Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandono

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Questioni politico religiose

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 9 occorrenze

. - O Giacomo - proruppe con voce malata, movendo la testa con un lento abbandono, mentre colle braccia tese si attaccava al collo del giovane. - O Giacomo, perché non siamo morti noi? Giacomo impallidí. Le palpebre velarono la luce de' suoi grandi occhi cerulei. Attese che il doloroso istante passasse e sentendo a un tratto ridestarsi il suo cuore in una nuova e misteriosa dolcezza con una voce in cui scorrevano lagrime invisibili: - Oh contessa! - esclamò - c'è qualche cosa di piú santo della morte. E riaperti a fatica gli occhi come chi si sveglia da un lungo e faticoso letargo, si recò la mano della signora alle labbra, mormorando: - Forse bisogna cominciare da capo.

Come un'edera molle e rigogliosa, che si attacca e si stende sopra un vecchio muro cadente, nel suo abbandono e nella sua incapacità si sentí appoggiata a questa protezione, si adattò al mite e ombroso ambiente, mise volontieri le mani in un lavoro, che parlava già da sé stesso di sacri dolori e di eterne consolazioni. Le crisi divennero meno frequenti, perfino un'ombra di colore riapparí sulla pallidezza del suo volto lavato da troppe lagrime, si abbandonò alle pratiche della pietà, che per gli spiriti umili e bisognosi tengono il posto delle persuasioni che non si possono procacciare; accettò di buon grado tutte le medagliette e tutte le coroncine, che mandava il convento e che le sante dame facevano venire apposta per lei da Lourdes o da Loreto, piccoli segni di quella forza di fede, che è piú facile canzonare che non sia il farne senza. Cosí passò tutto il novembre. Dopo una nevicata, che rallegrò le feste di Sant'Ambrogio e che lasciò le campagne belle bianche, il dicembre seguí eccezionalmente dolce. Il piú bel sole si diffondeva nella stanza dove le pie signore tenevano un vecchio altarino colla statua dell'Addolorata sotto un tempietto di fiori di carta. Donna Gesumina che era bravissimanei lavori pei quali ci vogliono manine di piuma, veniva spesso a trovarla, sedeva con lei davanti al telaio, ordiva il tessuto nuovo, dava qualche suggerimento per il resto. Se il punto era alquanto cruccioso o troppo pigro per sostenere la pazienza, labuona signora intonava sotto voce le litanie su una cantilena facile e girante come un arcolaio, tale da aiutare senza sconvolgerlo il filo del lavoro. Celestina in quella vocina di monaca digiuna faceva entrare a intervalli la bella nota media della sua voce, con cui soleva sostenere le litanie al Santuario, e si lasciava cullare cosí in una dolce dormiveglia piena di oblio. Nelle nature sane pare che anche i dolori perdano del loro veleno e finiscano coll'essere assorbiti, come sono assorbiti dalle sane costituzioni i contagi che persistono. Un secondo dolore non fa piú soffrire come un primo, come se i tristi pensieri, a furia di passare, facessero nell'anima un solco sempre piú inclinato e largo. Come il montanaro si abitua a portare sulle spalle i più grossi carichi e non si sente ben equilibrato sulle gambe, se non quando ha tutto il suo solito peso addosso, cosí si oserebbe quasi dire che la natura dia alle costituzioni robuste, non guaste dalla troppa filosofia, l'abitudine di portare una certa quantità di patimenti. Questo può spiegare come nel rifiorire della pace anche il fisico della ragazza, aiutato da forze spontanee piú potenti della volontà, ricominciasse a fiorire. Nel benessere di tutto il corpo essa provava non rari istanti di ristoro e di nervosa ebbrezza, non priva di godimenti, come capita nei dolci istanti di buona convalescenza. Anima semplice e primitiva, priva di raffinatezze intellettuali, incapace di uscire o di allontanarsi troppo dal momento presente, bastava che l'idea dolorosa fosse momentaneamente assente, perché tutte le altre idee, quasi ancora fanciullesche, godessero di una specie di vacanza. A vederla in certi istanti, uno avrebbe detto che la sua disgrazia era piú grande di quel ch'ella fosse in grado di soffrirne. Pensava qualche volta: - Poiché era diventata cosí indegna, non per colpa sua, Giacomo avrebbe imparato a dimenticarla. Forse era per lui una fortuna. Giacomo aveva camminato troppo avanti sulla strada del sapere, perché potesse contentarsi di voler bene a una povera ragazza come lei. Se la terribile disgrazia doveva fruttare a qualcuno, in mezzo al male era un bene che fruttasse almeno a lui la libertà, e qualche compenso. La contessa aveva promesso che, fin dove un male si può riparare a denaro, Giacomo doveva far conto sugli aiuti della sua casa. Alla famiglia dello zio Mauro non sarebbe mancato piú nulla. Ebbene (seguitava a riflettere, offrendo a sé stessa, non senza qualche orgoglio, questa consolazione), se la mia disgrazia salva questa povera gente dai bisogni e dai creditori, se mette Giacomo nella condizione di poter continuare nella sua carriera e di farsi col tempo un grande onore, perché devo disperarmi? Certo avrei voluto restituire in un altro modo il bene che ho ricevuto; ma poichè Dio ha voluto cosí, sia fatta la sua volontà. Ma non sempre questa rassegnazione parlava cosí forte. Improvvise curiosità intervenivano a interrogarla: "Che cosa avrà detto di me? crederà proprio ch'io sia stata innocente? perché non è venuto ancora a vedermi? perché non mi scrive? gli avranno detta la verità? sa dove sono e in mano di chi?" In questi incalzanti quesiti, a cui non era in grado di dare nessuna risposta e che andava ripetendo a sé stessa con una ostinazione piena di rancore e di compianto, tornava a provare le vecchie ansietà, la sua mente cadeva in paure profonde; agitazioni nuove, accompagnate da una febbrile impazienza, non la lasciavano piú ferma sulla sedia. La contessa aveva le prove della sua innocenza, e Giacomo non poteva non credere a una donna come la contessa; ma, riandando minutamente ai particolari della sua sventura, ora temeva che l'interesse avesse a far rinnegare la verità anche ai santi, ora si accusava di non aver saputo respingere con piú violenza le cortesie del giovine conte, di non aver provato abbastanza ribrezzo di lui, di non averne parlato subito a Giacomo, e malediceva in cuor suo alla floridezza della sua giovinezza, di cui si era servito il demonio per perderla. In questo modo, co' suoi stessi dolori, essa andava fabbricando nuovi strumenti di tortura e finiva col ritrovare la spina del rimorso fin nel fiore dell'innocenza. In certe ore, in modo speciale verso sera, quando, al morire della viva luce del dí sentiamo venir meno in noi molte certezze, la sua stanza le diventava uggiosa come una prigione. Lampi di follia tornavano a guizzare nella tempesta dei pensieri. Stava immobile, cogli occhi perduti in una lenta stupefazione sulla campagna coperta di neve, o fissi alla linea dei monti lontani, tra cui andava ricostruendo qualche nota giogaia. Sentiva di essere piú che morta, sepolta viva, e piangendo, diceva in modo di poter ascoltarsi: - Giacomo, perché mi abbandoni? Vieni a vedere che cosa hanno fatto della tua Celestina. - Non pensi, Adelasia, che quella ragazza possa aver bisogno.di qualche speciale benedizione? - disse un giorno donna Gesumina alla sorella. - Ho letto nella vita di Santa Zita, patrona delle donne di servizio, che il demonio ama tormentare queste ragazze povere e ignoranti per tirarle al male. - Certi diavoli, quando ci sono, non c'è benedizione che li possa scacciare. Bisogna aspettare che se ne vadano da sè. Sono i fenomeni del suo stato. Cosí disse donna Adelasia quasi con solennità scientifica. - Basta, basta, tu sei piú in grado di me di saper giudicare - rispose, umiliandosi, la piú giovine delle due vecchie zitelle; e non tornò piú sull'argomento. Dopo molto aspettare, un giorno arrivarono finalmente due lettere di donna Cristina, una per Celestina, l'altra per donna Adelasia. A Celestina, riferiva in poche righe, non tutte sincere, il risultato del colloquio avuto con Giacomo: "Per quanto il colpo sia stato grande" scriveva la contessa "egli mi ha promesso di perdonare, e sarebbe già venuto a vederti costí, se un po' di febbre buscata con questi freddi non l'obbligasse a letto. La sua pace, la sua salute, il destino di tutta la sua vita dipende unicamente da te, mia cara figliuola. Se tu sarai buona, docile obbediente a tutto quello che ti diranno di fare queste tue benefattrici, vedrai che col tempo proverai una grande consolazione. Io faccio pregare sempre per te." Nella lettera a donna Adelasia la contessa lasciava trasparire invece tutte le paure e le preoccupazioni che aveva ridestate nel suo cuore il primo incontro con Lanzavecchia: "Speravo di trovare nel giovine una maggiore arrendevolezza; ma ho paura di aver sbagliato nel giudizio che mi son fatta del suo carattere. Soffre meno per il fatto doloroso che non per l'orgoglio ferito. Il pensiero che ci deve qualche cosa gli è insopportabile. Quale altra soddisfazione vorrà chiederci? come intende vendicarsi di Giacinto? La mia povera testa si confonde e non sa piú che cosa pensare e che cosa temere. Ora è piuttosto gravemente ammalato, non si sa se per una minaccia di tifo o per una congestione cerebrale, che lo tiene in continuo delirio: e questo dottore non è senza qualche apprensione. Nel mio egoismo non so piú che cosa augurare a me stessa e agli altri. Mi pare che, prima d'ora, non abbia mai saputo che cosa sia soffrire, né mai prima di questa grande battaglia ho tanto compatito chi piange. Ora, sí, sento nel cuore le sette spade dell'Addolorata e capisco come le ricchezze, i titoli gli onori, le vanità del mondo, non valgano un'ora di buona coscienza. Non c'è donna cosí povera tra queste contadine, colla quale non farei cambio volontieri, se Dio mi potesse restituire la pace. No, il morire non è il peggior male: è peggio il non poter morire, quando si vuole. Dio sa se io vorrei essere sotto la terra da dieci anni! almeno sarei morta nell'illusione della mia felicità, nella freschezza delle mie gioie materne, sarei morta compianta, benedetta, e avrei trovato nella memoria de' miei cari il suffragio, che ci fa vivere anche dopo la morte. Questa invece non è né la vita, né la morte. È un'agonia, un singhiozzo che non cessa mai. Io sono un dolore solo, temo d'ogni scossa, non ho piú lagrime e non ho finito di piangere, non ho riposo né giorno né notte, e, poiché non posso morire, invoco quasi la pazzia, che mi liberi da questa spaventata coscienza. Lorenzo, che non deve mai saper nulla, s'è lasciato persuadere a restare al Ronchetto fino a dicembre: cosí almeno spero di poter rivedere il giovine e di strappargli almeno una promessa, che salvi la mia povera casa. Come potrei abbandonare questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive piú, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà, stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza."

Poi si lasciò ricadere in un pesante abbandono. Cominciò a ricordare in nube che un gran dolore gli era passato vicino e gli aveva, piú che il corpo, infranta l'anima. Chiuse gli occhi e lottò un pezzo con sé stesso per raccogliere le idee rimaste come disperse, al di là della coscienza; sentendo sonare le ore al campanile della chiesa quella sensazione d'ambascia, in cui si era trovato al momento di andare al colloquio colla contessa, si ridestò sotto l'impulso di quel rintocco di campana; la verità gli apparve in tutta la sua brutale crudeltà in un improvviso spiraglio di luce. Che cosa era avvenuto di lui dopo quel colloquio? che cosa avevano fatto di Celestina? perché non lo avevano lasciato morire? Un brivido diaccio corse e si mescolò agli ardori della febbre seguendo l'onda di questi pensieri che tornavano; nella sua estrema debolezza fisica non seppe respingere un urto di grosse emozioni, abbandonò il capo sul cuscino e pianse a voce alta. Mentre ancora le lagrime colavano pei solchi, si aprí l'uscio ed entrò la mamma. Al veder la coltre in disordine e il malato cogli occhi aperti, la buona donna si accostò frettolosamente al letto. - O Giacomo, o mio povero Giacomo, sei sveglio? come ti senti? benedetto mio figliuolo, non sai che cosa ti è capitato e dove ti hanno trovato? Però ti pare di sentirti un po' meglio? piglia una goccia di brodo. Il dottore ci raccomanda di sostenerti le forze. Se non vuoi il brodo, c'è qui una lagrima di marsala. L'ha mandato per te apposta di quel vecchio la contessa. Giacomo con un gesto risoluto allontanò il bicchierino che la vecchietta voleva accostargli alle labbra; e si oscurò in volto, come se avesse visto il veleno. - Sai che c'è stato anche don Angelo, il tuo zio prete? Ha sentito a Bergamo ch'eri cosí malato ed è venuto apposta per vederti. Tornerà quando starai piú bene. Per molti giorni non fece che star rannicchiato nel letto, testa sprofondata nei cuscini, cogli occhi chiusi, in uno stato di pesante annientamento, non desiderando che il sonno, l'oscurità, la dimenticanza di sé stesso. Come un fanciullo pauroso, che non osa passar da un uscio per non isvegliare un grosso cane accovacciato noto per la sua ferocia, cosí egli non osava moversi per paura di risvegliare la sua riflessione. A certi mali non c'è che un rimedio efficace: il non pensarvi. Ma piú raffinerai la ragione e la coscienza, piú avrai affilati in te stesso gli strumenti della tua tortura, quando la mano spietata del dolore ti lancierà contro te stesso. E Giacomo non potè impedire che la forza inesorabile della natura lo portasse nuovamente al supplizio, quel giorno che cominciò a star meglio. Quasi per ritardare di un'ora la necessità di occuparsi di sé, volle vedere qualcuno de' suoi, e, fatto chiamare Angiolino, lo interrogò sull'andamento degli affari. Il ragazzo, col viso duro, piú oscuro del solito e con una intonazione fredda d'uomo irritato, si fece a riferire minutamente. Erano state consegnate seicento tegole al Legnani di Cernusco. La chiesa di Pagnano aveva mandato a prendere altri quattrocento mattoni di pavimento. La Lisa aveva incassato cinquanta lire a saldo del conto Lavelli di Brivio. - E restava lí come oppresso da un cattivo pensiero. - E Battista? - chiese Giacomo, che, per paura di sé, andava in cerca degli altri. - Battista non parla piú di andare in America. S'è rimesso a lavorare. Anche la Lisa, quando seppe che Giacomo cominciava a riconoscere qualcuno, volle far la sua visita. Si sentiva qualche rimorso per via di quella benedetta linguaccia e non aspettava che il momento di farsi perdonare, quantunque, a esser giusti, i fatti avessero data ragione a lei e non a lui. Per quanto male avesse potuto dire di madamisella, cento lingue come la sua non sarebbero bastate, pensava la Lisa, a dir tutto il male che madamisella si meritava. Che fosse una leggerona si sapeva: ma in casa Lanzavecchia non si osavano nemmeno immaginare certe vergogne! Il Signore questa volta aveva voluto bene al povero Giacomo col fermarlo a tempo sull'orlo del precipizio. Se madamisella avesse portato in casa certe abitudini! uh spavento! uh ludibrio! - La Lisa entrò nella stanza del malato colla sua andatura angolosa e rigida, avvolta come una vecchia ombrella nei vestiti flosci e cascanti, che avevano tutti i colori dell'acqua piovana: e, accostatasi con passi contati al letto, disse al malato- . - È vero che ti senti meglio finalmente? - e non seppe togliere a quel finalmente un certo tono d'impazienza, in cui si sentiva il buon cuore litigare col dispetto. - Sai che ci hai spaventati bell'e bene? Se ti sentivi cosi male perché non parlare a tempo? Sempre cosí voialtri uomini. Rimproverate a noi donne di parlar troppo dei nostri mali ma neanche il tacer troppo, come fate voi, non è un bel sistema. Covare i mali e non pensare a curarli che quando non se ne può piú, è proprio come andare dallo speziale a comperare la febbre. Ma pazienza, e sia lodata la Madonna! - soggiunse senza intenerirsi troppo su questa devota giaculatoria, perché in cuor suo sentiva per un razionale istinto che, quando la Madonna vuol proprio bene a un povero cristiano, ha tutti i mezzi di risparmiarglieli addirittura certi dolori. Nello sforzo che la ragazza magra faceva per contenersi umilmente davanti al letto del malato e per dare alle sue parole un senso di mansuetudine, i gomiti le uscivano acuti e irritati dai fianchi, la sua testa spettinata s'irrigidiva nella luce cruda della finestra. - Adesso cerca almeno di guarir presto, perché tu sei piú necessario di prima a questa povera casa senza tetto. Questa povera donna - soggiunse indicando la mamma, che rientrava colla tazzetta del brodo - non è piú quella di prima e non parla che di morire. Io dico che per morire moriremo tutti, quando sarà la nostra ora, e non c'è bisogno di mandare su un'istanza; ma il Signore dice: "Aiutati che ti aiuterò". Cerchiamo di dimenticare le cose passate e amen. Anche tu, Giacomo, devi farti una ragione, perché tutto il male non vien per nuocere, se dobbiamo credere a quel che è venuto a dire lo zio prete. - Che cosa è venuto a dire? - domandò con aria stanca il malato. - Ha detto che tornerà e parlerà con piú comodo - fu pronta a interrompere la mamma, lanciando una viva occhiata di rimprovero alla figliuola. - Ora pensa a guarire, che è l'importante: al resto penseremo poi. Le some si aggiustano per via. - C'è stata due o tre volte la signora contessina colla sua maestra a domandare tue notizie disse Angiolino che capí la necessità di sviare un discorso difficile. - Ti va? - chiese la mamma, incoraggiando il malato a prendere il brodo, mentre lo aiutava a mettersi un cuscino dietro la schiena. - È tutto brodo di cappone. - Lo si doveva mangiare per Natale, - disse la sorella - ma è sempre buono quel che arriva a tempo. Per Natale metto in collegio un bel tacchino, se avremo voglia di mangiarlo. Intanto io son del parere che tu abbia a vendere allo stracciaiuolo tutta questa filosofia, che ti guasta lo stomaco. La Lisa indicò i libri e le carte ammucchiate sul tavolino, facendo colle due mani il segno di chi spazzola l'aria. - Già, credi pure, il mondo non lo si rappezza piú nemmeno con la carta stampata e una buona digestione vale una dozzina di belle massime. Quando c'è la salute, a che cosa serve la spezieria? - Tu gli fai la testa grossa cosí - rimproverò la mamma. - Badate a tener nota esatta di tutto quello che spendete per me - disse Giacomo, rannuvolandosi in volto, con uno sforzo doloroso, che gli fece la fronte umida di sudore. - Non parlar di conti, adesso, - riprese la mamma - e non pigliarti pensiero per noi. Don Angelo ha detto che, per tutto quello che ci può abbisognare, si abbia a ricorrere a lui. - L'ha mandato san Giuseppe coll'asinello questa volta - aggiunse la Lisa. - Del resto, non siamo in un deserto e non manca la gente che ci vuol bene. Anche Battista si lasciò rimorchiare dalla mamma a far la pace con Giacomo. Questi lo salutò colla mano, mentre l'altro entrava, raggirando con una mano il cappello e grattandosi coll'altra la nuca. - Voletevi bene e addio! - disse la mamma. - Ora dobbiamo lavorare tutti per ciascuno e ciascuno per tutti, anche per benedire alla memoria di quel pover'uomo, che ci aspetta in paradiso. La Santina passò in fretta un angolo del suo grembiale negli spigoli degli occhi e continuò a promettere per Battista, che s'induriva sotto le carezze della tenerezza, fino a perdere l'uso della favella. La mamma invece (e non isfuggí al nostro malato questo fenomeno) rianimata dal pensiero di essere utile, contenta di vedere un po' di pace tornare in famiglia, stava per ritrovare la sua antica alacrità di spirito. In fondo, la disgrazia di Celestina rappresentava per lei, a parte il dispiacere, la liberazione del suo Giacomo, che con tanto sapere e con tanta abilità poteva aspirare a qualche cosa di piú bello che non sia lo sposare una stracciona senza un soldo, una mezza contadina, una figlia di nessuno. Nel suo orgoglio materno la Santina era persuasa che, se Giacomo metteva il suo cappello sulla soglia dell'uscio, le piú belle doti dei dintorni ci saltavano dentro. Non poteva mancare la visita del vecchio Blitz. Quando capí che il padrone cominciava a veder qualcheduno, il brutto cane, che da cinque o sei giorni non abbandonava la loggetta, si fece coraggio e venne innanzi a fiutare il letto. Giacomo, aprendo gli occhi, incontrò quelli buoni e lagrimosi del fedele animale; sporse una mano dalla coltre, gli strinse il muso, lo carezzò, lo interrogò a lungo con uno sguardo, a cui il vecchio filosofo pessimista rispose con un tremito convulso di tutto il corpo e con un lento dimenar della coda. - Hai sentito, Blitz, quel che ci hanno fatto? - mormorò Giacomo, come se volesse provare la voce e le forze in presenza del suo prudente compagno. - Hai sentito quel che hanno fatto della nostra povera Celestina? E non è finita, ve', Blitz; ne vedrai di piú brutte. Se non propriamente pronunciate, queste tristezze furono espresse dallo sguardo dell'uomo, raccolte e compatite dallo spirito del cane, che, posate le due zampe pelose sulle coltri del letto, mandava un gemito come d'anima sofferente. Le forze fisiche tornarono a poco a poco e, insieme, andava crescendo, al tornare della coscienza del suo stato, il terrore e la vergogna dell'oltraggio ricevuto. L'animo, già cosí paziente e tollerante dei mali, correva, al divampare dell'odio, a pensieri di estrema violenza: l'occhio fissavasi in una sua idea lugubre: l'infermo stringeva ipugni sotto le coperte, o si metteva a sedere sul letto, come se cercasse di misurare le sue forze per una estrema battaglia. Non poteva finir cosí! Era un risveglio assai doloroso e grottesco per un filosofo idealista, che stava sognando l'amabile conciliazione degli uomini colle forze nemiche della natura! All'urto feroce della realtà egli si avvedeva d'aver riflesso nella sua filosofia le cose del mondo forse con una certa limpidezza, ma semplicemente capovolte! Aveva creduto nell'illusione fantastica della sua solitudine di stendere il volo ai piú alti cieli e invece era semplicemente la terra che gli mancava sotto i piedi. Mai ingenuità filosofica era stata piú punita! mai s'era vista una piú grande incapacità! Che gli restava di fare? egli non poteva restar eternamente cosí immerso in un morboso letargo, né chiudere gli occhi bastava per non vedere, né sprofondarsi in un sepolcro significava esser morto. Dalla rovina delle sue costruzioni fantastiche, come tra gli sconquassi d'un'immensa impalcatura posticcia, qualche cosa d'immobile e di massiccio era di sotto, contro cui ogni uomo va a battere la testa, ove non sappia edificarvi sopra la vita. Cadevano i vaghi pensieri, ma restava il dovere da compiere. Bisognava insomma far qualche cosa per sé, per Celestina, per il suo onore, per la famiglia, per l'opinione del mondo, per la pace dei buoni, per il riscatto della coscienza, per il sollievo dell'animo esulcerato, per la difesa degli innocenti, per il castigo dei tristi. Ma dove cominciare? a chi chiedere la forza dell'odio e della vendetta? come rompere le catene ormai irrugginite della sua antica schiavitú morale contro questi benefattori, che non poteva pagare? All'immagine laida del miserabile, che aveva vituperato con bestiale brutalità quanto di piú sacro e di piú puro può contenere il cuore d'un uomo sentiva a un tratto la sua volontà ingrandirsi, farsi di ferro; coll'occhio arroventato fisso nell'aria cercava il vile, lo ritrovava, gli si scagliava addosso, metteva le mani nel suo sangue e di questo sangue, di cui nella squisita debolezza nervosa vedeva le chiazze vermiglie vagolare sulle pareti e sul bianco del letto, provava una vertiginosa ebbrezza. A queste fiammate, da cui il suo spirito debole e titubante era trasportato a esagerate emozioni, seguivano molte ore di depressione morale e di sonnolenza, durante le quali la forza critica della sua mente, quella ch'egli era abituato ad adoperare di piú e di cui, come di un coltello del mestiere, si serviva per recidere i lacci e le corde degli inviluppi morali, rispondeva con una lunga e ironica argomentazione alle rodomontate del sentimento. "Un assassinio? una strage? un duello? Ci vuole un bel coraggio a liquidare con un delitto o con una elegante pantomima il crudele dolore dell'anima tua! Forseche il sangue ha mai potuto lavare una macchia e spegnere una sete? E deve proprio toccare a te questa parte di romantico Ernani, perché si tragga dall'agonia mortale di due cuori un drammaccio volgare, che rallegri e contristi di tragica pietà i lettori delle cronache e dei fatti diversi? A chi gioverebbe una vendetta volgare? poco a te, se pur ti pare che giovi al frenetico il rotolarsi nel fango; nulla agli altri, se non a rendere volgari le piú delicate sofferenze; nulla a pagare il danno d'una vita spezzata; nulla a soddisfare la legge morale; nulla a nessuno insomma, tranne che a far piacere agli invidiosi e agli imbecilli". Ma che poteva fare dunque per quella poverina? All'immagine di Celestina le lagrime gli correvano agli occhi, un nodo angoscioso minacciava di soffocarlo, pareva che le ultime forze della sua vita si ritirassero e lo lasciassero esangue. La voce malinconica, il viso sconvolto, quel tono di morta disperazione, con cui gli aveva parlato l'ultima volta nel viale del giardino, tutto questo tornava vivo e presente a scoraggiarlo di piú. Che cosa rimaneva di tutto il caro edíficio della sua vita di lavoro ideale, di quel loro amore cosí naturale e ridente, cosí tenero di tutte le dolcezze piú spontanee della vita? Questo loro affetto non intessuto di astruserie, come sogliono fabbricarne gli spiriti stanchi e sciupati, ma semplice come un fiore, era stato il suo orgoglio. Celestina, oltre alle virtú native della donna innamorata, che cede all'amore dell'uomo forte e sapiente, rappresentava per lui gli adunati desideri, la bellezza ideale, il sospirato riposo, quanto insomma di eletto sovrabbonda alla vigorosa virtú dell'uomo savio e che la donna raccoglie e conserva per i giorni della stanchezza e del dubbio. All'idea che di un cosí incantevole edificio non restava piú che un mucchio di cenere, egli si rivoltava nel letto, cacciava la testa sotto il cuscino, urlava come una belva ferita chiedendo: perché? perché? L'immaginazione gli procurava non minori tormenti nel fargli sentire quel che al propalarsi del sordido caso, i soliti beffardi avrebbero dovuto dire di lui, della ragazza, della burla giocata al filosofo, della superbia punita di casa Lanzavecchia. O Dio! qualche soddisfazione egli doveva pur domandare a questi signori. Nessun anacoreta avrebbe tollerato che una creatura debole e innocente rimanesse senza difesa e senza giustizia sotto l'obbrobrio di un simile oltraggio, senza assumere nella sua pigra sonnolenza morale una obbrobriosa responsabilità. Il male che si compie, accettando in silenzio il male, è una forma, e non la piú coraggiosa, di complicità. Molte ore restava cosí confitto, come un povero Cristo, alla croce dei suoi pensieri, cogli occhi fissi alla luce della finestra, in cui sbatteva irrigidito il candore della prima nevicata; e ripensando per un ozioso abbandono dello spirito ai fatti piú lontani della sua fanciullezza, evocava gli episodi di quel suo antico amore. Sul muro di quella stessa stanza, dove giaceva a invocare inutilmente la morte, erano rimaste le vecchie traccie di un altarino in due striscie dipinte in mattone rosso, simulanti un padiglione, tra le screpolature dell'intonaco. Celestina era venuta spesso ad ascoltare una messa, che il pretino recitava sopra due sedie con indosso il grembiale della mamma in luogo della sacra pianeta, con in testa un logoro berretto dello zio prete. Qualche altra volta egli l'aveva confessata, stando seduto in un vecchio armadio; poi l'aveva comunicata con un manus Christi della zia Veronica. Quante volte avevano preparato insieme le feste del mese di Maria, addobbando la loggetta di pezzuole, di frasche, di corone di fiori, o avevano preparata per la sera una lunga illuminazione di moccoletti, in mezzo alla quale sfilava una processione di ragazzine e di villanelli scalzi, nel frastuono d'una musica di coperchi, d'imbuti e di scatole di lucilina! Quando Giacomo predicava dall'alto del seggiolone, Celestina con sulla testa il grembialone della zia Santina, stava a sentirlo tutta raccolta e compunta, ridendo a qualche citazione in trappolorum gamberellis, che usciva di bocca al predicatore, con quel suo riso irresistibile che metteva in iscompiglio la divozione. Dal suo letto egli vedeva la chioma biancheggiante dell'antico frassino in fondo alla vignetta, in cui solevano ricoverarsi nelle ore calde e cercar nel fitto dei rami una aerea abitazione e fabbricare colla fantasia case e palazzi incantati, che tremolavano ad ogni soffio di vento. Venivano ad una ad una queste memorie e partivano da lui, come pietose visitatrici, che escano dalla casa di un morto. Che potevano dare questi signori in compenso di tanto bene perduto?

Ogni atto di severità, ogni parola acerba di rimprovero, lo stesso abbandono silenzioso sarebbe stato da parte di Giacomo un colpo mortale per la povera creatura. - Il male è grande - seguitava a ripetere la voce, che egli stentava ad afferrare, come appunto capita nei sogni - ma da ogni male si può ricavare una redenzione. Vendicatevi, dice il diritto volgare; perdonate, dice la legge del Signore. Una vendetta contro di noi è una cosa assai facile: ma voi esporreste Celestina al giudizio della gente. Non imploro per me e meno ancora per il disgraziato, che ci ha precipitati in questo abisso: ma, prima di lanciare una pietra, si pensi a quanti cuori ne andrebbero spezzati. Forse che Dio non ci perdonerebbe, se gli chiedessimo grazia con queste lacrime? Celestina per il momento è al riparo di ogni scandalo, e quanto si potrà umanamente riparare sarà riparato. - Non si risuscita un uomo ucciso, - interruppe Giacomo, stendendo i pugni verso la terra, come se provocasse una maledizione: - Dio, Dio, è il disonore, è il ridicolo, è la morte: avete sputato sull'innocenza d'una povera creatura, sulla mia dignità, sulla mia virtú, sul nostro amore . - No, no, Giacomo - supplicò la contessa. - No, no, no - proruppe egli piú forte, alzandosi, in preda a un singhiozzare nervoso. E poiché la contessa cercava con un'ultima insistenza di afferrargli la mano, egli se la cacciò con un gesto disperato dentro i capelli, e premendo con spasimo, la fronte corrugata: - Questo è l'inferno, disse - questa è la maledizione di Dio! Ma, Dio santo, qualcuno pagherà!. - E si mosse per uscire, dopo aver preso di sulla sedia il cappello. Donna Cristina fece un ultimo sforzo. Stese le braccia verso di lui, mormorando con una scossa dolente del capo: - Giacomo, noi vi abbiamo sempre voluto bene - e pose la mano sulla chiave, quasi per impedire che egli la lasciasse cosí. - Qualcuno pagherà col sangue - ruggí l'uomo ferito, mentre cercava di aprire; e colla furia di chi invoca uno scampo contro le fiamme che lo inseguono, tirò l'uscio, andò fuori: e, trovata nell'andito oscuro la scaletta, scese a precipizio, a lume d'istinto, uscí a precipizio dall'atrio, pigliando a scendere pel viale della fontana tutto giallo di foglie, senza vedere davanti a sé che una nuvola di nebbia, da cui non riusciva a liberare il capo. Valicata la soglia del giardino, entrò in una vigna, e poi da questa vigna in un bosco di castagni, che viene a cadere quasi sulla chiesa del Santuario, e sempre a corsa discese il dosso del Ronchetto fin sulla strada comunale, che traversò per entrare in altre boscaglie piú basse e piú fitte, sempre nella direzione del fiume. Cosí una fiera ferita cerca i cespugli e va a inasprire nei rovi la piaga che sanguina, ma teme, arrestandosi, di sentire piú vivo il suo dolore. Seguendo la stradicciuola che costeggia il corso dell'acqua, ora per luoghi aridi, ora per campi di stoppia, ora tra vecchie paludi disseccate, dove i canneti e le scope contrastano il terreno alle alluvioni, egli andava cercando il deserto per poter mandare il suo grido di dolore, un gran grido, che, non potendo uscirgli dalla strozza, minacciava di soffocarlo. La verità turpe, sguaiata, gli si avventava contro con impeti improvvisi, lo mordeva, facendogli provare orribili strazi, quantunque il caso gli paresse cosí inverosimile da far pensare piuttosto a un delirio angoscioso e crudele. Che Celestina fosse perduta per lui e perduta in quel modo nefando, era un pensiero atroce, che spingeva l'animo a propositi atroci: ma quando gli si presentava l'idea che in compenso di questo delitto, egli aveva allegramente accettato e speso un denaro che non era piú in grado di restituire: quando ricordava i commenti che la gente da un pezzo andava ripetendo alle sue spalle, erano lampi di vera follia che luccicavano nel suo cervello. I vili, i bigotti avevano voluto ipotecare la sua coscienza! I vili, i bigotti volevano pagare a denaro il prezzo di due vite! Ignominiosa bindoleria! esecrato delitto! A quest'infamia non c'era che una riparazione possibile: la lama di un coltello nel cuore dell'assassino, o nel proprio cuore. Oh distruzione di ogni illusione! oh rovina d'ogni ideale! Aveva cercato l'uomo morale e non trovava che la belva! Che farne di Celestina? come proteggerla contro i morsi del mondo? come purificare o almeno giustificare la sua condotta d'uomo pagato? Dove trovare credito e stima e un denaro meno infame per riscattare sé stesso da questa schiavitú? Se egli avesse potuto fare un gran rogo di tutta la sua casa e se in questo rogo avesse potuto gettare sé stesso, non gli pareva ancora sufficiente olocausto per redimersi da questo cumulo d'ingiustizie e di offese, che l'opprimevano. Anche dalle ceneri delle sue ossa sarebbe uscita abbastanza vergogna per far ridere un Brognòlico. Da qualunque parte si voltasse, si sentiva respinto, come se agitasse in una gabbia irta di punte. A impeti d'odio e di vendetta mescolavansi altre immagini piú miti che avevano nella loro desolazione la forza d'arrestarlo sul sentiero. Alla sua povera mamma non poteva dire: andiamo via, mi hanno assassinato. Egli non aveva il diritto di affamare dei poveri innocenti. O Dio, come mai era potuto venire in questo abisso di mali? In qual parte del mondo era egli vissuto finora, per non accorgersi di questa enorme e grottesca canzonatura, a cui aveva dato fin qui il nome pomposo di ideale filosofico? A che cosa aveva giovato a lui l'aver studiato tanto nei libri, l'esser vissuto onestamente povero, castamente fedele a una dolce immagine, se all'uomo sapiente e virtuoso non era riservata che una corona di spine e una finale fischiata? Inseguito, sferzato da questi furori, dopo aver percorso in un vacillamento da sonnambulo forse due miglia nel ghiaieto del fiume, trovato un luogo cespuglioso in mezzo a morti stagni, dove era sicuro che nessun occhio umano poteva rattristarsi della sua vista, si lasciò stramazzare sulla sabbia, che per voglia di mordere strinse nelle unghie e portò rabbiosamente alla bocca. Non aveva piú lagrime negli occhi, ma se le sentiva piovere sul cuore. Il patimento morale, fondendosi col patimento fisico in un unico spasimo, produsse un lungo e doloroso singhiozzo, in cui gli parve che si rompesse tutta la compagine della sua vita. Un'onda amara e verde di saliva rigurgitò e traboccò in un fiotto spumoso dalla bocca, mentre i sudori freddi scorrevano a irrigidire la sua carne. Rimase cosí come morto tutta la notte. Fu un sabbionaio che, scendendo sul fare dell'alba con un carro a prendere materiale al fiume, vide quel corpo intirizzito e umido di guazza. Riconosciuto el sor Giacom, lo prese sul carro e lo portò alle Fornaci.

Questi s'era presa Celestina sulle braccia e raccogliendo le sue forze a un'estrema fatica, veniva su per la scaletta col peso lento della persona, che rovesciata sulla sua spalla, nel languore pesante di un corpo morto, lasciava cadere le braccia incapaci in un desolante abbandono. I capelli umidi e sciolti scendevano sul volto, velando i lineamenti già irrigiditi e mettendo una striscia quasi funebre sul candore marmoreo, mentre i piedi ignudi, che uscivano dalla povera gonna, davano alla giovine una tristezza d'infinita miseria, di vittima spenta che portassero a seppellire. - Come l'hanno conciata, pover'anima - scappò detto alla Lisa, quando, deposta sul letto la malata, dette mano a svestirla; e male resistendo alla violenza della naturale compassione, gli occhi le si fecero grossi di pianto. Giacomo ordinò con tono frettoloso e sostenuto che la mettessero a letto, mentre egli andava a chiamare il dottore. Uscí e corse, cosí come si trovava, a capo nudo, col petto mezzo scoperto, in cerca del Brandati. Celestina si lasciò svestire senza dar segno di vita. Era un letargo di piombo fuso e colato in un corpo di ghiaccio. - Non vede domattina - pronosticò don Angelo crollando malinconicamente la testa. - Nel suo stato lo strapazzo fu troppo - soggiunse la levatrice, che il dottore aveva dovuto far venire in fretta. - Santa Madonna, che brutto Natale! - La Santina nascose il volto nel grembiale, e dopo aver asciugati gli occhi grondanti, si volse al prete: - Glielo dite voi, don Angelo, a quel povero figliuolo? - Dov'è? - Dabbasso, in studietto. Da ventiquattro ore non par piú un uomo vivo. - Vado io a pigliarlo. Lo zio prete scese lentamente la scaletta e andò in cerca di Giacomo. Lo trovò nello stanzino, che serviva di studio, seduto in unavecchia sedia di cuoio, col capo curvo e colle braccia incrociate sul petto, cogli occhi fissi sul suolo, in una attitudine di attonita tranquillità. Nella luce grigia, che entrava dai nudi vetri della finestra, che dava sulla vignetta, il suo volto reso quasi trasparente dai mali, compariva ancor piú delicato e giovanile. Ma tutta la testa, sotto il cespuglio d'una chioma fatta folta e lasciata incolta, aveva un'espressione di bellezza forte e resistente. Di fuori il vento strappava i rami della vecchia vite appoggiata al muro, e nella bianchezza della neve svolazzavano per la vignetta alcuni corvi. Il cielo attraverso agli alberi e ai pergolati spogli appariva d'un azzurrino purissimo; e in quel cielo fermo e lieto, che si sprofondava nell'infinità, pareva che lo spirito di Giacomo attingesse le ragioni della sua persuasione. Don Angelo, nel passare dalla cucina, vide Battista in un angolo tra la credenza e il muro, in piedi, colle spalle appoggiate al legno, colle braccia nascoste sotto il gabbano, col testone basso, in un'attitudine di colpevole punito. Angiolino invece, che non poteva star fermo nelle sue smanie dolorose, dopo essere uscito cinquanta volte a cercare un sollievo al suo patimento in qualche occupazione materiale, s'era messo a sedere sopra un sacco di cruschello e stava lí, colla testa curva sui ginocchi, coi pugni stretti, colla gola strozzata da un dolore furioso, che non osava farsi sentire. Insieme alla pietà per la povera Celestina e per il povero Giacomo, fremeva in lui un rancore che non voleva morire; e intanto gli pareva che qualche cosa di vivo e di palpitante si distaccasse dal cuore. Senza che egli potesse capire, in Celestina, piú che la sorella, rimpiangeva lo svanire d'un misterioso incanto. Dopo il pieno scampanare della benedizione, un lungo silenzio si diffuse per la casa, per la corte spopolata, per tutta la campagna lucente al sole. Una luminosità gioiosa si spargeva in quel pomeriggio di Natale senza nuvole e senza nebbia e correva sulle creste dei monti, che riflettevano splendori d'argento nella tremula trasparenza dell'aria. Raggruppati su un vecchio trave, accanto al muro del portico, il Manetta e alcuni uomini delle fornaci discorrevano accorati con mezze frasi nel tenore morto d'un suffragio. Parlavan di lei, di Giacomo, del caso, dei mali, che vengono senza farsi cercare; poi da capo a crollar la testa ed asciugar gli occhi col ruvido palmo della mano. Una volta fece una rapida comparsa tra il chiaro e il fosco il signor della Rivalta; domandò qualche notizia e scomparve colla stessa furia. Forse c'era a casa chi lo aspettava con ansiosa curiosità. Forse correva anche lui dietro a un suo incanto. Sulla loggetta era un rapido incontrarsi di donne che non parlavan piú per rispetto alla morte. - Giacomo, - disse la voce grave di don Angelo con quell'intonazione un po' alta ed estranea, di cui si servono i preti, quando sentono di parlare in nome di una forza superiore - abbi pazienza, povero Giacomo; per lei forse è meglio cosí. Non andiamo a investigare la volontà di Dio, ma lasciamola passare. Puoi venir di sopra? - Le avete detto il mio pensiero? - chiese il nipote con voce altrettanto ferma. - Gliel'ho detto. Quasi non voleva accettare; ma quando capí che per lei non c'è piú nessun'altra speranza in questo mondo e che non potrebbe avere da te una consolazione piú grande, ha detto con gioia di sí. Ma bisogna far presto. Giacomo si mosse sotto la guida d'un segreto pensiero, che lo sorreggeva. Il vecchio prete, che nei suoi settant'anni maturi poteva dirsi stagionato contro i tocchi della tenerezza, gli passò il braccio nel braccio e volle accompagnarlo su per gli scalini. - Allora faccio venire i testimoni - disse quando furono sulla loggetta. Giacomo entrò nella stanza vicina, e ne uscí pochi minuti dopo coi capelli ravviati e con indosso il vestito nero, pronto per la cerimonia. Ebbe ancora un assalto di smarrimento momentaneo; ma il Brandati e lo zio lo presero in mezzo e lo menarono nella stanza della moribonda. La mattina le avevano portato la Comunione. Ardevano ancora sul tavolino le due candele benedette in mezzo ad alcuni fiori, che Angiolino s'era fatto dare dal giardiniere del Ronchetto. Alcune donne stavano in ginocchio, accanto al muro, col viso in lagrime. Battista e Angiolino, ai piè del letto, parevano non veder piú nulla. La cerimonia cominciò. - Voi siete i due testimoni - disse ai due giovani la voce di don Angelo, che conservava in mezzo a quello scompigliato silenzio un'intonazione d'ordine e di comando. Si mise al collo la stola rossa, aprí un libro dagli orli dorati, fece il segno della croce. Dopo aver letto sottovoce alcune preghiere in latino, si chinò sull'assopita, per dirle piano all'orecchio: - Celestina, figliuola, c'è qui il tuo Giacomo, che ti vuole sposare. La giovane aprí languidamente gli occhi, li girò per la stanza. Un umile sorriso scosse e tremolò sulle sue labbra riarse dalla febbre infettiva, che la divorava. - Mi ascolti, figliuola? - tornò a dire don Angelo. Essa fece colle palpebre un piccol segno di sí. E il prete con accento piú sostenuto: - È contento il qui presente Giacomo Lanzavecchia di sposare la qui presente Celestina Benetti? - Sí - rispose Giacomo con un'espressione e un tono di voce che, sfuggendo di mezzo ai brividi dell'anima, risonò con una dolcezza singolare. - È contenta. Sei contenta, Celestina, di sposare il tuo Giacomo? - sussurrò don Angelo, curvandosi un poco sulla testa della malata, mal resistendo anche lui questa volta alla violenza delle cose. La morente, che seguiva coll'occhio luminoso la santa cerimonia, disse un "sí" chiaro, ridente, che radunò tutte le speranze sfiorite della povera anima sua. Stese la mano stanca, mentre la mamma Santina, che non riusciva a inghiottire tutte le sue lagrime, cercava di mettere nella mano di Giacomo il vecchio anello d'oro, che le aveva dato quarant'anni fa il suo Mauro. Il figliuolo, il quale non vedeva innanzi a sé che un barbaglio di cose bianche, aiutato dai vecchi, che mescolavano colle sue le loro mani tremanti, mise l'anello nuziale nel dito della sua promessa. Poi si lasciò cadere in ginocchio e restò come morto. Celestina sollevò la mano e gliela posò sul capo. - Quod Deus coniunxit homo non separet - recitò il prete, ritrovando la sua voce naturale. Poi continuò le altre parole del rito mentre cercava di avvolgerli nella sua benedizione. Piangevano tutti, in silenzio, non senza qualche segreta consolazione. Celestina, fissati gli occhi in viso alla mamma Santina, parve chiedere qualche cosa. La mamma sollevò un poco colle mani la testa di Giacomo: - Perdona, Giacomo - disse con un filo di voce - perdona, perdona . Fu questo l'ultimo sforzo d'una vita che fuggiva già lontano come fugge un'ombra all'avvicinarsi di una gran luce. Don Angelo senza pensare a cambiar stola, voltò alcune pagine del libro, che contiene in poco spazio l'eterna leggenda delle gioie e dei dolori che passano, e cominciò a leggere le orazioni degli agonizzanti, a cui risposero i presenti, stando inginocchiati. La poverina spirò ai primi tocchi dell'avemaria sul finire di quel Natale che doveva essere per lei cosí bello e cosí felice. Giacomo si alzò e venne condotto fuori. Non piangeva. Un sentimento di serena convinzione, starei per dire di umiltà soddisfatta, gli permetteva di essere il meno scosso e il meno turbato di tutti. Sentiva confusamente che qualche cosa era finito, per cedere il posto a qualche cosa di più grande, che non avrebbe potuto trovar posto poco prima nell'anima sua.

L'edificio, che portava il nome di Rivalta, avrebbe quasi potuto aspirare all'onore di palazzo, se non fosse stato il deplorevole abbandono, in cui da cinquant'anni in qua lo avevano lasciato i molti e cattivi padroni, che se l'erano barattato. Di fuori conservava ancora le traccie e la fisionomia dello stile pesante del seicento per il suo portone a grossi dadi di pietra, sovraccaricato da un enorme mascherotto di sasso, e per due vecchie colonnette mal sagomate messe davanti, che reggevano ancora qualche rugginoso pezzo di catena; ma l'erba cresceva tra i ciottoli del grossolano selciato, spuntava dalle screpolature delle sconnesse cornici, le gelosie si sgretolavano nei loro vecchi telai,dopo aver lasciata l'ultima vernice come una allumacatura lungo le pareti delle muraglie, e le macchie s'incontravano, scendendo, coll'umidità che saliva dalla corte, come sparse ombre di desolati fantasmi. Il caseggiato signorile, dopo aver servito per alcuni anni ad uso di filatoio, era caduto, in conseguenza d'un fallimento, nelle mani rapaci di questo signor Ignazio, un ex-impresario teatrale, intraprenditore di affari indecisi, sovventore riconosciuto di denaro al prossimo, che tra le molte trappole aveva piantata qui la famosa sega a vapore. La sega non lavorava piú per mancanza, diremo cosí, di combustibile; ma il sottile affarista lavorava sempre anche al buio, stendendo i suoi fili invisibili per un circuito di venti o trenta miglia a tutti gl'ingenui, a tutti i discoli, a tutti gli allucinati, a tutti i credenti e miscredenti della fortuna. Mauro Lanzavecchia era stato uno degli ingenui. Siccome questo signor Ignazio, ricco ormai del suo, era oggi molto meno bisognoso di far affari, aveva sugli altri suoi pari il vantaggio di poter aspettare le buone occasioni, le quali non si maritano che agli uomini pazienti. E ciò spiega come molti buoni figliuoli di famiglie oneste lo preferissero agli altri esosi speculatori di mestiere, che non mirano che a guadagnar presto. Don Giacinto l'aveva, per esempio, sempre trovato un uomo ragionevole, e in certe occasioni quasi generoso. La stessa educazione dell'uomo, che aveva molto viaggiato e trattata la compagnia variopinta degli artisti, oltre a dargli il trattocivile e corretto, non gli permetteva di mostrarsi sordidamente avido e taccagno, come si mostrano gli strozzini di seconda qualità. Dacché cominciava a invecchiare e a schiudere la mente, come soleva dire, ai casti pensieri della tomba, il suo primo pensiero non era tanto di far quattrino da quattrino, quanto di collocare onestamente la sua Norma a una persona onesta, che facesse onore al suo denaro. Un galantuomo è anche lui un buon capitale nel mondo, quando sia ben impiegato; e nessuno sa meglio apprezzare la rendita che fruttano le modeste virtú di un uomo onesto, quanto colui che si è trovato qualche volta nelle condizioni di non poter esserlo. Questo pensiero non era estraneo al desiderio, che lo spingeva ad accostarsi al giovine Lanzavecchia, a mostrarglisi ragionevole, docile, transigente, migliore della sua fama, disposto ad accogliere una buona proposta, a rendere un buon servizio, a riparare, se pareva necessario, un torto o una ingiustizia, a rimetterci del suo, piuttosto che passare agli occhi del sor Giacomo come un aguzzino bramoso del sangue altrui. E in questo suo desiderio era tanto piú lodevole in quanto che, a sentirlo, avrebbe potuto maritare la sua Norma a fior di banchieri ricchi sfondati e, se avesse voluto, farne una contessa o una marchesa. Duecento mila lire pronte e il resto a babbo morto, col tempo che fa, possono indorare le vecchie corone, che, senza lo splendore del metallo, nessuno le vuole piú nemmeno per insegna d'osteria. Invece, se Giacomo Lanzavecchia si fosse fatto avanticol fallimento in una mano e il suo diploma nell'altra, l'amoroso padre l'avrebbe preferito a un principe, non una volta, ma quante volte il carattere, l'intelligenza, il sapere, il nome superano i titoli oziosi. Giacomo andò alla Rivalta col denaro e coll'autorizzazione di ritirare le cambiali, che don Giacinto aveva rilasciate a favore di alcuni suoi compagni di studio. Dal piazzaletto della vecchia villa si dominava un gran tratto della valle e del corso dell'Adda. Il Ronchetto col suo fastoso palazzo biancheggiava nel verde folto del giardino; piú sotto era il Santuario; e piú in basso ancora le Fornaci, con due vecchi camini lunghi e affumicati, colla vecchia casa dal tetto bistorto, dai pioventi cascanti anneriti dal tempo, coi riquadri dei mattoni rossi, che spiccavano sugli spazi giallognoli esposti al sole dove gli operai lavorano a modellare la terra nelle forme, all'ombra di un graticcio di foglie secche. Dall'alto si poteva scorgere anche un tratto del muricciuolo, che chiude il camposanto. Giacomo si soffermò un istante a riassumere, con un'occhiata pensosa, la storia della sua povera casa, e provò un senso quasi d'orgoglio davanti alla riflessione che la filosofia, usata bene, può servire a qualche cosa. Se i creditori non erano piombati come uno stormo di avvoltoi sulla sua casa, se i suoi fratelli avevano lavoro e sua madre un letto e un boccone di pane, il merito stavolta era stato dei mangialibri. La stima lungamente coltivata aveva fruttato il credito; e il credito aveva disarmata l'avarizia. "Anche i buoni son furbi" - finí col conchiudere in cuor suo, mentre coll'occhio andava a cercare tra le sessanta finestre di casa Magnenzio una certa finestra verso ponente, a cui soleva mandare le sue giaculatorie. Era la stanza di Celestina. La trovò,l'ultima sopra le serre, vi si fermò un istante, e, ricordando che "Frulin" era malata, un senso di oscura tristezza passò come una nuvola nell'animo suo. Un grande abbaiamento di cani lo fece uscire dai suoi pensieri. Si mosse e andò a battere al portone chiuso. Al rimbombo, che rispose di dentro, si raddoppiò lo sguaiato abbaiamento, in mezzo a cui risonò la voce poco armoniosa d'una donna, che sgridava le bestie, inviandole all'inferno. Il catenaccio interno cigolò un pezzo negli anelli, si aprí uno sportello, e comparve la figura poco pulita d'una vecchia serva, che, colle maniche rimboccate fin sopra ai gomiti, dava maledizioni con un padellino a quattro o cinque botoli grassi, ringhiosi che si avanzavano. - È lei, sor Giacomo? venga avanti. - C'è il signor Ignazio? - domandò Giacomo alla donna, nella quale riconobbe una certa Serafina, che aveva servito molto tempo in palazzo. Si voleva che l'avessero mandata via per poca fedeltà. Sui passi della donna, attraversò una corte d'apparenza signorile, ma forse d'aria ancor più umida e tetra che non fosse di fuori. - Sora Norma - chiamò la serva. Una bella voce di contralto rispose con un gorgheggio: - Chi mi chiama? Ed ecco subito dopo comparire sull'uscio della sala una florida ragazza, dal portamento soldatesco, coi capelli scomposti sopra un giubboncello rosso fiammante ornato di alamari d'oro come una divisa ungherese, che si teneva in braccio una cagnolina appena nata, colla tenerezza con cui si porterebbe una bimba a battezzare. Gli occhi grandi e nericome quelli delle famose odalische ebbero un lampo di gioia. Tirandosi accosto l'uscio, senza però nascondere la bella e arruffata testa di zingara, la signorina Norma si scusò di non essere presentabile, e pregò il signor Lanzavecchia di passare nello studio di papà. Il signor Ignazio, con indosso una vestaglia da camera a fiorami rossi su fondo giallo, con un berretto da cavallerizzo in una mano, stese l'altra mano al caro visitatore, si sprofondò in cerimonie, che avevano un non so che di frettoloso e diagitato, e, chiesto perdono per il gran disordine, fece sedere Giacomo in uno stanzino pieno di vecchi mobili, di quadri, di suppellettili preziose, che gli davano l'aspetto d'una bottega di rigattiere. L'ex- impresario, magro, secco, nervoso, col viso volpino di certi uomini d'affari, si mostrò d'una cortesia infinita, profondendosi in complimenti, che il suo accento triestino rendeva ancora piú morbidi. Quando Giacomo fece l'atto di levare il portafogli di tasca, non volle assolutamente né ricevere, né vedere il denaro: - Dica alla signora contessa che non intendo far speculazioni sulla inesperienza di un giovinotto allegro. Don Giacinto ha firmato per gli altri, ed è giusto che gli usi qualche riguardo; io sono pronto a rinnovare questi piccoli effetti, che possono valere molto meno di quel che dicono. Spero invece che la signora contessa vorrà accontentare quel mio modesto desiderio che lei sa, caro signor Giacomo, e vorrà cedermi quel pezzo di campo della Colombera a cui faccio la corte da un pezzo. Questa Rivalta è un cimitero, come vede, e il mio sogno è di finire i miei giorni al sole. Lei deve assolutamente aiutarmi in questa faccenda. - Casa Magnenzio non usa a vendere e non so come potrò persuadere la contessa . - Lei può molto, ora, lo sappiamo; e sappiamo anche che può chiedere quel che vuole a quei signori. - Sono un magro mediatore - tornò a dire il buon uomo. - Lei è piú filosofo di tutti, mi lasci dire, e noi dobbiamo fare della strada insieme. Ora le presenterò mia figlia. - E, dirizzandosi coi suo passetto scivolante verso l'uscio, chiamò due o tre volte: - Norma, vieni un po' qua.- E poi gridò verso la cucina: - Porta il caffè, Serafina. - E poiché Norma si faceva alquanto aspettare, egli tornò a sedersi davanti al giovine, pose confidenzialmente le mani ossute e lunghe sui ginocchi di lui, e, dopo aver battuto tre o quattro colpetti confidenziali, passò la mano sul filo di due baffetti sottili, tinti e tirati aguzzi come punteruoli: - Che piacere che provo, caro professore, di stringere con lei un po' d'amicizia. Io non sono né un letterato, né un protettore di letterati, ma so giudicare gli uomini e li peso per il loro valore. Lei è un uomo, che andrà molto avanti, e per la strada maestra. Noi poveri affaristi, che siamo costretti a rimestare negli stracci, non sempre le mani vanno dove si vorrebbe. La scienza invece è una cosa astratta e pulita; non solo, ma la scienza oggi è la sola e genuina aristocrazia possibile di fronte a questi contini e marchesini, che non valgono piú della porcellana rotta. Il mondo, oggi, è di chi pensa e di chi lavora. Vieni, Norma - disse, alzandosi di nuovo, andando incontro alla figlia, che entrava col vassoio del caffè. - Conosci il professor Lanzavecchia? è un filosofo, che è stato anche garibaldino. La penna e la spada, ecco uno stemma che mi piace. Giacomo si alzò, s'inchinò alla signorina, che nel frattempo aveva dato un colpo di pettine alla chioma selvaggia, e accettò il caffè, ch'essa gli versò lentamente da un cuccumino tignoso, stando in piedi come un gendarme davanti a lui, carezzandolo cogli occhi neri e morbidi come il velluto, fino al punto di costringere il bravo giovinotto ad abbassare i suoi sul piattello. - Questo è il mio gioiello, dirò anch'io come la madre dei Gracchi - esclamò l'orgoglioso padre, stringendo con affettuosa dimestichezza nelle dita la gota rubiconda della ragazza - e, siccome non ho che lei al mondo, posso dire che questaè la mia vita. Essa è nata in America da madre spagnuola. Non è forse un bel pezzo d'andalusa? Avrebbe voluto studiare il canto anche lei come sua madre, che è morta, poverina, di febbre gialla: ma io, che conosco il mestieraccio, glielo proibisco. Quando si hanno duecentomila lire di dote, si può fare qualche cosa di meglio che non andare a scopare i palcoscenici colle gonnelle. - Sposerò un principe russo - uscí a dire la bella creatura con tono lieto e scioccherello. - Che principe d'Egitto! sposerai l'uomo che ti piacerà, e mi darai dei nipotini, ai quali voglio lasciare qualche cosa, perché tuo padre non ha ancora eseguiti tutti i pezzi del suo programma. Si parlò di molte altre cose alla ventura, fin che Giacomo, sentendosi avviluppato in quell'aria come da invisibili ragnatele, con un atto d'energia, che sapeva trovare nei momenti decisivi, alzandosi repentinamente, tagliò corto col dire: - Bisogna che io veda subito il ragioniere Riboni e lo mandi qui a definire la faccenda di queste cambiali. La signora contessa desidera che il conte non ne sappia nulla . - So rispettare tutte le delicatezze - disse il padrone di casa con un fare umile umile. - Io spero che il signor Giacomo vorrà favorirmi qualche altra volta. Abbiamo di là una piccola raccolta di monete antiche, che forse potranno interessarla. Norma sa distinguere benissimo un Nerone da un Diocleziano. Sento dire che anche il conte Magnenzio è un mezzo antiquario. Lo incoraggi, e me lo conduca qualche volta. Troverà prezzi, dirò cosí, di fallimento. Norma, accompagna il signor professore . E dopo avere stretta la mano di Giacomo nelle sue di scheletro vivente, s'inchinò per l'ultima volta, chiuse l'uscio, lasciando che la ragazza accompagnasse il giovane a vedere la raccolta delle medaglie antiche. Ma Giacomo, che possedeva la sua psicologia e sapeva servirsene, mostrò di avere una grande premura, promise che sarebbe tornato con piú comodo e, rinnovati i suoi rispetti alla signorina, si avviò verso il portone seguito dai botoli, che mostrarono colle loro giravolte e con certi mugolii di tenerezza di saper anch'essi apprezzare la filosofia. Quando Giacomo fu di fuori, corse a un tratto per la bella strada al sole, colla contentezza del topolino che fugge da una trappola troppo grande per il suo piccolo corpo. Che il signor Ignazio volesse bene a sua figlia e lavorasse per accrescerle la dote, che Norma, la figlia della spagnuola, avesse due magnifici occhi e un fare procace di baiadera, eran cose naturali, che stavan bene al loro posto; il punto difficile cominciava nel voler trovare quel tal uomo rispettabile, che servisse di errata corrige alle cattive speculazioni del suocero e che, insieme a una bella ragazza spettinata, si rassegnasse a sposare una ricchezza racimolata nei due emisferi a furia di baratti e di usura. Sollevando lo sguardo alla finestra della sua Celestina, l'ultima sopra le serre, che splendeva nella luce del sole, gli parve di guardare in un angolo del paradiso.

Teresa

678607
Neera 5 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Scoppiò a piangere, con una desolazione, un abbandono che intenerirono la pretora; la quale, abbracciatala maternamente, si diede a consolarla: - Via, via, non ne parliamo altro; sei tanto giovane ... capiterà di meglio ... speriamolo. Oh! Dio, vedete qui questa bella ragazza che piange, priva d'amore, e tanti uomini invece ... Strinse il pugno minacciando nell'aria una legione invisibile di uomini, e li chiamò egoisti, brutali, avidi, calcolatori. - Guarda, se tu sapessi ... se potessi solamente dirti come non valgono niente ... Infine verrà un giorno che capirai ogni cosa e allora dirai: La Giovannina aveva ragione. Si alzò dandosi una palmatina sui rigonfi del vestito, un po' nervosa. - Se ne va? - Sì. È l'ora che tornano a casa i monelli dalla scuola. Se non mi trovano presente, succede un diavolìo; io, lo sai, ho un sistema spiccio per farli star cheti ... Ci vorrebbe per l'Ida, che, sia detto intanto che babbo e mamma non sentono, è un vero folletto in carne ed ossa. Ieri ha picchiato la mia Estella come fosse un tamburo, ma se la trovo io ... E cosí piccina! Quando poi sarà grande ... - Non so proprio cos'abbia quella bambina nella pelle, - disse Teresa - la mamma se ne dispera, creda ... ma, povera mamma, non ha piú salute; tocca a me a ridurla meglio che posso ... e non ci arrivo; babbo la protegge sempre. - Sì, sì, hai la tua bella croce. E le gemelle, eh? quelle mutrione ... pelano la gallina senza farla gridare, tutt'e due d'accordo, che quel che dice l'una dice l'altra; sono due corpi in un'anima sola. S'erano avviate nell'andito; si fermarono ancora un momento prima di aprire la porta. - Fai la mamma innanzi tempo, tu ... Cara Teresina, vero come c'è Dio, se non ti voglio un bene di sorella! Magari la mia Giulia e la Bice e l'Estella e la Norina ti assomigliassero; sarei una madre fortunata. Si intenerirono entrambe, tenendosi per la mano, ciondolando, senza riuscire a staccarsi. La pretora, che aveva la faccia voltata verso il giardino, esclamò: - Che bella cedrina! Io non sono mai arrivata ad averla così viva e folta; le bestie me la mangiano sempre; quelle bestie che nascono dalla pianta stessa, che ne hanno il preciso colore e portano sulla schiena certe righe azzurrine che sembrano ricami di ciniglia ... un orrore ti dico! - Ne vuole una piantina? - Volentieri. - Attacca subito. Tornarono indietro fino ai vasi di cedrina, fermandosi a guardarla, stropicciandone le lunghe foglie asprette e odorose. La fanciulla andò a prendere una forbice. - Penso che le bestie me la mangeranno ancora! - esclamò la pretora languidamente. - Oh perché? Verrò io a tenergliela pulita. Si guardarono, sorrisero. Una placida simpatia di donna le spingeva l'una verso l'altra. Intanto che Teresa, china sull'arbusto, ne tagliava i ramicelli, la pretora le accomodava le treccie piú alte sulla nuca. - Così, stai meglio. - Non ho mai tempo di pettinarmi a modo. - Povera ragazza! Alla cedrina vennero aggiunti due bei gerani rossi infocati e un garofano dello stesso colore. - Sai che cosa indica nel linguaggio dei fiori il garofano rosso? - chiese la pretora, riunendo con delicatezza i gambi, colla testa un po' inclinata da una parte, l'occhio socchiuso: - Amor vivo e puro Grazioso nevvero? se esistesse. Teresina non afferrò subito l'ironia; ma la capì a poco a poco, rifacendo l'andito verso la porta, e un sentimento di malinconia la invase. - A rivederci. - A questa sera. La porta era chiusa. Sul punto di varcarla, la pretora si fermò: - Notizie di Carlino? - Buone. Deve arrivare a giorni. - Addio dunque; non me ne vado piú. Saluta la mamma. - Senta. Era Teresina, questa volta che la richiamava. Voleva chiederle quando si farebbe il matrimonio della Portalupi; ma, colpita da una vergogna improvvisa, balbettò e si confuse. La pretora, quasi le avesse letto nel pensiero, disse: - Presto i confetti, dall'altra parte della strada; e, chi sa, forse presto anche da questa parte ... Teresina crollò il capo, ridendo, per mostrarsi forte. - Oh! se lei dice che gli uomini non valgono nulla, che sono egoisti, brutali, avidi, calcolatori ... Già fuori, con un piede sul selciato della via, l'amica si volse tutta d'un pezzo: - E sono pronta a ripeterlo. Ma, che vuoi, è un po' come le cipolle; vi è cosa piú volgare, che ammorba dove tocca, che fa piangere solamente a maneggiarla, doppia da non riuscire mai a contarle le pelli, comune che si trova dappertutto, disgustosa al punto che nessun animale la mangia? Eppure si pretende che senza cipolla è impossibile fare un manicaretto gustoso. Addio. Scappò decisamente.

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Orlandi ancora piú bello del solito, spigliato, ridente, collo sguardo che raggiava, con un abbandono sicuro in tutte le movenze. - Il Natale qui? - gli domandò la signora Soave. Orlandi rispose, guardando Teresina alla sfuggita: - Sono venuto a trovare la zia; riparto fra un'ora. Non volevo passare questo giorno senza vederla. Teresina capì; si appropriò sguardo, parole e intenzione. Avrebbe voluto ringraziarlo lì sul sagrato, sotto quel bel sole d'inverno, in mezzo a tutta quella gente che un momento prima le sembrava nemica. Sollevò gli occhi lentamente, turbata, giuliva, volendo mostrargli la sua riconoscenza, e pur compresa della necessità di non tradirsi. Egli le accompagnò fino alla porta di casa, stringendo la mano a tutte; stringendola a Teresina in modo particolare, quasi a confermarle che era venuto per lei sola. La fanciulla era in estasi; scomparsa la malinconia; scomparso il dispetto. Rise, cantò, fece due o tre volte il giro della propria camera ballando; si guardò nello specchio con somma compiacenza, con una gioia trionfante. Scelse nel cassettone due nastri che le gemelle vagheggiavano da qualche tempo, e gliene fece dono. Condusse l'Ida a spasso per il giardino, giuocando con lei, abbracciandola tutti i momenti con certi baci caldi, furiosi ... - Torna in casa, Teresina, piglierai freddo. Forse che faceva freddo? Teresina ubbidì e tornò a casa; ma salita di nuovo nella sua camera spalancò i vetri, cedendo a un bisogno d'aria, di luce, di moto. A tavola si parlò di Orlandi. Il signor Caccia disse che era un capo-scarico, che dava cattivi esempi a Carlino, che s'era già mangiato parecchie volte i denari della laurea, e che non riuscirebbe mai a nulla di buono. Carlino difese l'amico. Assicurò sopra tutto che Orlandi metteva giudizio, e che alla fine dell'anno si sarebbe laureato immancabilmente. La prima parte del discorso aveva ripiombata Teresina ne' suoi crucci, ma le spiegazioni date dal fratello la rassicurarono. Anche a lei Orlandi aveva scritto che quell'anno piglierebbe la laurea, e dopo si sposerebbero. Nella sera stessa, prima di coricarsi, preparò una lettera. Teneva sotto il letto uno scodellino coll'inchiostro, per non destare sospetti a portarsi il calamaio in camera; la carta la pigliava nello studio del babbo; carta azzurrina, quadrettata, a fogli larghi come pezzuole; il giorno poi in cui arrivasse a possedere qualche lira, si sarebbe data il lusso dei piccoli fogliettini inglesi, come li adoperava lui. Scrisse: che era felice della bella improvvisata, che per quella aveva passato il piú gaio Natale della sua vita, e tante altre cosine graziose, come le sanno dire e scrivere le fanciulle innamorate. Ma siccome le bruciava sempre in fondo al cuore la gelosia della bella donna fotografata, dopo tre pagine di tenerezza si decise a battere un po' quel terreno pericoloso. Non poteva tenersi il dubbio; era troppo atroce. Voleva sapere da lui la verità. Sottoscrisse come il solito, "fedele Teresina". Ella era ben sicura di restargli fedele, sempre, fino alla vecchiaia, fino alla morte. Campando la media comune, aveva davanti a sé trent'anni ancora per amare Orlandi; e si rallegrava pensando come sono lunghi trent'anni. Tre giorni dopo riceveva in risposta un letterone, con francobollo doppio, contenente la fotografia della bella, stracciata in pezzi. A questa nuova vittoria la felicità di Teresina non ebbe piú limiti. Un lieve fumo d'orgoglio si mischiò alla schietta sensazione del suo amore, si sentì potente, divenne audace. Scrisse ancora: che desiderava vederlo, parlargli, chiedergli cento cose, persuadersi che egli l'amava veramente, udirlo ripetere dalla sua bocca. Il giovane venne. Si diedero un convegno come il primo, alla finestra, di notte, e fu piú lungo del primo, inebbriante; Teresina non aveva piú paura. Delle cento cose che voleva chiedergli, non glie ne chiese alcuna; una sola fu detta e ripetuta d'ambe le parti senza varianti, con un crescendo d'ardore; e la ridissero nel separarsi, e se la giurarono coll'anima sulle labbra. Nulla ormai sembrava impossibile a Teresina; con l'amore di Orlandi l'avvenire era suo. Di quindici in quindici giorni lo studente capitava a farle un'improvvisata. Ella cuciva, accanto alla finestra, e lo vedeva a un tratto comparire, rallentando il passo per potersi scambiare almeno un'occhiata. Che emozioni erano quelle! Quando tornò la primavera, e Teresina poté lavorare coi vetri aperti, il suo cuore era sempre nella via, spiando il passo d'Orlandi. Egli passava, rasente il muro, mormorandole una dolce parola; ella lasciava cadere l'ago, oppressa da un turbamento delizioso. Solamente i loro sguardi si incontravano in un abbraccio immateriale, eppure tutte le fibre della fanciulla trasalivano, come al tocco di una fiamma. Nell'abitudine perdeva la prudenza. Oramai non guardava piú se la via era deserta, quand'ella vi si affacciava per salutare il suo amante; non si accorgeva che vi fossero alcune teste curiose dietro le gelosie. Aveva dell'amore tutte le fedi e tutti gli ardimenti. Un dopo pranzo del mese di giugno, la pretora indusse Teresa a fare una passeggiata sull'argine; presero insieme anche Ida, e così, chetamente, s'avviarono dalla parte dei boschi, dove la riva è quasi deserta. Faceva un magnifico tramonto, uno di quei tramonti porpora che si vedono sul Po, dove pare che un incendio arda dietro la linea verde dei pioppi. La bimba si pose subito a cercare i sassolini e le erbe, saltellando libera nell'aperta campagna. Le due amiche venivano dietro silenziose. Erano proprio amiche, ora; da quando Teresina aveva compiuto i vent'anni, la pretora aveva voluto che le desse del tu. Venivano dietro silenziose; la pretora preoccupata, Teresa nell'estasi dei suoi sogni, guardando la riva opposta del fiume. Bruscamente, com'era suo costume, la pretora disse: - Guardi verso Parma, dove c'è Orlandi? La fanciulla arrossì tutta, impreparata alla lotta. - Non negare, sai, è inutile. Il tuo è il segreto di Pulcinella. - Come? ... - Come avviene sempre di questa sorta di segreti. Teresina raccontò ogni cosa; poiché custodir un segreto amoroso è una voluttà, ma farne la confidenza ad un'amica è voluttà maggiore. Accesa in volto, con una sovrabbondanza di gesti e di parole, ella tentò di far capire come Orlandi l'amava; ma la pretora l'ascoltava senza molta emozione, tacendo. - Vedi se l'ho trovato l'amore ardente e puro? Esiste! La pretora continuava a tacere, camminando a testa bassa, coll'aria di persona che medita. - Ebbene, non credi? - Che cosa? - Che Egidio mi ami. - Oh! sì ... lo credo. - E allora perché fai quella ciera scura? - Perché ... non saprei, ma non sono d'opinione ch'egli possa renderti felice. - Non è un buon giovane? - Te lo accordo. - Hai visto, quando ci fu l'innondazione, come si prestò senza compenso alcuno, con rischio della vita? Tutti allora parlavano di lui come di un eroe. - È vero - Ha ingegno. - Senza discussione. - È simpatico, bello ... - E questi sono, non v'ha dubbio, i suoi meriti piú evidenti. - Se poi lo conoscessi, nell'intimità, quant'è caro ... - Anche di ciò sono persuasa. Ma è una testa calda, capisci? piena di grilli, con poca tenacità di propositi, con nessuna voglia di lavorare ... - Sembri mio padre! - esclamò Teresina con dispetto. - Come se tutti al mondo dovessero essere posati, seri e noiosi per riuscire a qualche cosa di buono. - È un fatto - continuò la pretora - che da tre anni si mangia regolarmente i denari della laurea. - Ma quest'anno no. Me lo ha promesso. - Voglio ammettere. E dopo? - Dopo ci sposiamo. - Così? La ragazza mostrò di non comprendere. - Non può esercitare l'avvocatura prima di averne fatta la pratica. - La farà. - Altri due anni. - Pazienza. - Egli di casa sua non è ricco ... - Insomma finiscila. Io l'amo. Dopo questa interruzione violenta, la fanciulla pianse un poco, stringendosi al braccio dell'amica, ripetendole che adorava Egidio, che non avrebbe potuto vivere senza di lui. La pretora si intenerì; ricordò anche lei i suoi primi amori, le belle illusioni de' suoi vent'anni. - Infine - mormorò - posso ingannarmi. Orlandi non è cattivo; se ti ama veramente, saprà compiere il miracolo. - Mi ama! Così gridò Teresina infiammata d'entusiasmo, colle braccia tese verso la riva destra del Po, dove il sole tramontando accendeva i boschi.

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Teresa si scosse, strinse i denti, chiuse gli occhi e sospirando e sollevando le braccia al di sopra del capo, le stirò, con un abbandono al quale risposero tutte le sue fibre, gemendo. Nel salotto terreno, nell'umido e buio gineceo, il signor Caccia terminava i suoi giorni, confinato sul divanuccio dove la signora Soave aveva trascorsa tanta parte della vita, lagnandosi dolcemente cogli occhi volti al cielo. Egli finiva, battuto, vinto nelle sue forze maggiori; ridotto così gramo da dover implorare l'altrui compassione, spoglio d'ogni potere, in balia dell'unica figlia che gli era rimasta accanto. E quella figlia non era la prediletta; l'aveva anzi disconosciuta spesso, rendendola vittima del suo assolutismo. Si trovavano di fronte, soli, con tutto un passato che li divideva, coll'amarezza indistruttibile dei dolori sofferti. Tacevano, ma nel silenzio della figlia c'era forse un rimprovero; in quello del padre un rimorso - e piú che un rimorso, per quel carattere superbo, l'umiliazione di dovere a lei un prolungamento d'esistenza. La osservava, qualche volta, con un'ira sorda, qualche altra con un improvviso impeto di tenerezza. Teresa era calma. Non esagerava le dimostrazioni d'affetto; era attenta, docile. Compieva i suoi obblighi senza entusiasmo e senza fiacchezza, seria. Ma tutta la sua gioventù sfiorita sembrava rimasta nella casa, intorno a lei, in quelle pareti che l'avevano vista fanciulla, dove era caduto ogni giorno, ogni ora, come da una clepsidra, un raggio della sua bellezza; dove ella aveva assistito al succedersi degli anni, alle lente evoluzioni della famiglia e di se stessa. Guardava il suo passato nello stesso modo che avrebbe guardata un'altra persona, evocando la Teresina di quindici anni, così lieta, il giorno in cui era partita per Marcaria, su quello stradone lungo, tutto soleggiato, che non finiva mai, dove il sediolo di Orlandi correva in mezzo a un nuvolo di polvere. Ripensandoci, le pareva una profezia; egli le era passato accanto, fuggendo. Ah! come avrebbe voluto ricominciare la vita ora che la conosceva meglio. Quando era assalita da questo rammarico, si struggeva, con una melanconia acuta, con un livore che la rimescolava tutta, fino nei rimpianti lontani, fino nei desideri piú gelosamente custoditi che ella credeva domati per sempre. Le lunghe, le penosissime ore che trascorsero così, padre e figlia! - sempre uniti, dignitosi, sopportando fieramente il peso del loro dovere, trascinando l'odiosa catena delle consuetudini, degli affetti imposti. Una lettera di Carlino venne a portare l'ultimo colpo ai due che rappresentavano ancora l'unione della famiglia Caccia. Il giovane annunciava, brevemente, il suo matrimonio colla figlia di un oste, che egli aveva sedotta. Non una parola di scusa, non un atto di deferenza all'autorità paterna. Nulla. Era la volontà brutale di un uomo libero, che non ha bisogno di nessuno. Il signor Caccia ne fu scosso in modo da far pietà. Il medico, accorso per un peggioramento nello stato dell'infermo, disse subito che non si sarebbe riavuto da quel colpo. Infatti continuò a peggiorare, e sul principio d'autunno, avendo già perdute le facoltà della parola e della memoria, attaccato da paralisi al cuore morì. Tutti in paese credettero che Teresina andrebbe a stare colle sorelle; ma Teresina non si mosse. Assistí il padre fino all'ultimo sospiro, lo collocò nella bara, lo vegliò morto. Nel momento che lo portavano via, pianse. Poi riprese le abitudini tranquille, vagolando, come un'ombra nella casa deserta. Invano qualcuno, il dottore, la pretora, le vicine Ridolfi tentarono di farla uscire, di procurarle delle distrazioni. Ella rifiutò tutte le proposte, così calma, così fredda, che finirono col giudicarla insensibile. "Poveretta!" pensava la pretora "ha sofferto tanto che il cuore le si è indurito, non sente piú nulla". Pure, come risorsa estrema, valendosi dell'antica amicizia, la tentò un giorno dal lato dell'amor proprio, e le disse: - Ho paura che rassomigli davvero alla Calliope; non esci mai, tieni la casa sbarrata ... mettiti un po' a farmi gli sberleffi, vediamo se riesci. Ma anche da questa parte Teresina si mostrò invulnerabile. Un sorriso serio, profondamente malinconico, era la sua risposta a tutto ed a tutti. Passarono due mesi. Negli ultimi giorni dell'anno ricevette una lettera di Egidio. Egli era ammalato, povero, senza aiuto alcuno. Le scriveva come un figlio scriverebbe alla madre, con una fede illimitata. Teresa fece molte riflessioni su quella lettera, molte meditazioni, e per tutta la notte non dormì; e il giorno dopo tornò a riflettere e a meditare. La pretora, non vedendola, venne a prendere sue nuove. La trovò in camera, circondata da abiti, da oggetti di biancheria gettati alla rinfusa su per i mobili, con una valigia in terra, aperta. - Che cosa vedo? Ti decidi finalmente ad andare dai Luminelli? Teresa non rispose subito. Era molto preoccupata; ma dopo un momento, prese le mani dell'amica e parlando piano, con una gravità pensierosa: - Egli mi ha scritto. La pretora non comprese subito. Da sei o sette mesi non era stato pronunciato, fra loro, il nome di Orlandi. Non nascose quindi la sua meraviglia, al contrario l'accentuò: - Ti ha scritto ancora? Che vuole? - Nulla. La pretora crollò il capo. Teresina soggiunse: - È ammalato. - Ah! - Solo. La pretora questa volta non pronunciò sillaba. Successe un silenzio, breve, penoso. Teresa piegava un abito sul letto, dando le spalle all'amica. Rapidamente, come si strappa un dente, disse: - Vado via domattina. E si voltò, coll'abito sul braccia. Gli sguardi delle due donne si incrociarono. La pretora aveva compreso. Tacque un momento, intanto che Teresa assettava la valigia. Quand'ebbe finito, per impulso simultaneo si appoggiarono tutte e due al letto, serie e commosse: - Hai riflettuto? - Sì. - E sei decisa? - Decisa. La pretora tentò la via del sarcasmo, dicendo con un sorriso freddo: - Vai a fare l'infermiera! - Quel che Dio vuole - rispose Teresa. Allora l'altra riprese: - Che cosa penseranno le tue sorelle, tuo fratello? Si strinse nelle spalle. - La gente? - Oh! la gente poi ... E sorrise col suo sorriso malinconico, al quale si aggiunse una punta di ironia. - Tuttavia ... se mi facessero delle osservazioni, a me, tua amica? - Ebbene dirai ai zelanti che ho pagato con tutta la mia vita questo momento di libertà. È abbastanza caro nevvero? Tornò a sorridere e si lisciò colle mani - due piccole manine di cera gialla - i capelli che incominciavano a perdere i riflessi bruni. La pretora restò con lei quasi tutto il giorno. All'indomani mattina, tutta vestita di nero per il lutto, con un velo che le nascondeva mezza la faccia, Teresa chiudeva la porta della sua casa. L'amica, fedele fino all'ultimo, le era vicina. - A rivederci, a rivederci, sai? - Speriamo - rispose Teresa, con accento profondo, già impressionata dei misteri del futuro. Don Giovanni Boccabadati, tutto ravvolto in una pelliccia, mise il capo alla finestra. Teresa si ricordò il giorno in cui egli pure era partito, partito col sole e colle rondini, in un mattino di primavera. - Hai una brutta giornata - disse la pretora. Ella guardò in alto, con indifferenza, e s'avviò coll'amica verso la stazione. Prima di entrare nella sala d'aspetto, si fermarono ancora qualche istante per salutarsi, per rinnovare la raccomandazione di scriversi. Nel momento che Teresa varcava la soglia, avendo già consegnato il biglietto, l'amica le si slanciò contro, abbracciandola. Voleva dirle qualche cosa ancora, ma ammutolì nell'amplesso. Si guardarono intensamente, senza profferire una sola parola. - Partenza! partenza! La pretora corse al cancello che chiudeva la via ferrata. Fu in tempo a vederla un'ultima volta. Si salutarono colla mano e cogli occhi, finché fu possibile. Poi il velo nero di Teresa cessò di fluttuare allo sportello del carrozzone; il treno si mosse. Nevicava. 101

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