Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 5 occorrenze

Era un pensiero dolce e pietoso, pieno di riposo e di abbandono, pieno di pace. Faceva bene di starlo a guardare poiché anche la fede negli spiriti era perduta. Morire, finire. L'altra volta molto aveva potuto contro il fascino dell'acqua la immagine del vecchio zio. Or a poteva meno. Lo zio era caduto, dalla morte di Maria in poi, in un mutismo quasi completo che Luisa attribuiva a un principio di apatia senile. Ella non aveva capito come nell'animo del vecchio vi fossero insieme al dolore disapprovazioni profonde; quanto lo urtassero le quotidiane ripetute visite al cimitero e i fiori e le gite misteriose a Casarico e, sopra tutto, l'abbandono completo della chiesa. Se non fosse stata così presa dalla sua morta, avrebbe potuto intender meglio lo zio almeno in quest 'ultimo punto della chiesa, perché adesso il vecchio silenzioso ci andava lui, in chiesa, più di prima, tornava col cuore alla religione di suo padre e di sua madre praticata sinora freddamente, per abitudine, per ossequio alle tradizioni di casa. Pareva a Luisa ch'egli fosse diventato alquanto ottuso e che se ai bisogni suoi fosse provveduto non gli occorrerebbe altro. Per le cure materiali v'era la Cia e le risorse che bastavano per tre meglio avrebbero bastato per due. Luisa credette veder l'acqua salire un palmo. E Franco? Franco si desolerebbe, piangerebbe per qualche anno e poi sarebbe più felice. Franco aveva il segreto di consolarsi presto. L'acqua parve salire un altro palmo. Nello stesso momento in cui ella s'era affacciata al parapetto, Franco, passando in via di Po davanti a San Francesco di Paola, aveva veduto lumi e udito l'organo. Era entrato. Appena detta una preghiera, il pensiero dominante lo aveva ripreso, il suono dell'organo gli si era trasformato in un fragore di trombe, di tamburi e d'armi e, mentre un canto di pace si levava sull'altare, a lui era parso caricar con furore il nemico. A un tratto si vide in mente l'immagine di Luisa vestita a lutto, pallida. Si mise a pensare a lei, a pregare per lei con fervore intenso. Allora là sul sagrato di Oria ella sentì un freddo, un'uggia, un mancar della tentazione. Volle richiamarla e non poté. L'acqua ridiscendeva. Una voce intima le disse: e se il professore si è ingannato? Se non è vero che il tavolino abbia risposto prima di si e poi di no? Se non è vero di questi spiriti menzogneri? Si tolse dal parapetto e sali, a passi lenti, in casa. Trovò lo zio in cucina, seduto sotto la cappa del camino, con le molle in mano e col bicchiere di latte accanto. La Cia e la Leu cucinavano. "Dunque", disse lo zio, "sono andato alla Ricevitoria. Il Ricevitore è a letto con l'itterizia, ma ho parlato col Sedentario." "Di che cosa, zio?" "Di Lugano, della tua andata a Lugano il 25. Mi ha detto che chiuderà un occhio e che passerai." Luisa tacque, stette a guardar il fuoco meditabonda. Poi diede certi ordini alla Leu per l'indomani e pregò lo zio di venire in salotto con lei. "Cosa serve?", diss'egli con la solita semplicità. "Non avrai gran segreti. Stiamo qui che c'è il fuoco." La Cia accese il lume. "Usciremo noi", diss'ella. Lo zio fece la sua solita smorfia di compassione per le altrui sciocchezze ma tacque, bevve il suo bicchier di latte e lo porse silenziosamente a Luisa. Luisa prese il bicchiere e disse piano: "Non ho ancora deciso". "Cosa?", fece lo zio bruscamente. "Cosa non hai deciso?" "Se andrò all'Isola Bella." "Euh! Che diavolo?" Lo zio Piero non la poteva neanche intendere una cosa simile. "E perché non andresti?" Ella rispose con tranquillità, come se dicesse una cosa ovvia: "Ho paura di non poter lasciare Maria". "Ah senti!", fece lo zio. "Siediti là." Le additò il sedile in faccia, sotto la cappa del camino, lasciò le molle e disse con quella sua voce grave, onesta voce del cuore: "Cara Luisa, hai perso la bussola". E alzate le braccia con un "euh!" profondo, le lasciò ricadere sulle ginocchia. "Persa!", diss'egli. Stette un poco in silenzio, a capo chino, porgendo le labbra con un brontolio di parole in formazione, che poi uscirono. "Cose che non avrei mai creduto! Cose che paiono impossibili. Ma quando" (così dicendo rialzò il capo e guardò Luisa in faccia) "si comincia a perderla, la bussola, l'è fatta. E tu, cara, hai cominciato a perderla da un pezzo." Luisa trasalì. "Eh sì!", esclamò lo zio a gola piena. "Hai cominciato a perderla da un pezzo. Ed è questo che volevo dirti. Senti: mia madre ha perso dei figli, tua madre ha perso dei figli, ho visto tante madri perdere dei figli e nessuna faceva come te. Ci vuol altro, siamo tutti mortali e dobbiamo accettare la nostra condizione. Si rassegnavano. Ma tu, no. E questo cimitero! E queste due, tre, quattro visite al giorno! E questi fiori, e cosa so io, oh povero me! E anche queste scempiaggini che fai a Casarico con quell'altro povero imbecille, che voi credete farle in segreto e tutti ne parlano, persino la Cia! Oh povero me!" "No, zio", disse Luisa tristemente ma tranquillamente. "Non dir queste cose. Non puoi capire." "Siamo intesi", rispose lo zio con tutta l'ironia di cui era capace. "Non posso capire. Ma poi ce n'è un'altra. Tu non vai più in chiesa. Io non ti ho mai detto niente perché in queste cose il mio principio è stato sempre di lasciar fare a ciascuno quel che crede; ma quando ti vedo perdere, dirò così, il buon senso e anche il senso comune, non posso a meno di farti riflettere che se si voltano le spalle a Domeneddio, si fanno di questi guadagni. Adesso poi questa idea di non voler andare a vedere tuo marito, in circostanze simili, passa tutti i limiti." "Vuol dire", riprese dopo una breve pausa, "che ci andrò io." "Tu?", esclamò Luisa. "Perché no? Io, sì. Contavo di accompagnarti ma, se non vieni, andrò solo. Andrò a dire a tuo marito che hai perduto la testa e che spero di andar presto anch'io a trovar la povera Maria." Mai nessuno aveva udito dal labbro dello zio Piero una parola tanto amara. Fosse questo, fosse l'autorità dell'uomo, fosse il nome di Maria pronunciato così, Luisa fu vinta. "Andrò", diss'ella. "Ma tu devi restar qui." "Niente affatto", rispose lo zio contento. "Sono quarant'anni che non vedo le Isole. Approfitto dell'occasione. E chi sa che non mi arruoli in cavalleria, io?" "E così", disse la Cia a Luisa dopo che lo zio era andato a letto. "Vuol proprio partire anche il mio padrone? Cara lei, per amor del Cielo, non glielo permetta!" E le raccontò che due ore prima egli aveva stralunato gli occhi e piegata la testa sul petto; che chiamato da lei non aveva risposto; che poi si era riavuto e che alle premurose domande di lei era andato in collera protestando di non aver avuto male, di aver sentito solo un po' di sonno. Luisa l'ascoltava in piedi, col lume in mano, con gli occhi vitrei, divisa fra l'attenzione alle parole che udiva e qualche altro pensiero assai diverso, assai lontano, dallo zio, dalla casa, dalla Valsolda.

Se vi erano argomenti capaci di convertire Franco alle idee di sua moglie, erano quel dolce contatto, quel dolce respiro vicino al suo petto, che gli avevan fatto tante altre volte deliziosamente sentire un reciproco abbandono delle anime. Ora non fu così. Gli passò anzi nel cervello, come una lama rapida e fredda, il pensiero che questo latente antagonismo fra le idee di sua moglie e le sue avesse un giorno o l'altro a scoppiare in qualche doloroso modo e se la strinse atterrito nelle braccia come per difender sé e lei contro i fantasmi della propria mente. Il sei novembre, dopo colazione, Franco prese le sue grosse forbici da giardiniere per fare il solito sterminio di seccumi nel giardinetto e sulla terrazza. Era un'ora di tanta bellezza, di tanta pace da stringere il cuore. Non una foglia che si muovesse; purissima, cristallina l'aria da ponente; sfumanti a levante, dentro lievi vapori, le montagne fra Osteno e Porlezza; la casa sfolgorata dal sole e dai riverberi tremoli del lago; il sole assai caldo ma i crisantemi del giardinetto, gli ulivi, gli allori della costa più visibili fra il rosseggiar delle foglie caduche, certa segreta frescura dell'aria imbalsamata d' olea fragrans , il silenzio d'ogni vento, le aeree montagne del lago di Como bianche di neve accordantisi malinconicamente a dire che la cara stagione moriva. Sterminati i seccumi, Franco propose a sua moglie di andar in barca a Casarico per riportare all'amico Gilardoni i due primi volumi dei Mystères du Peuple , divorati avidamente in pochi giorni, e averne il terzo. Fu deciso di partire a mezzogiorno, dopo aver posto a letto Maria. Ma prima che Maria fosse a letto comparve tutta ansante, col cappello e la mantiglia a sghimbescio, la Barborin Pasotti. Era salita dal cancello del giardinetto e si fermò sulla soglia della sala. Veniva per la prima volta dopo la perquisizione; vide i suoi amici, giunse le mani, ripeté sottovoce: "Ah Signor, ah Signor, ah Signor!", si precipitò su Luisa, la coperse di baci. "Cara la mia tosa! Cara la mia tosa!". Avrebbe volentieri fatto altrettanto con Franco, ma Franco non gradiva certe espansioni, aveva una faccia poco incoraggiante, per cui la povera donna si accontentò di prendergli e scuotergli ambedue le mani. "Car el mè don Franco! Car el mè don Franco!". Si raccolse finalmente in braccio la Maria che le puntò le manine al petto facendo un viso simile a quello di suo padre. "Son vègia, neh? Son brutta, neh? Te piasi no? L'è nient, l'è nient, l'è nient!". E si mise a baciarle umilmente le braccia e le spalle, non osando affrontare il visetto acerbo. Poi disse ai suoi amici che aveva portato loro una bella notizia e gli occhi le brillavano di questo mistero gaudioso. La marchesa aveva scritto a Pasotti e nella lettera c'era un periodo che la Barborin aveva imparato a mente: "Ho appreso con vivo dispiacere (vivo dispiacere gh'è sü inscì) il triste fatto di Oria ... di Oria ... (spètta!) il triste fatto di Oria ... (ah!) e benché mio nipote nulla meriti, (ciào, quell pacienza!) desidero non abbia cattive conseguenze". Il periodo non ebbe un gran successo. Luisa fece il viso scuro e non parlò; Franco guardò sua moglie e non osò metter fuori il commento favorevole che aveva nella bocca ma non, per verità, nel cuore. La povera Barborin che aveva approfittato della andata di suo marito a Lugano per correre a portar il suo zuccherino, rimase assai mortificata, guardava contrita ora Luisa ora Franco e finì col togliersi di tasca uno zuccherino vero e proprio onde darlo a Maria. Poi, avendo capito che gli sposi desideravano partire in barca e struggendosi di stare un po' con Maria, tanto disse e fece che quelli se ne andarono lasciando l'incarico alla Veronica di metter la bambina a letto un po' più tardi. Maria non parve gradir molto la compagnia della sua vecchia amica. Taceva, taceva ostinatamente e non andò molto che spalancò la bocca e scoppiò in lagrime. La povera Pasotti non sapeva che Santi invocare. Invocò la Veronica, ma la Veronica discorreva con una guardia di finanza e non udì o non volle udire. Offerse anelli, braccialetti, l'orologio, persino il cappellone da viceregina Beauharnais, ma nulla riuscì gradito. Maria continuava a piangere. Ebbe allora l'idea di mettersi al piano e si mise a picchiare e ripicchiare otto o dieci battute d'una monferrina antidiluviana. Allora la principessina Maria si mansuefece, si lasciò pigliar dalla sua musicista di camera così delicatamente come se le sue braccine fossero state ali di farfalla e posar sulle ginocchia così piano come se vi fosse stato pericolo di far cader in polvere le vecchie gambe. Udite cinque o sei repliche della monferrina, Maria fece un visino annoiato, si provò di strappar dal piano le mani rugose della suonatrice e disse sottovoce: "Cantami una canzonetta". Poi, non ottenendo risposta, si voltò a guardarla in faccia, le gridò a squarciagola: "Cantami una canzonetta!". "Non capisco", rispose la Pasotti, "sono sorda." "Perché sei sorda?" "Sono sorda", replicò l'infelice, sorridendo. "Ma perché sei sorda?" La Pasotti non poteva immaginare cosa chiedesse la bambina. "Non capisco", diss'ella. "Allora", fece Maria con un'aria molto grave, "sei stupida." Dopo di che aggrottò le ciglia e riprese piagnucolando: "Voglio una canzonetta!" Qualcuno disse dal giardinetto: "Eccolo, quel delle canzonette!" Maria alzò il viso, s'illuminò tutta. "Missipipì", diss'ella e scivolò giù dalle ginocchia della Pasotti, corse incontro allo zio Piero ch'entrava. Si alzò anche la Pasotti, stese le braccia, tutta sorpresa e ridente, verso il vecchio inaspettato amico. "Tè chì, tè chì, tè chì!". E corse a salutarlo. La Maria strillò tanto forte "Missipipì, Missipipì!", e si avvinghiò tanto stretta alle gambe dello zio che questi, quantunque paresse non averne voglia, dovette pur sedere sul canapè, pigliarsi la bambina sulle ginocchia e ripeterle la vecchia canzone: Ombretta sdegnosa ... Dopo quattro o cinque Missipipì la Pasotti, temendo che suo marito ritornasse, prese congedo. La Veronica voleva porre Maria a letto. La piccina si crucciò, lo zio intervenne: "Oh lasciatela un po' qui!", e uscì con lei sulla terrazza per vedere se il papà e la mamma ritornassero. Nessuna barca veniva da Casarico. La piccina ordinò allo zio di sedere e gli si arrampicò sulle ginocchia. "Perché sei venuto?", diss'ella. "Non c'è mica, sai, il pranzo per te." "Me lo farai tu, il pranzo. Sono venuto per star con te." "Sempre?" "Sempre." "Proprio sempre sempre sempre?" "Proprio sempre." Maria tacque, pensierosa. Poi domandò: "E cosa mi hai portato?" Lo zio si levò di tasca un fantoccio di gomma. Se Maria avesse potuto sapere, intendere con quale animo, sotto qual colpo lo zio fosse andato a prender per lei quel fantoccino avrebbe pianto di tenerezza. "È brutto questo regalo", diss'ella, ricordando gli altri dello zio. "E se resti qui, non mi porti più niente?" "Più niente." "Va' via, zio", diss'ella. Egli sorrise. Adesso Maria volle sapere dallo zio se, quando era bambino lui, suo zio gli portasse regali. Ma questo zio dello zio, per quanto la cosa paresse impossibile a Maria, non era mai esistito. E allora chi gli portava regali? Ed era egli un buon bambino? Piangeva? Lo zio si mise a raccontarle cose della sua infanzia, cose di sessant'anni prima, quando la gente portava parrucca e codino. Si compiaceva di ricordare alla nipotina quel tempo lontano, di farla vivere per un momento insieme ai suoi vecchi, e parlava con gravità triste, come avendo presenti quei cari morti, come parlando più per essi che per lei. Ella gli fissava in viso gli occhi spalancati, non batteva palpebra. Né lui né lei s'accorgevano che intanto passava il tempo, né lui né lei pensavano più alla barca che doveva venire. E la barca venne, Luisa e Franco salirono senza sospettare di nulla, pensando che la bambina dormisse. Franco fu il primo che vide sotto i rami cadenti delle passiflore lo zio seduto, curvo su Maria che gli stava sulle ginocchia. Mise una gran voce di sorpresa e corse là seguito da Luisa, con l'idea che fosse successo qualche cosa. "Tu qui?", diss'egli correndo. Luisa, pallida, non disse nulla. Lo zio alzò il capo, li vide: essi compresero subito che vi era una brutta novità, non gli avevano mai veduto una faccia così seria. "Addio", diss'egli. "Cosa è stato?", sussurrò Franco. Egli fe' cenno ad ambedue di ritirarsi dalla terrazza nella loggia, ve li seguì, allargò le braccia, povero vecchio, come un crocifisso e disse con voce triste ma tranquilla: "Destituito". Franco e Luisa lo guardarono un momento come istupiditi. Poi Franco esclamò: "Oh zio, zio!", e lo abbracciò. Vedendo quell'atto e il viso di sua madre, Maria scoppiò in lagrime. Luisa cercò di farla tacere, ma ella stessa, la donna forte, aveva il pianto alla gola. Seduto sul canapè della sala lo zio raccontò che l' I. R. Delegato di Como lo aveva fatto chiamare per dirgli che la perquisizione operata nella sua casa di Oria aveva dati risultati dolorosi e inattesi; quali, non aveva voluto assolutamente dire. Aveva poi soggiunto che s'era voluto iniziare un processo contro di lui ma che in vista dei lunghi e lodevoli servigi prestati al Governo si limitava a togliergli l'ufficio. Lo zio aveva insistito per conoscere le accuse e colui l'aveva licenziato senza rispondere. "E allora?", disse Franco. "E allora ...". Lo zio tacque un poco e poi pronunciò una frase sacramentale d'ignota origine che egli stesso e i suoi compagni tarocchisti solevano ripetere quando il giuoco andava disperatamente male: "Siamo arcifritti, o Regina". Vi fu un lungo silenzio; poi Luisa si buttò al collo del vecchio. "Zio, zio", gli sussurrò, "ho paura che sia stato per causa nostra!" Ella pensava alla nonna e lo zio intese che accusasse Franco e sé di qualche imprudenza. "Sentite, cari amici", diss'egli con un tono bonario che aveva pure qualche recondito sapore di rimprovero, "questi sono discorsi inutili. Adesso la frittata è fatta e bisogna pensare al pane. Fate conto su questa casa, su qualche piccolo risparmio che mi frutta circa quattro svanziche al giorno e su due bocche di più: la mia e quella della Cia; la mia, speriamo per poco tempo." Franco e Luisa protestarono. "Ci vuol altro! Ci vuol altro!", fece lo zio agitando le braccia, come a dispregio di un sentimentalismo irragionevole. "Viver bene e crepare a tempo. Questa è la regola. La prima parte l'ho fatta, adesso mi tocca di fare la seconda. Intanto mandatemi dell'acqua in camera e aprite la mia borsa. Vi troverete dieci polpette che la signora Carolina dell'Agria mi ha voluto dare per forza. Vedete che le cose non vanno poi troppo male." Ciò detto lo zio si alzò e se n'andò per l'uscio del salotto con passo franco, mostrando anche da tergo la sua faccia eretta, il suo modesto ventre pacifico, la sua serenità di filosofo antico. Franco, ritto sul limitare della terrazza, con le braccia incrociate sul petto e le sopracciglia aggrottate, guardava verso Cressogno. Se in quel momento egli avesse avuto fra le mascelle un fascio di Delegati, di Commissari, di birri e di spie, avrebbe tirato tale un colpo di denti da farne una melma sola.

Colui che allora l'avesse veduta conoscendo il terribile segreto dell'ora imminente avrebbe pensato che l'angelo della bambina fosse in quel momento supremo accanto a lei e le sussurrasse di pregare per qualche altra cosa che i vigneti e gli uliveti della Valsolda, per qualche altra cosa più a lei vicina, ch'egli non diceva, ch'ella non sapeva e non poteva mettere in parole: avrebbe pensato che negl'inarticolati bisbigli di lei vi fosse un riposto senso tenero e tragico, il docile abbandono di un'anima dolce ai consigli dell'angelo suo, al voler misterioso di Dio. Alle due e mezzo i nuvoloni torvi di Carona diedero un altro tuono cupo a cui subito risposero gli altri nuvoloni del Boglia e della Zocca d'i Ment. Luisa corse sulla terrazza. La gondola era in faccia a S. Mamette e veniva dritta alla Calcinera. Si vedevano benissimo i barcaiuoli far forza di remi. Mentre Luisa posava il cannocchiale, il primo colpo di vento strepitò per la loggia sbattendo usci, vetri e imposte. Atterrita all'idea di indugiarsi troppo, Luisa chiuse in fretta e in furia, p assò correndo per la sala, tolse l'ombrello, uscì senz'avvertir nessuno, senza chiuder la porta di casa e prese la via di Albogasio Inferiore. Passato il cimitero, nel luogo che chiamano Mainè, incontrò Ismaele. "Dove la va, sciora Lüisa, con sto temp?" Luisa rispose che andava ad Albogasio e passò oltre. Dopo cento passi le venne in mente che non aveva avvertito la Veronica della sua partenza, che non le aveva detto di chiuder le finestre nella camera da letto e di badare a Maria. Pensò di mandarglielo a dire da Ismaele. Egli era già scomparso dietro la svolta del Camposanto. Si sentì nel cuore un impulso a tornar indietro ma non c'era tempo. Il rombo del tuono era continuo, radi goccioloni battevano qua e là sul granturco, colpi di vento stormivano per i gelsi, a intervalli, precorrendo i turbini della caronasca. Luisa aperse l'ombrello e affrettò il passo. La furia della pioggia la colse nelle viuzze scure d'Albogasio. Non pensò a riparar dentro una porta, andò avanti imperterrita. Incontrò una frotta di ragazzi che scappavano dalla pioggia dopo aver inutilmente atteso sul sagrato dell'Annunciata il passaggio della marchesa in portantina. Nel breve tratto di via ch'è tra la casa comunale di Albogasio e la chiesa, il vento le rovesciò l'ombrello. Ella si mise a correre, raggiunse quella lista di sagrato che guarda, dietro la chiesa, sulla cala della Calcinera. Là, protetta dalla chiesa contro l'impeto della pioggia e del vento, raddrizzò alla meglio l'ombrello e si affacciò al parapetto. La chiesa dell'Annunciata posa sulla testa d'uno scoglio che dalle radici del Boglia sporge, male avviluppato di rovi e di caprifichi, sopra il lago e chiude da ponente la piccola cala della Calcinera. La lista di sagrato dov'era Luisa corre appunto su quel ciglio dello scoglio. Ell'avrebbe potuto seguir di lassù il cammino della gondola dalle acque di Cressogno fino allo sbarco; ma ora, infuriando l'acquazzone, un baglior bianco le nascondeva ogni cosa. Però se la marchesa non ritornava a Cressogno, doveva pure, in qualunque punto approdasse, passar poi di là, perché lì, dov'è l'attacco dello scoglio sporgente con la costa, monta sul sagrato la scalinata della Calcinera, unica via per salire ad Albogasio Superiore sì dallo sbarco sottoposto che da S. Mamette o da Casarico o da Cadate. In pochi minuti la violenza dell'acquazzone diminuì, i foschi fantasmi delle montagne cominciarono a disegnarsi nel fondo bianco. Luisa guardò giù allo sbarco. Non v'era gondola, non v'era portantina sulla riva, non v'era niente. Questo le diede noia. Possibile che la gondola fosse ritornata a Cressogno? Il fumo si diradò rapidamente, apparve Cadate, apparve sulla bocca della darsena del Palazz, bianco nella nebbiolina grigia, la poppa della gondola. Ecco, la marchesa si era rifugiata al Palazz e così aveva fatto anche Pasotti con la sua portantina e i portatori. Il temporale si poteva dir cessato, la portantina non tarderebbe a comparire. Invece tardò dieci lunghi minuti. Luisa teneva fissi gli occhi sulla stradicciuola che svolta da Cadate nel seno della Calcinera. Non vi era dentro a lei nessun movimento di pensieri. Tutta l'anima sua guardava e aspettava; niente altro. Della gente le passò a sinistra salendo dalla Calcinera o venendo da Albogasio; ogni volta ella si coperse piegando l'ombrello, per non esser conosciuta o almeno per evitar saluti e conversazioni. Finalmente un gruppo di persone comparve sulla svolta. Luisa distinse la portantina, dietro la portantina Pasotti e don Giuseppe, poi, ultimi, i due barcaiuoli della marchesa. Non si mosse ancora, seguì con gli occhi la portantina che avanzava molto lentamente e chiuse l'ombrello perché non pioveva quasi più. Ricomparvero cinque o sei ragazzi d'Albogasio. Ella disse loro bruscamente di andarsene. Indugiavano a obbedire ma un improvviso scroscio di pioggia, senza vento né tuoni, li pose in fuga. La portantina toccava allora il piede della scalinata. Luisa si mosse . Aveva l'occhio freddo, la persona eretta. Raccolta in un solo pensiero, disprezzò la pioggia scrosciante che le batteva sul capo e sulle spalle, che la cingeva d'un torbido velo e di strepito. Le piaceva, forse, quella passione delle cose intorno alla sua propria. Discendeva lenta lenta, con l'ombrello chiuso, stringendone forte il manico, come fosse stato la impugnatura d'un'arma. La scalinata è un po' tortuosa, bisogna scendere alquanti scalini prima di vederne il fondo. Giunta sulla svolta, scorse la portantina, ferma. I due barcaiuoli pigliavano il posto di due portatori. Luisa discese fin dove si spandono sopra la scalinata i rami d'un gran noce. Lì si fermò, proprio nel momento in cui i portatori della marchesa cominciavano a salire. Tutto andava bene. Pasotti e don Giuseppe, salendo dietro la portantina con l'ombrello aperto, non potevano vederla. I portatori, giunti che fossero a lei, bisognava che si fermassero, che si facessero da banda per lasciarle il passo. Quando si avvicinarono, riconobbe i due ch'erano alla testa della portantina, un fratello d'Ismaele e un cugino della Veronica. A quattro passi accennò loro, con un gesto imperioso, di fermarsi. Obbedirono immediatamente, posarono la portantina a terra e così fecero, senza saperne il perché, i due portatori che seguivano. Pasotti alzò l'ombrello, vide Luisa, fece un atto di sorpresa, un cipiglio nero; afferrò don Giuseppe, lo trasse da banda per lasciarla passare, non sospettando che l'incontro fosse premeditato. Ma Luisa non si mosse. "Ella non credeva incontrarmi, signor Pasotti", disse a voce alta. La marchesa mise il capo fuori, la ravvisò, si ritrasse dicendo con qualche vigor nuovo nella sua voce floscia: "Avanti!" In quel momento partirono dall'alto del sagrato acute, disperate grida: "Sciora Lüisa! Sciora Lüisa!". Luisa non udì. Pasotti aveva irosamente gridato ai portatori "avanti!" e i portatori riprendevano le stanghe. "Avanti pure!", diss'ella, risoluta di mettersi a fianco della portantina. "Non ho a dire che due parole." Se Pasotti e la vecchia marchesa avevano prima immaginato lagrime e suppliche, dovettero attendersi allora dal fiero viso e dalla vibrante voce ben altro. "Parole, adesso?", fece Pasotti avanzandosi quasi minaccioso. "Sciora Lüisa! Sciora Luisa!", si gridò da vicino con accento di strazio; e venne con le grida un rumor di passi precipitosi. Ma Luisa non parve udir niente. "Sì, adesso!", rispose a Pasotti con alterezza inesprimibile. "Io avverto, per mia bontà, questa signora ..." "Sciora Lüisa!" Ella dovette pure interrompersi e voltarsi. Due, tre, quattro donne le furono addosso, stravolte, scarmigliate, singhiozzanti: "Che La vegna a cà subet! Che La vegna a cà subet!". Le facce, i pianti, le voci la strapparon d'un colpo fuori della sua passione, del suo proposito. Si avventò fra quelle donne esclamando: "Cosa c'è?". Ed esse sapevano solo ripetere con gli occhi schizzanti dall'orbita: "Che La vegna a cà! Che La vegna a cà!". "Ma cosa c'è, stupide?" "La Soa tosa, la Soa tosa!" Ella gridò come pazza: "La Maria? La Maria? Cosa? Cosa?", udì fra i singhiozzi nominar il lago, cacciò uno strido e, apertasi la via come una fiera, si slanciò su per la scalinata. Quelle donne non poterono tenerle dietro, ma sul sagrato ce ne erano altre, malgrado la pioggia, che strillavano e piangevano. Luisa si sentì mancare, precipitò a terra sull'ultimo scalino. Le donne accorsero a lei, dieci mani la presero, la sollevarono. Urlò: "Dio, è morta?". Qualcuno rispose: "No, no!". "Il medico?", diss'ella ansando. "Il medico?". Molte voci risposero che c'era. Ella parve riaver tutta la sua energia, riprese lo slancio e la corsa. Otto o dieci persone si precipitarono dietro a lei. Due sole poterono seguirla. Volava. Al cimitero incontrò Ismaele e un altro, gridò appena li vide: "È viva? È viva?". Il compagno d'Ismaele ritornò indietro di corsa per andar ad avvertire che la madre veniva. Ismaele piangeva, seppe solamente rispondere: "Esüsmaria, sciora Luisa!", e fece atto di trattenerla. Luisa lo urtò freneticamente via, passò oltre, seguita da lui che aveva perduta la testa e adesso le gridava dietro, correndo: "L'è forsi nient! l'è forsi nient!". Pareva che la pioggia dirotta, continua, eguale, lo smentisse piangendo. Giunta ansante sul sagrato di Oria, Luisa ebbe ancora la forza di gridare: "Maria! Maria mia!". La finestra dell'alcova era aperta. Udì la Cia che piangeva ed Ester che la sgridava. Alcune persone fra le quali il professor Gilardoni le uscirono incontro. Il professore teneva le mani giunte e piangeva silenziosamente, pallido come un cadavere. Gli altri bisbigliavano: "Coraggio! Speriamo!". Ella fu per cadere, esausta. Il professore le cinse la vita con un braccio, la trasse su per le scale che eran gremite di gente, come pure il corridoio, al primo piano. Luisa passò, quasi portata di peso, fra voci affannose di conforto: "Coraggio, coraggio! Chi sa! Chi sa!". All'entrata della camera dell'alcova, si sciolse dal braccio del professore, entrò sola. Avevan dovuto accendere il lume perché nell'alcova, causa la pioggia, faceva scuro. La povera dolce Ombretta posava nuda sul letto cogli occhi semiaperti e la bocca pure semiaperta. Il viso era leggermente roseo, le labbra nerastre, il corpo di una lividezza cadaverica. Il dottore, aiutato da Ester, tentava la respirazione artificiale, portando le piccole braccia sopra il capo e lungo i fianchi, alternativamente; facendo pressioni sull'addome. "Dottore? Dottore?", singhiozzò Luisa. "Facciamo il possibile", rispose il dottore, grave. Ella precipitò col viso sui piedi gelati della sua creatura, li coperse di baci forsennati. Allora Ester fu presa da un tremito. "No no!", fece il dottore. "Coraggio, coraggio!" "A me", esclamò Luisa. Il dottore l'arrestò con un gesto e fece segno ad Ester di sostare. Si chinò sul visino di Maria, le mise la bocca sulla bocca, respirò più volte profondamente, si rialzò. "Ma è rosea, è rosea!", sussurrò Luisa ansando. Il dottore sospirò in silenzio, accese un cerino, lo accostò alle labbra di Maria. Tre o quattro donne che pregavano ginocchioni si alzarono, si accostarono al letto palpitanti, trattenendo il respiro. L'uscio della sala era aperto; altri volti si affacciarono di là, silenziosi, intenti. Luisa, inginocchiata accanto al letto, teneva gli occhi fissi alla fiamma. Una voce mormorò: "Si muove". Ester, dritta dietro Luisa, scosse il capo. Il dottore spense il cerino. "Lana calda!", diss'egli. Luisa si precipitò fuori e il dottore riprese i movimenti delle braccia. Poi, quando Luisa ritornò con la lana riscaldata, egli da un lato, ella dall'altro si diedero a strofinar forte il petto e il ventre della piccina. Dopo un po', vedendo il pallore, il viso contraffatto di Luisa, il medico fece segno ad una ragazza di pigliarne il posto. "Ceda, ceda", diss'egli perché Luisa aveva fatto un gesto di protesta. "Sono stanco anch'io. Non è possibile." Luisa scosse il capo senza parlare continuando l'opera sua con energia convulsa. Il dottore alzò silenziosamente le spalle e le sopracciglia, cedette il proprio posto alla ragazza e ordinò a Ester di far riscaldare dell'altra lana per coprirne le gambe della bambina. Ester andò, fece lei, perché la Veronica, appena successo il caso, era sparita, non si trovava più. Nel corridoio e sulle scale la gente discuteva il fatto, il come, il dove. Quando passò Ester tutti le domandarono: "E così? E così?". Ester fece un gesto sconsolato, passò senza rispondere. Poi le discussioni ricominciarono a mezza voce. Non si sapeva per quanto tempo la bambina fosse rimasta nell`acqua. Durante la furia del temporale un tale Toni Gall si trovava nelle stalle dietro casa Ribera. Gli venne in mente che il battello del signor ingegnere fosse legato male e potesse fracassarsi ai muri della darsena. Discese a salti, vide aperto l'uscio della darsena ed entrò. Il battello ballava spaventosamente, inondato dagli sprazzi delle onde che si frangevano sui muri; ballava, si dimenava fra le catene e s'era posto di traverso, avendo la poppa quasi addosso al muro. In faccia all'uscio che mette dalla via pubblica nella darsena, corre un andito dal quale due scalette scendono all'acqua, la prima di fianco alla prora della barca, la seconda di fianco alla poppa. Il Toni Gall discese per la scaletta seconda onde accorciare la catena di poppa. Là, fra la barca e l'ultimo scalino, dov'eran sessanta o settanta centimetri d'acqua, vide fluttuare il corpicino di Maria col dorso a galla e il capo sott'acqua. Nel trarla dall'acqua scorse nel fondo una barchetta di metallo. Portò su la bambina gridando con la sua terribile voce, fece correre tutto il paese e, per fortuna, anche il medico, che si trovava a Oria, aiutò Ester a spogliar la povera creatura che non dava più segni di vita. Con chi era ella stata prima di scendere in darsena? Con la Veronica no, perché la Veronica era stata veduta entrar nel ripostiglio dei vasi dietro la casa con la sua guardia di finanza prima che Luisa uscisse. Con Ester o con il professore neppure. Ester l'aveva mandata a pregare nella camera dell'alcova e poi non l'aveva veduta più. La Cia stava a lavorare e l'ingegnere a scrivere quando avevano udito le grida formidabili del Toni Gall. Maria doveva esser discesa in darsena dalla camera dell'alcova per mettere la sua barchetta nell'acqua e fatalmente avea trovato aperta la porta di casa, aperto l'uscio della darsena. Il Toni Gall era d'opinione che avesse passato qualche minuto nell'acqua perché galleggiava discosto dal luogo dove la barchetta giaceva nel fondo. Egli descriveva per la centesima volta la sua scoperta spaventosa stando in sala con la Cia, con l'ingegnere, il professore ed altri del paese. Tutti singhiozzavano, meno lo zio Piero. Seduto sul canapè dove prima stavano il Gilardoni ed Ester, pareva impietrato. Non aveva una lagrima, non aveva una parola. Le chiacchiere del Toni Gall gli davano evidentemente noia, ma taceva. La sua nobile fisionomia era piuttosto solenne e grave che turbata. Pareva ch'egli vedesse davanti a sé l'ombra del Fato antico. Neppure domandava notizie; si capiva che non aveva speranza. E si capiva che il suo dolore era ben diverso da quelle chiassose nervosità passeggere che gli si agitavano intorno. Era il dolore muto, composto, dell'uomo savio e forte. Dall'uscio aperto dell'alcova venivan voci ora d'interrogazione ora di comando. Nessuno poté però dire, per un'ora e mezzo, di aver udita la voce di Luisa. Qualche volta venivan pure voci trepide, quasi liete. Pareva a qualcuno, là dentro, notare un moto, un alito, un tepor di vita. Allora tutti quelli che eran fuori accorrevano. Lo zio Piero volgeva il capo verso l'uscio dell'alcova e solo in quei momenti si disordinava un poco nel viso. Pur troppo vide ogni volta la gente ritornarsene lentamente, in un silenzio accorato. Passarono le cinque. Il tempo durando piovoso, la luce mancava. Alle cinque e mezzo si udì finalmente la voce di Luisa. Fu uno strido acuto, inenarrabile, che agghiacciò il sangue nelle vene di tutti. Rispose la voce del dottore con un accento di premurosa protesta. Si seppe che il dottore aveva fatto un gesto come per dire: "oramai è inutile: desistiamo", e che al grido di lei aveva ripreso il lavoro. Poi, nel lamento monotono che la pioggia minuta e fitta metteva a tutte le finestre aperte, il silenzio della casa parve divenuto più sepolcrale. La sala, il corridoio andavano diventando bui, vi si andò avvivando il debole chiaror di candele che usciva dall'alcova. La gente cominciò a ritirarsi, un'ombra dopo l'altra, silenziosamente, in punta di piedi. Si udivano poi sul ciottolato della via gli scarponi pesanti, passi senza voci. La Cia si avviò pian piano al suo padrone, gli sussurrò all'orecchio se non volesse prendere qualche cosa. Egli la fece tacere con un gesto brusco. Dopo le sette, essendo partiti tutti gli estranei alla famiglia meno il Toni Gall, Ismaele, il professore, l'Ester e tre o quattro donne ch'erano nell'alcova, si udirono dei gemiti lunghi, sommessi, che quasi non parevano umani. Il dottore entrò in sala. Non ci si vedeva. Urtò in una sedia e disse forse: "C'è qui il signor ingegnere?". "Scior sì", rispose il Toni Gall e andò a pigliar un lume. L'ingegnere non parlò né si mosse. Il Toni Gall ritornò presto con un lume e il dottor Aliprandi, che mi piace ricordar qui come un franco galantuomo, una bella mente e un nobile cuore, si avvicinò al canapè dove sedeva lo zio Piero. "Signor ingegnere", diss'egli con le lagrime agli occhi, "adesso bisogna che faccia qualche cosa Lei." "Io?", rispose lo zio Piero alzando il viso. "Sì, bisogna almeno cercare di condurla via. Bisogna che venga Lei e ci metta una parola. Lei è come un padre. Questi sono i momenti del padre." "Lo lasci stare, il mio padrone", brontolò la Cia. "Non è buono per queste cose. Ci soffre e niente altro." Adesso si udivano, insieme ai gemiti, voci tenere e baci. L'ingegnere puntò i pugni sul canapè e rimase un momento a capo chino. Poi si alzò, non senza stento, e disse al medico: "Debbo andar solo?" "Desidera che ci sia anch'io?" "Sì." "Va bene. Del resto sarà inutile. Forzare non vorrei ma tentare bisogna." Il dottore mandò via le donne ch'erano ancora nell'alcova, poi si volse dall'entrata all'ingegnere e gli fe' segno di venire. "Donna Luisa", diss'egli dolcemente. "C'è lo zio, il suo caro zio, che viene a pregarla." Il vecchio entrò col viso pacato ma vacillando. Fatti due passi nella camera si fermò. Luisa era seduta sul letto con la sua bambina morta in braccio, la stringeva, la baciava sul viso e sul collo, gemeva, premendovi su le labbra, gemiti lunghi, inesprimibili. "Sì sì sì sì", diss'ella, quasi con un sorriso tenero nella voce. "È il tuo zio, cara, è il tuo zio che viene a trovar il suo tesoro, la sua Ombretta, la sua Ombretta Pipì che gli vuol tanto bene. Sì sì sì sì." "Luisa", disse lo zio Piero, "quietati. Tutto è stato fatto quel che si poteva fare, adesso vieni con me, non star più qui, vieni con me." "Zio zio zio", fece Luisa con una voce grossa di tenerezza, senza guardarlo, stringendosi il cadavere sul seno, cullandolo. "Vieni qua, vieni qua, vieni qua dalla tua Maria. Vieni, vieni qua da noi che sei il nostro zio, il nostro caro zio. No, cara, no, cara, non ci abbandona mica il nostro zio." Lo zio tremò, il dolore lo vinse un momento, gli strappò un singhiozzo. "Lasciala in pace", diss'egli con voce soffocata. Essa non parve udirlo, riprese: "Andiamo noi, cara, andiamo noi dal nostro zio. Che ci andiamo, Maria? Sì, sì, andiamo, andiamo". Si lasciò sdrucciolare dal letto a terra si avviò verso lo zio stringendosi al petto col braccio sinistro la sua dolce morta, passò l'altro al collo del vecchio, gli sussurrò: "un bacio, un bacio, un bacio alla tua Ombretta, un bacio solo, uno solo". Lo zio Piero si chinò, baciò il visetto già deturpato amaramente dalla morte, lo bagnò di due grosse lagrime. "Guarda, guarda, zio", diss'ella. "Dottore, porti qua il lume. Sì sì, non sia cattivo, dottore. Guarda, zio, che tesoro. Dottore!" L'Aliprandi era riluttante e tentò resistere ancora; ma quel dolore folle aveva qualche cosa di sacro che s'impose. Obbedì, prese il lume e lo accostò al piccolo cadavere che faceva con quegli occhi semiaperti e quelle pupille dilatate una pietà immensa ed era stato la Maria, la Ombretta gentile, la dolcezza del vecchio, il viso e l'amore della casa. "Guarda, zio, questo piccolo petto come l'abbiamo maltrattato, povero tesoro, come gli abbiamo fatto male con tanto strofinare. La tua mamma è stata, sai, Maria, la tua brutta mamma e quel cattivo dottore lì." "Basta!", disse il dottore risolutamente, posando il lume sulla scrivania. "Parli pure alla Sua bambina, ma non a questa, a quella ch'è in Paradiso." L'impressione fu terribile. Ogni tenerezza sparì dal viso di Luisa. Ella indietreggiò cupa, stringendosi la sua morta sul seno. "No!", stridette, "no! non in Paradiso! È mia! È mia! Dio è cattivo! No! Non gliela do!" Indietreggiò indietreggiò sin dentro all'alcova, tra il letto matrimoniale e il lettuccio, ricominciò i lunghi gemiti che non parevano umani. L'Aliprandi fece uscire l'ingegnere che tremava. "Passerà, passerà", diss'egli. "Bisogna aver pazienza. Adesso resto io." In sala c'era Ismaele che prese il professore a parte. "E avvertire il signor don Franco?", diss'egli. Si parlò allo zio, si decise di mandar un telegramma da Lugano, l'indomani mattina perché oramai era troppo tardi, a nome dello zio, parlando di malattia grave. Ester scrisse il telegramma, in sala c'era un'altra persona, la povera Pasotti corsa lì mentre suo marito era andato ad accompagnare la marchesa a Cressogno. Ella singhiozzava, disperata d'aver dato quella barchetta a Maria. Voleva entrare da Luisa ma il dottore, udendo pianger forte, uscì, raccomandò quiete, silenzio. La Pasotti andò a piangere in loggia. Con lei erano venuti il curato don Brazzova e il prefetto della Caravina che avevan pranzato a casa Pasotti. Più tardi venne il curato di Castello, l'Introini, piangendo come un ragazzo. Volle assolutamente entrare da Luisa malgrado il medico e s'inginocchiò in mezzo alla camera, supplicò Luisa di donar la sua bambina al Signore. "Che la guarda", soggiunse, "che La guarda, sciora Lüisa, se La voeur propi minga donàghela al Signor, che ghe La dona a la Soa nonna Teresa, a la Soa mammin de Lee, che ghe l'avarà inscì cara, sü in Paradis!" Luisa fu intenerita, non dalle parole, ma dal pianto e rispose con dolcezza: "L'à capii che ghe credi minga, mi, al So Paradis! El me Paradis l'è chi!". L'Aliprandi fece al curato un gesto di preghiera e quegli usci singhiozzando. Il medico parti da Oria verso la mezzanotte insieme al professore. Tutta la casa taceva, neppur dall'alcova usciva più alcuna voce. L'Aliprandi aveva passate le ultime due ore in sala, col professore ed Ester, senza udir mai un grido né un gemito né un movimento qualsiasi. Era andato due volte a guardare. Luisa stava seduta sulla sponda del suo letto con i gomiti sulle ginocchia e la faccia tra le mani, contemplando il lettuccio che l'Aliprandi non poteva vedere. A lui questa immobilità nuova dispiaceva quasi più che la sovreccitazione di prima. Poiché Ester intendeva restare tutta la notte, le raccomandò che tentasse, con discrezione, di scuoter la sua amica, di farla piangere e parlare. A vegliare con Ester si trattenevano altre donne del paese e Ismaele che doveva partir per Lugano alle cinque. Lo zio Piero era andato a letto. L'Aliprandi e il professore si fermarono sul sagrato a guardar la finestra illuminata dell'alcova, ad ascoltare. Silenzio. "Maledetto lago!", fece il dottore, pigliando il braccio del suo compagno e rimettendosi in via. Certo egli pensava, così dicendo, alla dolce creaturina che il lago aveva uccisa, ma v'era pure nel suo cuore il dubbio che altri guai fossero in cammino, che l'opera sinistra delle acque perfide non fosse ancora compiuta; e v'era una pietà immensa per il padre, per il povero padre che non sapeva ancora niente.

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 6 occorrenze

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Vieni con me, ma se commetti un'imprudenza, io ti abbandono. Dammi la mano. Kammamuri afferrò la sinistra di Tremal-Naik e si inoltrarono verso la caverna. Poco dopo si arrestavano dietro una enorme colonna donde potevano vedere senz'essere scoperti. Uno strano spettacolo s'offerse tosto ai loro occhi. Dinanzi a loro si apriva una vastissima caverna scavata nel granito rosso come i famosi templi di Ellora, sostenuta da ventiquattro colonne adorne di sculture più o meno bizzarre, di teste di elefanti, di teste di leoni e di divinità. Ai piedi di essi si scorgevano Parvadi, dea della morte, seduta su di un leone, e la dea Ganesa colle sue otto braccia, seduta fra due elefanti che congiungevano le loro trombe sopra la sua testa. Ai quattro angoli c'erano le statue di Siva e nel mezzo una dea mostruosa con una lingua rossa che le usciva dalla bocca, una cintura di mani e una collana di crani, una dea simile a quella che Tremal-Naik aveva veduta nella pagoda. Dalla volta, coperta di altirilievi, rappresentanti i combattimenti di Rama col tiranno Ravana, rapitore della bella Sita e le guerre dei Kurù e dei Pandù, che contesero per lungo tempo pel possedimento di Babrata Varca, pendevano numerose lampade di bronzo, le quali spandevano all'intorno una luce azzurrognola, livida, cadaverica. Quaranta indiani seminudi col serpente tatuato sul petto, il laccio di seta stretto attorno le reni e ii pugnale in mano, erano seduti all'ingiro a mo' dei mussulmani, cioè colle gambe incrociate, fissando la mostruosa divinità di bronzo. Uno di loro aveva vicino un enorme tamburo, un hauk, ornato di piume e di crini e di quando in quando lo percuoteva facendo rimbombare le volte della caverna. Tremal-Naik, come si disse, si era arrestato dietro alla colossale colonna, sorpreso ed atterrito ad un tempo, ma stringendo convulsivamente le armi. - Ada! ... - mormorò egli, percorrendo con un solo sguardo tutta la caverna. - Dov'è la mia Ada? ... Un raggio di gioia brillò negli occhi del povero indiano. - Il sacrificio non è ancora incominciato! esclamò. - Siva sia benedetto. - Non parlare così forte, padrone - disse Kammamuri, stringendo il collo della tigre. - Se tutti gli indiani che abitano il sotterraneo sono questi, rapire la tua donna sarà cosa non impossibile. - Sì, sì, la salveremo, Kammamuri! - esclamò Tremal-Naik con esaltazione. - Faremo un'orribile strage. - Zitto ... L'hauk batteva dodici colpi e i quaranta indiani si erano alzati come un sol uomo. Tremal-Naik provò una stretta al cuore e s'aggrappò alla colonna, come se temesse di non sapersi frenare. - Mezzanotte! - diss'egli, con voce soffocata. - Calma, padrone, - disse per l'ultima volta Kammamuri, afferrandolo per la cintola. Una porta si aprì con grande strepito ed un indiano di alta statura magrissimo, col volto ornato da una lunga e nera barba, gli occhi scintillanti e avvolto in un ricco dootèe di seta gialla, entrò nella caverna. - Salve a Suyodhana, figlio delle sacre acque del Gange! - esclamarono in coro i quaranta indiani. - Salve a Kâlì ed ai suoi figli, - rispose l'indiano con voce cupa. Tremal-Naik, nel mirare quell'uomo, emise una sorda imprecazione e fe' atto di slanciarsi nella caverna. Kammamuri lo trasse indietro. - Non muoverti, padrone, - gli sussurrò. - Guarda quell'uomo! - esclamò Tremal-Naik coi denti stretti. - Sì, lo so, è il capo di questi uomini. - È lo stesso che mi pugnalò. - Ah! miserabile! Suyodhana entrò rapidamente nel tempio, s'inchinò dinanzi alla mostruosa divinità di bronzo e volgendosi verso gl'indiani gridò con voce tonante: - L'estrema ora della vergine della pagoda è suonata, fratelli. Manciadi è morto. Un mormorìo minaccioso percorse le file degli indiani. - Si dia fiato ai tarè, - comandò il terribile capo degli strangolatori. Due indiani presero due lunghe trombe e trassero alcune note tristi, lamentevoli. Cento indiani carichi di legne irruppero nella caverna e rizzarono, di fronte alla dea, ai piedi di un colonnato, un gigantesco rogo versandovi sopra torrenti d'olio profumato. Un drappello di devadasì si slanciò, piroettando, nella sala, facendo tintinnare campanelluzzi e cerchietti d'argento e circondò la dea Kâlì. I loro abbigliamenti erano sfarzosi, leggiadri, i più acconci che si possa immaginare a far spiccare la bellezza e le grazie. Corazze sottilissime d'oro tempestate di diamanti della più bell'acqua brillavano sui loro petti; corte gonnelline di seta rossa, pendevano sotto la larga fascia di cachemire che stringeva i loro fianchi, e pantaloni bianchi scendevano fino al collo del piede. Anelli di argento e campanellini d'egual metallo portavano alle braccia ed alle gambe, e leggieri veli, dai colori vivissimi, coprivano le loro teste. Al suono dell'hauk e dei funebri tarè cominciarono, attorno alla dea Kâlì, una danza scapigliata, facendo volteggiare in aria i loro veli di seta azzurra o rossa, e formando un intreccio di effetto magico, sorprendente. D'un tratto la danza cessò. Le devadasì sfilarono dinanzi alla dea, toccando la terra colla fronte e si ritrassero da parte, unendosi in un gruppo superbo, pittoresco. Gli indiani che erano tornati a sedersi, ad un cenno di Suyodhana si rialzarono. Tremal-Naik comprese che il supplizio stava per cominciare. - Kammamuri, - balbettò l'infelice appoggiandosi alla colonna, Kammamuri! ... - Calma e coraggio, padrone, - disse il maharatto che batteva i denti. - La testa mi gira, il cuore mi scoppia ... Ada! ... Ada! ... In lontananza echeggiò una scarica di tamburi. Tremal-Naik si raddrizzò cogli occhi in fiamme ed i pugni chiusi attorno alle pistole. - Eccoli! - ruggì egli, con indefinibile accento d'odio. I tamburi s'avvicinavano e il loro rullo si ripercuoteva indefinitivamente sotto le nere volte della caverna e dentro i tenebrosi corridoi. Ben presto si udirono delle voci scordate e selvagge accompagnate dal suono dei tam-tam. - Eccoli!- esclamò una seconda volta Tremal-Naik. La tigre mandò un sordo brontolìo e agitò la coda. Una larga porta si aprì ed entrarono dieci strangolatori con dei grandi vasi di terra cotta coperti di pelle, chiamati dagli indiani mirdengs. Poi dietro a quei dieci ne entrarono altri venti, con dei grandi gautha, sorta di campanelli di bronzo, e quindi altri dodici muniti di ramsinga, di tarè e di tam-tam. Finalmente dietro a quegli uomini, che percuotendo i mirdengs ed i tam-tam, agitando i gautha e soffiando nei ramsinga e nei tarè formavano un baccano spaventevole, apparve l'infelice Ada colla sua corazza d'oro tempestata di diamanti d'inestimabile prezzo, la sottana e calzoni di seta bianca ed i capelli sciolti sulle spalle. La vittima, che quegli spietati uomini si preparavano a scagliare in mezzo al rogo, era pallida come un cadavere, sfinita dai lunghi digiuni e istupidita dalle bevande oppiate fattele prima inghiottire. Due strangolatori coperti da una lunga tonaca di seta gialla la sostenevano, ed altri dieci la seguivano cantando elogi pel suo eroismo e promettendole infinite felicità nel paradiso di Kâlì, in ricompensa delle sue virtù. Il momento terribile era vicino. Già Suyodhana aveva dato fuoco alla pira e le fiamme s'alzavano, a guisa d'immani serpenti, verso la volta della caverna; già gli strangolatori, assordandola con mille urli la trascinavano; già i tamburi e i tarè intuonavano la marcia della morte. D'un tratto la vittima ritornò in sé. Vide la pira che fiammeggiava dinanzi a lei e il pericolo che correva. Attraverso l'ebbrezza dell'oppio, si rammentò della condanna pronunciata dal truce Suyodhana. Un urlo straziante le lacerò il petto. - Tremal-Naik! ... Oh Tremal-Naik! ... In fondo al nero corridoio rimbombò un urlo feroce: - Sbrana, Darma! ... Sbrana! ... - La gran tigre del Bengala non attendeva che quel comando. Uscì dal nascondiglio colla bocca aperta e gli artigli tesi, s'allungò, s'accorciò emise un rauco ruggito, indi spiccò un balzo gigantesco piombando in mezzo alla folla degli strangolatori. Un grido di terrore sfuggì da tutti i petti alla vista del feroce carnivoro che aveva di già atterrati, con due potenti colpi d'artiglio, due uomini. - Sbrana, Darma! ... Sbrana! ... - ripeté la stessa voce di prima. Poi rimbombarono quattro detonazioni che mandarono a gambe levate quattro indiani e fecero cadere in ginocchio tutti gli altri e in mezzo alla nube di fumo apparve il cacciatore di serpenti della jungla nera colla faccia stravolta ed il coltello in pugno. Sfondare con irresistibile slancio le file degli atterriti indiani, afferrare la giovanetta che era caduta a terra priva di sensi, stringerla fra le braccia e scomparire sotto la galleria con Kammamuri e la tigre alle calcagna. fu cosa di un sol momento.

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