Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandono

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UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

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Bazzero, Ambrogio 1 occorrenze

La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si rinversò con abbandono ai piedi dell'altare. - Non sia vero! - Fu scossa. Di nuovo la voce: - Balestrate fuoco nelle finestre! - E un'altra: - Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la cappella. - Ancora la prima: - Sconficcate le inferriate! Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò: - E se vuoi mandarmi la morte! fa che non sia vergognosa! In quella al di là della porta del sacro luogo s'udirono due pedate affrettatissime e caute, e queste voci, diverse da quelle prime: - Capitano, qui c'è la cappella. Gli ori e gli argenti sono nostri. Non fate chiasso. Io provvederò - e fu chiusa la porta per di fuori e tolta la chiave. - Voi, Ingo, guarderete le finestre, e l'impresa avrà fruttato qualcosa, vi pare? - Dopo più nulla. Poi nella corte: - Oibò! guardate dal porre mano sulle cose sacre! C'è su scomunica di pontefici sommi. Via, dalle inferriate, marmaglia! Ma più poderosa gridava la voce: - Balestrate fuoco nelle finestre! dappertutto! Madonna Imilda per somma grazia della Vergine santa aveva perduto i sensi. Quando dopo un pezzo risentì l'angoscia della vita, si trovò avvinghiata fra le braccia di un cavaliero. Era suo padre? Era Oberto? Era un nemico?... Il primo pensiero che le si affacciò fu questo tremendo: - Quanto castigo! Almeno Ugo sia morto nella pugna! Ugo tristissimo! La vergine spossata levò la faccia... Oh sì l'angoscia della vita! - Sei tu! Era Ugo il cavaliero. La cappella ardeva tutta: la porta infiammata vedevasi parte cadente, parte squarciata, parte a terra. Al di là ecco la voce d'Ildebrandino: - È qui! È salva! Oberto la tua sposa è salva! - Con queste parole il vecchio credeva aggiungere maggiore gloria al fatto di Ugo: ed adempiva ad una promessa tra la sua donna morta e il morto padre di Oberto. Ugo lanciò uno sguardo alla porta, e parvegli vedere il volto di Oberto, lo vide, e parvegli che le fiamme gli fischiassero il pensiero di quello: - Imilda nelle braccia di Ugo! - Sì! - esultò, come Lucifero, il cavaliero tormentato e tormentatore, in un minuto solo di trionfale passione e di vendetta! La salvata gli avvelenava la faccia coll'alito scottante, e la persona coll'abbandono delle membra, insidioso e annuente. Oberto mosse un passo, ma arretrò soffogato. A quel solo movimento di lui, Ugo addoppiò la stretta al corpo d'Imilda, e fu ventura ch'egli non inciampasse, ubbriacato dalla malìa di quel peso: poi la spinse verso le fiamme, con atroce disegno.... - Di qui passerete un giorno sposa! - lamentò Ugo. - Può essere la porta che conduca al paradiso o all'inferno! - susurrò Imilda. Oberto mosse un secondo passo. - Pietà! - stridette Imilda. - Non sai morire? - tempestò Ugo nell'anima, scagliò a terra l'azza, e rise. E veramente per la prima volta sghignazzò. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come Ugo era accorso nella cappella? Rifacciamo un po' di cammino, tornando al luogo della battaglia. Lasciammo Ugo, sbalestrato a terra, vicino alla pozza d'acqua, stordito ed ammaccato. Quand'egli ebbe levata la persona e guardato intorno nel bosco folto ed altissimo, vide fanti e cavalli fuggenti per ogni direzione. Non scorse però nè Ildebrandino nè Oberto che volavano a Rupemala per un cammino assai basso e nascosto. Il dolore dell'anima in Ugo la vinse sui dolori del corpo, perch'egli disperatissimo si diede per riannodare tutta quella gente scompigliata, ma invano. Gridavano in cento: - Oh quanti morti! Sarà gran ventura se domani avremo le gole salve dal capestro. Fummo traditi! Messer Baldo e Ildebrandino già lo dissero. Fummo traditi! - E chi il traditore? - Traditrice la poca esperienza degli anni in voi. - Morire domani? Oh non è meglio cercare oggi un ultimo sforzo di vittoria e gloriosa vittoria? Ma i dispersi erano troppo spaurati dalla gravità del fatto commesso e dai casi della mattina... Ugo gridava... A un tratto ode uno squillo di tromba. - Il segnale ai saluzzesi! Suono come questo non può uscire che dalla tromba di Aimone! Demonio! che suoni di là, dall'altra vita? Non è più tornato! E chi mi disse ch'è morto? - sclama Ugo, e sorge sul suo cavallo e rizza l'insegna, e, mostrando la faccia audacissima e disarmata, chiama intorno a se tre o quattro lance accorrenti, Aroldo, Bonifacio, Eustachio, trova Aimone, muove alle macchie, scavalca, solleva i saluzzesi, e solo si precipita al castello.... Che? Nessuno vorrebbe credere, ma è così! il ponte levatoio calato. Ugo, strappata la scure a un tardo soldato e datagliela sul capo, si mette a lavorare contro il portone, con braccia poderosissime, tanto più quanto più dolorose. Accorrono a lui fanti. L'insidia tremenda! ad un tratto si scuotono i catenoni e il ponte si solleva. Ugo, perduto l'equilibrio, piomba all'indietro e per somma sua ventura, siccome non vi era sbarra, rotola nel fossato. I fanti volsero le spalle per fuggire, ma il legno inclinantesi all'insù li fece sdrucciolare giù al portone, ove tutti in un fascio si maledirono orrendamente schiacciati. Ugo si abbranca ad uno dei ritti che sostengono il ponte quando sia calato, e quivi, chiamando e richiamando, giunge a farsi porgere una lancia da Bonifacio. Appena in salvo alla riva, non trovando più il suo cavallo, stramazza d'arcione Aroldo, monta sull'animale di quello, comandando: - Sorprendiamo cogli arcieri dalla parte della valle! Aimone! Aimone! Dov'è Aimone? Cercate di lui e dite che suoni a richiamare tutti i duci vicino a me! Bonifacio osserva: - È troppo tardi! Qui tutto è perduto! - E che? In tutti un impeto solo! - Baldo e Ildebrandino vi diranno.... - Per Dio! obbediranno! Io solo sono il capo dell'impresa! Altissimamente lo grido alle castella, io, io! Aroldo, Bonifacio, Eustachio, non credevo di parlare con gente pari vostra! - Galoppa verso il terreno raso, ed alza la faccia... Vede un fumo sollevarsi di lontano. - Il forte d'Ildebrandino! Chi disse di lasciare sguernite le castella? O Gesù! - e con spronate furiose Ugo lancia il cavallo... In quale direzione? Pareva che cento demoni strappassero il freno all'animale, perchè era tormentato innanzi, indietro, a destra, a sinistra, come una cosa pazza. - Qui tutto è perduto! - ripeteva il cavaliero straziatissimo le parole di Bonifacio. - Ed io voglio vittoria! - Fugge il messere! Il capo dell'impresa! - fischiano dietro ad Ugo Bonifazio ed Eustachio: e poco dopo Baldo accorre dalla valle. Ugo lancia il cavallo così da averne mozzo il respiro, lancia e smania! Eccolo al ponte di Ildebrandino: entra nel castello, balza d'arcioni gridando: - Io voglio combattere i nemici! Qui si raggrupperà una fortissima pugna! Suonate tutte le trombe! Tutti i duci vicino a me! Gli si presenta a terra un ferito, il quale, giungendo le mani: - Per amore della croce, abbiatemi misericordia! - Dov'è madonna? - supplica Ugo: - Ah!... misericordia a me! - Non uccidetemi! - Dico di madonna! Madonna! I nemici! - Misericordia, gran barone! Il traditore è quello che era all'uscio della cappella! Ho risparmiato anche il veleno per voi, gran barone! Ugo si caccia per le scale e nelle camere, trova nemici predatori e li combatte. Scompigliati, gli scarsi che avevano tentato la sorpresa, facile dacchè il castello era poco difeso, sono stretti a sgombrare, gridando: - È qui Ugo con cento cavalli! - Ugo, giù ancora per lo scalone, entra nei corridoi incendiati. Oh ecco! vede Ildebrandino ed Oberto. Incalza Ugo: - Ov'è madonna? Quegli meraviglia spaventato: - I morti tornano! - E questi: - Ugo è risuscitato per mia dannazione! - E tutti e due, facendosi segni di croce, si danno a fuggire, guardandosi alle spalle. Ugo dolorosamente li chiama e li richiama per tutti i santi: poi si mette dietro ad essi, corre, corre... È nella corte ed inciampa. Lo stesso ferito geme: - Abbiate pietà! - Il cavaliero guarda, e vede che quegli ha sul petto lo stemma di Adalberto, e sulla testa sanguinosa la tonsura di chierico. E quello: - Fate da cavaliero cristiano! Sono sul sagrato! - Era Ingo difatti sotto una finestra della cappella. Ugo, con subito pensiero religioso, esclama: - Voto una lampada d'oro alla Vergine di Saluzzo! - e facendo sgabello col corpo del ferito, s'aggrappa all'inferriata di una finestra aperta, si strascina su col petto, e ripete: - In luogo sacro voto due lampade d'oro! - D'improvviso una vampa guizza dal sotto in su ad infuocargli i capegli, e un globo di fumo gli soffoca il respiro... Riapre gli occhi: storce la bocca a ricevere aria dalla corte, fa per balzare... No, prima nell'ardentissimo strazio dell'anima raddoppia il voto alla Vergine del cielo: - Quattro lampade d'oro, per quel che ho falto! per quello che voglio fare! - e fìcca gli occhi dolorosi nella cappella, cercando l'altare a cui drizzare la destra.... Imilda è là dentro arrovesciata ed immota!... Ugo balza a terra, strappa di sotto al corpo del ferito un'azza, precipita dove gli pare debba essere l'ingresso della cappella. L'uscio è in fìamme! Lo squassa terribilmente. È chiuso! Tempesta colla scure. A quell'indiavolare accorrono Ildebrandino ed Oberto. Essi avevano combattuto gli invasori, ma non avevano trovato Imilda per tutto il castello, né alcuna cosa saputa di lei. I servi e le ancelle crano stati uccisi: il povero Federigo più non tornava dal campo di certo. Accorrono dunque Ildebrandino e Oberto, sclamando: - È proprio lui! Gii spiriti hannobraccia di nebbia. Questo no, per Dio! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alla sera di quel medesimo giorno, narrano le cronache: Adalberto, andando nella sua camera e buttandosi armato sul letto, trovò al capezzale la fascia che Oldrado aveva riportato nel gioco d'arme, vent'anni prima, e su quella c'era scritto il numero dei morti e dei feriti nemici. Narrano anche che quello sparviero presentato all'omaggio, sorgesse dalle ortiche fra cui fu gettato, e apparisse cogli artigli di ferro e col becco di ferro, vecchio, lontano, lontanissimo, su un monte, ma ancora pronto a spiccare il volo. Queste ciance furono scritte dall'eremita di Malandaggio, un veggente che la sapeva assai lunga!

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 4 occorrenze

C'è un movimento nei banchi, quasi un'inclinazione simultanea, un piccolo abbandono obliquo delle teste. Qualche segno di croce fuori tempo, subito contratto. Scopro libriccini, due o tré corone di rosario: come cose nascoste venute alla luce in un improvviso dimenticarsi. La massa si è sciolta, ha assunto attitudini pose rilassatezze. Si è vagamente e sordamente animata. Il vescovo avanza rapido verso la fila dei cresimandi. Contro il ciuffo crinoso del minore, la bellissima mano bianca raccoglie le dita nel gesto liturgico. Sotto quella mano che sembra una fiammella dello spirito santo, è consacrato soldato di Cristo il ragazzo senza fronte. La ressa dei corpi nei banchi subisce continue modificazioni: certe piegature, certi stacchi, certi incurvamenti, rompono l'uniformità quasi di muro dell'inizio. .Occhi ansiosi spiano nei compagni i gesti da eseguire, ciascun segno di croce viene sgranato dall'uno all'altro in frettolosa successione. Qualcosa di docile, una remissività infantile, coglie anche i più restii. È un agente a far segno di alzarsi e tutti si alzano. Tonfo delle ginocchio sul legno e lunga prosternazione. Esplodono le voci dei cantori sonoramente. L'organista s'è abbandonato al canto col collo gonfio. Così compreso, penso, come bambino nella sacrestia del paese imparò a pigiare i tasti con l'indice e provò la vocetta intonata. Ho perso la nozione del tempo. Mi riscuotono mormorii e piccoli subbugli da scuola, quando i ragazzi stanno per essere chiamati a dire la lezione. Sono gli agenti a muoversi per primi. Uno a uno, quasi avessero finora circolato, risalgono la chiesa con un curioso effetto semovente delle fiammelle azzurre ai risvolti della divisa. Vanno a ricevere essi la comunione e sarà l'unico momento senza custodia. Ma non necessitava custodia. Rannicchiati e come spauriti _ il disagio di uscire dalle file, esporsi _gli uomini si preparano. Al posto delle guardie, subito dopo, il gruppo dell'armonium senza impaccio. Quindi un brusco agitarsi nei banchi, un disincagliarsi, a due a tre, con passi secchi, una sorta di corsa un po' disperata come se si consegnassero. Hanno raggiunto i gradini a testa sotto, quasi cozzando. Non potrei calcolare il numero, è stata una cosa repentina e in certo senso disordinata, a strappi. Si susseguono all'altare scaglioni, dorsi curvi, nuche giovani e vecchie, teste folte calve rapate, spalle rigonfie e spalle cadenti. Una giacca inverosimilmente stazzonata copre una magra schiena dalle scapole prominenti come il residuo di ali mozzate. Scarpe sdrucitissime si mostrano con quell'aria disarmata delle suole esposte. Parecchi indossano le brache dell'uniforme. Vedo presentarsi tra gli ultimi il bei giovane faccia derisoria, l'andatura bighellona e di colpo mettersi giù. Anche lui sotto la giacca sagomata da guappo ha le strisce del carcere, non possiede un pantalone. Due corti piedi da ragazzo, le punte in dentro, ingenue, si uniscono ritti scoprendo calze bianche in certe scarpucce aperte ai talloni. Colgo qualche profilo, il mento tremante, protendersi a bocca spalancata verso l'ostia. Brutte bocche di viziosi e di violenti. Ma non oso più domandarmi chi siano costoro e che abbiano fatto. Le schiene profondamente umiliate, l'annaspo delle labbra timorose, e i piedi, quei piedi uniti come mani, tutto negli uomini prosternati esprime in un modo quasi straziante l'anelito spirituale. Sia pure dell'attimo suggestivo, dell'occasione. Si alzano raccolti in sé come ciechi. Al gesto del frate che li aspetta al passaggio per distribuire un'immaginetta, riscuotendosi trasaliscono. Assise sulla dura poltrona d'ufficio carcerario, il vescovo parla ai suoi figli. Voce suasiva, con poche modulazioni, risulta un dolce lamento. La testa delicata appare giovane, sembra giovane di purezza fisica, la castità come un'ibernazione. Ha le fìsique du rôle . Nel silenzio della cappella si avverte il momento più acuto, e forse il più precario, dell'abbandono. Scopro qualche nobile tratto di fisionomia, occhi patetici, tristi incavi di bocche. Libriccini e immagini sono sui banchi, corone di rosario restano visibili appese a mani nocchiute. So che dopo si vergogneranno e irrideranno l'uno all'altro (è umano, ed essi sono più che umani nel senso della fralezza) ma adesso ascoltano ancora con una specie di avidità, quella cosa che somiglia alla fame e che si sente dentro come un buco. Le mani del vescovo, distese sulle ginocchia, di un rosa lillà un po' livido, le unghie bianche, sembrano essersi appassite. Non gesticola. Il movimento è solo nelle modulazioni della voce. Anche il senso è piuttosto nel suono, in quella blandizie. Parla del Cristo. Là in alto dietro a lui, l'enorme Crocifisso sfigurato stravolto, con grumi e colaticci di vernice vermiglia, opera di un detenuto. Vi si levano tutti gli occhi sgusciando il bianco con una certa somiglianza. Le fronti sono aggrottate nello sforzo. Essi non intendono la lettera. Sfugge il significato delle parole, si smarriscono le mistiche astrazioni: quello che vi è di rarefatto di teologicamente incorporeo nei sermoni cattolici, non li raggiunge. Ma sono indotti a guardare il Cristo con le piaghe, l'eloquenza irrefragabile del sangue. Il cattolicesimo ancora si regge sulla suggestione del rituale liturgico e delle immagini, non soltanto per i semplici, ciascuno vi reperisce qualcosa dal basso o dall'alto. Nel momento che metterà mano all'apparato correrà il più grande rischio della sua storia. Tornando a guardare le file uniformate, non vedo che teste ispide e menti deboli. Nell'aria viziata un sentore di corpi, un lezzo. E di nuovo l'impressione di scuola, quando sta per suonare la campanella, lo stesso tramestio del radunare furtivamente sotto il banco. Sguardi bassi seguono le braccia dei frati che spogliano il loro vescovo. È molto sottile, senza carne, le spalle escono esili da sotto la cappa. Gli agenti hanno ripreso a circolare. Nello spazio sgombro procede il corteo delle autorità fra i detenuti in piedi. Nessuno si sporge a baciare l'anello, forse è stato proibito. O si è spento lo slancio. Le facce inespressive arretrano confondendosi. Dietro la frusciante immacolata veste principesca si leva a grado a grado un brusio, un bisbiglio, un brulicame. E poi, alle nostre spalle, sordo, il clamore incoercibile, sempre un po' minaccioso, della gente ingabbiata. Andiamo a consumare il rinfresco. Cioccolato caldo con paste, dato che Sua Eccellenza e gli altri officiami sono digiuni.

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Tiene il polso reciso che sporge dalla manica penzoloni al fianco con estremo abbandono. Entra il Tribunale. Viene chiamato. Come sente pronunciare il suo nome _Felice Sante di Giocondo _avanza qualche passo, s'arresta incerto, riprende a camminare sbilenco. Gli si contesta l'imputazione : lesioni aggravate e omicidio colposo. Non sembra aver capito. Due volte si gira indietro come cercando a chi sono rivolte quelle parole. La grande bocca stupefatta gli si è schiusa. Comincia la sfilata dei mutilati. La Ripa è una frazione di montagna, poche case di pastori aggrappate alla costa, lontana ore di mulattiera dal centro comunale. Nella contrada la guerra restò ferma per un inverno e lasciò la malasemina (come dirà il decano barbuto dei Felice). Ancora oggi se ne trova. La campagna e i boschi erano disseminati di mine antiuomo che via via emergevano dalla terra. Un carretto con l'asina saltò in aria lungo una carrareccia, dopo anni che si ripercorreva. I contadini tornavano a casa con le bisacce piene di bombe. Così tornò quel giorno il defunto Nicola Felice, uomo giovane di trentatré anni. Aveva uno zaino a tracolla, lo depose al suo uscio e chiamò il ragazzo che passava con le pecore. Santino di Giocondo, un nipote. (Là tutti sono parenti.) Altri subito ne accorsero, come sempre i ragazzi attratti da quegli ordigni. Questo avveniva nella piazzuola della Ripa, davanti alla casa di Nicola, e anche il suo bambino di quattro anni uscì sulla soglia. Non c'erano che ragazzi. L'uomo (pare fosse autorizzato raccoglitore e lucrava con quel po' di polvere per fuochi d'artificio) cavò dallo zaino grossi proiettili di artiglieria rinvenuti in un folto d'arbusti. Baldanzoso e spericolato Santino scelse il suo, lo dette da reggere a un altro per smontarlo picchiandovi con qualcosa, una pietra o un martello. Davanti al Tribunale nega. Nega scuotendo la testa e accennando a sollevare il moncherino, che subito rimette giù. Lui si era fermato a guardare dal cantone in mezzo alle sue pecore. "È vero che ti hanno ammonito di non battere?" Avrebbe risposto: "'Na vota se nasce e 'na vota se more." Ma era stato raccontato dai ragazzi. Si presentano uno dopo l'altro, screziati di turchiniccio (la polvere da sparo che rimane cicatrizzando sottopelle) saltellanti strascicanti e smemorati confusi. Uno incespica alla pedana, vi cade seduto. Non meraviglierebbe vederli accovacciarsi su quel bordo di legno come piccoli animali a leccarsi le ferite. Non capiscono la domanda, chi o che cosa sia il defunto, non si riesce a cavarne risposte utili. Quello che aveva retto la bomba, con spille da balia alla gamba ripiegata del pantalone, fa no e sì evidentemente a casaccio. Anche metà della manica destra è vuota, e lui sa dire solo che la sua mano non si ritrovò. "Ma il tuo compagno, questo qui, Sante, percuoteva?" Tace smarrito. "Picchiava? Batteva?" Qualcuno suggerisce: menava? Staccatesi dalle sottane della madre, l'orfanello corre a mostrare il mignolino mancante. (Lo parò il padre.) Ripete due o tré volte che stava vicino a "tata". Lui non si ricorda dell'imputato _ ma non deve aver inteso la parola _ non l'ha visto, erano tanti ragazzi tante pecore e dopo bum. E le pecore strillavano. C'è un intermezzo. Fra i mèmbri del tribunale si discute sul verso della bomba, quale il fondo e quale l'ogiva, dove occorra battere per provocare lo scoppio. Un avvocato esperto di balistica, ex ufficiale di artiglieria, chiarisce ai giudici la questione tracciando su un foglio sagome di bombe in piedi rovesciate e fumetti esplicativi. Sul disegno, quando lo richiamano, con l'indice della sinistra, la testa di sbieco come un uccello per l'occhio offeso, l'imputato docilmente indica la parte che aveva percosso. Si avvicendano sulla sedia spagliata i contadini salendo la pedana con un tonfo. Ognuno, giunto dinanzi al seggio presidenziale e visto sulla parete il Crocifisso, si genuflette segnandosi come in chiesa. Restano sconcertati alla formula incomprensibile del giuramento (gli suona "dilogiuro" al modo sbrigativo come viene imposta). Non capiscono che si voglia da loro. E appare chiaro che non vogliono niente, non reclamano e non accusano, si presentano perché sono stati chiamati con ingiunzione. Nel rispondere guardano al muro, oltre il tocco del presidente, a Quello lassù. Ma non si querelano nemmeno con Dio. Un morto, ragazzi mutilati, famiglie rovinate: di chi la colpa? A Dio si soggiace. Sopravviene un momento, tornati dietro le transenne, che cade il silenzio. Sembra aver colpito tutti l'inutilità di questo dibattimento. Incombe sull'aula la colpa, ma è colpa comune. Poi s'alza il primo oratore a parlare con voce curiosamente stimbrata. I contadini non ascoltano, in attesa che ogni cosa finisca. Atteggiati a coro di tragedia greca, con l'espressione delle facce evocano e commentano da soli la scena: la piazzetta inzuppata di sangue, cosparsa di ragazzi e pecore a brandelli, al centro il corpo squarciato dell'uomo. Urli gemiti e le pecore che "gridano come cristiani". Intorno essi, resi muti da un orrore sacro, l'intera popolazione della costa, pietrificata. Per ore, mentre qualcuno correva giù a cercare aiuto, erano rimasti a distanza senza osare di far niente. I ragazzi si sollevavano strisciando sui gomiti, uno toglieva brandelli dalla mano staccata ed era parso che si strappasse le dita buttandole via. Nessuno poteva far niente altro che guardare in uno stato di annichilimento. Per tré ore erano rimasti così. L'uomo si dissanguava in terra. Un uomo giovane coi figli piccoli. La moglie e tré bambini accovacciati intorno. Si lamentava: aiutatemi ammazzatemi. Morì la sera in un ospedale lontano. La voce degli avvocati deve suonare alle orecchie dei contadini confusa e superflua, vaniloquio. Si direbbe che non li conoscano: quando c'è il morto anche l'avvocato arriva da sé. Sembrano domandarsi che ci sia da parlare tanto, che mai possono dire questi uomini accalorati e gesticolanti. In verità non tuonano contro lo scandalo del mondo, la paura, la paura cieca che non sai più da dove viene, che è dappertutto, piove dal cielo spunta dalla terra e la terra ne rimane infestata; tuonano invece contro il ragazzo, contro Santino di Giocondo, che sta lì con la stessa faccia immobile e rassegnata dei vecchi. Quando le voci tacciono tutto finisce quasi bruscamente, come i contadini già sapevano che doveva finire. SÌ riprendono in mezzo l'incolpato e se lo riportano via, senza parlargli ma reggendolo spalla a spalla fianco a fianco. Quegli uomini l'hanno perdonato. Ma pure il perdono, a misurare col metro giusto, è stato di troppo. In massa, prima di uscire, con un lungo sguardo verso la parete di fondo, i contadini della Ripa si fanno il segno di croce. È come se perdonassero Dio trascurando gli uomini. Perdonarlo anche per la crocifissione del figlio suo.

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Il ricovero in riformatorio può avvenire con uno sbrigativo decreto del Tribunale che li definisce disadattati anche se sono in stato di bisogno o di abbandono. Continua a essere disadattato poiché la madre continua a vivere come prima. C'era uno zio a reclamarlo, ma appena dimesso dal manicomio e comunque un poveruomo in miseria. Nonostante le buone intenzioni, se buone erano, avrebbe finito per sfruttare il ragazzo o chissacosa. E il ragazzo, un magnifico esuberante ragazzo, resta dentro. Avevo scritto alla madre. Ma lui avrà tutto il tempo di toccare l'età. Spaccherà molta legna (contro il regolamento) tirerà su perfino un muretto (contro il regolamento) zapperà le strisce-aiuola dell'ingresso e forse l'orto del direttore (sempre contro il regolamento) con la foga di chi dissotterri un tesoro. Muscoli tesi allo spasimo. Solo a tempo debito sarà libero. Una libertà che spesso riporta in carcere. E il caso di Zinzin. Quei piccoli occhi celesti che guardano intenti e speranzosi, con la fiduciosità dell'infanzia, appena velati da un'ombra di timidezza derelitta. Che diamine ha potuto fare un bambino così. È qui da tré anni, non ne ha ancora dieci, vi rimarrà fino a diciotto e magari oltre. (A meno di un'altra guerra: la guerra è finita viva la guerra.) Ma che ha potuto fare? Niente. Ozio e vagabondaggio, sta scritto. Sua madre una prostituta (di guerra) la sua casa un vano di stamberga aperto a chiunque. Lo mettevano fuori anche di notte. Ozio e vagabondaggio. Fu necessario internarlo. O ricoverarlo, come è decentemente scritto. Un bambino di indole quieta, remissivo, mai avuto un rimprovero, addolcisce anche i più violenti. Resterà chiuso fino ai diciotto, magari oltre. E sua madre. Certo lo amava, si vendeva come suoi dirsi per lui (compenso in natura, scatolame di truppa straniera). Dopo si era disperata, voleva riprenderselo, prometteva di cambiar vita. Ma era fradicia, le restava poco. Cercò di rivederlo e fu mandato, bisognò riportarlo via, non si potè lasciarglielo nemmeno un giorno in quelle condizioni. Storie monotone, pare sempre la stessa storia. Per lui, dentro l'infanzia, dentro l'adolescenza. Sembra starci con naturalezza se non volentieri. E che altro ha conosciuto. Per padre e madre gli agenti di custodia, per fratelli i ragazzi che passano e cambiano continuamente, per casa questo carcere. Viene trattato quasi con tenerezza da tutti. (Salvo un tentativo di violenza, però "con buona maniera" e non ha capito, fin adesso.) In definitiva non avrà conosciuto di meglio. Ma sarà stato dentro, rinchiuso. Provare a figurarsi quando questa creatura intimidita e inerme dovrà rientrare nel mondo cosiddetto libero, quello che chiamano reinserimento. Provarsi a pensare Zinzin per la prima volta davanti a una porta che non si apra con stridore di chiavistelli, una porta interna di casa a cui basti girare la maniglia. Zinzin esitante timoroso davanti alle porte aperte. E anche la promessa a lui è mantenuta. Dopo la distribuzione della Befana _ una befanuccia povera povera, una piccola carità stiracchiata pesata registrata _mi si concede di condurre all'ospedale, a portare il dono a un compagno malato, due dei migliori. Scelgo Zinzin e Stelvi. Non dimenticherò questa passeggiata fra i due reclusi con la scorta dell'agente. S'è fatto buio, una sera rigida frizzante di nebbia vischiosa. Ma ai ragazzi piace, anche la nebbia sembra renderli felici. Zinzin trotterella con un risetto irreprimibile sulle labbrucce screpolate. Stelvi scansa i lembi della mantellina gonfiando il petto con assaporata foga. Guardano le luci dei lampioni, smorte nel vapore, come se fossero razzi di festa. Da mesi, o da anni, non vedevano la città notturna, gli sembra splendida prodigiosa. Qualche cosa di esaltante, come eccitante è la nebbia ai polmoni avidi. Più conscio, Stelvi si muove quasi in un impeto di corsa e poi subito trattiene il passo, guardandomi con un sorriso di scusa. Non una volta mostrano di ricordarsi dell'agente che viene dietro. Al ritorno li accompagno fino al primo cancello. Me ne sto ferma a sentire l'inchiavardamento, i passi sulla ghiaia, spenta l'apertura del secondo cancello e il tonfo della chiusura. Oltre il cancello un'altra porta inchiavardata, un altro bottone da premere. E so che Zinzin, trotterellando avanti, tutto felice di poterlo fare, alzandosi sulla punta dei piedi lui stesso pieno di zelo lo piglerà.

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C'ERA UNA VOLTA ... :FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

GIACINTA

662516
Capuana, Luigi 5 occorrenze

Giacinta stese un braccio sul leggío, vi posò la testa in atto di abbandono e chiuse gli occhi un istante. Andrea l'osservava, ansioso, con le labbra inaridite. - L'avvenire? - ella disse, come destatasi da un breve sonno. - L'avvenire è ... che t'amerò sempre! ... Che non posso, intendi? né voglio amare altro che te! Ma è appunto per questo, intendi? che non saremo mai sposi! ... Lasciati amare cosí, a modo mio. Non tormentarmi! Andrea si sentiva vincere da quella voce carezzevole, insinuante. Ma che significavano tali parole in bocca a una ragazza da cui appena gli era stato permesso, di furto, qualche bacio sulle dita? Non riusciva a capirlo. - E dopo? - insisteva. Giacinta si era fermata a riflettere. - Dopo? ... Oh, no! no! - poi disse, tristamente. - È impossibile; no! L'uomo non è mai generoso. Dimenticare, perdonare non è per lui ... Verrebbe un giorno, arriverebbe un momento che anche tu saresti cosí vile ... E tacque coprendosi la faccia con le mani. Un tremito di ribrezzo le correva per tutto il corpo. - No, è impossibile! ... Tu sai ... Esitava. Evidentemente il parlare le costava un grande sforzo. Andrea le fece cenno di no. - Non mentire, tu lo sai! - replicò con dignitosa alterigia. - In questo punto non saprei tollerare nemmeno la tua pietà: comincerei a disamarti. - T'amo! - rispose Andrea - T'amerò sempre! So dimenticare; l'hai già veduto. Perdonare? ... Non è il caso. - Non m'illudi - lo interruppe Giacinta. - Ti vo' troppo bene da mettermi a repentaglio di doverti odiare o disprezzare, che sarebbe anche peggio. Senti, Andrea; non fare piú scene; te ne supplico! Non far comprendere alla gente che tu sii per me qualcosa piú degli altri ... E se ti pesa l'essere amato a modo mio, se non hai piú la forza o il coraggio di continuare ad amarmi ... lasciami in pace; sarà quel che sarà! ... Che posso dirti di piú? - Ma io t'amo tanto! Giacinta, commossa, abbandonò la mano in quelle di Andrea. - Già, ad una spiegazione dovevamo venirci. Ti vedevo, da qualche tempo, cosí irrequieto, cosí smanioso ... - Come non esserlo? - Ora non piú, è vero? Avrai fede in me, sarai prudente, non t'adombrerai di nulla; è vero? Sono un po' diversa dalle altre donne; forse son fatta male. Non è colpa mia ... Sí, son fatta male! Me ne accorgo ... Ah se tu sapessi quello che ho sofferto! ... Ma non sono cattiva. Orgogliosa, anche troppo. L'orgoglio è il mio coraggio. - E, per l'avvenire? - tornò a ripetere Andrea. - Oh! - esclamò Giacinta. - Vuoi dunque strapparmela per forza la terribile parola? ... Vuoi dunque ... Tentò d'alzarsi; ma un lembo della veste, impigliato sotto il piede dello sgabello, la ritenne. Allora, chinatasi per scostare lo sgabello e nascondendo con quel pretesto il suo imbarazzo: - Ebbene - disse - l'uomo del mio cuore potrà, forse, un giorno ... diventare il mio ... amante; marito mio, no; mai! E si levò, strappando la veste. Andrea, visto rientrare il commendatore Savani con la signora Marulli, gli andò incontro: - Mi aveva detto di aspettarla! ... Eccomi qui. - Ah! ... Mi rammento - rispose il commendatore, prendendogli il braccio - Venite. Buona notte, Teresa. La signora Marulli attese che fossero usciti dal salotto; poi, con una di quelle sue occhiate che dicevano tanto, le gridò sotto voce: - Grulla! - Mamma! - rispose Giacinta sdegnata. - Che c'è? - domandava il signor Marulli apparso sull'uscio. - C'è ... che tua figlia è pazza! - rispose la signora Teresa, passando con tanta furia da dare appena tempo al marito di tirarsi da parte. Giacinta con le braccia tese in giú irrigidite, coi pugni stretti, era diventata bianca come un cencio lavato. - Che vuol dire? - tornò a domandare il signor Marulli, interdetto. - Nulla, babbo - rispose Giacinta frenando a stento le lagrime - Tu lo sai bene ... la mamma! E si sforzava di sorridere.

In un momento di stupido abbandono - sí, sí, stupidissimo! - s'era lasciato sfuggire una mezza confidenza - neppure - delle parole vaghe, degli accenni lontani ... Basta! Gessi, capito assai di piú ch'egli non avesse voluto, forse aveva parlato. Altrimenti come spiegarsi i maliziosi mirallegro del Ratti ogni volta che lo incontrava, da una settimana in qua? Meritava degli schiaffi quell'imbecille! - Ma perché prendersela con gli altri? L'imbecille era stato lui che non aveva saputo frenarsi! Scoppiava col suo segreto in corpo? ... E per sfogarsi contro di qualcuno, sbatteva rabbiosamente la mazzettina sui cespugli e i rami degli alberi spenzolanti dai muriccioli. - Bisognava raddoppiar le cautele, per sviare i curiosi. Quel posticino fuori le mura parevagli al sicuro d'ogni sorpresa. Giacinta arrivava da una parte, lui dall'altra e quei due vecchietti, marito e moglie, erano interessati a non tradirli ... Però, però ... non convien fidarsi. Diraderemo gli appuntamenti ... Si era messo a sedere sulla spalletta del ponticello, fumando, lasciandosi invadere dalla pace silenziosa della campagna, con gli occhi fissi alla viottolina di faccia. Credeva di aver anticipato di mezz'ora. E zufolava, dondolando le gambe, battendo i talloni, guardando qualche volta a sinistra, verso la città mezzo arrampicata sulla collina, colle guglie dei campanili e le cupole, che si intravedevano a traverso il folto fogliame, di là dai merli delle mura. Era già rassicurato. Quel solitario posticino cosí incastrato fra le collinette, gli pareva proprio in capo al mondo. - Le cinque! Giacinta tardava ... Come mai? Si sentì colpire al cappello e alle spalle da due pallottole d'erba lanciate da dietro alla siepe. - Ah! ... Dovevo immaginarlo! E aperto il vecchio cancello di legno, si trovò faccia a faccia con Giacinta che gentilmente lo garriva: - Non ha fretta il signore! Si riposa! A braccetto, s'inoltrarono lungo la siepe di cinta. - Siamo di già, ai sospetti, eh? Giacinta lo canzonava, leggermente, braveggiando contro quel pericolo che lo impauriva. - Non scherzate! - rispose Andrea. - La cosa può diventare grave, gravissima. - In che maniera? - Non lo so. È una voce del cuore. Sono superstizioso; credo al cuore ad occhi chiusi. - Intanto esso non ti ha ancora detto ... ! E fermatasi, lo guardava con le pupille scintillanti di gioia, un po' arrossita, sorridendogli sotto il naso con una smorfietta bambinesca. I polli, razzolanti sul mucchio del concime, scapparono starnazzando, chiocciando, tosto ch'essi volsero a destra, fra le due strisce di lino in fiore che parevano due grandi pezze di velluto verde, con ricami d'argento, sciorinate sul prato. - Che avrebbe dovuto dirmi il cuore? - insisteva Andrea. - Nulla! ... Nulla! ... Com'è bello qui! Il lino ondeggiava al soffio del venticello che faceva stormire le fronde dei gelsi intorno: i festoni di vite con le foglioline novelle, si dondolavano, da un albero all'altro. In fondo, dietro la collinetta mezza nascosta fra gli ulivi, il camino quadrangolare d'una fabbrica di mattoni, di cui si vedeva soltanto il tetto annerito, mandava fuori leggere ondate di fumo che disperdevansi subito. - Non mi vuoi bene quanto dovresti - riprese a dire Giacinta. - Perché? - Sera fa, perdesti al gioco ... Non negarlo ... - Un'inezia ... - E, piuttosto che a me, hai ricorso al Merli per pagare il tuo debito ... Cattivo! - In questo tu non devi entrarci. - Voglio entrarci anzi! Esigo, sopra tutte, questa prova d'amore. Ma se l'ho detto! Mi tratti da amante, ecco. Sei cattivo. - Non giocherò piú! - Benissimo! Per farmi dispetto! ... Gli si staccò dal braccio, imbizzita, e si mise a camminare innanzi, sola. Andrea, raggiuntala con un salto, la prese per la vita. - No, no ... Lasciami! Si dibatteva stizzosamente, per svincolarsi, per evitare che egli la baciucchiasse sulla nuca. - Lasciami! ... Mi fai il solletico ... - Non andare in collera, via! - Sta' fermo! ... Sta' fermo! ... Ma intanto gli si abbandonava sul petto, con la testa indietro broncia broncia, vinta da un languore dolce: - Sai, Andrea? Quel mio sospetto ... sai? Non mi stringere cosí: mi fai male! Io lo credo già una certezza ... - Oh! Voleva baciarla, ma ella era scappata. Andrea le corse dietro. Presi da matta allegria, si inseguivano ridendo e battendo le mani, come due ragazzi. E la vecchia contadina, che stava seduta sopra un corbello rovesciato davanti alla porta della casa rustica, aguzzava gli occhietti maliziosi verso quel diavolino di signora che non si lasciava chiappare.

Perché vuoi ora lasciarmi sotto l'insulto d'un abbandono che mi renderebbe favola delle persone che ho sfidato a viso aperto unicamente per te? Confessalo: stai per commettere un'infamia inescusabile. Ti trattenevo con altre catene che queste mie braccia d'amante? Ho forse abusato del tuo affetto? Mi son forse risparmiata in nulla, da farti cosí presto scordare ch'io son di quelle che si danno una volta e per sempre? - Non alzare la voce! - balbettò Andrea. Era alla tortura. Temeva che Elvira non origliasse, per curiosità femminile. - Resterai, è vero? - riprese Giacinta, accostandoglisi di piú. - Per una settimana, per due, tre giorni, finché non avremo trovato un pretesto! Facciamo almeno le viste di dividerci amici. Sarò tranquilla; mi sforzerò. Eviteremo uno scandalo. Resterai, dunque? ... Ma rispondi! Resterai? - Sí ... Sí ... - Non menti? - Resterò; te lo giuro. - Sta bene. Non mi uscirà di bocca una sola parola di rimprovero. Perché illuderci ancora? Sarebbe stoltezza. Da questo istante, sei libero; farai quello che ti parrà. Non pretendo troppo, mi pare! Avendogli messo inavvertitamente una mano sulla spalla, Andrea fece un leggero movimento per evitarla. - Oh, non temere! - ella disse. - È la mano di un'amica che vuole ringraziarti per l'amante. Povere donne! Dobbiamo esservi grate anche del male, immeritato, che v'astenete di farci! ... Taci. Non occorre scusarti ... Doveva essere cosí! ... Poteva accadere anche a me; ma io sarei stata sincera. T'avrei detto: Non t'amo piú; finiamola! E, senza ipocrisie, senza menzogne, sarebbe finita. Basta: è finita egualmente ... Chi lo avrebbe sospettato? ... Eppure è cosí! Che importa? Ci siamo amati come pochi in questo mondo. Abbiamo provato gioie cosí grandi, cosí intense, che la parola non può esprimerle ... E ora tutto è finito! Per sempre! Vivremo ... vivrai di ricordi. Chi dimentica, lascia morire gran parte di sé ... Andrea, che s'aspettava ben altro, era stupito. Sentendo quella voce fatta di singhiozzi repressi; osservando quelle labbra contratte a un sorriso desolato, e quelle dita armeggianti inconsapevoli, l'egoistica rigidezza, di cui s'era armato al primo apparire di Giacinta, non seppe resistere. - Come sei buona! - le disse. - Siedi. Aveva quasi vergogna di non amarla piú; e si sentiva già pungere dal rimorso di aver voluto abbandonarla di soppiatto. - Non partirai dunque - riprese Giacinta. - Ti farai vedere, ancora una volta, in casa mia da tutta quella gente che ci crede innamorati e felici! Lasciamola nell'inganno. Non vorrai farmi un inutile sfregio ... - Resterò due, tre giorni, anche piú; quanto vorrai. Cercheremo un pretesto; dici bene. Voleva contentarla, gli sembrava giusto. Povera donna! Si meritava questo piccolo sacrifizio! - Siedi - replicò, prendendola per una mano. - No - rispose Giacinta, che guardava fisso le due valigie pronte per la partenza. - Come sei buona! ... Ti ho fatto soffrire ... Ma, credimi, ho sofferto anch'io! Se avessi avuto il coraggio ... di confessarti ... . - Senti Andrea, - lo interruppe Giacinta - è una mia debolezza ... Assicurami, con una prova, che manterrai la promessa ... Disfa quelle valigie, sotto i miei occhi ... Non vuoi? ... Andrea, in risposta, le porse le chiavi. E mentre le mani febbrili di Giacinta cavavano fuori ogni cosa, buttando vestiti, camicie, goletti, polsini qua e là, alla rinfusa, sul letto, sulle poltrone, sul tavolino, egli provava la strana sensazione di qualcosa che gli veniva sconvolto dentro; e cominciava a pentirsi d'aver cosí facilmente acconsentito a quel capriccio di donna. Vuotata la valigia, Giacinta apriva l'altra; ed era di nuovo un volar di pantaloni qua e là, di panciotti, di cravatte, di guanti, di stivaletti, di spazzole, di libri. - Cosí! - ella esclamò, sorridente d'una gioia convulsa, d'una soddisfazione fanciullesca, guardando la camera stranamente ingombra. - Ed ora andiamo. Andrea le porse lo scialle. Nell'acconciarsi il velo sulla testa, Giacinta parve, tutt'a un tratto, ricordarsi di qualcosa. - Chi è quella bambola? ... Quella che è venuta ad aprirmi? - La figlia della padrona di casa ... Una vera bambola - soggiunse, intimidito dagli sguardi di Giacinta. Ella lo trascinava con sé, come una preda, senza sapere precisamente perché lo trascinasse via. - Doveva essere suo, fino all'ultimo momento! E gli si stringeva al braccio, battendo i denti, convulsa, con un gelo di morte in tutto il corpo, quasi brancolante fra le tenebre della pazzia che le oscurava il cervello. Davanti al portone, Andrea s'arrestò. - Non vieni su? - ella disse, insospettita. - Fra dieci minuti. Bisogna che disdica un appuntamento, non voglio che l'amico con cui dovevo partire perda la corsa per me. Giacinta lo tratteneva pel braccio, guardandolo in viso. - Fra dieci minuti - replicò Andrea, rassicurandola con una stretta di mano. - Fa' presto, fa' presto! E rimase un po' sulla soglia, seguendo con l'occhio Andrea che s'allontanava frettoloso. Era sfinita; montava a stento le scale. Aveva diacce le mani; ma, dentro, sentiva un'arsura insopportabile, un fuoco che le bruciava il sangue. Passando davanti la camera del conte, si fermò un istante; poi spinse l'uscio. Battista, che trovavasi troppo familiarmente seduto allato al conte, con i gomiti appoggiati sul tavolino dove questi cenava, si levò tutto confuso, all'inaspettata apparizione, balbettando una scusa. Giacinta gli accennò d'uscire. Il conte, voltandosi per vedere chi fosse, seguitava a masticare facendo scoppiettare le labbra, fissandola. - Giulio! - disse Giacinta, inginocchiandoglisi accanto. Il conte si nettò la bocca col tovagliolo, le mise una mano sulla testa, come per raffigurarla meglio; poi, lentamente: - Che cosa volete? - balbettò. - Giulio, muoio! ... Perdonami! - singhiozzava, baciandogli la scarna mano. - Muoio! ... Perdonami! Egli la fissò un poco, senza comprendere. - Va bene! va bene! - poi disse. E riprese a mangiare.

Adelina era ricaduta nel suo stanco abbandono, col respiro affannato ma uguale. Allora, nel triste silenzio della camera, Giacinta, un po' rassicurata, tornava ad avventare gli sguardi addosso ad Andrea, che li evitava restando a capo chino, come chiuso nel dolore. Quegli sguardi lo imbrogliavano: - Che ci sia qualcosa di nuovo? E accortosi che Giacinta stava per parlare, tentò di sviare il pericolo: - L'aria della stanza è rarefatta. Dovremmo rinnovarla. Non ti pare? Si alzò per aprire l'invetriata, badando che la corrente non andasse a colpire Adelina: e rimase presso la finestra: - Ora sí, si respira! Bisogna rinnovare spesso l'aria; l'ha raccomandato il dottore. - Non ho piú testa - rispose Giacinta, mettendosi a sedere presso il capezzale, per scacciare una mosca noiosissima dalla faccia impaziente della bambina. Si sentiva la sua respirazione, un rantolo lieve. Intanto gli occhi di Giacinta restavan fissi su Andrea. - Sei contento del tuo nuovo alloggio? - gli domandò improvvisamente. Non sapeva ella stessa perché gli facesse in quel punto tale domanda. - Mah! ... - rispose Andrea. - Io mi contento facilmente. Due sole stanzine e fuori di mano; però tranquille, arieggiate. Posso dormire fino alle dodici del mattino, senza che un rumore mi svegli. Né mi vi sento, come altrove nei primi giorni, un pochino spostato. Mi sembra d'avervi abitato da anni. Insomma, un ambiente discreto. Parlava con un accento di rassegnazione alquanto esagerato, distrattamente, con gli occhi rivolti al cielo striato di nuvolette rossiccie. E un vivo sentimento di rimorso e di paura lo tormentava, se mai il suo imbarazzo lo avesse tradito. Giacché in quel nuovo alloggio, una gentile personcina, la figlia della padrona di casa, contribuiva piú di tutto a rendergli discreto l'ambiente Da alcune settimane egli sentivasi dolcemente riposare gli occhi alla vista di quella figurina svelta, dai lineamenti puri, dal colorito vivace, come se qualcosa di fresco e di gentile emanasse da quell'aspetto sempre sorridente. Eppure la poverina era assai minacciata dagli sbocchi di sangue che ricomparivano una o due volte alla settimana, gettando babbo, mamma, e anche lui in una muta oppressione, affliggentissima. Pensava appunto a quella ragazza, quando Giacinta gli rivolse la parola; e si contenne a stento. Gli era parso ch'ella gli avesse già letto nel cuore. Per fortuna, Adelina tornò ad agitarsi, a lamentarsi, a tossire. - Andrea, oh Dio! Andrea! - Non è nulla. Vedi? La bambina spalancava gli occhietti smorti, girandoli attorno, invocando soccorso ... - Oh quegli occhi! - esclamava Giacinta. - Paion coperti di un velo di polvere, d'una nebbia! - No, anzi! Ella si chetava apparentemente; e continuava a ruminare il suo terrore invincibile: - Era la sua cattiva stella! ... Quella povera innocente forse pagava per lei! E voleva scacciare il sospetto - Una bestemmia! - diceva, rimproverandosi - che l'assediava notte e dí, da quattro giorni: che Andrea, col suo cattivo influsso, attirasse quella disgrazia sulla bambina ... per disfare cosí il piú forte anello della loro catena: - Oh! una bestemmia! Pure, anche in quel punto, sorgevano a formicolare per la gola tutti i fieri rimproveri che avrebbe voluto fargli sin dal giorno avanti. Ma li ricacciava indietro, vinta da un'inattesa debolezza in faccia a quell'uomo sul quale aveva sempre dominato e dominava con l'energia del proprio carattere. Si sentiva sgomenta: - E se le mie parole facessero peggio? Avrebbe voluto ridursi piccina piccina, per non urtarlo di fronte, per non irritarlo, per rendersi sopportabile. E mentre le veniva d'implorare grazia e chiedere pietà, si stizziva contro di sé medesima perché commetteva un sacrilegio di amor materno, pensando a lui e ai propri dolori di amante anche lí, innanzi al letto della sua bambina in agonia! A un tratto, si scosse, s'avvicinò a Gerace, e presagli risolutamente una mano: - Andrea, tu m'inganni! E senza dargli tempo di rispondere, tratto dal taschino del vestito un piccolo foglio, glielo spiegazzava sotto gli occhi. - Vile usuraio! - borbottò Andrea, riconosciuta la sua cambiale. - Che ti ha spinto a questo? - riprese Giacinta. - Ah! forse tu credi che l'abbia mandato qui io? - Perché una cambiale? Perché volerla rinnovare? - È una cosa che mi riguarda - rispose Andrea mortificato. - E me no, dunque? ... Oh, Andrea! Tu mi inganni, tu non m'ami piú! Perché ricusi di servirti del mio denaro? Non è anche cosa tua? Ti ho mai chiesto conto di nulla? Non sei padrone assoluto? Tu m'inganni! Tu non m'ami piú! - Calmati! Zitta ... Quei rimproveri a voce repressa lo colpivano vivamente, lo sbalordivano. Era la prima volta ch'ella glieli faceva cosí aperti. - Sono sempre lo stesso, credimi! ... Solamente ... non volevo abusare ... E, per rabbonirla, la stringeva tra le bracca, la baciava. - Non mentire! - riprese Giacinta con la voce raddolcita. - Non me lo merito. Abbi il coraggio di dirmi che non m'ami piú, se mai fosse vero che tu non m'ami piú; abbi il coraggio di dirmelo! Preferisco questa spaventevole certezza al tormento del dubbio. Tu sei tutto per me! Perché non dovresti piú amarmi? Che ti ho fatto di male? Gli s'era gettata al collo, ripetendo le stesse parole: - Abbi il coraggio di dirmelo! Tu sei tutto per me! - ma con intonazione cosí variata, che le rendevano diverse e piú efficaci. - Me lo assicuri? ... Me lo giuri? - Te lo giuro. Farò tutto quello che vuoi. - Mi basta. Ah! Il cuore mi si slarga! Respiro! ... Al colpo di tosse della bambina che s'era mezza riversata fuori delle coperte, Giacinta si voltò e spinse violentemente Andrea verso il letto, senza poter gridare, con gli occhi quasi fuori dall'orbita, guardando la sua figliolina che agitava in una crisi terribile gli sciolti capelli d'oro sulla sponda del letto. Poi cacciò un grido e si lasciò cadere sulla seggiola, premendo i pugni sugli occhi, balbettando: - Muore! ... Muore! ... Per la camera avveniva una gran confusione. Marietta, accorsa per prima, si dava desolatamente dei pugni alla testa: - Ah, Madonna benedetta! Ah, Madonna! E invece di aiutare il Gerace col riporre la bambina sotto le coperte, lo impicciava. Venne ad aiutarlo Elisa Gessi, sopraggiunta in quel punto con la sua mamma e la signora Villa. Queste intanto cercavano di confortare Giacinta: - Non perderti d'animo! - I bambini resistono a colpi più forti! La signora Maiocchi faceva valere la sua esperienza di quando Elisa era bambina. - Ecco il dottore! - disse la signora Villa. Giacinta gli stese le braccia con le mani giunte. - Ah, dottore! La mia bambina! La mia povera bambina! Silenzio profondo. Tutti gli occhi si rivolsero a quel viso pallido, dalla barbetta bionda, che a Marietta pareva proprio il viso di nostro Signore sul punto di fare un miracolo. Solo Giacinta, non osando guardarlo, annichilita, con la faccia tra le mani, tendeva ansiosamente l'orecchio, come chi attende una condanna! Il dottore si era allontanato dal letto senza dir nulla. - Dunque? - gli domandò Andrea sotto voce. - È affare di minuti. Portino via la mamma - rispose il Follini. Allora Andrea, la signora Villa e Marietta si schierarono davanti al lettino per impedire la vista a Giacinta, che si lasciava trascinare, macchinalmente dalla signora Maiocchi e da Elisa. Non piangeva; si sentiva fulminata, si sentiva morire sotto l'impressione di un rimorso, come se ella medesima avesse uccisa la sua creatura, con le proprie mani snaturate! E la smania d'accusarsi di tal delitto al cospetto di tutti le soffocava il cuore, le rendeva convulsa la lingua. Vagellava: - Oramai! Tutto è finito! Ogni nodo s'è rotto! ... Ahimè, forse non lo rivedrò piú ... Ma come le lagrime cominciarono a sgorgarle abbondanti, tra i singhiozzi che parevano strozzarla, ebbe orrore del suo vagellamento: - E pensava a sé, in quel punto? ... Oh! Mamma senza cuore! ... Con un tremito che la squassava tutta, si aggrappava a Elisa supplicandola di lasciarla andare, di farle vedere la sua creaturina per l'ultima volta. Di fargliela baciare ... per l'ultima volta! ... - Vestitela come un'angioletta, tutta di bianco; copritela di fiori ... Il suo vestitino piú bello è lí ... No, voglio prenderlo io ... Anche gli stivalettini nuovi ... quegli altri! ... Poi ricadde, inerte, con gli occhi fissi fissi, sbarrati. - Meglio cosí! - disse il dottore.

IL BENEFATTORE

662575
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
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Lei e i suoi si trovavano colà più stranieri di quando vi erano arrivati; suo padre, il benefattore, veniva già stimato un invasore, un intruso, uno sfruttatore della miseria di coloro a cui egli aveva pagato, più che realmente non valessero, i terreni acquistati; di coloro a cui aveva dato, per parecchi anni, modo di guadagnar da vivere onestamente, dignitosamente, con mercedi che erano servite di esempio, di paragone e che gli altri proprietari avean dovuto adottare; di coloro a cui aveva mostrato, con la pratica, in che maniera potevano rendere più fecondo il meraviglioso suolo da loro posseduto e lasciato quasi in abbandono. Ed erano appunto questi - i proprietari, i galantuomini - che aizzavano gli odii, che spargevano attorno la diffidenza; invidiosi, maligni e anche ciechi, perchè non s'accorgevano di fare il loro male agendo in quel modo. Ne aveva parlato, il giorno dopo, con suo padre, strappandogli quasi per forza una confessione di quel triste stato di cose. Il signor Kyllea non era indignato, nè scoraggiato: aveva voluto nascondere, alle sue donne la verità per non affliggerle e per non atterrirle; giacchè la signora Kyllea e la cognata avevano la mente piena di pregiudizi intorno ai siciliani, ed erano quasi stupite di non aver visto finora invadere Villa Elsa da briganti con tromboni e cappelli a cono ornati di penne di gallo, come li immaginavano vestiti, ricordando certi disegni di giornali, di Magazzini , di riviste. - Accade così per tutto, quando qualcuno sposta interessi, crea nuove risorse. Lotta lunga, ostinata, violenta; ma si finisce sempre con vincere! - aveva soggiunto il signor Kyllea. - Come non vincere, se si hanno alleati di questa forza? A miss Elsa parve che suo padre dicesse queste cose con sottile accento di affettuosa malizia, e arrossì. - Oh! - rispose - Certi alleati talvolta possono nuocere più che giovare! Ma suo padre non le badò; scrollò il capo sorridendo, poi, tornato serio, disse: - Gli alleati, per lo meno, debbono essere prudenti, e non far sapere ad altri ... E questo divieto aggiunse un senso di sgomento alla profonda impressione prodotta dalle rivelazioni di lui. Ella stava per dirgli: - Senti, babbo! ... La confessione di quel che era avvenuto tra lei e Paolo quella mattina, le tremava da un pezzo su le labbra, impaziente, quasi sospinta dal rimorso di essere stata taciuta parecchi giorni. Ma, appunto in quel momento, dopo le tristi cose accennate dal padre, le parve che la dichiarazione di Paolo, e il loro fidanzamento di un istante fossero stati un sogno, nient'altro che un sogno. E si trattenne, stringendo le labbra, quasi ringhiottendo le parole che le fremevano nella gola. Disse soltanto, e con energia: - Vinceremo, babbo!

Racconti 1

662670
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Poi, nella intimità del ritorno a piedi, stringendo il braccio di Renato con abbandono, incoraggiata dal buio, ella era tornata a scusarsi. - Non ci faccio una bella figura, lo capisco. Ma ..., infine, non ho voluto mostrarmi piú virtuosa che non sono. Però voi uomini non potete capirlo. È altra cosa per voi ... - Renato la lasciava dire, accarezzandole una manina. L'accento sbiaditamente veneziano dava un fascino deliziosissimo a quella facile parola che risuonava nell'oscurità, fra il lieve stropiccio dei piedi sulle foglie secche del viale, e andava a perdersi nel gran silenzio della campagna cosí pieno di vaghi rumori. Renato la lasciava dire, non ancora ben persuaso; anzi acceso e smanioso del possesso di quella magrolina assai piú ora, che non quando l'aveva adocchiata al terrazzino del secondo piano della casa accanto, raccolta nella veste da camera di tela cruda, larga e ondeggiante, col braccio che usciva ignudo dalla manica rovesciata, poggiato col gomito su la ringhiera; braccio magro, coperto da peluria che dava un tono quasi bronzino alla pelle bruna. La lasciava dire non ancora ben persuaso, ma nello stesso tempo, per raffinatezza di scapolo, contento di quella resistenza cosí inattesa e cosí franca. Era piccante! Ah, la bella bruttina, come aveva già cominciato a chiamarla, diventava qualcosa di ghiotto fra la trivialità dei soliti incontri! E per ciò, quasi senza accorgersene, quando furono vicini a casa tornò a insistere, scherzando: - Chiedo soltanto il favore di dar un'occhiatina al suo nidicino del secondo piano ... - È impossibile. Non vuol persuadersene? - Soltanto un'occhiatina, per figurarmela nel suo vero ambiente quando la sento canticchiare con vocina di falsetto ... Non vuol permettere neppur questo? Allora venga a bere un bicchierino di Kümmel o di Chartreuse a casa mia, qui, a due passi ... Non è un gran sacrifizio. - Impossibile! ... - Ella lo supplicava con gli occhi improvvisamente gonfi di lagrime, stringendogli forte la mano, alla luce del lampione sotto cui s'erano fermati: - Non mi offendo di quest'insistenza. È cosa naturalissima. Il torto è mio -. Renato la interruppe: - Buona notte. - È in collera? - Niente affatto -. Il tono brusco della voce però lo smentiva. Il fascino di quella svelta personcina, dai grandi occhi neri nel viso magro, era stato piú forte della stizza. E cosí egli s'era lasciato riprendere, indolentemente. Promise, da gentiluomo, che non ne avrebbe piú riparlato, ed ebbe l'onestà di confessarle che una relazione seria, com'ella desiderava, non era possibile. - Ci vedremo frequentemente, da camerati, da giovinotti ... Eh? - Ella non rispose né sí, né no, esitante - Ho paura di annoiarlo ... - Invece, Renato era tutto contento quando la vedeva entrare improvvisamente in quella camera di scapolo ch'ella irraggiava dei suoi sorrisi, faceva echeggiare delle sue risatine somiglianti a gorgheggi, e che riempiva e agitava con gentile irrequietezza di ragazza nervosa. Intanto ch'egli preparava la solita tazza di caffè, Luigia andava da un tavolino all'altro rovistando libri, disegni, svolgendo grosse pagine di album. - Tutte queste belle donnine sono state sue amanti? - Renato non rispondeva, affettando discrezione. - Tanto a me può dirlo. Non ho nessuna ragione di essere gelosa. Come sono belle! Ah, l'esser bella dev'essere una grande soddisfazione! Se io fossi bella, come questa qui per esempio, farei disperare parecchia gente, parecchia! - È cosí cattiva? - No: ma la bellezza è una forza -. Renato le assicurò ch'ella aveva qualcosa di meglio della bellezza, quel che di attraente, di simpatico che spesso la bellezza non ha. - So benissimo che sono brutta, ma so pure che non sono antipatica ... Questo cappello alla Rubens, con questa gran piuma, mi dà un'aria bizzarra ... Sciocca! Lo dico da me! ... E scoppiò a ridere voltando le spalle, con una smorfietta, allo specchio davanti a cui si era fermata per provarsi il cappello. - Capelli pochi e cortini. Che disperazione! E cosí ribelli! Non c'è pettine che riesca a domarli. Già, mi ci confondo poco. Ho ben altro da fare! ... Che delizia questa camera cosí grande e cosí piena di luce. La mia è un bugigattolo da aggirarvisi appena. Mi è cara però; è piena di ricordi! - ... Dolci? - Tristissimi. Quante lagrime, quante sofferenze, quando riarsa e stroncata dalla febbre dovevo lavorare tutto il giorno, per settimane, per mesi, rompendomi la schiena, sostentandomi di solo pane! ... Non voglio neppur rammentarmelo! ... - E ora? - Ora? Vivucchio, lavorando sempre, orgogliosa di non essermi mai avvilita. Piuttosto un tonfo nel naviglio. C'è mancato poco, un mese fa! Qualche volta ci ripenso sul serio ... Infine! ... Quegli occhioni neri prendevano un'espressione indefinibile, allorché ella parlava di morire. Ne ragionava tranquillamente, senza affettazione, come di cosa da dover accadere un giorno o l'altro, quando si è tanto disgraziati a questo mondo, quando non si ha neppure un cane che ci voglia bene o che ci sia legato da un legame qualunque! Sua madre era morta. Suo padre ... Un giorno (non poteva dimenticarlo, aveva appena sette anni) un'amica della mamma che la conduceva a spasso, le aveva additato un signore alto, bruno, bell'uomo, che entrava in un caffè. - Va', digli: babbo, dammi un bacio! - Ed era entrata in quel caffè e s'era accostata a quell'uomo veduto allora per la prima volta e gli aveva detto, tremando: - Babbo, dammi un bacio. - Quel signore, baciatala, accarezzatala e compratele delle chicche, le aveva detto: - Va' va'! - E n on lo aveva piú riveduto. E non ne aveva piú saputo notizia! ... - Ma perché le racconto queste malinconie? Addio, addio ... Scappo. - Senza pagar nulla? ... - Renato se la fece sedere sui ginocchi, vincendone la riluttanza - Voglio il mio obolo, il mio solito bacio ... - Mi lasci andare! ... - E quando la Luigia non fu piú lí, egli rimase pensoso, sotto un'impressione che non sapeva spiegarsi, affatto nuova per lui. Era strano. Quel corpicino magro non lo turbava piú. La viva sensazione di quei baci era già diventata qualcosa di puro, di spirituale. Gli pareva quasi impossibile. E come lo metteva di buon umore ogni visita della bella bruttina! Sotto quell'apparente allegria però, chi sa quali e quanti dolori! Infatti, in certi giorni, lo sforzo della poverina era troppo evidente. Quegli occhi avevano pianto; quel pallore, che il suo solito sorriso non riusciva a velare, raccontava miserie ch'ella nascondeva pudicamente e altieramente in fondo al cuore. Renato la prendeva tra le braccia, con aria di scherzo: - Via, confessati all'amico, al camerata. Se ti occorresse, per caso, qualche sommettina. - No, no, grazie; in verità, non mi occorre niente. Com'è buono! - Intenerita, gli stringeva tutte e due le mani ripetendo: - No, no, grazie! - con voce turbata. - Se mai, ecco, le prometto che ricorrerò a lei, piuttosto che ad altra persona. Ma spero che non avvenga. Ci mancherebbe solo questo! Pur troppo, io abuso della sua gentilezza, da vera sfacciata ... No, no, grazie! Grazie! - Renato non insistette per delicatezza. E da quel giorno in poi, la invitò a pranzo piú frequentemente. Luigia, però, aveva capito subito; e due o tre volte aveva rifiutato, col pretesto di un precedente invito di un'amica. Ma egli, rimasto a spiarla, l'aveva vista rimanere in casa fino a sera tardi; e il lume s'era spento presto dietro i cristalli della cameretta al secondo piano. E quella sera Renato non aveva avuto voglia di desinare neppur lui, pensando alla poverina che forse era andata a letto senza aver messo niente dentro lo stomaco. Si trovavano quasi tutte le sere, alle otto precise, all'angolo di via Larga, come due amanti. Ella gli andava incontro sorridente, infilandosi un guanto, frettolosa: - L'ho fatto aspettar troppo? E, presisi a braccetto, passeggiavano per le vie fuori mano, lentamente, fermandosi davanti le vetrine. Ella gli raccontava minutamente le sue occupazioni della giornata; Renato la interrogava intorno al passato, in modo però da non sembrare indiscreto ... - Oh, non posso piú avere segreti per lei! - ella rispondeva. Quella sera erano andati a rannicchiarsi in un angolo del caffè Gnocchi, presso il teatro Dal Verme, caffè mezzo deserto. E Luigia aveva parlato, per ore, squisitamente, con abilità di narratrice che lo stupiva, facendogli sfilare sotto gli occhi i ricordi della lieta fanciullezza e della triste gioventú, passata fra i riflessi verdastri della Laguna, quando sua madre viveva ancora ... - Bella mia madre! Non le somiglio affatto -. E avea continuato, appoggiando l'espressiva testina bruna sul rosso della spalliera di velluto, accostandosi a Renato con piú intimità, quando venne il momento di parlare di ... quell'altro. - Fuggita con lui dalla casa della zia, andammo a Padova, poi a Milano ... Sin dai primi mesi, egli fu costretto a lasciarmi sola, per via degli affari. Prima mi scriveva spesso; poi, a lunghi intervalli; poi non mi scriveva piú. Arrivava e partiva all'improvviso, facendomi anche soffrire ... Mi bastava cosí poco, che anche di quel nulla sarei vissuta contenta. Una sera, in un ballo, apersi gli occhi! ... C'era un'altra di mezzo. Il sangue mi diè un tuffo. Mi sentii impazzire, e le allungai uno sch iaffo, in mezzo al ballo, all'improvviso. Fui eccessiva, si. Ma, dopo, non mi umiliai? Non gli chiesi perdono? Gli volevo bene a quell'uomo ... Gli volevo bene davvero! Eran tornati a casa silenziosi, affrettando il passo. - Forse ho fatto male, raccontandole la mia brutta storia. - Anzi, te ne sono gratissimo, proprio. - Non lo dice per cortesia? E per la prima volta, nel separarsi, gli tese le labbra col piú strano dei sorrisi di quel suo stranissimo viso di bella bruttina. Quel viso pareva livido sotto il pallore. Una mattina Renato le annunziò: - Vado via, per qualche tempo -. Luigia era rimasta senza parola, interrogandolo con incredulo sguardo ... - Dice per chiasso? - Oh, dispiace anche a me, tanto! Ma ti scriverò spesso. Puoi esser sicura che, vicino o lontano, sarò sempre amico affezionato e sincero. - Quando? - ella domandò dopo un momento di silenzio. - Fra una settimana. - Ah! I suoi occhioni neri s'erano dilatati dall'allegrezza: - Avevo creduto che partisse subito. Fra una settimana? Passerà presto anch'essa, pur troppo! ... - Renato, in quei pochi giorni, se la vide venire in casa piú frequentemente, meno allegra, sí, ma con cordialità piú aperta. Restava a lungo sdraiata sul canapè o su una poltrona, con la faccia appoggiata a una mano, un piedino accavalciato sull'altro, e gli occhi ombrati dalle ciocche arruffate su la larga e bella fronte, fissi su lui. E se Renato andava a sedersele accanto e le prendeva una mano e le passava il braccio attorno alla vita, ella tentava di svincolarsi, ma fiaccamente, e finiva col lasciarsi b aciare senza resistenza. - Prendo anticipazioni per tutto il tempo che rimarrò lontano - egli diceva. - Non dubiti: le manderò, ogni volta, mille baci per lettera ... - Ne preferisco dieci ora -. Nelle solite passeggiate serali, Luigia gli si attaccava al braccio con abbandono: - Non so affatto persuadermi che domani l'altro non ci troveremo piú insieme ... Si rammenterà di me? ... Ho qualcosa qui, nel cuore, e non riesco a metterlo fuori; un peso, una specie di rimorso. Mentre lei è stato cosí buono, cosí affettuoso, cosí sinceramente amico con me, io invece mi son mostrata quasi ingrata, cattiva. Almeno debbo esserle sembrata tale. È vero? - Perché dici cosí? Hai torto -. Allora, nei punti piú deserti delle vie, ella si fermava, guardandosi attorno, e gli saltava al collo, stringendolo al seno forte forte: - E dire che, forse, non ci rivedremo piú! ... È il mio maggior tormento -. Appena Renato comprese che cosa significava quella trasformazione di Luigia, sentí una commozione mista di pietà che lo fece impallidire. Ah! La povera creatura voleva sdebitarsi a quel modo. No; lui, invece, lui le doveva gratitudine per tante sensazioni blande, per tanti sentimenti miti, per tante ore deliziose che gli avevano fatto riposare il corpo e lo spirito con ristoro completo. No, povera creatura! Cosí era stato troppo delizioso, troppo bello! Perché guastarlo? E la guardava intenerito, mentre cam minavano senza scambiare una parola, tornando da Gorla con quel plenilunio di giugno, ridente su la vasta campagna addormentata. Era l'ultima sera che Renato restava in Milano. Perciò ella aveva voluto accompagnarlo su, rassegnata al proprio sacrifizio. Nel togliersi il cappellino tremava. Poi si era seduta sul canapè, passandosi nervosamente le mani su la faccia. - Ci rivedremo un'altra volta? - Perché no? Fra quattro mesi. - Oh, in quattro mesi chi sa quante cose accadranno! Potrò anche morire -. Si erano presi per mano; ma non si davano neppure un bacio, sorridendosi tristamente, con lunghi intervalli di silenzio. - Che ore sono? - ella domandò. - Le dodici e mezzo. - Come s'è fatto tardi! - Renato restava tuttavia seduto accanto a lei. - Perché non si leva il soprabito? - Vo' accompagnarti fino al portone di casa -. Luigia stette un momento a fissarlo, sbarrando gli occhi, credendo di aver capito male; grosse lagrime le tremolavano irresolute sugli orli delle palpebre: - È ... per vendicarsi di me? - No, no, cara! - disse Renato. - Tutt'altro! Tutt'altro! - E le accarezzava il volto. Ella rideva e piangeva, e il petto le si allargava in un gran respiro di sollievo. Roma, 9@ 9 febbraio 1883@. 1883.

C'è una con fidenza reciproca, un abbandono che altrimenti rimarrebbero degli inesplicabili misteri; c'è, non di rado, la fatale necessità da cui nascono quelle invincibili e spesso tragiche passioni che gli sciocchi battezzano con una comoda parola: mattezza! Questo sentimento, che vo' chiamar fisiologico, io lo avevo già provato in quel punto Per dire piú esattamente ne avevo avuto una sensazione indistinta; il sentimento sviluppossi piú tardi, un quarto d'ora dopo. Nella sala di aspetto ella era andata a sedersi in fondo, presso il caffè. Con un gomito appoggiato al tavolo, colla faccia appoggiata alla mano, aveva preso un atteggiamento tristo e pensoso. Fissi gli occhi sul pavimento, guardava distratta, o piuttosto seguiva coll'occhio certi bizzarri segni che la sua destra tracciava idealmente sul marmo colla punta dell'ombrellino; ma il suo pensiero non era lí; se ne sarebbe accorto anche un cieco. Sedetti rimpetto a lei, e cominciai a farmi intanto un mondo di domande a cui dovevo trovar poi le risposte. Fantasticare è una delizia. Le si accostò Beppa la fioraia, e le porse un mazzettino di viole tricolori. L'incognita guardolla in viso come destata da un sogno, prese e pagò il mazzettino, poi ricadde quasi subito nel suo malinconico torpore, e le dita si diedero a sfogliare ad uno ad uno, con visibile sbadatezza, quei poveri fiori. In quest'atto non c'era, dalla sua parte, né rabbia né piacere; le dita agivano per conto loro. Infatti quando la campana dié il segno della partenza, ella si riscosse, guardò sorpresa i gambi rimastile in mano e le foglie sparse per terra, scosse la bella testina come per dire: oramai! E s'introdusse nell'imbarcatoio. Corse difilato al vagone piú lontano e, credo, per calcolo. C'era molta probabilità di rimaner sola. Lasciai che montasse. Ella si affrettava a chiudere lo sportello, quando mi presentai io colla valigetta alla mano. - Oh, scusi! - ella disse; e si trasse indietro e andò a sedersi al lato opposto. - Scusi me - risposi, esitando qualche istante a salire. - Faccia il suo comodo - ella soggiunse, vedendo che restavo incerto sul gradino. Entrai e dopo aver riposto in alto, sulla reticella, la valigia: - Son dolente - ripresi con una di quelle piccole ipocrisie a cui siamo tanto abituati - son dolente di averle forse tolto il piacere di rimaner sola. Ma la colpa non è mia. Quest'amministrazione delle strade ferrate va cosí male! I vagoni non son mai in numero sufficiente. - Un vagone per due! - osservò ella sorridendo; - ci si può contentare. Forse arrossii a questa ingenua risposta; certamente mi sentii mortificato. Il convoglio frattanto aveva preso le mosse. Come suol accadere in simili occasioni, il ragionare corse un po' intorno il bel tempo, le ferrovie, i viaggi, i compagni di viaggio; e a tal proposito le domandai di nuovo scusa dell'averla forse infastidita colla mia presenza - Però - continuai - le darò noia per poco: mi fermo ad Empoli. E lei? (Ipocrita domanda anche questa). - Ho preso un biglietto per Genova, tanto per avere uno scopo - ella rispose coll'involontaria loquacità delle persone afflitte da qualche sventura - Sento un gran bisogno di distrarmi: vorrei fuggire da me stessa. Già forse scenderò alla prima fermata e tornerò addietro Comincio a pentirmi della mia risoluzione. Ella è d'Empoli, credo? - No, di Firenze Ho preso in affitto una villa a due miglia da Empoli, un punto grazioso e appartato. Conto menarvi due mesetti di vita eremitica, coi miei libri, s'intende. Tornai ieri a bella posta. Ho svaligiato il Bocca, il Bettini, il Paggi di tutte le novità francesi ed inglesi; romanzi, filosofia, critica letteraria, scienze naturali, una trentina di volumi: ne ho per un pezzo. Quando si è costretti a una certa vitaccia, due mesi di solitudine riescono proprio un ristoro. Ne conviene? - Di certo. Ci ha giardino? - Sí, un piccolo aborto andato cosí a male che fa pietà. - Non le piacciono i fiori? - Moltissimo: però a coltivarli ci ho poca pazienza -. Parve pentita di essersi lasciata cogliere a questa conversazione. Si accostò allo sportello e diessi a guardare la campagna che fuggiva vertiginosa. Io guardavo lei. Era bella! Quel che si dice bella, cioè della bellezza squisita che Bacone scrisse non esser mai tale senza una certa stranezza di proporzioni. Nessuno l'avrebbe detta una statua greca! Fidia certamente non le avrebbe fatto né quel nasino, né quel mento ma non per questo avrebbe avuto ragione. Quelle piccole stonature erano il meglio di lei! C'erano anche le labbra, due labbra tumidette, rosee, sensualissime, di una freschezza portentosa. C'era, a dir vero, anche la mano, bianca, con dita p iccinine, con unghie perfette, non magra né pienotta, una cosa di mezzo da far strabiliare. Io però badavo poco a tutto questo. Ciò che piú attirava la mia curiosità era il carattere, era l'anima di quella donna intravveduta pel sottile spiraglio delle brevi parole: "Vorrei fuggire da me stessa!" Che dramma doveva agitarsi nel suo cuore! Le si leggeva negli occhi. - E quanto paga di fitto? - ella chiese rivolgendomisi improvvisamente. - Cento franchi il mese - risposi; - però ci ho quasi tutti i diritti di padrone sulle frutta e sugli ortaggi, quanto occorre per mio uso, si capisce. - Ed è lí? - Da venti giorni - Senza la famiglia? - Coi fittaiuoli del posto, bravissima gente che non mi dà punto noia; ci han tanto da fare! - Perdoni la mia curiosità - disse dopo un momento; - il caseggiato è ristretto? - Anzi vasto; otto stanze, oltre la cucina, e una magnifica terrazza; poi cantina, stalla, rimessa, roba inutile per me -. Stette un momento a capo chino, forse per raccogliere meglio i suoi pensieri; poi, quasi avesse (secondo quel che le frullava in testa) risoluto di no, tornò ad affacciarsi allo sportello e a guardare la campagna, come se nulla fosse stato. Però io avevo cominciato a notare in lei una commozione nervosa che si accresceva di momento in momento. Quando le rivolgevo la parola, ella mi guardava in viso con una cert'aria da parere volesse far dei confronti, o rammentare qualcosa e aver dispetto di rammentare. La mia voce doveva particolarmente produrle un'impressione assai strana. Mentre parlavo, ella stava ad ascoltare come se avesse voluto udire qualche suono lontano, o pure scrutar qualcosa nel suono di essa. Io mi smarrivo tra mille supposizioni, ma provavo intanto un gran piacere. Mi ero accorto (ci voleva poco) che non solamente non le riuscivo antipatico, ma che già si era tra me e lei sviluppato quel sentimento fisiologico di sopra accennato. Le confidenze potevano, dovevano venir fuori; tutto dipendeva dal sapervele attrarre. Bene spese quelle poche lire! Avevo avuto una grande ispirazione, un vero colpo di genio! Io, si vede, non stavo a far il tirato nel lodarmi da me stesso! - E, scusi, Dio mio! sono troppo importuna - fec'ella dopo un lungo intervallo di silenzio, durante il quale parve fosse tornata sopra la sua risoluzione negativa ed avesse mutato parere. - Dica, mi fa un regalo. - Sarebbe - continuò esitando - nel caso di cedere una parte, quella che gli farebbe meno comodo, del suo caseggiato? - A dir vero io non mi attendevo una simile domanda e la guardai fisso negli occhi. - Ma, a seconda - risposi - Vi son delle persone alle quali non si può mai dire di no. - A una sconosciuta non la cederebbe dunque? - Perdoni, signora! Possono esservi delle sconosciute che si conoscono subito meglio di una vecchia conoscenza. - È un epigramma? - Me ne guarderei bene; né un complimento. - Sia pure. La stranezza della mia situazione in questo momento potrebbe espormi anche a peggio. Che pensa ella di me? - Oh, nulla di male, stia certa! - Non dice la verità. - Dico quello che penso, ma non credo d'ingannarmi. - Non saprei significare che sorta di sentimento io provassi intravvedendo la possibilità di avere la bella incognita qual ospite della mia villa. C'era, non lo nego, da mettersi in sospetto ad una simile proposizione fatta cosí alla lesta. Ma quella gentile figura proprio impediva si pensasse male di lei Chè! Non era un'avventuriera; si vedeva da lontano un miglio! Doveva però essere o una donna molto strana e capricciosa, o una grande sventurata. Queste due ipotesi lusingavano la mia vanità. Della curiosità non è a parlare! Io già ho avuto sempre un gran gusto per le cose impreviste. C'è tanta poesia! Anche quando si arriva, dopo molti stenti, al fondo e si pesca un granchio, a dir poco. L'imprevisto anzi è il mio forte. Figurati dunque se tremavo che la bella donna non si pentisse la seconda volta! Mi pareva un gran peccato. - Non ardisco offerirle tutta la villa, per quel che posso disporne - diss'io vedendo ch'ella taceva tra irresoluta e peritosa; - ma se nessun'altra considerazione la ritenesse, mi farebbe veramente dispiacere a non accettare. - Accetto - rispose con un impeto di franchezza, che mi piacque tanto - Ma, ad un patto! - soggiunse - Ella mi cederà metà, un quarto del caseggiato, come meglio le giova, ricevendosi anticipatamente la parte del fitto che mi spetta. - Questo poi no - feci io un po' piccato - Tanto, il fitto non è piú da pagare, e, solo o con altri, val lo stesso. Parve offesa delle mie parole, e un po' indispettita rispose: - Non se ne parli piú. Già era una follia! - Se questa mia sciocchezza - mi affrettai a soggiungere - dovesse impedirle di accettare, la ritenga per non detta; pagherà. - È una follia! - ripetè l'incognita come parlando a se stessa. Il convoglio si fermava. - Empoli, chi scende! Empoli, chi scende! - urlavano due o tre impiegati della ferrovia - Io m'impossesso del suo bagaglio - dissi arditamente, prendendo l'ombrellino e la borsa di lei - No, no - rispose con un accento languido e irresoluto. Intanto ero saltato fuori del vagone e le stendevo la mano. - Che penserà di me? - disse fermata sullo sportello per guardarmi in viso, accompagnando queste parole con un'espressione di dolore profondo che il rossore delle sue guance modificava un pochino. - Tutto il bene possibile - risposi; e le diedi braccio. Non credevo a me stesso. Mi pareva di aver vinto la prima battaglia del mondo. I viaggiatori che scesero ad Empoli e ci squadravano curiosi già li scambiavo preciso con dei moscerini. Non credevo a me stesso, e la tenevo stretta sotto il braccio perché avevo paura del treno che non si decideva a ripartire. Che animale doveva essere quel capo-convoglio! Una fermata di un secolo! Volevo fare un ricorso. Quando udii il fischio della locomotiva e vidi il convoglio volar diritto fumando e strepitando, trassi fu ori un sospirone che la fece sorridere; certamente aveva capito. Mezz'ora dopo un fiàcchere ci depositava innanzi il cancello della villa, senza che nessuno di noi due avesse, dalla stazione fino a lí, pronunziato una sillaba sola. Pure, che vertigine avevo in testa! Quanti milioni di cose non mi eran passati pel capo; milioni, non esagero. Lungo il piccolo viale che dal cancello conduceva diritto al caseggiato: - È curiosa - dissi - che nessuno di noi abbia cercato di sapere il nome dell'altro. Mi presenterò da me, Oreste Lastrucci. Posso ora conoscere chi sia la mia gentile pigionale, giacché si vuole cosí? La sua fronte e gli sguardi si annuvolarono per qualche secondo. Arrestossi colla testa bassa e mormorò: - Non ci avevo badato! - Poi scosse una o due volte il capo e si rivolse a me sorridente dicendo: - Che importa il mio vero nome? Me ne dia uno a suo piacere. Varrà lo stesso. Si ricorda? Giulietta diceva a Romeo: What's in a name? That which we call a rose, By any other name would smell as sweet. - È vero - risposi subito - Però talvolta tra un nome e una persona c'è tale misteriosa relazione da sembrare che quella non avrebbe potuto chiamarsi altrimenti. Dargliene uno diverso spesso equivale a torle qualcosa di essenziale - Non è il caso. Qui la persona è talmente insignificante - ella riprese sorridendo sempre con grazia infinita, che questo o quel nome non importerà nulla. Mi ribattezzi dunque ... Sarà una stranezza di piú - Fasma! Un nome greco - dissi improvvisamente. - E significa? - Apparizione, fantasma! Le torna a capello. Non è nuovo; il povero Dall'Ongaro intitolò con esso uno dei suoi piú gentili lavorini di soggetto greco. - Questo volevo dire - ella soggiunse; - ne avevo un'idea confusa. E sia Fasma! - continuò; - mi piace. Cosí Oreste non stona. O i contadini che diranno? - Questa interrogazione mi scosse. La moglie del fittaiuolo che ci aveva scoperti quando eravamo a mezzo viale, ci veniva incontro insieme alla figliolina, una bimba di sette anni. - Passerà per mia sorella - diss'io alla Fasma; - non bisogna dar campo a sospettare. I contadini son la razza piú maligna del mondo. - Anche questa! - E permetterà che innanzi a loro ci diamo familiarmente del tu. - Non se ne può far di meno - sclamò ella ridendo di cuore: - un passo obbliga all'altro - La bimba volle caricarsi di una parte del nostro bagaglio; la fittaiuola mi tolse di mano la valigetta che pesava un pochino perché zeppa di libri, ed entrammo in casa. - Prendi tutte le stanze che ti occorrono, le dissi (la fittaiuola era presente); due son sufficienti per me. Queste qui son le piú libere e le meglio esposte. - Basta - rispose; - farò la scelta piú tardi -. Non potè trattenersi dal ridere - Ed ora pensiamo alla colazione - ripresi; - è la cosa che in questo punto mi pare importi il piú. - Ci ho già pensato - disse la fittaiuola; - se voglion vedere ...- Infatti poco dopo eravamo seduti l'una rimpetto all'altro, con un monte di frutta, del burro, del cacio e delle uova davanti a noi. La Fasma aveva perduto un po' di quella profonda tristezza che pareva la tormentasse. Non già che a volte non rimanesse tutt'assorta nei suoi pensieri e quasi straniera a quanto la circondava; però era ad intervalli che di mano in mano si andavan facendo piú brevi. A tavola parlammo poco, ma con schietto buon umore. Avevo un magnifico appetito. Mi accade sempre cosí; quando son lieto divoro. E in quel momento ero piú che lieto, felice. Di che? Di nulla; di vedermela lí innanzi, di sentirla parlare, di riflettere che quella notte ella avrebbe dormito sotto il mio stesso tetto! Honni soit qui mal y pense! Terminata la colazione, si affrettò a darmi innanzi tutto i venticinque franchi del suo fitto di un quarto di villa, piú altri cencinquanta pel vitto: io dovevo pensare a ogni cosa. Non ricusai, né rifiatai, perché sapevo di farle dispiacere. Dopo questo scendemmo a girare un po' pei campi. Voleva, come si dice, fare una ricognizione dei luoghi. - Ella non smetterà le sue abitudini - mi disse per le scale; - mi farebbe pentire troppo presto di averla disturbata. - In campagna - risposi - abitudini non se ne hanno. Si fa quel che piú piace. Gli alberi e le siepi sono d'una tolleranza e d'una discrezione a tutta prova -. Ed infilammo una viottola. La campagna era inondata d'una luce diversa e migliore di quella del sole? Io credo di sí. La bella figurina doveva senza dubbio proiettare invisibili raggi che mutavano la faccia delle cose. Le infinite e leggiere gradazioni del verde; le tinte vivaci dei fiori che brizzolavano qua e là, in tanti toni, l'aspetto fresco e vegeto dei campi; i susurri delle frondi; i mormorii delle acque correnti pei rigagnoli e zampillanti dai getti di una piccola vasca; i pigolii malinconici, i gorgheggi chiassosi degli ucc elletti affaccendati alla cova su pei rami degli alberi; il profumo che imbalsama l'aria; le mille intime voci della natura sprigionantesi da ogni parte con impeto folleggiante ai bei ultimi giorni del maggio; ogni cosa aveva, per virtú di lei, acquistato un sentimento nuovo, un soffio di vita piú allegra. Le donne son maghe senza volerlo. Figurati lei! Pure la Fasma appariva trista e quasi stizzita di quelle correnti di gioia che la indifferente Natura emetteva, senza curarsi d'altri, per proprio conto. Che so? Quel paesaggio non slontanavasi forse abbastanza pei suoi sguardi e pel suo cuore. Forse il posto non aveva un aspetto tanto diverso da qualch'altro che ella avrebbe voluto dimenticare. E cosí, mentre il piede s'inoltrava lesto, potrei dire affrettato, lungo le viottole o fra l'erba, la sua anima fuggiva, fuggiva chi sa dove e parlava agitata con s e stessa. Le labbra infatti le si atteggiavano di quando in quando a un che da non potersi dire né un sorriso, né un'espressione di rabbia o di sdegno: qualcosa di straziante, d'immensamente doloroso; un pianto (sicuro, era proprio cosí) un pianto dell'anima. E intanto gli occhi brillavano a volte, lampeggiavano, parlavano quasi allo inverso. Io la guardavo stupito - Strana la vita! - esclamò ella ad un tratto - Due che poche ore fa erano perfettamente sconosciuti l'uno all'altra, si trovano ora vicini, ospiti della medesima casa, in via di diventare forse amici. Domani la fatalità che gli ha riuniti li sbalzerà di nuovo per lati opposti, e verrà dí che torneranno ad incontrarsi senza nemmen riconoscersi. - Impossibile questo! - risposi. - La vita ha cose peggiori! - soggiunse tentennando il capo. - Badi qui; mi dia la mano. Eravamo all'orlo di un ciglioncino ch'ella voleva saltare. La sua manina fremette nella mia mano come colta da brividi, e la lasciò quasi subito. In questo punto due farfalle ci passarono davanti l'una inseguendo l'altra. Ella fermossi e, proprio stizzita, diessi a sparire coll'ombrellino quella che pareva inseguisse, il maschio probabilmente. - Rissa di amore! - diss'io. - Dica violenze - rispose, - violenze del piú forte. - S'intende, l'amore è una divina violenza: per questo è una gran cosa -. Guardommi con tal cipiglio che non potrò mai dimenticare. Parve meravigliata osassi ragionar dell'amore; me ne rimproverava cogli occhi. - Ho detto male? - richiesi. - No; ... che vuole che io ne sappia! - rispose correggendo coll'esitazione quel suo primo slancio - Solamente ... - Prego, parli - Solamente (badi, ve', è una mia opinione) io credo che gli uomini non abbiano diritto a discorrere d'un sentimento che non possono mai provare. - Non possono? - Certo. L'uomo non ama, fa all'amore. - È una distinzione troppo sottile - Ma verissima. Noi donne ... - Giusto quel che volevo domandarle! - Noi donne invece, una sola volta in vita nostra (non piú) noi amiamo davvero. Pel resto, noi non si fa mica all'amore; viviamo dei bricioli di quel primo banchetto della vita. Se gli uomini se ne persuadessero! Già spesso non ce ne persuadiamo neanco noi stesse. - È la teorica del primo amore portata all'eccesso - osservai ridendo. - S'inganna - rispose - Ciò che comunemente dicesi il primo amore è una sensazione quasi animale, istintiva, e può indefinitivamente prolungarsi per diversi stadi della vita. Frequente è il caso che parecchi uomini nel cuor d'una donna rimangano, l'un dopo l'altro, sempre un unico primo amore. Creda, la donna è capace del vero amore soltanto nella pienezza del suo sviluppo, dai vent'anni ai venticinque. - Quanta poesia ella mi ammazza! - E c'è peggio - continuò con arguta malizia - Non tutte le donne possono amare: fra cento, appena due! - Qui bisogna intendersi - dissi - sul preciso significato che si dà alla parola. - È un significato che non si spiega, s'intuisce. Noi donne lo comprendiamo quasi tutte. Che discorsi, non è vero? Mentre si ha dinanzi gli occhi una cosí bella campagna, con questa magnifica giornata, con quell'usignuolo tra i pioppi che gorgheggia divinamente! - E corse, mutata d'un subito, alla fonte lí presso. Il capelvenere rivestiva per intero la rozza muratura fatta a proteggere l'acqua dalle frane della collina; gli acanti vi crescevano rigogliosissimi alla base colle loro larghissime foglie frastagliate, riverse a guisa di capitello; e i lati venivano protetti da una siepetta di rovi fra cui si erano intrecciate certe campanule a fiori bianchi e grandi che non so come vengan chiamate dai naturalisti, né mi importa saperlo. - Com'è bello qui! - disse; e tuffò nell'acqua le mani per spruzzarsi un pochino il viso con bizzarria fanciullesca. Avessi tu visto che incanto! Che capolavoro di quadretto non avrebbe potuto farsi con quel piccolo sfondo verdeggiante e pieno di ombra e la sua gentile personcina ritta in piedi innanzi la fonte, cogli occhi chiusi e il capo riversato all'indietro, nell'atto che riceveva la fresca e cara impressione dell'acqua spruzzata! Meravigliato piú che curioso, fermato a dieci passi di distanza, io domandavo intanto a me stesso: - Ma chi è costei che cita Shakespeare in inglese, ragiona dell'amore con tanta sottigliezza, e prende in affitto il quarto d'una villa dove sa doversi trovare sola a solo con un uomo ch'ella ha visto ora per la prima volta? Non sapevo che rispondere. Vi era tanta semplicità, tanta franchezza in quel suo fare, dirò anche tanta imprevidenza, che invece di sospettare qualcosa intorno a lei, io provavo verso la b ella creatura un sentimento di rispetto e di tenerezza quasi protettrice, e la ringraziavo in cuor mio. Questo sentimento somigliava l'impressione provata alla lettura di una di quelle serene e meravigliose pagine che Omero fra gli antichi e Goethe fra i moderni ebbero, quasi soli, la fortuna di poter scrivere: né piú, né meno. Infatti, per una strana associazione d'idee, io mi sentivo mulinare nel cervello: Come vider venire alla lor volta La bellissima donna i vecchion gravi Alla torre seduti ... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ... Essa all'aspetto Veracemente è Dea! E ci mancava poco non mi stizzissi di quella pedanteria fuori stagione. - Fuori proposito, anzi! - riflettevo alle dieci di sera, quando ella si era già ritirata nelle sue stanze, ed io appoggiato sul davanzale della finestra, col sigaro acceso, riandavo i menomi avvenimenti della giornata. Poco prima avevo visto lí, sullo spianato, la famiglia dei fittaiuoli mangiar la minestra all'aria aperta; gli avevo sentiti calmi e alla buona ragionare di bestiame, di agli, di polli, di grano turco, di una piccola tirchieria del padrone, di tutto il lor mondo. E osservando la massaia belloccia un tantino, pulita, di un carattere mite e sottomesso, ero stato naturalmente tratto a confrontare le due vite, quella della Fasma e di lei, le due anime, i due cuori. Che differenza! Che sproporzione! E le mie sim patie non erano mica per la massaia, la donna all'antica, ma per la nervosa, per l'agitata, per la tormentatissima Fasma. Ecco perché dicevo che i versi di Omero mi eran venuti in mente a sproposito. Tra Elena e Fasma non ci scorgevo rapporto di sorta e irriverentemente concludevo: - Elena! Elena! È la massaia! - Suonava la mezzanotte all'orologio di Empoli che nel silenzio notturno si sentiva benissimo fin là. Quei cento tocchi picchiati e ripicchiati cosí solennemente che dominavano cupi e lontani lo stormire delle frondi, il canto di alcuni grilli e il gracidare di qualche rana, accrebbero il senso d'indefinita malinconia e di sconforto, la quasi voglia di piangere che mi opprimeva in quel punto. Quel fantasma vivente ne aveva già richiamati due altri che da un pezzo non mi si erano piú presentati alla memoria, o, se si erano, n'erano stati facilmente scacciati via. Ricordi lontani e recenti, immenso tesoro di aurei sogni, di grandiose speranze, di desideri ardentissimi, di dolcezze, di possessi, di dolori, di smanie, di disperazioni, quanto aveva insomma influito piú che ogni altra cosa sulla mia vita, e modificato l'anima e il cuore con indelebile stampo; tutto mi si era rimescolato nella memoria dietro quei due fantasmi di donne! - E questo qui? - mi domandavo inquieto E tornavo a fantasticare, a creare colla rapidità dell'elettrico dei veri romanzi onde spiegarmi l'enimma della giovane donna che forse, certo fantasticava alla sua volta tre stanze piú in là della mia - L'amerò? - insistevo finalmente a domandarmi - l'amerò? E facevo e rifacevo un rigoroso esame di coscienza; però conchiudevo sempre di no. Non sapevo capirlo; ma c'era un che da cui mi veniva interdetto il sentimento preciso dell'amore: una forza repulsiva, un fluido misterioso (benefico o malefico, chi avrebbe potuto giudicarlo?) che mi teneva, come suol dirsi, a rispettosa distanza da lei. Ed io ora mi consolavo di questo, ora me ne sentivo un po' offeso; infine avevo trent'anni! Il giorno dopo ella volle dei libri. Li scelse da se stessa, l'Ernesto Maltravers del Bulwer, i Nouveaux contes fantastiques del Poe, tradotti dal Baudelaire (due libri agli antipodi l'uno dall'altro) e stette quasi tutta la giornata nella sua stanza, ove io non osai andare a disturbarla. Però dal finestrino di un piccolo andito potei, non visto, osservarla a lungo: leggeva a sbalzi. Sdraiata sur una poltrona, si lasciò due o tre volte cadere il libro di mano e non lo riprese che dopo un pezzo. Era il libro che slanciava quell'anima irrequieta dietro le visioni del passato, o incontro alle incerte nebbie dell'avvenire: o non aveva esso tanta potenza da impossessarsi completamente dell'attenzione di un cuore rigoglioso e travagliato dalla stessa sua forza, che pur tentava forse dimenticare il passato, forse dominare le fatalità del futuro? A volte ella si levava, con uno scatto, da sedere; passeggiava su e giú per la stanza, ora rapida, ora lenta; poi si fermava colla testa bassa, colle braccia alzate in avanti e le mani aperte, quasi avesse voluto impedire a certi ricordi di accostarsi alla sua memoria, e restava in quell'atteggiamento per piú secondi; indi rimettevasi a leggere. Verso le quattro pomeridiane scese in giardino e diessi a ripulire i fiori, ad annaffiarli, facendosi aiutare dalla fittaiuola. Mi affrettai a raggiungerla e fui molto sorpreso di non trovarle sul volto nessuna traccia di quell'agitazione interna della quale ero stato spettatore (per quanto dalle umane azioni si possa indurre con certezza i sentimenti e i pensieri). La sua fronte era serena, d'una serenità verginale, illuminata dal tranquillo splendore della pupilla e da quello del suo sorriso; giacché il suo sorriso ora splendeva ed ora scintillava: almeno a me mi faceva quest'effetto. Vi era nel suo gesto una calma gentile; e dal suono della sua voce erano affatto sparite quelle vibrazioni tremule, imperiose, che davano alla parola un'espressione altiera, imponente, efficacissima. - Questi poveri fiori! - disse vedendomi: - perché farli nascere e poi lasciarli morire di sfinimento? - Crede ella che si accorgano di soffrire? - risposi. (La fittaiuola si era allontanata per riempire d'acqua l'annaffiatoio) - Non lo so - replicò - ma infine non mi pare una bella cosa. Io però ritengo che tutto soffra nella natura quando gli vien meno ciò che dovrebb'essere il suo alimento, il suo sostegno; l'anima, come il sasso: non vive ogni cosa? - Sí; ma non ogni cosa ha la coscienza di vivere. - Soffre meno forse; ma noi, per questo, restiamo meno cattivi? E continuò attentamente, con pazienza proprio materna, a levar via qua delle foglione riarse, là delle erbucce parassite; qua a smuovere la terra, lí ad accostarla piú al ceppo, rimondando, ripulendo, strappando; e i fiori pareva la ringraziassero quando il venticello gli agitava. - Sa? - riprese dopo un pezzetto; - ho dovuto dire una bugia. - Grossa? - feci io, sorridendo. - Piccina, a dire il vero. La fittaiuola mi ha domandato come non avessi, benché sua sorella, l'accento toscano. - Va'! Le bugie hanno le gambe corte. Ed ella ha risposto? - Lo supponga. Sono stata lungamente fuori casa, maritata in Piemonte. Son vedova adesso. - Una bugia veritiera? - Ecco! - esclamò con gesto di rimprovero - lei rompe i patti. Ieri sera si fissò che nessuno dei due dovesse chiedere all'altro indicazioni di sorta sul passato; dovremmo prenderci per quel che si apparisce, due piovuti dalle nuvole. - Ha ragione. Mi mordo la lingua -. Quest'incidente bastò per turbarla. Lasciò in asso i suoi fiori, portò una mano alla fronte e voltommi le spalle avviandosi a manca, pel piccolo viale delle acacie. Fatti alcuni passi però si rivolse addietro e mi chiese: - Non vuoi venire? Passarono cosí parecchi giorni senza che il mistero di quella donna si chiarisse per nulla, ma non senza che la nostra famigliarità non divenisse piú intima e piú espansiva C'era in quel carattere un po' del giovinotto e del virile, mescolato a quanto di piú finamente femminile possa trovarsi in una donna; ed io a poco a poco avevo, conversando, perduto il ritegno di toccare con lei certi soggetti scabrosi. Ci mettevo, è vero, tutta la delicatezza, tutto il pudore possibili; ma ritenevo anticipatamente ch'ella non avrebbe mai fatto la contegnosa fuori proposito. Mi pareva all'inverso, che il suo carattere elevato la dovesse difendere da qualunque bassezza. Infatti non c'è che le donne nobili di cuore e di mente per non arrossire di nulla in conversazione e tollerar quasi tutto. Dopo due settimane ella veniva piú frequente nella mia stanza. Era un raggio di sole! Un nugolo di sentimenti vaghi ed incerti, di desideri confusi ed inestricabili, di dolcezze indovinate e non assaporate, le quali si eran lasciate dietro la smania di gustarle fino all'ultima goccia, turbinava, turbinava a guisa del pulviscolo dell'aria in quel soavissimo raggio, ed io me ne sentivo rischiarato fin dentro i piú ciechi nascondigli del cuore. Ella si affacciava sorridente, esitando; spesso rimaneva a lungo fermata sull'uscio e poi si slanciava nella stanza con un piccolo salto. Voleva non mi levassi da sedere, né lasciassi l'occupazione che avevo per le mani; ed ora veniva a guardarmi a scrivere o a leggere e si appoggiava alla spalliera della mia sedia per dar un'occhiata al libro in lettura; ora andava attorno lesta come una rondine, mettendo in assetto ogni cosa, garrendomi del disordine seminato dappertutto. - Facciamo un po' gli uffici di buona sorella! - diceva ridendo; e la luce del suo sorriso, direi anche il profumo della sua persona restava impresso e attaccato su qualunque oggetto ella toccasse. L'orma del suo piedino mi pareva vederla luccicare sul pavimento come del fosforo stropicciato. - Sa - le dissi un giorno - che io finirò coll'innamorarmi pazzamente di lei? - Non ha ancor cominciato? - rispose; - sarà troppo tardi! - Per amare non è mai tardi - replicai un tantino punto sul vivo dal suo tono frizzante. - Faccia presto, per carità! - continuò sullo stesso tono. - Ma è proprio cattiva! - esclamai. - Anzi troppo buona, mi pare. Cred'ella d'avermi fatto un bel complimento dicendomi che finirà coll'innamorarsi pazzamente di me? Quando un uomo non s'innamora, cioè, non sente la voglia di far all'amore a prima vista; quando può rivedere una donna, parlarle impunemente per due settimane e dirle infine scherzando: "Quasi quasi commetterei la sciocchezza di far all'amore con lei!" pretenderebbe forse che la donna gli dovesse rispondere: "Oh, grazie!" e gettarglisi al collo? Siete capaci anche di questo voial tri! Si metta in collera, via! - Rimasi di stucco a quest'uscita. Ella si accorse del mio imbarazzo, e mutando intonazione, mentre rassettava sul tavolo le carte ed i libri, continuò senza guardarmi: - Stia tranquillo; non mi amerà! - E la sua voce tremava alquanto. - Chi glielo assicura? - feci io, rinfrancato. - Il mio cuore - rispose - Se non avessi questa certezza, capisce?, non rimarrei qui -. La sua gaiezza sparí ad un tratto, e poco dopo ella andò via dalla mia stanza, piú che stizzita, turbata. Quai ricordi, quai dolori, quali passioni le avevo destati nell'anima con quelle parole? N'ero tanto piú dispiaciuto, quanto piú convenivo ch'ella avesse ragione. Non l'amavo; era cosa certa: non mi sentivo tratto ad amarla. Avevo sbadatamente parlato a quel modo. Ella mi piaceva immensamente, mi inspirava un rispetto illimitato, misto ad un senso di compassione profonda: qualcosa che so io? di religioso, di superstizioso, di fanciullesco; amore, no di sicuro. Perché? Ecco il problema che non mi era riuscit o di risolvere, e me lo ero messo innanzi piú volte. Avrei dato un occhio perché fosse stato diversamente. Vanità, sciocchezza o altro, mi attristavo di non amarla e di non esserne riamato. In quel cuore (non occorreva un gran sforzo) scorgevo sepolti inestimabili tesori di affetto, d'ingenuità, di sacrifici, di pudiche debolezze, di care fantasie, di nobili sdegni, di tenerezze quasi violente; non mancava uno solo di tutti i divini elementi onde la natura e la civiltà traggono fuori la sublime creazione de lla donna moderna: e mi pareva di doversi ritenere per fortunato davvero chi avesse potuto dire con piena coscienza: "Quel cuore mi appartiene!" Perché non dovevo esser io? E se non l'amavo, non avrei potuto amarla fra qualche giorno, fra una settimana, ed esserne riamato? Il cuore intanto, testardo! rispondeva sempre di no. Ella però dimostrò, nei giorni appresso, voler quasi compensarmi di questa privazione con un mondo di gentilezze, di attenzioni cortesissime e cordiali che avevano il lor pregio e soddisfacevano in alcuni momenti le piú strane esigenze dell'amor proprio. Potei sorprendere nei suoi sguardi, nel suo accento, nei suoi discorsi certi lampi di abbandono inusitati, involontari, che mi diedero i brividi. Giacché a volte, curiosa questa! provavo paura di essere amato da lei. La sua forza mi avrebbe sopraffatto; non sarei piú rimasto lo stesso! E rifuggivo da un amore in tal guisa. Avrei, all'opposto, voluto foggiarla a modo mio: cosí soltanto potevo meglio assicurarmene il possesso. Ma era un'assurdità! Pure! D'allora in poi ripetetti piú volte quel "pure!" pieno d i tante cose; mi lasciai lusingare. La vedevo di giorno in giorno venir a me con delle concessioni piú larghe. Erano atti, gesti, occhiate, bizzarrie, motti lanciati a mezzo, che indicavano evidentemente un segreto lavorio del suo cuore, un'effervescenza che non poteva piú venire padroneggiata dalla sua energica volontà; qualcosa piú forte di lei. Ma quando mi ero illuso un pezzetto, mi accorgevo da lí a poco che avevo torto. Il segreto lavorio, l'effervescenza, l'abbandono erano dei fatti da non potersi negare; ma tra questi sentimenti e la mia persona non ci scoprivo finalmente relazioni di sorta. Intravvedevo un sottinteso; ero, che dire? Un pretesto. E siccome sentivo avvilirmi troppo da quest'idea, correggevo: un capriccio. Ci scapitavo in tutti e due i casi e tornavo di bel nuovo, e di proposito, a illudermi. In alcuni momenti il suo fascino diventava proprio immenso. Sentirmi avviluppare e compenetrare da quella malia era una delizia indicibile che, sopratutto, veniva dal suono della sua voce molle, velato, con la greca rotondità vantata da Orazio, che io non avevo capito fino a quel punto: la quale non era soltanto nel suono delle parole, ma nelle cose ch'esse esprimevano, in un'armonia che non si apprende. E poi quel suo carattere a sbalzi! Quei passaggi inattesi! Quei contrasti cosí strani che pur riuscivano cosí naturali, perché venivano da lei! Io mi stancavo a seguirla in tutte queste rapide trasformazioni, in tutti questi nuovi e sorprendenti avatara del suo cuore ch'ella spiegava forse ad arte innanzi i miei occhi sbalorditi, e mi davano le vertigini. Non c'ero abituato; scotevano troppo e, infine, perché? Non dovevo piuttosto rimanermene passivo, indifferente, in guardia (se cosí volevo) e lasciar fare? Non provavo anche in tale situazione un piacere squisito? Che andavo di piú cercando? Ma il "pure!" ecco, veniva a galla insistente; il filtro della Fasma operava. Le mie illusioni diventavano piú lunghe, piú frequenti; non osavo toccarle con la punta di un dito per tema di non vedermele volar via a stormo, come degli uccellini spauriti. Ella mi guardava in un modo! Mi sorrideva con tal'espressione! Finalmente non ero mica di marmo! L'illusione fu completa. Mi credetti amato davvero! Chi non l'avrebbe creduto? Un giorno ella venne nella mia stanza, col volume del Poe. Scrivevo una lettera di affari; la pregai mi scusasse. Appoggiossi al davanzale della finestra, colle spalle rivolte alla campagna, e continuò la sua lettura. Di tanto in tanto non potevo far a meno di levare gli occhi dall'uggiosissima lettera per contemplare quella bella figura illuminata dai lievi riflessi della luce che venivano di fuori. Una o due volte i nostri sguardi s'incontrarono: sorridemmo a vicenda. Quand'ebbi terminata e suggellata la lettera, la Fasma mi parve talmente assorta nel libro, che non volli disturbarla. Stesi la mano ad un volume arrivatomi fresco fresco la sera innanzi, l'Eva del Verga, ripresi anch'io la lettura interrotta e fui legato alla mia volta Quel volumetto, si sa, proprio divora il lettore: ella me ne aveva parlato Ma in quel punto le mie sensazioni non provenivano soltanto dalla schietta bellezza del libro. L'imaginazione traduceva, interpretava, a modo suo quelle pagine appass ionate. Eva e Fasma si confondevano bizzarramente: non le discernevo piú. L'opera dell'artista toglieva ad imprestito dalla realtà; la persona vivente dall'opera d'arte; e qualche volta sparivano tutte e due perché io le avevo lasciate chi sa dove? molto indietro, e mi ero lanciato alla ventura entro una vaporosa immensità tutt'ombre e splendori, tutta musiche e profumi, l'immensità dei sogni ad occhi aperti, e stentavo a rivenirne. Infatti non mi accorsi che la bella Fasma si era pian pianino accostata e che, posatami leggermente una mano sui capelli, china col viso fin sulla mia spalla, osservava curiosa qual libro leggessi. - Eva! - esclamò con stizza improvvisa, strappandomi il libro di mano. Il libro, sfogliandosi tutto, era volato in un canto. - Perché? - chiesi stupito. - Perché quel libro è cattivo! - Credetti accennasse al falso concetto della moralità di un'opera d'arte che è in voga fra noi. - Sono forse una ragazza? - le domandai ridendo. - Non dico questo - rispose - È cattivo perché quell'Eva par viva e commove ed interessa e si fa amare come a una vera donna riesce di rado. Che infamia è l'arte! Possiamo noi entrare in lotta colle sue creazioni, con la sua potenza che spoglia la realtà da ogni triviale bassezza, da ogni accidentale stonatura e la rende immortale? Ma, quando vi siete montati la testa con tali visioni degne dell'oppio e dell'haschich, che ci rimane a noialtre infelici colle nostre debolezze, colle nostre miserie? Come ispir arvi interesse, compassione, amore? È una lotta disuguale: la donna colla Dea, e la povera donna soccombe! Che infamia è l'arte! Per un minuto di effimera consolazione spreme anni intieri di pianto. Il suo male non è ciò che dice, ma quel che non dice e costringe a supporre e a indovinare. Allorché questa morbosa facoltà si è sviluppata (e la si sviluppa tosto) il suo potere non ha confini; l'ebbrezza stimola all'ebbrezza. Quelle raggianti figure ch'essa evoca col potere della sua magica bacchetta passano g loriose e trionfanti innanzi ai vostri occhi e li fanno tremolare di sensazioni vivissime. Che siam noi rimpetto ad esse? Volgari, meschine, spregevoli ombre e, sopratutto, noiose, noiose all'eccesso! Qual terribile confronto! Ecco; ella guarda ancora il libro buttato lí e tenta, forse, ricostruirsi l'illusione che gli ho rotta. Ecco; non mi bada nemmeno! - Ma no! - esclamai, levandomi dalla sedia e tentando di trattenerla per la mano. Era scappata via come un lampo. Dapprima, lo confesso, avevo creduto scherzasse; ma dall'accento compresi a un tratto ch'ella diceva davvero. Divenuta pallidissima, le sue labbra tremavano agitate, frementi: già pareva fosse lí lí per dare in uno scoppio di pianto. - Mi ama! - dissi con superba compiacenza; - gelosa fin di un fantasma! Nessun critico aveva fatto a quel libro un elogio di tal sorta. Mi lasciai tutto di un pezzo cader sulla seggiola e stetti lí chi sa quanto! Assaporandomi a centellini la sublime scoperta. Perché intanto non l'amavo anch'io? Verso le cinque pomeridiane cadde quel giorno una delle solite pioggerelle del maggio, e l'aria ne rimase cosí rinfrescata da non permetterci affatto la nostra passeggiata serale. La bella Fasma, del resto, non si fé' mica viva. Volevo questa volta picchiare due colpetti al suo uscio (omai me ne riconoscevo tutto il diritto); pure non mi parve conveniente: montai sulla terrazza. Il vento aveva disperso qua e là le nuvole che, ridotte leggiere e trasparenti come tante ondate di fumo bianchiccio ai raggi della luna, facevan l'effetto di slontanare piú e piú l'azzurro cupo del cielo seminato di stelle. Dai prati attorno levavasi un fresco sentore di humus piacevolissimo, una vera sensazione della vita della natura, la quale pareva godesse coi suoi mille esseri affollati pei campi e pelle colline i dolci sogni della sua lieta giovinezza, dei veri sogni di amore. La campagna infatti spi egavasi lí innanzi scura, con ondulazioni diverse, con linee larghe, con masse immense, imponenti, nel fondo. Era come accovacciata e ripiegata su se stessa; rifiatava appena, sotto una pioggia di pulviscolo argentato cadente dall'alto quasi a proteggerne il sonno Stetti lí circa fino alle due dopo la mezzanotte, col capo scoperto, incurante del freddo e del sonno, incurante spesso anche di pensare; immerso nell'onda dolcissima di un piacere senza nome, di una sensazione tiepida, snervante, che finiva col tormi la coscienza del mondo e di me stesso; e la mattina ero in preda d'una fiera emicrania; tolleravo appena la piú debole luce; tenevo a stento gli occhi aperti. Mi ero, la notte, buttato vestito sul letto; e in tale stato ella trovommi verso le nove della mattina, quando, aperto lievemente l'uscio, chiese a bassa voce: - Si sente male? - Non ebbi la forza di darle subito una risposta; sicché ella accostossi premurosa sulla punta dei piedi al mio letto, e, vedendo ch'ero desto, tornò a domandarmi, questa volta: - Ti senti male? - Benché mezzo stordito capii la forza di quel "ti" e apersi gli occhi per ringraziarla con uno sguardo e con un sorriso. Nel tempo stesso m'impadronii di una sua mano e l'accostai alle labbra. C'era qualcosa di nuovo, di sorprendente in lei, come un'effusione, uno straripamento di affetto che si versava dalle pupille tremule e imbambolate di tenerezza. Non avevo mai udite tante carezze nel suono della sua voce, né mai veduto tanto abbandono nel suo gesto. - Ti senti male? - replicò per la terza volta con accento ognora piú affettuoso e piú carezzevole, chinando il viso presso il mio. Tenni chiusi gli occhi. Sentivo il tepore della sua pelle e il suo respiro, e non osavo rispondere per paura di rompere colla mia voce quell'incanto. La sapevo cosí bizzarra, e cosí strana! - È la mia solita emicrania - risposi finalmente per non tenerla piú sulla corda. - Hai medicine? - tornò a domandarmi. - Sí, ho preso il guarana. Passerà. Vorrei star peggio e averti sempre vicina! - soggiunsi dopo E ribaciai la sua mano. Ella mi posò lievemente le labbra prima sulla fronte, poi sugli occhi, poi sulla bocca (e qui ve le tenne piú a lungo) Fece cosí due o tre volte, sempre lievemente, toccando appena la pelle come per non farmi male. Io mi sentivo guarire. Non erano mica baci quelli lí, erano qualcosa di meglio; una dolcezza nuova, ineffabile che, se non mi guariva, mi avrebbe ucciso. Il dover ristorare, ravvivare i nervi sofferenti e intorpiditi dimezzò la loro potentissima azione, e fu bene davvero. La stanza era al buio. Verso la parte del letto veniva di rimbalzo la poca luce di mezz'uscio aperto e copriva tutta la sua persona, facendo luccicare le pieghe della sua veste di faglia nera con riverberi smorzati. Il suo volto specialmente era illuminato per intero; ma piú che da quella, pareva lo fosse da una luce sua propria, da uno sprigionarsi d'atomi brillanti dalla pelle e dagli occhi che le svolazzavano attorno. - Mi ami dunque? - le chiesi attirandola verso di me col braccio che le cingeva il busto Liberossi improvvisamente dalla mia stretta e balzò in piedi. Impaurito di quell'atto sorsi anche io sul sedere. Sorrise, mi porse le due manine, e guardandomi fisso in volto, con un'indefinibile civetteria che era nell'accento, nel sorriso, nell'atteggiamento, in ogni cosa, domandommi: - Che piú ti piace di me? - La bocca - risposi Aperse gli occhi quasi atterrita, lasciò cadere le braccia e ripetè macchinalmente: - La bocca! La bocca! - Era pallida: tremava. Io non capivo davvero. Che mai potevo aver detto di male? E per stornarla da quell'impressione mormorai nuovamente: - Mi ami dunque? - Dio mio! - fece ella portando, con acuta espressione di dolore, le mani al suo volto. E scappò via. - Fasma! Fasma! - le gridai dietro, ma invano. Avevo avuto torto. Che importava quella domanda? Non era anche troppo ch'ella mi facesse evidentemente capire ciò che io volevo confessato dalle sue labbra? Perché tormentarla? Perché quasi avvilirla innanzi a se stessa esigendo un'inutile conferma del mio trionfo? Fosse l'emozione o il guarana, l'emicrania era sparita. Saltai giú dal letto, apersi le imposte e la improvvisa inondazione della luce (il sole era in alto) mi giunse incresciosa. Colle ombre amiche e discrete parve s'involasse dalla stanza la miglior parte delle dolcezze poc'anzi provate, e quando colla superstizione di un contadino richiusi le imposte, credetti sentire dei lievi e ironici cachinni dietro i cristalli, al di fuori. Erano le fuggite impressioni che si facevano beffa di me. Mi son chiesto piú volte perché l'amore si compiaccia volentieri di ombre e di mistero. Dei sentimenti che tu hai tenuto lunga pezza nascosti, che ti son montati piú volte a fior di labbra e gli hai ricacciati indietro, sdegnoso persino di confessarli a te stesso, in un luogo appartato e privo di luce, ecco ti sgusciano dal cuore senza ritegno, senza che tu te ne accorga, e il cuore si sente come levar una macina di addosso. Affare di nervi o m'inganno! La luce irrita, mette in attività, distrae le cento forze dell'organismo, e l'amore, questo terribile autocrate, non può tollerare che una menoma parte dell'attività vitale sia impiegata altrimenti quando esso governa. Innamorati, cerchiamo perciò la notte con indomabile istinto. Un bacio dato allo scuro val piú di mille baci scoccati sotto i giocondi testimoni dei raggi solari. Una parola sussurrata senza che si veggano le labbra dalle quali ci viene, dice un mondo di cose che tu non trovi nella stessa par ola pronunziata di giorno da due labbra stillanti dolcezza. Consigliati forse da quest'istinto, la Fasma ed io ci evitammo, quel giorno, a vicenda. Le imposte delle nostre stanze rimasero chiuse; desinammo alla meglio, ognuno per proprio conto; ed io mi rimisi a letto e guardai per delle ore il soffitto, da cui mi brillava nella mente certo rosone di fiori stranissimi osservato altre volte, il quale intanto serviva di pretesto a dei soavi pensieri Levatomi dopo il tramonto apersi l'uscio e le imposte, attesi con impazienza di sentire il fruscio della sua veste nella camera attigua, e quando fu il momento sporsi fuori il capo ad interrogare l'espressione del volto di lei. Era di una tristezza rassegnata, una tristezza di amore però e di nient'altro; si vedeva. Le andai incontro, le strinsi la mano senza dire un sol motto; e indovinata la sua intenzione d'uscire all'aria aperta, le accennai si avviasse. - Che stupenda serata! - diss'ella scendendo lenta le scale. All'orizzonte il cielo somigliava un lago di purissimo verdemare con spuma di oro lucente Su quei spruzzi di nuvole, su quei vapori crepuscolari la luce del sole tremolava di mille riflessi sempre cangianti che smorivano chiari, con bellissimo effetto, sulle linee nette e frastagliate dei colli, e in alto con dei toni di azzurro sempre piú densi e piú cupi, di tale trasparenza e di tale unità da far disperare qualunque artista. L'aria agitata leggermente da un venticello vespertino, fresca, asciutta, profumata da odori indistinti, avviluppava il corpo e lo penetrava con una sensazione di ristoro efficacissima; lo rendeva una piuma. La campagna aveva sussurri, gemiti, mormorii, rumori vaghi, canti interrotti di galli, trilli sommessi d'insetti, agitar d'ali impercettibili, rosicchii continuati, affacendamenti misteriosi, abbaiare di cani, tintinni di campane di bestiami lontani; e poi quell'intiera, indefinibile, fremebonda corrente di vita da cui son legati assieme tutti gli esseri, per cui si sente il pensiero umano e nell'insetto e nella fronda e nella roccia immobile e tranquilla. Oh, c'era davvero piú di quanto occorresse! Le nostre mani, ricercatesi di accordo, si erano avviticchiate avidamente e si premevano forte. Procedevamo commossi cogli sguardi slanciati per l'immensa campagna, senza sentir bisogno di dirci una breve parola, fermandoci di quando in quando per scambiarci un bacio interminabile ch'ella era la prima ad interrompere, esclamando sottovoce: - Mio Dio! - Pareva che quella felicità la facesse soffrire. Io intanto avevo stizza di non soffrire a quel modo. Non ero evidentemente neppur felice a quel modo! Sopraffatta da un impeto di passione selvaggia, stordita, concentrata in sé, fremente per tutta la persona con spasimo lieve, ella lasciavasi in pieno abbandono delle mille sensazioni onde era dominata ed oppressa, anzi procurava di raddoppiarne l'effetto: e ciò che io chiamava soffrire ne era proprio il colmo, il loro estremo valore. Quel pieno abbandono, quel dimenticare me stesso a me, invece, non riusciva. Provavo un piacere dimezzato. Vedevo insistentemente la mia immagine sorridere ed agitarsi nel suo piccolo cuore: ma la vedevo preciso come un'immagine riflessa sul nero della camera oscura. Attraverso quell'immagine, che pur sembrava solida e vivente, ne passava sovente un'altra che non potevo discerner bene, la quale la avvolgeva, le si sovrapponeva formando una strana confusione, e infine le spariva dietro come se vi si chiudess e dentro e l'animasse e le desse il moto Appunto per questo ora non ripetevo piú la sciocca domanda della mattina. Le ombre cadevano fitte dal cielo: la terra dormiva. Gli alberi, le macchie, le erbe avevano già preso una figura molto diversa da quella del giorno. A dieci passi di distanza, l'aspetto delle cose assumeva sembianze fantastiche: la mente ne era un po' turbata, e l'occhio vedeva quel che non era, l'orecchio sentiva rumori strani e fuori natura. Un altro momentino, e le fate, gli spiriti, sarebbero venuti a volteggiarci sul capo, a turbarci, a impaurarci colle loro apparizioni improvvise. Provava anch'ella quest'effetto, e mi si stringeva al braccio con forza e girava attorno diffidente la testina e si fermava ad ascoltare. Ci eravamo dilungati troppo benché si fosse andati lentamente. Chi voleva accorgersi delle ore volate via? Andavamo incontro ad un gruppo di alberi che disegnavansi sull'orizzonte con forme immani e grottesche. Si sarebbe detto che dei mostri giganteschi, fermati ad attenderci lí sul passaggio, agitassero le teste orrende e digrignassero i denti. - Torniamo addietro: ho paura! - sussurrommi all'orecchio, appendendomisi al collo come una bimba. Questo bacio fu il piú lungo. Traversammo i campi da un'altra parte e prendemmo per far piú presto una scorciatoia. La fittaiuola, addormentata, ci attendeva a piè della scala. La mandai a letto ringraziandola e seguii la Fasma ch'era già nel salotto. Il sorriso con cui mi accolse fu qualcosa di sublime. Mi sentii come preso da un delirio veemente, e le corsi incontro e la levai di peso tra le braccia. Ella die' un piccolo grido e nascose il volto sulla mia spalla Credetti che qualcosa di eterno per la mia vita si fosse deciso in quel punto! E tutto tremante varcai, la prima volta, con essa in collo, la soglia oscura della sua stanza. La mattina dopo mi domandavo: - Ho sognato? Non trovavo il verso di persuadermi che quanto era accaduto fosse proprio una realtà. Certe volte non c'è cosa che paia piú impossibile del vero. Giú mi attendeva un ragazzo con una lettera da Firenze. Un urgentissimo affare di famiglia mi richiamava colà; potevo esser di ritorno la sera. Guardai l'orologio; mancava ancora tre quarti di ora pel passaggio del treno: giusto quanto occorreva ad arrivare in tempo alla stazione. Rifeci, stizzito, le scale onde avvertire la Fasma. Trovai il suo uscio serrato col paletto di dentro. La chiamai a nome; non rispose. Stetti ad origliare commosso. Mi era parso d'aver sentito singhiozzare. Possibile? E ritenni il fiato Non mi ingannavo. Veniva dalla sua stanza un suono di pianto represso, di grida soffocate, di singhiozzi interrotti. - Ahimè! - pensai, - questi passaggi repentini come debbono farle del male! - E picchiai, ripicchiai, tornai a chiamare piú volte. Nessuna risposta! Quel pianto, quelle grida smorzate a forza, continuavano sempre. Che fare? Il tempo stringeva. - Fasma! Fasma! - le urlai dietro l'uscio; - debbo andare a Firenze; sarò qui col treno di sera. Per carità, stia tranquilla! Mi risponda. Stia tranquilla. A rivederci! - Non avevo piú il coraggio di darle del "tu"! Nessuna risposta! - A rivederci! - replicai E rimanevo dietro l'uscio. Però dopo alcuni minuti mi parve sentire, o sentii davvero, una parola di addio. Corsero alcuni istanti di angoscioso silenzio. Il pianto a poco a poco cessò, cigolò finalmente il paletto e la Fasma apparve accanto all'uscio. Sorrideva, ma in viso le si vedevano chiare le tracce del suo dolore. - Che è stato? - le chiesi tremante. - Nulla! - diss'ella - È passato. Addio. - Tornerò presto; non posso far a meno di andare. - Addio! - ripetette con una monotonia di accento che mi trafisse l'anima. Evidentemente ella pativa a star lí. Mi decisi a partire. - Per carità, stia tranquilla! - replicai stringendole affettuosamente la mano. - Addio! - diss'ella per la terza volta e collo stessissimo tono. Affrettai di una corsa il mio ritorno. Eran le sette di sera. - La signora dov'è? - chiesi alla fittaiuola. - È già attorno da un pezzo - rispose quella donna con aria inquieta. Entrai nella mia stanza e non so perché gli occhi mi corsero subito al tavolo; c'era un foglio spiegato. Sentii stringermi il cuore da un tristo presagio! Non osavo accostarmi. Che poteva aver scritto? Finalmente presi convulso quel foglio e corsi subito alla finestra. Era una sua letterina. "Caro signore" diceva "non pensi male di me! Mi compatisca invece, mi compianga. Prima di buttarmi la pietra del suo disprezzo, ella dovrebbe conoscere tutta la storia del mio cuore e della mia vita, un'infelicissima storia. Non gliela posso dire; è troppo lunga; e poi, a qual pro? Non pensi male di me! Mi dimentichi: è meglio! Non osa domandarle altro la sua gratissima Fasma" Pensar male di te! Dimenticarti, divina creatura! Oh, potessi rivederla! Villa Santa Margherita, agosto 1874@ 1874

Racconti 3

662760
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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SCURPIDDU

662779
Capuana, Luigi 2 occorrenze

Tutte le mattine andava via coi tacchini e con Paola ; ma arrivato nel luogo del pascolo, si sdraiava per terra quasi sentisse una stanchezza interiore, un senso di abbandono. Non pensava a niente di preciso. Strappava a filo a filo le erbucce a portata di mano, ne osservava le foglioline, i fiorellini, gli steli, ma senza curiosità, così, per fare qualche cosa, per distrarsi, pareva. Non prestava attenzione a nulla; buttava via un filo d'erba, ne strappava un altro, poi un altro: certe volte stritolava le foglie delle erbe con due dita, ne faceva pallottoline, le lanciava per aria, e rimaneva assorto. Paola veniva a posàrglisi addosso, lo stuzzicava col becco, volava via, tornava, si allontanava con lunghe volate. Egli la lasciava fare, indifferente la seguiva con lo sguardo, e all'ultimo la richiamava per lisciarle le piume, con carezze lente, quasi svogliate. E durante quella specie di dormiveglia che lo teneva sdraiato là su l'erba, a intervalli, gli riappariva davanti agli occhi la triste scena di quel cataletto con su la cassa della morta, portato via da quegli uomini, e dietro, a cavallo di due mule, il prete e il sagrestano ... La sua povera mamma, che se n'andava, come se n'era andata una volta, ma questa volta per sempre! ... Gli pareva di sognare. E gli pareva anche, di giorno in giorno, che quella visione si allontanasse e stesse per dileguarsi. E si sentiva di nuovo solo solo, rassegnato alla sua sorte, proprio come due anni addietro, quando da Palagonía aveva preso la strada delle colline senza sapere dove andasse e perchè andasse, e massaio Turi lo aveva incontrato sul ciglione dell'Arcura e gli aveva detto: - Vuoi allogarti per nuzzaru ? Infatti, una mattina, lo zi' Girolamo che menava i buoi al beveratorio, udendo il Tiù! Tiù! di uno zùfolo lassù tra i mandorli di Rossignolo, sorrise scotendo la testa: - Scurpiddu riprende a sonare. Così è la vita! I morti se ne vanno, e chi resta deve pensare ai fatti suoi. E i fatti suoi per Scurpiddu erano gli otto pulcini che venivano su vispi e grassi e si erano già rivestiti di piume. A governarli per ora pensava la massaia, con farina di ceci abbrustoliti intrisa con l'acqua, e foglie di lattuga e prezzemolo tagliuzzate finemente. - Come sono cresciuti! Quasi si confondono con quelli dell'altra covata. - Non dubitare, - rispose la massaia ridendo. - Metteremo loro il segno per distinguerli. E soggiunse: - Sei fortunato! Guarda: due dei miei hanno il torcicollo, e sarà difficile che càmpino. I due pulcini, quasi avessero il capogiro, roteavano su sè stessi, col collo contorto e la testa per aria. - Paiono ubbriachi! - disse Scurpiddu . I suoi, che tra le piume avevano ancora un po' di lanugine, diluviavano come tanti affamati. Erano tre maschi e cinque femmine. Li osservava amorosamente mentre mangiavano attorno al piatto insieme con gli altri. E se uno di essi faceva il prepotente per allontanare dal posto qualcuno dell'altra covata, dando colpi di becco a destra e a sinistra, Scurpiddu rideva: - Vorrebbe ingoiarsi tutto lui! Per distinguere le covate e far contento Scurpiddu , la massaia aveva cucito a uno stinco di tutti i pulcini di lui un pezzetto di stoffa a colore. Ora soltanto egli li reputava proprio cosa sua: e gli sapeva mill'anni di vederli cresciuti da poterli condurre in branco con gli altri a pascolare pel prato, su le alture, e addestrarli a marciare. E ruminava lunghi càlcoli. Le femmine avrebbero poi fatto le uova: egli avrebbe messo una, due covate ... Ed eccolo con un branco di tacchini di sua proprietà! - Solamente ... E si arrestava confuso pensando che non aveva terreni dove condurli a pascolare, nè pollaio dove accovacciarli. - Vah! Ne venderò un paio e dirò a massaio Turi: - Pago l'affitto del pascolo e del pollaio ... dieci lire, quindici, quanto volete! Si sentiva le tasche ripiene di soldi e spendeva e spandeva come un riccone. - Dieci ... Quindici lire! Quanto volete? In quel momento però tutta la sua ricchezza erano i dieci soldi regalàtigli dagli amici . Involtàtili in un pezzetto di carta, li aveva nascosti in un buco della parete del suo stambugio, e se n'era scordato. Facendo e rifacendo quei suoi càlcoli, gli erano tornati in mente, e mèssili nella tasca, li portava con sè, sempre avvolti con la carta. In quella tasca, oltre allo zùfolo e al coltellino col manico di ferro, Scurpiddu teneva risposti una scatoletta di latta da fiammiferi, trovata mesi addietro per terra vicino al beveratoio; refe, spago, ritagli di stoffe, e una ventina di conchiglie scavate in un sedimento di terreno argilloso dell'Arcura, di forme diverse e di varia grandezza. Nei momenti in cui non sapeva che fare, si era messo a cavarle fuori col coltellino e a ripulirle. Parecchie di esse, simili a un cornino, le aveva regalate al Soldato perchè se ne servisse da bocchini pel sigaro; parevano fatte a posta per questo. Quelle a foggia di lumaca, con bizzarri disegni, con giri dentellati, con sporgenze acute come spine, e l'interno iridato, quasi di madreperla, le conservava, senza scopo, unicamente perchè erano cosettine bizzarre. Aveva trovato una volta, a fior di terra, anche due monete antiche, due soldi vecchi, egli diceva. Ma avendole mostrate a Don Pietro , questi gli disse: - Che te ne fai? Dàmmele. E Scurpiddu gliele diede. Il Soldato e gli altri contadini, mentre Don Pietro celebrava la messa, si erano divertiti a far credere a Scurpiddu che quelle monete valevano per lo meno dieci lire l'una, e che il prete sarebbe andato a venderle in Catania, dove quelle cose del tempo dei Saraceni erano apprezzate e ricercate; e dicendo del tempo dei Saraceni intendevano parlare d'una grande antichità. Scurpiddu alzava le spalle, voleva mostrare di non credere a quel che gli soffiavano nell'orecchio; intanto si pentiva del regalo fatto, e si maravigliava che un prete che celebrava la messa fosse ladro! Lui che sapeva di poter vendere dieci lire l'una quelle monete, non avrebbe dovuto dirgli: - Che te ne fai? Dàmmele. - E quando il prete dall'altare si voltava per ripetere, aprendo le braccia: - Dominus vobiscum - Scurpiddu brontolò dentro di sè: - Dovreste ridarmi le monete piuttosto! Dopo la messa, si era aggirato attorno al prete, per trovar l'occasione di dirglielo, aspettando anzi che Don Pietro lo avesse capito anche senza che lui gliel'accennasse. Ma Don Pietro sorbiva lentamente il caffè rimasto nella tazza in cui aveva intinto i biscotti preparàtagli dalla massaia, e di tutto parlava fuorchè delle monete. - Dobbiamo pensare alla cresima di questo ragazzo, massaia. - Ora che viene il nuovo vescovo, sissignore. - E poi alla confessione e alla prima comunione. - Ha tanti peccatacci addosso! È vero, Scurpiddu ? - Io? Che peccati, massaia? Esclamò Scurpiddu stupito. - Vieni qua, - disse Don Pietro. - Lo sai tu cosa sono i peccati? - Primo: dire bugie - continuava Don Pietro - Secondo: rubare, prendere di nascosto roba non sua ... , capisci? Bisogna renderla, se no, c'è l'inferno che ci inghiotte. - E dunque ... - disse Scurpiddu , esitando. - Dice il Soldato che valgono dieci lire l'una. Sono mie le ho trovate io! Don Pietro e la massaia scoppiarono a ridere. - Anche più di dieci lire l'una! - soggiunse Don Pietro, scherzando. - Ma io non te le ho prese le monete; me le hai regalate. - Io? - protestò Scurpiddu . - Sono mie; le ho trovate io! E l'intonazione voleva significare: - Rendètemele! All'ultimo, vedendolo quasi con le lagrime agli occhi, Don Pietro aveva dovuto rendèrgliele; e per ciò si trovavano insieme con gli altri oggetti e coi dieci soldi in fondo della tasca. Quando se la metteva a tracolla, col pane e il companàtico della colazione, prima di condur via i tacchini, spesso il Soldato tentava di frugargliela. - Vediamo il tesoro, Scurpiddu ! E siccome il ragazzo si scansava, stizzito, il Soldato gli ripeteva, sapendo di farlo arrabbiare: - Ora che è proprietario, Scurpiddu non dà confidenza a nessuno! ... Ehi! ... Proprietario!

Ma non rinveniva dallo stupore, e sembrava avesse su la faccia un'espressione di rancore pel lungo abbandono; per ciò la poveretta credè opportuno di giustificarsi: - Ho pensato sempre a te! Ho fatto scrivere al sindaco: non mi ha mai risposto. Stavo lontano lontano, sotto le montagne delle Madonìe. Di là non veniva nessuno in queste parti. Sono poi stata sei mesi all'ospedale. Credevo di morire senza vederti! ... Ora la Bella Madre Santissima mi ha fatto la grazia! Questo è miracolo di Gesù Cristo! Trovarti qui! ... - Mio padre è morto ... - balbettò Scurpiddu . - Lo so, lo so! Ed è stata la mia mala sorte. Ti racconterò poi. Come sei cresciuto! Ti trovi bene qui? Come sei cresciuto! Neppur io ti riconoscevo ... Altrettanto Paradiso ai tuoi benefattori, quant'è la carità che ti hanno fatto! - Andate alla masseria, - intervenne lo zi' Girolamo. - Avete bisogno di qualche ristoro. - No, no, niente! Quando dovrà tornare coi tacchini ... Prima il servizio; starò qui con lui. - Sei contento ora Scurpiddu ? Lo chiamiamo così, - riprese lo zi' Girolamo. E Scurpiddu non seppe rispondere altrimenti che mettendo in grembo alla mamma la tàccola che era venuta a posarglisi su la spalla. Sorrideva, quasi non credesse ancora ai suoi occhi che intanto gli straluccicavano più del solito. - Ora non ve n'andrete più, mamma! - No, figliuolo mio! Non me n'andrò più. Lo disse però con voce così piena di tristezza, che lo zi' Girolamo, capito quel che la poveretta voleva dire, la consolò esclamando: - Gesù Cristo vi darà la salute! Quella sera, all'arrivo, davanti al pollaio dove la massaia lo attendeva, secondo il solito, per fare la rassegna dei tacchini, Scurpiddu parve impazzito dalla gioia. - La mia mamma! La mia mamma! - gridava. E faceva salti e capriole.

DISPERATAMENTE GIULIA

662788
Casati, Sveva 1 occorrenze

La casa fredda le dava un senso di abbandono e vestiva d'angoscia la sua solitudine. Era la prima volta che affrontava da sola questo dramma domestico. Una volta c'era Leo, suo marito. L'inverno scorso c'era Giorgio, suo figlio, che con la vitalità dei suoi quattordici anni portava anche nelle situazioni più deprimenti un'ondata di speranza, ma cinque giorni prima il ragazzo era partito per il Galles. Giulia era proprio sola nella grande casa. Dalla strada, oltre il giardino, salì il gemito dell'avviamento di un'auto. Si sentivano passare le macchine sull'asfalto battuto dalla pioggia. Quel grigio albeggiare versava tristezza nella spaziosa cucina. Giulia si strinse addosso la vestaglia di un pallido azzurro, ma non ne trasse alcun calore. Si passò le dita sottili nella folta zazzera scura ricacciando indietro una ciocca ribelle che le scendeva sulla fronte. Decise di farsi un caffè. Poi, magari, avrebbe riletto l'ultimo capitolo del romanzo, del quale non era completamente soddisfatta. C'era qualcosa che non la convinceva. Dal forno veniva un tepore confortevole. Lavorare alla macchina da scrivere era sempre stata la sua medicina, un modo per non accorgersi del tempo che passa, il segreto per restare giovane e vitale. In questo modo, l'ora per chiamare il « caldaiaio » sarebbe venuta prima. Lontano, un imbecille mattiniero fece esplodere alcuni botti di Capodanno. Pensò, senza rallegrarsene, che la stupidità è inevitabile come la pioggia e il sole. Il caffè tostato all'americana, di un bei marrone dorato, spandeva intomo un aroma delicato. Lo versò in una lucente tazza di porcellana a fiori e cominciò a sorseggiarlo, bollente e amaro compera, guardando, fuori dall'ampia vetrata protetta da inferriate verdi, il giardino sfiorito dove i cespugli di rododendri, di azalee e di rose intristivano nell'aria già vecchia del giorno appena nato. L'ultimo giorno dell'anno o l'ultimo giorno del mondo? Giulia si sentiva percossa, sfilacciata e triste come il suo piccolo giardino. Scorse in quella desolazione i rametti scheletriti di un'ortensia che, smentendo la meteorologia e la stagione, stavano mettendo gemme. Quanto ottimismo, pensò con invidia. Lei non avrebbe messo gemme. Mai più. Viveva sensazioni indefinibili, isolata dal mondo e dai suoi stessi pensieri, posseduta da un'emozione intima e incomunicabile. Pensò che se ci fosse stato Giorgio si sarebbe sentita meglio, ma anche lui l'aveva piantata in asso, come la caldaia, sia pure con un preavviso di qualche settimana. « Sai, mammina (la chiamava sempre così quando voleva ottenere qualcosa), mi piacerebbe passare le vacanze di Natale dai Mattu », aveva cominciato a corteggiarla in novembre. I Mattu erano una giovane coppia di indiani con tré figli piccoli, vivevano a Swansea nel Galles e avevano ospitato il ragazzo l'estate precedente per un soggiorno di studio. Lui si era trovato benissimo. « Tesoro », aveva replicato Giulia con affettuosa ironia, « hai mai pensato che una vacanza in montagna, magari con tua madre, potrebbe essere più divertente e meno costosa? » Un mese o un secolo prima? Era comunque un tempo remotissimo in cui c'era ancora spazio per i progetti e la prospettiva di una vacanza sulla neve in compagnia del figlio le accendeva la fantasia e la faceva sentire giovane. Stava scrivendo il nuovo romanzo e viveva il dramma solitario ma eccitante dell'autore che non sa mai se riuscirà a portare a termine la storia che ha in mente. Il calore che usciva dal forno appannava le vetrate della cucina. Pensò con tenerezza a Giorgio che una volta aveva sorpreso a disegnare ingenue oscenità sul vapore rappreso e provò una gran voglia di sentire la voce del figlio. Abbandonò il tepore della cucina e affrontò il rigore del soggiorno per telefonargli. I tappeti color avorio che ricoprivano le mattonelle liberty erano morbidi ma freddi come la tappezzeria che simulava un muro tirato a stucco. Guardò il camino di marmo sovrastato da due candelieri e da una specchiera rettangolare chiusa nella cornice di noce scuro. Pensò che avrebbe potuto accenderlo. Sedette su uno dei due divanetti ricoperti di tela a grandi rose scarlatte su fondo verde e avorio, inforcò gli occhiali e cercò il numero degli amici di Swansea nella rubrica di pelle turchese, appoggiata, sul tavolino di cristallo, vicino a una grande e moderna abat-jour. Erano quasi le otto e Giulia sapeva che a quell'ora i Mattu erano in piedi. Le rispose la voce dolce di Salinda il cui volto, molto grazioso, Giulia aveva visto soltanto in fotografia. « Giorgio is sleeping », disse. « Ha fatto tardi ieri sera? » indagò Giulia sospettosa. « Soltanto mezzanotte », la tranquillizzò Salinda. « C'è stata una piccola festa tra ragazzi. » Giulia si sentì esclusa. Non ebbe neppure il coraggio di gridare che tirasse giù dal letto quel piccolo, sporco egoista, perdio! Prima d'allora non le era mai venuta in mente un'imprecazione di quel genere, per lei quasi una bestemmia, ma adesso, per la prima volta, sentiva irresistibile il desiderio di coinvolgere l'Onnipotente nelle sue questioni private, di coinvolgerlo con rabbia, rimproverandogli la sua latitanza o il suo accanimento. « Vuoi che lo svegli? » chiese Salinda, sempre dolce e comprensiva. « No », disse Giulia rassegnata. « Volevo sapere se è tutto a posto », mentì. In realtà voleva dirgli che stava al gelo, da sola, in quella vecchia casa senza qualcuno che le desse conforto, e che il gatto era finito sotto una macchina alcuni giorni prima pagando con la vita il suo primo anelito di libertà. Avrebbe voluto parlargli anche del dolore che si era annidato dentro di lei, ma nessuno dei due era pronto per quella confessione. E non poteva certamente dirgli che proprio oggi, ultimo giorno dell'anno, doveva andare a Modena, al cimitero, per assistere all'esumazione del nonno. « Davvero, Salinda, va bene così. » « Se vuoi ti faccio chiamare appena si sveglia », propose la giovane indiana che, sempre nella foto scattata da Giorgio l'estate prima, aveva l'aria di una casalinga appagata. « Vi chiamo io a mezzanotte per augurarvi buon anno », tagliò corto. « Abbracciami Giorgio. E ancora grazie. » Riattaccò rifugiandosi nel tepore della cucina. Il freddo le era penetrato fin dentro le ossa. Pensò al nonno, a quello che restava di lui e sorrise al ricordo di quel principe dell'avventura. Il comune di Modena aveva mandato a lei, a sua sorella Isabella e a suo fratello Benny, che mascherava sotto un ridicolo diminutivo il nome scomodo di Benito, una comunicazione firmata da! sindaco: le reliquie di Ubaldo Milkovich sarebbero state collocate in un ossario perenne per onorare la memoria del partigiano Gufo, figura di spicco dell'antifascismo, eroe della Resistenza. Giulia si era ripromessa di partire verso le undici per essere sicura di non mancare all'appuntamento fissato per le due del pomeriggio, ma adesso, con il problema della caldaia, sarebbe riuscita a rispettare il programma? L'orologio elettrico sul frigorifero segnava le otto. Tentò di mettersi in contatto con il tecnico della manutenzione. Si immerse nuovamente nel gelo del soggiorno, alzò la cornetta e si accorse che qualcosa non funzionava nel ricevitore. Invece del segnale consueto sentiva un suono gracchiante, fastidiosissimo. Premette ripetutamente il meccanismo del contatto, provò a formare un numero sulla tastiera e al suono gracchiante si sovrappose il segnale di occupato. Depose il ricevitore e guardò la graziosa sveglia poggiata sul piano di cristallo sostenuto da un basamento a tamburo di legno istoriato e dorato: erano le otto e cinque. Che la dolce Salinda avesse riagganciato male il suo apparecchio, lassù nel Galles? Alzò di nuovo il ricevitore e questa volta l'apparecchio non diede alcun suono. Adesso era chiaro che anche il telefono era andato in tilt, mentre lei aveva un disperato bisogno di comunicare con il mondo. Se alle otto e mezzo in punto non si fosse messa in contatto con i tecnici rischiava di perdere la possibilità di farli venire in giornata. Salì velocemente la scala e tornò in camera da letto, un ambiente molto intimo che amava particolarmente, sui toni pastello del rosa, celeste e grigio perla. Lampade di porcellana chiara, dai paralumi rosati, poggiate sui piccoli cassettoni gemelli, ai lati del letto, diffondevano una luce garbata che accarezzava due poltroncine in stile settecento veneziano. Alle pareti, un crocefisso ligneo e una serie di immaginette sacre ottocentesche in cornici dorate. Giulia evitò di guardare il Cristo dal quale si sentiva ingiustamente abbandonata. Si vestì velocemente. Nell'ingresso infilò un vecchio cappotto di montone e uscì. Attraversò la via Tiepolo facendo lo slalom tra pozzanghere e auto, incurante della pioggia che continuava a cadere. Entrò in un bar tabacchi con l'insegna del telefono pubblico. Un marocchino armato di zelo e di uno straccio sudicio affrontava coraggiosamente un pavimento maltrattato da centinaia di scarpe, ma sembrava destinato a una clamorosa sconfitta. Giulia si avvicinò alla cassa dietro la quale troneggiava una giovane donna che aveva tutta l'aria di essere lì per sbaglio, mentre avrebbe dovuto trovarsi su un aereo per le Maldive. Era di cattivo umore e si vedeva. « Dica », l'aggredì la tabaccala guardando la cliente infreddolita come se fosse una chiazza d'unto sul suo vestito migliore. Un gettone », disse Giulia impaziente allungando duecento lire. « Fuori servizio », sentenziò la tabaccala alludendo al telefono pubblico. « Ma io devo assolutamente telefonare », insistè Giulia sull'orlo della disperazione. « Fuori servizio », ripetè fredda e spieiata come un cobra; quindi si rivolse a un paio di clienti che erano entrati e chiedevano un cappuccino. « Non potrebbe farmi usare il suo? » domandò supplichevole. « Quello lì », soggiunse indicando l'apparecchio accanto alla cassa. « Privato », la gelò senza guardarla, continuando a scambiare sigarette e caffè con danaro contante. « Tabaccala di schifo », scattò Giulia, « città di schifo, gente di schifo, mondo di schifo », gridò coinvolgendo irrazionalmente l'universo intero. Riattraversò il locale sotto gli occhi sbigottiti dei clienti, il silenzioso stupore della tabaccala, l'ingenuo sorriso solidale del marocchino. SÌ diresse quasi di corsa verso il bar latteria di piazza Novelli dove Giorgio e i suoi amici dissipavano la paghetta settimanale in merendine, Coca-Cola e juke-box. Il telefono c'era e funzionava. Giulia compose il numero del tecnico che conosceva a memoria. « Sono Giulia de Blasco », fece appena in tempo a dire all'addetto che aveva risposto all'altro capo del filo. Poi scoppiò in lacrime. Seminascosta fra cassette di birra, Coca-Cola e uno scaffale pieno di pasta e biscotti, nell'odore dolciastro di segatura bagnata, stringendo la cornetta lercia di un telefono pubblico, Giulia pianse senza ritegno. Pianse sulla sua vita sbagliata, sul suo matrimonio fallito, pianse perché anche suo figlio l'aveva lasciata sola, perché quel giorno doveva assistere all'esumazione delle reliquie del nonno Ubaldo. Pianse perché aveva la casa gelida, perché il telefono non funzionava, pianse perché a quarant'anni s'era innamorata come una ragazzina, ma soprattutto pianse perché lei stessa era andata in tilt. Qualcosa nella mirabile costellazione del suo organismo si era inceppato. Le cellule di un nodulo al seno prelevato un mese prima non erano del tipo regolamentare. Erano di quelle che continuano a ripetersi senza fermarsi mai. Come un interruttore che si accende e non si spegne più. Quel giorno accidioso di dicembre Giulia piangeva per molte cose, ma soprattutto perché aveva un cancro.

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Era quella stessa figura elegante, bionda e delicata, che ora dormiva nel molle abbandono della stanchezza, che una donnaccia aveva osato toccare, che una masnada di pezzenti voleva trascinare nel fango, che lui però avrebbe difeso, ringhiando e mordendo, se ciò era necessario. Se il nostro affarista fosse stato un filosofo, capace di frugare in mezzo ai ferravecchi della sua vecchia e ingombra coscienza, forse avrebbe trovato che in questo accanito furore di difesa era in giuoco anche un interesse nuovo e curioso, poco chiaro allo stesso interessato, ma che dava alle sue ragioni una forza nuova e premurosa. Salvare Arabella voleva anche dire salvare quanto di meno disprezzabile era rimasto in lui e insieme quanto di veramente prezioso sentiva ancora di possedere nell'affezione e nell'opinione di questa sua figliuola. Il castigo non poteva essere che questo: il resto... che cosa gl'importava del resto? Ecco perché sospirava l'ora e il momento di vederla fuori dal letto, completamente ristabilita, non solo per sottrarla alle congiure, alle pressioni, alle vessazioni di gente cattiva, ma per collocarla in qualche luogo lontano e sicuro, dove non potessero arrivare le voci dei volgari interessi, dove soffrisse meno con lei qualcheduno o qualche cosa che viveva di lei. Più che vederla e intenderla questa necessità, egli la sentiva con un sollevamento d'animo tutte le volte che poneva il piede nella stanza della malata, tutte le notti che si avvicinava sommessamente al suo letto e che procurava di consolarla, di rassicurarla, di fornirle delle spiegazioni. Curvo, rannuvolato in una oscura commozione, in cui alla pietà mescolavasi un senso irritato d'odio e di vergogna, sollevava di tempo in tempo lo sguardo sulla persona dell'addormentata, che nella placida e lenta quiete pareva morta. Era uno sguardo perplesso, che non osava più, come una volta, penetrare e guardar fisso in faccia alle cose, qualunque fossero, sicuro di sostenerle; ma ritraevasi dal letto colla mortificata e lenta tristezza, con cui l'occhio dell'analfabeta si toglie da uno scritto, che suscita in tutti gli altri una viva e potente commozione e non dice nulla a chi non sa leggere. Forse era già troppo tardi per mettersi da capo a imparare a leggere quel che vi può essere di bello e di santo nel cuore d'una buona creatura. Forse non gli avevano mai insegnato a decifrare questo alfabeto: e se nella prima giovinezza aveva sentito a parlarne, troppo tempo, troppe cose eran cadute in mezzo. Peggio per lui! ma peggio ancora se Arabella avesse letto nel suo, di cuore! Ogni suo sforzo, ogni sua ambizione doveva mirare a una cosa sola: impedire che Arabella diventasse il ludibrio di Milano. Qualche avvertimento in questo senso gliel'aveva dato anche il notaio Baltresca, che considerava la questione coll'occhio pratico del mestiere. Un processo è sempre uno scandalo; si sa dove si comincia, non dove si finisce. Preti, monache e avvocati vi potevano pescar dentro il loro interesse. E anche supposto che l'ortolana venisse condannata a qualche mese di prigione, chi poteva impedire, per esempio, che Arabella fosse chiamata in Tribunale a deporre in qualità di testimonio, in mezzo a quella marmaglia, tra uscieri, sbirri, scribi e farisei, per sentirsi ripetere sul viso infamie di ogni colore?... Se ciò fosse accaduto - e la sola idea gli mozzava il respiro - da qual parte sarebbe stato il reo? e da qual parte il giudice più terribile? Chi avrebbe impedito all'avvocato Baruffa di rifare a modo suo la storia? E Arabella avrebbe dovuto assistere a una bega di questa sorta, bersaglio a Dio sa quali infamità? no, no. Questi pensieri, solamente col passare, gli facevano corrugare la fronte e gli tiravano il capo all'ingiù. Temeva quasi che avessero a turbare e a funestare il riposo dell'addormentata. La bega era grossa e bisognava uscirne al più presto, nel miglior modo possibile. Di cosa in cosa si ricordò d'aver ricevuta una lettera nella quale il Botola gli parlava di avvocati, di processo, di Lorenzo. Col Botola i Maccagno erano legati da un'amicizia che risaliva fino al quarantotto, fino ai tempi che il padre di Tognino, detto il Valsassina, cominciava a guadagnare i primi quattrini in una botteguccia di liquori fuori di porta. Venute le grosse brighe della rivoluzione, mentre gli "italianoni" facevano alle barricate, Botola e Valsassina introducevano in città molte brente di spirito di contrabbando, mettendo in questo modo la base alla fortuna. Nell'agosto tornarono i castigamatti, ma la gente aveva tutt'altro per la testa che di verificare le bollette di dazio. Poi eran passate molte altre cose. Chi andò sulla forca, chi emigrò, chi tornò a portare il baldacchino. Annegò chi non seppe nuotare. E per poco non annegò anche il Botola, troppo corto d'ingegno e d'istruzione, per saper resistere ai tempi nuovi, bianchi, rossi e verdi. Fallito un paio di volte, il vecchio disgraziato vivacchiava meschinamente, facendo il pignoratario su piccoli prestiti. Che cosa gli scriveva il vecchio amico? Cercando nelle tasche, trovò in mezzo a una manata di cartacce un cencio con su disegnati certi scarabocchi grossi e sgangherati, che volevan dire parole, quantunque somigliassero più ai pali di una vigna battuta dalla tempesta, che non ai segni inventati da Cadmo. Il pignoratario riferiva d'aver saputo che i parenti Ratta, Maccagno, Borrola, con altri diseredati, intendevano infirmare il testamento e intentare una causa, perché fosse tenuto valido il testamento anteriore del '78. "Faccian pure la causa!" rispondeva mentalmente colla solita asprezza il signor Tognino, come se qualcuno fosse lì a sentirlo. "In quanto ai signori Borrola, che vantano delle pretensioni, son curioso di sapere su che cosa appoggiano le loro speranze. È tutta rabbia, è tutto veleno, perché ho scoperto il loro giochetto e ho strappato Lorenzo ai loro intrighi. Faccian pure, ma non si lascin trovare da me in un momento cattivo." Arabella mormorò qualche parolina dolente e mosse leggermente la mano sul libro aperto abbandonato sul letto. Il vecchio si scosse da' suoi pensieri, come se quelle voci rispondessero in qualche modo a ragionamenti che egli faceva dentro di sé e sentì che, se gli bastava il cuore di sfidare mezzo mondo, pure di fronte a sua nuora avrebbe avuto tutte le paure. E come se istintivamente si mettesse sulle difese, socchiuse un poco una imposta e si tirò meglio nell'angolo oscuro. La stanza s'immerse ancor di più nella penombra, il fascio di luce che entrava dalla finestra socchiusa andava a stento fino a rischiarare il guanciale e una parte del letto, dove Arabella, di sogno in sogno, di imagine in imagine, percorreva la storia della sua vita. Nei sogni le impressioni tornano spesso sfigurate, sconnesse, più grandi o più piccole della verità; ma non perdono mai il significato che le fa nascere. Avviene non di rado che nell'ingrandimento grottesco ed esagerato o nella riduzione che sopportano, si manifesti a chi sogna, analizzato o riassunto, il significato che inutilmente aveva cercato ad occhi aperti. Il senso è più libero a percepire ciò che la ragione o non osa o non sa, o non vuole intendere: e dai sogni qualche volta s'intende la vita come dal commento il poema. Arabella, ritornando sulle sue memorie, ritornava a soffrire e a godere più vivamente d'impressioni non bene afferrate la prima volta, come se in sogno germogliassero i piccoli semi caduti nei luoghi più oscuri dello spirito. Di cosa in cosa le parve di tornare ai primi giorni del suo matrimonio e precisamente al suo primo entrare nella casa nuova. Suo suocero aveva fatto degli inviti. La casa era come quella sera piena di gente nuova e sconosciuta che la salutavano, si congratulavano, la soffocavano di parole e di baci non chiesti e non desiderati. Una specie di nausea dallo stomaco saliva al capo, effetto forse d'un forte vin "brulé", che alcuni servitori in guanti bianchi portavano intorno sui vassoi. Parevale che tutta quella gente fosse lì per saziarsi in qualche maniera di lei, coi baci, cogli occhi, coi commenti, come fanno i bimbi, che trovato un pezzo di zucchero in un cantuccio, se lo succiano un po' per uno. La zia Sidonia, in un vestito di raso rosso color brace, scollata in una foggia indecente, se la stringeva sul seno morbido e caldo, chiamandola il suo bell'angiolino, mentre lo zio Mauro, seduto al pianoforte, tempestava sopra una canzonetta veneziana di sua invenzione, che faceva ridere tutte le bocche. Sì, ridevano tutte quelle faccie sconosciute di parenti, di mezzi parenti, di agenti di cambio, di amici di suo marito, di cui sentiva ripetere i nomi senza afferrarli in mezzo al frastuono. Solamente papà Paolino colla schiena appoggiata allo stipite dell'uscio guardava in su per non farsi vedere a piangere. C'era la mamma, la più bella donna in mezzo a molte signore brutte, magre, dal tipo volgare, che ripetevano il colore terreo e le mandibole pronunciate della famiglia, che seguitavano a guardarla come se dicessero in cuor loro: "Povera diavola, dove sei capitata!" E stava in mezzo alla folla coll'animo addolorato, quando vide entrare con un passo lesto senza suono, in abito nero anche lui, rigido e smorto come tutti i morti che camminano, il suo povero papà. Come fosse vivo, come venisse alla festa, che cosa le dicesse sottovoce non riusciva a capire. La rimproverava d'essere venuta meno al suo voto? era malcontento anche lui di vederla in questa casa? L'immagine dell'infelice rimasta impressa negli anni in cui la memoria è più viva, mantenuta viva e presente per tutti gli anni successivi da un generoso desiderio di riparazione morale, era troppo famigliare ai pensieri della figliuola perché essa si sgomentasse di rivederla in mezzo a gente viva; anzi se lo strinse sul cuore, forte, teneramente, e cominciò a parlargli con calore per dimostrargli che tutto era proceduto secondo la volontà di Dio, che l'aveva fatto per amore e per compassione della sua mamma; e nell'abbracciarlo sentiva una così profonda compassione, che cominciò a singhiozzare davvero... Il vecchio Maccagno, a sentire la malata singhiozzare, uscì dal buio e dalla tempesta de' suoi pensieri, si accostò al letto. Arabella, agitata da un piccolo fremito, corrugava la fronte collo sforzo di chi mira a liberarsi da una dolorosa oppressione. Egli allora, quasi per liberarla dall'incubo, le prese dolcemente la mano e se la tirò a sé, dolcemente, chinandosi sopra di lei per dimandarle che cosa si sentisse: e in quella Arabella aprì gli occhi pieni di lagrime, li fissò, come chi stenta a orientarsi, in faccia al suo premuroso infermiere. Lo sforzo che essa fece di sorridere al di sotto del velo di lagrime che le copriva gli occhi e l'abbandono inerte della sua persona non abbastanza ridesta suscitarono nel vecchio uomo una violenza di affetti, di tenerezza, di sgomento e di selvaggi rancori, una tremenda paura di sé, una così oscura oppressione, che per un istante non vide innanzi a sé che un gran bianco, un gran bianco... "Perché piange?" "Non so, un brutto sogno." "Non si sente mica più male?" "Non mi pare." "Devo aprire le imposte?" "Sì: ho dormito un pezzo?" "Forse un'ora." "Lorenzo, dov'è?" "È stato qui: ha visto che dormiva..." "Povero papà!" uscì a dire Arabella, non ancora ben uscita dalla sua dolorosa visione, continuando, per un meccanismo nervoso, il discorso accalorato, che stava facendo in sogno al suo papà morto. Il suocero attribuì a sé la tenera espressione di un nome così affettuoso, che egli non aveva mai osato chiedere per sé e che sua nuora non era mai stata animata a concedere. Colto in un momento di debolezza, s'intenerì ancor di più, e mettendosi con moti frequenti a carezzare i capelli della malata, si abbandonò anche lui, per la prima volta, a darle del tu: "Guarisci, guarisci presto, e andremo in campagna. Vedrai che bel sito! Non sei mai stata in Tremezzina? In primavera è il paese delle rose. Rose dappertutto... Anch'io ho bisogno d'andar fuori dei piedi della gente, sono un poco stanco e malato anch'io e non vedo l'ora di collocarmi in campagna a coltivare le rape e le verze..." E cercò di ridere per combattere la molle malinconia che l'assaliva da tutte le parti. Questa malinconia montava come un'acqua che scaturisce improvvisamente da una vena sconosciuta al rompersi di una roccia. Da dove derivano queste acque fredde e limpide che il passeggero incontra sulla sua strada polverosa in mezzo a un paese brullo, riarso dal sole? La natura ha i suoi misteriosi serbatoi che mandano rigagnoli ai più lontani strati e non di rado spiccia l'acqua pura anche al disotto del fango. Sentendo che insieme all'onda refrigerante saliva qualche cosa di amaro, messo in paura o in sospetto d'una mestizia che lo conduceva a cantare delle arie di gioventù col falsetto del vecchio, spaventato all'idea che egli potesse dire una sciocchezza od una meschinità, accomodò con una certa furia distratta le pieghe del letto e soggiunse, mutando tono: "Ho trovato un vin vecchio sincero che le farà bene: lei ne deve bere un bicchierino. Il dottore raccomanda il vin vecchio. Lo assaggi. Questo è sangue." Versò il vino nel calice e si accostò di nuovo, tenendo il bicchiere colle due mani, per resistere a un tremito convulso che faceva vibrare tutto il corpo. Arabella si sollevò un poco, colla sinistra mandò indietro i capelli folti che scendevano scomposti, e coll'altra mano aggradì il calice, in cui brillava un vino secco color dell'ambra. "Beva, questo è sangue..." ripeté il suocero con un tono monotono d'uomo distratto, socchiudendo gli occhi.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Corse, quasi volò incontro a quel signore pallido vestito di nero, gli gettò le braccia al collo con affettuoso abbandono, si attaccò a lui con tutta la forza, rovesciando indietro la testa, socchiudendo gli occhi, sospirando: "Ci perdoni ... ." La vecchierella sull'uscio crollava il capo nella sua cuffietta bianca, col guancialetto dimenticato sulle braccia. Lo zio e la nipote, senz'altre spiegazioni, uscirono da quella casa piú consolati, e strada facendo l'una si attaccava al braccio dell'altro con un senso di piú domestica intimità. Non si dissero una parola fino a casa: ma due persone non avevano mai parlato e non s'erano mai capite tanto. Prima di andare a letto, quella stessa notte, Arabella si chiuse nella sua stanza e scrisse una lunga lettera a Paolino delle Cascine, suo benefattore. Finiva col dirgli: "Non cesserò mai di pregare il buon Dio e il mio Angelo custode, perché possano essere esauditi tutti i voti del suo cuore. Ella ha fatto una grande carità a me, a’ miei fratellini, alla mia disgraziata mamma, al mio povero papà". E mentre scriveva il nome del suo povero papà, le parve di udire un fruscío nella stanza e vide la fiamma della candela piegarsi da una parte quasi mossa da un sottile alito di vento.

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

il pensiero dello spavento che essa avrebbe provato, vedendosi a un tratto abbandonata, l'interpretazione che un tale abbandono poteva ricevere dopo le aspre parole barattate in vagone, tutto ciò, misto a un inconsulto sentimento di rabbia, di gelosia, di compassione, lo cacciarono a corsa per un cinquanta passi sulla via ferrata, al chiaro di luna; ma la ragione gli dimostrò subito come fosse sciocco quel correre alla ventura e ritornò in stazione, che, quella notte, rappresentava un punto importante nella geografia della sua vita. Fra gli altri pensieri il più pungente era che Margherita avesse fatto apposta per dargli una lezione. Ma se per lo Spazzoletti era un'agonia, per la sora Ballanzini, quando rinvenne, l'idea che il suo Claudio viaggiava solo solo con quella bella signora, che sarebbe giunto con lei a Musocco, che l'avrebbe per necessità, per pietà, per cortesia, ricevuta in casa a passare la notte, che... che... quest'idea era la morte addirittura. Ricuperate le gambe, voleva ad ogni costo che le si procurasse una carrozza; ma nessuno si mosse, e le fu dimostrato che nessuno avrebbe voluto scomodarsi in quell'ora, che le strade erano cattive, piene di pericoli: che non valeva il conto per poche ore di differenza d'intraprendere un disastroso viaggio nel pieno della notte, mentre all'alba sarebbe passato il treno di Arona. Volere o no, dovette rassegnarsi anch'essa. Tornarono a guardarsi in viso. La luna nella sua stupida placidezza pareva che ridesse sgangherando la bocca. La strada ferrata si prolungava deserta e luccicante a destra e a sinistro in una lontananza piena di ombra e di misteri. Per tutto era un gran silenzio e una grande solitudine. Entrambi sentirono riempirsi gli occhi di lagrime e una cosa alla gola che minacciava di strozzarli. Il Caldara, che, non vedendoli uscire, era venuto a cercarli, dopo aver riso dell'avventura, invitò gentilmente anche la signora in casa sua, molto più che i Ballanzini di Musocco non erano persone sconosciute a Parabiago, anzi... Stavano quasi per avviarsi verso la carrozza, quando il capostazione gridò: - Signori, è annunciato un telegramma da Musocco. Fu come se sparasse una fucilata. Il cavaliere Spazzoletti e la sora Ballanzini accorsero con tanta trepidazione, con tanta indiscrezione, che a stento il capostazione poté persuaderli a non toccare la macchinetta, e a sedersi, e a star zitti e quieti. - Il telegrafo non è una campana - brontolò quel buon uomo del Capo. Si rassegnarono ad aspettare con pazienza. La punta dell'ago cominciò a picchettare la striscetta mobile di carta con un movimento nervoso e balzano, come il polso dei nostri due disgraziati. La stanza era illuminata da una lucerna posta sulla tavola telegrafica, coperta da un paralume che lasciava nell'ombra il soffitto e le pareti. Il tic-tac della macchinetta non era accompagnato che da un grave e lento toc-toc d'un grande orologio a muro rincantucciato dietro uno scaffale. Quando la punta dell'ago cessò di scrivere, il Capo trasse dall'astuccio gli occhiali, li inforcò sulla punta d'un naso che pareva l'insegna del vin buono, e aggrottando due folti sopraccigli bianchi e due baffi irti come due fascetti di fieno, si accostò alla lucerna. I nostri viaggiatori naturalmente gli si misero alle costole. - Ma che stagano al loro posto, benedetta pazienza! - esclamò il pover'uomo fuori di sé. - Già loro non ghe capiscono un'acca allo stesso. Dunque el dice: " Musocco, ecc. Strada libera, spedite vino... " Io credo che i due vedovi sarebbero rimasti stupefatti cent'anni a guardarsi in faccia, se il Capo non soggiungeva: - Ho capito. Questo viene a noi, e riguarda un carico di vino che abbiamo in magazzino; ma che sentano... Infatti il campanello annunciava che un altro telegramma urgente era in viaggio da Musocco. Questa volta diceva: " Cambiata moglie, dormiremo a Musocco, venite prima corsa ". Lungo sarebbe descrivere tutti i vari sentimenti che queste parole destarono nel cuore del cavaliere Spazzoletti e della sua dolce compagna: più a lungo ancora il descrivere l'accoglienza che le sorelle e la moglie del Caldara fecero alla sora Ballanzini e a' suoi papaveri. Dirò solo che l'amico per festeggiare gli sposi aveva fatto preparare il the, dolci e vin bianco, e una stanza imbiancata apposta con un letto di piume d'oca. Ma nessuno poté chiudere occhio per tutta la notte. Chi pianse, chi rise e chi pianse per troppo ridere. Spazzoletti si sdraiò vestito sopra un canapè e divorò un mezzo cuscino per la rabbia. Il cuscino gli fe' passare il pappagallo.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 3 occorrenze

. - O Giacomo - proruppe con voce malata, movendo la testa con un lento abbandono, mentre colle braccia tese si attaccava al collo del giovane. - O Giacomo, perché non siamo morti noi? Giacomo impallidí. Le palpebre velarono la luce de' suoi grandi occhi cerulei. Attese che il doloroso istante passasse e sentendo a un tratto ridestarsi il suo cuore in una nuova e misteriosa dolcezza con una voce in cui scorrevano lagrime invisibili: - Oh contessa! - esclamò - c'è qualche cosa di piú santo della morte. E riaperti a fatica gli occhi come chi si sveglia da un lungo e faticoso letargo, si recò la mano della signora alle labbra, mormorando: - Forse bisogna cominciare da capo.

Come un'edera molle e rigogliosa, che si attacca e si stende sopra un vecchio muro cadente, nel suo abbandono e nella sua incapacità si sentí appoggiata a questa protezione, si adattò al mite e ombroso ambiente, mise volontieri le mani in un lavoro, che parlava già da sé stesso di sacri dolori e di eterne consolazioni. Le crisi divennero meno frequenti, perfino un'ombra di colore riapparí sulla pallidezza del suo volto lavato da troppe lagrime, si abbandonò alle pratiche della pietà, che per gli spiriti umili e bisognosi tengono il posto delle persuasioni che non si possono procacciare; accettò di buon grado tutte le medagliette e tutte le coroncine, che mandava il convento e che le sante dame facevano venire apposta per lei da Lourdes o da Loreto, piccoli segni di quella forza di fede, che è piú facile canzonare che non sia il farne senza. Cosí passò tutto il novembre. Dopo una nevicata, che rallegrò le feste di Sant'Ambrogio e che lasciò le campagne belle bianche, il dicembre seguí eccezionalmente dolce. Il piú bel sole si diffondeva nella stanza dove le pie signore tenevano un vecchio altarino colla statua dell'Addolorata sotto un tempietto di fiori di carta. Donna Gesumina che era bravissimanei lavori pei quali ci vogliono manine di piuma, veniva spesso a trovarla, sedeva con lei davanti al telaio, ordiva il tessuto nuovo, dava qualche suggerimento per il resto. Se il punto era alquanto cruccioso o troppo pigro per sostenere la pazienza, labuona signora intonava sotto voce le litanie su una cantilena facile e girante come un arcolaio, tale da aiutare senza sconvolgerlo il filo del lavoro. Celestina in quella vocina di monaca digiuna faceva entrare a intervalli la bella nota media della sua voce, con cui soleva sostenere le litanie al Santuario, e si lasciava cullare cosí in una dolce dormiveglia piena di oblio. Nelle nature sane pare che anche i dolori perdano del loro veleno e finiscano coll'essere assorbiti, come sono assorbiti dalle sane costituzioni i contagi che persistono. Un secondo dolore non fa piú soffrire come un primo, come se i tristi pensieri, a furia di passare, facessero nell'anima un solco sempre piú inclinato e largo. Come il montanaro si abitua a portare sulle spalle i più grossi carichi e non si sente ben equilibrato sulle gambe, se non quando ha tutto il suo solito peso addosso, cosí si oserebbe quasi dire che la natura dia alle costituzioni robuste, non guaste dalla troppa filosofia, l'abitudine di portare una certa quantità di patimenti. Questo può spiegare come nel rifiorire della pace anche il fisico della ragazza, aiutato da forze spontanee piú potenti della volontà, ricominciasse a fiorire. Nel benessere di tutto il corpo essa provava non rari istanti di ristoro e di nervosa ebbrezza, non priva di godimenti, come capita nei dolci istanti di buona convalescenza. Anima semplice e primitiva, priva di raffinatezze intellettuali, incapace di uscire o di allontanarsi troppo dal momento presente, bastava che l'idea dolorosa fosse momentaneamente assente, perché tutte le altre idee, quasi ancora fanciullesche, godessero di una specie di vacanza. A vederla in certi istanti, uno avrebbe detto che la sua disgrazia era piú grande di quel ch'ella fosse in grado di soffrirne. Pensava qualche volta: - Poiché era diventata cosí indegna, non per colpa sua, Giacomo avrebbe imparato a dimenticarla. Forse era per lui una fortuna. Giacomo aveva camminato troppo avanti sulla strada del sapere, perché potesse contentarsi di voler bene a una povera ragazza come lei. Se la terribile disgrazia doveva fruttare a qualcuno, in mezzo al male era un bene che fruttasse almeno a lui la libertà, e qualche compenso. La contessa aveva promesso che, fin dove un male si può riparare a denaro, Giacomo doveva far conto sugli aiuti della sua casa. Alla famiglia dello zio Mauro non sarebbe mancato piú nulla. Ebbene (seguitava a riflettere, offrendo a sé stessa, non senza qualche orgoglio, questa consolazione), se la mia disgrazia salva questa povera gente dai bisogni e dai creditori, se mette Giacomo nella condizione di poter continuare nella sua carriera e di farsi col tempo un grande onore, perché devo disperarmi? Certo avrei voluto restituire in un altro modo il bene che ho ricevuto; ma poichè Dio ha voluto cosí, sia fatta la sua volontà. Ma non sempre questa rassegnazione parlava cosí forte. Improvvise curiosità intervenivano a interrogarla: "Che cosa avrà detto di me? crederà proprio ch'io sia stata innocente? perché non è venuto ancora a vedermi? perché non mi scrive? gli avranno detta la verità? sa dove sono e in mano di chi?" In questi incalzanti quesiti, a cui non era in grado di dare nessuna risposta e che andava ripetendo a sé stessa con una ostinazione piena di rancore e di compianto, tornava a provare le vecchie ansietà, la sua mente cadeva in paure profonde; agitazioni nuove, accompagnate da una febbrile impazienza, non la lasciavano piú ferma sulla sedia. La contessa aveva le prove della sua innocenza, e Giacomo non poteva non credere a una donna come la contessa; ma, riandando minutamente ai particolari della sua sventura, ora temeva che l'interesse avesse a far rinnegare la verità anche ai santi, ora si accusava di non aver saputo respingere con piú violenza le cortesie del giovine conte, di non aver provato abbastanza ribrezzo di lui, di non averne parlato subito a Giacomo, e malediceva in cuor suo alla floridezza della sua giovinezza, di cui si era servito il demonio per perderla. In questo modo, co' suoi stessi dolori, essa andava fabbricando nuovi strumenti di tortura e finiva col ritrovare la spina del rimorso fin nel fiore dell'innocenza. In certe ore, in modo speciale verso sera, quando, al morire della viva luce del dí sentiamo venir meno in noi molte certezze, la sua stanza le diventava uggiosa come una prigione. Lampi di follia tornavano a guizzare nella tempesta dei pensieri. Stava immobile, cogli occhi perduti in una lenta stupefazione sulla campagna coperta di neve, o fissi alla linea dei monti lontani, tra cui andava ricostruendo qualche nota giogaia. Sentiva di essere piú che morta, sepolta viva, e piangendo, diceva in modo di poter ascoltarsi: - Giacomo, perché mi abbandoni? Vieni a vedere che cosa hanno fatto della tua Celestina. - Non pensi, Adelasia, che quella ragazza possa aver bisogno.di qualche speciale benedizione? - disse un giorno donna Gesumina alla sorella. - Ho letto nella vita di Santa Zita, patrona delle donne di servizio, che il demonio ama tormentare queste ragazze povere e ignoranti per tirarle al male. - Certi diavoli, quando ci sono, non c'è benedizione che li possa scacciare. Bisogna aspettare che se ne vadano da sè. Sono i fenomeni del suo stato. Cosí disse donna Adelasia quasi con solennità scientifica. - Basta, basta, tu sei piú in grado di me di saper giudicare - rispose, umiliandosi, la piú giovine delle due vecchie zitelle; e non tornò piú sull'argomento. Dopo molto aspettare, un giorno arrivarono finalmente due lettere di donna Cristina, una per Celestina, l'altra per donna Adelasia. A Celestina, riferiva in poche righe, non tutte sincere, il risultato del colloquio avuto con Giacomo: "Per quanto il colpo sia stato grande" scriveva la contessa "egli mi ha promesso di perdonare, e sarebbe già venuto a vederti costí, se un po' di febbre buscata con questi freddi non l'obbligasse a letto. La sua pace, la sua salute, il destino di tutta la sua vita dipende unicamente da te, mia cara figliuola. Se tu sarai buona, docile obbediente a tutto quello che ti diranno di fare queste tue benefattrici, vedrai che col tempo proverai una grande consolazione. Io faccio pregare sempre per te." Nella lettera a donna Adelasia la contessa lasciava trasparire invece tutte le paure e le preoccupazioni che aveva ridestate nel suo cuore il primo incontro con Lanzavecchia: "Speravo di trovare nel giovine una maggiore arrendevolezza; ma ho paura di aver sbagliato nel giudizio che mi son fatta del suo carattere. Soffre meno per il fatto doloroso che non per l'orgoglio ferito. Il pensiero che ci deve qualche cosa gli è insopportabile. Quale altra soddisfazione vorrà chiederci? come intende vendicarsi di Giacinto? La mia povera testa si confonde e non sa piú che cosa pensare e che cosa temere. Ora è piuttosto gravemente ammalato, non si sa se per una minaccia di tifo o per una congestione cerebrale, che lo tiene in continuo delirio: e questo dottore non è senza qualche apprensione. Nel mio egoismo non so piú che cosa augurare a me stessa e agli altri. Mi pare che, prima d'ora, non abbia mai saputo che cosa sia soffrire, né mai prima di questa grande battaglia ho tanto compatito chi piange. Ora, sí, sento nel cuore le sette spade dell'Addolorata e capisco come le ricchezze, i titoli gli onori, le vanità del mondo, non valgano un'ora di buona coscienza. Non c'è donna cosí povera tra queste contadine, colla quale non farei cambio volontieri, se Dio mi potesse restituire la pace. No, il morire non è il peggior male: è peggio il non poter morire, quando si vuole. Dio sa se io vorrei essere sotto la terra da dieci anni! almeno sarei morta nell'illusione della mia felicità, nella freschezza delle mie gioie materne, sarei morta compianta, benedetta, e avrei trovato nella memoria de' miei cari il suffragio, che ci fa vivere anche dopo la morte. Questa invece non è né la vita, né la morte. È un'agonia, un singhiozzo che non cessa mai. Io sono un dolore solo, temo d'ogni scossa, non ho piú lagrime e non ho finito di piangere, non ho riposo né giorno né notte, e, poiché non posso morire, invoco quasi la pazzia, che mi liberi da questa spaventata coscienza. Lorenzo, che non deve mai saper nulla, s'è lasciato persuadere a restare al Ronchetto fino a dicembre: cosí almeno spero di poter rivedere il giovine e di strappargli almeno una promessa, che salvi la mia povera casa. Come potrei abbandonare questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive piú, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà, stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza."

Poi si lasciò ricadere in un pesante abbandono. Cominciò a ricordare in nube che un gran dolore gli era passato vicino e gli aveva, piú che il corpo, infranta l'anima. Chiuse gli occhi e lottò un pezzo con sé stesso per raccogliere le idee rimaste come disperse, al di là della coscienza; sentendo sonare le ore al campanile della chiesa quella sensazione d'ambascia, in cui si era trovato al momento di andare al colloquio colla contessa, si ridestò sotto l'impulso di quel rintocco di campana; la verità gli apparve in tutta la sua brutale crudeltà in un improvviso spiraglio di luce. Che cosa era avvenuto di lui dopo quel colloquio? che cosa avevano fatto di Celestina? perché non lo avevano lasciato morire? Un brivido diaccio corse e si mescolò agli ardori della febbre seguendo l'onda di questi pensieri che tornavano; nella sua estrema debolezza fisica non seppe respingere un urto di grosse emozioni, abbandonò il capo sul cuscino e pianse a voce alta. Mentre ancora le lagrime colavano pei solchi, si aprí l'uscio ed entrò la mamma. Al veder la coltre in disordine e il malato cogli occhi aperti, la buona donna si accostò frettolosamente al letto. - O Giacomo, o mio povero Giacomo, sei sveglio? come ti senti? benedetto mio figliuolo, non sai che cosa ti è capitato e dove ti hanno trovato? Però ti pare di sentirti un po' meglio? piglia una goccia di brodo. Il dottore ci raccomanda di sostenerti le forze. Se non vuoi il brodo, c'è qui una lagrima di marsala. L'ha mandato per te apposta di quel vecchio la contessa. Giacomo con un gesto risoluto allontanò il bicchierino che la vecchietta voleva accostargli alle labbra; e si oscurò in volto, come se avesse visto il veleno. - Sai che c'è stato anche don Angelo, il tuo zio prete? Ha sentito a Bergamo ch'eri cosí malato ed è venuto apposta per vederti. Tornerà quando starai piú bene. Per molti giorni non fece che star rannicchiato nel letto, testa sprofondata nei cuscini, cogli occhi chiusi, in uno stato di pesante annientamento, non desiderando che il sonno, l'oscurità, la dimenticanza di sé stesso. Come un fanciullo pauroso, che non osa passar da un uscio per non isvegliare un grosso cane accovacciato noto per la sua ferocia, cosí egli non osava moversi per paura di risvegliare la sua riflessione. A certi mali non c'è che un rimedio efficace: il non pensarvi. Ma piú raffinerai la ragione e la coscienza, piú avrai affilati in te stesso gli strumenti della tua tortura, quando la mano spietata del dolore ti lancierà contro te stesso. E Giacomo non potè impedire che la forza inesorabile della natura lo portasse nuovamente al supplizio, quel giorno che cominciò a star meglio. Quasi per ritardare di un'ora la necessità di occuparsi di sé, volle vedere qualcuno de' suoi, e, fatto chiamare Angiolino, lo interrogò sull'andamento degli affari. Il ragazzo, col viso duro, piú oscuro del solito e con una intonazione fredda d'uomo irritato, si fece a riferire minutamente. Erano state consegnate seicento tegole al Legnani di Cernusco. La chiesa di Pagnano aveva mandato a prendere altri quattrocento mattoni di pavimento. La Lisa aveva incassato cinquanta lire a saldo del conto Lavelli di Brivio. - E restava lí come oppresso da un cattivo pensiero. - E Battista? - chiese Giacomo, che, per paura di sé, andava in cerca degli altri. - Battista non parla piú di andare in America. S'è rimesso a lavorare. Anche la Lisa, quando seppe che Giacomo cominciava a riconoscere qualcuno, volle far la sua visita. Si sentiva qualche rimorso per via di quella benedetta linguaccia e non aspettava che il momento di farsi perdonare, quantunque, a esser giusti, i fatti avessero data ragione a lei e non a lui. Per quanto male avesse potuto dire di madamisella, cento lingue come la sua non sarebbero bastate, pensava la Lisa, a dir tutto il male che madamisella si meritava. Che fosse una leggerona si sapeva: ma in casa Lanzavecchia non si osavano nemmeno immaginare certe vergogne! Il Signore questa volta aveva voluto bene al povero Giacomo col fermarlo a tempo sull'orlo del precipizio. Se madamisella avesse portato in casa certe abitudini! uh spavento! uh ludibrio! - La Lisa entrò nella stanza del malato colla sua andatura angolosa e rigida, avvolta come una vecchia ombrella nei vestiti flosci e cascanti, che avevano tutti i colori dell'acqua piovana: e, accostatasi con passi contati al letto, disse al malato- . - È vero che ti senti meglio finalmente? - e non seppe togliere a quel finalmente un certo tono d'impazienza, in cui si sentiva il buon cuore litigare col dispetto. - Sai che ci hai spaventati bell'e bene? Se ti sentivi cosi male perché non parlare a tempo? Sempre cosí voialtri uomini. Rimproverate a noi donne di parlar troppo dei nostri mali ma neanche il tacer troppo, come fate voi, non è un bel sistema. Covare i mali e non pensare a curarli che quando non se ne può piú, è proprio come andare dallo speziale a comperare la febbre. Ma pazienza, e sia lodata la Madonna! - soggiunse senza intenerirsi troppo su questa devota giaculatoria, perché in cuor suo sentiva per un razionale istinto che, quando la Madonna vuol proprio bene a un povero cristiano, ha tutti i mezzi di risparmiarglieli addirittura certi dolori. Nello sforzo che la ragazza magra faceva per contenersi umilmente davanti al letto del malato e per dare alle sue parole un senso di mansuetudine, i gomiti le uscivano acuti e irritati dai fianchi, la sua testa spettinata s'irrigidiva nella luce cruda della finestra. - Adesso cerca almeno di guarir presto, perché tu sei piú necessario di prima a questa povera casa senza tetto. Questa povera donna - soggiunse indicando la mamma, che rientrava colla tazzetta del brodo - non è piú quella di prima e non parla che di morire. Io dico che per morire moriremo tutti, quando sarà la nostra ora, e non c'è bisogno di mandare su un'istanza; ma il Signore dice: "Aiutati che ti aiuterò". Cerchiamo di dimenticare le cose passate e amen. Anche tu, Giacomo, devi farti una ragione, perché tutto il male non vien per nuocere, se dobbiamo credere a quel che è venuto a dire lo zio prete. - Che cosa è venuto a dire? - domandò con aria stanca il malato. - Ha detto che tornerà e parlerà con piú comodo - fu pronta a interrompere la mamma, lanciando una viva occhiata di rimprovero alla figliuola. - Ora pensa a guarire, che è l'importante: al resto penseremo poi. Le some si aggiustano per via. - C'è stata due o tre volte la signora contessina colla sua maestra a domandare tue notizie disse Angiolino che capí la necessità di sviare un discorso difficile. - Ti va? - chiese la mamma, incoraggiando il malato a prendere il brodo, mentre lo aiutava a mettersi un cuscino dietro la schiena. - È tutto brodo di cappone. - Lo si doveva mangiare per Natale, - disse la sorella - ma è sempre buono quel che arriva a tempo. Per Natale metto in collegio un bel tacchino, se avremo voglia di mangiarlo. Intanto io son del parere che tu abbia a vendere allo stracciaiuolo tutta questa filosofia, che ti guasta lo stomaco. La Lisa indicò i libri e le carte ammucchiate sul tavolino, facendo colle due mani il segno di chi spazzola l'aria. - Già, credi pure, il mondo non lo si rappezza piú nemmeno con la carta stampata e una buona digestione vale una dozzina di belle massime. Quando c'è la salute, a che cosa serve la spezieria? - Tu gli fai la testa grossa cosí - rimproverò la mamma. - Badate a tener nota esatta di tutto quello che spendete per me - disse Giacomo, rannuvolandosi in volto, con uno sforzo doloroso, che gli fece la fronte umida di sudore. - Non parlar di conti, adesso, - riprese la mamma - e non pigliarti pensiero per noi. Don Angelo ha detto che, per tutto quello che ci può abbisognare, si abbia a ricorrere a lui. - L'ha mandato san Giuseppe coll'asinello questa volta - aggiunse la Lisa. - Del resto, non siamo in un deserto e non manca la gente che ci vuol bene. Anche Battista si lasciò rimorchiare dalla mamma a far la pace con Giacomo. Questi lo salutò colla mano, mentre l'altro entrava, raggirando con una mano il cappello e grattandosi coll'altra la nuca. - Voletevi bene e addio! - disse la mamma. - Ora dobbiamo lavorare tutti per ciascuno e ciascuno per tutti, anche per benedire alla memoria di quel pover'uomo, che ci aspetta in paradiso. La Santina passò in fretta un angolo del suo grembiale negli spigoli degli occhi e continuò a promettere per Battista, che s'induriva sotto le carezze della tenerezza, fino a perdere l'uso della favella. La mamma invece (e non isfuggí al nostro malato questo fenomeno) rianimata dal pensiero di essere utile, contenta di vedere un po' di pace tornare in famiglia, stava per ritrovare la sua antica alacrità di spirito. In fondo, la disgrazia di Celestina rappresentava per lei, a parte il dispiacere, la liberazione del suo Giacomo, che con tanto sapere e con tanta abilità poteva aspirare a qualche cosa di piú bello che non sia lo sposare una stracciona senza un soldo, una mezza contadina, una figlia di nessuno. Nel suo orgoglio materno la Santina era persuasa che, se Giacomo metteva il suo cappello sulla soglia dell'uscio, le piú belle doti dei dintorni ci saltavano dentro. Non poteva mancare la visita del vecchio Blitz. Quando capí che il padrone cominciava a veder qualcheduno, il brutto cane, che da cinque o sei giorni non abbandonava la loggetta, si fece coraggio e venne innanzi a fiutare il letto. Giacomo, aprendo gli occhi, incontrò quelli buoni e lagrimosi del fedele animale; sporse una mano dalla coltre, gli strinse il muso, lo carezzò, lo interrogò a lungo con uno sguardo, a cui il vecchio filosofo pessimista rispose con un tremito convulso di tutto il corpo e con un lento dimenar della coda. - Hai sentito, Blitz, quel che ci hanno fatto? - mormorò Giacomo, come se volesse provare la voce e le forze in presenza del suo prudente compagno. - Hai sentito quel che hanno fatto della nostra povera Celestina? E non è finita, ve', Blitz; ne vedrai di piú brutte. Se non propriamente pronunciate, queste tristezze furono espresse dallo sguardo dell'uomo, raccolte e compatite dallo spirito del cane, che, posate le due zampe pelose sulle coltri del letto, mandava un gemito come d'anima sofferente. Le forze fisiche tornarono a poco a poco e, insieme, andava crescendo, al tornare della coscienza del suo stato, il terrore e la vergogna dell'oltraggio ricevuto. L'animo, già cosí paziente e tollerante dei mali, correva, al divampare dell'odio, a pensieri di estrema violenza: l'occhio fissavasi in una sua idea lugubre: l'infermo stringeva ipugni sotto le coperte, o si metteva a sedere sul letto, come se cercasse di misurare le sue forze per una estrema battaglia. Non poteva finir cosí! Era un risveglio assai doloroso e grottesco per un filosofo idealista, che stava sognando l'amabile conciliazione degli uomini colle forze nemiche della natura! All'urto feroce della realtà egli si avvedeva d'aver riflesso nella sua filosofia le cose del mondo forse con una certa limpidezza, ma semplicemente capovolte! Aveva creduto nell'illusione fantastica della sua solitudine di stendere il volo ai piú alti cieli e invece era semplicemente la terra che gli mancava sotto i piedi. Mai ingenuità filosofica era stata piú punita! mai s'era vista una piú grande incapacità! Che gli restava di fare? egli non poteva restar eternamente cosí immerso in un morboso letargo, né chiudere gli occhi bastava per non vedere, né sprofondarsi in un sepolcro significava esser morto. Dalla rovina delle sue costruzioni fantastiche, come tra gli sconquassi d'un'immensa impalcatura posticcia, qualche cosa d'immobile e di massiccio era di sotto, contro cui ogni uomo va a battere la testa, ove non sappia edificarvi sopra la vita. Cadevano i vaghi pensieri, ma restava il dovere da compiere. Bisognava insomma far qualche cosa per sé, per Celestina, per il suo onore, per la famiglia, per l'opinione del mondo, per la pace dei buoni, per il riscatto della coscienza, per il sollievo dell'animo esulcerato, per la difesa degli innocenti, per il castigo dei tristi. Ma dove cominciare? a chi chiedere la forza dell'odio e della vendetta? come rompere le catene ormai irrugginite della sua antica schiavitú morale contro questi benefattori, che non poteva pagare? All'immagine laida del miserabile, che aveva vituperato con bestiale brutalità quanto di piú sacro e di piú puro può contenere il cuore d'un uomo sentiva a un tratto la sua volontà ingrandirsi, farsi di ferro; coll'occhio arroventato fisso nell'aria cercava il vile, lo ritrovava, gli si scagliava addosso, metteva le mani nel suo sangue e di questo sangue, di cui nella squisita debolezza nervosa vedeva le chiazze vermiglie vagolare sulle pareti e sul bianco del letto, provava una vertiginosa ebbrezza. A queste fiammate, da cui il suo spirito debole e titubante era trasportato a esagerate emozioni, seguivano molte ore di depressione morale e di sonnolenza, durante le quali la forza critica della sua mente, quella ch'egli era abituato ad adoperare di piú e di cui, come di un coltello del mestiere, si serviva per recidere i lacci e le corde degli inviluppi morali, rispondeva con una lunga e ironica argomentazione alle rodomontate del sentimento. "Un assassinio? una strage? un duello? Ci vuole un bel coraggio a liquidare con un delitto o con una elegante pantomima il crudele dolore dell'anima tua! Forseche il sangue ha mai potuto lavare una macchia e spegnere una sete? E deve proprio toccare a te questa parte di romantico Ernani, perché si tragga dall'agonia mortale di due cuori un drammaccio volgare, che rallegri e contristi di tragica pietà i lettori delle cronache e dei fatti diversi? A chi gioverebbe una vendetta volgare? poco a te, se pur ti pare che giovi al frenetico il rotolarsi nel fango; nulla agli altri, se non a rendere volgari le piú delicate sofferenze; nulla a pagare il danno d'una vita spezzata; nulla a soddisfare la legge morale; nulla a nessuno insomma, tranne che a far piacere agli invidiosi e agli imbecilli". Ma che poteva fare dunque per quella poverina? All'immagine di Celestina le lagrime gli correvano agli occhi, un nodo angoscioso minacciava di soffocarlo, pareva che le ultime forze della sua vita si ritirassero e lo lasciassero esangue. La voce malinconica, il viso sconvolto, quel tono di morta disperazione, con cui gli aveva parlato l'ultima volta nel viale del giardino, tutto questo tornava vivo e presente a scoraggiarlo di piú. Che cosa rimaneva di tutto il caro edíficio della sua vita di lavoro ideale, di quel loro amore cosí naturale e ridente, cosí tenero di tutte le dolcezze piú spontanee della vita? Questo loro affetto non intessuto di astruserie, come sogliono fabbricarne gli spiriti stanchi e sciupati, ma semplice come un fiore, era stato il suo orgoglio. Celestina, oltre alle virtú native della donna innamorata, che cede all'amore dell'uomo forte e sapiente, rappresentava per lui gli adunati desideri, la bellezza ideale, il sospirato riposo, quanto insomma di eletto sovrabbonda alla vigorosa virtú dell'uomo savio e che la donna raccoglie e conserva per i giorni della stanchezza e del dubbio. All'idea che di un cosí incantevole edificio non restava piú che un mucchio di cenere, egli si rivoltava nel letto, cacciava la testa sotto il cuscino, urlava come una belva ferita chiedendo: perché? perché? L'immaginazione gli procurava non minori tormenti nel fargli sentire quel che al propalarsi del sordido caso, i soliti beffardi avrebbero dovuto dire di lui, della ragazza, della burla giocata al filosofo, della superbia punita di casa Lanzavecchia. O Dio! qualche soddisfazione egli doveva pur domandare a questi signori. Nessun anacoreta avrebbe tollerato che una creatura debole e innocente rimanesse senza difesa e senza giustizia sotto l'obbrobrio di un simile oltraggio, senza assumere nella sua pigra sonnolenza morale una obbrobriosa responsabilità. Il male che si compie, accettando in silenzio il male, è una forma, e non la piú coraggiosa, di complicità. Molte ore restava cosí confitto, come un povero Cristo, alla croce dei suoi pensieri, cogli occhi fissi alla luce della finestra, in cui sbatteva irrigidito il candore della prima nevicata; e ripensando per un ozioso abbandono dello spirito ai fatti piú lontani della sua fanciullezza, evocava gli episodi di quel suo antico amore. Sul muro di quella stessa stanza, dove giaceva a invocare inutilmente la morte, erano rimaste le vecchie traccie di un altarino in due striscie dipinte in mattone rosso, simulanti un padiglione, tra le screpolature dell'intonaco. Celestina era venuta spesso ad ascoltare una messa, che il pretino recitava sopra due sedie con indosso il grembiale della mamma in luogo della sacra pianeta, con in testa un logoro berretto dello zio prete. Qualche altra volta egli l'aveva confessata, stando seduto in un vecchio armadio; poi l'aveva comunicata con un manus Christi della zia Veronica. Quante volte avevano preparato insieme le feste del mese di Maria, addobbando la loggetta di pezzuole, di frasche, di corone di fiori, o avevano preparata per la sera una lunga illuminazione di moccoletti, in mezzo alla quale sfilava una processione di ragazzine e di villanelli scalzi, nel frastuono d'una musica di coperchi, d'imbuti e di scatole di lucilina! Quando Giacomo predicava dall'alto del seggiolone, Celestina con sulla testa il grembialone della zia Santina, stava a sentirlo tutta raccolta e compunta, ridendo a qualche citazione in trappolorum gamberellis, che usciva di bocca al predicatore, con quel suo riso irresistibile che metteva in iscompiglio la divozione. Dal suo letto egli vedeva la chioma biancheggiante dell'antico frassino in fondo alla vignetta, in cui solevano ricoverarsi nelle ore calde e cercar nel fitto dei rami una aerea abitazione e fabbricare colla fantasia case e palazzi incantati, che tremolavano ad ogni soffio di vento. Venivano ad una ad una queste memorie e partivano da lui, come pietose visitatrici, che escano dalla casa di un morto. Che potevano dare questi signori in compenso di tanto bene perduto?

La Colonia felice: utopia lirica (terza edizione)

663221
Dossi, Carlo 1 occorrenze
  • 1879
  • Stab. Tip. Italiano DIRETTO A L. PERELLI - Ditta Libraria di NATALE BATTEZZATI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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IL FIASCO DEL MAESTRO Chieco (Racconti musicali)

664522
Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

IL Santo

665659
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile abbandono delle proprie idee circa l'avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua volontà e se non la scopriva. "Si vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum benedictus." E si avviò alla sua cella. Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando davanti all'uscio dell' Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole "fiat voluntas tua" che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le nostre forze per il prevalere della legge Divina nel campo della libertà umana. Il signor Giovanni gli aveva fatto battere il cuore più forte e l' Abate glielo aveva fatto battere più fiacco. Quale dei due aveva detto la parola di Vita e di Verità? La sua cella era l'ultima a destra, presso il balcone che guarda la conca rigata dall' Aniene, Subiaco e i monti Sabini. Prima di entrar nella sua cella don Clemente si fermò a guardar i lumi lontani di Subiaco, pensò alla villetta rossa, più vicina ma invisibile, pensò a quella donna. Trame, aveva detto l' Abate. Amava ella ancora Piero Maironi? Aveva scoperto, sapeva ch'egli si era rifugiato a Santa Scolastica? Lo aveva riconosciuto? Se sì, che meditava di fare? Probabilmente non aveva preso stanza nel minuscolo quartiere dei signori Selva; probabilmente alloggiava in un albergo di Subiaco. Quei lumi lontani erano fuochi di un campo nemico? Si fece il segno della croce ed entrò nella sua celletta per un breve sonno fino alle due, ora di coro. Benedetto prese la via del Sacro Speco. Oltrepassato, all'altro angolo del monastero, il letto asciutto di un torrentello, raggiunto a destra l'oratorio antichissimo di Santa Crocella, salì per la petraia che ruina giù verso il rombo dell' Aniene di fronte ai carpineti del Francolano, erto e nero fino alla croce del vertice, incoronata di stelle. Prima di toccare l' Arco che mette al bosco del Sacro Speco, uscì di via, si arrampicò a sinistra, cercando il posto dell'ultima sua veglia, alto sui tetti quadrati e sulla torre tozza di Santa Scolastica. La ricerca del sasso dove aveva pregato ginocchioni un'altra dolorosa notte, sviandogli il pensiero dal mistico foco in cui era chiuso, glielo raffreddò. Se ne avvide tosto, ne sentì un rammarico affannoso, una impazienza di ricuperar calore acuita dal timore di non riuscirvi, dal senso di esserne in colpa, dal ricordo di altre aridità tristi. Gelava, gelava sempre più. Cadde ginocchioni, chiamò Iddio con uno spasimo di preghiera. Come piccola fiamma inutilmente apposta ad un fascio di legna verde, lo slancio della volontà gli venne meno senza movere il cuore inerte e mancò in uno stupido ascoltare del rombo eguale dell' Aniene. La mente gli ritornò in un assalto di terrore. Forse la notte passerebbe intera così; forse al gelo arido seguirebbe la tentazione calda! Impose silenzio al fervere delle immaginazioni, si raccolse nel proposito di non smarrirsi d'animo. Allora sorse in lui l'idea chiara che spiriti nemici gli erano sopra. Se avesse veduto intorno a sé fiammeggiare occhi diabolici nei fessi delle pietre, ne sarebbe stato meno certo. Sentiva in sé il vaporare di un veleno, sentiva un'assenza di amore, un'assenza di dolore, un tedio, un peso, l'aggravarsi di un assopimento mortale. Ricadde nello stupido ascoltare il rumore del fiume, fissi gli occhi senza sguardo al bosco nero del Francolano. Gli passò nella visione interna, lento automa, la immagine del prete malvagio vissuto là colla sua corte di peccatrici. Sentì stanchezza di star ginocchioni, si accasciò su sé stesso. Ecco ancora l'automa lento. Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le mani sui ciuffi dell'erba soffice, fra sasso e sasso, odorante. Chiuse gli occhi nella dolcezza di quel tocco morbido, dell'odor selvaggio, del riposo; e vide Jeanne pallida sotto l'ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli sorrideva con gli occhi umidi di lagrime. Il cuore gli batté forte, forte, forte; un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla china dell'abbandono all'invito di quel volto. Spalancò gli occhi, mise, a braccia distese, a mani aperte, un lungo gemito. E subito pensò che qualche viandante notturno potesse averlo udito, trattenne il respiro, stette in ascolto. Silenzio; silenzio di tutte le cose fuorché del fiume. Il cuore gli si venne chetando. "Dio mio, Dio mio" mormorò, inorridito del pericolo corso, dell'abisso intravvisto. Si afferrò con gli occhi, con l'anima, al gran dado sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che amava. Trapassò con lo spirito l'ombre e i tetti, attrasse in sé la visione della Chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato. Durò nello sforzo quanto poté, reprimendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell'obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell'anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell'Imitazione: "Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit." Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell'ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d'erba che le mani giunte odoravano ancora. L'aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull'erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch'egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell'anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores. Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l'obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell' Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl'indici verso Castel Sant'Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un'ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull' Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: "Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!" E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la Vita, la pace ardente dell'anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l'erbe intorno. "Sei Tu" egli gemette "sei Tu, sei Tu?" Il vento tacque. Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio non gli parlerà. L'anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento. L'anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l'ultima parte della Visione, il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perché rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà. Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perché non scendo a dormire? Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea. Il cielo si era tutto coperto di nuvole pesanti fino ai monti di Jenne, dove la valle dell'alto Aniene gira. Appena Benedetto poteva discernere la tenebra nera del Francolano, in faccia, e i lividori, a' suoi piedi, della petraia. Mosse per discendere e al secondo passo si arrestò. Le gambe non lo reggevano, un soffio di sangue gli accese il viso. Era quasi digiuno da trent'ore. Non aveva preso che un tozzo di pane a mezzodì. Si sentì punger la persona da miriadi di spilli, batter forte il cuore, annebbiar la mente. Quali viluppi di serpi gli si attorcigliavano ai piedi simulando la innocenza dell'erba? E qual demonio sinistro lo attendeva lì sotto, carponi sulla pietra, simulando un cespuglio per avventarglisi? Non lo aspettavano i demonii anche nel monastero? Non si annidavano negli occhi del torrione? Non avevano quegli occhi una fiamma nera? No, no, adesso non più; adesso lo fissavano semichiusi e beffardi. Il rombo dell' Aniene, questo? No, il ruggito dell' Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a quello che udiva, ma tremava tremava come una festuca nel vento e le miriadi di spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: "devo potere!" esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono. Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la leonina voce del tuono lo minacciò. "Cosa faccio?" si diss'egli, cercando raccapezzarsi. "Perché voglio scendere?" Non lo sapeva più, ebbe bisogno di uno sforzo mentale per ricordare. Ecco, aveva pensato di scendere a dormire perché la preghiera era inutile a un uomo sicuro di salire al cielo. E un lampo arse anche dentro di lui: "Io tento Iddio!" Le serpi lo stringevano, il demonio strisciava carponi alla sua volta per la petraia tutta infernalmente viva di spiriti feroci, le fiamme nere ardevano negli occhi del torrione, ruggendo sempre l' Abisso a trionfo. Ma il rugghio sovrano del tuono romoreggiò per le nubi: "Non tentare il Signore Iddio tuo." Benedetto levò al cielo il viso e le mani congiunte, adorando, come poté, con l'ultimo lume della offuscata coscienza, vacillò, allargò le braccia, afferrò l'aria, piegò lentamente all'indietro, stramazzò riverso sulla china, giacque senza moto. Il suo corpo giaceva immobile nel vento del temporale, come un tronco schiantato, fra il dibattersi delle ginestre e il mareggiare dell'erba. L'anima dovette chiudersi nel contatto centrale con l' Essere senza tempo e senza spazio, perché Benedetto, al primo ritorno della coscienza, non ebbe senso né del luogo né dell'ora. Sentiva una levità strana delle membra, una spossatezza fisica piacevole, una infinita dolcezza interna; prima sul viso, poi sulle mani tanti minuti titillamenti come di animati atomi amorosi dell'aria: teneri sussurri di voci timide intorno a quello che gli pareva il suo letto. Si rizzò a sedere, guardò smarrito ma in pace; dimentico del dove e del quando, ma tanto in pace, tanto contento della quieta fonte interna di un indistinto amore che gli fluiva in tutti i vasi della Vita e se ne spandeva per le cose intorno, per le dolci piccole vite fatte amorose a lui. Sorridendo fra sé del suo proprio smarrimento, riconobbe il dove e il come. Il quando, no. Neppure ne sentì desiderio, neppure si domandò se dalla caduta fossero trascorse ore o minuti, tanto lo appagava il beato presente. Il temporale era disceso verso Roma. Nel mormorio della pioggia senza vento, piana piana, nella voce grande dell' Aniene, nella riposata maestà dei monti, nell'odore selvaggio della petraia umida, nello stesso proprio cuore, Benedetto sentiva un Divino confuso alla creatura, un'ascosa essenza di paradiso. Sentiva di fondersi con le anime delle cose come piccola voce in un coro immenso, di essere uno con la montagna odorante, con l'aria beata. E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento gli ritornarono a mente i perché della presenza sua sul monte deserto nelle tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l'esilio dal monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all'anima sua ferma in Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie. Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall'alto di una inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l'ufficio suo, egli si accorse di esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana, continuava. Che fare? Rientrare all' Ospizio dei pellegrini no perché il vaccaro dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto né sarebbe stato facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all' Arco d'ingresso nel bosco. Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al bosco, cadde a sedere, sfinito. Desiderava un po' di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L'aria era tepida, il suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all'ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l'impero, benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l' Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall'uno e dall'altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l'Arco. Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell'ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all'udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte. "Oh, Benedè!" esclamò riconoscendo Benedetto. "Qui, siete?" Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio. "Lo racconterete ai padri" diss'egli. "Direte ch'ero sfinito e che vi ho chiesto un po' di latte per amor di Dio." "Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!" fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. "Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!" Benedetto bevve. "Benedico Iddio" diss'egli "per la bontà vostra e per la bontà del latte." Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s'inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: "ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro." Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s'incamminò egli stesso verso Santa Scolastica. La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell' Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675892
Garibaldi, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676019
Ghislanzoni, Antonio 2 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Un insolito abbandono, una melanconica rilassatezza in tutta la persona. - L'amore, che più tardi rinvigorisce e rigenera la donna, in sulle prime si annunzia coi sintomi della febbre. Al leggero cigolio delle carrucole, che annunziava l'ascensione di Fidelia negli appartamenti superiori, due gravi personaggi mossero ad incontrarla nella galleria. Non appena la sedia ristette, l'un d'essi stese la mano alla fanciulla per aiutarla a discendere - l'altro, il più vecchio, arrestandosi a pochi passi dalla porta d'onde era uscito - figliuola mia, disse con voce severa, tu sai che io non amo di saperti in volta ... ad ora sì tarda della notte ... Fidelia non rispose. - È l'ora legale - disse il più giovane dei personaggi ... - Il richiamo dello vergini suona tuttavìa ... - Sempre da capo con queste vostre teorie della legalità! - proruppe il vecchio con accento di stizza ... - Io rispetto le leggi, e mi adopero con tutto lo zelo per farle rispettare dalla famiglia; ma fra un padre ed una figlia i doveri ed i diritti non vanno misurati alle norme del codice. L'amore che io porto a Fidelia mi impone di ricordarle che l'aria della notte è nociva alla salute, e quand'anche non vi fossero per lei altri pericoli andando in volta ad ora sì tarda, questo solo basterebbe perché ella dovesse piegarsi a' miei desiderii. - Eravamo uscite un po' tardi dal circolo ... Luce e Viola mi hanno invitata ad accompagnarle fino al Larietto per vedere gli apparecchi della macchina ... Fidelia articolava a stento le parole. Ella appoggiò il suo braccio a quello del padre, e tutti insieme entrarono nella sala. - Figliuola mia - disse il vecchio assestandosi in un pieritto,

Fidelia non aveva voluto staccarsi dalla sua sorella di amore Ella appoggiava il braccio a quello di Speranza, e senza divagare dal grande viale che metteva al palazzo, camminava a passo lento in quella direzione, e parlava all'amica con angelico abbandono: - Dieci giorni ancora! ... sai che sono lunghi ... dieci giorni! - Cosa sarebbe l'amore, cosa sarebbe la gioia - esclamava Speranza con accento ispirato - senza i giorni del desiderio e della aspettazione! Io credo che Viola avesse perfettamente ragione, quand'ella, nel circolo, ha dato dell'amore quella sublime definizione così poco apprezzata dalle sorelle. L'amore è desiderio. - L'amore è perdono! - mormorò Fidelia con un sospiro. E questo concetto era per lei una soave reminiscenza, queste parole erano una melodia sommessa che le inebbriava tutti i sensi. Giunsero al palazzo. Le porte erano abbassate, e la sala terrena sfarzosamente addobbata splendeva di fantastica luce. Una tavola oblunga, sfolgorante di preziose suppellettili e imbandita di vivande vespertine attendeva la gioconda comitiva delle ospiti fanciulle. All'entrare di Fidelia, l'anziana del palazzo e le quattro volonterose che stavano a guardia della sala, spruzzarono di faville i vasi purificatori e da questi subitamente elevossi una nuvola bianco-rosata che, dissipandosi nel vano, imbalsamava l'atmosfera di atomi odorosi. - Fra un'ora saranno qui tutte! - disse Fidelia alle donne. - Frattanto io e la mia buona sorella di amore visiteremo gli appartamenti. - Non vi sono appartamenti in questo palazzo - disse sorridendo l'anziana - o piuttosto ve ne sono tanti, quanti ne può ideare la umana fantasia; ma voi potete vederli tutti senza uscire da questa sala. Fidelia e Speranza si ricambiarono una occhiata di sorpresa. - Ebbene - domandò l'anziana. - Volete voi godere il meraviglioso spettacolo? Compiacetevi di sedere su quel piccolo divano di muschio satinato, e noi vi mostreremo una ventina di appartamenti, vi offriremo allo sguardo tale varietà di mobilie e di addobbi quale non saprebbe ideare la mente più ingegnosa. Io credo che la moderna architettura non abbia ancora prodotto un palazzo più sorprendente di questo in nessuna città della Unione Europea. Fidelia e Speranza, tenendosi per mano, quasi impaurite, andarono a collocarsi sopra il divano loro assegnato. E tosto, per un cenno dell'anziana, le quattro volonterose corsero ad occupare i quattro angoli della sala, e toccando ciascuna un bottone sporgente dalla muraglia, produssero uno di quei cambiamenti di scena che in teatro producono tanto effetto. La parete di fondo scomparve ... Ciò vi sembra prodigioso, non è vero? Orbene: eccovi in due parole la spiegazione del miracolo. Quella parete non era che un grandioso ventaglio di taffetà americano, il quale, disteso, formava un abbagliante sipario azzurro dorato come il lapislazzulì. Le quattro volonterose, premendo i bottoni che lo tenevano dispiegato, ottennero che immediatamente si contraesse, formando di tal modo una colonna quadrata per cui la vasta scena veniva a dividersi in due grandi scompartimenti. Al di là di quella colonna si apriva un mondo incantevole, che offriva allo sguardo tutte le seduzioni della natura, e non era di fatto che un meraviglioso accordo di tutte le industrie, di tutte le arti umane. Fidelia e Speranza rimasero alcun tempo assorte nella contemplazione di quel nuovo spettacolo, mentre l'anziana con affettuosa compiacenza descriveva alle due fanciulle le bellezze del quadro. - Da quella parte ... al lato destro - accennava l'anziana - voi vedete una collina di facile pendìo, dei praticelli, delle grotte, dei chioschi, dei cespugli di fiori. Sono altrettante camere, altrettanti ricoveri copiati fedelmente dalla natura. L'architetto, nel costruire quei nidi di velluto, quei chioschi di bambagia, quelle nuvole di guttaperga, era ispirato dall'amore, come il Dio della Genesi nella creazione del paradiso terrestre. Il primo palazzo di Eva, ideato dall'architetto divino, non poteva essere più confortevole e più delizioso. Voi stupite, o gentile Fidelia! ... Voi non credevate che un pensatore di case potesse elevarsi a tanta sublimità di concetti ... Quella nuvola che vedete agitarsi mollemente al di sopra della collina è la stanza che deve accogliervi fanciulla per iniziarvi ai misteri deliziosi dell'amore ... Osservate quella grotta! ... Da quelle stalattiti bianche trasudano gli unguenti più odorosi, i balsami più delicati. È il vostro gabinetto di acconciatura. Attraversandolo, ne uscirete profumata e vivificata. A poca distanza da quella grotta, una magnolia gigantesca distende i suoi rami di un bel verde opaco ... Quella è la vostra biblioteca. I libri stanno raccolti nel tronco dell'albero, e le eleganti legature formano intorno a quel tronco una corteccia di oro e di gemme. Abbassate lo sguardo a quella pianura lucente ... a sinistra della colonna! Non vi sembra che quel tappeto imiti perfettamente le onde tremolanti di un lago? È un tappeto di mercurio bianco imprigionato in una tela di vetro elastico. Voi sentite il mercurio agitarsi sotto il vostro piede, e la illusione di passeggiare sulle acque è tanto verosimile, che quasi vi meravigliate di poterne uscire a piede asciutto. Come vedete, due gondole eleganti galleggiano su quel piccolo lago artifiziale. Una di quelle gondole è destinata ad essere il vostro gabinetto musicale. Noi vi abbiamo collocato un pianoforte a corde di cigno, ed un'arpa magnetica. Assisa al pianoforte, per la rifrazione dei vari specchi mirabilmente congegnati, vi parrà di trovarvi isolata in mezzo ad un lago senza confini. I vostri canti, i vostri suoni si ispireranno nella poesia della solitudine e delle onde ... Quel pianoforte ha due pedali, per cui potrete modificare a grado vostro la calma e le procelle del piccolo oceano. Il tappeto mercuriale, sotto la pressione del vostro piede, potrà fingere tutti i commovimenti della marina. L'altra gondola è una sala di refezione; e questa, a piacere dei naviganti, può scivolare fino alla estremità della pianura, dove, per una porticiuola che da questo luogo non si scorge, essa uscirà dal lago artifiziale per islanciarsi nel lago vero. Qual sorpresa per voi, qual gioconda sensazione, al finire di una cena iniziata nel palazzo fra le carezze ed i baci dello sposo, uscire sulla prora della gondola, e veder sfilare le cento ville del Lario, una meravigliosa fantasmagoria di palazzi e di giardini emergenti dalle onde! Ma basti! ... Gli è un vero peccato quello che io sto commettendo, un peccato di indiscrezione che il vostro sposo non saprebbe perdonarmi. A che buono svelarvi tutti i misteri di questo meraviglioso palazzo? ... Che altro è la gioia se non la sorpresa del nuovo, dell'inaspettato? ... Ma pure io mi ravvedo in tempo ... Io non vi ho palesato che la millesima parte delle delizie che qui vi attendono. L'ho fatto a fine di bene; per serenare l'animo vostro, per alleviare colle promesse dell'avvenire le crudeli impazienze del presente. Ho tracciato il cammino alla vostra fantasia di fanciulla e di amante. Se in questi giorni di dilazione che ancora vi rimangono, il vostro spirito verrà a spaziare su questi prati di seta, fra questi alberi a foglie di piume che stillano rugiade di diamante, fra queste onde di metallo animato; voi troverete una distrazione soave alle cure che vi opprimono. Io però mi tengo sicuro che voi non riescirete mai ad indovinare la centesima parte delle meraviglie qui adunate da quei due creatori sublimi di poesia che sono il vostro Albani e Regolo Mengoni pensatori di edifizii Poiché l'anziana ebbe finito di parlare, la fidanzata dell'Albani, nell'ingenuità della sua anima innamorata, si lasciò sfuggire una esclamazione che rivelava tutto il suo cuore: - Ma egli! ... il mio sposo! ... - Comprendo il vostro pensiero - affrettossi a dire l'anziana. - Egli ... il vostro Albani non verrà a dimorare in questa villa, che tutta vi appartiene. Vi spiegherò il suo concetto come io credo di averlo compreso. Dell'Albani voi non dovete conoscere che l'amante e lo sposo. Egli verrà in questo luogo per portarvi il suo amore, per cogliervi il vostro, per godere dei vostri tripudii, per consolare le vostre afflizioni, per chiedere a sua volta il diletto e la forza a sostenere i dolori della vita. I vostri rapporti, in una parola, non devon essere che rapporti d'amore. Perché riesca feconda di bene, l'unione coniugale vuol essere circondata di poesia. In altri tempi, quando era obbligatorio agli sposi convivere sotto il medesimo tetto, vedersi a tutte l'ore del giorno e della notte, dividere le cure disaggradevoli e qualche volta un po' volgari del regime di famiglia, avveniva sovente una rilassatezza di affetti, che a lungo andare degenerava in fastidio, in avversione. C'è molta differenza fra il vedersi spesso e il vedersi sempre. L'augello che rinnova così frequenti i trasporti dell'amore, si allontana dalla sua compagna dopo l'ebbrezza vivace del connubio, e si perde negli spazi finché quella non lo richiami co' suoi gorgheggi, finché quella non gli dica coi suoi gemiti melodiosi: ritorna! ho bisogno delle tue carezze, dei tuoi baci! Desideriamoci, se vogliamo amarci eternamente! Il vostro Albani, ispirandosi a questo concetto, verrà in questa casa come un ospite. Egli vi apparirà inaspettato - egli giungerà fino a voi per cento vie misteriose. Lo vedrete uscire da questa gondola, lo troverete adagiato in quella grotta, udrete la sua voce carezzante rispondervi da quella nube, Quando i vostri due cuori si chiameranno per quella voce arcana che esala dall'amore, vi sentirete allacciati da soavissimo amplesso. Io credo, Fidelia, che il vostro animo gentile avrà compreso il delicato pensiero che io ho tentato di esprimervi. Lo sguardo di Fidelia splendeva di angelica luce. Quell'anima giovane era inebbriata di felicità. Si levò in piedi, e con timida voce, qual di fanciullo che non osa manifestare un capriccio per paura di vedersi contrariato, disse all'anziana: - Vi par egli che io sia troppo indiscreta nel domandarvi una concessione? ... Amerei di attraversare quel lago ... di salire in quella gondola ... di provare, sull'istromento che dovrà essere l'interprete dei miei pensieri, una canzone che ho composta per ... lui! Sarà la canzone di richiamo. E tu, mia buona Speranza, tu l'ascolterai da questo luogo, e mi dirai qual effetto essa avrà prodotto sull'animo tuo! ... E poi! ... ho in mente un pensiero ... Mi pare che i suoni di quel cembalo debbano attraversare gli spazii immensi ... e giungere fino a lui. - Non vi è ragione perché io mi opponga a così onesto desiderio - rispose l'anziana - venite! La fanciulla, dopo essersi congedata con un bacio dalla sorella di amore sorvolò con piede leggerissimo al mobile tappeto, salì nella gondola, e disparve colla sua guida. L'anziana, per un sentimento di deferenza e di rispetto che erale imposto dalla sua condizione, non si intrattenne con Fidelia nel piccolo gabinetto. D'altronde, ella aveva l'obbligo di far gli onori del palazzo, e in quel momento suonava l'ora di refezione, e le amiche della fidanzata, giusta il patto convenuto, entravano nel vestibolo. - Rilasciate il gran ventaglio! rilevate le mense! - ordinò l'anziana alle volonterose - prima che le ospiti fanciulle fossero entrate nella sala. E subito la scena mutò di aspetto, e l'incantevole panorama scomparve dietro il velario ondulato, che formava una muraglia di lapislazzulì. Nel momento in cui le fanciulle entravano nella sala, dalla sua gondola invisibile Fidelia sciolse la voce. Speranza portò il dito alle labbra, e le fanciulle ristettero ad ascoltare coll'estasi in volto. Erano le più dolci note che mai si modulassero pel labbro di una vergine innamorata. Quelle note, attraversando l'azzurro padiglione, parevano il canto di un cherubino smarrito negli spazii del firmamento. E davvero Fidelia aveva dimenticato la terra. Ella si sentiva isolata nel suo piccolo gabinetto come una sirena sugli scogli dell'oceano. Immersa negli elementi più vergini del creato, nell'aria e nelle acque, la sua anima possedeva le ali bianche e il melodioso sospiro del cigno. Le parole della sua canzone esprimevano questi pensieri gentili: «Iddio ha creato la terra, ma l'amore soltanto ha creato il paradiso. «No! questo non è il paradiso, dacché, aggirandomi fra i miracoli della creazione, io sento che il creatore è lontano. «Quando il creatore sarà tornato, quando l'aria di questo giardino sarà l'alito della sua bocca o il dolce fremito del suo cuore, allora io potrò dire: egli mi ha riportato il mio paradiso. «Oh venga presto colui che può creare il paradiso, perché il paradiso è in lui, soltanto in lui!» Il canto di Fidelia era una estasi voluttuosa. Mentre il labbro scioglieva le note, mentre il cuore modulava gli accenti, lo sguardo della fanciulla errava nelle illusioni di un mondo fantastico. Questo mondo fantastico si creava dinnanzi a lei per una combinazione di specchi metallici, i quali ritraevano perfettamente un cielo di zaffiro, un lago placido e sereno. Gli occhi di Fidelia aspettavano che quella solitudine di spazio e di acque si animasse improvvisamente di una figura umana, di una figura che per lei, per la fanciulla innamorata, avrebbe rappresentato il Dio animatore. Era delirio? ... Era sogno? ... La fanciulla sentì mancarle le forze, la sua voce si spense, un tremito le invase tutte le membra ... Quella vasta solitudine si era davvero animata: l'uomo dell'amore, il Dio era comparso ... Fidelia non osava li volgere il capo, ma lo specchio inesorabile che le stava dinanzi riproduceva una figura umana, riproduceva un essere vagheggiato e invocato, che per lei aveva nome di Redento Albani. Quell'uomo, ritto ed immobile dietro il seggio della fanciulla, pareva assorto nel contemplare le forme perfette di lei. La fronte di quell'uomo era calma; i tratti del volto non rivelavano veruna commozione; ma l'occhio irrequieto, iniettato di viva luce, aveva una espressione quasi sinistra. Fidelia ne fu atterrita più che sorpresa. Dalla sua fronte sgocciolava il sudore a grosse stille, pure non aveva forza di portarvi la mano ad asciugarle. Come si spiega questo terrore della fanciulla alla vista di un amante, di un fidanzato, di lui che era l'oggetto de' suoi ardenti desiderii, delle sue invocazioni? Se quell'uomo fosse stato l'Albani, Fidelia non avrebbe esitato un momento a levarsi dal seggio, ad avvincerlo tra le sue braccia, a inondarlo di baci. Ella esitava ... tremava ... Erano le sembianze ben note; la sua statura, i suoi capelli ondeggianti e fosforici, il suo labbro perfettamente delineato, i suoi denti pieni di sorriso. Ma pure, qualche cosa mancava a quell'uomo per essere l'amante, il fidanzato di Fidelia. Mancava la magnetica corrente che si espande dai cuori innamorati, il flusso che non si può suscitare dai nervi e dal sangue, se questi nervi, se questo sangue non sieno agitati da una vera passione. La fanciulla non poteva penetrare l'orribile inganno di quella apparizione. Ella fissava quella larva con occhio attonito; meditava quelle sembianze come si medita un sinistro problema. Quella contemplazione, quella meditazione angosciosa doveva risolversi per lei in un giudizio altrettanto erroneo che tremendo: «Egli è ben desso, ma egli ha cessato di amarmi». Era la logica più naturale che il cuore della fanciulla innamorata potesse seguire, la sola spiegazione che ella potesse ammettere dello strano turbamento che l'invadeva. A sì triste convincimento, Fidelia nascose il volto fra le mani e proruppe in dirotto pianto. Ma il Casanova (noi gli daremo il suo vero nome) non era uomo da smarrirsi di coraggio per quella fredda accoglienza. Magnetista di prima potenza, egli contava sulla forza del proprio volere per dominare quella gracile fanciulla estenuata dalle commozioni dell'amore e della paura. Egli stese la mano sul capo di Fidelia, e accarezzando le chiome odorose per innondarle del suo fluido irresistibile, parlò con accento animato: - Fidelia! ... mia buona ... mia bella Fidelia! ... non era mestieri che tu mi chiamassi ... . Sarei venuto ugualmente ... . Anch'io numerava i giorni e le ore. Avevo bisogno di vederti. Un bacio, un solo tuo bacio potrà darmi la forza per reggere a questi ultimi giorni di prova ... . Fidelia! ... I momenti sono contati. Nessuno mi ha veduto entrare, nessuno mi vedrà uscire da questo luogo ... . Non c'è a temere di nulla! ... Oh! la mia bella Fidelia! Abbandonati agli istinti del cuore ... . Poichè mi ami ... poichè hai giurato di esser mia ... . Mia sorella ... mia sposa ... . Tu mi ami: Io sapeva bene che tu non avresti negato questa gioia! ... Le tue fibre sono commosse ... . Allacciami il collo colle tue braccia di neve ... . Che io respiri il fresco alito della tua bocca! ... Le mie labbra erano arse, e la sete di amore mi avrebbe consumato, senza il refrigerio di un tuo ... bacio divino! Così parlando, il Casanova si era impadronito della fanciulla attraendola al proprio petto colla potenza affascinante della volontà. Fidelia, inebbriata da quelle parole, da quelle carezze, si abbandonò a lui come un corpo morto. I dubbi, i terrori erano svaniti. La sua faccia inondata di lacrime era divenuta radiante. In quel momento di suprema illusione, la fanciulla sognava il paradiso. Quel sogno fu un lampo. Nell'amplesso di quella larva adorata, Fidelia si attendeva una inondazione di delizie. Ma appena le labbra dell'avventuriero ebbero sfiorate le sue, la fanciulla arretrò con ribrezzo, mandò dal petto un grido affannoso, e cadde al suolo tramortita. Il bacio di quell'uomo, o piuttosto di quella maschera umana, le era sembrato gelido come il bacio di un morto. Tutta questa scena era passata rapidamente, mentre le sorelle del Circolo, nel compartimento anteriore del palazzo, attendevano che Fidelia ripigliasse la canzone, ovvero ritornasse nella sala per prendere parte al convito. Il grido della fanciulla destò lo sgomento nella piccola comitiva. L'anziana fece allentare il gran ventaglio, e le amiche di Fidelia accorsero tutte verso la gondola. Quand'esse posero il piede nel gabinetto musicale, il Casanova era già scomparso; nessun indizio, nessuna traccia di lui. Fidelia giaceva a terra coll'abbandono della morte. Le sue chiome, le sue vesti scomposte davano a supporre che ella avesse dovuto soccombere ad un assalto violento. Le fanciulle non si perdettero in vane esclamazioni. Improvvisarono una catena magnetica, e scaricando il loro fluido sulla giacente, in men che non si pensi, la ridonarono alla vita. Fidelia si levò in piedi, girò intorno gli occhi smarriti come chi, risvegliandosi da un orribile sogno, tremi di rivedere una larva. Poi sorrise alle amiche, e appoggiandosi al braccio di Speranza uscì con quella dal gabinetto. - Domani ti dirò tutto - disse Fidelia alla sua prediletta. E per quella serata non si tenne più parola del misterioso avvenimento. Durante la cena, le fanciulle ripresero insensibilmente la loro abituale gaiezza. Fidelia sorrideva alle amiche, e pareva dividere i loro ingenui tripudii. Di tratto in tratto ella trasaliva, portava la mano agli occhi come a rimuovere un velo, a dissipare una nube. E subito, dopo quel gesto, la sua fronte tornava serena, e l'occhio riacquistava la sua luce. Ai primi squilli del richiamo delle vergini quella gioconda comitiva uscì dalla villa Paradiso per disperdersi nei varii compartimenti della città. Fidelia baciò le amiche ad una ad una, e salita in una gondola volante si fece ricondurre al palazzo di famiglia. Quella sera, il Gran Proposto era di umore assai lieto. Quell'inesorabile partigiano delle antiche discipline, che non poteva tollerare nella propria famiglia ciò che egli chiamava insubordinazione legale agli ordini della natura; quel padre severo che non aveva mai perdonato a Fidelia le lunghe assenze notturne, mosse ad incontrarla con volto radiante, l'accolse con insolita profusione di amorevolezze. C'era qualche cosa di misterioso, qualche cosa di sinistro nella bonomia di quel vecchio. Le sue carezze parvero a Fidelia una affettazione di cattivo augurio, ond'ella, per sottrarsi a quell'impeto di tenerezza paterna, pose in campo un pretesto e ritirossi nel suo appartamento. Il Gran Proposto, dopo averla accompagnata com'era suo costume, e salutata col bacio del buon sogno rientrò nel suo gabinetto. Sullo scrittoio del primo funzionario dell'Olona stava spiegato un dispaccio portante il timbro del Ministero di Sorveglianza pubblica. Erano poche linee di scrittura, ma il vecchio non si saziava di rileggerle, e pareva che da quel foglio uscisse un riflesso di beatitudine ad irradiargli tutto il volto. Il dispaccio era così concepito: «Onorevole Gran Proposto, «Ho la soddisfazione di annunziarvi che il nostro zelo, le nostre sollecitudini, la nostra pertinacia hanno trionfato di ogni difficoltà. Redento Albani ha violato la legge di dilazione. Questa notte egli era a Milano, ha visitato la Villa Paradiso si è intrattenuto col Custode-direttore, ed ebbe anche un segreto colloquio con vostra figlia nel piccolo gabinetto musicale addetto alla villa stessa. Non è mestieri che io vi aggiunga altre parole; vostra onorevolezza sa troppo bene ciò che le resta a fare. Aggradite, onorandissimo Gran Proposto, gli umili ossequi del vostro subordinato devotissimo, e comandatemi in ogni occasione. «Dato dal primo gabinetto di Sorveglianza pubblica la notte del ventisette settembre 19 ... «TORRESANI DEGLI EX-BARONI.»

L'ALTARE DEL PASSATO

676779
Gozzano, Guido 1 occorrenze

Lady Mac Lewis mi fissava con un abbandono, una tenerezza più temeraria del solito. Confinata all'estremità del terzo tavolo, presso il decrepito monsieur Lebaud, celebre oceanografo, essa teneva il cubito sul tavolo, con una grazia un poco inurbana, si reggeva la nuca con la mano arrovesciando il volto di bronzo chiaro, sogguardandomi di tra le ciglia tenebrose; quando il mio sguardo incrociava il suo, sorrideva malinconicamente, e il bianco degli occhi, il bianco dei denti balenava in un tremolìo di perla. - Quella donna mi guarda, quella donna è mia! Oh! grande Ferravilla! O mio solo ammonitore nella vita, sempre! La tua voce mi rideva dentro, come un oscuro presentimento ... Eppure ... eppure come non vedere che quella era una donna disfatta dalla passione e che l'oggetto della sua passione ero io?

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

677035
Gozzano, Guido 1 occorrenze

I sogni dell'anarchico

678241
Mioni, Ugo 3 occorrenze

Pagina 23

Pagina 28

Pagina 46

Teresa

678607
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Pagina 197

FIABE E LEGGENDE

679286
Praga, Emilio 1 occorrenze

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679353
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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Magra scusa quando altri, quando un innocente, per riparare al suo abbandono, mettono a repentaglio tutta l'esistenza. Crudele egoismo! La requisitoria era compiuta e la condanna non si faceva troppo aspettare. La mattina seguente accadde a Baccio cosa tanto straordinaria che egli, per la prima volta in trenta anni di esercizio, si lasciò precedere nel suonare il mezzodì dal sacrestano di Sumasco, noto per la sua negligenza. E c'è di peggio. Egli piombò nello studio del curato tenendo in mano, per distrazione, il raggio d'oro delle grandi solennità. Mansueta gli corse dietro, don Luigi si avanzò rapidamente ad incontrarlo, ma entrambi dimenticarono tosto la stranezza del suo contegno perchè egli balbettò: - Il sindaco la vuole in sacristia. Incredibili parole che, per l'affanno, non potè ripetere. Don Luigi era già uscito per corrispondere alla richiesta del sindaco, che il pover'uomo era ancora sbalordito ritto in mezzo alla camera. Il signor Angelo non era certo venuto con delle buone intenzioni. Il colloquio fu breve, non durò più d'un quarto d'ora, che però alla nostra ansietà sembrò interminabile. Nessuno assistè. Il linguaggio del sindaco deve essere stato violento al solito: uscito dalla sacristia, sul sagrato si volse indietro e disse: - Pensateci dunque: fra tre giorni o mi date quelle carte o preparatevi a ciò che vi ho detto. Don Luigi, pallidissimo, rispose: - Sarà quel che Dio vorrà. Non capivo la minaccia del sindaco, e il curato non mi fe' quel giorno alcuna confidenza. Si ritirò nella sua camera e non ne uscì per tutta la giornata. Mansueta, sollecita della salute del padrone, si recava sovente in punta di piedi a spiare dal buco della serratura, ed ogni volta tornava tentennando dolorosamente il capo. Don Luigi passò tutte quelle ore ginocchioni pregando. I dì seguenti il sindaco passò e ripassò più volte davanti al presbiterio coll'aria provocante di un creditore inesorabile. Le sue occhiate, volta a volta beffarde e furiose, causarono una quantità di disordini. Mansueta lasciò due volte struggersi la cena sul fuoco. Il solo appressare del noto passo la metteva in convulsione. E la non poteva sapere qual nuovo genere di tortura colui avesse potuto trovare, ma capiva che doveva essere formidabile dal contegno di Don Luigi, che da quel colloquio in poi non aveva più ricuperato la sua calma e anzi diventava sempre più inquieto e sofferente. Pertanto io cominciavo a trovarmi a disagio. Ero rimasto per riguardo a Don Luigi, e avrei voluto davvero essergli utile in quel frangente di cui mi era ignota la gravità. Ma la sua afflizione non pareva di quelle che si alleviano colle parole. Il curato si manteneva stavolta chiuso con me come con tutti; noi ci vedevamo appena all'ora solita e si capiva che malgrado tutti gli sforzi egli non riusciva a dominare la cura segreta dell'animo. Non volevo, al postutto, dargli soggezione.

L'altrui mestiere

680190
Levi, Primo 1 occorrenze

Le vecchie ragnatele delle cantine e dei solai sono cariche di pesi simbolici: sono le bandiere dell' abbandono, dell' assenza, del decadimento e dell' oblio. Velano le opere umane, le avvolgono come in un sudario, morte come le mani che in anni e secoli le hanno costruite. E non si può trascurare il modo furtivo, questo sì altamente specifico, in cui i ragni entrano in scena: non col ronzio guerriero delle vespe, non con la fulminea determinazione dei topi, ma attraverso fessure invisibili, col passo lento e senza suono dei fantasmi: talvolta calano verticali dal soffitto buio entro il cono di luce della lampada, inaspettati, appesi al loro filo metafisico. E spettrali sono anche le loro tele notturne, che non si vedono ma si sentono vischiose sul viso quando al mattino passiamo fra le siepi su un sentiero che nessuno ha ancora percorso. Quanto alla mia personale e tenue fobia, essa ha un atto di nascita. È l' incisione di Gustavo Doré che illustra Aracne nel canto xii del "Purgatorio", con cui sono venuto a collisione da bambino. La fanciulla che aveva osato sfidare Minerva nell' arte del tessere è punita con una trasfigurazione immonda: nel disegno è "già mezza ragna", ed è genialmente rappresentata stravolta, coi seni prosperosi dove ci si aspetterebbe di vedere la schiena, e dalla schiena le sono spuntate sei zampe nodose, pelose, dolorose: sei, che con le braccia umane che si torcono disperate fanno otto. In ginocchio davanti al nuovo mostro, Dante sembra ne stia contemplando gli inguini, mezzo disgustato, mezzo voyeur.

Pagina 0136

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682197
Salgari, Emilio 1 occorrenze

I PIRATI DELLA MALESIA

682420
Salgari, Emilio 1 occorrenze

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Fu il giorno in cui madonna Isabella, all'impensata, dopo una lotta d'un anno in cui essa non aveva ceduto di una linea sola, presa da un subitaneo abbandono e dominata da una strana causa, disse d'amarlo. Oh! chi ha amato la conosce questa stagione calda ed esuberante, colorita dal sole, nell'azzurro sconfinato, nell'infiammato meriggio dove tutto arde e si consuma in una grande voluttà, quando i fiori nascono presto, vivono una vita rapida e soverchiante, esalano profumi grevi e violenti e muoiono per aver troppo vissuto; la stagione fremente dove tutto è luce, tutto è fulgore, tutto è febbre che precipita il sangue; la benedetta stagione, la eccelsa stagione dopo la quale tutto è cenere e fango. Chi ha amato sa la stagione d'amore di Diomede Carafa e non aspetta dalla scialba parola del freddo e disanimato cronista una descrizione. Chi ha amato evochi tutti, tutti suoi ricordi di amore, riviva in quel passato pieno di una gioia e di un dolore che non hanno l'eguale, palpiti, s'agiti, abbia la convulsione ed il delirio di quell'amore e saprà di Diomede Carafa. Le storie d'amore non si raccontano, non si descrivono che miseramente: l'arte istessa, la divina arte che tutto scopre, tutto rivela, non può che dare una sola e fuggevole immaginazione del proteiforme amore. Breve stagione. Se durasse, il cuore morirebbe nella esagerazione di un sentimento che è la follia. A poco a poco, con gradazioni impercettibili, madonna Isabella fu meno felice, meno innamorata; il sorriso fu più scarso sulla bocca, le braccia più fiacche nell'abbraccio, le labbra più gelide nel bacio, il palpito meno frequente nell'arrivo e nel distacco. Diomede Carafa, cieco, pazzo d'amore, non vedeva, non comprendeva. Madonna Isabella discendeva sempre più verso l'indifferenza che poi era il suo stato abituale e la sua naturale ferocia rinasceva per la tortura di quell'uomo. Ma Diomede Carafa soffriva e s'inebriava di quella sofferenza, piangeva e s'ubriacava di quelle lagrime, era ammalato e si consolava di quel morbo ora gelido, ora infuocato che gli consumava la vita; era tormentato, oppresso, disperato. ma si estasiava di ciò come i martiri cristiani del sangue che usciva dalle loro vene esauste. Isabella si mostrava con lui chiusa, dura, sprezzante e lui l'amava anche così, massimamente così; Isabella si faceva volubile, leggiera, accogliendo in casa i più bei cavalieri napoletani e lui, morendo di gelosia, amava Isabella per la gelosia che aveva di lei. Egli gettava pazzamente i suoi averi, obliava le prerogative della sua nobiltà, non conosceva più amici, non conosceva più parentado, non sapeva più nulla di obblighi o di diritti: Isabella, Isabella, amare Isabella. Fino a che un giorno tutta la verità gli fu palese come parola di Dio e seppe del proprio avvilimento, seppe del tradimento di Isabella con Giovanni Verrusio, amico suo e suo compagno d'infanzia. Egli nascose a tutti il dramma del suo spirito, sdegnoso di compianto. Il crollo immenso della sua felicità, la rovina tragica e nera dello splendido edificio non ebbero testimonio. Meglio così. Che vale il rimpianto? Che cosa è la parola compassionevole e glaciale? Foglie morte che il vento si porta via, ed il dolore rimane eterno. Invano egli errò, viaggiatore solitario e noncurante, per fiorenti paesi, invano chiese alle ricchezze, al lusso, ad altri amori, a feste stupende, l'oblio; invano egli volle innamorarsi delle vaghe creazioni dell'arte per ritrovare la pace. Dappertutto, in ogni paese, in ogni donna, in ogni fiore, al fondo dei vini generosi, nelle figure dei quadri, nelle figure delle statue, negli ondeggiamenti della musica, egli ritrovava Isabella. Il suo dolore non era più acuto e straziante, ma lento, lungo, stupefacente. egli sentiva la sua anima gonfiarsi di affetto ed i suoi occhi gonfiarsi di lagrime; egli provava il bisogno del sagrificio, del culto, dell'estasi ... - Dio, Dio - ripetette un giorno la stanca amica sua. Diomede Carafa fu vescovo di Ariano, prelato esemplare e amatore dell'arte. Leonardo da Pistoia, pittore, fu suo amico. Per sua ordinazione e per la chiesa di Piedigrotta dove giace il Sannazaro, il Leonardo fece il quadro bellissimo di S. Michele che atterra Lucifero. Lucifero vinto e bello e ancor folgorante, ha il volto di madonna Isabella. Ed è una donna il diavolo di Mergellina.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682516
Serao, Matilde 2 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
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E, passando di classe in classe, non solo il forestiere si accorge e si sorprende e rimpiange che fra il popolo napoletano, così intelligente, così vivido, così rapido, sia innumerevole il contingente di coloro che non sanno leggere, ma voi stesso, voi, napoletano, ogni volta che vi trovate di fronte a un ignorante, a un analfabeta, voi sentite il rammarico acuto di tanta barbarie e di tanta oscurità; e, talvolta, vi assale il ribrezzo di tanto oblio e di tanto abbandono, in cui è lasciata questa povera gente. E, ogni tanto, in quelle tristi interviste con qualche spettro della notte, che la malinconia della deambulazione notturna vi procura, in quegli incontri singolari e tetri, con un ragazzo della malavita, con un cercatore di mozziconi, con un caffettiere ambulante, voi udite il motto profondo, aspro, crudele, in cui il popolo napoletano riassume il suo profondo rispetto per la cultura e il dolore della propria ignoranza, crudele motto che emana dall'intimo dell'anima, come un rinfaccio, come amarissimo rimprovero alle classi più alte. Voi v'interessate al guaglione di mala vita, al fantomatico mozzonaro, al singolare caffettiere che gira come un fantasma, esso, dall'alba, per le vie napoletane e compiangete la sua sorte ed egli si compiange, così, crollando le spalle, filosoficamente. Ma tu sai leggere? - voi gli chiedete. Egli vi guarda, risponde: Signò, si sapesse leggere nun starria cca: starria a Palazzo . Per il popolo napoletano, chi sa leggere non può esser cercatore di mozziconi, venditore di ulive, ladruncolo notturno, ma può diventare Re o qualche cosa di simile al re, abitare la Reggia e non un tugurio o gli scalini di una chiesa, comandare gli uomini e non finire in carcere o all'ospedale. Centinaia, migliaia di bambini, di bimbe pullulano, si arrotolano, si aggrovigliano in tutte le vie, dalle più aristocratiche alle più popolari, creature seminude, scalze o malamente coperte o appena vestite: e non si sa donde vengano e dove vadano, non si sa a chi appartengano, come vivano, come muoiano. Eppure hanno madre e padre, queste misere bimbe questi bimbi miserelli e vorrebbero, questi genitori infelici, o privi di lavoro o provvisti di un lavoro mal remunerato, faticosissimo, durissimo, vorrebbero, questi genitori, mandare, in un asilo, in una scuola, queste creature delle loro visceri, vorrebbero che oltre il piccolo e rude pane del corpo, dato, ahi, con così rigorosa misura, fosse loro dato, da chi ne ha l'obbligo strettissimo, da chi ne ha il sacrosanto dovere, il pane dell'anima, l'istruzione. Desiderio insano! Mancherà, spesso a questa immensa folla di piccini e di piccine, di ragazze e di ragazzi, il modo come sfamarsi poichè, pare, la povertà napoletana sia molto pittoresca e i custodi dell'estetica adorano questa manifestazione possente e triste di dolore sociale: mancherà, senz'altro, il pane dell'anima, quello che dovrebbe dar frutto di bene intellettuale, di bene morale, mancherà senz'altro la istruzione. Vi è ancora fra il popolo, una istituzione strana e caratteristica: una specie di piccola scuola tenuta, da qualche donnetta, in un basso più spazioso degli altri: altre donnette, operaie, serve, lavandaie, stiratrici, vi portano i loro figliuoli e le loro figliuole, alla mattina, prima di andare al lavoro e pagano un soldo al giorno, le più facoltose, diciamo così, venti soldi, e quindici soldi al mese, le più sventurate. La donnetta che ha la scuoletta, non insegna nulla a tutte quelle creature: le tiene raccolte un poco, poi, le lascia scorazzare: le sgrida, sempre: urla, dietro loro: le sculaccia: pianti, strilli, singhiozzi: ma, infine, è responsabile, per un soldo al giorno, per tre centesimi, per due centesimi, di ogni bimba, di ogni bimbo, sino alla sera. E mi rammento, anche, la mia giovinezza, e un certo diploma di grado superiore che mi fu dato, per tre anni, mentre raggiungevo questo diploma, questa missione di dare il pane dell'anima alle figlie del popolo, continuamente rammentata, a ogni problema di aritmetica sbagliato: e infine toccato miracolosamente questo scopo del massimo diploma, l'obbligo del tirocinio di maestra, in una di queste scuole, ove accorrevano queste figlie del popolo, a cui io doveva insegnare a leggere e a scrivere E andai piena d'interesse, di gentile ansia segreta, di emozione, persino, a fare la tirocinante e mi trovai fra molte bimbe assai decentemente vestite, alcune con eleganza. Una per una le interrogai, queste figlie del popolo, chi fossero, donde venissero; e appresi, man mano, che eran figliuole di professionisti, d'impiegati, di negozianti, di bottegai, e fra settantadue scolare, una solamente, una, era una figlia del popolo, lacera, pallida, impertinentissima, intelligentissima, affascinante. Una! Più tardi, io sparvi dalla scuola, perchè avevo finito di fare la tirocinante: la piccola Buonfantino, indimenticabile al mio cuore tenerissimo, ne sparve, perchè morì, di tisi, a undici anni. Era una figlia del popolo, quella: ma la scuola non era fatta per essa E non vi sono scuole, a Napoli! Non ve ne sono! Ogni tanto, noi ci riuniamo, diamo un ballo splendido, con una lotteria di oggetti d'arte, tutta la grande società napoletana e la meno grande v'interviene e la Croce Rossa prende trentamila lire: ma le scuole mancano e migliaia di ragazzi e ragazze s'imputridiscono il corpo e l'anima nelle vie fangose. Non vi sono scuole: mentre noi per un mese, organizziamo una Kermesse enorme, con sessanta dame nei chioschi, e gli ottanta o novanta ciechi di Caravaggio, che hanno già ereditato due o tre fortune, ricevono venticinquemila lire. Non vi sono scuole: e altre dame della Società Margherita e io con esse, organizzano, organizziamo, conferenze, recite, gite, per aiutare ventidue o ventisette ciechi a domicilio, comprando loro un pianoforte o un fonografo o una biccicletta! Non vi sono scuole, a Napoli, e le maestre muoiono di fame e le ragazze e i ragazzi del popolo vanno al vizio, alla corruttela, al disonore al crimine: e vi stupite delle statistiche dell'onta, del delitto, a Napoli, quando dimenticate che non vi sono scuole, che invano qualche anima buona di assessore grida, perchè se ne aprano delle altre, mentre il goffissimo progetto del quartiere della bruttezza, a Santa Lucia, chiede un milione e duecentomila lire, poichè ciò fa comodo a un assessore qualunque! Non vi sono scuole, a Napoli, e questi cattolici che sono al Municipio di Napoli, non si vergognano di far perdurare questa cosa infame, che è l'analfabetismo, di cui tutti arrossiamo, innanzi non agli stranieri, solamente, che ne ridono ironicamente, beffandoci, ma innanzi agli italiani di Lombardia e di Piemonte. Non so da quanti anni si sta delirando e spendendo intorno al Maschio Angioino, sempre e la cancrena più ributtante divora il popolo napoletano, confitto nelle tenebre dell'ignoranza: e neppure i cattolici che da Cristo Signore Nostro avrebbero dovuto apprendere l'amore dei piccoli e degli oscuri, fanno niente. I socialisti domandavano la refezione scolastica: e avevano ragione, ma prima della refezione che andrebbe a figliuoli delle persone agiate, aprire delle scuole, aprirne altre cento, dappertutto, ecco quella che è la carità sociale, la solidarietà sociale! Viceversa, noi ci occupiamo se il lampadaro di S. Carlo toglierà la visuale a coloro che vanno in quarta e quinta fila: questione gravissima. Costoro che si agitano per questa cosa bizantina, sono pregati d'informarsi un poco, così, per sapere, quanti degli abitanti ordinarii delle carceri di San Francesco, di Sant' Eframo e di Santa Maria ad Agnone sanno leggere. Dopo, si covrano la faccia con le mani: se hanno un poco di rossore!

Racconti fantastici

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

Pagina 147

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683043
Bertelli, Luigi - Vamba 2 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
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Io sarò il signore e tu lo schiavo che io abbandono nel bosco... - Sì! Sì! - ha risposto subito. La mamma, con le mie sorelle e la signora Merope non erano ancora tornate; Caterina era a preparare da mangiare in cucina: e io ho condotto Maria in camera mia, le ho levato il vestitino bianco, e le ho messo il mio di panno turchino, perché sembrasse proprio un ragazzo. Poi ho preso la mia scatola di colori e le ho tinto la faccia da mulatto, ho preso un paio di forbici e siamo scesi giù nel giardino, dove ho ordinato allo schiavo che mi venisse dietro. Eravamo giunti in un viale solitario, quando rivolgendomi a Maria, ho raggiunto: - Senti: ora ti taglio i riccioli, come nel racconto, se no ti riconoscono. - La mamma non vuole che tu mi tagli i capelli! - ha risposto lei mettendosi a piangere. Ma io non le ho dato retta: le ho tagliato tutti i riccioli perché altrimenti non era possibile fare quel gioco. Poi l'ho messa a sedere su una pietra, vicino alla siepe, dicendole che doveva far finta d'essere smarrita. E mi sono avviato tranquillamente verso casa. Intanto ella urlava, urlava proprio come se fosse stato uno schiavo vero, e io mi tappavo gli orecchi per non sentire perché volevo seguitare il gioco fino in fondo. Il cielo era stato tutto il giorno coperto di nuvole, e in quel momento cominciarono a venir giù certi goccioloni grossi grossi... Quando sono entrato in salotto tutti erano a tavola ad aspettarci. Sulla tovaglia c'era un bellissimo vassoio pieno di crema e di savoiardi che mi hanno fatto venir subito l'acquolina in bocca. - Oh, eccoli finalmente! - ha esclamato la mamma vedendomi, con un respirone di sollievo. - Dov'è Maria? Dille che venga a pranzo. - Abbiamo fatto il gioco dello schiavo, - ho risposto. - Maria deve fingere di essersi smarrita. - E dove si è smarrita? - ha domandato la mamma ridendo. - Oh, qui vicino, nel viale dei Platani, - ho continuato, mettendomi a tavola a sedere. Ma il babbo, la mamma, la signora Merope e l'avvocato Maralli sono scattati in piedi, come se la casa fosse stata colpita da un fulmine, mentre invece tonava appena appena. - Dici sul serio? - mi ha domandato il babbo, stringendomi forte il braccio, e imponendo agli altri di mettersi a sedere. - Sì; abbiamo fatto quel giuoco del signore e dello schiavo. Per questo ho dovuto travestirla da mulatto; e io che facevo il padrone che l'abbandonava l'ho lasciata sola laggiù; poi viene la fata, che la conduce in un palazzo incantato, e lei diventa, non si sa come, la più potente regina della terra. - Nessuno ha più messo un boccone in bocca, dopo che ebbi detto questo, meno io. La signora Merope si torceva le mani dalla disperazione e diceva che la bambina sarebbe morta dallo spavento, che aveva paura dei tuoni, che le sarebbe venuta certamente una malattia, e altre esagerazioni simili. A sentirla, pareva che dovessero succedere tutti i guai del mondo per un po' di freddo e un po' d'umidità. - Brutto! Cattivo! Scellerato! - ha esclamato Virginia, strappandomi di mano i biscotti che stavo per mangiare. - Non la finisci mai con le birbonate? Che coraggio hai avuto di venire in casa e di lasciare quell'angiolo caro, laggiù. sola, al freddo e al buio? Ma che cosa ti viene fuori dalla tasca? - Oh nulla, sono i capelli di Maria. Glieli ho dovuti tagliare perché non fosse riconosciuta. Non ho detto che l'ho travestita da mulatto, con i capelli corti e la faccia nera? - Qui la signora Merope si è fatta pallida pallida, ed ha chinato la testa. La mamma ha cominciato a spruzzarle il viso con l'aceto, e piangeva e singhiozzava. Il babbo si è alzato per andare a prendere una lanterna. Che furia d'andare a cercare quella bambina! Nemmeno se fosse stata un oggetto di valore! Mi faceva stizza di veder la casa in iscompiglio per una cosa da nulla. Il fatto è che mi è toccato di smetter di mangiare per andare a far vedere in che posto avevo lasciato Maria. Era una vergogna sentire quello che dicevano di me; pareva che non fossi lì presente! Dicevano che ero un disubbidiente, uno sbarazzino, uno scellerato, un ragazzo senza cuore, come se le avessi tagliato la testa, invece dei capelli! Questo è il fatto nella sua semplicità. La signora Merope parte oggi per Bologna, perché non mi può più vedere, e perché ha piovuto mentre che la sua bambina era smarrita nel viale. E io che mi infradiciai tutto per andare a cercare Maria, non ebbi in ricompensa né baci, né abbracci, non ebbi una tazza di brodo bollente con l'uovo dentro, come lei, non ebbi un bicchierino di marsala con i biscottini, la crema e le frutte, né mi stesero sul sofà per farmi tante carezze. Neppur per sogno! Fui invece cacciato in camera come un cane, e il babbo disse che sarebbe venuto su per conciarmi per il dì delle feste. So purtroppo quel che vogliono dire queste minacce. Ma io feci le barricate, come nelle città in tempo di guerra, e non mi prenderanno che sulle rovine del lavamano e del tavolino da scrivere che ho messo contro l'uscio. Zitto! Sento del rumore... che sia l'ora del combattimento? Ho le provvigioni in camera, l'uscio è chiuso a chiave, ci ho messo davanti il letto, sopra il letto c'è il tavolino da scrivere, sul tavolino lo specchio grande. Ecco il babbo... picchia alla porta perché gli apra, ma non gli rispondo. Voglio star qui zitto zitto, come il gatto quando è in cantina. Oh, se per un miracolo un ragno filasse la tela, a un tratto, a traverso l'uscio! Il nemico crederebbe la camera vuota, e se n'andrebbe. E se volesse aprir per forza? Sento un gran fracasso! Spingono la porta... Andrà a finire che lo specchio cadrà, e andrà in bricioli, e dopo la colpa sarà mia, tanto per mutare.. ...Sempre così: è il ragazzaccio cattivo, è il famoso Gian Burrasca che fa sempre tutti i malanni... Roba vecchia!