stessa il segreto delle mie impressioni, e il timore che esse fossero giudicate ridicole ... Se ella mi trovasse ridicolo?... Non ebbi neanche un istante il coraggio di pensare ad accettare quell'invito. Eppure ero felice, tutto solo nella mia cameretta, fantasticando cogli occhi fissi sulla fiamma del caminetto. A un tratto fu suonato il campanello con violenza; io mi scossi bruscamente. Udii nell'andito la voce di Giorgio. "E così," mi disse entrando, "che cosa fai? Non hai ricevuto il mio biglietto?" "Si, ma ..." "O dunque?" "Ma non verrò ... Non posso venire ..." "Eh! che diavolo! Ora che ho promesso di presentarti! Che figura mi fai fare?" "Ma capisci ..." "Capisco che sei di una timidità ridicola." Così la paura di un ridicolo scacciò l'altra, e mi lasciai condurre. Alla porta del teatro sentii rinascere più vive che mai le ultime esitazioni, e le misi fuori risolutamente; egli le respinse senza ammettere replica e mi prese pel braccio. Infilammo alcuni corridoj poco illuminati, e ci trovammo quasi improvvisamente in mezzo ad un caos di ordegni, di assi, di tele dipinte, di scale; tutto polveroso, unto, sudicio, dove stavano a chiacchierare alcuni macchinisti in maniche di camicia, e un pompiere faceva la corte ad una figurante lercia, seduta a cavalcioni su di una seggiola zoppa, - era il rovescio di quel paradiso di tela dipinta e di fiori di carta. Di fuori risuonavano applausi fragorosi che soverchiavano la musica da ballo. Tutt'a un tratto, dalle quinte, entrò correndo un leggiadro folletto, tutto involto in una nube di veli, e rialzando la gonnellina appoggiò il piede su di uno sgabello per allacciare meglio uno degli scarpini. "È lei," mi disse Giorgio; "vieni." Essa levò il capo, ancora tutta rossa e anelante dalla fatica, ci vide e ci sorrise. - Ahimè! un sorriso stanco, distratto, reso sgarbato dalla respirazione accelerata; i capelli le cadevano sul petto senz'arte; alcune stille di sudore rigavano il suo belletto; le sue candide braccia, vedute così da vicino, avevano per la fatica certe macchie rossastre, e nello stringere i legaccioli vi si rivelavano i muscoli che ne alteravano la delicata morbidezza; le scapule si ravvicinavano sgarbatamente, fin la suola del suo scarpino era insudiciata dalla polvere del palcoscenico. Ti parlo da pittore; ma anche da pittore ne avevo ricevuto la prima impressione. Era la silfide dietro la scena, nel suo momento di prosa, in cui non ha bisogno di esser bella, e non si cura di esserlo. Ora è impossibile esprimerti l'effetto che tutto ciò dovea fare sulla squisita e mobilissima sensibilità mia. La farfalla tornava bruco, ed io ne risentivo un dispetto ed una amarezza indicibili. "Ah, il signore!..." mi diss'ella sorridendo fra un nodo e l'altro. "Le son molto riconoscente del suo articolo." E siccome io non rispondevo, il mio amico stimò conveniente di dire qualche cosa per conto mio; ella si rizzò, tutta rossa, ancora anelante, ed aggiustando i suoi capelli e le pieghe del suo gonnellino, mi affissava coi suoi grand'occhi - erano tutt'altri occhi di quelli lampeggianti ebbrezze e seduzioni mentite che avevano sconvolto la mia ragione; ma ci era un'aria d'insistente e quasi ingenua curiosità ch'era stranissima. "Rientro in iscena," disse vivamente e stendendoci le due mani nell'istesso tempo. "Mi rincresce non potermi fermare più a lungo. Ma spero che il signore vorrà farmi il piacere di venirmi a trovare ..." Ci sorrise e con vivacità piena di grazia spinse all'indietro colle due mani quel fiocco di velo che formava il suo gonnellino; riprese come una maschera il suo sorriso e disparve. Rimanevo tristamente là dov'erano svanite le mie illusioni. "Che te ne sembra?" domandò Giorgio. "In fede mia ... non valeva proprio la pena di venir qui a sciupare i bei frutti delle mie tre lire!" "Che bel matto! Avresti voluto essere accolto con una piroetta? E credi forse che la prima ballerina della Pergola non debba far altro che sorrisi convenzionali e gesti aggraziati? Puoi essere ben contento, giacché ti ha invitato ad andarla a trovare ..." "Oh, grazie!" "Saresti capace di non andarci!" "Tanto capace che non ci andrò." "Eh, via! cotesto si chiama viver nelle nuvole!..." "Lasciami pure le mie nuvole così belle, perché tutto il resto è così brutto!" "Amen!" rispose Giorgio in tono derisorio; "non te le invidierò, di certo!" *** "Anzi," avevo detto a Giorgio un altro giorno, "voglio tornare a vederla, cotesta sirena che abbaglia la ragione collo scintillare delle sue pagliuzze dorate, e che irrita i sensi colle sue vesti vaporose, che getta la febbre nel sangue, e fa scrivere appendici ridicole. Voglio ridere di me anch'io, giacché ne hanno riso gli altri, e lei per la prima." "Si direbbe che nella tua ironia c'è molta amarezza!" "No! c'è del dispetto!... C'è il dispetto di aver visto il mio cuore ginocchioni davanti a cotesta dea che si allaccia le scarpe come l'ultima donnicciuola ..." Giorgio quest'altra volta era accanto a me, in teatro, e guardava cogli occhi spalancati quella donna circondata dagli stessi splendori, e irradiante le medesime ebbrezze, e quasi volesse rispondermi colla sua ammirazione indignata dal mio sarcasmo, esclamava, come fra di sè: "Perdio!... com'è bella! perdio!..." "Oh! sì! sì! gli risposi, ed è qualcosa che irrita, che fa dispetto, questa bellezza alla cui presenza il cuore si contorce come di spasimo e la ragione diventa vigliacca, cotesta profanazione del bello che, sorridente e non curante, calpesta colle sue scarpine di raso tutto quello che abbiamo creduto puro e santo - la donna, l'amore, l'ideale. - Vedi, essa mi ha messo la febbre nel sangue, ed io mi sento come schiaffeggiato." "Mio caro" esclamò Giorgio uscendo fuori dei gangheri "qualche volta io credo che tutte le nostre creazioni rachitiche non valgano un capello della schietta e reale bellezza fisica." "Ah! sì, per esempio cotesta vale tre lire." "Oh!" "Sì, ella vende per tre lire le sue spalle, il suo seno, le menzogne dei suoi sguardi, i baci del suo sorriso, il suo pudore, per tre lire, a me, a te, a quel grasso signore che la guarda con l'occhio imbambolato dal vino, a quel giovane che le getta in faccia i suoi sozzi desideri con esclamazioni da trivio, a quell'elegante annoiato che fissa su lei il suo cannocchiale distratto dal fondo del suo palchetto, a quella signora che non si fa pagare la sua seminudità, ma che la guarda con disprezzo - tutto ciò non vale che tre lire; - ella ebbra, procace, in mezzo a gente che ha la testa a segno, e qualche volta il sorriso o la curiosità insultante!... Nelle medesime condizioni la cortigiana ha su di lei il vantaggio di aver di faccia un uomo abietto e ridicolo del pari." "Ella ha udito tutto quello che hai detto di lei!" rispose ridendo Giorgio che da qualche istante non mi dava più retta. Io trasalii, -spiegamene tu il motivo, se puoi. "Davvero?" esclamai come se fosse stato possibile. "Sì. Non vedi come ci guarda?" Allora mi accorsi che anche la mia sorpresa e la mia credulità erano ridicole, e giacché mi sentivo umiliato, senza sapere il perché, ammutolii. Giorgio era partito prima di me. Quando fui per uscire mi si avvicinò un inserviente del teatro e mi porse un biglietto. "A me?" esclamai sorpreso. "Sissignore, mi fu ben indicato." "Da chi?" "Dalla signora Eva." "Eh?!..." "Che l'aspetti nel vestibolo. Verrà fra mezz'ora." La mia sorpresa era tale che non potei metter fuori una sola delle interrogazioni che mi si affollavano in mente. Apersi il biglietto e lessi: " Non siete venuto: perché? Se volete accompagnarmi dopo il ballo, aspettatemi nel vestibolo. " Rimanevo come sbalordito dalla sorpresa, leggendo e rileggendo quelle due o tre righe, sentendomi serpeggiare fiamme ignote per le vene, provando improvvisi ed inesplicabili turbamenti. Gli spettatori, gli artisti, gli impiegati del teatro erano tutti partiti gli uni dopo gli altri; i lumi erano stati spenti; non rimaneva che qualche fiammella di gas pei corridoj, e il lampione di un fiacre che si riverberava sull'invetriata del vestibolo. Avrai osservato come in certi momenti eccezionali un oggetto insignificante assorbisca tutta la nostra attenzione e s'inchiodi nel nostro cervello. - Quel lume che brillava al di fuori esercitava una specie di fascino sui miei occhi, e sembrava mi penetrasse sino al cuore con un raggio di fuoco. Non sapevo da qual parte ella sarebbe venuta, e al menomo rumore che udivo su per le scale o pei corridoj il sangue mi si rimescolava tutto. Venti volte provai una gran tentazione di scappar via. Avevo paura, ecco! Udii un leggero fruscìo di seta dietro a me. Uscì dall'ombra di un corridojo una donna tutta infagottata nelle sciarpe, nelle pellicce, e col velo sul viso; attraversò con passo leggiero il vestibolo; passò la sua mano sotto il mio braccio, senza dirmi una sola parola; spinse l'usciale, e mentre raccoglieva lo strascico della sua veste per montare in carrozza, mi disse con voce soffocata sotto il cappuccio ed il velo: "Venite." Appena fui seduto al suo fianco calò il cristallo, sporse il viso in fuori, ed ordinò al cocchiere: "Ai colli." Poscia sollevò il cappuccio che le veniva fin sugli occhi, gettò il suo velo all'indietro, e si volse a guardarmi fisamente, coi suoi grandi occhi azzurri spalancati, senza dir motto, con un'aria di curiosità insistente, e quasi fanciullesca. Erasi sdraiata in un angolo del legno, col capo rivolto dalla mia parte; sembrava assai stanca, e faceva scorrere quell'occhio curioso su tutta la mia persona dal capo alle piante. A un tratto si rizzò sulla vita, e mi domandò semplicemente: "Come vi chiamate?" "Enrico Lanti." "Quanti anni avete?" "Venticinque." "Siete da molto tempo in Firenze?" "No, da due mesi." "Ci resterete ancora del tempo?" "Tre o quattro anni." "Io partirò in giugno" mi disse con una lieve tinta d'ingenua malinconia. Aveva la voce sonora, di quella sonorità ch'è dolce come una musica. E s'abbandonò sui cuscini, appoggiò la testa all'indietro e chiuse gli occhi; sembrava che dormisse. La notte era tiepida e rischiarata da un bel lume di luna. Sentivo accanto a me quel respiro lievissimo come quello di una bambina; di quando in quando, a seconda delle svolte che faceva il legno, un raggio di luna passava dallo sportello e gettava dei capricciosi chiaroscuri su quel viso così bianco da sembrare diafano, su cui svolazzavano, pel vento che veniva dal di fuori, alcuni ricci biondi così fini e leggieri che sembravano delle vaporose piccole ombre cinerine. Credevo di sognare. Ero proprio io! dentro quel legnetto! Sotto quel mucchio di velluto e di seta c'era proprio lei! "Perdonatemi" mi disse ella, dopo alcuni minuti di silenzio, senza neanche aprire gli occhi. "Sono molto stanca! E tutte le sere di solito mi riposo così un pochino." E siccome volevo rialzare il cristallo che aveva lasciato aperto, mi disse: "Lasciatelo così. La sera è bella!" "Ma vi farà male." "No, anzi!" Sporse la testa fuori dello sportello e respirò con forza. "Mio Dio, come fa bene!" E rimase immobile, guardando lungamente al di fuori. A un tratto si volse verso di me, e mi disse quasi bruscamente: "Perché non siete venuto a trovarmi?" Ero imbarazzato a rispondere, ed ella seguitò, senza attendere la mia risposta: "Siete poeta?" "No, son pittore." "È lo stesso, siete artista!" mormorò, e mi affissò a lungo coi suoi grand'occhi lucenti; così a lungo che il mio imbarazzo si faceva visibile. "Voi mi avete trovata brutta," esclamò con tutta naturalezza, rompendo improvvisamente quel silenzio che sembravami eterno, benché non durasse da due secondi. "Oh, non mi dite nulla!..." soggiunse con un grazioso movimento del capo; "è così!" E si tacque nuovamente, guardò al di fuori, si passò a più riprese le mani su quei ricci ribelli, e di quando in quando mi affissava sempre con quello sguardo insistente. "Di dove siete?" mi domandò. "Son siciliano." "È assai lontana la Sicilia?" "Sì." "Più lontana di Napoli?" "Sì." "Avete visto il S. Carlo di Napoli?" "No." "Io ci andrò forse in dicembre." Era una conversazione bizzarra, in cui le parole avevano tutt'altro significato di quello letterale, e nell'accento della voce erravano certi suoni che ricercavano le più intime fibre del cuore. "È vero che i siciliani sieno gelosi?" mi domandò dopo qualche istante. "Né più né meno degli altri." "Voi non siete geloso?" "Non lo sono mai stato." "Non avete mai amato?" "No." "Giammai?" "Giammai."Mi affissò alcuni istanti e riprese: "Siete innamorato dell'arte vostra?" "Sì." "Come di una donna?" "Come di una donna." "Come lo sapete se non avete mai provato l'amore della donna?" Parve sorpresa ella stessa della sua scappata, e soggiunse, quasi per non darmi il tempo di rispondere: "Come siete fatti voi altri artisti!" Nuovo silenzio, oscillante di vibrazioni arcane, e pieno di turbamenti misteriosi. "Ho conosciuto molta gente, ma non un artista"; diss'ella. "Dicono che sono così matti! Vi ho guardato con curiosità per questo. Ve ne siete accorto?" "Sì." "Ma non ho visto nulla! Vi credo troppo superbi per lasciarvi scorgere ... Avrei una grande curiosità di leggervi in cuore le vostre stranezze. Vi guardo quasi come un animale curioso." E rideva schietta, ingenua, scoprendo i suoi piccoli denti, bianchi e lucidi. "Quasi vi faccio paura?" le dissi ridendo. "No!... no!..." rispose stringendomi la mano. "Siete stato così buono verso di me!" Sembrò esitare qualche istante, e all'improvviso mi disse con vivacità: "Ditemelo francamente: voi altri non vi montate la testa da per voi quando pensate tante belle cose di una donna?" "No." "Davvero?" "Davvero." "Ah, com'è bello quello che avete scritto di me!" esclamò battendo le mani con aria infantile. "M'ha fatto tanto piacere!" La sua vanità era così sincera, così ingenua, direi, ch'era quasi commovente. Abbandonava fra le mie la sua mano senza guanto, quella piccola mano affilata, tiepida, colla pelle fine come il raso. "Che sciocca sono stata a farmi vedere da voi tra le scene!" soggiunse. "Non me lo sono mai perdonato! La colpa è mia. Vi ho letto in cuore come su di un libro aperto ..." Mi strinse la mano, per proibirmi di rispondere; mise la testa fuori lo sportello e soggiunse come parlando a se stessa: "Rincresce davvero l'aver sciupate certe illusioni ... Anche delle illusioni!..." "Guardate!" esclamò con infantile vivacità poco dopo, tirandomi per la mano. "Guardate com'è bello!" Misi anch'io la testa fuori dello sportello. Il legno correva pei deliziosi viali dei colli. L'alito di lei mi sfiorò il viso, e un brusco movimento della carrozza spinse il suo volto sul mio. "Oh!" esclamò sorridendo e arrossendo, e buttandosi vivamente indietro. "Che bella sera! Vogliamo scendere?" Saltò a terra leggiera come un uccelletto, e siccome la notte era freddina, si strinse al mio braccio. "Che bel freddo!" esclamò ridendo e rabbrividendo con tanta grazia che mi comunicò il brivido delle sue membra. "Corriamo!" E corremmo come due fanciulli, ella posando appena i suoi piedini sul suolo, compiacendosi del fruscio della sua veste, e tirandosi sul viso il mantello che il vento gonfiava. "Oh, com'è bello!" esclamava quando non tremava dal freddo. "Oh! che bella sera!" Quando fummo di nuovo in carrozza ella chiuse tutti i cristalli, e si rannicchiò in un angolo del legno tremando e ridendo a sbalzi: "Accostatevi di più" mi disse; "ho freddo." Le misi un cuscino sotto i piedi, e il paletò sui ginocchi. "Ma voi avrete freddo!" diss'ella. "Facciamo a metà." Tirò indietro i suoi piedini, e gettò sulle mie spalle metà del suo mantello di velluto. "Eccovi metà del manicotto," soggiunse."Avete le mani gelate! Che piccole mani che avete, signore!" E poscia con un sospiro tutto gaio: "Ah come si sta bene così!" Sentivo il suo corpicino delicato, tremante, raggomitolato in un cantuccio, e che mi mandava sul viso il suo alito tiepido e profumato. "Che avete che non parlate?" mi disse dopo un breve silenzio. "Nulla." "Siete contento di questa passeggiata?" "Sì." "Anch'io!" esclamò, e un istante dopo, con quella sua bizzarra mobilità di pensiero: "Fate anche dei ritratti?" "Sì." "Volete fare il mio?" "Sì" "Mi farete bella?" "Come siete." "Vi piaccio?" "Assai!" "Anche voi mi piacete." Tutto ciò con tal franchezza e tal semplicità come se fossimo fratello e sorella, o forse la cosa più naturale di questo mondo. "Ebbene, che fate adesso?" mi disse vedendomi sedere di faccia a lei. "Ho bisogno di guardarvi in faccia!..." Ella sorrise dolcemente, con quello stesso sorriso di piena e schietta ingenuità, piegò la testa all'indietro, socchiuse gli occhi, schiuse le labbra senza far motto. E piovvero da tutta la sua persona su di me le sue emanazioni inebbrianti. Poscia scoppiò a ridere allegramente: "Oh! che matti! che matti!... ma pure è una gran felicità esser matti di tanto in tanto!... Quanta noia in tutto il resto!" "Anche il teatro?" domandai. "Oh, soprattutto il teatro." "Allora perché non lo lasciate?" Ella mi guardò sorpresa, con quei suoi grand'occhi spalancati da bambina, e mi disse ingenuamente: "Ma è il mio mestiere, signore!" "Ah!" "E poi ci sono anche dei bei momenti." "Gli applausi?" "Sì ... in mezzo a tutti quei lumi, e quella musica, e quegli entusiasmi ... e si sente bella ..." "Si sente?" "Sì, proprio! Da principio anche cotesto fa una certa paura ... a trovarsi così bella e così poco vestita sotto tutti quegli occhialetti che luccicano ... È qualcosa che fa piacere e fa soffrire. Poscia quei sorrisi, quegli occhi, quelle grida, quelle mani inguantate che si sporgono fuori dei palchi, montano alla testa come una febbre ... E poi c'è anche una grande soddisfazione d'amor proprio." "Quale?" "Quelle di sentirci dire da tanti signori eleganti che siamo più belle di quelle gran dame superbe che ci guardano sdegnosamente come cagnolini ammaestrati." "Ah! le visite sul palcoscenico?" "Sì, e anche in casa." "Vi piacciono?" "Sì, ce ne sono di quelle che piacciono" Diceva tutto questo guardandomi tranquillamente negli occhi, con una grand'aria di semplicità e di naturalezza. "Che cosa avete che non dite più nulla?" "Proprio nulla." "Vi dispiace che vi abbia detto queste cose?" "Oh, no!" "Poiché fra le visite che mi piacciono c'è anche la vostra. È vero che non me ne avete fatte, ma me ne farete." "Oh, no." "Come no?! Perché?" Ella aspettò lungamente la mia risposta, e riprese con la voce dolce ed il fare insinuante di un bambino che teme di aver torto: "Ma se chiudo la porta in faccia a tutti quei signori sarò fischiata ... E allora a voi per primo non sembrerò più bella ..." C'era una sincerità, tale accento di verità nella sua voce, che non seppi che cosa rispondere a quell'osservazione di cui la cruda verità mi spezzava il cuore. Anche lei s'era fatta pensosa, e teneva il capo chino fra le mani. La carrozza si fermò. Essa mise fuori il capo dallo sportello e mormorò: "Diggià!" "Volete tirare il campanello del primo piano?" mi disse. Al primo piano c'erano le finestre illuminate. "C'è gente da voi!" "Sì," mi rispose semplicemente e prese la mia mano. Si era fatta improvvisamente triste. Erano le due del mattino; la carrozza era partita; la strada era deserta e vivamente rischiarata dalla luna. Eravamo soli, davanti a quella porta, come un commesso ed una sartina che fanno all'amore di nascosto. "Verrete a trovami?" domandò. "Forse." "Perché forse? Non potete promettermelo?" "Temerei di mancare." "Ah! temete diggià di mancare!" Mi scosse la mano, dopo un breve silenzio, e ripeté con voce quasi supplichevole: "Venite a trovarmi!" "Verrò." "Ah! bravo così! Domani?" "Domani." "Verrete a prendermi dopo il ballo?" "Se lo volete ..." "Ma non lo voglio! Mi fareste un piacere, ecco!" "Ebbene, sì!" "Arrivederci, dunque." E scomparve nell'andito. Avevo fatto una ventina di passi quando udii che mi chiamava per nome. Era la prima volta che udivo il mio nome in bocca sua, e mi parve che mi mescolasse tutto il sangue. Mi volsi - era ancora sulla soglia - e la luna l'irradiava tutta. "Dove abitate?" mi domandò semplicemente. "In Santo Spirito." E le dissi anche il numero. "Che piano?" "Il terzo, l'ultimo." "Buona sera!" e stavolta partì davvero. *** Rimanevo estatico, come inchiodato davanti a quella porta, respirando l'aria fredda della notte a pieni polmoni. Sentivo un'esuberanza di vita quasi dolorosa, che mi dilatava e mi comprimeva il cuore a vicenda. Mi pareva che ella dovesse guardarmi dietro i vetri, e quelle finestre illuminate, dinanzi alle quali passavano tutt'altre ombre che la sua, mi abbacinavano gli occhi. Si, ero geloso di quegli uomini che l'aspettavano in casa sua, alle due del mattino, e li vedevo belli, orgogliosi e sorridenti, rubarmi le sue parole, la sua vista, e la felicità. Vidi come un baleno dell'avvenire; mi trovai povero, solo, meschino, ridicolo, abbandonato su quella soglia, tremante di freddo e divorato dall'invidia! Che cos'ero io per disputare quella donna a quegli uomini felici? Provai dispetto, vergogna, gelosia rabbiosa; sentii che la vertigine di quella sera mi strappava violentemente da tutte le mie affezioni, e mi gettava nell'ignoto. Ebbi paura, e l'orgoglio mi diede la forza di giurare che mai più avrei riveduto quella donna, la quale si sarebbe vergognata di confessare il suo amore per me. Non dirò che quel giuramento non mi costasse, e molto; ma ebbi la forza di mantenerlo - per invidia, per dispetto, per orgoglio, per gelosia ... non lo so ... *** Il giorno dopo, nell'ora in cui avevo promesso di andarla a trovare, combattei una lotta terribile. Venti volte fui sul punto di uscire, di correre a buttarmi ai suoi piedi. Mi afferrai a due mani a tutte le mie più dispettose passioni, e non mi mossi ... e se piangevo ero felice che nessuno mi vedesse piangere. Così suonò un'ora. Allora respirai con forza, come se avessi superato una gran prova. Faceva freddo. Di fuori un vento impetuoso scuoteva i vetri, e gemeva per le strette viuzze di oltr'Arno. Guardavo i rari fiocchi di neve che svolazzavano sui vetri, e pensavo alla mia famiglia lontana, e a tutte le tranquille gioie che avevo abbandonato per correre dietro a larve affascinanti. Mi sentivo invadere da cento ispirazioni gigantesche, e sognavo tutte le ebbrezze della gloria. All'improvviso fu suonato violentemente all'uscio. Saltai sulla seggiola come se il filo del campanello fosse stato attaccato al mio cuore. Presi un lume e andai ad aprire tutto tremante, come se attendessi una disgrazia ... Indietreggiai stupefatto. *** Era Eva, tutta imbacuccata, pallida e tremante dal freddo, che mi guardava con certi occhi dove avrei giurato che ci fossero delle lagrime. Mi aspettavo rimproveri, scene drammatiche; nulla di tutto ciò. Ella entrò, sedette accanto al camino spento, e mi disse tranquillamente: "Non siete venuto!" "Voi!" Ella sorrise dolcemente. Aveva gli stivalini tutti coperti di neve. "Siete venuta a piedi?" "Sì." "Perché?" "Non so. Avevo bisogno di farmi perdonare l'altra sera." E si sforzava di non tremare, di non far scricchiolare i suoi dentini, come se avesse temuto di rimproverarmi il freddo glaciale che regnava nella mia cameretta. Sebbene cotesta delicatezza mi commovesse, io ero tutto vergognoso, pel mio camino spento, pei miei mobili più che modesti, e pel mio vecchio mantello che avevo gettato su di una seggiola. Ruppi il cavalletto e accesi il fuoco nel camino. Ella sorrise; aveva la labbra violette e stese le manine tremanti sulla fiamma che le rendeva quasi trasparenti. "Oh! che bel fuoco!" ripeteva. Io m'inginocchiai ai suoi piedi; asciugai i suoi stivalini con un lembo del mio mantello, e poscia glielo stesi sotto i piedi a guisa di tappeto. Ella mi lasciava fare, ridendo come una bambina; guardava all'intorno con curiosità, e mi sembrava che in cotesta curiosità, così espressa, non ci fosse più nulla di mortificante pel mio amor proprio. "È la vostra camera?" mi domandò. "Sì." "Come siete felici voi altri artisti!... Quanti bei sogni dovete aver fatto fra queste pareti." Oh! il bel sogno ch'era la sua leggiadra figurina, col sorriso dolce, gli occhi umidi, le bianche mani incrociate sulle ginocchia, e la veste bruna che si piegava mollemente sulla sua persona come carezzandola, là, in quel povero angolo della mia cameruccia, illuminata dalla fiamma del mio camino! Ella aveva capricci improvvisi, bizzarri, dietro ai quali si smarriva volentieri il proprio buon senso come dietro al sorriso di un bambino. "Fatemi vedere!" disse. E si mise a rovistare in tutti gli angoli, in tutti i miei disegni, in tutti i miei cartoni, ponendo tutto sottosopra, scappando in mille ingenue esclamazioni, facendomi mille domande prive di senso e piene di grazia. "Oh! bello!" e seguitava a metter tutto sossopra, battendo le mani dinanzi alle mie tele. "Come fate a creare tante belle cose?" mi domandò facendosi seria - e senza aspettare la mia risposta: "Regalatemi qualche cosa." "Scegliete voi stessa." "Datemi quel paesaggio. È una spiaggia di mare?" "Sono I Ciclopi" "Che cosa sono I Ciclopi " "Si chiamano così certi scogli giganteschi sulla spiaggia di Aci-Trezza." "In Sicilia?" "Sì." "Oh, come sono belli!" Prese un pennello e sul margine della tela scrisse: " Eva - 22 Marzo . "Così ci avrò lavorato anch'io!" aggiunse con quel sorriso vago. E poi, facendosi seria: "Voi altri dovete trovare un paradiso da per tutto." Girò all'intorno uno sguardo sorridente e riprese: "Son contenta di essere venuta. Così ho visto il vostro nido." Il suo sguardo cadde sul modesto lettuccio, e sorrise vagamente senza dir motto. Poi tornò a sedersi accanto al fuoco, con un atto di dimistichezza carezzevole, e soggiunse guardandomi fisso: "Sì, son contenta di esser venuta; ma mi avete pur dato un grande dispiacere!" "Perdonatemi!" "Oh, non ho nulla da perdonarvi! Non vi ho nemmeno domandato perché non siate venuto. Quando non vi ho visto, all'uscire dal teatro, ho subito indovinato il motivo che vi faceva mancare alla vostra promessa ... e son venuta." Mi stese le mani, mi guardò negli occhi sorridendo, e soggiunse: "Siete ancora geloso?" "Oh ..." "Mi amate molto?" "Mi par d'impazzire." "Molti mi hanno detto la stessa cosa." "Oh, Eva!... perché mi dite questo?" "Ma a voi vi credo. Dovete amarmi così! Oh, Dio mio! com'è bello essere amata così! Ho dovuto piacervi molto per farvi pensare di me a quel modo ... Se sapeste che cos'è per una donna il sapere di aver tanto piaciuto! Quanto durerà questa impressione in voi? Chi lo sa! Ma non importa. È pur dolce l'averla destata, anche per un momento solo. Anch'io vi amo." "Voi! voi!" "Sì, vi amo perché vi piaccio tanto." Mi guardava con tanta serenità, che quelle semplici parole avevano un senso affascinante. "E poi, in questo momento, anche voi mi piacete." "Ah! in questo momento!..." "Sì, mio Dio!... bisogna mentire per farvi piacere! Con voi credevo che potessi aprire il cuore schiettamente. Potreste giurare che mi amerete sempre come oggi?" "Sì! oh, sì!" "Fanciullo!" esclamò essa con un triste sorriso, "Quanti me lo hanno detto!" "Non mi parlate in tal modo, Eva!" "Che v'importa, se in questo momento non amo che voi! Mi crederete almeno, giacché sono così franca! Sì, sarà un capriccio, sarà una pazzia. - Vi amo perché siete ingenuo, perché non siete ricco, perché non siete elegante, perché avete in cuore tutte le follie dell'arte, perché mi guardate con quegli occhi, e anch'io divento come voi, non mi riconosco più! - Ecco perché vi amo. Domani forse mi piacerà di più la cravatta di un bel giovane, come a voi piaceranno le mani rosse di una sartina. Avremmo avuto torto per ciò di godere insieme questo momento di felicità? O saremmo più stimabili se mentissimo oggi con promesse per mentirci ancora domani con menzogne? Io ne ho amati tanti! Anche voi chissà quante donne avete amato! Oggi mi piacete, vi piaccio, e son felice di dirvelo, ecco! Domani ... Chi lo sa il domani? Dunque vedete che se vi parlo con tanta franchezza avete torto di essere geloso." C'era tanta sincerità, direi tanto cuore, in quelle cose dure, che le rendeva affascinanti. Avrei potuto farmi saltare le cervella, ma non avrei potuto abbandonare la mano di quella donna che mi diceva di amarmi in tal modo, facendomi indovinare il giorno in cui non mi avrebbe più amato. Ella era seduta di faccia a me, dinanzi al camino, e quasi le nostra ginocchia si toccavano; teneva le mani nelle mie e i suoi piccoli polsi bianchi e rotondi uscivano fuori dalle trine delle maniche; mi guardava sorridente, fiduciosa, con abbandono, felice di espandersi così sinceramente, e di parlarmi col suo cuore, povera e modesta come me. Ella mi disse anche: "Vedete che vi amo davvero, se ve lo dico qui, quasi al buio, così infagottata, senza che possiate trovarmi bella ..." Il fuoco s'era spento. Ella s'inginocchiò dinanzi al camino - ella sì elegante, sì delicata, che avevo vista circondata di tutti gli splendori del lusso - s'inginocchiò dinanzi al mio povero camino, affumicato e pieno di cenere, e cercò di rianimare le poche braci. Io andavo attorno per vedere che cosa potessi sacrificare al gran freddo che faceva. Ella si avvide del mio imbarazzo e mi disse: "Vogliamo andare a prendere il thè?" "Dove?" "A casa mia." "Ma come? a piedi?" "A piedi, come due scapati. Voi mi darete il vostro mantello." "Andiamo." Faceva un freddo di gennaio; le strade erano tutte bianche di neve; ella tremava. Allorché fummo in piazza d'Azeglio, il mio primo sguardo cadde su quelle finestre del primo piano ancora illuminate. Ella che si stringeva al mio braccio, lo sentì trasalire, e lo premette leggermente come per attaccarsi a me. "Non ci ho colpa, vi giuro!" esclamò con voce supplichevole. "Speravo che a quest'ora fossero partiti! ..." Mi prese per mano, come un bambino, e mi fece salirle scale appresso a lei. "Zitto!" mi sussurrò all'orecchio. "Non voglio che vi vedano; spegnete il gas." Io girai la chiavetta. Eravamo al buio, e sentivo il profumo del suo fazzoletto, il soffio del suo respiro. Essa cercò tastoni il campanello e suonò quasi timidamente. Venne ad aprire una leggiadra cameriera. Eva le disse all'orecchio qualche parola, mi spinse in un andito, e scomparve senza far rumore da un altro uscio a vetri. La cameriera mi fece entrare in una stanza da letto, debolmente illuminata, e scomparve anche lei. *** La camera era piccola e imbottita di seta bianca come un elegante scatolino. In un canto c'era un letto tutto velato di trine, con certe cortine diafane che sembravano i vapori di un sogno d'amore, e lasciavano trasparire certe coperte color di rosa, di cui la seta doveva carezzare l'epidermide, e nascondere nelle sue pieghe scrosci di risa soffocate, di palpiti virginei. C'era un profumo singolare in quella camera, un profumo di cosa viva, un profumo di donna e di donna amante. C'erano in tutti gli angoli quei piccoli oggetti che luccicano e che hanno forme e colori leggiadri. C'erano negli specchi come il riflesso di chiome bionde, come il lampo di occhi lucenti e di sorrisi giovanili; vi si riverberavano ombre leggiere, colori delicati; il moto dell'orologio era silenzioso; il tappeto era spesso, bianco e carezzava i piedi. Nell'altra stanza si udivano voci di uomini, e di tanto in tanto delle risa allegre. Si udì anche per qualche istante il suono del pianoforte, e ad intervalli la voce di Eva, fresca, spensierata, giuliva. Poi si udì un rumore di tazze mosse. Improvvisamente una luce più viva invase la camera ed entrò Eva. Ella corse verso di me; mi afferrò improvvisamente il capo, senza dire una sola parola, e mi diede un bacio. "Ecco il tuo thè!" mi disse. *** E quand'io la baciavo, quand'io la soffocavo di carezze deliranti, ella metteva un piccolo grido: un grido pieno d'amore e di voluttà. "Ahi! mi fate male!" Si svincolò ridendo dalle mia braccia; mi guardò fisso, con quegli ardori negli occhi, stendendo le mani per tenermi discosto ed esclamò: "Come sei bello! Come devi amare tu! Vieni!" soggiunse sottovoce, prendendomi per la mano. "Zitto! vieni qui, accanto a me!" Lisciava i miei baffi, arruffava i miei capelli e li intrecciava coi suoi, mi prendeva la testa fra la mani per guardarmi a lungo negli occhi, e mormorava: "Bambino! bambino mio bello!" Ad un tratto si fece seria; mi affissò con certi occhi attoniti, e mi disse: "Mi pare di amarti davvero, guarda!" Saltò dalle mia ginocchia come un uccello, corse all'uscio e girò la chiave. "Buona notte, signori!" disse, e volgendosi verso di me, con uno scroscio di riso infantile: "Se ci vedessero!" Si udì uno scoppio di voci e di recriminazioni al di là dell'uscio. "Ho sonno!" ripeté Eva, "Buona notte!" "Che imbecilli!" soggiunse poi "si credono in diritto di annoiarmi anche quando sono felice!" Stette ad ascoltare, e ripigliò dopo alcuni istanti: "Se ne vanno; finalmente! Verrai domani, non è vero?" "Sì." "Alla stessa ora, mi aspetterai in teatro?" "Sì." "Anzi, fai così: m'aspetterai in fiacre, in piazza Santa Maria Nuova. Verrò a trovarti io stessa. Prendi il fiacre numero nove; è la data del giorno in cui mi hai conosciuta. Ora che farai?" "Come vuoi ch'io te lo dica se non lo so ... se non ho più la testa, se ho la febbre!..." Ella aveva i capelli sciolti, e me ne sferzava il viso con certi movimenti felini. "Ebbene," mi disse, "se hai la febbre vai a casa." "No, starò a vederti dormire." "Eh?!" "Starò a guardare le tue finestre dalla via, e ti vedrò dormire." Ella sorrise in modo inesprimibile, e mi avventò un bacio come un morso. "Birbone!" Scostò colle sue mani i capelli dalla mia fronte; mi guardò con certi lampi abbaglianti negli occhi - mi guardò a lungo così, tenendomi la fronte fra le mani - e poscia, come rispondendo a se stessa: "Vattene!" mi disse "vattene!" E non mi lasciava, e sporgeva verso le mie le sue labbra sitibonde, e chiudeva gli occhi. Mi richiamò di nuovo, quand'ero sulla soglia dell'uscio. "Dammi qualche cosa di tuo" mi disse; "dammi il tuo fazzoletto." E poscia un'altra volta: "Aspetta! Voglio che anche tu pensi a me." Si staccò dal seno uno spillo d'oro, e mi punse leggermente sulla mano. "Bravo!" esclamò dandovi su un bacio. "Ora vattene. Addio!" Attraversai l'andito al buio, e andavo tastando tutte le serrature dell'uscio, senza trovar modo di aprirle. Al di là dell'altro uscio udivo un fruscio di vesti e di passi, come se Eva andasse e venisse per la camera. Questa situazione si prolungava e cominciava a farsi imbarazzante. Non potevo tornare indietro, e non potevo chiamare la cameriera. Tutt'a un tratto udii uno scoppio di risa fresco, gaio, argentino - uno scoppio di risa che mi chiamava per nome, e comprendeva tutte le mie follie. Mi trovai, non so come, sull'uscio della sua camera; sollevai la portiera, e vidi quella leggiadra testolina che si affacciava fra le cortine del letto incorniciata dai biondi capelli e dai candidi merletti - saettandomi il delirio del suo sorriso, le ebbrezze dei suoi sguardi, e il fascino del suo silenzio. *** Io non saprei dirti quanto durasse cotesto sogno febbrile, e quello ch'io vi provassi. Avevo in seno tutte le gioie, tutti gli entusiasmi, tutte le frenesie ... e mi soffocavano. Sembravami che il cuore mi si dilatasse talmente, per tanta piena di affetti, che il mio petto non bastasse a contenerlo. Provavo nello stesso tempo tal fastidio di me, tal rimorso, come un dolore pungente. Sentivo che ero tremendamente felice. Passavo i giorni sognando ad occhi aperti, alla finestra, o presso il camino, o gironzolando per le vie - senza vedere, senza udire, senza pensare - e la notte divoravo avidamente tutte le ebbrezze. Partivo da lei all'alba, di nascosto, come un ladro che ha rubato il paradiso. Provavo sgomenti inesplicabili; di tratto in tratto il cuore mi palpitava di gioie improvvise, acri e dolorose; sentivo arcane e infinite ispirazioni artistiche che non avrei neppure tentato di esprimere, e impotenze desolanti. *** Ella mi amava veramente. Quell'amore sarà stato un capriccio, ma in quel momento era sincero. Le arrecavo paura e diletto. Delle volte mi guardava timidamente, e all'improvviso mi saltava al collo, ebbra anch'essa d'amore. Aveva certe strane curiosità di sapere come fosse fatto il mio cuore che l'amava in tal modo. Mi chiudeva gli occhi con le mani, metteva la sua bocca nella mia per sentire come fosse caldo il mio alito, ed appoggiava l'orecchio sul mio cuore per udire come battesse. Mi voltava e rivoltava in tutti i sensi, scomponeva i miei capelli, e quando l'affissavo a lungo negli occhi, li chiudeva con un piccolo grido di paura. "Se avessi saputo di doverti amare così" mi diceva, "non ti avrei più cercato. Mi fai male!" *** Delle volte voleva che le suonassi al pianoforte la musica dei suoi balli, ed ella mi appariva improvvisamente dinanzi nel suo leggiadro costume, e spiegava intorno a me tutte le seduzioni - per me! per me solo! - il sorriso inebbriante, gli sguardi pieni di promesse, i capelli disciolti, il seno palpitante ... E tutte le volte finiva saltandomi sulle ginocchia, e annegandomi in un'onda di velo. "Come ti amo!" mi diceva. "Come ti amo!" *** Un giorno mi disse, quasi paurosa: "Come farò a non amarti più?" *** E un'altra volta: "Sai ch'è più di un mese che ti amo così!" Erano esclamazioni di una commovente ingenuità, ma mi arrecavano aspri dolori. "Non mi amerai sempre così?" le dissi. "Oh, sempre!" mormorò con mestizia. "Neanche tu m'amerai sempre così!" *** In cotesto delirio, che si prolungava tanto, capirai che il mio tenore di vita era molto cambiato. Non lavoravo più, non ricevevo più nessuno, non scrivevo più nemmeno alla mia famiglia, tranne delle brevissime lettere, ad uso telegramma, e tutte le volte per chieder danaro. Non puoi immaginare come una tal passione sia divorante per uno che si trovi nella mia disgraziata condizione, e come divori specialmente il denaro, ch'è la cosa più preziosa. Io non spendevo un soldo per Eva, nemmeno per regalarle un mazzolino di viole, ma provavo mille nuovi bisogni: avevo comperato degli abiti nuovi, avevo bisogno di essere elegante, di lavarmi le mani con acqua di Colonia, di essere ben alloggiato, di desinare da Doney, di portar dei guanti - e tutti questi nonnulla sono enormemente dispendiosi per un pensionato del Comune a centocinquanta lire. Ohimè! Vorrei credere che fossi pazzo, perché fui assai vigliacco, perché fui infame. Io divenni esigente sino all'impossibile verso la mia povera famiglia - fino a strapparle il necessario per comprarmi delle cravatte. - Non scrivevo altro che per chiedere denaro, e mentivo anche l'affezione! Oh, mia povera mamma! Oh, padre mio!... e non arrossivo allorché vedevo giungere quel denaro che costava tanti stenti ai miei genitori! No! Non arrossivo! - E allorché le mie richieste si fecero più frequenti, più insistenti, vidi le lagrime di mia madre, lo sconforto di mio padre per non potermi mandare più nulla - e non provai altro dolore che la paura di rimanere senza quattrini - e non esitai, no! ad abusare dell'inesauribile affetto paterno fingendomi ammalato, e scrivendo di aver bisogno di denaro a ogni costo - e non pensai al dolore immenso, alle ansie morali dei miei genitori che per specularci sopra ... Ah! cos'ero divenuto, mio Dio!... dove avevo la testa? che se n'era fatto del mio cuore? Non pensai neanche a morire; non pensai a buttarmi in Arno - avevo bisogno di vivere. La risposta non si fece attendere. Ricevetti un vaglia di centoventicinque lire e una lettera che mi avrebbe lacerato il cuore se non l'avessi avuto di pietra. Mia madre ci aveva aggiunto i suoi scarabocchi e li aveva inzuppati di lagrime; mio padre mi scongiurava di vendere tutto quello che possedevo, se quei denari non mi fossero bastati per fare il viaggio, e di ritornarmene a casa, giacché non poteva mandarmi più nulla. Riscossi il vaglia e lacerai la lettera. Ero malato, non è vero? Avevo un'orribile malattia di cervello o di cuore! Ero pazzo! Non ero io! *** Alcune volte, quando aspettavo Eva delle ore intere nella sua camera, mentre ella riceveva i suoi numerosi amici, mentre la sentivo ridere e folleggiare nel suo salotto, provavo delle collere sorde ma selvagge contro di lei. Allora tutte le amarezze che quell'amore mi costava mi sfilavano davanti agli occhi. Ero geloso, e mi vedevo ridicolo, nascosto dietro il suo uscio a divorare in silenzio la mia gelosia. - Alcune volte sembravami che tutta quella gran gelosia non si riducesse ad altro che ad una febbrile impazienza di stringermi Eva tra le braccia. Poi ella compariva, sorridente, inebbriante - la luce si faceva e mi abbagliava. Ella trovava cento pretesti per venire a stare con me due o tre volte durante quelle visite, e in quei due minuti in cui ella mi saltava sulle ginocchia aveva tali carezze, tali baci, tali parole da farmi impazzire. Sembrava che gli ostacoli irritassero il suo amore e gli dessero mille nuove attrattive. Noi ci dicevamo delle cose futili, sciocche, senza significato, sottovoce, tremanti, estatici. - Poi ella mi lasciava con un bacio e scappava via. *** Una volta mi trovò che ridevo. "Che hai che ridi così?" mi domandò. "Penso alla bella figura che ci fanno quei tuoi amici di là, mentre tu sei qui con me ..." "Oh, mio Dio!... ma ne ridi in un certo modo!..." *** Un altro giorno le dissi: "Senti Eva, delle volte mi assale la tentazione di entrare all'improvviso in quel salotto, e schiaffeggiare tutti quei bei signori." "Sei matto?..." "Lo so anch'io. È una pazzia; ma ci avrei gusto, ecco!" *** Una sera ebbi la tentazione di origliare dietro l'uscio e di guardare dal buco della serratura. Lo feci con un gran battito di cuore - non di vergogna, ma di paura. Quand'ella venne da me, mi trovò così pallido e corrucciato che mi domandò dolcemente che cosa avessi. Io le dissi con amaro sorriso: "Che persone sono quelle, Eva?" "Oh, della migliore società." "Infatti sembrava che si tenessero molto al di sopra di voi. Vi fumavano in faccia!" "Hai visto?" "Sì!" esclamai con un sogghigno dove cercai di mettere tutto il fiele che avevo in cuore. Ella non mi rimproverò la mia indiscrezione. "Hai fatto male" mi disse semplicemente facendosi triste. "Ho avuto torto, lo so." "Non dico ciò per me, ma per te." "Oh, per me!" "Non ridere così, Enrico! Ascoltami; se vuoi essere felice contentati di amarmi e di essere amato come io ti amo. Tu hai il cuore caldo e la mente esaltata. Certe curiosità a mio avviso ti farebbero male." "Ah! voi lo sapete!" "Sì," rispose tranquillamente, guardandomi con tutta franchezza. "Ma che vuoi farci? Tu sai che cosa sono: mi hai amato appunto per questo. Ora per essere quella che sono bisogna che io mi rassegni a siffatte visite, anche quando mi annoiano." "Soltanto questo?" "Soltanto questo." "Oh! non basterà!" "Basterà ... perché ti amo!... Hai torto a lagnarti!" Mi guardò a lungo negli occhi con tanto amore che avrei giurato fosse sincero; mi prese entrambe le mani, e mi disse con serietà - ella che non era mai seria: "Ti amo ancora e voglio che tu mi ami. Mi prometti una cosa?" "Di'." "Giurami che non starai ad origliare dietro quell'uscio." "Ah!" mormorai amaramente con un riso ch'era una contrazione dolorosa del cuore. "Oh, mio Dio!" esclamò torcendosi le mani "Che timore potrei avere di essere spiata se volessi ingannarti?" "Perché non volete dunque che io ascolti?" "Perché ... tu l'hai visto ... Perché quelle familiarità insolenti che per me sono soltanto una mortificazione d'amor proprio, per te sarebbero morsi acuti di gelosia ... Per risparmiarti dispiaceri ..." "Che m'importa se questi non mi vengono da voi!" Ella lesse nei miei sguardi tutta l'amarezza che non c'era nelle mie parole, chinò gli occhi e mi disse solamente: "Come siete ingiusto!" C'era tal suono di verità nella sua voce, e così schietta e dignitosa franchezza nelle sue parole, nei suoi occhi, e nel suo gesto, che mi facevano soffrire orribilmente per tutte le sciagurate contraddizioni della vita. "Sì, lo sento che sono ingiusto!" esclamai. "Ma soffro orribilmente! sono geloso, Eva! Son geloso di te, di tutti quelli che ti vedono in teatro perché tutti ti desiderano; son geloso di tutti quelli che ti parlano, perché ti parlano per averti ..." "Oh!" esclamò Eva con uno scoppio di risa schiette e gaie "se sapeste come dovrebbero invidiarvi quei signori di cui siete geloso!" "Non importa; essi vi fanno la corte!" "Oh, non tutti! Ci sono quelli che vengono per prendere il mio thè, gli altri per trovare gli amici, altri perché la mia casa è di moda, altri pur di far sapere che ci vengono." "Io vorrei che non foste obbligata a ricevere tutte quelle persone, Eva." "Sono tutti abbonati, giovanotti chic, di quelli che dispongono dell'esito di uno spettacolo, ed io appartengo al teatro." "Io intendo che la donna che mi ama appartenga a me anzitutto!" "Allora non avresti dovuto innamorarti di una ballerina." "Oh, io mi innamorai della donna, perdio!" Ella sorrise tristamente. "La donna la vedesti un momento, nel dietro scena ... e scappasti via." "Ma io vi amo così, come siete!" "Lo sai tu come sono? Una donna non è che come vuol essere. Sai tu che cosa sarei senza la mia gonnellina corta e le mie scarpine di raso? Sarei una modesta operaia colle dita punzecchiate dall'ago, e con un vecchio ombrello sotto il braccio; una ragazza che potrebbe dirsi bellina se non avesse gli stivalini rotti e il cappellino di traverso - che andrebbe al mercato, farebbe la cucina, e se avesse fortuna sposerebbe un cuoco o un cocchiere. Ecco che cosa sarei, mio caro; invece ecco che cosa sono: faccio fare anticamera a tanti signori che sarebbero gelosi di te - e tu che non mi avresti neanche guardato se m'avessi vista andare attorno colle scarpe rotte, tu hai fatto delle pazzie per me. Oh! lo so bene ch'è assai meglio non esser costretti a far buon viso a quelli che ci sono uggiosi, e a soffrire delle galanterie insolenti. Ma che vuoi farci? Non son nata duchessa!" Venne a sedermi sulle ginocchia; mi cinse il collo delle sue braccia, e mi baciò a più riprese. "Andiamo, via! non piangere, bambino mio! amor mio! non piangere! mi fai male! Io ti amo davvero, sai! Non ho nulla da sperare da te, anzi potresti nuocermi, vedi che son sincera! Mi credi dunque che ti amo?" "Se tu non mi amassi così io farei una cosa semplicissima, mi ucciderei." "Ah! no!" esclamò essa con quel riso da bambina, tenendosi appesa al mio collo colle mani intrecciate, e dondolandosi sulle mie ginocchia. "Non voglio che tu ti uccida perché sei il mio amore, il mio amore bello! il mio amore bello!" e nella voce aveva la dolce cantilena con cui si cullano i bimbi. *** Alcune sere quelle visite si prolungavano molto innanzi nella notte. Era un giuoco di scherma fra quei signori a chi dovesse rimaner padrone del campo. Una volta Eva entrò improvvisamente e come se fuggisse. Era rossa in viso, e avea le narici dilatate. Chiuse l'uscio a chiave, si gettò su di me con passione, e nascose il mio viso sul suo seno, baciandomi sui capelli, come per impedirmi di uscire, o per nascondermi qualche cosa. "Che hai?" le chiesi svincolandomi dalle sue braccia, vedendola tutta turbata e colle lagrime agli occhi. "Nulla!" rispose. Io impallidii, e non osai domandarle altro. *** Il giorno dopo ella mi vide così cambiato che mi domandò anche lei. "Che hai?" E stavolta fui io che risposi: "Nulla!" Ella si fece pensierosa e parlò d'altro. Passammo quella notte come le altre, soffocando le ciarle infantili sotto i guanciali e scambiandoci i sorrisi nelle dolci ombre dei cortinaggi; però sentivamo che fra noi due c'era qualche cosa che ci faceva morire il bacio sulle labbra ed il riso in cuore. Ella mi guardava con quei suoi grand'occhi spalancati, col gomito sul guanciale, il mento sulla mano, il braccio trasparente attraverso la nebbia dei merletti, e i capelli che gettavano onde dorate sui candidi lini. - Aveva degli accessi quasi tristi e paurosi di tenerezza; mi gettava al collo le braccia nude, e mi nascondeva in petto la sua bionda testolina. - Poi mi stava di nuovo a guardare fisso senza dir parola, colla testa affondata nella tela batista, ed il braccio disteso, mentre le sue piccole dita giocherellavano colla trina della coperta. Una volta, mentre si parlava d'altro, esclamò: "Come son pazza ad amarti così!" E più tardi, dopo uno scoppio di risa tanto allegre e matte che mi facevano un senso di pena: "Come farò quando non mi amerai più?" Poi, senza badare a quel che rispondessi, mi parlò della sua sarta, delle sue vesti, dei suoi cavalli, dei suoi fiori, del teatro, di musica, di balli, mi parlò della mia arte, di me, del mio paese - giammai ella non mi aveva parlato della mia famiglia; era una circostanza che incominciava a sorprendermi. Era delicatezza? era istinto di gelosia? Allorché partivo, sull'alba, ella mi richiamò, mi attirò sui guanciali, allacciandosi tenacemente al mio collo, e mi domandò collo stesso tono della prima volta, come se fra la prima domanda e la seconda non ci fossero passate tutte quelle ore e quelle follie. "Che hai?" "Nulla." "Oh, non partire così!" esclamò colle lagrime nella voce. "Perché me lo domandi? Non mi ami? Non ti amo? Non siamo felici?" Ella appoggiava la testa sul cuscino, rivolta dalla mia parte, e mi fissava senza parlare, coi suoi grandi occhi pieni di lagrime. "Credimi," soggiunsi, "la nostra curiosità è funesta. Io l'ho capito, e non ti ho domandato altro, quando l'altra sera mi hai risposto: nulla." Mi prese le mani e le baciò - le sentii umide di lagrime. "Non mi ami più!" disse. "Dio lo volesse!" esclamai con un'esplosione di tutte quelle angosce che mi rodevano da due giorni. Ella si rizzò a sedere di botto, splendida di bellezza, sotto la fine batista, come una statua greca, e mi si buttò al collo, coprendomi di lagrime e di baci. "Si, tu mi ami! tu mi ami!" singhiozzò "ed io pure ti amo come una pazza!" Poscia, tenendosi allacciata a me come l'edera, nascondendo il suo capo nel mio seno, e parlandomi sottovoce, come vergognosa per quello che doveva dirmi: "Non credi che ti amo?" "Sì!" "Temi che io possa ingannarti per un altro?" "Oh, no!" E chinando maggiormente la testa, e abbassando di più la voce, e abbracciandomi più strettamente: "Perché quella domanda adunque?" "Perché ti amo! Perché son geloso ... in un altro modo." "Come?" "Oh!... non lo so!... non te lo dirò mai!" Tuttavia sembrò aver compreso, poiché allentò le braccia, non disse molto, e ricadde sul guanciale, nascondendovi il viso. "Ascolta!" mi disse vivamente, afferrandomi per le mani, mentre era per partire. "Piuttosto che cessare di amarmi ... quando lo vorrai ... domandami quello che vuoi ... Ti giuro che lo farò!" *** "Non voglio che tu venga a teatro" mi avea detto altre volte. "Perché?" "Perché ... perché ... È una fanciullaggine, lo so ... ma se ti sapessi là ... in mezzo a quella folla ... ciò mi farebbe pena." Io le fui grato di cotesta delicatezza, e promisi, e un giorno, la sera della sua beneficiata, con la logica così strana del cuore umano, le domandai di sciogliermi dalla mia promessa. Ella mi guardò sorpresa. "Perché?" "Voglio vederti." "Non mi vedi adesso?" "No! vederti là ... a quel modo!..." "Mi vestirò qui per te." "Oh, è tutt'altro!..." Ella sorrise e mi disse: "Orgoglioso!" "Orgoglioso?" "Si, vuoi godere del tuo trionfo, e dire: Quella donna che tutti desiderano mi appartiene!" "È vero ... sì!" "Ebbene," soggiunse semplicemente, "dillo pure giacché è la verità." La sua cameriera l'attendeva per pettinarla; prima di lasciarmi ella mi disse, come risovvenendosi: "Però mi prometterai di non essere geloso!" Ahimè! prevedeva forse che avrei dovuto esserlo? Non l'avevo più vista sul palcoscenico, e quando la rividi mi parve tutt'altra! Io comprendo come si possano fare quelle cose che si dicono pazzie - e sono brani di cuore strappato da penose voluttà, brani di ragione torturati dal delirio - per coteste donne che hanno un pubblico per amante, che ci sbattono sul viso tutte le seduzioni, inchiodandoci ad una poltrona d'orchestra, e che ci abbruciano gli occhi col lampo della loro bellezza, costringendoci ad affissarle avidamente. - Cotesta voluttà che s'inebbria di suoni, che abbaglia di luce, che sollecita con acri profumi, che vi fa ondeggiare dei veli dinanzi alla curiosità spasmodica, che ha il sorriso sfacciato, e la nudità pudica, che idealizza tutte le vostre più sensuali passioni, è mostruosa del pari, con tutte le cecità, con tutte le frenesie - e lo spasimo di sguazzarci dentro, le mani, i piedi, il petto, i capelli, di abbeverarsene, di affogarvi la coscienza, il cuore, il sentimento della vita, ha le medesime estasi inenarrabili, i medesimi splendori, le stesse torture, le stesse infamie ... Se si potesse vedere in cuore ad uno di quei felici mortali, su cui passa il turbine di una tal passione, e che va invidiato dalla moltitudine!... Quella donna per cui gli applausi avevano fremiti di desiderio era mia, avea posato la testa sul mio guanciale; ma io non ci pensai che per essere geloso delle sue spalle nude, della trasparenza dei suoi veli, di quei cannocchiali che sembravano baciarla con lingue di fuoco, di quelle mani inguantate che mi sembrava accarezzassero le sue spalle. Partii come un pazzo, assai prima che fosse terminato il ballo, ed andai ad attenderla in casa sua, arso di gelosia, di corruccio, di desiderio - spiegami tu questo contrasto. E allorché udii il suo passo leggiero per le scale, allorché me la vidi comparire dinanzi ancora ansante, allegra, ridente, colle guance rosse e gli occhi brillanti di giubilo, me le gettai al collo, stringendola freneticamente come se temessi di vedermela strappare dalle braccia. Ella credette che fosse l'entusiasmo destatomi dal suo trionfo! "Oh! come son contenta che tu sia stato lì!" mi disse senza scorgere il male orribile che mi facevano quelle parole. "Fu un vero entusiasmo, non è vero? Vedi quanti fiori!" E si pavoneggiava ingenuamente in mezzo agli enormi mazzi che il domestico aveva portato in sala. Io dovevo avere l'aria orribilmente stralunata; ma ella era così compresa della gioia del suo trionfo che non se ne avvide. Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini. Si mirava nello specchio, mi abbracciava e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza. "Quanto sono felice, mio Dio!" esclamava, senza avvedersi che egoismo c'era nella sua felicità. Suonarono il campanello. Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera. "Aspettami qui" mi disse. "È inutile, giacché me ne vado." "Te ne vai! E perché?" "Avrete molte visite ... È la vostra festa ..." "È vero!" disse tutta giuliva. "Vedete che mi rassegno anch'io ..." Ella mi guardò in volto con sorpresa. "Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!" "No." "Davvero?" "Davvero." "Domani dunque?" "A domani." "Buona sera" Io non risposi; ella non se ne accorse. Era impaziente, tutta commossa di gioia, si contentava facilmente della mia affermazione, e non mi leggeva nulla in cuore. *** Partii con tal corruccio in cuore che mi sembrava di odiarla. Quando fui istrada piansi come un bambino. E il giorno appresso, dopo una notte di collera, di gelosia, e d'amore, appena furono le dieci corsi da lei. Avevo bisogno di vederla, di vedere i suoi occhi chiusi, di vederla dormire, e di sognare ancora le dolci notti di abbandono e d'amore. Avevo bisogno di schiudere le sue cortine, e di vedere il sorriso incerto di quelle labbra vermiglie ancora tiepide del respiro notturno, e quegli occhi ancora socchiusi che cercavano i miei. Entrai nella sua camera in punta di piedi, ma trovai ch'era già alzata, e che leggeva una lettera accanto al caminetto. Vedendomi entrare all'improvviso, si scosse bruscamente, come sorpresa, e fece un movimento istintivo e impercettibile quasi per nascondere la lettera che stava leggendo. Non fu che un lampo, ma bastò al mio occhio acutamente sospettoso. Si alzò, venne a gettarmi le braccia al collo, e mi disse con effusione: "Ah! bravo! Mi hai fatto un gran bene!" E gettò la lettera con tutta naturalezza sul marmo del caminetto. "Perché?" io le dissi. "Ieri sera mi lasciasti in tal modo! Vedi, ero così commossa che non mi avvidi che partivi in collera. Tu sei più buono di me ... Ci ho pensato tutta la notte ... Sei ancora in collera?" "Oh, no!" "Ma perché eri in collera? che ti avevo fatto?" Io chinai la testa senza rispondere. "Vedi", soggiunse, "se io avevo ragione di temere quello ch'è avvenuto! Ho più giudizio di te, io, o piuttosto t'amo di più." Mi prese per mano e mi fece sedere accanto al fuoco. "Come sei pallido!" mi disse. "Non hai dormito stanotte?" "No." "Caro! caro! caro!" esclamò con trasporto infantile baciandomi in fronte. Indi con improvvisa e ingenua vivacità: "Vedi, io t'amo per questo! T'amo perché mi ami così, perché sei matto, perché sei geloso, perché sei ingiusto e cattivo. Mi piaci così, ecco!" In questo momento sorprese i miei occhi che involontariamente si fissavano sulla lettera, e credette forse che la mia curiosità fosse rivolta a un braccialetto ch'era anch'esso sul marmo del camino, accanto alla lettera. "Ti piace quel braccialetto?" mi disse prendendolo in mano onde prevenire i sospetti che credeva scorgere in me. "Non l'avevo visto." "Ah!" esclamò come sconcertata. Aprì e richiuse due o tre volte la busta di velluto, facendo scintillare i raggi delle gemme, e soggiunse per riprendere un certo contegno, o per disarmarmi colla franchezza: "È un regalo per la mia beneficiata." "Oh!" "È bello, non è vero?" Io, che avevo la testa a tutt'altro, risposi: "Bellissimo." "È di gran valore." "Varrà per lo meno duecento lire." "Oh!" esclamò Eva, dimenticando a quella mia ingenua scappata tutte le sue preoccupazioni in una schietta risata. "Ne vale almeno duemila!" Ebbene, francamente, io fui umiliato della mia ignoranza sul valore delle gemme. "A che pensi?" ella domandò con una certa inquietudine. "Penso che sono ben fortunati coloro che possono offrire regali di duemila lire." "Tu mi dai il tuo amore che vale assai di più!" Io sorrisi amaramente. Si parlò un po' di tutto, ora serii, ora innamorati, ora quasi giulivi. Ad un tratto, le gettai fra i piedi questa domanda, che la fece trasalire, tanto era fatta bruscamente: "Chi t'ha regalato quel gioiello?" Ella rispose con la maggior franchezza. "Il conte Silvani. Saresti geloso di lui?" soggiunse vedendo che m'ero fatto serio. "Oh, avrei torto!" "E avresti torto davvero!" esclamò essa con tale accento dignitoso che mi umiliò. "Oh, Eva, perdonami!" esclamai quasi fuori di me, "Io m'avvengo che sono ingiusto e cattivo! Faccio dispetto a me stesso!... Ma son geloso! orribilmente geloso!" Per tutta risposta ella mi dette un bacio. "Perché non hai rimandato quel braccialetto?" le domandai dolcemente. Ella mi guardò con tanto d'occhi spalancati, come se stentasse a capire il significato delle mie parole. "Come, rimandarlo? Ma vuol dire rifiutarlo!" "Sì, rifiutarlo." Quel rifiuto sconcertava tutti i suoi principii sinceramente e francamente accettati da tanto tempo. "Ma non si usa in teatro!" mi disse sorridendomi come si fa ad un bambino che ha detto una sciocchezza. "Ah!" sogghignai. "Credevo che ci fosse della dignità anche fra le persone del teatro!" "Ma, mio caro, è un altro genere di dignità. C'è l'uso di far dei regali agli artisti in occasione delle loro beneficiate, e ciò non ha nulla di umiliante pel loro amor proprio. Perché ridi?" "Rido perché sono uno sciocco, un provincialetto, perché non so tutte coteste cose, e soprattutto perché non oserei mai offrire un regalo simile ad una signora per bene ... senza temere di farmi rosso in viso, o di farmi gettar dalla finestra dai suoi domestici." "Ma un'artista non è una duchessa, mio caro! te l'ho già detto." E ci metteva tanto candore che avrebbe disarmato tutt'altro risentimento che non fosse stato il mio. Andavo su e giù per la stanza, ed ella mi teneva dietro con gli occhi, tenera, amorosa, quasi timida - ella che era così orgogliosa! Io sentivo quello sguardo attaccato su di me, e sentivo che cercava il mio, che vinceva la mia collera, e m'irritava. Improvvisamente mi arrestai dinanzi al camino, soverchiato dal fascino mordente che quella lettera esercitava da un'ora su di me, e la presi in mano. Ella trasalì, ma non si mosse. "Entrando ho interrotto la tua lettura"; le dissi, e le porsi la lettera. Ella la prese vivamente. "Oh, nulla d'importante." "Ebbene, leggila pure." "L'avevo già letta", e con un gesto naturalissimo la buttò nel camino. Io non seppi dominare un movimento come per buttarmi sul fuoco. "Chi ti scrive?" le domandai facendomi rosso in volto. "Il conte Silvani." "Ah!" "Mi pare che la mia franchezza dovrebbe disarmare i tuoi pazzi sospetti!" "Tanto più che adesso devo contentarmi della franchezza!" le dissi amaramente, additando il foglio che ardeva. "Oh!" esclamò ella celandosi il viso fra le mani. "Oh!" Sentivo montarmi alla testa dei caldi soffi di collera selvaggia. Ella rimase un istante in silenzio, col viso rosso di vergogna, poi esclamò: "Siete pazzo!" "Avete ragione!" le dissi mettendo tutta la mia amarezza in un sorriso; e aspettai che mi rispondesse qualche cosa per sfogarmi di tutti i sarcasmi che mi bollivano in seno. Ella non mi diceva più nulla; attizzava il fuoco colle molle e aveva l'aria severa. "Quella lettera naturalmente accompagnava quel gioiello!" ripresi dopo un lungo silenzio, poiché sentivo il bisogno ch'ella dicesse qualcosa. "Sì" rispose seccamente. Allora, irritato di tanta calma, le domandai bruscamente: "Perché l'avete bruciata?" "Perché non vi riguardava." Perdei la testa: "È vero;" le dissi, "io non posso farvi dei regali di duemila lire!" Ella si rizzò come se l'avessi morsa al cuore, pallida, con certe lagrime ardenti negli occhi, e mi disse con un accento che non dimenticherò giammai: "Adesso siete più che ingiusto e più che cattivo!" C'era tanta collera nel mio cuore che non ne fui scosso. Rimasi com'ero, appoggiato al caminetto, duro, pallido, fosco. Ella fece due o tre giri per la camera, asciugandosi dispettosamente le lagrime; poi venne a me all'improvviso; prese le mie mani, e mi fissò in volto i suoi occhi lagrimosi. "M'avete fatto molto male!" mi disse. "M'avete detto quello che nessuno m'ha detto; mi avete rinfacciata la mia condizione come io sentivo di meritarmi, ma come nessuno osava dirmelo ... Ora che volete che io faccia?" "Scacciatemi." "Oh, no! ti amo troppo!" "Tu vedi come ti amo, come son geloso, giacché ti faccio piangere, e non fai nulla per togliermi da quest'inferno!" "Che cosa vuoi che io faccia? tutto quello che posso fare per provarti il mio amore non l'ho fatto? Tutto ciò che posso dissimularti per risparmiarti dei dispiaceri non te lo dissimulo? E tu me ne ringrazi con un aumento di sospetti ingiuriosi e d'insulti! La mia sincerità dovrebbe rassicurarti e t'irrita! Gli stessi fastidi che mi prendo per nasconderti quelle cose che possono ferire il tuo amore o il tuo orgoglio dovrebbero provarti che io ti amo tanto, sino a mentire per te!" Io la guardai in viso coll'occhio freddo e scintillante di collera come una lama di acciaio, e le piantai in faccia queste parole, come una pistolettata a bruciapelo: "Non vi credo!" Ella si celò il viso tra le mani, e si lasciò cadere sulla poltrona, come se quelle parole le avessero schiantato il cuore. Poscia levò verso di me il viso tutto bagnato di lagrime, e i singhiozzi le soffocavano la parola: "Perché?" balbettava "perché?" "Perché ti ho visto fingere allo stesso modo sul palcoscenico; perché il tuo volto è una maschera; perché dubiterò sempre che tu mentisca; giacché la tua arte è una menzogna!" gridai fuori di me, sputandole in faccia tutta la mia rabbia, tutta la mia gelosia e tutto il mio amore. Mi attendevo un'esplosione di collera. - Ella si alzò, pallidissima, si tenne ritta in faccia a me, piangendo silenziosamente e cogli occhi come attoniti per tanto dolore. Le labbra le tremarono due o tre volte prima di poter parlare. "Non mi credi!" balbettò. "E che dovrei fare perché tu mi creda? Dillo." "Dovresti abbandonare il teatro." "Oh!" "Dovresti romperla con tutto il mondo." "Oh!" "Dovresti venire a vivere con me." "Oh, no! non lo farò mai, perché ti amo!" mi rispose con uno scoppio di pianto. "Ah! è una ragione singolare!" "Si! Tu pel primo te ne pentiresti, tu!... No! no! no!" Allora, due o tre volte, feci per precipitarmi su di lei, e strangolarla; le gettai in faccia un sorriso che valeva uno schiaffo, e scappai via. Quando la notte tornai a casa, con tutte le smanie, tutte le frenesie, tutte le più pazze risoluzioni in cuore, trovai Eva, sulla soglia della porta, che mi aspettava. "L'hai voluto:" mi disse semplicemente, "ecco che t'ho obbedito." *** Credetti di esser felice. Ella mi apparteneva intieramente; non aveva che me. Mi pareva di avere avvinto più solidamente la sua esistenza alla mia, rompendo tutti i legami che l'attaccavano al mondo esteriore. Io più non sarei stato geloso di tutta Firenze, e avrei potuto uccidere come un cane colui che avesse osato stendere la mano verso la mia felicità. Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l'avevo abbellito con seducenti particolari. L'idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso. Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi. Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture. L'avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera. Ahimè! il domani, allorché la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorché ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorché accese il fuoco del mio camino e si tinse le mani - quelle candide manine - e tossì due o tre volte pel fumo, allorché dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa; mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina - di quelle che piacciono - ma io avevo bisogno di adorarla! Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni. La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidi, di mille sorprese, ed anche di mille dolori. Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l'anima alla vista di lei che, con un'abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche. Mi era parso che lo starle sempre vicino dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore. Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno - lei che mi aveva tutto sacrificato - domandavo a me stesso se ella soffocasse, come me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perché mi amava di più, o in un altro modo, o se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l'affetto del focolare domestico ... oppure se la sua condizione, l'educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità ... E finivo per darle torto - a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse con la più volgare disinvoltura ... Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore. Non mi sono mai sognato di giustificarlo. Ti faccio osservare un fatto. Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima, m'invadeva tutto, la mente come il cuore. L'arte mi negava anch'essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino ad essa. Però fu un altro gran dolore per me. Provare la febbre e l'impotenza di creare! L'hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi aveva riempita l'anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti, e mi rendeva ebete; e qualche volta mi ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee o pennellate che il giorno dopo scancellavo. Ella mi guardava con sorpresa, mi stringeva le mani, mi diceva delle parole affettuose. Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l'anima così vuota, piangevo tutt'altre lagrime. Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai. Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll'oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici, ed anche coi semplici conoscenti, poiché la necessità mi aveva reso sfacciato. Avevo momenti di preoccupazione tale che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera. Non osavo più scrivere ai miei genitori perché avevo l'orgoglio del mio fallo, ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia onde prolungare la mia dolorosa follia. Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorché ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure. Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni - dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi. *** Il verno era ritornato, e rigidissimo. Io andavo al caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava a casa. Mi occupavo delle quistioni internazionali e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando. Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria al mio colore - poiché avevo già un colore politico! - il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento. "Perdio!" dissi ad Eva aspramente; ella lavorava presso il lume. "Non vien certamente la voglia di tornare a casa." Essa levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose. "Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaia!" ripresi. Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaia ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l'Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del caffè. "Non è freddo" rispose. "Perdio, s'è freddo, si gela." "Non c'è più legna", soggiunse timidamente. "Non ce n'è più in Firenze?" Ella chinò il capo sul lavoro e stette zitta. "Non hai danari?" domandai. Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti della mia intenzione. "No", rispose Eva dolcemente. "Come! non hai danari?" replicai, senza che la parola quella volta mi ripugnasse. "Hai fatto delle spese straordinarie?" "No." "Ma non siamo che ai venti del mese." "È vero." Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile di acciaio. "Vuol dire ..." esclamai, sentendo che la voce mi tremava, "vuol dire che i danari che ti ho dato ciascun mese ... non bastavano!" "Che importa?" mi diss'ella sorridendomi con la stessa dolcezza. "Ma allora ... come hai fatto?..." "Avevo del danaro." "Tu!!!" e mi nascosi il volto fra le mani. Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poiché il mio cuore non si commoveva più. "Sì." "Tu non avevi nulla quando venisti." "Avevo quei pochi gioielli." "Li hai venduti?" "Sì." "Ah!" Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte. "Non mi ami più?" disse. "Perché?" "Perché quello che io ho fatto ti dispiace." "No." "Ti fa arrossire." "Sì." "Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me." "È tutt'altra cosa; io sono un uomo." "È lo stesso quando si ama!" Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che avevano le migliori intenzioni di adorarla. Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s'incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide. Le prime parole che mi vennero in bocca furono: "Ed ora come si fa?" "Bisogna aver coraggio!" "Oh, se potessimo contentarci delle belle parole!" le dissi aspramente. "Mio Dio!" rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, "non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicché quando gli ho voltato le spalle possedevo ben poco. Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l'ho nascosto per risparmiarti un dispiacere di più. Adesso non ho più nulla." "Io non vi ho chiesto nulla!" le dissi amaramente. "Oh!" "E se l'avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!" "Oh!" ripeté Eva con un raddoppiamento di dolore. Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita. "Enrico!" mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d'amore, "vedi come sei diventato? Vedi se m'ingannavo presagendo quel ch'è successo? Tu te ne sei pentito pel primo!" L'abbassamento morale, direi, era così pronunziato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio doveva pesarle sul cuore come piombo fuso. Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinare un'imprecazione. "Arte pitocca e bugiarda!" esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto "che vai tronfia d'orgoglio e non dai pane da sfamare!" Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata. Io le risposi quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbiezioni: "Ed ora come si fa?" Non rispose. "Se tu tornassi al teatro?" le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria. "È impossibile;" rispose colla stessa calma rassegnata; "non è la sola abilità che forma l'artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari. Bisogna vivere in questo mondo per appartenervi. Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce. Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo." Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l'estensione del sacrificio che ella avea fatto alle mie folli esigenze. "E tu sapevi tutto questo?" le dissi. "Sì" rispose tranquillamente "e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno." "Ti giuro," esclamai, "che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!" Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce: "Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi mai promesso di ucciderti." *** Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercare altre occupazioni che mi fruttassero qualcosa. Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo. Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l'una. E neanche questo bastava. Io ero inquieto, irascibile, dispettoso. Ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella. Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava. Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme. Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all'erta. Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperata una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi - faceva già dei risparmi! - Aveva dei guanti e si abbigliava con cura! Quell'aria di festa si era stesa anche al mio focolare e sulla mia mensa - ed io ne godevo come un parassita! Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata. Una sera trovai la chiave nella serratura. La camera era buia. La chiamai e non rispose. Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c'era una lettera aperta; era per me - ecco che cosa lessi: " Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno - e siamo pari. Te l'avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più. Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessori. Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te. Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale. Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera. Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò. Eccoti 500 lire. " *** Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo. Tutto quello che c'è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrime. Poi, quando la tempesta è passata rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità: - il dispetto, l'amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata. Trovandomi solo in quella camera ove m'aveva aspettato tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui ella l'aveva abbandonata; e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l'impressione del suo capo non pensai a quell'altro letto dove ella forse dormiva, se non perché non era il mio. Non pensai a quei baci che più non desideravo se non perché un altro li aveva. E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell'arte, dell'avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero prima senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l'animo in festa: esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell'abbandono di Eva. Scrissi ai miei genitori, fumai la mia pipa, riordinai tutti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all'arte perché l'arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l'indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani - e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto quando l'avessi vista. Ahimè! io non la rividi! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per esso, mi avea prostrato intieramente, e aveva isterilito il mio ingegno. Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell'intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza. L'avvilimento mi snervava, e logorava la mia vita nell'ozio, sulle panche di un bigliardo o di un caffè. I debiti, l'inerzia, e la miseria mi affogavano; tutta l'attività del mio spirito non aveva altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango - ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire. *** Poi anche questo finì. E allora incominciai un'altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d'amor proprio, delle viltà, contro un desinare. Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio del mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che si devono provare al momento di smarrire la ragione. *** Mi venne in mente di giocare. Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d'esser ricco possedendo cinque lire e quella bella idea. Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l'un l'altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l'altra, poi l'altra, poi l'ultima. Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti. Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che doveva decidere dell'ultima mia lira. Tu non sai quel che voglia dire l'ultima lira; vuol dire il pane dell'indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!... Poi sentii una gran calma improvvisa, come una specie di benessere, una terribile lucidità d'idee. Avevo perduto. Almeno non avevo più nulla! Scesi le scale con passo fermo. Avevo la vista chiara e la mente tranquilla. Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzi degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai pel Lungarno alla Pescaia, e stetti una mezz'ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo. Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada. Avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare a letto. *** Il giorno dopo pensai che era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell'idea non mi fosse venuta prima. Quell'idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze. Giorgio non era in Firenze. Domandai quando sarebbe ritornato; mi risposero, fra dieci o quindici giorni. - Dieci o quindici giorni! Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un'arietta fra i denti. Mi venne in mente di fumare. Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno. "Se potessi cambiarlo con un sigaro!..." pensai, "o con un pezzo di pane!" E credo anche che scappai a ridere! Avevo una preoccupazione insistente; quella di ammazzare il tempo come se aspettassi qualche avvenimento e l'indugio mi pesasse. Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacché non avevo più fiducia nell'ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi la solitudine. Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco. Andavo baloccandomi come un imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse e brune su di un cielo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull'erba riarsa dal gelo in cerca di cibo - anch'essi avevano fame. Tutt'a un tratto udii uno scalpito accelerato e un grido "guarda!" e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! E vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere e un'amazzone. L'amazzone era lei, Eva! - la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona: ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava e non mi vide - credo almeno che non mi abbia visto. Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo. Ella era leggermente inclinata sulla sella; acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo, con grazia ardita e sicura. Si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella; il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona. Il giovane che l'accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l'insolenza di tutte le ricchezze, della gioventù, della salute, dell'avvenenza, della condizione e del danaro. Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane mi parve tutt'altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito. Più non sentivo il menomo desiderio di lei. C'era come un abisso fra di noi. Ella era così lontana, così in alto, che non provavo né desiderio, né memorie - o erano di tutt'altro genere. - Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l'avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà ... quando ella avesse svoltato l'angolo del viale!... *** Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all'osteria dove solevo desinare. Mi sentivo stanco, e mi rammentai che non avevo mangiato dal giorno innanzi. Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo. "Dio mio!" balbettai, "se lo sapesse mia madre!" Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza sapere che fare, guardando stupidamente tutti quelli che incontravo, non per altro che per cercar d'indovinare se avessero desinato. *** Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito. Tutta la notte non potei chiuder occhio: provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire. Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuto molto tempo addietro. Nella mia mente c'era un penoso sonnambolismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro certe larve senza forme precise, o dietro le memorie del passato. Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva, anzi una forza che non era nella mia volontà vi costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro. Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso. Prima di tutto l'amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c'erano che circostanze negative. L'avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi. Quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali. - Io avevo fame! *** Avevo anche preoccupazioni lugubri. Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell'idea. Non osavo uscir di casa, non ne avrei avuto la forza, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame. Avevo ancora dell'orgoglio! L'aria era frizzante. Dalla finestra vedevo la gente andar lesta, certuni avevano la cera sorridente: molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare. Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande. Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di mente, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà; e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c'era un uomo che moriva di fame. *** La sera le mie sofferenze si fecero insopportabili. Uscii come un pazzo. Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè e a tutti i teatri, nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente. Poi, tutt'a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo. Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l'uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati. Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise. Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; - gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono. Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: "Ho fame." Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire. Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse: "Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?" Però non attese altra risposta da me - io non avevo alcuna da dargliene - e soggiunse: "Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici." *** Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch'è più raro, la delicatezza del cuore. Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro. Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia. Mercè sua entrai in un'altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata. Povero giovane! aveva il cuore pieno e l'espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì – egli avea creduto che fosse inesauribile. - La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d'abiti e d'amiche intime. - Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso - il marito fece da secondo del capitano. - I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere che l'avea ricompensata di tutti i sacrifici ch'ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito. Egli pagò con la vita. *** Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant'è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi. *** Io avevo vissuto vent'anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d'immaginazione. Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d'anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita. Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita - io che avevo avuto l'anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l'avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c'era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell'arte com'ero fuori del vero nella vita - e il pubblico mi batteva le mani. Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano. Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l'arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell'atmosfera come un nuotatore che annega. Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo. Non credevo più nell'amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica - e mi sbramavo nel capriccio. Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione. Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l'atmosfera era calda di effluvi giovanili. - Come vuoi che io potessi comprender l'arte in tali condizioni?... mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale. Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell'innocenza dello sguardo. Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me. Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala. Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè. Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l'oscurità e i miei castelli in aria. Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch'ero sognatore, perch'ero ombroso e diffidente, perch'ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore. Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo - Non so quale. *** Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell'opera in voga, e della più bella pariglia. Era un'appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri. Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei - i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati. - Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov'ella aveva dormito tanti sonni - ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d'incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità. - Non era più amore, ma era vanità. - Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l'uno per l'altro. Non l'avevo più vista. La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina. Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso - ricordi che mi montavano alla testa. - Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri. *** Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell'olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario. Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi. Tutt'a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l'occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia - era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola - ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch'era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà. Però l'osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell'occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante. La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto. Allora anche l'altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva - Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l'amore negli occhi - anzi, la voluttà - e il sorriso inebbriante - il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti. "Chi c'è nel palco numero tre, in seconda fila?" domandò la dea con quell'accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali. L'officioso più lesto e più fortunato rispose: "Il conte Silvani." "È un pezzo che non si vede il conte!" "È stato in Germania." "E ha preso moglie?" "No." "Ah!" Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia. Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore. La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l'occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all'insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore. Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; - il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! - Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell'occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra. Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente. Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso il conte. *** Un giorno all'improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi. Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l'amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari. È impossibile esprimerti tutto quello che c'era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti. Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, - e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano. Poi, dopo ch'ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano. - Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine. Alle sei poi davano in tavola - mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante. *** "Matto! matto!" mi disse lisciandosi i capelli allo specchio. "Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?" "Quale dea?" "Quella del Pagliano, la superbiosa. L'ami molto?" "Punto." "Ti credo. Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre. L'amerai per vanità." "Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità." "Come sei diventato!" e mi guardava tutta sorpresa, con cert'aria ingenua che possedeva ancora. "Dimmi come amano le gran dame" e annodava i nastri del cappellino. "Come le piccole." "Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio." "Verrai a trovarmi?" "No." "Verrò io?" "No." "Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!" Ella mi guardò e scoppiò a ridere. "Proprio?" mi disse. "Come dell'aria per respirare!" "Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!" "Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?..." Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse: "Ero gelosa!" "Dunque mi ami!" "No. Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!" riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi. "Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli. Non scherziamo più col fuoco!" Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse: "Ti giuro che se avessi prevista cotesta nuova follia non sarei venuta!" "Ah! non lo sapevi?" "No! Mi pareva di trovarti più ragionevole." "Ma adesso che vedi come non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perder la testa, perché non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?" Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente: "Perché ho più giudizio di te." "Non mi ami più?" "No." "Perché sei venuta dunque? dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio?..." "Sì ... e se durasse sarebbe una follia ... per te, e per me." Allora io andai all'uscio, senza far motto, e l'apersi. "Senza rancore!" diss'ella stendendomi la mano. E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente soggiunse: "È pure una gran disgrazia che siate fatto così." Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi. Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli. *** Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato. Io l'adoravo, sì, l'adoravo così com'era, l'adoravo perch'era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani. Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l'ombra di lei accanto all'ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le vie e vidi il suo capo sull'omero di lui. - Ella mi ravvisò, e chiuse le imposte o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall'altra parte. - Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll'amore, ed ora mi intossicava con la gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso. Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: " Una follia non si fa due volte o diventa sciocchezza ". - Una sera la rividi in teatro; ella non mi gettò che un'occhiata dal suo palchetto - a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui. Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un'occhiata di collera, forse senza riconoscermi. *** E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei ch'è memoria e gelosia mischiate insieme; e cerco di vederla; e frequento i luoghi dove spero incontrarla; e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa; e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch'era proprio lei non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l'ora in cui la carrozza verrà a prenderla, e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanare il conte per andare a comprarle dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera. "Voi!" esclamò. "Ancora!" "Sì! non tentate di sfuggirmi; voglio il tuo amore!" "Siete pazzo!" mi disse, gettandomi in faccia la doccia fredda della sua calma. "E voi senza cuore!" "Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che avete messo alla porta quasi in cenci!" "Ah! e volete vendicarvi!..." "No, ve lo giuro. Non sono in collera con voi. Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia. Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore; ecco il nostro torto, perché anch'io ci ho creduto per un istante. Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci questo lusso." "Non credete all'amore?" le dissi insolentemente. "non ci credete più?" "Oh, tutt'altro! È il ferro del mestiere. Ma credo a quello degli altri. Anche voi dovete crederci, ma in tutt'altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini." "Oh, è un'infamia!" Ella si drizzò come una duchessa cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente: "Me l'avete insegnata voi! Ora andatevene, ché viene il conte." "Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!" "Ah!" esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei "mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte, oltre il pagarmi tutto questo, regala anche dei famosi colpi di spada!" "Pel nome di Dio!" mormorai ebbro di collera e di gelosia, "che egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!" "Tu sai che ho scommesso!" finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti. *** Enrico si passò la mano sugli occhi, per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio: "Sono pazzo! lo so anch'io! Ma la ragione mi è insopportabile. Non ho più fede nell'arte, nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, nell'amore ... e son geloso!..." "Hai visto le sue braccia nude?" mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno. "Ma la tua famiglia?" gli dissi. Non rispose. Poscia, dopo un lungo silenzio e asciugandosi gli occhi. "È il solo dolore che mi rimanga!" "Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente." Enrico mi rise in faccia con un'ironia quasi insolente. "Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure. Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?... i miei infami sogni? i miei sozzi desideri? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così in basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva, nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella, coi baci che ho dato a quella donna!" Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione. "Fra mezz'ora," mi disse, "al buffet; il conte vi ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno. Sono le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare." Mi toccò appena la mano, ed uscì. *** Egli mi aveva rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato. Io non potrei accennare la millesima parte dell'impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile di un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva ed urlava nel suono della voce, nel tremito delle labbra, nelle lagrime degli occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch'essa ebbra di vino e di musica rimbombante. Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava. Ero rimasto attonito, quasi annichilito dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi. Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, da per tutto. Dov'era andato? Vidi l'elegante coppia che aveva attirati tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii. Quella strana avventura mi aveva gettato in una singolare preoccupazione. Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso. Era l'ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia, fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua. Aveva il viso rosso, volse in giro un'occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno. Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l'eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile. A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa. Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano, e si parlavano a bassa voce. Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall'uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte. La mezz'ora suonava. Io tenevo gli occhi fissi su di Eva, e tutt'a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all'orecchio del conte e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna. Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l'aspetto di un cadavere. Non so perché - non conoscevo, direi, costui che da due ore - ma il cuore mi batté forte. Infatti vi dovea essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poiché tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa. Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise. "Tò! ancora quell'originale!" Enrico gli si avvicinò con tutta calma, e si tolse il berretto con comica serietà. "Ti diverti?" gli disse sorridendo il conte per dire qualche cosa, giacché quel saluto gli avea tirato addosso l'attenzione generale. "Sì! in fede mia, si! quando ti vedo mi diverto." "Mi conosci?" "Diavolo! Chi non ti conosce!" "Bevi alla mia salute, dunque", gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante. "In coscienza non posso; ché tu stai molto male!" "Ah! ah! una delle solite facezie!" sghignazzò il conte rivolto ad Eva. "Adesso ci dirà i nostri segreti!" Io guardai Eva e la vidi pallida come cera. "Oh! oh!" rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; "il segreto di pulcinella!" Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi per vinto alla prima, e replicò: "Sapevo la tua risposta: è vecchia come il tuo travestimento." "Da arlecchino d'onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano, ti dirò quelli di lei" e accennò ad Eva. "Non i segreti del suo cuore, poiché non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita." Eva fece un movimento per alzarsi, quasi avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare. Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che sorridevano. Ci fu un istante di silenzio. Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma. "Ah! davvero? E come lo sai?" disse il conte con uno sforzo d'audacia, perché era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio. Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le parole, e rispose lentamente: "Lo so, perché sono stato l'amante della tua amante." Nell'occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora. Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva. Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l'occhio smarrito quasi stesse per svenire. Tutti quegli occhi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il sangue freddo di lui. Egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all'altezza del naso di Enrico ed esclamò: "Alla salute dei tuoi amori passati dunque!" e vuotò il bicchiere d'un fiato. Ci fu uno scoppio di applausi. "Bravo!" disse anche Enrico. "Sei un uomo di spirito!" "Grazie!" "Io lo sapevo, e perciò ho fatto la scommessa." "Davvero?" "Sì, ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non l'avresti avuta a male." "Eh, caro mio! Scommessa arrischiata!" rispose il conte che cominciava a farsi serio. "Ohibò! Sei un uomo ammodo! Guarda!..." E senza precipitazione, con quella calma che non l'aveva abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sé, e non si aspettava certamente quell'eccesso di follia, e la baciò sulla guancia. Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo. "Oh, oh" esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa. "Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute." *** Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico. Silvani era partito. Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po' inebetito come quando girava fra la calca del veglione. I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto. Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza. - Quella musica, quell'allegria scapigliata e quell'uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore. Allorché fummo in carrozza, m'accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre. Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò. "Non occorre;" mi disse, "fa caldo." "Hai la febbre!" "Lo so. Son parecchi mesi che l'ho tutte le sere ... Passerà." E rideva. Era ancora buio. Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico. Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale. L'aria era frizzante; i primi chiarori dell'alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l'incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull'orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un'ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati. L'alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero. Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca. Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio. Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai. Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti. Il conte accese un'altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo: "Sarà una bella giornata." Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza. Enrico si tolse l'abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l'aria con essa. Successe un istante di silenzio. Poi si udì una voce: "A voi, signori!". E le due lame scintillarono. Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo. Enrico avea la guardia un po' spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d'un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno. Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona. Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare. Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l'odio che si scontrava con l'odio. Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell'avversario con un movimento felino. Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente. A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall'altra parte del suo petto. "Alto!" gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti. "Non è nulla!" disse Enrico scoprendosi il petto. "È una scalfittura." Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato. Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch'era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta. Il chirurgo - un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il dottore dal cappello bianco - esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle. "Diavolo!" esclamò Enrico. "Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa." Il dottore voleva fasciargli la ferita. "No," egli rispose; "il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio." Il conte s'inchinò. Non c'era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro. Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse. Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell'occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all'indietro: sembrava una molla d'acciaio che stia per scattare. Il conte l'assaliva colla furia di chi capisce d'avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso. Tutt'a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d'un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada. Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio. Tutti si precipitarono su di lui. Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto. Il dottore dal cappello bianco s'inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia. La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue. Sembrava davvero una cosa da nulla. Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell'accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: "La carrozza! presto, la carrozza!" *** Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti. Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia. Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant'Agata-li-Battiati, ove mi trovavo. Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante. Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva: " Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest'ultimo servigio. " Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera. Fuori Aci Sant'Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l'incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione. Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso i campi. Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra. Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo che moriva. Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare. Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi. Si vedeva diggià il cadavere: il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l'occhio incavernato. Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l'anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto con un sibilo. Sedetti di faccia a lui. Egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi ancora quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare. "Grazie!" mi disse tutto commosso. "Tu almeno non mi hai dimenticato!" Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimé!, non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente. Poi si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito. Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell'occhiaia incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell'altro mondo. Nell'impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava correre, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle gote; poscia quella pallidezza si faceva più mortale ancora. La madre teneva abbracciati i cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l'occhio asciutto, quasi il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime. Feci un movimento per alzarmi. Egli che possedeva la squisita percezione di tutto ciò che si faceva vicino a lui, come l'hanno i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi. Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre. Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c'erano lagrime: c'era un silenzio che spezzava il cuore. "Mamma!" disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola. "Ecco il mio amico. Tu gli vuoi bene, non è vero?" La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente. "Dove sono gli altri" domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato. "Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l'Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto." "Il medico!..." mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore. Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere. "Ti ho disturbato forse?" mi domandò dopo alcuni istanti. "Oh, no!" "Avevo bisogno di vederti ... e di parlarti." Mi fissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse: "Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te. Eppoi" e sorrise dolorosamente "ho diritto alla tua indulgenza ... come tutti quelli che se ne vanno verso quelli che rimangono ..." "Enrico!" esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui. Anch'egli rivolse su di lei quegli occhi che dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime. "Mamma!" le disse dopo una qualche esitazione, "non vorresti dire all'Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?" La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò. Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca. Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore. "Io muoio!..." diss'egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare. "Lo vedi!..." Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza. "Coraggio, povero amico mio!" "Credi dunque che mi rincresca di morire?... Io non avrei bisogno di coraggio ... se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!" I suoi occhi, dove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime, mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno. Il suo cuore d'artista, che possedeva la squisita suscettibilità d'idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tante ricchezze di vita. Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l'angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso: "Com'è bello tutto ciò!... Io solo posso sentirlo in quest'ora ..." Rimanemmo qualche tempo in silenzio. "L'hai veduta?" mi domandò tutt'a un tratto, come se non ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato. "No!" risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento. Egli capì, e sorrise ironicamente. "Ah! voi altri puritani!... come siete sciocchi!" Aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte. Le ossa sembravano forargli la pelle gialla e arida come cartapecora. "Guardala!" mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, "e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!" Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato. "Quando sarai al punto in cui sono," mi disse Enrico, "o quando sarai vecchio, il che è peggio, maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!..." E c'era tanto calore nel paradosso di quel moribondo che lo rendeva, direi, solenne. "Oh, povero amico mio! Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così." "Che m'importa!" saltò su Enrico con tal impeto quasi un serpe l'avesse morsicato. "Che m'importa della coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m'importa del vero e del falso!... Ho tempo di perderci la testa, io?... e neanche voi altri ce l'avete ... voi che m'isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano, forte ... tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento ... Eppure, vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza ... un soffio ... e se ne vanno!... E l'uomo ... l'uomo che sente dentro di sé ancora tutto questo inesplicabile mistero di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha né indebolito, né ucciso, l'uomo che lo sente più forte e tumultuoso per quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a se stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!... Chi lo può dire?... Nessuno. E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?" Tacque anelante, rifinito al pari di un uomo che abbia fatto una lunga corsa; e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa: "Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità. Tu che mi parli di gioie false dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? - O perché rimorsi? – Qual è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? - E qual è la donna più degna di amore, la più casta, o la più seducente? - dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere? - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio - o che gli s'inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos'è? Quali sono i suoi diritti? - e non mentisce? - e non s'inganna? - e non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? - e quell'altra di biasimare?" Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere. La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli: era uno spettacolo straziante. "I pazzi son più felici di voi" e ripeté due o tre volte questa frase. "Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perché le maledite quando son belle?... Voi altri savi ... che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai ... o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!... il pazzo come vi chiamerà, voi altri savi?" "E l'arte ..." soggiunse dopo poco, "Menzogna anch'essa!... Menzogna ... o illusione!" Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi come se la vita l'avesse abbandonato intieramente. Era un lugubre silenzio. Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, e dove c'era una tinta di sorpresa: "È strano!" mormorò; "mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei ... e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me ... Ora non lo desidero più ... Ho pensato ad Eva ... e alla mia giovinezza ... e li ho veduti lontan lontano ... Sarà perché sono stanco!" E dopo un altro silenzio: "Posso contare le ore che mi restano di vita, posso dire: Domani ... fra due giorni ... quando quel bel sole farà scintillare l'immensa pianura d'acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell'azzurro questo cielo ... quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie ... io sarò morto ... non vedrò e non sentirò più nulla ... nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno ... Che rimarrà di me? di tutta cotesta confusione di pensiero che sento in così fragile involucro?... Non lo so! nessuno me lo sa dire! Ciò è ben triste!... Non è vero?" Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l'orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza: "La vita!..." mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l'affaticasse, o gli lacerasse l'anima, e dopo una lunga esitazione: "Sì! sì ... c'è qualche cosa di vero nell'arte!..." Il dolore m'opprimeva. Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne. "Tu non muori, tu!" mi disse egli con una sublime e lacerante ingenuità "e forse la vedrai! Prendi" soggiunse dopo qualche secondo d'esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato. "Se mai la rivedrai un giorno ... se si rammenterà di me ... dagliele ... Se no ... fanne quello che vuoi ... bruciale ... Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella ... non devono vederle ..." Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto. In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano. "Maledetta!" esclamò trasalendo e buttando il ritratto per terra. "Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! Maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c'inebbrii con tutte le follie! Maledetta!" Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia smaniosamente; e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile. In quel momento temei sul serio che mi morisse tra le braccia. Allorché sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guance. Qual più doloroso spettacolo di persone che si adoperano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderselo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro; nel padre era cupo e profondo; nell'ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perché a quell'età non si crede giammai intieramente alla sventura. "Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico!" diss'ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello. "Ed ecco per lei ..." aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo. La ringraziai, commosso al vivo. Il desolato genitore venne a stringermi la mano. Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all'orecchio. Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse - quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante. Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe il coraggio di domandargli. Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l'angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo. "Perché mi lasci così spesso?" diss'egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza. "Accompagnai il dottore, figliuol mio ..." rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime. "Ah! ... il dottore!..." esclamò l'ammalato stringendosi nelle spalle. Nessuno osò aprir bocca. Mi alzai, poiché non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perché mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angosce. "Te ne vai diggià?" diss'egli stendendomi la mano. "Si." "Verrai domani?" "Verrò." Credeva ancora al domani! "Domani!..." esclamò quindi tristamente. "Chi lo sa?... Ad ogni modo," soggiunse stringendomi le mani, "baciamoci ... come due amici che si lasciano per lungo tempo ..." Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l'anelito del moribondo, mi trafisse il cuore. Egli mi seguì con quello sguardo che strappava le lagrime finché svoltai l'angolo della viottola. Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale. Mi parve un delitto rapirgli quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva. Partii addolorato profondamente. Tutta la notte non potei dormire. Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nell'agonia. Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant'Antonio. Sulla strada di Valverde incontrai i contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi. Lessi tutta la verità nell'occhiata che egli mi volse, e l'interrogai col solo sguardo. "All'alba!" mi rispose levandosi il cappello e segnandosi. Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi. FINE.

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