Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandono

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La tregua

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Levi, Primo 6 occorrenze

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Il tutto era deserto, silenzioso, schiacciato sotto il cielo basso, pieno di fango e di pioggia e di abbandono. Anche qui, come ad ogni svolta del nostro così lungo itinerario, fummo sorpresi di essere accolti con un bagno, quando di tante altre cose avevamo bisogno. Ma non fu quello un bagno di umiliazione, un bagno grottesco-demoniaco-sacrale, un bagno da messa nera come l' altro che aveva segnato la nostra discesa nell' universo concentrazionario, e neppure un bagno funzionale, antisettico, altamente tecnicizzato, come quello del nostro passaggio, molti mesi più tardi, in mano americana: bensì un bagno alla maniera russa, a misura umana, estemporaneo ed approssimativo. Non intendo già mettere in dubbio che un bagno, per noi in quelle condizioni, fosse opportuno: era anzi necessario, e non sgradito. Ma in esso, ed in ciascuno di quei tre memorabili lavacri, era agevole ravvisare, dietro all' aspetto concreto e letterale, una grande ombra simbolica, il desiderio inconsapevole, da parte della nuova autorità che volta a volta ci assorbiva nella sua sfera, di spogliarci delle vestigia della nostra vita di prima, di fare di noi degli uomini nuovi, conformi ai loro modelli, di imporci il loro marchio. Ci deposero dal carro le braccia robuste di due infermiere sovietiche: "Po malu, po malu!" ( "adagio adagio!"); furono le prime parole russe che udii. Erano due ragazze energiche ed esperte. Ci condussero in uno degli impianti del Lager che era stato sommariamente rimesso in efficienza, ci spogliarono, ci fecero cenno di coricarci sui tralicci di legno che coprivano il pavimento, e con mani pietose, ma senza tanti complimenti, ci insaponarono, strofinarono, massaggiarono e asciugarono dalla testa ai piedi. L' operazione andò liscia e spedita con tutti noi, a meno di qualche protesta moralistico-giacobina di Arthur, che si proclamava "libre citoyen", e nel cui subconscio il contatto di quelle mani femminili sulla pelle nuda veniva a conflitto con tabù ancestrali. Ma trovò un grave intoppo quando venne il turno dell' ultimo del gruppo. Nessuno di noi sapeva chi fosse costui, perché non era in grado di parlare. Era una larva, un ometto caldo, nodoso come una vite, scheletrico, accartocciato a una orribile contrattura di tutti i muscoli: lo avevano deposto dal carro di peso, come un blocco inanimato, e ora giaceva a terra su un fianco, acciambellato e rigido, in una disperata posizione di difesa, con le ginocchia premute fin contro la fronte, i gomiti serrati ai fianchi, e le mani a cuneo con le dita puntate contro le spalle. Le sorelle russe, perplesse, cercarono invano di distenderlo sul dorso, al che egli emise strida acute da topo: del resto, era fatica inutile, le sue membra cedevano elasticamente sotto lo sforzo, ma appena abbandonate scattavano indietro alla loro posizione iniziale. Allora presero partito, e lo portarono sotto la doccia così com' era; e poiché avevano ordini precisi, lo lavarono ugualmente del loro meglio, forzando spugna e sapone nel groviglio legnoso di quel corpo; alla fine, lo sciacquarono coscienziosamente, versandogli sopra un paio di secchi d' acqua tiepida. Charles e io, nudi e fumanti, assistevamo alla scena con pietà e orrore. Mentre una delle braccia era distesa, si vide per un istante il numero tatuato: era un 200000, uno dei Vosgi. _ Bon Dieu, c' est un franc6ais! _ fece Charles, e si volse in silenzio contro il muro. Ci assegnarono camicia e mutande, e ci condussero dal barbiere russo affinché, per l' ultima volta della nostra carriera, ci fossero rasi i capelli a zero. Il barbiere era un gigante bruno, dagli occhi selvaggi e spiritati: esercitava la sua arte con inconsulta violenza, e per ragioni a me ignote portava un mitragliatore a tracolla. "Italiano Mussolini", mi disse bieco, e ai due francesi: "Fransé Laval"; dove si vede quanto poco soccorrano le idee generali alla comprensione dei casi singoli. Qui ci separammo: Charles e Arthur, guariti e relativamente ben portanti, si ricongiunsero al gruppo dei francesi, e sparirono dal mio orizzonte: io, malato, fui introdotto nell' infermeria, visitato sommariamente, e relegato d' urgenza in un nuovo "Reparto Infettivi". Questa infermeria era tale nelle intenzioni, e inoltre perché effettivamente rigurgitava di infermi ( infatti i tedeschi in fuga avevano lasciato a Monowitz, Auschwitz e Birkenau solo i malati più gravi, e questi erano stati tutti radunati dai russi nel Campo Grande): non era, né poteva essere, un luogo di cura perché i medici, per lo più malati essi stessi, erano poche decine, le medicine e il materiale sanitario mancavano del tutto, mentre avevano bisogno di cure i tre quarti almeno dei cinquemila ospiti del campo. Il locale a cui venni assegnato era una camerata enorme e buia, piena fino al soffitto di sofferenze e di lamenti. Per forse ottocento malati, non vi era che un medico di guardia, e nessun infermiere: erano i malati stessi che dovevano provvedere alle loro necessità più urgenti, e a quelle dei loro compagni più gravi. Vi trascorsi una sola notte, che ricordo come un incubo; al mattino, i cadaveri nelle cuccette, o abbandonati scomposti sul pavimento, si contavano a dozzine. Il giorno seguente fui trasferito in un locale più piccolo, che conteneva solo venti cuccette: in una di queste giacqui per tre o quattro giorni, oppresso da una febbre altissima, cosciente solo ad intervalli incapace di mangiare, e tormentato da una sete atroce: quinto giorno la febbre era sparita: mi sentivo leggero come una nuvola, affamato e gelato, ma la mia testa era sgombra, gli occhi e gli orecchi come affinati dalla forzata vacanza, ed ero in grado di riprendere contatto col mondo. Nel corso di quei pochi giorni, intorno a me si era verificato un mutamento vistoso. Era stato l' ultimo grande colpo di falce, la chiusura dei conti: i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita ricominciava a scorrere tumultuosamente. Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le funeste strade del campo non erano più deserte, anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso e rumoroso, che sembrava fine a se stesso. Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami, canzoni. Ciononostante la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del più piccolo ed inerme fra noi, del più innocente, di un bambino di Hurbinek. Hurbinek era un nulla, un figlio della morte un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena. Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità. Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek "diceva una parola". Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come "mass-klo", "matisklo". Nella notte tendemmo l' orecchio: era vero, dall' angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome. Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c' erano fra noi parlatori di tutte le lingue d' Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione: forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse ( secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire "mangiare", o "pane"; o forse "carne" in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua. Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all' ultimo respiro, per conquistarsi l' entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole. Henek era un buon compagno, ed una perpetua fonte di sorpresa. Anche il suo nome, come quello di Hurbinek, era convenzionale: il suo nome vero, che era Ko5nig, era stato alterato in Henek, diminutivo polacco di Enrico, dalle due ragazze polacche, le quali, benché più anziane di lui di dieci anni almeno, provavano per Henek una simpatia ambigua che presto divenne desiderio aperto. Henek-König, solo del nostro microcosmo di afflizione, non era né malato né convalescente, anzi, godeva di una splendida sanità di corpo e di spirito. Era di piccola statura e di aspetto mite, ma aveva una muscolatura da atleta; affettuoso e servizievole con Hurbinek e con noi, albergava tuttavia istinti pacatamente sanguinari. Il Lager, trappola mortale, "mulino da ossa" per gli altri, era stato per lui una buona scuola: in pochi mesi aveva fatto di lui un giovane carnivoro pronto, sagace, feroce e prudente. Nelle lunghe ore che trascorremmo insieme, mi narrò l' essenziale della sua breve vita. Era nato ed abitava in una fattoria, in Transilvania, in mezzo al bosco, vicino al confine rumeno. Andava spesso col padre per il bosco, alla domenica, entrambi col fucile. Perché col fucile? per cacciare? Sì, anche per cacciare; ma anche per sparare ai rumeni. E perché sparare ai rumeni? Perché sono rumeni, mi spiegò Henek con semplicità disarmante. Anche loro, ogni tanto, sparavano a noi. Era stato catturato, e deportato ad Auschwitz con tutta la famiglia. Gli altri erano stati uccisi subito: lui aveva dichiarato alle SS di avere diciotto anni e di essere muratore, mentre ne aveva quattordici ed era studente. Così era entrato a Birkenau: ma a Birkenau aveva invece insistito sulla sua età vera, era stato assegnato al Block dei bambini, ed essendo il più anziano e il più robusto era diventato il loro Kapo. I bambini erano a Birkenau come uccelli di passo: dopo pochi giorni, erano trasferiti al Block delle esperienze, o direttamente alle camere a gas. Henek aveva subito capito la situazione, e da buon Kapo si era "organizzato", aveva stabilito solide relazioni con un influente Häftling ungherese, ed era rimasto fino alla liberazione. Quando c' erano selezioni al Block dei bambini era lui che sceglieva. Non provava rimorso? No: perché avrebbe dovuto? esisteva forse un altro modo per sopravvivere? Alla evacuazione del Lager, saviamente si era nascosto: dal suo nascondiglio, attraverso la finestrella di una cantina, aveva visto i tedeschi sgomberare in gran fretta i favolosi magazzini di Auschwitz, e aveva notato come, nel trambusto della partenza, avessero sparso sulla strada una buona quantità di alimenti in scatola. Non si erano attardati a recuperarli, ma avevano cercato di distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati. Molte scatole si erano confitte nel fango e nella neve senza sfasciarsi: a notte, Henek era uscito con un sacco, e aveva radunato un fantastico tesoro di scatole, deformate, appiattite, ma ancora piene: carne, lardo, pesce, frutta, vitamine. Non lo aveva detto a nessuno, naturalmente: lo diceva a me, perché ero suo vicino di letto, e potevo essergli utile come sorvegliante. In effetti, poiché Henek passava molte ore in giro per il Lager, in misteriose faccende, mentre io ero nella impossibilità di muovermi, la mia opera di custodia gli fu abbastanza utile. In me aveva fiducia: sistemò il sacco sotto il mio letto, e nei giorni seguenti mi corrispose una giusta mercede in natura, autorizzandomi a prelevare quelle razioni di conforto che riteneva adatte, come qualità e quantità, alla mia condizione di malato e alla misura dei miei servizi. Non era Hurbinek il solo bambino. Ce n' erano altri, in condizioni di salute relativamente buone: avevano costituito un loro piccolo "club", molto chiuso e riservato, in cui l' intrusione degli adulti era visibilmente sgradita. Erano animaletti selvaggi e giudiziosi, che si intrattenevano fra di loro in lingue che non comprendevo. Il più autorevole membro del clan non aveva più di cinque anni, e si chiamava Peter Pavel. Peter Pavel non parlava con nessuno e non aveva bisogno di nessuno. Era un bel bambino biondo e robusto, dal viso intelligente e impassibile. Al mattino scendeva dalla sua cuccetta, che era al terzo piano, con movimenti lenti ma sicuri, andava alle docce a riempire d' acqua la sua gamella, e si lavava meticolosamente. Spariva poi per tutta la giornata, facendo solo una breve comparsa a mezzogiorno per riscuotere la zuppa in quella stessa sua gamella. Tornava infine per la cena; mangiava, usciva nuovamente, rientrava poco dopo con un vaso da notte, lo collocava nell' angolo dietro la stufa, vi sedeva per qualche minuto, ripartiva col vaso, tornava senza, si arrampicava piano piano al suo posto, sistemava puntigliosamente le coperte e il cuscino, e dormiva fino al mattino senza mutare posizione. Pochi giorni dopo il mio arrivo, vidi con disagio apparire un viso noto; la sagoma patetica e sgradevole del Kleine Kiepura, la mascotte di Buna-Monowitz. Tutti lo conoscevano a Buna: era il più giovane dei prigionieri, non aveva che dodici anni. Tutto era irregolare in lui, a partire dalla sua stessa presenza in Lager, dove di norma i bambini non entravano vivi: nessuno sapeva come e perché vi fosse stato ammesso, e ad un tempo tutti lo sapevano fin troppo. Irregolare era la sua condizione, poiché non marciava al lavoro, ma risiedeva in semiclausura nel Block dei funzionari; vistosamente irregolare, infine, il suo aspetto. Era cresciuto troppo e male: dal busto tozzo e corto sporgevano braccia e gambe lunghissime, da ragno; e di sotto il viso pallido, dai tratti non privi di grazia infantile, balzava in avanti una enorme mandibola più prominente del naso. Il Kleine Kiepura era l' attendente e il protetto del Lager-Kapo, il Kapo di tutti i Kapos. Nessuno lo amava, salvo il suo protettore. All' ombra dell' autorità, ben nutrito e vestito, esente dal lavoro, aveva condotto fino all' ultimo giorno un' esistenza ambigua e frivola di favorito, intessuta di pettegolezzi, di delazioni e di affetti distorti: il suo nome, a torto, come spero, veniva sempre sussurrato nei casi più clamorosi di denunzie anonime alla Sezione politica e alle SS. Perciò tutti lo temevano e lo fuggivano. Ora il Lager-Kapo, destituito di ogni potere, era in marcia verso occidente, e il Kleine Kiepura, convalescente di una leggera malattia, aveva seguito il nostro destino. Ebbe un letto e una scodella, e si inserì nel nostro limbo. Henek ed io gli rivolgemmo poche e caute parole, poiché provavamo verso di lui diffidenza e una pietà ostile; ma quasi non ci rispose. Tacque per due giorni: se ne stava in cuccetta tutto raggomitolato, con lo sguardo fisso nel vuoto e i pugni serrati sul petto. Poi prese ad un tratto a parlare, e rimpiangemmo il suo silenzio. Il Kleine Kiepura parlava da solo, come in sogno: e il suo sogno era di avere fatto carriera, di essere diventato un Kapo. Non si capiva se fosse follia o un gioco puerile e sinistro: senza tregua, dall' alto della sua cuccetta vicino al soffitto, il ragazzo cantava e fischiava le marce di Buna, i ritmi brutali che scandivano i nostri passi stanchi ogni mattina e ogni sera; e vociferava in tedesco imperiosi comandi ad uno stuolo di schiavi inesistenti. _ Alzarsi, porci, avete capito? Rifare i letti, ma presto: pulirsi le scarpe. Tutti adunata, controllo dei pidocchi, controllo dei piedi. Mostrare i piedi, carogne! Di nuovo sporco, tu, sacco di m.: fai attenzione, io non scherzo. Ancora una volta che ti pesco, e te ne vai in crematorio _. Poi, urlando alla maniera dei militari tedeschi: _ In fila, coperti, allineati. Giù il colletto: al passo, seguire la musica. Le mani sulla cucitura dei pantaloni _. E poi ancora, dopo una pausa, con voce arrogante e stridula: _ Questo non è un sanatorio. Questo è un Lager tedesco, si chiama Auschwitz, e non se ne esce che per il Camino. Se ti piace è così; se non ti piace, non hai che da andare a toccare il filo elettrico. Il Kleine Kiepura sparì dopo pochi giorni, con sollievo di tutti. In mezzo a noi, deboli e malati, ma pieni della letizia timida e trepida della libertà ritrovata, la sua presenza offendeva come quella di un cadavere, e la compassione che egli suscitava in noi era commista ad orrore. Tentammo invano di strapparlo al suo delirio: l' infezione del Lager aveva fatto in lui troppa strada. Le due ragazze polacche, che svolgevano ( in realtà assai male) le mansioni di infermiere, si chiamavano Hanka e Jadzia. Hanka era una ex Kapo, come si poteva dedurre dalla sua chioma non rasata, e anche più sicuramente dai suoi modi protervi. Non doveva avere più di ventiquattro anni: era di media statura, di carnagione olivastra e di lineamenti duri e volgari. In quella atmosfera di purgatorio, piena di sofferenze passate e presenti, di speranze e di pietà, passava le giornate davanti allo specchio, o a limarsi le unghie delle mani e dei piedi, o a pavoneggiarsi davanti all' indifferente e ironico Henek. Era, o si considerava, più elevata in grado di Jadzia; ma in verità bastava ben poco per superare in autorità una creatura così dimessa. Jadzia era una ragazza piccola e timida, dal colorito roseo malato; ma il suo involucro di carne anemica era tormentato, lacerato dall' interno, sconvolto da una segreta continua tempesta. Aveva voglia, bisogno, necessità impellente di un uomo, di un uomo qualsiasi, subito, di tutti gli uomini. Ogni maschio che passasse nel suo campo la attirava: la attirava materialmente, pesantemente, come la calamita attira il ferro. Jadzia lo fissava con occhi incantati e attoniti, si alzava dal suo angolo, avanzava verso di lui con passo incerto da sonnambula, ne cercava il contatto; se l' uomo si allontanava, lo seguiva a distanza, in silenzio, per qualche metro, poi, con gli occhi bassi, ritornava alla sua inerzia; se l' uomo la attendeva, Jadzia lo avvolgeva, lo incorporava, ne prendeva possesso, con i movimenti ciechi, muti, tremuli, lenti, ma sicuri, che le amebe manifestano sotto il microscopio. Il suo obiettivo primo e principale era naturalmente Henek: ma Henek non la voleva, la scherniva, la insultava. Tuttavia, da quel ragazzo pratico che era, non si era disinteressato del caso, e ne aveva fatto cenno a Noah, suo grande amico. Noah non abitava nella nostra camerata, anzi, non abitava in nessun luogo e in tutti. Era un uomo nomade e libero, lieto dell' aria che respirava e della terra che calcava. Era il Scheissminister di Auschwitz libera, il Ministro delle latrine e pozzi neri: ma nonostante questo suo incarico da monatto (che d' altronde egli aveva assunto volontariamente) non c' era nulla di turpe in lui, o se qualcosa c' era, era sopraffatto e cancellato dall' impeto del suo vigore vitale. Noah era un giovanissimo pantagruele, forte come un cavallo, vorace e salace. Come Jadzia voleva tutti gli uomini, così Noah voleva tutte le donne: ma mentre la tenue Jadzia si limitava a tendere intorno a sé le sue reti inconsistenti, come un mollusco di scoglio, Noah, uccello d' alto volo, incrociava dall' alba a notte per tutte le strade del campo, a cassetta del suo carro ripugnante, schioccando la frusta e cantando a gola spiegata: il carro sostava davanti all' ingresso di ogni Block, e mentre i suoi gregari, lerci e fetidi, sbrigavano imprecando la loro immonda bisogna, Noah si aggirava per le camerate femminili come un principe d' Oriente, vestito di una giubba arabescata e variopinta, piena di toppe e di alamari. I suoi convegni d' amore sembravano uragani. Era l' amico di tutti gli uomini e l' amante di tutte le donne. Il diluvio era finito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l' arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare. Frau Vitta, anzi Frau Vita, come tutti la chiamavano, amava invece tutti gli esseri umani di un amore semplice e fraterno. Frau Vita, dal corpo disfatto e dal dolce viso chiaro, era una giovane vedova di Trieste, mezza ebrea, reduce da Birkenau. Passava molte ore accanto al mio letto, parlandomi di mille cose a un tempo con volubilità triestina, ridendo e piangendo: era in buona salute, ma ferita profondamente, ulcerata da quanto aveva subito e visto in un anno di Lager, e in quegli ultimi orribili giorni. Infatti era stata "comandata" al trasporto dei cadaveri, di pezzi di cadaveri, di miserande anonime spoglie, e quelle ultime immagini le pesavano addosso come una montagna: cercava di esorcizzarle, di lavarsene, buttandosi a capofitto in una attività tumultuosa. Era lei la sola che si occupasse dei malati e dei bambini; lo faceva con pietà frenetica, e quando le avanzava tempo lavava i pavimenti e i vetri con furia selvaggia, sciacquava fragorosamente le gamelle e i bicchieri, correva per le camerate a portare messaggi veri o fittizi; tornava poi trafelata, e sedeva ansante sulla mia cuccetta, con gli occhi umidi, affamata di parole, di confidenza, di calore umano. Alla sera quando tutte le opere del giorno erano finite, incapace di resistere alla solitudine, balzava a un tratto dal suo giaciglio, e danzava da sola fra letto e letto, al suono delle sue stesse canzoni, stringendo affettuosamente al petto un uomo immaginario. Fu Frau Vita a chiudere gli occhi a André e ad Antoine. Erano due giovani contadini dei Vosgi, entrambi miei compagni dei dieci giorni di interregno, entrambi ammalati di difterite. Mi sembrava di conoscerli da secoli. Con strano parallelismo, furono colpiti simultaneamente da una forma dissenterica, che presto si rivelò gravissima, di origine tubercolare; e in pochi giorni la bilancia del loro destino diede il tracollo. Erano in due letti vicini, non si lamentavano, sopportavano le coliche atroci a denti stretti, senza comprenderne la natura mortale; parlavano solo fra di loro, timidamente, e non chiedevano soccorso a nessuno. André fu il primo a partire, mentre parlava, a metà di una frase, come si spegne una candela. Per due giorni nessuno venne a rimuoverlo: i bambini lo venivano a guardare con curiosità smarrita, poi continuavano a giocare nel loro angolo. Antoine rimase silenzioso e solo, tutto chiuso in una attesa che lo trasfigurava. Il suo stato di nutrizione era discreto, ma in due giorni subì una metamorfosi struggente, come risucchiato dal vicino. Insieme con Frau Vita riuscimmo, dopo molti tentativi vani, a far venire un dottore: gli chiesi, in tedesco, se c' era qualcosa da fare, se c' erano speranze, e gli raccomandai di non rispondere in francese. Mi rispose in yiddish, con una frase breve che non compresi: allora tradusse in tedesco: "Sein Kamerad ruft ihn", il suo compagno lo chiama. Antoine obbedì al richiamo quella sera stessa. Non avevano ancora vent' anni, ed erano stati in Lager un solo mese. E venne finalmente Olga, in una notte piena di silenzio, a portarmi la notizia funesta del campo di Birkenau, e del destino delle donne del mio trasporto. La attendevo da molti giorni: non la conoscevo di persona, ma Frau Vita, che malgrado i divieti sanitari frequentava anche i malati degli altri reparti, in cerca di pene da alleviare e di colloqui appassionati, ci aveva informati delle rispettive presenze, e aveva organizzato l' illecito incontro, a notte fonda, mentre tutti dormivano. Olga era una partigiana ebrea croata, che nel 1942 si era rifugiata nell' astigiano con la sua famiglia, e qui era stata internata; apparteneva quindi a quella ondata di varie migliaia di ebrei stranieri che avevano trovato ospitalità, e breve pace, nella paradossale Italia di quegli anni, ufficialmente antisemita. Era una donna di grande intelligenza e cultura, forte, bella e consapevole; deportata a Birkenau, vi aveva sopravvissuto, sola della sua famiglia. Parlava l' italiano perfettamente; per gratitudine e per temperamento, si era trovata presto amica delle italiane del campo, e più precisamente di quelle che erano state deportate col mio convoglio. Mi raccontò la loro storia con gli occhi rivolti a terra, a lume di candela. La luce furtiva sottraeva alle tenebre solo il suo viso, accentuandone le rughe precoci, e mutandolo in una maschera tragica. Un fazzoletto le copriva il capo: lo snodò a un tratto, e la maschera si fece macabra come un teschio. Il cranio di Olga era nudo: lo copriva solo una breve peluria grigia. Erano morti tutti. Tutti i bambini e tutti i vecchi, subito. Delle cinquecentocinquanta persone di cui avevo perso notizia all' ingresso in Lager, solo ventinove donne erano state ammesse al campo di Birkenau: di queste, cinque sole erano sopravvissute. Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate.

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Mi parlò invece, con eloquenza, delle sue molteplici attività in Salonicco, delle partite di merce comprate, vendute, contrabbandate per mare, o di notte attraverso la frontiera bulgara; delle frodi vergognosamente subite e di quelle gloriosamente perpetrate; e finalmente, delle ore liete e serene trascorse in riva al suo golfo, dopo la giornata di lavoro, con i colleghi mercanti, in certi caffè su palafitte che mi descrisse con inconsueto abbandono, e dei lunghi discorsi che quivi si tenevano. Quali discorsi? Di moneta, di dogane, di noli, naturalmente; ma di altro ancora. Cosa abbia ad intendersi per "conoscere", per "spirito" per "giustizia", per "verità". Di quale natura sia il tenue legame che vincola l' anima al corpo, come esso si instauri col nascere, e si sciolga col morire. Cosa sia libertà, e come si concilii il conflitto fra la libertà dello spirito e il destino. Cosa segua la morte, anche: ed altre grandi cose greche. Ma tutto questo a sera, beninteso, a traffici ultimati, davanti al caffè o al vino o alle olive, lucido gioco di intelletto fra uomini attivi anche nell' ozio: senza passione. Perché il greco raccontasse queste cose a me, perché si confessasse a me, non è chiaro. Forse, davanti a me così diverso, così straniero, si sentiva ancora solo, e il suo discorso era un monologo. Uscimmo dalla mensa a sera, e ritornammo alla caserma degli italiani: dopo molte insistenze, avevamo ottenuto dal colonnello italiano capocampo il permesso di pernottare in caserma ancora una volta, una sola. Rancio niente, e che non ci facessimo troppo notare, non voleva avere seccature coi russi. Al mattino dopo, avremmo dovuto andarcene. Cenammo con due uova a testa di quelle acquistate la mattina, serbando le ultime due per la prima colazione. Dopo i fatti della giornata, mi sentivo molto "minore" nei confronti del greco. Quando si venne alle uova, gli chiesi se sapeva distinguere dal di fuori fra un uovo crudo e uno sodo (si fa girare rapidamente l' uovo, per esempio su un tavolo; se è sodo gira a lungo, se è crudo si ferma quasi subito): era una piccola arte di cui andavo fiero, speravo che il greco non la conoscesse, e quindi di potermi riabilitare ai suoi occhi, sia pure in piccola misura. Ma il greco mi guardò coi suoi freddi occhi di savio serpente: _ Per chi mi prendi? Mi credi nato ieri? Pensi che io non abbia mai commerciato in uova? Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! Dovetti battere in ritirata. L' episodio in sé trascurabile, mi doveva ritornare a mente molti mesi dopo, in piena estate, nel cuore della Russia Bianca, in occasione di quello che fu il mio terzo ed ultimo incontro con Mordo Nahum. Partimmo al mattino seguente, all' alba (questo è un racconto intessuto di albe gelide), con Katowice per meta: ci era stato confermato che là veramente esistevano vari centri di raccolta per dispersi italiani, francesi, greci eccetera. Katowice non dista da Cracovia che un' ottantina di chilometri: poco più di un' ora di treno in tempi normali. Ma in quei giorni non c' erano venti chilometri di binario senza un trasbordo, molti ponti erano saltati, e per il pessimo stato della linea i treni procedevano di giorno con estrema lentezza, e di notte non viaggiavano affatto. Fu un viaggio labirintico, che durò tre giorni, con soste notturne in luoghi assurdamente lontani dalla congiungente fra i due estremi: un viaggio di gelo e di fame, che ci condusse il primo giorno in un luogo detto Trzebinia. Qui il treno si arrestò, ed io scesi sulla banchina per sgranchirmi le gambe intorpidite dal freddo. Forse ero fra i primi vestiti da "zebra" a comparire in quel luogo detto Trzebinia: mi trovai subito al centro di un fitto cerchio di curiosi, che mi interrogavano volubilmente in polacco. Risposi del mio meglio in tedesco; e di mezzo al gruppetto di operai e contadini si fece avanti un borghese, in cappello di feltro, con occhiali e una busta di cuoio in mano: un avvocato. Era polacco, parlava bene francese e tedesco, era una persona molto cortese e benevola: insomma, possedeva tutti i requisiti perché io finalmente, dopo il lunghissimo anno di schiavitù e di silenzio, ravvisassi in lui il messaggero, il portavoce del mondo civile: il primo che incontrassi. Avevo una valanga di cose urgenti da raccontare al mondo civile: cose mie ma di tutti, cose di sangue, cose che, mi pareva, avrebbero dovuto scuotere ogni coscienza sulle sue fondamenta. In realtà, l' avvocato era cortese e benevolo: mi interrogava, ed io parlavo vertiginosamente di quelle mie così recenti esperienze, di Auschwitz vicina, eppure, pareva, a tutti sconosciuta, dell' ecatombe a cui io solo ero sfuggito, tutto. L' avvocato traduceva in polacco a favore del pubblico. Ora io non conosco il polacco, ma so come si dice "ebreo" e come si dice "politico", e mi accorsi ben presto che la traduzione del mio resoconto, benché partecipe, non era fedele. L' avvocato mi descriveva al pubblico non come un ebreo italiano, ma come un prigioniero politico italiano. Gliene chiesi conto, stupito e quasi offeso. Mi rispose imbarazzato: _ C' est mieux pour vous. La guerre n' est pas finie _. Le parole del greco. Sentii l' onda calda del sentirsi libero, del sentirsi uomo fra uomini, del sentirsi vivo, rifluire lontano da me. Mi trovai a un tratto vecchio, esangue, stanco al di là di ogni misura umana: la guerra non è finita, guerra è sempre. I miei ascoltatori se ne andavano alla spicciolata: dovevano aver capito. Qualcosa del genere avevo sognato, tutti avevamo sognato, nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli. In breve, rimasi solo con l' avvocato; dopo pochi minuti, anche lui mi lasciò, scusandosi urbanamente. Mi raccomandò, come già il prete, di evitare di parlare tedesco; alle mie richieste di spiegazioni, rispose vagamente: _ La Polonia è un triste paese _. Mi augurò buona fortuna, mi offerse del denaro che rifiutai: mi pareva commosso. La locomotiva fischiava per ripartire. Risalii sul vagone-merci, dove mi aspettava il greco, ma non gli raccontai l' episodio. Non fu l' unica sosta: altre seguirono, e in una di queste, a sera, ci rendemmo conto che Szczakowa, il luogo della zuppa calda per tutti, non era lontano. Era bensì a nord, e noi dovevamo andare verso ovest, ma poiché a Szczakowa c' era zuppa calda per tutti, e noi non avevamo altro programma che quello di sfamarci, perché non puntare su Szczakowa? Così scendemmo, aspettammo che passasse un treno adatto, e ci ripresentammo più e più volte al bancone della Croce Rossa; credo che le sorelle polacche mi abbiano riconosciuto agevolmente, e mi ricordino tuttora. Come scese la notte, ci disponemmo a dormire per terra, nel bel mezzo della sala d' aspetto, poiché tutti i posti perimetrali erano già occupati. Forse impietosito o incuriosito dal mio abito, arrivò dopo qualche ora un gendarme polacco, baffuto, rubicondo e corpulento; mi interrogò invano nella sua lingua; risposi con la prima frase che si impara di ogni lingua sconosciuta, e cioè "nie rozumiem po polsku", non capisco il polacco. Aggiunsi, in tedesco, che ero italiano, e che parlavo un poco il tedesco. Al che, miracolo! il gendarme prese a parlare italiano. Parlava un pessimo italiano, gutturale ed aspirato, trapunto di nuovissime bestemmie. Lo aveva imparato, e questo spiega tutto, in una valle del bergamasco, dove aveva lavorato qualche anno come minatore. Anche lui, ed era il terzo, mi raccomandò di non parlare tedesco. Gli chiesi perché: mi rispose con un gesto eloquente, passandosi l' indice e il medio, di coltello, fra il mento e la laringe, e aggiungendo tutto allegro: _ Stanotte tutti tedeschi kaputt. Si trattava certamente di una esagerazione, e comunque di una opinione-speranza: ma in effetti incrociammo il giorno dopo un lungo treno di vagoni merci, chiusi dall' esterno; era diretto verso levante, e dalle feritoie si vedevano molti visi umani in cerca d' aria. Questo spettacolo, fortemente evocatore, suscitò in me un groviglio di sentimenti confusi e contrastanti, che ancora oggi stenterei a districare. Il gendarme, molto gentilmente, propose a me e al greco di passare il resto della notte al caldo, in camera di sicurezza; accettammo di buon grado, e ci risvegliammo nell' insolito ambiente solo a tardo mattino, dopo un sonno ristoratore. Partimmo da Szczakowa il giorno dopo, per l' ultima tappa del viaggio. Giungemmo senza incidenti a Katowice, dove realmente esisteva un campo di raccolta per gli italiani, e un altro per i greci. Ci separammo senza molte parole: ma nel momento del congedo, in modo fugace eppure distinto, sentii muovere da me verso lui una solitaria onda di amicizia, venata di tenue gratitudine, di disprezzo, di rispetto, di animosità, di curiosità, e del rimpianto di non doverlo più vedere. Lo vidi ancora, invece: due volte. Lo vidi in maggio, nei giorni gloriosi e turbolenti della fine della guerra, quando tutti i greci di Katowice, un centinaio, uomini e donne, sfilarono cantando davanti al nostro campo, diretti alla stazione: partivano per la patria, per la casa. In testa alla colonna era lui, Mordo Nahum, signore fra i greci, e reggeva il vessillo bianco-celeste: ma lo depose quando mi vide, uscì dalla schiera per salutarmi (un po' ironicamente, ché lui partiva e io rimanevo: ma era giusto, mi spiegò, perché la Grecia apparteneva alle Nazioni Unite), e con gesto inconsueto estrasse dal famoso sacco un dono: un paio di pantaloni, del tipo usato in Auschwitz negli ultimi mesi, e cioè con una grossa "finestra" sull' anca sinistra, chiusa da una toppa di tela a strisce. Poi scomparve. Ma doveva ricomparire un' altra volta, molti mesi più tardi, sul più improbabile dei fondali e nella più inaspettata delle incarnazioni.

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La notizia, per quanto attesa, esplose come un uragano: per otto giorni, il campo, la Kommandantur, Bogucice, Katowice, l' intera Polonia e l' intera Armata Rossa si scatenarono in un parossismo di entusiasmo delirante; L' Unione Sovietica è un gigantesco paese, e alberga nel suo cuore fermenti giganteschi: fra questi, una omerica capacità di gioia e di abbandono, una vitalità primordiale, un talento pagano, incontaminato, per le manifestazioni, le sagre, le baldorie corali. L' atmosfera intorno a noi si fece torrida in poche ore; C' erano russi dappertutto, usciti come formiche da un formicaio: si abbracciavano come se tutti si conoscessero fra loro, cantavano, urlavano; benché in buona parte malfermi sulle gambe, ballavano fra loro, e travolgevano nei loro abbracci tutti quelli che incontravano per strada. Sparavano in aria, qualche volta anche non in aria ; ci fu portato in infermeria un soldatino ancora imberbe, un "parasjutist", trapassato da un colpo di moschetto dall' addome alla schiena. Il colpo, miracolosamente, non aveva leso organi vitali: il soldato-bambino stette a letto tre giorni, e subì le medicazioni con tranquillità, guardandoci con occhi vergini come il mare; poi, una sera, mentre in strada passava una torma di commilitoni in festa, balzò fuori dalle coperte vestito di tutto punto, con l' uniforme e gli stivali, e da buon paracadutista, sotto gli occhi degli altri malati, si gettò semplicemente in strada dalla finestra del primo piano. Le già tenui vestigia di disciplina militare svanirono; Davanti alla porta del campo la sentinella, alla sera del 1 maggio, russava ubriaca _ e sdraiata per terra, col mitra a tracolla ; poi non si vide più; Era inutile rivolgersi alla Kommandantur per qualsiasi urgente necessità: la persona incaricata non c' era, o era a letto a smaltire una sbornia, o occupata in misteriosi febbrili preparativi nella palestra della scuola; Era grande fortuna che la cucina e l' infermeria fossero in mani italiane; Di quale natura fossero quei preparativi, si seppe ben presto; Stavano organizzando una gran festa per il giorno della fine della guerra: una rappresentazione teatrale con cori, danze e recitazione, offerta dai russi a noi, ospiti del campo. A noi italiani: poiché nel frattempo, in seguito a complicati spostamenti delle altre nazionalità, eravamo rimasti a Bogucice in forte maggioranza, anzi, quasi soli con pochi francesi e greci; Cesare ritornò fra noi in uno di quei giorni tumultuosi Era in condizioni assai peggiori della prima volta: infangato fino ai capelli, stracciato, stravolto, e afflitto da un torcicollo mostruoso. Aveva in mano una bottiglia di vodka, nuova e piena, e come prima preoccupazione si diede d' attorno finché non ebbe trovato un' altra bottiglia vuota; indi, fosco e funereo, costruì un ingegnoso imbuto con un pezzo di cartone, travasò la vodka, poi ne ruppe la bottiglia in piccoli pezzi, radunò i cocci in un involto, e in gran segreto andò a seppellirlo in una buca in fondo al campo. Gli era successa una disgrazia; Una sera che tornava dal mercato in casa della ragazza, ci aveva trovato un russo: aveva visto nell' anticamera il cappotto militare, col cinturone e la fondina, e una bottiglia. Aveva preso la bottiglia, a titolo di parziale indennizzo, e saviamente se ne era andato: ma il russo, pare, gli era venuto dietro, forse per via della bottiglia, o forse spinto da gelosia retroattiva; Qui il suo rendiconto si faceva più oscuro e meno credibile. Aveva cercato invano di sfuggirgli, e in breve si era convinto che tutta l' Armata Rossa era sulle sue tracce; Era finito al Luna Park, ma anche lì la caccia era continuata, per tutta la notte; Le ultime ore le aveva passate agguattato sotto l' impiantito del ballo pubblico, mentre tutta la Polonia gli ballava sulla testa: ma la bottiglia non l' aveva lasciata, perché rappresentava tutto quanto gli era rimasto di una settimana di amore. Aveva distrutto il recipiente originale per prudenza, ed insistette perché il contenuto fosse immediatamente consumato fra noi suoi intimi. Fu una bevuta malinconica e taciturna; venne l' . maggio: giorno di esultanza per i russi, di diffidente vigilia per i polacchi, per noi di gioia venata di nostalgia profonda; Da quel giorno, infatti, le nostre case non erano più proibite, nessun fronte di guerra più ce ne separava, nessun ostacolo concreto, solo carte e uffici; sentivamo che il rimpatrio ci era ormai dovuto, e ogni ora passata in esilio ci pesava come piombo; anche di più ci pesava l' assoluta mancanza di notizie dall' Italia. Ci recammo tuttavia in massa ad assistere alla rappresentazione dei russi, e facemmo bene. Il teatro era stato improvvisato nella palestra della scuola; del resto, tutto era stato improvvisato, gli attori, le sedie, il coro, il programma, le luci, il sipario; vistosamente improvvisata era la marsina che indossava il presentatore, il capitano Egorov in persona; Egorov comparve alla ribalta ubriaco fradicio, infilato in smisurati pantaloni la cui cintura gli arrivava alle ascelle, mentre la coda di rondine spazzava il pavimento. Era in preda ad una sconsolata tristezza alcoolica, e annunciava con voce sepolcrale i vari numeri comici o patriottici del programma, fra sonori singulti e scoppi di pianto. Il suo equilibrio era dubbio: nei momenti cruciali si afferrava al microfono, e allora il clamore del pubblico si sospendeva a un tratto, come quando un acrobata salta nel vuoto dal trapezio; Tutti comparvero sul palcoscenico: l' intera Kommandantur; Marja come direttrice del coro, che era ottimo come tutti i cori russi, e cantò Moskvà mojà ("La mia Mosca") con meraviglioso slancio ed armonia, e palese buona fede. Galina si esibì da sola, in costume circasso e stivaloni, in una vertiginosa danza nella quale rivelò doti atletiche fantastiche ed insospettate: fu subissata di applausi, e ringraziò commossa il pubblico con innumerevoli riverenze settecentesche, rossa in viso come un pomodoro e con gli occhi scintillanti di lagrime. Non furono da meno il dottor Dancenko e il mongolo dai mustacchi, che, pur pieni di vodka, eseguirono in coppia una di quelle indemoniate danze russe in cui si salta per aria, ci si accovaccia, si scalcia e si piroetta come trottole sui talloni. Seguì una singolare imitazione della Titina di Charlie Chaplin, impersonato da una delle floride fanciulle della Kommandantur, dal seno e dalla groppa esuberanti, ma puntigliosamente fedele al prototipo quanto a bombetta, baffi, scarpacce e bastoncino. E finalmente, annunciato da Egorov con voce lagrimosa, e salutato da tutti i russi con un selvaggio urlo di consenso, comparve sulla scena Vanka Vstanka; Chi sia Vanka Vstanka, non saprei dire con precisione: forse una nota maschera popolare russa; Nella fattispecie, era un pastorello timido, balordo e innamorato, che vorrebbe dichiararsi alla sua bella e non osa. La bella era la gigantesca Vassilissa, la valchiria responsabile del servizio mensa, corvina e membruta, capace di stendere con un manrovescio un commensale turbolento o un cascamorto importuno (e più di un italiano ne aveva fatto la prova): ma sulla scena chi l' avrebbe riconosciuta? Era trasfigurata dalla sua parte: il candido Vanka Vstanka (al secolo, uno dei tenenti anziani), dal viso impiastricciato di cipria bianca e rosea, la corteggiava alla lontana, arcadicamente, per venti melodiose strofe a noi purtroppo incomprensibili, e tendeva verso l' amata mani supplici ed esitanti, che ella respingeva con grazia ridente ma risoluta, gorgheggiando altrettante repliche gentili e beffarde; Ma a poco a poco le distanze diminuivano, mentre il fragore degli applausi cresceva in proporzione; dopo molte schermaglie i due pastori si scambiavano baci verecondi sulle guance, e finivano con lo strofinarsi vigorosamente e voluttuosamente schiena contro schiena, con incontenibile entusiasmo del pubblico. Uscimmo dal teatro leggermente intronati, ma quasi commossi. Lo spettacolo ci aveva soddisfatti nell' intimo: era stato improvvisato in pochi giorni, e si vedeva; era stato uno spettacolo casalingo, senza pretese, puritano, spesso puerile; Ma presupponeva qualcosa di non improvvisato, anzi antico e robusto: una giovanile, nativa, intensa capacità di gioia e di espressione, una amorevole ed amichevole famigliarità con la scena e col pubblico, lontana dalla esibizione vuota e dalla astrazione cerebrale, dalla convenzione e dalla pigra ripetizione di modelli; Perciò era stato, nei suoi limiti, uno spettacolo caldo, vivo, non volgare, non qualunque, ricco di libertà e di asserzione; Il giorno dopo, tutto era rientrato nell' ordine, e i russi, a meno di alcune lievi ombre intorno agli occhi, avevano ripreso le loro facce abituali. Incontrai Marja all' infermeria, e le dissi che mi ero molto divertito, e che tutti noi italiani avevamo molto ammirato le virtù sceniche sue e dei suoi colleghi: il che era pura verità; Marja era, per solito e per natura, una donna poco metodica ma molto concreta, saldamente attestata entro il contorno tangibile del giro dell' orologio e delle pareti domestiche, amica degli uomini di carne e avversa al fumo delle teorie; Ma quante sono le menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante, impercettibile forza di penetrazione dei luoghi comuni? Mi rispose con serietà didascalica; Mi ringraziò offiziosamente delle lodi, e mi assicurò che ne avrebbe fatto parte a tutto il comando; poi mi notificò con molto sussiego che la danza e il canto sono in Unione Sovietica materie di insegnamento scolastico, e così pure la recitazione; che è del buon cittadino cercare di perfezionarsi in ogni sua abilità o talento naturale; che il teatro è uno degli strumenti più preziosi di educazione collettiva; ed altre piattitudini pedagogiche, le quali suonavano assurde e vagamente irritanti al mio orecchio, ancor pieno del gran vento di vitalità e di forza comica della sera avanti. D' altronde Marja stessa ("vecchia e matta", secondo il giudizio della diciottenne Galina) sembrava possedesse una seconda personalità, ben distinta da quella ufficiale: poiché era stata vista la sera prima, dopo il teatro, bere come una voragine, e ballare come una baccante fino a tarda notte, stancando innumerevoli ballerini, come un cavaliere furibondo che schianta sotto di sé cavallo dopo cavallo. La vittoria e la pace furono festeggiate anche in altro modo, che per poco, indirettamente, non mi doveva costare assai caro. A metà maggio ebbe luogo un incontro di calcio fra la squadra di Katowice ed una rappresentativa di noi italiani. Si trattava in realtà di una rivincita: una prima partita era stata disputata senza particolare solennità due o tre settimane prima, ed era stata vinta di larga misura dagli italiani contro una squadra anonima e raccogliticcia di minatori polacchi dei sobborghi; Ma per la rivincita i polacchi sfoderarono una squadra di prim' ordine: corse voce che alcuni giocatori, e fra questi il portiere, fossero stati fatti arrivare per l' occasione niente meno che da Varsavia, mentre gli italiani, ahimè, non erano in grado di fare altrettanto. Questo portiere era un portiere da incubo. Era uno spilungone biondo, dal viso emaciato, dal petto concavo e dalle movenze indolenti da apache. Non possedeva affatto lo scatto, la contrazione enfatica e la nevrotica trepidazione professionale: stava in porta con degnazione insolente, appoggiato a un montante come se al gioco assistesse soltanto, con aria insieme oltraggiata e oltraggiosa. Eppure, le poche volte che la palla veniva calciata in porta dagli italiani, lui era sempre sulla traiettoria, come per caso, pur senza mai fare un movimento brusco: stendeva un lunghissimo braccio, uno solo, che sembrava gli uscisse dal corpo come le corna di una chiocciola, e possedesse la stessa qualità invertebrata e appiccicosa. Ed ecco, la palla vi aderiva solidamente, perdendo tutta la sua forza viva: gli scivolava sul petto, poi giù lungo il corpo e la gamba, fino a terra; L' altra mano non la adoperò mai: la tenne ostentatamente in tasca per tutto l' incontro. La partita si svolgeva su di un campo di periferia piuttosto lontano da Bogucice, e i russi, per l' occasione, avevano concesso libera uscita all' intero campo. Fu accanitamente disputata non solo fra le due squadre contendenti, ma fra entrambe queste e l' arbitro: poiché arbitro, ospite d' onore, titolare del palco delle Autorità, direttore di gara e segnalinee a un tempo era il capitano della NKVD, l' inconcreto ispettore delle cucine. Ormai guarito alla perfezione della frattura, sembrava seguisse il gioco con interesse intenso, ma non di natura sportiva: con un interesse di natura misteriosa, forse estetico, forse metafisico. Il suo comportamento era irritante, anzi estenuante, se giudicato col metro dei molti competenti presenti fra il pubblico; per altro verso, esilarante, e degno di un comico di gran scuola. Interrompeva il gioco continuamente, a casaccio, con sibili prepotenti, e con una sadica predilezione per i momenti in cui erano in corso azioni sotto porta; se i giocatori non gli davano retta (e smisero ben presto di dargli retta, perché le interruzioni erano troppo frequenti), scavalcava il parapetto del palco con le sue lunghe gambe stivalate, si cacciava nella mischia fischiando come un treno, e tanto faceva finché non riusciva a impadronirsi del pallone. Allora, a volte lo prendeva in mano, rigirandolo da tutte le parti con aria sospettosa, come se fosse stato una bomba inesplosa; altre volte, con gesti imperiosi, lo faceva mettere a terra in un determinato punto del terreno, poi si avvicinava poco soddisfatto, lo spostava di qualche centimetro, gli girava intorno a lungo meditabondo, e infine, come convinto di chissà che, faceva cenno di riprendere il gioco. Altre volte ancora, quando gli riusciva di avere il pallone fra i piedi, faceva allontanare tutti, e lo calciava in porta con tutta la forza che aveva: poi si volgeva radioso al pubblico che mugghiava di rabbia, e salutava a lungo stringendosi le mani al di sopra del capo come un pugile vittorioso; Era peraltro rigorosamente imparziale; In queste condizioni, la partita (che fu meritatamente vinta dai polacchi) si trascinò per oltre due ore, fin verso le sei di sera; e si sarebbe protratta probabilmente fino a notte se fosse dipeso solo dal capitano, che non si preoccupava minimamente dell' orario, si comportava sul campo come il Padrone dopo Dio, e da quella sua malintesa funzione di direttore di gioco sembrava ricavare un divertimento folle e inesauribile. Ma verso il tramonto il cielo si oscurò rapidamente, e quando caddero le prime gocce di pioggia fu fischiata la fine. La pioggia divenne in breve un diluvio: Bogucice era lontana, ripari per via non ce n' erano, e ritornammo in baracca fradici. Il giorno dopo stavo male, di un male che rimase a lungo misterioso; Non riuscivo più a respirare liberamente. Sembrava che nella corsa dei miei polmoni ci fosse un arresto, un dolore acutissimo, una puntura profonda, localizzata da qualche parte sopra lo stomaco, ma dietro, vicino alla schiena; e mi impediva di attingere aria oltre un certo segno; E questo segno scendeva, di giorno in giorno, di ora in ora; la razione d' aria che mi era concessa si riduceva con una progressione lenta e costante che mi atterriva. Il terzo giorno non potevo più fare alcun movimento; il quarto, giacevo sulla branda supino, immobile, col respiro brevissimo e frequente come quello dei cani accaldati.

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A quel tempo era in completo abbandono: era costituita da due carreggiate laterali, in terra nuda, destinate ai cavalli, e da una centrale, già asfaltata ma allora sconvolta dalle esplosioni e dai cingoli dei mezzi corazzati, e quindi poco diversa dalle altre due. Percorre una sterminata pianura, quasi priva di centri abitati, e perciò è costituita da lunghissimi tronconi rettilinei: fra Sluzk e Staryje Doroghi c' era una sola curva appena accennata. Eravamo partiti con una certa baldanza: il tempo era splendido, eravamo abbastanza ben nutriti, e l' idea di una lunga camminata nel cuore di quel leggendario paese, le paludi del Pripet, aveva in sé un certo fascino. Ma mutammo opinione ben presto. In nessuna altra parte d' Europa, credo, può accadere di camminare per dieci ore, e di trovarsi sempre allo stesso posto, come in un incubo: di avere sempre davanti a sé la strada diritta fino all' orizzonte, sempre ai due lati steppa e foresta, e sempre alle spalle altra strada fino all' orizzonte opposto, come la scia di una nave; e non villaggi, non case, non un fumo, non una pietra miliare che in qualche modo segnali che un po' di spazio è pure stato conquistato; e non incontrare anima viva, se non voli di cornacchie, e qualche falco che incrocia pigramente nel vento. Dopo qualche ora di marcia, la nostra colonna, inizialmente compatta, si snodava ormai per due o tre chilometri. In coda procedeva una carretta militare russa, tirata da due cavalli e guidata da un sottufficiale corrucciato e mostruoso: aveva perso in battaglia le due labbra, e dal naso al mento il suo viso era un teschio terrificante. Avrebbe dovuto, penso, raccogliere gli esausti: si occupava invece diligentemente di recuperare i bagagli che a mano a mano venivano abbandonati sulla pista da gente che per la stanchezza rinunciava a portarli oltre. Per un poco ci illudemmo che li avrebbe restituiti all' arrivo: ma il primo che provò ad arrestarsi e ad attendere la carretta fu accolto con urla, schiocchi di frusta e minacce inarticolate. In questo modo finirono i due volumi di ostetricia, che costituivano di gran lunga la parte più pesante del mio bagaglio personale. Al tramonto, il nostro gruppo procedeva ormai isolato. Camminavano accanto a me il mite e paziente Leonardo; Daniele, zoppicante ed inferocito dalla sete e dalla stanchezza; il signor Unverdorben, con un suo amico triestino; e Cesare, naturalmente. Ci arrestammo a prendere fiato all' unica curva che interrompeva la fiera monotonia della strada; c' era una capanna scoperchiata, forse l' unico resto visibile di un villaggio spazzato dalla guerra. Dietro, scoprimmo un pozzo, a cui ci dissetammo con voluttà. Eravamo stanchi e avevamo i piedi gonfi e piagati. Io avevo perso da tempo le mie scarpe da arcivescovo, ed avevo ereditato da chissà chi un paio di scarpette da ciclista, leggere come piume; ma mi andavano strette, ed ero costretto a toglierle ad intervalli e a camminare scalzo. Tenemmo un breve consiglio: e se quello ci faceva camminare tutta la notte? Non ci sarebbe stato da stupirsene: una volta a Katowice i russi ci avevano fatto scaricare stivali da un treno per ventiquattr' ore filate, e anche loro lavoravano con noi. Perché non imboscarci? A Staryje Doroghi saremmo arrivati con tutta calma il giorno dopo, il russo ruolini per fare un appello non ne aveva sicuro, la notte si annunciava tiepida, acqua ce n' era, e qualcosa per cena, fra tutti e sei, non molto, ne avevamo. La capanna era in rovina, ma un po' di tetto per ripararci dalla rugiada c' era ancora. _ Benissimo, _ disse Cesare. _ Io ci sto. Per stasera, io mi voglio fare una gallinella arrostita. Così ci nascondemmo nel bosco finché la carretta con lo scheletro non fu passata, aspettammo che gli ultimi ritardatari se ne fossero andati dal pozzo, e prendemmo possesso del nostro luogo di bivacco. Stendemmo a terra le coperte, aprimmo i sacchi, accendemmo un fuoco, e cominciammo a preparare la cena, con pane, "kasa" di miglio e una scatola di piselli. _ Ma quale cena, _ disse Cesare; _ ma quali piselli. Voi non avete capito bene. Io stasera voglio fare festa, e mi voglio fare una gallinella arrostita. Cesare è un uomo indomabile: già me n' ero potuto convincere girando con lui i mercati di Katowice. Fu inutile rappresentargli che trovare un pollo di notte, in mezzo alle paludi del Pripet, senza sapere il russo e senza soldi per pagarlo, era un proposito insensato. Fu vano offrirgli doppia razione di "kasa" purché stesse quieto. _ Voi statevene con la vostra cascetta: io la gallina me la vado a cercare da solo, ma poi non mi vedete più. Saluto voi e i russi e la baracca, e me ne vado, e torno in Italia da solo. Magari passando per il Giappone. Fu allora che mi offrii di accompagnarlo. Non tanto per la gallina o per le minacce: ma voglio bene a Cesare, e mi piace vederlo al lavoro. _ Bravo, Lapé, _ mi disse Cesare. Lapé sono io: così mi ha battezzato Cesare in tempi remoti, e così tuttora mi chiama, per la ragione seguente. Come è noto, in Lager avevamo i capelli rasati; alla liberazione, dopo un anno di rasatura, a tutti, e a me in specie, i capelli erano ricresciuti curiosamente lisci e morbidi: a quel tempo i miei erano ancora molto corti, e Cesare sosteneva che gli ricordavano la pelliccia di coniglio. Ora "coniglio", anzi, "pelle di coniglio", nel gergo merceologico di cui Cesare è esperto, si dice appunto Lapé. Daniele invece, il barbuto e ispido e aggrondato Daniele, assetato di vendetta e di giustizia come un antico profeta, si chiamava Corallì: perché, diceva Cesare, se piovono coralline (perline di vetro) te le infili tutte. _ Bravo, Lapé, _ mi disse: e mi spiegò il suo piano. Cesare è infatti un uomo dai folli propositi, ma li persegue poi con molto senso pratico. La gallina non se l' era sognata: dalla capanna, in direzione nord, aveva svagato un sentiero ben battuto, e quindi recente. Era probabile che conducesse a un villaggio: ora, se c' era un villaggio, c' erano anche le galline. Uscimmo all' aperto: era ormai quasi buio, e Cesare aveva ragione. Sul ciglio di una appena percettibile ondulazione del terreno, a forse due chilometri di distanza, fra tronco e tronco, si vedeva brillare un lumino. Così partimmo, inciampando in mezzo agli sterpi, inseguiti da sciami di voraci zanzare; portavamo con noi la sola merce di scambio di cui il nostro gruppo fosse risultato disposto a separarsi: i nostri sei piatti, comuni piatti di terraglia che i russi avevano a suo tempo distribuiti come casermaggio. Camminavamo nel buio, attenti a non perdere il sentiero, e gridavamo a intervalli. Dal villaggio non rispondeva nessuno. Quando fummo a un centinaio di metri, Cesare si fermò, prese fiato, e gridò: _ Ahò; a russacchiotti. Siamo amici. Italianski. Ce l' avreste una gallinella da vendere? _ Questa volta la risposta venne: un lampo nel buio, un colpo secco, e il miagolio di una pallottola, qualche metro sopra alle nostre teste. Io mi coricai a terra, pianino per non rompere i piatti; ma Cesare era inferocito, e restò in piedi: _ A li morté: ve l' ho detto che siamo amici. Figli di una buona donna, e fateci parlare. Una gallinella, vogliamo. Mica siamo banditi, mica siamo dòicce: italianski siamo! Non ci furono altre fucilate, e già si intravvedevano profili umani sul ciglio dell' altura. Ci avvicinammo cautamente, Cesare avanti, che continuava il suo discorso persuasivo, e io dietro, pronto a buttarmi per terra un' altra volta. Arrivammo finalmente al villaggio. Non erano più di cinque o sei case di legno intorno a una minuscola piazza, e su questa, ad attenderci, stava l' intera popolazione, una trentina di persone, in maggioranza contadine anziane, poi bimbi, cani, tutti in visibile allarme. Emergeva fra la piccola folla un gran vecchio barbuto, quello della fucilata: teneva ancora il moschetto a bilanci-arm. Cesare considerava ormai esaurita la sua parte, che era quella strategica, e mi richiamò ai miei doveri. _ Tocca a te, adesso. Cosa aspetti? Dài, spiegagli che siamo italiani, che non vogliamo far male a nessuno, e che vogliamo comperare una gallina da fare arrostire. Quella gente ci considerava con curiosità diffidente. Sembrava si fossero persuasi che, quantunque vestiti come due evasi, non dovevamo essere pericolosi. Le vecchiette avevano smesso di schiamazzare, ed anche i cani si erano acquietati. Il vecchio col fucile ci rivolgeva delle domande che non capivamo: io di russo non so che un centinaio di parole, e nessuna di esse si attagliava alla situazione, ad eccezione di "italianski". Così ripetei "italianski" diverse volte, finché il vecchio non cominciò a sua volta a dire "italianski" a beneficio dei circostanti. Intanto Cesare, più concreto, aveva cavato i piatti dal sacco, ne aveva disposto cinque bene in vista a terra come al mercato, e teneva il sesto in mano, dandogli stecche sull' orlo con l' unghia per far sentire che suonava giusto. Le contadine guardavano, divertite e incuriosite. _ Tarelki, _ disse una. _ Tarelki, da! _ risposi io, lieto di avere appreso il nome della merce che offrivamo: al che una di loro tese una mano esitante verso il piatto che Cesare andava mostrando. _ Eh, che ti credi? _ disse questi, ritirandolo vivamente: _ Mica li regaliamo _. E si rivolse a me inviperito: insomma, cosa aspettavo a chiedere la gallina in cambio? A cosa servivano i miei studi? Ero molto imbarazzato. Il russo, dicono, è una lingua indoeuropea, e i polli dovevano essere noti ai nostri comuni progenitori in epoca certamente anteriore alla loro suddivisione nelle varie famiglie etniche moderne. "His fretus", vale a dire su questi bei fondamenti, provai a dire "pollo" e "uccello" in tutti i modi a me noti, ma non ottenni alcun risultato visibile. Anche Cesare era perplesso. Cesare, nel suo intimo, non si era mai fatto pienamente capace che i tedeschi parlassero il tedesco, e i russi il russo, altro che per una stravagante malignità; era poi persuaso in cuor suo che solo per un raffinamento di questa stessa malignità essi pretendessero di non comprendere l' italiano. Malignità, o estrema e scandalosa ignoranza: aperta barbarie. Altre possibilità non c' erano. Perciò la sua perplessità andava rapidamente volgendosi in rabbia. Borbottava e bestemmiava. Possibile che fosse tanto difficile capire cosa è una gallina, e che volevamo barattarla contro sei piatti? Una gallina, di quelle che vanno in giro beccando, razzolando e facendo "coccodè": e senza molta fiducia, torvo e ingrugnato, si esibì in una pessima imitazione delle abitudini dei polli, accovacciandosi per terra, raspando con un piede e poi con l' altro, e beccando qua e là con la mano a cuneo. Tra una imprecazione e l' altra, faceva anche "coccodè": ma, come è noto, questa interpretazione del verso gallinesco è altamente convenzionale; circola esclusivamente in Italia, e non ha corso altrove. Perciò il risultato fu nullo. Ci guardavano con occhi attoniti, e certamente ci prendevano per matti. Perché, per quale scopo, eravamo arrivati dai confini della terra a fare misteriose buffonate sulla loro piazza? Ormai furibondo, Cesare si sforzò perfino di fare l' uovo, e intanto li insultava in modi fantasiosi, rendendo così anche più oscuro il senso della sua rappresentazione. Allo spettacolo improprio, il chiacchiericcio delle comari salì di un' ottava, e si trasformò in un brusio di vespaio disturbato. Quando vidi che una delle vecchiette si avvicinava al barbone, e gli parlava nervosamente guardando dalla nostra parte, mi resi conto che la situazione era compromessa. Feci rialzare Cesare dalla sue innaturali positure, lo calmai, e con lui mi avvicinai all' uomo. Gli dissi: _ Prego, per favore, _ e lo condussi vicino a una finestra, da cui la luce di una lanterna illuminava abbastanza bene un rettangolo di terreno. Qui, penosamente conscio di molti sguardi sospettosi, disegnai per terra una gallina, completa di tutti i suoi attributi, compreso un uovo a tergo per eccesso di specificazione. Poi mi rialzai e dissi: _ Voi piatti. Noi mangiare. Seguì una breve consultazione; poi scaturì dal capannello una vecchia dagli occhi scintillanti di gioia e di arguzia: fece due passi avanti, e con voce squillante pronunziò: _ Kura! Kùritsa! Era molto fiera e contenta di essere stata lei a risolvere l' enigma. Da tutte le parti esplosero risate e applausi, e voci "kùritsa, kùritsa!": e anche noi battemmo le mani, presi dal gioco e dall' entusiasmo generale. La vecchina si inchinò, come una attrice al termine della sua parte; sparì e ricomparve dopo pochi minuti con una gallina in mano, già spennata. La fece dondolare burlescamente sotto il naso di Cesare, come controprova; e come vide che questi reagiva positivamente, allentò la presa, raccolse i piatti e se li portò via. Cesare, che se ne intende perché a suo tempo teneva banchetto a Porta Portese, mi assicurò che la curizetta era abbastanza grassa, e valeva i nostri sei piatti; la riportammo in baracca, svegliammo i compagni che già si erano addormentati, riaccendemmo il fuoco, cucinammo il pollo e lo mangiammo in mano, perché i piatti non li avevamo più.

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Non c' erano sentieri, non tracce di boscaioli, nulla: solo silenzio, abbandono, e tronchi in tutte le direzioni, tronchi pallidi di betulle, rosso-bruni di conifere, slanciati verticalmente verso il cielo invisibile; e altrettanto invisibile era il suolo, coperto da uno spesso strato di foglie morte e di aghi, e da cespi di sottobosco selvaggio alto fino alla cintura. La prima volta che vi penetrai, imparai a mie spese, con sorpresa e spavento, che il rischio di "perdersi nel bosco" non esiste solo nelle fiabe. Avevo camminato per circa un' ora, orientandomi alla meglio col sole, visibile qua e là dove i rami erano meno fitti; ma poi il cielo si coprì minacciando pioggia, e quando volli tornare mi resi conto di avere perduto il nord. Muschio sui tronchi? ce n' era da ogni lato. Mi avviai nella direzione che più mi pareva giusta: ma dopo un lungo e penoso cammino fra i rovi e gli sterpi mi trovavo in un punto altrettanto indefinito quanto quello da cui mi ero mosso. Camminai ancora per ore, sempre più stanco e inquieto, fin quasi al tramonto: e già pensavo che se anche i compagni fossero venuti a cercarmi, non mi avrebbero trovato, o solo dopo giorni, stremato dalla fame, forse già morto. Quando la luce del giorno cominciò a impallidire, si levarono sciami di grosse zanzare affamate, e di altri insetti che non saprei definire, grossi e duri come pallottole da fucile, che saettavano fra tronco e tronco alla cieca picchiandomi in faccia. Allora decisi di partire davanti a me, all' ingrosso verso nord (e cioè lasciandomi sulla sinistra un tratto di cielo leggermente più luminoso, che doveva corrispondere al ponente), e di marciare senza più fermarmi finché non avessi incontrato la grande strada, o comunque un sentiero o una traccia. Procedetti così nel lunghissimo crepuscolo della estate settentrionale, fin quasi al buio completo, ormai in preda a un orgasmo panico, alla paura antichissima delle tenebre, del bosco e del vuoto. Malgrado la stanchezza, provavo un impulso violento a buttarmi in corsa davanti a me, in una direzione qualsiasi, e di correre finché avessi forza e fiato. Udii ad un tratto il fischio di un treno: avevo dunque la ferrovia sulla mia destra, mentre, secondo la rappresentazione che mi ero fatta, avrebbe dovuto essere molto lontana sulla sinistra. Stavo dunque andando dalla parte sbagliata. Seguendo il fragore del treno, raggiunsi la strada ferrata prima di notte, e seguendo i binari luccicanti in direzione dell' Orsa Minore ricomparsa fra le nuvole, arrivai a salvamento prima a Staryje Doroghi, indi alla Casa Rossa. Ma c' era chi nella foresta si era trasferito, e vi abitava: il primo era stato Cantarella, uno dei "rumeni", che si era scoperta la vocazione dell' eremita. Cantarella era un marinaio calabrese di altissima statura e di magrezza ascetica, taciturno e misantropo. Si era costruita una capanna di tronchi e di frasche a mezz' ora dal campo, e qui viveva in solitudine selvaggia, vestito soltanto di un perizoma. Era un contemplativo, ma non un ozioso: esercitava una curiosa attività sacerdotale. Possedeva un martello e una specie di rozza incudine, che aveva ricavato da un residuato di guerra e incastrato in un ceppo: con questi strumenti, e con vecchie latte di conserva, fabbricava pentole e padelle con grande abilità e diligenza religiosa. Le fabbricava su commissione, per le nuove convivenze. Quando, nella nostra variegata comunità, un uomo e una donna risolvevano di fare vita comune, e sentivano quindi il bisogno di un minimo di suppellettile per mettere su casa, andavano da Cantarella, tenendosi per mano. Lui, senza fare domande, si metteva al lavoro, e in poco più di un' ora, con sapienti colpi di martello, piegava e ribatteva lamiere nelle forme che i coniugi desideravano. Non chiedeva compenso, ma accettava doni in natura, pane, formaggio, uova; così il matrimonio era celebrato, e così Cantarella viveva. C' erano anche altri abitatori del bosco: me ne accorsi un giorno, seguendo a caso un sentiero che si addentrava verso ponente, rettilineo e ben segnato, e che non avevo notato fino allora. Portava in una regione del bosco particolarmente fitta, si infilava in una vecchia trincea e finiva alla porta di una casamatta di tronchi, quasi totalmente interrata: sporgevano dal suolo solo il tetto e un camino. Spinsi la porta, che cedette: dentro non c' era nessuno, ma il luogo era evidentemente abitato. Sul pavimento di terra nuda (ma spazzato e pulito) c' era una stufetta, dei piatti, una gavetta militare; in un angolo, un giaciglio di fieno; appesi alle pareti, abiti femminili e fotografie di uomini. Ritornai al campo, e scopersi di essere il solo a non saperlo: nella casamatta, notoriamente, vivevano due donne tedesche. Erano due ausiliarie della Wehrmacht, che non erano riuscite a seguire i tedeschi in rotta ed erano rimaste isolate negli spazi russi. Dei russi avevano paura, e non si erano consegnate: avevano vissuto per mesi precariamente, di piccoli furti, di erbe, di prostituzione saltuaria e furtiva a favore degli inglesi e dei francesi che prima di noi avevano occupato la Casa Rossa; finché lo stanziamento italiano aveva portato loro prosperità e sicurezza. Le donne, nella nostra colonia, erano poche, non più di duecento, e quasi tutte avevano presto trovato una sistemazione stabile: non erano più disponibili. Perciò, per un numero imprecisato di italiani, andare "dalle ragazze del bosco" era diventata una consuetudine, e l' unica alternativa al celibato. Una alternativa ricca di un fascino complesso: perché la faccenda era segreta e vagamente pericolosa (assai più per le donne che per loro, in verità); perché le ragazze erano straniere e mezze inselvatichite; perché erano in stato di bisogno, e quindi si aveva l' impressione esaltante di "proteggerle"; e per lo scenario fiabesco-esotico di quegli incontri. Non solo Cantarella, ma anche il Velletrano nel bosco aveva ritrovato se stesso. L' esperimento di trapiantare nella civiltà un "uomo selvatico" è stato tentato più volte, spesso con ottimo esito, a dimostrare la fondamentale unità della specie umana; nel Velletrano si realizzava l' esperienza inversa, poiché, originario delle vie sovraffollate di Trastevere, si era ritrasformato in uomo selvaggio con mirabile facilità. In realtà, molto civile non doveva essere stato mai. Il Velletrano era un ebreo sulla trentina, reduce da Auschwitz. Doveva avere costituito un problema per il funzionario del Lager addetto ai tatuaggi, perché entrambi i suoi avambracci muscolosi erano fittamente coperti da tatuaggi preesistenti: i nomi delle sue donne, come mi spiegò Cesare, che lo conosceva da un pezzo, e che mi precisò che il Velletrano non si chiamava Velletrano, e neppure era nato a Velletri, ma ci era stato a balia. Non pernottava quasi mai alla Casa Rossa: viveva nella foresta, scalzo e seminudo. Viveva come i nostri lontani progenitori: tendeva trappole alle lepri e alle volpi, si arrampicava sugli alberi per nidi, abbatteva le tortore a sassate, e non disdegnava i pollai dei casolari più lontani; raccoglieva funghi, e bacche tenute generalmente per incommestibili, e a sera non era raro incontrarlo nelle vicinanze del campo, accovacciato sui talloni davanti a un gran fuoco, su cui, cantando rozzamente, arrostiva la preda della giornata. Dormiva poi sulla nuda terra, coricato accanto alle braci. Ma, poiché era figlio d' uomo tuttavia, perseguiva a suo modo la virtù e la conoscenza, e perfezionava di giorno in giorno le sue arti e i suoi strumenti: si fabbricò un coltello, poi una zagaglia e un' ascia, e se ne avesse avuto il tempo, non dubito che avrebbe riscoperto l' agricoltura e la pastorizia. Quando la giornata era stata buona, si faceva socievole e conviviale: attraverso Cesare, che si prestava volentieri a presentarlo come un fenomeno da fiera, e a raccontarne le leggendarie avventure precedenti, invitava tutti quanti a omerici festini di carni abbrustolire, e se qualcuno ricusava diventava cattivo e tirava fuori il coltello. Dopo alcuni giorni di pioggia, e altri di sole e di vento, nel bosco i funghi e i mirtilli crebbero con tale abbondanza da diventare interessanti non più sotto l' aspetto puramente georgico e sportivo, ma sotto quello utilitario. Tutti, prese le opportune precauzioni per non smarrire la via del ritorno, passavamo intere giornate alla raccolta. I mirtilli, in arbusti molto più alti di quelli nostrani, erano grossi quasi come nocciole, e saporiti: ne portavamo al campo a chili, e tentammo perfino (ma invano) di farne fermentare il succo in vino. Quanto ai funghi, se ne trovavano di due varietà: alcuni erano normali porcini, gustosi e sicuramente commestibili; gli altri erano simili a questi come forma e come odore, ma più grossi e legnosi e di colori alquanto diversi. Nessuno di noi era certo che questi fossero mangerecci; d' altra parte, si poteva forse lasciarli marcire nel bosco? Non si poteva: eravamo tutti mal nutriti, e inoltre era ancora troppo recente in noi la memoria della fame di Auschwitz, e si era mutata in un violento stimolo mentale, che ci obbligava a riempirci lo stomaco a oltranza e ci vietava imperiosamente di rinunciare a qualsiasi occasione di mangiare. Cesare ne raccolse una buona quantità, e li fece bollire secondo prescrizioni e cautele a me ignote, aggiungendo all' intingolo vodka e aglio comperati al villaggio, che "ammazzano tutti i veleni". Poi, lui stesso ne mangiò, ma poco, e ne offrì un pochino a molta gente, in modo da limitare il rischio e da disporre di una abbondante casistica per il giorno dopo. Il giorno dopo fece il giro delle camerate, e non era mai stato tanto cerimonioso e sollecito: _ Come sta, sora Elvira? Come va, don Vincenzo? Avete dormito bene? Avete passato una buona nottata? _ e intanto li guardava in faccia con occhio clinico. Stavano tutti benissimo, i funghi strani si potevano mangiare. Per i più pigri e i più ricchi, non era necessario andare nel bosco per trovare "extra" alimentari. Presto i contatti commerciali fra il villaggio di Staryje Doroghi e noi ospiti della Casa Rossa si fecero intensi. Ogni mattina arrivavano contadine con ceste e secchi; sedevano a terra, e stavano immobili per ore in attesa dei clienti. Se veniva uno scroscio di pioggia, non si muovevano dal luogo, ma soltanto si ribattevano le sottane sopra il capo. I russi fecero due o tre tentativi di cacciarle via, affissero due o tre manifesti bilingui che minacciavano ai contraenti pene di insensata severità, poi, come d' abitudine, si disinteressarono della questione, e i baratti continuarono indisturbati. Erano contadine vecchie e giovani: quelle, abbigliate al modo tradizionale, con giacche e gonne trapunte e imbottite e il fazzoletto legato sul capo; queste, in leggere vesti di cotone, per lo più scalze, franche, ardite e pronte al riso, ma non sfrontate. Oltre ai funghi, ai mirtilli e ai lamponi, vendevano latte, formaggio, uova, polli, verdura e frutta, e accettavano in cambio pesce, pane, tabacco, e qualsiasi capo di vestiario o pezzo di tessuto, anche il più lacero e logoro; anche rubli, naturalmente, da chi ancora ne aveva. Cesare in breve le conobbe tutte, specialmente le giovani. Andavo spesso con lui dalle russe, per assistere alle loro interessanti contrattazioni. Non intendo già negare l' utilità che in un rapporto di affari si parli la stessa lingua, ma, per esperienza, posso affermare che questa condizione non è strettamente necessaria: ognuno dei due sa bene che cosa l' altro desidera, non conosce inizialmente l' intensità di tale desiderio, rispettivamente di comperare e di vendere, ma la deduce con ottima approssimazione dalla espressione del viso dell' altro, dai suoi gesti e dal numero delle sue repliche. Ecco Cesare, che di buon mattino si presenta al mercato con un pesce. Cerca e trova la Irina, sua coetanea ed amica, le cui simpatie si è conquistato tempo addietro battezzandola "Greta Garbo" e regalandole una matita: Irina ha una mucca e vende latte, "molokò"; anzi, spesso, alla sera, tornando dal pascolo, si ferma davanti alla Casa Rossa e munge il latte direttamente nei recipienti della sua clientela. Questa mattina si tratta di concordare quanto latte valga il pesce di Cesare: Cesare mostra una pentola da due litri (è di quelle di Cantarella, e Cesare la ha rilevata da un "ménage" scioltosi per incompatibilità), e fa segno colla mano tesa, palmo all' ingiù, che la intende piena. Irina ride, e risponde con parole vivaci e armoniose, probabilmente contumelie; allontana con uno schiaffo la mano di Cesare, e segna con due dita la parete della pentola a metà altezza. Ora tocca a Cesare indignarsi: brandisce il pesce (non manomesso), lo libra in aria per la coda con enorme sforzo, come se pesasse venti chili, dice: _ Questa è una ribbona! _ poi lo fa scorrere sotto il naso di Irina per tutta la sua lunghezza, e così facendo chiude gli occhi e inspira lungamente aria, come inebriato dal profumo. Profittando dell' attimo in cui Cesare ha gli occhi chiusi, rapida come un gatto Irina gli strappa il pesce, ne stacca netta la testa coi denti candidi, e sbatte il corpo flaccido e mutilato in faccia a Cesare, con tutta la notevole forza di cui dispone. Poi, per non rovinare l' amicizia e la trattativa, tocca la pentola a tre quarti di altezza: un litro e mezzo. Cesare, mezzo stordito dal colpo, brontola con voce cavernosa: _ Séeee: e come te metti? _ e aggiunge altre galanterie oscene idonee a restaurare il suo onore virile; poi però accetta l' ultima offerta di Irina, e le lascia il pesce, che quella divora seduta stante. Dovevamo ritrovare la vorace Irina più tardi, a diverse riprese, in un contesto piuttosto imbarazzante per noi latini, in tutto normale per lei. In una radura del bosco, a metà distanza fra il villaggio e il campo, era il bagno pubblico, che non manca in alcun villaggio russo, e che a Staryje Doroghi funzionava a giorni alterni per i russi e per noi. Era un capannone di legno, con dentro due lunghe panche di pietra, e sparse ovunque tinozze di zinco di varia misura. Alla parete, rubinetti con acqua fredda e calda a volontà. Non era invece a volontà il sapone, che veniva distribuito con molta parsimonia nello spogliatoio. Il funzionario addetto alla distribuzione del sapone era Irina. Stava a un tavolino con sopra un panetto di sapone grigiastro e puzzolente, e teneva in mano un coltello. Ci si spogliava, si affidavano gli abiti alla disinfezione, e ci si metteva in fila completamente nudi davanti al tavolo di Irina. In queste sue mansioni di pubblico ufficiale, la ragazza era serissima e incorruttibile: colla fronte aggrottata per l' attenzione e la lingua infantilmente stretta fra i denti, tagliava una fettina di sapone per ogni aspirante al bagno: un po' più sottile per i magri, un po' più spessa per i grassi, non so se a ciò comandata, o se mossa da una inconscia esigenza di giustizia distributiva. Neppure un muscolo del suo viso trasaliva alle impertinenze dei clienti più sguaiati. Dopo il bagno, bisognava ricuperare i propri abiti nella camera di disinfezione: e questa era un' altra sorpresa del regime di Staryje Doroghi. La camera era scaldata a 120ä: quando ci dissero per la prima volta che occorreva entrarvi personalmente a ritirare i panni, ci guardammo perplessi: i russi sono fatti di bronzo, lo avevamo visto in più occasioni, ma noi no, e saremmo andati arrosto. Poi qualcuno provò, e si vide che l' impresa non era terribile come sembrava, purché si adottassero le seguenti precauzioni: entrare ben bagnati; sapere già in precedenza il numero del proprio attaccapanni; prendere fiato abbondante prima di passare la porta, e poi non respirare più; non toccare alcun oggetto metallico; e soprattutto fare in fretta. Gli abiti disinfettati presentavano interessanti fenomeni: cadaveri di pidocchi esplosi, stranamente deformati; penne stilografiche di ebanite, dimenticate nel taschino da qualche benestante, contorte e col cappuccio saldato; mozziconi di candela fusi e imbevuti nel tessuto; un uovo, lasciato in una tasca a scopo sperimentale, screpolato ed essiccato in una massa cornea, tuttavia ancora commestibile. Ma i due bagnini russi entravano e uscivano dalla fornace con indifferenza, come le salamandre della leggenda. I giorni di Staryje Doroghi passavano così, in una interminabile indolenza, sonnolenta e benefica come una lunga vacanza, rotta solo a intervalli dal pensiero doloroso della casa lontana, e dall' incanto della natura ritrovata. Era vano rivolgersi ai russi del Comando per sapere perché non ritornavamo, quando saremmo ritornati, per che via, quale avvenire ci attendeva: non ne sapevano più di noi, oppure, con candore cortese, ci elargivano risposte fantasiose o terrificanti o insensate. Che non c' erano treni; o che stava per scoppiare la guerra con l' America; o che presto ci mandavano a lavorare in kolchoz; o che aspettavano di scambiarci con prigionieri russi in Italia. Ci annunciavano queste o altre enormità senza odio né derisione, anzi, con sollecitudine quasi affettuosa, come si parla ai bambini che fanno troppe domande, per farli stare tranquilli. In realtà, non comprendevano quella nostra fretta di tornare a casa: non avevamo da mangiare e da dormire? Che cosa ci mancava, a Staryje Doroghi? Non avevamo neppure da lavorare; e forse che loro, soldati dell' Armata Rossa, che avevano fatto quattro anni di guerra, e l' avevano vinta, si lamentavano di non essere ancora tornati a casa? Tornavano infatti a casa alla spicciolata, lentamente, e, secondo le apparenze, in un disordine estremo. Lo spettacolo della smobilitazione russa, che già avevamo ammirato alla stazione di Katowice, proseguiva ora in altra forma sotto i nostri occhi, giorno per giorno; non più per ferrovia, ma lungo la strada davanti alla Casa Rossa, passavano brandelli dell' esercito vincitore, da ovest verso est, in drappelli chiusi o sparsi, a tutte le ore del giorno e della notte. Passavano uomini a piedi, spesso scalzi e con le scarpe in spalla per risparmiare le suole, perché il cammino era lungo: in divisa o no, armati o disarmati, alcuni cantando baldanzosamente, altri terrei e sfiniti. Alcuni portavano a spalle sacchi o valige; altri, gli arnesi più disparati, una sedia imbottita, una lampada a piede, pentole di rame, una radio, un orologio a pendolo. Altri passavano su carretti, o a cavallo; altri ancora, in motocicletta, a stormi, ebbri di velocità, con fragore infernale. Passavano autocarri Dodge di fabbricazione americana, gremiti di uomini fin sul cofano e sui parafanghi; alcuni trascinavano un rimorchio altrettanto gremito. Vedemmo uno di questi rimorchi viaggiare su tre ruote: al posto della quarta era stato assicurato alla meglio un pino, in posizione obliqua, in modo che una estremità appoggiasse sul suolo strisciandovi. A mano a mano che questa si consumava per l' attrito, il tronco veniva spinto più in basso, così da mantenere il veicolo in equilibrio. Quasi davanti alla Casa Rossa, una delle tre gomme superstiti si afflosciò; gli occupanti, una ventina, scesero, ribaltarono il rimorchio fuori di strada, e si cacciarono a loro volta sull' autocarro già zeppo, che ripartì in un nugolo di polvere mentre tutti gridavano "Hurrà". Passavano anche, tutti sovraccarichi, altri insoliti veicoli: trattori agricoli, furgoni postali, autobus tedeschi già addetti alle linee urbane, che ancora portavano le targhe coi nomi dei capilinea di Berlino: alcuni già in avaria, e trainati da altri automezzi o da cavalli. Verso i primi di agosto, questa migrazione molteplice prese a mutare insensibilmente natura. A poco a poco, sui veicoli cominciarono a prevalere i cavalli: dopo una settimana, non si vide più altro che questi, la strada apparteneva a loro. Dovevano essere tutti i cavalli della Germania occupata, a decine di migliaia al giorno: passavano interminabilmente, in una nuvola di mosche e di tafani e di acuto odore ferino, stanchi, sudati, affamati; erano sospinti e incitati con grida e colpi di frusta da ragazze, una ogni cento e più animali, esse pure a cavallo, senza sella, a gambe nude, accaldate e scarmigliate. A sera, spingevano i cavalli nelle praterie e nei boschi ai lati della strada, perché pascolassero in libertà e si riposassero fino all' alba. C' erano cavalli da tiro, cavalli da corsa, muli, giumente col puledro alla poppa, vecchi ronzini anchilosati, somari; ci accorgemmo presto non solo che non erano contati, ma che le mandriane non si curavano per nulla delle bestie che uscivano di strada perché stanche o ammalate o azzoppate, né di quelle che si smarrivano durante la notte. I cavalli erano tanti e poi tanti: che importanza poteva avere che ne arrivasse a destinazione uno di più o uno di meno? Ma per noi, pressoché digiuni di carne da diciotto mesi, un cavallo di più o uno di meno aveva una enorme importanza. Chi aprì la caccia fu, naturalmente, il Velletrano: venne a svegliarci un mattino, insanguinato da capo a piedi, e teneva ancora in mano l' arma primordiale di cui si era servito, una scheggia di granata legata con cinghie di cuoio in cima a un randello biforcuto. Dal sopraluogo che facemmo (poiché il Velletrano non era molto bravo a spiegarsi a parole) risultò che egli aveva dato il colpo di grazia a un cavallo probabilmente già in agonia: il povero animale aveva un aspetto sommamente equivoco, la pancia gonfia che suonava come un tamburo, la bava alla bocca; e doveva avere scalciato tutta la notte, in preda a chissà quali tormenti, poiché, sdraiato su un fianco, aveva scavato con gli zoccoli nell' erba due profondi semicerchi di terra bruna. Ma lo mangiammo ugualmente. In seguito, si costituirono diverse coppie di cacciatori-beccai specializzati, che non si accontentavano più di abbattere i cavalli malati o dispersi, ma sceglievano i più grassi, li facevano deliberatamente uscire dalla mandria e li uccidevano poi nel bosco. Agivano di preferenza alle prime luci dell' alba: uno copriva con un panno gli occhi dell' animale, e l' altro gli vibrava il colpo mortale (ma non sempre) sulla cervice. Fu un periodo di assurda abbondanza: c' era carne di cavallo per tutti, senza alcuna limitazione, gratis; tutt' al più, i cacciatori chiedevano per un cavallo morto due o tre razioni di tabacco. In tutti gli angoli del bosco, e quando pioveva anche nei corridoi e nei sottoscala della Casa Rossa, si vedevano uomini e donne affaccendati a cuocere enormi bistecche di cavallo coi funghi: senza le quali, noi reduci da Auschwitz avremmo tardato ancora molti mesi a riacquistare le nostre forze. Neppure di questo saccheggio i russi del Comando si diedero il minimo pensiero. Vi fu un solo intervento russo, e una sola punizione: verso la fine del passaggio, quando già la carne di cavallo scarseggiava e il prezzo tendeva a salire, uno della congrega di San Vittore ebbe l' improntitudine di aprire una macelleria vera e propria, in uno dei molti stambugi della Casa Rossa. Questa iniziativa ai russi non piacque, non fu chiaro se per ragioni igieniche o morali: il colpevole venne pubblicamente redarguito, dichiarato "cort (diavolo), parazìt, spjekulànt", e cacciato in cella. Non era una punizione molto severa: alla cella, per oscure ragioni, forse per burocratico atavismo di un tempo in cui i prigionieri dovevano essere stati a lungo in numero di tre, spettavano tre razioni alimentari al giorno. Che i detenuti fossero nove, o uno, o nessuno, non importava: le razioni erano sempre tre. Così il macellaio abusivo uscì di cella allo scadere della pena, dopo dieci giorni di sovralimentazione, grasso come un maiale e pieno di gioia di vivere.

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