Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandono

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Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 6 occorrenze

Poi rinvenendo come da un sogno vedeva nettamente la serie delle volgarità inevitabili a tale passione, forse la più pericolosa per gli uomini d'ingegno, perché contro di essa non valgono appunto né forza di pensiero né finezza di sentimento; ma capiva pure che l'unico modo di salvezza sarebbe stato nel cangiar paese per qualche tempo, mentre tale muta confessione di sconfitta faceva sanguinare il suo orgoglio più di qualunque umiliante abbandono. Lelio aveva appena ventiquattro anni. Il suo disprezzo per le ordinarie passioni dei suoi compagni era dunque piuttosto una posa che una vera virtù di combattimento; giacché solo più innanzi negli anni, e seguitando nello studio assiderante dell'anatomia sopra tutti i sentimenti umani, avrebbe poi attinto l'orgoglio impassibile dei grandi artisti così simile a quello dei grandi navigatori. L'indomani scrisse invece alla principessa scioccamente: "Il capolavoro è appena cominciato; aiutatemi a finirlo". Per due giorni attese indarno la risposta. Allora tornò dalla contessa Ghigi e negli altri due o tre saloni dove poteva incontrare la principessa: infatti ella vi era già, corteggiata da tutti, in uno sfolgorio di grazia e di spirito, che eccitava nuove ammirazioni. Egli sospettò subito di un altro amante, ma non scorse che il principino tornato a Bologna per introdurre la moglie nell'alta società. Invece era stato per entrambi un vero disastro. La baronessa tedesca, alta, con una faccia quasi di uomo, malgrado la sceltissima educazione, era riuscita a tutti insoffribile: le donne l'odiavano per i suoi milioni compiangendo il principino, che gli uomini e la principessa, questa volta passata dal loro canto, giudicavano spregevole per la stessa ragione. Ella era inesauribile di frizzi sulla canonichessa, come aveva subito battezzata la rivale, ed inventava i più perfidi aneddoti sulle sue esigenze di moglie. Solo la contessa Ghigi dall'alto della propria bellezza difendeva la straniera. - Essa sarà una virtù: il principe aveva bisogno di trovare una donna simile. - Badate, contessa, che la frase non sia troppo esatta - insinuò malignamente il conte Turolla. Ella comprese allora il doppio senso delle proprie parole. - Le virtù sono belle - disse la principessa Irma. - Per questo vi è un piacere così irresistibile a farle perdere. - Ah! ma tacete, siete orribili voi altri uomini colle vostre massime. - Credete che anche il principe diventerà un grande virtuoso? - chiese Lelio. - Perché no? - Infatti gli basterà per questo rimanerle fedele. Il motto era così mordace che la principessa Irma gli si volse sorridendo. La loro amicizia tornava quindi a riscaldarsi, ma l'altra, accecata da una inesplicabile rivalità contro la cultura forse troppo vantata della canonichessa, seguitava a tradirsi. - È già annunziato un suo articolo sul Vascello fantasma: badate, signor Fornari, voi che non siete un wagneriano. - Come! - gli gridarono tutti, benché lo sapessero già, ma in quell'anno l'entusiasmo per Wagner arrivava alle esagerazioni di un'ultima moda nella buona società. - Appunto perché tutta la musica di Wagner è una musica di fantasmi: gettatele dentro un raggio di sole e non rimarranno di quelle nebbie che poche gocce di rugiada. - Perle! - ribatté la principessa Irma. - Anzi lagrime, questa grande parola di tutti i romanticismi, perché anche Wagner è un romantico. E la discussione deviò, ma Lelio vi aveva ottenuto di attirare sopra di sé l'attenzione generale. - Il vostro libro? - ella gli chiese poco dopo. Si parlavano in piedi: ella era scollacciata colle braccia nude, brune di una peluria finissima, e un grande occhio di tigre brillantato nei capelli. Il lungo strascico dell'abito nero pareva farla più grande. Egli corretto dentro la marsina la fissava con occhi febbricitanti; per un attimo fu il più forte, quindi nel farle un complimento le si chinò sul seno quasi a respirarne il profumo, ma allora un sorriso sfiorò le labbra della dama. - Come siete!... - egli esclamò volgarmente con quella sincerità di bramosia alla quale le donne sono quasi sempre sensibili. - Avete bisogno di me per un capitolo? - Vi trascinerò fino in fondo al libro. - Ah! sapete già anticipatamente la fine? quale orrore! - sogghignò malignamente. - Irma, se non scappi ti do un bacio qui. - Scemo! - Te lo do. - Me ne vado. Egli la seguì; nel secondo gabinetto, pei fumatori, non v'era alcuno; allora improvvisamente, violentemente le si attaccò colla bocca sopra una spalla. Ella acconsentì tutto colla bella testa arrovesciata, muta, rivolgendosi già per tornare nel salone, mentre la coda lunga dell'abito le strisciava dietro sul tappeto con un fruscìo sommesso. Fin dal primo appuntamento la battaglia era scoppiata con una veemenza d'incendio. Quei cinque mesi di assenza parevano aver accumulato dentro di loro le energie di una nuova giovinezza, ma ella risorgeva sempre più provocante da ogni prostrazione di un minuto, con quell'appagamento insaziato della donna, che per seguitare a volere non ha nemmeno bisogno di seguitare a sentire. Infatti certe sue dissolutezze avevano l'acredine di una sfida, cui l'altro rispondeva nell'orgasmo dei propri ventiquattro anni. Eppure non si amavano; egli non era geloso, ella non s'inquietava di nulla, ma uguali nella tempra della giovinezza potevano abbastanza contendere nella disparità dell'ingegno e della posizione perché quella lotta sensuale durasse ancora qualche tempo. Nullameno una medesima dolente passione di non sapere amare li spingeva così freneticamente l'uno nelle braccia dell'altro quasi a frugarsi dentro l'anima, attraverso le carni, nella folle speranza di trovarvi finalmente il secreto di quell'amore, senza cui il piacere rimane sempre così al disotto della felicità. Intanto per un tacito accordo, suggerito da una stessa condizione di spirito, non s'interrogavano mai al di là del presente, divorandolo più festosamente nella coscienza secreta della sua brevità. Lelio però aveva una pretensione, che durante quel periodo ella non potesse accettare la corte di nessun altro: doveva essere questo il suo trionfo, la originalità del ricordo, che ne resterebbe ad entrambi, perché Lelio medesimo avrebbe dovuto serbarle per forza quella specie di fedeltà; poi un bel giorno o in una notte anche più bella, prima che l'amabile ingannatrice si fosse decisa a tradirlo, egli l'abbandonerebbe bruscamente. Ma certi sintomi gli davano a pensare: ella non gli aveva ancora offerto alcun regalo, nemmeno di quelle quisquiglie che le donne prodigano sempre. Voleva essa così risparmiare delicatamente il suo orgoglio di gentiluomo povero? O in quella inimicizia, risorgente fra loro da tutti gli abbandoni più voluttuosi, cercava piuttosto di avere con lui meno addentellati per balzare più agile in una improvvisa rottura? Lelio aveva creduto di riconoscere fra i suoi piccoli gioielli abituali, a certe preferenze o a certe frasi, parecchi regali di altri amanti conservati poi per gradevolezza di ricordi o di uso. A lui solo non aveva mai chiesto nulla: valeva egli meno per lei? Forse anche meno di un vestito, come si era vantato di provarle in quella scommessa? Allora lo riprendeva più dolorosa la collera di non poterla amare malgrado tutta la frenesia dei trasporti, nei quali perdeva naturalmente più di quanto ricevesse. Questa micidiale superiorità della donna lo irritava talvolta sino all'odio di sè medesimo. Perché cedere così il sangue più puro della propria giovinezza? Quella donna non l'avrebbe abbandonato forse in quel medesimo carnevale, dimenticandolo per sempre, fra la turba volgare degli altri amanti? Non era lei la vincitrice, che poteva passare la vita nei piaceri senza perdervi nulla di più importante? Colla abitudine critica di ogni vero artista egli aveva già analizzato abbastanza bene la propria passione; era una frenesia di sensi e di vanità, una forza composta di due debolezze, e profezia forse di una debolezza peggiore. Altri illustri erano caduti in quella stessa passione brutale della femmina, e vi erano morti. Da Shakspeare a Byron, da Molière a Goethe, da Heine a Garibaldi, quale triste odissea di grandi teste singhiozzanti sopra ginocchia aperte a tutto il volgo! Era sempre la stessa tragedia provocata da misteriose ed irresistibili affinità, un vizio che cresceva in un corpo e ne guastava l'anima, distruggendo quasi sempre la vita di entrambi. Forse tutti quei grandi avevano cominciato come lui, con una sensualità o una galanteria, poi l'abitudine si era fatta forte, ed era scoppiata la frenesia di amare nello sforzo impossibile di voler essere amato; e mentre la donna, forse incolpevole a forza di essere inintelligente, seguitava a discendere nelle bassure degli amori senza nome, essi le si attaccavano alle gonne piangendo di adorazione e di vergogna. Intanto quell'avventura diventata pubblica cominciava a nuocergli seriamente, alcuni amici insinuavano con delicata malignità ch'egli non avrebbe potuto durarvi per mancanza di danaro, altri più apertamente dicevano già che la principessa doveva avergliene dato: lo si sorvegliava nelle spese, si valutavano minuziosamente tutte le sue nuove eleganze. Al club pareva una intesa per comprometterlo con ogni sorta d'inviti. Una volta per una partita di caccia alla volpe nella tenuta di un ricco conte, e alla quale la principessa Irma doveva partecipare con quasi tutti gli eleganti del suo circolo e molti ufficiali di cavalleria, egli cercò invano una scusa onorevole per rimanerne fuori: non aveva cavallo. Un ufficiale con gentilezza insidiosa gliene offerse uno dei propri. - Come! le fanno dunque paura i cavalli? - Lelio ebbe la debolezza di arrossire. - No - rispose alteramente. - Ma dunque, signor Fornari, lei non sa montare? - intervenne la principessa. - Una cosa che sanno fare anche i marinai. - Lo sapessi pure, non monterei che un cavallo mio. - Siete così puritano in fatto di bestie? - Tutti sorrisero. Egli le serbò rancore, ma per quanto si fosse giurato di non entrare più in quel salone, vi andò la sera stessa del ritorno dalla caccia; ella sfolgorante di brio e di felicità parve non accorgersi di lui. Lelio invece non l'aveva mai veduta così tentatrice: cercò di affettare l'indifferenza, ma il suo orgoglio soffriva troppo di non potersene nemmeno andare senza una specie di abdicazione, perché vi riuscisse. Quella sera il principe Giulio, cacciatore solamente da uccelli, quindi un po' trascurato fra tutti quei racconti di galoppi e di salti, gli venne incontro. La loro conversazione durò troppo: la canonichessa ne fece l'osservazione in francese come della più bizzarra avventura nel carnevale, l'amante che perdendo la moglie si metteva per consolazione a corteggiare il marito, e Lelio l'apprese poco dopo dal conte Turolla. In quel momento il principino scherzava colla principessa Irma. La canonichessa gelosa impallidì: allora Lelio, che le si era già avvicinato per pungerla con qualche motto crudele, colto da un senso improvviso di pietà verso quella brutta donna, colpita come lui al cuore da una stessa ingiustizia, uscì dal salone. Questa volta era ben deciso a ritornare in campagna, subito, per riguadagnarvi, lavorando, il tempo perduto. Nullameno passarono ancora alcuni giorni, poi la rivide ad un concerto, e la sera medesima sedendole accanto nel palchetto ella si mise a premergli un piede. La mutevole creatura rideva pazzamente di un ufficiale, il più brutto del reggimento, che le faceva dalla barcaccia una corte troppo palese. - Giulio, lo vedi? - si volse al marito. - Oh! sono tranquillo sul conto suo. Infatti il principe doveva andare a Roma l'indomani per restarvi una settimana. - Bada, è troppo bello. La volgarità di questi scherzi ripugnava a Lelio, che ritirò il piede sotto il divano: ella bruscamente si volse a guardare altrove, ma l'indomani si videro per strada. Egli l'accompagnò un tratto. - Venite alla festa della canonichessa? - Non sono invitato. Ella ne fece le meraviglie. - Ah! non siete wagneriano. - Voi andrete certamente. - Sì, da sola... Sono sola sola in casa. Il suo sorriso aveva la solita lubricità, poi si passò rapidamente la punta della lingua sulle labbra. - Invitatemi a pranzo - l'altro proruppe. - Perché sono sola? - Egli capì tosto che acconsentiva. - Trovate un pretesto. - Se non è che questo! Siccome è la prima festa della canonichessa, e vi sarà tutta Bologna, avrete certamente un abito nuovo per eclissare tutte le signore. Verrò a vederlo. Ma si pentì subito dopo di averlo trovato sentendo come fosse volgare. - Sì, è veramente bello! - esclamò la donnina con uno scoppio di orgoglio infantile. Alle cinque e mezzo Lelio in marsina e cravatta bianca entrava trionfalmente nel salotto della principessa, perché a casa aveva trovato un invito per la festa da ballo. La principessa si turbò. - Allora il pretesto non serve più. Se lo sapessero! - Fammi vedere l'abito. - Non vi mostro niente. Il dibattito durò dieci minuti, ma siccome il cameriere entrava nel gabinetto per avvisare che la signora era servita, Lelio troncò ogni difficoltà col chiederle sfacciatamente d'essere invitato a pranzo, e le offerse il braccio. Il pranzo modestissimo era mal servito: ella stava contegnosa, egli disinvolto faceva dello spirito accorgendosi di riuscirle sempre più seccante. Perché? Aveva ella calcolato sulla sua assenza in quella festa, o si pentiva già di compromettersi troppo con quel pranzo, sola con lui, in faccia a tutti i domestici? Allora Lelio si fece vile: conoscendo la sua debolezza per i complimenti si profuse in frasi dolci, piene di scurrili allusioni, e finì per raccontare scherzosamente tutta la storia di un amante, che la contessa Ghigi, la divina impeccabile, avrebbe finalmente trovato in un ufficiale di artiglieria. Ella non lo credeva, ma i particolari erano così minuti e scabrosi che dovette riderne per forza. Poi tornarono un momento nel gabinetto a prendere il caffè. Pareva ridivenuta allegra. Improvvisamente Lelio, inginocchiandosele innanzi per baciarla sulla cintura, le chiese il permesso di assistere alla sua toeletta con Clelia, la cameriera di confidenza, che, al corrente di tutto da un pezzo, non ne avrebbe fatto alcuna meraviglia. Ella gli pose per risposta la mano sulla bocca. - Se invece della festa rimanessimo qui insieme fino alle undici? Poi tu vai a letto ed io faccio altrettanto: lo faresti per me un simile sacrificio? - La proposta era così stravagante che l'altra non la comprese nemmeno. - Vattene, è già tardi. - No, ti aspetterò qui. Voglio vederti prima di tutti gli altri. Ella non badò al tono freddo di quelle parole. Appena rimasto solo, Lelio si voltò verso lo specchio e vi si scorse livido di collera: il gabinetto poco illuminato da una lampada sopra un alto piede dorato, coperta di trine, pareva più piccolo; egli le sollevò dalla grossa palla di vetro appannato gettandole sopra una poltroncina, e in quella luce più viva tornò a guardarsi. Eppure gli pareva d'essere bello, almeno più che il principe Giulio e quell'altro della canonichessa, dalla quale aveva così tardi e forse a stento ricevuto l'invito alla festa. Perché dunque la principessa Irma non lo amava? La puerilità di questa dimanda, che non avrebbe osato rivolgere a nessun altro, in quel momento lo fece soffrire. La sua anima degna di più alte passioni si trovò daccapo in quel gabinetto minuscolo, di un lusso raffinato ed insignificante come la vita della donna, dietro la quale egli si perdeva da un anno; si rammentò tutto, il primo incontro, la gita a Cà de' Varchi, la scena violenta dietro al fienile, tutta la serie dei minimi drammi, i ripicchi, le carezze, i delirii della carne nella più torrida arsura della passione, quando si abbracciavano così strettamente che avrebbero potuto credere per un istante di non lasciarsi più. Poi tutto finiva un istante dopo per ricominciare ancora in una alternativa di luci e di ombre, mentre un gran vuoto gli si allargava in cuore e il cervello spossato gli si intorpidiva sotto una nebbia pesante. Perché durava ancora quella meschina novella, buona tutto al più per raccontarsi in poche pagine? Intanto egli era ancora lì ad attendere fanciullescamente la principessa trionfante nell'abito nuovo, che le avrebbe attirato gli omaggi di nuove passioni. Se ella invece lo avesse amato, quale deliziosa circostanza quella assenza del marito, e come si sarebbero sentiti entrambi felici di rinunziare alla festa per trascorrere insieme la sera, fors'anche la notte, arrischiando per questa beatitudine di poche ore magari tutta la vita! Ella intenta ad abbigliarsi non pensava invece più a lui in tal momento, perché appena incomincia per una signora la toeletta da ballo, questo solo diventa l'amante, e ogni altro scompare. Lelio aveva acceso una sigaretta quantunque sapesse che la principessa non permetteva mai di fumare nel proprio gabinetto; quindi si era gettato sopra un divano. Poi consultò l'orologio, non erano che le otto e mezzo. Quanto impiegherebbe ella a vestirsi? Per un momento ebbe quasi voglia di andarsene. Che cosa faceva lì? Non gli sarebbe toccato di uscire peggio, solo, a piedi, mentre l'altra monterebbe nella propria carrozza, giacché per nulla al mondo ella avrebbe consentito a farsi accompagnare da lui al ballo? Per così segnalato favore Lelio avrebbe dovuto essere per lo meno il principino; allora il mondo non vi avrebbe trovato nulla a ridire, ma un borghese come lui l'avrebbe resa ridicola. Il mondo riconosce parecchie categorie negli amanti come in ogni altra classe di funzionari. E l'idea di un amore profondo, tenace, con una dama bella ed elegante, che avesse potuto comprendere almeno in parte i bisogni della sua anima e la grandezza dei suoi ideali d'artista, gli appariva dentro la magia di un quadro dalle tinte delicate sopra un fondo misterioso; egli vi si sarebbe sentito più uomo nella forte calma della fede inspirata ad un'altra anima, colla soavità di un abbandono, che lo avrebbe riposato dalle virili fatiche del pensiero. Che cosa direbbe suo padre vedendolo in tal momento ad aspettare come un valletto che la principessa fosse vestita? Gettò la sigaretta e tornò a camminare. Era stanco, irritato di quella attesa troppo lunga anche per un vero amante, e nullameno senza gran cosa di anormale, dacché la festa cominciava alle dieci, e la toeletta di una signora non può in simili casi durare meno di qualche ora. Istintivamente si cercò un libro intorno, fuori nevicava. Egli aveva lasciato la pelliccia in anticamera, ma andando alla festa avrebbe avuto bisogno di trovare subito un fiacre per non sporcarsi le scarpe. Questa preoccupazione gli suggerì di chiamare un servo, che glielo andasse a cercare, poi improvvisamente diventò timido e non l'osò. Che avrebbe pensato costui? Daccapo si distrasse: quindi un altro più meschino pensiero lo fece sorridere quasi con gioia nella speranza che l'abito della principessa fosse brutto e non le attirasse che l'ironia delle signore; sarebbe stata sempre una piccola rivincita per lui, che a quella festa non avrebbe avuto alcuna importanza. Ma gli ultimi quarti d'ora furono addirittura convulsi. Finalmente intese un fruscìo. Ella entrò sorridente col viso in alto: aveva sulla testa un diadema e al collo una collana di oro massiccio ad anella e piastrine, qualche cosa di barbaro e di elegante come il diadema e la collana di Elena, che il dottore Schliemann aveva pochi mesi prima scoperto in Grecia, e già diventati di moda a Parigi. La sua bella testa di gitana ne acquistava un'aria bizzarra d'impero. Rimase un istante sull'uscio quasi incorniciata dalle sue modanature in legno pallido; aveva il busto di un rosso cupo a ricami dorati e, sotto, una campana di merletti rugginosi egualmente ricamati d'oro le copriva la sottana, della quale lo strascico si perdeva al di fuori. Ella s'avanzò guardandolo negli occhi per cogliervi il primo lampo di ammirazione, ma appena nel gabinetto si voltò allo specchio. Un odore acuto di sandalo era entrato con lei. Lelio taceva: allora ella trionfante gli sorrise nello specchio. Le sue spalle brune, nude, parevano più delicate sotto quella pesante fornitura d'oro, senza una gemma, e tutto quell'oro nel busto e nella gonna, che le accendeva intorno una strana fosforescenza. Un'idea passò lampeggiando nel cervello di Lelio. Ella sorrideva ancora. Lelio chinò lievemente la testa al suo sorriso e, affettando la massima circospezione, poiché lo strascico del vestito riempiva quasi tutto il gabinetto, le si accostò per di dietro colle labbra tese per deporle un bacio sulla spalla sinistra. La sua testa spuntò dallo sfondo lucente del cristallo, altrettanto bella, forse più pallida nell'abito nero e sopra quella camicia bianca come la porcellana, mentre ella si aggiustava un riccio sotto il diadema; ma Lelio nel piegarsi per darle il bacio traballò improvvisamente incespicando nell'abito, così che per balzare indietro ne sfondò con un piede la campana dei merletti. Lo stridore della seta lacerandosi anch'essa per oltre la metà della loro altezza fece voltare la principessa, che urtò quasi colla testa in quella di Lelio; era diventata verde come i propri occhi, cogli occhi sfolgoranti. - Villano! - gridò raccogliendo nella mano la strappatura. Lelio attese che rialzasse il capo; i suoi sguardi si urtarono allora in quelli della principessa umidi di lagrime. - Avete perduto la scommessa. Nell'ira di quel dolore ella non comprese nemmeno. - Clelia! - esclamò. - Eppure ve lo aveva detto che non avrei mai avuto per voi il valore di un abito! - soggiunse Lelio tristamente. Ma l'altra l'interruppe con un gesto di disprezzo così violento che l'altro dovette indietreggiare; ella rimaneva sempre così piegata colla strappatura fra le mani. Allora Lelio, che nell'iracondo pentimento di quella vittoria stava per rispondere una ingiuria grossolana, le si inchinò freddamente e, prima ancora che la cameriera accorresse, uscì dal gabinetto. Fuori la neve seguitava a cadere. - Dove vai? - lo chiamò una voce amica all'angolo di via Farini. - sei di ballo? - No. Ho mutato pensiero - rispose abbottonando solamente allora la pelliccia, sotto la quale l'altro aveva veduto il piastrone e la cravatta bianca. - Allora vieni con me, abbiamo una cena con cinque o sei sgualdrine del teatro Brunetti. Staremo allegri. Almeno quelle sono donne che si conoscono prima; non c'è pericolo di essere ingannati. - Tanto peggio, mio caro! - replicò l'altro. E si lasciò trascinare.

Una malinconia di abbandono come un anticipo della tristezza che lo aspettava alla villa in compagnia del vecchio padre, prostrava in quel momento tutto il suo orgoglio giovanile. - Hai freddo stamane: che ti faccia accendere il fuoco? - ella si volse gaiamente. - Allora io parto oggi stesso - egli disse. - Subito! Lelio le si avvicinò, la prese delicatamente fra le braccia come per piantarsela dentro alle carni, e si mosse per fuggire. - Lelio! - ella lo richiamò dal divano sul quale era caduta: - qui, in ginocchio. Promettetemi, bel signorino, che in tutti questi mesi non mi tradirete con nessuna contadina. - E tu con nessun principe. - Insolente! - ribatté con un lieve rossore alla fronte. - Addio, amore. - Addio, principessa.

Suo padre, verniciatore di qualche merito, era morto prestissimo: sua madre, rimasta vedova, dopo aver fatto di tutto per vivere bene aveva dovuto morire nel più triste abbandono all'ospedale. Egli se ne ricordava perfettamente insieme ad altre cose della mamma, secreti sospettati sino da fanciullo, indovinati da ragazzo poi risaputi giovinotto da lei stessa con quell'accorante cinismo di poveri che non nascondono più nulla perché hanno perduto ogni speranza. Ma egli resisteva. Indarno la vita quotidiana gl'insudiciava ogni giorno più quei ricordi colla propria esperienza, o talvolta incontrando un'antica conoscenza di casa, qualche artigiano o qualche signore, una scena oltraggiosa per la memoria della mamma, un motto, un particolare che non avrebbe osato ridire con alcuno, gli balenavano improvvisi ed accecanti al pensiero, giacché la gentilezza della sua natura trionfava egualmente di tutto. - Povera mamma! - mormorava in cuore. Poi una ragazza lo innamorò, e allora lasciandosi riprendere dal sogno di essere un bravo pittore vestito di velluto, colla cassetta sotto il braccio, l'ixa nel bastone, viaggiando per le campagne verso le città, festeggiato ed amato dappertutto, la sua stessa statura non gli piacque più. Avrebbe voluto essere più alto, pallido e bello, giacché era talmente brutto che doveva in parte convenirne; ma invece della grande ricchezza si sarebbe sentito più felice solamente col danaro per vivere libero ed elegante in una piccola gloria. Quindi le storielle avventurose dei vecchi romanzi sugli artisti gli trottavano pazzamente pel capo, sebbene non avesse mai posto piede in uno studio di pittore, o deciso almeno di mettersi a studiare l'arte sul serio. Era stato molti anni garzone nella stessa bottega, resa nota dal padre e subito dopo la sua morte rivenduta dalla mamma senza nemmeno giungere ad intascarne il prezzo; ma garzone indisciplinato che perdeva le ore per strada e non aveva mai saputo tirare un filetto sopra una ruota; si fece presto cacciare. Poi morta la mamma entrò impiegato in una bottega di droghiere, ne fu espulso, mutò padrone, cangiò mestiere, sempre allegro e svogliato, finché la vecchia arte, come egli diceva con un sorriso, lo riattirò trasformandolo in imbianchino. Aveva trovato un eccellente amico in un compagno ed un buon principale. Per parecchio tempo lavorò tranquillo, quindi capitò un altro guaio. Una seconda ragazza lo innamorò. La ragazza, bella sartina, civettuola ed elegante, dichiarò che non avrebbe mai accettato per amoroso un imbianchino col berretto di carta bianca e il vestitone di rigatino turchiniccio schizzato di colori: allora egli s'improvvisò pittore di stanze ed altro, ma quantunque si vestisse meglio e parlasse sempre in italiano, tutto fu inutile: la ragazza non volle saperne. Egli rimase pittore. Il suo primo lavoro fu la riquadratura di una bottega con un rosone nel mezzo della volta, dalla quale scendeva il lume a petrolio. Il fumo della lampada vi mise un po' di chiaroscuro intorno, la bottega era buia e il rosone passò. In seguito dipinse qualche paesaggio sulle pareti delle bettole, molti cartelli, alcune insegne, persino dei ritratti che non somigliavano a nessuno; però il guadagno era sempre scarso, e quando il bisogno urgeva più doloroso, egli andava dietro un vicolo scuro, dove nella cantonata di una vecchia casa s'inabissava il bugigattolo di uno scrivano, per farvi delle copie. Così aveva le miserie di tutte le arti. Ultimamente emigrando di quartiere in quartiere, di granaio in granaio, era capitato nell'antico palazzo Lambertini. I padroni, una famiglia di canepini che vivevano lassù strettamente, quantunque guadagnassero abbastanza bene nel loro mestiere, gli fornirono la stanza con un letto, un cassettone, un portacatino in ferro collo specchio: ce n'era d'avanzo. Il cavalletto da pittore aggiungeva tutti gli altri significati. La soffitta vasta, col tetto inclinato e le travi grosse come quelle di un bastimento, sarebbe bastata da sola a più di una famiglia: d'inverno l'acqua vi gelava nella brocca, d'estate il sole vi faceva screpolare il cassettone; i mattoni del pavimento erano rotti, i vetri della finestra scompagnati, ma tutti questi difetti sparivano dinanzi a due grandi vantaggi. Rispondeva coll'uscio sulla scala e si abbelliva nella parete dicontro al letto di un antico ritratto di matrona. La sua cornice ancora dorata riverberava in certe notti di luna, l'abito cremisi della vecchia signora sembrava quasi nuovo in alcune pieghe, mentre l'ombra coagulatasi nel fondo del quadro dava come una tristezza più pensierosa al giallore opaco della sua fronte. Non si capiva bene se fosse in piedi o seduta, ma in ogni modo il suo busto scollacciato dignitosamente sino alla sommità del seno stava eretto e il superbo atteggiamento della testa sormontata da una piuma bianca le induriva alquanto la bonarietà grassa della fisonomia. Egli lo spazzolò accuratamente il primo giorno pensando di copiarlo, poi non lo fece. Un'altra volta, a secco di quattrini da molti giorni e non avendo quindi pranzato, pensò di venderlo, giacché il ritratto dimenticato nella soffitta dai vari rivenditori del palazzo evidentemente non apparteneva più ad alcuno. La notte fredda e ventosa urlava alla finestra. Egli aveva bighellonato tutto il giorno cercando qualche lavoro inutilmente: non si era incontrato in un amico, non aveva fermato una donna. Una tramontana frizzante levatasi nel pomeriggio assiderava le vie, ma sebbene i suoi calzoni avessero le pillacchere e il soprabito balenasse al gomito e al bavaro non poteva cangiarli. Era venuta la sera senza mangiare, il digiuno filava verso le quarant'otto ore. Egli si prese davanti i calzoni in una mano e li strinse. Da tutti gli usci dei caffè uscivano folate calde, su dalle finestre, dalle porte delle osterie irrompevano odori mordaci di cucina, mentre la gente, più frettolosa del solito, urtando lo destava dalle sue distrazioni di affamato. Era tornato a casa per accendere la pipa e cenare così; il tabacco gli fece bene. Quindi ravvoltolato strettamente fra le coperte, lanciando boccate di fumo come un camino, si mise a considerare fantasticamente quel ritratto. Chi era? Che cosa le era accaduto nella sua vita di quattrocento anni fa? Aveva avuto degli amanti? Tutti i suoi discendenti erano morti? La immaginazione eccitata dalla fame cominciò a battere la campagna attraverso il passato radunando le più strane novelle, i più inconciliabili aneddoti intorno a quel ritratto, finché a poco a poco la stanchezza lo vinse e la gioventù trionfando del digiuno lo addormentò. Per qualche minuto la pipa proseguì a fumare innocuamente fra le lenzuola, poi si spense, la candela poco più che a mezzo durò un'altra ora. Sognò. La soffitta rimaneva sempre la stessa, la candela agonizzava fumando: egli era triste, colla testa affondata melanconicamente nel cuscino, quando gli parve d'intendere un fruscio di seta. Qualcuno era entrato. Era una bella fanciulla dal viso pallido, vestita con rara eleganza, che si dirigeva sorridendo verso la vecchia signora: questa discese dal quadro e le gettò amorosamente le braccia al collo. Poi avevano parlato. In quel momento la vecchia signora sembrava ringiovanita; i suoi occhi grigi brillavano di bontà, la piuma bianca della sua fronte tremava come del sorriso della sua bocca, ma egli non poteva più ricordarsi le loro parole; solamente gli rimaneva il ricordo confuso di un riconoscimento, qualche cosa di drammatico fra le due donne che si ritrovavano finalmente dopo parecchi secoli di assenza. La bella fanciulla era anche più commossa; i magnifici capelli biondi le si scuotevano fra un nimbo dorato sopra la fronte di un pallore meraviglioso. Egli nascosto sotto le coperte cercava di farsi più piccolo per non essere veduto, tendendo l'orecchio ad ogni accento con una angoscia di curiosità che gli acuiva orribilmente le sofferenze della fame. Poi la ragazza uscì senza guardarlo ed egli vide daccapo la vecchia signora immobile nel proprio ritratto. Che cosa si erano detto? La fanciulla era una sua discendente? Perché era entrata in quella notte, sola ed elegante, per uscire così presto? E a poco a poco credette di indovinarlo. Quella fanciulla nobile e ricca era sola come lui; una mestizia desolata, quell'abbandono inconsolabile degli orfani come lui, senza amore nel passato e senza alcuno da amare nel presente, l'avevano spinta fuori del proprio palazzo in cerca di una mamma o di una nonna alla quale confidare la tristezza del proprio cuore. Infatti qualche cosa rischiarava adesso la fisonomia della vecchia signora dando al suo sorriso una bontà giuliva di mistero. Perché mai lo guardava così? Avevano esse parlato di lui? La sua immaginazione eccitata dalla febbre del digiuno gli persuase che la vecchia signora aveva raccontato alla fanciulla tutta la miseria di quella sua vita d'artista col cuore vuoto come le tasche, in preda ai più strambi deliri della fame e dell'amore. Anch'egli era solo nella vita, più solo di quelli che hanno tutto perduto, giacché non aveva mai avuto nulla, aspettando sempre indarno qualche cosa o qualcuno. Ma chi era quella fanciulla? Come si chiamava? Dopo aver pensato lungamente concluse che si sarebbero riconosciuti infallibilmente in qualche luogo, poiché ella doveva averlo veduto in quella strana visita e non potrebbe così presto dimenticarlo. Un profumo delicato ed acuto era rimasto nella soffitta: egli avrebbe voluto interrogare la vecchia signora, ma un rispetto pauroso, insolito ed invincibile, glielo impediva. Ella sorrideva cogli occhi grigi. L'aria del mattino dissipò quel sogno vivificandone il ricordo così che per un pezzo non poté distrarsene. La fanciulla misteriosa, l'ideale di tutte le sue visioni, era diventata una nipote dell'antico ritratto: qualche volta nelle stravaganze del suo lungo ozio gli accadeva di uscire appositamente per incontrarla, o più spesso tornando a casa si sorprendeva a domandarsi con ostinazione incredula se non fosse già su ad aspettarlo. Poi di commissione in commissione sperò che gli capiterebbe di farle il ritratto. Egli avendo già la sua fisonomia nell'immaginazione era sicuro di non ingannarsi, ella tornerebbe con lui a trovare la nonna. Ma fra tutte queste aberrazioni e i sogni del lotto, dei cavalli che dovevano rubare la mano al cocchiere e che egli arrestava ad una cantonata salvandole la vita, delle lettere profumate che non arrivavano mai; fra le fantasmagorie di troppi romanzi che si dissolvevano nell'impossibile, il suo buon senso popolano protestava ancora. Quindi scuoteva la testa per scrollarne tutte quelle immagini, ma allora una malinconia cupa come il fondo di quel vecchio ritratto gli si addensava lentamente nel cuore. Dopo molti mesi della più rigida miseria, all'avvicinarsi dell'inverno parve che la stagione per lui migliorasse. Gli furono offerti da verniciare tutti gli usci e le finestre di un appartamento, più i portoni di una stalla e di una rimessa. Il lavoro era poco nobile, ma c'erano trenta lire da guadagnare in una settimana. Accettò allegramente. A mezzo dell'opera aveva già comprato per dieci lire un vecchio paltò, nel quale si affagottava voluttuosamente andando girelloni apposta nei primi freddi notturni lungo una qualche mura della città. La sera del sabato, finito il lavoro, ne aveva intascato il resto del prezzo: quattordici lire. Erano troppe, la testa gli girò. Venne prima a casa: voleva lavarsi, pettinarsi, mutare camicia per entrare a cena in qualche buona locanda, ma la pigrizia lo rattenne da tale grossa follìa. Invece discese in una cantina, ove si cucinava anche da bettola, e vi scialò in una cena inesauribile quasi tre lire lasciando cinque soldi di buona mano all'ostessa. Fuori l'aria era pungente: nullameno egli si sbottonò il pastrano e col cappello sulla nuca, le mani dietro la schiena si mise a camminare sbuffonchiando. I maccheroni e il vino ingollato gl'infiammavano il sangue, gli pareva che la luce del gas facesse un'aureola intorno alla testa di tutte le donne, quando passavano sotto i lampioni. Ma improvvisamente, prima ancora che questo indistinto bisogno femminino gli si acuisse nella coscienza, allo svoltare di un cantone una fanciulla che veniva correndo gli urtò col viso nel petto. Era piccina, con un fazzoletto sulla testa: ella si rattenne, trattenne una risata domandandogli scusa: egli s'imbarazzò, ma l'altra rideva, risero insieme. La fanciulla aveva il visetto aguzzo, sguaiato, e le scarpette, egli ne vide una sola, scollate malgrado il freddo della stagione. - Dove vai? - finì per chiederle famigliarmente. - E tu? - Io sono stato a cena. La ragazza accettò di andare con lui. Nel passare dinanzi ad un caffè egli la guardò bene nella faccia: era pallidissima, coi pomelli rossi dal belletto. Entrarono, egli chiese un punch bianco e le disse di ordinare tutto quello che voleva. Ella esitava. - Dopo cena, quando si è mangiato bene, non c'è che un punch - egli concluse con una specie di vanteria beata. - Un punch dunque! - ripeté la ragazza, che non aveva cenato, con una contrazione fuggevole alla bocca; ma appena bevutolo d'un fiato come una medicina parlò di andare a casa. Il suo viso era talmente sconvolto che l'altro credette le venisse male. - Sarà il punch. - Che cosa vuoi? il nostro stomaco è così leggero... - ella ribatté sordamente. Strada facendo l'aria frigida la ristorò: salirono ridendo le scale. Quando ebbero acceso la candela, la ragazza rimasta nel mezzo fece un oh! di complimento sulla grandezza e sulla decenza della soffitta. Osservò il cavalletto. - Sei pittore? - Ma la tela del cavalletto era ancora bianca. Poi d'improvviso girando gli occhi gridò: - Un ritratto!... Tu che cosa fai? Ti levi il paltò. Lo hai fatto tu il ritratto? Lasciami vedere. Ma siccome era piccola corse ad una sedia, ve la portò sotto, vi salì, e cacciando la candela sotto il naso della signora: - Chi è? - si rivolse ridendo del suo riso monellesco. - Ma se è vecchia! Guarda, guarda la piuma bianca... Stupida! le piume si mettono ai cappellini. Quindi si curvò col naso sulla tela. Egli si era già levata anche la giacca e guardava dietro le sue spalle la testa del ritratto con un ricordo involontario del sogno. - Bella questa! - ella squittì; poi sillabando: - Aloisia comitissa ux... qui è cancellato... Lambertini... Toh! il mio cognome.

L'inguaribile avvilimento dei poveri, che si rassegnano anticipatamente a sopportare tutto, lo colse come una malattia in quella giovinezza ancora così aperta a tutte le speranze della vita; al pari di sua madre morta tisica a venticinque anni, e di don Riva, che agonizzava a settanta nel più triste abbandono, egli sarebbe sempre una vittima. Già fino a quel giorno non aveva mangiato una sola volta tanto da cavarsi la fame; i suoi vestiti erano cenci di elemosina, nessuno lo amava neppure nella propria casa, ove rappresentava una speculazione fallita. La morte giovane, prima di tutti quegli inutili sforzi in una carriera, dalla quale ognuno lo respingeva, sarebbe stata la migliore fortuna. Quindi rilesse le poesie di Leopardi, cullandosi nella loro immensa tristezza senza misurarne la profondità, come talvolta errando la notte nelle tenebre aveva provato una indefinibile compiacenza di smarrimento senza chiedersi il significato di tutta quell'ombra, o che cosa potesse esservi al di là. Ogni giorno, all'ora una volta abituale del passeggio, veniva a trovare don Riva per leggergli l'Osservatore Cattolico, unica lettura della quale ancora s'interessasse, poiché i libri, diceva lui, lo avevano tradito. - Non studiare, sai. Bisogna essere ignoranti per fare carriera nella nostra classe, poi così si comprendono forse meglio le miserie dei poveri. - Voi vi siete rovinato a fare il professore di seminario, ve l'ho sempre detto - interveniva stizzosamente la vecchia sorella quasi calva, col capo coperto anche nell'estate da un fazzolettone turchino e gli occhi quasi senza palpebre, rossi fors'anche dalle troppe veglie. Ella adorava quel fratello, l'ultima persona che le restasse al mondo, col quale viveva da oltre quarant'anni. - Tacete, pettegola: quella poteva anch'essere la strada per diventare vescovo, se non avessero voluto rovinarmi per forza. Adesso il maggior tedio gli veniva dalle mosche, insistenti, ghiotte del suo sudore viscoso di ammalato. - Mi mangiano già prima che sia morto! Ma la cosa non poteva durare molto. L'idropisia gli era salita dalle gambe al ventre, gonfiandoglielo enorme sotto i lenzuoli; mentre le gote gli si scavavano in un color di cenere, e negli occhi vitrei s'irrigidiva già la fissazione spaventata dell'invisibile. Egli non aveva voluto ancora i sacramenti, credendosi sempre in tempo per riceverli, ma una mattina alle otto mandò egli stesso la sorella a chiamare il parroco don Costantino; si confessò, si comunicò piamente, piangendo qualche lagrima silenziosa, l'ultima ribellione della sua vita conculcata di professore, e si mise un crocifisso sul lenzuolo. Quando Giannino arrivò colle Giornate in mano per chiedergli il Sommario della storia d'Italia di Cesare Balbo, la fisonomia del vecchio prete era quasi serena. L'uomo cessando di lottare aveva cessato di soffrire. In quell'ombra della stanza, ammorbata dall'acre odore del decrepito materasso e delle povere lenzuola, fra le quali moriva, la sua grossa testa bianca pareva dentro un'aureola. La sorella seduta presso la finestra taceva. Giannino si sentì prendere da un sudore freddo, l'altro non mosse la testa, poi chiuse gli occhi. Il suo respiro era affannoso, gorgogliante di catarro. Il ragazzo attese nel mezzo della stanza qualche minuto, quindi si accostò alla sorella, ma questa gli fece capire tutto con un gesto. Anche la sua faccia pareva impietrita. Era la morte nella maestà senza nome del proprio mistero, senza lagrime, senza parole: nessuna commedia umana vi si agitava intorno. Egli non pensò più, tutto quanto sapeva e credeva gli dileguò improvvisamente dallo spirito, mentre i suoi occhi atoni vedevano senza guardare, e il rantolo del malato si abbassava lentamente. Questi ebbe ancora un gemito. Allora la sorella, adagio, venne col grembiule a cacciargli le mosche dal volto: anche Giannino si era appressato. Dopo qualche minuto l'altro lo riconobbe, poi chiese che gli raddrizzassero i cuscini sudici sotto la schiena, e parve star meglio. - Ero venuto... - cominciò Giannino cercando di dare alla propria voce una intonazione disinvolta per dissimulare il proprio terrore, - ho qui il libro da renderle. - Tienilo... è il legato che ti faccio - e ricadde nuovamente in quella specie di torpore. Ma questa volta vi durò qualche ora. Giannino e la sorella non parlavano, quegli per sfuggire all'angoscia di tale tensione aveva preso dal comodino uno dei libri, L'uomo sotto la legge del soprannaturale del cardinale Alimonda. Si era fatto tardi; il medico, un signore vicino, non veniva che prima di mezzogiorno o assai tardi la notte rincasando, ma aveva dichiarato che forse la cosa durerebbe ancora qualche giorno. Don Costantino occupatissimo per la festa di San Saverio, nella quale la sua chiesa avrebbe sfoggiato un ricco addobbo, era tornato sulle due dopo pranzo, e rassicurato da quella frase del medico non verrebbe più nella notte senza una chiamata. Giannino ne parlò sommessamente colla sorella, che gli rispose con quella rassegnazione ormai vicina all'indifferenza, nell'impossibilità di qualunque speranza. - È tardi? - domandò improvvisamente l'infermo agitando la testa, mentre il ragazzo stava per ritirarsi inosservato. - Sì, bisogna ch'io vada: sono le otto e mezzo. L'altro gli tese la mano con uno sforzo così spossato che Giannino cadde in ginocchio per baciarla. Un'ultima luce si accese nei grandi occhi vitrei dell'agonizzante; la sorella seduta alla finestra vide il ragazzo alzarsi quasi subito per fuggire dallo spasimo di quella emozione: il libro gli era caduto, lo raccolse vergognoso che avesse potuto sciuparsi davanti a lui, e vi soffiò sulle costole per cacciarne la polvere. - Non studiare... - ammonì ancora, spegnendosi, la voce del vecchio professore. Due giorni dopo Giannino verso le sette ritornava in città con la cotta bianca sotto il braccio, per una stradicciuola che dal cimitero passava presso il convento dei cappuccini, solo e triste dopo aver accompagnato il mortorio di don Riva. Anche il funerale era stato miserabile; avevano coperta la bara col panno sbiadito dei poveri, poi don Costantino l'aveva seguìta con altri quattro preti e poche beghine del vicinato: egli portava dinanzi la croce fra due monelli in cotta. Appena deposta la bara al cancello, don Costantino aveva mormorato in fretta le solite preghiere, e il piccolo corteo si era disperso. In quel vespero luminoso di letizia, per la larga strada da porta Montanara al cimitero, passavano molti gruppi di persone e qualche carrozza; quindi egli sfiancò per quel viottolo fra gli orti e i due bracci del canale Naviglio. La sua anima tutta piena della morte provava una strana dolcezza nella contraddizione di quel crepuscolo estivo, vibrante di sussurri e di profumi, mentre nel cielo limpido e tremulo grandi nuvole rosse sembravano isole in fiamme. Dagli orti densi di verzura e lungamente inaffiati veniva un sito terroso. Egli camminava a testa bassa rivedendo ancora nel pensiero gli ultimi istanti del morto: dov'era egli adesso? La terra, che gettavano forse in quell'istante sulla sua cassa era tutto il premio de' suoi giorni tribolati quaggiù, mentre il suo spirito salito sino a Dio aveva già ricevuto la benedizione della felicità eterna? Eppure egli sentiva con una specie di terrore che l'anima del vecchio aveva protestato amaramente sino all'ultimo minuto, come se le consolazioni della vita futura non bastassero a chiudere le cicatrici di tutta la sua vita umana. Si moriva, morivano i credenti e gl'increduli dopo essere passati sotto le medesime verghe, sparendo nel mistero: solo la religione aveva saputo accendere una lampada sul gran varco per gittare nelle tenebre dell'infinito il bagliore di qualche raggio. E in mezzo a questo trionfo continuo della morte, la vita si manteneva egualmente lieta nella pompa spensierata della propria bellezza, come se la gente e la natura non potessero mai ricordarsene. Improvvisamente ad un gomito della stradicciuola si vide venire incontro due signore, ricche negli abiti, con un servo gallonato di dietro a pochi passi. Erano madre e figlia, ma questa, forse quindicenne, camminava con una lentezza impressionante. Il suo viso piccino, rotondo, sebbene le gote fossero già un po' scavate, era di un pallore simile a quello dei vecchi ceri sugli altari; una immensa capellatura bionda, di un oro ardente, le scendeva sulle spalle, mentre coi grandi occhi azzurri, bistrati, guardava tristamente la mamma, che le parlava con tenerezza. Egli si tirò vergognoso verso il fosso per non urtarle, con uno spasimo nuovo per quella sottana così lagrimevole, dai bottoni sfilacciati e quasi sordida malgrado tutto il suo studio di tenerla pulita, ma la fanciulla accorgendosi forse della sua confusione deviò gli occhi. Quei pochi passi diventavano una immensa distanza, s'imbrogliava a camminare, colla testa bassa, guardando con inconsapevole ardimento il viso della fanciulla. Anch'essa era pallida, più di lui, irremissibilmente ammalata. Una indefinibile dolcezza le spirava intorno come se non camminasse nemmeno, così sospesa al braccio della madre, una donna alta e bella, cogli occhi neri e un battito nelle palpebre, che tradiva la dolorosa fatica per reprimere una troppo lunga emozione. Infatti quella passeggiata, a piedi, fuori dalla città, se vi ritornavano così lentamente, doveva essere per la madre la più orribile delle torture. Chi erano? Egli non le aveva mai vedute e non avrebbe saputo a chi chiederlo, ma il suo cuore si era aperto impetuosamente dinanzi all'aspetto moribondo di quella fanciulla. Nessun'altra bellezza di giovinetta o di angelo dipinto gli era mai sembrata più eterea: la sua esile ed alta figurina si disegnava appena sotto le vesti accanto al corpo così splendido e vigoroso della mamma, mentre in quell'ombra della sera le sue labbra violette lasciavano ancora vedere i denti bianchi. Quando le ebbe oltrepassate si voltò, ed arrossì vivamente, vedendo che anche la fanciulla aveva girato la testa per guardargli dietro. Che cosa pensava ella di lui? Aveva indovinato colla chiaroveggenza misteriosa degli infermi, pei quali la vita non è più che un velo, la sua profonda tristezza in quel momento, dopo aver accompagnato al cimitero il cadavere dell'unico amico? Aveva sentito che povero, abbandonato, infermo desiderava anche egli di morire? Senza rendersene conto, giacché in questo caso gliene sarebbe mancato il coraggio, ritornò sui propri passi dietro di loro: camminava adagio attardandosi nello svellere qualche germoglio dalle siepi per mantenere la distanza; il suo sguardo si attaccava ad ogni passo di quell'effimera creatura con una inesprimibile emozione, ma non vedeva che il suo abito chiaro e tutto quell'oro sulle spalle sotto un cappellino di una eleganza incomprensibile per lui, che non aveva mai osservato una donna. Ella teneva penzoloni nella mano sinistra, stancamente, un grande merletto bianco per avvolgersene il volto al primo soffio fresco. La mano era sguantata. Ci vollero venti minuti per ritornare sulla strada, che dalla porta della città conduce al cimitero: allo sbocco aspettava una magnifica carrozza con due grandi cavalli bai. Allora egli affrettò il passo inconsideratamente, e poté essere visto dalla fanciulla nel momento che i cavalli partivano al gran trotto; ma nel farla salire sul predellino con quale delicatezza la mamma aveva saputo aiutarla per nascondere agli occhi della gente la sua estrema prostrazione! Alcuni passanti avevano salutato rispettosamente. Egli tornò in fretta da quella porta entro la città, e sull'altra porta di un gran palazzo barocco sorprese fra due donnicciuole questo dialogo: - La contessina non arriverà in fondo al mese. - È tisica marcia: quasi tutti i signori sono così. - Allora la famiglia Naldi è finita. - Bel male! non hanno da morire anche i signori? La contessa vedova tornerà a maritarsi; come ama però la sua creatura!... - Poveretta! - replicò l'altra, addolcendo la voce a questa osservazione, che la toccava nelle fibre di madre. A lui sembrò di aver saputo tutto. Ma da quel giorno la sua vita interiore parve aver trovato finalmente la tenerezza consolatrice, che le era mancata sino dall'infanzia. Quella morente fra tutti gli splendori della ricchezza era una derelitta come lui: glielo aveva letto nei grandi occhi cilestri, pallidi di uno smarrimento, che si sentiva anch'egli nel cuore così spesso. Prima di coricarsi pregò anche per lei, perché la madonna la guarisse, lasciandola quaggiù come una immagine degli angeli adoranti intorno al suo trono. E a poco a poco quella tenerezza si fece più intensa: non era l'amore inevitabile a' suoi diciotto anni, quel primo fervore di tutto l'essere verso di un altro in uno slancio d'ispirazioni infinite, entusiasta e vivace come tutte le illuminazioni della fantasia; ma una passione delicata e profonda, che lo faceva vivere collo spirito di quella sconosciuta, in una confidenza fraterna e nullameno trepidante di riserve. Nessuna immagine impura, nessun volgare sottinteso turbava la serenità ardente del suo affetto. Egli non sapeva nemmeno abbastanza chiaramente che cosa fosse la donna, benché avesse dovuto studiare sui libri la torbida epopea di peccato e di espiazione per la quale essa aveva traversato il cristianesimo fino all'apoteosi di Maria. Poi la sua stessa miseria di seminarista, costretto a vivere con dieci franchi al mese, perdeva ogni dolore dinanzi alla miseria mortale di quell'altra, vacillante come un'ombra fra tutti i riverberi della ricchezza, e già vicina a sparire improvvisamente nel chiarore di un'alba. L'indomani ripassò sotto le finestre del palazzo, avventurandosi per tutta la città sino nello Stradone, un largo viale fiancheggiato di platani, all'ombra dei quali nel pomeriggio le signore uscivano a farsi vedere. Tutto fu indarno, dovettero trascorrere delle settimane prima che la rivedesse in carrozza, poi la incontrò ancora a piedi sempre così lenta, vestita di chiaro, col viso bianco dentro l'aureola dorata dei capelli. Avrebbe voluto conoscere il suo nome, ma quando lo seppe gli parve volgare, Tecla, perché sentì dolorosamente l'impossibilità di aggiungervi un diminutivo; quindi ascoltando, talvolta chiedendo imprudentemente, seppe il resto. Era l'unica figlia del conte Naldi morto tisico dopo pochi mesi di matrimonio colla contessa Crivelli. Tutta la città s'interessava del caso pietoso, perché i più illustri professori avevano già dichiarata perduta ogni speranza. Solo la madre colla sublime assurdità dell'amore confidava sempre. Ma gli esami gli caddero addosso nella prostrazione fantasiosa di quel sogno, dentro il quale oramai rimaneva chiuso, senza avere ancora potuto rendersene un conto abbastanza chiaro. Egli sapeva solo di amarla con tutta la forza dell'anima dal momento che il suo pensiero si perdeva affascinato dietro di lei. La notte ed il giorno, nel silenzio delle scuole o nelle solitudini del proprio granaio, vedendo sempre la sua esile figura di fanciulla passare lentamente cogli occhi cilestri, pallidi di quello stesso smarrimento, che si sentiva nel cuore. - Merlini, che cosa avete dunque da essere sempre così intontito? Lo sgridava talora la voce aspra del professore, mentre gli altri ridevano intorno. Egli si turbava, ma nella purezza della propria coscienza non credette nemmeno di aprirsene col confessore. Quell'anno gli esami andarono meglio, poi restò ancora due giorni in città per tentare di vederla, e la terza mattina ripartì a piedi per il villaggio. Là si ammalò. Un tifo, forse dovuto all'insalubrità del pozzo di casa, lo tenne due mesi tra la vita e la morte: il medico lo aveva spacciato, il parroco volle amministrargli i sacramenti, egli invece era quasi contento pensando che forse anch'ella stava per morire. Il loro breve viaggio, così dissimile eppure egualmente triste, finiva allo stesso modo; avevano appena traversato un lembo della terra, che Dio già impietosito della loro stanchezza li richiamava. Invece guarì. Allora provò tutte le amarezze della malattia, le prostrazioni, gli scoramenti, e soprattutto l'umiliazione della miseria, che gli contendeva di rimettersi in forza coi cibi sostanziosi prescritti dal medico. Intorno a lui il padre e le sorelle erano freddi: oramai credendolo svogliato degli studi e così poco in gambe si erano rassegnati a perderlo, quindi le querimonie scoppiarono alle spese provocate dalla malattia. Egli si sentì discusso, valutato coll'atroce discernimento dei poveri, pei quali tutto deve soggiacere alla misura del danaro. Quando ripartì ai Santi per la città pareva uno scheletro, ma l'appetito gli era tornato in un rigoglio improvviso di giovinezza. Sciaguratamente i dieci franchi al mese non gli avrebbero permesso di mangiare di più, se qualche buona fortuna di chiesa non venisse ad aggiungere loro un altro guadagno. I primi mesi furono terribili, il freddo e la fame gli attanagliarono spesso lo stomaco. Rivide la giovinetta sempre così diafana, coi capelli d'oro sulle spalle, e le guance di un pallore cinereo: forse questo poteva essere un effetto del freddo, ma i suoi occhi incontrandola gli rivelarono subito, come la prima volta, che nulla era migliorato nella sua vita di fantasma. Come la prima volta ella rivolse la testa a guardarlo, ed egli arrossì nuovamente. Essa pure cominciava ad alzarsi solo con quei primi freddi a rovescio di tutte le previsioni, che non le avevano concesso altri giorni dopo la caduta delle foglie. Naturalmente si era ingiallita in un colore d'ambra sottilmente venato: solo l'oro dei suoi capelli regali scintillava agli ultimi soli. Egli la rivide ancora, e non trascorse più giorno che almeno cinque o sei volte non passasse e ripassasse sotto le sue finestre, dacché una mattina aveva creduto di scorgerla fra due tende, altrettanto bianca, col viso ai vetri, immobile. I cristalli di un pezzo solo, purissimi, lasciavano apparire la sua figura sino alle ginocchia. Egli si arrestò di botto come dinanzi ad una di quelle sante dipinte nelle alte vetriate: i capelli d'oro le facevano sul capo un nimbo di gloria attraverso la luminosità dei cristalli, che rendeva quasi trasparenti anche i suoi abiti. Per fortuna in quel momento la strada era deserta, ma quando poté finalmente sottrarsi all'incanto di quella apparizione senza che ella lo avesse ancor veduto, per rattenere uno scoppio di pianto lì nel mezzo del Corso si disse di aver fatto una grande scoperta. Quella era dunque la sua camera? Una voce segreta, inconfutabile, glielo affermava. Infatti tornandovi tutte le sere vi scorse sempre il lume; l'indizio era tutt'altro che sicuro, ma nullameno egli si sentiva certo di non ingannarsi. Quell'anno l'inverno rigido cominciò a San Martino. Egli tormentato sempre più dalla fame aveva finalmente potuto trovare un condiscepolo, al quale ripetere le lezioni di ogni giorno, nel figlio di un calzolaio, che impietosito dalla miseria di questo nuovo maestro lo invitava tutte le sere a cena. Non era un vitto molto fine, ma abbondante come in vita sua non gli era mai capitato: poi il calzolaio gli risuolò le scarpe e sua moglie gli fece un paio di calze in grossa lana nera. Così col mantellone dell'arciprete e lo stomaco pieno non aveva più freddo, ma in quella casa lo trovarono presto svogliato. Durante le ripetizioni, cui l'altro si prestava di mala voglia, frequenti distrazioni gli facevano spesso sbagliare i temi esponendolo alle berte dello scolaro contento di potersi a quel modo mostrare superiore in faccia ai propri parenti. Era una nuova tortura più aspra della fame; poi in quella famiglia il padre ateo e la madre villana non avviavano il figlio al sacerdozio che come ad un mestiere, calcolandone anticipatamente i guadagni senza un riguardo né a se stessi né a lui. I loro discorsi osceni lo facevano soffrire nelle fibre più delicate dell'anima; nullameno resistette per quella necessità di dovere pur mangiare, e soprattutto perché le ripetizioni gli avevano fornito la scusa per ottenere dal padrone di casa la chiave della porta. La libertà gli parve immensa. Tutte le sere sulle dieci ripassava due o tre volte sotto il palazzo Naldi fermandosi a considerare lungamente quella finestra illuminata. La sua sottile ombra nera si disegnava sinistramente sulla bianchezza della neve; talvolta i passanti si voltavano meravigliati a considerarlo, e allora egli riprendeva il passo nascondendo il viso magro nell'alto bavero del mantellone, colto da un senso pauroso di vergogna al pensiero che qualcuno potesse parlarne col vescovo. Perché un seminarista giovane come lui era ancora fuori ad ora così tarda? Ma siccome all'angolo della casa di contro, prima di arrivare al palazzo, v'era una piccola Madonna di maiolica rischiarata da un lampione, tutte le sere si fermava devotamente a dirle tre Salve Regina per lei. Certamente quella neve avrebbe preso prima di sciogliersi la tenue fanciulla nella propria bianchezza per nasconderla agli occhi di tutti, lieve e pura dentro l'ombra di un'altra notte più profonda. Egli lo sapeva già con una certezza che talvolta lo faceva rabbrividire. Infatti imparò presto dalla voce di tutti che la giovinetta, da quindici giorni sdraiata sopra una poltrona nella camera della mamma prospiciente sull'ampio giardino perché non poteva stare a letto, era in fin di vita. Egli ebbe uno schianto al cuore: che cosa vi era dunque in quell'altra camera perennemente illuminata? Poi la notte degli otto dicembre, festa della Immacolata Concezione, nel passare alla solita ora vide dentro l'atrio del palazzo una carrozza bruna con due immensi fanali accesi, che lo rischiaravano come di una luce d'incendio. Nevicava fittamente, silenziosamente, a larghe falde. La neve turbinava ai vetri dei fanali con un battito di piccole ale bianche crescendo pura e fredda sulla strada: nessuno passava. Egli già tutto bianco, colle scarpe sepolte nella neve e il mantellone che vi strideva dietro ad ogni passo, si diresse verso la Madonna. Dentro quella opacità la fiamma del lampione gli parve come di lampada sepolcrale. Improvvisamente sentì un soffio più freddo negli occhi e un bisogno irresistibile d'inginocchiarsi dinanzi alla Madonna singhiozzando sotto il mantello perché nessuno potesse vederlo. Appoggiò la testa al muro e si prostrò col mantello sulla testa congiungendo disperatamente le mani: le sue orazioni salirono a quella piccola immagine quasi invisibile come una fiamma fra il pianto dirotto che gli inondava il viso. La fanciulla moriva: egli se ne accorgeva come la madre ginocchioni anche essa accanto alla poltrona. Era allucinazione? Era una di quelle misteriose visioni, che la scienza nega ancora, e che lo spirito ebbe sempre? Egli mormorava sommessamente le parole del salmista ai moribondi con lo stesso accento monotono dei preti in tali istanti, simile ad un murmure di acque, che avvallino per un fondo senza fine. Quando i ginocchi intirizziti dalla umidità della neve lo fecero rinvenire, si sentì tutto bagnato: tentò di rialzarsi colle mani al muro, ma l'impressione del freddo fu così acuta che gli fece quasi gettare un urlo. Una carrozza passò rotolando sulla neve, mentre il portone si chiudeva strepitosamente. Egli intontito di quanto aveva fatto si avviò rabbrividendo per tornare a casa; nella notte lo colse la febbre.

I FIGLI DELL'ARIA

682308
Salgari, Emilio 1 occorrenze

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