Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassa

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

"Abbassa almeno la voce!" egli pregava. "Perché tua madre non senta? Ma dovrà sentirmi, lo voglio; voglio che mi dica: "T'odio per questo!". E sarò conten- ta. Così non può durare." "Oh Dio! oh Dio!" smaniava Patrizio. "Sono stata paziente, troppo. Il vaso era colmo fino all'orlo; una goccia è bastata per farlo traboccare. Non è colpa mia. Volevo risparmiarti questo dolore. Ormai! ... Dimmelo dunque, dimmelo: Perché m'odia? Perché?" "La tua immaginazione ti fa travedere" diceva Patrizio. "Persuaditene. Te lo giuro! La mamma è buona, incapace d'odiare una persona come te, che non le hai fatto niente di male. Dovrei dire lo stesso per conto mio, se guardassi sol- tanto ai suoi modi; sarebbe assurdo. È stata inasprita dalle sventure, povera donna, e dalle malattie. Tu sai la vita che vive: cupa, silenziosa, tra il letto e una poltrona. L'ho vista sempre così; non ha mai sorriso, mai! Non ne ha mai avuto occasione, povera donna, dopo la morte del babbo e la rovina della nostra casa!" "E che c'entro io?" "È per spiegarti ..." "Non spieghi nulla. Lasciami, non mi stringere così!" Egli se la stringeva forte al petto" l'accarezzava per rabbonirla, per farle intendere che non si trattava d'odio, no. E, sentendola tremare tra le braccia, scossa da fremito convulso, addolciva ancora più l'accento, accostava la fronte a quel- la di lei con amoroso abbandono, come raramente soleva, mormorandole su la faccia: "E poi, che te n'importa? Non t'amo io? Che te n'importa?" "Ah!" ella esclamò, svincolandosi con vivacissimo sforzo. "Ecco perché me ne importa!" La sua voce era piena di singhiozzi e gli occhi di lagrime che le solcavano le gote, senza che ella badasse ad asciu- garle. "Ecco perché me n'importa! Sento qualcosa di duro, d'impenetrabile, che si è già frammesso tra noi due, contro di cui urto con la testa e non riesco a spezzarlo. Picchio e non mi senti. Chiamo e non mi rispondi. Il tuo cuore è invasato da sentimenti che non intendo. Oh! Tu hai paura di lei. Non negarlo. Hai paura!" "Paura di mia madre?" "Sì! Sì! Sì!" Patrizio rimase interdetto. Colei che si vedeva davanti, altera e bella nel disordine dei capelli, nel turbamento dell'aspetto e della voce, nella durezza insolita della parola, non gli pareva più la sua dolce, la sua sommessa, la sua quasi timida Eugenia. Quel non so che di fanciullesco, di spensierato, di allegro, di verginale che ne formava l'incanto era sparito. Tutti i lineamenti di lei parevano cambiati di punto in bianco, con quelle sopracciglia aggrottate, con quegli occhi dallo sguardo incerto, con quelle labbra aride e contratte, con quella persona che pareva ingrandita, tanto il busto si ergeva fiero in quell'istante, elevando la testa e il collo gonfio dallo spasimo. "Sì" continuava fissandolo "hai paura di lei! Ebbene, che pretende tua madre? Ora sei mio. Sei suo figlio, ma sei mio! Mio, perché ti voglio bene quanto lei, anzi più di lei. Ella ti ama come madre, io come moglie; ed è diverso. Ella ti ha dato il latte ... Io, il mio amore, l'anima mia, tutta me stessa! ... Ti appartengo, come tu mi appartieni." E l'afferrò tra le braccia furiosamente, quasi fosse là qualcuno che volesse rapirglielo. "Mi appartieni ... Sei mio! Non sei più suo! No! ... Non sei più suo! No! No! ..." E, al balbettio di queste ultime parole, Patrizio sentì irrigidire tutto il corpo di lei, che si stirava con le braccia tese in avanti e i pugni stretti. "Eugenia! Eugenia! ... Mamma! ..." La sollevò, l'adagiò sul letto, cercando di frenare il dibattito di tutte le membra nella convulsione crescente, e tornò a chiamare più forte: "Mamma! Mamma!" Eugenia si agitava, mugolando, svincolandosi a scatti. La signora Geltrude picchiò ripetutamente dietro l'uscio di comunicazione delle due camere. Era chiuso col paletto; Patrizio dovette abbandonare Eugenia un istante per correre ad aprirle: "Mamma! Ah, mamma!" Ella si fermò a pochi passi dall'uscio, severa più dell'ordinario, colpita dallo spettacolo di quel giovine corpo agitato dalla crisi nervosa. "Lo vedi? È un'isterica! E non volevi credermi!" disse senza scomporsi. "Mamma!" urlò Patrizio, vinto dallo sdegno. E si volse alla vecchia donna di servizio, accorsa al grido: "Dorata, presto, il dottor Mola! ... Presto!"

CENERE

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Deledda, Grazia 1 occorrenze

Il cielo si abbassa ... si abbassa sempre più ... Avrei sonno? Bisogna ch'io vada subito». Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là del paravento. «Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non esci?» «No.» «Mi presti il tuo ombrello?» Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo orribile, ma il Daga disse: «Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?» Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò: «Devo andare in questura ... ». E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto ... Ecco, egli palpitava già pensando come cominciare ... Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese: «Vai a far arrestare la pioggia?». Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a se stesso. S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita. «Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando. Egli non rispose. Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa. Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore. Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita. «Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d'un delitto ... » Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, e pensò: «Se mi suicidassi?», Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo invitò ad uscire. Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano. Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto, andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato. «Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò Anania. «Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza. «Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è soggetto.» «Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.» «Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male ... » «E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.» «Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada: «Voglio prendere ... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una persona ... Devo andare in questura». Il compagno lo seguì, curioso. «Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?» Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga dichiarò che non sarebbe andato oltre. «Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi ... » Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla gradinata della chiesa. «Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili. Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura. III. Sì, come si legge nelle vecchie storie romantiche, il dado era gettato. La questura, dopo la domanda e le indicazioni di Anania, fece ricerca di Rosalia Derios, e verso la fine di marzo informò lo studente che al numero tale di Via del Seminario, all'ultimo piano, abitava una donna sarda, affitta-camere, il cui passato e i connotati corrispondevano a quelli di Olì. Questa signora si chiamava, o si faceva chiamare, Maria Obinu, nativa di Nuoro. Abitava in Roma da quattordici anni, e nei primi tempi aveva vissuto un po' irregolarmente. Da qualche anno, però, menava vita onesta - almeno in apparenza - affittando camere mobiliate e facendo pensione. Anania non si commosse troppo nel ricevere queste informazioni. I connotati combinavano; egli non ricordava precisamente la fisonomia di sua madre, ma ricordava che ella era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari: e la Obinu era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari. Inoltre egli sapeva che a Nuoro non esisteva alcuna famiglia Obinu, e che nessuna donna nuorese viveva e affittava camere a Roma. Evidentemente quindi la Obinu falsava il suo nome e la sua origine ... Tuttavia egli sentì che la donna indicatagli dalla questura non era, non poteva essere sua madre; questa non viveva a Roma dal momento che la questura non riusciva a scoprirla. Dopo giorni e mesi di attesa e di ansia, egli provò come un senso di liberazione. La primavera penetrava anche nel cortile melanconico di Piazza della Consolazione, in quell'enorme pozzo giallo esalante odori di vivande, animato dal canto delle serve e dal gorgheggio dei canarini prigionieri. L'aria era tiepida e dolce; sul cielo azzurro passavano nuvolette rosee, e il vento portava fragranze di rose e di viole. Affacciato alla finestra, Anania si abbandonava ai suoi sogni nostalgici. L'odore delle viole, le nuvole rosee, il tepore della primavera, tutto gli ricordava la terra natìa, i vasti orizzonti, le nuvole che dalla finestra della sua cameretta egli vedeva affacciarsi o tramontare fra gli elci dell'Orthobene. Poi ricordava la pineta di monte Urpino, il silenzio delle cime coperte d'asfodeli e di iris violette, il mistero dei viali vigilati dal puro sguardo delle stelle. E la figura diletta di Margherita dominava i freschi paesaggi natii, circondata di asfodeli e di gigli selvatici, coi capelli di rame sfumati nel fulgore del cielo metallico. La primavera romana non lo commoveva che per le rimembranze: gli sembrava una primavera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie, ferme sull'orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, - tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l'idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava. La primavera palpitava al di là dell'orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d'erbe alte aromatiche, e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotto le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all'ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l'anima sarda. Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s'immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose. Le idee venivano e passavano nella sua mente, - così come le persone passano per la via; lo interessavano per un attimo, ma non si fermavano ed egli le dimenticava subito. Più che mai amava la solitudine; e persino la presenza del compagno lo irritava, anche perché il Daga lo derideva continuamente. «Noi vediamo la vita sotto aspetti ben diversi», gli diceva, «cioè io la vedo e tu non la vedi. Io sono miope e vedo, attraverso lenti fortissime, le cose e le umane vicende, nitidamente, rimpicciolite; tu sei miope e non possiedi neppure un paio d'occhiali.» Talvolta infatti pareva ad Anania di aver un velo davanti agli occhi; egli viveva di diffidenza e di dolore. Anche la sua passione per Margherita, in fondo, era composta di tristezza e di paura. Un giorno, agli ultimi di maggio, egli sorprese il compagno stretto in tenero amplesso con la maggiore delle padroncine. «Sei un bruto», gli disse con disprezzo. «Non amoreggi anche con l'altra sorella? Perché ti burli di entrambe?» «Scusami, stupido: son loro che vengono a buttarmisi fra le braccia, le posso respingere?», chiese cinicamente il Daga. «Poiché il mondo è diventato un gambero, profittiamone. Ora son le donne che seducono gli uomini; ed io sarei più stupido di te se non mi lasciassi sedurre ... fino ad un certo punto ... » «Ma perché certe cose non accadono che a certi tipi? A me no, per esempio.» «Perché agli asini non può succedere ciò che succede agli uomini: eppoi le nostre soavi padroncine hanno, in fondo, l'onesto desiderio di trovarsi un marito e sanno che tu sei fidanzato.» «Io fidanzato? ... », gridò Anania, «chi lo ha detto?» «Chi lo sa? E di una Margherita, anche, che questa volta, meno male, va gettata ante asinos.» «Ti proibisco di ripetere quel nome!», proruppe Anania, andando addosso al Daga. «Capisci, te lo proibisco!» «Abbassa le dita, ché mi cavi gli occhi! Il tuo amore è feroce!» Fremente di collera Anania si mise a impacchettare i suoi libri e le sue carte. «Ah», diceva, a denti stretti, «me ne vado subito, subito. Io non so vivere fra gente curiosa e volgare.» «Addio, dunque!», disse Battista, gettandosi sul letto. «Ricordati almeno che nei primi giorni che siamo giunti, se non c'ero io rimanevi vilmente schiacciato da una carrozza.» Anania uscì, col cuore gonfio di fiele: si diresse automaticamente verso il Corso, e quasi senza avvedersene si trovò in Via del Seminario. Era un pomeriggio ardente; lo scirocco sbatteva le tende dei negozi: l'aria odorava di vernici, di droghe e di vivande. Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In Via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente: «Corvi!», A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all'ultimo piano e suonò. Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei. «La signora Obinu?» «Sono io», rispose la donna con voce grave, «No», egli pensò, «non è lei; non è la sua voce.» Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere. «Vorrei una camera; io sono sardo, studente», disse, esaminando la donna da capo a piedi. Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un'aria graziosa. «Lei è sardo? Ho piacere ... », rispose disinvolta. «Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire ... » Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d'oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d'acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre. «Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un'altra, fosse anche un buco? ... » Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo. «È un ricordo di mio padre, che era cacciatore», disse la donna, sorridendo con bontà. «È di Nuoro, lei?» «Sì, ma sono nata là per caso.» «Anch'io sono nato per caso nel villaggio di Fonni», egli disse, guardandola in viso. «Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.» Ella non batté palpebra. «No, non è lei!», egli pensò, e si sentì felice. «Per questi quindici giorni le darò la mia camera», disse finalmente la Obinu, cedendo alle insistenze di lui, ed egli accettò. La cameretta pareva la cella d'una monaca; il lettino candido, odorante di spigo, ricordava i semplici giacigli di certe patriarcali abitazioni sarde. E come in quelle abitazioni, Maria Obinu aveva appeso lungo le pareti grigie della sua camera una fila di quadretti e di immagini sacre; tre ceri, poi, e tre crocefissi, un ramo d'olivo e un rosario che pareva di confetti, pendevano in capo al letto; in un angolo ardeva una lampadina davanti ad una immagine dove le Sante Anime del Purgatorio, tinte di livido da un lapis turchino, pregavano tra fiamme insanguinate da un lapis rosso. Anania prese possesso della camera, e ben presto fu riassalito dai suoi dubbi. Perché la Obinu gli cedeva la sua camera? perché si mostrava così premurosa con lui? Mentre egli metteva a posto i suoi libri, Maria bussò e, senza avanzare, gli domandò se desiderava che la lampadina delle «Sante Anime» venisse spenta. «No», egli rispose con voce forte, «venga avanti, anzi, che le faccio vedere una cosa.» Ella entrò, pallida, sorridente; pareva avesse sempre conosciuto il suo inquilino e gli volesse bene. Egli teneva fra le mani uno strano oggetto, un sacchettino di stoffa unta, attaccato ad una catenina annerita dal tempo. Disse, mettendosi l'amuleto al collo: «Veda, anche io sono devoto, questa è la ricetta di San Giovanni, che allontana le tentazioni.» La donna guardava. Improvvisamente cessò di sorridere, ed Anania sentì il suo cuore battere forte. «Lei non crede a queste cose?», domandò Maria. «Ebbene, se non ci crede, almeno non se ne burli. Sono cose sacrosante.» Steso sul lettino odorante di spigo, Anania pensava continuamente al suo segreto. ... E se Maria Obinu era Olì? Se era lei? Così vicina e così lontana! qual filo misterioso lo aveva condotto fino a lei, fino al guanciale su cui ella doveva qualche volta piangere ricordando il figliuolo abbandonato? Che strana cosa la vita! Egli era dunque giunto così al suo destino, solo per forza di una volontà misteriosa che lo aveva guidato quasi a sua insaputa. Ma non era pazzo, dunque? Che sciocchezze, che puerilità! No, non era lei, non poteva esser lei. Ma se lo era? Se ella già sapeva di essere vicina a suo figlio, mentre egli si dibatteva nel dubbio? No, non poteva essere lei. Una madre non può non tradirsi, non può non gridare nel rivedere suo figlio. Era assurdo. - Sciocchezze, idee convenzionali. Una donna sa dominarsi anche tra le più violente emozioni. Essa, poi, che aveva abbandonato e buttato via la sua creatura! Appunto per questo doveva tradirsi, gridare, sussultare. Una madre è sempre una madre. Eppoi Olì, una selvaggia, una semplice figlia della natura, non poteva aver assimilato la perfidia delle donne di città, tanto da fingere come una commediante, da sapersi dominare così! Impossibile. Era assurdo, Maria Obinu era Maria Obinu, simpatica donna, mite e incosciente, che aveva avuto la fortuna, più che la forza, di emendarsi. Non poteva esser lei. Ma intanto egli ricordava la prima notte passata a Nuoro e il bacio furtivo di suo padre, e di momento in momento aspettava che l'uscio s'aprisse, e un'ombra si avanzasse, nel chiarore della lampadina, e un bacio rivelatore gli sfiorasse la fronte! ... «E se ciò fosse ... che farei io?» si chiedeva trepidando. I rumori della città si affievolivano, s'allontanavano, quasi ritirandosi anch'essi, stanchi, verso un luogo di riposo. Anania sentì rientrare i tardivi inquilini, poi tutto fu silenzio, nella casa, nella via, nella città. Ed egli vegliava ancora! Ah, forse quella lampadina? ... «Ora la spengo ... » Si alzò. Un rumore, un fruscio ... È l'uscio che si apre? Oh, Dio! Egli si gettò nuovamente sul letto, chiuse gli occhi e attese. Il cuore e la gola gli pulsavano febbrilmente. Ma l'uscio rimase chiuso, ed egli si calmò e rise di sé. Però non spense la lampadina.

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