Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Malombra

670417
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Le voci si chetarono, si abbassarono, il curato e gli altri uscirono nell'orto discorrendo tranquillamente. "Niente di meglio" diceva don Innocenzo, soddisfatto, guardando Steinegge. "Ma!" rispose il capitano "a me l'ha proprio detto il signor commendatore Vezza. Io non gli domandavo niente; mi disse lui che stasera il signor Silla va via e che non bisogna credere a tutte le chiacchiere." "Oh!" esclamò Steinegge con due occhi scintillanti di lieta sorpresa. "Perdonate se io entro nei vostri discorsi. Come vi ha detto veramente il signor Vezza?" Il capitano ripeté quanto aveva detto prima, soggiunse poi quel che sapeva dello stato di Marina. Seguirono i commenti degli uditori, ciascuno dei quali aveva un'ipotesi diversa. Edith avea messo un po' di soggezione alle ragazze turbolente. Le raccontarono che il signor capitano aveva suggerito di far venire la ghirlanda da Como o da Milano, ma che loro avean voluto fiori del paese. L'armatura della ghirlanda si stava già preparando; quanto a' fiori, non avevano ancora pensato come li disporrebbero. Edith consigliò un intreccio di frondi d'ulivo e di rose bianche con una croce di viole. Volle coglier le rose ella stessa perché le povere piante non fossero straziate e i bottoni sciu pati senza necessità. Udiva gli altri parlare, e, immaginando che parlassero del Palazzo, si pungeva le mani senza avvedersene, tagliava gli steli o troppo lunghi o troppo corti. Era tanto pallida che le ragazze credettero si sentisse male e la pregarono di smettere. Ella confessò d'avere un po' di mal di capo, ma non volle smettere temendo esser chiamata da suo padre, avere a restar sola con lui e non sapergli nascondere il suo turbamento. Sopraggiunsero gli uomini, la salutarono, si fermarono a guardare i fiori, a chiacchierare con le ragazze della loro fortuna, dei tanti matrimoni che si farebbero quind'innanzi in paese. Steinegge era rimasto indietro. Edith lo vide. Egli pareva impaziente che il crocchio si sciogliesse. Camminava in su e in giù, dava un'occhiata ogni tanto alla gente che aveva preso radice, fra i rosai. Anche Marta venne a guardar dall'angolo della casa, facendosi schermo agli occhi con la sinistra. Ella disse poi qualche cosa a Steinegge, il quale accennò a Edith di venire, e le andò inc ontro porgendole l'ombrellino aperto. La rimproverò di volersi pigliare per forza un mal di capo e le disse scherzosamente ch'era in collera con lei perché quella mattina lo aveva abbandonato ed era corsa via come una farfallina capricciosa. Dove mai avea svolazzato la signorina? Già si saran fatte delle imprudenze, si sarà andati in qualche luogo pericoloso, vicino a qualche acqua infida, piena di malinconie, per raccogliervi canzonette gittate via mesi addietro. "Oh, papà" disse Edith "non va bene, prima di tutto andar a guardare nel mio album, e poi non va bene far certe supposizioni. Le ho lasciate dove sono, io, le malinconie; nel lago, nell'Aarensee. E della canzonetta, lì sulla riva, non ho trovato che il titolo. Quello non fa male. E poi non ti ricordi come abbiamo riso l'anno scorso? Lo finirò quello schizzo e ci metterò Lei, signore, che corre poco rispettosamente dietro sua figlia, con l'ombrello sotto il braccio. Vorrei poterci mettere anche quelle risate ." "Ne metteremo delle altre" disse Steinegge. "Vedi questo sole, questo verde, questo vento se non è tutta una grande risata! Pensa se noi fossimo a Milano! È giovinezza che si beve qui. Non vogliamo camminare, oggi. Sei stanca?" "No, papà; ma dove vuoi andare?" "Così, a passeggio. Signora Marta! Signora Marta! Posso io domandare quando si pranza?" "Alle tre" gridò Marta dalla cucina. "Allora possiamo andare, per esempio, fino alla cartiera." "Bravi, bravi! Vengo anch'io" disse don Innocenzo, che avea congedato allora allora tutta la brigata. "Devo parlare all'ingegnere direttore dei lavori." Edith salì alla sua camera per il cappellino e i guanti. Quando ridiscese, suo padre ed il curato, che parlavano insieme, s'interruppero. Ella vide loro in viso una contentezza nuova, si fermò, interrogandoli con lo sguardo. "Andiamo! Presto!" disse Steinegge, e dimentico questa volta delle solite cerimonie, s'incamminò per il primo. Don Innocenzo colse il destro di sussurrare a Edith: "Non c'è più niente tra quei due: egli parte stasera". Edith aperse la bocca per domandare qualche cosa, ma suo padre si voltò a chiamarla e anche Marta gridava dalla cucina: "Facciano presto che non hanno mica tanto tempo!". Edith non ebbe più modo di domandare spiegazioni. Solo all'uscir dal cancello il curato le gittò nell'orecchio altre due parole. "Forse il Suo biglietto!" "Il mio?..." rispose Edith. Don Innocenzo fe' cenno di sì e andò a prendere il braccio di Steinegge. Edith, trasalì. Il curato non le aveva detto che il suo biglietto era stato consegnato. Come mai, dopo quei fatti? Anche questa partenza di Silla era ella una fortuna così grande? Non veniva dopo mali irreparabili? Sì, ma però era un bene, senza dubbio. Pazienza, pensava, se il suo biglietto aveva fatto del bene, pazienza essersi posta senza saperlo, fra così turpi intrighi, aver parlato meglio che amichevolmente a chi se n'era reso indegno. Vi si rassegnava, ringraziava Dio, che si fosse servito di lei per un atto di misericordia. Ma sentiva in pari tempo che il sacrificio proprio sarebbe diventato in avvenire più difficile, tormentoso, che quest'uomo avrebbe tentato riavvicinarsi a lei, discolparsi de' suoi errori. E allora? Allora la lotta sarebbe ricominciata nell'animo suo, quanto fiera! Perché se a Milano avea sperato esser tocca nella immaginazione soltanto e s'era studiata di convincersene con un attento e forse imprudente esame di se stessa, adesso non s'illudeva più: era il cuore che mandava sangue. "Edith!" chiamò suo padre perch'ella era rimasta qualche passo indietro. Ella alzò gli occhi, lo vide a braccio del curato, un lampo di speranza le attraversò l'anima. Balzò a fianco di suo padre. "Eccomi" disse. Entravano allora nella strada nuova che spiccandosi dal villaggio recideva i prati sino al fiume: una brutta cicatrice a vederla dall'alto, come di qualche gran fendente calato sul verde: bianca, dritta, fra due righe di pioppi nani, sottili. Piacevole passeggio, però. Era voluttuoso mettersi per quell'ampio mar verde, morbido, magnifico nel suo disordine di fiori, potente nell'odor di vita che ne saliva, nelle ondate d'erba che slanciava da destra e da manca ad assalir l'argine della strada, ad ascenderlo per ricongiungere un giorno sopra di esso la sua pompa, i suoi amori eterni. I piccoli pioppi si movevano al vento; qualche grossa nube bianca vagava pel cielo, e l'ombre ne correano sui prati, sulla celeste lama scintillante del lago, la tingeano di viola. "È magnifico tutto questo verde" disse Steinegge guardandosi in giro. "Pare di essere in fondo a una tazza di Reno." "Vuota" osservò don Innocenzo. "Oh, questa è un'idea triste, non affatto necessaria. Vi è pure in questa tazza, che Voi dite vuota, una fragranza, uno spirito che exhilarat cor, che rischiara il cervello, non è vero? Io mi meraviglio di Voi: io sono molto spiritualista adesso, amico mio, sono capace di trovare che l'acqua del fiume dove andiamo, bevuta lì sulla riva sotto quei grandi pioppi, contiene sole, ha un sapore di primavera ilare che inebbria meglio del Johannisberg." "Si voltino" disse don Innocenzo "guardino la mia casetta come sta bene." Stava bene infatti la piccola casetta, al di sopra delle altre e in disparte, bianca sotto il suo tetto inclinato. "Pare che ci guardi anche lei" osservò Edith "e ci sorrida come una buona nonnina che non si può muovere." "Oh" esclamò Steinegge "io sarei felice di viver qui." "E io, papa? Pare di sentirsi voler bene da tutto, qui. A Lei, signor curato, ci trovi un nido." "C'è il mio" diss'egli. "Bravi, vengano a stare col vecchio prete. Perché no? Non sarebbe una bella cosa? Non starebbero bene in casa mia? Mi par che Marta s'ingegni abbastanza, non è vero?" Edith sorrideva, suo padre si confondeva in esclamazioni e proteste di gratitudine. "No, no" disse Edith. "Prima, è una cosa impossibile per noi lasciar Milano, e poi così non andrebbe. Ci vorrebbe un'altra casettina." "Veramente? Lei starebbe qui, per sempre, in questa solitudine?" Edith rispose con gli occhi gravi, meravigliati. Don Innocenzo ammutolì. "Non sarebbe il solo tesoro sepolto in questo paese" disse Steinegge volgendosi al curato con un gesto ossequioso. Don Innocenzo si schermì, arrossendo e ridendo, dall'incensata. "Anche Lei ci sarebbe, non è vero?" diss'egli. "Oh no, io sarei qui un tegame preistorico. Io vi starei molto bene, ma mia figlia non deve, oh no!" "Perché mai, papà?" Egli rispose impetuosamente in tedesco, come faceva sempre nel bollore dell'affetto o dello sdegno. Si voltò quindi a don Innocenzo senz'aspettare la replica di Edith. "Non è vero" diss'egli "che questo paese non è per una giovane signorina, a meno che non fosse una Nixe?" "Una Nixe? Chi sa?" disse Edith. "Amo le acque limpide, i prati, i boschi..." "Oh sì, ma io non credo che le Nixen amino anche dei brutti vecchi gialli come me e vadano a spasso col signor curato. Sai cosa vedo io adesso nella mia fantasia?" Il bizzarro uomo si fermò, allargando le braccia e chiudendo gli occhi. "Vedo il molto onorevole signor Andreas Gotthold Steinegge che ha i capelli un poco più bianchi di adesso e sta in casa del suo carissimo amico qui vicino, il quale non ha affatto più capelli. Io vedo questo signore tedesco che tiene un giornale in mano e sta fortemente discutendo sulla questione dello Schleswig-Holstein con il suo amico il quale gli fa portare... un dito, un solo di Valtellina per mandar giù il duca di Augustemburg. Eh? Non è questo?" Aperse gli occhi un momento per guardar don Innocenzo che rideva e tornò a chiuderli. "E adesso vedo... Oh, cosa vedo? Una giovane Nixe vestita da viaggio che entra in salotto come una stella cadente, abbraccia il vecchio gufo tedesco e dice che è venuta a passare due giorni fra le acque limpide, i prati, i boschi. "Sola?" dice il gufo. Allora questa Nixe fa un piccolo gesto con un piccolo dito che io conosco..." Steinegge aperse gli occhi, prese la mano di Edith per baciarla; ma Edith la ritrasse in fretta ed egli, lasciatala, fece quattro gran passi avanti ridendo, e si voltò a guardarla. "Non è una bella visione?" diss'egli. Edith tardò un momento a rispondere. Non sapeva che pensare. C'era in quel discorso di suo padre una occulta intenzione, un proposito deliberato? "Dunque sei stanco di me?" diss'ella. "Vuoi viver solo?" "Come solo?" esclamò don Innocenzo. "Non sente che vivrebbe con me?" "Io sono stanco, molto stanco di te" rispose Steinegge "ma non vorrei vivere solo. Verrei a riposarmi della tua compagnia, qui con il signor curato, per qualche mese dell'anno. Vedi, io non scherzo più adesso, io avrei bisogno di stare molto, molto tempo qui con il signor curato." Edith guardò quest'ultimo. Era egli entrato nel grande argomento? Si avviavan bene le cose? Il curato guardava con attenzione un baroccio che veniva dalla cartiera, faticosamente, sulla strada male assodata. "Noi vogliamo cercare una pietra filosofale" continuò Steinegge "una pietra che cangi in oro tutto quello che è brutto, scuro fuori di noi, e, molto più, dentro di noi." "E la si trova qui, questa pietra preziosa?" disse Edith, palpitando. "Io non so, io spero." "E perché non la cercherei anch'io con voi?" "Perché non ne hai bisogno, perché non vogliamo." "Ma cosa ne farai di me, papà?" "Oh, non si sa ancora." A queste punto sopraggiunse il baroccio e divise Edith da' suoi due compagni. Don Innocenzo si accostò rapidamente a Steinegge e gli disse all'orecchio: "Non vada troppo avanti." "Non posso" rispose l'altro. Il barroccio passò. Erano giunti presso al fiume dove la strada faceva un gomito, scendeva per la sponda destra, lungo i grandi pioppi, fino alla cartiera. "Lei va" disse Steinegge al curato. "Noi L'aspetteremo qui." Scese con sua figlia dal ciglio della strada sul pendìo erboso, sino all'ombra d'un macigno enorme ch'entrava dritto nel fiume. Erano un delizioso poema le acque verdi e pure, un poema popolare antico, di quelli che l'ingenuo cuore umano, troppo pieno di amore e di fantasie, versava. Passavano tra i margini sassosi o fioriti, saltando, ridendo, cantando, serene sino al fondo scabro. Blandivan l'erbe, mordevano i sassi; anche dal filo della corrente venivan su tratto tratto de' fremiti appassionati, si spand evano in leggere spume. A tante voci rispondeva dall'alto il gaio stormire de' pioppi appuntati al cielo di zaffiro. "Ah" disse Steinegge. So viel der Mai auch Blumlein beut Zu Trost und Augenweide... Edith lo interruppe: "Perché, papà, mi hai detto quella cosa?" "Quale?" "Che vorresti un giorno esser diviso da me." "Oh no, non diviso. Solamente io verrei a passare qualche tempo qui. Mai diviso. In niente diviso. Capisci? In niente." Disse quest'ultime parole sottovoce, prendendole ambedue le mani. "Sì, io penso ora per la prima volta che non dobbiamo più esser divisi in qualche cosa qui dentro." Si strinse quelle mani sul cuore. Le labbra, le nari di Edith si contrassero; le si strinse la gola. Egli la trasse giù senza parlare a sedere sull'erba, sedette accanto a lei. "Io non posso" diss'egli, quasi parlando a se stesso. "Ho il petto pieno di questa cosa. È vero, Edith, noi non siamo stati bene uniti mai. Ti ricordi la sera che sei venuta, quando io entrai in camera e tu pregavi alla finestra? Che angoscia fu per me allora! Io pensai che non mi avresti amato perché non credevo come te. E il giorno dopo, mentre tu eri a Messa, ti ricordi che io sono uscito? Sai cosa ho fatto durante la Messa?" Egli parlava come uno che non sa se deve ridere o piangere. "Ho parlato a Dio, l'ho pregato di non mettersi fra te e me, di non togliermi il tuo amore." Edith gli strinse convulsamente la mano, serrando le labbra, sorridendogli con gli occhi umidi. "E tu sei poi sempre stata così tenera, così buona con me che mi hai fatto il paradiso intorno e io ho inteso che Dio mi aveva ascoltato. Questo mi ha commosso perché sapevo di non meritar niente. Oh no, credi. Mi ha commosso, dunque, di vedere che Dio ti permetteva di essere tanto amorosa con me. Ero felice, ma non sempre. Quando noi andavamo in chiesa insieme, io pregavo, ringraziavo Dio, vicino a te; ma pure vi era qualche cosa nel mio cuore, qualche cosa di freddo e di penoso, come se io fossi fuori del la porta e tu avanti a tutti, presso l'altare. Insomma mi pareva esser tanto lontano da te. Mi odiavo in quel momento ed ero così stupido di amar meno anche te. Quando poi..." Esitò un istante, quindi accostò la bocca all'orecchio di Edith, le sussurrò parole cui ella non rispose e ripigliò forte: "Quanto soffrivo! Una cosa che mi ripugnava tanto! Forse per le memorie irritanti ch'erano nel mio cuore, forse perché ero geloso di quell'uomo nascosto a cui tu confidavi i tuoi pensieri. Non solo, geloso; pauroso anche. Sentivo che anche restando invisibile, sconosciuto, poteva ferirmi, togliermi un poco della tua stima, del tuo amore. Sai che qualche notte non ho dormito per questo? Dopo ti vedevo sempre uguale con me, dimenticavo, tornavo ilare. Ieri, trovandomi ancora con don Innocenzo, stando nella su a chiesa, ho sentito quanto lunga strada avevo fatto in pochi mesi, quasi senza saperlo. Ho avuto l'impressione, come di essere sulla porta aperta di un paese sospirato e non poter entrare. Adesso... senti. Edith, figlia mia." Ella, silenziosa, piegò il viso verso di lui, stringendogli sempre una mano fra le sue. "Sono entrato" diss'egli, a voce bassa e vibrata. Edith abbassò la testa su quella mano, vi fisse le labbra. "Sono entrato. Non domandarmi come. So che il mondo mi pare inesprimibilmente diverso da quello di prima, ora che ho nell'anima il proposito di abbandonarmi interamente alla tua fede. Come si può dir questo, che io riposo sopra tutto quello che io vedo? Eppure è così; io non ho mai provato una sensazione di riposo simile a questa che mi viene per gli occhi nel cuore. Tu riderai se io ti dico che sento un grande amore per qualche cosa che è nella natura intorno a me. Cosa ne dici, Edith, di tutto questo?" Ella alzò il viso bagnato di lagrime. "Mi domandi, papà? Mi domandi?" Non poté dir altro. Il suo sacrificio era stato accettato da Dio, ricompensato subito. L'anima sua traboccava di questa fede mista allo sgomento, allo sdegno di non sentirsi felice. "Contenta?" disse Steinegge. Scese a intingere il fazzoletto nell'acqua e lo porse a Edith che sorrise, se ne deterse gli occhi. "Sai" diss'egli "sono contento per un'altra cosa, anche." Ella non parlò. "So del nostro amico Silla che va via dal Palazzo. Pare che non ci è stato affatto il male che si credeva." "Papà" disse Edith alzandosi "lo sa don Innocenzo quello che mi hai detto prima?" "Un poco, solo un poco." Ella guardò un momento il grosso macigno a cui era quasi appoggiata e si rizzò sulla punta de' piedi per cogliere un fiorellino che usciva da un crepaccio. Lo chiuse nel medaglione d'onice e disse quindi a suo padre: "Un ricordo di questo luogo e di questo momento. Dimmelo ancora" soggiunse teneramente "dimmi che sei felice e che questi pensieri sono proprio nati nel tuo cuore. Tornamelo a dire. papà." "Guarda dove sono!" disse una voce dalla strada. Edith non la udì, si ripose a sedere sull'erba presso a suo padre, che riconobbe la voce di don Innocenzo, ed esclamò volgendosi a lui raggiante: "Così presto?" Don Innocenzo vide, comprese, non rispose. "Signor curato" disse Edith risalita con suo padre sulla strada. "Ella ritrova un'altra Edith." Don Innocenzo si provò a far l'ingenuo, ma ci riusciva solo quando non lo faceva apposta. "Possibile?" disse, con tale accento di meraviglia da far credere che prendesse alla lettera queste parole: un'altra. Ma poi non vi ebbero più domande né spiegazioni. Edith camminava a braccio di suo padre, appoggiandogli quasi il capo alla spalla. Don Innocenzo teneva lor dietro soffiando perché il capitano aveva preso un passo di carica. Attraversarono così i prati senza parlare. Don Innocenzo non ne poteva più; si fermò trafelato. "Bella" diss'egli "quella striscia di lago, non è vero?" Forse non la vedeva neppure. Gli Steinegge si fermarono. "Povero conte Cesare" disse il padre dopo un momento di contemplazione. "A proposito, signor curato, avete inteso anche voi che il signor Silla parte questa sera dal Palazzo?" Edith si staccò da lui, si girò a guardar i prati da un'altra parte. Oh, furia amorosa di fiori protesi al sole onnipotente, erbe tripudianti, ubbriache di vento, qual ristoro esser voi, viver la vostra vita d'un giorno, sentirsi tacere la memoria, il cuore, quel tumulto faticoso di pensieri assidui a lottar insieme, a fare e disfare l'avvenire; non essere che polvere e sole, non aver nel sangue che primavera! "Andiamo, Edith" disse Steinegge. Quella cara voce la scosse, la tolse al pensiero non degno. Salendo alla canonica, Edith precedeva d'un passo a capo chino, il curato e suo padre, vedeva le loro due ombre spuntarle a fianco sulla via. Steinegge incominciò ancora a parlare del Palazzo, ed ella vide l'ombra del curato accennar con la testa; dopo di che Steinegge lasciò cadere il discorso. Quando rientrarono in casa, Marta li avvertì che il pranzo sarebbe pronto fra pochi minuti. Edith si fece dare da lei la chiave della chiesa, corse via, sorridendo a suo padre. Tutto era vivo per la campagna, tutto si moveva e parlava nel vento; tutto era morte nella vôta chiesa fredda, tranne la lampada dell'altar maggiore. Una luce debole si spandeva dagli alti finestroni laterali sugli angeli e i santi vinosi del soffitto estatici nelle loro nuvole di bambagia. Edith si inginocchiò sul primo banco, ringraziò Dio, gli offerse tutto il suo cuore, tutto, tutto, tutto; e più ripeteva il suo slancio di volontà devota, più la fredda chiesa muta e persino la fiamma austera della lampa da le dicevano: no, non lo puoi, non è tuo; tu speri che quegli ti ami ancora e torni degno di te, sino a che tu possa appoggiarti per sempre al suo petto virile, affrontare con esso e attraversar la vita. Ma ella non voleva che fosse così, e pareva ritogliere quello che aveva liberamente offerto, e si sentiva invadere il cuore da un arido disgusto di se stessa. Marta venne a chiamarla. "Signora! Oh signora! Presto ch'è in tavola! Oramai il Signore lo sa cosa ci vuole per lei." Edith sorrise.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676083
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Ad un cenno del Virey, i due praticanti magnetisti abbassarono le braccia, e la testa del malato, abbandonata dal fluido possente, ricadde assopita sui guanciali. Il Virey rivolse la parola al fratello Consolatore. - Credo esser nel vero affermando che l'illustre infermo rappresenta una delle tante vittime dello spiritualismo esagerato dell'epoca nostro. Porgetemi la biografia di questo sventurato ... Fratello Consolatore si fece innanzi e consegnò il manoscritto al Primate. - Le alterazioni del sistema arterioso - riprese quest'ultimo con calma solenne - derivano da grandi sofferenze morali accoppiate ad una violenta attività del cervello. Questa attività ha potuto assorbire, distraendola dal cuore, una delle grandi cause efficienti della malattia. Senza questa circostanza, l'aneurisma avrebbe già prodotto le sue conseguenze mortali. Ma la biografia del malato chiarirà meglio la mia diagnosi. Potete voi giurare, o fratello Levita, che in queste pagine non vi abbia parola la quale non sia ispirata dalla verità?. Fratello Consolatore portò la mano al petto e rispose: - Pel corso di cinque anni ho diviso tutte le angosce dell'uomo che ci sta dinanzi: la sua anima si è completamente rivelata alla mia e voi la vedrete riflessa in quelle carte ... - Voi fortunati! - esclamò il Virey con un sorriso di sdegnosa ironia - voi che avete il privilegio di scorgere l'anima attraverso le molecole organiche dalle quali risulta la vitalità ... La scienza di noi profani non giunge a tanto. Vedete voi la vostra anima, fratello Levita? - Non la vedo, ma la sento - rispose fratello Consolatore con umile voce. - E siete proprio persuaso che il battito delle arterie, il respiro dei polmoni, la facoltà di pensare e di agire dipendano da una potenza misteriosa che non ha da fare colla materia? - Il giorno in cui in me cessasse una tale convinzione, arrossirei di esser uomo e invocherei di morire. - Mentre io mi occuperò a leggere queste note biografiche - disse il Virey allontanandosi - voi potrete, o fratello, esercitare le vostre pratiche salutari sull'anima dell'infermo. Più tardi, se i vostri rimedi non avranno giovato, io mi permetterò di tentare qualche prova sulla massa corporea. Vi prometto che il vostro metodo di cura non ne rimarrà pregiudicato. Così parlando, il Virey si ritirò nel vicino gabinetto. Fratello Consolatore cadde in ginocchio presso il letto dell'infermo mormorando una preghiera. Trascorsa un'ora, il Primate di medicina rientrò nella stanza. Ai due praticanti magnetisti che lo accompagnavano si era aggiunto un numeroso drappello di giovani studenti, intervenuti spontaneamente al consulto per erudirsi nella dotta e faconda parola dell'illustre scienziato. Il Virey da più mesi non era venuto a Milano; tutti si attendevano che al letto degli infermi egli avrebbe solennemente proclamate e spiegate le sue grandi teorie innovatrici. L'aspettativa non fu delusa. I giovani si schierarono silenziosi intorno al letto, e il Primate con accento solenne prese a parlare: «L'esplorazione magnetica non mi aveva ingannato; la biografia dell'infermo, e più che altro la storia delle sue ultime peripezie ha confermato i miei criterii sulla natura del male che reclama i nostri soccorsi. «La scienza medica ha fatto, nella prima metà del corrente secolo, dei progressi meravigliosi. Oggimai non vi è legge dell'organismo umano che a noi sia ignota, non vi è forza della natura che abbia potuto sottrarsi alle nostre investigazioni ed al dominio delle nostre esperienze. Ogni mistero si è rivelato; l'organismo umano non ha più segreti per noi; la chimica ha messo a nostra disposizione tutte le sostanze vitali disperse negli elementi, tutti i reagenti salutari che rispondono alle umane fralezze. «Possiamo noi inorgoglirci degli stupendi risultati? «Possiamo noi esultare dei nostri trionfi, mentre gettando uno sguardo sulla umanità ci è forza di constatare il suo incessante deperimento? «I nostri legislatori si mostrano sgomentati della frequenza, per verità spaventevole, dei suicidii individuali; eppure - strano a pensarsi - assistono spettatori indifferenti ed improvvidi al suicidio di tutta la specie umana! «Se fosse lecito dubitare della perfezione matematica dell'universo, che implica necessariamente la perfezione dei singoli elementi cosmici, in verità noi dovremmo chiamare assurda ed improvvida questa grande sproporzione che si manifesta tra la facoltà immaginativa e la forza puramente meccanica dell'uomo. Tutte le malattie, tutte le passioni e le ansie che ci contristano la vita ripetono la loro origine e la loro causa efficiente da questo fenomeno implacabile. Il progressivo sviluppo e la conseguente attività delle forze morali segna nell'organismo dell'uomo le fasi del deperimento che conduce alla morte. Questo attrito incessante fra l'uomo intelligente e l'uomo bruto risponderebbe per avventura ad una misteriosa esigenza dell'ordine universale? Questa legge, così assurda nelle apparenze, costituirebbe forse il principio demolitore, o meglio, la potenza trasformatrice della umanità? La razza umana sarebbe mai destinata a scomparire dopo un lasso di secoli, per vivere e riprendere sotto nuovi aspetti la sua attività cooperativa in un mondo ringiovanito? Ammessa una tale ipotesi, per la quale verrebbero ad eliminarsi molti assurdi concetti, volgendo uno sguardo alle condizioni attuali della umanità, ed ai gravissimi indizi di prostrazione che in ogni parte si manifestano, non possiamo astenerci dall'emettere un grido di allarme - l'agonia della nostra specie è cominciata. Il fuoco della nostra intelligenza ha raggiunto il massimo grado della incandescenza; questo fuoco sta per estinguersi. «Noi siamo all'ultimo atto della grande tragedia umana. Il Titano intelligente si elevò ad una altezza non mai raggiunta, ma la sua caduta sarà irreparabile. «Abbiamo spogliate le foreste, abbiamo traforate e abbattute le montagne, abbiamo aperte delle voragini per rapire alla terra le materie combustibili e gazose; abbiamo deviate le correnti elettriche; dapertutto la mano dell'uomo ha portato lo scompiglio e lo sfacelo. «Che più ci resta a tentare? Dopo aver dominato la terra e le acque, ecco le nostre locomotive ci sollevano ai cieli ... Non basta? Fourrier, coll'innesto delle ali, ci comunica una nuova facoltà, ci promette una trasformazione ... «Affrettiamoci, signori! Ciò che abbiamo fatto per suicidarci è poca cosa ... Voliamo alle regioni dove spaziano le aquile! ... Voliamo colà dove per l'uomo si respira la morte ... «E i sintomi mortali si scorgono dapertutto. L'attività febbrile che nello scorso decennio ha operato dei prodigi, oggi accenna ad estenuarsi; la luce della intelligenza umana è quella del lucignolo prossimo a spegnersi. «E frattanto, qual forza ci soccorre? La terra, nostra madre, e nudrice, è ormai stanca delle nostre violenze. Essa comincia a ribellarsi. I cereali intisichiscono, la vite non dà più grappoli; gli animali che più abbondante e vigoroso ci fornivano l'alimento, si ammorbano e periscono sui pascoli insteriliti. «E già i governi mandano un grido di allarme; e il diritto alla esistenza sancito dalle nuove leggi diverrà fra poco una derisione ... Ma a ciò provveda chi deve. «Il nostro compito, o signori, è quello di affermare, per quanto è da noi, la vita individuale, mentre le masse precipitano nella morte. «L'umanità è colpita là dove ha molto peccato. La prevalenza del succo nerveo ha paralizzato le forze del sangue; l'equilibrio degli elementi vitali è cessato; l'uomo vegetale, l'uomo bruto fu invaso dell'uomo pensante. «Dalle cattedre, dai libri, dai giornali noi abbiamo reagito costantemente contro l'invadenza di uno spiritualismo micidiale. Ma la superbia umana ha sordo l'orecchio alle verità che la umiliano. «La religione riformata, accarezzando l'orgoglio dell'uomo e l'idealismo irrazionale della donna, ha messo il colino alla esaltazione. In ogni paese, in ogni tempo, l'ascetismo fu nemico della nostra scienza; ma a nessuna epoca mai come alla nostra, il prete ed il poeta, questi eterni falsarii della legge naturale, questi allucinati o coscienti mistificatori delle plebi umane, esercitarono più micidiale il loro predominio. I fanatici del nuovo culto impazziscono a migliaia. Parigi, la superba città che era nello scorso secolo denominata il cervello del mondo Parigi non rappresenta oggigiorno che un vasto manicomio. «Ma questi signori vi diranno: ciò che a noi importa è la salute delle anime! Orbene! (e così parlando il Virey si volse a fratello Consolatore) non vi par tempo che noi interveniamo? «Vorrete poi permetterci di tentare qualche esperienza profana sugli atomi vitali che per avventura serpeggiano tuttavia in questo corpo estenuato? ... » Fratello Consolatore non rispose e chinò la testa mestamente. Il Virey, per un istante disarmato dall'umile atteggiamento del Levita, riprese la parola con intonazione più dimessa: «La malattia che ha colpito quest'uomo è una delle più comuni oggidì: la lassitudine nervosa complicata e aggravata da un chiodo fantastico «Lo sfinimento dell'apparato nervoso ripete la sua origine da troppo intense e prolungate esercitazioni della macchina cerebrale; il chiodo fantastico è frutto di una troppo costante e inesaudita surreccitazione dei globuli simpatici. Il bagno fosforico e le fasciature elettro-magnetiche applicate con prudente moderazione potrebbero in breve tempo rinvigorire il sistema pregiudicato; ma un tal metodo di cura aggraverebbe la crisi dell'organo più compromesso. «Signori! ... occhio al cervello! ... occhio al padrone, al governatore, al tiranno della casa vitale! Abbiate per fermo che nessuna malattia è mortale quando l'organo tiranno che siede là dentro conservi piena ed intatta la sua forza di volere. «Affrettiamoci dunque! Il nostro primo compito sia quello di ristabilire l'equilibrio fra i globi cerebrali. Ottenuto l'equilibrio, quando il malato sarà in grado di pensare e di volere, in pochi giorni la resurrezione delle fibre sarà completa. «Riassumiamoci. La biografia del paziente ci ha rivelato che un intenso desiderio di possessione riportato sovra una donna fu causa della anomalia. L'idealismo! sempre l'idealismo! fomite di ogni follia, di ogni disordine, per non dire di ogni umana scelleratezza. Questo uomo, credendo di amare ha fatto violenza alle leggi della natura e si è reso impotente. Io vorrei bene, o signori (e qui la parola del medico riprese una intonazione più vibrata), io vorrei bene, se la situazione del malato non esigesse tutte le nostre sollecitudini, sbizzarrirmi alcun poco nella diagnosi di questa vacuità a cui le moltitudini danno il nome di amore! ... Oh! chi scriverà la storia dell'amore? Chi vorrà riprodurre nella sua spaventevole ampiezza la cronaca delle follie e dei delitti derivati da questo equivoco, da questa fatale illusione della superbia umana? E fino a quando proseguiremo noi ad insultare la natura, a pervertirci, a suicidarci, per la mania di idealizzare a mezzo di una insensata parola l'attrazione simpatica dei sessi, comune a tutti gli enti, a tutte le molecole della creazione? «Ma torniamo al malato. La prevalenza del fosforo, rivelata dalla esplorazione, mi è di buon augurio; l'assenza della febbre mi allarma. Provochiamo la febbre! provochiamo questa benefica agitazione del sangue che tende ad espellere dall'organismo gli atomi eterogenei, «Soffiamo in questa bonaccia! suscitiamo la tempesta riparatrice! ... «E non perdiamo un istante (proseguì il medico, ritraendo la mano dalla fronte del malato); si chiami tosto ... Ma, no! ... io stesso sceglierò l'individuo da applicarsi ... «Vi è qui alcuno che possegga un ritratto della donna che questo infelice ha creduto di amare? ... » Fratello Consolatore si levò in piedi, levò dal portafoglio una fotografia e la porse al primato. - Sta bene! ... Conducetemi tosto ad una casa di Immolate ... Là troveremo l'individuo simpatico che ci abbisogna. E volgendosi ai giovani studenti che in silenzio lo avevano ascoltato: - Spero - disse - che mi avete compreso. L'estirpazione del chiodo fantastico allora si effettuerà spontaneamente, quando si ottenga che quest'uomo abbia a credere in un'altra forma di donna ... Se a tanto può giungere il talento e la volontà di una Immolata, è indubitabile che lo sviluppo istantaneo della febbre ricondurrà l'equilibrio nelle forze mentali, e allora il cervello potrà gridare a' suoi satelliti: sorgete e obbeditemi!» Ciò detto, il Virey riconsegnò a fratello Consolatore la fotografia dell'Albani, dopo averne spiccato uno dei tanti ritratti fotografici che vi erano intercalati. - Levita! - riprese il Primate nell'atto di congedarsi - voi perdonerete alla vivacità di alcune mie espressioni che per avventura possono aver irritate le vostre suscettibilità - la scienza medica non fu mai troppo scrupolosa nella pratica del galateo. - Dopo tutto, se i nostri principii e le nostre credenze si avversano, ciò non impedisce che noi ci chiamiamo fratelli. - Fratelli! - ripetè il Levita stringendo al cuore la mano che aveva cercato la sua - è pur consolante l'udir profferire questa parola da un uomo che nega l'amore e non crede all'esistenza dell'anima ... Il Virey, irritabile come tutti gli scienziati, stava per riprendere la sua polemica, ma un sospiro affannoso del malato gli ricordò che i minuti erano contati. Egli volse al Levita un'ultima occhiata piena di ironia e uscì dalla stanza seguito dagli alunni. Giunto nella via, il Virey fece salire nella sua volante il custode della Villa, e scambiate sommessamente alcune parole con lui, ordinò al conduttore di dirigersi alla piazza dell'antica cattedrale.

Teresa

678463
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Quando, a Marcaria, abbassarono il ponte levatoio, e la carrozza passò l'Oglio su quell'arnese irrugginito, poco mancò che Teresina non gridasse per la meraviglia. Lì veramente ci voleva suo fratello Carlino. Quanto a lei, aveva un'idea molto vaga ed incompleta dei ponti levatoi, né la sua fantasia limitata poteva suggerirle fantasmi medievali; ma le parve tuttavia una cosa strana, degna di essere ricordata quando avrebbe fatto, a casa, il racconto del suo viaggio. Lo zio l'aspettava, immobile, seduto sovra una poltrona, colle gambe distese attraverso una seggioletta di paglia. Era un vecchione alto e robusto, con folti capelli ispidi, occhi furbi e bocca sensuale. Guardò subito la nipote, istintivamente, coll'occhiata rapida e sicura dell'antico donnaiolo. Sua moglie gli si fece dappresso, con molta premura, domandandogli come stava, e se le gambe andavano bene. Egli fece udire un sordo brontolìo, dimenando il capo, intanto che colle mani si palpava le ginocchia. Teresina, con uno slancio di bontà, gli gettò le braccia al collo, e baciandolo, a caso, incontrò le labbra gelide del vecchio; subito si ritrasse ma egli gettò un lieve grido di piacere, guardandola cogli occhi luccicanti, ringraziandola; finché un sordo richiamo del suo male gli fece riportare le mani ai ginocchi, crollando il capo. - Ho fatto bene a condurla? - chiese la zia Rosa, a voce bassa. Accennò di sì. - Prospero è in buona salute; così pure sua moglie e tutti i figli. Mi hanno detto di salutarti. Nuovo accenno del capo. - Questa poverina non ha mai veduto nulla, fa una vita da vecchia in casa sua; sai le idee di Prospero. Il vecchione sollevò il capo, improvvisamente, chiedendo: - Quanti anni ha? - Sedici compiuti. Quelle parole: "sedici anni", si fermarono nell'aria, come sospese sulla testa dei due coniugi, che si guardarono un momento, colpiti dalle stesse riflessioni. La zia Rosa sospirò, placidamente, colle mani abbandonate sul grembo. Suo marito fece una smorfia rabbiosa, e tornò a fregarsi i ginocchi, coll'occhio fisso e le labbra pendenti. Intanto Teresina era corsa all'uscio, che da quella stanza terrena metteva nel giardino. Era uno sprazzo di luce, di verde, di rosai fioriti; un bel bracco dormiva al sole, due gattini novelli scherzavano con un fuscellino. Teresina sorrise, sorrise al sole, ai fiori, alla propria giovinezza che si irradiava su ogni oggetto circostante. Si sentiva forte, aveva appetito, aveva nelle gambe un formicolìo di vita esuberante, i polsi le martellavano deliziosamente, con un ritornello gaio, pieno di promesse. Quando la zia la chiamò, ella corse a salti, come un capriolo, compromettendo la gravità del suo abito a strascico, che portava per la prima volta, tanto felice, tanto felice che se le avessero detto di volare, ne avrebbe fatto subito la prova. - E cosí? Ti annoi? - interrogò la zia Rosa, col suo accento benevolo di vecchia mamma - questa è una casa un po' triste per una giovinetta. - No, no, oh no. Così protestava Teresina, sinceramente, gustando la gioia, nuova per lei, di un riposo assoluto - guardandosi attorno, curiosa, in quella gran stanza vuota, un po' fredda, un po' ammuffita, dove le figure calme dei due vecchi sembravano sopravvivere a una quantità di memorie distrutte. - Questo è il banco, - disse la zia additando un grosso banco di quercia annerito - il banco del negozio. - Ah sì? - Questo è il divano dove il mio penultimo figlio, Giovanni, stette infermo sette mesi. - Poverino! - Quel quadro, vedi, quel quadro ricamato, la Madonna dei dolori? Fu il lavoro per gli esami della mia povera Giudittina, l'ultimo anno che stette in collegio. - Bello! - Osserva le mani; solamente per le mani lavorò due mesi e mezzo. - Ooh! Davvero? E Teresina rimase estatica davanti a tutti quei ricordi, dolcemente commossa; finché lo zio, puntellandosi a stento sui braccioli della poltrona, fece atto di levarsi. - Sarà ora di andare a tavola; il tocco è suonato, e questa ragazza deve aver fame. Poi le gettò un'occhiata indefinibile, borbottando fra le labbra sdentate ... - Sedici anni!

Pagina 60

CAINO E ABELE

678791
Perodi, Emma 1 occorrenze

Gli occhi dell'ex forzato si abbassarono sotto lo sguardo di Roberto. - Ho avuto la grazia sovrana, - rispose, - e voglio tornare a viver insieme con mia moglie, alla quale sono pronto a perdonare. - Voi non avete nulla da perdonarle, - disse Roberto, - rammentatevi bene di questo. E io credo che ella serbi un documento che vi toglie su di lei ogni diritto e di cui voi conoscete bene il contenuto. L'ex forzato non andava in collera. - Si vede che il signore è bene informato degli affari di mia moglie, - disse in tono ironico. - Ma fino a che non mi mostrerà quel documento, io ho diritto di far valere il mio, - aggiungeva, spiegando l'ordinanza del presidente. Aspettatemi, - disse Roberto indicandogli il piazzale, sul quale i carabinieri passeggiavano. Anche questa! - esclamò uscendo dalla parte verso il mare. - Ma chi è che mi perseguita così, chi è? e quello spettro misterioso dalle cento braccia malvagie che andava anche a togliere un forzato dal bagno, gli si presentò alla fantasia più spaventoso che mai. Giunse alla villa pallido e agitato, e non incontrando nessuno dovette bussare alla camera di Velleda. Maria, esci, - disse Roberto alla bambina, cui Velleda faceva ripetere una lezione. Che cosa succede? - domandò la signora leggendo in faccia a Roberto una agitazione insolita. Non si turbi per carità. Se avessi potuto nasconderle questa nuova infamia, risparmiarle questo nuovo dolore, avrei dato tutto ciò che possiedo, ma non posso. Mi dica, serba l'atto della separazione legale da suo marito? Sono carte che non si abbandonano; è li, - disse Velleda accennando un mobile. - Ma a che può servire? Il forzato è stato liberato da Nisida e reclama sua moglie, Dov'è? - domandò Velleda. - Voglio parlargli io, voglio sapere chi lo manda. Per carità, pensi alla recente malattia. Sono forte, - rispose ella, - e la vista di quel miserabile non mi può commuovere. Lo faccia chiamare. Velleda! No, voglio vederlo, - e scese per dar ordine a Saverio di chiamare l'individuo che attendeva allo stabilimento; poi risali in fretta; prese alcune carte e andò ad attendere nella biblioteca. Roberto le aveva rivolto un'ultima supplica, affinchè evitasse quell'incontro. No, mio buon signore, ho bisogno di sapere, di strappargli di bocca un nome; mi lasci con lui. Roberto entrava in una piccola stanza attigua, di cui lasciava socchiusa la porta, per accorrere in aiuto di Velleda; pochi istanti dopo, marito e moglie si trovavano di fronte. Che cosa volete? - domandò lei in tono imperioso. Ricondurti a Firenze e riprendere la vita comune. Sono libera, lo sapete; l'atto di separazione mi da facoltà di vivere dove voglio. Finché non lo produrrai, ha valore l'ordinanza del tribunale ed io la farò eseguire. Vieni con le buone, se no ti costringerò a seguirmi in mezzo ai carabinieri. L'atto è nelle mie mani, - rispose Velleda, e io lo mostrerò ai carabinieri, non a voi che sareste capace di lacerarlo. E possiedo altri documenti preziosi, con i quali posso farvi tornare in galera. Quali? - domandò egli turbato. Le cambiali false. Non sono più la donna ignara, la poetessa, la romanziera, come mi chiamavate, di cui s'inganna la buona fede, che si spoglia, cui si ruba la figlia per farla morire. Contro i delinquenti ci si premunisce. Le cambiali che faceste a mio nome, falsificando la firma, non sono state da me pagate alla cieca; sono passate per le mani dei giudici, si è fatta una perizia ed è stato riconosciuto che il falsificatore siete voi. Oggi, domani, potrei intentare l'azione penale; vedete che sono armata di tutto punto. L'ex-forzato taceva. Ma le lacererò in presenza vostra, se mi rivelerete il nome del vostro liberatore; di colui che vi manda qui. Il Re mi ha liberato, - rispose egli evasivamente. Il Re firma le grazie, ma qualcuno deve avere intercesso per voi, deve avervi detto che ero qui, nascosta, vergognandomi di un nome che avevate infamato. Chi vi manda, parlate! Ma le cambiali? Le straccerò appena avrete pronunziato quel nome; ma voglio quel nome, ditelo! Una luce sinistra le balenava negli occhi che in quel momento erano orribilmente stravolti. Ti rammenti del deputato Cesti, per il quale sostenni e vinsi un processo? - rispose l'ex forzato. Ebbene, nell' inverno gli scrissi perché impetrasse la mia grazia. Per più mesi non ebbi risposta. Quindici giorni fa ricevei una lettera in cui mi diceva che il decreto era stato spedito a Monza per sottoporlo alla firma sovrana e tre giorni fa giunse la grazia e una seconda lettera del Cesti con un sussidio. Egli mi diceva che se volevo l'indirizzo di mia moglie, partissi subito per Castelvetrano e mi dirigessi all'onorevole Orlando. Egli mi ha ottenuto l'ordinanza dei tribunale e ieri sera ... . Ieri sera ... . - ripetè Velleda ansiosa. Dovevano presentarmi a un banchetto elettorale, ma nacque un tafferuglio ... . Oh, la politica! - esclamò Velleda. - E voi, voi avreste detto chi sa quali -infamieNon ti curare di quello che avrei detto; dammi le cambiali. Ella se le cavò di tasca e gliele gittò in faccia insieme con un pacchetto di biglietti di banca, dicendogli: Questa è la mia elemosina, malfattore! - e gl'indico la porta. Nell'ingresso, seduti sopra una panca, i carabinieri attendevano. Velleda pose loro sotto gli occhi l'atto di separazione. Vedete che io posso vivere dove voglio, - disse loro quando ebbero letto. Poi accostandosi al marito gli susurrò nell'orecchio: Andate lontano e non turbate la mia esistenza, perché se le mie cambiali false sono distrutte, rimangono quelle di mia madre. Ah! Velleda, come ti avrei amata se tu fossi stata sempre così! - esclamò il Crespi avvolgendola con uno sguardo cupido. Ella gli volse sdegnosamente le spalle e corse da Roberto, che incontrò nella biblioteca. Quanto, quanto fango! - esclamò afferrandogli la mano e scoppiando in lagrime. Quando si fu un poco calmata volle narrargli la scena. Ho udito tutto, - disse Roberto, - e non credo l'Orlando abbastanza potente per mettere in moto un sottosegretario di Stato ... . Lei, mia povera amica, ha rinunziato ad armi potenti; ma noi siamo sempre dinanzi a quel mistero che nulla serve a svelare, e ogni giorno ci sentiamo colpiti da qualche lato. Velleda rialzò la testa e mostro gli occhi ancora umidi di pianto, ma sorridenti. Sono lieta, vede, perché godo di aver riveduto mio marito in quello stato e di avergli gettato in faccia la mia elemosina. Sono cattiva davvero! Roberto non credeva in quel mutamento di carattere e attribuiva tutto alla malattia recente, all'eccitamento nervoso che perdurava, e ognuna di quelle manifestazioni di risentimento e d'odio lo facevano tremare per la salute della sua cara. Sì, sono perfida con tutti, meno che con lei, con tè, gli disse accostandogli la bocca al viso e sollevando su di lui uno sguardo pieno d'amore. Roberto la baciò sulle labbra e le loro bocche rimasero un momento unite. - Sai; - diss'ella senza scostare il volto, - il mondo non merita che noi c'imponiamo sacrifizj, e quel vile, cui hanno certo detto che ti amo, non merita nulla. Roberto, io voglio esser tua, voglio darti la gioia, voglio; capisci! Il passo di Maria nell'anticamera li fece sussultare. Quando la bambina entrò erano già distanti, ma tremavano come due colpevoli. Vede. Velleda, - disse Roberto, - che v'e qualcosa superiore al mondo e alla condiscendenza di un vile, qualcosa che deve imporci l'antico riserbo? Babbo, che vuoi dire? - domandò la bambina. Velleda l'attirò a sé dicendole : Tuo padre intende dire che l'affetto per te deve essere superiore a tutto. Un giorno forse capirai che cosa significano queste parole che ti sembrano oscure.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679085
Perodi, Emma 2 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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E appena le ombre della sera si abbassarono sul bosco, la croce del suo stemma prese a fiammeggiare. Era ancora notte quando Adalberto riprese la fuga. Egli errò per molti mesi nei boschi, su per i monti, sempre inseguìto da quello spettro, sempre dilaniato dal rimorso, senza mai poter posare la testa sopra un sasso, senza che quel sasso non prendesse a ballare una ridda d'inferno. Peregrinando sempre, incalzato dal ricordo della sua colpa, giunse in Casentino; ma non aveva mai, in mezzo a tanta desolazione, provato il desiderio di confessare i suoi falli; accanto al rimorso non aveva mai veduto sorgere il pentimento. Le sue notti erano meno angosciose quando le passava sul sagrato delle chiese, col capo posato sulla nuda terra; allora nulla si moveva intorno a lui, e talvolta riusciva a prender sonno. Quella giornata che egli passò rinchiuso nella camera della foresteria del monastero di cui era badessa Costanza, fu per lui angosciosa come le altre, e quando vide avvicinarsi la sera, si diede a chiamare a gola aperta il forestale, supplicandolo di avere pietà di lui e di aprirgli. Intanto Costanza, che aveva capito che solamente il rimorso di un truce fatto poteva spingere, ramingo, Espiazione, aveva adunate le sue monache in coro e aveva raccomandato loro di pregare per l'infelice. Venuta la sera, quando tutti i lumi erano già spenti nelle celle, la Badessa, seguìta da una conversa, era andata nell'orto e si era collocata in orazione sotto la finestra dello sconosciuto. Mentre pregava, ella aveva veduto salire da quelle finestre delle lingue di fuoco e aveva udito nella stanza un rumore indiavolato coperto dalle grida del cavaliere. - Pèntiti! - s'era messa a urlare ella dal basso. - Pèntiti e sarai liberato! - Oh! se lo potessi! - rispondeva Espiazione. - Devi volere! - lo esortava la monaca, e intanto riprendeva la preghiera a voce alta. A un tratto nel cielo scuro comparve una nuvoletta bianca, e scese, scese, finché non si fermò dinanzi alla finestra del traditore. Un urlo più forte degli altri gli uscì allora dal petto. - Son pentito! - gridò, - e una vita intera di penitenza non basterà a lavare la mia colpa. Siete voi, Madonna santissima, che avete avuto pietà di me. La nuvoletta bianca si era diradata e lasciava vedere l'immagine della Madonna col serpente sotto i piedi, com'era raffigurata in un quadro sull'altar maggiore della chiesa del monastero. La ridda delle suppellettili era cessata nella camera di Adalberto, e lo stemma del suo giustacuore non mandava più fiamme color di sangue. La monaca pregava sempre a voce alta nell'orto. La nuvoletta si addensò di nuovo e salì lentamente nel cielo buio. A giorno, il cavaliere si fece aprire, e, dal forestale, fu guidato a un confessionario dove un pio monaco attendeva i penitenti. Egli fece ampia confessione de' suoi peccati e promise di far la penitenza che gli sarebbe imposta dal monaco. Questi gli ordinò di scrivere sul proprio petto, al posto dello stemma, un cartello nel quale narrasse il suo delitto e di tollerare per l'amor di Dio gl'insulti che gli sarebbero stati fatti. Commosso dal miracolo avvenuto per le preghiere della pia badessa Costanza, egli volle ringraziarla, e come voto appese accanto all'altare, su cui si scorgevano l'immagine della Vergine calpestante il serpente, la sua spada e il suo pugnale, dicendo: - Ormai, se voglio salvarmi, debbo tollerare tutti gl'insulti senza trarne vendetta. È meglio che mi tolga dal fianco un'arma che sono indegno di portare e che potrebbe talvolta esser per me una tentazione. E voi, madre Badessa, pregate affinché io sopporti con rassegnazione la dura croce che mi sono imposto e abbia il coraggio di serbare sul petto questo cartello che costituisce la mia espiazione. La badessa Costanza promise di accompagnare il cavaliere con le sue preci, ed Espiazione uscì dal monastero per riprendere il suo pellegrinaggio. Appena fu sulla piazza del paese, si imbatté in una comitiva di signori che andavano a caccia. Il primo di essi, che pareva il capo, fermò il suo cavallo di fronte all'infelice, e additandolo agli altri, disse: - Vedete, signori, quel brutto ceffo? Anche se non portasse il suo misfatto scritto in petto, la grinta lo denunzierebbe per traditore. Fatti da parte, fellone, e sgombra le vie maestre; i traditori non trovano terra in Casentino! Fremé, Espiazione, sentendosi insultato, e la mano corse alla cintura dov'era solito trovare la spada. Ma riavutosi subito, lasciò pender le braccia, e, chinatosi, baciò il piede del signore che lo aveva insultato, il quale rispose con un calcio all'atto umile dell'infelice, e si allontanò ridendo spietatamente. Espiazione avrebbe volentieri abbandonato la via maestra per rifugiarsi nei boschi ove sarebbe sfuggito agli insulti; ma una voce che gli parlava continuamente al cuore, gli diceva: - Rammentati che per meritare il perdono devi molto, molto soffrire. Ed egli, ubbidendo a quella voce, cercava gl'incontri e si presentava alla porta dei castelli chiedendo l'ospitalità. Naturalmente nessuno voleva ricoverarlo, e le guardie lo respingevano con insulti e con percosse. - Dio ve ne renda merito! - rispondeva per solito Espiazione. Un giorno giunse a Bibbiena. Il popolo, che non sapeva leggere, lo guardava con una specie di meraviglia e di terrore, ma non capiva quello che portava scritto in petto, Espiazione, che voleva far palese il suo delitto, andò a bussare in casa Dovizi, che era la più sontuosa e magnifica della città, e chiese di parlare al signore. I servi cercavano di respingerlo, ma egli si sedé su un muricciolo accanto al portone, aspettando che il padrone uscisse, e allorché lo vide, gli disse: - Signore, io ti chiedo l'ospitalità; sono sfinito, estenuato; dammi un letto dove riposare e gettami un tozzo di pane. Il signore lo fissò e gli rispose: - Non ospito traditori, ma sono cristiano e non nego un tozzo di pane a chi me lo chiede. E, rientrato in casa, fece gettare dai suoi servi una pagnotta all'infelice. A questa scena avevano assistito molte persone, perché la casa dei Dovizi era situata nella via più popolata della piccola città. Queste, udendo che il forestiero dallo strano ceffo stravolto era un traditore, lo circondarono insultandolo e tirandogli in faccia le immondizie. - Iddio ve ne renda merito! - rispondeva Espiazione. - Di tutto il male che mi farete, io vi renderò sempre grazie, poiché mi spiana la via del Cielo. Il popolo si divertiva a sentirsi ringraziare, e siccome ha istinti feroci, rincarava la dose. Ora non tirava più soltanto all'infelice torzoli, bucce e sterco di cavallo, ma correva in piazza a far provvista di sassi, che scagliava nella testa e nel petto al disgraziato, il quale rimaneva un momento sbalordito, ma appena riavutosi, senza neppur pensare a tergere il sangue che gli correva lungo il volto, ripeteva: - Iddio ve ne renda merito! Egli sorrideva in mezzo ai suoi carnefici, perché udiva la dolce voce, che gli parlava al cuore, ripetere: - Hai molto, molto sofferto; coraggio, il momento del perdono è vicino. Quel baccano chiamò alla finestra la signora del palazzo, la bella e pietosa madonna Chiara Dovizi. Vedendo un uomo disteso in terra e grondante sangue, preso a bersaglio dal popolo, ella ordinò ai servi di raccoglierlo e di portarlo in una camera, sopra un letto, e con le sue stesse mani lavò il sangue delle ferite. Ma Espiazione era giunto all'ultimo istante della sua vita e sorrideva nonostante gli atroci spasimi. Egli chiese un prete, e, confessatosi, morì santamente dopo poche ore. Madonna Chiara, che per volere del morente aveva udito la sua ultima confessione, fece dare al cavaliere della Gherardesca onorata sepoltura nella chiesa di San Francesco, e sopra un mausoleo di marmo fece scolpire lo stemma gentilizio della potente famiglia pisana e il nome che il cavaliere aveva scelto: Espiazione. La badessa Costanza, informata della morte del pentito, scrisse alla famiglia di lui e rimandò a Bolgheri la spada e il pugnale dell'estinto, assicurando che il pentimento sincero aveva lavato la macchia della colpa. - E qui è finita la novella dello stemma sanguinoso, - disse Regina rivolta ai suoi. I ragazzi non erano contenti della fine, e soprattutto volevano sapere se la bella Olimpia era proprio morta in seguito alla ferita, perché dalla novella non si ricavava. - Sì, - rispose la vecchia, - ecco una cosa che avevo dimenticato. I barbareschi, quando la videro esanime, caricarono sopra una barca tutti i tesori tolti alla sposa e quelli che avevano accumulati nella grotta, e andarono a raggiungere una nave che era in alto mare. Intanto il conte Valdifredo si era dato a cercare ovunque la sua bella sposa, e trovatala alfine morta nella grotta, le aveva dato sepoltura nel suo castello. Poi, desolato di tanta perdita, aveva costruito navi per dar la caccia ai barbareschi, e in una di quelle spedizioni aveva perduto la vita. Il castello di Bolgheri era così passato a un cugino, il quale aveva avuto dalla badessa Costanza la restituzione della spada e del pugnale. E dopo una breve pausa, la Regina domandò ai nipoti: - Ed ora siete contenti? - Sì, sì, nonna, contentissimi, e vi promettiamo che domenica saremo meno curiosi. - Peccato che Tonio e l'Annina non sentano le novelle! - disse Gigino. - Ma io le voglio tener a mente, e quando verranno le racconterò. - Che bel pasticcio ne farai! - risposero gli altri. - Pretenderesti forse di saper raccontar come la nonna? Il bimbo, umiliato da quella risposta, arrossì e stava per fare i lucciconi; ma la Vezzosa seppe consolarlo promettendogli che presto sarebbe venuto un bel bimbo, col quale egli si sarebbe potuto divertire; e di quel bimbo disse tante cose carine, che Gigino badava a ripeterle: - Zia, digli che si sbrighi a venire; io mi annoio solo; gli altri sono tutti grandi.

. - Roberto scese in campo, e io, nel vederlo, mi sentii ribollire il sangue, perché le trombe lo salutarono e i baroni abbassarono la spada in segno d'omaggio. - Corse egli contro un barone e lo scavalcò, e mentre si formava di nuovo il campo, mi presento io con la visiera calata, vestito di un'armatura senza stemma, e cavalcando un cavallo preso a prestito da un signorotto, che era fra i più acerbi nemici del duca Roberto. Mi si domanda il mio nome; io altero la voce e rispondo che non voglio rivelarlo, ma desidero misurarmi col Duca. Questi accetta l'inusitato invito; corriamo, io lo incalzo, lo assalgo come un forsennato per aver la soddisfazione di vederlo dinanzi a me per terra, e ci riesco. Ma che vanto doloroso! - Roberto, nel cadere, era rimasto con un piede nella staffa, e il cavallo, spaventato, s'era dato a correre trascinando seco il cavaliere. - Accorsero i valletti a fermarlo; i baroni circondarono il duca, ma quando gli ebbero sciolto il cimiero e slacciata la maglia, il suo cuore non batteva più. Vidi mia madre cadere svenuta, la bella contessina Costanza piangere, ed io, preso dal rimorso, approfittando di quel momento di confusione, mi diedi a fuggire giù per il monte spronando il cavallo a corsa precipitosa, e non mi sarei mai fermato se l'animale, a un certo punto, non avesse rifiutato di andar oltre. Ormai il rimorso mi perseguitava e non avevo più pace. - Entrai in una casa di contadini e domandai ricovero per la notte. Mi fu concesso in una capanna; ma appena mi fui addormentato, così vestito e armato come ero, sopra un mucchio di fieno accanto al mio cavallo, cui non avevo tolta la sella, venni destato da un rumore di voci. Aprii gli occhi e vidi intorno a me molta gente in atto minaccioso, che mi gridava: - "Ecco l'uccisore di Roberto! Ecco il fratricida!" - Balzai in sella, mi feci largo con la spada e corsi a precipizio nella campagna, inseguìto da quelle grida che mi giungevano al cuore come una maledizione. - Giunto a Messina, volli imbarcarmi sopra una nave che andava a Reggio, per fuggire l'isola, sperando di fuggire il rimorso del mio delitto. - A Messina incontrai quei malvagi che mi avevano incitato nell'odio contro il fratel mio, i quali ad ogni costo mi volevano ricondurre al nostro castello dicendomi che io non dovevo soverchiamente affliggermi, poiché non avevo ucciso mio fratello. Se era morto, lo doveva alla sua imperizia nel maneggiar l'armi e nello stare in sella, e che non era giusto che, per una fisima, io rinunziassi a ereditare i titoli e le baronie che mi spettavano. - Chiusi gli orecchi a quei suggerimenti e volli andarmene ramingo per il mondo a espiare il mio peccato. M'imbarcai infatti, e, giunto in Calabria, mi diedi a difendere i deboli contro i forti, gli oppressi contro gli oppressori. Ma non ero stato un giorno in paese, che, per mia punizione, non venisse scoperto l'essere mio, e non fossi additato come l'uccisore di mio fratello. - Così pellegrinai fino a Roma, cibandomi scarsamente, pregando, combattendo per i miseri. Quivi, in San Giovanni Laterano, feci la confessione generale dei miei peccati, e il buon vescovo che mi assolse, mi disse di sperare nella misericordia divina e di far vita da eremita. - Ripresi quindi il pellegrinaggio cercando un luogo alpestre e solitario, vicino a un paese dove potessi giovare in qualche modo al prossimo mio, e mi stabilii su questo prato. Or sono quarant'anni che vi dimoro, ed è quassù che ho avuto la suprema consolazione di sapere che il mio peccato era perdonato. Me ne sono accorto vedendo che il Signore si è servito di me per beneficarvi, ed ha esaudito le mie preghiere. - Ora sono presso alla morte, e questa confessione spero vi sarà d'esempio a non cedere alle passioni, e a non dare ascolto ai cattivi suggerimenti. Il vecchio ricadde estenuato su quel tappeto di erbe aromatiche e di fiori, e il popolo si affollò intorno a lui, piangente, per baciargli la mano e il saio. La contessa Sofia fece cenno che l'agonia del Romito non fosse turbata, e ordinò alla folla di pregare. E mentre tutti rivolgevano a Dio preci per il morente, l'anima di lui si sprigionava dal corpo e, accompagnata da quel coro unanime, saliva lentamente al cielo. Allora avvenne un fatto non mai accaduto. Si alzò una brezza dolcissima e in un momento si videro turbinare nell'aria migliaia e migliaia di fiori, che andarono a coprire il corpo del santo Romito, mentre su nel cielo tante e tante voci dolcissime cantavano: Osanna! Quando la contessa Sofia, a capo della processione, tornò piangendo in paese, vide che non era più la sola fonte detta Buca del Tesoro che gettava l'acqua salutare, ma che dal terreno sgorgavano in molti punti delle fonti della stessa acqua. Da quel tempo in poi Chitignano salì in rinomanza per le sue sorgenti, e quell'acqua ha sanato più malati che non ci sono stelle in cielo e pesci in mare. La Regina tacque e Maso disse: - Mamma, avete fatto bene a raccontar questa novella. Non si sa mai se nell'anima di qualcuno dei bambini che vi ha ascoltata non vi sia la pianta velenosa dell'invidia. Quest'esempio basterà loro ad estirparla, perché quel Romito, prima di giungere al prato di Casella, deve aver patito quanto Caino. Noi, se Dio vuole, - aggiunse guardando sorridente i fratelli, - l'invidia non abbiamo mai saputo che faccia avesse, e ci siam voluti bene davvero. - E spero che ve ne vorrete anche quando io sarò sottoterra, - disse la Regina. - Fratelli, non è un miracolo che vi vogliate bene, - saltò su a dire la Carola. - Ma che non è una cosa rara di veder quattro cognate che van d'accordo più che sorelle? Scommetto che se giraste mezzo mondo, non ne trovereste altre quattro come noi! E ora tocca a te, Cecco, a mettere in casa una donna buona, e che sia del nostro medesimo sentimento. Moglie la devi pigliare, e di gusto tuo; ma prima di prenderla guarda che sia davvero una donna come si deve. Cecco sorrise e non disse né si né no; ma siccome quel discorso lo noiava, rispose alla Carola che ne lasciava a lei la scelta. Durante questo discorso, Vezzosa s'era tirata da parte e adagio adagio aveva preso a leggere Le mie prigioni Cecco le si avvicinò e le disse: - Pigliate pure codesto libro, poiché non è di quelli che mettono i grilli in testa; anzi, è uno di quei libri che tutti dovrebbero leggere. - Grazie, Cecco, - rispose la ragazza, e lo nascose sotto il grembiale. Quella sera, nel percorrere il breve tragitto che separava il podere dei Marcucci da quello del Vezzosi, padre della bella ragazza, i due giovani parlarono soltanto della bontà d'animo che traspariva dal libro del Pellico fin dalle prime pagine. Peraltro, Cecco, nel lasciare la Vezzosa, le disse: - A domenica, non è vero? - A domenica, - rispos'ella.

Se non ora quando

680648
Levi, Primo 1 occorrenze

Ci furono commenti, mormorii, qualche protesta; le sentinelle abbassarono le canne dei mitra, e le proteste si spensero. _ Voi ci sarete utili in altro modo, _ disse rivolto al secondo gruppo. Questo era assai smilzo: ne faceva parte Edek con una mezza dozzina di ex studenti ed impiegati. _ Io sono il comandante di questo plotone, _ disse Edek pallido come la neve. _ Non c' è più plotone e non c' è più comandante, _ disse il tenente. _ L' Armia Krajowa è stata disciolta. _ Disciolta da chi? Disciolta da voi! _ No, no. Si è disciolta da sola, non aveva più ragione di esistere. La Polonia la stiamo liberando noi. Non avete sentito la radio? No, non la nostra, Radio Londra: sono tre giorni che trasmette un messaggio del vostro comandante. Vi saluta, vi ringrazia, e vi dice che la vostra guerra è finita. _ Dove ci manderete? _ chiese ancora Edek. _ Non lo so, e non mi riguarda. Io ho solo ordine di mandarvi al comando di zona; lì avrete tutte le informazioni che desiderate. Il terzo gruppo era costituito dai gedalisti più Schmulek, ossia da tutti gli ebrei più Piotr. Mendel non aveva notato prima, e notò allora, che Piotr aveva deposto la sua logora divisa di partigiano, quella che gli aveva vista indosso fin dal campo di Turov. Era alto e snello come Gedale, e indossava i panni borghesi che Gedale aveva sfoderati dopo il colpo di Sarny. _ Quanto a voi altri, _ disse il tenente, _ per ora non ci sono ordini. Civili non siete, militari neppure, non siete prigionieri di guerra, siete uomini e donne e non avete documenti. _ Compagno tenente, noi siamo partigiani, _ disse Gedale. _ I partigiani sono quelli che fanno parte dei reparti partigiani. Di partigiani ebrei nessuno ha mai sentito parlare, è una voce nuova. Voi non fate parte di nessuna categoria. Per adesso restate qui: ho chiesto istruzioni. Avrete il trattamento che spetta ai nostri soldati. Poi si vedrà. La banda di Gedale, ritornata dopo più di tre mesi allo stato puro originario, conobbe giorni d' inerzia e di sospetto. Verso la fine di gennaio, dalla finestrella della baracca videro partire i polacchi del secondo gruppo in mezzo alla neve che cadeva fitta. Per l' occasione, il tenente aveva fatto sbarrare le porte; dovettero accontentarsi di salutare Edek attraverso i vetri. Salito sull' autocarro, Edek agitò la mano verso di loro; l' autocarro partì con un sobbalzo, e Sissl scoppiò a piangere. A differenza dagli altri, Dov, Mendel, Arié e Piotr avevano appartenuto all' Armata Rossa, e non avrebbero avuto difficoltà a chiarire la loro posizione. Piotr non ebbe dubbi: _ Non hanno fatto distinzioni, e per me va bene così. È chiaro che all' NKVD in questo momento interessano solo i polacchi: Stalin non vuole partigiani polacchi fra i piedi. _ Ti hanno preso per un ebreo! _ disse Gedale divertito. _ Del resto, te lo sei meritato. _ Non lo so. Il tenente mi ha fatto due o tre domande, ha visto che rispondevo in russo e si è accontentato. _ Hm, _ disse Gedale, _ secondo me la tua faccenda non è ancora conclusa. _ Per me è conclusa, _ rispose Piotr. _ Io resto con voi. Neppure Dov ebbe dubbi, ma nel senso opposto. La sua decisione non era cambiata, anzi, era stata rafforzata dalle avventure più recenti; era stanco di combattere e di vagabondare, stanco di incertezze e di vita precaria, voleva tornare a casa, lui che una casa ce l' aveva. Una casa lontana, non toccata dalla guerra, in un paese che la distanza nel tempo e nello spazio aveva reso fiabesco: il paese delle tigri e degli orsi, dove tutti erano come lui, ostinati e semplici. In quel paese, che Dov non si saziava di descrivere, il cielo invernale era viola e verde: vi tremolavano le aurore boreali, e ne era scaturita quando lui era bambino la cometa terribile. Mutoraj, con i suoi quattromila abitanti confinati, nichilisti e samoiedi, era un paese unico al mondo. Dov se ne andò in silenzio, triste senza disperazione. Si mise a rapporto con l' intendenza russa, dichiarò la sua posizione militare e i suoi trascorsi, a loro richiesta stese in bella scrittura una relazione sulle circostanze in cui era stato prelevato da Turov, curato all' ospedale di Kiev e riportato in zona partigiana, ed attese. Dopo due settimane prese congedo da tutti, ed uscì decorosamente di scena. Quanto a Mendel ed Arié, sotto questo aspetto non si posero problemi, né alcun problema gli fu posto dai russi. Il fronte si era rapidamente allontanato verso ponente; il tenente dell' NKVD non si fece più vedere, e la sorveglianza intorno alle baracche si fece sempre più rilassata fino a sparire del tutto. La banda di Gedale, al completo, venne trasferita ai primi di febbraio in una scuola, nella cittadina di Wolbrom poco lontana, e qui abbandonata a se stessa: il presidio russo, che del resto era costituito soltanto da un vecchio capitano e da pochi soldati, non si curava di loro, se non per portare i rifornimenti prelevati dai magazzini militari: patate, rape, orzo, carne, sale. Il pane arrivava già pronto da un forno requisito, ma le operazioni di cucina dovevano essere svolte sul posto, e attrezzi nella scuola non ce n' erano né i russi ne avevano forniti. Gedale ne fece regolare richiesta, il capitano promise, e non arrivò niente. _ Andiamo in città e ce li procuriamo, _ disse Gedale. L' impresa si rivelò più facile del previsto. La cittadina era deserta e sinistra; doveva essere stata bombardata, e poi saccheggiata più volte, ma sempre con fretta. Nelle case smozzicate, nelle cantine, nei solai, nei rifugi antiaerei, si trovava di tutto. Non solo le marmitte, ma sedie, coperte imbottite, materassi, mobili di ogni tipo. Altri mobili arrivavano ogni giorno sul mercato che si era spontaneamente costituito sulla piazza principale. Cumuli di mobilio mezzo sfasciato venivano venduti come legna da ardere: l' offerta era grande e la quotazione bassa. In breve tempo la scuola venne trasformata in un ricovero abitabile, seppure poco accogliente; ma fornelli non ce n' erano, né nei locali né nelle vicinanze, e la zuppa doveva essere cotta su fuochi all' aperto, nel cortile, accanto alla pista di sabbia per il salto in lungo. In compenso, in una delle aule i gedalisti eressero un maestoso letto matrimoniale per Ròkhele Bianca e Isidor, sormontato da un baldacchino che avevano ricavato da coperte militari. Il capitano russo era un uomo malinconico e stanco. Gedale e Mendel andarono più volte a parlargli, per avere da lui qualche informazione sulle intenzioni delle autorità russe nei loro riguardi. Fu gentile, distratto ed elusivo; lui non sapeva nulla, nessuno sapeva nulla, la guerra non era finita, bisognava aspettare la fine della guerra. In guerra lui aveva perso due figli, e di sua moglie a Leningrado non aveva più notizie. Avevano da mangiare e da scaldarsi: aspettassero, come tutti aspettavano. Anche lui aspettava. Forse la guerra non sarebbe finita così presto; nessuno poteva saperlo, forse sarebbe continuata, chi sa? Contro il Giappone, contro l' America. Un permesso per andarsene? Lui non poteva dare permessi, era un' altra amministrazione; e del resto andarsene dove? Verso dove? C' erano in giro bande di ribelli polacchi e tedeschi, bande di briganti; su tutte le strade i sovietici avevano stabilito posti di blocco. Che non tentassero di uscire dalla città: non sarebbero andati molto lontano, i posti di blocco avevano ordine di sparare a vista. Lui stesso evitava di spostarsi, se non per obblighi di servizio; era già successo che i soldati sovietici si sparassero fra loro. Ma Gedale sopportava male la clausura. A lui, e non solo a lui, quel modo di vivere sembrava vuoto, umiliante e ridicolo. Uomini e donne svolgevano a turno le operazioni di cucina e di pulizia, e rimanevano valanghe di tempo libero; paradossalmente, con una città intorno, un tetto sul capo e una tavola attorno a cui mangiare, provavano un disagio indefinito, che era la nostalgia per la foresta e per la libera strada. Si sentivano inetti, stranieri: non più in guerra, non ancora in pace. A dispetto delle raccomandazioni del capitano, uscivano spesso, a piccoli gruppi. A Wolbrom la guerra era finita, ma continuava accanita non molto lontano. Attraverso la cittadina, e sulla strada di circonvallazione in terra battuta, passavano senza sosta, di giorno e di notte, i reparti militari sovietici diretti al fronte slesiano. Di giorno, piuttosto che un esercito moderno sembrava che passasse un' orda, una migrazione: uomini di tutte le razze, giganti vichinghi e lapponi atticciati, caucasici abbronzati e siberiani pallidi, a piedi, a cavallo, su autocarri, su trattori, su grandi carri trainati da buoi, alcuni perfino a dorso di cammello. C' erano militari e borghesi, donne vestite in tutti i modi possibili, vacche, pecore, cavalli e muli: a sera, le squadre si fermavano dove si trovavano, piantavano le tende, macellavano le bestie e arrostivano la carne su fuochi improvvisati. Questi bivacchi estemporanei brulicavano di bambini, infagottati in panni militari fuori misura; alcuni portavano pistole e coltelli alla cintura, tutti avevano la stella rossa appuntata sull' enorme berretto di pelliccia. Chi erano? Da dove venivano? Mendel e i suoi compagni si soffermarono a interrogarli: parlavano russo, ucraino, polacco, alcuni anche jiddisch, altri rifiutavano di parlare. Erano restii e selvaggi, erano orfani di guerra. L' Armata Rossa, nella sua avanzata attraverso paesi devastati, ne aveva rastrellati a migliaia, tra le macerie delle città, sperduti per i campi e i boschi, affamati e raminghi. I sovietici non avevano tempo di sistemarli nelle retrovie né mezzi per trasferirli più lontano: se li trascinavano dietro, figli di tutti, soldati anche loro, anche loro in cerca di preda. Si aggiravano intorno ai fuochi; alcuni militari davano loro pane, zuppa e carne, altri li cacciavano via infastiditi. Sorprendentemente diverse erano le truppe che attraversavano la città nelle ore buie. Mendel, che conservava il ricordo bruciante dei reparti accerchiati e fatti a pezzi nelle grandi battaglie di annientamento del '41 e del '42, stentava a credere ai suoi occhi. Ecco, era quella la nuova Armata Rossa che aveva spezzato la schiena della Germania; un' altra, irriconoscibile. Una macchina poderosa, ordinata, moderna, che sfilava quasi senza rumore per la via principale della città oscurata. Carri armati giganteschi montati su rimorchi dalle ruote gommate; cannoni semoventi mai visti né sognati prima; le Katijuse leggendarie, coperte da teli che ne nascondevano le fattezze. Frammiste alle artiglierie ed ai reparti corazzati marciavano anche squadre appiedate, in ordine chiuso, cantando. I loro non erano canti bellicosi, anzi melanconici e sommessi; non esprimevano sete di guerra, come quelli dei tedeschi, bensì il lutto accumulato in quattro anni di strage. Mendel, l' artigliere Mendel, assisteva al passaggio con l' animo scosso. Nonostante tutto, nonostante la sconfitta disastrosa e colpevole che lo aveva costretto alla macchia, nonostante il disprezzo e i torti che in altri tempi aveva subiti, nonostante Ulybin, era pure quello l' esercito di cui lui ancora portava addosso l' uniforme logora e stinta. Un "krasnoarmeetz": tale era ancora, anche se ebreo, anche se in cammino verso un altro paese. Quei soldati che passavano cantando, miti in pace e indomabili in guerra, quei soldati fatti come Piotr, erano i suoi compagni. Sentiva il suo petto sollevarsi per una piena di affetti che facevano lite: fierezza, rimorso, risentimento, reverenza, gratitudine. Ma un giorno udì gemiti uscire da una cantina; vi discese con Piotr, e vide dieci militi della Waffen-SS coricati sul ventre e seminudi: alcuni si trascinavano a forza di braccia, tutti avevano un taglio sanguinante a metà della schiena. _ I siberiani fanno così, _ disse Piotr, _ quando li trovano non li uccidono, ma gli tagliano il midollo _. Risalirono in strada, e Piotr aggiunse: _ Non vorrei essere un tedesco. Eh no, nei prossimi mesi non vorrei proprio essere un berlinese. Un mattino si svegliarono e trovarono, tracciata a catrame sulla facciata della scuola, una croce uncinata; sotto stava scritto: "NSZ _ Morte agli ebrei bolscevichi". Poco dopo, dalla finestra del primo piano, videro in strada tre o quattro giovani che parlavano fra loro e guardavano in su. La sera stessa, mentre erano seduti a mangiare, il vetro della finestra volò in schegge, e tra le gambe del tavolo piombò una bottiglia a cui era legata una miccia accesa. Il più pronto fu Piotr: in un lampo acchiappò la bottiglia, che non si era rotta, e la ributtò in strada. Ci fu un tonfo, e sul selciato si formò una pozza accesa che bruciò a lungo; la fiamma fumosa arrivava fino alla loro finestra. Gedale disse: _ Bisogna trovare armi e andare via. Anche trovare armi fu più facile di quanto si erano aspettato: vi provvidero, per vie diverse, Schmulek e Pavel. Nella sua tana c' erano armi, disse Schmulek: non molte ma ben conservate, sepolte sotto la terra battuta. Chiese a Gedale un accompagnatore, partì al tramonto e tornò all' alba con diverse pistole, bombe a mano, munizioni e un mitra. Dopo la morte di Jòzek, Pavel gli era subentrato nella funzione di furiere, e riferì che comperare armi al mercato era più facile che comperare il burro e il tabacco. Ne offrivano tutti, alla luce del sole; i russi stessi, sia i militari di passaggio, sia i civili che seguivano le truppe, vendevano armi leggere tedesche trovate nei depositi o sui campi di battaglia; altro materiale lo offrivano con disinvoltura i polacchi della milizia che i russi avevano frettolosamente messa in piedi. Molti di questi, appena arruolati, disertavano con le armi e raggiungevano bande che si preparavano alla guerriglia; altri vendevano o barattavano le armi al mercato. In pochi giorni i gedalisti si trovarono in possesso di parecchi coltelli e di una dozzina di bocche da fuoco scompagnate; non era molto, ma poteva bastare per tenere lontani i terroristi della destra polacca. A fine febbraio il capitano russo chiamò Gedale a rapporto, e lo tenne a parlare per più di un' ora. _ Mi ha offerto da fumare e da bere, _ riferì Gedale ai compagni. _ Non è così distratto come sembra, e secondo me ha ricevuto un' imbeccata. Ha saputo della bottiglia Molotov, dice che sono tempi difficili e che è preoccupato per noi. Che loro non sono in grado di garantire la nostra sicurezza, e che faremmo bene a proteggerci da soli: in altre parole, si è accorto delle armi e gli sta bene che noi le abbiamo. È naturale, l' NSZ gli deve piacere come a noi. Ha ripetuto che questo è un brutto posto; me lo aveva già detto l' altra volta, ma allora diceva che uscire di città era pericoloso, e invece oggi mi ha chiesto perché restiamo qui. "Potreste andare più avanti, ormai il fronte è lontano: più avanti, incontro agli alleati ...." Io gli ho detto che vorremmo andare in Italia, e di lì cercheremmo di passare in Palestina, e lui ha detto che facciamo bene, l' Inghilterra dalla Palestina se ne deve andare, e così pure dall' Egitto e dall' India: gli imperi coloniali hanno le ore contate. E in Palestina dobbiamo andarci noi, a costruire il nostro stato. Mi ha detto che lui ha molti amici ebrei, e che ha perfino letto il libro di Herzl: ma questo credo che non sia vero, oppure lo ha letto male, perché mi ha detto che in fondo anche Herzl era un russo, mentre invece era ungherese; io però non l' ho contraddetto. In breve: il capitano è uno che la sa lunga; ai russi fa comodo che noi andiamo a dare fastidi agli inglesi; e per noi è ora di partire. Ma niente permessi ufficiali: su questo argomento ha fatto subito macchina indietro. _ Ce ne andremo senza permessi, _ disse Line alzando le spalle. _ Quando mai abbiamo avuto permessi? Si udì la voce nasale di Bella: _ Quelli dell' NSZ sono dei fascisti e dei vigliacchi, ma c' è un punto su cui noi andiamo d' accordo con loro e con i russi: loro ci vogliono mandare via, e noi ce ne vogliamo andare. Pavel aveva preso l' abitudine di uscire dalla scuola di buon mattino e di non farsi più vedere fino a sera. Nel giro di pochi giorni l' atmosfera di Wolbrom era cambiata: adesso, sul flusso delle truppe dirette in Germania prevaleva il flusso inverso, di soldati che tornavano dal fronte. Alcuni andavano in licenza, ma per la maggior parte erano militari feriti o mutilati, appoggiati su stampelle di fortuna, seduti sui mucchi di calcinacci che fiancheggiavano le vie, con pallidi visi imberbi da adolescenti. Dai suoi giri di esplorazione Pavel non rientrava mai a mani vuote: sul mercato nero si trovava ormai di tutto. Portò caffè, latte in polvere, sapone e lamette da barba, polvere per budini, vitamine, tesori che i gedalisti non vedevano da sei anni o non avevano mai conosciuto prima. Un giorno si portò dietro uno spilungone dai capelli color sabbia, che non parlava né russo né polacco né tedesco, e solo qualche parola di jiddisch: lo aveva trovato sulle macerie della sinagoga di Wolbrom che recitava le preghiere del mattino, era un soldato ebreo di Chicago che i tedeschi avevano fatto prigioniero in Normandia e che l' Armata Rossa aveva liberato. Fecero festa insieme, ma l' americano non era bravo ad esprimersi ed ancora meno a bere; dopo il primo giro di vodka finì sotto il tavolo, dormì fino al mezzogiorno seguente, e poi se ne andò senza salutare nessuno. Per le strade vagabondavano ex prigionieri di tutti i paesi e di tutte le razze, e nugoli di prostitute. Il 25 di febbraio Pavel rincasò con cinque paia di calze di seta, e ne nacque un gran brusio eccitato: le donne si affrettarono a provarle, ma erano di misura tollerabilmente giusta solo per Sissl e per Ròkhele Nera; per l' altra Ròkhele, Line e Bella erano troppo grandi. Pavel fece tacere il brusio: _ Niente, non ha importanza, domani le cambio o ne porto delle altre. Ho altro da dirvi, ho trovato un camion! _ Lo hai comperato? _ chiese Isidor. No, non lo aveva comperato. Venne fuori che dietro alla stazione ferroviaria i russi avevano costituito un campo di rottami e di materiale smobilitato, e che qui si poteva trovare di tutto. Pavel non era pratico, bisognava che l' indomani stesso qualcuno andasse sul posto con lui. Chi era pratico di camion? Chi li sapeva guidare? La banda aveva fatto a piedi più di mille chilometri: non era forse ora di viaggiare in camion? _ Bisognerà pure pagarlo, _ disse Mottel. _ Non credo, _ disse Pavel. _ Il campo non è recintato, intorno non c' è che un fosso, e di sentinelle ce n' è una sola. L' importante è sbrigarsi: c' è già una quantità di gente che va e viene, proprio stamattina ho visto due ragazzi che si portavano via una motocicletta. Chi viene con me domani mattina? Avrebbero voluto andare tutti, se non altro per il diversivo. Line ed Arié fecero sapere che avevano guidato trattori; Piotr e Mendel avevano la patente militare, ed in più Mendel al suo paese aveva avuto occasione di riparare trattori ed autocarri. Gedale, con inconsueto abuso di autorità, disse che sarebbe andato lui perché era il capobanda, ma il più insistente era Isidor, che non poteva vantare alcun titolo. Voleva a tutti i costi andare con Pavel: per le macchine, per tutte le macchine, aveva una passione disinteressata ed infantile, e diceva che il camion avrebbe imparato a guidarlo in un momento. Andò Mendel, e vide che Pavel non aveva esagerato: nel campo rottami c' era veramente di tutto, non solo rottami. I russi, riforniti dagli Alleati di materiale militare di tutti i generi, non andavano per il sottile: non appena un' apparecchiatura o un veicolo davano qualche fastidio, lo scartavano e ne prelevavano uno nuovo. Altro materiale danneggiato arrivava giorno per giorno dalla zona di combattimento, su autocarri o per ferrovia; nessuno lo esaminava o controllava, veniva scaraventato nel campo e restava lì ad arrugginire. Nel lugubre cimitero metallico si aggiravano curiosi, esperti, e torme di ragazzini che giocavano a rimpiattino. I camion c' erano: di tutte le marche e in tutti gli stati di conservazione. L' attenzione di Mendel si appuntò su una fila di camion italiani; erano Lancia 3 Ro da trenta quintali, e sembravano nuovi: forse venivano da qualche deposito tedesco. Mentre Pavel cercava di distrarre la sentinella, offrendole tabacco e gomma da masticare, Mendel esaminò i veicoli più da vicino. Avevano addirittura ancora la chiave nel cruscotto e sembravano pronti a partire; Mendel provò a dare il contatto, ma non accadde nulla. Fu presto capito: i camion non avevano batteria, e non l' avevano mai avuta; i capicorda dell' impianto elettrico erano ancora coperti di grasso. Quando Pavel tornò, Mendel gli disse: _ Ritorna dal tuo uomo e tienilo occupato. Io vado a vedere se trovo in giro una batteria carica. _ Ma che cosa gli racconto? _ Arrangiati. Raccontagli di quando facevi l' attore. Mentre Pavel sforzava la sua memoria e la sua fantasia per intrattenere la sentinella senza insospettirla, Mendel prese ad esplorare metodicamente gli altri veicoli. Presto trovò quanto cercava, un autocarro russo della stessa portata dei Lancia, in condizioni relativamente buone: doveva essere arrivato da poco. Aprì il cofano e toccò i poli della batteria con la lama del coltello. Ci fu uno schiocco ed un lampo azzurro, la batteria era carica. Rientrò con Pavel alla scuola, le ore passavano lente, sembrava che la notte non venisse mai. Quando fu buio, presero le armi e tornarono al campo rottami. Della sentinella non c' era traccia, o dormiva nei pressi o era tranquillamente rientrata in caserma. Invece, fra le sagome buie dei veicoli e dei rottami si aggirava una popolazione furtiva: come termiti, smontavano e demolivano tutto quanto potesse dimostrarsi utile o commerciabile: sedili, cavetti, pneumatici, i motorini ausiliari. Alcuni sifonavano via il carburante dai serbatoi; Pavel si fece imprestare un tubo, fece altrettanto e versò un po' di nafta nel serbatoio del primo 3 Ro della fila. Poi Mendel smontò la batteria buona, ed aiutato da Pavel la trascinò all' autocarro. La rimontò, fece la connessione, salirono in cabina e Mendel girò la chiavetta. Cercò a tentoni la levetta dei fari, e i fari si accesero: "... e la luce fu", pensò tra sé. Li spense e fece l' avviamento: il motore partì subito, liscio e rotondo; rispondeva obbediente al pedale del gas. Perfetto. _ Siamo a posto! _ disse Pavel sottovoce. _ Vedremo, _ rispose Mendel. _ Bestioni come questo io ne ho riparati diversi, ma non ne ho mai guidato nessuno. _ Non hai detto che avevi la patente? _ Per averla, ce l' ho, _ disse Mendel fra i denti. _ A quel tempo la davano a tutti, c' erano i tedeschi a Borodinò e a Kaluga, sei mezze ore di lezione e via. Ma poi io ho solo guidato vetture e trattori; e di notte è un' altra faccenda. Adesso stai zitto, per favore. _ Solo ancora una cosa, _ disse Pavel, _ non uscire dalla porta. Lì c' è la garitta, ci potrebbe essere qualcuno. E adesso sto zitto. Con la fronte aggrottata, intento come un chirurgo, Mendel premette il pedale della frizione, ingranò la marcia e sollevò il piede: il camion si avviò con uno strappo selvaggio. Riaccese i fari, e col motore imballato si diresse lentissimo verso il fondo del campo, lungo una corsia sgombra. _ Non sperare che io cambi marcia. Cambio poi domani: per oggi andiamo avanti così. Il camion navigò fino al fossato, si inclinò in avanti e puntò maestosamente verso il cielo. _ Siamo fuori, _ disse Pavel aspirando l' aria piovosa: si accorse che da forse un minuto non aveva più respirato. Una voce gridò alle loro spalle: _ Stòj! Halt! _; Pavel si sporse dal finestrino e sparò una breve raffica verso l' alto, più per allegria anche per intimidazione. Arrivato sulla strada, Mendel raccolse tutto il suo coraggio ed ingranò la seconda ridotta: il ruggito del motore calò di un tono e la velocità aumentò leggermente. Nessuno li inseguì, e raggiunsero la scuola in pochi minuti. Gedale, armato anche lui, li aspettava in strada. Abbracciò Mendel ridendo e recitando la benedizione dei miracoli. Mendel, con la fronte imperlata di sudore a dispetto del freddo, gli rispose: _ Meglio l' altra, quella dello scampato pericolo. Non perdiamo tempo, partiamo subito. Svegliati di soprassalto, i gedalisti portarono giù i bagagli e le armi e si pigiarono nel cassone. Mendel riaccese il motore. _ Verso Zawiercie! _ gli gridò Gedale, che aveva preso posto accanto a lui nella cabina. Seguendo i cartelli indicatori che i russi avevano affissi alle cantonate, Mendel uscì di città e si trovò su una strada secondaria piena di buche e di pozzanghere. A grado a grado, e con parecchie grattate, imparò ad innestare le marce alte, e la velocità divenne discreta. Aumentarono anche gli scossoni, ma nessuno si lamentava. Superò una salita, imboccò la discesa: i freni rispondevano e si sentì rassicurato, ma la tensione della guida lo stravolgeva. _ Non resisto più per molto. Chi mi darà il cambio? _ Vedremo, _ urlò Gedale sul fracasso del motore e delle lamiere. _ Adesso pensa a uscire dall' abitato. A metà discesa incontrarono un posto di blocco: un tronco non sgrossato, appoggiato su due fusti ai lati della strada. _ Che cosa faccio? _ Non fermarti! Accelera! Il tronco volò via come una paglia e si udirono raffiche di mitra; dal cassone qualcuno rispose con colpi isolati. Il camion proseguì la sua corsa nella notte, e Gedale gridò ridendo: _ Se non così, come? E se non ora, quando?

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Ad un tratto una spuma sanguigna comparve sulle labbra del disgraziato, poi le palpebre si abbassarono lentamente sugli occhi già spenti. Il capitano degli alabardieri di Granata era morto. - Maestro, - disse l'aiutante al medico, il quale teneva sempre in mano il pezzo di lama - che cosa farete ora? - Andrò ad avvertire subito il governatore. I Ventimiglia sono stati i piú tremendi corsari del golfo del Messico. Qualche loro figlio o parente è ricomparso in queste acque. Guai a noi se non si catturasse! ... Non ne parlare con nessuno, nemmeno con la marchesa. - Sarò muto, maestro. - Tu andrai ad avvertire il colonnello del reggimento di quanto è accaduto, perché venga trasportato in caserma, questo povero conte. - E voi? - Corro dal governatore. Avvolse nell'asciugamano la lama, poi aprí la porta. La marchesa di Montelimar, in preda ad una visibile commozione, aspettava nella sala vicina insieme al maggiordomo e alle sue cameriere. - Dunque, dottore? - chiese. - È morto, marchesa - rispose Escobedo. - La ferita era terribile. - E non vi ha detto chi lo ha ucciso? - Non ha potuto parlare; deve aver avuto un duello, perché non aveva piú la spada nella guaina. - E ora? - Penso io a tutto. Prima dell'alba il capitano sarà portato nella caserma o nel suo appartamento. Si potrebbe malignare sul conto vostro, se lo lasciassimo qui. - È quello che temevo. - Buona notte, marchesa. M'incarico io di ogni cosa.

I FIGLI DELL'ARIA

682303
Salgari, Emilio 1 occorrenze

I due europei furono fatti salire, si abbassarono le tende onde sottrarli alla vista dei curiosi, poi i facchini partirono a passo rapido, scortati dagli agenti di polizia. Nessuno pareva che si fosse accorto dell'arresto dei due russi. D'altronde era una cosa talmente comune il vedere in Pechino delle portantine, che i passanti non vi avevano fatto alcun caso, quantunque vi fossero intorno i poliziotti. Dopo una lunga ora, i facchini si fermarono. Rokoff e Fedoro, che cominciavano a perdere la pazienza e ad averne abbastanza di quella prigionia, si trovarono sotto uno spazioso atrio, dove si vedevano gruppi di agenti, di soldati e di guardiani che chiacchieravano fumando o masticando semi di zucca. - È questa la prigione? - chiese Rokoff. - Lo suppongo - rispose Fedoro. - Che ci chiudano ora in qualche segreta? - O in gabbia invece? - Vivaddio! Io in una gabbia? Non sono già una gallina! - La vedremo! - Non lasciarti trasportare dall'ira, Rokoff - disse Fedoro. - Forse non oseranno trattarci come delinquenti comuni, per paura dell'Ambasciata. Due uomini seminudi, dai volti arcigni, colle code arrotolate intorno al capo, armati di certi coltellacci che pendevano snudati dalle loro cinture, si fecero innanzi, afferrando brutalmente i due europei. Rokoff, sentendosi posare una mano sulla spalla, fece un salto indietro, gridando con voce minacciosa: - Non toccatemi o vi spacco il cranio! Anche Fedoro aveva respinto violentemente il suo carceriere o carnefice che fosse, prendendo una posa da pugilatore. - Noi siamo europei - gridò. - Giù le mani! ... I due carcerieri si guardarono l'un l'altro, forse sorpresi di quell'inaspettata resistenza, poi piombarono sui due prigionieri, cercando di abbatterli. Avevano però calcolato male le loro forze. Rokoff, con una mossa altrettanto fulminea, si era gettato innanzi a Fedoro, poi con due ceffoni formidabili che risuonarono come due colpi di fucile, fece piroettare tre o quattro volte i due cinesi, finché caddero l'un sull'altro, sradicati da due pedate magistrali. Urla furiose echeggiarono sotto l'atrio. Soldati, poliziotti e carcerieri si erano slanciati come un solo uomo verso i due europei, sguainando le scimitarre ed impugnando picche, coltellacci e rivoltelle. - Siamo perduti! - esclamò Fedoro. - Non ancora - rispose Rokoff, furibondo. - Possiamo accopparne degli altri prima di cadere. Si abbassò rapidamente, raccolse uno dei caduti e lo alzò sopra la testa preparandosi a scaraventarlo come un proiettile fra l'orda urlante. A quella nuova prova di vigore così straordinario, i cinesi si erano arrestati. - Vi accoppo tutti, canaglie! - urlò Rokoff. - Indietro! A quel fracasso però accorreva la guardia delle carceri, comandata da un ufficiale. Erano dodici soldati, armati di fucili a retrocarica, e a quanto pareva, non troppo facili a spaventarsi. Ad un comando dell'ufficiale inastarono risolutamente le baionette e le puntarono verso Rokoff. - Indietro! - tuonò il colosso. L'ufficiale invece armò la rivoltella e lo prese di mira dicendogli - Non opponete resistenza o comando il fuoco. Tale è l'ordine. - Rokoff, bada - disse Fedoro. - Sono soldati e obbediranno. - Meglio farci fucilare che lasciarci imprigionare. - No, amico, noi riacquisteremo presto la libertà perché la nostra innocenza verrà riconosciuta. Siamo prudenti per ora. Rokoff, quantunque si sentisse prendere da una voglia pazza di scaraventare il carceriere addosso ai soldati, comprese finalmente il pericolo e depose il povero diavolo, che pareva più morto che vivo. Nel medesimo istante compariva il magistrato che li aveva fatti arrestare. - - Una ribellione? - disse, aggrottando la fronte. - Volete aggravare la vostra posizione o farvi uccidere. - Dite ai vostri uomini che siano meno brutali - rispose Fedoro. - Noi non siamo stati ancora condannati. - Darò gli ordini opportuni perché vi rispettino, ma non opponete alcuna resistenza. Seguitemi. - Obbediamo, Rokoff. - Se tu mi avessi lasciato fare, avrei sgominato questi poltroni - rispose il cosacco. - Avevo cominciato così bene! - E avremmo finito male. - Ne dubito. - Seguiamo il magistrato. Scortati dai soldati, i quali non avevano ancora levato le baionette dai fucili, furono introdotti in un'ampia stanza dove si vedevano sospese quattro gabbie contenenti ciascuna tre teste umane che parevano appena decapitate, colando ancora il sangue dal collo. Erano orribili a vedersi. Avevano i lineamenti alterati da un'angosciosa espressione di dolore, gli occhi smorti e sconvolti, la bocca aperta ed imbrattata da una schiuma sanguigna. Sotto ogni gabbia era appeso un cartello su cui stava scritto: La giustizia ha punito il furto. - Mille demoni! - esclamò Rokoff, stringendo le pugna. - È per spaventarci che ci hanno condotto qui? - Sono gabbie che poi verrano esposte su qualche piazza, onde servano di esempio ai ladri - disse Fedoro. - Guarda altrove. - Sì, perché mi sento il sangue ribollire. Attraversato lo stanzone, passarono in un altro, le cui pareti erano coperte da strumenti di tortura. Vi erano numerose kangue, specie di tavole che servono ad imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani, pesanti venti, trenta e persino cinquanta chilogrammi; canne di ogni lunghezza e d'ogni grossezza, destinate alla bastonatura; arpioni di ferro per infilzarvi i condannati a morte; pettini d'acciaio per straziarli, poi tavole con corde destinate a distendere fino alla rottura dei tendini, le mani ed i piedi dei pazienti. - Canaglie! - brontolò Rokoff. - Altro che l'Inquisizione di Spagna! Questi cinesi sono più feroci degli antropofagi. Stavano per varcare la soglia, quando giunse ai loro orecchi un clamore che fece gelare il sangue ad entrambi. Era un insieme di urla acute e strazianti, di gemiti, di rantoli, di singhiozzi a malapena soffocati e di ruggiti che parevano mandati da belve feroci. - Qui si ammazza! - gridò Rokoff, guardando il magistrato ed i soldati, minacciosamente. - Si tortura - rispose Fedoro. - E noi lasceremo fare? - Non spetta a noi intervenire. - Io non posso tollerare ... - Devi resistere, Rokoff. - Che non veda nulla, altrimenti mi scaglio contro questi bricconi e ne ammazzo quanti più ne posso. Il magistrato, che aveva forse indovinato le idee bellicose del cosacco e che non desiderava vederlo ancora arrabbiato per paura di provare la sua forza, piegò a destra, inoltrandosi in un corridoio e si arrestò dinanzi ad una porta ferrata. Un carceriere stava dinanzi, tenendo in mano una chiave enorme. Ad un cenno del magistrato aprì ed i due europei si sentirono bruscamente spingere innanzi. Rokoff stava per rivoltarsi, ma la porta fu subito chiusa. Si trovavano in una cella lunga tre metri e larga appena due, rischiarata da un pertugio difeso da grosse sbarre di ferro e che pareva prospettasse su un cortile, essendo la luce fioca. L'unico mobile era un saccone, forse ripieno di foglie secche, che doveva servire da letto. - Bell'alloggio! - esclamò Rokoff. - Nemmeno una coperta per difenderci dal freddo. - E nemmeno uno sgabello - disse Fedoro. - Molto economi questi cinesi. A un tratto si guardarono l'un l'altro con ansietà. Avevano udito dei gemiti sordi e strazianti, che parevano provenire dal cortile. - Si tortura anche presso di noi? - chiese Rokoff. S'avvicinò al pertugio guardando al di fuori, e subito retrocesse, pallido come un cadavere. - Guarda, Fedoro - disse con voce soffocata. - Che cosa fanno subire a quei miseri? ... L'orrore mi agghiaccia il sangue.

I PREDONI DEL SAHARA

682456
Salgari, Emilio 3 occorrenze

I tre fuggiaschi si abbassarono presso il parapetto, impugnando le loro armi. Qualcuno stava attraversando la galleria. Si udiva un passo leggero avvicinarsi, ma l'oscurità era così fitta che non potevano scorgere la persona che s'avanzava. "Che sia qualche kissuro?" esclamò il marchese. "Chiunque sia, lasciamolo andare," mormorò Ben. Un'ombra bianca passò a pochi passi da loro, scomparendo verso l'estremità opposta della galleria e lasciandosi dietro un'onda di profumo acutissimo. "Deve essere una donna," disse il marchese. "Che questa loggia metta nell'harem del sultano?" "Ridiscendiamo nel giardino e cerchiamo qualche altra uscita," disse Ben. "Condivido la vostra idea," disse il marchese, dopo un momento di riflessione. "Non desidero imbarazzarmi colle donne del sultano." Rocco alzò una persiana per vedere se vi erano delle guardie nel giardino. Essendo la luna comparsa dietro l'opposto padiglione, uno sprazzo di luce si proiettò nella galleria e sui tre fuggiaschi. Quasi nello stesso momento un grido di donna echeggiava nella loggia. "Aiuto! ... I ladri! ... " "Morte e sangue!" gridò Rocco. "Ancora la bella del sultano!" "Giù! saltate!" comandò il marchese. Una porta si era aperta all'estremità della galleria e alcune ombre si erano precipitate fra le arcate, vociferando spaventosamente. Non vi era un momento da esitare. Rocco, il marchese e l'ebreo scavalcarono il parapetto e si lasciarono cadere nel giardino, correndo verso la muraglia. L'allarme era stato dato. Sulle terrazze, nei padiglioni, nelle logge si udivano grida d'uomini e di donne. "Fuggono!" "Sono nel giardino!" "Inseguiteli!" "Fuoco!" Alcuni colpi di moschetto, sparati dai kissuri che vegliavano sulle terrazze, rimbombarono mettendo in subbuglio gli abitanti della kasbah e forse lo stesso sultano. Da tutte le parti si vedevano accorrere uomini muniti di torce e armati di moschetti, di scimitarre e di lance. Il marchese ed i suoi due compagni attraversarono di corsa il giardino e si misero a seguire l'alta muraglia colla speranza di trovare qualche porta o qualche scala che permettesse loro di varcare l'ostacolo. "Qui!" esclamò ad un tratto Rocco, fermandosi. "Guardate, una porta!" "Scassiniamola!" gridò il marchese. "Presto," disse Ben. "I kissuri vengono!" Si vedevano torce correre attraverso gli alberi e clamori assordanti s'alzavano dovunque. Sulle terrazze rimbombavano colpi di moschetto sparati a casaccio. La porta scoperta dal sardo era rinforzata da lastre di ferro, però il metallo s'era così arrugginito da non poter opporre una tunga resistenza. Il marchese appoggiò la canna della pistola nella toppa e fece fuoco. Il chiavistello, spezzato dalla palla, cedette senza però che la porta si aprisse. "Mille pantere!" esclamò il marchese. "Signore," disse Rocco. "Scassinatela finché io tengo testa ai kissuri." Alcune guardie erano comparse e si preparavano a dare addosso ai fuggiaschi. Il sardo, impugnata la sbarra, chiuse loro il passo, menando colpi all'impazzata e costringendoli a retrocedere. Intanto il marchese e Ben, a colpi di spalla, sgangheravano l'ostacolo. "Rocco!" gridò il marchese. "Siamo salvi!" Certo di essere seguito dal fedele sardo, si slanciò all'aperto trascinando Ben. Si trovarono sulla piazza che s'apriva dietro la kasbah. Nessun uomo si vedeva sotto i palmizi, quindi la fuga non presentava, almeno pel momento, alcuna difficoltà. "Rocco!" gridò ancora il marchese, slanciandosi a corsa sfrenata. Gli risposero delle urla furiose, ma il sardo non comparve. "Ben!" gridò il marchese, con angoscia. "Rocco è stato preso! Torniamo!" "Troppo tardi! I kissuri ci danno la caccia! Sono usciti dal giardino!" "Torniamo!" "No, marchese!" esclamò Ben afferrandolo strettamente per un braccio. "Liberi potremo forse salvarlo; arrestati non ci aspetterebbe che la morte." "Ah! Disgraziato Rocco! Si è sacrificato per noi!" "Fuggite! Vengono!" Alcuni kissuri si erano slanciati sulla piazza. Vedendo i due prigionieri fuggire, scaricarono le pistolacce, senza alcun esito essendo quelle armi troppo vecchie e d'una portata troppo limitata. Il marchese, ormai rassegnato, si era precipitato dietro a Ben, il quale fuggiva a rompicollo senza nemmeno volgersi indietro. Attraversata la piazza si cacciarono in mezzo alle viuzze che mettevano verso i quartieri meridionali della città. I kissuri, temendo forse che i fuggiaschi avessero dei compagni pronti a spalleggiarli, avevano rallentato la corsa. "Si sono fermati," disse il marchese, dopo aver percorso tutto d'un fiato tre o quattro viuzze. "Non li odo più. Dove andiamo?" "Alla casa di mio padre," rispose Ben. "Conoscete la via? Io non so più dove vada." "La troveremo, marchese." Sostarono un momento per riprendere lena, poi ricominciarono a correre gareggiando fra di loro. In lontananza, verso la piazza, si udivano ancora le urla delle guardie del sultano, ma non erano più tali da inquietare i fuggiaschi. Pareva che i kissuri avessero smarrito le tracce o che non si fossero sentiti tanto forti da proseguire la caccia. Dopo una mezz'ora, non udendo più nulla, il marchese e Ben, completamente esausti, tornarono a fermarsi. "Non abbiamo più nulla da temere," disse l'ebreo. "Ormai siamo salvi." "Noi sì, ma Rocco?" chiese il signor di Sartena, con dolore. "Che l'abbiano ucciso?" "Non è uomo da lasciarsi ammazzare," rispose Ben. "Si vendicheranno su di lui." "Andiamo da mia sorella, marchese. Vedremo poi cosa potremo tentare per strapparlo ai kissuri del sultano. "L'oro non ci manca e sono pronto a sacrificare tutta l'eredità di mio padre pur di salvarlo. Venite, marchese. Non dobbiamo essere lontani dalla nostra casa." "Grazie della vostra offerta, Ben, ma io dubito che il vostro oro possa servire a strappare alla morte quel coraggioso," disse il marchese, con un sospiro. "Canaglie! Tradirci così vigliaccamente." "Il traditore è stato ucciso da El-Haggar." "Uno sì, ma l'altro è forse ancora vivo." "Sospettate ancora di El-Melah?" "Sì, Ben. È stato lui a mandarci quell'arabo e deve essere stato lui ad inventare la storia del colonnello." "Noi però non sappiamo ancora se Flatters sia veramente schiavo del sultano o se sia stato ucciso nel deserto." "Ormai ho perduto ogni speranza, amico. Sono convinto che quel valoroso è stato massacrato assieme a tutti i suoi compagni, in mezzo al Sahara." "Fermatevi! ... Ci siamo." "Dove?" "Alla casa di mio padre. Eh! Guardate! Vedo della luce nel giardino! ... " "Che vostra sorella stia disseppellendo il tesoro?" "Lo suppongo, marchese." "Che siano ladri? Forse El-Melah? Ah! Vivaddio! Se è lui, lo uccido come un cane." Impugnò l'arma e si slanciò verso il cancello del giardino. Alcuni uomini, alla luce d'una torcia, stavano levando dal pozzo un grosso forziere. "Vedo El-Haggar!" esclamò il marchese. "E vi è anche mia sorella!" esclamò Ben. Con una spinta irresistibile rovesciarono il cancello e si slanciarono nel giardino, gridando: "Esther!" "Sorella!" La giovane ebrea, udendo quelle grida, aveva fatto alcuni passi innanzi, vacillando. Impallidì, arrossì, poi aprì le braccia e si strinse al petto prima il fratello, poi il marchese, esclamando: "Salvi! ... Salvi! ... Dio possente, vi ringrazio."

I Tuareg si scambiarono alcune parole, poi vedendo che non avrebbero potuto resistere a quelle quattro persone armate di fucili e che parevano molto risolute, abbassarono le lance, scesero il cumulo e partirono frettolosamente, forse molto soddisfatti che le cose fossero passate così lisce. "Voi rimanete a guardia dei cammelli e dei bagagli," disse El-Haggar, quando i predoni furono scomparsi. "Attendete il nostro ritorno." I due beduini rientrarono nel giardino chiudendo il cancello. "Ed ora, signora," continuò il moro. "Abbassate il cappuccio onde non s'accorgano che siete una donna, avvolgetevi bene nel caic e seguitemi." "Andiamo alla kasbah?" chiese Esther, con voce tremante. "Sì, signora. In un quarto d'ora noi vi saremo." Aizzarono il cavallo e l'asino e si diressero verso i quartieri centrali della città, scegliendo le vie meno frequentate. Essendovi festa in tutte le case, la festa della carne di montone, pochissime erano le persone che s'incontravano e quelle poche non erano che dei miserabili negri che non potevano certo dare impiccio. Nondimeno per maggiore precauzione El-Haggar aveva pure alzato il cappuccio, in modo da nascondere buona parte del viso, quantunque fosse più che certo di non aver lasciato tempo ai kissuri di riconoscerlo. Già non distavano dalla kasbah più di cinquecento passi, quando udirono tuonare in quella direzione un pezzo d'artiglieria. "Il cannone!" esclamò El-Haggar, trasalendo. "Ah! Signora! Disgrazia!" "Perché dici questo?" chiese Esther, impallidendo e portandosi una mano al cuore. "Il marchese ed i suoi compagni devono essersi rifugiati nel minareto del padiglione, signora." "E tu credi ... " chiese la giovane con estrema angoscia. "Che dirocchino a cannonate il minareto per costringerli alla resa." "Gran Dio! El-Haggar!" "Coraggio, signora: venite!" Sferzò l'asino costringendolo a prendere un galoppo furioso e pochi minuti dopo giungeva, sempre seguito da Esther, sulla piazza della kasbah, di fronte ai due padiglioni. La lotta era finita. Non si scorgevano che pochi curiosi che stavano radunati dinanzi alla finestra del padiglione più piccolo, osservando una larga pozza di sangue. I kissuri del sultano erano invece scomparsi. El-Haggar guardò il minareto e vide che un angolo della base era stato diroccato, probabilmente da una palla di non piccolo calibro. "Signora," disse con voce tremante, "sono stati presi." Esther vacillò e sarebbe certamente caduta dalla sella se il moro, accortosene a tempo, non l'avesse sorretta. "Badate, signora," le disse. "Ci osservano e se nasce loro qualche sospetto, prenderanno anche noi." "Hai ragione, El-Haggar," rispose la giovane reagendo energicamente contro quell'improvvisa commozione. "Sarò forte. Informati di ciò che è avvenuto. Ah! Mio povero Ben! Povero marchese!" Il moro, vedendo un vecchio dalla barba bianca che attraversava la piazza, camminando quasi a stento, gli si accostò. "È successo qualche grave avvenimento?" gli chiese, facendogli segno d'arrestarsi. "Ho udito tuonare il cannone." Il vecchio si fermò guardandolo attentamente, quasi con diffidenza. Era un uomo di sessanta e forse più anni, col volto rugoso ed incartapecorito, il naso ricurvo come il becco dei pappagalli, gli occhi neri e ancora vivissimi. Non pareva che fosse né arabo, né un fellata e tanto meno un moro a giudicare dal colore della sua pelle molto bianca ancora. "Eh, non sapete?" chiese il vecchio, dopo d'averlo guardato a lungo. "Hanno preso degli stranieri e anche un ebreo." Aveva pronunciato l'ultima parola con un accento così triste, che il moro ne era stato colpito. "Anche un ebreo?" chiese El-Haggar. "Sì," rispose il vecchio con un sospiro. "Che cosa avevano fatto quegli stranieri?" "Io non lo so. M'hanno detto che si erano rifugiati su quel minareto dove opponevano una disperata resistenza, minacciando di precipitare sulla piazza un marabuto che avevano sorpreso lassù." "Hanno poi effettuato la minaccia?" "No, perché i kissuri hanno bombardato il minareto, costringendoli ad arrendersi subito. Se avessero resistito ancora pochi minuti, tutta la costruzione sarebbe precipitata e gli stranieri insieme." "Dunque sono stati presi?" "Si, e anche quel disgraziato israelita." "V'interessava quel giovane ebreo?" chiese El-Haggar. Il vecchio invece di rispondere guardò nuovamente il moro, poi gli volse le spalle per andarsene. "Non così presto," disse El-Haggar, prendendolo per un braccio. "Vi ho scoperto." "Che cosa dite?" chiese il vecchio, trasalendo. "Voi compiangete quel vostro correligionario." "Io, ebreo?" "Silenzio, potreste perdervi e perdere anche quella giovane che monta quel cavallo. È la sorella del giovane ebreo che i kissuri hanno arrestato." "Voi volete ingannarmi." "No, non sono una spia del sultano," disse il moro, con voce grave. "Quella giovane è la figlia di Nartico, un ebreo che ha fatto la sua fortuna in Tombuctu." "Nartico!" balbettò il vecchio. "Voi avete detto Nartico! ... Chi siete voi dunque? ... " "Un servo fedele degli uomini che sono stati presi dai kissuri." "E quella donna è la figlia di Nartico? ... Del mio vecchio amico? ... " "Ve lo giuro sul Corano." Un forte tremito agitava le membra dell'ebreo. Stette alcuni istanti senza parlare, come se la lingua gli si fosse paralizzata, poi facendo uno sforzo, balbettò: "Alla mia casa ... alla mia casa ... Dio possente! La figlia di Nartico qui! ... Il figlio prigioniero! Bisogna salvarlo ... Venite! Venite! ... " "Precedeteci," disse il moro con voce giuliva. "Noi vi seguiamo." Raggiunse Esther la quale attendeva, in preda a mille angosce, la fine di quel colloquio e la informò di quella insperata fortuna. "È Dio che ce lo ha mandato," disse la fanciulla. "Quell'ebreo, che deve essere stato un amico di mio padre, salverà il marchese e mio fratello." "Ho fiducia anch'io in quell'uomo, signora," rispose El-Haggar. Raggiunsero il vecchio, il quale si era diretto verso una viuzza assai stretta, fiancheggiata da giardini e da casupole di paglia e di fango abitate da poveri negri, tenendosi però ad una certa distanza onde non suscitare dei sospetti. L'ebreo pareva che avesse acquistato una forza straordinaria; camminava con passo rapido e senza servirsi del bastone. Di quando in quando si arrestava per osservare Esther, poi riprendeva il cammino con maggior velocità. Attraversò così quattro o cinque viuzze e si arrestò dinanzi ad una casetta ad un solo piano, di forma quadrata, sormontata da un terrazzo e ombreggiata da un gruppo di superbi palmizi. Aprì la porta e volgendosi verso Esther disse: "Entrate nella casa di Samuele Haley, vecchio amico di vostro padre. Tutto quello che possiedo è vostro; consideratevi quindi come la padrona."

Vedendo comparire subito i cacciatori, abbassarono le code e partirono ventre a terra dalla parte donde erano venuti. Frattanto lo struzzo, abbandonato dai compagni già lontanissimi, era tornato ad alzarsi. Fece ancora cinque o sei passi zoppicando, poi tornò a cadere e questa volta per non più rialzarsi. Il marchese in pochi salti lo raggiunse, gli strappò un bel mazzo di:i piume candidissime e porgendole a Esther, le disse con galanteria "Alla bella cacciatrice." "Grazie, marchese," rispose la giovane, arrossendo di piacere. Ben si era accontentato di sorridere.

IL PAESE DI CUCCAGNA

682498
Serao, Matilde 1 occorrenze

Abbassarono il gas, mentre Luisella accendeva un cerino: se ne andarono per la retrobottega e per la piccola porta che metteva nel vicolo dei Bianchi. Pioveva sempre e il caldo vento sciroccale batteva sul volto la pioggia tiepida di estate: ma erano poco lungi dalla casa. Cesarino aprì l'ombrello e la moglie gli si mise sotto il braccio, per ripararsi dalla pioggia: la bambina, raccolta sull'altro braccio, gli appoggiava la testina sulla spalla. E tutti tre andavano chini, sotto la tempesta estiva, senza parlare, stretti stretti, l'uno all'altro, come se solamente l'amore potesse scamparli, nella gran bufera della vita, che li voleva travolgere. Nella notte, sotto l'ira del cielo, pareva che andassero, andassero a un destino di dolore, ma le due creature innocenti che si stringevano affettuosamente al misero colpevole, pareva che chiedessero e portassero salvezza. Niente avevano detto, finché giunsero in casa, su, dove la serva li aspettava con la porta aperta, e stese le braccia a prendere Agnesina, per portarla in camera sua, per spogliarla ed addormentarla. Ma la creaturina, quasi avesse intesa la gravità di quell'ora, volle ancora farsi abbracciare dal padre e dalla madre, dicendo loro, con quel suo dolce linguaggio infantile: - Mammà, beneditemi: papà, beneditemi. Al fine furono di nuovo soli, nella loro stanza, dove la lampadetta di argento ardeva innanzi alla madre di Gesù, la pia, la dolorosa madre. Cesare era accasciato. Ma Luisella schiuse subito la porta a cristallo del suo grande armadio di palissandro, dove chiudeva i suoi oggetti più preziosi, stette un po'a cercare in quella penombra, e ne cavò fuori due o tre astucci di pelle nera. - Ecco, - disse a suo marito, offrendogli i suoi gioielli. - O Luisa, Luisa! - gridò lui, straziato. - Li dò volentieri. Per l'onor nostro. Non oserei tenere queste pietre, queste gioie, inutili, quando siamo in pericolo di mancare all'onestà. Prendi. Ma per tutto quello che è stato di dolce il nostro passato, ma per tutto quello che può essere di terribile il nostro avvenire, per l'amore che mi hai portato, per quello che ti porto, per quella creaturina nostra, sulla cui testa adorata hai pianto, questa sera, Cesare, te ne prego con tutta l'anima, te ne prego come si prega Cristo all'altare, concedimi una promessa… - Luisa, Luisa, tu vuoi farmi morire… - gridò lui, mettendosi le mani nei capelli. - Prometti di lasciare in mia mano tutti gli affari del nostro commercio, debiti e crediti, compera e vendita? - Prometto… - Prometti di dirmi tutto ciò che devi dare, acciò che io possa pensare al rimedio? - Prometto… - Prometti di dare a me tutto il denaro che hai, che puoi avere, e di non cercarne altro, che non sappia io? - Tutto, tutto, Luisa… - Prometti di credere solo a me, di udire solo i miei consigli, di ascoltare solo la mia voce? - Prometto… - Prometti che nessuno varrà più di me, prometti che mi ubbidirai, come a tua madre, quando eri fanciullo? - Come a mia madre, obbedirò. - Giura tutto questo. - Lo giuro innanzi alla Madonna, che ci ascolta. - Preghiamo, adesso. Ambedue, piamente, si inginocchiarono innanzi alla sacra immagine. Ambedue dissero, insieme, sottovoce, il Pater noster, più forte, alla fine, levando gli occhi, ella disse: - Non c'indurre in tentazione… E lui, ripetette, umilissimamente, sconsolatamente: - Non c'indurre in tentazione…

Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

682915
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
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A quella vista tutte le reticelle sospese si abbassarono, non so come, fino al pavimento; le fanciulle ne uscirono così abbigliate come erano, e si prostrarono esse pure ad una breve distanza da noi. Una musica divina e sommessa incominciò in quel momento a farsi udire nel serraglio, e ad elettrizzarmi colle sue note. - Nobili dame, io dissi rialzando Opala, e rivolgendomi alle altre, cui accennai di fare altrettanto, prego .... insisto perché esse si alzino; qui non vi è etichetta di Corte, non vi sono leggi di convenienze ... Prego a voler considerare la mia persona reale come la persona di un semplice amico, come una persona di famiglia ... già; intendo introdurre delle modificazioni nel regime interno di questa nostra società ... voglio dire delle leggi d'uguaglianza una parità di diritti, un equa ripartizione di .... E non venendomi al balzo la parola che calzasse a dovere, temendo di prometter troppo, e desiderando per altro lato di trovarmi qualche istante solo con Opala, aggiunsi: già ... so ben io quel che intendo di fare ... Le prego intanto di risalire nelle loro reticelle, nei loro nidi ... le prego a rioccupare i loro divani ... io mi farò un dovere di venire più tardi .... col tempo ... appena lo permetteranno le gravose esigenze della mia carica, a rendere a ciascuna di esse l'omaggio del mio rispetto e della mia ammirazione. Fui grato alla Serenità di mio padre di aver introdotto nel sistema educativo del serraglio l'insegnamento della lingua del mio paese, poiché tutte quelle mie fanciulle, risalirono all'istante nelle loro reticelle; e Opala, prevenendo i miei desiderii, mi prese per mano e mi condusse nel suo gabinetto particolare. Ci sedemmo sopra un soffice tappeto di Persia. Io era sì stanco per le fatiche della giornata, e sì turbato da tutte quelle apprensioni d'ogni genere, che quello stato di prostrazione m'induceva quasi per bisogno alla tenerezza e ad una espansione confidente e sincera. - Quanto siete buona! io dissi ad Opala abbracciandola, quanto siete bella! Divina creatura! Voi mi avete preceduto in questa reggia, dove io non rimarrò forse molto tempo, e d'onde non mi sarebbe doloroso l'allontanarmi, se non fosse pel pensiero della vostra perdita. Non credeva di trovarvi subito qui, ve ne ringrazio; aveva proprio bisogno di sollevarmi un poco con voi dalle cure dolorose del mio Stato. - Io posso tanto sul vostro cuore? - disse la fanciulla - quanto ve ne sono grata! Oh, voi siete sì diverso da vostro ... era sì nojoso vostro padre. Non amava che di farsi raccontare delle novelle, di passeggiare su e giù per le nostre sale, di regalarci qualche balocco, di farsi accompagnare a braccetto fino alla soglia del suo appartamento, di farsi reggere da noi la coda dell'abito .... Era insoffribile, perdonate, ma era insoffribile .... Già, credo che avesse settant'anni. - Pressapoco. Ecco! Ma voi siete sì giovine, sì bello, sì vivace. Non sapete ... io tremava vedendovi nel padiglione ... temeva che vi si volesse costringere a subire quella barbara usanza del nostro paese. Non che mi impaurisse il pensiero che aveste a perdere il vostro trono, giacché vi avrei amato lo stesso, e voi mi avreste amata ancora di più; ma tremava per me medesima.. mi avrebbe fatto ripugnanza vedervi col naso forato, vi avrei abbracciato con dispiacere. Se aveste veduto vostro padre ... che figura faceva vostro padre col naso così trapassato da quell'osso! Ma ... ora come farete a sottrarvi a quel supplizio? Vi siete rifiutato di acconsentirvi? - Sì. - E credete di poter sfuggire all'adempimento di quest'obbligo crudele? - Non so, diss'io, ma per fermo sono risoluto a niegarmivi. Tanto più che voi mi preferite così, che non mi amereste altrimenti .... - Oh sì, sì, disse la fanciulla abbracciandomi con innocente civetteria, non voglio, io, che vi si guasti il naso, questo naso greco, questo naso così grazioso .... Ma del resto io vi amerei in tutti i modi. E se voi doveste abbandonare quest'isola io vi seguirei lo stesso. Non è vero che voi mi permettereste di seguirvi? Son io, dissi, che vi seguirei, che perdendo il mio regno, troverei un compenso adeguato nell'acquisto che potrei fare del vostro amore. Perché… soltanto che voi mi amiate, che siate disposta a rifuggirvi meco nel mio paese, io avrò la forza di oppormi a tutte le torture che mi minacciano. Credo che i tesori di mio padre superino di gran lunga le più ricche fortune che ci sono in Europa e in quanto ai mezzi di rimpatriare, i miei ministri sono abbastanza corruttibili - come tutti i ministri che ho conosciuto nel mio paese - per lusingarmi che vorranno accordarmeli. - Quanto sarei contenta di venire con voi nel vostro paese! Non crediate già che noi siamo felici qui dentro. Non amiamo nessuno, noi; non siamo amate da nessuno: io per esempio mi reputava assai sventurata prima di vedervi; ed ora ... sento bene che sarò felicissima con voi, tanto più se lungi di qui, perché ... queste dame ... ve ne sono delle graziose, delle più avvenenti di me .... - Non è possibile, io dissi con asseveranza. - Oh, sì, diss'ella ve ne sono delle più graziose ... e voi le amereste. - Mai. - Voi le amereste. - E via, diss'io abbracciandola, non pensate a queste cose. - Una scena di gelosia, a quest'ora, ruminava intanto tra me stesso; e vedendo che Opala aveva gli occhi inumiditi di lacrime, pensai di dare una diversione più lieta al nostro discorso. Ma non trovava argomento di una diversione che tornasse anche acconcia a' miei disegni. Cambiai argomentazioni di sbalzo. - Che occhi furbi che avete, le dissi affissandola con aria che stava tra l'ammirazione e l'insolenza. - Non è vero. - Sì, è vero, avete degli occhi meravigliosi veramente! E che capelli! Lasciatemi toccare .... che trecce piene, abbondanti! Ma non avete freddo ai vostri piedini, così, con quelle pianelle sì trasparenti? - No. - È impossibile. Che piccoli piedi! scommetto che sono più brevi della mia mano. Vediamo, lasciatemi misurare. - Ecco. - Vedete: avanza tutta l'unghia del dito, tanto così .... Siete pur graziosa! Come non amarvi? Bellissima creatura! - Via, via, voi mi adulate .... - No, non è vero. - Sì. - No, ve lo giuro. - Giurate soltanto di amarmi. - Lo giurerò dopo. Datemi un bacio. - Ecco. Ma Opala aveva detto troppo presto questa parola. Mentre che ella curvava il suo volto sul mio si arrestò a mezzo dell'atto: la fanciulla aveva ascoltato un rumore improvviso all'uscio del gabinetto. - Affrettatevi, diceva dal di fuori colla sua voce stentorea, il mio primo ministro, l'ora del giudizio è già trascorsa, e la folla vi attende con impazienza; un indugio maggiore potrebbe peggiorare le gravi complicazioni politiche in cui versiamo, non fatevi aspettare più oltre. Mio Dio! io dissi, interrogando di nuovo il mio vecchio orologio di Ginevra, è vero, l'ora fissata è trascorsa di qualche minuto. Ma è un abuso cotesto .... ho o non ho un'autorità sovrana, assoluta? Disturbarmi, sorprendermi così nelle mie stanze, interrompermi durante le espansioni più doverose delle mie tenerezze domestiche? Se giungo a consolidarmi sul trono, rifarò da capo il regolamento interno della mia casa. E ricordandomi che il ministro attendeva fuori dell'uscio - vengo, soggiunsi a voce più alta, sono da voi, avvertitene il popolo. Quindi abbracciai la fanciulla che mi diceva: è un vero dispetto, venirvi ad importunare a questa ora. Che orrore! Ma ci rivedremo stassera. Mi avviai alla sala del giudizio: era mia intenzione di tenere un contegno severo, di impormi, di farmi temere; ciò che pareami sarebbe tornato assai più efficace di un'indulgenza che i miei sudditi erano ben lungi dal meritare. Oltre a ciò aveva in animo d'introdurre nelle leggi dello Stato alcune disposizioni, la cui saggezza avrebbe potuto dare il concetto più lusinghiero della mia sapienza governativa. - Sarò severo, diceva tra me stesso, ponendo il piede sul limitare della sala, sarò inflessibile: e debbo confessare che in quel momento la mia anima macchinava tristi progetti a danno del mio popolo. Se io riesco a consolidarmi sul trono; se coi tesori di mio padre potrò formare un partito numeroso alla mia causa, muterò sull'istante i vecchi statuti del Regno - ruminava tra me medesimo - e cambierò il governo costituzionale che mi tiene legate le mani in un governo dispotico. Farò, come mio padre, un colpo di Stato. Che cosa è questo governo costituzionale? Una derisione per la mia persona, per la mia qualità, per le tradizioni gloriose della mia casa. Il popolo fa ciò che gli aggrada, e io debbo accennare della testa come un fantoccio snodato di Norimberga quando gli si tira il filo che lo fa gestire. Aveva appreso nel mio paese come si debba governare una nazione: allora era suddito, adesso era re, ma non si trattava che di invertire le parti. - Guai a quel capo dello Stato, ripeteva a me stesso, che non sa fare del suo popolo tanti tipi perfetti di cretino, che invece di pensare a fruire di tutte le risorse della sua posizione, e a dare al paese buon numero di sudditi di sangue reale e plebeo incrociato, si occupa coscienziosamente dell'avvenire e della dignità della nazione che gli ha affidato i suoi destini. Questa testa coronata è una testa già distaccata dal collo. La civiltà è una mannaja che taglia le teste coronate. Io confesso che il mio orgoglio non lasciava più alcun limite alla mia fantasia. In quell'istante di entusiasmo, la teocrazia stessa era ancora poco per la mia ambizione. Entrai nella sala, e presi posto sul trono: a' miei fianchi stavano i ministri, d'innanzi a me i colpevoli, all'intorno la folla. I Denti neri si alzarono e mi fecero un'ovazione fragorosa; ma quegli scellerati Denti, bianchi coi loro orribili denti bianchi, armati dai piedi alla testa, mi guardarono torvi e sdegnosi tacendo. Feci allora un piccolo discorso di occasione che provocò qualche applauso dalla tribuna dei giornalisti stipendiati; dopo di che tentai il mio colpo d'effetto; domandai che mi si portasse la raccolta delle leggi dello Stato, e pregai il mio segretario particolare a dar lettura dei nuovi regolamenti che io aveva raffazzonati a questo scopo lungo il viaggio, e che intendeva inserire in quegli Statuti. Consistevano in una serie di articoli relativi all'abolizione del melodramma dal teatro Potikorese, basati su queste ragioni: essere il dramma musicale il non-senso più enorme, l'assurdo più mostruoso e più ridicolo di cui la scienza si sia resa colpevole. A questo progetto ne andava annesso un altro relativo ai mimi, ai ballerini, ai tenori e ai baritoni dalla trachea più o meno dilatata; ai primi dei quali doveva essere inflitta una pena di ridicolo pel diritto di esercitare il loro mestiere, e ai secondi s'imponeva l'obbligo di ricordarsi consistere tutto il loro merito nella forma e nella dimensione della trachea. Un secondo progetto di legge regolava i diritti degli autori e degli editori. Cinquanta articoli si riferivano esclusivamente a questi ultimi, ed erano sì severi e ad un'ora sì giusti, che mi sento addoloratissimo di doverli ora tacere in causa della loro prolissità. Mi limito a rammentare che in uno di essi, per un caso di pirateria libraria, era proposta la pena della sospensione pei piedi fino a totale estinzione di vita, - e credo che fosse poco. Altri articoli stabilivano pene pei delitti letterari. V'erano severamente puniti i lavori di collezione e di circostanza; quei lavori di schiena che si atteggiano a lavori di testa, ec. ec. Un'appendice a questa disposizione interdiceva alla classe dei professori di credersi letterati, e li chiamava responsali d'innanzi alla posterità della istruzione eunuca e della catalessi intellettuale che è condannata a subire la giovine generazione dei tempi nostri. Un'altra disposizione legislativa toccava delle fame imposte e delle fame usurpate; proponeva pene pei letterati funamboli; condannava a perpetuo bando dall'isola i poeti che si fossero attentati a dar lettura dei loro versi a qualche infelice costretto a subire questa violenza, e vietava finalmente la rappresentazione del dramma e della tragedia - considerate come le più ridicole parodie del dolore e delle sciagure umane. Erano, in una parola, un complesso di leggi inspirate dalla più alta saggezza, e la mia mortificazione non fu sì grande come la mia meraviglia quando intesi che esse erano già state introdotte nel Codice di Potikoros, fino dal tempo in cui quest'isola si reggeva a repubblica. La repubblica aveva dunque giovato a qualche cosa? Per la prima volta io compresi che il Due dicembre di mio padre aveva avuto in sé tutto il carattere di un tradimento indegno, e mi sentii tratto a fare un apprezzamento più benigno di quegli onesti Denti bianchi che coi loro atteggiamenti minacciosi, e coi loro terribili incisivi foggiati ad uncino, reclamavano la ricostituzione del primo sistema governativo dello Stato. Ma in quel momento non poteva, come avrei voluto, soffermarmi su queste considerazioni; e d'altronde il mio interesse personale mi avrebbe reso ingiusto nell'apprezzarle. Credete voi che tutti coloro che sedettero - come io ho seduto - su un trono, non abbiano fatte le stesse considerazioni, benché le abbiano poi soffocate nel fondo della coscienza collo stesso spirito di egoismo? Un fatto meraviglioso si presenta, fino dalle prime epoche della storia dei popoli, agli occhi dell'osservatore e del filosofo. Cinque o sei furbi matricolati regolano a bacchetta i destini di tutta questa massa sterminata di pecore che è l'umanità. Ho letto, non so più dove: mala bestia esser l'uomo, divina cosa la umanità. Non è vero! Per me ho dovuto sempre guardare all'uomo, all'individuo, alla creatura isolata per sapermi trovare meno in disagio colla massa degli uomini; mi sono riconciliato alla meglio, dacché vivo, con tre o quattro di loro, ma credo che non mi riconcilierò mai col resto dell'umanità. D'altronde questa credenza ha cessato di addolorarmi. Ma bando alle digressioni. Era tempo d'incominciare il giudizio, e feci perciò avanzare il primo colpevole. Fu data lettura dell'atto d'accusa. Io era tutto orecchi nell'ascoltare, anzi per servirmi d'una frase inglese, era tutto un orecchio, poiché non ignorava che il mio destino dipendeva totalmente dall'esito di quel giudizio. L'atto di accusa era concepito press'a poco in queste parole: «Akriundaz, della provincia di Pikliya-pokenos, di anni trentadue - della tribù dei Denti neri, di professione incettatore di merli bianchi, è imputato del furto di due pani rubati nella bottega Srikis Tenariasbikeloz esistente sul corso principale della nostra città di Potikoros, con rottura d'un vetro, e senza circostanze attenuanti». Benché la lettura di quell'atto scritto in lingua Potikorese avesse fatto poco meno che spezzarmi i timpani delle orecchie, riordinai come sapeva meglio le mie idee, e invitai l'imputato ad esporre le sue difese. - L'incetta dei merli bianchi, disse egli, essendo diventata più difficile e meno lucrosa per l'introduzione del merlo nero operata dalla Serenità di vostro padre nella nostra isola, e in causa dell'omaggio che vien reso ad esso dal popolo, essendo caduti in dispregio i merli dell'altro colore, io mi sono trovato da qualche tempo fuori della possibilità di vivere dei frutti del mio commercio. Ho chiesto stamane all'onorevole fornaio Tenariasbikeloz che mi fossero dati ad imprestito alcuni pani. Rifiutandomeli egli io ho spezzato un cristallo della vetrina e ne ho tolti due. Io sono un onesto Dente nero. Causa essenziale di questa violenza, fu l'intenzione che aveva di festeggiare, come mi permettevano i miei mezzi, l'assunzione di Vostra Maestà al trono di Potikoros. Questa difesa cui non mancava l'intingolo dell'adulazione, mi dispose in favore dell'imputato. - Avreste dovuto, io dissi, far conoscere alle autorità del vostro paese - parmi, se non erro, Pikliya-pokenos - che vi trovavate nelle circostanze che avete esposte; quel solerte questore di polizia vi avrebbe autorizzato a chiedere l'elemosina senza violare le leggi dell'onestà con una appropriazione sì violenta. - A chiedere l'elemosina! disse meravigliato il mio ministro. E vide che gli uditori avevano sbarrato tanto d'occhi nell'udire quelle parole. - Sì, ripresi io, a voce più alta, lo si sarebbe autorizzato alla mendicità, lo si sarebbe munito di apposita placca, come corre l'uso nei paesi civili dell'Europa. Un bisbiglio immenso si sollevò dalla folla, un bisbiglio di disapprovazione universale. Io sentii salirmi il sangue dai piedi alla testa, e subito precipitare dalla testa ai piedi, e rimontare di nuovo alla testa. - Ignoro, aggiunsi con coraggio, quali sieno le leggi di polizia di questo paese, ed è evidente che non possa sull'istante conformarvimi. Sarà mia premura di prenderne subito cognizione. - Tra noi, interruppe il mio segretario particolare, non è ammessa in alcun modo la mendicità; appena conosciamo il significato di questa parola per le notizie che abbiamo avuto delle usanze invalse in Europa. Nell'isola di Potikoros ogni suddito ha diritto al lavoro; e in caso d'impotenza, ha diritto al mantenimento a spese dello Stato. - Sono leggi veramente saggie, io dissi, veramente apprezzabili. Ringrazio il mio degno segretario particolare di avermene reso informato; ma .... riprendiamo il corso del nostro processo: L'onorevole fornaio .... - Tenariasbikeloz, suggerì uno dei ministri. - Tenariasbikeloz .... si trova egli presente all'udienza? In questo caso deponga se è vero che l'imputato gli abbia chiesto ad imprestito i due pani prima di rubarglieli. Il fornaio si avvicinò al tavolo della presidenza e depose esser vero. - Quando è così, io ripresi, atteggiandomi a severità, udite le giustificazioni dell'accusato, visto la necessità di mantenere inviolate le leggi fondamentali d'ogni diritto civile, tenuto conto dell'asserzione del derubato, e delle altre cause attenuanti, condanno il nominato Akriundaz - credo Akriundaz, incettatore di merli bianchi, alla pena di quattro anni di lavori forzati. Non avessi mai pronunciata quella sentenza! Un urlo di disapprovazione si sollevò dalla folla, un urlo così fragoroso e feroce che i miei stessi ministri se ne sentirono impauriti I capelli mi si drizzarono sì rigidamente sul cranio, che m'accorsi che la mia corona doveva essersi sollevata due buoni pollici dalla testa. I Denti bianchi, digrignando i loro terribili incisivi, domandavano che ne andasse libero l'accusato, e che si sottoponesse invece a processo l'onorevole fornaio Tenariasbikeloz: adducevano a pretesto il diritto che egli aveva di appropriarsi quei pani che aveva chiesti, e che gli erano stati rifiatati; e citavano non so qual articolo di legge, nel quale era detto che ogni cittadino resosi, per qualsifosse ragione, impotente al lavoro, poteva esigere il mantenimento gratuito a spesa dei privati ricchi e dello Stato. Io non so come giungessi a sedare quel tumulto. La fermezza del mio contegno e quella de' miei ministri - sento il dovere di rendere loro questa giustizia - riuscirono a poco a poco a ristabilire un po' d'ordine nella adunanza. La minaccia di far sgombrare la sala da un mezzo pelottone di Denti neri ottenne il suo effetto. Quando la calma fu ristabilita, ordinai che si facesse avanzare il secondo colpevole. Era il direttore del giornale Il Giudizio Universale (il giornale ufficiale di Potikoros) accusato di aver recato il disonore in una onesta famiglia con alcune taccie infamanti, destituite d'ogni verità. L'onorevole direttore parevami una persona seria e meritevole d'ogni riguardo, oltre di che io mi trovava in certo qual modo legato a lui da una vecchia intimità di famiglia, e sentiva il dovere di difenderlo e di pronunciare per esso una sentenza assai mite. - Ove è il gerente? io chiesi: se l'accusato non è direttore responsabile, si conduca qui il gerente e si lasci libero il giornalista. - Il gerente! esclamò il mio giudice istruttore, che cosa è il gerente? Può egli darsi che una persona qualunque si faccia responsabile dei reati di un'altra? Puniamo i reati, o puniamo le coscienze? - Un tale sistema, io dissi, è invalso in tutte le nazioni d'Europa, né io posso giudicare di questa accusa senza conoscere le leggi speciali che regolano la stampa Potikorese. D'altronde .... parmi che questo sia un fallo assai mite; una semplice riprensione .... un semplice ammonimento - Indugierò, ad ogni modo, a pronunciare la mia sentenza fino a che non avrò presa cognizione delle leggi che ho ora accennate. Prego l'onorevole magistrato a fare avanzare il terzo colpevole. Uscitone in tal guisa pel rotto della cuffia, gettai gli occhi sulla folla per conoscere l'impressione che vi avevano prodotto le mie parole. Il disordine si era in parte rinnovato; non era precisamente lo stesso scompiglio, la stessa disapprovazione plateale di prima; ma poco meno. Si vedeva chiaro che la impazienza dell'uditorio stava per prorompere in una dimostrazione più energica e più difficile a reprimere. L'interesse che destava il terzo accusato ebbe virtù di distogliere in tempo i loro animi da questa disposizione. Era egli un alto funzionario governativo, imputato di grave prevaricazione per una somma di molti milioni sottratti alle casse dello Stato. Come suole avvenire in simili casi, le prove erano bensì manifeste, ma confutabili in mille maniere, e facili ad essere ritorte a danno di altri funzionarii. Io diressi ed illuminai in alcuni punti lo svolgimento del processo; ma benché fosse universale la convinzione che si aveva del suo reato, le prove volute dalla legge non avevano tutti i dati necessarii per autorizzarmi a pronunciare un verdetto di colpabilità. Io mi trovava posto in una titubanza terribile - era il caso dell'incudine e del martello - e considerando che l'accusato era un Dente bianco, e faceva parte di quella tribù di cui doveva starmi specialmente a cuore il favore; che egli apparteneva alle alte sfere governative, nelle quali è stabilito il principio che una mano lava l'altra, che questa appropriazione sarebbe stata considerata nel mio paese come una bagattella di nessuna importanza, come uno spostamento di cifre (è la parola addottata da alcuni governi costituzionali per definire i furti governativi) credetti mostrarmi abbastanza severo nel pronunciare una sentenza che lo spogliava semplicemente della sua qualità, e lo esonerava dalla sua carica. Fu la scintilla che cagionò l'incendio: il furore del popolo proruppe sì vivo, sì unanime, sì violento che io mi avvidi subito che non vi era più mezzo a contenerlo. I miei stessi ministri erano rimasti meravigliati della stoltezza del mio giudizio; e temendo che i rivoltosi non li considerassero come facienti causa comune col re, si affrettarono a ritirarsi prudentemente nelle anticamere. Io rimasi come paralizzato, come pietrificato sul trono; e solamente alcuni istanti dopo, quando mi avvidi che la folla gridando «abbasso il re, si destituisca il re,» ed altre graziosita di questo genere, si accingeva a superare lo steccato per impadronirsi della mia persona, pensai a mettermi in salvo nell'interno della reggia. Non dirò quali fossero i pensieri che mi passavano allora pel capo, - rapidi, vari tumultuosi, inutili tutti .... Fu però un'incertezza di un istante. Quando vidi che le persone della mia casa cercavano di rifuggirsi nei gabinetti segreti, e non solo non avevano a cuore la salvezza della mia maestà reale, ma era molto se non attentavano essi medesimi alla mia vita; quando intesi che il tumulto popolare andava orribilmente crescendo, e che i Denti bianchi erano già penetrati in alcune sale della reggia, deliberai di cercare salvezza nella fuga. Mi precipitai verso il mio serraglio, poiché non sentiami la forza di abbandonare il mio regno senza portarne meco la fanciulla che mi aveva affascinato, e abbracciando Opala, le dissi: La rivolta sta per spogliarmi del regno e della vita .... fuggiamo, vieni meco: io sarò ancora il monarca più felice, il più ricco, il più fortunato se potrò trascorrere il resto della mia esistenza con te .... se tu sarai mia, mia cara Opala, mia dolce fanciulla! Sì, sì, fuggiamo nella mia patria, dove la dignità e la coscienza popolare assicurano la monarchia da questi pericoli, dove i re non sono costretti ad infiggersi un osso di balena nel naso, ma menano essi stessi pel naso i sudditi devotissimi .... vieni, vieni .... Ma lascia prima che io prenda i tesori di mio padre .... Ove sono i tesori di mio padre? quel diamante favoloso, quegli smeraldi .... Opala allacciandomi il collo colle sue braccia bianche e delicate, mi diceva colla voce interrotta dal singulto: - Non uscire, non uscire di qui; forse i Denti bianchi non entreranno in questo tempio, rispetteranno il culto che queste vergini rendono all'amore, forse .... - Ma è impossibile, io interruppi, fuggiamo, fuggiamo, ripariamo verso il mare; se possiamo attraversare la capitale senza essere conosciuti, se ... Ma in quel momento si spalancò l'uscio del serraglio, e una turba di Denti bianchi apparve minacciosa sul limitare, Io non vidi che una cosa, i loro denti, tanto essi erano orribili, tanto erano bianchi, lunghi, aguzzi, scoperti dalle labbra che l'avidità del mordere aveva rovesciate e contratte in una smorfia feroce. Lo ripeto, io non vidi che i loro denti; e in questo stesso momento in cui scrivo, quelle orribili rastrelliere che si digrignavano da sé, come segregate dal resto della persona, come attaccate a qualche cosa d'impercettibile, mi balenano dinanzi agli occhi simili alle dentiere artificiali d'un cavadenti collocate per mostra sopra un fondo di velluto nero in una vetrina. Vederli e rabbrividire, e rimanere là immobile e paralizzato sul luogo, come se vi avessi messo radici, fu un punto solo. Un Dente bianco si spiccò allora dal limitare dell'uscio, e venne verso di me, avventandomi una specie di giavellotto che teneva fra le mani. Fu un istante. Opala lo vide, si rivolse, si interpose, e ... oh mio Dio! ... ricevette ella stessa il colpo mortale che mi era stato diretto. Non tenterò qui di evocare quella memoria terribile. Io vedo ancora il suo candido seno lacerato da una ferita profonda, vedo i suoi grandi occhi nuotanti nella morte e nelle lacrime, e ascolto le sue ultime parole interrotte dall'anelito: «io muoio per te ... io ti ho amato .... ricordami.» Commosso, tratto di senno, inferocito a quella vista, volli allora avventarmi, inerme come era, contro i ribelli ... ma quelle orribili rastrelliere mi balenavano ancora dinanzi agli occhi; io le vedeva ancora là, lunghe, bianche, isolate come le dentiere del cavadenti; e sentiva quel rumore sordo, quello scricchiolio freddo e secco che producevano digrignandosi. Mi arrestai a mezzo dell'atto; qualche cosa di nero mi passava dinnanzi alla vista; sentii che le mie forze mi abbandonavano ... vacillai e caddi privo di sensi. Quando rinvenni mi trovai carico di catene, e circondato da alcuni vecchi denti bianchi, i quali avevano costituito un apposito Consiglio di guerra per giudicarmi. Mi fu letto l'atto di accusa, nel quale mi si imputava di aver voluto sovvertire gli ordinamenti dello Stato con una interpretazione falsa e speciosa delle leggi che lo governavano: di aver fatto atto di disprezzo verso le usanze del paese - usanze che avevano forza di legge - rifiutandomi a trafiggere il mio naso greco con quell'ornamento grazioso di balena: di aver poste in grave pericolo la quiete e la sicurezza della nazione, costringendola, in seguito alla mia decadenza dal potere, a riadottare la forma primitiva di governo, il regime repubblicano, o ad eleggersi un re nazionale. In causa dei quali reati io veniva considerato come decaduto dal trono di Potikoros, e condannato alla pena della morte per sospensione. Fui invitato ad esporre le mie difese. Anzi tutto, io dissi non posso ammettere in questo onorevole Consiglio di Denti bianchi il diritto di giudicarmi. Io vedo qui rappresentata una sola metà della nazione. Ove è l'altra metà? Ove sono i degni rappresentanti dei Denti neri? Ma ove pure essi facessero parte di questo consesso, i diritti di un re non posson essere discussi da suoi sudditi, e le sue colpe - se un re può commettere delle colpe - non possono essere né giudicate, né punite da essi. Io venni qui, in un paese i cui ordinamenti si erano rilassati per un lungo interregno, nel quale la demagogia incominciava a difondere le sue dottrine rivoluzionarie, le cui leggi erano violate da un'anarchia impossibile ad arrestarsi. Io vi venni chiamato dal suffragio popolare, invitato da una rappresentanza della nazione, eletto dal voto di tutti i governi d'Europa. Io venni a governare questo popolo cieco e traviato che aveva bisogno di essere ricondotto sotto il regime della monarchia: vi venni per un puro istinto di umanità, per un semplice spirito di abnegazione. Affetti e interessi mi trattenevano in Europa. Il mio sangue, il sangue di mio padre, è uno dei più antichi e dei più nobili tra tutte le dinastie di quel gran continente incivilito. Io ho avuto pietà di voi; io era venuto ad apportarvi l'ordine e la felicità che regnano in molte capitali di quegli stati; mi era sacrificato a mutare il mio berretto di cotone europeo in un turbante di penne, a ricevere quaranta milioni di appannaggio, a comandare a quaranta milioni di sudditi, a vivere da monarca in questa reggia ... aveva fatto tutto questo per voi; quale è la ricompensa che mi avete accordata? Sdegno giustificarmi più oltre: la razza dei re è una razza speciale, e ogni re che si rispetti non può ammettere in voi il diritto di giudicarlo. Gli storiografi stipendiati, i sudditi devotissimi di cui non vi sarà mai deficienza nelle generazioni future mi giudicheranno. Ho detto. Uno scroscio di risa feroci accolse le mie parole, e delle voci si sollevarono dalla folla che gridavano: alla corda, alla corda. Fui condotto al luogo destinato ai supplizii. Quivi un abisso profondo, immenso, si apriva nel seno di una montagna: in fondo alla voragine, sulle punte di granito e di metallo taglienti come lame, roteavano stormi di astori e di aquile. Fui legato ad una corda annodata alla punta di un albero, il quale inclinandosi sull'abisso, ne guardava il mezzo colla cima. Prima che la corda abbandonata a sé, mi sospendesse perpendicolarmente sulla voragine, io diressi ancora alcune parole ai Denti bianchi: - Domando, io dissi, che la salma reale sia trasportata in Europa, per ricevere sepoltura nelle tombe de' miei padri. Che, ove non ottemperaste a questo desiderio, la mia nazione invierebbe immediatamente la sua flotta a bombardare i porti di Potikoros, e impadronirsi dell'isola. Né io pensava in quel momento che era impossibile tornar da quell'abisso, e che mi sarei fatto a brani cadendo sulle punte di granito che formavano il fondo. E comprendeva benissimo che la mia salma doveva aver nulla di più sacro della salma d'un zoccolante; poiché il corpo d'un re e quello d'un mendico producono la stessa specie di vermi; e, come aveva letto nel Amleto, si può gettar l'amo ad un pesce col verme che mangiò di un re, e un mendico può mangiare di quel pesce, per modo che il corpo di un re entri nelle viscere di un mendico. Nondimeno la mia vanità mi spinse a proferire quelle parole. Vanità inutile, poiché i Denti bianchi tornarono a sorridere di quel sorriso feroce che mi aveva poc'anzi agghiacciato il sangue nelle vene, e a contrarre le labbra a quella smorfia infernale, di cui non saprei darvi un'idea se non richiamandovi alla mente quello scoprirsi delle mandibole che osserviamo nei mastini e nelle fiere quando stanno per avventarsi, e che noi soliamo indicare col dire: mostrano i denti. Non si frappose più indugio alcuno al mio supplizio. Fui condotto sull'orlo della voragine, e spintovi in guisa che, essendo stato annodato alla corda, mi trovai sospeso perpendicolarmente sopra l'abisso. I cavalieri dei Denti bianchi, i miei stessi ministri, le persone più autorevoli dello Stato disposti in circolo sull'orlo della voragine, tentavano di tagliare a colpi di freccia la corda che mi teneva sospeso. Era un supplizio lungo, lento, crudele, atrocissimo. Ogni trecciolino della corda tagliato si arricciava da una parte e dall'altra, assottigliando sempre più il centro di essa, su cui erano dirette le freccie. Dopo due ore di patimenti infiniti, la corda rotta in più luoghi, non reggeva più che per un semplice filo al mio peso. Curvandomi e guardando sotto di me, io vedeva l'abisso nero e profondo che mi attendeva, gli uccelli di rapina che aspettavano il mio cadavere per divorarlo, e qua e là le ossa imbiancate degli infelici che avevano subito prima di me quel supplizio tremendo .... Un solo filo reggeva ancora la corda, le freccie passavano fischiando da tutte le parti e non la colpivano: io guardava la corda e l'abisso, poi la corda, poi ancora l'abisso, e mi contraeva, mi arricciava, mi aggomitolava, come avessi potuto con ciò sollevarmi dal fondo della voragine. Non so quanto durasse quell'agonia. A un tratto una freccia colpì nella corda, la ruppe, precipitai, innalzai un grido di orrore e ... oh mio Dio! .... mi svegliai, e mi trovai nel mio letto. - Che vergogna! mi disse Elettra appoggiata col gomito ai mio capezzale, è da jeri sera che tu dormi; sono ora ventiquattro ore .... - Ventiquattro ore! - Sì cotesta tua abitudine di bere ... io ti vegliava inquieta ... - Ventiquattro ore! ripetei tra me stesso stordito: un sogno di un giorno, perocché adesso ... - Siamo di sera. Hai, dormito un giorno intero. - Un giorno! Ed ora, miei lettori, dubiterete ancora che non sia questa la storia di un giorno della mia vita?

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