Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandono

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Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 5 occorrenze

La mancanza di spazio costringe a unirvi i rieducandi, cioè i discoli, i disadattati, i vagabondi senza fissa dimora per abbandono o per elezione. Separare il grano dal loglio non si può. (E i bambini, dove sono i bambini?) Insomma non tutti autentici delinquenti, ancora secondo le espressioni del censore, la cui sola vista debba ispirare penosa repellenza. Oh sì certo, ragazzi. Certo certo, creature fresche senza fallo con qualcosa di vergine d'innocente e schietto. Dei disgraziati. Redimibili, sicuro. Me lo ha concesso con parole sue, retoriche. Accento sincero e falso, vorrebbe coprirsi, nascondermi la realtà senza riuscirci, spinto dall'idea di "apparire". Del resto la retorica è il linguaggio che s'impara a scuola, sovrapposto ai luoghi comuni che s'imparano in famiglia, e può esservi anche una sincerità di fondo venuta su deformata. Il linguaggio burocratico (i fascicoli) è la deformazione tout court. Abbiamo continuato mettendo sulla bilancia guerra e miseria e diosà che altro, perfino le loro stesse madri. Se fanno il mestiere li buttano fuori, quando non se ne servono... Sospensione. Perifrasi varie per significare il sesso. Aizzato dall'ambiente. O se non altro l'esplosione dell'età che di per sé può spingere a eccessi catastrofici anche in tempi normali e in ambienti normali. Nell'adolescente c'è sempre il delinquente potenziale: citazione dalle requisitorie di un PM che gode fama d'implacabilità. Tuttavia sembrava incerto se aprirsi con una donna _ o l'intrusa? _ sulla piaga della masturbazione. Le cose su cui si tace, anche in famiglia a scuola, come se fossero asessuati. Be' sì... ce n'è uno... qualcuno ... uno pare come se si volesse distruggere... pustolosi gialli... Lo ritiene ancora un vizio disgustoso e pericoloso o finge? Ho lasciato perdere l'omosessualità per non metterlo in condizione di negare. Contronatura. Detta e considerata impropriamente tale, giacché si riscontra negli animali e del resto è nella natura come le malattie. Delle quali pure si ha vergogna ma non si può certo eliminarle. E comunque repressa la natura trova il suo pertugio qualechesia. Bene, a ogni modo eccomi per cosi dire nella tana. A raffrontare l'immagine spesso terribile ricavata dai fascicoli, col ragazzo che mi trovo davanti. Il serafico biondino _ ogni domenica è lui a servire la messa _ per due volte "nella intemerata casa paterna in cui fin allora avevano spensieratamente giocato" (linguaggio delle note personali) usò violenza alla sorellina, "integra l'imene". Ma e quell'uomo (cronaca di quotidiano) che trovandosi accanto sul letto coniugale la figlia di pochi mesi, mentre la moglie era in cucina, l'ha stuprata? Improvvisamente mi trovo fin troppo propensa a capire, se non addirittura a giustificare, quello che ieri, due ore fa, prima di entrare qui, mi avrebbe per lo meno sconcertata se non proprio disgustata. Sgomento, sì. Riconosco Milli, taurino, faccia leale (bieca nel formato tessera inchiostroso) che ammazzò l'amico in un litigio. Tutti i ragazzi si picchiano, ma lui è forte e nell'ira perde il controllo. Ha il pugno proibito. Cadendo sotto quel suo pugno l'altro batte la testa a uno spigolo di pietra e ci rimane. Mi ha assicurato il censore che mai usa la propria forza coi compagni, non reagisce nemmeno alle più sfacciate provocazioni. E non è che qui manchino gli attaccabrighe. Ma il Milli diventa un masso inerte se si cerca d'indurlo alla lite. Quando un giorno dovrà rendersi conto, lui con questo acerbo senso di colpa in petto, d'un mondo in preda alla violenza, può darsi che finisca per sentirsi scagionato. Il mondo in cui l'altro compassionevole ragazzine nascosto al suo fianco, ha potuto ripetutamente giocare con una rivoltella tedesca "trovata in giro", divertirsi a puntare e minacciare per scherzo, uccidendo alla fine sua madre. Milli e questo orfano sono gli assassini dell'attuale gruppo di detenuti. Lo " studente " si considera l’avventuriere giustiziere, una specie di Zorro. Mi ride, cordiale, un po' spavaldo. Organizzò la banda, che si riuniva in certe cave fuori mano a banchettare con la refurtiva. Prelevata da dispense e cantine di ricchi o borsaneristi _ che è lo stesso, affermò in tribunale _lasciandovi il suo biglietto. Quei biglietti ornati da un teschio, con compiacimento ripetuto sui libri di scuola, e il fumo alle cave abbandonate, condussero a scoprire la banda. III B ginnasiale. Inoltre il mucchio delle bombe e armi varie "trovate in giro". Ragazzata definì l'avvocato quella che la pubblica accusa doveva fermamente sostenere autentica delinquenza. Associazione per delinquere. La stoffa di uno che voglia forzare la vita a mantenere le sue appassionanti promesse _ l'avventura, la punizione dell'avido adulto _ nello studente c'è ed è stoffa di qualità pregiata. Tutto dipende dall'uso che se ne fa, o si è indotti a farne. M'accorgo che manca nel gruppo il contino. Se n'era stato accanto al censore in abito borghese e il censore me l'aveva quasi presentato. Il suo buffo tendere la mano con l'atto mondanamente insufficiente di posare le labbra sulla mia. Si tiene appartato dagli altri. (Truffa e denunce del conte padre. Puttaniere, lo chiama il figlio. Va bene, tu mi tagli i viveri, io entro al cinema e mi trovo un frocio. Dal fascicolo processuale.) Grazie a Bilotte che ha rotto il ghiaccio (il dentifricio mai visto prima lo credeva sul serio roba da mangiare) posso ormai introdurmi nella sezione giudiziaria di un carcere minorile come in qualsiasi altro luogo dove si trovino riuniti, e sia pure costretti, dei ragazzi. Allora, non mettersi a scrutare in essi qualcosa d'ignoto temibile e repulsivo _ solo quel tanto di bene e di male esplosivamente mescolati nella natura umana _ piuttosto riconoscerli vittime. E ragazzi. Ricordarsi che sono ragazzi. Cioè esseri colmi d'un incoercibile slancio vitale e con quel tanto in sé d'intatto che è sempre, quasi sempre, nell'estrema giovinezza. Bisogna rifiutarsi comunque di ritenerli perduti, nutrire l'incrollabile fede che ognuno possa essere salvato. E sentirsi responsabili per ciascuno di essi. Avrò parlato con la mia parte di retorica, temo. Con entusiasmo e proponimenti da neofita. Lo leggo in faccia al censore mentre, io accalorandomi e lui annuendo docile, mi accompagna verso l'uscita. Attraverso una quantità di porte e il primo cancello interno, schiavardati via via da premurosi agenti. Agenti, un po' come angeli, di custodia. Oltre il cancello siamo ancora nell'ingresso che da sul cortile esterno, con la stanza di guardia a sinistra, a destra un altro uscio, chiuso. Ne proviene una sorta di pigolio, soffocato ma irreprimibile. I bambini, ecco dove sono i bambini. Sapevo che dovevano esserci: Istituto di Osservazione. Come si apre l'uscio c'investe un tanfo di polvere e pipì (alle camerate era di bugliolo). Ve ne sono, ristretti nella stanza angusta, con un solo custode, ventitré. Dai minori di quattordici anni a uno di sei. Si azzittiscono immobilizzati come topi alla vista del gatto. Con una strizzata al cuore riconosco il mio scolaro Augustino, paternità enne enne, prima elementare. Lui non mostra di riconoscermi. Guarda in terra. Lo chiamo, non risponde, fugge. Ma che ha fatto? Figlio unico di madre prostituta, è la risposta che vorrebbe essere spiritosa. Era venuta, quella madre, a scuola per giustificare l'assenza del bambino che entrava "in collegio". Mancano i locali e il personale è insufficiente, questo buco passa per l'Osservazione, c'è sopra la targa. Ma la verità è che, essendo il cortile l'unico posto per la ricreazione, li tengono tutti insieme, osservati corrigendi detenuti. Per riguardo alla visita... Prego di liberarli. Signor censore (e rex) non faccia complimenti con me, ormai sarò di casa. Prorompendo a mucchio s'attaccano alle sbarre del cancello come uccellini, non ancora abituati alla prigionia, ai ferri della gabbia. Nuovo schiavardamento fragoroso, le chiavi sono grosse, di ferro. E invasione del cortile claustrale. Assassini stupratori e rapinatori accolgono gli uccellini spennati coi quali giornalmente convivono, e non solo a ricreazione. Vedo il muscoloso Milli tirarsi su in braccio il mio Augustino rattrappito e piangente. "Sa, si spingono, sono tanti." Sono, per la precisione, al momento, centoventisette "ospiti", nello spazio per cinquanta frati del tempo antico di minuscole celle e sterminati corridoi, Potrebbero perfino ammutinarsi.

C'è un movimento nei banchi, quasi un'inclinazione simultanea, un piccolo abbandono obliquo delle teste. Qualche segno di croce fuori tempo, subito contratto. Scopro libriccini, due o tré corone di rosario: come cose nascoste venute alla luce in un improvviso dimenticarsi. La massa si è sciolta, ha assunto attitudini pose rilassatezze. Si è vagamente e sordamente animata. Il vescovo avanza rapido verso la fila dei cresimandi. Contro il ciuffo crinoso del minore, la bellissima mano bianca raccoglie le dita nel gesto liturgico. Sotto quella mano che sembra una fiammella dello spirito santo, è consacrato soldato di Cristo il ragazzo senza fronte. La ressa dei corpi nei banchi subisce continue modificazioni: certe piegature, certi stacchi, certi incurvamenti, rompono l'uniformità quasi di muro dell'inizio. .Occhi ansiosi spiano nei compagni i gesti da eseguire, ciascun segno di croce viene sgranato dall'uno all'altro in frettolosa successione. Qualcosa di docile, una remissività infantile, coglie anche i più restii. È un agente a far segno di alzarsi e tutti si alzano. Tonfo delle ginocchio sul legno e lunga prosternazione. Esplodono le voci dei cantori sonoramente. L'organista s'è abbandonato al canto col collo gonfio. Così compreso, penso, come bambino nella sacrestia del paese imparò a pigiare i tasti con l'indice e provò la vocetta intonata. Ho perso la nozione del tempo. Mi riscuotono mormorii e piccoli subbugli da scuola, quando i ragazzi stanno per essere chiamati a dire la lezione. Sono gli agenti a muoversi per primi. Uno a uno, quasi avessero finora circolato, risalgono la chiesa con un curioso effetto semovente delle fiammelle azzurre ai risvolti della divisa. Vanno a ricevere essi la comunione e sarà l'unico momento senza custodia. Ma non necessitava custodia. Rannicchiati e come spauriti _ il disagio di uscire dalle file, esporsi _gli uomini si preparano. Al posto delle guardie, subito dopo, il gruppo dell'armonium senza impaccio. Quindi un brusco agitarsi nei banchi, un disincagliarsi, a due a tre, con passi secchi, una sorta di corsa un po' disperata come se si consegnassero. Hanno raggiunto i gradini a testa sotto, quasi cozzando. Non potrei calcolare il numero, è stata una cosa repentina e in certo senso disordinata, a strappi. Si susseguono all'altare scaglioni, dorsi curvi, nuche giovani e vecchie, teste folte calve rapate, spalle rigonfie e spalle cadenti. Una giacca inverosimilmente stazzonata copre una magra schiena dalle scapole prominenti come il residuo di ali mozzate. Scarpe sdrucitissime si mostrano con quell'aria disarmata delle suole esposte. Parecchi indossano le brache dell'uniforme. Vedo presentarsi tra gli ultimi il bei giovane faccia derisoria, l'andatura bighellona e di colpo mettersi giù. Anche lui sotto la giacca sagomata da guappo ha le strisce del carcere, non possiede un pantalone. Due corti piedi da ragazzo, le punte in dentro, ingenue, si uniscono ritti scoprendo calze bianche in certe scarpucce aperte ai talloni. Colgo qualche profilo, il mento tremante, protendersi a bocca spalancata verso l'ostia. Brutte bocche di viziosi e di violenti. Ma non oso più domandarmi chi siano costoro e che abbiano fatto. Le schiene profondamente umiliate, l'annaspo delle labbra timorose, e i piedi, quei piedi uniti come mani, tutto negli uomini prosternati esprime in un modo quasi straziante l'anelito spirituale. Sia pure dell'attimo suggestivo, dell'occasione. Si alzano raccolti in sé come ciechi. Al gesto del frate che li aspetta al passaggio per distribuire un'immaginetta, riscuotendosi trasaliscono. Assise sulla dura poltrona d'ufficio carcerario, il vescovo parla ai suoi figli. Voce suasiva, con poche modulazioni, risulta un dolce lamento. La testa delicata appare giovane, sembra giovane di purezza fisica, la castità come un'ibernazione. Ha le fìsique du rôle . Nel silenzio della cappella si avverte il momento più acuto, e forse il più precario, dell'abbandono. Scopro qualche nobile tratto di fisionomia, occhi patetici, tristi incavi di bocche. Libriccini e immagini sono sui banchi, corone di rosario restano visibili appese a mani nocchiute. So che dopo si vergogneranno e irrideranno l'uno all'altro (è umano, ed essi sono più che umani nel senso della fralezza) ma adesso ascoltano ancora con una specie di avidità, quella cosa che somiglia alla fame e che si sente dentro come un buco. Le mani del vescovo, distese sulle ginocchia, di un rosa lillà un po' livido, le unghie bianche, sembrano essersi appassite. Non gesticola. Il movimento è solo nelle modulazioni della voce. Anche il senso è piuttosto nel suono, in quella blandizie. Parla del Cristo. Là in alto dietro a lui, l'enorme Crocifisso sfigurato stravolto, con grumi e colaticci di vernice vermiglia, opera di un detenuto. Vi si levano tutti gli occhi sgusciando il bianco con una certa somiglianza. Le fronti sono aggrottate nello sforzo. Essi non intendono la lettera. Sfugge il significato delle parole, si smarriscono le mistiche astrazioni: quello che vi è di rarefatto di teologicamente incorporeo nei sermoni cattolici, non li raggiunge. Ma sono indotti a guardare il Cristo con le piaghe, l'eloquenza irrefragabile del sangue. Il cattolicesimo ancora si regge sulla suggestione del rituale liturgico e delle immagini, non soltanto per i semplici, ciascuno vi reperisce qualcosa dal basso o dall'alto. Nel momento che metterà mano all'apparato correrà il più grande rischio della sua storia. Tornando a guardare le file uniformate, non vedo che teste ispide e menti deboli. Nell'aria viziata un sentore di corpi, un lezzo. E di nuovo l'impressione di scuola, quando sta per suonare la campanella, lo stesso tramestio del radunare furtivamente sotto il banco. Sguardi bassi seguono le braccia dei frati che spogliano il loro vescovo. È molto sottile, senza carne, le spalle escono esili da sotto la cappa. Gli agenti hanno ripreso a circolare. Nello spazio sgombro procede il corteo delle autorità fra i detenuti in piedi. Nessuno si sporge a baciare l'anello, forse è stato proibito. O si è spento lo slancio. Le facce inespressive arretrano confondendosi. Dietro la frusciante immacolata veste principesca si leva a grado a grado un brusio, un bisbiglio, un brulicame. E poi, alle nostre spalle, sordo, il clamore incoercibile, sempre un po' minaccioso, della gente ingabbiata. Andiamo a consumare il rinfresco. Cioccolato caldo con paste, dato che Sua Eccellenza e gli altri officiami sono digiuni.

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Tiene il polso reciso che sporge dalla manica penzoloni al fianco con estremo abbandono. Entra il Tribunale. Viene chiamato. Come sente pronunciare il suo nome _Felice Sante di Giocondo _avanza qualche passo, s'arresta incerto, riprende a camminare sbilenco. Gli si contesta l'imputazione : lesioni aggravate e omicidio colposo. Non sembra aver capito. Due volte si gira indietro come cercando a chi sono rivolte quelle parole. La grande bocca stupefatta gli si è schiusa. Comincia la sfilata dei mutilati. La Ripa è una frazione di montagna, poche case di pastori aggrappate alla costa, lontana ore di mulattiera dal centro comunale. Nella contrada la guerra restò ferma per un inverno e lasciò la malasemina (come dirà il decano barbuto dei Felice). Ancora oggi se ne trova. La campagna e i boschi erano disseminati di mine antiuomo che via via emergevano dalla terra. Un carretto con l'asina saltò in aria lungo una carrareccia, dopo anni che si ripercorreva. I contadini tornavano a casa con le bisacce piene di bombe. Così tornò quel giorno il defunto Nicola Felice, uomo giovane di trentatré anni. Aveva uno zaino a tracolla, lo depose al suo uscio e chiamò il ragazzo che passava con le pecore. Santino di Giocondo, un nipote. (Là tutti sono parenti.) Altri subito ne accorsero, come sempre i ragazzi attratti da quegli ordigni. Questo avveniva nella piazzuola della Ripa, davanti alla casa di Nicola, e anche il suo bambino di quattro anni uscì sulla soglia. Non c'erano che ragazzi. L'uomo (pare fosse autorizzato raccoglitore e lucrava con quel po' di polvere per fuochi d'artificio) cavò dallo zaino grossi proiettili di artiglieria rinvenuti in un folto d'arbusti. Baldanzoso e spericolato Santino scelse il suo, lo dette da reggere a un altro per smontarlo picchiandovi con qualcosa, una pietra o un martello. Davanti al Tribunale nega. Nega scuotendo la testa e accennando a sollevare il moncherino, che subito rimette giù. Lui si era fermato a guardare dal cantone in mezzo alle sue pecore. "È vero che ti hanno ammonito di non battere?" Avrebbe risposto: "'Na vota se nasce e 'na vota se more." Ma era stato raccontato dai ragazzi. Si presentano uno dopo l'altro, screziati di turchiniccio (la polvere da sparo che rimane cicatrizzando sottopelle) saltellanti strascicanti e smemorati confusi. Uno incespica alla pedana, vi cade seduto. Non meraviglierebbe vederli accovacciarsi su quel bordo di legno come piccoli animali a leccarsi le ferite. Non capiscono la domanda, chi o che cosa sia il defunto, non si riesce a cavarne risposte utili. Quello che aveva retto la bomba, con spille da balia alla gamba ripiegata del pantalone, fa no e sì evidentemente a casaccio. Anche metà della manica destra è vuota, e lui sa dire solo che la sua mano non si ritrovò. "Ma il tuo compagno, questo qui, Sante, percuoteva?" Tace smarrito. "Picchiava? Batteva?" Qualcuno suggerisce: menava? Staccatesi dalle sottane della madre, l'orfanello corre a mostrare il mignolino mancante. (Lo parò il padre.) Ripete due o tré volte che stava vicino a "tata". Lui non si ricorda dell'imputato _ ma non deve aver inteso la parola _ non l'ha visto, erano tanti ragazzi tante pecore e dopo bum. E le pecore strillavano. C'è un intermezzo. Fra i mèmbri del tribunale si discute sul verso della bomba, quale il fondo e quale l'ogiva, dove occorra battere per provocare lo scoppio. Un avvocato esperto di balistica, ex ufficiale di artiglieria, chiarisce ai giudici la questione tracciando su un foglio sagome di bombe in piedi rovesciate e fumetti esplicativi. Sul disegno, quando lo richiamano, con l'indice della sinistra, la testa di sbieco come un uccello per l'occhio offeso, l'imputato docilmente indica la parte che aveva percosso. Si avvicendano sulla sedia spagliata i contadini salendo la pedana con un tonfo. Ognuno, giunto dinanzi al seggio presidenziale e visto sulla parete il Crocifisso, si genuflette segnandosi come in chiesa. Restano sconcertati alla formula incomprensibile del giuramento (gli suona "dilogiuro" al modo sbrigativo come viene imposta). Non capiscono che si voglia da loro. E appare chiaro che non vogliono niente, non reclamano e non accusano, si presentano perché sono stati chiamati con ingiunzione. Nel rispondere guardano al muro, oltre il tocco del presidente, a Quello lassù. Ma non si querelano nemmeno con Dio. Un morto, ragazzi mutilati, famiglie rovinate: di chi la colpa? A Dio si soggiace. Sopravviene un momento, tornati dietro le transenne, che cade il silenzio. Sembra aver colpito tutti l'inutilità di questo dibattimento. Incombe sull'aula la colpa, ma è colpa comune. Poi s'alza il primo oratore a parlare con voce curiosamente stimbrata. I contadini non ascoltano, in attesa che ogni cosa finisca. Atteggiati a coro di tragedia greca, con l'espressione delle facce evocano e commentano da soli la scena: la piazzetta inzuppata di sangue, cosparsa di ragazzi e pecore a brandelli, al centro il corpo squarciato dell'uomo. Urli gemiti e le pecore che "gridano come cristiani". Intorno essi, resi muti da un orrore sacro, l'intera popolazione della costa, pietrificata. Per ore, mentre qualcuno correva giù a cercare aiuto, erano rimasti a distanza senza osare di far niente. I ragazzi si sollevavano strisciando sui gomiti, uno toglieva brandelli dalla mano staccata ed era parso che si strappasse le dita buttandole via. Nessuno poteva far niente altro che guardare in uno stato di annichilimento. Per tré ore erano rimasti così. L'uomo si dissanguava in terra. Un uomo giovane coi figli piccoli. La moglie e tré bambini accovacciati intorno. Si lamentava: aiutatemi ammazzatemi. Morì la sera in un ospedale lontano. La voce degli avvocati deve suonare alle orecchie dei contadini confusa e superflua, vaniloquio. Si direbbe che non li conoscano: quando c'è il morto anche l'avvocato arriva da sé. Sembrano domandarsi che ci sia da parlare tanto, che mai possono dire questi uomini accalorati e gesticolanti. In verità non tuonano contro lo scandalo del mondo, la paura, la paura cieca che non sai più da dove viene, che è dappertutto, piove dal cielo spunta dalla terra e la terra ne rimane infestata; tuonano invece contro il ragazzo, contro Santino di Giocondo, che sta lì con la stessa faccia immobile e rassegnata dei vecchi. Quando le voci tacciono tutto finisce quasi bruscamente, come i contadini già sapevano che doveva finire. SÌ riprendono in mezzo l'incolpato e se lo riportano via, senza parlargli ma reggendolo spalla a spalla fianco a fianco. Quegli uomini l'hanno perdonato. Ma pure il perdono, a misurare col metro giusto, è stato di troppo. In massa, prima di uscire, con un lungo sguardo verso la parete di fondo, i contadini della Ripa si fanno il segno di croce. È come se perdonassero Dio trascurando gli uomini. Perdonarlo anche per la crocifissione del figlio suo.

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Il ricovero in riformatorio può avvenire con uno sbrigativo decreto del Tribunale che li definisce disadattati anche se sono in stato di bisogno o di abbandono. Continua a essere disadattato poiché la madre continua a vivere come prima. C'era uno zio a reclamarlo, ma appena dimesso dal manicomio e comunque un poveruomo in miseria. Nonostante le buone intenzioni, se buone erano, avrebbe finito per sfruttare il ragazzo o chissacosa. E il ragazzo, un magnifico esuberante ragazzo, resta dentro. Avevo scritto alla madre. Ma lui avrà tutto il tempo di toccare l'età. Spaccherà molta legna (contro il regolamento) tirerà su perfino un muretto (contro il regolamento) zapperà le strisce-aiuola dell'ingresso e forse l'orto del direttore (sempre contro il regolamento) con la foga di chi dissotterri un tesoro. Muscoli tesi allo spasimo. Solo a tempo debito sarà libero. Una libertà che spesso riporta in carcere. E il caso di Zinzin. Quei piccoli occhi celesti che guardano intenti e speranzosi, con la fiduciosità dell'infanzia, appena velati da un'ombra di timidezza derelitta. Che diamine ha potuto fare un bambino così. È qui da tré anni, non ne ha ancora dieci, vi rimarrà fino a diciotto e magari oltre. (A meno di un'altra guerra: la guerra è finita viva la guerra.) Ma che ha potuto fare? Niente. Ozio e vagabondaggio, sta scritto. Sua madre una prostituta (di guerra) la sua casa un vano di stamberga aperto a chiunque. Lo mettevano fuori anche di notte. Ozio e vagabondaggio. Fu necessario internarlo. O ricoverarlo, come è decentemente scritto. Un bambino di indole quieta, remissivo, mai avuto un rimprovero, addolcisce anche i più violenti. Resterà chiuso fino ai diciotto, magari oltre. E sua madre. Certo lo amava, si vendeva come suoi dirsi per lui (compenso in natura, scatolame di truppa straniera). Dopo si era disperata, voleva riprenderselo, prometteva di cambiar vita. Ma era fradicia, le restava poco. Cercò di rivederlo e fu mandato, bisognò riportarlo via, non si potè lasciarglielo nemmeno un giorno in quelle condizioni. Storie monotone, pare sempre la stessa storia. Per lui, dentro l'infanzia, dentro l'adolescenza. Sembra starci con naturalezza se non volentieri. E che altro ha conosciuto. Per padre e madre gli agenti di custodia, per fratelli i ragazzi che passano e cambiano continuamente, per casa questo carcere. Viene trattato quasi con tenerezza da tutti. (Salvo un tentativo di violenza, però "con buona maniera" e non ha capito, fin adesso.) In definitiva non avrà conosciuto di meglio. Ma sarà stato dentro, rinchiuso. Provare a figurarsi quando questa creatura intimidita e inerme dovrà rientrare nel mondo cosiddetto libero, quello che chiamano reinserimento. Provarsi a pensare Zinzin per la prima volta davanti a una porta che non si apra con stridore di chiavistelli, una porta interna di casa a cui basti girare la maniglia. Zinzin esitante timoroso davanti alle porte aperte. E anche la promessa a lui è mantenuta. Dopo la distribuzione della Befana _ una befanuccia povera povera, una piccola carità stiracchiata pesata registrata _mi si concede di condurre all'ospedale, a portare il dono a un compagno malato, due dei migliori. Scelgo Zinzin e Stelvi. Non dimenticherò questa passeggiata fra i due reclusi con la scorta dell'agente. S'è fatto buio, una sera rigida frizzante di nebbia vischiosa. Ma ai ragazzi piace, anche la nebbia sembra renderli felici. Zinzin trotterella con un risetto irreprimibile sulle labbrucce screpolate. Stelvi scansa i lembi della mantellina gonfiando il petto con assaporata foga. Guardano le luci dei lampioni, smorte nel vapore, come se fossero razzi di festa. Da mesi, o da anni, non vedevano la città notturna, gli sembra splendida prodigiosa. Qualche cosa di esaltante, come eccitante è la nebbia ai polmoni avidi. Più conscio, Stelvi si muove quasi in un impeto di corsa e poi subito trattiene il passo, guardandomi con un sorriso di scusa. Non una volta mostrano di ricordarsi dell'agente che viene dietro. Al ritorno li accompagno fino al primo cancello. Me ne sto ferma a sentire l'inchiavardamento, i passi sulla ghiaia, spenta l'apertura del secondo cancello e il tonfo della chiusura. Oltre il cancello un'altra porta inchiavardata, un altro bottone da premere. E so che Zinzin, trotterellando avanti, tutto felice di poterlo fare, alzandosi sulla punta dei piedi lui stesso pieno di zelo lo piglerà.

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Faldella, Giovanni 5 occorrenze

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