Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandono

Numero di risultati: 11 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Antropologia soprannaturale Vol.I

625069
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

La denominazione adunque di filosofia o scienza teoretica è poco esatta, riuscendo a un dire teoria teoretica , e la denominazione di filosofia o scienza pratica non è pure senza inesattezza e ambiguità, convenendo anzi dirla filosofia o scienza o teoria della pratica (1). Pratica vuol dire azione, e perciò la pratica si può dividere in tanti modi in quanti si possono dividere le azioni. Se le azioni non si fanno a caso nè divise, ma molte insieme varie e congiunte, con regole a cui obbediscano, per conseguire qualche effetto, queste azioni diventano un' arte (2). Le arti adunque appartengono alla pratica , e le scienze appartengono alla teoria ; nè si devono mai confondere queste due cose. L' uso però ha ristretto il significato del vocabolo arte a segnare solamente un complesso di azioni ed abito di porle, dalle quali si ha qualche produzione o formazione esterna: e tali sono le arti meccaniche e le liberali. Ma delle azioni legate insieme a uno scopo, si dànno anche senza che producano e formino nulla di esterno; e tali sono le operazioni intellettive e morali: anche queste, perciò che sono azioni, appartengono alla pratica e talora si denominano arti . Così la logica si suol dire che è un' arte, e arte della perfezione fu intitolato un libro che tratta della morale bontà; sebbene, accuratamente parlando, la logica che s' insegna non è l' arte stessa, ma la scienza dell' arte del pensare, e il libro del Pallavicini è la scienza dell' arte, e non l' arte della perfezione. Altra cosa è dunque essere artista, e altra essere scienziato: chi sa la teoria dell' arti meccaniche non ne prese con questo l' abito, non sa l' arte; e il giudicare di pittura o di poesia o di altra arte liberale fu sempre tenuto per cosa interamente diversa dal saper dipingere o poetare. E può avervi un fortissimo e dirittissimo pensatore senza che abbia mai apprese le regole logiche; e l' uomo probo e virtuoso può ignorare la definizione della virtù: come per l' opposto non è forse vero che chi sa la dottrina morale per filo e per segno sia poi talora lontano assai dal renderla in pratica, e che un filosofo sia spesso costretto di dire: video meliora proboque, deteriora sequor ? Queste poche osservazioni soprabastano a fare notare la differenza dell' azione dalla cognizione , della pratica dalla teoria . La Teologia è scienza, e la Religione è azione: l' una è cognizione , l' altra è culto : l' una appartiene alla teoria, l' altra alla pratica (1). Il teologo è quello che conosce le dottrine intorno a Dio: ma l' uomo religioso è quello che conforma la vita a tali dottrine, ed è assiduo in dar opera al culto della divinità. Nè il teologo è sempre uomo religioso; nè l' uomo religioso è sempre teologo. La Teologia è quella scienza che tratta di Dio. Essa si divide in naturale e soprannaturale . La Teologia naturale è quella che tratta di Dio in quanto può essere conosciuto dalle forze naturali della ragione umana e questa è una parte della filosofia: la soprannaturale è quella che tratta di Dio in quanto è conosciuto soprannaturalmente, e questa si chiama strettamente Teologia. Noi dobbiamo render chiara questa distinzione, il che faremo nel capitolo seguente, stabilendo in esso i confini della filosofia o dottrina naturale, e mostrando per che via si stenda oltre que' confini la Teologia rivelata. L' uomo, nel conseguire le varie maniere di cognizioni di cui è capace, ha bisogno di alcuni mezzi, ed è limitato a certe condizioni. In ragione poi che questi mezzi più gli abbondano e che quelle condizioni meglio si adempiono, più l' uomo s' arricchisce di cognizioni. Noi supponiamo dati all' uomo i mezzi necessari al suo naturale sviluppo ed adempite quelle condizioni a cui è legato, quando cerchiamo i confini a cui può giungere il suo senno naturale, o, che è il medesimo, quando cerchiamo i confini della filosofia. Una di queste condizioni, per le quali l' uomo può svilupparsi, sono gli oggetti esterni che irritano i suoi sensi e vi cagionano le sensazioni: un' altra è de' segni (una lingua), coll' aiuto de' quali possa dirigere e fermare il suo pensiero negli astratti (1): una terza è una società dalla quale prende almeno degli eccitamenti al pensare, e nella quale si conservano e tramandano le cose una volta pensate. Ma dati all' uomo, o anzi alla umanità, tutti questi mezzi, quanto può ella procedere innanzi nel cammino della cognizione? Dove è il punto, al quale si deve fermare? Quali sono, in una parola, i confini della filosofia? Ciò che abbiamo detto nel primo capitolo, intorno alla natura della umana cognizione, ci spiana la via a trovare la risposta conveniente a questa domanda. L' uomo non percepisce se non delle cose sensibili. La percezione è la condizione richiesta a poter formarsi delle idee positive delle cose. Dunque l' uomo non può avere naturalmente idee positive se non di quelle cose che naturalmente fanno una impressione sostanziale ne' suoi sentimenti, ossia che egli percepisce . L' uomo non percepisce se non il mondo sensibile e l' anima propria; il primo, oggetto dell' esperienza esterna; il secondo, oggetto dell' esperienza interna. Dunque la cognizione dell' uomo non comprende altre idee positive se non quelle delle cose materiali e dello spirito suo proprio. Vi sono alcune operazioni della mente che l' uomo può esercitare sopra quelle idee positive primitive e da esse cavarne alcune altre: queste medesime operazioni possono essere ripetute sopra il prodotto delle prime; e di nuovo possono ripetersi sopra il secondo prodotto; e così via indefinitivamente. Le operazioni della mente di cui parlo, sono: 1 l' analisi, 2 la sintesi, 3 l' integrazione. Coll' analisi si scompongono le idee, e così di una se ne fanno molte. L' astrazione , che propriamente consiste nello scomporre formalmente le idee, cioè nel dividere essenza da essenza, non è che un ramo dell' analisi stessa. La sintesi compone e lega più idee insieme, e così fa nascere le idee complesse; e anch' essa può legarle formalmente , cioè di più essenze farne una sola, ovvero solo materialmente , quasi per una justaposizione. La sintesi e l' analisi non portano la mente nostra fuori del materiale delle idee positive che sono la base di tutto il loro lavoro: ma fuori al tutto delle idee che la mente possiede, quasi per salto, la mente viene tratta dalla facoltà della integrazione. L' integrazione è come una facoltà indovina: essa slancia la mente a nuovi oggetti non mai percepiti e, non potendone conoscere la natura, ne mostra però la necessità: cioè dalla cognizione dell' effetto ella conchiude alla causa, di cui non ebbero ancora nissun indizio i sensi; ella va sino alla causa prima, dal relativo va all' assoluto, e scuopre Dio (1). Ma questa facoltà divinatrice non può produrre però, come abbiamo veduto, se non idee negative : essa è fonte della Teologia naturale. I confini della Teologia naturale sono segnati nell' idea che naturalmente aver possiamo di Dio, già dichiarata più sopra (1). La facoltà integratrice dell' intendimento , cioè quella facoltà che ascende dall' effetto alla causa, è il fonte della teologia naturale, come ho detto, e il limite di questa potenza segna pure il limite della scienza a cui essa dà l' esistenza. Il principio della Teologia naturale è l' idea dell' essere in universale , idea che non fa noto l' essere reale se non inizialmente, e che si può dire vuota , perchè non contiene nessuna determinazione positiva del medesimo, senza materia, perfettamente formale. Questa idea, applicata all' universo che cade sotto i nostri sensi esterni ed interni, mostra in sè la necessità di una causa di questo universo, per siffatto modo che noi acquistiamo la persuasione della sussistenza di questa Causa. Il concetto di questa causa (non mai sentita sostanzialmente e però incognita al tutto nel suo modo di essere); l' analisi di questo concetto; i ragionamenti che sulla medesima s' istituiscono; le proposizioni singolari che se ne derivano; ecco tutta la Teologia naturale. Ella è una scienza ideale7negativa, com' è il concetto naturale di Dio sua base. Ora veniamo a quella che si dice Teologia rivelata . Io esporrò, con quella chiarezza che mi saprò meglio, le dottrine della tradizione cristiana intorno alla divina rivelazione, quanto sarà uopo all' intendimento di questo libro. Fra le cose da Dio rivelate dicono i teologi cristiani avercene di quelle che non eccedono i confini della ragion naturale, le quali però fu utilissimo l' essere rivelate per la troppa difficoltà che avevano di essere trovate dal senno naturale e con certezza e pure da errore. Il che anche se gli uomini avessero fatto, e l' avessero da sè stessi ragionando trovate, non l' avrebbero fatto però che dopo lungo spazio di tempo; quando, per la necessità che di quelle verità avevano, bisognava loro conoscerle fin da principio e sempre averle alla mano, se salvar si volessero. La rivelazione poi di questi veri alcuni teologi l' hanno chiamata formale , volendo essi esprimer con ciò che la forma o il modo onde queste verità si fecer palesi è soprannaturale, ma che le cose stesse, la materia di questo sapere non trapassa i limiti del naturale ragionamento. Per un' altra cagione furono rivelate altresì cose, a cui forse il senno naturale poteva giunger da sè, vale a dire perchè queste sono indivisibili da quelle altre di un ordine superiore che eccedono al tutto le forze dello spirito umano, stretto nel circolo delle cose naturali. Giacchè i soprannaturali misteri sono veramente un compimento delle cognizioni naturali, le quali ne sono come i lineamenti e gli sbozzi vuoti di quelli; e quelli come i colori che si mettono sopra le linee dei contorni, o come la carne con cui si rimpolpa e si adegua l' ossatura ignuda di uno scheletro. I veri soprannaturali insomma suppongono e si richiamano ai veri naturali: e a quel modo onde non si può percepire intellettivamente l' elemento reale delle cose se non si abbia insieme l' elemento ideale, così similmente non potrebbe l' uomo essere atto a percepire le cose misteriose della divinità se non fosse ragionevole, ossia se non avesse in sè l' essere ideale, mezzo d' ogni cognizione e percezione intellettiva. Ma dopo di tutto questo, noi vogliamo riflettere che ciò che divide e parte la teologia rivelata dalla naturale non è propriamente la rivelazione puramente formale , ma bensì la materiale . Perchè se non ci fossero state comunicate se non verità, le quali non eccedessero le forze naturali del nostro intendimento, queste non avrebbero per avventura avuto virtù di sollevare l' uomo a uno stato sopra natura; nè altro sarebbe stato se non un aiutarlo a formare più presto, più facilmente e con più sicurezza una teologia e una religione naturale, e nulla più. Iddio in questo caso non avrebbe fatto coll' uomo se non l' ufficio di un sovrano paziente; giacchè di sè non avrebbe mostrato o comunicato nulla più di quello che un savio umano potesse conoscere. Ora la persona che comunica delle notizie, è indifferente se resta ignota, e per chi riceve le notizie non c' è altro interesse che quello che nasce dalla qualità delle notizie stesse. Le cognizioni naturali adunque intorno a Dio, o comunicate agli uomini da qualche savio sorto nel mezzo di loro, o da un angelo, o da Dio stesso (restando questi nascosto), si restano le medesime e non fanno per questo che un ordine soprannaturale di cose sia in mezzo dell' umano genere costituito. E` adunque necessaria una rivelazione materiale , perchè s' abbia una Teologia rivelata che per la sua materia sia distinta dalla Teologia naturale . E qui conviene dichiarare meglio questa materia propria della Teologia rivelata: perocchè insorge facilmente una difficoltà sulla possibilità stessa di una tale teologia, che è questa. Noi non possiamo avere nuove cognizioni senza che abbiamo nuove percezioni , perchè, come abbiamo detto, la percezione è il fondamento di tutte le cognizioni positive che aver possiamo delle cose reali. Ora di Dio noi non abbiamo la percezione in questa vita, il quale, secondo l' insegnamento della cristiana teologia, non si vede che nella vita futura. Non avendo adunque nuova percezione, in virtù della rivelazione, come possiamo aver cognizioni veramente nuove e di un genere essenzialmente diverso da quelle della teologia naturale? Questo argomento dimostrerebbe la impossibilità di una teologia rivelata senza la percezione di Dio, quando non ci fossero altre cognizioni che le positive . Ma ciò che pochi osservano, e che pure è degno della più attenta osservazione, si è che vi hanno, oltre le positive, delle cognizioni che abbiamo chiamate negative o ideali7negative , e che pure sono vere e preziosissime. Ora è appunto questa maniera di cognizioni che viene accresciuta dalla divina rivelazione, anche in questa vita, e di questo accrescimento nasce la Teologia rivelata. Conviene che mostriamo come ciò possa essere: ciò che avviene al cieco nato che acquista il vedere, ci darà la via di farci intendere. Se un cieco nato ricuperasse la vista, egli acquisterebbe, con questo nuovo senso, delle percezioni interamente nuove, di cui prima non si poteva formare imagine alcuna. Egli in queste nuove percezioni della luce e de' colori avrebbe acquistato il fondamento di una serie di cognizioni veramente positive che prima non aveva. Egli allora, con queste nuove sensazioni della vista che venne acquistando, si spiegherebbe tutti i molti discorsi che aveva sentito prima intorno agli oggetti colorati e lucenti. Ma prima di acquistare la facoltà di vedere, quali dovevano a lui sembrare que' discorsi? Intendevali egli? o erano a lui del tutto oscuri e nulli? Que' discorsi, che udiva fare intorno la luce e i colori, non erano prima nè intieramente chiari per lui, nè intieramente oscuri, sicchè fossero composti di suoni al tutto vani e nulla significanti. Egli è certo che delle parole luce , e colore nulla ne intende: nulla ne intende, dico, di positivo ; ma tuttavia intende che esser devono qualche cosa, intende che debbono esser cose che agiscano sullo spirito e vi producano delle sensazioni: non intende la specie di sensazioni che sono, ma intende il genere delle sensazioni, a cui appartengono. Intende ancora che quella specie di sensazioni che formano, non ha nulla di simile colle sensazioni de' suoni od altre da lui sofferite; poichè per intendere questo gli basta osservare che anche le varie specie di sensazioni, che egli patisce, sono tali che non hanno fra loro nessuna similitudine, cioè che i suoni sono interamente diversi dagli odori o da' sapori, non convenendo che in un elemento ideale e non reale, cioè nel genere ideale (1). Tutte le cognizioni insomma che egli acquista della luce, con sentire a parlare di lei, non sono tolte dalla sensazione reale della luce stessa, della qual sensazione egli è privo; ma sono tolte dalla relazione di una cosa che si chiama luce colle sue idee generiche e universali: il che è ciò che mi fa dar loro l' appellazione di cognizioni ideali7negative . La luce dunque e i colori nella loro specie rimangono per lui perfettamente incogniti, perchè non ne riceve l' azione reale nel suo senso, che sola può produrre le idee specifiche. Questo non aver l' idea specifica della cosa è la parte oscura, misteriosa, inintelligibile dei discorsi che vengono fatti dagli uomini intorno alla luce e ai colori. Ma dopo di ciò, egli acquista tuttavia, come dicevo, della luce delle idee generiche e universali. Se non sapesse altro se non che questa luce è qualche cosa, materia di sensazioni che egli non possiede, egli ne saprebbe oggimai qualche cosa e tanto da poter pensarvi. Ma egli oltracciò può conoscere molte altre proprietà della luce e dei colori, risultanti dalle relazioni di essa luce e colori colle cose, di cui ha la percezione, o colle sensazioni di cui è in possesso. Egli può sapere che luce e calore si trovano spesso insieme, e che col calore del sole che egli prova gli altri che hanno sana la vista provano quell' altra sensazione che si chiama della luce (1). Può sapere che la luce è un corpo leggiero e celere (secondo la credenza comune); giacchè di corpo, di leggerezza e di celerità anche egli ha idea: e può eziandio calcolare le leggi di questa celerità e leggerezza, se egli fosse matematico, come il celebre cieco Nicolò Sanderson che spiegò nell' Università di Cambridge l' ottica di Newton. Può sapere che un fascicolo di luce si spezza in sette fascicoli, passando per un prisma di vetro o per altro mezzo prismatico, perchè il prisma di vetro o di acqua e le idee di passaggio e di divisione sono a lui note per gli altri sensi. Insomma può conoscere intorno alla luce un infinito numero di verità, quante possono essere per avventura le relazioni ch' ella si abbia coll' altre cose che cadono sotto i sensi da lui posseduti e colle sensazioni dei medesimi. Questa è la parte chiara per lui della idea negativa della luce e dei colori. Ora dall' esservi in un' idea negativa , quale è quella che può avere un cieco de' colori, della oscurità e della luce, dell' inintelligibilità e insieme una generale e ideale concezione, nascono i misteri : cioè delle proposizioni che, sebbene chiare nei loro termini , tuttavia nel loro nesso riescono inesplicabili e misteriosi per quelli che hanno puramente idee negative delle cose, delle quali si ragiona. Così, per esempio, è un vero mistero per un cieco nato questa proposizione che gli dice un veggente, e gliela dà per vera:« Io percepisco una torre prima di avvicinarmi ad essa, ma essendo ancora lontano da lei più di trecento passi, e mi accorgo che sulla torre stanno delle campane appese, e sulla sua sommità una palla e una croce«. - Il cieco intende benissimo il significato di questa proposizione, egli intende ancora il senso di tutte le parole di cui ella è composta, perchè sa che cosa voglia dire percepire , che cosa è torre, distanza, campane, sommità, palla, croce. Ma che per ciò? Intende egli per questo come una simile affermazione sia possibile? Non gli sembra anzi un assurdo il percepire una cosa che nè si palpa, nè si odora, nè si assapora, nè si ode? Questo per lui è al tutto impossibile: non può imaginarsi in nessun modo la spiegazione di questo enimma: egli può solo crederlo a chi l' afferma, intenderlo non mai. Per questa ragione l' astronomia pel cieco nato è un puro mistero e non può impararla se non per via di fede a quelli che veggono le stelle e gli parlano de' loro apparimenti e movimenti. Ora lo stesso avviene circa la teologia rivelata, relativamente alla parte sua materiale . La rivelazione ci narra cose nuove di Dio, cioè di un Essere che noi non percepiamo in questa vita, di che la oscurità e la chiarezza insieme di cui si mescolano le verità rivelate, e l' esser la fede alla rivelazione la base di tutta la rivelata teologia. Questa dottrina è nelle divine Scritture perpetuamente insegnata. Esse non dànno all' uomo, finchè si trova in questa vita, il potere di percepire pienamente Iddio stesso, che è chiamato un Dio nascosto nell' antico Testamento; e nel nuovo è rappresentato in un padrone che, dopo aver distribuiti diversi capitali da trafficare a' suoi servi, se ne è partito per un viaggio in lontane regioni. Era questo un vero della tradizione più remota, come ce ne fa fede quella sentenza che si sta nell' Esodo: « Nessuno vedrà Iddio e vivrà« (1). » E S. Giovanni dice espressamente: « Nessuno ha mai veduto Iddio: l' Unigenito Figlio che è nel seno del Padre egli l' enarrò« (2). » Questo ultimo passo di S. Giovanni non può essere più acconcio all' uopo nostro, e alla similitudine del cieco, di cui abbiamo fatto uso. Egli ci dice manifestamente che, non avendo nessun uomo veduto mai Iddio, quello che ci narrò tante cose intorno alla divinità da lui veduta e a noi nascosta, è quegli che sta nel seno di Dio, che è Dio stesso, che è l' Unigenito Figliuolo di Dio Padre, e a cui perciò sono aperti e palesi tutti i tesori della divinità, in cui comunica. Tale è la rivelazione che venne fatta di una cosa a noi non percettibile, cioè di Dio, da tale che l' ha percepita: rivelazione che necessariamente deve riuscirci parte chiara e parte oscura e inesplicabile, che deve contenere per noi de' meravigliosi misteri, ai quali non possiamo altro che credere, come il cieco è astretto di credere a quelli che veggono, intorno alle proprietà e alla natura de' colori e della luce. Che cosa dunque più ragionevole, che più necessario della fede? Che più ragionevole che il cieco presti fede al veggente circa gli oggetti della vista? Egli deve certamente per l' udito raccogliere la narrazione che gli è fatta intorno alle cose colorate e visibili, perchè questa è l' unica via di venire in qualche cognizione, sebbene oscura e misteriosa, di esse. Ora rispetto alla divina natura i ciechi siamo noi, il veggente, che ci parla è Dio stesso, è Gesù Cristo suo Unigenito. Tale è il sistema della fede cristiana, della fede cieca: nulla di più ragionevole, nulla di più evidentemente necessario della fede cieca. Dal non percepire noi Iddio in questa vita, ma solo sentire ciò che ne vien parlato da chi lo vide, deve succedere necessariamente, che in ciò che ci vien narrato di Dio a noi appariscano delle oscurità e dei misteri. Ma questi lungi dal togliere o diminuire la ragionevolezza dell' assenso che noi diamo alle divine cose, sono anzi nuove prove della verità delle cose rivelateci: perocchè è la ragione quella che ci mostra la necessità, che a quelli che sono privi di un senso debbano riuscir misteriosi e inesplicabili que' discorsi che odono intorno agli oggetti di quel senso di cui mancano (1). D' altra parte questa fede ingrandisce infinitamente l' uomo, perchè lo avvisa che egli è limitato nelle sue percezioni e che vi hanno delle nature, degli esseri, vi ha un essere infinito, che si toglie intieramente al suo sentimento. Questo lo allarga nelle immense regioni che egli non conosce, ma che però con questo viene a sapere che esistono, e lo impedisce di restringere miseramente il tutto a sè stesso, chiudendosi nella sua piccola sfera, quando ha una natura creata per non avere limiti di sorte alcuna. L' Infinito poi volle in quest' atto di fede prestato alla sua parola, a questa sua parola misteriosa e inesplicabile, ricevere dall' uomo il più accettevole sacrificio: perocchè con quel medesimo atto l' uomo e nega sè stesso, confessando la propria limitazione, e confessa Iddio, riconoscendolo, anche non visto, per quell' infinito Essere che pur è. La materia della Teologia rivelata adunque primieramente è formata di alcune proposizioni intorno a Dio che, relativamente a noi, fino che siamo in questa vita, non riescono che in cognizioni ideali negative; e le quali comprendono necessariamente de' misteri, cioè delle affermazioni, nelle quali, sebbene s' intendano i termini, presi in separato, e anco si concepisca il nesso de' medesimi, tuttavia non si sa spiegare nè intendere come questo nesso sia realmente tale, perchè l' intendere come esigerebbe la percezione dell' oggetto, di cui si afferma, la quale a noi manca. Oltre queste verità poi, la Teologia rivelata comprende un' altra specie di verità, cioè le verità non razionali, ma positive ossia storiche, come la creazione, l' incarnazione, e altre storie sacre, cioè quei fatti che Iddio ha operato cogli uomini, i quali fatti non sono in sè stessi necessarii, ma dipendenti dalla divina volontà e arbitrio. Le idee o concezioni di questi fatti sono, almeno in gran parte, positive e non eccedono la cognizione che si fonda sulle percezioni che naturalmente abbiamo delle cose. Ma ciò che è soprannaturale in essi si è l' essere realmente avvenuti questi fatti, poichè l' avvenir loro, piuttosto che il non avvenire, dipese non da una legge della natura, ma da un decreto della divina volontà. E oltre ciò il miracoloso che in essi si racchiude, come pure il sistema dei medesimi, i fini o l' intendimento, a cui furono ordinati e operati. Si può adunque dire che la Teologia rivelata, in quanto si divide dalla naturale, compongasi di due maniere di verità, cioè: 1 di verità necessarie , le quali sono nella concezione dell' uomo ideali7negative ; e 2 di verità contingenti , la concezione delle quali è positiva , cioè tale di cui hassi la percezione. Ciò che abbiamo detto fin qui della fede, base della Teologia rivelata, rende chiara quella verità che si contiene nel sistema della cristiana teologia, cioè: « che la fede può aversi anche in un uomo che non si trovi attualmente in istato di grazia« (1). » E veramente le idee o concezioni che porge la rivelazione, posto che sieno communicate agli uomini, non hanno niente che ecceda la facoltà apprensiva della ragion naturale, appunto perchè tutto ciò che hanno in sè di soprannaturale è negativo, cioè non è che indicato con segni o idee naturali e note, come in ragion d' esempio in un problema determinato d' algebra le incognite sono espresse con quantità perfettamente cognite in un certo modo legate insieme fra loro. Sicchè per questa parte ciò che la rivelazione propone a credere può essere ricevuto nelle menti di tutti gli uomini che non hanno ancora la grazia, come in vero a tutti gli uomini fu ordinato da Cristo che fossero predicate. E certamente tanto quelli che assentono alla dottrina esternamente rivelata che vien loro annunziata, quanto quelli che la rifiutano, la concepiscono, la ricevono egualmente nelle menti, e intendono egualmente quelle proposizioni di verità che vengono loro poste innanzi: e appunto perchè egualmente concepiscono quelle verità le giudicano altresì, e gli uni hanno merito portando d' esse un giudizio favorevole, gli altri hanno demerito portandolo contrario. La semplice concezione adunque di queste verità non eccede i confini della ragion naturale, perchè non si dànno con esse nuove percezioni, nè per avventura nuove idee specifiche, ma solo si scuopre ed insegna nuove relazioni delle idee già note, un nuovo nesso onde risultano delle verità recondite, le quali pur non si veggono, come diceva, in sè stesse, ma ne' loro elementi, o termini co' quali sono quasi come in cifra e in enimma disegnate (1). Oltre la concezione delle verità rivelate per avervi fede in un uomo egli deve formare il giudizio col quale assente e dà credenza alle medesime. Or anche questo può esser fatto dalla naturale sua facoltà di giudicare e potenza di volere: giacchè la rivelazione esterna a cui presta l' assenso può essere concepita, come diceva, colle forze naturali: e a concezioni che non eccedono la virtù naturale di conoscere il dar l' assenso non è atto soprannaturale e non eccede la natural virtù del volere: non è atto molto diverso da quello che fa il cieco nato, per continuarci colla nostra similitudine, quando crede alle parole di quelli che gli parlano de' colori. Egli è bensì vero che il termine ultimo a cui finisce quest' atto è oggetto soprannaturale, ma, come diceva, l' esser concepito colle potenze che s' usano per le cose naturali gli toglie il dare, che farebbe se fosse altramente, all' atto del credere una soprannaturale energia. Perocchè l' atto di questa fede non prende l' elemento soprannaturale che implicitamente, all' istesso modo come chi dicesse« io credo a tutto ciò che afferma Tizio«; col quale atto se Tizio afferma cosa sopra natura, viene a darsi fede anche a questo per un cotal conseguente, senza però bisogno che queste cose soprannaturalmente sieno da colui concepite come tali (2). Indi è che le Divine scritture dicono: « anche i demoni credono« (3) »: mostrando con ciò non averci bisogno della grazia semplicemente per credere. E Gesù Cristo dice: [...OMISSIS...] . Le verità proposte dalla rivelazione esterna da credersi agli uomini sono, come abbiamo veduto, parte ideali7negative (verità necessarie, il dogma della Trinità, ecc.), parte positive (verità contingenti, la venuta di Cristo, ecc.), cioè tali di cui si ha o si ebbe la percezione, come della Chiesa, dell' umanità di Cristo, ecc.. La concezione di queste verità, abbiamo detto, non eccede le forze della ragione naturale, e l' assentire alle medesime non eccede le forze della naturale volontà. Ma tutto ciò non basta però ancora a caratterizzare e distinguere compiutamente la fede naturale dalla fede soprannaturale. Non è ancora indicata quella nota che tocca la sua essenza, cioè che indica che cosa sia questo essere di soprannaturale, che ha la fede di che parliamo. Perocchè se v' ha una fede naturale, può darsi anche un amore naturale, forse in grado minore ma pure un amore, possono darsi anche delle opere naturali e buone fatte in conseguenza di quell' amore. Egli è adunque da ricercarsi in che essenzialmente differisca la fede soprannaturale dalla naturale; ed essendovi due fedi, così due giudizi pratici, due amori, due maniere di operazioni naturali e soprannaturali, è da vedere qual sia quella essenza del giudizio pratico, dell' amore e dell' opera soprannaturale, della quale è privo il giudizio pratico, l' amore e l' opera naturale. Per veder questo, che cosa è, io domando, l' ordine naturale? che cosa è un' operazione dell' uomo naturale? - Quella operazione che l' uomo fa colle forze della sua natura, o spontaneamente, o stimolato e mosso da degli agenti naturali, come sono tutte le cose che compongono quest' universo e che per la via de' sensi influiscono sull' uomo, e un' operazione naturale. Tutte le cose dunque dell' universo sensibile che ci circonda, e noi stessi in esso, con tutte le mutue azioni che derivano da questo complesso di enti e i loro effetti, è ciò che forma quello che si chiama l' ordine naturale . Se dunque una cosa estranea a quest' ordine, una cosa superiore al medesimo, se Dio in una parola entra colla sua azione in quest' ordine, con una azione dico di tal fatta che non è l' azione di nessuna delle forze degli esseri creati; quest' azione di Dio introdotta nell' universo è un elemento soprannaturale, cioè d' un genere suo proprio, un elemento inconfusibile colla natura, e infinitamente superiore alla medesima. Ora applichiamo adunque questa nozione all' operare morale dell' uomo, secondo il cristiano sistema. Quando l' uomo concepisce delle verità, assente praticamente alle medesime, ama le azioni a quelle rispondenti, le produce e fa tutto ciò colle sue forze, o mosso dai naturali stimoli della bellezza naturale di quelle verità e di quelle azioni, dai beni che n' aspetta, o da altri eccitamenti esteriori quali si sieno; allora egli opera naturalmente perchè nessun agente estraneo alla natura delle cose create, nessuno stimolo divino, che eccede (la natura) ha influito in lui e lo ha mosso. E converso, se noi, la nostra volontà subisce l' azione di uno stimolo diverso da tutti quelli degli oggetti naturali, soprannaturale in una parola, verso il quale ella è passiva, dal quale è sollecitata e mossa, in tal caso comincia in noi uno stato nuovo, noi siamo entrati nell' ordine soprannaturale, in quell' ordine che nella lingua della cristiana teologia si appella l' ordine della grazia : allora la nostra azione, sebben nostra, ma per lo stimolo che l' ha mossa si suol pur chiamare, e a ragione, soprannaturale. Di questo stimolo parlano le sacre carte, quando narrano la conversione di S. Paolo: « Ti è duro, dice Cristo, calcitrare contro lo stimolo« (1); » e nel discorso di Santo Stefano al Concilio degli Ebrei, questi sono chiamati duri, che resistono al pungolo dello Spirito Santo: « Duri di cervice e incirconcisi di cuori e di orecchi, voi sempre resistete allo Spirito Santo, come i padri vostri, così anche voi« (2). » E conviene osservare, che se non si trattasse qui di un' azione interna di Dio nell' anima dell' uomo, di un' azione reale ; mai dentro l' uomo esser ci potrebbe niente di veramente soprannaturale, e lo spirito dell' uomo non sarebbe mai veramente sollevato a Dio e con lui congiunto, per quali si fossero gli emblemi esterni, i segni, le parole, le cerimonie, i riti. Tutte queste operazioni esteriori, dove nulla fosse operato nell' animo umano di nuovo e di diverso da ogni cosa naturale, sarebbero segni di religione e apparenze, non mai formerebbero una religione interiore nell' uomo, diversa veramente dalla naturale. Quindi l' operazione di Dio nell' interiore dell' uomo, questa operazione di grazia è un dogma del Cristianesimo, è propriamente quel dogma fondamentale su cui il Cristianesimo stesso si erige come sopra sua base, è quel dogma col quale la religione soprannaturale comincia, è l' essenza di essa religione soprannaturale, quella essenza che ricercavamo, di cui non v' è nulla di simile nella natura, nulla di simile in una fede, in un assenso, amore ed operazione naturale. Tutte le divine Scritture sono piene di questa grande verità, e lo stabilirla è lo stesso scopo delle Scritture, perchè è il medesimo che lo stabilire una religione soprannaturale. [...OMISSIS...] E Gesù Cristo mostrò che non si potea essere Maestro in Israello senza conoscere questa operazione interiore di Dio, quando parlando con Nicodemo dello spiritual nascimento che avviene per essa, gli disse: « Tu sei maestro in Israello ed ignori tai cose?« (2). » Pelagio poi, che il primo insorse nella Chiesa contro l' operazione interiore della grazia, sebbene ammetteva tutti gli esterni doni di Dio e la rivelazione stessa, a malgrado di questo fu stimato distruggere l' essenza del Cristianesimo e non ne lasciare che il nome vuoto di significato, perocchè toglieva via l' azione interna di Dio nelle anime. « Hanc debet Pelagius , » dice S. Agostino parlando di questa reale interna azione, « gratiam confiteri, si vult non solum vocari, verum esse Christianus (3) ». L' essenza del Cristianesimo è d' essere una religione soprannaturale, e l' essenza d' una religione soprannaturale dell' uomo è la reale azione della grazia nell' anima umana (4). Che diremo dunque del protestantesimo che nei nostri tempi s' è risoluto a negare i misteri cristiani, e a negare qualunque azione soprannaturale nell' interiore dell' uomo, riducendo tutto così alle forze della natura? Che egli non è più cristianesimo, ch' egli non ha più diritto di tenerne il nome, che i suoi seguaci sono usciti dalla grande comunione della cristiana società. Ma gli stessi cattolici non insuperbiscano per questo, non sieno soddisfatti del solo aver questo nome: io veggo fra noi stessi una quantità di persone irrigidite nella carità, dissipate, estenuate nella fede, a cui mancan quasi le forze da sollevarsi oltre il confine della natura, e che pare non sappiano oggimai più spingere i lor pensieri a concepir pure una potenza invisibile sì ma tuttavia infinita, posseditrice dell' uomo, la qual signora di sua natura v' insinui luce e calore, e non sappiano più credere a questa potenza: delle persone insomma che parlano e pensano alla religione, ma i lor pensieri e le parole non si ravvolgono mai che al di fuori da quel sacrosanto segreto dove ha la religione stessa sua sede e regio abitacolo: e parlano e pensano i riti del culto o la morale umana, o gli effetti salutari che dalla religione ridondano nella società: ma tuttavia la religione stessa, che in una divina real virtù ed efficacia consiste, che Agostino appella interna, occulta, mirabile ed ineffabile (1), non veggono mai, non la prendono mai veramente ad oggetto de' loro pensieri e de' loro religiosi ragionamenti. Il perchè oggimai, chi non vuole ingannarsi a sapere, non se alcuno si chiama cristiano, ma se è veramente, conviene far uso di questa tessera:« Chi dà fede ad una non ideale ma reale azione di Dio nell' anima per la quale questa sia mossa alla fede, carità e buone opere, questi tiene la cristiana dottrina; ma colui, il quale ammettendo anche l' esterna rivelazione, non presta però vera credenza a quella interna divina operazione, non professa punto il cristianesimo« (2). La fede che abbiamo fin qui descritta è bensì una vera fede come la chiama il Concilio di Trento, ma non è necessario che sia sempre anche una fede viva . Della fede viva parlò il Concilio Arausicano quando definì contro i Semipelagiani la necessità della grazia anche per il principio della fede (3): della fede viva parlò pure il Concilio di Trento, quando fece questo canone: [...OMISSIS...] V' ha dunque una fede che è opera di Dio nell' uomo, colla quale, se l' uomo non resiste colla sua mala volontà, viene conferita la grazia della giustificazione, e onde germoglia la nostra eterna salute. Di tal fede è che fu detto: [...OMISSIS...] . L' esito adunque di questa fede è la salute eterna (7). Cristo poi enumera e dichiara gli effetti di questa fede viva , e anche in generale della fede, nel capo XIV di S. Giovanni. Il primo di questi effetti è una specie di onnipotenza che vien data al vero credente: [...OMISSIS...] . Il secondo effetto è l' efficacia che da una tal fede acquista l' orazione, mezzo universalissimo di ogni grazia: [...OMISSIS...] . Questi due primi effetti della fede vengono dalla fede stessa (2), ma il terzo effetto non viene dalla fede come fede, ma dall' esser fede viva , cioè dall' aver congiunta la carità. Perciò Gesù Cristo continua a dire, così esponendo il terzo effetto che sono le buone opere: [...OMISSIS...] . Il quarto effetto è l' unione con Dio per mezzo dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole sono dichiarate le proprietà di questo ultimo effetto, cioè una consolazione , una perseveranza , un amore incessante della verità , un lume o cognizione tutta soprannaturale, una vicinanza , un possesso . Che cosa è dunque che fa sì, che l' assenso nostro a quelle verità sia soprannaturale? qual' è quella nota, quel carattere pel quale un assenso naturale si distingue da un assenso soprannaturale? Se noi consideriamo la differenza fra la fede morta e viva (l' assenso che si dice dato naturalmente alla verità rivelate, e l' assenso che si dice dato alle medesime soprannaturalmente) nei suoi effetti, essa consiste nell' essere questo assenso pratico ed operativo ; e nell' esser quello puramente speculativo e sterile : il primo perciò scompagnato da opere buone, e il secondo di opere buone fornito. [...OMISSIS...] E ecco in che modo descrive questo Apostolo i due assensi, l' uno solo speculativo e l' altro pratico, che si dà alle verità rivelate colla nostra fede: [...OMISSIS...] . Nel quale passo si vede come l' addentrarsi col pensiero nella legge divina, il meditarla, è il mezzo pel quale l' uomo rende pratico il suo assenso; mentre il solo crederne, quasi di volo, la verità, e così leggermente vedutala passar oltre, non può metterla nel cuore profonda, e farle di là portare i buoni effetti delle opere. Ma perchè questa meditazione della legge? questo riguardare in essa con attenzione e con assiduità? Certamente a percepirne la bellezza, a suscitarne in noi l' amore: questo amore, che come è effetto del meditarla, così è anco dello stesso meditarla insaziabilmente cagione: perchè noi non possiamo torci dal vagheggiare ciò che amiamo; ed è per alcune faville d' amore che spande nell' animo che la divina grazia ci rende meditativi della santa legge e delle cose divine, nè mai sazi di contemplarle. San Paolo, descrivendo la fede viva, la chiama « una fede che opera per la carità (2). » Ed è questa quella fede di cui dice che «« vive il suo giusto« (3). » Le opere buone adunque, la carità che le produce, e quel giudizio pratico che è il principio della carità (4) son tre caratteri che accompagnano la fede viva o soprannaturale. Io credo però che la fede che rimane in un uomo battezzato abbia qualche cosa di particolare, e in un senso più proprio ancora si possa chiamare morta . Il Battesimo ha impresso in lui il carattere indelebile , che rende tanto più colpevole e riprovata la sua incredulità. Oltracciò, s' egli è stato messo alla grazia, se ha ricevuto lo Spirito Santo, io credo probabilmente che nel suo spirito rimangano delle traccie profonde di questi doni soprannaturali, le quali aggravano la sua condanna: traccie che si possono in qualche maniera chiamare soprannaturali, perocchè trassero l' origine da un soprannaturale principio, e che forse in qualche maniera autorizzano a nominare in lato senso soprannaturale ancora quella fede morta che gli rimane. Riassumendo ciò che abbiamo detto, la Teologia dunque appartiene alla teoria, la Religione alla pratica: il principio della teologia è l' essere ideale, il principio della religione è l' essere reale: la Teologia appartiene all' ordine delle cognizioni, la Religione all' ordine delle azioni. La Teologia naturale è composta di cognizioni negative e a cui giunger può il naturale ragionamento degli uomini: la Teologia rivelata è composta di cognizioni negative anch' esse, ma tali a cui, quanto alla parte materiale della rivelazione, il naturale ragionamento non giunge, ma sono positivamente comunicate agli uomini. La Teologia rivelata si oppone adunque alla naturale, come si oppone il naturale (razionale) al positivo . La religione naturale all' incontro si oppone alla religione soprannaturale, come si oppone il naturale (l' azione naturale) al soprannaturale (all' azione soprannaturale). Stabilendo noi questo concetto della religione soprannaturale, egli è evidente che non facciamo consistere la sua base in nulla di esteriore all' uomo: ma che poniamo il fondamento nell' uomo interiore come lo chiama S. Paolo (1). Così Gesù Cristo avvertiva che questa religione (e la chiamava regno di Dio per la possanza che esercita Iddio nelle anime) non si poteva additare in nessun luogo esterno, nè dire: ecco qui, ecco là il regno di Dio; perchè stava al di dentro dell' uomo. [...OMISSIS...] Nè solamente la Religione soprannaturale è al di dentro dell' uomo, ma anche in generale il concetto stesso di religione sparisce e si annulla, ove si tolgano via gli atti di un culto interiore che presti l' uomo alla divinità. Quindi i riti esterni del culto per sè soli non formano, in modo alcuno, una religione, se non vi si accompagnano i sentimenti dell' uomo. Questi sentimenti poi non possono non essere appoggiati a una credenza, a delle cognizioni e opinioni intorno le cose divine, in somma ad una qualunque teologia. Questa dottrina poi che sottostà alla Religione, questa teologia, vera o falsa, che è sempre dalla religione supposta, può risultare o di pure idee negative, o essere anco vestita di simboli, rappresentazioni, miti. Ma questo addobbamento e talora questo ingombro di figure e immagini non costituisce che la parte accessoria e accidentale della teologia medesima, una parte che ha bisogno della prima, come il ricamo suppone il drappo, sopra cui si rileva, o il colore suppone il corpo, dal quale viene rimbalzato agli occhi di chi lo mira. Le quali cose ho voluto toccare per rimuovere quei falsi concetti di religione che furono proposti ne' nostri tempi. La quale religione è poi assai agevol cosa combatterla, quando si descrive per quella che non è, e, creato un ente odioso o frivolo o assurdo, si denomina poi esso medesimo Religione: come vediamo nei nostri tempi avvenire senza posa ne' libri di quelli che o la religione non istudiano o non l' amano. Ecco pertanto i due falsi concetti che furono dati della religione negli ultimi tempi, concetti a cui la distruzione di ogni Religione assai facilmente seguirebbe, se potesser valere. Beniamino Constant la ridusse al solo sentimento religioso, e la divise così dalla dottrina, da una teologia che deve servire di sostegno e giustificazione di quel sentimento, giacchè questo sentimento deve essere ragionevole: altramente l' esser cieco, sarebbe il medesimo, che renderlo dispregievole e arbitrario. Vittore Cousin (1) la ridusse alla parte simbolica della teologia, separando da questa le pure concezioni e denominando queste filosofia : non riflettendo che un simbolo cessa anco di essere simbolo, se nulla segna o rappresenta; e che quindi i simboli non possono mai stare dalle pure concezioni divisi, sebbene queste possano (fino a certo segno) star divise da quelli. Oltrachè egli dà il nome di religione a quello che non è veramente che una teologia . La Religione non è dunque una pura speculazione, una pura teologia: molto meno è ammasso di simboli. La Religione non è nè pure un puro sentimento , scompagnato da concezioni e credenze . Ma la Religione è un culto interiore; essa è« degli atti interni di adorazione e preghiera che si porgono alla divinità, e che nascono in conseguenza d' idee e credenze (talora involte in imagini e simboli ), dalle quali idee , quasi da luce calore, escono i sentimenti che sono poi cagione prossima di quelle interiori azioni di culto: le quali azioni (pel natural nesso dell' interno dell' uomo coll' esterno) si producono anche all' esterno e prendono la forma di preghiere vocali, riti e cerimonie religiose, che, quando sono abbracciate da tutto un popolo, diventano popolari e pubbliche«. Non si possono scompagnare e dividere gli elementi che formano la Religione, senza distruggere la Religione medesima. Essa non esiste se non allorquando esistano le azioni interiori di culto, e perciò queste sono la sua base e, se si vuole così, la sua essenza: ma esse azioni sono legate necessariamente : 1. ai sentimenti; 2. alle idee; e accidentalmente (se mi si permette di così dire, che meglio si direbbe per una loro conseguenza ) ai riti esteriori. La Religione adunque aggiunge alla Teologia , è qualche cosa più di lei, è cosa che la perfeziona e compisce, riducendola alla pratica, come l' azione reale compisce il disegno mentale, e l' idea di una casa che hassi a fabbricare colla erezione stessa della casa viene adempita. Non convien dunque straziare il concetto della Religione, separandolo da quelle parti che gli sono essenziali o concomitanti o accessorie. Se tutti per tanto gli elementi indicati entrano nel concetto generale della Religione, ove poi si discenda al più speciale della religione soprannaturale , scuopresi un nuovo elemento che conviene aggiungere ai precedenti, e che forma la differenza, per la quale la soprannaturale religione dalle altre naturali si divide e distingue: e questa è quella azione reale che Dio stesso opera nello spirito dell' uomo. Il perchè questa religione abbraccia di più della naturale; è quell' elemento divino che si suole appellare col nome di grazia , è quello che corona e compisce tutta la serie degli altri elementi, e reca questo tutto , per così dire, che religione si nomina, all' ultimo suo perfezionamento. Il perchè gli elementi che entrano a formare il concetto della religione soprannaturale, riassumendoli qui tutti, sono i seguenti: 1. Una Teologia , ossieno delle idee intorno alla divinità (1). Non è poi essenziale che queste idee sieno vestite di simboli e imagini. 2. De' sentimenti religiosi, nati in virtù di quelle idee. 3. Delle azioni religiose e interiori, cioè di culto. Queste azioni vengono naturalmente a prodursi anche al di fuori in riti e cerimonie, per le quali nasce il culto esterno (2). 4. Un' azione divina , che congiunge lo spirito umano ad intima e reale unione colla divinità. Recherò in prova di questa tesi quello che io credo il più autorevole raccoglitore della cristiana tradizione, S. Tommaso d' Aquino. Eccone la dottrina. Le potenze dell' anima, dice S. Tommaso, sono molte; ma l' essenza dell' anima è unica: quelle dunque sono diverse da questa, ma da questa derivano come tralci da un unico ceppo. Come poi l' essenza dell' anima è il principio comune delle potenze, così le potenze sono altrettanti principii delle varie maniere di operazioni che alle singolari potenze convengono. Ora le operazioni o azioni son buone o cattive, morali o immorali; e questa bontà o malizia delle azioni si deve riferire e riportare ai principii delle azioni stesse: quindi le potenze sono la sede delle virtù e dei vizii. Ma nell' ordine soprannaturale la grazia per sè considerata non è già una virtù od un vizio particolare, ma bensì il principio e la radice di tutte le soprannaturali virtù (1). Il perchè la grazia deve informare e perfezionare lo stesso principio delle potenze, cioè l' essenza dell' anima, giacchè le singolari potenze sono solamente la sede delle virtù singolari, e non di ciò che è il comune fonte di tutte. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Fermiamoci a sola quest' ultima parola di creazione che si applica dalle divine Scritture all' effetto che fa nell' uomo la grazia. S. Giacopo dice: « Volontariamente ci ha generati colla parola di verità, acciocchè siamo un cotal principio di una creatura sua« (3). » Nelle quali parole è mirabile quanto chiaramente sia espressa la nuova esistenza che riceve l' uomo dalla grazia. Non si contenta di dire che diventiamo per la grazia una creazione di Dio, ma si bene dice il principio di una creatura, per esprimere che è tutto nuovo ciò che pone la grazia, fino il principio dell' uomo dalla grazia rinnovato: e non dice diventiamo , ma siamo , cioè cominciamo ad essere , come le creature che ricevono l' essere dalle mani del Creatore, le quali pur allora sono , non trapassano da uno stato all' altro, non diventano diverse da quello che erano prima. E questo è parlare costante degli scrittori del nuovo Testamento, massime di S. Paolo. Egli afferma che noi siamo creati in Cristo Gesù (1): parla dell' uomo nuovo creato nella giustizia e nella santità della verità (2): e ripete frequente che siamo creature nuove (3). Non si poteva trovare una parola più vera di questa, più acconcia a esprimere l' operazione mirabile della grazia nella essenza dell' anima umana (4). Nella essenza dell' anima adunque, nell' IO è la operazione della grazia: in questo IO che è l' identico soggetto di tutte le potenze, perchè io medesimo che penso, sono quello altresì che vuole, che ama, che patisce, che opera: diverso è l' atto del mio pensare da quello del mio volere, diverso è il mio patire dal mio fare; ma non diverso, ma sempre identico e unico sono IO, a cui tutti questi atti appartengono, come a loro soggetto e principio. Conviene pertanto ascendere alla concezione di questo sentimento sostanziale, radicale e comune alle potenze tutte, che col nome di IO si segna; e allora solo si ha concepita quella essenza dell' anima, di cui parliamo, e dove in prima si eseguisce la mirabile operazione della divina grazia. Dottrina cristiana è che l' anima sia il soggetto della grazia in quanto essa appartiene alla specie delle nature intellettuali o razionali (5). Indi è che la grazia non è propria che dell' uomo, e non degli esseri inferiori: essa è qualche cosa di più eccellente a tutto ciò che ha l' uomo per natura; e perciò perfeziona l' uomo nella parte sua più elevata, sollevandolo via più su. Ma or da questa dottrina, che la grazia influisca immediatamente nell' uomo in quanto egli è intellettivo, riceve nuova luce una verità filosofica di molto valore, cioè che« l' intelletto, propriamente parlando, meglio che una potenza si deve chiamare un elemento della essenza dell' anima umana«. Ciò che non meno è conforme alle dottrine dell' Angelico, che alle ricerche ideologiche da me tentate e rese pubbliche. Il che gioverà che veggiamo in un distinto paragrafo. Che questo sia pensiero dell' Aquinate, si può rivelare dal seguente ragionamento: L' anima umana è di una specie diversa da quella de' bruti pel solo intelletto . Ora, secondo l' Angelico, il fondamento della specie delle cose è la loro essenza . Dunque l' intelletto appartiene all' essenza dell' anima umana. La proposizione minore di questo sillogismo è dottrina espressa dell' Angelico dottore. [...OMISSIS...] e non per qualche potenza solamente e per qualche accidente, appunto perchè è intelligente. Questa dottrina poi consuona al tutto con quella che io ho esposta nella Ideologia . Tra le essenze delle cose io ho messo in primo luogo quelle appunto che chiamo specifiche , perchè costituiscono le specie delle cose (2): ed è di queste che parla S. Tommaso. E facendoci in particolare alla intelligenza umana, io ho dimostrato che questa intelligenza non è che la visione costante dell' essere ideale ; che l' essere ideale, collo starsi presente e quasi affisso perpetuamente allo spirito nostro, crea in lui la ragione la quale non è altro che la potenza di usare dell' essere mentale, giacchè ogni ragionamento non è altro, ridotto all' espressione sua semplicissima, se non un' applicazione, un uso che fa il nostro spirito dell' essere ideale, di questa idea maravigliosa che è l' idea di tutte le idee, o secondo la frase aristotelica, la specie di tutte le specie ; poichè ciò, per cui ogni altra idea è idea, è per esservi mescolata la concezione dell' essere, tolta la quale, è tolta ogni idea, ogni pensiero (1). Ora se l' intelletto è formato da una visione permanente, non si dà in lui discorso da una cosa a un' altra; ma la sua indole è quella di avere il guardo fisso e immobile sempre a quel medesimo oggetto: il che non è proprio delle potenze. Perocchè la potenza , come indica il suo nome, esige una certa sfera, nella quale si muova, passando da uno stato all' altro, da quello di mera potenza a quello di atto, e cessando da questo, senza punto cessar essa nè distruggersi: il che è proprio, fra le potenze intellettive, della ragione . L' intelletto all' opposto è perfettamente immobile, e, se non gli viene mutato l' oggetto, egli per sè nè si rimuove da quel guardare equabilmente in esso, nè può in alcun modo rimuoversi o veder altra cosa, consistendo esso stesso in questa immobilità, per legge di sua natura (2). L' azione adunque della grazia nell' anima è un' azione nella parte sua intellettiva, è l' intelletto che nell' uomo viene accresciuto con quell' azione; e per questo alcune espressioni delle divine Scritture sembra quasi che parlino di un intelletto nuovo che l' uomo acquista mediante la grazia. Quando il reale Salmista diceva, a ragione di esempio: « Dammi intelletto e imparerò i tuoi comandamenti« (3); » non era che gli mancasse l' intelletto comune agli uomini tutti, ma dimandava quell' intelletto che aggiunge la grazia. Neppur dimandava egli un aumento della potenza della ragione , perchè questa gli veniva rinforzata e rinnovata per sè stessa, quando l' intelletto, da cui ella nasce, fosse invigorito e accresciuto: e perciò dice:« imparerò i tuoi comandamenti«; parole che esprimono appunto l' ufficio della ragione che è quello di ragionare e discorrere sulle cose e rilevarne i loro rapporti. Più ancora è chiara questa domanda del principio intellettivo, essenza della umanità, in queste altre parole del medesimo salmo: « dammi intelletto » (questa è l' essenza dell' anima intellettiva) «e io scruterò la tua legge » (questa è la ragione rinforzata che ne consegue), «e la custodirò in tutto il mio cuore« » (questa è la efficacia dell' amore che si aggiunge sempre a quella cognizione, non fredda, ma tutta calda, che si ha per grazia) (4). L' analisi delle idee dimostra, che il primo elemento intellettivo che concepir si possa in una natura, è la visione dell' ente. Per ciò, ove questa visione mancasse, non rimarrebbe più in quella natura niente d' intellettivo e di razionale (1). Un' anima, ove non fosse nulla d' intellettivo e di razionale, sarebbe un' anima irragionevole, qual' è quella dei bruti. Ciò posto, in Ideologia non vi hanno che due sistemi, l' uno che fa nascer l' uomo animale bruto e che gli dà la potenza di diventar ragionevole, di diventar uomo; questo fu il sistema de' sensisti: l' altro che fa nascer l' uomo uomo, cioè ragionevole; questo è il sistema che ammette congenita nello spirito umano l' idea dell' essere perchè non v' ha nulla d' intellettivo prima di questa idea; sicchè per lo meno conviene ammettere d' innato questa idea, acciocchè nell' uomo ci abbia l' elemento intellettivo. L' assurdità del primo di questi due sistemi si pare da sè stessa. Il secondo solo poi è compatibile insieme col sistema del cristianesimo, il quale suppone sempre che l' uomo sia uomo, cioè dotato del principio intellettivo fino dai primi istanti della sua esistenza. La Religione cristiana suppone che fino da quei primi istanti egli sia altresì suscettibile di accogliere la grazia in sè medesimo, il che è quanto dire, di partecipare della congiunzione colla divinità. Ora abbiamo veduto nell' articolo precedente che la grazia opera immediatamente nel principio intellettivo dell' uomo e esalta questo principio, l' illustra, lo reca all' intima unione coll' Essere Primo, che, nobilissima natura come è, non può comunicare immediatamente se non con ciò che vi ha di più nobile nell' uomo, con quell' elemento razionale, del quale S. Agostino non trovava nulla di più elevato, fuori che lo stesso Dio, e che riconosceva come un raggio della stessa divinità (2). Sebbene l' azione della grazia si operi nella parte intellettiva dell' anima, tuttavia essa è un' azione non ideale , ma reale . La distinzione dell' azione ideale dalla reale è quella stessa che passa tra l' idea e la cosa : l' azione ideale è quella che accompagna le idee nella mente, la reale è l' azione delle cose sussistenti. L' idea è fredda e non è un agente , ma un oggetto : la cosa è un agente, ha forze sue proprie. L' idea non è che una cosa possibile, una possibilità, un primo iniziamento della cosa: ma la cosa è una realità, una sussistenza, una cosa non solo iniziata, ma compita per modo che ha ricevuto l' essere in sè stessa. Non ci inganni il parerci che in molti casi grande sia la potenza delle idee. Convien riflettere che, quando si tratta di idee positive cioè di idee di cose, di cui abbiamo avuto la percezione, di cose che hanno agito sui nostri sensi, allora all' elemento intellettuale e ideale si mescolano degli altri elementi reali. Una cosa che ha realmente agito sopra i nostri sentimenti, lascia nei medesimi le reliquie della sua reale azione; e da questo residuo di azione reale si deriva la potenza che sembrano avere su di noi le idee positive delle cose. Si consideri quanto questo vestigio o effetto, che lasciano in noi le cose reali che hanno operato nei nostri sentimenti, valga a muoverci e a eccitarci. Primieramente quando la cosa reale, che supponiamola cosa buona (delle cose male si può dire il medesimo, rivolgendo il discorso in opposito), eccitava i nostri sentimenti ad appetirla, allora la nostra volontà fu mossa fortemente, ella se ne è dilettata, ha fortemente voluto. Questa volontà che fu così una volta mossa, si conserva piegata e inclinata di amore verso quella cosa; ella si ricorda di avere amato, di avere goduto; vorrebbe amare, vorrebbe godere ancora: la volontà in tale stato è già deliberata, non ha bisogno di forte spinta a ciò; l' idea della cosa non le serve già per darle movimento, ma ricordarle di eccitare in sè stessa quella grata percezione, per dirigere e mantenere quel suo movimento. Questa piega, questa mozione abituale della volontà è bensì mantenuta e pressata invece che dalla idea (possibilità della cosa) dalla memoria della percezione (1), e degli affetti dilettevoli, de' godimenti di cui questa fu alle volte accompagnata: ma la memoria ossia il ritenimento della percezione non è l' idea, è qualche cosa di più reale, di una impressione lasciata in noi dalla cosa reale, la quale impressione colorisce, per così dire, e incarna la pura idea. Si aggiunge alla piega della volontà e al vestigio che rimane in noi della percezione avuta, il giocare della fantasia o imaginativa, la quale ha virtù di risuscitare quel vestigio e rinnovare la percezione sensitiva . Poichè la fantasia, come ho mostrato, non è che un senso interiore, pel quale l' anima, come stimolo interno, eccita nell' organo sensorio dei movimenti simili a quelli che furono in lui eccitati dagli stimoli esterni dietro ai quali seguitano le sensazioni: sicchè le imagini o fantasmi sono vere sensazioni e simili di natura alle percezioni sensitive. Or anche questa della fantasia è azione reale e non ideale, e si aggiunge alle idee, nascendo contemporaneamente con esse. Quindi è che si spiega quella potenza, che pare sì smisurata, delle idee nell' uomo. La idea della ricchezza, a ragione di esempio, quante reminiscenze, quante imagini non richiama! E in quelli che ne hanno la passione, quanto decisa e fortemente piegata non è la volontà! Che se si spogliasse l' idea della ricchezza di ogni imagine, di ogni reminiscenza, di ogni affetto per lei contratto; se non se ne avesse che una pura idea astratta, come dicono, e come diciamo noi, negativa; se non si conoscesse se non per un segno, per una parola, come la si amerebbe? Che attrattive avrebbe mai una tale ricchezza per noi? Quanto non sarebbe fredda e nulla al muoverci una tale idea di ricchezza? Le idee dunque, per sè sole, sono fredde, e tanto più fredde e inefficaci a muovere la nostra volontà, quanto più sono astratte e negative, cioè tali che non ci dànno la rappresentazione positiva della cosa, ma ce la segnano solo e contraddistinguono (2). Le idee ci fanno semplicemente conoscere le cose, e il semplicemente conoscerle non è ancora l' esser noi congiunti con loro, nè il soffrire da loro un' azione sostanziale, cioè che venga dalla loro sostanza in noi prodotta. L' idea non è propriamente un' azione, ma il termine di un' azione: nell' idea quindi l' azione è finita, il moto non si propaga di più. Tutt' all' opposto è di un agente a noi applicato: in questa congiunzione di noi con un ente sussistente che in noi agisce, c' è l' atto in atto, per così dire, non l' atto già finito; e qui noi lo troviamo in quel momento, nel quale l' atto è vivo per produrre il suo termine. Or dunque distinta così l' azione ideale dall' azione reale, e veduta la inefficacia di quella e la viva efficacia di questa, diciamo che la operazione divina della grazia, sebbene si compia nell' intelletto, tuttavia è un' azione reale . Questa differenza fra l' azione ideale e l' azione reale, è quella stessa che pone la divina Scrittura tra la legge di Mosè e la grazia di Gesù Cristo. Di nessuna cosa è così sollecita la divina Scrittura quanto di farci notare questa distinzione, e dimostrarci quanto la legge di Mosè fosse inefficace per muovere la volontà dell' uomo, e quanto efficace fosse la grazia di Cristo. La ragione di questa inefficacia è appunto questa, cioè che la legge non faceva che presentare alla mente delle idee , la fredda cognizione dei doveri: ma la grazia di Gesù Cristo aggiunge a queste idee una forza che elle per sè non hanno, le infiamma, le rende veramente possenti nell' uomo. Egli è con ciò che S. Giovanni mostra quanto Gesù, il Legislatore nuovo, vincesse Mosè, il legislatore antico, in eccellenza e quanto sia più sublime la legge nuova sopra la legge vecchia. [...OMISSIS...] Tutta la lettera di S. Paolo ai Romani non è che un mirabile commentario di questa verità fondamentale dell' Evangelio. Il non aver distinta l' azione ideale dall' azione reale travolse i Pelagiani nel loro errore, che loro impedì il distinguere la legge dalla grazia : e quindi negarono la grazia perchè, non potendo concepirla, non sapevano risolversi ad ammettere altro che la sola legge , una cognizione del bene, ma non un aiuto interiore e possente che rendesse attiva e vivace questa cognizione. E veramente S. Agostino non negò loro che la grazia si potesse chiamare anche col nome di dottrina ; perocchè, operando essa nell' intelletto, ricever può anche questo nome. Ma ciò che negò loro fu, che questa dottrina fosse pura dottrina, puro e freddo conoscimento: era dottrina che teneva della percezione, che toccava, che produceva un sentimento, un' anima nuova piena di virtù e di forza da operare. [...OMISSIS...] La giustizia consiste nel dare a tutti il suo: la virtù consiste nell' adesione della volontà [all'] ordine dell' essere. Chi non vive secondo quest' ordine, chi non dà a tutti il suo, è vizioso e ingiusto. Ora quest' ordine richiede che noi stimiamo e amiamo Iddio per quello che [egli è], principio e fine di tutte le cose, l' essere stesso, il necessario, l' assoluto. Questo è il capo di tutto il sistema morale, come l' Essere divino è il capo dell' universo, il perno su cui tutto si mantiene e muove. Ma questo Essere, che deve esser l' oggetto d' un infinito amore, e verso cui dobbiamo esaurire tutti gli affetti del nostro cuore che non può amare nessun' altra cosa se non per lui, come per lui ella esiste, nessuno l' ha mai veduto, mai percepito. Egli è rimosso da questo mondo, egli si tiene occulto e invisibile agli occhi nostri: noi non ne abbiamo che una idea, e una idea negativa; ella è composta questa idea della relazione di Dio colle creature, ma appunto per questo le creature stesse ricorrono alla mente, si mescolano nel concetto di Dio, e ci mettono a pericolo di dare ad esse quell' adorazione e quell' amore, che noi dovremmo riserbare al solo Creatore. Una idea pura, negativa, senza percezione della cosa, senza rappresentazione nè imagine, è languida e fredda per sè stessa, non ha virtù di mettere in noi un efficace e vivo sentimento. Intanto sotto ai nostri sensi è continuamente l' universo creato: egli gl' inebria con tutte le sue delizie, li rapisce con tutta la sua vaghezza, li incanta, li distrae, li assorbe con tutta la sua infinita varietà e fecondità. Tanti beni, tutti sensibili, tanti mali, pure sensibili (perocchè anche questi cooperano colla loro vivissima molestia a renderci più avidi e più perduti dietro ai beni), esercitano in noi un' azione tutta reale , tutta efficace, contro la quale non ha schermo il nostro cuore che sembra simile a galeotto di leggera barchetta nuotante in mezzo alle onde immense di un oceano tempestoso. Come mai adunque quella forza che può venire all' uomo da quella tenue e sottilissima idea della invisibile e incomprensibile divinità, varrà a vincere gli impulsi delle passioni sommosse e gli eccitamenti di tanti beni umani presenti, visibili, irruenti continuamente sopra i suoi sensi, e, in una parola, esercitanti nel sentimento dell' uomo un' azione realissima? Come l' amore di questi beni, così vicini e attivi, sarà minore, più debole e cedente all' amore di quel Dio rimoto, che l' uomo nè pur positivamente conosce, perocchè la idea negativa non che dia il sentimento della cosa, ma non dà nè pure una vera cognizione della sua natura? Come insomma questi due amori, delle creature e del Creatore, potranno essere subordinati, quando vengano in collisione fra loro, per forma che quello a questo ubbidisca? (1). E questa collisione, nello stato presente della umanità, è continua. Si vede nei sensi dell' uomo una inordinazione manifesta: le sensazioni gli promettono più che non possano attenere. Non c' è uomo, neppure fra i mondani e alieni dalla religione, il quale non riconosca che le sensazioni illudono; che questa illusione viene dissipata dalla realtà; che questa « realtà delle cose », come confessava un uomo che se n' era voluto scapricciare, è « trista e fredda (2) »; e che è piuttosto il gioco della fantasia che abbellisce il futuro quello che seduce e imbaldanzisce l' uomo di speranze, che non la realtà del godimento presente, circoscritto, breve, avvelenato di segreto angore. E quindi la perpetua confessione che si ha dalle labbra di quelli che pure nella illusione e della illusione stessa vivono; cioè la confessione di Salomone: [...OMISSIS...] . Che dunque nelle sensazioni vi sia un principio illusorio, una inordinazione (perocchè questo è una inordinazione, l' infondere una vana speranza), è una verità di fatto, testimoniata dagli uomini di tutti i partiti e di tutte le opinioni. Ella è quella verità che agli uomini, i quali estinsero la morale nel piacere e fecero della sapienza un' arte di vivere con maggior copia di dilettazioni, suggerì lo strano sistema di pascere l' uomo di una continua illusione e di raffrenare i suoi appetiti appunto per questo di poter così maggiormente godere, tementi che, col procacciarsi solo tutti i diletti reali, l' uomo si disingannasse delle cose sensibili e svanisse per lui quell' errore, giudicato da lor fortunato, col quale il senso solleticato moderatamente promette, ove gli si dia più e più, di pervenire a un paradiso d' interminabili voluttà, e ripete l' antichissima menzogna: « Eritis sicut Dii ». E in quest' opera della seduzione e dell' inganno che viene da' suoi sensi all' uomo, ha gran parte la volontà dell' uomo, così piegata, aggirata e determinata a voler conseguire una felicità assoluta e piena, chè senza questa non gli pare di poter reggere: e quindi, ove non n' abbia una reale, essa precipita a crearsene una colla immaginazione e la trova appunto nelle cose sensibili, soli beni reali che a lei presenti la natura. Che se la volontà non avesse già quest' abito e questa irresistibile piega che la porta a volere un bene assoluto e infinito; e il senso non avesse in sè quella inordinazione, ma la sensazione non imbaldanzisse l' uomo a sperare e promettersi da lei più di quanto può mantenere; in tal caso l' uomo sarebbe sì inclinato alle creature, ma non istrabocchevolmente e inordinatamente, nè farebbe di ciò onta al Creatore, col mettere le creature nel posto suo e amarle come bene finale. E l' amore, apprezziativamente sommo, del Creatore potrebbe sussistere, sebbene più languido, senza venire in collisione con quello delle creature. In tal caso, fino che l' uomo fosse privo della vista di Dio, sarebbe imperfetto e limitato, non però reo per questo necessariamente, nè disordinato, come non può non essere nella condizione, in cui egli si trova presentemente. Egli è adunque impossibile alle forze naturali dell' uomo l' amare Iddio, di cui ha solo una fredda idea , a preferenza delle creature, di cui ha la percezione , e il raffrenare, il metter ordine, con quest' alto amore, all' amore seducente delle creature. E questa ragione del percepirsi, del vedersi gli uomini, e non Dio, apporta S. Giovanni a dimostrare, esser più facile l' amore del prossimo che quello di Dio: [...OMISSIS...] . La morale adunque alle forze naturali dell' uomo è impossibile, almeno per quella parte che riguarda Iddio: e come l' universo, privato di Dio, è senza principio, senza sostegno che il regga, non si può concepire; così la virtù morale, mozza di quel rispetto che riguarda Iddio, è troncata della sua parte capitale, è morta, è nulla per se stessa. Perocchè finalmente tutti gli amori verso le creature debbono terminare in Dio attualmente per essere perfetti, e debbono terminare in Dio virtualmente, debbono almeno non contraddire all' amor di Dio, per non essere delitti. Confessano questa impossibilità della morale religiosa i figliuoli stessi degli uomini. Non parlo di quelli che non hanno pudore di scoprirsi manifestamente inimici dell' Essere Supremo, i quali mostrano col fatto loro che non sanno levarsi ai doveri morali che hanno Dio per oggetto. Parlo di quelli che riconoscono e confessano la esistenza di un Creatore e conservatore del tutto, e che ne parlano con riverenza; parlo di quelli che sono i più dotti, che più s' affaticano nella ricerca della verità, che si mostrano più avidi di cognizioni e che fanno dei sistemi di morale. Tutto questo sapere, tutte queste notizie del loro intelletto valgono forse a sollevarli a Dio? Questo Dio si fa loro anzi così alto, che disperano di arrivarlo giammai. E veramente manifestano una segreta disperazione di conseguire la parte religiosa della morale quei tanti scrittori moderni che, con pensieri pieni di umana benevolenza, sicchè in leggere i loro scritti si prova una grata sensazione, e una cotal nobiltà di concetti vi si gusta per entro, pure sono tutti solleciti di schivare, siccome scoglio, le idee religiose, di restringere tutta la morale alle relazioni degli uomini fra di loro e, lasciato da parte non solo Dio, ma ben anco in gran parte l' uomo individuo, non parlano che di una morale sociale, come essi la chiamano, quasi che la morale non fosse più che una certa decenza del vivere esteriore, un certo pudore, o a dirlo più francamente, una certa finissima finzione. Molti di questi scrittori riducono la morale agli interessi umani, non difficili per vero ad amarsi: molti la ripongono nei sentimenti naturali; e nè pur questi prescrivono cosa impossibile. La religione però la descrivono sempre come una cosa tutta di diversa natura dalla morale, una cosa indipendente da questa, come questa la vogliono indipendente da quella. Insomma la relazione che l' uomo ha con Dio e i doveri essenziali che ne conseguono è una pagina che interamente cancellano e radono dal codice de' doveri: segno certissimo di una cotale disperazione che entra loro nell' animo di adempiere sì sollevati doveri, e pur chiarissima confessione del sentirsi mancar le forze a vincere quella potenza che esercita su di essi la continua percezione e azione delle cose reali esteriori e che li strappa e travolge da quella altezza, a cui la tenue e solo abbozzata idea di Dio, qual l' abbiamo pure, impone con autorevolissimo e severo comando. Quello che dissi dell' idea di Dio, impotente nelle nostre menti a muoverci in quell' amore che a un tanto Essere si conviene, può dirsi delle idee astratte della giustizia. Ogni qualvolta tutto ciò che vi ha di bello in un' azione non è altro che la giustizia, e l' azione contiene tutte le altre parti contrarie e ripugnanti ai nostri sentimenti, quell' azione per l' uomo naturale ha un' arduità insuperabile. Non è già che non sia autorevole quella idea del giusto, non è ch' ella non intimi chiaramente all' uomo ciò che è giusto e onesto; egli glielo intima con ogni chiarezza, e questa intimazione è sì severa, sì assoluta, che l' uomo ben capisce come nè pure la distruzione dell' universo sarebbe ragione atta a scusare l' infrazione della legge; niente insomma potrebbe mutare o la deformità o l' eterno bello di quella azione. Ma tutto questo addita una pura idea, sicchè è attissima a insegnargli ciò che deve fare, ma dopo ciò non è però che una pura idea, ella non ha alcuna forza reale, ella non può di più che pronunziare una sentenza: l' uomo in cospetto di questa idea si sente fiacco, impossente, reo e nulla trova che il rialzi dalla sua fiacchezza e dalla sua reità. Questa autorità e questa impotenza delle idee della giustizia, divise che sieno da ogni altro elemento reale, è stata sempre intesa, sempre sperimentata, sempre confessata da tutti gli uomini. Fra le stesse frivolezze delle scene comiche si manifesta questo gran vero, questo vero fatale, un doppio sentimento, di approvazione che riscuote la giustizia veduta (idea della giustizia), e di assoluta impotenza quando si viene al fatto. Il comprovano questi eleganti versi di Plauto: [...OMISSIS...] . Il « video meliora proboque, deteriora sequor » di Ovidio è un detto reso comune per la sua notoria verità; e esprime benissimo [la differenza] fra il veder le norme coll' intelletto, al qual fine basta l' azione ideale (l' idea in noi), e il seguirle colla volontà, al quale fine la volontà ha bisogno di essere mossa da un' azione reale , da uno stimolo che realmente la solletichi e impella. E qui è anche la spiegazione di quella terribile sentenza che ha pronunciato S. Agostino sulle virtù del gentilesimo, quando ha detto: « che quelle virtù si riducevano a essere de' vizii, vinti con altri vizii maggiori«; » per esempio, la intemperanza frenata dall' avarizia, la incontinenza doma dall' ambizione o dalla vanità, la crudeltà repressa dalla vana gloria. Aveva veduto il grande uomo che gli antichi moralisti, disperati d' indur gli uomini ad amare la virtù puramente per sè stessa, vi avevano opposti degli emolumenti umani, dei fini secondarii; che l' onesto e il retto si operava nel mondo allora che fosse accompagnato con delle reali utilità, e dove di esterne utilità venisse a sprovvedersi la virtù, erano forse tutti presti gli uomini a cantar i notissimi versi di Bruto: [...OMISSIS...] La grazia non fa solamente l' effetto di impellere nuovamente l' umana volontà al bene morale, come uno stimolo esterno che, dato il suo colpo, si ritira, senza incorporarsi stabilmente in noi. Iddio, con quell' azione che si chiama grazia, si unisce realmente con noi e permane con noi unito, sicchè in noi è per la grazia qualche cosa di divino che prima non esisteva, congiunto e quasi concorporato colla essenza dell' anima nostra. [...OMISSIS...] Questa azione divina, continua e immanente della grazia nell' anima, dà all' anima una stabile energia, la solleva a un potere che prima non aveva; il che è quanto dire gli aggiunge una nuova potenza, in virtù della quale può quello che non può per sè sola, senza la grazia. E S. Tommaso trova questo procedere di Dio coll' uomo sapiente e soave e tutto conforme a quella savissima dispensazione con cui tutto governa, e muove le sue creature al loro ultimo bene. Infatti sembrerebbe che Iddio avesse potuto spingere l' uomo alla operazione del bene con degli attuali eccitamenti, o anche con una continua azione sopra di lui, ma tale che in lui non fosse creata per questo una nuova attività, ma agisse Iddio come causa efficiente , e l' uomo come un oggetto tutto passivo verso di quella causa. Non volle: ma preferì di unire all' uomo la sua virtù, come una causa formale ; cioè dispose dare alla essenza dell' anima una nuova forma, una nuova attività; il che è quanto dire di creare in lei una nuova potenza di operare, rilevando così la natura stessa umana a uno stato e condizione di eccellenza intima e soprannaturale. [...OMISSIS...] Vi sono nello spirito delle potenze che hanno bisogno di esser mosse da altre potenze, che in ragione di attività sono ad esse superiori: per cagione di esempio, l' intelletto ha bisogno di essere mosso dalla volontà o dall' istinto. Vi sono delle altre potenze le quali non sono mosse da una potenza superiore, ma in esse è il principio del moto. Queste le ho chiamate principii attivi . Non tutte le potenze sono principii attivi, sebbene tutti i principii attivi o no, come ha detto San Tommaso, PRINCIPIA ACTUUM, si possano dire, per quanto mi pare, potenze. I principii attivi sono tanti quanti sono i sentimenti; perocchè la osservazione mostra che a ogni potenza passiva ne corrisponde una attiva, a ogni sentimento un istinto, ossia un' attività conseguente. Ora nell' uomo, fino che resta nello stato naturale, vi sono due sentimenti essenzialmente diversi, cioè soffre, è passivo da due nature che agiscono in lui e di diversa natura, i corpi e l' idea dell' essere . Indi due attività, cioè l' istinto animale e la volontà (1). Ora, operando Iddio con un' azione reale nella essenza dell' anima, vi produce un sentimento nuovo, e quindi un principio nuovo di agire che è quello che viene chiamato l' istinto dello Spirito Santo . Questo sentimento è essenzialmente diverso dai due primi, perocchè l' agente o stimolo, che lo produce, è essenzialmente da' due primi diverso; egli non può nascere da que' due primi; non v' è facoltà nell' uomo che il possa muovere o suscitare, ma si suscita e nasce da sè stesso improvviso, o più tosto da quell' Agente divino che ne è l' autore. Egli è dunque veramente non una mera potenza, ma un vero principio nuovo di azione, che vien creato nell' uomo da Dio, con quella influenza che egli esercita nell' anima. L' anima, l' IO, di quanto maggior forza si sente tocco, quanto più prova in sè un sentimento maggiore, tanto più trovasi pieno di vita e di valore: il sentimento che lo invade, lo diffonde, lo ingrandisce, lo afforza; pari alla grandezza, alla profondità, alla forza del sentire sorge altresì in lui la potenza e l' audacia. Il che si vede ne' sentimenti di ogni genere: indi le millanterie dell' ubbriaco, indi l' ardimento dell' innamorato, indi le imprese più temerarie dell' ambizioso e del mercatante, indi il coraggio, l' eroismo di chi si sacrifica per la patria e di chi muore per la giustizia, indi tutto ciò che v' ha e v' ebbe di grande, di nobile, di stravagante e di furente sopra la terra: tutto provenne dalla viva forza di qualche sentimento straordinario che invase l' uomo e, invadendolo, lo avvalorò, gli aggiunse quelle forze che non aveva, il trasse di sè, il rese di sè stesso maggiore. Anche uomini i più inerti, i più dappoco, si videro talvolta tramutati improvvisamente in altri esseri, se una forte passione si potè metter dentro in essi e signoreggiarli. Insomma sebbene il sentimento sia una passione , tuttavia egli produce sempre nell' uomo una corrispondente azione : il sentimento è il generatore dell' istinto , e questa attività, che s' ingenera in noi dal sentimento (giacchè noi stessi finalmente non siamo che un sentimento, e quindi il NOI è ingrandito, ingrandendosi il sentimento), è della stessa natura e forza del sentimento che l' ha prodotto, e come quello è debile o forte, nobile o vile, d' un ordine superiore o d' un ordine inferiore. Or ciò posto, ed essendo il sentimento naturalmente pari allo stimolo che il genera, egli è manifesto che quell' unione reale che fa Dio nella essenza dell' anima, deve ingrandire il suo sentimento fondamentale, che è quanto dire deve ingrandire lei medesima, e questa vena di sentire che a lei s' aggiunge, deve esser di un' indole al tutto superiore a ogni sentimento, infinitamente più nobile, infinitamente più possente. Indi il principio di azione , che aggiunge la grazia nell' uomo, forza è che sia supremo, nobilissimo, potentissimo. E con ciò si spiegano le maraviglie che nel loro vivere mostrano i servi di Dio. Ho detto che il NOI è un sentimento, che colla parola NOI esprimiamo l' essenza nostra, e quindi che l' essenza nostra è un sentimento (3). Questo sentimento essenziale l' ho chiamato fondamentale . Ho detto pure che l' azione della grazia è reale; e ho definita l' azione reale che viene esercitata in noi, quella che viene operata nella nostra facoltà del senso , a differenza dell' azione ideale che non è che il presentarsi dell' idea all' intelletto. Quindi l' azione divina opera nel sentimento . Ho detto che solo il senso intellettivo è atto a ricevere l' azione divina in noi: quindi ho detto che la grazia opera immediatamente nell' intelletto. Ho detto pure che l' intelletto è un elemento della essenza dell' anima nostra: quindi la grazia opera nella essenza dell' anima, e essendo questa un sentimento fondamentale, la grazia opera nel nostro sentimento fondamentale. La grazia accresce il NOI, questo fondamental sentimento, lo estende, lo eleva, lo approfonda: a cui alludendo S. Paolo, dice: [...OMISSIS...] . A malgrado di tutto ciò, della prima operazione della grazia in noi, noi non abbiamo coscienza alcuna. Per intendere la ragione del non essere noi consapevoli della prima operazione della grazia, conviene riflettere alle cose seguenti, le quali chi bene le avrà intese, sarà facile il persuadersi che tanto è lungi che ciò possa recar meraviglia, che anzi non potrebbe essere altramente, e si accorda colle leggi generali dello spirito umano. Primieramente, noi non abbiamo un' attuale coscienza di nessuna cosa di quelle che avvengono in noi, di nessuna mutazione, di nessun sentimento, se non a condizione che noi ci raccogliamo in noi stessi e ci badiamo a quel sentimento. Non badandoci noi, non ponendovi noi attenzione, sarebbe in noi tuttavia quel sentimento, ma noi non ne avremmo coscienza, sarebbe come se non fosse, nascerebbe, s' ingrandirebbe, cesserebbe, e noi non l' avremmo saputo e non ne conserveremmo alcuna memoria. Ora questo raccoglierci che noi facciamo sopra i sentimenti da cui siamo affetti, questo darvi la nostra attenzione, è un atto diverso da quello del sentimento stesso, e a quello posteriore; è un atto che suppone il sentimento, che rende questo sentimento oggetto della riflessione. Indi quelle leggi dello spirito umano che ho esposte altrove, sebbene in altre parole e che si possono anche proporre così:« Tutti gli atti primi dello spirito umano per sè sono privi di coscienza: nessuno de' primi sentimenti ha in sè la coscienza«. - E perchè ogni atto dello spirito è primo relativamente a quelli di una più alta riflessione, consegue ancor più universalmente, che« ogni atto dello spirito nostro è incognito a sè stesso«. Sicchè ogni atto viene illustrato da un altro atto da lui diverso, che lo mostra allo spirito e glielo fa conoscere; e quell' atto stesso che lo illustra e lo rende noto allo spirito nostro ha pur bisogno di un altro atto dello spirito che illustri e chiarisca lui stesso; altramente egli si rimarrebbe inatteso e dimentico. Ciò posto, è reso manifesto come anche il sentimento primo che in noi suscita l' azione divina, deve essere per sè stesso privo di consapevolezza in quel primo istante, nel quale egli nasce. Ma rimane un' altra questione a farsi. Se per sè stesso è privo di consapevolezza, non potrà egli essere percepito da noi, essere illustrato con un atto secondo del nostro spirito, con una riflessione sopra di lui? Non potremo in tal modo rendere presente la nostra attenzione e quasi spettatrice al farsi di quella operazione divina, e così procacciarcene la coscienza? Rispondo osservando primieramente che ciò non può avvenire quando la operazione della grazia si fa ne' bambini; perocchè questi non hanno ancora acquistato l' arbitrio delle loro potenze e non sanno rivolgere l' attenzione sopra ciò che avviene in sè stessi (2). Quando poi si fa negli adulti, è da distinguersi l' atto stesso della mutazione che nasce nell' uomo al primo cominciare ad avere la potenza soprannaturale creata in lui dalla grazia, da questa potenza già ottenuta. Il passare che fa l' uomo dal non aver la grazia all' averla, dal non aver all' aver in sè quella potenza soprannaturale che, col primo operare della grazia nell' uomo, nasce e si crea; questo passaggio maraviglioso non è osservabile in noi, perchè non è nè pur sensibile. Per quanto sembri maravigliosa questa proposizione, ella non riuscirà incredibile a chi osserva che ella dipende da una legge generale, a cui è soggetto il sentimento: la quale è questa, che« non si può sentire l' atto onde noi cominciamo a esistere«, con quell' atto onde noi veniamo naturati, cioè pigliamo la natura o la essenza: come medesimamente non si può sentir quello onde si disfà la nostra natura, o poniamo giù la stessa nostra [vita] o, se avvenir potesse, ci annulliamo. Perciò il bambino non può sentir l' atto onde vien concepito e comincia a essere, perchè in quell' atto ancora non è, e egli ha bisogno di essere già per sentire. Allo stesso modo non può esser sensibile l' atto del morire, perchè esso non è che un disfarsi, un annullarsi della nostra potenza di sentire animale: il che non è un adoperare questa potenza, ma un porla giù. (1). E veramente in un istante, nel quale sentissimo, non saremmo ancor morti, non avremmo ancor fatto l' atto del morire (2): quest' atto del morire non è fatto prima che noi siamo morti, e, prima di essere fatto, non può esser sentito; e, quand' egli è fatto, noi oggimai non siamo più esseri sensitivi e però nol possiamo sentire. Il che è confermato anco dall' esperienza in ciò che avviene negli accidenti, nei quali cessa subitamente in una parte del corpo la potenza di sentire, chè ciò avviene senza dolore, e l' apopletico si trova morto della metà, senza che egli medesimo sappia come gli sia ciò accaduto. Ma egli d' altra parte pare manifesto che il cessare di sentire non è sentire; anzi sarebbe contraddizione, se fosse. E questa osservazione dell' accidentato è notabile in questo che prova essere insensibile a noi non solo la cessazione di tutta intera la potenza di sentire, ma ben anco di una sua parte: e certo quella parte che cessa, in cessando, non si sente, sebbene l' altra parte che rimane può risentirsene a quel cessamento. Il medesimo è dell' accrescersi la potenza sensitiva: questo crescere non è materia di senso alcuno, e quindi il nostro corpo cresce, si rinforza o risana senza che noi sappiamo come; sebbene dopo cresciuto, rinforzato, risanato, godiamo dell' accrescimento, delle forze e della sanità. Applichiamo ora questa legge del sentire alla potenza soprannaturale, creata in noi dall' azione divina. Coll' azione divina viene creata in noi una nuova potenza: questa potenza comincia a esistere in noi quando prima non esisteva, ed ella è un elemento, una parte della nostra essenza. Per la legge esposta adunque deve essere necessariamente insensibile questo primo effetto della grazia in noi, perchè la grazia agisce, come dicemmo, in modo di creatrice, non fa altro che creare, che mettere in noi una potenza nuova, che ingrandire la nostra essenza. Dell' atto dunque di questa mutazione non possiamo avere alcuna coscienza, perchè non abbiamo di lui alcun sentimento (1). Lo stesso si può provare considerando la natura di ogni potenza. Io ho dimostrato che ogni potenza è un atto7primo : per esempio, la potenza di sentire è un primo sentimento che modificato si cangia negli atti secondi che si dicono atti verso al primo, il quale si dice potenza (2). Ora l' effetto della grazia è di produrre in noi una nuova potenza di sentire, un primo sentimento. Ora se questo sentimento è primo, se avanti di lui non vi ha nessun altro senso in quel suo genere e tutte le sensazioni partono da lui, come da principio; egli è evidente che, prima che quell' atto primo sia prodotto, non vi può essere senso alcuno di quella specie. Quell' azione adunque della grazia, colla quale si genera in noi la potenza soprannaturale o il primo soprannaturale sentimento, non è sensibile, nè può essere oggetto della nostra consapevolezza. Quando però la potenza, di cui parliamo, primo effetto della grazia, è già in noi formata, allora ella è sensibile a noi, perchè anzi è ella stessa un primo sentimento, un sentimento essenziale e fondamentale. Tuttavia non è così facile l' avvertirsi in noi immediatamente e l' averne coscienza. Perocchè avviene appunto di esso quanto abbiamo osservato avvenire di ogni altro sentimento primo e fondamentale in noi, che egli, essendo immanente e costituendo la nostra immutabile essenza, è oltremodo difficile a rendersi oggetto della nostra osservazione; mentre sono assai facili a osservarsi gli atti suoi, cioè le particolari sensazioni che da quel sentimento primo nascono, non essendo che sue modificazioni, verso alle quali egli è soggetto, e atti suoi, verso i quali egli prende nome di potenza. Nell' uomo naturale due sono i sentimenti fondamentali, l' animale e l' intellettivo; i quali piuttosto sono due parti di uno stesso sentimento fondamentale che si esprime col monosillabo IO. Ho già dimostrato altrove quanto l' uno e l' altro di que' sentimenti sieno difficili ad avvertirsi chiaramente e distintamente in noi: e sebbene il senso comune assai bene li ammetta e riconosca, tuttavia nei libri de' filosofi si trovano pressochè continuamente obliati. Ho dato ragioni, per le quali è tanto difficile osservarsi in noi il sentimento fondamentale corporeo, nel Nuovo Saggio , Sez. V: ho dato pure le ragioni, per le quali è difficile osservarsi in noi l' idea dell' essere che è lo stimolo del sentimento fondamentale intellettivo pure nel Nuovo Saggio , Sez. V: all' incontro quanto sia facile osservare in noi le sensazioni e le idee acquisite. Queste dottrine, che sarebbe troppo lungo qui ripetere, e per le quali mi riporto ai luoghi dove le ho trattate, vanno applicate al sentimento fondamentale soprannaturale. Per esse si parrà ragion manifesta dell' essere tanto difficile a osservare quel sentimento, e quindi a averne coscienza: mentre all' opposto non è punto difficile l' avvertire in noi e l' aver coscienza de' suoi effetti, quali sono i frutti dello spirito che l' Apostolo enumera ai Galati, dicendo: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo veduto che, sebbene la divina rivelazione ci narri della natura divina delle cose assai più eccellenti di quelle che noi possiamo trovare col lume naturale, tuttavia non avendo noi mai avuta la percezione di Dio, noi non possiamo intendere di lui se non tanto quanto si comprende in un concetto negativo (2). Tuttavia questo concetto negativo ci contraddistingue Dio. Avendo in noi la operazione divina, la grazia, il primo suo effetto o atto si compie col mettere in noi, da parte sua, una viva fede alle cose rivelate, col muovere l' animo nostro a una piena e soave adesione a tutte le cose che intorno a Dio si contengono in quel concetto negativo di Dio. In quel concetto negativo di Dio poi si contengono virtualmente anche le notizie di Dio positive: e la grazia inclina e rende vaghissimo l' uomo di penetrare in quelle misteriose e occulte verità, delle quali tanto gli tarda lo scoprimento. Quest' uomo, tocco dall' azione della grazia, è divenuto il diletto « che sta dietro la parete e che riguarda cupidamente per le fenestre e rimira per le aperture de' cancelli« (1). » La grazia gli mostra qualche tenue lume, qualche particella delle infinite bellezze che gli stanno velate e nascose. Così la fede rende: I. da una parte efficace nell' uomo il concetto di Dio ideale7negativo che per sè è freddo e impotente (2); II. dall' altra fa travedere e quasi indovinare in esso alcuna cosa di ciò che tien questo concetto nel suo seno profondamente nascosto. In tal modo la idea di Dio, che nell' uomo privo della grazia è nulla verso all' idea delle cose sensibili, diventa per la grazia potentissima, a tale che può l' uomo nell' animo suo erigere veramente un tempio a quella divinità, la cui azione sente in sè stesso, e preferire il sommo Essere, anche nell' affetto e nelle azioni della sua vita, a tutti gli esseri lusinghevoli della terra. Sebbene adunque l' azione divina sia reale, tuttavia ella non è tale che comunichi Dio sè stesso all' uomo del tutto svelatamente ; ma è un' azione esercitata mediante le idee negative , somministrate all' uomo dalla rivelazione e mediante una cupidità che nasce nell' uomo di vedere il positivo altresì che quelle idee negative suppongono e annunziano, senza che il manifestino. Con quest' azione vengono rinforzate quelle idee negative e vien ringagliardita la forza del desiderio di percepire il positivo occulto, intorno al quale viene infuso però un sentimento, una profonda persuasione, una sicurezza maggiore di qualunque sicurezza, che in quell' occulto stassi l' OGNI BENE. Questa parte occulta di Dio, questa misteriosa essenza è propriamente l' oggetto della fede, ed il veicolo della grazia, lo stimolo divino, la punta, quasi direi, della divina sostanza, con cui Dio tocca l' uomo. Perocchè in questa parte occulta l' uomo percepisce però il concetto del TUTTO; e sebbene l' uomo non distingua niente o poco di ciò che è in questo tutto, egli sa però che ivi è il TUTTO. Il TUTTO, cioè tutto l' essere , tutto il bene sono sinonimi. Questo concetto che, sebbene indistinto, il tutto contiene, può rendersi nell' uomo vivo e possente, e ciò senza limite alcuno, appunto perchè nel concetto del TUTTO non v' è alcun limite: ed è di questo concetto di cui si serve propriamente la grazia divina per signoreggiare l' uomo, per sollevarlo, per renderlo potentissimo sopra tutte le sue passioni. L' uomo dunque colla fede soprannaturale non percepisce Iddio distintamente , ma lo percepisce indistintamente come il TUTTO, l' ogni bene. Questa percezione, sebbene oscura, abbraccia però quanto può l' uomo desiderare, perchè abbraccia tutto; e perciò l' uomo con questa percezione non ha a desiderare altra cosa fuori di essa, e solo ha da desiderare che ella stessa si renda distinta, più chiara e più compiuta. Quando questa percezione si fa viva e più sensibile, accade quella contentezza, di cui molto parla Santa Teresa, la quale all' uopo nostro dice acconciamente così: [...OMISSIS...] E ancora parlando d' un certo stato dell' anima, dice: [...OMISSIS...] Nella fede adunque soprannaturale c' è anche una percezione di Dio , se così è lecito chiamarla, sebbene iniziale e solamente indistinta ; e questa è la base che sostiene tutta la vita spirituale, cioè soprannaturale. L' Apostolo mette per base di tutto l' ordine soprannaturale la Fede in quelle parole: « Senza la fede è impossibile di piacere a Dio (3) »: e in quelle altre: «« Il mio giusto vive di fede« (4); » per modo che senza la fede il giusto, quegli che è tale non agli occhi degli uomini, ma a quelli di Dio, secondo l' ordine soprannaturale, non può esistere, gli manca onde essere e onde vivere. Questa è quella fede viva dalla quale l' Apostolo fa nascere la soprannaturale giustizia e che descrive come quel mezzo o istrumento generale, col quale operando la grazia divina conduce gli uomini all' adempimento della eterna loro predestinazione: ed è a questa fede viva che attribuisce come a principio e origine tutte le virtù. [...OMISSIS...] A queste dottrine dell' Apostolo consuona tutto il Vangelo; particolarmente S. Giovanni che in questa sentenza riassume quanto abbiamo fin qui esposto: « A quanti l' hanno ricevuto (Gesù Cristo) egli diede loro LA POTESTA` di diventar figliuoli di Dio (ecco la grazia che dà la potenza); a quelli che CREDONO (ecco il primo atto di questa potenza, la fede) nel NOME SUO« (2): » (ecco la natura della fede che è quella di ravvivare e rinforzare la idea negativa di Dio, la quale, come altrove dicemmo, chiamasi acconciamente nelle divine Scritture il « nome di Dio ») (3). Con ragione adunque S. Tommaso afferma la fede essere « il primo atto, nel quale la grazia si manifesta« (4). » Ed essendo questo primo atto necessario a tutti gli altri atti della grazia in noi abitante, si può dire che sia l' atto universale della grazia, un atto presupposto da tutti gli altri susseguenti, i quali a quel primo atto si appoggiano e partono da lui, come da radice: sicchè ottimamente si enumerano gli atti cristiani in quell' ordine in che li pose S. Paolo: Fede, Speranza e Carità; nel quale la fede rimane la prima e condizione delle due seconde. Per questa cagione è che si suole chiamare tutto il complesso della religione cristiana col nome di Fede , dicendosi la fede cristiana, la propagazione della fede, ecc.. Ma tutto ciò apparirà più manifesto, se noi faremo un' analisi accurata dell' atto della fede e troveremo gli elementi onde la fede risulta. La fede risulta da due elementi, la percezione divina incipiente , e l' assenso della nostra volontà, col quale solo si compie l' atto della fede. Consideriamo separatamente, l' uno dopo l' altro, questi elementi, riassumendo le cose dette sin qui. Iddio opera, con un' azione reale ed occulta, nella essenza dell' anima: fin qui tutto nasce senza di noi. Questa azione produce, crea nella nostra essenza, senza che noi n' abbiamo coscienza, un elemento nuovo, un sentimento fondamentale nuovo. Ricercando più profondamente che cosa sia questo sentimento, troviamo che è un sentimento, pel quale cominciamo a percepire Iddio come il TUTTO, l' Essere sussistente per sè stesso: percezione che ha necessariamente in sè dell' infinito e una specie di onnipotenza. Questo sentimento creato in noi è la creazione dell' uomo soprannaturale (1); come il sentimento fondamentale animale7ideale, è la creazione dell' uomo naturale; perchè questi sentimenti sono sostanziali , cioè costituenti l' IO, la essenza specifica, la sostanza dell' anima. E` singolare e degno di ogni attenzione il riscontro che vi ha fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale dell' uomo, fra il sentimento che costituisce l' uomo un essere ragionevole, e il sentimento che costituisce l' uomo un essere congiunto a Dio. Tutti due questi sentimenti sono formati dall' unione dell' ESSERE allo spirito umano: il primo è la unione dell' essere ideale , il secondo dell' essere reale . La idea dell' essere data all' uomo il rende intellettivo; l' Essere stesso (Iddio), agente nell' uomo, solleva quest' essere intellettivo a una specie nuova d' intelligenza, quale è la soprannaturale: la prima è una concezione , la seconda una percezione (sebbene solo incipiente in questa vita): la prima è come una delineazione dell' essere, la seconda è il compimento, il realizzamento dell' essere nell' uomo (2). Procediamo innanzi. Posto nell' uomo un nuovo sentimento fondamentale, dovea esser data all' uomo una nuova potenza , perchè a ogni sentimento corrisponde un istinto, a ogni potenza passiva ne corrisponde una attiva: questa è la potenza soprannaturale, una nuova volontà. Il primo atto di questa volontà è la fede, come abbiamo detto. Questa consiste propriamente nell' assenso che si dà a ciò che quel sentimento soprannaturale ha percepito di Dio (3) e forma un tale assenso il secondo elemento , col quale si compie l' atto del credere. La cristiana dottrina insegna che nei bambini è sufficiente alla salute quel primo elemento della fede, che viene dato da Dio gratuitamente col battesimo, quella operazione della grazia, quella potenza di volere, sebbene non condotta all' atto; ed è ciò che si chiama virtù infusa della fede, fede abituale . Negli adulti, i quali possono muovere le loro potenze ai loro atti, si richiede altresì una fede attuale . Quindi Cristo disse: [...OMISSIS...] E ancora disse che pregava per solo quelli che credeano (2); esigendo così questo primo atto della fede per riconoscerli per suoi e metterli a parte delle ulteriori sue grazie. Ecco come Sant' Agostino ragiona di questa potenza di credere : [...OMISSIS...] . Ecco come Sant' Agostino descrive la formazione in noi dell' atto della fede, parte per la operazione di Dio, e parte per la cooperazione nostra. [...OMISSIS...] Succede adunque questo fatto del credere così. Iddio dà la percezione incipiente di sè stesso: qui non c' è ancor riflessione, appartiene all' ordine della cognizione diretta, ma è più che semplice cognizione ideale, perchè è percezione , sebbene solo incipiente. Questa percezione (nel ricevere la quale noi siamo interamente passivi, come in ricevere tutte le cognizioni dirette) è lucida, bella, dolce, tutta conveniente e adattata alla nostra natura: indi il sentimento di affetto verso a queste cose conosciute e percepite, che sorge in noi fornito di [quelle] soavi persuasive di cui parla S. Agostino, le quali inclinano (1) l' animo nostro a prestare adesione e fede piena anche a ciò che nelle cose percepite non è se non virtualmente e oscuramente compreso. E qui si leva in noi la riflessione, la quale rimira in quelle cose, e si pone nell' animo nostro la questione, se sono credibili, o no. Noi dobbiamo concludere questo giudizio in un modo affermativo; e non solo speculativamente ma praticamente altresì, perchè si formi in noi e si compia l' atto di fede. Ora questo è atto proprio della volontà nostra ed è soggetto alle leggi, a cui sono soggetti gli atti della volontà, esposte da noi più innanzi: fino a certo termine ella opera liberamente e può sospendere o negare l' assenso; ma ove la dilettazione, eccitata dalle cose divine conosciute e percepite, si acuisse oltre a certo grado, l' assenso sarebbe inevitabile, non più libero, sebbene volontario. Questo assentimento non è solamente dato per motivi di credibilità, prodotti da cognizione ideale, ma principalmente per un motivo di credibilità veniente da percezione immediata: è una certezza pratica, una sicurezza sperimentale che toglie ogni dubbio, e che è più ferma ben sovente di ogni ragionamento, perchè giunge a t“r via fino il poter di dubitare (3). La fede adunque è un giudizio pratico, non un puro giudizio speculativo: è un giudizio, con cui non solo affermiamo Dio e le cose divine, ma con cui gli diamo la nostra stima: è un atto di giustizia verso Dio da noi conosciuto e sperimentato, e non un conoscimento, ma un RICONOSCIMENTO volontario di ciò che conosciamo, quel riconoscimento, nel quale abbiamo veduto che s' inizia nell' uomo ogni moralità (4): la fede dunque è il principio della morale cristiana, cioè il primo suo atto. Questa questione si spiana, a mio parere, ove si schierino qui nel loro giusto ordine tutti i passi dello spirito che precedono, che costituiscono e che susseguono altresì l' atto della fede. Ecco qual è l' ordine loro: 1. Cognizione rivelata di Dio ex auditu (operazione esterna naturale). 2. Percezione di Dio (1), o lume efficace, uscente da quella cognizione rivelata, massime dalla parte che in essa è misteriosa (operazione che si fa nell' essenza dell' anima). 3. Sentimento conseguente o dilettazione soave e sublime, uscente da quella percezione, che ci persuade la verità delle cose percepite (2). 4. Potenza di credere e di operare santamente, effetto di quel sentimento (3). 5. Atto volontario del credere, giudizio pratico sulla verità ed eccellenza delle cose conosciute e percepite: atto di stima, il riconoscimento di Dio come luce, verità e autorità infinita, col quale atto se l' uomo non ricalcitra colla sua mala volontà (1), conseguitano l' amore, e le operazioni sante e meritorie con cui la fede diviene viva. 6. Amore che conseguita a quell' atto di stima pratica. 7. Operazione santa che seguita all' amore. L' uomo non comincia a operare colla sua volontà se non al quinto passo, col dare l' assentimento suo alle verità rivelate e interiormente sentite: per questo si dice che la fede è il primo atto della grazia. Dicendo ciò, per grazia s' intende la potenza del credere, prodotta in noi soprannaturalmente dall' azione della grazia. Essendo nostra questa potenza, uscendo dall' essenza dell' anima nostra, nostri devono essere gli atti di questa potenza, e per essere nostri devono procedere dalla nostra volontà: quindi la fede è il primo atto della potenza in noi creata dalla grazia, perchè è il primo atto della nuova nostra volontà. Tuttavia alla fede precedettero quei quattro passi che ho descritti, e fra questi il terzo, cioè una dilettazione o inclinazione (involontaria) della volontà; e questa fu chiamata da molti carità . Quelli che così l' hanno chiamata fecero precedere alla fede la carità: ma questa carità non è che un' inclinazione, come dicevo (involontaria, o certamente) non libera, e l' atto non è completo ancora, ma incoato, giacchè non si completa se non coll' assenso, nel quale sta la fede. Questa opinione pertanto che cominci la giustificazione dalla carità e non dalla fede, non parmi esatta e nè pure sana, avendo espressamente dichiarato il Sacrosanto Concilio di Trento, che la fede è il principio della umana salute, il fondamento e la radice di ogni giustificazione (2). I principii della morale naturale dimostrano, che la morale s' incomincia col giudizio pratico : che questo giudizio pratico è libero : ma che, dato il giudizio pratico o stima dell' oggetto, conseguita necessariamente il grado dell' amore verso il medesimo oggetto. Che, dato il grado dell' amore , è determinata conseguentemente anche l' azione esterna, tutta consenziente alla efficacia di quell' amore. Questo è quanto somministra la ragione naturale, quando si fa a investigare la natura della moralità umana. Applichiamo ora questa dottrina alla morale teologica e soprannaturale, e veggiamo se batton d' accordo con essa i documenti della cristiana tradizione. Nella morale teologica e soprannaturale abbiamo veduto che il primo atto morale, il giudizio pratico o stima dell' oggetto dell' azione morale (che qui è Dio) è la fede. Or se è che la rivelazione va d' accordo con que' supremi principii della morale naturale, dee conseguitare, che a quel giudizio pratico della fede conseguiti necessariamente l' amore, e le opere: e questo è appunto nè più nè meno la cristiana dottrina. Udiamo il Concilio di Trento ragionare su questo indissolubile nodo tra la fede viva , la carità e le buone opere , e vediamolo distinguere questa fede, che in un giudizio pratico consiste, da quella fede, che non consiste se non in un giudizio speculativo, il quale non è punto per sè morale. [...OMISSIS...] Questo nodo indissolubile tra la fede, la carità e le opere, sicchè data l' una di queste tre cose, non è in balìa dell' uomo il dividerne le altre due, spiega la ragione, per la quale nelle divine Scritture la salute eterna ora è attribuita assolutamente alla fede, ora assolutamente alla carità, e ora assolutamente alle opere buone. Della fede si dice: [...OMISSIS...] . Della carità poi si dice: [...OMISSIS...] Delle opere poi si dice: [...OMISSIS...] S. Giovanni, in un luogo della sua prima lettera, riassume questi tre generi di atti, cioè la fede, la carità, e le opere esteriori, e li dà per segni dello Spirito Santo in noi, cioè della grazia che sta nella essenza dell' anima e da questa per conseguente li distingue: [...OMISSIS...] . Ho già mostrato come nelle verità rivelate intorno a Dio si trovi una profonda oscurità e de' necessarii misteri (1). Iddio vi è celato e la grazia stessa non ne dà che una percezione incoata e indistinta: indi il gran desiderio dei santi che si squarci il velo e apparisca la bella faccia del Signore, il cupio dissolvi , e l' assiduità delle orazioni e delle contemplazioni per ire innanzi in quella notte oscura, dalla quale par loro di essere circondati. La fede però ha pure il suo lume, ed essa risponde a ciò che è la ragione pratica nell' ordine naturale. Il lume della ragione è l' essere ideale (3), il lume della fede l' essere reale: il lume della ragione è l' essere iniziale, il lume della fede l' essere compito, assoluto, Dio (4). Fra queste tenebre e questa luce cammina il cristiano nella vita presente per un alto ordine della divina Provvidenza, acciocchè cioè colle tenebre meriti di più, credendo, e colla luce più gli si acuisca il suo desiderio della eterna luce e sia da questo saggio di visione e da questo desiderio sostenuto e avvalorato nelle sue operazioni e nella sua aspettazione. Talora questo lume interiore della grazia si chiama cognizione , come allorchè Gesù Cristo disse: [...OMISSIS...] Talora poi questo lume è chiamato visione , che equivale a quello che io dico percezione , ed è una comunicazione dell' essere reale fatta al senso, e non solo idealmente all' intelletto. Gesù Cristo disse: [...OMISSIS...] . E S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Consistendo la cognizione, propriamente parlando, nella concezione dell' essere ideale, farà maraviglia che si chiami cognizione nella divina Scrittura anche il lume della grazia che ci fa percepire l' essere reale; mentre sembrerebbe che solo gli convenisse il nome di percezione o di sentimento . Ma due ragioni si possono rendere del chiamarsi propriamente anche cognizione il lume che ci viene dato dalla grazia. La prima di queste due ragioni è, che la grazia opera mediante la cognizione ideale negativa di Dio , ella non fa che rendere viva ed efficace questa idea di Dio che non eccede la natura del puro conoscere , nel che sta appunto la natura della fede. Quindi è che l' operazione della grazia vien detta nelle divine Scritture anche un insegnare che fa Dio all' uomo, come in Isaia: [...OMISSIS...] . E Geremia non dice che Iddio darà una legge nuova, ma che la stessa legge, invece di scriverla sulle pietre, la scriverà ne' cuori, e così ognuno saprà da sè, per interiore ammaestramento di Dio, non per dottrina comunicata al di fuori dell' uomo. [...OMISSIS...] Egli è dunque acconcissimamente detta un insegnamento la operazione della grazia; giacchè non aggiunge idee nuove alla mente, ma solo rinforza e colorisce, per così dire, le idee che già abbiamo per la ragione e per la esterna rivelazione. Che se talora nella divina Scrittura si parla di una legge nuova data da Cristo, la novità di questa legge non istà tanto in aver date specie nuove, quanto in aver rinnovate, ravvivate, svolte le vecchie e compite, secondo quello che disse Gesù Cristo: [...OMISSIS...] La seconda ragione, per la quale si può dire cognizione il dono della grazia, si è che l' essere reale che si percepisce per la grazia, non è che il compimento dell' essere ideale ; e quindi non distrugge, ma compisce nella nostra mente l' essere ideale, senza il quale l' essere reale non si potrebbe all' intelletto nostro comunicare. Quindi sebbene nelle cose create la percezione sensitiva differisca essenzialmente, e non di solo grado, dalla cognizione , tuttavia ciò non si avvera trattandosi di Dio che è l' Essere stesso , del quale la cognizione e percezione non differiscono, se non di grado. Nelle cose create colla cognizione concepiamo l' essere stesso, quando colla percezione sensitiva non percepiamo punto l' essere , ma una sua appartenza, una sua accidentalità, una certa sua azione. Il contrario avviene rispetto a Dio, perchè è sempre l' essere che conosciamo o percepiamo; e quindi la percezione non differisce dalla cognizione essenzialmente, ma per gradi: sicchè, come noi abbiamo detto più sopra, la cognizione non è che un principio di percezione, e che la percezione è un grado di più, un finimento e perfezionamento della cognizione. L' essere insomma è essenzialmente conoscibile , e per ciò con ragione la percezione dell' essere stesso può dirsi cognizione . Per questo Cristo in S. Giovanni, volendo dire che gli Apostoli avevano il lume della grazia, la percezione del Verbo, disse che conobbero veramente (1); rinforzando con quel veramente il conobbero , quasi ad additare un grado di più intera cognizione. Il qual grado nuovo di cognizione che si aggiunge per grazia, viene espresso anco da Cristo in quelle parole: [...OMISSIS...] . Una interiore rivelazione adunque è l' operazione della grazia, per cui nelle idee che hanno tutti gli uomini, l' uomo illuminato da Dio vede ciò che gli altri punto non veggono. Da questo che abbiamo ora detto s' intende quale sia il carattere distintivo delle due cognizioni naturale e soprannaturale, in questa vita. Hanno tutte e due lo stesso fondamento, cioè i lineamenti fondamentali sono i medesimi: questi lineamenti sono le idee pure e negative di Dio. Nella cognizione naturale queste idee restano così nude, come traccie sottili di un disegno a contorni. Nella cognizione soprannaturale quelle idee non restano svestite e fredde, ma esce da esse un sentimento (percezione) che le avviva e mette in esse qualche cosa del positivo: il che è ciò che nelle divine Scritture si chiama intendere col cuore (3). Per questo sentimento l' uomo della grazia percepisce e vede in quelle idee ciò che in quelle medesime idee non vi percepisce nè vede l' uomo della natura. Quindi questi conosce e non conosce la stessa cosa che conosce quello, cioè ha lo stesso oggetto nella mente, ma non gli è rivelato allo stesso modo . Con questa osservazione si spiegano quelle parole di Dio in Isaia: [...OMISSIS...] . E quelle di Cristo, che alludono appunto al passo d' Isaia: [...OMISSIS...] . Già ho mostrato in che consiste questa imperfezione, cioè nell' esser essa indistinta , sebbene tale che noi ci accorgiamo di percepire con essa TUTTO L' ESSERE, TUTTO IL BENE. L' oscurità di questa percezione indistinta è insegnata nelle divine Scritture con una figura assai acconcia. Si distingue la faccia di Dio dalla schiena di Dio. Chi vede un uomo in ischiena, il percepisce, ma indistintamente, perchè è dalla faccia principalmente che si distingue un uomo dall' altro e che si acquista dell' uomo una ben chiara notizia. Ora parimente in questa vita si percepisce veramente Iddio pel lume della grazia, ma quasi in ischiena ; nell' altra vita poi si percepisce la stessa sua faccia , il che forma il lume della gloria. Questa figura è nell' Esodo. Mosè, desideroso di vedere Iddio, avevagli detto: Mostrami la tua gloria. Iddio gli rispose: [...OMISSIS...] Questo favore che veniva fatto a Mosè, esprimeva la operazione della grazia del Redentore, la quale, sebbene non dia la visione della faccia divina (la percezione completa ), tuttavia dà la visione della schiena di Dio ( la percezione incoata e indistinta ) (7). Conviene che dichiari il significato che io aggiungo a questa parola deiforme . Iddio fa più operazioni nell' universo: conserva le cose, ciò che è un continuo crearle, dà loro il moto, la vita, il senso, l' intelletto. Tuttavia nessuna di queste operazioni può dirsi deiforme , ma solo la operazione della grazia . Non è già che Iddio non faccia tutte quelle opere; chè anzi nessuno le potrebbe fare fuori di lui; e non è neppure che Iddio, anche colla sua essenza, non si trovi realmente in tutte le creature e tutte le creature in lui: egli vi si trova, ed è vero a capello quanto disse il poeta Arato, citato da S. Paolo: « In lui viviamo e ci moviamo e siamo« (1). » Ma tutto questo non fa sì ancora che tale intima azione di Dio nelle creature si possa chiamare deiforme (2). Per operazione deiforme io intendo una operazione che non solo ha per principio Iddio, ma che essa stessa e il suo termine è Dio. Della operazione della grazia Iddio è il principio e anche il fine, è la causa e anche l' effetto, per così dire: e perciò questa operazione è deiforme . La operazione sopra tutte le altre deiforme è la incarnazione del Verbo, la causa o principio della quale incarnazione fu la Triade augustissima, e il termine suo fu il Verbo incarnato. La operazione deiforme, avendo per iscopo la comunicazione della divina sostanza, non può operarsi che in esseri dotati di senso e di intelligenza, perchè la sostanza di Dio è vita e luce. Per ciò tutte le operazioni che Dio facesse relativamente alle creature non dotate di sentimento e di intelletto, per quantunque divine fossero e tali che solo alla potenza di Dio convenissero, come la creazione, non sarebbero però deiformi ; perchè in esse non vi sarebbe una comunicazione della divina sostanza, della vita, e della luce di Dio stesso. La maniera adunque diretta di conoscere la operazione deiforme, è il percepirla, l' esperimentarla. Conviene sentire Iddio, conviene sentirlo operante in noi: conviene sentire in noi qualche cosa che non si possa confondere con nessuna delle creature e che sia evidentemente qualche cosa di più di qualunque essere parziale; che non possa essere assolutamente altro che Dio stesso. Chi sente in sè stesso una operazione tanto grande, che non è comparabile a cosa alcuna, al saggio della cui immensità l' uomo è vinto e come annichilato, una operazione che è tutto e può tutto (e niente può contro lei o fuori di lei); questi ha in sè stesso una cotal percezione del sommo Essere , una comunicazione e, per così dire, un suo toccamento. Quanto insomma l' anima sente, deve essere tal cosa che sia evidentemente Dio (1); allora la operazione è deiforme. I Santi Padri provano, che l' operazione della grazia nell' uomo è deiforme , appunto dal sentimento che l' uomo soffre in essa. Essi fanno questa argomentazione. L' uomo non può essere pienamente accontentato se non da un bene compiuto, da un bene infinito, da Dio. Ma l' uomo giusto che ha la divina grazia, sente d' aver qualche cosa in sè stesso, che pienamente il sazia e accontenta. Dunque egli ha Dio, egli possiede Dio. Prima farò qualche osservazione su questo argomento de' Padri, rivolta a far osservare quanto una siffatta dottrina convenga a capello con tutto ciò che insegna un' accurata filosofia dello spirito umano, come pure con quanto io ho di sopra espresso intorno alla grazia: di poi recherò i luoghi de' Padri stessi. Di sopra io dissi che l' uomo per la grazia percepiva realmente Iddio; ma che però questa percezione nella vita presente non era che incoata e imperfetta. Ho esaminato in che consisteva questa imperfezione, e ho rilevato consistere nell' essere principalmente indistinta . Restava a cercare quale fosse questa essenza (1) che noi percepivamo, che costituiva la percezione indistinta . Ed entrato in questa ricerca, trovai che essa consisteva nel percepire noi una tal cosa, nella quale sentivamo solamente questo, che in essa era TUTTO L' ESSERE, TUTTO IL BENE, senza poter però determinare nessun bene particolare, nessun bene che avesse similitudine cogli altri beni da noi realmente percepiti. Ora è per una ricerca filosofica sullo spirito umano che si trova non poter l' uomo giammai pienamente soddisfare e quietare, come in suo termine, il suo appetito, se non perviene al possesso di TUTTO L' ESSERE, di TUTTO IL BENE. Nessuna cosa, nessun bene particolare, qualunque sia, può fermare e saziare veramente il desiderio della umana natura, perchè questa può sempre, dopo un bene già posseduto, immaginarsene, ossia proporsene un altro che ancor non possiede; e così portare d' una in altra cosa all' infinito il suo appetito, senza che possa mai trovare posa. La ragione di ciò fu esposta da me nei Principii della Scienza Morale , e nasce dalla natura della idea dell' essere che è la forma dell' uomo come essere intelligente, e quindi è il mezzo o istrumento ond' egli conosce. L' appetito, di natura sua, tende a ogni bene che gli venga proposto. Ora il bene vien proposto all' uomo dalla sua cognizione; un bene che conosce, già lo appetisce per natura. Ora la cognizione dell' uomo è tale che non ha limiti, perchè, dopo aver conosciuta una cosa, niente osta che non si proceda alla cognizione di un' altra: e ciò per la idea dell' essere che essendo perfettamente indeterminata , non è limitata a nessun essere particolare, ma a ognun de' possibili, qualsivoglia, si estende. Come dunque la facoltà razionale non finisce di conoscere, se non fino che l' essere (l' oggetto conoscibile) è esaurito, così parimente l' appetito della natura umana non finisce, se non quando tutto l' essere gli è dato per suo oggetto e pascolo. L' uomo dunque, per insegnamento della stessa filosofia, non si può acquetare se non percepisce L' ESSERE stesso dove è tutta la essenza e quindi tutta la pienezza dell' essere. Ma ciò appunto è che si trova per esperienza nella vita spirituale, nella quale si sente di percepire una pienezza di essere, ove nulla manca e tutto si comprende, e medesimamente una cosa che perfettamente appaga e sazia. Or la pienezza dell' essere non è che in Dio, perchè è appunto l' essere stesso, l' essere per essenza. Indi è che con ragione si può conchiudere, percepirsi Dio stesso nella operazione della grazia; e ciò per due vie, egualmente certe e che fortemente conchiudono, le quali son queste. L' esperienza, il sentimento nella vita spirituale depone che si sente in sè cosa ov' è il TUTTO, ove nulla manca dell' essere. Dunque si sente in sè Dio: l' operazione è deiforme . L' esperienza, il sentimento depone nella vita spirituale che si prova una perfetta soddisfazione e pienissimo appagamento dell' umano desiderio. Ma la filosofia dimostra che il desiderio della umana natura non si acquieta perfettamente mai, se non gli si dà per oggetto cosa, ove nulla manchi e ove sia tutto l' essere. Dunque si sente nella operazione della grazia tutto l' essere, dunque si sente Dio stesso, dunque l' operazione è deiforme . Udiamo ora i Padri della Chiesa. Didimo osserva che è frase della Scrittura il dire alcuni pieni di Spirito Santo. Or egli così argomenta. L' uomo non si empisce da nessuna creatura: dunque quello Spirito, che per la grazia inabita nell' uomo, è Dio stesso. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . E poco appresso: [...OMISSIS...] . Fu detto che si può conoscere l' operazione della grazia esser deiforme, dall' imprimere essa nelle anime nostre de' segni al tutto divini, dal darci il senso di tal cosa che non può essere se non Dio stesso. Ora, se ciò bastasse a costituire la operazione deiforme, anche nella mente umana, sebben posta nell' ordine naturale, una tale operazione si rinverrebbe. Perocchè nella mente umana vi è per lume e forma la idea dell' essere, la quale ha dei caratteri che non possono convenire se non alla divinità, come l' immutabilità, l' eternità, l' autorità di suprema legislatrice, ecc. (1). Rispondo esser vero che quella idea ha de' caratteri divini e da ciò essere stati indotti i Platonici e alcuni Padri della Chiesa, che ne hanno seguita la dottrina, a divinizzarla, a dichiararla anch' essa Dio. Io però sostengo essere ciò avvenuto per non avere bastevolmente conosciuta e osservata la distinzione fra l' essere ideale e l' essere reale . Che se si fosse conosciuta una tale distinzione, sarebbe stato facile a conoscere chiaramente che il lume della ragione, ossia l' idea dell' essere, non è Dio, e noi in esso non percepiamo Dio, ma solo una cosa divina, una cotale appartenenza che si può chiamare anche similitudine della divinità: laddove nel lume della fede noi percepiamo e sentiamo Dio stesso, e non la sua similitudine. Ragione di ciò si è che il vocabolo Dio è sostantivo ed esprime quindi una sostanza; onde noi non percepiamo Dio, se non percepiamo una sostanza, che è quanto dire un essere reale e sussistente, non una idea, una possibilità. Dio deve essere un BENE reale , anzi tutto il bene, come diceva, tutto l' essere, e non punto una idea. L' idea dell' essere adunque, come sta naturalmente nelle menti nostre, non si può dire Dio, perchè manca della sussistenza. Questa ragione è recata in mezzo anche da' più santi Padri: non sarà inutile che io la illustri e confermi colle loro testimonianze. S. Cirillo nel dialogo VII della Trinità, dalle frasi che vengono usate dalle divine Scritture in commendazione degli uomini che posseggono la grazia divina, i quali sono detti talora templi di Dio , talora essi stessi Dei ; argomenta e conchiude che Dio deve agire realmente e colla stessa sua sostanza nelle anime loro, e non puramente mediante idee o similitudini. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . S. Basilio nota espressamente la differenza fra l' idea e l' essere reale che opera in noi, e che ci imprime quello che egli chiama il carattere divino : ecco il passo. [...OMISSIS...] E perchè questo divino carattere non si tolga per una pura idea, soggiunge: [...OMISSIS...] . E prima ancora di S. Basilio e di S. Cirillo, il celebre cieco di Alessandria Didimo aveva egregiamente distinto l' ordine ideale, a cui appartengono le scienze, dall' ordine reale, a cui appartiene lo Spirito Santo; e mostrato quanto gran differenza ci corra fra il partecipare di quelle e di questo. Il luogo, di cui parlo, è bellissimo e lo recherò tradotto in nostra lingua. Dopo aver detto che si usa dire di un uomo, tanto esser lui pieno di scienza , quanto esser pieno di Spirito Santo ; prosegue a mostrar la differenza che passa fra il partecipare queste due cose così:« Essendo lo Spirito Santo partecipabile, come è partecipabile la sapienza e la disciplina, convien però avvertire, che egli possiede una sostanza che non istà già ne' vuoti nomi della scienza, ma che SUSSISTE egli medesimo buono, con tale natura che santifica e che empie di beni tutte le cose: secondo la quale natura diconsi anche alcuni esseri pieni di Spirito Santo, come è scritto negli Atti degli Apostoli (II): [...OMISSIS...] . Finalmente io non posso omettere l' autorità di Origene notabilissima appunto in questo, perchè un de' Platonici, i quali solevano, come dissi, confondere l' essere ideale col reale, le idee colle cose; fonte, chi ben guarda, di forse tutti o dei più errori del Platonismo. Ora all' uopo nostro Origene, cadendogli di parlare della inabitazione che fa Dio nelle anime sante, scorto dal lume rivelato, lascia la solita confusione delle idee colle realtà, e entra benissimo a distinguere ciò che sussiste realmente, e ciò che non è che una idea o scienza; e dice che Dio è partecipato dagli uomini, come per essi si partecipa di una scienza, a ragion di esempio, della medicina (e quindi formalmente , perocchè le notizie informano oggettivamente lo spirito): ma con questo divario tuttavia, che Dio è anche una sostanza , quando la medicina non è nulla più di un essere ideale . Udiamo lui medesimo: [...OMISSIS...] . Or, dopo aver detto questo, così acconciamente soggiunge, distinguendo la natura ideale della scienza medica dalla reale sostanza dello Spirito Santo. [...OMISSIS...] Dalle cose dette sin qui si può conchiudere, a quale sistema si deva attenersi circa la relazione dello spirito intelligente colla divinità: perocchè tre ve ne possono essere in questo; e sono i seguenti. Il primo sistema è platonico; e in esso si fa DIO anche il lume dalla ragion naturale. Con un tale sistema si riduce tutto all' esser reale e si perde di vista l' essere ideale . Il secondo sistema, opposto al primo, è di quelli che negano, che sia Dio anche ciò che si sente per la operazione della grazia; ma vogliono che noi partecipiamo per essa solamente di una similitudine di Dio, e non più: e questo sistema è di una celebre scuola di Teologi (1). Con un tale sistema si riduce tutto all' essere ideale e si perde di vista l' essere reale . Il terzo sistema è quello che noi seguiamo, e che stimo più conforme alla verità e alla ecclesiastica tradizione: è quello che stabilisce il lume della ragione non esser più che una appartenenza, o se si vuole anco una incoata similitudine di Dio, ma non Dio stesso; il lume poi della fede essere la stessa divina sostanza. Quindi l' ordine naturale esser costituito dall' essere ideale ; l' ordine poi soprannaturale esser costituito dalla partecipazione dell' essere reale : e quest' ordine essere un compimento e perfezionamento di quello, come l' essere reale non è che un compimento e perfezionamento dell' essere ideale . Che Iddio operi nell' anima, nell' ordine della grazia, come causa efficiente , è fuori di controversia: i teologi però sono divisi, se Iddio operi anche come causa formale . Io credo essere necessario di chiarir bene il significato di questa parola, causa formale . Per causa formale, o forma di una cosa, si suole intendere universalmente quell' elemento che entra in una cosa, per la quale la cosa è posta in atto. Ma questa definizione è generale, e si possono distinguere più specie di cause formali, dalla quale accurata distinzione verrà piena luce alla materia che abbiamo alle mani. Causa formale o forma di una cosa si chiama, in primo luogo, quell' elemento costitutivo della cosa stessa, per modo che esso, con le altre parti aggiunte, è la cosa stessa, il quale origina nella cosa la sua propria naturale attività: come sarebbe in un corpo, la sua forma sostanziale è quella energia onde esso sussiste; come forme accidentali sono quelle particolari attività a lui inerenti ond' egli si attua a degli atti accidentali. In questo senso parimente l' anima è la forma del corpo. Ora Dio non può essere, in tal modo, forma di nessuna creatura, perchè non può trasformarsi in alcuna creatura, nè in nessuna parte di una creatura. Questo è ciò che insegnano i maestri della Chiesa, quando, ragionando sul dogma della Incarnazione, avvisano che non si deve già credere che il Verbo siasi tramutato in sostanza umana, ma sì congiuntosi alla umana natura senza sofferire in sè nessuna passione: e il medesimo dicono dello Spirito Santo che si unisce ai redenti per la grazia. Il contrario de' Manichei che sostenevano una porzione della divinità collo spiracolo della vita, narrato dal Genesi, essersi trasformata nella umana natura: contro il quale errore scrive S. Agostino (1). Nella incarnazione però avvenne questo, che il Verbo assunse la natura umana in una sola persona; e questa è la massima unione fra le possibili della divinità coll' uomo, perchè fu tale che Cristo dicendo ego , quest' ego suonava il Verbo stesso così parlante. In tale congiunzione il Verbo si poteva dire bensì forma del Cristo, ma non era forma perciò di una creatura, perchè Cristo, nome personale, non significa una creatura. Una seconda maniera di causa formale , volgarmente, si reputa essere una cosa estranea che agisce in un' altra e la modifica e conforma a sè: in ragion d' esempio, il fuoco che entra nel ferro, lo infiamma, e quel fuoco nel ferro si piglia per una forma che il ferro ha ricevuto. Ma qui, sottilmente parlando, hassi a distinguere il corpo estraneo entrato, dal corpo da lui modificato, e la modificazione che questo riceve dalla causa che gliela produce: il che il volgo però non suol fare. Ora la modificazione stessa è una forma (un atto nuovo), di cui la cosa viene informata: ma il corpo eterogeneo a lei aderente, e non con lei contemperato e immedesimato, non è più che una causa efficiente, a vero dire, che ha però con quella forma uno strettissimo nesso, e che per ciò vien detto anche forma o causa formale , in quanto che imprime la forma (1). Ora non è dubbio, che Iddio opera in modo nell' anima, che egli sia causa efficiente, di somigliante natura, cioè tale che imprima la forma; e a questo si riferiscono le similitudini che usano le Scritture e i Padri, paragonando lo Spirito Santo ora al fuoco che riscalda la materia, in cui entra, ora agli aromi che si attaccano ed aderiscono alle vestimenta, onde sembra che queste stesse tramandino il grato olezzo da sè. Ecco due passi di S. Basilio e di S. Cirillo. [...OMISSIS...] Un' altra similitudine usata da' Padri e dalla Chiesa stessa ne' suoi riti per adombrare l' unione di Dio con noi, è quella del vino mescolato coll' acqua; la quale però non deve così strettamente intendersi, da credere che lo Spirito, significato nel vino, abbia sofferto qualche mutazione, ma bensì l' acqua. Il santo Massimo martire dice che Cristo [...OMISSIS...] Di una terza maniera di causa formale ci viene data notizia dalle sensazioni. Noi colle sensazioni percepiamo i corpi, cioè sentiamo la loro attività operante sullo spirito nostro, ove restano alcuni effetti sensibili di quell' attività operante, cioè restano le sensazioni che dànno la percezione dei corpi. Conviene riflettere che, nell' atto della sensazione, il corpo attivo operante sopra il nostro spirito termina realmente colla sua azione nel nostro spirito; sicchè il termine della nostra passione e della sua azione è uno e il medesimo. Indi quella unione , fra il paziente sensitivo, e l' agente sensibile, osservata dagli antichi, per la quale, con ogni ragione, può dirsi che l' agente , in quanto è attualmente sensibile e operante, come tale, sullo spirito, si renda forma del senso . Ma qui è da osservare con attenzione quanto sono per dire. Il corpo sensibile non è punto sensitivo, non sente punto sè stesso: quindi le sensazioni che produce non appartengono a lui, non sono il termine della sua attività, come tali. Il termine comune adunque, fra il corpo sensibile e l' essere sensitivo, è l' attività , cioè il moto delle parti, moto ove è numero e estensione; ed è per questo che io ho chiamata questa parte reale della nostra percezione de' corpi, chiamando le sensazioni stesse, la parte fenomenale (2). Ora la parte reale della percezione de' corpi non si divide dalla fenomenale, se non per una operazione dell' intelletto, al qual solo per ciò appartiene una conoscenza veritiera, sebbene limitata, di questi agenti che si dicono corpi . Ciò posto, nelle sensazioni il corpo, in quanto è sensibile , non è vera forma dell' anima, ma solo forma fenomenale, o apparente, come tale, all' anima stessa: in quanto poi esso è attivo , anzichè causa formale, è piuttosto causa efficiente: e, in tal causa, è a dir di lui quello che si è detto, parlando della seconda maniera di cause formali . Ora Iddio non può essere causa formale7fenomenale dello spirito umano perchè essendo egli semplicissimo, non gli si può attribuire cosa alcuna che non gli appartenga, senza che egli cessi dall' essere Dio: come, a ragion di esempio, se noi volessimo attribuirgli qualche umano sentimento, il concetto in noi suscitato e prodotto, che ne uscirebbe da questa aggiunta, non si potrebbe più chiamare Dio, secondo il valor comune della parola: a differenza di ciò che avviene ne' corpi, ai quali attribuiamo i colori, i sapori e le altre sensazioni e così formiamo ciò che si dice il corpo fenomenale. Ma nulla di ciò potrebbe avvenire in quanto alla idea di Dio, che se apparisse diverso da quello che è, nulla più vi sarebbe di divino, ma tutto si distruggerebbe il suo concetto. Per intendere la natura di questa quarta maniera di causa formale, è necessario ricorrere alla teoria dell' intendimento. L' intendimento, ove pensi un qualche oggetto reale, cioè da lui percepito, ha per termine della sua operazione l' oggetto stesso e non una qualche sua similitudine o idea. Quando io dico: - date anche a me di quelle frutta che voi mangiate - ; io non dimando già l' idea delle frutta, ma dimando le frutta stesse, di che altri mangia. Questo fatto, per quanto difficile sia da spiegarsi, è innegabile e ovvio. Conseguentemente a questo fatto si può stabilire questa verità, che, in virtù della funzione del giudizio o come io la ho anche appellata, del verbo, l' uomo intelligente col suo atto termina negli oggetti stessi reali. Questo è quanto dire, che gli esseri stessi reali sono oggetto dell' atto dell' uomo intelligente. Or come è possibile ciò? Io ho dichiarata questa grande verità nella Ideologia (1) dimostrando ivi che l' essere è l' oggetto essenziale dell' intelletto, cioè che l' essere ha questa singolare virtù, ossia attitudine, di poter venir ricevuto da un ente sensitivo, e che venendovi ricevuto, cioè percepito, egli fa nascere in quell' essere sensitivo l' intendimento, la cui funzione essenziale non è altro che la percezione appunto dell' essere . Ho dimostrato ancora che l' essere, ove sia percepito solo inizialmente , prende il nome di idea dell' essere o di specie (2), o di essere ideale o potenziale, ed è il lume della ragione e produce l' intelletto umano . Con questo essere iniziale , o lume, l' intendimento conosce tutte le altre cose anche reali, ossia sensibili. Che se l' essere stesso viene percepito non solo inizialmente , ma finitamente , questa percezione è la percezione di Dio; e in tal caso Dio stesso è la forma dell' intendimento. Questa percezione dell' essere così finito, cioè terminato, o è indistinta , ed è quella della grazia, come si percepisce Iddio in questa vita; o è distinta , ed è quella della gloria, come si percepisce Iddio nell' altra vita. Per ben conoscere la natura della causa formale, di cui parliamo, conviene fare le osservazioni seguenti: 1. Che quando lo spirito pensa un oggetto reale, questo oggetto nulla soffre dal pensiero; e che se questo oggetto è contingente, nè pure nulla opera nella mente: e tuttavia è indubitabile che quell' oggetto è il termine dell' attenzione del soggetto pensante e sensitivo insieme. 2. Che se questo oggetto è necessario, cioè l' essere stesso , allora questo opera nella mente, ed è per sè termine e oggetto della mente: il che si rileva osservando che la natura dell' intendimento è tale, che ella riceve passivamente la forma sua, cioè l' essere , e che quindi l' essere deve indubitamente esser attivo in lei. 3. Che quindi conviene separare l' essere, che opera nella mente, dall' essere reale sensibile e contingente: e che questa separazione si può fare osservando che, quando noi pensiamo un essere contingente, noi contrassegniamo quell' essere con ciò che di lui abbiamo percepito co' sensi nostri. Prima cioè della operazione nostra intellettiva, noi non abbiamo percepito dell' essere se non ciò che fu da lui operato nei nostri sentimenti: questa è operazione reale dell' essere stesso. Ma con questa sola operazione noi non conosciamo ancora quell' ente; noi non lo conosciamo in sè, come uno degli esseri. Tutto ciò adunque che abbiamo percepito non è l' essere, come tale, ma delle appartenenze, delle affezioni dell' essere. La mente poi è quella che supplisce l' essere da sè nella percezione intellettiva; per aver questa adunque non è maraviglia se non si esiga una nuova operazione di quell' ente nella mente nostra, ma bensì è necessario che si supponga l' operazione che soffre la mente dall' essere stesso, che le imprime appunto l' idea dell' essere. 4. Che questa recettività dell' essere nella mente è proprietà dell' essere stesso. 5. Conviene avvertire diligentemente che è proprio solo di questa forma una rilevantissima particolarità: ed è che ella, sebbene si unisca con uno spirito sensitivo, siccome sua forma , tuttavia ella non si mescola punto nè si confonde collo spirito stesso, ma si rimane perfettamente immune dalle qualità di lui, e colle sue proprie inconfusibili e inalterabili. 6. Finalmente questa forma, col pure unirsi collo spirito, agisce in lui, giacchè dallo spirito è sentita ; ed è perciò anche un agente, una causa efficiente. Ora come forma di questa natura, nulla ripugna che Iddio si unisca allo spirito umano. S. Tommaso dice espressamente che nell' altra vita la forma , colla quale i beati intendono, è Dio stesso (1). E poichè lo stesso Santo dice, che la vita eterna comincia col battesimo (2), pare che questo santo Dottore non fosse del tutto contrario che anco in questa vita per la grazia Iddio stesso divenisse forma dell' anima: e pare, cercando il fondo del suo pensiero, quando egli diceva che Dio nella operazione della grazia era causa efficiente e non formale, non avesse altro in vista, se non di ben distinguere la percezione che s' hanno i beati nell' altra vita, acciocchè non fosse confuso il lume della gloria con quello della grazia (3). Ed è degno di attenzione, questo, che nelle divine Scritture si applicano le stesse maniere di dire tanto al lume della gloria, come al lume della grazia: anzi lo stesso vocabolo di gloria viene adoperato talora a significare quella manifestazione che fa di sè Iddio in questa vita a' Santi suoi; come, a cagione di esempio, ne' passi seguenti: « Tutti peccarono, e abbisognano della gloria di Dio« (4). - « E non ti ho io detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?« (5). » E l' Apostolo dice la « gloria futura , » per distinguere quella del cielo dalla grazia che si ha in questa terra (6). E quando egli vuol parlare del presente, dice la « gloria della grazia (7). » Nelle quali maniere è solo da osservarsi questo, che la gloria della grazia in questa vita è tutta di Dio; laddove in cielo la gloria di Dio ridonda in noi: ossia, secondo il sentimento dello stesso Apostolo, l' uomo in questa vita ha bensì la gloria di Dio in sè, ma nascosta e velata, la quale poi nell' altra vita non fa che scuoprirsegli e rivelarglisi (1). Ma ciò, che merita ancor più osservazione, si è la frase di vedere Iddio , che si applica egualmente alla visione beatifica e alla visione o percezione di Dio che si ha per la grazia, come il mostrano apertamente i luoghi delle Scritture, più sopra da me riferiti (2), e altri che potrei recare. E questa frase di vedere Iddio è ancora più propria dell' altra di percepire Iddio; poichè la percezione sensitiva si fa tanto col tatto, quanto coll' occhio; ma la percezione del tatto, non è tanto manifestazione oggettiva, come quella che si fa coll' occhio. Poichè l' oggetto non tocca l' occhio e non si mesce con lui, ma rimane dall' occhio lontano e diviso: laddove lo stimolo del tatto colle sue qualità tattili s' immedesima coll' organo senziente. Ora meglio sta il dire che Iddio si vede, appunto perchè, sebbene si unisce, tuttavia non si confonde coll' anima, ma rimane da lei distinto, come è l' oggetto dal soggetto. Il perchè questa frase di vedere Iddio esprime assai acconciamente quell' essere Iddio, rispetto all' anima dotata di grazia, non una causa puramente formale, ma una causa oggettiva formale. Egli è in questo senso pertanto di causa formale oggettiva , che i Padri hanno detto, Dio essere formalmente congiunto colle anime dalla grazia rigenerante. Non sarà inutile sentire alcuna loro testimonianza di questa verità. S. Basilio osserva, nelle Scritture usarsi comunemente la frase che lo Spirito Santo sia in noi . Egli dunque dimanda, in che modo sia in noi, e risponde così: [...OMISSIS...] S. Atanasio parimenti fa forza su quelle parole di S. Pietro, colle quali afferma il santo Apostolo che noi veniamo fatti « partecipi della divina natura«. » Queste parole infatti, intese semplicemente e letteralmente, importano che la divinità diventi forma del nostro spirito. Ma sentiamo il grande Atanasio: [...OMISSIS...] Di che egli argomenta che lo Spirito Santo sia Dio (2). Il medesimo concetto viene pure espresso da S. Cirillo con altre parole: [...OMISSIS...] . Nè sembrami che inettamente lo stesso Padre dichiari quella qualità della divina natura cui l' uomo riceve dalla grazia, col paragonare Iddio a dell' oro e l' uomo a una statua dorata (1); poichè nella indoratura ci ha lo stesso oro, e non già qualche altra cosa, solamente prodotta dall' azione dell' oro. E veramente se Iddio non fosse formalmente congiunto coll' uomo in virtù della grazia, non potrebbero avere un senso vero queste espressioni della Scrittura: « l' uomo esser fatto consorte della divina natura, essere deificato »; come indicano quelle efficacissime parole approvate da Cristo stesso: « voi siete Dii ». Là dove, se la congiunzione fra l' uomo e Dio è formale, queste maniere di dire ricevono un senso tutto proprio e verissimo. La quale è comune osservazione dei Padri, massime Greci, dei quali ho recate già non poche acconcie testimonianze (2). Nè solo i Padri della Chiesa attestano che, nel senso sovra esposto, Iddio diventa forma dell' anima; ma esprimono inoltre quelle qualità di questa forma e quelle condizioni che furono da noi toccate, le quali in queste due si possono ricapitolare: 1 Che, sebbene Iddio operi in noi a tale da essere forma del nostro spirito, tuttavia questa azione di Dio non ha nessuna reazione sopra Dio: sicchè il nostro spirito punto non reagisce in Dio stesso. La quale condizione si verifica massimamente, perchè Iddio opera come Creatore, e il Creatore fa la cosa prima che sia, e quindi non patisce niente dalla cosa stessa. Il celebre cieco di Alessandria, Didimo, nella sua grande opera sullo Spirito Santo, esprime questa condizione assai acconciamente, dando alla divina natura la proprietà di essere capibile , e non quella di esser capace , cioè la proprietà di essere ricevuto, ma non quella di ricevere essa in sè cosa alcuna dall' anima ove inabita. [...OMISSIS...] (Ecco la ragione del non patir egli nulla dalle creature, in cui opera; ciò nasce pel suo modo di operare in attività di Creatore). 2 Che, sebbene Iddio si renda forma dell' uomo, tuttavia Iddio non si confonde coll' uomo: il che avviene, perchè è forma oggettiva , nel qual genere di forme non vi ha alcuna mistione o confusione, perchè l' oggetto ha per sua propria natura una cotale opposizione al soggetto , che non si può giammai con lui mischiare, fino che si rimane oggetto , sebbene esso agisca nel soggetto e di sè lo informi. Questa maniera di operare di Dio nell' uomo viene dalle Scritture e da' Padri dichiarata colla similitudine di un suggello, che opera improntando la imagine nella cera o in altra materia molle e si unisce con quella materia fino al contatto; e tuttavia riman sempre distinto, per sua natura, dalla materia che suggella. S. Paolo usa di questa similitudine in quel luogo agli Efesi: [...OMISSIS...] . E commentando queste parole S. Girolamo, dice così: [...OMISSIS...] . S. Basilio che usa spesso la medesima similitudine del sigillo chiama Dio « imagine effettrice d' imagine (5) »: il che conviene principalmente al Verbo che è imagine del Padre, e che, unendosi con noi, viene sentito dall' anima nostra e così l' anima nostra riceve la impressione e la imagine di lui. Egli è questa la distinzione che si deve fare fra l' oggetto e il soggetto. Allorquando noi soggetto contempliamo un oggetto (il verbo), avvi quest' oggetto, in cui termina la nostra azione, ma anche il soggetto ha sofferto una passione da quell' oggetto; e questa modificazione, questa passione sofferta dalla percezione dell' oggetto, è la imagine che viene in noi prodotta e che si può chiamar soggettiva. Sicchè il santo Dottore con quella espressione «eikon eikonopoios», ottimamente espresse la distinzione che sempre sussiste tra l' oggetto operante (Dio) e noi soggetto che riceviamo la sua operazione. E perchè si veda essere mente dei Padri, che quest' oggetto dello Spirito intelligente, che imprime l' imagine quasi a guisa di suggello, nella operazione della grazia, è Dio stesso immediatamente operante; odasi ancora S. Cirillo in uno de' suoi dialoghi con Ermia, che non lascia luogo a dubbiezza. Egli dice adunque così: [...OMISSIS...] . Nel qual passo si toglie ogni cosa di mezzo fra lo Spirito Santo, e lo spirito dell' uomo santificato. Da ciò che abbiamo fin qui ragionato risulta che negli uomini santi la stessa sostanza divina (2) opera immediatamente, e con essi formalmente si congiunge. Egli non sarà però inutile che io ancora un po' mi trattenga a provare colle testimonianze dell' antichità cristiana quello che in questa materia è il vero principale e di tutti il più degno da notarsi ben colla mente, cioè che Dio non è alcun' altra forma della mente, ma quella che abbiamo chiamata oggettiva . Si può intendere che è necessario che sia così, e non altramente, da tutto ciò che abbiam detto. Poichè, in primo luogo, abbiam detto che Dio nella operazione della grazia non agisce in altra parte dell' uomo, ma nella essenza sua e propriamente nell' intelletto che è l' elemento più nobile dell' essenza umana. Ora ciò posto, basta sapere la natura dell' intelletto per intendere che Iddio non può altro che farsi suo oggetto: conciossiachè la natura dell' intelletto è tale, che non riceve altra operazione se non quella de' suoi oggetti; giacchè cogli oggetti appunto si forma l' intelletto; e ogni altra operazione nello spirito dell' uomo sarebbe fuori dell' intelletto per la stessa definizione dell' intelletto. Ora coerente a questa dottrina, che appartiene tutta alla tradizione cristiana, è quello che fanno i Padri e Maestri della Chiesa, descrivendo la partecipazione che del Verbo di Dio fa l' uomo della grazia, colla similitudine della partecipazione delle scienze e delle idee: della quale similitudine non si può trovar nulla di più accomodato e di più vero. Poichè se l' intelletto è la sede delle scienze e delle idee, e il Verbo di Dio opera nell' intelletto, forza è che questa operazione avvenga appunto per le idee e nelle idee, o più generalmente avvenga in virtù di percezioni intellettive: con questa sola differenza che l' intelletto, fino che ha semplici idee, non vede più che un iniziamento dell' essere (essere ideale), laddove avendo il Verbo, ha tale idea, che non è solo idea, ma insieme sostanza e completamento dell' essere (essere reale). Udiamo adunque quanto acconciamente parlino i Padri della inabitazione del Verbo di Dio nell' uomo, togliendo la similitudine dalle scienze e cognizioni. Già innanzi (1) ho recati i passi dell' Alessandrino Didimo, di Origene e di S. Basilio, dove questi Padri parlano della inabitazione del Verbo nell' uomo, somigliandola a quella delle idee nella mente nostra e mostrandone la differenza. A quelli aggiungerò un altro bel passo di Didimo (2), riferito anche da S. Girolamo, dove toglie a dichiarare il modo onde lo Spirito divino ammaestra gli uomini: [...OMISSIS...] . - Se è dunque come la scienza, che Iddio viene partecipato da noi, egli si unisce a noi a modo di forma oggettiva dello spirito nostro. Lo stesso prova la similitudine del suggello adoperata a spiegare l' azione di Dio nell' anima giusta: solamente che nel suggello si mostra altresì non essere Iddio che si presenta al nostro spirito una pura e tenue idea, ma una specie operante e sostanziale nel nostro spirito, come uno stimolo che vi lascia un' impressione e vi suscita un real sentimento. Didimo mostra appunto che nel simbolo del suggello e della imagine da quello impressa si contiene un' analogia coll' altro modo di spiegare l' azione della grazia in noi tolto dalla partecipazione delle cognizioni, perocchè dice così: [...OMISSIS...] . Ricapitolando la prova dedotta dalla natura dell' intelletto, noi abbiam detto col sentimento dei Padri della Chiesa: L' intelletto non viene formato e non riceve altra azione che da' suoi oggetti: Iddio opera immediatamente nell' intelletto: Dunque Iddio si presenta allo spirito dell' uomo come oggetto, o sia si unisce all' uomo come causa formale oggettiva. Alla medesima conclusione possiamo venire, sempre camminando sulle vestigie dei Padri, ove pigliamo a considerare la cosa da parte della natura divina. Ecco l' argomentazione: Dio è l' essere: Ma l' essere non è partecipato che dall' intelletto, perocchè il farsi quest' essere visibile a uno spirito, è il medesimo che crearvi un intelletto: Dunque Iddio non può essere partecipato dall' uomo immediatamente che coll' atto del suo intelletto, che dall' essere appunto è formato. Questo ragionamento è evidente e irrepugnabile. Da esso si ricava questa bella verità:« Che se l' intelletto umano è formato dalla vista iniziale dell' essere (idea dell' essere in universale), questo intelletto, e l' uomo per esso, vien elevato alla dignità di uno stato soprannaturale con nulla più che essergli accresciuto il grado di quella vista dell' essere che ha per sua natura, cioè col venirgli mostrato l' essere non più solo inizialmente (idealmente), ma terminatamente , col termine della sua reale sussistenza (realmente): il che è Dio. Di qui è che essendo la forma dello spirito umano la idea dell' essere in universale, i Padri acconciamente dicono che lo Spirito Santo perfeziona in noi la forma , o che tiene luogo della forma. Si oda S. Basilio: [...OMISSIS...] . S. Agostino parla dell' intelletto o mente dell' uomo naturale colle medesime espressioni di quelle che usa parlando della mente dell' uomo soprannaturale. Egli dice nel libro delle LXXXIII questioni, che la mente dell' uomo considerata nel suo stato naturale, « nulla substantia interposita ab ipsa veritate FORMATUR (2) ». Io ho già dimostrato che questa verità , di cui parla S. Agostino, e che informa la mente umana, è l' idea dell' essere universale (3). Ora come si esprime il Santo Dottore parlando dell' uomo elevato allo stato soprannaturale? Egli nel libro III della Trinità (4) dice appunto così: « Iustificando FORMATUR a Deo iusti mens « ». Nello stato naturale la forma dell' uomo è la verità , l' essere ideale, la idea dell' essere: nello stato soprannaturale la forma dell' uomo è Dio stesso, l' essere reale terminato, sussistente (5). La forma dunque che si sopraggiunge all' uomo, che entra a partecipare della grazia divina, non è che quella che formava la sua natura, ma completata, elevata, mutata nella sostanza divina. Conviene riflettere di nuovo, a maggiore confermazione di ciò, che le cose create non possono informare la mente umana nel loro modo di essere reale , ma che la informano mediante il loro modo di essere ideale (mediante le idee); il quale è concepito dalla mente indipendentemente dalla realtà delle cose. All' incontro in Dio il modo reale è congiunto siffattamente al modo ideale , che è impossibile immaginarlo scongiunto, senza distruggere Dio stesso: sicchè non vi può aver idea di Dio (modo ideale) senza avere la percezione della sostanza di Dio (modo reale). Sicchè Iddio non può informare la nostra mente colla sua idea, senza che la informi con sè stesso: a differenza appunto di tutte le altre cose che non possono informare la nostra mente di sè stesse, ma di sole le loro idee. Di Dio dunque non si dà idea pura (positiva), ma si dà solo la percezione della sua sostanza. O convien dunque negare all' uomo della grazia ogni partecipazione di Dio, il che è contro all' autorità delle divine Scritture e di tutta la cristiana tradizione; o conviene accordare queste due proposizioni: 1. che Iddio è forma oggettiva dello spirito elevato allo stato di grazia; 2. e che Dio è forma oggettiva non già col suo modo ideale, come sono le altre cose, ma si bene con sè stesso immediatamente, colla sua propria sostanza. S' intenderà chiaramente la ragione di questa dottrina, considerando che Dio è l' essere stesso sussistente ; che perciò è per necessità, è per essenza, è per la stessa definizione. Per potere adunque conoscere Iddio, conviene conoscer[n]e la sussistenza. Ma io ho dimostrato che colle idee pure non si conosce che la possibilità sola delle cose Quindi è impossibile colle pure idee conoscere Dio, e non si può altro conoscerlo che avendone la stessa percezione. Quanto ho detto ha una riprova in quella dottrina comune de' Teologi, i quali insegnano che in Dio non vi ha distinzione fra l' essere e la essenza : mentre in tutte le altre cose si distingue l' essere dalla essenza , potendosi pensare la essenza di una cosa, senza che la cosa necessariamente sia. Conciossiachè che cosa è l' essenza? Pigliamo la nostra definizione:« ciò che da noi si pensa nella idea di una cosa.« - La essenza adunque è il modo ideale dell' essere. Che cosa è poi l' essere [reale] di una cosa? L' essere è l' atto della cosa, cioè l' atto onde la essenza è, sussiste. Or, ciò che dicono i Teologi sulla indivisibilità della essenza dall' essere nella natura divina, non è dunque ciò appunto che noi dicevamo sulla indivisibilità [in Dio] del modo ideale e del modo reale? Risulta adunque dalla teologia che di Dio non si può dare una idea pura positiva, ma che si può dar solo la« immediata sua percezione intellettiva«; e che senza di questa l' uomo non può avere nessuna reale e positiva comunicazione con la divinità. O convien dunque negare all' uomo della grazia qualunque reale cognizione e comunicazione della divinità: o conviene concedere che questa comunicazione delle anime giuste con Dio è immediata , che hanno la percezione di Dio , che Dio stesso colla sua propria sostanza si rende forma oggettiva di esse. Ai Padri della Chiesa non sono sfuggiti questi ragionamenti; e credo che la dottrina esposta sia ne' visceri stessi della cristiana religione. S. Cirillo pone questo inconcusso principio: « non si può partecipare per mezzo della creatura ciò che supera la creatura« (2) ». Il medesimo afferma in un altro luogo: quando noi siamo fatti partecipi, come dicono le Scritture, dello Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Or dunque secondo questo principio, non per mezzo della idea pura si conosce Dio, ma per Dio stesso sussistente; perocchè l' idea pura che noi aver possiamo di Dio, non è Dio, ma è una creatura anch' essa, perchè limitata, è un lume creato. Qui batte quello che tante volte ripetono i Padri, massime Greci, che la comunicazione di Dio alle anime giuste si fa senza mezzo , «amesos», e che non si può col mezzo di nessuna cosa creata, e però nè pure di nessuna idea, dare alle anime la santificazione: come tante volte ripete S. Cirillo di Alessandria (4). Questo vero è tanto da loro ribadito e chiarito, che non rimane il più piccolo [luogo] a dubitare della loro mente: almeno a me, dopo aver considerati i loro detti, è stata tolta via ogni dubitazione su di ciò. I Padri riconoscono in Dio una cotale relazione essenziale colle creature, di diverso modo in ciascuna delle tre divine Persone. A quel modo che, essi dicono, che il Verbo divino è un cotal pensiero del Padre, col quale non solo ha pensato sè, ma tutte le creature altresì, e così pensandole, con quell' atto stesso della eterna generazione le ha create (5); così dicono parimente che, collo stesso atto della eterna spirazione, non solo il Padre e il Figliuolo ha amato sè, ma ha amato, infuso l' amore, santificate le anime sante; sicchè la stessa sostanziale persona dello Spirito Santo sia una cosa identica colla stessa virtù santificatrice dei giusti. [...OMISSIS...] - Così S. Cirillo (6). Quindi, come al Figliuolo conviene sostanzialmente il nome d' imagine , così allo Spirito Santo conviene sostanzialmente quello di dono (1). Una operazione più immediata di questa non si può concepire, ed è questa sola che può comunicare la cognizione di Dio all' uomo. Questa singolare proprietà di Dio solo, di essere conoscibile per sè stesso e non per nessun altro mezzo, sparge una luce viva, a mio parere, sopra un brano del grande Basilio, che, senza aver prima ben concepita nella mente questa dottrina, parrebbe oltremodo oscuro. Nel brano, di cui parlo, S. Basilio dice che, per conoscere Iddio, noi dobbiamo riceverne in noi medesimi la impressione, il carattere, ma che questo carattere, parlando di Dio, non è come le idee che si ricevono dalle altre cose, ma è un carattere vivo e efficace: col qual passo si distingue manifestamente il conoscere delle altre cose colla idea , che è un segno freddo e imperfetto, e il non potersi aver di Dio questa imperfetta impressione, il non potersi aver di Dio l' idea; ma sì bene solo il potersi aver di lui la immediata percezione viva ed efficace, come sono sempre le percezioni, giacchè con esse noi soffriamo dalle cose un' azione reale. Ecco il luogo assai notabile del santo Dottore: [...OMISSIS...] . Essendo questo un vero comune e famigliare de' teologi cristiani, non addotto in controversia da nessuno, mi basterà l' averlo indicato. [...OMISSIS...] . Quindi si può dire che l' operazione di Dio è una ; ma il modo della medesima è trino . Egli è principio costante de' maestri della cristiana dottrina, che l' operazione di Dio non si distingue da Dio stesso. Quindi, come Iddio è uno e trino, così la divina operazione deve essere una e trina: come Iddio è uno nella sostanza, trino nel modo in che sussiste questa sostanza, così l' operazione stessa di lui deve essere una, ma trino il modo della medesima. Confermiamo l' una e l' altra verità coi testimonii della tradizione. Dell' unità della operazione divina, dogma fermissimo, così dice l' undecimo Sinodo Toletano: [...OMISSIS...] . E S. Basilio: [...OMISSIS...] . Che poi il modo dell' operazione sia trino, si autentica dalle diverse preposizioni che la divina Scrittura adopera nell' indicare l' operazione del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo. Perchè parlando del Padre, il più si dice che« il Padre opera«, in caso retto: ma per indicare l' operazione stessa appartenente al Figlio, si usa della preposizione per , dicendosi che« il Padre opera per lo figliuolo«: e medesimamente la stessa operazione si attribuisce allo Spirito Santo mediante la parola in , dicendo che« il Padre opera per lo Figliuolo nello Spirito Santo«. Le quali particelle sono acconcissime a indicare non già una operazione diversa, ma un diverso modo , onde le tre divine persone entrano a produrre la medesima e semplicissima operazione. Sono costanti i Padri in questa maniera di esprimersi circa la divina operazione. A ragion d' esempio, in questo luogo di S. Atanasio, dove egli afferma l' unità della divina operazione, mostra ancora in che diverso modo concorra ciascuna delle divine persone in essa, mediante le accennate preposizioni: [...OMISSIS...] . E S. Ilario: [...OMISSIS...] . Nè questo trino modo dell' operazione divina può togliere l' unità della medesima, perchè come riflette S. Cirillo Alessandrino, « colà dove è identità di natura, sotto nessun rispetto divisa, ivi pure l' azione non può esser divisa, eziandio che s' intenda farsi quell' azione da alcuno in modi varii e diversi« (3) ». Se l' universo è l' opera delle tre divine persone, e se l' operazione di queste, sebbene una in sè stessa, è tuttavia trina nel modo; apparisce manifestamente ragionevole e consentanea a sè stessa la dottrina dei Maestri della Chiesa, i quali insegnano che nell' universo risplende il vestigio della Santissima Trinità: perocchè conviene che l' effetto sia simile alla sua cagione. E questa è appunto la ragione, che dà S. Tommaso d' Aquino, del trovarsi sparse nell' universo le traccie di una causa una e trina (4). Per trovare quale sia il vestigio più completo della Trinità nell' universo, o, a dir meglio, per trovare una formola che esprima completamente il più che esser possa la traccia che la Santissima Trinità impresse di sè nelle cose, in creandole, a me parve di tenere il metodo seguente. In primo luogo osservai l' essere creato sotto tutte le sue forme e modi possibili. Poi cominciai a classificare queste forme e questi modi; e riducendoli di classe in classe, li venni [riducendo] ne' generi reali (1), primi irriducibili l' uno all' altro, nè aventi sopra di sè altra essenza generica, ma solo la essenza universale, l' essere . Ora questa operazione mi condusse a rinvenire tre forme primitive e originali, inconfusibili fra di loro, che riconobbi esser le tre forme, di cui era informato l' universo, ossia i tre modi dell' essere creato . Queste tre forme o modi dell' essere sono: 1. l' essere reale ; 2. l' essere ideale ; 3. l' essere morale . L' essere reale vidi che costituiva il sentimento , e che i corpi non erano che la sua materia (2): vidi che l' essere ideale (le idee) costituiva la cognizione : e che l' essere morale costituiva la ricognizione pratica o riflessione (3). M' accorsi che l' essere reale è l' essere in quanto è sussistente ; che l' essere ideale è l' essere stesso in quanto è conoscibile ; che l' essere morale è il medesimo essere cognito in quanto è amabile . Mi si manifestò parimente che l' essere reale era quello che conosceva e che amava; e che l' essere ideale era il mezzo, pel quale l' essere reale amava ciò che aveva conosciuto (l' amabile); e che l' essere reale, in quanto conosceva e amava, si diceva aver le facoltà d' intendere e di volere. Ancora osservai che gli uomini riserbavano all' essere reale propriamente il nome di essere o di ente ; che all' incontro all' essere [ideale] davano più di frequente il nome di verità ; e all' essere [morale] quello di bene : e che l' essere, il vero, e il bene erano appunto stati i tre elementi, a cui l' antica filosofia aveva ridotte tutte le supreme nature dell' universo. Ora questa io credo essere appunto la formola che più completamente di tutte esprima il vestigio della Trinità, del quale è segnato il mondo. S. Agostino nel libro VI della Trinità (1) parla dei vestigi di lei nelle cose create, e trova questo vestigio in ogni creatura per questo, che qualsiasi cosa non esiste se non a tre condizioni, cioè: 1. che sia un qualche cosa ; 2. che sia informata di qualche specie ; 3. e che tenga in sè qualche ordine , cioè che sia ordinata a qualche fine (2). Di che conchiude « esser necessario che, contemplando il Creatore coll' intelletto per quelle cose che sono state fatte, veniamo all' intelligenza della Trinità, di cui nella creatura apparisce, come è degno, [un] vestigio« (3) ». E queste tre condizioni e modi d' ogni essere creato, come osserva S. Tommaso sono indicate in quelle parole del libro della Sapienza (4): « Tu hai disposte le cose tutte in misura, numero e peso« ». « - « Perocchè, dice il santo Dottore, la misura si riferisce alla sostanza della cosa limitata da' suoi principii, il numero alla specie, e il peso all' ordine« (5). » Le quali tre condizioni di ogni esistenza S. Agostino le nomina altresì con questi tre nomi di modo, specie e ordine : e dall' entrare necessariamente somiglianti elementi in ogni essere, induce la conseguenza che ogni essere, di sua natura, è buono. « Questi tre [elementi], dice egli, ove son grandi, ivi sono beni grandi: ove piccoli, ivi sono beni piccoli: ove nulli, non v' è nessun bene. E per egual modo, ove que' tre elementi sono grandi, ivi sono delle nature grandi; ove piccoli, ivi sono delle nature piccole: ove nulli, non v' è nessuna natura. Dunque, conchiude, ogni natura è buona. » Il primo elemento indicato da S. Agostino, che ogni cosa « unum aliquid est », è manifestamente ciò che noi chiamiamo l' essere reale . Il secondo elemento che ogni cosa « aliqua specie formatur », merita più attenta investigazione e analisi. Nell' Ideologia , a cui mi devo riferire e rimettere spesso in questo trattato, io ho dimostrato che la specie non è che il rapporto che ha la cosa colla idea (7); non è quindi che la cognoscibilità della cosa, non è che la cosa stessa in quanto è conoscibile, l' oggetto del pensiero. Ho dimostrato che la qualità comune di più cose (fondamento della specie) non è che la proprietà che hanno quelle cose, sebbene più, di essere conosciute con una sola e medesima idea della mente (1). Questa dottrina, che si rileva esser verissima da una perscrutazione profonda della natura della specie, è anco consentita e indicata manifestamente dal senso comune degli uomini, i quali per nominare una classe di cose dicono una specie , usando questa parola, che nella sua forza etimologica non altro significa se non una vista delle cose ( species, aspectus ); mostrando con ciò di credere che, appunto perchè la mente con una sola vista o sguardo o con una sola idea insomma tutte quelle cose conosce, per questo quelle cose formano una classe da sè, distinta dalle altre cose. Di che si rende manifesto che se noi rimovessimo dall' universo l' intelletto che contempla le cose, se noi ne togliessimo via le idee; i generi e le specie delle cose perirebbero. Ma, innoltrandoci di più, troviamo ancora che le cose, senza i generi e le specie, non si possono nè pur pensare; a tale che ci sembra che, anco rimosse le idee, le cose riterrebbero le loro specie. Ma questo è un sembrarci ingannevole: e ciò avviene per ragione che non si possono rimuovere le idee delle cose, come dicevo, senza annientare le cose stesse; poichè fino che noi concepiamo una cosa, concepiamo insieme la sua pensabilità, o cognoscibilità (2). Il che dimostra che la cognoscibilità della cosa è un elemento intrinseco alla cosa stessa, sicchè ella può aver sempre la idea, e quindi medesimo l' ha, se può averla; parlandosi qui d' idee possibili. Havvi dunque un rapporto essenziale e inalterabile fra la cosa reale e la cosa ideale, o l' idea sua; e quella non può star senza questa che intimamente considerata si trova essere il suo principio, ciò che la rende possibile, senza di che, cioè senza esser possibile, non è pensabile, e molto meno esistente. Da tutte queste cose apparisce che la specie di S. Agostino, propriamente parlando, è l' essere ideale della cosa, e che non si può attribuirla alla cosa stessa, senza inchiudervi un rapporto essenziale e primitivo col suo essere ideale . Veniamo al terzo elemento di S. Agostino, l' ordine che hanno le cose a un fine. L' ordine delle cose non ha prezzo alcuno se non a una condizione, che egli sia percepito da una intelligenza, dalla quale possa essere apprezzato. Io ho trattato a lungo questo vero nel libro de' Principii della Scienza Morale , a cui mi richiamo. Ivi mi sono fatta la obiezione:« che se la intelligenza apprezza l' ordine o la perfezione delle cose, conviene che quest' ordine abbia un prezzo antecedentemente all' atto della intelligenza che lo apprezza«. - Ma ho dimostrato che, sebbene l' ordine e la perfezione della cosa si concepisca da sè, anche antecedentemente all' atto particolare di una intelligenza che lo apprezza, anche a tutte le intelligenze create fosse nascosto; tuttavia vi ritiene, in quell' ordine, la proprietà intrinseca di essere apprezzabile, e quindi esso inchiude un rapporto fondamentale ed essenziale con una intelligenza possibile. E veramente l' ordine di cui parliamo, suppone un rapporto di fine e di mezzo, e un rapporto non è che un essere ideale , e non esiste punto per sè solo fuori della mente (1). Di più l' ordine, di cui parliamo, suppone de' fini e de' mezzi: ma io ho dimostrato che il concetto di fine non si trova se non negli esseri intelligenti e, completamente, in Dio solo (2). L' ordine completo adunque non si dà se non nelle intelligenze, nelle persone. Ma la personalità non si forma che dalla volontà , che è la parte attiva della intelligenza. Dunque il compimento dell' ordine esige delle volontà ordinate, cioè consenzienti alla verità. L' ordine morale adunque è ciò a cui tende ogni ordine, e senza il quale nessun ordine ha merito, ma riuscirebbe una sconciatura, un disordine. L' ordine adunque di S. Agostino completamente si esprime nella nostra formola colla espressione di essere morale . S. Agostino stesso, in un bel passo del libro che scrisse contro i Manichei sulla natura del bene, si accostò a questi nostri pensamenti. Perocchè, enumerando egli que' tre elementi di tutti gli esseri, invece di dire la specie , dice « ciò per cui si discernono le cose « », che è appunto quello che noi abbiamo più sopra detto: e invece di dire l' ordine , sostituisce la perifrasi, « ciò che è degno di approvazione o di riprovazione « », espressione che è sommamente propria dell' ordine morale. Non sarà inutile che io rechi tutto insieme il luogo importante del santo Dottore, anco perchè in esso deduce la Trinità della causa appunto dalla Trinità, per così dire, dell' effetto. Ecco le sue parole fatte italiane: « Ogni cosa che è, altro è per ciò onde consta, altro per ciò ONDE SI DISCERNE, altro per ciò onde ha convenienza. Se adunque qualsivoglia creatura ed è in qualche modo, e da ciò che al tutto non è grandemente si allontana, e conviene con sè stessa nelle sue parti; forza è dire che anche la causa di lei sia trina per siffatto modo che sia , che sia questa cosa , e che sia AMICA DI SE` STESSA ». (Si noti qui che egli ha bisogno di ricorrere ad una espressione tolta dall' ordine morale, cioè all' amore, per esprimere il suo pensiero). «Or la causa, cioè l' autore della creatura diciamo esser Dio. Fa d' uopo adunque che vi abbia la Trinità, della quale una perfetta ragione non può trovare nulla di PIU` PRESTANTE (ciò corrisponde alla sostanza, all' essere reale), nulla di PIU` INTELLIGENTE » (ciò corrisponde all' essere ideale), «nulla di PIU` BEATO » (ciò corrisponde all' essere morale)«. E di qui conchiude il santo Dottore che « nella investigazione della verità non vi possono essere più di tre generi di questioni, cioè se una cosa sia; se ella sia questo o altro; e se ella sia da APPROVARSI O DA RIPRENDERSI (1) ». Il perchè è manifesto che, compiutamente, non si trovano le traccie della Santa Trinità nelle creature, se non pigliandole tutte insieme, e non rimovendo dall' universo o l' intelligenza o la volontà, il modo ideale o il modo [morale] dell' essere; e che se nelle nature materiali appare qualche segno di Trinità, anche considerate da sè sole, ciò non è se non perchè non si giunge giammai ad astrarre da loro la conoscibilità e la ordinazione all' essere morale: qualità che non si possono veramente t“r via interamente, senza che siano tolte con esse insieme e rese al tutto impossibili le stesse nature (2). Sebbene d' una trina forma sia impresso l' universo, e risplenda ovunque luminosamente il carattere di una causa trina e di una trina operazione che lo produsse; tuttavia l' uomo, come dice l' Aquinate, senza la divina rivelazione non avrebbe avuto nelle creature sufficiente argomento da indurne la cognizione del mistero della santissima Trinità. La ragione di ciò si è che ben diverso è il poter inferire dalla trina forma delle cose una causa pure trina e una trina operazione di questa causa (la possibilità di che viene conceduta da S. Agostino e dallo stesso Aquinate); e il poterne dedurre il mistero delle tre divine persone sussistenti in una sola sostanza. Perocchè inducendo dalla trinità dell' effetto la trinità della causa, non si perverrebbe che a imaginare una causa, la quale fosse fornita di quella specie di trinità, di cui fornito si scorge l' effetto, e nulla più. Ora la Trinità divina è cosa interamente diversa da quel trino modo in che sussiste l' essere creato, ossia l' essere senza più. E veramente l' essere reale , l' essere ideale , e l' essere morale non formano già tre persone, nè sono unite in una sola sostanza: che anzi l' essere ideale nelle creature non è mai una persona, ma solo l' oggetto di una persona (soggetto), e quindi medesimo una forma che non sussiste da sè, ma che sussiste come aderente all' essere reale. L' essere morale parimente non è che una forma accidentale dell' essere reale intelligente, e quindi tale che in sè non ha veruna sussistenza propria e personale. Quindi nell' uomo, che è l' unico essere personale, di cui abbiamo esperienza, non vi è che una persona, la quale si regge dalla sostanza, sebbene abbia la sua base e la sua qualità dalla forma intellettuale7morale, di cui è informata quella sostanza (1). All' incontro il mistero della santa Trinità, che propone da credere la cattolica fede, consta di una sostanza, nella quale sono tre personali sussistenze, cioè tre distinte persone. Era dunque impossibile dall' effetto, cioè dall' universo, conoscere il mistero della santissima Trinità di Dio, sua causa. Prevedo ciò che [si] risponderà: - Se dall' effetto, cioè dall' essere creato, come da quello che ha tre modi, si può salire tant' alto fino a indurne la necessità di una causa che abbia pure tre modi, non deve essere impossibile, ragionando, il trovare altresì la Trinità divina. Perocchè venuti a questo punto che la causa prima abbia tre modi, già non è più possibile fermarsi qui col ragionamento, ma qui appuntandosi, si può spingersi più in alto, così argomentando: - La causa prima deve avere tre modi di esistenza. Ma essa non può avere niente di accidentale in sè, ed è assurdo l' ammettere che alcuno di questi tre modi fosse una forma accidentale. Non vi è dunque altro sistema che eviti l' assurdo, non vi è altra supposizione a farsi possibile, la quale nel medesimo tempo sia atta a spiegare l' esistenza dell' universo, se non il mistero della santissima Trinità, quale viene proposto dalla cristiana dottrina la quale insegna i tre modi in Dio essere altrettanti reali sussistenze, essere tre persone in una natura. Benissimo, io dico. Accordo che, ove non si ammetta il mistero della Trinità cristiana, nulla si spiega, e tutto l' universo è un enigma impenetrabile. Che per ciò? Avrebbe per questo la ragione sola trovata la soluzione di questo enimma? No certamente; perchè per ricorrere al mistero della santissima Trinità, se si vuol anco come a una ipotesi per ispiegare sufficientemente l' esistenza del mondo, bisognava poter concepire questo mistero, perchè non si ricorre mai a una ipotesi, se questa ipotesi non si concepisce. Ora la ragione non poteva e non può concepire il mistero della santa Trinità, e la sola fede lo ha proposto a credere. Era dunque impossibile che la ragion naturale ricorresse da sè a questo mistero per ispiegare il mondo, perchè non avrebbe giammai potuto pensare che una sostanza in tre persone fosse possibile. A quello stesso modo come il cieco nato non può pensare la possibilità dei colori, senza che gli vengano in qualche modo notificati da coloro che li vedono: e per ciò da sè solo, se dei colori non avesse giammai udito parlare, non potrebbe mai il cieco nato aver ricorso a colori per ispiegare qualsiasi fatto della natura giunto a sua notizia, sebbene la sola esistenza de' colori fosse la supposizione adatta a rendere di quel fatto ragione e convenevole spiegazione (1). E vedo che qui si può fare un' altra istanza. Le divine Persone hanno la causalità delle cose create secondo il modo del loro procedere (2): sicchè l' atto, onde il Padre ha generato il Verbo, è quello stesso, onde ha create le cose; e medesimamente l' atto, onde il Padre e il Figliuolo hanno spirato lo Spirito, è quello onde hanno amato le cose: sicchè nel Verbo divino il Padre pronunciò anche le creature, e nello Spirito le amò, e pronunciandole e amandole le creò. Posto questo principio, così si può ragionare: - L' atto, onde il Padre generò il Figliuolo, è un atto diverso da quello, onde il Padre e il Figliuolo spirarono lo Spirito Santo. Non è dunque vero il principio che una unica operazione sia quella colla quale Dio opera, creando le cose. Di poi, se l' effetto di queste operazioni interiori sono due persone distinte, cioè il Figliuolo e lo Spirito Santo; perchè parimente nell' effetto esteriore, cioè nel mondo, non si vedranno le traccie delle distinte persone? Per rispondere acconciamente all' istanza che mi si fa, dividerò le questioni: e prima parlerò della pluralità delle operazioni; poi dell' indurre che si fa da queste, doversi avere nell' universo sparse delle traccie adeguate della santissima Trinità. Cominciamo adunque dal chiarire le idee sul modo del divino operare. Primieramente è da osservarsi che gli atti , coi quali procedono le divine persone e che i Teologi chiamano nozionali , non sono già atti che abbiano movimento e progresso, come sono tutte le operazioni e gli atti, dei quali noi abbiamo esperienza nelle cose create. Direi quasi che essi si chiamano atti impropriamente, ove si osservi il valore che noi sogliamo attribuire a questa parola atto , che inchiude l' idea di passaggio da uno stato all' altro, inchiude principio dell' atto, mezzo e fine. Nulla di questo nella santissima Trinità; perocchè essa ab aeterno immutabilmente sussiste, nè si può assegnare in essa un prima e un poi. Quegli adunque che si chiamano atti nozionali nella santissima Trinità, non sono che le nozioni stesse, le stesse relazioni sussistenti, le stesse persone, da noi riguardate e considerate imperfettamente secondo l' imperfetto modo nostro di vedere le cose divine: perocchè, come dice S. Agostino, « tutto ciò che si può dir di Dio, non può mai riguardar altro se non una di queste due cose, la sostanza o la relazione « (1) »: perocchè non v' ha altro in Dio se non queste due cose (2). V' ha dunque in Dio, propriamente parlando, un purissimo atto che forma la sostanza, e quest' atto unico sussiste in tre persone, cioè ha in sè tre relazioni sussistenti, tre termini, ciascuno de' quali s' identifica colla sostanza, cioè è la sostanza medesima: ma in quanto que' termini della sostanza si oppongono e escludono fra sè scambievolmente, intanto distintamente nella sostanza stessa sussistono. [...OMISSIS...] Insomma il Padre è l' essenza sotto questa relazione che genera; il Figliuolo é l' essenza sotto questa relazione che è generata; lo Spirito Santo è l' essenza medesima sotto questa relazione che è spirata. Il considerare poi l' essenza sotto queste tre relazioni non è puramente opera della mente che le concepisce, ma è necessità della cosa, perchè quelle sono relazioni inerenti e intrinseche all' essenza stessa divina e costituenti tre divine persone. L' atto dunque, onde sussiste il Padre, non è diverso dall' atto, onde sussiste l' essenza divina; e così pure l' atto onde sussiste il Figliuolo e lo Spirito Santo. Vi ha dunque un solo atto, ma v' hanno in quest' atto tre relazioni sussistenti, in virtù del medesimo atto: per modo che i Teologi dicono, che la essenza nelle cose divine si piglia per la forma «( quo aliquid est et operatur ) (2) »; e che la divina natura è la potenza generatrice, cioè il principio onde il generante genera; « quo generans generat (3) ». Quinci si vede la differenza che passa fra la processione delle persone, e la creazione delle cose. Le operazioni, onde procedono le persone, non sono già una terza cosa media fra la natura divina e le divine persone: ma o si vogliono considerare anteriormente alla processione delle persone, e, in tal caso, non è che la potenza di produrre le persone, e questa potenza è la stessa natura divina, come è detto (4); ovvero si considerano questi atti nelle persone stesse, e, in tal caso, non differiscono dalle relazioni, cioè a dire dalle persone (5), perchè le persone non sono che relazioni. Gli effetti dunque degli atti nozionali, non diversi dagli atti nozionali stessi, cioè le persone, non escono dalla divina sostanza, ma nella divina sostanza si contengono e in essa sussistono. All' incontro le creature non si identificano già coll' operazione divina che le ha prodotte, nè colla divina sostanza; ma sono qualche cosa di separato e di esteriore alla stessa divina sostanza. La divina sostanza non esiste senza le persone, perchè sussiste nelle persone, come le persone nella sostanza; ma essa si pensa bensì sussistente nelle persone antecedentemente e indipendentemente dalle creature. Le creature adunque presuppongono le divine persone già procedute e sussistenti come loro causa. Quindi nella processione delle persone non viene prodotta nessuna natura nuova, ma non si fa che una comunicazione della natura divina che già è increata. Non essendo dunque una sostanza nuova che si produce, ma una sola relazione che procede, non è necessario che operi la sostanza vestita, per così dire, di tutte le sue relazioni, ma sol di quella relazione che consiste in quel modo di comunicazione di sè, a cui tende. E per ciò se questo modo è quello di generazione, non è necessario e nè pur possibile che operi la sostanza se non vestita di quella relazione che la costituisce generante (della quale relazione vestita è Padre): e se questo modo è quello di spirazione, non è necessario e neppur possibile che operi la sostanza divina se non vestita di quella relazione che la costituisce spirante (della quale vestita è principio dello Spirito, Padre e Figliuolo). Ma dovendo procedere da Dio non una relazione, ma una sostanza, è necessario che operi come sostanza, non in quanto ha una relazione, ma in quanto è sostanza, cioè in quanto le ha tutte in sè le sue relazioni. E quindi nella produzione delle creature non entra una sola persona, ma tutte e tre, sebbene ciascuna di esse in diverso modo, cioè nell' ordine in cui procede: onde avviene che la operazione creante si possa dire, come diceva, una e trina. Questa dottrina è enunciata da S. Tommaso con queste parole: [...OMISSIS...] . Ma soggiunge però dopo di ciò, che le tre persone concorrono a questa unica loro azione del creare in modo diverso , pari al modo del loro procedere; sicchè Iddio Padre operò la creatura pel suo intelletto e pel suo amore, cioè pel suo Verbo e per lo Spirito Santo. La ragione adunque data da S. Tommaso, per la quale la produzione delle cose create esige la cooperazione di tutta la santissima Trinità, è degna di ogni osservazione, ed è, per ripeterlo, perchè in una tale operazione non si tratta di produrre una forma o una perfezione, ma si tratta di cavare dal nulla tutto, la sostanza stessa della cosa, la sua specie, il suo ordine. Quindi si vede manifesto che se l' essere generante o spirante è proprio di singolari persone, il produrre le cose create non è proprio delle singolari persone, ma è comune a tutte tre, in quanto è atto della sostanza divina a tutte tre comune; e quindi non c' è cagione da inferire che nell' effetto, cioè nell' essere creato, le traccie delle divine persone si devano vedere adeguate e realmente distinte. Ciò che si è provato dalla natura della operazione creante, si potrebbe egualmente provare dalla natura dell' essere creato. Perocchè la natura di questo essere è limitata in modo, che per la sua limitazione non può ricevere delle relazioni personali a lei intrinseche e in lei sussistenti; non è atta a comunicarsi in tal forma e a riflettersi sopra sè medesima. Ma mi asterrò dall' aggiungere a questo cenno una dimostrazione che in un ragionamento difficile m' involgerebbe e menerei troppo a lungo il paziente mio leggitore (1). Nome proprio di Dio è quello di vita , la sua essenza è vita. Non è vera vita ove non è sentimento. Il sentimento adunque in Dio è essenza divina. Il Padre è l' essenza divina, un sentimento, un IO che conosce sè stesso. Questa essenza, in quanto è conoscente è sapiente , e perciò la sapienza conviene all' essenza divina, e non alle persone, perchè è comune a tutte e tre. Ma l' essenza, in quanto è cognita, in quanto è affermata, essa è l' oggetto di sè, conoscente sè stessa. Ora questo oggetto che non è la sapienza, ma l' oggetto della sapienza, è in un modo diverso interamente da quello che sono gli oggetti della mente nostra. Gli oggetti della mente nostra sono forme accidentali di essa mente, i quali, come oggetti, a noi non appartengono, fossimo anche noi stessi, perocchè noi come oggetti della nostra mente non abbiamo alcuna sussistenza propria, non alcun sentimento, non alcuna coscienza: noi non esistiamo che come soggetto che ha, ossia che vede degli oggetti. Tutt' altro è in Dio. L' essenza divina, come oggetto di sè, ha un sentimento che la fa sussistere senza cessare di essere oggetto, ella è un IO7OGGETTO. Questa sussistenza, questa essenza nella relazione di oggetto è il VERBO, e in opposizione a questo oggetto, l' essenza, in quanto è conoscente, è il PADRE. Così non è l' essenza sola, che ha generato il Figliolo per modum intellectus , come dicono le Scuole, ma è il Padre che ha generato, cioè l' essenza nella relazione di conoscente un oggetto, non qualunque, ma un oggetto sussistente. Se l' essenza conoscesse sè solamente, non esisterebbe ancora come Padre, perchè non sussisterebbe il Figliuolo: ma conoscendo sè come oggetto sussistente, avente la vita (1), il sentimento come oggetto, il Padre ha generato, e il Figliuolo per questa generazione esiste. L' essenza divina conoscente, sapiente, ama sè stessa, e in questo sta la santità. L' amore adunque e la santità è comune alle tre divine persone, in quanto appartiene all' essenza divina. Ma l' essenza divina generante (conoscente e pronunciante sè stessa come sussistente, come oggetto) è una e la medesima coll' essenza divina generata (oggetto della conoscenza, vitalmente sussistente). Ora questa essenza divina, una, generante e generata, ama sè stessa e, in quanto ama sè stessa, è carità e santità. Ma ella stessa come amabile, come amata, come termine dell' amore, sussiste. Nel che ci ha questa differenza fra l' amore che abbiamo noi di noi stessi, e l' amore che ha di sè il Padre e il Figliuolo. Noi sussistiamo come amanti; ma, come amabili e amati, non siamo più che una forma intellettiva accidentale, non siamo che un termine dell' amore, non esistente in sè stesso, ma solo nell' amore dell' amante. All' opposto in Dio l' essenza divina, come amabile e amata, sussiste (2), ella ha un sentimento, è un IO come amato. Questa essenza intesa e sussistente come amata, è lo SPIRITO SANTO. L' essenza amata è la stessa essenza intesa e pronunciata, come pure è la stessa essenza conoscente. Ma questa unica essenza sussiste come conoscente, conosciuta, e amata. E sussistendo in queste tre relazioni, in questi tre diretti sentimenti, essa acquista le proprietà di generante, generata, e spirante e spirata: essa è Dio insomma, Padre, Figliuolo e Spirito Santo (3). Il Padre adunque non è solamente la Potenza , ma la potenza viva, sussistente, generante, per via d' intelletto, il Figliuolo. Il Figliuolo non è adunque, semplicemente la Sapienza ma è l' oggetto vivo sussistente: il termine della sapienza del Padre (1). Lo Spirito Santo non è semplicemente la Carità , ma bensì il termine, vivo, sussistente della carità del Padre e del Figliuolo. Queste tre relazioni vive, sussistenti, sono tre persone, perchè ciascuna è « una sostanza intelligente IN QUANTO (questa espressione esprime la relazione costituitiva della persona) contiene un principio attivo, indipendente (cioè supremo) e incomunicabile« (2). » Ciascuna è suprema e indipendente, perchè tutte e tre sono perfettamente eguali, perchè sono non una sostanza diversa, ma la sostanza medesima numericamente una, e quindi non v' è maggiore o minore in esse, signore e servo, fine e mezzo; ma ciascuna è egualmente massima, egualmente dominante e operante, egualmente fine unico di tutte le cose. E con ciò si chiarisce la dottrina di quelle qualità che i teologi chiamano appropriate , e non proprie , delle divine persone. Perocchè si attribuisce, in ragion di esempio, al Padre la potenza e tuttavia egli solo non è potenza; si attribuisce al Figliuolo la sapienza , e tuttavia egli solo non è sapienza; s' attribuisce allo Spirito Santo la bontà , e tuttavia egli solo non è bontà: ma tanto il Padre, quanto il Figliuolo, quanto lo Spirito Santo è potenza, è sapienza, è bontà. La ragione dell' appropriarsi alle singole persone ciò che non è proprio, è perchè questi appropriati, sebbene non sieno le persone, ma anzi appartengano all' essenza, tuttavia si concepiscono da noi come fossero la via, per la quale le persone si costituiscono, e, nel nostro modo di veder le cose, troviamo una somiglianza fra la potenza e l' essere il Padre principio fontale della Triade, fra la sapienza e l' essere il Figliuolo una parola interiore del Padre, fra la bontà e l' essere lo Spirito Santo l' amore del Padre e del Figlio: e non ci avviene di riflettere molto che ciò che formano le persone, non sono la potenza, la sapienza, e la bontà, ma le relazioni sussistenti in queste tre cose come nella essenza divina. Di che si può conchiudere che la traccia della Santissima Trinità, che risplende nell' essere creato, non consiste già nel vedere nell' universo cosa appartenente a ciò che è proprio delle singole persone, ma bensì negli appropriati , i quali generi di cose si riducono come in loro fonte nelle proprietà della Trinità augustissima, dopo che la rivelazione ce le ha proposte a credere. Dalla definizione che abbiamo data dell' operazione deiforme apparisce la differenza che passa fra un' operazione semplicemente divina e un' operazione, oltre divina, anche deiforme . Abbiamo detto che operazione divina è ogni operazione, che abbia per principio e causa Dio; ma che un' operazione è deiforme, quando non solo Dio è il principio e la causa di quella operazione, ma è anche il termine, e, per così dire, l' effetto (1). Quindi la creazione è bensì una operazione divina, ma non è punto una operazione deiforme (2): perchè l' effetto, cioè le creature, non sono Dio, nè Dio è formalmente unito alle creature nell' ordine naturale. L' operazione della grazia all' incontro abbiamo detto essere non pur divina, ma ben anche deiforme , perchè con essa Dio si congiunge formalmente all' uomo (3): e quindi l' operazione deiforme appartiene all' ordine soprannaturale. La sostanza divina si unisce formalmente coll' uomo giusto. Ma la sostanza divina sussiste non in altro che in tre persone indivisibili, ciascuna delle quali è la sostanza stessa divina con una relazione, che la costituisce in persona. Dunque anche le tre persone dell' augustissima Trinità si uniscono formalmente all' uomo giusto. Ora se questa operazione della Trinità nell' uomo è tale, che l' uomo ne abbia un trino sentimento deiforme, rispondente alla Trinità delle persone; questa operazione si può acconciamente chiamare triniforme . Dall' essere dunque la santa Trinità termine della operazione della grazia e forma dell' anima santa, ci parve poter acconciamente chiamare questa operazione non solo deiforme, ma anco triniforme. Già ho detto che l' operazione deiforme si conosce essere nell' uomo dal sentimento ineffabile che produce (1), sentimento ove si sente Dio: dottrina questa della tradizione cristiana. I Padri della chiesa, dietro le divine Scritture, ci dicono lo stesso della operazione triniforme. E` una manifestazione interiore, un sentimento della santissima Trinità in noi quella che ci fa sperimentare e percepire appunto, sebbene imperfettamente in questa vita, la Triade augustissima. Mi restringerò al testimonio di S. Agostino, in tanta abbondanza di documenti. Egli parla così: [...OMISSIS...] . Ma perchè si veda meglio, come si conosca che Dio nell' uomo santo esercita una trina7deiforme operazione, conviene por mente alle cose seguenti. Se un divino sentimento, un sentimento onde sentiamo operare in noi qualche cosa d' ineffabile, di supremo, d' infinito, è quello che comincia a farci percepire Iddio; converrà che anche questo sentimento sia uno nella sua essenza, ma trino ne' suoi modi. Tentiamo adunque l' analisi di quel sentimento al tutto ineffabile e che è ignoto all' uomo animale, il quale ci rivela Iddio. Abbiamo detto che la natura, l' essenza di questo sentimento, che sorte da Dio in quanto è oggetto del nostro spirito, è di farci sentire una cotale forza, indistinta però, ma che tutte le forze e che tutte le cose racchiude, a cui non manca niente, che ci riempie perfettamente, ci sazia e perfettamente accontenta, che insomma con esso noi sentiamo e talora siamo consapevoli di percepire non una o altra parte dell' essere o del bene, ma sì TUTTO l' ESSERE, TUTTO IL BENE. Ora questo sentimento del TUTTO ha tre forme o modi. Il primo modo è di sentire una potenza o forza che opera in noi, invisibile, ma irrepugnabile, somma, intima nella nostra personalità; sentesi la presenza in noi di tal cosa che ci invade e domina sostanzialmente; e si sente in questa affezione tanto gran cosa che non è possibile neppure concepire niente che a lei sia opposto, perchè ella è come creatrice, cioè ha un vigore precedente alle altre cose, che di quel precedente vigore solo in qualche modo partecipano. Nella grandezza di questa forza si sente il tutto : e questo modo di sentire è il fonte del timore di Dio. Il secondo modo del sentimento del TUTTO è mediante una notizia di Dio, un' idea, una concezione, sebben negativa, nel che sta la fede. In questa notizia e pensiero di Dio noi veggiamo tanta bellezza, che l' intelletto nostro n' è rapito e vinto: sentiamo che è superiore a tutto quell' idea, che è insieme sostanza, cibo dell' anima che la sazia, la compisce a segno, che non le resta che desiderare se non il più e più profondarsi in quel pensiero, il più e più vagheggiare quella notizia, il venirne pienamente in possesso, alla qual solo l' uomo si chiama trabocchevolmente felice. Il terzo modo del sentimento del TUTTO è quando da quella notizia si diffonde e spande largamente in noi una luce che trae a sè irresistibilmente colla sua bellezza ineffabile la volontà e l' amor nostro, e ci prende allora tale un amore che è qualche cosa di pieno, di sostanziale, una manna che ci pasce, un vino che ci letifica: nutrimento e delizia incomparabile dell' anima ebbra e affogata come in pelago di amore, ove siffattamente riposa e quieta ogni suo desiderio, che sente non restargli altro a bramar e tutto possedere nel solo amore. Sentimento adunque di una forza e di una forza onnipossente che opera in noi: sentimento di una verità , ma di una verità sussistente che brilla vivamente nel nostro intendimento: sentimento finalmente di un amore che si diffonde e cattiva colla dolcezza di un gaudio ineffabile la nostra volontà: queste sono le tre forme o modi, in cui si appalesa in noi il sentimento soprannaturale e deifico, di cui parliamo. E si osservi bene la natura di questo triplice sentimento. Non vi è, si può dire, sentimento umano (1) che non sia trino , perciocchè in ogni umano sentimento si può distinguer sempre e la forza che l' uomo sperimenta ricevendo la notizia dell' oggetto del sentimento, e la notizia stessa, e l' affetto che esce da questa notizia. Ma questa trinità di ogni sentimento non è nulla più che quel carattere di trina forma, di cui abbiamo già detto essere suggellato e stampato l' universo e ogni cosa in esso; il qual carattere non è punto un vestigio adeguato della divina Trinità, ma solo un cotale adombramento e sparuta traccia di lei. Perocchè la percezione o idea dell' oggetto di questi sentimenti umani è finalmente la sola cosa che realmente tocchi l' anima, e l' amore, che ne proviene non è che una conseguenza di quell' oggetto e non ha nulla di sè, e se voi rimovete un solo di questi tre elementi, il sentimento stesso svanisce. All' incontro nel sentimento soprannaturale l' anima percepisce tre volte la stessa cosa, cioè tanto nel sentimento della forza, come nel sentimento della notizia, come nel sentimento dell' amore, acquista sempre una cotale persuasione che in ciò che percepisce ci abbia il TUTTO, e che ivi nulla manchi dove ha il suo sentimento: perocchè non le è possibile immaginare nè cosa maggiore, nè cosa che non sia nulla verso a ciò cui ella sperimenta. Indi avviene che tanto le divine Scritture, come i Santi uomini che hanno descritti questi fatti soprannaturali, di cui fu consapevole il loro spirito, parlando separatamente ora di uno e ora di un altro di questi tre modi del sentimento, usassero di ciascuno le stesse espressioni, dicessero di tutto possedere e tutto comprendersi in quel sentimento e nulla mancarci. E pure interamente diverso sembra il sentimento di una potenza e quello di una verità, e [quello] di un amore: ma quando queste cose vanno all' infinito, si compenetrano, per così dire, fra loro e in ciascuna di esse è ogni cosa. In ragione d' esempio, quando toglie la divina Scrittura a far l' elogio della sapienza , tutto dà a lei, nè rifinisce di enumerare i beni che in sè contiene, perchè tutti li contiene; ed è detta ella sola atta a far l' uomo beato: [...OMISSIS...] . Medesimamente nel nuovo Testamento Gesù Cristo nella cognizione pose la vita eterna, il che è dire ogni bene: tanto è il prezzo dato alla cognizione da Cristo! Egli disse: [...OMISSIS...] . Dunque le Scritture, quando parlano di sapienza , di cognizione di Dio , mettono in quest' unica cosa tutti i beni; nè sembra che sia punto nè poco necessario altro all' uomo. Ma quale maraviglia di ciò, se è detto altresì nelle Scritture che Dio è VERITA`; se ha detto lo stesso Verbo divino: [...OMISSIS...] . La sapienza e la cognizione appartengono all' intendimento: l' amore appartiene al cuore dell' uomo: sono certamente cose differenti, per quanto l' una possa nascere dall' altra. E pure le divine Scritture parlano in certi luoghi dell' amore, dell' unico amor di Dio, ed è in questo che affermano contenersi tutte le cose, avere un prezzo infinito, e in questo solo l' uomo bearsi, nè di altro avere uopo. Si legge che se l' uomo dovesse dare tutta la sostanza di casa sua per l' amore, dispregerebbe quella sostanza per l' amore: [...OMISSIS...] . Ed è a considerarsi che si parla dell' amore, senza aggiungervi nulla di più, perchè l' anima posseduta dall' amore ed ebbra in lui già perde quasi fino la specie dell' oggetto amato, o non l' avverte più, ma nuota in una affezione amorosa, semplicissima, e non sente altra cosa ormai che amore: l' intelletto le è come per niente, e l' amore le è tutto, perchè tutto le si trasforma in amore, quasi in una sostanza nuova che è amore; di che il chiamare che fa il Diletto non più con altro titolo che con quello di amor suo , mentre non ama oggimai più altra cosa, ma l' amore stesso. Ma questo amore essenziale, questa trasformazione in amore dell' oggetto amato, si può anche mentire: e indi fu l' idolatria dell' amore, indi le personificazioni dell' amore ne' poeti e negli amanti terreni; personificazioni che hanno l' esagerazione solita che fa sempre l' uomo degli affetti suoi, ma che addita un principio profondo rivelato dalla coscienza, un principio che ha una verità in Dio, nell' amore divino. Parlando adunque del solo amor divino, dove solo veramente avviene il fatto che accenno, di sentire tutto [unificato], per così dire, tutto sussistente nel solo amore, non è maraviglia se alcuni rispettabili autori, come Giovanni Gersone, giungessero fino a dire che si dava amore senza cognizione (1): al che nondimeno il più de' Teologi si opposero, come contrario all' amore razionale e umano. Ma si può fare una conciliazione di queste opinioni, acconciamente spiegate che sieno. Perocchè è da considerarsi che, rimanendo il solo amore nell' anima e smarrendosi la notizia precedente di Dio (il quale smarrimento non è altro che un non rifletterci più, un non porvi più attenzione), non è per questo che l' uomo ami senza cognizione, perchè l' amore stesso gli è cognizione, anzi cognizione vivissima e sperimentale (2); perchè in quell' amore è tutto, e quindi anche luce, fulgentissima luce, perchè è, a dirlo nuovamente, la percezione stessa di Dio, fatta sotto la forma di amore (3). E qual meraviglia di ciò, se la Scrittura dice espressamente che Dio è CARITA`? [...OMISSIS...] Non è tutto in questa carità senza bisogno di altro? Indi è che nelle Scritture si parla talora dell' amore, senza aggiungere alcuna determinazione di oggetto, quasi l' essenza stessa dell' amore a tutto sopperisse. Cristo disse della Maddalena « Le si rimettono molti peccati, perchè ha amato molto« (5) »: non disse perchè ha amato molto Iddio, o me, ma semplicemente, perchè ha amato giacchè vi ha un amore che è essenzialmente amore di Dio, nel quale amore si avverano appunto quelle parole di S. Fulgenzio: « Che si ama Iddio con Dio, perchè coll' amore si ama l' amore, che è Dio« (6) ». E in questo senso è vero che un tale amore basta a sè stesso, senza bisogno della precedente notizia dell' oggetto amato, che viene da lui come abbandonata per ritirarsi in sè solo; giacchè trova una nuova notizia e migliore in sè stesso, dove niente hassi a desiderare e tutto è luce. A ciò forse si riferiscono quelle parole di Cristo: « Lo Spirito spira ove vuole: e tu odi la sua voce, e non sai onde venga o dove vada« (1) »: il che parmi esprimere appunto quel non attendersi più quella notizia che prima cagionò l' amore, e il tutto concentrarsi e saziarsi di sè medesimo. Or, se talora nella cognizione dell' intelletto si sente il tutto, e lo si sente pure nell' affezione della volontà; gli è evidente che si sente la stessa cosa in due modi, in due forme; vi si sente lo stesso Dio, ma per guisa che il primo affacciarsi di questo sentimento è cosa interamente diversa, ma l' interiore di lui è il medesimo, perchè è il ricettacolo di ogni bene. Nè può mancare la sussistenza , ove il tutto si sente. Il perchè è a dirsi che, in que' due modi sentendosi Iddio, sentesi veramente nell' un modo la persona del Verbo, e nell' altro quella dello Spirito Santo. Quindi Gesù Cristo disse così di sè e del Padre: [...OMISSIS...] . Dello Spirito Santo parimente dice nello stesso capo di S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Egli è anzi osservazione costante che nelle divine Scritture le Persone divine attribuiscono a sè stesse l' inabitare nella mente dell' uomo, e che non è accomunata questa prerogativa mai a nessun altro essere: di che è venuto l' adagio teologico che « sola Trinitas menti illabitur ». Dello stesso sentimento è tutta la cristiana tradizione. Recherò solo uno o l' altro passo de' Padri per non esser infinito, dove parlano della inabitazione delle tre divine persone nell' uomo. S. Cirillo d' Alessandria dice così: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure dice: [...OMISSIS...] . S. Anastasio: [...OMISSIS...] . Finalmente S. Basilio dice delle divine persone l' una tirar seco l' altra, [...OMISSIS...] . Iddio può essere partecipato dall' uomo in diversi gradi, non mai pienamente, perchè egli è incomprensibile. Neppure i Santi che più prendono della divina sostanza, giungono a tutta in sè riceverla e concepirla, travalicando essa la capacità di ogni creatura. Sebbene l' uomo in cielo per la gloria e in terra per la grazia si faccia partecipe della divina sostanza in diversi gradi, tuttavia non è per questo Iddio divisibile: tutta la diversità della misura, in che l' uomo prende di Dio e ne fruisce, ha origine dalla parte dell' uomo, dall' essere questo più o meno capace di partecipare della divinità. Nondimeno l' uomo che partecipa di Dio deve partecipare di tutto Iddio, perchè altrimenti non si potrebbe dire che fosse Dio quello di che partecipa; ma di tutto Dio può partecipare in un modo più e men pieno. Non è mio intendimento di stendermi qui a dichiarare questa verità, già insegnata comunemente dai teologi. Tuttavia ne dirò una parola, perchè non sembri una cotale contraddizione questa di percepire tutto Dio, ma non percepirlo in modo pieno. Non è difficile intendere che nulla contraddizione v' ha in ciò, allorchè si consideri semplicemente che Iddio non è che l' essere, l' essere necessario, tutto l' essere. Ora è facile di vedere che il concetto del TUTTO può essere concepito superficialmente, o anche più o meno intensamente nella nostra mente. Il concetto del tutto è semplicissimo e ognuno lo intende a prima giunta. A malgrado però che s' intenda questo concetto con tanta facilità, io posso mettere più attenzione in questo concetto e colla mia forza pensante posso meglio internarmi in esso e attingere una vista più chiara di lui. E nondimeno è sempre il tutto che io ho contemplato, tanto contemplandolo io superficialmente, come contemplandolo intensamente. Ciò che ho detto dei gradi della mia cognizione e della mia forza pensante, dicasi di quella potenza onde l' uomo percepisce Iddio: e si vedrà che secondo la virtù di questa potenza, o secondo che Iddio farà di essere da questa potenza più o men penetrato, l' uomo ne parteciperà altresì più o meno. Di qui è manifesto che: 1 Iddio non si può dire parteciparsi dall' uomo, se l' uomo non sente tutto l' essere sussistente (1); 2 che questa partecipazione del tutto può aver diversi gradi. Nessuna maraviglia adunque che la natura divina si percepisca dall' uomo, ma non così intensamente, che si distinguano in essa le tre divine persone. A poter percepire le tre divine persone si richiede di percepire la divina natura in un certo grado eccellente e più intenso. Mi spiego tosto. Quando è che noi possiamo dire di percepire Iddio? di sofferire quella operazione deiforme di cui parliamo? Allora quando noi sentiamo in noi un sentimento tutto di suo genere, diverso da ogni sentimento che venir possa in noi eccitato dalle nature finite, un cotal sentimento sublime, infinito, ove sentiamo tal cosa che il tutto essenzialmente comprende: il sentimento, come dicevo, del TUTTO. Quando all' incontro è che noi possiamo dire di percepire le persone divine? Di sofferire quella operazione che chiamiamo triniforme ? Allora quando questo sentimento del tutto si fa triplice in noi: allora quando in noi sentiamo tre cose, tre sussistenze, e in ciascuna sentiamo egualmente che c' è il tutto. Ora che cosa vi ha di ripugnante nel concepire che noi abbiamo bensì il sentimento di una tal cosa, dove essere il tutto indubitatamente sentiamo, e tuttavia non abbiamo questo sentimento medesimo in tre modi o forme diverse? Nulla vi ha in ciò di ripugnante; e non osta il sapere che Dio ha tre sussistenze, perchè coll' averne un sentimento solo, la limitazione della partecipazione divina è tutta da parte nostra, ella si fa in noi e non in Dio: cioè è una limitazione nostra il non partecipare della distinzione delle persone e solo avere di tutte un sentimento confuso della divina sostanza. La possibilità, la nessuna assurdità che in questa supposizione si trova, si farà più manifesta allorquando si considererà che, sebbene in sè stesse le persone non sono realmente distinte dalla divina sostanza, tuttavia noi colla nostra mente, pel limitato nostro modo di concepire, possiamo pensare la natura di Dio, e non le persone. Di che possiamo prendere facile esperimento in noi stessi: e prova convincentissima son tutti quelli che ammettono il monoteismo , e tuttavia rifiutano la Trinità , come i Maomettani e gli Ebrei. E perchè ciò? Non per altro se non per una troppo limitata e tenue cognizione che abbiamo della divina natura: perciocchè se noi perfettamente conoscessimo questa natura, non potrebbe stare che non conoscessimo parimente le tre persone in che essa natura sussiste. Ed ora, che ripugnanza può averci mai che questa divisione delle persone dalla natura, che avviene nella nostra mente per la sua limitazione e perchè imperfettamente conosce quella natura, avvenga altresì nel sentimento nostro appunto per la ragione stessa della limitazione del nostro sentimento, pel modo incompleto e non abbastanza pieno, pel quale noi sentiamo la natura divina comunicarsi a noi nell' ordine della grazia? E anzi nè pur si può dire che l' operazione sia triniforme per sentirsi in essa non pure la natura divina, ma quegli attributi di lei che alle singole persone si sogliono appropriare. E veramente una cotale trinità ha essenzialmente ogni puro sentimento intellettivo: perchè in ogni sentimento intellettivo e sentesi una forza che ci fa passivi, ed una specie ed una bellezza ed amabilità che nella specie rifulge. Il che tutto si avvera in ogni sentimento soprannaturale dell' essere assoluto . Noi siamo consci in esso di essere passivi d' una potenza infinita, di godere di una sapienza che è degna di ogni amore . Ma il sentir questo non è ancora il sentire le persone divine in noi: perchè la potenza, la sapienza, e l' amore sono attributi comuni a tutte e tre egualmente le persone, e non si appropriano alle singole persone che per una cotale somiglianza che hanno col modo del loro procedere, siccome detto è innanzi, e non sono quelle loro proprietà, dalle quali vengono costituite. Conviene adunque perchè sentiamo in noi una operazione soprannaturale che dir veramente si possa triniforme , che percepiamo le proprietà delle persone, che percepiamo un essere infinito agente in noi con una forza infinita e sussistente, una specie prima o conoscibilità sussistente, e un amore o amabilità di quella specie prima pure sussistente: nel qual caso solo percepiremo tre sussistenze e in ciascuna il medesimo tutto, il tutto in tre modi, quasi per tre vie, ci inabisseremo nel medesimo infinito e assoluto essere. La dispensazione della divina provvidenza nell' opera dell' innalzare l' uomo di grado in grado alla sua perfezione e congiungerlo con Dio, tiene un modo tutto acconcio all' indole dell' umana natura. E però come la natura umana è composta di corpo e di spirito, e lo spirito riceve la materia delle sue cognizioni e l' occasione delle sue operazioni dai sensi; così anche nell' ordine sopra natura la divina Sapienza ha così provveduto, e di mano in mano che gli uomini riceverono l' esterna rivelazione, ebbero anche nell' interiore anima un lume corrispondente di grazia, mediante il quale percepirono spiritualmente quelle invisibili cose che loro venivano dalla rivelazione narrate. Questo si accorda e torna a un medesimo con quello che abbiamo per innanzi dimostrato, cioè che la fede è il fondamento del lume interiore (1), e la fede si appoggia e insiste su quelle idee negative della divinità, che la divina rivelazione ci somministra: il che è ciò che insegnava l' Apostolo, dicendo, che la fede viene dall' udito, cioè dalla esterna rivelazione che per l' udito si riceve (2). Ora la rivelazione delle divine verità fu data agli uomini per una serie successiva di secoli: non tutta svolta nelle sue parti a principio, ma a principio solo quasi ravviluppata come germe, e di mano in mano disviluppata. E` così che ci descrive l' Apostolo la mirabile dispensazione delle divine verità comunicate agli uomini, non tutte in un tratto, ma di tempo in tempo, secondo il bisogno e la capacità del genere umano a riceverle; fino che venne la pienezza de' tempi, la comparsa del Messia, di quell' Unigenito di Dio Padre che doveva rivelare ogni verità, completare ogni rivelazione, e con essa insieme rendere pieno e perfetto altresì quel lume interiore dell' anima, col quale solo la divina sostanza si attinge e percepisce. Ecco com' egli descrive a' suoi nazionali quest' ordine della divina sapienza: [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si vede che tutte le antiche profezie e rivelazioni non erano che preparazioni alla venuta del Figliuolo, pel quale i secoli furono fatti e al suo servizio adattati (aptavit); e quindi quelle antiche rivelazioni, date pel ministerio degli Angeli, non erano che un crepuscolo del sole di giustizia che doveva apparire. E veramente la comunicazione della luce spirituale che a Dio piacque di fare all' umanità di mano in mano, nelle divine Scritture è rassomigliata al nascere e crescere di un giorno, che prima è l' alba, e poi s' arrosa e indora il cielo, e per gradi tutto si illumina fino che il sole stesso sorge e giunge rapidamente al meriggio: similitudine acconcissima a rappresentare non meno l' incremento successivo delle verità esteriormente rivelate, che quel della luce corrispondente, colla quale le anime partecipano delle cose divine (2). Osservando i gradi che distinguer si possono nella cognizione di Dio, si vede che essa comincia colla unità di Dio e cogli attributi che appartengono alla divina natura; e che fino che la cognizione della divinità è imperfetta, non eccede questi confini, nè si estende oltre al conoscere un Dio uno. Ma perfezionandosi la cognizione della divinità, è necessario che entri in essa altresì la cognizione delle persone, che diviene il compimento di quella cognizione; giacchè quella natura altissima non sussiste, se non appunto in tre distinte persone. Questo progresso della cognizione intorno a Dio viene eccellentemente descritto da S. Ilario, nel suo primo libro della Trinità, raccontando per quali passi egli pervenne alla fede cattolica. Dagli errori de' filosofi e del volgo pagano, col lume della ragione, passò all' unità di Dio: indi s' imbattè nei libri di Mosè, e da quelli attinse la cognizione dell' essenza divina consistente nell' essere, della sua eternità, infinità, incomprensibilità e inenarrabil bellezza: conosciuti i quali attributi, gli nacque in cuore un vivo desiderio di conoscere più innanzi Iddio, e una speranza della immortalità, e di poter godere per sempre della contemplazione di un tanto Essere: e allora fu che la divina Provvidenza gli mise fra le mani il Vangelo di S. Giovanni, dove lesse la generazione del Verbo, e per questa tutto il misterio della Santa Trinità gli fu disvelato. [...OMISSIS...] Quindi essendo il cristianesimo il compimento e perfezionamento della divina rivelazione, fu dato in esso tutto quel più che si può conoscere di Dio, cioè il mistero della Trinità delle Persone: dottrina propria e fondamentale dell' Evangelio. [...OMISSIS...] Perciò i Cristiani sono battezzati nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Tanto alto non ascese la dottrina mosaica, la quale non dava di Dio una cognizione ancora così compiuta, come l' Evangelio. Il mondo tutto cadeva nella idolatria. Iddio scelse il popolo ebraico, acciocchè si conservasse sulla terra la cognizione dell' unico vero Dio. Quindi l' intendimento della legge mosaica è primieramente quello di conservare intatto il popolo ebreo dalle idolatriche abbominazioni e di mantenere una sana dottrina intorno alla divinità (2). La base adunque del Giudaismo è propriamente l' unità di Dio, la dottrina della sua natura e de' suoi attributi (3). Nè per questo egli è men vero che in tutto l' antico Testamento vi abbiano delle traccie manifestissime della Trinità delle divine persone. Ma del più di queste traccie si può dire quello che detto abbiamo di quei vestigi della Trinità che si ravvisano sparsi nell' universo: i quali vestigi, sebbene sieno per sè manifesti a chi conosce già l' alto mistero, sono chiusi a chi nol conosce, poichè non insegnano il mistero direttamente, ma solo lo suppongono come una spiegazione di fatti che, senza lui, rimarrebbero inesplicabili. Così, a ragione di esempio, esaminando l' essere , si trova, che egli non puossi concepire se non trino, cioè fornito di tre modi, il reale , l' ideale , e il morale . Or questa è tal notizia dell' essere, che chi avesse una forza bastevole di ragionare, facilmente vedrebbe que' tre modi potersi ridurre se non in tre principii originari sussistenti in una sola sostanza divina. Ma chi ha tanta forza di mente che basti a fare questo ragionamento? Nessun uomo, il quale non sappia prima per fede il mistero della Trinità, come viene proposto dal cattolico insegnamento. Medesimamente quando Mosè, narrando la creazione, si esprime così: « Disse Iddio: sia fatta la luce, e la luce fu fatta« »; egli viene con ciò a dire che Iddio fece la luce e le cose tutte colla sua parola : ma chi può salire tant' alto fino a pensare che questa parola sia una persona divina? (2) Solo colui che ha ricevuto già la rivelazione e la fede, che la parola di Dio sussiste, che essa è una persona. Nè per questo è men vero, che non vi è altra via da intendere in un modo ragionevole quelle parole di Mosè, dove comparisce una parola di Dio creante, fuor di quello di supporre che questa parola sia una cosa, una sussistenza . Ma qual degli uomini non si sarebbe piuttosto appagato di dichiararsi inetto a spiegare la verità letterale della mosaica narrazione, ovvero non avrebbe tentato di dare a Mosè una spiegazione qualunque, deviando dalla forza della parola, anzichè poter giungere a immaginare la possibilità di una parola sussistente, di cui non ha mai avuto esempio alcuno sott' occhio nè trovasi un sì singolar fatto nell' universo? Nei libri mosaici adunque, e negli altri dell' antico Testamento, la Trinità vi è supposta per tutto (3), ad essa continuamente si allude, si menzionano gli appropriati delle persone; ma in nessun luogo si dànno chiaramente le proprietà personali, in nessun luogo vi è direttamente insegnata e [posta] come in base di tutto quel sistema religioso che all' Ebraico popolo fu assegnato. Il perchè giudiziosamente Dionigio Petavio, dopo aver recati tutti i migliori argomenti che dall' antico Patto si possono trarre in prova della Trinità, conchiude che quei passi hanno più forza di persuadere la Trinità ai Cristiani, che di convincerne gli Ebrei; perocchè i primi hanno il lume della fede che li scorge a intendere la forza di quei luoghi, il qual lume manca a questi secondi (1). Essendo adunque il fondamento dell' ebraica rivelazione l' unità della natura divina, e il fondamento della rivelazione evangelica la Trinità delle divine persone, nella quale la cognizione che Dio diede agli uomini fu completa e procedendo in bell' accordo l' interna operazione della grazia coll' esterna rivelazione ne' suoi progressi, essendo questa che opera e si avviva nell' uomo per quella; apparisce manifesto che la grazia, la quale santificò gli uomini avanti Cristo, si può acconciamente chiamare deiforme , e riserbare alla grazia del Redentore il titolo di una grazia deitriniforme . In quell' antico tempo, per quella grazia sua propria, si manifestava nell' uomo una potenza divina che rendeva superiore alle cose tutte la legge di Dio nel suo cuore e un sentimento di aspettazione, una speranza che prometteva il possesso del TUTTO, e ne dava qualche caparra. Conciossiachè non tutti gli Ebrei servirono per un basso timore; ma ebbe luogo in alcuni anche un timore ragionevole e un amore, i quali furono resi liberi per la grazia, come dice S. Agostino (2): grazia che ottennero per aver bene usato del primo aiuto dato loro insieme colla legge, umiliandosi, confessandosi incapaci di adempirla e dimandando a Dio ciò che essi non potevano. E che questa grazia dovesse esser deiforme, cioè dovesse dare all' animo di que' santi un sentimento di Dio, da questi due capi si può rilevare, che quei santi operavano tutto in virtù della fede, come mostra S. Paolo (3), la quale è pure un sentimento di Dio; e che questo sentimento dava loro una fortezza superiore a tutte le cose della natura e a quello stesso della vita, e pienamente li soddisfaceva. Il quale effetto non può prodursi che mediante un cotal saggio che l' uomo piglia di quell' ESSERE che avendo tutto in sè è a tutto superiore, e non v' ha cosa che messa al suo confronto non invilisca. Or chi non dirà che un sentimento superiore a tutte le cose e veramente divino non movesse Abramo che sacrifica il proprio figliuolo, e non parlasse in cuore a Giobbe, allorchè egli diceva di Dio: «Anche se mi ucciderà, io spererò in lui? (1) ». Tuttavia questa fortezza degli antichi giusti che mostra in essi un elemento soprannaturale e infinito, non è tal cosa che esiga una comunicazione delle divine persone; ma, per quanto a me pare, un' operazione che lascia bensì nell' uomo un effetto che sentesi manifestamente non poter essere prodotto da nessuna cosa creata, ma che sorte solo dalla fede di Dio, non dalla fede delle tre distinte persone sussistenti nella divinità. La fede all' incontro delle tre persone è il foco onde raggia, per così dire, la grazia del nuovo Testamento, la quale porta quel triplice effetto e si manifesta in quel triplice modo che più sopra ho descritto (2). Quando il Verbo si manifestò agli uomini fatto carne e costituito dal suo eterno Padre Capo e Redentore dell' uman genere, egli dapprima mostrò sè medesimo; di poi fece conoscere il Padre; e lo Spirito fu, per così dire, l' ultimo a essere chiaramente, distintamente e universalmente conosciuto per Dio dagli uomini (3). Gesù Cristo attribuisce a sè l' aver manifestato il nome del Padre suo agli uomini: « Ho manifestato, dice egli, il nome tuo agli uomini che hai dato a me dal mondo« (1) ». E questa era la missione che aveva ricevuto Cristo d' istruire e salvare gli uomini: la quale missione egli prosegue a descriver così, seguitando a parlare coll' eterno Genitore: [...OMISSIS...] Cristo adunque era mandato dal Padre per istruire gli uomini e rivelare loro la dottrina della salute, e senza lui « quanti vennero, dice egli stesso, furono rubatori e ladroni, e le pecore non li hanno uditi« (3) ». Quindi partendo da Cristo la cognizione della salute, egli è come la luce, la quale mostra le altre cose, ma ella si presenta da sè, è visibile per sè stessa: [...OMISSIS...] . Finalmente egli si annunzia come il principio della divina rivelazione, chiamando sè stesso appunto: il principio parlante ; quasi direbbesi il principio della parola: « Principium, qui et loquor vobis (io. VIII) ». Essendo Cristo chiamato l' Angelo del gran consiglio, cioè il ministro, o il mezzo onde gli uomini sono illuminati e salvati; i Padri della Chiesa insegnano che era il Verbo quello, che, anche nell' antico Testamento, comunicava all' uomo le verità sante, la legge, le profezie (6). Ma il Verbo non faceva questo immediatamente da sè, si bene pel mezzo degli Angeli suoi: dal che S. Paolo, nella Lettera agli Ebrei, trae buon argomento di mostrare l' eccellenza della nuova legge sopra l' antica, vantaggiandosi quella da questa di tanto, di quanto Gesù Cristo è maggiore degli Angeli (1). Le figure poi e imagini, che gli Angeli componevano, e nelle quali rappresentavano sè stessi o il Verbo, non erano punto la sostanza divina, come dice S. Agostino, e ben lungi dal poterne dare una positiva idea (2). Nulladimeno assai acconciamente si attribuisce al Verbo ogni rivelazione, ed anche l' antica, e ciò per quella appropriazione che abbiamo spiegata più sopra (3), cioè perchè essendo egli la parola del Padre, il modo del suo procedere per via di parola intellettiva ha similitudine col rivelare , che è appunto un parlare di Dio agli uomini. E d' altro lato questo parlare di Dio agli uomini è una cotal traccia del Verbo che riesce inesplicabile fino che non si ha la cognizione del Verbo divino sussistente; a quel modo come inesplicabile rimane il lume della nostra ragione, e quel dire di Dio, col quale Mosè afferma essersi create le cose. Il perchè sebbene prima di aver ricevuta la cognizione della seconda persona della santissima Trinità, questa persona in quegli antichi modi di rivelazione non poteva pienamente conoscersi; tuttavia nel tempo dell' Evangelio, in cui abbiamo quella notizia e quella fede, noi conosciamo manifestamente, essere stato il Verbo quel principio che in ogni tempo, quasi però occultato dietro una parete, fece sentire agli uomini la sua voce e comunicò loro le verità della salute. Ciò che dico del principio della rivelazione antica, può dirsi anche delle cose stesse rivelate. Certo in questa rivelazione si conteneva tutto ciò che spettava al Messia e fino la sua divinità era patentemente stata indicata (4). Tuttavia questa era cosa così grande, così incredibile, era tanto fuori del pensare umano, che vi avesse in Dio una seconda persona e che questa s' incarnasse, che egli è da credere, il comune degli Ebrei avere avuta la fede della divinità del Messia e dell' esser egli la seconda persona della santissima Trinità, piuttosto implicitamente che esplicitamente. Essi credevano cioè implicitamente che il Cristo sarebbe stato Dio e il Verbo di Dio, in quanto che credevano che egli sarebbe stato il Redentore del mondo, che sarebbe stato tutto ciò che era necessario perchè fosse tale, tutto ciò che avrebbe voluto Dio che fosse: sebbene poteva voler Dio che fosse ciò che essi non potevano giungere da sè stessi a pensare, molto meno ad imaginare, come fu veramente, avendo così ordinato che il figliuolo di Abramo e di Davidde fosse ad un tempo il Figliuolo di Dio e Dio come Dio Padre. In tal modo erano salvati, come dice S. Agostino, anche gli antichi per la fede in Gesù Cristo (1), ma per una fede implicita, per la fede nel Verbo incarnato, non ancora manifesto, ma occulto: di che avveniva che il Verbo occulto si può dire fosse nell' antico tempo il principio della rivelazione, non meno che della salute degli uomini. In tal modo ancora ricevono un senso chiaro non pochi passi de' Padri che affermano, la cognizione del Verbo appartenere solo al tempo del Vangelo. In ragione d' esempio S. Cirillo Alessandrino dice così: [...OMISSIS...] . E in questo passo vedesi ad un tempo come la cognizione di Dio trino appartiene al Vangelo, e come di questa cognizione il principio è la cognizione del Verbo (4). Conosciuta la diversità della rivelazione antica e della rivelazione evangelica, si può anche conoscere la differenza fra la grazia evangelica e la grazia dell' antico tempo. Giacchè abbiamo stabilito che la grazia non è che una cotale energia che si aggiunge alle verità divine da noi credute: le quali verità in noi dall' essere solo speculative si fanno pratiche e ingenerano nell' uomo un sentimento potente, il quale è di natura deiforme, cioè fa sentire Iddio. Or abbiamo già veduto che la fede, primo atto della grazia, nell' antico Testamento era radicata nell' Unità di Dio, nel nuovo nella Trinità; e che quindi se in quel tempo l' operazione della grazia era un sentimento di Dio uno (deiforme), in questo è un sentimento di Dio uno e trino (deitriniforme). Ora la fede nella Trinità, base dell' Evangelio, comincia dalla cognizione e fede del Verbo divino; il perchè l' operazione della grazia nel nuovo Testamento consiste, in primo luogo, nella comunicazione del Verbo. Nelle divine Scritture ci è descritta questa comunicazione del Verbo colle anime, come una vera inabitazione della seconda divina Persona in noi (2). S. Paolo dice appunto, che Cristo abita per la fede in noi (3). E qual maggiore e più intima comunicazione di Cristo con noi di quella che descrive Cristo stesso, quando prima della sua passione pregò pe' suoi Apostoli e per quelli che avrebbero ricevuta la fede del Redentore mediante la parola di quelli? Egli disse così: [...OMISSIS...] . Non vi possono esser parole che più di queste valgano ad esprimere la comunicazione intima di Cristo co' suoi eletti, e quanto sia stretta, quanto immediata e veracemente formale. Paragona in queste parole Cristo, l' inabitazione sua negli eletti all' inabitazione sua nel celeste suo Padre: del che non si può dar maniera più efficace a esprimere l' unione massima delle possibili, giacchè Cristo come Dio è una cosa sostanzialmente col Padre, e come uomo è unito personalmente col Verbo che è una sostanza stessa col Padre, di cui ha perciò la visione beatifica, cioè la massima intuizione comprensiva del Padre. Egli da questa stessa unione di lui col Padre toglie il tipo, al quale debbono conformarsi gli eletti, nell' unione fra loro, unione che nel Verbo viene a compirsi sicchè sieno consumati nella unità più perfetta: vuole che dove è egli, sieno essi pure, nè solo ama esser egli in essi, ma essi altresì in lui, l' uno e gli altri internatisi scambievolmente: e vuol dare loro quella chiarezza che il Padre ha dato a lui avanti della costituzione del mondo, la qual non è diversa dalla stessa divina sostanza che è pur la sola cosa, che ha ricevuto dal Padre, e nella quale ogni cosa è racchiusa. Ora chi può intendere, senza sforzo e violenza fatta alle parole, quelle ineffabili parole di Cristo, e non riconoscere, che egli abita formalmente nelle anime de' suoi Santi, i quali perciò appunto sono chiamati altrettanti Cristi nelle Scritture? Io sarei infinito se volessi riferire i luoghi innumerevoli del Vangelo e le similitudini acconcissime della veste e delle membra, del capo e del corpo, e altre tali che si usano per esprimere quella ineffabile unione che fa Cristo co' giusti suoi, massime ove si parla del quasi mescolamento dei discepoli col Maestro che si fa nel pane eucaristico e nel vino, e misterioso e pur verissimo contemperamento. Ma non lascierò di rammentare quella del tralcio e della vite; e mi si dica se può trovarsi modo di esprimere con più efficacia l' unione al tutto sostanziale e formale di Cristo co' seguitatori suoi: [...OMISSIS...] . Qui si parla di un' unione di sostanza, per la quale due parti formano un tutto solo. Tale è il congiungimento della persona del Verbo incarnato cogli uomini eletti che il seguono: il compimento di quella grazia, di cui scrisse S. Giovanni, « che la legge è stata data per Mosè, e che la grazia e la verità è stata fatta per Gesù Cristo« (1). » E veramente anche nell' antico Testamento i Santi che ci vissero, parteciparono della grazia del Redentore, nel quale avevano la fede. Ma la loro grazia non conteneva la comunicazione in essi della persona stessa divina del Verbo, ma solo dei doni spirituali che venivano loro compartiti. Questo conseguita da ciò che abbiamo detto, che la loro fede nell' uomo Dio venturo era implicita, e perciò non avevano nel loro spirito quella cognizione del Verbo, nella quale nasce la comunicazione appunto del Verbo stesso agli uomini. Non vedevano il sole di giustizia, perchè non era ancor nato sull' orizzonte, ma ne vedevano i raggi che facevano il cielo albeggiante e lucente, più o meno, secondo i vari tempi, ne' quali vivevano. Non poteva quindi comunicarsi ad essi la stessa divina persona, perchè non nota, non manifesta; ma bensì far loro sentire la sua possente e salutifera operazione in essi. Cristo creava in essi un sentimento che era deiforme, perchè niente era a lui comparabile: e in questo sentimento era quell' alta idea della divinità che gli empiva di un santo timore, gli eccitava all' adorazione e nessuna cosa anteponevano a Dio, nessuna posponevano alla sua offesa. Ma se tutto questo era Dio che sentivano in esso, non era però il Verbo, la seconda Persona sussistente nel seno del Padre: perocchè per sentir questa, conviene sentire la luce della verità come una cosa piena e sussistente. I doni si dividono secondo le idee che servono loro di base. L' idea della grandezza divina, per esempio, e della perfezione della sua giustizia, diviene madre di un sentimento, perchè afforzata dalla grazia: e così ogni attributo della divinità è fonte di un qualche dono. Il rispetto che intendevano doversi a Dio, moveva nei Profeti quell' altissimo sdegno, quel zelo divoratore che li spingeva talora a far scendere il fuoco dal cielo che incenerisse i bestemmiatori, e a chiamare le belve feroci dalle foreste che li divorassero. Un tale spirito usciva da un sentimento altissimo, acceso nell' animo non immediatamente dal possesso della Sapienza incarnata, che ogni idea e ogni cognizione comprende, ma da un' idea parziale, da un attributo particolare di Dio, altamente conosciuto, la quale conoscenza era però un dono della stessa occulta sapienza. A quanto fu detto sin qui si moverà contro il sembrare che alcuni grandissimi Santi, che furono nell' antico tempo, dovessero aver ricevuta l' unione col Verbo divino. E veramente S. Giovanni ci dice, che Isaia vide la gloria di Cristo, e che parlò di lui quando disse: « Accieca il cuore di questo popolo, e aggrava i suoi orecchi e chiudi i suoi occhi« (1) »: la quale gloria di Cristo non pare dover poter essere se non la sua stessa divinità (2). Così pure Cristo del Patriarca Abramo: « Abramo, padre vostro, esultò per vedere il mio giorno : lo vide e ne giubilò« (3) »: nelle quali parole il vocabolo giorno equivale appunto a chiarezza e gloria, e viene parimente a significare quella divinità, della quale Cristo era chiaro, prima che fosse stato fatto il mondo, appresso il Padre suo (4). Ora ciò io punto non nego (5): solo affermo che questo fu favore straordinario conceduto a' quei pochi personaggi dell' antico tempo, per singolarissimo privilegio: come accadde nel nuovo Testamento, che taluno sia stato innalzato fino a vedere Cristo glorioso e le magnificenze dell' altra vita; il che veggiamo nelle Scritture essere stato conceduto solo per grazia grandissima a S. Stefano, all' Apostolo Paolo e notabilmente a S. Giovanni. Per altro se l' uno o l' altro degli antichi ebbero la percezione del Verbo, la differenza fra il congiungimento del Verbo co' cristiani e con quei Santi antichi è però questa: che quel congiungimento fu dato per via di eccezione e solo di passaggio; ma il congiungimento che si fa dei redenti col Verbo divino, mediante il battesimo e la fede e i sacramenti, è costituito stabilmente per una cotal legge, è permanente, non [solo] attuale, ma altresì abituale. Quindi è che Gesù Cristo a nulla è più inteso, quanto a far ben notare e osservare questa permanenza di lui ne' Santi suoi e de' Santi suoi in lui. Egli raccomanda di averla sommamente a cuore e di non dar cagione col peccato che s' interrompa giammai una così stabile unione, che viene rappresentata appunto in un connubio indissolubile dell' anima con Cristo, della chiesa con lui suo sposo. « PERMANETE in me, dice Cristo, e io in voi. Siccome un tralcio non può portar frutto da sè stesso, se non PERMANE nella vite; così nol potete nè pur voi, se non PERMANETE in me« (1) ». Dove il permanere , tante volte ripetuto, dimostra esser esso la parola caratteristica, colla quale Cristo vuol far notare la stabilità , da parte sua, di quella unione già, per così dire, connaturata fra lui e i suoi eletti, e saldata per legge ferma. E prosegue ancora ripetendo lo stesso vocabolo più e più volte: [...OMISSIS...] . E` dunque solenne questa parola di PERMANERE Cristo in noi e noi in Cristo, nel nuovo Testamento; ed è inaudita nell' antico: perchè questa permanente unione dell' uomo col Verbo di Dio è la ricchezza del nuovo tempo di grazia. Questa unione stabile o abituale, dice Cristo, non si ottiene che colla fede al Vangelo: « E voi non avete, diceva egli agli Ebrei, la parola del Padre in voi PERMANENTE, perchè voi non credete a questo che egli ha mandato« (3) ». E via più si conferma e salda questa unione col Sacramento del pane e del vino di Cristo: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, ed io lo risusciterò nell' ultimo giorno. - Chi mangia la mia carne e beve il sangue PERMANE in me e io in lui« (4) ». E finalmente Cristo dà appunto questa PERMANENZA in lui per nota da contraddistinguere i discepoli suoi: « Se PERMARRETE nel mio sermone, dice, sarete VERAMENTE miei discepoli« (5) ». Questa verità è inchiusa nelle stesse denominazioni date dalla Scrittura e tradizione cristiana alle persone del Figliuolo e dello Spirito: il primo de' quali si nomina parola, ragione, verbo ; e la parola appunto e la ragione è il mezzo onde si manifestano e rivelano le verità, e onde si apprendono: il secondo è appellato spirito della santità , o Spirito Santo , quasi aura che spira nelle anime i santi sentimenti e vi infonde la santità stessa. Del Verbo, principio della rivelazione, fu parlato (2): ora qualche cosa dello Spirito, a mostrare che esso è riguardato nella cristiana teologia come il principio della religione e propriamente della religione interiore, della santità. I Padri Greci dànno allo Spirito Santo, non già come un' appropriazione, ma come sua proprietà, la forza santificatrice (vis santificatrix, «e agiastike dynamis»). S. Basilio lo dice espressamente l' origine della santificazione ( «agiasmu genesin»); e ancora: viva sostanza, arbitra della santificazione (1). Nè vi ha dubbio che il santo Dottore parli di proprietà , e non di qualità appropriata , perchè espressamente si spiega e, fatta la distinzione delle cose proprie e delle appropriate, in quelle mette l' essere il divino Spirito una sostanza santificante. Ecco come egli ragiona nella lettera che scrisse al conte Terenzio, dopo distinta la sostanza dalla persona: [...OMISSIS...] . Cinque secoli dopo, S. Giovanni Damasceno chiamava pure lo Spirito Santo: « virtù santificante per sè sussistente (3). ». Or questo viene a battere con ciò che dice S. Agostino là dove mostra che è proprietà dello Spirito l' esser dono , cioè che è quanto dire l' essere amore santificante : di che ne trae la ragione del non potersi dire generato, ma solo spirato, perchè dice: [...OMISSIS...] . Or hassi a portar oltre questa dottrina: al che ci fa il ponte questa denominazione di dono , che ab aeterno può darsi al divino Spirito. L' esser donabile agli uomini, diciamo noi, l' essere diffonditore di santità non può esser se non con quell' atto stesso, col quale egli è, con quell' atto, con cui procede dal Padre e dal Figliuolo, perocchè aver non vi può in lui distinzione di atti. Ma l' atto onde egli è, il fa essere l' amore nozionale del Padre e del Figlio, la santità loro. Di quel medesimo amore dunque onde si amano il Padre e il Figliuolo, di quella medesima santità onde il Padre e il Figliuolo sono santi, partecipano anco i Cristiani; sicchè è uno il principio di santità in Dio e in noi. Ora udiamo parlare i Padri della Chiesa di ciò; udiamo che cosa dicano dell' esser lo Spirito appunto in Dio santità. [...OMISSIS...] E S. Fulgenzio tenendo la traccia del Vescovo d' Ippona, dopo recati i passi di Agostino, così conchiude: [...OMISSIS...] . E` adunque proprietà intrinseca e costitutiva dello Spirito Santo, secondo le dottrine tradizionali della Cattolica Chiesa, tanto l' essere lui la santità o carità nozionale del Padre e del Figlio, come l' essere il principio della santità o carità nostra. Sicchè la nostra carità è una partecipazione della carità che ha Dio a sè stesso, e, come abbiam detto più sopra coi SS. Agostino e Fulgenzio, amiamo Dio con Dio, nè con altro si può amare, poichè con altro non si può nè pur concepire, se non con sè stesso. Indi esprimendo Cristo il suo desiderio al Padre che i suoi discepoli ricevessero lo Spirito Santo, dice così: [...OMISSIS...] . Questa verità consegue dalla precedente. La santità, la carità, tutto ciò che vi ha di morale insomma, ha la sua sede nella volontà (4). Ora lo Spirito Santo è la santità stessa, la carità originaria (5) che informa l' anima nostra. Dunque esso opera nella volontà . Nè meno opera per questo nell' essenza dell' anima, come il Verbo, perocchè anche la volontà si radica nell' essenza dell' anima. L' essenza dell' anima intellettiva è a un tempo passiva e attiva: in quanto è passiva, riceve le specie delle cose, il che costituisce l' intelletto; in quanto è attiva, riconosce le cose, le vuole, le ama, il che costituisce la volontà. All' incontro il Verbo, che è la intelligibilità dell' essere, risiede nell' intelletto, e ivi opera, ivi si manifesta. Egli è per questo che la terza persona della Santissima Trinità fu chiamata Spirito , come osserva S. Tommaso, poiche « il nome di Spirito nelle cose corporee sembra importare una cotale impulsione e mozione: or poi è proprio dell' amore muovere e impellere la volontà dell' amante nell' amato« (1) ». Abbiamo veduto che l' operazione della grazia non è già una pura operazione ideale , ma è una operazione reale . Noi veggiamo per natura l' essere ideale , e questo costituisce il lume della nostra ragione: ma solo per grazia abbiamo la percezione dell' essere reale . L' essere ideale, e il reale, è egualmente oggetto del nostro intelletto, ma in quanto percepisce quello, chiamasi propriamente intelletto: e in quanto percepisce questo più acconciamente direbbesi senso intellettivo. L' essere ideale, l' idea dell' essere, è una produzione in noi che si attribuisce al Verbo, ed è quello di cui s' intendono pur dette quelle parole di S. Giovanni, che il Verbo è « la luce, la quale illumina ogni uomo veniente in questo mondo« (2) ». Tuttavia l' essere ideale, sebbene sia effetto del Verbo, tuttavia non è il Verbo stesso, perchè privo, come l' abbiamo noi ingenito, di sua propria sussistenza. L' Essere reale all' incontro sussiste, ed è il Verbo. Ma come può egli entrare in noi? Forse colla comunicazione delle verità rivelate? No certamente con queste sole, perchè queste non appartengono che all' ordine ideale, e le verità teologiche possono essere sapute e intese anche da quelli che non sono punto nè poco in grazia. Veggiamo adunque in qual altro modo. Si osservi prima di tutto che anche rispetto alle verità e percezioni naturali, noi conosciamo e percepiamo in due modi, cioè con una cognizione diretta e necessaria, e con una cognizione riflessa e volontaria: con quella siamo passivi, con questa siamo attivi; con quella riceviamo l' essere ideale delle cose, ma con questa giungiamo alla loro sussistenza; quella poco ci affetta e muove, verso di questa che vede i pregi o i difetti delle cose e li rende volontariamente nell' animo efficaci. Si consideri la differenza che passa fra la semplice conoscenza di una persona, e quella conoscenza particolare che ha di lei il suo amatore. Quanti pregi vi trova questi, che tutti gli altri non trovano, fino a crearne di quelli che non esistono! E qual prezzo dà alla bellezza e alle grazie di quella persona, quanto maggiore di quello che i non innamorati punto non danno loro! Che è ciò? Certamente è l' amore in questo che assottiglia e affina l' occhio dell' anima e la contemplazione; la volontà insomma, che muove la riflessione e la tiene occupata nell' oggetto desiderato, e la sforza, col continuo vagheggiare, di attingere, gustare e applicare a sè il più che possa di quella amabilità, alla cui esca è stato preso il suo cuore. Ciò che degli innamorati, dicasi di [ogni] amore e di ogni odio. La volontà amante è quella che penetra molto addentro nell' oggetto amato, e ne conosce i pregi, sa per cognizione sperimentale i piaceri che indi si possono derivare: e se questo amore è retto, egli conduce ad assaporare un diletto vero e salutare. Tal accade a chi è vago della sapienza e della virtù, a chi s' innamora del ben fare, di una scienza o di un' utile impresa: più che vi pensa, più l' ama, più conosce meglio il prezzo della bell' opera; e questa è conoscenza tutta comunicata dalla forza della volontà che si pose nella cosa amata e a lei per così dire si diede benevolmente in braccio, come a suo bene. Ora s' applichi questo modo del procedere dello spirito umano nell' ordine naturale all' ordine sopra natura, s' applichi questa legge alla cognizione del Verbo divino. Il Verbo comincia egli ad operare nel nostro intelletto: a lui si presenta. Con questo mostrasi che egli fa in noi, è ancora entrato in noi? No certamente, perchè il NOI esprime la nostra persona , e la personalità nostra risiede nel nostro principio attivo, cioè nella nostra volontà intellettiva. Conviene adunque che il Verbo sia ricevuto dalla nostra volontà: allora egli è entrato in NOI, allora mette la sua sede nella nostra personalità . Questo è quello che vogliono dire quelle parole di Cristo: « Ecco, io sto all' uscio e batto: se alcuno udirà la mia voce e mi aprirà la porta, io entrerò a lui e cenerò con lui, ed egli con me« (2) ». E` il medesimo che dire:« Io mi presento all' intelletto: ora sta alla volontà che aderisca a me e a me si congiunga: senza questo, non sono entrato nell' uomo, sono fuori della porta«: l' uomo è la sua volontà, l' uomo è la persona dell' uomo. - Cristo adunque non entra se non in chi gli apre la porta colla volontà consenziente alla verità, come dice S. Paolo; il che comincia col prestare orecchio, coll' udire volontariamente la sua voce. Quell' udire è già un principio del giudizio pratico, una disposizione al medesimo: e quella parola è usata altre volte da Cristo, come quando rimprovera gli Ebrei di non aver udita la voce del Padre (2); o quando dice che le pecore odono la voce del loro pastore (3). Medesimamente è mostrato assai di frequente, che il Verbo non viene già nelle anime nostre per forza, ma per volontà egli s' invita per così dire, come ha fatto con Zaccheo, ma non ci viene se non venendo di buon animo ricevuto. E questa parola di ricevere è consacrata nelle Scritture per indicare appunto il buono accoglimento che fa l' uomo colla sua volontà al Verbo, quando il Verbo vuole entrare in lui. « Egli venne, dice S. Giovanni, alle sue proprie cose, e i suoi non lo hanno RICEVUTO« (4) ». E tosto per dimostrare che non s' incorporano col Verbo se non quelli che il vogliono, che il ricevono, soggiunge: « Ma quanti IL RICEVETTERO, a tanti diede podestà di rendersi figliuoli di Dio (5) ». E in altro luogo Cristo dice: «« Chi RICEVE me, RICEVE Colui che mi ha mandato« (6) » cioè il Padre. Ricevere adunque, secondo il parlare delle Scritture, è aderire a Cristo, è riconoscerlo volontariamente pel Redentore, è fare quell' atto di fede , col quale abbiamo detto cominciare la grazia in noi e che è azione della nostra volontà. Quelli che non hanno questa cognizione riflessa, volontaria e pratica del Verbo, nella Scrittura sacra sono detti tenebre (7). « La luce, dice S. Giovanni, luce nelle tenebre, e le tenebre non l' hanno compresa« (.). » Il che è quanto disse Cristo: « Il mio sermone non cape in voi (9) ». S. Paolo pure dice: «« Eravate un tempo tenebre, ma ora siete luce nel Signore ». A cui soggiunge: «« Camminate adunque siccome figliuoli della luce: e il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità« (10) »: perocchè dietro a quell' atto primo, a quel giudizio pratico che [segue] alla volontà, [vengono] (11), come abbiamo tante volte detto, immancabilmente i buoni affetti e le buone operazioni. E questo parlare nelle Scritture è comune, d' intendere per tenebre la volontà che ricusa di riconoscere ed aderire alla verità, e s' accieca da sè stessa (1), e per luce la volontà che si mette dentro nella verità e si compiace di lei. Nè può essere maniera di parlare più propria e verace di questa; perocchè l' uomo non si può dire già illuminato per le cognizioni ideali del suo intelletto, ma solo per la cognizione volontaria, colla quale cognizione la luce della verità entra veramente in lui, perciocchè l' uomo non è già l' intelletto, ma l' uomo, per ripeterlo ancora, è la volontà, quando dicendo« uomo«, s' intende dire la persona dell' uomo; perocchè, a dirlo di nuovo, la persona sta in un principio attivo e nel più alto principio attivo che trovisi in una natura. Egli è questo che insegna appunto il Redentore, quando fa dipendere l' essere l' uomo tutto o illuminato o tenebroso, dall' essere o luminoso o ottenebrato l' occhio dell' uomo: [...OMISSIS...] . L' occhio è appunto la volontà dell' uomo in quanto figge lo sguardo intellettivo nella verità e così s' alluma; o lo toglie dalla verità e rifiuta di accoglierne il lume, e quindi stesso di amarlo e seguirlo nelle opere della vita. Or dunque se la luce del Verbo si riceve in noi con un atto della volontà, e se è nella volontà appunto che il divino Spirito esercita la sua azione (3), movendola al riconoscimento del Verbo; egli è manifesto che il Verbo non entra nell' uomo nè vi fa sua sede se non per un' azione che convenevolmente allo Spirito Santo si attribuisce. Questa è dottrina che compare luminosamente nelle divine Scritture e che viene continuamente insegnata dalla Chiesa. S. Atanasio appunto da' testimonii delle Sacre Scritture prova che lo Spirito Santo può assomigliarsi a un suggello il quale imprime nelle anime nostre l' effige del Verbo; similitudine, pare a me, acconcissima a mostrare come il Verbo sia in noi non già solo idealmente, ma per un' operazione reale, per una vera percezione della sua sostanza. Usa anco della similitudine dell' unguento che unge l' anime nostre appunto col divin Verbo quasi con ottimo unguento: [...OMISSIS...] . Ora esser gli uomini fatti« dei«, non è altro, secondo il parlare delle Scritture e de' Padri, che un essere la natura umana sollevata sopra l' ordine della natura e messa nell' ordine soprannaturale per una reale congiunzione con Dio che è il principio dell' ordine soprannaturale, come la natura umana è il principio dell' ordine naturale. Ma basti fin qui, dovendo noi farci ancora su questa materia più sotto dove ci cadrà di parlare dell' ordine nel quale le divine persone operano e si manifestano nelle anime nostre. Solo conchiuderò con un passo di S. Tommaso acconcio all' uopo nostro, cioè a mostrare che dee concorrere insieme il nostro intelletto e la nostra volontà, al ricevimento del Verbo in noi, venendo in noi questo per l' ammettere che fa la nostra volontà la mozione dello Spirito Santo, e dietro questa mozione volere, ricevere, amare il Verbo. Dimanda l' Aquinate se il dono della sapienza sia nell' intelletto o nella volontà; ed ecco come risponde: « La sapienza, che è dono, ha la sua causa, cioè la carità, nella volontà, ma l' essenza l' ha nell' intelletto« (1) ». E veramente la sapienza è il Verbo, la cui sede è nell' intelletto: ma l' uomo non l' ha, no 'l partecipa veramente fino che colla volontà non ha voluto averlo e parteciparlo, cioè con una riflessione, che è bensì intellettiva, ma che dalla volontà sua bene inclinata è cagionata e mossa. Abbiamo detto che la santificazione dell' uomo è opera dello Spirito Santo, il quale ci fa percepire il Verbo. Ma questo ha bisogno di spiegazione, perocchè non sempre la santificazione dell' anima si opera in egual modo (2). Un effetto talvolta è prodotto da una causa in modo, che nell' effetto stesso può vedersi l' impressione, l' imagine della causa: sicchè la causa si fa, o in tutto, o in parte, forma dell' oggetto, in cui esercita l' operazione. Talora all' opposto la causa produce bensì l' effetto, ma senza lasciarvi la propria imagine, per così dire, scolpita e senza informare di sè l' oggetto. Il calore del sole in gran parte è certamente cagione della vegetazione delle piante, ma in nessuna maniera dalla sola vegetazione delle piante noi potremmo farci la minima idea del sole, se noi nol vedessimo, nol conoscessimo per altro mezzo. Ora io dico, che anche nella santificazione dell' anima non sempre la persona dello Spirito Santo opera in modo da congiungersi come forma con l' anima, ma solo lascia talora in essa degli effetti suoi, dei doni, i quali però non sono la sua stessa persona. Dico ancora che, in tal caso, la santificazione si attribuisce bensì allo Spirito Santo, ma solo per appropriazione , e non come una proprietà . All' opposto, quando la persona dello Spirito informa l' anima umana, allora è proprietà dello Spirito la santificazione: ed ecco perchè passi questa differenza. Se la persona dello Spirito non informa l' anima, ma solo nell' anima vi hanno i suoi doni, in tal caso l' effetto di questa operazione non è lo Spirito stesso, perchè non è lo Spirito stesso che personalmente e immediatamente sia congiunto coll' anima: quindi l' operazione non è deiforme , ma solo divina , secondo la definizione data da noi a queste parole. Si attribuisce adunque questa operazione allo Spirito non come a forma, ma come a causa o principio di questo effetto. Ora è cosa ferma nella teologia cristiana che la causa o il principio delle operazioni ad extra , come le chiamano, cioè che portano effetti fuori della Santa Trinità, non si possono attribuire all' una più che all' altra persona, se non per quella che si dice appropriazione e che abbiamo più sopra spiegata, e che sono comuni veramente alla Santissima Trinità. Ove dunque lo Spirito stesso non si faccia forma dell' anima, la santità dell' anima non si potrebbe dire Spiriti7forme , ma solo deiforme; e non si reputerebbe allo Spirito se non come una appropriazione . - Un ragionamento di egual maniera si convien fare circa la comunicazione del Verbo. Abbiamo detto, che nell' antico Testamento il Verbo non si comunicava personalmente : egli era occulto , se non forse a pochi Santi, ai quali si comunicò talora, ma non in modo permanente e per legge, ma in modo passeggiero e per una eccezione e privilegio. Tuttavia anche nell' antico Testamento il Verbo oltre la rivelazione esterna comunicò dei lumi interiori alle anime, di quei doni, di cui parla Davidde, ove dice di Cristo, che ricevette dei doni per gli uomini (2). Questi doni non erano la personale presenza di Dio, ma erano certe idee, dalle quali raggiava luce e vita, che divenivano il fondamento e come il fuoco di quegli spiriti parziali (3), che animavano i profeti ed i patriarchi e li facevano operare santamente e sublimemente. Or però come queste idee , che mercè lo Spirito che le avvivava, divenivano tante parole interiori, [tanti] tocchi dell' anima; così essi non erano però il Verbo di Dio che tutte le contiene e produce, il quale si rimaneva come in occulto. Quindi queste illustrazioni e lumi distribuiti a quegli antichi Santi non formavano propriamente un' operazione che si potesse dire verbi7forme , ma solo dei7forme ; nè si possono riputare al Verbo come a sua propria causa, ma solo a lui attribuire per appropriazione , in quel senso che abbiamo dichiarato (1). Quindi è ancora che, non essendo nell' antico Testamento nè il Verbo nè lo Spirito personalmente forma delle anime sante, ma provenendo quei doni parziali d' intelletto e di volontà di cui erano fornite quelle anime sante, dalla essenza divina che in esse operava, qualche Padre ne parla come se al Padre eterno appartenessero, giacchè il Padre, come principio della Triade, è quello che comunica la divina sostanza alle altre due persone, e a lui si suole applicare in modo particolare quanto dalla divina sostanza, senza vestigio di distinte persone, proviene (2). Ora io debbo dimostrare che la distinzione che io fo' fra i doni della persona e la persona stessa, non è nuova, ma è cosa che appartiene al deposito della cattolica tradizione. Quanto al Verbo divino, il modo stesso di parlare di S. Paolo convalida questa distinzione. Egli dice che Cristo diede dei doni agli uomini (3): ed enumerando questi doni, soggiunge che diede alcuni Apostoli, alcuni Profeti, altri Evangelisti, altri Pastori e Dottori. Dice ancora che a ognuno è stata data la grazia secondo la misura della donazione di Cristo (4). Altro è il dono dunque, e altro è il donatore: il donatore è un solo, sempre Cristo; i doni sono molti e varii. Ma che è di questo donatore? Egli stesso è stato a noi donato, ed è per lui che abbiamo le altre cose, secondo la dottrina dell' Apostolo: [...OMISSIS...] . Agli uomini dunque è stato dato il Figliuolo, la sapienza personale: e agli uomini sono stati dati altresì de' varii doni, delle varie rivelazioni, o illustrazioni o grazie. Queste non si debbono certo, secondo l' Apostolo, confondere con quello, come ciò che è parziale non si deve confondere col tutto, e un solo raggio non si può prendere per il sole. La stessa distinzione, fra la persona dello Spirito e i suoi doni , è stabilita dalle Scritture e dai Padri. Ecco come S. Epifanio la nota nelle parole dell' Apostolo. Dice così:« Il solo Spirito Santo, procedente dal Padre e dal Figlio, è nominato e spirito di verità, e spirito di Dio, e spirito di Cristo, e spirito di grazia. Poichè egli impartisce il bene a ciascuno in modi vari: ad altri lo spirito di sapienza, ad altri lo spirito di profezia, ad altri lo spirito di discrezione, ad altri lo spirito dell' interpretazione, e gli altri doni: e, come parla l' Apostolo, « uno e il medesimo spirito [è] che divide ai singoli, siccome vuole« (2) ». Altro è dunque lo spirito che dà i doni, e altro i doni suoi. Ora i Padri insegnano che non solo i doni dello spirito, ma lo spirito stesso viene dato alle anime: [...OMISSIS...] dice S. Basilio parlando dello Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Nel qual passo chiaramente sono distinte le efficenze , o beni, o doni dello spirito, dallo spirito stesso, e si dice che non solo quelle, ma ben anco questo è dato alle anime. Tutti i doni dello Spirito Santo, che costituiscono la santità e che S. Paolo chiamò « charismata meliora » (dei quali soli noi favelliamo), si riducono dall' Apostolo nella carità . E in vero, non sarebbe difficile mostrare, con una diligente analisi di tutti i doni e grazie, delle quali parliamo, [come] essi non sono che carità sotto diverse forme, in diverse attitudini, in diverse relazioni. Ridotti così i doni tutti che santificano l' uomo alla carità, sarà più facile veder la ragione e il fondamento di quella distinzione che or ora abbiamo posta fra il comunicare che fa Iddio alle anime solo dei doni , e il comunicare che fa loro altresì la stessa persona del Santo Spirito, l' amore sussistente del Padre e del Figliuolo. Perocchè i Teologi cristiani distinguono in Dio un amore essenziale , il quale entra nell' essenza divina, e quindi è comune a tutte e tre le persone, e un amore personale , che costituisce la persona dello Spirito Santo. Ora il primo non forma una sussistenza da sè, il secondo è un amore sussistente, una persona; il primo è amore, ma il secondo è, come lo chiama il Petavio (1), il termine del mutuo amore del Padre e del Figliuolo; il primo è come la via, il secondo è il fine, a cui la via mette. Or l' uno e l' altro di questi amori vengono comunicati all' anima: il primo forma i doni, il secondo è la stessa persona dello Spirito, di cui l' anima si fa partecipe. Or quando è che si può dire, riceversi dall' anima i doni , e quando riceversi lo stesso Spirito ? L' anima, come abbiamo veduto, è essenzialmente viva, è sentimento. Non può dirsi che l' anima abbia ricevuto la persona stessa dello Spirito Santo se non allora che lo Spirito Santo sostanzialmente abbia operato in essa, abbia prodotto in essa un sentimento, del quale egli stesso sia la forma , un sentimento, per cui l' anima senta l' amabilità di Dio per modo che quest' amabilità sola, rimossa ogni altra considerazione, sia il TUTTO, sia per ciò qualche cosa di sussistente per sè colla pienezza dei doni. Nè per questo consegue la necessità che l' uomo ne abbia coscienza: giacchè altro è l' averne sentimento ed operare altresì dietro a quello; altro l' averne coscienza, il saperlo dire a sè stesso, il poter rendersi conto delle proprie operazioni. Quanti semplici e virtuosi cristiani non operano costantemente dietro un sentimento profondo che è in loro, al quale non hanno mai riflettuto, e del quale interrogati non saprebbero render ragione nè conto alcuno, molto meno farne l' analisi? Anzi qual uomo rozzo è mai che conosca, quali sieno i principii, dietro i quali egli opera e si dirige nel corso della sua vita? E anche l' uomo educato alle scienze e dato al meditare conosce egli mai perfettamente sè stesso? Conosce tutte le molle segrete che pur operano nel suo cuore? Tutti i movimenti e gli affetti e gli istinti che continuamente sono in azione nel fondo e talor, può dirsi, nell' abisso dell' anima sua? E quelli che più acutamente ritorcono lo sguardo in sè stessi, e che sono avvezzi a far abitualmente la disanima più scrupolosa delle proprie azioni e de' proprii affetti, con quanta fatica e assidua osservazione non pervengono a conoscere quel poco che di sè conoscono: conoscenza che si accresce bensì in essi ogni giorno, ma che l' acquisto di maggior lume, ottenuto in un giorno successivo accusa l' ignoranza del precedente? Nè pure è necessario che chi ha il fonte dei doni, abbia tutti i doni in sè spiegati e manifesti. Poichè lo Spirito Santo abitante nelle anime emette di sè quei doni che vuole, e quei che vuole li tiene nascosti; « spira ove vuole« », come dice Cristo. Nè meno avviene ciò per l' inabitazione del Verbo nelle anime: il quale sebbene sia tutta la sapienza del Padre, pure non comunica alle anime ove inabita, se non quei lumi e cognizioni particolari che a lui piace, e gli altri gli occulta alla riflessione dell' anima. Il che insegna appunto l' Apostolo là dove dice, che « in Cristo sono tutti i tesori della sapienza e della scienza NASCOSTI« (1) »: non nascosti certamente a sè stesso, ma nascosti alle riflessioni delle anime, nelle quali abita Cristo, le quali anime, dice, per consolarsene il cuore, devono essere istrutte nella carità e in tutte le dovizie della pienezza dell' intelletto (2). Or dunque, ove il sentimento di soprannaturale carità, di cui parliamo, non sia un sentimento TOTALE e che accusi nell' anima qualche cosa di sussistente, non si può dire che sia sentimento spiriti7forme ; non si sente in esso la persona dello Spirito Santo: si sente bensì un amor divino; ma quando non si sente la persona, quell' amore non è l' amore nozionale , è solo l' amore essenziale di Dio, è la divina sostanza che si fa sentire, ma in modo imperfetto, sicchè rimane insensibile, OCCULTA, la persona dello Spirito Santo: egli allora non si può nominare che dei7forme . Tuttavolta per l' appropriazione si attribuisce quel sentimento allo Spirito Santo e a lui si riduce come via a suo termine, a sua perfezione: sicchè quel sentimento non ha che a rendersi più perfetto, più integro per essere quello del divino Spirito. In tal caso, il divino Spirito è il principio della santità per appropriazione: all' opposto, ove lo Spirito Santo si comunichi all' anima personalmente, egli è il santificatore di lei con quella santità che gli è proprietà personale. Che la persona del Verbo non fosse comunicata spiritualmente agli uomini innanzi la sua venuta in carne, pare reso manifesto dalle cose dette fin qui (3), e particolarmente da quel principio più sopra stabilito: che la rivelazione interiore va di un accordo perfetto colla rivelazione esteriore (1). Quanto alla persona dello Spirito Santo, quello che abbiamo detto dimostra che essa non può essere percepita prima e indipendentemente dal Verbo, perocchè ella è l' energia del Verbo, quasi un calore, un affetto, che esce spirato da quella luce, resa oggetto divino del nostro sentimento (2). Non sarà però inutile che confermiamo questa dottrina, secondo il metodo seguito fin qui, co' passi dei Padri della chiesa e de' teologi. Ecco come favella un teologo de' più chiari, che ha illustrato assai questa materia, e che mostrasi sempre profondo nel ricercare ben addentro i più sinceri sentimenti de' Padri: [...OMISSIS...] . E di qui S. Cirillo toglie la spiegazione di quelle parole di Gesù Cristo: che quello che è il più piccolo nel Regno dei cieli era però maggiore di Giovanni (3). Egli trovava la ragione di tali singolari parole di Cristo in questo, che i cristiani, che sono nel regno di Cristo, cioè della chiesa, hanno in sè lo Spirito Santo personalmente; il contrario di que' santi che appartenevano all' antico Testamento, de' quali era ancora il Precursore, dotato bensì dei doni dello Spirito in tale abbondanza da vincere tutti gli antichi santi, ma non ancora in possesso della stessa persona dello Spirito Santo, perchè non erano ancora aperte le porte del cielo (1). Il che sebbene basterebbe a provare il mio assunto, tuttavia la chiarezza ond' è posta questa dottrina nel passo seguente dello stesso grande Vescovo di Alessandria, mi trae a riferirlo, e spero che mi sarà volentieri conceduto di farlo dal lettore. Dopo aver egli recate quelle parole di S. Giovanni: « che lo Spirito non era ancor dato, perchè Cristo non era ancora glorificato« (2) »; le quali contengono precisamente quanto noi qui sosteniamo si fa la questione: Se dunque non avevano lo Spirito i Profeti o, se l' avevano, per che altro modo l' avevano? E scioglie la questione colla distinzione appunto fra i doni e lo Spirito stesso. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Il Verbo apparito in carne umana agli uomini, si annunziò loro per quella divina persona che è, Figliuolo Unigenito di Dio Padre. A questo annunzio, a questa esterna rivelazione, compimento e spiegazione di tutte le rivelazioni fatte precedentemente per lo spazio di quattro mila anni agli uomini, corrispose la rivelazione interna, colla quale si manifestò il Verbo alle anime, diede alle anime credenti la percezione di sè stesso. E` questa la grazia della nuova legge, quella di cui dice S. Giovanni: « la legge fu data per Mosè; la grazia e la verità fu fatta per Gesù Cristo« (2) ». In tal modo il Verbo divenne forma delle anime, e quell' operazione della grazia che prima non era che deiforme , cominciò a essere verbiforme . Questa comunicazione del Verbo alle anime de' suoi, fatta ancor prima della sua morte, veniva comunicata dalla virtù delle sue divine parole e dello stesso suo umano sembiante, a quell' anime che prestavano fede a quelle e si lasciavano muovere dalla dolce vista di lui. Della grazia che usciva dalle sue parole, dice Cristo: « Già voi siete mondi pel sermone che ho parlato con voi (4) »; e tosto soggiunge: «« Rimanetevi in me e io in voi« (5) »; attribuendo appunto all' effetto delle sue parole la cognizione sua soprannaturale co' discepoli suoi. Dice ancora che la permanenza nel suo sermone era la nota caratteristica de' suoi discepoli: « Se voi rimarrete nel mio sermone, sarete veramente miei discepoli« (6) ». Nelle quali parole quell' avverbio veramente è atto a dare gran forza alla denominazione di discepoli , ed esprime propriamente l' immediato imparare che fa da Cristo l' anima per una comunicazione tale, che dà fino l' immortalità, che non viene se non dall' unione e percezione di Cristo stesso: [...OMISSIS...] . Della grazia poi che usciva dal suo sembiante, e per la quale veniva pur data, a chi n' erano fatti degni, la visione o percezione del Verbo; ecco come ne parla Cristo in quel colloquio con Filippo, che ho più sopra riferito e che qui di nuovo giova rammemorare. Aveva dimandato l' Apostolo Filippo a Cristo che mostrar gli volesse il Padre. Gesù Cristo si fa maraviglia, perchè non s' accorgeva che, vedendo lui, si vedeva il Padre stesso: il qual vedere non si può riferire alla semplice vista della umanità di Cristo, ma sì bene alla vista interiore della sua divinità, perchè non è nel corpo di Cristo visibile immediatamente il Padre, ma si bene nel Verbo, la cui visione o percezione veniva spirata e impressa pure dalla visione della divina umanità del Redentore, da cui usciva una virtù soprannaturale e misteriosa. Risponde adunque Cristo così alla dimanda di Filippo: [...OMISSIS...] . E dice: non credete; per indicare che quella visione di cui si parlava, fondavasi nella fede; che era una visione imperfetta, incipiente; che era quel conoscere insomma, di cui parla S. Paolo, ove dice che « conosciamo in parte e in parte profetiamo« (2) », cioè vediamo a segni e a enimmi (3). Ma per vieppiù provare che la persona del Verbo, quando egli apparì e si manifestò in carne umana, si unì formalmente a quelli che credevano alle sue parole, consideriamo quali sieno i caratteri da noi assegnati a quel sentimento che produce in noi l' operazione della grazia, nel qual sentimento percepiamo una divina persona. Questi caratteri, come risulta da ciò che fu detto, sono due, il primo che con quel sentimento noi dobbiamo sentire tale cosa, nella quale noi troviamo il TUTTO. Il secondo, che non è se non conseguenza del primo, si è che quel sentimento dee essere cotale che ci faccia sentire una cosa sussistente , e non puramente ideale. Ora Cristo ci fa notare questi due caratteri nella comunicazione che fece di sè a' suoi discepoli. La divina rivelazione aveva date agli antichi delle cognizioni e notizie separate della divinità: ma Cristo dichiara espressamente che egli comunicò tutto a' suoi discepoli, quanto aveva udito dal Padre: « TUTTE le cose che io udii dal Padre mio, le feci a voi note« (4) ». I Padri spiegano acconciamente questo passo, dicendo che voleva dire che Cristo fece nota ossia comunicò la propria persona agli Apostoli. Perocchè qual è il valore di questa misteriosa parola, udire dal Padre? Vuol dire sapere , e sapere vuol dire essere dal Padre, procedere da lui, come dice S. Agostino (1); perocchè il sapere del Figlio non è diverso dal suo essere. Ora se Cristo avesse detto: Io vi feci note molte cose che ho udite dal Padre, poteva intendersi che non avesse comunicata la sua stessa persona, ma solo alcuni lumi e cognizioni. Ma dicendo che ha fatte note agli Apostoli tutte le cose , non si può intendere altramente se non che gli abbia loro comunicata la propria persona ; perocchè essa sola è tutte le cose procedute [dal] Padre, avendo il Figlio nella sostanza divina ricevuta dal Padre le cose tutte. Nè quella frase di render note le cose , si può spiegare altrimenti che di una comunicazione sostanziale, giacchè la natura divina non ci si fa nota per altra via, come ho mostrato più sopra (2), se non per la percezione, e non si può conoscere per via di idee pure. Il passo citato di nostro Signore: [...OMISSIS...] ; si vedrà più chiaramente significare: [...OMISSIS...] , ove con lui si confronti un altro passo, pure di Cristo, cioè quello nel quale egli favella al suo divin Padre così: [...OMISSIS...] . Che cosa sono le parole di Cristo date a lui dal Padre? Certo quelle cose che egli ha udite dal Padre. E che sono le cose udite dal Padre? L' essere suo di Figliuolo dal Padre generato. Non dice« alcune parole ricevute dal Padre«; ma dice« le parole«, che è quanto« tutte le parole, « omnia quae audivi »«. Ora che cos' è« tutte le parole ricevute dal Padre«, se non tutto il suo essere, tutta la sua persona? Or tutte queste parole le ha comunicate a' suoi discepoli: ha comunicato loro la sua persona. Ma a qual fine ha comunicato a' suoi discepoli le parole date a lui dal Padre? Perchè intendessero, tutte le cose date a lui dal Padre essere dal Padre. Che è,« tutte le cose date a lui dal Padre essere dal Padre?«. La sua generazione, l' essere generato. Che cosa è« l' essere generato?«. L' essere Figliuolo del Padre, avere ricevuta la natura del Padre. Ha adunque date a' discepoli suoi le parole ricevute dal Padre, perchè conoscessero che egli era la persona del Figlio. Che cosa dunque è che volle far conoscere a' suoi discepoli? La propria persona, la generazione eterna. Qual è il mezzo onde la fa conoscere? Non altro che la propria persona: questa immediatamente lucente nelle anime sono quelle parole ricevute dal Padre, che fanno conoscere che tutta quella persona viene generata dal Padre. Ecco il grande scopo di tutta la predicazione di Cristo, far conoscere sè agli uomini, e in sè il Padre: ecco il peculiare ufficio della sua grande missione. Viene confermata simigliante interpretazione del passo di Cristo: « Tutte le cose che io ho udito dal Padre mio, le feci io note a voi«, dalla seguente osservazione. In che modo Cristo poteva aver comunicato agli Apostoli la notizia di tutte le cose udite dal Padre? In che modo si può spiegare con semplicità questo detto, che gli Apostoli sapessero le cose tutte, giacchè Cristo le sapeva tutte? So bene che ove vogliasi far violenza alle parole e sostenere che il tutte non voglia dir tutte, può trarsi agevolmente dalla difficoltà: ma questo non è uno spiegare le parole di Cristo, ma un sostituirne a quelle delle altre. In che maniera dunque di nuovo io chiedo, poteva dirsi con verità, che agli Apostoli tutte le cose fossero rese note? Certo ciò non poteva essere, ove s' intendano le verità prese singolarmente, staccate e distinte le une dalle altre: in questo modo anzi ci assicurò Cristo che gli Apostoli non le sapevano, perchè, dopo aver detto che tutte le cose udite dal Padre aveva rese note, disse ancora: « Ho molte altre cose a dirvi, ma non le potete portare di presente« (1) ». Qui dice che ha molte cose ancora da dir loro; e prima aveva pur detto che TUTTE le aveva loro fatte note. Si badi a quel TUTTE, che significa il complesso delle stesse verità. Il Verbo era quello che le aveva tutte in sè: comunicato il Verbo, era vero che avea loro comunicate tutte le verità, perchè esso stesso il Verbo era tutte insieme le verità. Perciò in altro luogo, in luogo di dire che aveva comunicate agli Apostoli tutte le verità, dice in singolare, che aveva loro dato il sermone del Padre, il quale tutte le conteneva. « Io ho dato loro il tuo sermone« - « Il tuo sermone« è LA VERITA` (2) », la quale abbraccia eminentemente tutte le notizie. E per dimostrare che questo dar il sermone del Padre a' suoi discepoli voleva dire dar loro sè stesso, segue mostrando gli effetti che ne vennero dall' aver dato il sermone del Padre ai discepoli; cioè che il mondo trattasse loro come lui, appunto perchè egli era in essi: [...OMISSIS...] . Eccoli dunque di un' altra origine, dopo che ebbero in sè il sermone del Padre: non sono più del mondo, sono originati da Dio, come il Figliuolo è nato dal Padre. Con quale efficacia maggiore si può spiegare che il Verbo si congiunse colla stessa persona dell' uomo? L' uomo col Verbo in sè, è già nato da Dio, non [può] più esser del mondo. Nascere indica il principio della personalità: l' uomo adunque, la persona dell' uomo ha un principio che viene da Dio, e questo principio è la base della personalità dell' uomo (1). Conviene adunque dire che il Verbo unito formalmente nell' uomo abbia eccitato nell' uomo un' attività suprema, la quale appunto perchè mossa dal Verbo, non è dal mondo, ma da Dio stesso. Nè paia strano ciò che affermiamo, che chi vede il Verbo, dove sono tutte le notizie, non abbia però tutte queste notizie in sè distinte, perchè varii sono i gradi della percezione del Verbo, non solo in terra, ma perfino in cielo (2) e, come dicono i Teologi, la visione del Verbo importa bensì che si percepisca ciò che è formalmente nel Verbo, ma non ciò che ci sta eminentemente , come le notizie di tutti i possibili e contingenti. Il secondo carattere, a cui si conosce il sentimento Verbi7forme, abbiamo detto essere, che in esso l' uomo sente la sussistenza della verità o del Verbo divino. E veramente S. Giovanni dice, che egli « era vita e la vita era luce degli uomini« (3) ». Ora la vita è sentimento, e chi nulla sente, non ha vera vita: il sentimento è la potenza di percepire l' essere reale e sussistente (4). La luce del Verbo adunque non è una luce ideale, ma l' essere sussistente da noi percepito. In nessun luogo poi più chiaramente risplende questa verità, come in quelli dove Cristo paragona sè stesso al cibo, o anche parla del cibo eucaristico. Un cibo che sazia veramente l' anima, non può essere una cosa ideale: il sentirsi paghi e sazi non è altro che il sentire in sè stessi una sussistenza, un bene che ci riempie: [...OMISSIS...] . E spiega in che maniera si chiami pane di vita, cioè perchè dà la vera vita, la pienezza della vita, che è quanto dire la pienezza del sentimento; e il sentimento, la vita, per essere piena, deve essere immortale. Onde soggiunge: [...OMISSIS...] . E qual è questa vita? Una vita fondata nell' azione stessa di Cristo, una vita che noi riceviamo da Cristo, come Cristo riceve la sua vita dal Padre. Quest' alta e ineffabile comparazione non si oserebbe pur a pensare, se Gesù Cristo stesso non avesse detto: [...OMISSIS...] . L' esser mandato dal Padre è ricevere l' essere del Padre. Dice adunque: come un' operazione del Padre è quella che dà a me l' essere e la vita, così un' operazione mia ne' miei diletti è quella che dà loro la vita. - Questa vita è ciò che vi ha di più sollevato ne' discepoli di Cristo e costituisce per ciò il loro essere personale (3) soprannaturale: e indi è che la similitudine di Cristo è sommamente vera ed espressiva, quasi dicesse: come il Padre dà a me l' essere personale, così io do a' miei diletti l' essere loro personale. - E questa personalità, che noi riceviamo dall' unione con Cristo, è significata assai acconciamente in assaissimi luoghi delle Scritture e, fra gli altri, in quello di S. Paolo che dice: « Vivo io? non più io, ma vive in me Cristo« (4) ». Non già che noi ci cangiamo nella persona di Cristo, o la persona di Cristo in noi, ma sì bene Cristo vive in noi, nella nostra personalità, e però la nostra vita personale non è più prodotta dalle nostre forze naturali, ma dalla forza di Cristo che colla sua sostanziale presenza opera ineffabilmente in noi e vi suscita un sentimento tutto nuovo, un' attività più nobile di gran lunga di tutte le altre nostre attività naturali. Già abbiamo detto che il Verbo non si percepisce, se non per una operazione dello Spirito Santo, che muove soavemente la nostra volontà e questa il nostro occhio intellettivo a contemplare e percepire la bellezza appunto della sostanzial verità. Ma abbiamo detto ancora, che questa operazione dello Spirito Santo non è sempre la persona stessa dello Spirito Santo, ma che a quella persona divina si attribuiscono gli effetti spirituali che riguardano i movimenti della volontà nostra e gli affetti santi, per appropriazione (5). Se dunque la percezione del Verbo si fa per la fede, anche prima della morte di Cristo dovevano di natural conseguenza esserci anche questi doni od effetti spirituali, di cui parliamo. E certo l' aver gli Apostoli lasciato tutto e seguito Cristo era amore e fede che a lui prestavano. Pietro dice a Cristo in ragione d' esempio: « Tu hai le parole di vita eterna; e noi crediamo e conosciamo che tu sei Cristo Figliuolo di Dio« (1) ». Certo, era l' amore che gli faceva parlare così, era lo Spirito Santo, del quale dice S. Giovanni: « Lo Spirito è quello che testifica che Dio è verità« (2) ». Ma sebbene lo Spirito Santo, con quell' amore spirato a Pietro, illustrasse la persona del Verbo e mostrasse in esso avervi le parole vitali; tuttavia non era ancor venuta la persona stessa dello Spirito Santo, perchè Cristo non era ancora reso glorioso, dicendo S. Giovanni espressamente così: [...OMISSIS...] . Quella energia dello Spirito Santo, che illustrava il Verbo nelle menti, si attribuiva al Figliuolo stesso, prima che la persona dello Spirito si comunicasse formalmente agli uomini, perchè emanava da lui e non costituiva da sè sola nel sentimento degli uomini una persona sussistente: e ciò a quello stesso modo, come abbiamo detto, che i doni del Verbo si attribuivano al Padre prima che la persona del Verbo fosse comunicata agli uomini, cioè prima che venisse in carne umana (4). Quindi anche il Verbo viene chiamato Consolatore, in quel passo: « Io pregherò il Padre, e darà a voi un altro Paracleto cioè Consolatore, acciocchè PERMANGA con voi in eterno« (5) ». Dove Cristo usa quella parola permanga , per indicare che egli stesso era il loro consolatore, fino che stava con essi visibile nella carne mortale; ma che poi sarebbe con essi in altro modo, cioè invisibile o colla sua divinità: ma che per questo non sarebbe loro mancata ogni piena di consolazione, perchè la persona dello Spirito Santo nelle anime loro sarebbe stato un fonte di gaudio perenne e inesausto che sarebbe ridondato in essi per la visione non più esterna, ma bensì interiore, del Verbo. Onde dice: « Non vi lascierò orfani: io verrò a voi«. E tosto appresso:« Ancora un poco e il mondo già più non mi vede; ma voi mi vedete, perchè io vivo e voi pure vivete« (6) ». Nelle quali parole viene a dire, che la vista interiore del Verbo rimarrà in essi anche sottratta ai loro occhi corporei la divina sua umanità; perchè egli è vivente ed essi pure vivono, cioè partecipano della stessa vita, sentono in sè la vita di Cristo e così veggon Cristo. Quindi il Padre celeste era chiarificato anche prima che discendesse lo Spirito Santo sopra gli Apostoli, perchè la persona del Verbo bastava a chiarificarlo, cioè a renderne nota la maestà nelle anime degli uomini: « In questo, dice, il Padre mio è stato chiarificato, che apportiate abbondantissimo frutto, e vi facciate miei discepoli« (1) ». E spiega tosto dopo, che ciò avviene per l' amore dicendo: « Siccome il Padre ha amato me, così ed io pure ho amati voi. PERMANETE nella mia dilezione« ». - La quale dilezione si attribuisce appunto allo Spirito: ma egli fa vedere che qui non parla ancora della dilezione sola come sussistenza, ma di una dilezione, che si appoggia e inerisce alle sue parole, giacchè continua così: « Se osserverete i miei precetti, PERMARRETE nella dilezione mia, siccome anch' io ho osservato i precetti del Padre mio e PERMANGO nella dilezione di lui« ». E perchè la dilezione di Cristo era certo personale, alla quale si raffronta quella de' discepoli che non è ancor personale; manifestamente apparisce, che quella dilezione che non è ancor personale, si considera da Cristo come una via a quella che è personale, un iniziamento di questa in che quella termina e si completa. La quale distinzione fra la dilezione de' discepoli, divina sì, ma non personale, e la personale, ancor più chiaramente è marcata nelle parole di Cristo che susseguono: « Ho parlato a voi queste cose, acciocchè il gaudio mio sia in voi, e il gaudio vostro si compia« (2) ». Ho parlato queste cose, cioè vi ho comunicate queste verità, ve le ho date a sentire, vi ho dato a sentire me stesso che sono verità. E perchè? Per comunicarvi il mio gaudio. Che è il gaudio suo in noi? Il gaudio suo in noi è la grazia sua, dice S. Agostino, che diede a noi pur quando ci elesse innanzi alla costituzione del mondo (3). Il gaudio suo e il gaudio nostro è dunque il medesimo: il gaudio nostro è una comunicazione del gaudio suo, come la dilezione nostra è una comunicazione della medesima dilezione sua. Ma in altro modo quel gaudio è in lui, in altro modo è in noi: il gaudio di Cristo è eterno, perfetto, sussistente; il gaudio nostro da lui comunicatoci non è sempre, nè necessariamente sussistente. Quindi, dopo aver detto che aveva parlate quelle cose, acciocchè il suo gaudio fosse in noi, soggiunge: « e acciocchè il vostro gaudio si compia« ». Prima adunque è in noi il gaudio, poi il compimento del gaudio. Non dice:« acciocchè si compia il suo gaudio perchè è sempre completo (4); ma dice: «« acciocchè si compia il gaudio vostro« ». Il gaudio nostro adunque è il gaudio di Cristo, il gaudio che viene dalle parole di Cristo: ma egli è o incipiente, o già pieno. Che cosa è il gaudio pieno? Il gaudio sussistente, altrimente non sarebbe pieno; la percezione adunque della sussistenza dello Spirito Santo in noi. Che cosa è il gaudio incipiente? Il gaudio che viene dalle parole di Cristo prima che discenda in noi lo Spirito Santo personalmente. Questo si spetta a Cristo, dalla percezione stessa di Cristo ancor non differisce, non è un altro modo nuovo di percepire: quello è lo Spirito Santo, è una percezione nuova, o, per dir meglio, un nuovo modo di percepire che noi facciamo il tutto. Come v' ha adunque una gradazione nel gaudio che esce dal Verbo, e solo il termine di questo gaudio, la pienezza sua è ciò che costituisce il sentimento dello Spirito nelle anime; così vi ha anco una gradazione di luce che esce dal Verbo, e solo la pienezza di questa luce è ciò che forma il sentimento dello Spirito nelle anime. La luce del Verbo fino che non è arrivata alla sua pienezza, non costituisce un modo di percepire nuovo nelle anime: è indivisa una tal luce dal Verbo stesso percepito. Quanto il Verbo è più sentito dalle anime nostre, o, che è il medesimo, quanto è più luminoso in esse, tanto più è chiarificato il Padre. Quando adunque Cristo diceva al Padre: « Io ti ho chiarificato sopra la terra« (1) »; mostrava con questo che anche il Figliuolo era chiarificato, giacchè è la sua chiarezza [che] fa vedere il Padre. Tuttavia il Figliuolo [prega] di essere chiarificato ancora, dimanda che sia completata la sua chiarezza appunto perchè sia più e più chiarificato il Padre: « Padre, dice, viene l' ora, chiarifica il Figliuol tuo, acciocchè il Figliuol tuo chiarifichi te« (2) ». Che cosa dimanda qui dunque il Figliuolo se non un aumento di luce? E quanta luce? Quanta di più non si può, una luce piena, una luce infinita: « E ora chiarificami, o Padre, appresso te stesso di quella chiarezza, che io ebbi prima che fosse il mondo, appresso te« ». Non dimanda certo questa chiarezza per ragion sua o del Padre, dove non ebbe mai adombramento veruno; ma la domanda per cagion degli uomini, domanda che una tal luce sia resa visibile agli uomini. Or questa luce infinita, che dimanda, è una luce eterna e divina; dimanda pe' suoi diletti la persona dello Spirito Santo. Egli rannoda questo discorso alla pienezza del gaudio che, come abbiam detto, indica appunto lo Spirito Santo personalmente comunicato, dicendo: [...OMISSIS...] . Questa gradazione di luce, che ammette la percezione personale del Verbo, è anche espressa in quelle misteriose parole che Cristo pronunciò nel cenacolo, uscito Giuda: [...OMISSIS...] . Le quali parole si possono interpretare di una maggiore luce di carità diffusasi nelle anime de' suoi Apostoli, dopo l' eucaristia, e la partita del demonio che trovavasi nel traditore. E` però notabile quel modo di chiarificazione che Cristo annunzia dover egli avere dal Padre suo. Dice che Dio lo chiarificherà in sè stesso: questa maniera esprime una chiarificazione non già esterna, ma tutta interiore, la chiarificazione che nasce a Cristo quando gli uomini conoscono e sanno che egli è Dio nel seno del Padre. Il sapere questo, l' aver questo lume nell' anima, dal penetrare in qualche modo nella generazione del Verbo, è tutto ciò che ci può essere di più grande nella cognizione, nella percezione di Dio stesso; e il solo Spirito Santo dà alle anime una tale intima cognizione. La frase è ripetuta nell' orazione di Cristo surriferita, dove parla non di gloria esteriore, ma di quella chiarezza ch' egli ha appo il Padre da tutta la eternità. Nella percezione adunque del Figlio è indivisibile una luce e un amore, ma questa luce e questo amore non costituiscono una percezione da sè diversa da quella del Figlio, fino che non diviene una luce e un amore tale, che lo si senta pieno e sussistente: allora quella luce e quell' amore forma da solo una cotale percezione, ed è quella che diciamo la percezione dello Spirito Santo. Tuttavia anche prima che quella luce e carità tocchi in tal modo il suo termine, essa allo Spirito Santo si appropria, perchè è un avviamento nell' anima al medesimo Spirito Santo; ed è anche in questo senso, che il Verbo divino dice: « Io sono la via« (2) ». S. Paolo distingue parimente i due gradi della santificazione dell' uomo, che noi fin qui abbiamo cercato distinguere: il primo consistente nella percezione del Figliuolo, per la quale diveniamo figliuoli di Dio; il secondo consistente nella percezione dello Spirito che illustra e attua vieppiù la percezione del [Verbo], e innalziamo con confidente amore a Dio le nostre voci di figliuoli. Così l' Apostolo tocca questi due gradi, scrivendo ai Galati: [...OMISSIS...] . Con questo solo la salute dell' uomo è assicurata, l' uomo è figliuolo di Dio. Ma lo Spirito Santo viene appresso e perfeziona quest' opera; prosegue l' Apostolo: « Ma poichè siete figliuoli » (ecco che precede l' essere fatti figliuoli), «Iddio mandò lo Spirito del Figliuol suo » (prima mandò il Figlio, or qui manda lo Spirito del Figlio) «nei cuori vostri » (la sede degli affetti, la volontà) « che grida: Abba, Padre« (1) ». Conchiuderò questo articolo con un' osservazione volta a levare una difficoltà che potrebbe sorgere nell' animo de' lettori. Nell' antico Testamento, abbiamo detto, i doni del Figliuolo, cioè le illustrazioni mentali non sono più che operazioni deiformi nelle anime sante, appropriate al Verbo; ch' esse però, come in loro causa, si riferivano al Padre, principio della Trinità. Abbiamo detto il medesimo dei doni dello Spirito Santo. Or poi resosi cognito il Figliuolo dopo incarnatosi, i doni dello Spirito Santo si riferiscono allo stesso Verbo, o anche al Padre. Or qui è da osservare la differenza che passava tra il riferirsi al Padre, o al Verbo, nell' antico tempo, quei doni, e il riferirsi ora. Ora il Figliuolo, e per esso il Padre, è conosciuto; e si ricevono in una percezione indistinta dal Figliuolo medesimo que' doni allo Spirito appropriati (2). Quindi la percezione del nuovo Testamento appartiene, propriamente parlando, alle persone divine, quando la percezione nell' antico apparteneva solo con proprietà alla divina natura. E` però degno di osservazione come nel nuovo Testamento medesimo si distinguano alcune grazie o doni dello Spirito come venienti dal Padre; e alcune grazie o doni come uscenti dal Figlio. Ciò è a dire, tutte le buone disposizioni della volontà umana precedenti alla fede in Cristo, alla cognizione del Figliuolo, le quali buone disposizioni inclinavano gli animi a udire docilmente e a dar fede alle parole di Gesù Cristo, Gesù le attribuisce al Padre suo: là dove i doni che susseguono la cognizione e la fede in Gesù Cristo, si fanno scaturire dal Figliuolo, cioè dalla cognizione e fede di lui. Le prime appartengono all' antico Testamento e sono grazie deiformi: le seconde appartengono al nuovo, e si possono dire grazie verbiformi. Cristo parla appunto di quelle grazie dispositive del Vangelo in questa maniera: « Ognuno che udì dal Padre mio e imparò, viene a me« (1) ». E acconciamente dice, udì ; perchè chi ode la voce di uno, non è necessario che vegga la persona che parla: la qual forza della parola, udì , si rileva da queste altre parole dette da Cristo: « Voi nè avete mai udita la sua voce, nè veduta la sua specie« (2) »; quasi dica: non avete udita la sua voce manifestatavi da Mosè e da' Profeti, e molto meno avete veduto il suo volto, come l' ho veduto io. Indi mette fra le male disposizioni a ricevere la sua parola il non prestar fede a Mosè, non potendo capire il significato spirituale e interno delle sue parole: « Se prestaste fede a Mosè, forse credereste a me pure, poichè Mosè scrisse di me« (3) ». Fra le buone disposizioni poi a udire la sua legge, si è la prima la volontà del bene in generale, l' amore della giustizia stessa naturale: [...OMISSIS...] . Dalla buona disposizione della volontà dice che procede quella della luce volontaria, colla quale si sa conoscere se è bene o male ciò che viene annunziato. [...OMISSIS...] . E` forse difficile il conoscere e accertarsi che la sua dottrina sia da Dio? No certamente: basta avere una buona volontà, basta desiderare il bene sinceramente, basta avere la fede implicita, e quindi volere implicitamente fare tutto quello che Dio fosse per manifestare. [...OMISSIS...] Nulla più ci vuole: la disposizione buona della volontà, l' implicito desiderio di fare la volontà del Padre. A questi doni e grazie dispositive a ricevere il Vangelo, che al Padre si attribuiscono, appartiene quel passo: [...OMISSIS...] . Sebbene le parole di Gesù Cristo, colle quali ebbe promesso lo Spirito Santo, [dovessero adempirsi] solo dopo ch' egli fosse salito al cielo sedente alla destra del Padre; tuttavia una grave difficoltà nasce a spiegare quell' atto e quelle altre parole di Cristo, onde dopo risorto, apparito in mezzo al cenacolo, soffiò la prima volta verso gli Apostoli e disse: « Ricevete lo Spirito Santo: i peccati di quelli a cui voi li rimetterete, sono rimessi, e a cui li riterrete, sono ritenuti« (1) ». E certo fu quello un dar loro lo Spirito Santo; ma il fine di quella comunicazione del Santo Spirito fu il darlo come fonte dell' autorità di legare e di sciogliere, non come forma della loro santità. Il dono della potestà di legare e di sciogliere che rimane nei sacerdoti, anche dopo perduta la grazia coi peccati, appartiene a un ordine di cose ben diverso da quello della santità. Ove non si voglia dire che perpetua è questa potestà nella Chiesa, appunto perchè perpetua è la santità di lei, pigliando la Chiesa tutta come esercitante pei suoi ministri il ministero penitenziale. Certo è insieme che molti doni incomparabilmente maggiori furono conferiti agli Apostoli da Cristo risorto, come il gaudio, la pace e l' intelligenza delle divine Scritture. Ma la promessa dello Spirito Santo non fu ancora compita prima d' ascendere al cielo; non disse già Cristo ai suoi: Ricevete lo spirito in maggiore abbondanza, ma disse semplicemente: « Ed io mando il promesso del Padre mio in voi« (2) »; facendo così manifestamente intendere che questo promesso del Padre suo non era ancora in essi venuto. Sebbene adunque nella percezione del Verbo sieno sempre uniti dei doni o grazie che allo Spirito si appropriano, perchè alla volontà appartengono, come la dilezione (1); tuttavia lo Spirito stesso fu promesso da Cristo e mandato, come dicevamo, solo il giorno della Pentecoste. Pigliamo i due caratteri, dai quali abbiamo detto conoscersi, se un sentimento in noi sia sentimento di una persona divina, i quali sono: 1. la totalità; 2. e la sussistenza. Gesù Cristo caratterizza sempre quello Spirito che promise di mandare colla totalità , e lo distingue da quegli spiriti o doni parziali che ha compartito egli a' suoi Apostoli mentre viveva, o dopo la sua risurrezione. Egli dice: [...OMISSIS...] . - Questa è la comunicazione di sè che fece il Verbo. Soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole di Cristo due cose si devono notare: 1. Che quello Spirito è uno Spirito universale, che ha in sè tutte le cose, ed è atto a infondere le notizie tutte. 2. Che lo Spirito non insegna cose diverse da quelle che ha insegnate il Figliuolo; ma quelle stesse le suggerisce alle anime: « omnia quaecumque dixero vobis », come dice il sacro testo. Poichè anche Cristo aveva insegnate tutte le cose, come detto abbiamo (3). [...OMISSIS...] Perocchè anche nella percezione del Figliuolo tutte le notizie si comprendono; è anche con questa percezione che si percepisce il TUTTO, e il medesimo TUTTO, perchè il TUTTO è un solo, e non può essere due. Tanto dunque il Verbo, come lo Spirito insegnano alle anime in cui risiedono tutte le cose , ma le insegnano in diverso modo . E qual è questo diverso modo? Risulta dalle parole di Cristo: il Verbo le insegna in un modo diretto , le dà all' intelletto la prima volta; lo Spirito le insegna in un modo riflesso , fa sì che la nostra attenzione volontaria si porti di nuovo, aderendo, a quelle verità che sono già in noi: il Verbo insegna quindi la verità che nella cognizione diretta e percezione consiste (4); lo Spirito illustra quelle verità, il che è l' operazione della riflessione e massime di una riflessione innamorata della verità, su cui si porta e ripiega (5). Tutto questo dice Cristo con quelle parole, « che lo Spirito insegnerà tutte le cose« ». Ma in che modo? Suggerendo tutte quelle cose che io stesso vi avrò dette: « Suggeret vobis omnia quaecumque dixero vobis ». Questo suggerire alla mente le verità, per la mente non già nuove, ma in lei esistenti, è un eccitare la mente a piegarsi sopra di sè, eccitarla alla riflessione, a porre una nuova attenzione a ciò che ha già in sè prima ricevuto. Questo operare dello Spirito, mediante la riflessione sul Verbo percepito dall' uomo santo direttamente, viene espresso ancora dalle seguenti parole di Gesù Cristo: « Io ho ancora molte cose da dirvi; ma non le potete sostenere ora« ». Fin qui dice Cristo che ha molte cose da dire agli Apostoli in separato, perchè in complesso prese, gliele aveva dette tutte, contenendosi tutte nella luce loro data, nel Verbo: « tutte le cose, che ho udito dal Padre mio, le feci note a voi« ». E ora è la riflessione quella che trae le conseguenze implicitamente contenute in un principio, quella che analizza le idee e ne osserva, a parte a parte, gli elementi, di che esse si compongono, che sono le cognizioni distinte, le cognizioni particolari (1). Ora chi insegna all' anima nostra a penetrare colla riflessione nel Verbo percepito? a vedere in esso le verità distinte? La potenza di far questo ce la dà lo Spirito Santo, che, come dice S. Paolo, scruta tutte le cose, anche le profondità di Dio (2). E questo parimente viene a dir Cristo, soggiungendo, dopo aver detto: « Ho ancora molte cose a dirvi« », queste altre parole: «« Ma quando verrà quello Spirito di verità egli vi insegnerà ogni verità« »: ve la insegnerà in un modo riflesso. Perocchè insegnerà forse qualche cosa che non sia in me? Darà qualche notizia che non sia contenuta come in suo principio in quello che vi ho detto? Non già: « conciossiachè non parlerà da sè stesso (cioè cose nuove), ma parlerà tutto quello che udirà » (cioè quello che udirà da me, essendo io che dò la verità, la verità stessa sussistente), «e le cose avvenire annunzierà a voi« ». E sèguita ancora nello stesso sentimento: « Egli illustrerà me, perchè riceverà del mio, e lo annunzierà a voi« (3) ». Lo Spirito Santo adunque non fa che illustrare in noi la percezione del Figliuolo, renderla questa percezione possente, luminosa, feconda di tutte le verità che nel suo seno contiene e porta. Sapere non è il medesimo che conoscere di sapere: si sanno molte cose, e non si sa di saperle. Questo è un fatto che io credo di avere stabilito indubitatamente nella Ideologia. Or che è sapere di sapere? non è altro appunto che riflettere sopra quello che si sa. Ora la percezione del Verbo fa sapere il Verbo; ma la percezione dello Spirito Santo fa sapere che si sa il Verbo, fa che noi ci accorgiamo di saperlo, e ne tiriamo di quella nostra cognizione appunto molte conseguenze. Questo è quello che insegna S. Giovanni dove afferma: [...OMISSIS...] . Altro adunque è il tenerci noi in Cristo e Cristo in noi, ed altro è il conoscerlo : il tenerci in Cristo è aver Cristo, ma il conoscerlo si fa coll' aver lo Spirito Santo: per aver Cristo basta una percezione , per conoscere che lo percepiamo è necessaria una riflessione . Lo stesso sentimento espresse Cristo quando, parlando del giorno in cui i suoi discepoli dovevano ricevere lo Spirito Santo, dice così: « In quel giorno CONOSCERETE che io sono nel Padre mio, e voi in me, e io in voi« (2) ». Non dice già che in quel giorno essi saranno in lui ed egli in essi, no, perchè già sono: ma dice, che il conosceranno . E che è l' essere in Cristo e Cristo in essi? L' avere la percezione di Cristo, il sentimento, la visione di Cristo. Che l' avessero già questa percezione e visione, si raccoglie ancora più chiaramente dalle parole di Cristo che precedono le surriferite, perchè aveva detto: « Ancora un poco, e il mondo già non mi vede: voi poi mi vedete, perchè io vivo e voi vivete« ». Lo vedevano adunque, lo percepivano anche sottratto dai loro occhi corporei, lo vedevano con degli occhi che il mondo non aveva. E a mal grado di ciò, soggiunge, che però solamente in quel giorno, nel quale riceverebbero lo Spirito Santo, conoscerebbero di vederlo, conoscerebbero l' intima unione fra lui ed essi, e come egli era in essi, ed essi in lui. Qual più manifesto luogo per mostrare che l' illustrazione dello Spirito Santo si fa per via di riflessione? E innumerevoli sono i passi del Vangelo di S. Giovanni che confermano la stessa dottrina, appunto quel di San Filippo. Egli dimanda che gli mostri il Padre, perchè non sa di vederlo nel Figliuolo. E Cristo risponde appunto chiedendogli come possa fare questa interrogazione, se vede da tanto tempo il Figliuolo? Poco prima [aveva detto] a' suoi discepoli, ch' egli andava a preparare loro il luogo; e quindi disse ancora positivamente che essi sapevano dove egli andava e sapevano la via d' andarvi (3). E questa via che sapevano i suoi discepoli, era egli stesso, come spiega tosto appresso: il Padre che era in lui, era il luogo dove andava, perchè egli aveva in sè il Padre e tutto il Paradiso, la felicità che risulta dalla verità e dalla vita: « Io, disse, sono la via, la verità, e la vita« ». E sebbene Cristo così positivamente dica, che i discepoli suoi sapevano la via e il luogo ove andava, tuttavia esce uno di loro, cioè Tommaso, che facendosi tutto nuovo di ciò come se nulla ne sapesse, gli dimanda: « Signore non sappiamo dove tu vai: e come possiamo sapere la strada?« » come tu dì. Interrogazione che mostra chiaro, come Tommaso ignorasse di sapere tuttavia quella strada e quel luogo, ignorava di conoscere Cristo Via, e il Padre a cui andava; ciò che pur Cristo avea detto esser da essi conosciuto. Ma sebbene lo conoscessero, tuttavia Cristo risponde: [...OMISSIS...] . Dice che l' hanno già veduto e tuttavia promette che lo conosceranno : che è ciò se non un dir loro, che vi ha dunque un modo nuovo di conoscerlo, cioè per cognizione riflessa, per la quale sapranno anche di conoscere ciò che sanno? (1). Dichiarato così in che modo lo Spirito insegni ogni verità, coll' illuminare cioè in noi, mediante il movimento della volontaria riflessione, l' ogni verità che è in noi precedentemente; passiamo all' altro carattere della percezione dello Spirito, ch' ella cioè sia un sentimento pel quale noi sentiamo non già una tenue idea, ma una verace sussistenza . Che, col sentimento dello Spirito Santo, noi non sentiamo puramente l' essere ideale, ma qualche cosa di reale, di sussistente, si rileva per conseguenza dalla totalità di quel sentimento. Poichè se quel sentimento è totale, cioè si sente in esso il tutto, se ci sazia perfettamente, non può essere che sostanziale la sua forma. E ora, che ci sazii interamente, è insegnato nel discorso tenuto da Cristo colla donna di Samaria, nel quale paragona lo Spirito Santo a dell' acqua viva che estingue a pieno la sete dell' uman cuore: [...OMISSIS...] . Quella parola, dono , è caratteristica nella Scrittura e propria dello Spirito Santo, come già osservarono i Padri. Or ecco come descrive quell' acqua, ch' egli voleva dare alla donna, desiderandola essa e chiedendola: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole si noti quella del FONTE: altro è l' acqua, altro è il fonte: Cristo dà l' acqua, e questa diverrà poi nell' anima un fonte. L' acqua che dà Cristo, sono quelli che abbiamo nominati più sopra doni o grazie dello Spirito, ma il fonte è lo Spirito Santo; quelli sono un avviamento, un arra di questo; questo è il compimento di quelli. Il fonte è perenne e stabile, può attingersi acqua quanta sen vuole: il che esprime quella potenziale totalità di notizie e di grazie che nella persona dello Spirito Santo si comprendono e che si attingono colla buona volontà dell' uomo successivamente senza fine, cioè senza che mai si dissecchi il fonte. E dice: « Un fonte saliente alla vita eterna« ». Viene quell' acqua dall' alto e in alto ritorna: quell' alto è il Padre stesso onde quella fiumana di acqua derivasi; quell' alto è il luogo, di cui disse: « Vado a prepararvi il luogo« »; appunto allora quando andava al cielo per mandare di lassù lo Spirito. E questa abbondanza e quasi direi ridondanza di acqua viva, cioè di acqua che dà la vita e spegne la sete, propria della persona del Santo Spirito, è indicata più volte da Cristo, come là dove dice: [...OMISSIS...] . Dopo le quali parole, l' Evangelista soggiunge: [...OMISSIS...] . E medesimamente in più luoghi si dà allo Spirito questa proprietà di saziare pienamente, come là dove si distingue il « gaudio« » dal «« gaudio pieno« (2) », si distingue la « vita« » dalla «« vita più abbondante« (3) », si distingue la « chiarezza« » ricevuta dal Figlio, dalla «« chiarezza infinita e piena« (4) »; e finalmente, dopo aver Cristo consumata l' opera datagli dal Padre e santificati i suoi, ancor prega per essi, ancor dimanda al Padre che li santifichi nella verità, e desidera che siano essi pure là ove è egli insieme con lui (5). Questo compimento sovrabbondante dell' opera è il carattere appunto, a cui si distingue l' opera dello Spirito Santo. Un' altra prova che la percezione dello Spirito è di cosa reale sussistente, si trae da quel vero posto da noi già innanzi, che l' azione ideale non ha virtù di muovere gran fatto la volontà nostra, ma sì bene solo l' azione in noi di cosa reale (6). Ora quali sono gli effetti della percezione dello Spirito? Efficacissimi: il fatto l' ha mostrato, e la promessa di Cristo si è avverata. Egli aveva detto, prima di salire al cielo, in accomiatandosi dagli Apostoli: [...OMISSIS...] . Ecco il proprio effetto dello Spirito personalmente ricevuto, la virtù, cioè la fortezza, il coraggio, il zelo di testificare il nome di Cristo anco a fronte di mille pericoli, e della morte e de' supplizi: [...OMISSIS...] . A chi darà testimonianza di Cristo lo Spirito Santo? Agli Apostoli stessi che l' avranno ricevuto. Ora il dare testimonianza è proprio della persona , nè alle cose con proprietà di parlare conviene. Il terzo argomento adunque a provare, che nella percezione dello Spirito noi sentiamo una cosa reale e sussistente, è l' attribuirsi [a lui] dalle divine Scritture degli atti personali , che non alle idee , ma alle sussistenze sole possono convenire: come a ragion d' esempio, quando S. Paolo dice che lo Spirito domanda per noi con gemiti inenarrabili (3); che egli grida nel nostro cuore: Abba, Padre (4); che egli scruta le cose profonde di Dio (5); che egli diffonde in noi la carità e fa altre simili operazioni. Noi sentiamo in tutti questi passi supporsi sempre lo Spirito in noi come una persona sussistente: e anzi di più un principio operante nella nostra stessa personalità, sicchè gli effetti che in noi cagiona, a lui stesso si attribuiscono, appunto per essere fatti noi con lui una cosa sola, essendo egli la forma nostra e noi da lui informati. Ciò che viene espresso in questo mirabile modo di esprimersi che usa Cristo: « Chi è nato dalla carne, è carne; e chi è nato dallo spirito, è spirito« (6) ». Ciò che viene a dire, che chi ha la volontà attaccata alla carne, riceve da essa un istinto carnale, il principio attivo che costituisce la personalità viene ingenerato appunto in lui dalla carne: là dove la volontà, ove opera lo Spirito Santo e a cui essa consente, ha un altro principio attivo più elevato, eccitato in lei dall' azione del Santo Spirito e che s' identifica col principio operante dello Spirito stesso; ed è questa la nuova personalità acquistata dall' uomo santo per la santificazione dallo Spirito comunicatagli. Finalmente ai passi della sacra Scrittura aggiungerò qualche luogo de' Padri, ove si vegga esser pur questo loro sentimento che la venuta personale dello Spirito Santo fosse stata riserbata da Cristo a farsi il giorno della Pentecoste e non prima. S. Agostino così parlò in un sermone da lui tenuto al popolo nella seconda festa di Pentecoste: [...OMISSIS...] . Nulla di più chiaro di questo passo che non ha bisogno di commenti a provare la nostra proposizione. Osserverò bensì come S. Agostino nota con grande cura la PERMANENZA dello Spirito Santo, il che conferma e ribadisce quello che noi abbiamo più sopra tolto a provare, cioè esser carattere distintivo della grazia del nuovo Testamento la PERMANENZA della percezione divina, sia del Verbo, sia dello Spirito (2). Or qui S. Agostino assai acutamente aggiunge l' osservazione, che questa PERMANENZA non è propria dei doni e grazie particolari che anche attuali si posson chiamare; ma si è propria della congiunzione nostra colla persona divina, la quale è grazia universale e abituale . I doni poi e le grazie particolari e attuali stanno bensì insieme colla persona (3); ma l' unione della persona rimane costante, le grazie e doni passano e vengono in maggiore o minore abbondanza. Indi si spiega perchè, sebbene Cristo non cessasse mai dall' essere unito co' suoi discepoli, neppure nel tempo in cui si operava la sua passione e la sua morte; tuttavia descriva quel tempo, come tempo di grave pericolo e tentazione pe' suoi. Il che era per la diminuzione de' doni e grazie che, togliendosi la sua presenza divina, sebbene solo esteriormente, ne proveniva agli Apostoli; e per la permissione data all' inimico in quell' ora di operare più potentemente e liberamente. Quindi la predizione di Cristo sulla caduta di Pietro e fuga de' discepoli; quindi le parole: « Questa è l' ora vostra, e la podestà delle tenebre« (1) ». Le quali tenebre indicano anco la sottrazione de' lumi, che in quel tempo facevasi all' anime buone; e quindi finalmente l' orazione, onde raccomandò al Padre i discepoli per quel tempo che egli li abbandonava andando alla passione e morte: [...OMISSIS...] . Le divine Scritture dicono manifestamente che il Figliuolo è quegli che fa conoscere agli uomini il Padre: [...OMISSIS...] . E in altro luogo Cristo, rispondendo a Tommaso che gli domandò dove egli andasse, avendo prima Cristo favellato d' un andar suo in certo luogo misterioso, così gli dice: [...OMISSIS...] . L' operazione del Figliuolo nelle anime è di far loro conoscere Iddio Padre; sicchè sul fine della sua vita Cristo disse all' eterno Genitore: [...OMISSIS...] . Ma chi trae al Figliuolo? Chi fa sì che noi percepiamo quella verità sussistente nella quale si vede il Padre? Chi ci dà, chi porge alle nostre menti questa verità divina? Questa è l' operazione che fa nelle anime il Padre stesso. Nel Vangelo è di frequente data questa dottrina. Eccone i luoghi principali. [...OMISSIS...] E poco appresso, togliendo a spiegare quel detto de' Profeti, che saranno tutti capaci di venir ammaestrati da Dio medesimo, così nel commenta: [...OMISSIS...] . E nello stesso capitolo dice l' Evangelista che, sapendo Cristo che alcuni non credevano alle sue parole e conoscendoli disse: [...OMISSIS...] . Cristo diceva parimenti, che i suoi discepoli era stato il Padre, che glieli aveva dati: [...OMISSIS...] . Dice ancora che è opera del Padre la fede (6): ch' egli non faceva niente da sè stesso (7); che egli parlava le cose che udiva dal Padre (.); che la sua dottrina non era sua ma di chi l' aveva mandato (9); che il vero pane celeste, cioè egli stesso, è dato agli uomini dal Padre (10); in assaissimi luoghi finalmente dice di essere stato mandato dal Padre. Tuttavia il Padre a questo mondo non è visibile dall' anima per sè stesso, ma solo pel Figliuolo: e in questo non vedersi del Padre propriamente consiste la fede. A questo mondo non si vede il Padre, il Principio della Trinità immediatamente, ma si prova però il suo agire in noi e si crede ciò che del Padre ha rivelato il Figliuolo: la gloria futura consisterà nel vedere immediatamente e svelatamente il Padre. Perciò al Padre si attribuisce da Cristo la proprietà dell' essere nei cieli : e volendo descrivere la gloria celeste degli angeli, egli dice appunto così: « I loro Angeli veggono sempre la faccia del Padre mio che è ne' cieli« (11) »: additando questo come la nota caratteristica della visione beatifica; siccome pure allorquando vuole indicare che egli è comprensore e gode della visione beatifica, usa dire, che vede il Padre (1). Qui ancora è la ragione perchè Cristo, dopo aver detto che chi manterrà il suo sermone, sarà amato dal Padre, non soggiunge che il Padre verrà a lui, ma che verranno insieme: « ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus »; appunto perchè non il Padre in sè, ma il Padre viene in noi nel suo Figliuolo. Quindi poco innanzi aveva manifestato lo stesso sentimento in altre parole, dicendo: « Chi ama me, è amato dal Padre mio: e io l' amerò e gli manifesterò me stesso« ». Invece di dire, che gli si manifesterà il Padre, o che verrà col Padre, dice, che gli manifesterà sè stesso: il che era quanto dire che gli manifesterà anche il Padre che si vede in lui. Per la stessa ragione ancora non dice, che egli esaudirà le preghiere de' suoi discepoli semplicemente acciocchè il Padre suo sia glorificato, ma ci aggiunge il modo di questa glorificazione, cioè nel Figliuolo: [...OMISSIS...] . Da tutte queste parole del Vangelo risulta, 1 che il Padre è quello che manda il Verbo nelle anime, le quali nel Verbo conoscono il Padre; 2 che il Padre tira le anime al Verbo. Queste due cose rientrano nello stesso: il Verbo è la specie, la conoscibilità di Dio, per così dire, la [sua] luce. Nel ricevere noi questa specie, questa luce divina che illumina il nostro spirito, noi siamo passivi, noi la riceviamo, perchè una potenza occulta, irresistibile, infinita, ce la presenta, egli ce l' attacca, per così dire, allo spirito. Questa passività nostra e in conseguenza questa potenza infinita che mette nelle anime nostre la luce, il Verbo, noi la sentiamo; e il sentimento di questa potenza occulta è il sentimento del Padre. Dopo però che noi abbiamo questa luce, e dopo che per la rivelazione esterna noi sappiamo che questa luce procede dal Principio che la manda, e prestiam fede a questo; allora noi veggiamo nel Verbo il Padre, cel veggiamo perchè la rivelazione esterna ci ha detto esservi, e perchè il sentimento interiore ci dice altro essere la luce, e altro la forza onde cominciò a esserci presente la luce. E veramente, nell' analisi di qualunque sensazione si distingue la sensazione dalla forza o causa che l' ha in noi prodotta; e per la sensazione è che si conosce questa forza, sebbene questa forza sia stata quella che ha prodotto la sensazione. La forza dunque, causa delle sensazioni, è anteriore alle sensazioni, nell' ordine delle realtà; ma nell' ordine delle idee, o percezioni nostre, la sensazione precede la cognizione della forza che l' ha prodotta, andando noi col pensiero dall' effetto alla causa. Ciò che dico delle sensazioni, deve applicarsi a tutte le specie intellettive, idee e percezioni: solamente con questa differenza, che le sensazioni non sono che modificazioni di noi stessi, e quindi non hanno nulla in sè di reale e oggettivo, mentre la specie, o percezione intellettiva, è oggettiva essenzialmente, e oltre il rendere noi passivi, è anche in sè qualche cosa di indipendente al tutto da noi, sui quali ella opera. Egli è dunque evidente che, se è vero che il Verbo entra nelle anime nostre, vi opera, vi produce un deiforme sentimento; conviene che per lui veniamo anche in cognizione di quel principio che affigge in noi il Verbo e che [deve] esser realmente diverso dal Verbo stesso: si vede in questo che la specie, come specie, è diversa dalla potenza di agire, sebbene in quella si trovi poi anche la forza, e in questa anche la specie. Il Verbo dunque è il principio della conoscibilità del Padre: ed è questo che dicono quelle parole con le quali Cristo, interrogato chi egli era disse: « Il Principio che a voi parlo« ». Non disse solamente il Principio ma il Principio parlante ; per indicare appunto, che egli è il Principio di ogni cognizione e che qualsiasi cosa sappia l' uomo dal Padre, non può saperla che per lui (1). Le cose dette eccitano desiderio di sapere più avanti in una materia sì recondita e alta: nella quale però nulla è più da raccomandarsi che la sobrietà del sapere, la quale consiste nel non presumere di investigare ciò che non si può. Checchè però ci sia dato da Dio di poter conoscere in tale argomento, è cosa da averla come un tesoro; giacchè la minima parte di cognizione, come dice l' Angelico, che aver si possa intorno a cose sì degne e alte, come le divine, è più desiderabile di ogni altra certissima cognizione che si abbia delle cose inferiori (2). Mettiamoci adunque più addentro nella materia, rivolgendo però il discorso, più che ad altro, a dare tale chiarezza alle cose dette, per la quale apparisca assai manifesto quanto ciò che abbiamo detto sia conforme alla cattolica verità (3). In prima dunque è da considerarsi che non parliamo di una manifestazione del Padre per segni e figure esterne, nel qual modo non è dubbio essersi lui manifestato più volte agli uomini: ma parliamo di quella rivelazione interiore che l' augusta Trinità fa di sè nelle anime sante per la grazia, benchè ad altre più e ad altre meno: manifestazione che abbiamo chiamata deitriniforme , perchè porta in noi un sentimento triplice e di tal modo che in ciascuno qualsivoglia dei tre modi di questo sentimento noi abbiamo un sentimento tale, in cui non manca nulla, un sentimento onde siamo consci di sentire tale sussistenza, ove nulla manca e che è tutto l' essere , è Dio. Ciò posto, egli è manifesto che si vuol distinguere il modo di questo sentimento, che chiameremo il sentimento del TUTTO, dallo stesso TUTTO che in ciascun modo egualmente si sente. Questi modi di sentire corrispondono ai modi diversi onde il TUTTO sussiste; e sussistendo il tutto in tre modi, cioè come principio conoscente e amante (Padre, generante), come conoscibile (Figlio generato), e come amabile (Spirito, spirato), in tre modi pure si sente. Ora ciò che si dice si è, che noi non possiamo ricevere il tutto cognosibile , che è il medesimo che dire l' essere essenzialmente conoscibile, il Verbo, se non nella sua relazione col principio , da cui procede; perocchè la conoscibilità di una cosa suppone e chiama la mente che la conosce. Laonde col solo vedere la conoscibilità dell' essere, questa relazione, noi intendiamo che aver ci dee il principio da cui provenga: e questo è il Padre. Se fosse possibile che noi percepissimo l' essere in quanto è conoscibile , senza la sua relazione necessaria coll' essere quale conoscente , noi allora non vedremmo il Figliuolo, perchè il Figliuolo è questa relazione appunto che ha l' essere conoscibile, la relazione cioè intrinseca di avere chi conoscendolo, il rende conoscibile, ossia lo genera. Se all' incontro noi percepiamo questa relazione, egli è manifesto che in essa veggiamo anche la relazione della Paternità che è quella del generare , cioè del conoscere in modo che l' oggetto cognito sussista come cognito; siccome abbiam detto più sopra. Questo è ciò che dicono i Padri. [...OMISSIS...] E quando i singoli il conoscono e percepiscono? Non prima, secondo il santo Dottore, che essi abbiano conosciuto e percepito che egli è da un altro. Checchè abbiano conosciuto prima di ciò non si può dire che abbiano ancora conosciuto il Verbo, eziandio chè abbiano conosciuto cosa che si approprii al Verbo: poichè il Verbo è una relazione, la relazione di essere generato dal Padre. Ecco le parole del santo Vescovo: [...OMISSIS...] . Quindi quando il Verbo è nelle anime, egli vi è, nè vi può essere altramente, che come esistente dal Padre: onde è necessario che il Padre lo mandi nelle menti; e se si dice che egli viene, egli viene, ma come mandato, e però non si può conoscerlo senza che in lui si conosca la necessità del principio da cui è, cioè il Padre. Quindi i Padri della Chiesa dicono del Verbo, che è mandato nelle anime sante, mentre del Padre non si legge mai che sia mandato, perchè egli anzi non può essere ricevuto nelle nostre menti che tale come è, cioè come principio mandante. [...OMISSIS...] E` dunque necessario che il Verbo venga nelle anime nostre come mandato , perchè possiamo dire d' averlo in noi, e altresì fu necessario che come mandato s' incarnasse. E quindi è che Cristo ha potuto applicare alla sua incarnazione quelle parole: « Io sono uscito dal Padre e venni nel mondo« (3): e quelle altre:« Io venni in nome del Padre mio« (4) »; cioè egli ha potuto esprimere colle stesse espressioni l' eterna sua generazione e la sua generazione nel tempo , perchè egli apparì nel tempo come mandato dal Padre: onde l' incarnazione non fu che un comunicarsi alla umanità come generato dal Padre (5); fu, quasi direbbesi, un generarsi o, per dir meglio, un apparir generato nella umanità. Si dice dunque mandato Cristo, perchè viene nell' umanità, opera e si dà a conoscere nella sua qualità di eternamente mandato , che equivale al dirsi Figlio di Dio (6). E conoscendosi come mandato e come tale ricevendosi nelle anime nostre, in lui necessariamente si sente il mandante che opera nelle anime pel suo Verbo. Vero che in questa vita non ci viene svelato il modo di questa missione o generazione; e quindi il Padre nol veggiamo propriamente come generante , e come tale solo il crediamo , perchè ci è rivelato dalle parole del Figlio, e perchè nel generato il sentiamo. E di qui è che la santissima Triade rimane il gran mistero della fede, perchè il principio di lei è occulto in questa vita, e quindi non si può intendere il modo della generazione e della spirazione, che solo spiegherebbe il nodo del mistero. Gesù Cristo disse costantemente che le sue parole avrebbero ricevuto lume e splendore dalla venuta dello Spirito Santo; che questo divino Spirito avrebbe reso nelle anime testimonianza di lui, e avrebbe fatto via più conoscere lui stesso; venendo, la divina sua persona sarebbe stata dallo Spirito chiarificata: cioè le anime, nelle quali abita Cristo, come dice S. Paolo (1), ricevendo lo Spirito, avrebbero potuto percepire il Verbo in una luce più viva, fornito di una gloria più manifesta; visione che avrebbe eccitati e mossi i suoi discepoli a far conoscere Cristo ancora agli altri e dare di lui al mondo tutto testimonianza. Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Ed egli è per questo che il divino Spirito si chiama Spirito della verità, che è il medesimo come dire,« Spirito del Verbo divino«, perchè emana dal Verbo come calore da luce. E` dunque l' impressione dello Spirito Santo nelle anime un cotale affetto di amore, una cotale gioia della verità che si diffonde nell' anima, pel quale affetto l' anima contempla e imbeve e s' innebria della luce della verità; e questo amoroso sentimento egli stesso è pieno di verità, e solo esso sazia e empisce il bisogno dell' anima intelligente. Per questo è che lo Spirito divino dà chiarezza nelle anime al Verbo divino. Indi in quella sublime orazione che fece Cristo nel cenacolo prima della sua passione, con quelle parole: « Padre, viene l' ora, chiarifica il tuo Figliuolo, acciocchè il tuo Figliuolo chiarifichi te« (1) »: egli domandava al Padre la venuta dello Spirito Santo e adempiva la promessa fatta prima agli Apostoli, quando aveva loro detto: [...OMISSIS...] . Di che si vede quale ruota, a così dire, di perpetuo movimento luminoso e gaudioso si giri nelle anime beate di quei santi che hanno in sè stessi la Trinità. Poichè l' amore è sempre in attività dentro essi a contemplare la sapienza, nella quale si vede il principio di lei come infinito e necessario. Alla vista del quale l' anima si congiunge più ed è tratta alla sapienza sussistente che emana di sè un amore infinito; il quale torna a riflettersi in quella sapienza che è lume che mostra l' eterno primordiale principio altissimo, il quale operando perpetua questa dilettosa vicenda e quasi ondulazione di recondito e secretissimo godimento. Conciossiachè la fede negativa della Trinità che si ha per la rivelazione esterna, non è ancora l' immensa azione interiore e il positivo sentimento delle persone divine. Ma allora quando lo Spirito da principio operando dà l' efficacia a quelle idee negative che già in essa erano [per la rivelazione esterna], un tutto veramente positivo si percepisce, e tosto già comincia quella perpetua azione e circolare rivolgimento dei[trini]forme che è una cotale partecipazione ineffabile della vita di Dio (3). Laonde, come dice S. Cirillo di Alessandria, quella pienezza che emana dal Padre e dal Figliuolo pel solo Spirito Santo sta in noi: non già quasi che egli imprimesse, a maniera di ministro, cose che altrui e non a sè appartengono, e facendo in noi di ministro le veci; ma perchè egli porta nella sua propria natura la natura propria degli altri due (1). Abbiamo fin qui distinto la rivelazione esteriore e la rivelazione interiore ; quella comune a tutti gli uomini perchè non richiede ad essere percepita se non le potenze naturali dello spirito umano, questa propria di quelli a cui Iddio comunica la grazia che trasporta l' uomo in uno stato soprannaturale e l' accresce di nuove potenze; quella tutta ideale, tutta composta di idee negative , questa effetto di una reale azione sull' uomo, composta di sentimenti, di percezioni; quella perciò tale che fa conoscere Iddio per certe relazioni colle cose naturalmente cognite, questa che fa conoscere Iddio per esperienza, immediatamente, per una comunicazione della sua propria sostanza fatta a noi. Or questa rivelazione interiore è tutta composta di sentimenti e percezioni: ma siccome noi abbiamo la facoltà di riflettere su tutti i sentimenti che noi proviamo, così possiamo anco riflettere sopra di lei ed osservare, almeno fino a un certo segno, ciò che avviene in noi in quella soprannaturale comunicazione, massime nel tempo delle grazie speciali e attuali, e finalmente mettere in parole queste osservazioni e ordinarle in corpo di scienza. Or questa è la Teologia mistica che dicono dottrinale : mentre la stessa comunicazione con Dio la dicono sperimentale , e anch' essa veramente si può dire scienza, perchè Iddio è un oggetto per sè conoscibile, e quindi, a differenza dell' altre cose, il sentir lui, come abbiam detto, è conoscerlo, e anzi non si dà di lui altro vero conoscerlo che pure il sentirlo (2). Di qui si vede sufficientemente la differenza fra la Teologia rivelata (3) o comune, e la teologia mistica o segreta; che sono come le due parti di quella cognizione che possono avere gli uomini di Dio in questa vita (4). Le parole non si intendono se non si sa che cosa significhino. Per intendere le parole che udiamo proferire, conviene dunque: 1 aver l' idea della cosa significata dalla parola; e 2 sapere altresì che questa parola fu istituita a significare quella idea. Or come abbiamo noi le idee delle cose? Noi non conosciamo propriamente le cose, cioè non ne abbiamo le idee positive, se non mediante le percezioni delle medesime, cioè mediante quei sentimenti che esse hanno cagionato in noi (1). Ora il sentimento della grazia, il sentimento deiforme è tal sentimento che è al tutto distinto da ogni altro, e tanto distinto, quanto è distinto Iddio da tutte le cose create. Dunque chi non ha questo sentimento, questa percezione, non può avere l' idea corrispondente: dunque quand' anco fossero trovate e istituite delle parole a significare quei sentimenti e percezioni, queste parole non avrebbero alcun valore positivo per tutti quelli che non avessero ricevuto in sè stessi e provati quei sentimenti. Con questo si spiega quello che dice S. Paolo d' aver udito (nel suo celebre ratto) delle arcane parole che non lice all' uomo di proferire (2): il che vuol dire delle parole che l' uomo non può usare, perchè sarebbero inintelligibili, giacchè gli uomini non hanno le idee corrispondenti alle medesime, perchè non provarono quei sentimenti a cui quelle idee si riferiscono; giacchè come il medesimo Apostolo dice, [...OMISSIS...] . Con questo medesimo parimente è chiaro, perchè delle stesse cose divine in tanto altro modo giudica il mondo e il cristiano, a segno tale che il mondo e il cristiano usano a giudicare due criteri diversi e opposti, e ognuno ha la sua propria sapienza, e l' una non intende l' altra; e per così dire si sono presenti, e non si veggono: quindi la sapienza del mondo giudica insania la sapienza del cristiano, la sapienza del cristiano stima manifestamente pazzia la sapienza del mondo. Ciò nasce perchè il mondo e l' uomo cristiano delle stesse cose non han già gli stessi sentimenti, le stesse percezioni: giacchè le cose divine si comunicano ineffabilmente e segretamente all' anima dell' uomo sollevato all' ordine soprannaturale e vi diffonde un sentimento nuovo, maraviglioso, del quale l' uomo del mondo è al tutto privo, non eccedendo il sentimento suo i confini della natura, e però non avendo di Dio e delle cose divine se non un' idea negativa: di che è quella sentenza dell' Apostolo, che « l' uomo animale non percepisce quelle cose che sono dello Spirito« (2) ». Colla dottrina medesima parimene s' intendono certi luoghi misteriosi delle divine scritture; come quello dove si legge: « Al vincitore darò la manna nascosta, e gli darò una bianca pietruzza e sovr' essa scritto un nome nuovo, che nessuno sa se non quegli che riceve la pietruzza« (1) ». Ora quella manna nascosta è appunto il dolce sentimento della grazia, nascosto a tutti quelli che nol provano: e il nome nuovo indica quella nuova natura che ha ricevuto l' uomo passando dall' ordine naturale al soprannaturale (2): e il non saper leggere questo nome altri ch' egli solo, è appunto quell' essere egli solo conscio di ciò che passa nel più riposto segreto del suo spirito, dove nessun occhio creato può mettersi a spiare ciò che ivi succeda, ma è perfettamente impenetrabile fuorchè a Dio solo, perchè è l' essenza intellettiva dell' uomo (3), sulla quale non può agire nessuna creata sostanza (4). Indi è che i Santi, come non s' intendono se non fra loro e hanno una lor propria lingua, così formano fra loro altresì una particolare società secondo la dottrina della Scrittura. L' Apostolo Paolo di questa società, che talora chiama una Società di spirito (5), dice così: [...OMISSIS...] . E S. Giovanni la descrive con quelle parole: [...OMISSIS...] . Ecco qua, lo stesso vincolo onde gli uomini si associano col Padre e col Verbo suo, è quello onde gli uomini si associano anco fra loro, una stessa carità li lega a Dio e fra loro, perchè appunto l' associarsi e l' essere fra loro legati non è altro che il trovarsi tutti simili in questo appunto, cioè nell' essere con Dio consociati, Dio essendo la forma e quindi medesimo il semplicissimo nodo a tutti comune, in che si semplificano ed unificano. Del quale effetto il principio è la fede; lo insinua S. Giovanni nelle riferite parole, con le quali promette di predicar Cristo, appunto perchè indi ricevendo la fede, possano avere insieme con lui quella segreta e tutta spirituale società e comunicazione che hanno insieme i soli credenti (1). Quindi s' intende ragione, per la quale i Padri insegnano che perfetto teologo non può esser mai di quelli che non congiungono allo studio la santità della vita e l' esperienza de' veri eterni: perocchè, privo di questa, l' uomo non potrebbe intendere tutta quella parte di cui parliamo, di segreta e sublimissima teologia. Un' altra scienza si potrà sapere senza la bontà della vita; quella delle cose soprannaturali e divine, no: perocchè di questa una grande e la miglior parte nasce dallo sperimento che l' uomo ha di Dio, il quale non comunica sè stesso a cui non fa degno (2). La Teologia è dunque dottrina comune e dottrina segreta. Indi è che le stesse parole delle due Teologie hanno una significazione infinitamente diversa, non opposta però, ma nell' una più profonda che nell' altra; cioè meno profonda significazione hanno intese da quelli che non ne ricevono che il suono esteriore e il significato negativo, e più immensamente, intese da quelli che ne sentono in sè e ne sperimentano l' interior virtù e valore. I primi hanno una cognizione naturale, il cui principio è l' idea : i secondi hanno una cognizione soprannaturale, il cui principio è il Verbo di Dio, che si dà loro a percepire mediante una sua reale azione che fa in essi. Una parola esprime una sola idea , ma se unitamente a questa parola havvi la percezione della cosa, significata, questa percezione è tale che non l' avrebbero potuta dare nè pure un milione di parole. Imperocchè che avvicinamento è fra le parole e le cose? Che possono far le parole se non risvegliare le percezioni avute delle cose? Ma chi è privo di queste percezioni, tutte le parole son vane, o certo non dànno che un assai freddo e tenue significato. Chi non avesse mai avuta la senzazione della luce, per aver gli occhi velati, potrebbe assai più facilmente conoscere ciò che fosse la luce in un istante col trargli da sopra gli occhi il velo, che non facesse in molti anni, parlandogli continuamente della luce, e tenendogli tuttavia bendati gli occhi. Così un atto istantaneo di esperienza vale più di un secolo di parole, di segni, e di imagini che non abbiano nessuna vera similitudine colla cosa che vogliono esprimere. La parola« Dio«, per esempio, racchiude ella sola e vale assai di più per un uomo, a cui Dio siasi degnato di palesarsi interiormente, che non delle biblioteche intere di volumi, cui a leggere non bastino le vite di molti uomini, per chi non ha mai avuto interna comunicazione e percezione delle divine cose. Questi nella lettura di tanti volumi raccorrà sì un gran numero di idee, ma nessuna di esse è Dio, in nessuna ha percepito la divina natura, tutte queste idee non gli dànno che semplici relazioni, insufficienti affatto a prestare un vero conoscimento dell' Ente Supremo: egli crederà di sapere grandi cose intorno a Dio, perchè ha pure pronto alla mano un subisso di distinzioni sottili, un profluvio di parole, un fonte inesausto insomma di pompose e dotte disputazioni. Ma che fa tutto ciò? L' uomo idiota, a cui ha parlato Dio stesso, ne sa più di lui (2). In questo consiste la sublime semplicità del Vangelo: ella è fatta per tutti gli uomini, perchè non ha bisogno di troppe parole, nè di troppe distinzioni e studiate sottigliezze, in pochissimi detti si può raccogliere. Sì bene ha bisogno dell' esperienza che dia il vero e immediato valore a quei pochi detti; giacchè poche ed anche una sola parola intesa in questa maniera racchiude in sè più scienza e più sapienza di quella che possano raccorre tutti gli uomini che sono vivuti e che vivranno unque mai sopra la terra, insieme presi. Non è evidente che dovrebbe usare più parole e più sottigliezze, più ingegno, il cieco che volesse parlare della luce, anzi che quelli che la vede cogli occhi suoi? E tuttavia quello dopo tanto parlare nulla direbbe a proposito, o certo nulla che egli stesso intendesse del proprio discorso. Con ragione adunque dice il pio autore del libro dell' Imitazione: [...OMISSIS...] . Indi è che la filosofia puramente naturale, ove voglia mettersi a parlare come maestra delle materie soprannaturali della cristiana Teologia, suole snaturare questa dottrina coll' introdurre in essa delle sottigliezze perniciose e false, delle interminabili dispute, dei raggiri implicatissimi di parole; perocchè ella crede di conoscere, per una cotal sua presunzione, ma veramente non ha mai conosciuto, non ha mai veduto la materia, in che temerariamente pon mano, ed è veramente il cieco che giudica dei colori. Indi le eresie tante nate dal Platonismo ne' primi tre secoli della Chiesa: quelle nate dall' Aristotelismo, cominciando da Ario (2) fino a...; e l' incredulità ne' più recenti secoli, germinata dalla confusione delle idee filosofiche, prodotta dalle scuole moderne. Indi i lamenti incessanti dei Padri, fino dai primi secoli, contro la filosofia cui chiamano infettrice e interpolatrice della verità (1); perchè colla filosofia insieme entravano nelle sacre cose le questioni interminabili, la moltitudine delle insulse parole e l' affettazione di una umana e veramente puerile dottrina: e così periva la semplicità, la maestà, la pace, l' evidenza della dottrina evangelica. Perciò S. Gregorio taumaturgo diceva: [...OMISSIS...] . Il Nazianzeno parimente deplora il vedere esser sottentrate nella chiesa le fallacie sofistiche e un male augurato artificio di arte aristotelica, e altre tali cose, siccome cotali piaghe d' Egitto (3). E nel carme della sua vita egli dipinge i filosofi e le loro disputazioni, nella chiesa introdotte a gran danno della Teologia (4). Da tutto ciò finalmente apparisce la ragione del modo grave, placido e sicuro, col quale s' insegna la dottrina evangelica: l' opposto dell' insegnamento filosofico, il quale è querulo, ansioso, incerto e burrascoso. Non avviene ciò solamente perchè la dottrina di Cristo procede da una autorità infallibile: ciò basta bensì a renderla certa in sè stessa, ma non a farla credere con fermo assenso e molto meno a farla intendere. Se il Verbo stesso colla sua azione reale non operasse nelle anime, le sole parole esteriori aventi un significato negativo sarebbero sempre soggette a una intelligenza continuamente variabile, a delle interpretazioni indefinitamente diverse e di continuo rimutabili (1): per creder loro si torcerebbero a significare un senso umano e naturale: altramente non si presterebbe punto loro fede. Questo è ciò che è appresso i protestanti. Il magistero adunque della chiesa non è già formato solo dal deposito della rivelazione, ma sopra tutto è sostenuto e reso possibile dalla grazia. Questo è ciò che significano le parole di Cristo: « Io sarò con voi sino alla consumazione de' secoli« ». E quelle altre dello Spirito Santo: « E io pregherò il Padre, ed egli darà a voi un altro Paracleto, acciocchè permanga con voi in eterno« (2) ». Perocchè lo Spirito e il Verbo sono che fanno l' azione reale nell' anima e la collustrano. Al filosofo, cioè all' uomo nell' ordine naturale, non [è data] la percezione interiore di Dio: non ne ha che l' idea negativa. Supponendolo in questo stato, egli è privo di fede, egli nega dunque tutto ciò che eccede i sensi crassi o le facoltà del suo spirito: il che è quanto dire che egli cade quasi direi naturalmente nella incredulità e nella empietà. Egli è certo che se il nostro spirito non fosse mai stato collocato in questo mondo, o non avesse ricevuto le impressioni delle cose sensibili, e tuttavia ne sentisse parlare, nulla ne intenderebbe o, se ne intendesse, negherebbe fede al narratore. Non è adunque che la filosofia sia per sè stessa mala cosa. [...OMISSIS...] E` bensì da incolparsi la inclinazione dell' uomo a negar fede a ciò che non conosce; su di che dovrebbe almeno sospendere il giudizio, e non partire nelle sue sentenze da quel pregiudizio pieno di presunzione, che niente sia, o sia possibile, se non ciò che non eccede i confini del suo sapere. Questa presunzione di giudicare, ed esser pronti a rifiutare ciò che non sanno, è l' errore de' filosofi; e di questo incolpa gli uomini del secolo San Paolo, ove dice che bestemmiano quelle cose che non conoscono (1). Nè v' ha un' assoluta necessità che così avvenga, ma pure così avviene il più per l' innata malignità che è nel cuore dell' uomo a quelli i quali dànnosi tanto alle scienze naturali, che tutta la loro confidenza in quelle ripongono e credono che tutto lo scibile si acquisti pei loro studi; quando la speculazione naturale ha corte le ali nelle regioni divine, se non soccorre la soprannaturale rivelazione e manifestazione che Dio fa agli uomini di sè stesso. Quindi è che fin gli Apostoli parlarono della filosofia presso a poco come fosse un equivalente di empietà: [...OMISSIS...] . E nulladimeno S. Paolo non rinunzia già alla sapienza, ma vuole il vero sapere, quel sapere reale che nelle cose divine sta appunto, non in vane idee , ma in vere percezioni soprannaturali. Ecco qual genere di sapienza propone l' Apostolo a quei di Colosse: [...OMISSIS...] . Vuole adunque l' Apostolo non solo la sapienza, ma ogni sapienza; e tuttavia esclude la filosofia come una fallacia: vuole la pienezza, e non la vanità: vuole le cose, e non le parole. Egli viene appunto a essere quello stesso che dice il libro Dell' Imitazione le cui parole abbiamo surriferite: [...OMISSIS...] E il medesimo Apostolo aveva descritta questa cognizione e percezione reale, non dell' orecchio al di fuori, ma dell' anima al di dentro, poco innanzi al luogo citato, dicendo a quei fedeli di Colosse che li voleva istrutti [...OMISSIS...] . Ecco dov' è la pienezza dell' intendimento, ecco tutte le ricchezze, i tesori tutti della sapienza e della scienza: stanno non nelle idee semplicemente, ma nella comunicazione che fa Cristo e lo Spirito di sè alle anime, nelle quali prende ad abitare. Da tutto questo si può conchiudere che la filosofia è buona nelle cose umane, perchè di queste ha le percezioni, ossia la materia del ragionare. Ma se ella si applica alle cose sovrannaturali prima della fede, non può che rovesciare negli errori: ella diventa quella « scrutatrice della maestà » che, come dicono le Sacre Carte, «« resta oppressa dalla gloria« (1) ». Gli uomini del secolo adunque, ristretti dentro il circolo delle cognizioni naturali, non sanno che esista altra cognizione delle cose divine se non quella che consiste nelle idee . Tutta la loro sapienza nelle idee è contenuta, cioè in idee negative e vuote, atte bensì a dare occasione a grande apparato di scienze, perchè atte a ingenerare innumerevoli parole e dispute e a riempire biblioteche intere di scientifiche ricerche. All' opposto l' uomo di Dio sa per esperienza che vi ha un altro genere di cognizione e di sapienza, consistente non già in pure idee, ma in sentimenti e perciò in reali percezioni, di cui egli ha sperimento. Questa sperienza gli dice, che vale più una sola percezione della cosa, di tutte le parole, le dispute, le scuole e le biblioteche della terra. La sua scienza pertanto di Dio consiste nel fatto , è una cognizione positiva , piena, soddisfacente, operante. Questa non è un fonte di tante parole, perchè le parole finiscono ove si è conseguita la cosa che si cercava colle parole. Indi nell' uomo di Dio, che ha in sè stesso una tale misura a cui confrontarla, nasce una cotal freddezza e indifferenza per quell' apparato di scienza esteriore fucata, verbosa, ambiziosa, conghietturale ed incerta, di cui solo fa pompa l' uomo del secolo perchè crede che sola essa esista e che fuori d' essa non siavi altro sapere. Indi è che la letteratura e la pietà non sono cose che vadano sempre insieme, ma bene spesso stanno dissociate e disgiunte. Ecco come S. Paolo parla della scienza, cui egli professava di sapere: [...OMISSIS...] Ecco le due sapienze a confronto: quella degli uomini, consistente in suono di parole, in gonfiezza di discorso, in lusinghe di persuasione: quella di S. Paolo, in fatti, nella virtù di Dio operatrice dentro l' anime, nello spirito e nella potenza soprannaturale. Ma negli uomini non capendo la sapienza di Dio, essi accusano appunto per questo quelli che alle divine cose sono applicati, di voler sperdere le scienze dalla terra e rimettere in fitte tenebre il genere umano (2). Per altro consente l' Apostolo che lo si stimi privo di ogni sapienza? No certo: anzi per fermo crede di essere savio e di parlare pur anch' egli una sua sapienza; e soggiunge alle surriferite parole: [...OMISSIS...] . Ecco come agli uomini del secolo tutta resta occulta questa sapienza, e per ciò la dice ad essi tutta in ombra e in misterio, poichè la sola comunicazione interiore, che fa Cristo ai suoi, è quella che segretamente e senza romore di parole la comunica: come seguita a mostrare il medesimo Apostolo, insegnando quivi medesimo che l' uomo non può conoscere se non le cose umane, e il solo spirito di Dio le divine; il quale per ciò deve essere dato all' uomo, perchè quelle divine cose l' uomo conosca: il perchè la sua dottrina chiamala altresì« dottrina di spirito«. Dall' essere questa dottrina interiore di spirito totalmente diversa dalla scienza umana, viene appunto l' umiliazione dell' uomo e la glorificazione di Dio, come insegnano le divine Scritture: giacchè queste mostrano che tutto il sapere puramente umano non è atto a rendere l' uomo a Dio accetto, e che Iddio ha una occulta virtù, per la quale rende immantinente i semplici e gli idioti più savi agli occhi suoi di quei savi del mondo che con immense fatiche e studii hanno tutta la loro vita nelle speculazioni delle umane lettere consumata; e dichiara questi savi uomini veramente idioti, e gli idioti suoi veramente savi, ed egli il solo maestro e il solo verace datore di sapienza. E veramente non consistendo l' acquisto di questa sapienza nelle doti e nell' opera dell' uomo, ma bensì in un' operazione occulta che fa Dio nell' anima (1), alla quale dà il sentimento di sè; egli è manifesto che anche quelli che sono di piccolo spirito o che non hanno tempo da applicarsi agli studii, possono acquistare senza fatica: e di questo si compiace appunto Cristo, dicendo di essere stato mandato dal Padre suo a predicare a' poverelli (2). E` manifesto parimenti che questa sapienza può averla chi è ancora fanciullo e alla vista degli uomini inesperto e imperito: e in questo pure splende la gloria di Dio, la quale viene celebrata in quel Salmo citato da Cristo medesimo, che « dalla bocca de' fanciulli e lattanti hai cavato la lode perfetta« (3) ». E finalmente vedesi in generale ragione, onde Cristo ringrazia il Padre celeste di aver dato questo modo onde la operazione divina risplenda sopra tutta la possa dell' uomo, dicendo: [...OMISSIS...] . Non fa dunque meraviglia, dopo di ciò, se i savii della terra, rivendicandosi di queste verità, accusino gli uomini pii e cristiani teologi di voler annottare il secolo; giacchè il principio della scienza e il principio della pietà sono diversi: quello è idea , questo sentimento sostanziale e soprannaturale; e il sentimento soprannaturale è tal luce che il mondo non la comprende: « et tenebrae eam non comprehenderunt (5) ». E qui possiamo anco stabilire, dopo tutto ciò che detto è, con accuratezza la differenza tra il principio della religione, e quello della morale naturale. Il principio della religione è la grazia (1): il principio della morale naturale è la legge . La legge è nell' ordine delle idee, la grazia nell' ordine de' sentimenti; quella mostra teoreticamente alla mente ciò che si deve fare, questa è pratica, fa fare ciò che si deve. Gli uomini possono, fino a un certo segno, praticare la morale naturale riguardante i loro simili, perchè di questi hanno la percezione: ma quella parte della morale che riguarda Iddio resta per essi, almeno nella massima e spezial parte, vuota e ineseguibile. Faceva uopo che Iddio stesso si comunicasse agli uomini, acciocchè infondesse in essi il suo amore prevalente su tutti gli altri amori (1). Quindi è che gli uomini del secolo, trattando la morale, non parlano quasi altro che delle relazioni degli uomini che hanno scambievolmente tra loro; e molti a queste solo restringono la morale. D' altro lato gli uomini religiosi, per la propria imperfezione e limitazione e non già per difetto della religione, sembrano talora occuparsi talmente di Dio che rimangono meno pronti a curare le relazioni che li legano cogli altri uomini e meno solleciti di eseguire gli ufficii umani. Ma ove ciò nasca semplicemente dalla limitazione delle forze umane (2), e non da qualche malvagità (nel qual caso non sarebbero nè pure veri religiosi), ben presto a un tale difetto viene posto riparo. Perocchè appena l' uomo religioso riflette alle relazioni che lo legano co' suoi simili, egli si dà tutta la premura di eseguirle, e se prima per una cotale astrazione di mente le obbliava, poi tutto vi si dedica, e non solo le eseguisce appieno, ma fa ancora prodigi di carità che si sono veduti sempre farsi da' santi, e mai da altri fuorchè da' santi. Onde non si richiede se non di lasciare al principio religioso un pò di tempo ad essere appplicato, sviluppato, [perchè] possa influire su tutto l' uomo e [trarre] le sue conseguenze per mezzo degli atti successivi della riflessione; ed egli produce indubitatamente anche ogni migliore effetto morale rispettivamente agli uomini singoli e alla società. Del resto che gli uomini religiosi sieno privi di un affetto ingiusto sia verso i loro simili, sia verso le cose umane, non hassi a riputar male, se è cosa giusta e conforme alla verità; ma oltracciò si può dimostrare una tesi singolare, ma certissima,« che le stesse cose umane vantaggiano e prosperano di più ove sieno amate di un amore ragionevole e moderato, anzichè di una passione ingiusta e smodata«. Non è però maraviglia che popoli staccati dall' ordine religioso, di cui hanno sentito lungamente l' influenza, non precipitino tostamente all' ultima depravazione e empietà: poichè essi ritengono ancora del lume ricevuto, col quale assai bene conoscono la nobiltà e utilità della scienza morale. Anzi non è nè pur maraviglia che si sia veduto presso i protestanti in questi ultimi secoli uno studio di promuovere la morale, almeno come scienza, e in quella parte però che riguarda gli uomini; giacchè non più occupati dal principio religioso, ebbero tutta la loro attenzione libera per collocarlo nelle umane conseguenze e negli interessi di questa vita. Ma se pur mancano del principio religioso, che è il capo della morale, e se la loro morale però non si può considerare giustamente se non come acefala ; tuttavia le loro diligenze e studi sono commendevoli sotto un punto di vista, e sono utili a quelli che hanno il principio religioso, i quali fanno a gran senno a servirsene, come dee esser loro proprio e naturale l' abbracciare e distendere ogni sorta di bene. Vero è che havvi anco l' errore opposto a quello della morale naturale; ma egli non cade se non in quelli che, in luogo del principio religioso, non hanno in sè stessi che una simulazione di esso. Questi sono quelli che hanno una falsa pietà, vani, ipocriti e superstiziosi: questi col pretesto del principio religioso che pur non hanno, si dispensano dall' eseguire i doveri morali verso i loro simili. E contro costoro si sdegnò e tuonò sì alto lo stesso Uomo7Dio. Questi sono i veri distruggitori della morale; e la divina Provvidenza per provvedere incontro al male che fanno questi, si vale altresì dell' errore opposto, e permette che degli uomini, che hanno abbandonato il principio religioso, promuovano quella morale che loro ancor rimane e nella quale, da una cotale loro naturale onestà mossi, tutti si convertono (1). Di vero questa questione fu sempre fra gli increduli e i credenti: ma nei nostri tempi si è messa al nudo, non la si può più dissimulare, ciascuno la si propone direttamente e senza involture. I Riformisti del secolo XVI sono deviati dal principio religioso, ma la loro deviazione pareva piccola nei suoi cominciamenti; non dicevano di distruggere la fede, distruggevano la fede di soli alcuni articoli che stavano nel deposito del cattolicesimo; ma pretendevano ancora di credere alla Scrittura e alla [divina] ispirazione di questa: infatto però la fede soprannaturale era perduta per essi, perchè n' era perduto il principio (1). Scossa d' adosso l' autorità della chiesa, erano veri naturalisti ossia razionalisti di principio, perchè, abbandonata la tradizione, non restava modo d' interpretare la Scrittura, che colla pura ragione naturale; e la pura ragione materiale fatta giudice ultima delle verità religiose, che cosa potevasi farsi dei misteri? Quello stesso che abbiam detto avvenire alla filosofia naturale. Il protestantismo non era che il principio della filosofia naturale, applicato alla religione soprannaturale: questa non poteva reggere in faccia a tal principio, e il protestantismo divenne appunto come la filosofia un sinonimo di razionalismo, di empietà. Infatti oggidì i protestanti, che si sono più avanzati nello sviluppo progressivo del loro sistema, prendono a sostenere scopertamente, « che ogni soprannaturalismo è assurdo e che oggimai conviene ridurre ed emendare la Bibbia stessa, interpretandola in modo da restringere tutto ciò che ella insegna dentro i confini della semplice ragion naturale«. Quelli che videro questa conseguenza irrepugnabile e non ebbero coraggio di abbracciarla, come quella che parve loro un assurdo e un abisso, sono dati addietro, son venuti al cattolicesimo. Indi le ultime conversioni di non pochi valentuomini che dal protestantesimo rientrarono nella chiesa. Or non ci ha più mezzo fra questi due estremi: due soli sistemi sono concepibili, il naturalismo e il soprannaturalismo: il primo è l' empietà, il secondo è la fede [cattolica]: chi sta per quello, sta per l' abolizione di ogni religione soprannaturale, chi per questo, entra nella cattolica chiesa. Invano fuori della chiesa cattolica si cercherebbe ciò che veramente sia e per poco ciò che si dica soprannaturale; e quelli che ancora esitano tra questi due partiti non ne hanno alcuno, e la società gli ha lasciati lungamente dietro di sè solitari e negletti. Uno di questi protestanti che apertamente si pose dalla parte del razionalismo ed escluse ogni principio soprannaturale, è il signor Giulio Augusto Wegscheider. Nè sarebbe da farne parola, se si dichiarasse per un seguace della filosofia, senza più: ma egli insegna pubblicamente Teologia dogmatica nella università Federiciana di Hala, e stampò il suo testo in un libro da lui intitolato, « Institutiones Theologiae christianae dogmaticae »; della quale ben sei edizioni furono fatte nell' anno 1.29 (1). Ora in questo fa un continuo citare, o anzi accennare co' numeri, luoghi della divina Scrittura: ma non per altro se non per correggerla ed emendarla dove ella esce dai limiti della sana ragione (2), la quale sana ragione sta di casa nel cervello del teologo nostro, e per istiracchiarla e torcerla dove può e crede potere, a dire nulla più di quello che a lui par bene che ella dica: giacchè questo appunto mette per principio d' interpretazione, d' intenderla in modo conforme alla sana ragione e di far sì che ella dica solamente quello che può essere utile alla morale, quale nella mente egli l' ha concepita. Insomma nella mente sua egli ha posto una norma precedente, colla quale ha stabilito determinare ciò, che la Scrittura deve dire: la Scrittura non è letta per imparare la verità che ella annunzia agli uomini da parte di Dio, ma viene citata al tribunale dell' uomo per essere giudicata dalla legge che l' uomo si è formata da sè stesso nella mente sua e al rigore di quella emendata. La qual norma è questa:« che ogni detto, il quale parli di cosa che ecceda le forze della natura creata, si deve emendare o interpretare sanamente, cioè in modo che non parli più se non di cosa naturale; e ciò perchè questo solo è utile alla vita umana e ai progressi della morale naturale«. - Il giudizio dunque è fatto prima di aprire i libri delle Scritture: non si cerca sapere se nelle Scritture s' insegna qualche fatto o verità che ecceda le forze della natura, ma cercasi di far sì che elle al tutto non la insegnino, e di riprenderle e castigarle se mai la insegnano. Questo è il metodo notato da S. Atanasio ne' suoi avversarii, [...OMISSIS...] . Ma non sarà inutile che udiamo i fondamenti di quel suo razionalismo (2) che ci presenta come il frutto dei lumi e delle scoperte dei nostri tempi civilissimi. Ecco gli argomenti co' quali si sostiene (3): nessuno di essi è nuovo e non risoluto: ma gli errori rimettono, e conviene che sia nella chiesa chi abbia la pazienza di richiamare alla memoria le loro soluzioni. « Come tutti gli altri animali sono forniti di tali forze, colle quali possono ottenere i fini della loro natura; così senza dubbio , mediante la ragione, per la quale gli uomini superano gli animali, è stato a questi dato il potere d' intendere e di eseguire quelle cose che valgono a ottenere i supremi fini del genere umano, cioè a osservare i doveri e a coltivare la religione«. Tutte le facoltà degli animali si riducono al senso, pel quale non si esigono che degli oggetti materiali. L' uomo fornito d' intelligenza può estendersi oltre tutto l' universo materiale, può avere degli oggetti nobilissimi. Sarà dunque buono argomento di escludere la comunicazione dell' uomo con Dio questo, che perchè l' animale bruto non può godere dell' essere infinito, limitato come è ai sensi materiali, per questo non possa goderne nè pure l' uomo fornito di una intelligenza che non ammette confini? Non è forse quest' essere infinito un oggetto così reale come qualunque altro? O piuttosto non è egli l' oggetto più reale di tutti? E perchè Dio si tiene nascosto, non potrà mai rivelarsi alle sue creature? Sarà necessariamente fra queste e il loro Creatore un tal muro filosofico di separazione? Se la filosofia è quella che erige un tal muro, è migliore, a dir vero, la semplicità dell' uomo incolto, d' una tale sapienza. Ma la ragione, se avesse bisogno di Dio per illustrarsi, sarebbe una potenza imperfetta: l' uomo sarebbe un essere imperfettamente congegnato, perchè non basterebbe a sè stesso. - Che dunque? v' ha qualche essere in tutto quanto è ampio l' universo, che basti a sè stesso? Può trovarsene un solo che, isolandolo dagli altri, possa sussistere? Ed è per questo male ideato e congegnato dal Creatore, perchè ogni essere ha questa sua estrinseca limitazione di aver bisogno per esistere e per vivere di qualche cosa fuori di lui? E in quanto alla ragione, èvvi una sola facoltà che possa far senza de' suoi oggetti? E` imperfetto l' occhio, perchè ha bisogno del sole per vedere? E` imperfetto l' orecchio, perchè senza il fluido aereo, che ondula e trema intorno a lui, non può menomamente ottenere il fine, pel quale è stato dall' eterno artefice fabbricato? E qual ripugnanza vi ha che ci sia nell' uomo una potenza sublime che abbia per oggetto Dio, immediatamente Dio, per soddisfarsi e trovarsi veramente giunta al suo fine? Che è, che ci descrive tanto lontano questo Dio da noi? Che si teme tanto di avvicinarcelo? Che si vuol ostinatamente escluso dalle sue opere, sicchè non possa conversare con esse, sotto pena di commettere un assurdo filosofico? E` questa la scoperta de' nuovi savi? Di un tal regalo fanno essi presente alla nostra povera umanità, a cui si presentano con tante promesse, con tanta baldanza? Consentirà loro l' umanità di lasciarsi così privare del sommo suo bene, di Dio? Il possesso del quale, se fosse un' illusione, è della stessa verità migliore; il che essendo un assurdo [per] conseguente hassi a conchiudere: non è dunque illusione, è verità. « Come l' uomo perviene a essere consapevole della ragione e del dovere, egli è in necessità di considerare la ragione come la suprema forza di conoscere, i decreti della quale egli deve serbare in tutti i pensieri e le azioni. E quegli che, spregiato questo principato dell' umana ragione, pone essere tanta l' autorità della rivelazione, che dicesi comunicata a certi uomini in un modo soprannaturale, che debbasi ad essa consentire, senza muover dubbio, per un cotal cieco istinto o sentimento; questi toglie e rovescia la vera natura dell' uomo e la sua dignità«. Vedesi qui il perpetuo vezzo de' protestanti, il far dire cioè a' cattolici quello che mai non dissero. Se amore di verità li guidasse nelle loro ricerche, la prima cosa si darebbero tutta la cura di ben conoscere con ogni accuratezza le opinioni de' cattolici e di sporle con tutta fedeltà: ma, in luogo di ciò, pigliano a combattere quelle opinioni che nella loro immaginazione credono essere sentenza cattolica, e pur non sono. Così qui posso osservare che giammai i cattolici non tennero, nè dissero che si debba credere alla rivelazione divina per« un istinto e sentimento CIECO«: anzi dissero con Cristo che si doveva sempre camminare nella luce (1); che si doveva dare alla rivelazione un ossequio ragionevole (2); e che Cristo era la luce cui le tenebre non hanno compresa (3). Spieghiamo queste sentenze veramente cattoliche. Parliamo prima della rivelazione esterna , e poi della rivelazione interna . S' insegnò sempre appresso i cattolici che, prima di credere alla rivelazione esterna, erano necessari dei segni o delle prove certe che ella venisse da Dio. Questo non è un credere ciecamente, questo non è un rinunziare alla ragione: poichè è sicuramente la ragione quella che esamina e giudica del valore di que' segni o prove certe, alle quali si conosca che è Dio quegli che ha parlato. Ma dopo di essersi convinti di ciò, di nuovo è la ragione stessa quella che ha suggerito di fare questo semplice ragionamento: Iddio è stato quegli che ha parlato. Iddio non può ingannare nè ingannarsi. Dunque si può credere sicuramente a lui senza pericolo di prendere errore. - Non è questo, dettato di ragione naturale? Il credere dunque a Dio, dopo conosciuto prima, per mezzo della ragione, che egli ha parlato, non è un ubbidire alla ragione stessa? E si dirà questo un rinunziarvi, un credere ciecamente? Quante volte l' uomo non tiene per guida un simile principio che non è altro veramente che uno dei principii della ragione? Non dico solo ogni qualvolta l' uomo appoggia il suo ragionare su qualche grave autorità; ma dico che l' uomo segue un somigliante principio in tutte le scienze, nessuna esclusa, nelle quali, verificata una proposizione, va avanti e ne tira le conseguenze, supponendo oggimai per vera la prima, e non torna indietro ogni passo a riprovarla, ma le conseguenze le dà per certe e per dimostrate con questo solo supposto, che sia certo e dimostrato il principio onde provengono. Sarà egli necessario trovare una nuova dimostrazione diretta per ogni nuova conseguenza che si cava da un principio? O non basterà anzi il sapere che ella è conseguenza discendente da un principio certo per mettere anch' essa fra le cose dimostrate e certe senza più, dandole una pienissima fede? E il dar fede alle parole di Dio, che è se non un ammetter per certa la conseguenza d' un principio pur certo? Questo modo di ragionare, sebben comune alle scienze tutte, vedesi più manifestatamente nelle matematiche, scienze che giova recare in esempio come quelle che hanno forma di un rigoroso procedere e in ispecial modo. Or che si fa perpetuamente nell' algebra, se non assicurarsi prima di alcuni assiomi, principii, e del metodo, e poi, abbandonate al tutto le idee, seguitare con un meccanismo di segni e di operazioni e finalmente trovare un risultamento, il quale si ha senza più per certo? Si vede forse una ragione diretta e immediata di questo risultamento? Nessuna. Come lo si tien dunque per certo? Unicamente perchè si giudica che quel metodo, col quale si sono mutati di mano in mano e trattati que' segni, non possa fallire, si crede alla infallibilità di quel metodo: e su questa fede si ha per indubitato quel risultato. Nella rivelazione invece si crede alla infallibilità di Dio. Se si approva di abbandonarsi alle veracità di quel metodo di trovare la verità, perchè si disapproverà il credere alla veracità di Dio? La ragione adunque è quella che si prende per guida nel credere a Dio: ma si badi, diciamo la ragione , e non gli sviamenti della ragione . Conviene ben distinguere tra il lume della ragione e l' uomo che abusa di questo lume. Non vi ha sicuramente niente che sia superiore al lume della ragione e che possa giudicare di questo lume, il quale giudica di tutto. Ma stia avvertito l' uomo di non attribuire a sè stesso questa infallibilità, questa supremazia che è solo propria di quel lume che in lui risplende, e del quale se fa buon uso, perviene alla verità; ma se fa un mal uso, precipita nell' errore. Si attenda dunque: non trattasi di sottomettere alla rivelazione il lume della ragione, trattasi di sottomettervi l' uomo stesso; è questi che ha bisogno di essere istruito, corretto, scòrto, acciocchè non faccia mal uso del lume della sua ragione. I cattolici non vogliono dir altro, quando insegnano che è uopo sottomettere la ragione alla rivelazione, credere a Dio: è il medesimo che se dicessero: quando che voi avete verificato che Dio ha parlato, e poi nelle cose udite da lui trovate qualche difficoltà che non potete sciogliere, voi dovete credere tuttavia. Perchè il trovare questa difficoltà niente altro dimostra se non che voi, o uomo, nel far uso della vostra ragione siete limitato e circoscritto. Certamente la ragione per sè è infallibile; ma voi, o uomo, non siete già la ragione, voi non ne fate che uso. Ora chi è probabile che sappia meglio far uso del lume della ragione, voi, o Dio che parla? - Questo ragionamento persuade all' uomo quella stessa modestia e ritenutezza verso Dio, che ogni discepolo è obbligato di usare verso un suo maestro, ogni giovinetto verso un vecchio savio e sperimentato che lo ammaestri. In quanto alla rivelazione interiore poi deve considerarsi quanto segue. Le funzioni della ragione sono due (1), la percezione e la riflessione . La riflessione è quella onde nascono i ragionamenti e quindi le scienze dimostrative. Ma ad ogni riflessione sopra le cose percepite necessariamente deve precedere la percezione. La percezione è una funzione semplice, immediata, colla quale il nostro spirito percepisce, a primo tratto, gli oggetti che a lui vengono presentati. La percezione adunque non ammette ragionamento e dimostrazione : ella però non è meno certa della riflessione, perchè gode della evidenza , la quale evidenza è anzi il principio della dimostrazione stessa (2). Se la percezione adunque manca di dimostrazione, non devesi per questo dir cieca, nè escludere dalle funzioni ragionevoli, giacchè essa ne è anzi la prima e quella che somministra la materia a tutte le operazioni della riflessione. Ciò premesso, la rivelazione interna si fa, secondo il sistema cattolico, come noi abbiamo lungamente esposto, mediante una percezione interiore di Dio. Non è vero adunque che si presti fede a lei ciecamente, ma anzi con una evidente luce e irrefragabile. Questo spiega quel darsi fede dagli uomini al Vangelo pure la prima volta che l' hanno udito annunziare, senza dubbi, senza lunghe disamine e prove esteriori, e tuttavia il dar quella fede (3) in tal modo è a Dio gradevole e conducente alla salute eterna, secondo le divine Scritture: il che certo non sarebbe, se quel credere subitaneo fosse un operare con cieca temerità, perocchè a Dio niente piace di tutto quello che è cieco, temerario, irragionevole. Ma [è] vero che chi non ebbe questa percezione, non la può intendere; e questa è la ragione perchè i filosofi del secolo sono pronti in negarla, e a dichiararla stolta e veniente da un cieco e superstizioso entusiasmo (4). « L' umana mente, soggetta alle leggi innate del pensare, è necessitata di riferire tutto ciò che percepisce coll' aiuto de' sensi ovvero che trova col pensiero e colla meditazione, o prossimamente a qualche causa del mondo sensibile, ovvero a delle origini nascoste nella mente stessa. E per ciò è colpa di stolta arroganza il voler negare queste origini, e fingere un evento soprannaturale e miracoloso, di cui non si può assegnare in alcun modo un certo carattere, per questo che di un qualche avvenimento osservato nella natura egli non seppe veder subito la causa, o non iscoperse le origini recondite, nella facoltà dell' anima, della vera religione tra gli uomini rinvenuta«. Qui si dà colpa altrui di stolta arroganza. Ora egli starebbe a vedere se nel ragionamento surriferito ci fosse per avventura dell' arroganza aggiunta a della stoltezza di che si dà colpa altrui. In quanto alla stoltezza, l' affermare che nel sistema di quelli che seguono un vero soprannaturalismo, si finga la causa soprannaturale, e che si finga e inventi questa causa solo per questo motivo che non se ne vede subito una causa naturale o le origini recondite nelle facoltà dell' anima; parmi che non sia gran fatto indizio di buon senno. Poichè se udiamo tutti quelli che rettamente seguono la religione soprannaturale del cattolicismo, non credono già essi di fingere arbitrariamente una causa superiore alla natura, ma credono di essere necessitati ad ammettere una tal causa da prove certe, riconosciute tali o piuttosto suggerite loro dalla ragione: e perciò non stimano punto di essere mossi a questo unicamente dal non conoscere la causa naturale del fatto che trattasi di spiegare, perocchè sanno bene anch' essi (e ci vuol poco a saperlo) che delle cause, che restano occulte nella natura troppe ci sono, e quanto poco sia quello che noi conosciamo dei misteri naturali verso a quello che ignoriamo. Ora il signor professore di Hala ignora questo sistema de' cattolici (e in tal caso parla di ciò che ignora, il che è stoltezza), oppure conosce il sistema cattolico, e vuol dir loro quelle sue parole: Voi credete e affermate di porre una cagione soprannaturale, mossi da motivi e argomenti di ragione; ma non è vero, voi non fate che fingerla e inventarla ciecamente questa ragione. - Non parmi che si possa fare un maggiore oltraggio a' cattolici quanto parlando loro così, nè che si possa mostrare animo più villano e più arrogante. Perocchè o i cattolici affermano di fare ciò che non credono, e in tal caso mentiscono a tutto il mondo perpetuamente (e il signor professore di Hala si arroga di poter entrare ne' loro petti, spiarvi le loro intenzioni e credenze nascoste, accusarle altresì al mondo come contrarie alle loro parole, trovandosi queste conformi a ragione; e quelle, sulla fede del signor professore che solo ha un acume che penetra i segreti del cuore, cieche o stolte); ovvero i cattolici non solo affermano, ma anche credono di essere mossi da gravi e ragionevoli motivi per ammettere una causa veramente soprannaturale; e in tal caso la questione è interamente sul territorio della ragione e consiste in definire e sapere, se questi motivi ragionevoli ci sono, come opinano i cattolici, o non ci sono, come opinano i razionalisti. V' hanno adunque due parti, e nessuna di esse intende punto rinunziare alla ragione, che sarebbe il medesimo che darsi vinta; ma anzi ciascuna di esse pretende di seguitare essa sola la ragione e la verità, e accusa l' altra parte di non seguitarla, ma di abbandonarla, travolgendosi nell' errore per un cotale sragionare che fa o sia per fare un mal uso di essa ragione. Ecco la questione: ragionatori da una parte e ragionatori dall' altra. L' arma è pari, quest' arma è sempre la ragione per tutti e due gli osti. Or che fa il nostro professore? Chi vincerà in questa lotta secondo la sua sentenza? Se egli seduto pro tribunali pronunziasse questa sentenza che la parte de' cattolici usa male quest' arma della ragione, e chi la usa bene sono i così detti razionalisti loro avversari, sarebbe pur non poca arroganza; perocchè non è un nudo sentenziare che stia bene a privata persona eziandio che professore in università, ma anzi il disputare recando in mezzo quelle ragioni che provino il torto della parte contraria. Ma non è questo che fa il professore razionalista: ma egli in cambio di dirci che i cattolici usano male della ragione, vi dice che essi non ne usano punto, ma seguono un istinto cieco e non fanno [che] fingere ad arbitrio in luogo di ragionare. Ora il dir questo non veggo quanto modesto possa essere nè quanto secondo l' equità; perocchè è un dire: Non è vero che vi abbia nè pur lizza fra i cattolici e i razionalisti, i cattolici non trattano punto nè poco l' arma della ragione, vi hanno rinunziato; sono i soli razionalisti che della ragione fanno uso, essi soli sono i padroni del campo, non hanno in presenza avversarii di sorta, anzi non esistono altri uomini se non essi soli, perocchè i cattolici, in quanto tali, seguono un cieco istinto, il che è l' operar della bestia: sicchè i razionalisti non solo hanno la palma, ma la posseggono pacificamente, e in tutto il mondo non vi ha nè può essere chi loro la contrasti, nessuno più fiata contro essi, nessuno osa opporre loro la minima ragione, perocchè chi opponesse anche solo una minima ragione al sistema razionalistico, già non sarebbe più vero che avesse condannato sè stesso ad ammettere per un istinto cieco e senza visione una causa soprannaturale, ciò che il signor professore di Hala gentilmente afferma degli avversari suoi e de' razionalisti. Or grave e recisa sentenza è ben questa del signor professore! Ma è ella forse accompagnata dai motivi del giudicato? Nessun motivo s' adduce di essa perchè quella sentenza è tutta compresa in questo poco:« I soprannaturalisti rinunziano alla ragione, dunque han torto«. La ragione dell' aver torto è tutta nell' affermazione precedente, « che rinunziano alla ragione«: la quale viene supposta dal nostro autore, come quella che costituisce il sistema soprannaturalistico esposto da lui appunto così, che consista« nel rinunziare alla ragione«. E supposto per bell' e conceduto che il sistema degli avversari consista in un rinunziamento da lor fatto alla ragione, la conseguenza che ne trae il signor professore scorre dirittissima ed evidente: chi ha rinunziato alla ragione, ha torto, o anzi egli non ha nè torto nè ragione, perchè non è più uomo, ma bestia; non è possibile alcuna disputa con costui. Se l' esporre in questo modo il sistema degli avversari sia sapienza e modestia, o piuttosto matta arroganza, io non dico, ma il dica qualsivoglia protestante o cattolico, greco od arabo, ch' io lascio al comune senso deciderlo. Solo di far questa osservazione non mi posso tenere: il contentarsi di pronunziare col tuono il più deciso delle sentenze non sorrette da alcuna prova è ragionare questo? Intende che tale sia il metodo de' razionalisti, i quali dichiarano il ragionamento l' unica scorta sicura dell' uomo? Ovvero basta aver fatta questa dichiarazione per avere poi il diritto pienissimo di sragionare, o anzi si riserbano i razionalisti di sostituire al ragionamento un franco asserire? Distruggono adunque il ragionamento stesso? Che fa il nostro professore di filosofia razionale? Vuole che il mondo creda alla sua parola? Sostituisce adunque l' autorità sua a quella della chiesa? In tale alternativa io mi attengo alla chiesa. Ma oltre all' essere affatto gratuita e ignuda di ogni prova la sua asserzione, che il sistema de' soprannaturalisti consista in un rinunziamento che fanno alla ragione, è ella vera, è ella probabile, è ella possibile? Come abbiamo detto, se è vero [che] i soprannaturalisti rinunziano alla ragione, essi non disputano più con nessun avversario, perchè il disputare è, questo solo, un usare, bene o male, della ragione. Perciò i razionalisti dovrebbero essere pacifici possessori del campo, nessuno al mondo potrebbe loro contraddire; e gli uomini tutti o dovrebbero essere razionalisti, o rinunziare alla natura umana, al che ben pochi possono esser disposti, se non piuttosto pochi credono di esser disposti, perocchè ripugna che tali veramente siano. Ora è egli vero? Non vi ha nessuno che disputi con cotesti che si dicono razionalisti, perchè con assai modestia pretendono di far essi soli uso della ragione? Il fatto per avventura li smentisce, perocchè tutti i cattolici sostengono di credere ragionevolmente a un principio soprannaturale e che il razionalista sragioni; i cattolici disputano, i cattolici pubblicano continuamente delle scritture, stampano de' libri contro il razionalismo: il che, ragione o torto che si abbiano, non potrebbero far certamente, se non fosse vero, ciò che offerma il professore della università Fridericiana, che avessero rinunziato all' uso della ragione, e, in luogo di questa, avessero tolto a unica guida un cieco istinto. Era dunque facile il vedere che il supporre tanti milioni di avversarii, quanti sono i cattolici, aver rinunziato alla ragione, è qualche cosa di così improbabile, che l' affermarlo senza prove, in un libro a stampa dimostra una troppo grande presunzione e opinione di sè. Perocchè a conoscere, come diceva, l' improbabilità o piuttosto l' assurdità di somigliante proposizione, pur bastava l' osservare che i cattolici non istanno già muti come i pesci, ma fanno sentire la voce e pretendono di rifutare i sofismi dei naturalisti. Il che è almeno un pretendere alla ragione; e chi pretende d' aver ragione, non può incolparsi di non far nessuna stima della ragione e d' averla ceduta tutta ai loro avversari. Finalmente se vero fosse il sistema dei soprannaturalisti, come egli il presenta, a che lo sbracciarsi tanto in ribatterlo, come fa il nostro teologo razionale? A che l' addurre tanti argomenti? E` forse per mostrare di avere ragione? Ma se gli avversarii, come egli sostiene, hanno già rinunziato da sè medesimi alla ragione, lasciandola tutta come merce spregiata e di nessun pregio agli avversarii, e per sè ritenendo solo il cieco istinto? Si è forse il nostro acuto professore condannato da sè medesimo a rivolgersi in una perpetua contraddizione nella quale più seco combatte che cogli avversarii? Ma lasciamo ciò e passiamo a vedere un altro esempio inarrivabile di modestia che dànno i razionalisti nella maniera di maneggiare le loro disputazioni. In primo luogo, chi sono gli avversari del signor professore di Hala? Abbiamo detto i cattolici, cioè circa duecento milioni di uomini, anzi tutti quelli che, almeno in teoria, credono a un principio veramente soprannaturale: il che è quanto dire quasi tutto il genere umano, eccettuato il signor professore di Hala con alcuni rari come portenti, usciti in questo estremo periodo dallo spirante protestantismo. Ora parrà verisimile che il genere umano in corpo abbia rinunziato alla ragione, che è quanto dire all' umanità? Ma via, poichè questo non è; poichè il genere umano protesta contro al signor professore; poichè il signor professore medesimo, rinunziando necessariamente alla matta pretenzione che l' avversario gli cada ai piedi prima di combattere, si trae in campo e piglia il tuono della disputa e mette in mezzo argomenti, gioverà vedere il modo onde una tale disputazione si può convenevolmente avviare. Poichè se ambedue le parti pretendono d' usare della ragione e ciascuna vuol essere quella che ne usa meglio, quale mai viene a essere l' apparato di una somigliante tenzone? Due schiere d' uomini egualmente formate, e l' arma eguale. Da una parte io veggo uomini gridanti che, dopo aver fatto un sano uso della ragione, hanno avuto per risultamento che una causa soprannaturale non può essere: dall' altra parte veggo parimenti uomini gridanti alla lor volta che, dopo aver fatto anch' essi un sano uso di ragione, hanno avuto per risultato che una causa soprannaturale ed è possibile e v' hanno certi argomenti di doverla amettere di fatto. Ora la sana ragione da qual parte starà? Se io bado alle loro parole, i primi si chiamano razionalisti e vogliono possedere la ragione in esclusiva loro proprietà; simili a quel pazzo che diceva tutti gli uomini dover ben presto perire, perchè voleva respirare lui solo l' aria tutta dell' atmosfera. Ma se bado alle parole dei secondi, questi pretendono che i primi sieni pregiudicati e che restringano gratuitamente lo spirito umano entro sè stessi e il circolo delle materiali sostanze. Che cosa decidere fra tali contendenti? Non sembrerebbe dover essere secondo l' equità che, avendo io uomini da una parte e uomini dall' altra, i quali pretendono del pari di far uso della ragione e aver diritto di seguitare ciò che ella lor detta, io calcolassi imparzialmente la probabilità che può esservi, o che ambe le parti s' ingannino, o che l' una delle due dica il vero? Ora certo è che, non potendo io discernere uomo da uomo, e però dovendo riconoscere in ciascuno un diritto eguale di far uso della sua ragione, procederò equamente, ove io stabilirò questo principio: Nel fare un ragionamento, se molti insieme riescono ad avere un medesimo risultato, cresce la probabilità che il risultato sia vero in ragione che cresce il numero di questi uomini ragionatori che nel medesimo convengono: e, viceversa, la probabilità del risultato contrario sarà al più in ragione del numero di quelli che in quel risultamento medesimo non convengono (1). Il qual principio applicato a giudicare del naturalismo o razionalismo e del soprannaturalismo, quale risultamento mi dà? In favore del soprannaturalismo, immenso numero di uomini ragionatori: contro di esso, sì piccolo numero che svanisce e si può trascurare verso a quel primo; sicchè non rimane solo una probabilità, ma una vera certezza morale pel soprannaturalismo. Una frazione del piccolo corpo di questi votanti contro il soprannaturalismo è per avventura anche il nostro signor professore dell' Università Fridericiana; giacchè egli non è che un ragionatore solo, è uno dei tanti che tutti egualmente s' appellano alla ragione e stimano di fare di essa un uso sano e verace. Or che doveva consigliargli la virtù della modestia e della giustizia, volendo ragionare di un argomento, nel quale tutto il genere umano è interessato e tutto in corpo veramente pronunzia? Di prendere il suo posto, di presentarsi come una minima frazione di un minimo corpo, di portare il suo granello di arena, cioè di deporre modestamente il suo voto, aspettando per avventura che si faccia lo scrutinio e che esca la sentenza. Tiene quest' ordine ragionevole e savio il nostro professore razionale? E` questo il tuono, col quale si presenta nella discussione e trattazione di una tanta causa? Propone un voto? Eh! ben altro: egli non parla come uno dei mortali che non può se non far uso della ragione, sempre in pericolo di farlo bene o male; egli vi parla in nome della sana ragione, parla come fosse la ragione personificata, e come tale non esita, non teme di pronunziare sentenza assoluta, dicendovi non solo che non si dà alcun elemento soprannaturale, ma che non si può dare. E a tutti quelli, i quali non si contentano del suo giudicato, che è quanto dire tutti gli uomini, fuor solo dei filosofi razionali, e che stimano non aver egli seguito la sana ragione, egli per sanzione del suo giudizio imprime in fronte la nota di arroganza e di stoltezza! Ma sebbene in questo raffrontamento della società umana da una parte, co' razionalisti dall' altra, noi non abbiamo fatto altro che mettere a testa ragionatori con ragionatori, uomini a cui la ragione dice una cosa, con uomini a cui la ragione medesima dice tutto il contrario, e che s' onorano scambievolmente del titolo di stolti e di traviati dal sentiero della verità e della ragione; tuttavia il nostro professore si querelerà probabilmente con noi quasi l' avessimo citato piuttosto al tribunale dell' autorità che [a quello] della ragione, e quindi ci dirà al suo solito non volerne sapere di autorità alcuna, perocchè quello dell' autorità è un cieco procedere quello dell' autorità, ed egli colla sola ragione combattere. Ma che è l' autorità che voi odiate tanto, se non la ragione di un altro essere ragionevole? La mia ragione è per gli altri un' autorità: la ragione degli altri è per me un' autorità: ciò che a ciascun uomo è ragione a tutti gli altri è autorità. Che contrarietà può aversi dunque all' autorità il nostro professore, egli che mostrasi così tenero della ragione? Egli dice di combattere colla ragione sola. Ma questo è un non capire il senso della parola ragione , e quello della parola autorità ; perocchè chi dice lui combattere colla ragione? Lo dice egli medesimo. Or ciò non prova altro, se non che la sua opinione è per lui ragione: ma agli altri uomini può esser ella più che opinione, può esser più che autorità? Vi ha dunque nel nostro professore razionalista non poca oscurità e confusione d' idee che gli impedisce un retto e sicuro uso della ragione. Ma il professore razionalista dirà di tenere così, perchè la sua ragione gli dà per validi certi particolari suoi argomenti. - Debbono essere ben forti e risplendere di una evidentissima luce questi argomenti se possono dare a lui il diritto di credersi più ragionevole dell' intero genere umano, e del senso comune che gli dà torto (1). Non voglio però contendergliene la possibilità, prima che vediamo quali sieno questi argomenti, e se per avventura fossero atti a persuadere anche noi stessi colla loro evidenza. Nelle parole del professore di Hala, che noi abbiamo di sopra recate fedelmente tradotte dal latino e che stiamo ora ora qui esaminando (2), niun argomento si trova, se non questo che egli afferma e mostrasi persuasissimo della verità di questa proposizione: che la umana mente è necessitata di riferire tutto quello che percepisce coll' aiuto de' sensi, ovvero che trova col pensiero, e colla meditazione, a qualche causa naturale, cioè a qualche causa nel mondo esterno o nell' interno dell' anima. Il professore mette questo principio per inconcusso, e indi trae la condanna del soprannaturalismo e la prova del razionalismo. Ecco tutto l' argomento. Ma che è quella proposizione? Ella non prova già il razionalismo, è a dirittura il razionalismo stesso; poichè il razionalismo non è se non il sistema che afferma non potere l' umana mente trasportarsi a oggetti fuori della natura materiale e delle leggi stesse della mente. Il signor professore adunque suppone dimostrato ciò appunto che vuol dimostrare; e dopo aver messo per certissimo tale principio, che non è altro se non l' assunto stesso che aveasi a provare, facil cosa gli riesce il tirarne quella conseguenza, che dunque il suo assunto è certo, ciò che è quanto un dire che il ragionamento puòsignor professore, se ragionamento può chiamarsi, zoppica viziato di quel peccato logico che si chiama petizione di principio . Ma tant' è, l' umana mente, dice il signor professore, è necessitata di riferire tutto ciò che percepisce coll' aiuto de' sensi o che trova col pensiero e colla meditazione a qualche causa del mondo sensibile, ovvero a delle origini nascoste nella mente stessa: è arrogante e stolto chi contraddice. Poichè il signor professore razionalista non dà ragione del suo affermare, bisognando forse che la sana ragione gli suggerisca il canone di quel primo emendatore del Vangelo, alla cui santa anima ha dedicato il suo libro (1): che fu quel celebre: « stat pro ratione voluntas ». Non sarà inutile tuttavia che veggiamo noi quanto credito possa godere quella risoluta asserzione. Ella è tolta di peso dal celebre autore della filosofia critica in Germania. Veramente la filosofia critica , legata insieme colla teologia dogmatica , è il più bel nodo del mondo; questa di necessità deve venir criticata fino a che non ne rimanga più cica, e il nome« dogmatica « sul frontespizio di un tal libro mostra, che il razionalismo non può dire la prima parola, senza cozzare con sè stesso. Ma la filosofia critica, nemica essenzialmente di ogni dogma, essenzialmente protestante, anzi l' ultimo parto, il beniamino della religione riformata, spirata, come Rachele, in partorendolo, perchè la critica filosofia non conosce altra religione che sè stessa; questa filosofia, dico, seguita con tanta servil devozione dal nostro professore, è ella un' autorità, od una ragione? Se si considera come autorità , ella è già decaduta: in Germania stesso ha dato luogo ad altri e altri sistemi di filosofia; e in nessun luogo della terra, che io sappia, viene più insegnata, senza almeno averla sottomessa a notabili modificazioni. Vuol dunque che noi rinunziamo all' autorità di una dottrina, che conta diciotto secoli, nei quali ha convertito e mutato il mondo, per curvare il collo [a una filosofia] che, data dal torbido 1719, e che è oggimai decrepita? Se poi vuole che consideriamo la filosofia critica come ragione , se vuole che noi entriamo nell' esame di lei, noi rimandiamo il nostro professore a quei luoghi dove abbiamo trattato a lungo questo argomento e dimostrato: 1. Che l' uomo ha innata la visione dell' essere, colla quale egli è in contatto con qualche cosa di diverso da sè, e diverso dalla natura materiale. 2. Che per mezzo di quest' essere, col quale la mente umana è in comunicazione, l' uomo si vede fatto per un essere veramente e realmente infinito, fuori di tutta la natura finita e capace di conoscerlo e di goderlo. 3. Che quindi è falso ciò [che] pretende Kant, finire tutta l' attività dello spirito umano entro la sfera de' sensi e delle leggi soggettive del suo intendimento, mentre l' intendimento stesso è essenzialmente oggettivo , cioè è tale facoltà che ci spinge fuori di noi e ci fa tendere in un oggetto infinito. 4. Quindi che è un puro errore baldanzoso ad un tempo e sommamente tristo per gli uomini quello che toglie ad annunziar Kant, quando pretende facendo da correttore a bacchetta della ragione e dello spirito umano, d' imporre a lui confini oltre a' quali non possa stendersi e di serrarlo entro a leggi coniate arbitrariamente da una fantasia diretta nelle sue invenzioni dalle analogie tolte dalle materiali sensazioni (1). « Essendovi più religioni volgarmente dette positive che si attribuiscono l' onore d' una rivelazione divina soprannaturale e miracolosa, non v' ha modo e via da esaminarle (quando non si voglia preferire l' una all' altra con cieco arbitrio), se non di paragonare quelle dottrine con quelle altre che, per la natural via della retta ragione, si sono conosciute intorno a Dio e alla sua volontà, e di conformarle a una tal norma, senza alcuna superstizione. Perocchè chi ricusasse di adoperare questa norma di verità a esaminare la religione che si spaccia per soprannaturale, dovrebbe forte temere, non forse qualche demone o uomo che piglia la persona di legato di Dio e toglie a vendergli false e male sentenze, dandogliele per vere ed oneste, gli imponga da credere per rivelati dei dogmi indegnissimi dell' essere supremo«. Questo argomento in gran parte ruota e gira sul falso, sulla supposizione cioè che i soprannaturalisti ricusino di usare la ragione in discernere la vera dalla falsa rivelazione. Ma se vi abbia qualche setta di fanatici al dì d' oggi, i quali si appiglino a creder vera una religione pel criterio d' un interno furore di fantasia, e a un tale loro matto furore nelle cose loro religiose si lascino governare, io non vo' dire. Dico bensì che se una tal setta vi ha, questa è separata e condannata dalla Chiesa cattolica: dico che nessun uomo che vive la confonderà mai colla cattolica Chiesa, nè si sbraccierà a rifiutarla, come mostra di fare il nostro professore di Hala. I soprannaturalisti cattolici adunque si richiamano a lui come d' ingiustizia e di oltraggio che loro fa, mettendoli così nel mazzo di tali fanatici o veramente furiosi, e credono di poter dire del signor professore che sì villanamente li tratta, non dover esser per avventura la sua religione razionale molto amica della buona morale nel fatto, giacchè il calunniare e vilipendere è cosa dalla buona morale ripresa e proibita. Di poi havvi inesattezza nell' argomento del signor professore, dove dice che non c' è altra via di riconoscere se una dottrina religiosa è buona, fuor solo quella di confrontarla colla dottrina suggerita dalla retta ragione. Non è necessario punto che la dottrina rivelata si confronti colla dottrina della retta ragione punto per punto: basta solo che si confronti e convalidi colla retta ragione il principio supremo e generale onde la rivelazione si deduce, cioè l' essere veramente rivelata da Dio agli uomini; e poi egli è manifesto che tutta la religione si può prenderla a chiusi occhi, perchè non può essere che vera e conforme alla retta ragione, anche ovecchè a noi, come quelli che siam fallibili e limitati nel far uso della ragione, sembrasse il contrario. Convien dunque aver ben fermate colla ragione queste due cose: 1. la rivelazione divina è un fatto certo; 2. queste dottrine son quelle contenute in quella rivelazione. Ciò in un modo inconcusso dimostrato, è la ragione quella che mi spingerà a pigliare come certe e ammettere senz' altro esame, ma con interissima fede, tutte quelle dottrine, eziandio che dei misteri contenessero, cioè delle verità al mio debol vedere superiori di lunga mano. Ella è la retta ragione che mi insinua questa modestia, dicendomi: chi ti ha parlato è l' Essere Supremo, è la ragione stessa; questo ti basti, sottomettiti; perocchè la ragione tua non è che un raggio di quella cui tu partecipi; e se tu, ragionando, ti trovi discordare da quella ragione suprema, quale dubbio che ciò non avvenga dal tuo corto vedere, anzichè da falsità dell' Ente divino? Non sei tu fallibile? Non trovi da per tutto misteri, da per tutto difficoltà gravissime nella stessa natura? Non ti accade di prendere ogni giorno qualche sperienza della limitazione del tuo ingegno? E quante volte, anche in convivendo cogli uomini, non deferisci al maggiore di te sulla sua autorità, senza che possa tu ben vederne ragione? E non credi tu ciecamente a tutti gli artisti e periti nelle arti loro? - Questa è la modestia sapiente dei soprannaturalisti: i razionalisti all' incontro si contentano di tacciarli di arroganza e di stoltezza: ma io non veggo dove stia arroganza maggiore, quanto in contendere con Dio e disputare se egli ha ragione o se ha torto. Dipoi è egli nè anco possibile quel mezzo che chiama« unico« il nostro professore, di confrontare le dottrine rivelate su quelle della retta ragione? Ciò supporrebbe che la ragione di chi deve fare questo confronto fosse già fornita d' una religiosa dottrina, in tutte le sue parti compita e perfetta e lontanissima dall' andar soggetta al minimo dubbio. Ma che? qual ragione, qual uomo ha mai potuto dire di possedere una tale dottrina? Di essersi formato colle sole forze del suo ingegno il tipo, l' ideale della religione? Vi fu mai un tal genio sulla terra? Vi può essere? Forse che qualche filosofo se n' è vantato: ma dove è rimasta la religione mirabile di questo filosofo? Quale è, che n' è divenuto? Si può dare arroganza maggiore di quella di colui che si vantasse di ciò? E il professore nostro pretende di più, che ogni uomo deva far così, giacchè ogni uomo deve pure avere una religione e una religione sicura. Mirabile opinione che egli ha della ragione degli uomini! Ma se questo ideale della religione è in ogni mente, come può esistere più alcuna discordia in materia di religione? Il fatto veramente conferma la teoria del nostro professore: sono essi d' accordo gli uomini nelle idee religiose? non c' è che una religione al mondo? Nè io nego già che l' uomo non possa sentire la bontà intrinseca di una religione divina: purchè il voglia, purchè sia retto il suo cuore, può sicuramente sentire quanto ella sia a lui conveniente, quanto ella risponda ai nobili voti della sua intelligente natura; e se si vuole, questo è un giudicare della religione. Ma dico che lo spirito umano a fare questo giudizio della religione non ha già uopo di avere un tipo di religione perfetta in sè medesimo: non ha uopo di posseder prima la perfettissima dottrina religiosa: basta solo ch' egli abbia un principio, una regola, una norma innata, nella quale virtualmente si contiene ciò che è retto, onesto e degno di Dio; ma in modo tale che egli non avrebbe mai potuto fecondare questo germe e trarre da questo principio innato quella perfetta religione che gli bisognasse. Così per giudicare della bellezza, non è necessario avere ogni bellezza effigiata nella mente, nel qual caso non riuscirebbero punto più nuove e dilettevoli le tavole dipinte, a ragione di esempio da egregi artisti, nè queste apprenderebbero più all' uomo cosa alcuna in genere di pittura, perocchè egli saprebbe tutto precedentemente. Ma il fatto è questo, che l' uomo al vedere i quadri di Raffaello o i marmi di Canova la prima volta, ne rimane ammirato e ne trae una viva dilettazione: e questa dilettazione e approvazione che egli ne fa, col quale giudizio approva e riconosce quelle bellezze dipinte e scolpite e quindi è la sua intelligenza che gli fa nascere quel diletto. Ma per far ciò non è già necessario che nello spirito dell' uomo sieno state precedentemente quelle bellezze, e le maggiori ancora (l' ideale loro); ma solo che lo spirito portasse in sè un principio, una regola, su cui giudicarle. Così è nella religione medesimamente: non è necessario che nello spirito, dell' uomo, perchè possa vedere la dignità e santità di una religione, vi abbia quella religione stessa bella e formata, o anzi il suo ideale; basta che vi abbia la regola da giudicarla. La qual regola finalmente non è poi altro che il lume stesso della ragione, e come ho dimostrato, l' idea dell' essere , la quale informa la nostra intelligenza. Nè manco dal sentire, approvare e giudicare noi le bellezze delle eccellenti pitture, statue, poesie, musiche e ogni altro genere di bellezza, può trarsi la conseguenza, che dunque noi possediamo il principio onde noi potremmo formarci noi stessi quegli egregi dipinti, quei marmi parlanti, quelle poesie e musiche che tanto ci incantano e ci trasportano. Perocchè altro è il poterle riconoscere, quando ci sono date, e altro è il produrle in atto nella nostra mente: il perchè l' esserci presentati quegli eccellenti lavori è a noi utilissimo dono, e dalla contemplazione di quelli noi impariamo cose nuove e perfezioniamo le regole inferiori dell' arte, le quali altro non sono che applicazioni della regola suprema, la quale nuda e sola esiste da sè nel nostro spirito, e non ha bisogno di educazione: ma la quale non ci presenta alcuna bellezza, ma aspetta che glie ne vengano offerte per aver materia a cui applicarsi. Quindi medesimamente sebbene noi abbiamo la regola suprema onde giudicare della bontà d' una religiosa dottrina, tuttavia non ne viene che noi potremmo mai da noi stessi dedurre da quella regola essa dottrina religiosa: ma quella regola, come pura forma, se ne rimarrebbe del tutto inutile e infeconda, fino che non fosse data all' uomo quell' alta e divina religione, alla quale applicandosi quella regola, come a sua materia, quella trova in essa il proprio soddisfacimento, sviluppo e compimento. Ed è vero dunque che la nostra retta ragione è atta a giudicare di una buona o mala religione e deve farlo: ed è vero insieme che la nostra ragione non potrebbe per questo tuttavia comporci e somministrarci una religione perfetta e agli umani bisogni interamente corrispondente. « Nessuna rivelazione, appoggiandosi sull' istoria e testimonianze altrui, può produrre a noi una persuasione tanto certa, come quella che nasce dalla ragione, i cui decreti si appalesano all' uomo nella sua propria coscienza. E quanto più la religione sarà piantata e impressa nella coscienza dell' umana mente, tanto più sperimenterà l' uomo la sua benefica virtù nelle varie vicissitudini della vita.« Il nostro professore vi accerta che la storia e le testimonianze altrui non possono produrre una persuasione così certa, come quella della ragione. Che prove reca di ciò? La sua parola? Basterebbe a noi di negare gratuitamente ciò che gratuitamente afferma. Certo che la sua proposizione non è consentita universalmente dagli uomini: e l' affermarla con sì grande sicurezza non pare modestia, nè pare un aver tolto a seguir ragione, sebbene si pretenda che questa sia la sola buona guida. Noi tuttavia non ricuseremo di citare, seguitando, come abbiam fatto fin qui, il nostro razionalista alla ragione. E diciamo così: Il verificare se la storia e la testimonianza altrui possa produrre negli uomini una persuasione tanto certa come quella della ragione, non si può fare che interrogando il fatto stesso. Ora vi ha alcuno di quelli, i quali non furono mai a Roma e che non conoscono questa città se non sull' altrui testimonianze, che dubitino dell' esistenza di Roma? O si può dare persuasione più ferma e certa di quella di costoro? O v' ha alcuno il quale dubiti non forse sia una favola che Cesare o Cicerone abbia esistito? E il quale se ci fosse, non s' inviasse all' ospizio de' pazzi? Sebben che a noi è troppo questa persuasione universale; perchè dov' ella fosse anche solo in pochi, basterebbe a provar falsa la proposizione che l' istoria e la testimonianza altrui non possa produrre una persuasione altrettanto certa quanto quella della ragione. Ma se noi volgiamo il discorso a parlare di persuasione religiosa, ci cresce in mano assai d' argomento. Perocchè potè mai la ragione sola persuadere agli uomini qualche verità di persuasione così immobile e sicura come potè fare la religione? Peneremo noi a trovar prove o indizi della fermezza di persuasione che induce nelle anime la fede religiosa, massime la cristiana cattolica? Non si è sempre veduto in que' milioni di fedeli che conta questa religione, una tale persuasione che esclude qualsivoglia esitazione? E che perciò sta salda contro la morte e in presenza de' patiboli? Che supplizii e tormenti non si sono adoperati a provare se si poteva svellere o smuovere dal cuore de' fedeli questa persuasione? E che risultamento se n' ebbe, non in uno o due, ma in numero innumerevole d' uomini, in secoli diversi, ne' savi e dotti egualmente che negli idioti? S' ebbe un risultamento medesimo, di ridersi de' supplizii e de' carnefici, e di autenticare e suggellare col sangue quella loro invincibile persuasione della verità. Diede mai la ragione sola tale mostra di sè, diede tali segni e sì palmare dimostrazione della sua possanza sulla persuasione dell' uomo? O non anzi si è veduto la persuasione venuta dalla sola ragione umana esser sempre languida e inefficace a far il bene, sia a resistere fortemente, messa alla prova? E il professore di Hala poteva ignorare che di tutte le cagioni atte a produrre nell' uomo persuasione, quella della fede religiosa si trovò, nell' esperienza, essere di tutte la più efficace sugli uomini in ogni tempo e in ogni luogo della terra? E se non ignora questo fatto universale, che non si può ignorare da chicchessia, che affermava dunque in tuono sì dogmatico una proposizione che ripugna all' evidenza di tali fatti? E si credeva dispensato da sorreggerla e munirla d' alcuna prova? Ma pare che qui ci sia nè sana ragione, nè senso comune, nè pudore. Dirà per avventura che sebbene il fatto gli sia contrario, egli non ama i fatti, ma vuol teorie: giacchè i razionalisti deducono dalle leggi della mente le loro dottrine a priori e non dall' osservazione e dall' esperienza di ciò che avviene realmente nella natura e nell' umana vita: e quindi egli dirà che la sua sana ragione condanna a priori tutti i secoli e tutte le nazioni, perchè gli uomini si sono indotti ad ammettere la persuasione religiosa, cioè una persuasione storica, anzichè prestar fede alla ragione sola, e che questa ha diritto, e non quella, di signoreggiare la persuasione umana. Bene sta. Io avevo già preveduto meco medesimo che batteva qui il professore. La ragione adunque ha sola il diritto di produrre una persuasione al tutto certa negli uomini? Ma quale ragione, secondo il professore? Una ragione che si oppone alla storia, che è quanto dire una mezza ragione, o meno ancora; poichè se alla ragione togliamo via i fatti e la storia, ella si rimane per avventura come quel gigante Polifemo, a cui s' è cavato un occhio, e non ne aveva di più. Tale è la ragione dei razionalisti: un gigante, a dir vero, ma senz' occhi. Nemmeno può esser la ragione che commenda il signor professore di Hala, quella che hanno seguita i filosofi, o dell' antichità, o de' tempi nostri. Perocchè se ne' filosofi la ragione ha prodotto quella fermissima persuasione che il professore le attribuisce come suo esclusivo diritto, io mi credo di dover dubitare che se tal persuasione fu ferma veramente, non fosse ella però troppo certa e conforme alla verità: conciossiachè v' ebbe mai generazione d' uomini, i quali più sformatamente discordassero e combattessero fra loro, de' filosofi? Ora quale certezza può avere ove non vi sono due capi che convengono in pensare allo stesso modo e in affermare certe le istesse medesime [cose]? Tolgasi pur l' esperimento dai tempi moderni; cerchisi pure quanta certezza potè indurre la ragione de' protestanti e de' razionalisti. La variazione perpetua del protestantismo, venuta a tale che mise i protestanti stessi in disperazione di poter mai convenire fra loro, dimostra assai bene la confidenza che si può avere nella sana ragione. Dove andò a finire presso a' protestanti tanto variare e rimutare continuo di opinioni? A che condusse quella disperazione che nacque in loro, dopo aver tentato tante volte di accordarsi, di non potersi oggimai più insieme intendere e trovarsi nella medesima sentenza? Una tale disperazione produsse una conseguenza singolare che è da considerarsi con la più grande attenzione. Essi vennero dicendo a sè stessi in questa maniera:« Noi non possiamo in nessuna cosa essere insieme d' accordo: l' uno è persuaso che sia vero ciò che l' altro si persuade essere falso: noi non possiamo tenere una regola di fede nè comune nè che ci duri un anno: noi vogliamo variar sempre e non possiamo a meno di così fare. Ebbene, non potendo esser concordi in nissuna cosa, siamo almeno concordi e costanti in questo, nel mutar sempre, cioè nel non essere mai concordi, mai costanti, nell' avere ciascuno di noi il diritto di poter continuamente innovare e pensare diversamente da quello che gli altri pensano e che egli medesimo aveva pensato«. - Non si creda uno scherzo questo; questo è un fatto; una somigliante transazione è quell' unica che unisce i protestanti, l' unico loro modo di unione, e questo, singolare, a dir vero, e nuovissimo. E questo trattato di unione è appunto, a dir vero, nè più nè meno, il razionalismo, del quale il nostro professore di Hala si fa maestro. Strano viaggio dello spirito umano! La discordia irreparabile, continua, perpetua, disperata delle opinioni, che doveva pure mostrare qual confidenza meritasse, per la scoperta del vero, la ragione individuale e parziale, produsse in quella vece un sistema tutto opposto, nel quale si mette per solo e unico canone questo:« la sola ragione può indurre una certa persuasione della verità«. Tale e tanta è la cecità e tale l' orgoglio degli uomini! Se la verità non può essere discorde da sè medesima; e se il vedersi cento uomini divisi in cento sentenze contrarie dimostra evidentemente che novantanove di essi almeno sono nell' errore, e quindi non vi è se non la centesima parte di probabilità che la ragione di questi cento uomini abbia trovato il vero, e meno ancora di questa centesima parte, perchè potrebbero essersi ingannati anche tutti cento; egli è pure singolare che si osi dare alla sola ragione individuale la forza di persuadere con piena certezza, e che più fieramente vantino una tal forza coloro, i quali sono più degli altri ravvolti nelle perpetue dissensioni: e ciascun di essi parli con tuono sì alto e sicuro d' infallibil maestro, immemore delle migliaia di sistemi contrarii al suo, che pure il dovrebbe fare un po' dubitare di sè medesimo. Che se alcuni aprono gli occhi, in tanta cecità, e s' avveggono della natural conseguenza che procede dalla disparità di tanti sentimenti; necessariamente ad un irreparabile scetticismo si abbandonano, ad un feroce rinnegamento di quella stessa ragione che prima essi stessi avevano idolatrato, e alla vita materiale, nella quale preferiscono spensierati oggimai di rinchiudersi e riposarsi. A dir vero quella spaventevole discordia che ritrae ciascuno dal fidarsi, come a sicura guida, alla sola ragione individuale, non si rinviene nelle testimonianze istoriche, come si rinviene nelle opinioni filosofiche. Il perchè se il carattere della verità è concordia, convien dire che nella storia assai più riluce questo carattere di verità, che nei placiti dell' umana ragione, e per ciò che le storiche verità, munite di quel sentimento, abbiano eziandio più diritto d' indurre entro l' uomo persuasione certa, che le deboli forze della ragione individuale. Il che è quanto dire che la ragione stessa, pigliata nel suo ampio significato, ci conduce alla storia e concilia a lei la nostra fede: mentre questa ragione medesima ci fa sommamente diffidare e ci mette in iscredito la ragione de' razionalisti, una ragione mozza e sfiancata, una ragione altera e ambiziosa, una ragione che si isola da sè stessa e si sfornisce degli istromenti, coi quali soli potrebbe pervenire alla verità; cioè finalmente una ragione che non è ragione, ma che è l' uomo che fa la ragione, che mente a sè stesso e ad altrui e s' imbriaca del proprio mentire. Non è bisogno d' altre parole a mostrare l' inefficacità di una tale ragione, o piuttosto la sua funesta efficacia nelle cose dell' umana vita. Una sola ragione intiera e perfetta può ad un tempo essere efficace al bene, sostenitrice e consolatrice dell' uomo nelle necessitudini della vita: ma questa ragione è quella che fa un continuo e solo uso delle storiche e pratiche verità, e che addita la religione rivelata come il solo asilo ove l' uomo trovi la pace, la sicurezza e la stabilità fuori delle irrequiete e sempre mai tempestose fluttuazioni del proprio cuore abbandonato a sè stesso, e della propria mente girovaga, senza guida nè stella che la conduca. « Che vi abbia una rivelazione soprannaturale, s' intende dimostrare da quelle cose che si leggono in qualche libro che si dà per scritto in modo soprannaturale: e pretendesi di conciliar fede a questo libro da questo appunto ch' egli contenga una soprannaturale rivelazione. Qui havvi un circolo: si pone per dimostrato ciò che si vuole dimostrare«. L' argomento è irrepugnabile nel sistema dei protestanti; ma non ha valore alcuno nel sistema dei cattolici. I protestanti cominciano e finiscono col libro della Bibbia: questo è certamente un circolo vizioso. Essi dicono: l' unica regola di fede è la Bibbia. Si domanda loro: come provate che la Bibbia sia ispirata e l' unica regola di fede? Essi non avendo altra autorità che la Bibbia stessa, debbono ricorrere ai fatti contenuti nella Bibbia per dimostrare che la Bibbia è ispirata ed è la regola della fede. Questo è ciò che faceva conoscere a S. Agostino la necessità di una Chiesa infallibile che conservasse la Bibbia stessa, e che ne attestasse l' ispirazione della medesima, e che faceva dire a questo gran Padre: « Io non crederei alla Scrittura, se non mi movesse a ciò l' autorità della Chiesa« ». Era un po' più logico dei dottori riformati. Nel sistema cattolico adunque il circolo rimane evitato. Poichè i cattolici dicono:« Noi crediamo alla Bibbia, non sull' autorità della Bibbia, ma sull' autorità della Chiesa che ci dà la Bibbia. Noi abbiamo un' autorità infallibile, vivente, che si conserva sulla terra perpetuamente, avendo detto Cristo: « Io sarò con voi fino alla fine dei secoli « ». Ma come so io, si dimanda, che quest' autorità della Chiesa cattolica è verace, che esiste questo divino magistero vivente nei maestri della chiesa? Lo so io forse per altro se non per parole e i fatti di Cristo che sono tutti contenuti nella Bibbia? - Sì, certamente: io ne ho delle altre prove. I primi fedeli hanno creduto agli Apostoli sulla loro parola, per verbum eorum anche prima che il nuovo Testamento fosse scritto. Dunque v' ebbero degli argomenti e validi, ove non si vogliano condannare tutti i primi cristiani e con essi il cristianesimo. Gli argomenti che si hanno in favore della parola evangelica , non sono solamente validi singolarmente presi, ma è nel loro complesso, nel loro accordo mirabile e stupendo che sfolgoreggiano di una luce quasi concentrata da mille punti in un solo foco, e sforzano l' assenso umano. Il sistema del cristianesimo tutto insieme preso, sistema che non può essere finto da mente umana, perchè abbraccia il principio del mondo e si continua e consuma con tutta la serie degli avvenimenti, è quel solo che spiega la storia dell' umanità, che dà ragione di tutti i fatti più importanti avvenuti al mondo, che è conforme alla natura di Dio, che interpreta i bisogni dell' uomo e li soddisfa pienamente. Le profezie, i miracoli, la diffusione per tutta la terra della religione della Croce, la sua conservazione, i suoi mirabili effetti, tutte le circostanze insieme prese, e conosciute anche pei soli monumenti della storia accertati colla critica, e finalmente l' autorità del genere umano; tutto questo insieme ha un peso tanto grave, tanto importante, tanto solenne, sopra chi non ha lo spirito malamente preoccupato, che non può a meno di strappare da lui un pienissimo assentimento. Ma a tanti argomenti poi, illustrati dagli apologisti del cristianesimo, nel sistema cattolico, si sopraggiunge la grazia , la quale finisce di vincere e trionfa ragionevolmente dell' uomo. Dico ragionevolmente , perchè la grazia è luce interiore e compimento della stessa ragione: di che il sistema cattolico non può essere più uno, più coerente e logico, più serrato e inattaccabile, perchè perfettamente più consentaneo con sè medesimo. « La persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione di Dio non si può conciliare coll' idea di Dio eterno, sempre costante a sè stesso, onnipotente, onniscio e sapientissimo, dalla virtù del quale eternamente attiva e fornita di ottimi consigli noi poniamo giustamente dipendere l' esistenza e la conservazione e la perpetuità di tutte le cose della natura. Perocchè in primo luogo quella differenza che volgarmente si pone fra le operazioni di Dio immediate e le mediate , si deve intendere non in sè, ma secondo l' umana maniera di giudicare; non potendo essere che l' uomo conosca menomamente la vera via e il modo della divina attività col contemplare i singoli effetti di lei apparenti nella natura delle cose. Le operazioni di Dio si possono dire immediate per sè, per questa ragione che non sono circoscritte da limite di tempo e di luogo, di tal modo che le cose che Dio fa, le fa tutte in un solo e primo suo atto, nè ripetonsi quasi nelle varietà de' tempi e di luogo: sebbene l' umana mente, astretta ai confini del tempo e dello spazio dal proprio suo modo di conoscere, non sappia comprendere in un solo sguardo quell' universale e quasi simultaneo operare di Dio, ma vegga solo le singole parti di lui, secondo che si palesano nel succeder del tempo e nel variar degli spazii, giusta la legge di causalità innata alla mente. Di che avviene che tutte le cose che Dio opera per sè immediatamente, l' uomo rettamente giudichi operarle mediatamente, cioè in un modo conveniente al tutto, alle leggi del suo proprio pensare. In secondo luogo se havvi nella natura qualche effetto che le forze di essa natura sebben limitate non possano produrre, per piccolo che sia quest' effetto, mostra però abbastanza una imperfezione non necessaria nella natura, e per ciò anche in quello che ha fatto la natura. In terzo luogo chi volesse affermare che un qualche avvenimento, per essere oltremodo mirabile, non si possa spiegare colle forze naturali, questi dovrebbe conoscere perfettissimamente tutte le leggi della natura. Il che non può cadere in uomo, e però non può conciliarsi nè pure in questo modo colla sapienza divina una rivelazione miracolosa: poichè se nessuno può a certi segni conoscere una tale rivelazione, ella non è neppure atta a fare il divino essere palese, perchè lascia l' uomo in dubbio e non si può ingerirgli una ben certa persuasione«. Quando la ragione d' innumerevoli e, fra questi, dottissimi uomini, sentenzia in un modo contrario a ciò che pare alla ragione mia, allora è cosa ben rara che, senza offendere la modestia, io possa parlare in tuono assoluto e pronunciare la mia sentenza come una indubitabile verità, senza nè pur fare menzione di sentenze opposte alla mia, dispettosamente trasandandole, quasi con quello: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa ». Ora il fatto è, che una moltitudine innumerevole di uomini di tutti i secoli, e fra questi tali che furono giudicati da tutto il mondo cima d' ingegni e di dottrina, non ebbero mai dubitato che la persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione ripugni all' idea che si deve avere di Dio. Egli sarà perciò assai, se all' udir pronunciare dal nostro professore la sentenza assoluta e perentoria che« ripugna«, altri vi tenga dal dare a lui traccia di non piccola presunzione. Ma noi mettiamoci nei suoi argomenti giacchè qui tre ne reca in mezzo; e cominciamoci dal riassumerli in brevi e chiare parole. Il nostro professore sostiene ripugnante coll' idea di Dio la persuasione di una soprannaturale miracolosa e immediata rivelazione, perchè: 1 Il pensare che Dio operi mediatamente ripugna all' idea di Dio, giacchè Iddio fa tutto immediatamente , cioè con un atto semplicissimo, eterno, fuori dello spazio e del tempo: ed è l' uomo quello che, essendo soggetto per la legge del suo pensare allo spazio e al tempo, giudica che Dio operi successivamente e con varie azioni, e quindi mediatamente . Il perchè se si prende la parola secondo le leggi del pensare umano, Iddio opera sempre mediatamente ; se si prende in sè stessa, opera sempre immediatamente . Quindi non si dà questa distinzione di operazioni mediate e immediate, ma tutte le operazioni divine sono egualmente mediate e immediate. 2 Una rivelazione miracolosa ripugna ancora all' idea di Dio, perchè suppone che egli non abbia fatto la natura con sapienza, in modo che essa non abbia bisogno di tali aiuti miracolosi. 3 Ripugna in terzo luogo, perchè Iddio avrebbe fatto una cosa inutile, non potendo l' uomo discernerla con certezza dagli effetti naturali. Ora in quanto al primo di questi argomenti, io comincio a far osservare che tutti quei dotti teologi di ogni secolo, i quali hanno ammessa la distinzione fra le operazioni immediate e mediate di Dio, hanno tutti saputo, nessuno eccettuato, che Dio tutto ciò che fa lo fa in un atto solo, semplicissimo ed eterno: e questa è una verità ovvia in tutte le teologie, e non punto una scoperta, per avventura, del signor professore di Hala, o di quei filosofi, da' quali egli ha copiati i suoi argomenti (1). E pure questi nuovi sapienti ci dicono le sentenze più comuni con tanta gravità e con tuono sì solenne, che sembrano annunziare alla terra le verità più inaudite. Sebbene adunque tutti i mentovati teologi sapessero che Dio opera tutto con un atto solo e eterno, tuttavia non si sono tenuti per questo dal partire le divine azioni in mediate e immediate ; sicuramente perchè non vedevano nessuna opposizione e contrarietà fra queste due proposizioni, e che Dio opera con un atto semplice fin da tutta la eternità, e che quell' atto per la diversità de' suoi effetti si divida in azioni mediate e immediate . Or questo fa creder che il signor professore di Hala combatta per avventura una dottrina che non si è punto dato cura d' intendere: solito vizio, come abbiamo detto, del più de' protestanti, presso cui il disprezzo de' cattolici tiene solitamente quel luogo che tener dovrebbe lo studio accurato e fedele delle loro dottrine. Non è dunque vero, diremo al signor professore, che quando noi parliamo di azioni di Dio immediate e mediate, ci opponiamo punto alla verità, la quale per noi è un dogma, che l' operare divino è semplice e coeterno con lui. Noi non facciamo che considerare quest' unico atto nei suoi diversi effetti; ed essendo molte le relazioni di quest' unico atto con questi effetti, perchè i suoi effetti son molti, noi chiamiamo quest' atto medesimo nelle varie sue relazioni azioni di Dio ; le quali azioni non indicano moltiplicità di atti, ma solo moltiplicità di relazioni e di effetti di un atto medesimo. Ora queste sono quelle che noi denominiamo poi mediate e immediate , senza che ciò punto ripugni per nulla all' idea dell' operar divino unico e semplicissimo. Un altro sbaglio mostra di prendere parimente il signor professor di Hala nell' assegnare il fondamento di questa distinzione di azioni mediate e immediate. Pare che egli supponga che i soprannaturalisti cattolici chiamino mediate le azioni di Dio in quanto sono vestite dallo spazio e dal tempo; e che la parola d' immediate si riservi a significar quelle che sono immuni dallo spazio e dal tempo. Ma sebbene i cattolici ammettano una successione nelle cause, e però, oltre la causa prima, ammettano delle cause subordinate; tuttavia l' ordine di queste cause, per la concorrenza di Dio, nol fanno dipendere dal tempo, ma dicono che tutta la serie delle cause è da Dio percepita, creata e conservata con quell' atto eterno, col quale egli fa tutte le cose: giacchè, come dice S. Agostino, Iddio percepisce il tempo senza tempo; e non vi è dubbio alcuno che questo modo onde Iddio percepisce, non distrugge punto nè poco la vera subordinazione delle cause in fra loro e la loro temporale successione, poichè questa successione di tempo non si trasporta già con ciò in Dio, ma si lascia nell' effetto dell' operazione divina, nelle creature, in una parola, nelle cause subordinate. Ma queste dottrine cattoliche non possono essere intese da un uomo che si è intestato nel razionalismo critico, bevuto però come si beve un dogma filosofico, cioè per la via della materiale memoria, non della ragione: un critico che fa del tempo e della causalità nulla più che altrettante leggi dello spirito, altrettante forme soggettive, senza che si possa provare alcuna loro oggettiva realità (1), deve naturalmente negare la subordinazione delle cause, e quindi le cause mediate e immediate; perocchè questi nega altresì a dirittura che si possa provare l' oggettiva realità di ogni causa (2). Ciò però che è strano ed antilogico, si è la ragione che si adduce di questo negarsi la causa mediata (tolta via la quale il panteismo è irreparabile, conseguenza tirata già dal criticismo ), cioè a dire il non potersi comporre questa coll' eterno e semplice operare di Dio. La qual ragione non avendo sicuramente alcun peso, forza è dire che cada tutto il sistema. E che non abbia peso quella ragione, si mostra da ciò che ho detto esser dottrina della cattolica teologia, cioè poter essere l' effetto (la creatura) soggetto al tempo, senza che però sia soggetto al tempo l' operare della causa (Dio) che l' ha prodotto; come pure poter darsi degli agenti intermedii, senza che cessi di operare in tutti essi, creandoli a ogni istante, la causa prima e sempiterna. Di che si concluda che ciò che mosse il nostro professore razionale a produrre quell' argomento, si fu solo il non aver avuto ragione che bastasse a pur intendere chiaramente quale fosse la sentenza cattolica delle cause mediate e immediate. La stessa mancanza di cognizione sufficiente per parlare con qualche senno in tale argomento, dimostra egli nel far consistere la rivelazione miracolosa in un' azione immediata di Dio. Sarà difficile che egli possa provare essere sentimento comune della Chiesa cattolica che la rivelazione sia opera immediata di Dio. Può darsi che trovi di ciò qualche parziale autorità, la quale fors' anco, bene interpretata, gli cesserebbe dall' esser favorevole. Ma il sentimento comune, e, per mio avviso, il legittimo sentimento della Chiesa si è, che Iddio non diede la rivelazione esterna immediatamente, ma sì bene mediante degli Angeli, come dice S. Paolo, i quali sono anch' essi creature di Dio e entrano a formar parte della natura, se s' intenda per natura non la materiale solo, ma tutta la natura creata, il sistema intero dell' universo. E Cristo stesso, che pure è Dio, se si considera solo come ministro della rivelazione esterna e non della grazia, può dirsi che tanto ufficio esercitasse come uomo, o almeno col mezzo dell' umana facoltà della loquela, e quindi intervenendo la sua natura umana, quasi direi, fra gli uomini e il Verbo. Giacchè adunque in nessuna maniera la ragion sana del signor professore potè recarlo tanto innanzi da poter formarsi un giusto concetto di ciò che si debba intendere per azione immediata di Dio; io mi farò brevemente a esporglielo secondo il fondo de' cattolici insegnamenti. Ogni qualvolta l' uomo non prova quello che abbiamo [detto] sentimento deiforme (1), la percezione dell' infinito, percepisce solo qualche cosa di creato e di finito. Questo elemento creato e finito che percepisce, questo termine limitato, qualunque sia, della sua percezione, non è Dio che sente, perocchè Dio è illimitato e infinito. Questo elemento o termine adunque che non è Dio e che viene sentito e percepito dall' uomo, questo è ciò che sta fra lui e Dio; e sebbene Dio operasse, tuttavia dicesi che la sua operazione è mediata, perchè la cosa prossimamente sentita dall' uomo, anzi la cosa unica da lui sentita, non è Dio. Che se all' incontro la stessa percezione dell' uomo è deiforme, cioè tale che contiene una cotal pienezza illimitata, insomma il tutto , allora solo si dice acconciamente operar Dio senza mezzo, perchè egli stesso è divenuto forma dello spirito umano. E le divine Scritture e i Padri ravvisano questa maniera di operare di Dio nella grazia , come ho più sopra dimostrato. Certo duro è un siffatto discorso a un filosofo razionale, anzi inintelligibile: ma egli potrà intenderlo, se vorrà. E che gli bisogna per intenderlo? Che creda. « Non intenderete, se non crederete« »: dice Dio nella Scrittura (2). Ma crederà contro ragione? No: egli crederà a quegli uomini fedeli e illuminati, i quali gli testimoniano di provare in sè tale sentimento; e la loro testimonianza ha tutti i caratteri che può desiderare l' arte critica più rigorosa, veracità, scienza, moltitudine e consentaneità di testimoni, spassionatezza, eccetera. La ragione in tal modo lo condurrebbe alla fede, la fede all' esperienza, e l' esperienza lo farebbe pervenire all' intelligenza. Perciò i giusti (che hanno testimoniato indarno la verità) giudicheranno le nazioni (1). Ma veniamo al secondo argomento. Nel secondo argomento ci si presenta pur nell' esposizione stessa qualche cosa più tosto di ridicolo che d' assurdo. Dice: se havvi nella natura qualche effetto che le forze della natura nol possan produrre, esso mostra un' imperfezione non necessaria nella natura. Che cosa vuol dire il signor professore con tali parole: se havvi nella natura qualche effetto? Intende dire se havvi un effetto per sè naturale? Se intende così, certo che vi avrebbe difetto nella natura, se un effetto naturale non potesse essere prodotto dalla natura. Se poi intende« se havvi un effetto soprannaturale apparente nella natura«; che difetto può essere questo che la natura non possa produrre ciò a cui non si estendono le sue forze? Che difetto sarà per un sasso il non vegetare? Che difetto a una pianta il non sentire? Che difetto a un bruto il non intendere? Che difetto in una parola sarà alla natura intera il non poter far ciò, a cui ella non è ordinata, che è contrario alle sue leggi, e per cui fare non ha punto di natural virtù? Or s' ella è così, chi dunque disse mai al signor professore che i cattolici per avventura ammettono di tali assurdi? Chi lo ha persuaso, non dico di attribuire altrui, ma pur solo di pensare così vane sciocchezze, perocchè io credo che penerà assai di trovare in tutto il mondo un uomo così semplice, o più tosto così stupido, che abbia mai detto« Iddio aver formata la natura in modo da non esser sola capace di produrre i suoi effetti naturali«, e perciò aver egli bisogno di venirla soccorrendo a quando a quando, siccome una inferma, con frequenti miracoli? - La sua sana ragione par che assai poco l' aiuti non solo a conoscere e riferire fedelmente le opinioni altrui; ma nè a fingerle tali che siano tampoco verisimili, anzi pur solo intelligibili!!! Il terzo argomento del nostro autore è fondato sopra una difficoltà tante volte proposta e tante risoluta, che per accertarsi che un evento superi le forze della natura, sia necessario conoscere perfettamente queste forze, ciò che nessun uomo può. A lui era ben facile, degnandosi di aprire alcuno de' tanti cattolici scrittori che trattarono questa materia, trovare al suo dubbio una sufficiente risposta. Noi ci conterremo in poche osservazioni. In primo luogo non è necessario conoscere tutte le forze e leggi naturali, singolarmente prese, per accertarsi, che l' avvenimento sia miracoloso: sovente egli basta conoscere che la natura è limitata; e ciò basta ogniqualvolta trattasi di un tale effetto che porta in sè i vestigi di una forza infinita e però certamente sopra le forze possibili di una creatura. Tale sono: la creazione, le profezie; tali le operazioni interiori della grazia, tali le illustrazioni dell' intelletto a conoscere le cose lontane o quelle che altri ha chiuse nel segreto dell' animo. Parimenti soventi volte basta conoscere parzialmente una legge della natura e non tutte; e ciò ogniqualvolta l' avvenimento è direttamente contro quella legge, come apparisce nel miracolo del quatriduano, dell' apparire o scomparire di un uomo, e generalmente del rendere il proprio corpo fornito delle qualità de' corpi gloriosi, ecc.. Finalmente è da avvertire che di tali circostanze sono forniti i miracoli, generalmente parlando, come quelle delle subitanee guarigioni, che per lo meno inducono un sommo grado di probabilità e una morale certezza, la quale deve bastare a ogni uomo ragionevole; giacchè [è] dietro a una somma probabilità e morale certezza che ciascuno dirige le più gravi azioni della vita, e crede tuttavia di operare prudentemente. E l' esperienza ha mostrato che il sommo grado della probabilità, per dir poco, che mostravano in sè certi fatti miracolosi ha bene spesso ingerito la più alta persuasione dell' intervento di una forza soprannaturale, anche in quelli degli spettatori che si trovavano coll' animo interamente alieni dal prestar fede a dei fatti soprannaturali. Ma ciò che è sommamente necessario finalmente a poter discernere in fra tutte la dottrina che viene da Dio si è la buona disposizione della volontà. [...OMISSIS...] E la Chiesa cattolica per ciò può dire a quelli che non intendono la verità divina e salutare delle sue voci, quello stesso che diceva il suo Fondatore a quegli increduli che non rifinivano di domandargli argomenti e prodigi in confermazione della sua parola: [...OMISSIS...] . Riassumendo in breve e raccogliendo sotto un solo punto di vista tutto ciò che di più importante al nostro uopo abbiamo detto distesamente in varii luoghi intorno all' uomo, noi abbiamo veduto che il soggetto uomo nomina sè stesso col monosillabo IO. E come i vocaboli son quelli che dimostrano quali sieno le comuni opinioni, quelle cioè che vengono dagli uomini tutti generalmente assentite, per ciò basterà analizzare il significato che sta annesso a questo monosillabo IO per rivelare quello che per comune sentenza (2) si contiene nel concetto del soggetto appellato uomo . IO« uomo« veggo l' essere, Io veggo la verità (3), ma io non sono l' essere, io non sono la verità che pur veggo. Privo dell' essere, privo della vista della verità, l' IO ancora potrebbe sussistere, sebbene non potrebbe pensare se stesso perchè il pensiero non è altro che la vista dell' essere (4). L' IO che vede l' essere è intelligente, e senza l' essere, come si diceva, è privo d' intelligenza. Precedentemente adunque all' intelligenza è il concetto dell' Io, e un tal concetto quindi non può racchiudere che la nozione di un sentimento cieco, non essendo ancora illuminato dal lume della verità. Quest' Io sentimento, concepito privo d' intelligenza, la riceverebbe tosto che gli fosse dato di veder l' essere , che diventa in tal modo sua forma , ciò che lo adduce al suo più nobile atto. Un Io sentimento come l' abbiamo dedotto, privo d' intelligenza, è un Io animale; fornito d' intelligenza, si chiama uomo . Nel concetto dell' uomo adunque precede il concetto di animale a quello della facoltà intellettiva, e quindi acconciamente l' uomo viene definito un animale intelligente (1). L' essere che gli è dato a vedere è dunque nell' uomo, ma non è l' uomo; e l' uomo commette una usurpazione ogniqualvolta egli attribuisce a sè quelle prerogative che solamente all' essere sono dovute. L' usare di quest' essere che l' uomo vede, l' applicarlo ai sentimenti, cioè il considerare i sentimenti in relazione coll' essere, questo è ragionare . L' essere nell' uomo naturalmente si trova in uno stato molto imperfetto, cioè a dire l' uomo fino che non oltrepassa l' ordine della natura, non vede l' essere che imperfettamente, inizialmente, in un modo universale, indeterminato, senza una sussistenza in sè e per ciò come possibile. Quest' essere possibile e indeterminato che l' uomo vede per natura e che applica poi ai sentimenti, l' abbiamo chiamato essere ideale , ovvero modo ideale dell' essere . L' essere nell' uomo prende un nuovo stato allorchè l' uomo vien sollevato dall' ordine naturale all' ordine soprannaturale: quest' essere opera nell' uomo non più in un modo puramente ideale , ma in un modo sostanziale e reale; l' uomo prova allora un vero sentimento, non più una tenue idea; prova l' azione dell' essere reale che si manifesta in tal modo a lui presente; non è più solo la possibilità indeterminata dell' essere che ha in sè, ma la sussistenza medesima: insomma allora l' idea si cangia in percezione . L' essere reale che percepisce l' uomo in un tale stato, non è però limitato, ma bensì è determinato dalla propria sussistenza; non è possibile, ma tuttavia è universale in quanto il tutto [in] lui si trova; non è iniziale, ma anzi è completo. Quest' essere completo e reale è Dio stesso, il quale a questo mondo non si mostra se non in un cotal modo velato, e solo nell' altro si vede svelatamente e con pienezza. Ora chi considera bene la natura dell' essere naturalmente impresso nelle anime nostre, che anche si chiama« verità«, vedrà che non disconvenientemente si può dire esser egli una similitudine di Dio, sebbene non Dio stesso. Questo consegue dalle dottrine da noi esposte. Noi abbiamo spiegato in che consista il concetto di similitudine: abbiamo detto che due cose sono simili quando hanno una qualità comune: che non esistendo niente di comune fuori della mente, questa qualità comune non è che una eguale relazione che hanno le due cose colla mente, cioè con un' idea, onde si conoscono egualmente le due cose e si paragonano insieme: che perciò stesso l' idea si può dire la similitudine della cosa conosciuta, come acconciamente la chiamarono gli antichi (2). Ciò premesso è da considerarsi che noi conosciamo non solo le creature, ma Dio stesso colla vista dell' essere: per ciò questo essere di cui ci serviamo a conoscere Iddio convien che sia una similitudine di Dio. [...OMISSIS...] . Anzi dico di più che se noi conosciamo tutte cose coll' essere, quest' essere però che forma il lume della nostra mente, ha più similitudine con Dio che colle creature. Poichè che cosa è Dio? Dio è appunto l' essere: con questo è detto tutto, non conviene aggiungergli cosa alcuna, chè sarebbe un guastarne il concetto: nulla si può dire più di quello che insegnano i teologi cattolici, cioè che l' essenza di Dio consiste nell' essere . Questa grande verità Dio stesso l' ebbe comunicata a Mosè nell' antico Testamento, ingiungendogli di dire: « QUEGLI CHE E` mi ha mandato a voi« (4) ». Questa stessa verità insegnò pure il Verbo incarnato, dicendo: « Se non credete che IO SONO, morrete ne' vostri peccati« (5) ». Tutti i Padri commentano con delle sublimi riflessioni questi luoghi profondi delle Scritture dove si legge che l' essere è appunto Dio stesso. L' autore del celebre libro Dei nomi divini fa appunto osservare, dietro tali traccie di dottrina che dànno le Scritture, « come a Dio non conviene già la denominazione di ente sotto qualche aspetto particolare, ma semplicemente, e che egli abbraccia e occupa non già l' essere in un modo determinato, ma tutto l' essere« (1). » E ora l' essere è anche ciò che cade nella nostra mente prima di tutte le altre cose, poichè esso solo è intelligibile per sè medesimo, sicchè esso forma la nostra intelligenza. Di che Massimo, commentatore di quel libro sublime dei Divini nomi , trova la ragione del dare a Dio l' essere prima di ogni altra qualità, come la vita, la sostanza, ecc., in questo che « la mente, pur col suo primo posarsi, intende l' essere e pensa innanzi a tutto lo stesso essere e di poi considera essere in un cotal modo queste altre cose« (2) ». Conciossiachè era ragionevole che prima si desse a Dio ciò che prima cade nella nostra mente e per sè stesso s' intende; conciossiachè la natura divina deve certamente avere questa proprietà dell' essere la prima a doversi intendere, l' intelligibile per sè stessa, e però deve convenire con quell' essere che luce incommutabilmente nelle nostre menti. S. Bonaventura parla a lungo e profondamente in più luoghi delle sue opere della relazione che passa fra l' essere che forma il lume della nostra ragione e l' essere divino, e vi trova il più stretto nesso, trova [che] l' essere, col quale conosciamo le cose, non ci potrebbe prestare questo mirabile servigio di renderci note le cose tutte, gli esseri tutti, se egli non fosse una similitudine e una cotale partecipazione del sommo e perfetto essere. Perocchè assai acconciamente riflette l' acutissimo e santo Vescovo che non potremmo conoscere che i varii esseri, cui noi percepiamo, sono più o meno imperfetti, se in qualche modo non avessimo in noi il tipo della perfezione, se non potessimo consultare nel segreto delle nostre menti, in un modo maraviglioso e recondito, l' essere perfettissimo, poichè solo l' idea di ciò che è perfetto in qualsivoglia genere ci può aiutare a scorgere e conoscere e giudicare i varii gradi di perfezione delle cose che a quel genere appartengono. Egualmente si dica del giudicarsi che si fa dei pregi e difetti degli esseri, il qual nome di esseri abbraccia tutti i generi delle cose. Dice adunque il santo Cardinale così: [...OMISSIS...] . E perciò il santo Dottore dice questo essere, luce delle menti, una similitudine di Dio che in noi sta di continuo. « Essa ha, » (dice egli parlando della memoria, come quella che ritiene le verità sempiterne che tutte si trovano nell' unica idea dell' essere, come io ho mostrato nella Ideologia), «essa ha presente a sè stessa una luce incommutabile, nella quale si ricorda delle immutabili verità. E così apparisce nelle operazioni della memoria ch' essa... [che l' anima è imagine e somiglianza di Dio; per tal modo presente a sè stessa e avente Dio presente che e attualmente lo intende e potenzialmente è capace di parteciparlo«] (3) ». Nel qual passo sembra che il santo Dottore prenda la parola imagine per indicare il medesimo presso a poco che significa la parola similitudine. Nel lume della mente adunque, che è l' idea dell' essere in universale, si contiene una cotale similitudine di Dio: e la ragione intrinseca colla quale ciò si prova si è quella che abbiamo indicata, cioè che nell' essere da noi concepito non si trova che puro essere senza alcuna limitazione o aggiunta di sorta alcuna, il che medesimamente si può dire di Dio che è essere sincerissimo e purissimo, nè ha meschianza di alcun' altra cosa in sè: di che è, come dice S. Giovanni Damasceno, che [...OMISSIS...] . In questa sincerità e semplicità dell' essere che sta di continuo al nostro spirito presente, noi poniamo la similitudine di lui con Dio. E questa sincerità e purità dell' essere mentale e dell' essere divino merita che sia da noi attentamente contemplata. E` appunto perchè Iddio non è altro che essere , che Dio è tutto: in questo vocabolo si esprime tutto per modo che qualunque cosa si volesse aggiungergli che diversasse da lui, già non sarebbe un accrescerlo, ma un limitarlo, un diminuirlo. Il grande Abate di Chiaravalle nell' opera che scrisse al suo discepolo Eugenio III e che intitolò Della Considerazione , fa una riflessione simile a questa. Egli parla di Dio nella seguente maniera: [...OMISSIS...] . Or dunque nel solo e puro essere si trovano tutte le cose, e ove si volesse mescolare con lui altra cosa, non sarebbe che un mescolargli il nulla, poichè fuor dell' essere non è veramente che il non7essere, il nulla. Ora in questo noi dicevamo consistere la similitudine che passa fra quell' essere che è innato nelle nostre menti e Dio, in questa sincerità e purità: poichè tanto Dio quanto l' essere ideale innato in noi niente hanno in sè di diverso e, per così dire, di eterogeneo, ma sono impermisti e semplicissimi. Di questo è che anche nell' essere ideale si trova tutto, e dalla sola sua nozione potrebbe dedurre la cognizione di tutte le cose chi tanto valesse per forza dialettica, perocchè qualunque anche minima notizia dell' essere basta per sè a dedurne ogni notizia maggiore e a determinare, per così dire, il problema di trovare l' ordine intrinseco dell' essere, nel qual ordine tutte le divine verità e tutte le cose, come parti di esso ordine, si comprendono. Il che è l' effetto della somma semplicità e individualità dell' essere stesso, il quale non può essere mai partito dal suo tutto. E però chi ne riceve un raggio solo anche tenuissimo, riceve però tal cosa, la quale suppone e chiama per necessaria illazione, cioè per intrinseca sua esigenza e necessità, l' intero a cui ella si appartiene, e dal quale ella è, relativamente al soggetto che la percepisce, in certo modo, staccata. E questa è la ragione appunto, per la quale l' essere innato nella mente ha l' attitudine in sè di farci conoscere tutte le cose, o anzi piuttosto riconoscerle e quasi richiamarcele alla memoria: dal qual fatto è nata la reminiscenza de' Platonici. Perocchè veramente il fatto della cognizione, chi attentamente lo osservi siccome avviene e l' analizzi, mostra avvenire per siffatto modo che sembra piuttosto un ricordarci che noi facciamo di cosa già prima conosciuta e appresso dimentica, che non sia un ricevere una interamente nuova notizia. [...OMISSIS...] . E questa osservazione si può portar oltre, e estenderla alla sola cognizione de' primi principii, che non sono altro finalmente se non l' essere innato nelle varie sue applicazioni; ma sì anco alle cognizioni tutte in universale ed alla stessa percezione, almeno considerate in quanto sono cognizioni . Perocchè che è il conoscere e percepire una cosa, poniamo che essa sia anche contingente? Non altro se non vedere il rapporto di quella cosa (cioè dell' azione fatta da essa ne' miei sensi) coll' essere a me innato. E che è vedere questo rapporto? Non è altro se non accorgersi che vi ha convenienza fra l' azione da me sofferita nel senso e l' essere a me innato; cioè accorgersi che l' azione da me sofferita suppone un essere che la faccia, e quindi è un' appartenenza dell' essere, traendone così per illazione che l' essere suo corrispondente deve sussistere. Col conoscere adunque quella cosa contingente io non faccio che ravvisare nella sua azione sopra di me un atto dell' essere che io già conosco; non è che un riconoscere adunque in atto, e in un atto particolare, ciò stesso che io prima conoscevo in potenza e in un modo universale, perchè era nel mio spirito (1). Ma dunque se nell' essere ideale si trovano e sono già contenute tutte le cose in quanto sono possibili (2), in quel modo che la condizione è contenuta nel condizionale, la conseguenza nel principio; onde è che io non posso da lui solo svolgere la cognizione di tutte le cose? E ho bisogno che le cose stesse mi feriscano e portino in me un cotal sentimento di sè stesse, acciocchè io quasi mi svegli da un mio letargo e apra gli occhi a riconoscere che quelle cose erano anche prima in quella nozione, che in me luceva dell' essere, contenute e comprese? Ciò nasce appunto dalla mia tardità, da un cotal letargo della mia potenza di ragionare e prima di tutto dalla debolezza del mio occhio intellettivo che prende sì poco dell' essere e in cui non può quindi attingere ciò che pure vi sta, se non dopo di aver ricevuto l' impressione delle cose reali nei sensi e aver confrontate queste impressioni con quell' essere e vedutane la loro convenienza e uniformità con esso. Il che avviene in quella guisa appunto che negli enimmi, de' quali quando ci è comunicata la soluzione tutto ci riesce chiarissimo e vediamo come le circostanze indicate indicavano quella soluzione e altra non ne potevano ricevere; e tuttavia noi non l' abbiamo saputa trovare prima di udirla, per mancarci quel grado di perspicacia, che non è altro che una maggiore e più intima visione della cosa, la quale ci sarebbe stata necessaria per trovare il conveniente scioglimento dell' enimma proposto. Ora il grado di perspicacia dato alla natura umana dal Creatore non è tale, che nell' essere possa penetrar tanto da vedervi le cose determinate e compite, ma di aver bisogno per veder queste che le cose stesse agiscano nel nostro sentimento e ci lascino delle modificazioni, che sono altrettante traccie e segni di sè stesse, coll' aiuto delle quali noi interpretiamo l' ordine e la natura dell' essere in noi rispondente (1). Fissata così la similitudine che passa fra l' essere innato, che abbiamo detto anche iniziale perchè da noi si vede solo inizialmente, e l' essere divino che è l' essere completo, consistente nell' essere l' uno e l' altro puro e semplice essere; sarà facile di vedere la verità di quella proposizione da noi più sopra proferita, cioè che l' essere innato non solo è una cotale similitudine di Dio, ma altresì che egli ha più similitudine con Dio che non sia con tutte l' altre cose limitate che con esso essere noi conosciamo. Perocchè è manifesto che nessuna delle cose limitate è puro e sincero essere, ma ha in sè una limitazione, e quindi una cotale imperfezione, una potenzialità e una contingenza; condizioni che appartengono al non essere, le quali rendono quelle cose dissimili dal purissimo essere che è la luce delle menti. Anzi se noi attentamente consideriamo la maniera, colla quale noi veniamo a conoscere le cose contingenti, ci apparirà che si può dire in un senso verissimo, e l' hanno detta tutti i filosofi e i teologi, cioè che Dio solo E`, e le altre cose non sono veramente. Ecco come si spiega assai facilmente questa strana sentenza coi principii della nostra filosofia. Acciocchè noi percepiamo una cosa qualsiasi, egli è necessario che noi riceviamo la sua azione e impressione nel nostro sentimento, ed è questa impressione e sensazione che in noi produce ciò che ci fa indurre esistere la cosa che ci ha modificati: tale è la nostra percezione delle cose, e la cognizione loro è pure determinata dal fantasma o sensibile impressione rimasta nel nostro sentimento dalla loro azione su di noi. Questo discorso è così generale che vale per Dio stesso. Se non che il toccarci di Dio è un toccare proprio e distinto da ogni altra modificazione che noi riceviamo dalle altre cose. Questo è il toccamento dell' essere stesso, e ciò appunto che modifica quello che io chiamo senso intellettivo o spirituale, e non è diverso dall' intelletto se non perchè s' aggiunge un toccamento reale di un essere sussistente. Sicchè questo oggetto determina, specifica o piuttosto informa e costituisce di sè una potenza, quella dell' intelletto o del sentimento intellettivo, in una parola, la potenza dell' essere. Ora si consideri che in questa potenza niente altro opera nè può operare: essa è per tal modo esclusivamente la potenza dell' essere, e a ricevere questo solo destinata, che se un' altra cosa agisse in lei, sarebbe già per questo solo un' altra potenza, nascendo da questo la sua definizione, che essa è la potenza che presiede alla percezione dell' essere. Tutte le altre cose adunque, agendo in noi, non agiscono se non in sentimenti loro proprii, i quali sentimenti parimenti sono informati e costituiti dai loro oggetti o più veramente da quelle cose che colle loro azioni servono ai medesimi di materia. Or dunque, se col solo intelletto si percepisce l' essere, se nessun' altra cosa agisce nell' intelletto e se non percepiamo cosa alcuna se non in quanto opera su di noi, ne viene conseguentemente che delle cose tutte noi non sentiamo già l' essere, ma puramente la loro azione e che solamente per lo percepire che facciamo questa loro azione noi attribuiamo poi loro l' essere di nostro proprio moto: e così quelle che sono azioni in noi, ci diventano altrettanti esseri, non perchè, come dicevamo, noi le percepiamo come esseri, ma perchè noi le supponiamo tali, prestando e somministrando, quasi direi, noi stessi colla nostra intelligenza l' essere a tutte le cose e così costituendo in cotal modo le cose e facendole esistere. Quindi è che se non esistessero esseri intelligenti di nessuna specie, nessun ente sarebbe: il che spiega in qualche maniera quello che la teologia insegna, la creazione degli esseri nascere per un atto della intelligenza divina, cioè pel Verbo, luce di tutte le intelligenze (1); perocchè veramente la conoscibilità delle cose è ciò che le costituisce cose, e per la quale si possono chiamare enti (2). Senza la conoscibilità loro non sarebbero che come azioni o termini del solo essere, termini che non si potrebbero in alcun modo confondere coll' essere stesso, il quale, come dicemmo, è purissimo e impermisto, e rimarrebbero quindi da lui infinitamente distinti, sebbene per lui e in lui solo esisterebbero. Quindi è che la conservazione delle cose è veramente una continua creazione, e che noi, come dice la Scrittura, siamo, ci moviamo e viviamo in Dio (1); e che Dio porta tutte le cose colla sua parola (2); e che le cose tutte fuori di Dio sono vanità, sono tratte dal niente e sono niente (3). Platone, a cui piace di vestire le sue dottrine con imagini prese dalle cose sensibili, paragona le cose tutte alle ombre e Dio al corpo che produce l' ombra, e accusa di stoltezza gli uomini, i quali pigliano quelle ombre vane per cose reali e a quelle in luogo che a queste volgono i loro affetti (4). E una tale similitudine delle ombre dopo averla trovata Platone, fu ripetuta da tutta l' antichità; il quale consentimento prova la verità che in lei si riconosceva. Videro o certo travidero gli antichi savii questo vero, cui l' ideologia da noi esposta mette nella luce più patente, che altro è l' essere, e altro le azioni dell' essere e i termini di queste azioni: e videro che in tutte le cose contingenti ciò che noi percepiamo propriamente non è mai l' essere, ma unicamente sono azioni e passioni (5); e che queste azioni varie non sono l' atto primo (il quale è unico ed è l' essere stesso); e che perciò esigono un essere primo e supremo onde procedessero (6). Da questo conchiudevano che alle cose, appunto perchè mostrano in sè d' aver bisogno di essere prodotte, in una parola perchè mostrano la loro contingenza , non propriamente, ma quasi per opinione (1) si applica la parola di esseri, che solo propriamente conviene all' essere primo, per sè, non prodotto da altri, cioè a Dio. Perciò S. Girolamo: [...OMISSIS...] . Il perchè l' autore dell' Ipognostico (3) dice che anche dell' altre cose si può dire che abbiano la esistenza, ma non come si dice di Dio, il quale non ha PRINCIPIO del suo essere: laddove quelle, coll' aver preso da lui il principio di ciò che sono, cominciarono a essere. Il quale principio preso da Dio è appunto quel primo atto che, come dicevamo, le creature non hanno in sè stesse, ma loro viene in qualche modo attribuito. Il che pure esprime medesimamente il magno Gregorio, là dove, parlando delle create cose, dice: [...OMISSIS...] . E ciò rende luce su quella appellazione che Cristo dà a sè stesso di essere lui il principio, EGO PRINCIPIUM, che è quanto dire il primo atto e però l' atto universale (5). Questa è dottrina comune dei savii (1), la quale esige però non piccola fatica a così ben penetrarne chiaro il senso da non punto equivocare e prendere errore. Perocchè se Dio è quel primo atto onde tutte le cose sussistono, pare che egli si mescoli e confonda colle cose stesse: il che sarebbe non pure un dannoso errore, ma ben anco un manifesto assurdo l' affermarlo, perocchè si distruggerebbe con ciò quel Dio, che è appunto Dio per questo, che egli è tutto essere sincerissimo e da ogni mistura mondissimo. Di che è necessario tenere la dottrina del santo martire Massimo, che congiunge due veri, i quali sembrano fra loro opposti, e pure nol sono. Perocchè comincia egli dal dire che Dio si fa l' essere di tutte le cose. [...OMISSIS...] Il che S. Massimo segue poi a dichiarare più lungamente. Perocchè dopo aver detto che, rispetto alle cose che sono e si formano, Iddio è di tutte la sussistenza ed è tutte le cose, soggiunge: [...OMISSIS...] . Chi scruta adunque la natura delle cose create, chi bene attende a quello che realmente noi percepiamo quando di esse riceviamo la percezione, manifestamente conosce, che esse non sono l' essere, che esse non sono, e non ci si fanno conoscere se non come azioni e termini dell' essere (3): e che questa loro cotale vacuità, questa loro contingenza, questa deficienza di essere, ci conduce a vedere la necessità dell' essere, cioè di un primo atto immobile e universale il quale e le abbia create e le venga creando di continuo, cioè sostenendo, perchè non ricadano nel nulla. La quale mi pare una dimostrazione della divina esistenza così ferma e invincibile che nulla più: perocchè l' Essere supremo apparisce la condizione e l' origine di tutto l' universo, e ogni mente è costretta a pensare Dio prima di ogni altra cosa, come quello che è il mezzo della cognizione. Perocchè l' ente supremo è assai più certo, evidente e necessariamente esistente dello stesso universo o spirituale o materiale, che pur nessuno revoca in dubbio, perchè nessuno finalmente può nè vuole rinnegar sè medesimo. Tutto ciò prova che l' idea dell' essere, il quale luce nelle nostre menti, ha una vera similitudine [più] con Dio che colle creature, perchè le creature non sono l' essere, e Dio è l' essere, e l' essere è quello che nelle nostre menti risplende. Ma proseguiamo a rilevare i diversi tratti di questa maggiore similitudine che ha l' idea dell' essere con Dio, di quello che l' abbia colle creature. Fino che noi consideriamo la pura e sincera nozione dell' essere senza aggiungervi cosa alcuna, noi troviamo che quest' essere semplice non può non essere, perocchè [è] assurdo e contradditorio il dare all' essere il predicato di non essere. Quindi egli è necessariamente immutabile e eterno. Ora questa immutabilità e eternità si ravvisa egualmente nell' ordine delle idee e nell' ordine delle cose appartenenti alla divinità: il che costituisce una nuova similitudine fra l' idea dell' essere innata nella nostra mente e Dio. All' incontro tutte le altre cose non sono l' essere: non ripugna adunque per esse il non sussistere, quando anzi sussister non possono senza che l' essere a ciò [le] aiuti e spinga. Quindi la contingenza delle cose porta in esse la possibilità di mutazione e di una vicenda di nascimenti e di distruzione: il che le rende dissimili come dall' essere sussistente, così dall' essere ideale. E da questa mutabilità appunto delle cose e difformità loro dalla natura e proprie condizioni dell' essere i savii antichi conchiudevano, che ad esse non appartiene propriamente l' essere e il denominarsi enti. Eraclito, secondo la testimonianza di Plutarco, diceva non poter noi entrar due volte nello stesso fiume; e simigliantemente nessuno poter toccare due volte la mortale sostanza soffermata quasi in un medesimo stato, perchè essa per un continuo e repentino impeto di mutazione di subito si dissipa e di bel nuovo si raccoglie: o anzi non di nuovo e non di poi, ma nell' istante medesimo esiste e finisce, se ne viene e se ne va. E che è dunque, soggiunge, ciò che veramente è? Per fermo quel solo che è sempiterno, che non ha nascimento nè morte e a cui nessuna vice di tempo reca mutazione (3). Nel dichiarare il qual vero è in più luoghi delle sue opere Sant' Agostino, e particolarmente nel trattato XXXVIII sopra di S. Giovanni, in occasione di spiegare quelle parole di Cristo: « Se voi non crederete che io sono« ». Ivi fra le altre cose dice: [...OMISSIS...] . Per tutte queste considerazioni si rende quindi manifesto, che se le cose assolutamente parlando non sono l' essere, e se all' incontro la luce della mente è l' essere stesso semplicissimo, quelle non possono avere con questa luce quella vera e propria similitudine che ha colla medesima l' essere divino, cioè l' essere semplicissimo, assoluto, sussistente. E qui si chiederà in che modo il nostro spirito possa conoscere le cose, se non vi ha similitudine vera e propria fra le cose e l' idea colla quale il nostro spirito conosce le cose. E qui rispondo che perciò appunto noi per conoscere le cose contingenti abbiamo bisogno del senso e di un senso diverso al tutto dalla potenza intellettiva, perchè questa è troppo alta, e le cose contingenti non hanno alcuna proporzione con lei, sicchè esse non possono esservi ricevute. Sicchè è un' altra potenza, un altro senso quello che le percepisce, e per restringerci alle cose corporee, è il senso animale. Ricevute poi nel nostro senso animale, cioè a dire ricevuta la passione che esse vi cagionano con una reale azione, NOI che siamo pur quelli stessi, che come animali sentiamo e come intelligenti vediamo l' essere, diventiamo come i mediatori fra le cose contingenti e l' essere, diventiamo l' anello col quale si congiungono quelle a questo, veggiamo quelle e veggiamo questo, e veggiamo il rapporto fra quelle e questo. Allora annunziamo a noi stessi questo rapporto, il che è pronunciare la parola interiore ossia il verbo, e diciamo: questa passione è l' effetto di un essere; ossia qui dove c' è questa passione, c' è un essere operante: in tal modo diamo l' atto dell' essere, il primo atto a quelle passioni che per sè non sono se non atti secondi i quali perciò presuppongono il primo: e in dicendo così noi veggiamo tanti varii esseri quanta è la varietà delle passioni; ma conosciamo che tutti questi esseri non hanno se non la forza di un solo essere che li sostenti, cioè l' essere puro, fonte e creatore di tutti. Così è che al sentimento delle cose noi aggiungiamo un' operazione dello spirito che noi diciamo percezione intellettiva e che gli antichi chiamavano anche opinione . Perocchè è con questa dichiarazione che abbiam data, che rendesi facile a intendere quell' antica dottrina che abbiamo più sopra toccato sol di passaggio, cioè, che« le cose divine e sempiterne, dicevamo, e tutte, come io ho mostrato, si riducono all' essere ideale e reale, si conoscono mediante la mente; ma le cose contingenti o soggette a nascere e morire, si conoscono pel senso e per la opinione«. Togliamo dall' antichità un altro luogo dove sia espressa questa dottrina. Eusebio nell' opera della Preparazione evangelica (1) toglie a esporre la dottrina di Platone intorno a Dio, e comincia dicendo essere stata sentenza di quel filosofo ateniese, che « a Dio è proprio di essere, e delle altre cose è proprio di non essere« ». E poi seguita a narrare la platonica dottrina in questo modo: [...OMISSIS...] (cioè quello che si genera e muore e veramente non è) (1). Un' altra riflessione non posso ommettere qui. Le cose tutte, dicevano questi antichi savii del gentilesimo non meno che quei del cristianesimo, non sono veracemente, perchè di Dio solo è ogni essere, essendo egli solo tutto l' essere, e in breve e semplice parola, più della quale non si può andare, essendo l' ESSERE (2). E tuttavia le cose si fanno credere all' uomo come esistenti, cioè a dire l' uomo, dimenticandosi del primo essere, si ferma negli esseri secondi e in essi talora finisce colla sua mente: il che è un dar loro quello che solo a Dio è proprio, è un divinizzare le creature. Quindi ebbe sicuramente la profonda sua origine l' idolatria della natura e di tutte le cose create. Ora a ciò viene l' uomo tirato e lusingato da quella apparenza di esistenza che mostrano le creature stesse; e indi è che tutte le cose stesse per questa faccia di esistenza che mostrano, la quale è come una maschera e bellezza vana che seduce e trae a crederle qualche cosa per sè stesse, sono chiamate ora« vanità«, e ora« menzogna«, e che Dio solo è detto dai Padri essere verità. Questa dottrina s' incontra di frequente in S. Agostino; ma io mi restringerò qui a recare in mezzo solo un passo tolto dal libro intitolato Della cognizione della vera vita , per non essere infinito. Vi si dice adunque di Dio così: [...OMISSIS...] . Dalle quali cose apparisce, che l' essere impresso nella mente è una similitudine di Dio: che quell' essere ideale è più simile a Dio che non sia alle creature: che per ciò Dio si conosce immediatamente in virtù di quell' essere, ove che a noi si manifesti; ma che le cose contingenti non si percepiscono in questa pura nozione dell' essere, ma in un loro proprio sentimento; il qual sentimento sarebbe cieco e incognito se il nostro spirito non lo richiamasse all' essere stesso e non lo considerasse come un' azione sua, come un suo termine (2), e così lo illustrasse. Egli è mediante questa operazione che fa la mente che si predica l' essere di Dio e delle creature univocamente, come ho altrove affermato. Questa univocazione del nome di essere applicato a Dio e applicato alle creature, deve intendersi per modo che l' essere, che affermiamo comune, non sia tale se non nel concetto che noi possiamo avere delle creature e di Dio: perocchè noi non possiamo avere concetto di nessuna cosa se non a questa condizione che vi uniamo la nozione dell' essere, la quale in tal modo diventa comune. Laddove se noi vogliamo considerare Dio e le cose in sè, nella loro propria sussistenza, noi dobbiamo ben chiaramente accorgerci, che l' essere non si può applicare alle creature se non come loro sostegno e causa, ma non come elemento, il quale entri a comporle. Perciocchè l' essere non è proprio se non di Dio solo (4). E` dunque per l' imperfezione, nella quale sussiste l' essere nella nostra mente, che noi l' applichiamo indifferentemente a Dio e alle creature: il quale essere se fosse da noi in perfetto modo veduto, nol potremmo applicare più alle creature, quasi che esse lo avesser da sè, ma vedremmo piuttosto in lui, incommunicabile come egli è e indivisibile, le creature stesse come in loro causa e radice sussistere. Perocchè l' essere che è nella nostra mente, per sì tenue modo il veggiamo che è piuttosto un iniziamento di essere che l' essere stesso, e per ciò sotto questo aspetto, quasi diversando dall' essere, non disconviene applicarlo alle creature; e anzi applicandolo al Creatore non ci dà la piena notizia di lui (5). La quale non si può avere, come abbiamo mostrato, se non in percependo la stessa sussistenza sua, nella quale l' essere ideale viene compiendosi e unificandosi coll' essere reale. La volontà dell' uomo tende al bene conosciuto. Tanto adunque si stende l' affetto della volontà, quanto si stende il bene conosciuto. Perocchè fatta la volontà, come si diceva, pel bene, non può mettere un limite alle sue proprie forze, ma ove che un bene le apparisca, ivi necessariamente deve tendere coll' affetto del desiderio, e non può non volere qualsivoglia bene, se non a condizione di considerarlo sotto aspetto di male, cioè come impeditivo di bene maggiore: sicchè il movimento dell' umana volontà non è mai appieno e necessariamente quietato, se non ha t“cco e ottenuto il bene conosciuto. Chi vuol dunque vedere quanto si allarghi il pelago dell' umano desiderio, basterà che misuri quali e quanti sieno i beni che può conoscere: la sfera della volontà è quella medesima dell' intendimento. Ora l' intendimento è formato dall' idea dell' essere in universale e però non ha limite alcuno se non l' infinito. Perocchè, dopo aver conosciuto quali e quanti si vogliano degli esseri finiti, l' uomo può pensare e foggiarsene sempre degli altri, perchè nessuna eccellenza o quantità di beni finiti può mai adeguare l' essere universale, col quale l' uomo pensa, e però ha sempre mai in sè onde pensarne degli altri, e finchè non è pervenuto a pensare un essere al tutto senza limiti e da ogni parte infinito, resta sempre all' uomo un progresso d' intendimenti senza misura nè fine (1). Quindi come il moto dell' intelletto non trova posa e termine se non giunto nell' infinito essere, così parimente la volontà non può interamente cessare dal suo moto e desiderio se all' infinito bene non sia pervenuta. Tale è costituita la natura umana: e tale è pure la natura di qualsivoglia essere intelligente e volitivo. Or poi la volontà non si unisce pienamente al bene se non per una cognizione reale; non potendola soddisfare pienamente una congiunzione solo incoata, quale è quella dell' essere ideale (2). Premesse queste notizie sull' intrinseca natura dell' uomo e delle sue potenze, apparisce manifestamente che l' uomo costituito nell' ordine puramente naturale sarebbe stato imperfetto, perchè non avrebbe avuta giammai la congiunzione reale di quel sommo bene a cui la sua volontà è indeclinabilmente volta e nel quale solo può appieno saziare il suo desiderio: come pure il suo intendimento per trascorrere di una in altra cognizione di tutti gli esseri finiti, non avrebbe ottenuto giammai riposo alcuno, ma infaticabilmente si sarebbe aggirato in continua mutazione di oggetti da lui contemplati e non trovato cibo a sè proporzionato veramente in nessuno (1). Nè io voglio affermare per questo che l' uomo, anche lasciato da Dio nello stato naturale, sarebbe stato al tutto misero, o che sarebbe necessariamente scaduto a cercare nelle creature una felicità a lui impossibile di ritrovare rendendosi in qualche modo colpevole. Ma dico solo, e ciò appar manifesto dalla natura dell' essere e del bene in universale a cui tende in lui l' intendimento e la volontà, che gli sarebbe mancato il più e il meglio di quella felicità e tutta quella dignità morale, di cui la sua natura è capace, e che però sarebbe stato imperfetto. Indi appare sì conveniente all' uomo, come conveniente parimenti a Dio, le cui opere son tutte perfette, come dicono le Scritture, che l' uomo fosse non pure fornito d' intelligenza, ma ben anco costituito in grazia, solo mezzo onde possano essere compiutamente soddisfatte le supreme sue esigenze e riempita l' immensa capacità della stessa sua intelligenza. La grazia perfeziona nell' uomo e compisce l' essere a lui presente. L' essere che in quanto è veduto naturalmente dall' uomo, è una similitudine di Dio, quando è compiuto dalla grazia riceve una nuova nobiltà, un nuovo carattere, che può ricevere acconciamente e propriamente la denominazione d' imagine di Dio. Conviene ben determinare il valore di questa parola imagine per conoscere la verità di ciò che io dico: nel che seguiremo S. Tommaso che pone sempre grande accuratezza nel precisare il significato delle parole le quali egli usa. Dice adunque il santo Dottore, che ogni imagine è una similitudine ; ma tuttavia non qualsivoglia similitudine basta ad avere concetto d' imagine (1). L' imagine è una similitudine delle più perfette: e in che poi mette egli questa perfezione maggiore della similitudine per la quale essa prende convenientemente il nome d' imagine? In due note, sottilmente assegnate da S. Tommaso, dietro le ecclesiastiche tradizioni. La prima è che la similitudine riguardi la specie, cioè l' essenza specifica della cosa (2), perchè se le cose fossero simili solamente in qualche parte non riguardante la specie, l' una non potrebbe essere imagine dell' altra. La seconda, che l' imagine sia espressa, cioè cavata dalla cosa di cui essa è imagine; sicchè un fratello non direbbesi imagine del fratello, ma bensì direbbesi il figliuolo essere imagine del padre: e così parimente una testa idealmente dipinta non direbbesi acconciamente ritratto di chichessia, eziandio che si abbattesse a essere simile al volto reale di un uomo; perchè noi congiungiamo sempre col concetto d' imagine questa relazione di lei colla cosa imaginata, la quale fece da originale o modello onde l' imagine si ritrasse. Chiarito così il significato della parola imagine , parmi essere facile il vedere la verità della nostra proposizione: che la grazia nell' uomo è una vera imagine di Dio. E veramente l' essere che costituisce la naturale intelligenza dell' uomo, sebbene similitudine di Dio, non si può però chiamare propriamente imagine, se non potenzialmente, nel qual senso lo chiamano talora imagine i Padri (1). Egli non è se non un lume che precede la imagine, che la rende possibile, che le prepara la via e quasi direi ne fa nell' uomo il disegno a nudi contorni, il quale aspetta poi di essere dal sommo e eterno Artista realmente eseguito (2). E veramente l' essere in universale innato nella mente non è Dio, non è nè pure propriamente parlando una nozione di Dio: egli per ciò non può essere un' imagine di Dio, perchè nè è simile a Dio nella specie, nè è un segno della specie divina. Un segno della specie o natura divina è la concezione dell' essere divino che col lume naturale si può fare in un modo negativo, ma ella non importa una vera imagine, appunto perchè è negativa e nulla viene espresso in essa della divina natura. Oltracciò questa concezione, se si vuol anche chiamarla imagine, non è connaturata nell' uomo, ma acquisita e aderente come una pura idea. E noi favelliamo di quella imagine che sta impressa o può essere impressa nella stessa natura dell' uomo. Dicemmo che l' essere universale non è simile a Dio nella specie, nè ad un segno della specie divina. E veramente l' essere innato non può essere simile a un segno della natura divina, perchè la natura divina non ha segni naturali che sieno atti a rappresentarla, come la figura rappresenta l' uomo o un altro animale (4). Non può poi essere simile a Dio stesso in quanto alla specie, perchè la specie di Dio non è che la sostanza di Dio, ossia la divina sussistenza; e nell' essere noi non vediamo nè percepiamo alcuna realità, alcuna sussistenza, ma puramente una idealità che è quanto dire una possibilità di essere: dal che è intieramente aliena e dissimile la divina sostanza, che ha il sussistere per sè e in sè medesima. Or dunque qual cosa potrà essere imagine di Dio? Qual cosa potrà somigliar a Dio in quanto alla sua stessa specie o sostanza? Chi potrà avere qualche cosa di simile col sussistere stesso di Dio? Certamente perchè una cosa sia vera imagine dell' altra, questa imagine deve avere qualche cosa di comune coll' altra appartenente alla natura dell' altra. Questa è dottrina ferma della filosofia, non meno che della cristiana tradizione. [...OMISSIS...] E S. Giovanni Crisostomo parimente osserva: che nessuno a cui fosse ignoto l' oro potrebbe vedere la natura di questo metallo rimirando l' argento, appunto perchè una natura non si fa già vedere mediante un' altra natura diversa (2). Ora che cosa può Iddio aver di comune con qualche altro essere? Può forse avvenire che una parte della sostanza appartenga, sia posseduto da altri in proprio, come elemento o parte comune? Impartibile è la divina sostanza, e per ciò essa o deve trovarsi tutta, o non può trovarsene una sola parte, siccome può avvenire negli esseri creati che hanno delle qualità comuni e delle qualità proprie, appunto perchè non sono perfettamente semplici. Indi è a dire, che non può esistere una vera imagine di Dio se questa imagine non sia Dio stesso avendo in sè tutta intera la divinità: perchè rispetto a Dio non vale l' esempio delle creature delle quali si danno imagini che partecipano della sostanza o natura delle cose ritratte, ma non di tutto, e solo di una parte, e talora anche accidentale e tenue, ma bastevole però a sentire il segno della sostanza, come avviene de' corpi mediante le loro figure. Indi è che i maestri delle teologiche dottrine insegnano concordemente, non darsi di Dio se non una vera, propria e piena imagine, e questa essere il Verbo eterno che possiede in comune col Padre e collo Spirito Santo tutta intera la divinità dal Padre, ab aeterno ricevuta. Perciò dice S. Ilario: [...OMISSIS...] . Il perchè gli Ariani e altri eretici che detraevano alla divinità del Figliuolo, furono convinti di errore dai Padri pur con questa sola parola di imagine, attribuita dalla divina Scrittura al Figliuolo, che dimostravano non potersi punto nè poco dire imagine di Dio se non avesse tutta la natura sostanziale di Dio. E da questa sola dottrina, che vi ha una sola imagine di Dio e questa stessa è Dio, si rendono chiare quelle parole di Cristo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (2) ». Imperocchè, se il Figlio è diverso di sostanza dal Padre, in che maniera si può vedere il Padre nel Figlio? Che se una statua di legno non può conoscersi in una statua di pietra, perchè non è della stessa sostanza; e se non una pietra nel legno e non il legno in una pietra si vede per la diversità delle sostanze, conseguente cosa è che Dio Re dell' universo si conosca nel suo Figliuolo consostanziale. Conciossiachè in quelle cose che sono della medesima specie, appena vedute, si ha notizie anche di quelle non vedute, per ciò appunto che sono consostanziali (3). Dalle quali tutte cose manifestamente apparisce, che Dio solo può essere vera imagine di sè stesso e che a nessuna creatura compete un titolo tanto eccellente. Or di qui tuttavia apparirà che per la grazia invece viene nell' uomo impressa l' imagine divina. Ciò risulta dalle cose esposte nel libro precedente, dove abbiamo mostrato, tenersi, secondo l' ecclesiastica tradizione, che la grazia si faccia mediante un' operazione reale di Dio nell' anima umana (4): per la grazia essere Iddio formalmente congiunto coll' uomo (5) e quindi diventar lui un vero tempio di Dio. Lo stesso vero apparirà fornito di maggior luce ove si consideri insegnare l' ecclesiastica tradizione, che il principio della rivelazione soprannaturale è il Verbo divino, l' imagine del Padre, sia in un modo occulto, come nell' antico Testamento, sia ancor più nel nuovo, nel quale parla il Verbo manifesto (7). Di più ancora, [ciò apparirà, se si considera] che il Verbo divino si fa ancora per opera dello Spirito Santo il principio della santificazione e della grazia (1). Perocchè lo Spirito Santo non fa, come insegnano i Padri, se non chiarificare e quasi accendere il Verbo nelle anime nostre. La relazione esterna è quasi simile ad esca preparata nel f“co di volta elittica, la quale s' accende agevolmente se nell' altro f“co della volta si mettano dei carboni accesi: oppure è simile a face che collocata innanzi a terso specchio pur col suo accendersi accende altresì nello specchio la stessa [face] e fa brillare una luce eguale a sè. Tale lo Spirito Santo pur coll' entrare nell' anima vi accende in essa il Verbo, che è quanto dire la vera imagine di Dio Padre. Egli è per questo, come abbiam veduto, che lo Spirito si paragona a un suggello che, impronta, per mezzo della fede che vi accende, nell' anime il Verbo, nel quale, cioè in Cristo, credendo, dice l' Apostolo Paolo, siete improntati collo Spirito di promissione santo (3). E ancora: E non vogliate contristare lo Spirito Santo « di Dio, nel quale siete suggellati pel giorno della redenzione« (4) ». Il perchè Didimo scriveva: [...OMISSIS...] . Quindi è che non pochi Santi insegnano che l' imagine di Dio nell' uomo non si dà se non per lo Spirito Santo, perocchè appunto allo Spirito Santo si attribuisce la grazia e il segnare le anime colla comunicazione del Verbo, de' quali recherò solo S. Cirillo di Alessandria: [...OMISSIS...] . Da tutte le quali cose apparisce che l' imagine di Dio non è l' uomo, se non perchè essa imagine è nell' uomo, a quella guisa che l' imagine di Cesare sulla moneta è sulla moneta, e non è la moneta materialmente considerata: la quale imagine di Cesare sulla moneta è tratta appunto da S. Agostino a significare l' imagine di Dio impressa nelle anime nostre (1). Apparisce per conseguenza esser la grazia quella che nell' uomo mette questa imagine, ad esser quest' imagine, di cui l' uomo si adorna, una partecipazione dell' unica e vera imagine della sostanza divina, il Verbo eterno. A queste verità si riferiscono le parole di S. Paolo: « Quelli che egli ha presciti, ebbe anche predestinati, acciocchè si facessero conformi all' IMAGINE del Figliuol suo« (2) »: a cui soggiunge l' Apostolo: « Acciocchè egli sia primogenito fra molti fratelli« ». Nelle quali parole si vede espresso il modo onde noi diveniamo imagini di Dio, cioè per diventar fratelli che facciamo del solo vero natural Figlio di Dio, di quello perciò che è solo naturale imagine del Padre, a cui noi ci rendiamo conformi appunto con affrattellarglici. Questa è dottrina comune de' Padri, ed è espressa da Prudenzio in que' versicoli: [...OMISSIS...] Conveniente cosa era sì al bisogno dell' umana natura e sì alla divina bontà che l' uomo fosse da Dio costituito in un ordine soprannaturale (3). E che in tal modo fosse costituito da Dio Adamo, è dottrina tradizionale della Chiesa. Nè vi era ragione perchè s' interponesse tempo in mezzo fra lo stato naturale e il soprannaturale dell' uomo, nè nulla vi ha di repugnante che Iddio nel medesimo istante desse all' uomo la natura e la grazia. Anzi non si dubiterà di ciò ove si facciano le seguenti considerazioni. In primo luogo, il lume della grazia congiunto a quello della natura non forma già due lumi o due vite, ma un lume solo e una vita sola: conciossiachè il lume soprannaturale può dirsi che è l' essere medesimo più manifestamente veduto, veduto di più forte luce a segno di percepirne, in qualche modo, la sostanza. Ed egli è pur verosimile che, volendo Iddio dare all' uomo luce e vita, gliel' abbia data in quella misura che gli bisognava e non già partita, cioè glien' abbia data prima una porzione insufficiente, per dover poi dargliene un' altra e così soddisfare al bisogno rimasto non adempito colla prima: quasi come chi non ha a pagare la somma intera di un tratto, che soddissfa al suo creditore pagandolo in tre rate. Il che non si può pensare di Dio. In secondo luogo a ciò consuona la narrazione, chi ben la consideri, che si fa nella divina Scrittura della istituzione dell' uomo. Perocchè dottrina fermissima della Chiesa è, come si disse, che Adamo ebbe da Dio non meno la grazia che l' intelligenza. Ora, dove si narrano queste due cose nel Genesi? Si descrivono forse due operazioni distinte di Dio, coll' una delle quali egli desse all' uomo il lume dell' intelligenza e coll' altra quel della grazia? Nessun vestigio di distinzione di questi due atti si ritrova. Vi si dice bensì che, dopo l' uomo di terra, Iddio soffiò in lui lo spiracolo della vita (1). Queste sole ed uniche parole si usano a narrar tutto ciò che l' uomo ricevette da Dio oltre il corpo (2). Ora o convien ammettere che in quello spiracolo di vita, che Dio soffiò in faccia di Adamo, si contenesse unitamente l' intelligenza e la grazia, oppure convien dire che il racconto del sacro storico sia manchevole e non narri pienamente l' istituzione divina dell' uomo primitivo, che è pure il massimo oggetto di cui tratta quel sacro libro. Perocchè se quelle parole: Iddio spirò nella faccia di lui lo spiracolo della vita; si devono intendere della sola intelligenza naturale, ove è la grazia datagli pur da Dio? o se si intende solo della grazia, ove è la narrazione dell' intelligenza, di cui l' ha fornito? Sicchè quello spiracolo di vita (3) si deve intendere non meno del lume naturale che del soprannaturale, che, ove sono insieme , non formano che uno e medesimo lume, perchè sono pur uno e medesimo essere. E quelle parole che seguono: « E l' uomo fu fatto in anima vivente« »; si devono intendere non meno della vita del corpo che di quella dell' anima: anzi ogni vita comprendono quelle parole e l' animale e l' intellettiva e, almeno in genere, la divina o di grazia. Perocchè tutte queste sono quasi altrettanti gradi di partecipazione d' una medesima vita: di che risulta che Dio fece vivo Adamo in quella maniera che gli bisognava essere vivo; diede a lui una vita non difettosa, ma piena, compita in tutte le sue parti; gli diede insomma quella pienezza di vita che alla capacità dell' umana natura si conveniva e alla sapienza dell' ottimo Creatore, le cui opere sono sempre perfette, come dice la Scrittura. Finalmente si può comprovare lo stesso vero da quel principio che pone l' angelico Dottore, fedele seguace anche in questo del gran Vescovo d' Ippona, cioè: [...OMISSIS...] . E veramente questo è secondo l' ordine di un sapiente operare, e tale costantemente apparisce in tutte le altre cose il modo dell' operare divino, cioè di porre a principio i germi di tutte le cose e quindi commetterne al tempo il loro sviluppamento, senza bisogno di rimettere quasi di bel nuovo la mano all' opera sua per t“rne via l' imperfezione. Quindi nel seme è racchiusa la pianta intera, quindi nell' embrione è già contenuto tutto l' animale. L' esser piccole le nature e nei loro esordii, non toglie loro l' esser in cotal modo perfette. E tale certamente fu da Dio fin dal momento costituito questo universo, sì nelle parti sue che Dio vide esser buone dopo averle create, sì nel suo tutto che vide essere buono assai. Le quali denominazioni di buone e di assai buone indicano manifestamente quella perfezione compiuta di che parliamo: perocchè Iddio non avrebbe semplicemente data l' appellazione di bontà alle cose, se fossero state manchevoli e disgiunte da quel Dio, a cui son fatte e il quale solo è buono. Di qui è che S. Tommaso conchiude che l' Angelo doveva essere stato creato in grazia; e che egualmente si può conchiuder dell' uomo, e dice che l' uomo ad un tempo coll' intelligenza deve aver ricevuto la grazia, quale seme e principio di tutto ciò, in che si doveva poscia sviluppare l' umana natura nell' ordine soprannaturale (2). E tutte queste cose dànno aiuto, perchè si dia un senso preciso e luminoso a quelle parole del Genesi, colle quali si narra appunto l' istituzione prima dell' uman genere: « Facciamo, dice Iddio, l' uomo a imagine e similitudine nostra« (1) ». Dove pare che per similitudine venga espressa l' intelligenza e per imagine la grazia: usa due parole a significare i due semi, per così dire, posti nell' uomo a principio dai quali germinassero poi i due ordini, il naturale, dico, e il soprannaturale (2). La quale dichiarazione sembra potersi confermare anche da ciò che il sacro storico, dopo aver detto che Dio si propose di formar l' uomo a imagine e similitudine sua e narrato come lo formasse, soggiunse: « E Iddio creò l' uomo a imagine sua, a imagine di Dio lo creò« (3) ». Dove non replica più la parola similitudine come quella che era già contenuta nella parola imagine: e questo che il fece a sua imagine il replica due volte, quasi per mostrare che in essa è tutto il nerbo e la perfezione della dignità umana. Ma io non dò tuttavia questa interpretazione per sicura: e se più si vuole, al mio intento giova egualmente e forse meglio, che quelle due parole d' imagine e di similitudine non si cerchi distinguerle e separarle, ma si prendano tutte due insieme per un cotal superlativo, che venga a dire un' imagine assai simile (4). Poichè con questo aumento di forza nel significato della parola si viene a dire, che non una semplice similitudine era messa nell' uomo da Dio, ma un' imagine assai somigliante, cioè non la sola intelligenza ove sta la similitudine, ma anco la grazia che rende questa similitudine una vera e viva imagine per la partecipazione appunto del Verbo, prima e sola imagine della divina sostanza. Nella quale interpretazione verrebbe ottimamente espressa quell' unità del lume naturale e soprannaturale, e si porrebbe questo come un cotal grado maggiore, un cotal perfezionamento di quello, che è ciò appunto che noi diciamo; il perchè questa interpretazione di buona voglia alla precedente noi preferiamo. E fatta una cosa sola di quella imagine e similitudine che accenna la Genesi, torna vero che quest' impronta non si scancella dall' anime interamente per lo peccato, dopo il quale rimane la natura umana e in essa il lume dell' intelligenza, come osserva S. Agostino. Ma questa cotale impronta non è veramente detta imagine con intera proprietà della parola (1). All' opposto se si voglia separare l' una cosa dall' altra e pigliare il primo grado di lume cioè il lume naturale per una similitudine, e al secondo grado di lume cioè al soprannaturale riserbare il nome d' imagine; in tal significato imagine di Dio è solo il Verbo, e l' uomo è per la partecipazione del Verbo, come dicevamo. In questo senso della parola imagine, che è il più vero, dice S. Ambrogio: « Nisi per imaginem Dei (per il Verbo) ad imaginem Dei esse non potes (2) ». S. Cirillo d' Alessandria nel medesimo sentimento così si esprime: [...OMISSIS...] . S. Atanasio parimente: [...OMISSIS...] . Indi è che S. Basilio chiama il Figliuolo imagine effettrice d' imagine (2), perchè egli, imagine di Dio vera, produce in noi la stessa imagine sè a noi comunicando: di che egli è come un suggello rispetto all' anima nostra e lo Spirito Santo è quello che lo usa sigillando in noi quella che viene chiamata anco faccia o volto di Dio (3). E di qui si sente il valore di quelle parole che disse Cristo parlando di sè stesso: « Hunc enim Pater signavit Deus (4) »; volendo dire: questo è il suggello improntato di Dio Padre che suggella l' anime mettendovi l' effige divina. E pare che il peccato di quel Cherubino di cui dice Ezechiele per ischerno: Tu sei il suggello della similitudine (5); fosse appunto questo, di aver usurpata quella prerogativa che al solo Verbo divino si addice, d' essere vera imagine di Dio e suggello che impronta la stessa imagine nelle intelligenze. E per conciliare questi Padri e molt' altri, i più della Chiesa Orientale, che potrei addurre (6); i quali sostengono che « l' imagine di Dio nell' uomo è solo il Verbo coll' anima dell' uomo congiunto« », con S. Agostino al quale non piace udire che l' imagine di Dio si spenga col peccato, ponendola perciò appunto quest' imagine non solo nella Grazia, ma ben anco nella natura dell' uomo; per fare, dico, questa conciliazione, senza mutare il significato vero e proprio della parola« imagine«, ecco qual mi sembra la via sicura e coerente colle teologiche dottrine. Il Verbo solo è l' imagine di Dio. Nell' uomo adunque preso naturalmente havvi l' imagine di Dio a quel modo che nella natura delle cose v' hanno i vestigi della Trinità. Questa è sicuramente la mente di S. Agostino e di S. Tommaso, i quali sostengono essere nell' uomo naturale l' imagine di Dio, non meno in quanto alla divina natura che alle persone (1). Ora i vestigi delle Persone divine sparsi nella natura eziandio ragionevole non sono tali se non per una cotale appropriazione che noi facciamo di quelle qualità all' origine delle divine Persone, e non perchè siano veramente atte a rappresentarle (2). Medesimamente l' imagine di Dio uno e trino è nella mente umana per una cotale appropriazione che noi facciamo. Ma là dove si parla di un' imagine non per appropriazione, ma secondo la proprietà della parola, l' imagine di Dio è nell' uomo per la Grazia, allora quando si fa nell' uomo l' operazione deiforme, e si compie quest' imagine mediante l' operazione triniforme, nella quale il Verbo a noi si comunica. Iddio creò l' uomo in tutte le sue potenze perfetto: lo rese immantinente attivo e parlante (3). Ma l' uomo con tutte le sue potenze non aveva in sè la propria felicità, appunto perchè le potenze non sono che mezzi di ottenere questa felicità, non sono che un vaso che dimanda di essere riempito. L' uomo non trovava dunque in sè stesso se non un vuoto: ma poteva egli forse meglio trovare il bene che lo satollasse nella natura? No, la natura, l' intero universo materiale era minore di lui, dotato d' intelligenza: e egli stesso, tanto eccellente, era pur solo una capacità, come dicevamo, una capacità infinita. Questa creatura adunque aveva un essenziale bisogno di Dio perchè fossero pienamente appagate le sue brame (1). I filosofi trovano strano che la creatura abbia bisogno del suo Creatore, e vogliono che essa pur basti a sè stessa. Ma quanto sono lontani dal conoscere la natura umana! Che questi sieno esseri così insociabili fra di loro, i quali non possano avvicinarsi, agli occhi della filosofia? Anzi qual ferocia d' animo muove i filosofi a decretare sì crudele separazione? Proibire alla creatura di accostarsi, rifugiarsi nel seno del suo Creatore? Proibire al Creatore di accogliere la creatura che a lui rifugge, o vietargli di trastullarsi a suo senno con essa, di non addomesticarsi amorevolmente all' opere delle sue mani? Che enti sono questi, che dicono all' Eterno che li ha formati: « ritirati da noi, noi non vogliamo la scienza delle tue vie?« (2) ». Ma e dove si ritirerà il Creatore, se deve uscire dalle creature? Vi ha cosa o luogo che non sia da lui creato? E uscendo da tutta la creatura, questa potrà sussistere da sè sola? Non si trova contro natura o inconveniente che il padre conversi coi figliuoli suoi e i figliuoli col padre, che conversino gli amici fra loro: e la filosofia razionale avrà finalmente scoperta questa sì grande verità, che a Dio solo sia proibito di manifestarsi palesamente agli uomini da lui tratti dal nulla, sotto pena di essere dichiarato stolto, perchè non ha formato gli uomini in modo da non dover avere bisogno di lui? Che dissennatezza, o piuttosto che furore è codesto? Imperocchè i selvaggi non hanno giammai pensato cose nè tanto goffe nè tanto ripugnanti nè tanto stomachevoli come queste dei filosofi naturali. Niente adunque di più confacevole alla natura dell' ordine soprannaturale alla natura congiunto; il quale non è poi altro se non un cotale compimento di perfezione che esige necessariamente la limitazione di essa natura, la qual solo coll' unirsi col suo Creatore ottiene la sua ultima cima e perfezione, e coronata, quasi da Dio, acquista consistenza, dignità, partecipa di quegli attributi divini nei quali solo risiede la nobiltà e l' eccellenza (3). E perocchè le opere di Dio sono tutte perfette, come dice la Scrittura, ed egli è senza modo sapiente ed ottimo, perciò non poteva tener l' opera sua dentro i termini di un finito e limitato bene; ma doveva naturalmente volgerla a un bene infinito, a sè ordinandola e congiungendola. Di che la Scrittura dice « aver Egli operate tutte le cose per sè stesso« »; chè veramente il dare un altro fine alle cose men grande che un infinito, sarebbe stata causa dissonante dall' infinita sua potenza, sapienza e bontà; e con questo fine, ogni universo che gli fosse piaciuto creare, grande o piccolo, conteneva tuttavia la dote di una somma perfezione e di un valore impregiabile (2). Ed ora questa comunicazione loro quasi per una cotal legge naturale riusciva come l' apice alle creature sue, per la quale Egli medesimo congiunto e direi quasi il comignolo dell' universo doveva finire nella« grazia«, cioè in una comunicazione interna e reale. La quale grazia attribuendosi allo Spirito Santo, avviene che il Santo Spirito riceva dai Padri la denominazione di « forza perfezionatrice« (3) », come quello che tutte le opere di Dio ultima e perfeziona (4). Non solo adunque non è indegno della sapienza divina l' aver creato il mondo con un bisogno essenziale del suo Creatore, ma Dio stesso non poteva anzi far altro, se pur voleva che nel mondo fossero degli esseri intelligenti, per la necessità che hanno questi di ricercare incessantemente un infinito; ma se anche avesse potuto fare altramente, non sarebbe stato il farlo condecente alla sua somma bontà, e perciò immensamente diffusiva. Se però era uopo che Dio si comunicasse ad Adamo, il modo però del farlo conveniva che fosse soave, come è tutto l' operare divino e accomodato in tutto e per tutto all' umana natura. Per ciò come l' uomo ha una parte di sè interiore consistente nell' anima intellettiva, e una parte esteriore, cioè il corpo sensitivo; e come questo corpo sensitivo col quale l' uomo è in comunicazione coll' universo materiale, è ordinato a dover essere ministro all' anima delle notizie delle cose e eccitamento alle sue nobili operazioni: così conveniva che anche il Creatore influisse nella creatura per questa via esteriore e per essa, quasi direi, si introducesse nell' anima, quasi pei meati proprii di questa natura, mista di materia e di spirito. E però il Genesi ci dipinge Iddio che va diportandosi per lo giardino della delizia, quasi a pigliarvi l' aria che spira dopo il meriggio, probabilmente con aver prese forme simili alle umane e fors' anco le forme stesse che furono poi della umanità assunta dal Verbo. Tutta quella descrizione che fa il Genesi del Creatore che conversa colla sua creatura, mostra cosa somigliante a un padre che vive dimesticamente in mezzo della sua famiglia e tratta con soavità e dignità insieme co' suoi figliuoli. Questo Dio non era il Dio inacessibile nè qualche cosa di straniero e di remoto in lontanissima regione, ma era unito col mondo e consociato coll' uomo e temperata la maestà sua da corporali sembianze, velato l' abisso della sua gloria dentro umili forme; si dava a contemplare dall' uomo a quel modo che si contempla il sole d' infra un vetro appannato od infra i vapori nell' aria diffusi. In tal maniera Dio si era adattato al bisogno dell' uomo, restringendosi e circoscrivendosi per essere accessibile ed acconcio all' umana bassezza: ma questo cotale esterno adattamento che faceva il Creatore di sè per avvicinarsi alla sua creatura e che il rendeva, quasi direbbesi, una parte della natura stessa, un essere connesso con tutti gli altri esseri, quasi il supremo anello della catena, non toglieva però a lui di potersi manifestare altresì nella propria grandezza della divinità, giacchè da quelle limitate apparenze egli diffondeva e le parole della vita e le opere della maestà, e indi il pieno dominio esercitava su tutto l' universo, e quanto egli voleva od occultamente od in manifesto modo operava. Questa sua sensibile e quasi direi corporal presenza nella natura doveva secretamente e in palese influire sopra di essa natura conscia della prossimità del suo Creatore (1): era un glutine quella divina presenza, per così dire, che attaccava e infra sè commetteva le parti dell' universo, era un aroma, una virtù corroborante, conservatrice di tutte le cose, onde queste ritraevano un vigore e una speciale vitalità che impediva loro la corruzione; e ivi finalmente risiedeva la mente provvida, a cui ogni cosa obbedendo rendeva un' armonia, più soave d' ogni più squisito concento alle spettatrici celestiali intelligenze (2). Il Creatore adunque in quest' abito, per così dire benignissimo e affabilissimo si interteneva coll' uomo, col mostrarsi a lui e favellargli, lo ammaestrava lo sollevava e ingrandiva. L' uomo non riceveva già solo ne' suoi orecchi i nudi suoni delle parole del Creatore, atti a eccitargli alcune idee, nè solo aveva la sensibile apprensione del Dio, che gli si manifestava, ma quelle parole erano vitali, e vitale era pur la vista e ogni sensibile percezione di Lui: cioè a dire quelle parole e quelle percezioni erano ministre di grazia interiore, la quale, purchè l' uomo avesse aperto l' adito del suo cuore, entrava abbondante, e tenendo però una cotal proporzione coi segni sensibili ai quali ella era per una cotal legge annessa. E questi erano i sacramenti del tempo dell' innocenza, dove pure veggiamo la grazia venire inserita per la via de' sensibili segni, siccome ad uomini, cioè ad esseri intelligenti, a cui è dato un corpo qual mezzo del loro sviluppamento e della loro perfezione, si conveniva. In tal modo uno è il disegno dell' Altissimo, una e sempre del medesimo tenore la sua sapienza e provvidenza pel bene del genere umano, una provvidenza, dico, sempre egualmente adattata all' umana natura. Sicchè Colui che ci ha dato i sacramenti nella legge evangelica dimostra d' essere il medesimo con quello che ha istituito da principio l' uomo dell' Eden: e come ora, così in quel primo tempo, ebbe la divina grazia co' segni esteriori accompagnato. Dal medesimo stile si riconosce la stessa mano. La grazia non entra propriamente nell' uomo, se l' uomo, con un assenso della sua volontà, non la riceve in sè medesima. Quindi per quantunque doni avesse Adamo da Dio ricevuti, doveva però accrescere in sè la santità e la grazia con degli atti successivi di buon volere. Vi aveva dunque una scala di meriti per la quale Adamo doveva ascendere, fino a essere confermato in grazia e nella immortalità. Sembrerebbe potersi dire che fra i segni sensibili a cui è fissa la grazia, gli atti della volontà onde l' uomo vi corrispondeva e gli aumenti successivi della grazia medesima, esistesse quasi un' armonia prestabilita. La volontà dell' uomo segue di pari passo lo sviluppamento dell' intelligenza. Sebbene Iddio avesse comunicato all' uomo, favellandogli, tutte quelle notizie di cui egli abbisognava, tuttavia restava all' uomo ancora di fare un grande uso di sue potenze intellettive colle quali acquistare molte cognizioni sperimentali e di riflessione. Dalla percezione de' suoi sensi e da quanto aveva udito da Dio, ebbe Adamo la scienza diretta: restava a lui a scomporre, ad analizzare questa scienza, e in una parola a cavarne tutto ciò che possono dare di distinzione, di lume e di ampiezza tutti quegli ordini delle varie riflessioni, il cui numero è indefinito. Tutto ciò modificava e perfezionava in lui le notizie dei beni sotto i varii aspetti ne' quali il bene all' uomo si presenta; e quindi venivano perfezionandosi continuamente gli atti della sua volontà. Allo sviluppo dell' ordine naturale dell' intelligenza e dell' amore corrispondevano, come abbiamo detto, i doni della grazia. Non è dunque a credere che la mente di Adamo fosse arrivata già nel primo istante alla percezione del sommo bene per tal modo, che questa non potesse ricevere nella sua mente maggior lume e evidenza, e farsi continuamente più attuale, più immediata: anzi doveva venir componendosi lo stesso concetto del bene in modo via più concreto, per un' induzione che movea dai beni sensibili, e conduceva al soprasensibile. Così il bene, in ragione di bellezza, si doveva comporre nella mente di Adamo prima dalle bellezze sensibili, e quindi dalle spirituali; e in queste stesse quasi per gradini di una scala ascendere al bello perfetto e ideale che pur trovava realizzato e in istato di sostanza nel suo sommo Fattore. Il quale progresso dalla bellezza terrena a una celeste e divina è quello che vide già Platone essere sommamente conforme all' umana intelligenza, e che mi ricorda di avere io espresso in alcuni versi sullo stato di Adamo, i quali, se la memoria non erra, furono questi: [...OMISSIS...] Or dove giungeva la mente col concetto, indi traeva la volontà il suo amore; e all' intelleto e amor naturale si accompagnava forse sempre un intelletto e un amore infuso per grazia, la quale grazia mostrava nell' idea la sussistenza del sommo bene e ne dava l' intima e beante comunicazione. E per questa via l' uomo doveva pervenire al sommo della perfezione morale e dell' unione con Dio: la quale unione, ove divenuta fosse per tal modo piena e compita, io penso che allora l' uomo quasi deificato avrebbe acquistate le doti della immobilità nell' unione con Dio, nell' immortalità e nella suprema beatitudine. Ma che questo corso di cognizioni, di affetti, di grazie si avesse per Adamo a trascorrersi, il provano altresì quelle parole colle quali il Genesi assegna il fine prossimo e più basso pel quale l' uomo fu creato e messo dentro il paradiso: [...OMISSIS...] . In queste parole viene descritto l' uomo come il padrone dell' Eden, come il Re dell' universo, come quello che colla sua maestà rappresentava Iddio, del quale portava l' imagine in fronte, alle altre creature sulle quali esercitava appunto per questo una pienissima signoria (1). Acciocchè poi questo piccolo dio della terra riconoscesse che egli era sottomesso al Dio del cielo, al Creatore del tutto, gli fu dato il fatale precetto. Ora in tutta questa descrizione apparisce che l' uomo fu posto, per così dire, in basso luogo rispetto a Dio, fu rivolto a lavorare e governare gli esseri privi di intelligenza; quindi doveva cominciare, e da questo primo fine della sua creazione, assai angusto, a dir vero, verso all' immensa capacità della sua anima, doveva poi per suo merito sollevarsi di mano in mano e sempre più congiungersi al suo creatore, togliendo la faccia dal ben finito e levandola più e più all' infinito e divino. A lui era dunque conceduta da prima quella felicità, se così vuol chiamarsi, che può dare la pienezza dei beni naturali a un' anima pura e innocente: ma in quest' anima dovevano poi risvegliarsi da sè altri desideri, altri bisogni, altri voti maggiori, tosto che la meditazione avesse rivelata a se stessa l' immensa sua capacità e l' infinito oggetto pel quale solo veramente era stata creata. La differenza fra l' ordine della santità e della grazia corrispondente nell' uomo innocente, e l' ordine della santità e della grazia nell' uomo redento, è il seguente. La grazia nell' uomo primitivo doveva perfezionare la natura e la natura di grado in grado perfezionata doveva passare a uno stato sempre più eccellente, doveva ognor più spiritualizzarsi, senza giammai, per così dire, tornare indietro. Doveva quindi per aumento di sapienza, di santità e di grazia accrescersi continuamente la vita, anche quella che consisteva nell' unione dell' anima col corpo, fino che questa vita doveva rendersi inamissibile: il che sarebbe avvenuto in quel tempo che si fosse resa inamissibile e piena anche la grazia e la fruizione di Dio. Noi ripugniamo alla morte, e ripugniamo eziandio che sappiamo per fede che dopo la morte ci sta preparata una nuova vita per Cristo: ma, come dice l' Apostolo, noi non vorremmo essere spogliati ma sopravvestiti, acciocchè dalla vita venga assorbito quanto vi ha in noi di mortale (2). Questo desiderio dell' umana natura veniva soddisfatto nello stato d' innocenza. Non avevamo bisogno di morire per essere ammessi alla visione di Dio, ma passavamo a tanta visione d' un passaggio soavissimo, la quale veniva a noi come una veste di gloria che ci sopravvestiva senza bisogno di spogliarci delle membra del corpo e deporre la vita della natura. Anzi ciò che vi aveva di difettoso nella vita naturale, ciò che vi aveva di mortale, veniva, secondo la calzante espressione dell' Apostolo, assorbito dalla vita, cioè da quella vita piena di Dio la quale nulla ha in sè di mortale e della quale venivamo fatti partecipi come di un cotale indumento di gloria e di incorruzione. Il contrario avviene nella condizione dell' uomo peccatore: perciocchè l' uomo peccatore fu condannato alla morte e non può andar vana la parola divina. Quindi il Redentore non tolse direttamente a camparlo dalla morte, ma a mettergli un seme di salute nell' anima, il quale, anche dopo morte, lo avvivasse e facesse risorgere con un corpo nuovo, cioè non più col corpo del peccato, alla morte soggetto. Qui veniva a battere quello che disse Cristo a Nicodemo: « Se alcuno non sarà rinato nuovamente, non può vedere il regno di Dio« (2) ». E` necessaria un' altra generazione: non è più ristorabile l' uomo vecchio, questo si deve abbandonare alla sua distruzione: tutta la speranza sta in un nuovo nascimento, in una nuova orditura e ricomposizione dell' umana natura. E il nascimento nuovo, cioè il principio della nuova vita che l' uomo deve ricevere, non è più dalla carne e dal sangue, non comincia dall' imperfetto per andare al perfetto, ma discende da Dio e viene dal perfetto a vivificare l' imperfetto. Non è il corpo, come nel tempo primo dell' uomo innocente, che manoduce lo spirito, e gli è ministro aiuto e compagno nell' acquisto della perfezione della vita: è lo spirito quello che domina e salva il corpo stesso. Nell' età dunque dell' innocenza tutto era in armonia nell' uomo, tutto si perfezionava, nulla si distruggeva, tutto l' uomo con tutte le sue parti procedeva all' acquisto dell' incorruzione e della vita beata. Di presente l' uomo non può sopravvivere, l' uomo deve perire, perchè è l' uomo del peccato. Solo in una delle due parti però dell' uomo, cioè nell' anima, Iddio che vuole pur salvo quell' uomo stesso che deve perire, con ammirando consiglio nasconde un germe vitale, cioè la grazia del Redentore; asconde anzi sè stesso, e in questo germe si accolgono tutte le speranze dell' uomo, tutti i suoi beni. In che adunque consiste, nello stato in cui ora è l' uomo, la santità? Nella fede, per mezzo della quale egli eseguisce quanto diceva a Dio Giobbe: « Eziandio se tu mi ucciderai, io spererò in te« (3) ». L' uomo spera nel suo Dio, sebbene sappia che lo darà in preda alla morte. Adamo si tolse da Dio quando gli prometteva l' immortalità: e Cristo e il suo discepolo confida in Dio quando sa pure che lo uccide. Anzi tanto confida, che egli si unisce colla giustizia di Dio medesimo contro di sè e contro tutto ciò che è macchiato di peccato, e tripudia che sia devoto alla morte tutto ciò che si è rivoltato al suo Creatore, e segue magnanimamente Colui che invitandolo a sè, gli dice: [...OMISSIS...] . Tanto è più sublime la virtù e la grazia dell' uomo peccatore, in Cristo, che non fosse quella dell' uomo innocente in Adamo! (2). Il perchè dice S. Paolo: che la conversazione dell' uomo cristiano è nei cieli. Non è come quella di Adamo sopra la terra. L' uomo cristiano sa che la terra è maledetta e non è più sua abitazione permanente, e deve andar cercandone una futura (4). Coll' intenzione pertanto del suo spirito il cristiano è già morto alle cose terrene le quali a lui tornano di peso e noia infinita, non foss' altro, perchè gli si sono fatte muro di separazione dal suo Dio, il quale si è allontanato da una natura prevaricata: sospira perciò il termine della sua peregrinazione, il rompimento de' suoi ceppi per essere con Cristo risorto per non più morire giammai, col quale il cristiano già vive fin di qua giù per una santa e inconfusibile speranza. Di che allontanato e staccato co' suoi affetti da ogni cosa sensibile, egli non cerca nè chiede che le celesti e spirituali, come quelle nelle quali ritrova anche la salute stessa della sua porzione corporea, la salvazione di tutto l' uomo. Di questi sentimenti è tessuto il Nuovo Testamento, e S. Paolo li esprime ben sovente con una forza maravigliosa: [...OMISSIS...] . Questa vita del cristiano nascosta, la quale non è altro che Cristo stesso, è appunto quel seme della grazia gittato nelle anime, la qual grazia è il Verbo stesso cui noi portiamo nell' essenza dell' anima, ma ancora velato, e che si rivelerà in noi alla morte nostra, apparendoci visibile Iddio siccome egli è. Il perchè sebbene nella prima istituzione dell' umanità in Adamo fosse fornito di grazia e nell' essenza della sua anima Iddio realmente esercitasse una segreta azione, tuttavia questo Dio che abitava nell' essenza dell' anima dell' uomo, non diffondeva però a prima giunta tanto la sua virtù per le potenze, in modo da investirne anche il corpo, fino a partecipargli l' incorruzione e quella spiritualità che lo rendesse definitivamente immortale: ciò che avviene nella seconda istituzione della umanità fatta in Cristo risorto, dopo che l' umanità prima progenerata da Adamo fu distrutta colla morte. L' umanità dunque riassunta e ricostruita dalla sua distruzione è simile all' umanità prima rispetto all' anima, in quanto che nelle due umanità non havvi peccato alcuno: ma non è simile rispetto al corpo, perocchè la grazia di cui è fornita l' umanità rifabbricata da Dio, si vantaggia tanto sopra l' antica, che di grazia è ricolma e trabocca sicchè il corpo stesso n' acquista e partecipa le doti degli spiriti, le quali sono principalmente l' incorruzione e la vita immortale. Indi è che l' Apostolo paragona l' uomo rigenerato in Cristo al primo creato in quanto allo spirito, dicendo: [...OMISSIS...] . Ma in quanto al corpo, il qual corpo non esiste rinnovellato se non dopo la risurrezione, mostra il vantaggio del secondo uomo sopra quel primo in queste parole: [...OMISSIS...] . Cioè a dire, nel primo uomo il corso della vita moveva dal corpo animale e andava allo spirito rendendosi ognor più spirituale, dall' imperfetto al perfetto: nel nuovo Adamo la vita procede dallo spirito, e va dal perfetto a vivificare l' imperfetto. E continua: [...OMISSIS...] . Così la grazia trionfa senza fine nell' uomo nuovo, spiegando tutta la sua forza rinnovellatrice: nell' uomo antico Iddio colla grazia non aveva che da aiutare la natura, ma qui egli ha da creare una nuova natura, qui fa tutto la grazia, e rigenera, e perfeziona; in quell' antico uomo la grazia non faceva che una parte e la natura era supposta e data precedentemente alla grazia per soggetto. Vero è che anche quella natura dell' uomo primo era operazione di Dio e Dio ne veniva glorificato; ma quell' operazione non era che divina . L' operazione di Dio all' incontro onde l' uomo viene rifatto, ricreato (giacchè è chiamato dall' Apostolo, una nuova creatura) è tutta operazione deiforme ; e qui sta ciò che il medesimo Apostolo chiama la gloria della grazia di Cristo. Questa seconda operazione è infinitamente più gloriosa a Dio della prima, cioè della creazione, perchè essenzialmente santa, sicchè tutte le cose si rendono obbedienti in tal modo alla santità: in una parola l' operazione divina della prima creazione aveva per termine la natura limitata, l' uomo; ma l' operazione deiforme della seconda ha per termine Dio nell' uomo: sicchè questa operazione è tanto più grande e a Dio più gloriosa da parte dell' oggetto, quanto è dell' uomo più grande Iddio. Nella prima istituzione adunque dell' uomo due erano i principii, sebbene contemporanei, la natura che veniva dalla potenza creante di Dio, e la grazia che veniva dalla potenza santificante e rendeva perfetta quella natura. Nella seconda istituzione uno solo è il principio, la grazia, e questa è creatrice insieme e perfezionatrice dell' uomo nuovo. Tutto qui fa la grazia, tutto qui è Dio, il principio, il mezzo e il fine: benchè l' uomo poi, venuto il tempo della libertà, possa corrispondere o no all' opera della grazia. Quella grazia antica insomma assorbiva bensì colla sua vitale virtù ciò che vi aveva di mortale nell' uomo, secondo l' espressione di S. Paolo: ma questa grazia nuova assorbe la stessa morte , come aveva predetto Osea: [...OMISSIS...] . Sebbene non era condecente all' infinita bontà del Creatore che avesse creato l' uomo abbandonandolo alla propria natura senza aggiungergli la grazia; tuttavia non è assurdo di supporre l' uomo in tale stato: ed è una di quelle supposizioni che aiutano ad analizzare ciò che si compone di più principii e a vedere che cosa a' singoli principii si debba attribuire. Così fanno i matematici quando spogliano i corpi di certe loro qualità anche essenziali per calcolare l' una dopo l' altra tutte le semplici forze di cui sono forniti. Supponiamo adunque l' uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però degli stimoli esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi raggomitolate in sè non avrebbero potuto avere nissuno sviluppamento: e fra questi stimoli esteriori uopo è che gli supponiamo data altresì la favella, colla qual solo vien tratta all' azione la sua potenza di riflettere e di astrarre, e quindi esce in atto la sua libertà, ligata senza di ciò e nulla operante; la qual favella, tale che gli bastasse, non potrebbe mai trovare egli medesimo. L' uomo può concepirsi in questo stato: e tuttavia privo di ciò che spetta a un ordine di cose divino o soprannaturale. Quale adunque sarebbe stato il grado di libertà che avrebbe avuto l' uomo in questo stato? Avrebbe egli avuto in sè tanto di vigore da mantenere fedelmente la legge morale? O anzi per un cotal mancamento di forze sarebbe egli stato necessitato a peccare? Rispondendo a sì fatta questione, in primo luogo osservo, che certamente non avrebbe peccato l' uomo posto nel detto stato di natura pura, se non ne avesse avuta nessuna cagione impellente (1), cioè se non gli fossero insorte tentazioni che il lusingassero di volgersi dal retto e giusto operare al torto e ingiusto. Ciò posto, veniamo a vedere quali tentazioni di peccare potevano darsi all' uomo in quello stato. Dalla teoria morale da noi esposta (2) risulta manifestamente che tutte le tentazioni di peccare, a cui può soggiacere una creatura intellettiva, si possono ridurre ad una sola formola e semplicissima, cioè« la tentazione si dà allora quando il bene soggettivo si trova in collisione del bene oggettivo«. Il bene oggettivo è il bene in quanto è bene, in quanto è mostrato dalla ragione: e il riconoscerlo praticamente per tale è l' essenza dell' obbligazione morale. Il bene soggettivo è il bene non considerato in sè stesso, ma considerato relativamente al soggetto che lo percepisce. Il bene oggettivo adunque è il fondamento della Morale : come il bene soggettivo è il fondamento della Eudemonologia , ossia scienza della felicità. Fino a tanto che quello che è bene oggettivo fosse egualmente anche bene soggettivo, egli è evidente che il soggetto non avrebbe alcuna tentazione che il togliesse dall' ammetterlo e amarlo per quel bene che è. Parimente se il bene oggettivo fosse indifferente, quanto al rimanente, al soggetto, e non gli fosse nè di noia nè di particolare piacere, egli è indubitato che il soggetto uomo sarebbe fedele al bene oggettivo e lo ammetterebbe e riconoscerebbe per quello che vale; perciocchè tale è l' indole della natura ragionevole che il bene oggettivo è già per questo solo suo bene e le è naturalmente dilettoso il fare un atto di giustizia e dare al bene conosciuto quel prezzo che egli pur merita. In questi due casi adunque non ci sarebbe cagione alcuna dalla quale la natura ragionevole fosse incitata a t“rsi dalla giustizia rendendosi ingiusta. Tutto adunque il cimento di violare le leggi della giustizia, a cui può esser messa una natura intellettiva e volitiva sì come è l' uomo, sta qui, quando da una parte la ragione gli presentasse il bene oggettivo, e dall' altra il sentimento fosse affetto da un bene soggettivo, e questo bene soggettivo avere o seguire non si potesse senza disconoscere e ripudiare il bene oggettivamente considerato, il bene in sè, il bene estimato col giusto suo prezzo e valore. In tal caso quindi la legge morale intima che non si deve stimare e seguire praticamente il bene se non per quello appunto che vale in sè: dall' altra il sentimento cieco suggerisce e persuade di seguire il bene non per quello che è, ma per quello che attualmente e momentaneamente diletta senza più. Queste due voci, della verità dall' un canto, della inclinazione sensitiva dall' altro, sono quelle che generano nell' uomo il combattimento morale e che formano l' essenza della tentazione. E ora dunque si domanda: L' uomo della natura non guasta sarebbesi mai scontrato a tal bivio nella sua vita dove, se avesse voluto seguitare la regola del bene oggettivo, gli convenisse privarsi in tutto o in parte del bene soggettivo (1) e quindi avesse provato una tentazione? E se questa tentazione si fosse trovata, di che natura e di che forza essa era? Poteva mai crescere in tal modo da dover vincere il valore della libertà di cui era l' uomo fornito? In quanto alla prima di queste dimande, io rispondo che essendo i beni soggettivi creati limitati, poteva, anzi doveva, avvenire che si desse collisione fra loro, cioè che l' uomo non li potesse avere e godere tutti insieme. E quindi che gli bisognava farne scelta, sì per sè, che per gli altri uomini: la qual scelta non poteva farla con altro che colla ragione di cui era fornito, e doveva essere ragionevole, cioè gli conveniva per obbligazione morale di scegliere il bene che nel complesso suo e finale risultamento fosse il migliore, e il maggiore, e il più perfettivo della sua natura, così in ordine allo sviluppamento di sue potenze, e sì in ordine al grado del suo godimento. Ciò è quanto dire che doveva stimare i beni soggettivi in un modo oggettivo, secondo quel valore appunto che avevano fra loro estimati e pesati sulle bilancie della ragione: per la quale stima solamente quei beni soggettivi si rendevano onesti, ossia di dignità morale forniti. Ora fino a che si fosse trattato di dover fare scelta tra beni soggettivi presenti, nessuna collisione cader poteva tra essi di tal natura che mettesse l' uomo in cimento di moralmente fallire: imperocchè era egualmente in tal caso interessato l' appetito dell' uomo a scegliere il complesso maggiore di beni e la morale sua coscienza; perocchè questa gli precetteva di scegliere il più che potesse del bene, e l' appetito nulla di meglio poteva volere. Ma ove si fosse trattato di paragonare insieme dei beni presenti con dei beni futuri, allora si poteva trovare in una cotale discordia l' appetito sensitivo e la ragione. Perocchè l' appetito di sua natura è cieco, e senza previdenza; e la ragione sola mette a calcolo il futuro. Quindi l' appetito con subitaneo moto persuade l' uomo al godimento istantaneo: la ragione tempera e regge questa persuasione inconsiderata che l' appetito vorrebbe ingerire, e impera la virtù della temperanza, ovecchè il presente bene impeditivo sia di un futuro e maggiore. In questa collisione pertanto non poteva l' uomo vincere, sempre, colla sua volontà ragionevole il torto suggerimento dell' appetito? facoltà che presiede alla soggettività del bene, senza più, e quindi essenzialmente priva di moralità? Rispondo che, trattandosi di beni naturali e sensibili (1), ciò poteva fare certamente il libero arbitrio dell' uomo fornito di una perfetta natura. Perocchè sebbene i beni presenti esercitassero una reale azione sull' appetito dell' uomo, e i beni futuri solo un' azione ideale , e sebbene questa fosse minore di quella (2); tuttavia la volontà ragionevole poteva sempre dominare e frenare la reale azione che esercitavano i beni presenti sul movimento dell' appetito. E ragione di ciò si è che la provvida natura fornì alla ragione uno strumento o un' arme da contrapporre al senso esteriore che presiede ai beni presenti e reggerne la veemenza; e questo è un senso interiore, cioè l' imaginazione, la quale nello stato di una natura perfetta stava in balia della volontà, la quale imaginazione presiede ai beni futuri. Ora trattandosi di beni naturali, l' uomo poteva sempre imaginarli, che è come un renderglisi presenti e l' eccitare in sè quella stessa azione reale, che, se presenti fossero, per la via degli organi esterni, ecciterebbero. Il perchè così mirabilmente fu costituita l' umana natura che essa due come sensorii avesse, l' uno riguardante le cose presenti, e l' altro le assenti; e l' uno de' quali, cioè quello delle cose assenti, potesse colla sua virtù equilibrare di continuo la violenza dell' altro, cioè di quello delle cose presenti; e che il primo fosse dato in pieno dominio della ragione, sicchè a questa facoltà che doveva essere la regina e signora di tutte le altre non mancasse tanto di polso da poter far eseguire coll' opera i suoi decreti. Fino a tanto adunque che si considera l' uomo entro la sfera delle cose naturali, e in cui egli non ha che a scegliere fra beni de' quali egli ha positiva cognizione ed esperienza, non poteva la sua virtù essere cimentata per modo da tentazione alcuna che egli col suo libero arbitrio resister non potesse: anzi piuttosto è da credere che assai difficilmente potesse peccare in tale stato, nel quale, per la lucidezza e prontezza della sua mente, non poteva mai errare il calcolo di ciò che più gli giovasse in questi suoi temporali interessi. E così si deve intendere, per mio avviso, la sentenza dell' Aquinate che dice: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole espressamente parla il Santo Dottore di un ordine di cose secondo la natura , ciò che corrisponde al caso, nel quale noi abbiamo considerato fin qui l' uomo naturalmente perfetto. In un tale stato l' uomo (al quale Dio non si fosse comunicato con una manifestazione positiva) dotato come era di nobilissima intelligenza e di un profondo sentimento, avrebbe senza dubbio, quasi per un cotal peso di tutta la sua natura, cercato di Dio nascosto; egli avrebbe tentato, per così dire, di trovare nell' intimo dell' universo e di sè stesso un sostegno e fondamento delle cose tutte, e non trovandolo, sarebbe andato al di là della natura stessa, al di là di sè stesso; avrebbe pensato la possibilità, la necessità di un Essere occulto che facesse tutto esistere, che rendesse tutto possibile: avrebbe anzi veduto che a tutte le cose mancava l' essere per sè e che pure l' essere gli risplendeva alla mente e gli faceva risplendere le cose tutte, e che pur dell' essere che lo illuminava e in cui le cose sussistevano, gli era maravigliosamente occulta la sussistenza, non partecipando egli che di un' aurora, che gli additava, senza mostrargli, la piena luce del sole. Egli avrebbe pertanto creduto al grande Essere a lui occulto dietro una misteriosa cortina, lo avrebbe adorato senza conoscerlo positivamente, e sarebbesi forse anco messo addentro di mano in mano e perduto in un sentimento abituale di profonda adorazione. Ma tutto ciò non esigeva da lui alcuna privazione, alcun sacrificio, se non anco era quanto di più dilettoso e di più solenne poteva desiderare e agognare la sua eccellente natura. Nè pur qui adunque, cioè nella sua relazione col Dio, naturalmente a lui noto, avrebbe l' uomo della natura incontrata difficoltà alcuna in essere giusto e in rettamente operare. Ma facciamo ora entrar l' uomo della natura in una positiva comunicazione con Dio: Iddio in qualche modo gli favelli e gli dia un precetto positivo, col quale venga imposto all' uomo una privazione, gli si ingiunga un sacrifizio di cosa appetita dalla sua natura: e non gli sia tuttavia comunicata alcuna grazia soprannaturale. Varrà il suo libero arbitrio a mantenere questo precetto? Certo varrebbe la sua ragione a conoscerne l' obbligazione, varrebbe la sua volontà a volerlo speculativamente: ma avrà eziandio tanta forza da imperare alla propria natura e a volerlo praticamente? Qui parmi di dover ricorrere al principio toccato di sopra:« la volontà razionale può vincere il senso e appetito di una cosa allorquando ella può contrapporre un altro senso e un altro appetito di forza almeno equivalente a quel primo«. Ora il senso e appetito che l' uomo può contrapporre ai beni presenti desiderati dalla natura è il senso imaginario col quale appetisce attualmente i beni futuri. Ciò stabilito, sono da vedere le condizioni del precetto positivo che si pone dato da Dio all' uomo. Se con quel precetto vien comandata all' uomo una privazione e sacrifizio cotale che l' uomo possa vincere colla libera volontà assistita dalla sua imaginativa virtù, egli potrà farlo: ma se l' imaginazione non gli bastasse a ciò, agevolmente rimarrà vinto. Il sacrifizio comandato è un male reale, presente: conviene dunque che colla imaginazione egli possa proporsi e rendersi efficacemente presente o un male maggiore nel quale inevitabilmente incorrerebbe non accettando quel sacrifizio, ovvero un tal bene che gli piaccia ottenere più che non gli dispiaccia il male che gli è offerto a sostenere. Così le Scritture dicono che Cristo stesso per sostenere la croce si propose innanzi a contemplare il gaudio che da quei patimenti gli sarebbe derivato (1). Ora all' uomo felice per l' affluenza di tutti i beni naturali e per la mancanza di ogni male non poteva essere desiderio di un bene che vincesse la ripugnanza di una privazione? Se si parla di un bene soprannaturale, in uomo privo di grazia , questo era puramente ideale e senza alcuno esperimento e quindi inetto a essere rappresentato nella sua imaginativa. Un tal bene perfettamente incognito, da lui sperato, pare che per sè stesso non sarebbe stato sufficiente da contrappesare l' avversione del male presente e tutto di sensibile sperienza. Pure poteva da lui essere imaginato un cotal cumolo di beni a lui noti, a cui quel bene incognito paragonato, gli paresse maggiore; e così vincere con questa imaginaria apprensione il male debito d' incontrare: purchè però due cose si fossero avverate, cioè per primo che fosse pervenuto a dar fede alla promessa di un tal bene; e secondo che un uomo già naturalmente felice ne avesse potuto concepire un vero desiderio (2). Ma se la speranza di un bene maggiore poteva dar forze alla volontà di sottomettersi a qualche sofferenza, ha poi in sè questa forza anche il timore di abbattersi in un male minacciato? L' uomo naturalmente felice non ha pigliato ancora sperienza di male veruno. Quindi sebbene egli abbia una cotal concezione tutta ideale del male, come di una cotal privazione o cessazione del bene che sperimenta; tuttavia la sua volontà non può punto nè poco far giocare in favore della giustizia l' imaginazione. Perocchè l' imaginazione, è un senso interiore e però non ha per suo stimolo il male ideale, ma il male reale e quel male reale che fu sperimentato nei sensi. Perocchè questa facoltà dell' imaginativa non ha altro ufficio nè potere se non di rinnovare internamente le sensazioni o più generalmente i sentimenti già sofferiti: e per ciò la libera volontà dell' uomo innocente e beato non poteva da questa parte far uso, come di forza ausiliare, della imaginaria potenza, e poco quindi avrebbe potuto ire innanzi per questa via del timore di un male minacciato. Quindi nella storia di Adamo, fra Dio che minaccia la morte e il demonio che promette scienza, immortalità e deificazione, il demonio aveva il partito migliore, perocchè prometteva un bene , men buono l' aveva Iddio minacciando un male : perchè del bene l' uomo avendo sperienza, poteva venire eccitato da esso imaginariamente, quando il male non poteva essere da lui se non idealmente concepito, il che lascia la libertà slenata a segno che non trova onde attingere forza e prender l' armi alla difesa. Il che non toglie però punto la sua autorità e augusta dignità alla legge divina: nel mentre che scuopre una limitazione e conseguente debolezza dell' umana natura. Se non che in Adamo questa debolezza era confortata dalla grazia, per la quale poteva, se avesse voluto, mantenere egualmente il divino comandamento: perchè, come abbiamo veduto, la grazia appartiene all' ordine dei sentimenti reali , dai quali la libera volontà trae le sue forze (1). E or qui un' osservazione si dee fare intorno all' intrinseca e necessaria limitazione di ogni natura finita, e per conseguente intorno altresì ai limiti che sono posti ad ogni libertà naturale di qualsivoglia creatura ragionevole. Ogni creatura ragionevole, per quanto eccellente ella sia, angelica, e sovrangelica, è limitata tuttavia in questo che ella non può volere nè l' assoluta infelicità propria, nè l' assoluta propria annichilazione. Ora ogni natura contingente, non essendo necessaria nè avendo in sè un prezzo infinito e incondizionato, egli è evidente che il prezzo della sua esistenza o quello della sua felicità è sempre inferiore al prezzo della legge morale il quale è infinito, incondizionato, eterno, ed è Dio stesso. Per ciò la legge morale esige e senza alcuna eccezione dimanda di essere preferita a tutto, fosse anche colla perdita totale della propria esistenza e della propria felicità: e questa esigenza è assolutamente obbligatoria, e di un' assoluta e intrinseca necessità morale, perocchè mai in nessun caso e per qualsivoglia danno, può essere la legge morale posposta e lasciata indietro a cosa alcuna. Egli è vero che l' ottimo Autore delle creature intelligenti non può permettere giammai una sì fiera collisione: ma tuttavia ella si lascia concepire; e la semplice concezione sua è sufficiente a poter trarre di ciò la seguente conclusione: [...OMISSIS...] : al qual termine non giunge veramente nessuna creata volontà. Indi è che nel fondo di ogni creatura esiste sempre una fallacità, esiste un difetto di pienezza di bontà morale: esiste una cotal limitazione non pur fisica, ma (quello che deve esser fonte inesausto di umiliazione alla creatura nel cospetto del Creatore) esiste una limitazione morale, benchè in nessun modo imputabile (2). E forse di questa limitazione morale altresì può intendersi quel passo di Giobbe ove dice che Iddio « trova la pravità negli Angeli suoi« (3) ». Di che conchiude che se vi ha questa deficienza di bontà morale nella natura angelica, molto più ella vi ha nell' uomo, il quale, oltre all' esser mosso dal principio razionale, è tirato e mosso altresì da un principio animale, attività cieca e inetta a percepire la luce della legge morale. Nel qual passo di Giobbe egli pare non parlarsi già di uomini particolari, ma della stessa natura umana e angelica, giacchè toccansi le condizioni comuni di queste nature, e in queste condizioni della stessa natura si fonda il ragionamento: [...OMISSIS...] . E qui pure giace sicuramente il senso più profondo e più vero di quell' alta parola di Cristo: « Uno solo è buono, Iddio« (2) ». Perocchè egli solo ha una volontà così ferma e immutabile nel bene, come è ferma e immutabile la legge stessa, mentre la stessa natura divina incommutabile è egualmente e la legge e la volontà della legge, onde questa volontà pareggia la legge perfettamente, le dà tutto ciò che le conviene e quindi sola adempie veracemente tutta la giustizia. Ciò che poi è mirabile, ciò che fa sentire la dignità sublime della grazia, si è il considerare che l' operazione deiforme della grazia rompe, per così dire, le angustie in cui sono le creature, toglie via, quasi direbbesi, i loro limiti, sana e giustifica questa cotale pravità, intesa nel senso sovraesposto, che rimane in fondo di tutte le creature, ove si considerino per sè sole. Conciossiachè la grazia opera nell' essenza dell' anima, ed è Dio stesso che all' anima formalmente si congiunge. Ora per una cotale unione l' esistenza dell' uomo partecipa dall' esistenza divina un cotal prezzo infinito, perocchè come dice S. Paolo, « chi aderisce al Signore è un solo spirito (5); e la Scrittura dice dei Santi: «« Voi siete dei« (6) ». Questa divinità partecipata fa sì che, desiderando la propria conversione, oggimai desiderino qualche cosa d' infinito, che sia Dio in essi il termine del loro desiderio, come è Dio in essi il termine della deiforme operazione. Lo stesso dicasi del desiderio della felicità. Non è più un desiderio vago, non è più un desiderio di una felicità universale: l' unica loro felicità è la giustizia stessa, è Dio stesso. Quindi la volontà della giustizia s' immedesima colla volontà di essere felici, perocchè questa felicità è oggimai determinata e tutta prefinita dalla sola giustizia trovata nella divina essenza. Quindi Adamo come quegli che era creato in grazia, poteva attingere forze alla sua libera volontà per essere compiutamente giusto. In Cristo dove non havvi altro che una persona e questa è il Verbo di Dio, egli è evidente che l' appetito, se così può chiamarsi, della conservazione e felicità di questa persona ha per oggetto Iddio. Ma questa stessa dirittura di affetti, che nasce per l' unione ipostatica in Cristo, nasce per l' unione sostanziale nei cristiani: tutto l' amor dei quali terminando in sè stessi, viene a terminare in Dio, per questo che sono fatti una cosa con Dio: « Io in essi dice Cristo parlando al Padre, e tu in me, acciocchè sieno CONSUMATI in una cosa sola« (2) ». Di gran valore e proprietà è quella parola, consumati ; poichè esprime una cotale consumazione di tutto ciò che vi è di naturale nella creatura, ridotto e quasi stemperato in Dio il quale è l' ultimo fine della creazione, acciocchè come dice S. Paolo, « Iddio sia tutto in tutte le cose« (3) ». Considerata dunque la creatura sola senza aiuto di grazia, egli è evidente potersi sempre concepire soggetta a cotal tentazione, alla qual vincer non basti il grado di sua libertà naturale: tentazione che, come detto è, procederebbe non da alcun precetto naturale, ma da un qualche precetto positivo che Iddio le imponesse e col quale le ingiungesse qualche sacrifizio; massime se il premio promesso non fosse che soprannaturale. In questo caso, l' appetito assai facilmente si renderebbe insensibile al freno della ragione: ed è sotto questo punto di vista che San Tommaso, con altri maestri in divinità, mostrano la necessità della grazia, perchè sia conservato nell' uomo l' ordine delle potenze, cioè la ragione dominante e il senso ubbidiente; ubbidienza che fanno derivare da quel rinforzo che riceve la ragione da Dio coll' essere a lui unita e sottomessa per grazia. Ecco le parole dell' Angelico Dottore: [...OMISSIS...] Il che sicuramente si deve intendere nel caso della tentazione da noi sopradescritta, che si potrebbe chiamare extranaturale ; perocchè, fuori di questo caso, abbiam già udito poco sopra S. Tommaso mesimo insegnarci, che l' uomo, colla sola natura integra, poteva però evitare ogni peccato sì mortale che veniale. E in tal modo parmi che debbansi conciliare e concordare fra sè questi due luoghi dell' Angelico, che a prima fronte sembrano fra di loro pugnare (2). Dalla quale dottrina dell' Angelico conviene qui tirare intanto questa conseguenza che ci gioverà poscia in futuro, cioè: che la grazia di Adamo innocente era perfettiva di tutta intera la natura umana. Perocchè per natura umana s' intende il complesso de' principii che entrano a comporre l' umanità. Se dunque la grazia saldava e rinforzava, anzi pur completava l' ordine , in cui debbono tenersi questi principii, sia di soggezione all' essere divino, sia di subordinazione fra loro; egli è manifesto che giovava mirabilmente a tutto il complesso di questi principii, mantenendo in loro e completando il giusto ordine: il che è quanto dire, giovava e nobilitava la natura umana. Adunque l' umana natura per la grazia acquistava un tal prezzo, pel quale si faceva possibile un' assoluta giustizia come partecipazione della giustizia divina, della quale dicono le Scritture: « La tua giustizia è giustizia in eterno« (1) ». E tal prezzo aveva Adamo innocente. Ma quale fu poi questa grazia di Adamo, considerata relativamente alla sua efficacità? S. Agostino dice che questa grazia fu un cotal dono, una cotal potenza, l' uso della quale fu lasciato al libero arbitrio dell' uomo (2). La ragione, dice il santo Dottore, per la quale il primo uomo non ricevette questo dono di Dio (cioè la perseveranza nel bene), ma fu lasciato in suo arbitrio il perseverare o non perseverare, si fu che la volontà sua, istituita senza alcun peccato e senza aver nulla in sè stessa che per mala concupiscenza resistesse, aveva tali forze che cosa degna parea che si dovesse commettere a tanta bontà e a tanta facilità di vivere bene l' arbitrio del perseverare (3). Questa grazia adunque era come una potenza nuova data all' uomo (4), il qual uomo poi poteva o adoperarla o no, a suo piacimento: era un cotal sentimento, pel quale poteva resistere, se avesse voluto, all' appetito, e frenare i suoi movimenti in sacrifizio e in obbedienza del Signore; suppliva questo sentimento soprannaturale posto nell' uomo alla debolezza del bene puramente ideale, quale era la giustizia che imponeva di ubbidire a Dio eziandio con qualche sacrifizio; e questo bene ideale in un cotal modo lo realizzava e avvalorava: come appunto l' imaginazione può rendere efficace su di noi un bene futuro, di cui si abbia avuto sensibile esperienza. Or dunque quest' arma, questa virtù messa nelle mani dell' uomo, era indubitatamente atta a farlo vincere la tentazione, purchè avesse voluto adoperarla. La stessa specie di grazia, secondo S. Agostino, era stata data agli Angeli e colla medesima grazia alcuni hanno perseverato nel bene, e altri sono scaduti: non già per diversità della grazia, ma sì dell' uso che il loro libero arbitrio ne fece. Ecco come Agostino dichiara la cosa: [...OMISSIS...] . Con quella stessa grazia adunque colla quale alcuni Angeli perseverarono, colla stessa altri decaddero: e con quella stessa grazia, avendo la quale, Adamo, decadde, con quella stessa poteva perseverare. E` una medesima grazia, sempre appieno sufficiente, ma talora adoperata dall' uomo e talora lasciata inoperosa: come una spada bene affilata che sempre vale per sè a tagliare eziandio che si lasci nel fodero dimenticata. All' uomo insomma costava tanto l' usare della grazia e l' attingere forze da lei, quanto gli costava alzare il braccio, muovere i piedi a camminare o attinger acqua alla fonte per dissetarsi: la forza di muoversi non gli manca e ha pure il fonte innanzi che gorgoglia: in lui sta l' usare o non usare di tali beni. Egli è per ciò, cioè per la natura di questa grazia lasciata nel libero arbitrio dell' angelo e dell' uomo da potersi usare o non usare, che S. Agostino dice, che Iddio in quella prima costituzione dell' uomo volle fare sperimento dello stesso arbitrio dell' uomo e vedere che cosa l' uomo gli avrebbe dato col suo proprio arbitrio di soggezione e di ubbidienza: [...OMISSIS...] . E come togliea a fare sperimento di ciò che far potesse il libero arbitrio dell' uomo? Forse perchè questo arbitrio fosse abbandonato a sè solo? No, giacchè aveva in sua compagnia la grazia: ma sì bene, secondo la mente del santo Dottore Agostino, perchè questa grazia era una forza, una potenza che non operava se lo stesso arbitrio, facendone uso, non la faceva operare in sè e fruttare. [...OMISSIS...] Quella grazia adunque di Adamo e degli Angeli era una grazia potenziale , affidata alle mani della creatura, nella quale stava il ridurla all' atto e cavarne i buoni effetti (2). Ma qui uscirà taluno dicendo: per questo uscire della grazia da quello stato di potenza alla sua attuale operazione, non era forse mestieri di un nuovo aiuto soprannaturale dato all' uomo? Di una di quelle grazie che chiamano attuali ? - Rispondo, e parmi secondo la mente del Dottore della grazia, se io nulla intendo, che perchè quella grazia potenziale operasse, si richiedeva che operasse il libero arbitrio, il quale in questo era lasciato a sè stesso. Or però quando dico che il libero arbitrio era lasciato a sè stesso, non escludo l' aiuto che Dio come Creatore e conservatore delle creature presta loro, non meno, acciocchè possano sussistere che operare: sicchè Iddio, come prima causa, cooperare e muovere doveva sicuramente il libero arbitrio dell' uomo che facesse buon uso della grazia. Oltre questo aiuto presente e continuo di Dio, il quale sta nell' ordine naturale, la grazia stessa pur col passare dalla potenza al suo atto non è che Dio operante in un ordine soprannaturale; perocchè la grazia non si può muovere, nè dare aiuto e forza al libero arbitrio, se non per virtù di Dio: essendo la grazia un' operazione deiforme . Ma tuttavia egli non è assurdo il pensare che il primo movimento nascesse dal libero arbitrio rinforzato dalla grazia abituale e mosso da Dio solo come Creatore, e dietro quel primo e tenue moto che il libero arbitrio cominciava, e mediante una volontà tendente alle cose soprannaturali in quella maniera che per natura e per grazia fossero conosciute, la grazia stessa si attuasse via più speculando e traendo innanzi a fine di sostenere via più l' arbitrio che in tal modo prendeva le sue forze da lei. Sicchè il consenso alla grazia nasceva dal libero arbitrio, rinforzato però dalla grazia abituale e con questo consenso stesso si attuava la grazia e rendevasi operatrice. Insomma il libero arbitrio dell' uomo in quel tempo era sano e naturalmente inclinato alla onestà naturale e di più soprannaturalmente per grazia, cioè inclinato anco al bene soprannaturale. Ora dall' uso di un tale libero arbitrio dipendeva la sorte dell' uomo, come quella degli Angeli. E questo soprannaturale abito di grazia veniva mantenuto e alimentato, per così dire, dalla presenza sensibile della divinità in mezzo alla natura, siccome dicevamo, quasi per l' uso d' un cotale sacramento. Dopo il peccato la volontà umana rimase, perocchè appartiene alla natura dell' uomo: ma le sue forze vennero meno; perocchè il senso animale prese baldanza e si falsificò; e tutte le altre potenze si addebolirono e alterarono; e nella parte stessa superiore del soggetto umano entrò una certa superbia e lusinga di ritrovare una cotal pienezza di felicità e quasi una divinità in sè medesimo. Sicchè come bisognò ricreare l' uomo animale già preda della morte, così bisognò pure che Dio ricreasse una volontà nuova nell' uomo: e questa è l' opera della grazia di Gesù Cristo. Perciò la volontà del bene, nell' ordine della grazia del Redentore, S. Agostino l' attribuisce interamente a Dio sì per riguardo alla potenza che all' atto conseguente alla potenza. [...OMISSIS...] L' atto adunque dell' operare bene, secondo il santo Dottore, nello stato di Adamo innocente viene attribuito al libero arbitrio: nello stato all' incontro dell' uomo riparato viene più attribuito alla grazia. La ragione di ciò consegue da tutto ciò che fu detto. L' atto si attribuisce sempre alla potenza onde esce. Ora nello stato d' innocenza questa potenza era il libero arbitrio dell' uomo, perocchè questo libero arbitrio era retto, cioè tendente naturalmente al bene morale, cioè inclinato secondo l' ordine del bene oggettivo. E questa inclinazione era il principio dell' atto buono: dunque l' atto buono aveva il suo principio nella buona inclinazione originaria naturale (sebbene avvigorita altresì dall' abito della grazia) dell' umano arbitrio. All' opposto l' arbitrio dell' uomo peccatore è essenzialmente disordinato, cioè ha perduto quella naturale rettitudine, non è più volto al bene secondo la considerazione oggettiva, ma anzi ha un' originaria tendenza infetta da disordine, perchè non interamente secondo l' ordine oggettivo (1). Nell' arbitrio adunque dell' uomo infetto ancora dal peccato originale e non rinato nel battesimo, vi ha bensì il principio dell' atto cattivo, e non il principio dell' atto veramente e compiutamente buono. Quindi è necessario che la grazia del Riparatore sia tale che non solamente avvalori il libero arbitrio, ma vi inserisca a dirittura il principio degli atti buoni, raddrizzandolo e piegandolo debitamente all' ordine oggettivo del bene: e quindi è che dal Santo Dottore Agostino si attribuisce alla grazia non solo la potenza del bene, ma gli atti stessi, e che la grazia opera nell' uomo tutto, cioè tanto il volere, quanto anche il perfezionare. Nascendo adunque nell' uomo riparato il principio del bene non già dalla propria natura, ma immediatamente da Dio autore della grazia, avviene che le forze morali dell' uomo riparato, secondo il medesimo S. Agostino, sieno tanto maggiori di quelle dell' uomo innocente, quanto la grazia è più forte della natura: il che è un dire, quanto Dio è più forte dell' uomo. L' abbattimento adunque e il mancamento della natura umana diede a Dio occasione di far risplendere tutta la gloria della sua possanza e della sua misericordia, facendo sì che nell' uomo infermo e nullo, si trovasse maggior fortezza e costanza di virtù che nell' uomo intero e per ogni sua parte perfetto. [...OMISSIS...] E non è già che l' impulso della grazia di Cristo ascenda tanto e prenda questo grado di vigore subitamente e in tutti i cristiani egualmente o gli eletti, pel quale vigore questi già sieno sempre così sollecitati e propriamente necessitati a dover il bene operare. Il dir questo non è sicuramente la mente del santo Padre che ora ci serve di guida. Ma che il fondo dei suoi pensieri io reputo che sia questo: che venendo il principio del bene operare nell' uomo riparato non dall' arbitrio, ma dalla grazia, il che è quanto dire da Dio; questo principio di bene operare, a cui convenevolmente tutte le buone azioni e l' attual volere si attribuisce, è di sua natura onnipotente , e non di forze limitate, come la libertà naturale dell' uomo integro; e per ciò è cotale quel principio onnipotente del bene che può sempre produr nell' uomo una invitta e felicissima necessità dell' operare il bene e talora la produce eziandio nella vita presente. La necessità adunque del bene operare, colla quale, come con carattere proprio, segna il santo Dottore e contraddistingue la grazia di Cristo da quella di Adamo innocente, riguarda la natura e condizione propria della grazia di Cristo, e non il suo costante effetto nell' uomo, perocchè questo effetto della necessità dell' operare essa non è necessitata a produrlo, ma ha bensì sempre virtù di produrlo: e il produrlo realmente è una speciale predilezione che usa Dio con certe anime predilette sue amiche (2). La volontà dunque dell' uomo, come Dio la fece a principio, era retta sì nell' ordine naturale, di tutta quella rettitudine che può avere la natura umana, e sì nell' ordine soprannaturale, di quel rinforzo che riceve la volontà umana dalla grazia. Ora una volontà pienamente retta è un supremo principio di operare nell' uomo: perocchè se vi avesse un altro principio che sorvolasse la volontà e si mettesse a imperare sopra lei, già la volontà con questo non sarebbe più retta, perocchè è proprietà necessaria alla sua rettitudine che ella non si lasci volgere da alcun altro principio soggettivo, ma sì che ubbidisca solo al principio oggettivo della legge di Dio. Ora la persona dell' uomo non viene costituita che nel principio supremo che opera nell' uomo, secondo la definizione che ne abbiamo data. Adunque quel pregio che aveva la volontà di essere retta era un pregio personale del primo uomo, cioè che nobilitava la sua persona. E perchè quando alla persona come a causa si può attribuire il bene e il male, allora si dice che l' uomo merita o demerita; perciò il bene morale, di cui il primo uomo si abbelliva e fregiava, era a lui giusta cagione di merito. Ma la dignità morale di che si fregiava il primo uomo non era solamente un bene della sua persona, ella era anche un bene della sua natura. E veramente si consideri ciò che forma la persona e ciò che forma la natura; e si troverà che queste due cose in Adamo erano in perfetto accordo e l' una, per così dire, rientrava nell' altra, sicchè i beni dell' una non potevano essere altro che i beni dell' altra. Mi spiegherò più chiaramente. La persona è una relazione che sussiste nella natura intelligente, cioè è quel principio supremo di operare che è mai sempre in una natura intelligente, e che di natura sua deve dominare gli altri principii tutti della natura stessa. Per natura all' incontro non s' intende quel solo principio attivo che ha la relazione di supremazia verso gli altri, ma s' intendono tutti i principii attivi individuamente connessi fra loro, senza riguardo alcuno al loro ordine, ossia alla relazione che ha l' uno coll' altro. Ciò posto, se un principio attivo qualsiasi che entra a costituire una natura acquista qualche grado di perfezione, si può dire a ragione che quella natura si è perfezionata. Ma acciocchè si possa dire essersi perfezionata altresì quella persona, conviene che il detto perfezionamento sia avvenuto o ridondato nel principio supremo che è il principio di attività personale. E perciò si deve distinguere il perfezionamento della natura dal perfezionamento della persona: e per la stessa ragione si deve distinguere il bene della natura dal bene della persona. A cagione di esempio, se l' uomo ha o acquista una perfetta sanità di corpo, egli ha o acquista un bene di natura: ma la sua personalità è ella per questo, necessariamente per questo, più perfetta? Se insieme colla sanità del corpo egli si fosse reso vizioso nello spirito, la sua persona avrebbe anzi perduto che guadagnato di perfezione, di bene. E viceversa se un uomo si rendesse più virtuoso nel tempo stesso che incontrasse una malattia, egli avrebbe, assolutamente parlando, perfezionata la sua persona nel tempo stesso che la sua natura avrebbe sofferto. Sebbene adunque non ogni bene della natura intelligente sia anche di necessità bene della persona, e viceversa non ogni bene della persona sia anche bene di tutta intera la natura; tuttavia si dà il caso che il bene della persona ridondi in bene di tutta intera la natura. Ecco quando si può dar luogo a questo caso, e quale sia il bene personale che gode di questo vantaggio. I principii attivi che entrano a costituire un individuo intelligente, per es. l' uomo, possono essere più o meno legati fra di loro, sebbene ciascuno si distingua dagli altri. E se si considera la natura umana nel suo ideale, cioè nel suo stato perfetto senza alcun guasto, si vede chiaramente che il principio attivo supremo deve possedere in sè una forza, colla quale domini e governi gli altri principii ordinati ad essere a lui soggetti. Questa prevalenza di forza nel principio attivo supremo, ossia personale, e questa relativa debolezza e sudditanza dei principii inferiori, costituisce appunto un legame che stringe questi a quello ed è il vero ordine intrinseco alla natura umana. Or questa prevalenza del principio personale è sicuramente un pregio e perfezione della persona stessa; ma egli non è meno un pregio e una perfezione della natura intera: perocchè tutti i principii che la costituiscono sono nel loro posto e senza alcuna discordia fra essi formano quella giusta e conveniente armonia, da cui la natura tanto riceve di nativa bellezza e nobiltà. Ora quest' ordine, quest' armonia di natura era nel primo uomo costituita da Dio perfettamente e decorava non meno la sua persona che la sua natura. Di che si vedrà ragione per la quale la morale dignità di Adamo, quella cioè in cui fu costituito, dovesse passare a' figliuoli suoi. E di vero, ciò che passa per generazione nei figliuoli è la natura. Perciò i figliuoli di Adamo innocente conveniva che portassero in nascendo quello stesso bene morale che era connaturale in Adamo, cioè che era in lui non pur bene della persona, ma bene della stessa umana natura. La grazia data da Dio al primo uomo era perfettiva, come abbiamo veduto, non pure della sua persona, ma ben anco della sua natura (1). Perocchè quella dignità morale che risiedeva nella personalità del primo uomo non decorava meno la natura sua, e ad un tempo colla natura, quasi divenuta con essa una sola cosa individua, gli era stata data. Essendo tale pertanto la legge della costituzione umana, che la natura umana non dovesse esistere se non completata dalla grazia di cui abbisognava, accadeva che questa natura, neppur comunicandosi per la propagazione, scadesse dalla sua perfezione in cui il Creatore tenerla voleva, ma che tutta intera e completa in diversi individui si venisse moltiplicando (2). Abbiamo veduto come l' anima intelligente si crea nell' uomo in venendo questo generato, cioè in virtù della visione dell' essere ideale che riceve il principio senziente nell' animale, il quale, ammesso a questa congiunzione dell' essere, partecipa tantosto l' intelligenza, e l' immortalità e la spiritualità (3). Ora la grazia non è che l' essere stesso mostrato all' uomo nella sua reale sussistenza , cioè con un grado di luce nuova e veramente divina. Perocchè quest' essere che così si realizza si muta in Dio. L' essere adunque che risplendeva innanzi all' anime di Adamo e de' suoi figliuoli non era l' essere puramente ideale, ma quest' essere con un cotal modo di realtà che il rendeva potente e di tutta la natura maggiore, che il rendeva insomma soprannaturale e divino. S. Tommaso insegna che, l' uomo ove fosse stato confermato in grazia e messo al premio della visione beatifica di Dio, non avrebbe da quell' ora più generati figliuoli (1). Però tutto quel tempo, nel quale sarebbe avvenuta la moltiplicazione del genere umano, l' uomo avrebbe meritato con degli atti virtuosi senza venire però ancora confermato in grazia. Il contrario insegnano le Divine Lettere essere avvenuto degli Angioli, i quali col primo atto meritorio furono al loro termine di perfetta beatitudine. E una tale dottrina scaturisce anche dalle nozioni della natura dell' Angelo e dell' uomo. Perocchè abbiamo veduto che la natura umana è intelligente e animale ad un tempo; e che la sua intelligenza è la inferiore di tutte nella gerarchia delle intelligenze, perocchè la natura di lei sta nel veder l' essere nel modo il più imperfetto, cioè al tutto indeterminato. Or poi per ispingersi innanzi da una cognizione così tenue dell' essere a una cognizione più intera e perfetta, essa naturalmente è fornita dei soli sensi animali i quali le fanno percepire solo degli esseri materiali: ed ella è costretta di usare di queste così limitate sue percezioni a sollevarsi all' intendimento degli esseri più nobili e di Dio stesso. Intendimento che non può mai pienamente conseguire per la tenuità e imperfezione del mezzo ch' ella adopera a pervenirvi; perocchè nè nella creatura materiale, nè in sè stessa e negli atti suoi trova mai cosa che tenga vera e propria similitudine cogli esseri più nobili, cioè cogli Angeli e con Dio. Di questo passo lento e improporzionato al gran viaggio è costretto di andare l' uomo considerato entro i limiti dell' ordine naturale. Ben è vero che la grazia il fornisce di un mezzo troppo più sublime e che troppo più innanzi il reca nella cognizione dell' essere assoluto. Ma la grazia stessa è data in modo che tiene proporzione al grado della natura: perocchè la grazia non fa che aggiungere splendore ed efficacia alle concezioni naturali, fino a tanto che nella vita presente l' uomo dimora; splendore ed efficacia che rende l' uomo senza dubbio più sapiente di prima in quanto alla profondità, dirò così, delle sue cognizioni e all' acutezza della sua vista spirituale per discernere dentro a esse il divino che gli si rivela; ma splendore però che non aggiunge alla sua mente percezioni interamente nuove di nature nuove. In somma come l' essere indeterminato che costituisce la specie umana è la vista più imperfetta dell' essere stesso, e però non fa che produrre tale specie di esseri intelligenti che è inferiore fra tutte le specie di esseri dotati d' intelletto; così la grazia congiunta a principio colla natura dell' uomo doveva essere la più tenue di tutte le grazie di cui fossero fornite le altre specie intellettive più eccellenti dell' umana. All' incontro la natura angelica, secondo la notizia che ce ne danno le divine lettere, non aveva un mezzo così limitato di perfezionare la sua cognizione dell' essere come sono i sensi animali di cui l' uomo è fornito. Ma in luogo di questi vedeva l' essere già per natura assai più perfettamente dell' uomo, cioè vedeva l' essere e nell' essere poteva scorgere immediatamente molte sue determinazioni, le quali sono ciò che i teologi chiamano specie infuse . Potevano adunque vedere dell' essere non pure il principio, come il vede l' uomo per natura, ma anche molti termini dell' essere stesso. Non già che gli Angeli vedessero da principio, per natura, o per grazia, il termine essenziale e assoluto dell' essere, cioè Dio: ma come essi cercavano nell' essere ideale, quasi in uno specchio che loro rifletteva l' essere reale, tutto ciò che a loro piacesse di trovarvi aguzzandovi la loro vista intellettiva; così vi potevano cercare dentro e le altre cose create e sè stessi e il Creatore. E l' amor loro che volgeva la loro volontà in questo ricercamento dell' oggetto della loro contemplazione, poteva essere giusto, recando la loro intellettiva attenzione di preferenza in Dio, od essere ingiusto preferendo di contemplare i pregi di altra cosa che Dio non fosse. E così avvenne che quelli, i quali dentro all' essere ideale che chiarissimamente risplendeva innanzi le loro menti, cercarono la divina essenza, ve la trovarono, e con quell' atto medesimo col quale perfezionavano la loro cognizione, conseguivano altresì il merito della virtù e in un cotal merito della virtù il premio della beatitudine. Laddove quelli che con ingiusto affetto cercarono nella chiara vista che avevano dell' essere ideale innanzi sè stessi che Dio, a questo preferendosi, commisero peccato nel tempo medesimo che abbuiarono il loro intelletto, col trattenerlo dalla contemplazione della luce divina; e non poterono poi più isguardare nella faccia divina a loro amica e ridente, ma solo nella faccia divina turbata e irata in essi: vista sommamente spaventevole, e onde ogni creatura per necessità di natura atterrita rifugge. Sicchè l' angelica natura pure col primo passo pervenir doveva o alla somma felicità o alla somma miseria. Non così è, siccome dicevamo, della natura umana, l' intendimento della quale non vede già nell' essere che gli sta innanzi tutto ciò che vuole, ma anzi non ci vede nulla se l' esperienza del senso animale non lo aiuta a vedervi alcune cose, il qual senso non lo può aiutare che assai debolmente e limitatamente, come detto è. Sicchè gli rimane sempre da fare un lungo viaggio innanzi che pervenga alla cognizione intuitiva di Dio, sebbene aiutato dalla grazia, perocchè anche questa procede con quella gradazione che la natura (1). Per la stessa ragione è che l' uomo anche peccando non perviene d' un tratto all' ultimo termine della malizia. Perocchè essendo graduata la sua cognizione e rimanendosi ella sempre imperfetta, rimansi graduato ancora il suo merito e il suo demerito che tien dietro alla cognizione. Poniamo che il suo peccato consista in disubbidire immediatamente a Dio. Ora egli è evidente che la gravezza di questo peccato non è tanta quanta è la grandezza e maestà del supremo Essere in sè stesso considerato; ma sì quanta è la grandezza e maestà di quest' Essere nella concezione dell' uomo che lo concepisce. Sicchè quanto l' uomo ha più di cognizione di Dio, tanto egli ha più di reità; e n' ha meno quanto la concezione del sommo essere è in lui più imperfetta. Fermata questa norma di giudicare della gravezza dei falli dell' uomo, egli è manifesto che la limitazione della cognizione nell' uomo ne limita il suo demerito, e che il graduato conoscere dell' uomo rende altresì graduato questo demerito stesso, il quale non è mai sommo se non allora che somma sia la sua cognizione. Di che avviene che l' uomo stesso, il quale potè offendere Iddio quando lo conosceva con un dato grado di cognizione, conoscendol poi con più gradi, si penta di averlo offeso. Sicchè Iddio per convertir l' uomo non ha talora che a donargli grazie di conoscerlo più sperimentalmente: di modo che coll' accrescergli la cognizione soprannaturale e sperimentale della divina natura, può talora salvarlo. Non così poteva avvenire degli Angeli, nei quali la cognizione naturale era massima nel primo atto e, corrispondente a questa cognizione naturale, era pur massima in essi la cognizione che loro derivava dalla grazia; secondo il principio che noi abbiam posto, che la grazia è proporzionata e come pedissequa della natura. Se dunque l' Angelo, col primo uso della sua volontà, poteva dare intero compimento alla sua cognizione di Dio, movendo l' intelletto a riguardarne la stessa essenza; l' uomo all' incontro non può mai giungere a questo, ma solo ad acquistare di mano in mano qualche grado maggiore della divina cognizione. E però l' Angelo col primo atto abusando della massima cognizione e della massima grazia (1), non gli rimase più onde riceverne alcun' altra maggiore che il potesse salvare (2). Ma nell' uomo fino che vive in terra può esser sempre messa una cognizione e una grazia maggiore, e con essa convertirsi: salvo che se abusasse dell' ultima delle grazie ch' egli può ricevere, perocchè allora nascerebbe quel peccato contro allo Spirito Santo di cui disse Cristo: « Che non sarà rimesso nè nel presente secolo nè nel futuro« (3) »; peccato in tutto simile a quello degli Angeli. Queste ragioni, nascenti dalla natura degli uomini e da quella degli Angeli, rendono ragione del mistero espresso dall' Apostolo con quelle parole: « Non sollevò gli Angeli, ma sollevò (apprehendit) il seme di Abramo« (4) ». Questa proposizione è naturale conseguenza della dottrina esposta nei due articoli precedenti. Perocchè non potendo l' uomo trasfondere ne' figli ciò che non ha egli medesimo per costituzione di natura, non può comunicarlo. Ora quando l' uomo innocente dava l' esistenza a dei suoi simili, non doveva ancora essere confermato in grazia, come vedemmo, e però nè pure i nati da lui potevano ricevere per nascimento quest' ultimo grado di perfezione. Ma se i nati dell' uomo innocente non ricevevano per generazione dal padre la confermazione della grazia divina, ricevevano però la grazia originale, come detto è. Ora la cristiana dottrina insegna che il contrario avviene della grazia del Redentore, la quale non passa nei figliuoli per la naturale generazione. Ora di che deriva adunque questa differenza? Ond' è che la grazia primitiva aveva questa singolar natura di essere ingenerata, per così dire, nei figliuoli, e non così la grazia riparatrice? La ragione di tale differenza sta pur sempre in quella gran distinzione fra la persona e la natura: la prima incomunicabile, comunicabile la seconda; cioè la grazia originale non era solamente affissa alla persona, ma era affissa anche a tutta la natura umana, come abbiamo veduto; sicchè per lei avveniva che tutte le potenze dell' uomo fossero indirizzate a un ordine soprannaturale, standone queste soggette senz' alcuna contraddizione nè repugnanza. All' incontro la grazia riparatrice è personale, cioè è affissa alla persona, ossia al principio supremo della natura umana, l' intellettiva volontà; e le altre potenze inferiori rimangono tuttavia ricalcitranti e ribellanti alla signoria di quella grazia, che però non sono da lei nella vita presente intieramente dominate e ristorate, ma tengono sempre la nativa corruzione che le mantiene ree di morte. Or ciò che è della persona non passa nel figliuolo, ma sol quello che è della natura. Il che vieppiù manifestamente apparisce ove si consideri il modo onde la umana natura mediante la generazione si comunica. Perocchè l' uomo genera non in quanto è persona umana, ma in quanto è individuo animale: sicchè il progresso della formazione dell' uomo nella generazione è dall' imperfetto al perfetto. Ed essendo l' uomo, considerato come animale, ancora disordinato e guasto, sebbene egli stesso come umana persona abbia ricevuta la grazia e la santificazione del Redentore, non può naturalmente produrre che un animale pure guasto e disordinato. Ed ora niente ripugna che un tale animale riceva il lume dell' intelligenza, perocchè questo lume non lo innalza già a stato di dignità morale e soprannaturale, potendo stare l' intelligenza anche insieme colla colpa. Ma sarebbe stato ripugnante e contradditorio che un essere moralmente disordinato fosse stato dotato contemporaneamente della grazia divina; perocchè questa non può stare col disordine morale e col peccato, giacchè la grazia è una comunicazione di quella natura divina abborrente essenzialmente da ogni peccato. E che l' uomo tosto che generato avesse in sè naturalmente un disordine morale, apparisce da questo, che l' appetito animale per suo disordine non ubbidisce da principio perfettamente alla ragione. Sicchè se l' uomo nascesse puramente coll' animalità senza ragione, dir non si potrebbe che in lui ci avesse deformità o guasto morale, ma solo alcun disordine fisico. Ma appunto col ricevere a un tempo stesso l' animalità e l' intelligenza, sorge in lui un disordine veramente morale per lo squilibrio di quelle due potenze, cioè a dire per la insubordinazione della prima alla seconda. Sicchè quella che genera è una natura guasta, e però genera una natura guasta: e questo guasto nella natura generata di natura sua è morale; e si richiede che Dio per un' azione esterna e sua propria vi porti riparo, non potendosi più comunicare la grazia pel veicolo della naturale generazione, ma convenendo che Iddio per nuovo straordinario dono l' affigga all' elemento intellettivo dell' uomo, nel quale vi è la verità ossia l' essere risplendente: essere che non è dato all' uomo per virtù propria della generazione, ma solo per una legge annessa da Dio alla generazione medesima, e il qual essere perciò non può mai venir macchiato nè alterato, perocchè è un' appartenenza a Dio medesimo (1). Sicchè risultando l' umana natura da un soggetto e da un oggetto, e venendo il primo formato dalla generazione, e il secondo venendo dato da Dio stesso, quantunque secondo una legge permanente; il punto di salute, e dove si poteva rappiccare la grazia era ciò che dava Dio all' uomo e non ciò che dava l' uomo all' uomo in generandolo. Di che apparisce che l' uomo doveva prima essere generato e poi redento, e che non poteva in uno colla generazione ricevere la grazia riparatrice. Un' altra dimanda si fa presente al pensiero: se i meriti e le grazie acquisite di Adamo innocente fossero dovuti passare nei figliuoli; e se no, per qual ragione passar non dovessero, quando pur passava la grazia originale? La cristiana dottrina risolve negativamente la questione: e il perchè anche qui giace nella intrinseca natura della cosa. La legge della generazione porta che passi nel figliuolo la natura del padre e della madre, ma non lo stato accidentale in che questa natura si trova nel padre e nella madre. La generazione è un' operazione animale, come abbiam detto, subordinata a certe leggi fissate dall' Autore dell' essere animale. Tutte le circostanze particolari e accidentali che entrano, o nella materia di cui si compone il generato, o negli organi generanti, o nel meccanismo dell' operazione medesima, tutto ciò insomma che realmente influisce in questa grande e arcana operazione, entra a determinare le accidentali qualità che ricever deve la natura nell' individuo generato: ciò che in esso resta sempre immutabile sono i principii costitutivi di questa stessa natura, che non è altro ella stessa che il complesso appunto di principii attivi individualmente congiunti. Ora tutti i meriti e le grazie acquisite del primo uomo innocente non avrebbero in lui accresciuto il numero de' principii attivi costituenti la sua natura; ma solo avrebbero sviluppati e perfezionati questi principii medesimi originariamente in esso esistenti. Come non è necessario che nascano i figliuoli coi detti difetti accidentali del padre; per esempio, non è necessario che da un uomo zoppo o senza braccia nascano altrettanti zoppi o monchi; così parimenti non è necessaria legge di natura che nascano i figliuoli coi pregi accidentali dei loro padri. Per questo gli adulti non generano già adulti, nè da uomini di grandi cognizioni nascono dotti i fanciulli: nè per la stessa ragione le virtù de' padri passano necessariamente ne' figli. Ma quello che è necessario per legge di generazione si è: che i principii attivi, che entrano a formare la natura de' padri e tutto ciò che traggono seco necessariamente, passino ne' figliuoli (1). Di che nasce che da uomini nascono uomini (nei quali vi sono per natura i due principii della volontà e dell' istinto); e che da bruti nascono bruti (nei quali non v' è che un principio solo, l' istinto). Se poi dei lunghi abiti di virtù acquistati dai genitori e delle abbondanti grazie possano giungere a migliorare intrinsecamente i principii attivi dell' umana natura e quindi influire sulla stessa generazione; se le lunghe virtù e i meriti dei padri insomma possano migliorare le schiatte, come pure se i vizii de' maggiori possano degradarle (il che io molto sospetto); questa è questione sottile e degna di essere chiarita colle più perseveranti e diligenti osservazioni sull' andamento delle famiglie e alterazioni che in un lungo corso di secoli ricevono le progenie. Ma per vantaggiosa che possa essere una tanta ricerca all' umanità, non è del mio ufficio nè delle mie forze il qui trattarla, giovandomi solo l' averla accennata (1). Si deve dunque distinguere i principii attivi, che entrano nella umana natura, dal loro sviluppamento. In quanto ai principii attivi si può distinguere 1. il loro numero, 2. la potenza di ciascuno, e 3. il loro ordine o scambievole armonia. In quanto al numero abbiamo già detto che la natura umana costituita nell' ordine naturale ne ha due, l' istinto e la volontà: e che costituita nell' ordine soprannaturale ne riceve un terzo, che è la volontà stessa operante dietro una percezione soprannaturale. In quanto alla potenza intrinseca di ciascheduno, questo è data per le leggi a cui soggiace la natura e la generazione, e ho manifestato di sospettare che possa essere accresciuta o diminuita per l' influenza degli abiti virtuosi o viziosi, e in generale pel bene e pel male a cui può soggiacere l' umanità nelle tante e sì varie sue vicende. In quanto al loro ordine, l' essere questo perfetto, mediante una perfetta subordinazione dei principii attivi, costituisce la perfezione dello stato morale dell' uomo. Questi tre elementi si debbono calcolare da chi vuol conoscere la perfezione maggiore o minore della costituzione umana. Ma oltre la perfezione annessa alla costituzione dell' uomo, havvi la perfezione del suo sviluppamento: la costituzione umana è formata dai principii attivi; il suo sviluppamento dall' uso ed esercizio dei medesimi. La perfezione che può conseguire l' uomo col suo sviluppamento, cioè col suo usare de' propri principii attivi, o appartiene alla persona o appartiene alla natura. Nell' uno e nell' altro caso è una perfezione accidentale: perfezione accidentale della persona, perfezione accidentale della natura. Io chiamo perfezione della persona quella che consiste e risiede nel principio personale, cioè nel principio supremo dell' uomo, nel principio morale. All' incontro perfezione della natura io dico quella che riguarda qualsivoglia principio attivo che forma parte dell' umana natura. Conviene afferrare bene questa distinzione fra perfezionamento della persona e perfezionamento della natura. Egli è manifesto che tutte le potenze dell' uomo possono svilupparsi e perfezionarsi e che la perfezione dell' una non è già sempre condizionata alla perfezione dell' altra; ma che l' una si avvantaggia e perfeziona talora senza dell' altra, se non anche a spese dell' altra. Però ogni sviluppamento e perfezione dell' uomo, come animale, non tiene già la proporzione e la norma onde l' uomo si sviluppa e si perfeziona come essere intellettivo. Anzi non di rado avviene che chi diede opera a conservare più studiosamente la sanità e le forze corporali si trovi aver negletto la coltura delle forze dello spirito, e che gli uomini più dotti e perspicaci non sieno già sempre i più sani e i più robusti. Medesimamente lo sviluppo e perfezionamento delle forze intellettive non va già sempre innanzi d' un passo collo sviluppo e perfezionamento morale dell' uomo: e non è infrequente che chi ha fatto tesoro di più cognizioni e ha rese le sue facoltà intellettuali più perspicaci e più pronte, si trovi aver trascurato la propria moralità e non data la sufficiente coltura al principio morale che in lui risiede. Or la coltura e il perfezionamento del principio morale forma la perfezione della persona: laddove il coltivamento e sviluppo della parte intellettiva o animale dell' uomo non forma che una perfezione della natura; perocchè il principio morale è il supremo principio attivo che sia dell' uomo, in che abbiamo detto consistere la personalità. Dissi che la perfezione della persona non solo differisce dalla perfezione della natura, ma talora si trovano queste due perfezioni in vera opposizione fra di loro. Questa verità che può parere assai singolare a chi non vi ha mai riflettuto, si rende manifesta mediante un' osservazione che fa colla solita sua acutezza S. Tomaso, cioè: che fra le virtù ve ne hanno di quelle che non esigono alcuna imperfezione nella natura; ma che ve ne hanno altresì di quelle che suppongono e richiedono per esistere una qualche imperfezione della natura. Delle prime il santo Dottore reca in esempio la carità e la giustizia: e in esempio delle seconde adduce la fede e la speranza, le quali suppongono che manchi il conoscimento o il possesso di ciò che si crede e spera; come pure la penitenza e la compassione, la prima delle quali suppone essere preceduto il peccato e si forma dal dolore, la seconda nasce dalla partecipazione dei mali altrui (1). E veramente non c' è dubbio che il rammaricarsi de' propri falli, il compatire alla miseria altrui, il credere e lo sperare le cose da Dio rivelateci sulla sua parola, sono altrettanti atti morali e meritorii, i quali per ciò ci accrescono la perfezione della persona. E tuttavia come si potrebbero fare questi atti perfettivi della nostra personalità, se non ci fosse data occasione a farli da quei difetti di natura che ne formano come la materia o l' oggetto? Per quanto possa parere altrui strana questa opposizione che talora s' incontra tra il perfezionamento della persona dell' uomo e quello della sua natura, egli è però un fatto innegabile e nessun filosofo di buona fede potrà sicuramente dissimularlo. La ragione di ciò si è che la natura umana, come la natura di qualsivoglia altra cosa creata, contiene in sè medesima una necessaria ed essenziale limitazione, la quale per ciò nè pur Dio stesso avrebbe potuto fare che non ci fosse. E una tale intrinseca e naturale limitazione impedisce che la natura umana sia suscettibile di ogni ingrandimento e perfezionamento, e l' assoggetta alla surriferita ed altrettali linee di confine: dimodochè, perfezionandosi da una parte, conviene che si renda imperfetta dall' altra, e fra queste due quantità, l' una delle quali cresce mentre l' altra scema secondo una certa legge, fissa e determina un maximum di bene totale, oltre il quale non si può andare. Della quale limitazione noi abbiamo trattato più lungamente altrove (2). Ora qual è l' ordine che devono avere fra loro la perfezione della persona e quella che è semplicemente perfezione della natura? Ove si abbia a mente in che noi abbiamo fatto consistere la persona umana, non sarà difficile avvedersi che la natura deve servire alla persona e non viceversa, e che la perfezione della persona vale infinitamente di più di quella che è semplicemente perfezione di natura, anzi è la sola che costituisca il vero pregio di tutto l' uomo. Perocchè la personalità risiede nel più nobile e più alto principio che nella natura umana si trovi, cioè in quel principio volitivo che è ordinato a seguire la verità e che perciò ha un prezzo assoluto e un potere di fatto e di diritto sopra tutte le altre potenze che compongono l' uomo e che da quel supremo principio devono essere mosse e guidate. Sicchè ove ci avesse difetto nel principio supremo, tutto l' uomo sarebbe con questo disordinato e guasto: quando avendovi difetto solamente nelle potenze inferiori, niuna delle quali per sè è morale, l' uomo però non si potrebbe dire assolutamente corrotto e disordinato perocchè la sua personalità sarebbe sana, e l' IO (1) non ubbidirebbe già, ma riterrebbe la sua dignità di comandare o almeno di non servire ad altre potenze. E qui di passaggio mi si permetta osservare l' illusione e l' inganno che si fanno gli uomini per ragione di queste due distinte perfezioni della persona e della natura. Si vedono sopra la terra gli uomini divisi in due parti. Una parte è intesa a cercare la perfezione della persona; un' altra parte intesa a cercare quella perfezione che è semplicemente della natura. E gli uni e gli altri vanno in cerca di un bene di cui godere: gli uni e gli altri tentano di acquistare una grandezza, della quale possano compiacersi in sè medesimi: perocchè ogni uomo, qualunque sia, vuol sempre esser felice, grande, perfetto; vuole almeno poter esser creduto e potersi creder tale. Intanto quelli, che non si affaccendano se non a conseguire una perfezione e una grandezza che appartiene alla natura ma non alla persona, sono manifestamente ingannati: perocchè la perfezione a cui volgono l' animo e le fatiche, migliora sì alcune parti dell' uomo, ma non l' uomo stesso. Tutti quelli che si mostrano infaticabilmente industriosi e zelanti per crescere sè stessi o anche gli altri uomini di beni materiali e che non altro mirano che a poter aumentare l' agiatezza, la prosperità, le delizie della vita, o se si vuole anche tutti i progressi delle scienze e la coltura dell' intelletto, a esclusione della cultura morale pratica, e che si fermano qui nè voglion conoscere alcun altro bene dell' uomo di ordine a questi superiore; tutti costoro, dico, procacciano una perfezione all' umanità, ma che non si può dire mai giungere al miglioramento dell' uomo come persona, ma solo ad un cotal miglioramento dell' uomo come natura. Senza far dunque questa distinzione, essi si vengono lusingando di meritare giustamente il nome di filantropi, e si arrogano di essere essi soli che promuovono gli avanzamenti progressivi e l' ingrandimento della specie umana. Ma chi bene e imparzialmente considera i loro intendimenti, trova che nasce bensì un vantaggio dai loro sforzi anche alla umana personalità per un effetto indiretto della maggior perfezione della natura: effetto dal genere di uomini dei quali parliamo non inteso nè apprezzato nè preveduto. Ma che però questi uomini allora quando essi astraggono dal perfezionamento veramente morale, per non avere in vista che il solo perfezionamento materiale dell' umanità, non innalzano bastevolmente le loro intenzioni e non si propongono un fine abbastanza nobile dei loro utili travagli; cioè non tendono a rendere grande e perfetta veramente la persona umana che è quanto dire tutto l' uomo, ma sola una parte della sua natura. E che s' illudono quindi se si persuadono di lavorare alla vera grandezza e alla vera perfezione dell' uman genere. E se intesi alla perfezione della natura, questi uomini che fin qui abbiamo descritto, si facessero coscienza di non nuocere mai alla perfezione della persona umana, un preclaro beneficio farebbero colle loro oneste fatiche e studi all' umanità. Ma ove si consideri che noi parliamo di quei soli, i quali non altra perfezione conoscono possibile nell' uomo se non quella che abbiamo nominata perfezione della natura, e che quindi disconoscono o non badan punto o certo niente apprezzano la perfezione veramente morale e personale; non sarà difficile avvedersi che nei loro tentativi e nelle loro imprese la perfezione della persona dovrà venir ben sovente posta a pericolo e sacrificata alla perfezione parziale della natura, che sola si vuole e s' intende. Conciossiachè, come di sopra abbiamo detto, queste due maniere di perfezione non sempre vanno di un perfetto accordo fra loro: ma l' una può cadere in collisione coll' altra per l' intrinseca limitazione della natura umana. In tutti questi casi di collisione, colui che non ha mai afferrato il pregio della perfezione morale e che tutto ripone nella perfezione della natura, non dubiterà [di lasciare] che quella prima venga soprafatta e distrutta da una cieca avidità che lo porta verso la seconda. Nè questo è un avvenimento peregrino e raro: perocchè egli è tanto universale che costituisce anzi egli solo quella grande classificazione di tutti gli uomini in buoni e cattivi. Non esagero punto: si consideri la cosa con diligenza. Non sono pur i soli filantropi quelli che vogliono il bene della natura umana: anche gli egoisti il vogliono almeno per sè stessi. Tutti dunque gli uomini, nessuno escluso, appunto perchè sono uomini, hanno voglia del bene, tutti cercano una perfezione ed altresì un ingrandimento. Qual è dunque la differenza per la quale alcuni sono detti buoni, ed alcuni altri sono detti cattivi? Non è altra che questa, che alcuni i quali sono detti buoni, ogni qualvolta si accorgono trovarsi in collisione la perfezione della natura e la perfezione della persona, antepongono questa a quella. Dimodochè ciò che vogliono per assoluto, a qualunque costo e senza condizione alcuna, è la perfezione della persona: ciò poi che vogliono con un volere relativo e a condizione che niente soffra la dignità personale, è la perfezione della natura. Ed al contrario che alcuni, i quali sono detti cattivi, preferiscono questa a quella: sicchè ciò che vogliono per assoluto e a qualunque condizione è una qualche perfezione o bene di natura; il qual loro volere assoluto, così determinato, impedisce che possano veramente volere il bene consistente nella dignità della persona, perocchè questo bene non si può volere se non assolutamente, e chi il volesse relativamente e sotto condizioni, non lo vorrebbe punto. Quelli adunque che vogliono in primo luogo il bene della persona e subordinatamente a questo il bene della natura, sono i buoni: quelli che non vogliono il bene della persona, sebben vogliano il bene della natura, sono i cattivi. Trasportiamo questa teoria nell' ordine soprannaturale, vestiamola col linguaggio della religione: noi avremo nelle due classi sovraccennate i figliuoli di Dio e i figliuoli degli uomini, i cittadini delle due città, i figli della luce e delle tenebre. La divina scrittura, parlando dei figliuoli degli uomini, fa nascer d' essi i giganti cui descrive come uomini potenti, uomini avidi di gloria, intraprendenti, fondatori di città, conquistatori, re (1). Or poi di essi, che pure avevano tante doti di natura, tuttavia dice che non ha eletti questi il Signore, ma li ha riprovati (2). Qui veggiamo da una parte uomini, i quali tendevano certamente ad una cotal loro perfezione, che risplendevano sopra gli altri per coraggio, intraprendenza, forza corporale, avvedimento e molti altri pregi; e dall' altra che tuttavia sono riprovati dall' Eterno. Ciò nasceva perchè la perfezione cui questi tendevano di conseguire e di promuovere non era la perfezione della persona, ma solo la perfezione di alcune parti della natura, la quale non si può dire semplicemente e assolutamente perfezione dell' uomo. Ora questa divisione grande del genere umano, queste due stirpi originali, dette di Dio e degli uomini, non cessarono mai, ma si perpetuarono e si perpetuano, sviluppandosi l' una accanto all' altra, senza venir meno sino alla fine dei secoli. E i due sistemi, tanto in teoria come in pratica, seguiti da queste due gran fazioni dell' umanità sono così opposti fra loro, così irreconciliabili, così esclusivi, che i loro seguaci non possono mai aver pace insieme: ed indi la perpetua lotta, che sempre si sc“rse e che non può mai cessare, de' malvagi e de' buoni (3). Veduto quale sia l' ordine della perfezione della persona e della perfezione della natura, resta a vedere in che modo e con che legge di relazione fra lor si sarebbero queste due perfezioni sviluppate e conseguite dagli uomini innocenti. Certo è che fino che gli uomini fossero rimasti innocenti, nessuno di essi, di spontaneo moto, avrebbe cercato la perfezione della natura a scapito della perfezione della persona; e che per ciò queste due perfezioni non si sarebbero trovate, quanto a sè, in lotta fra loro, ma con bella armonia sarebbero procedute. Nè meno si vede cagione (senza che fosse intervenuta una legge positiva), per la quale l' uomo fosse addotto in necessità di coltivare la perfezione della persona a spese e scapito della perfezione della natura, e può fors' anco [dirsi] che questa cagione per sè non sarebbe nata giammai (1). Tuttavia non è ripugnante allo stato di uomini innocenti che questi in grado diverso avessero dato opera all' una e all' altra perfezione e che alcuni si fossero dati più a sviluppare e perfezionare le parti della natura e altri si fossero applicati più di proposito a conseguire il pregio risiedente nella persona: senza però che i primi in perfezionando la natura guastassero il pregio della dignità personale; nè che i secondi coll' amore e collo studio tutto messo in aumento di questo pregio guastassero e corrompessero le altre parti della natura. In tanto però quelli che si fossero dati più di proposito al perfezionamento della persona, avrebbero fatto più degli altri tesoro di perfezione morale, di meriti e di virtù, e quindi avrebbero fatto più celere il loro viaggio verso alla somma perfezione umana a cui tutti pure eran volti. Di che s' intende come gli uomini, ancorchè innocenti tutti, pure si sarebbero distinti infra loro anche per li diversi gradi del merito morale, come pure per li diversi gradi dello sviluppamento delle altre parti della natura. E non è già che quelli, i quali avessero atteso più a lungo degli altri alla perfezione della natura, non avessero anche in ciò facendo raccolto del merito morale e con esso arrecato un poco di perfezione alla propria persona. Perocchè non poteva loro mancare la temperanza, la rettitudine e la giustizia, come nè pure una retta intenzione di obbedienza alla maestà del Creatore. Ma questo merito sarebbe lor venuto per indiretto e avrebbe illustrata la loro persona quasi come lume riflesso; quando quei primi che si fossero dati a contemplare le cose della sapienza, della virtù e la divina natura per collocare in essa direttamente tutto il loro amore, si dovevano guadagnare un merito diretto e molto più sublime e di un passo più celere giungere sicuramente all' altezza di tutta la personale perfezione. Or qui il pensiero naturalmente ci porta a dimandare a noi stessi: in che ordine gli oggetti si sarebbero offerti all' attenzione umana e le potenze dell' uomo si sarebbero sviluppate e perfezionate? E se, considerando come l' uomo è costituito, a lui fosse stato proprio e connaturale di dar tosto mano a perfezionare direttamente la propria personalità, o anzi se dovea prima prendere a sviluppare e perfezionare le altre parti di sua natura; e solo in fine, accorgendosi e quasi scoprendo in sè medesimo più chiaramente la personale dignità, si fosse volto a lavorare intorno a questa e occupatosi a perfezionarla? La divina Scittura, non meno che l' esame della costituzione dell' uomo, dà per risposta che sarebbe succeduto lo sviluppo diretto della persona in ultimo, e dopo essersi l' uomo alquanto occupato nello sviluppamento e perfezionamento delle altre parti della sua natura. Imperciocchè in quanto a quello che ci dice circa una tale questione l' esame della umana costituzione, vedesi manifestamente che le potenze più pronte a muoversi nell' uomo e le prime a svilupparsi sono quelle della sensibilità animale. Le quali si trovano pur in contatto, per così dire, coi loro oggetti, che è tutta la natura materiale la quale circonda l' uomo appena che esiste, e lo stimola con infinite sensazioni a porre in esercizio tutti i suoi sensi. Sicchè l' attenzione sua è tratta primieramente fuori di sè e volta all' universo materiale che le sta presente; e non può sicuramente pensare a se stesso, ai suoi atti interni, all' anima sua che non cade punto sotto i suoi sensi, se non in un secondo tempo e con un atto di riflessione, quando di ciò gli venga data alcuna occasione, dopo aver già fatto uso de' sensi suoi e sviluppate le sue facoltà anche intellettive sulla materia che gli fu posta e messa innanzi dall' universo materiale. E questo è quello che risulta ancora, come dicevo, dalla divina Scrittura. Perocchè Iddio, dopo creati gli uomini, non disse già loro direttamente: coltivate la vostra personalità, linguaggio che non avrebbero potuto intendere; ma disse: « Crescete e moltiplicatevi e riempite di voi la terra e sottomettetevela e dominate sui pesci del mare e sui volatili del cielo e su tutti gli animali che si muovono sopra la terra« (1) ». Nelle quali parole è descritto lo sviluppamento e perfezionamento non ancora della persona, ma della natura umana. E dice ancora la Scrittura medesima che il Signore Iddio, dopo aver fatto l' uomo, il prese e il pose nel giardino di piacere, perchè lo lavorasse e lo custodisse (2). Dove pure si vede che l' opera che viene immediatamente assegnata all' attività umana in quei primi momenti non fu direttamente lo studio della sapienza e la contemplazione dell' essenza divina, ma fu il lavoro materiale dell' agricoltura, la formazione e incremento della umana società e gli usi tutti che la società umana cavar potesse dall' universo materiale, dai bruti, dalle piante e dai minerali, in aumento della perfezione naturale dell' uomo, il quale veniva con ciò costituito signore e imperante su tutta la natura. All' opposto l' opera molto più grande e più sublime del perfezionamento personale prendeva il suo principio nell' essere servo obbediente di Dio. E col progresso del tempo Iddio aveva lasciato all' uomo stesso, nel quale aveva rinserrato la sua imagine e similitudine e fornitolo di tutte le facoltà più nobili, a scoprire in sè e quasi dissotterrare un universo più grande del materiale e un giardino da coltivare più vago dell' Eden; aveva lasciato a lui di rinvenire quasi direbbesi a caso, la via della celeste contemplazione, scoperta la quale, sarebbe allora cominciato in lui quell' arbitrio, di cui parlammo, di dedicare sè stesso o più direttamente al lavoro del perfezionamento della persona, o di continuarsi come prima nella occupazione rivolta al perfezionamento solo della natura. Dissi però che a questo perfezionamento della persona fin da principio Iddio non aveva lasciato di dargli una indiretta spinta. Poichè dopo di avergli donati in cibo tutti i vegetabili che produceva la terra, soggiunse però dandogli un precetto di obbedienza: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il chiama all' obbedienza, la quale perfezionare doveva appunto la sua persona con un merito morale. Ed è degno di osservazione che questa perfezione o merito personale che Iddio intendeva di promuovere nell' uomo con quel precetto, doveva promuoversi a scapito o certo a mortificazione della natura, perocchè la natura veniva impedita dal dilettarsi e nutricarsi di quel frutto bello a vedersi e soave a mangiarsi, il quale eccitava in essa natura un appetito di sè che domandava di essere soddisfatto. Ma per la limitazione, che abbiamo accennata, dell' essere creato, quella perfezione personale che procedeva dall' obbedienza di un precetto positivo, non poteva in alcun modo acquistarsi se non a condizione che la natura ne rimanesse rattristata e cassa nelle sue voglie. Egli è dunque manifesto che l' umanità prima avrebbe atteso alla perfezione della natura direttamente e solo indirettamente alla perfezione della persona: ma che col progresso del tempo l' umanità sarebbe volta e applicata direttamente alla perfezione della persona; dal qual punto avrebbe fatti rapidissimi progredimenti verso l' altissimo suo fine. E poichè la ragione per la quale non avrebbe atteso a principio direttamente a coltivare la perfezione della persona, sarebbe stata perchè l' attenzione sua e con questa la sua volontà e le sue forze rimanevansi occupate degli oggetti esterni sottoposti per natura alla sua sensibilità e alla sua contemplazione, a cui la cognizione di sè stesso sarebbe succeduta poscia quasi come una scoperta; per ciò è da credere che i figliuoli dei primi uomini, dopo fatta già questa scoperta, sarebbero stati più direttamente educati e volti al perfezionamento personale, approfittando essi in tal modo del progresso fatto dai loro padri. Il che però non avrebbe tolto in nessun d' essi l' arbitrio di attendere a uno o ad altro ramo, ad una o ad altra maniera di perfezione, secondo che fosse più loro piaciuto; rimanendo in tal modo le differenze fra gli uomini de' meriti e delle specie di perfezione o pregi acquistati. Distinta adunque la perfezione della persona da quella che non è se non perfezione della natura, e trovato che nello stato innocente lo sviluppo e ingrandimento dell' una si verrebbe facendo a lato dell' altra, più o meno, secondo l' arbitrio della umana volontà, nasce la dimanda: se queste due perfezioni sieno di tale indole da poter crescere di lor natura sempre più indefinitamente. In quanto alla perfezione della natura io credo che si possa rispondere affermativamente. E del credere io alla indefinita perfettibilità della natura, la ragione è questa. Tale perfettibilità si estende a sottomettere tutto il mondo materiale all' uomo, cioè a trar da lui e dalle cose tutte in lui comprese gli usi tutti che possono prestare ai bisogni, ai piaceri, e ad ogni maniera di servigi che l' uomo possa da esse bramare. Di più consiste questa perfettibilità a riempire tutta la terra di uomini quanti ne può capire, e di questi uomini come di una sola famiglia concordissimi fra di sè, formare la più pacifica e virtuosa società che possa essere, dalla quale nascano agli individui tutti gli agi e i piaceri sociali. Consiste ancora nell' acquistare una perfetta cognizione di tutte le cose create di modo che ciascun degli uomini abbia ricca la mente di una scienza perfetta e appagata quella curiosità che li porta a bramare di conoscere l' indole delle cose quant' ella si stenda. Or se dei due primi punti non può sicuramente affermarsi che essi presentino all' umanità un campo tutto indefinibile a percorrere, benchè non vi ha dubbio che il presentino sì fattamente vasto che l' occhio umano non può fissarli confini; il terzo punto però, cioè quello che riguarda il sapere, pare che offerisca all' umanità un viaggio al tutto indefinitamente lungo. Perocchè la natura creata non solo è vastissima e profondissima materia al sapere dell' uomo, ma può dirsi a ragione che ella non ha fondo, conciossiachè si avvolge tutta di infiniti, e il vestigio della divinità che l' ha creata ove che sia risplende per modo che ogni pensamento umano vi si perde e smarrisce senza trovarne l' uscita: nè appieno si può giammai conoscere la creatura, se appieno non si conosce quel Creatore che non solo l' ha creata una volta, ma che di continuo la sostiene e la crea, e, per così dire, la nutrica di sè medesimo. Basta domandarne ai matematici che pure hanno alle mani la sola materia più esteriore e superficiale della natura, quale è la quantità , e pure a ogni passo si offre loro incontro quella terribile idea dell' infinito che li sgomenta e li fa trovar fuori di tutti i limiti delle cose reali. Che dirò della fisica, della fisiologia e della patologia? Nelle quali scienze, ove non si considerino alla superfice, ma con occhio profondo e metafisico, mirasi il volto della natura tanto maestoso, tanto pauroso e i suoi intendimenti così segreti, e le sue leggi così auguste e il suo principio un mistero così inesplicabile che pare assai più proporzionato all' intelligenza di una deità che a quella dell' uomo. Quanto poi al perfezionamento personale, si può egli considerare o nell' ordine della sola natura, o anco nell' ordine della grazia. Nell' ordine della natura questo perfezionamento personale io lo tengo di un progresso, al tutto indefinito, sotto ogni aspetto in cui si considera l' atto morale. L' atto morale, come ho mostrato nel libro dei Principii della Scienza Morale (1), risulta da due elementi, la legge e la volontà; e migliore è l' atto morale quanto la legge è più grave, e quanto è più ferma l' adesione della volontà. Or sia da parte della legge, sia da parte dell' adesione della volontà, la perfettibilità morale è indefinita. E veramente la legge non nasce che dalla cognizione dell' oggetto verso il quale si pratica l' atto morale. Or gli oggetti verso i quali si praticano gli atti morali sono Iddio e l' uomo: onde le due leggi supreme della morale imperanti l' amor di Dio e degli uomini. Ma la cognizione di Dio nell' ordine naturale può sempre mai crescere indefinitamente, non solo perchè Iddio, infinito di natura, è per sè inesausto fonte all' uomo di cognizione; ma perchè l' uomo colle forze naturali, sebbene possa crescere sempre nel conoscimento di Dio, tuttavia non può attinger mai tanto di questo conoscimento che appieno lo soddisfaccia e lo bˆi: vi ha dunque una gradazione indefinita nella cognizione che l' uomo può naturalmente acquistare della divina natura: ciò trae seco che la legge di onorare Iddio si renda per l' uomo sempre indefinitamente più grave e tale che egli possa esercitare verso Dio un maggior grado di amore e di riverenza, il che aggiunge all' atto suo di continuo un maggior grado di merito. Dalla parte poi dell' adesione della volontà non si vede modo parimenti di assegnare alcun termine al crescimento d' amore della medesima. Perocchè non essendo ella mai appieno soddisfatta e sazia del possesso di Dio che naturalmente potesse avere, non c' è ragione che ella mai si fermasse nel suo sforzo di vie più con vivo amore possederlo. Senza chè l' umana natura e l' umana volontà ha ella stessa in sè qualche cosa d' immenso e d' indefinito; nè mai accade che noi possiamo assegnare un grado di affetto tanto grande, che un altro maggiore non si possa pensare possibile di cader nell' uomo. Il perchè pare a non dubitarsi che la perfettibilità personale dell' umana natura sia pur essa suscettibile di un progresso al tutto indefinito, il quale non potrebbe interrompersi se non per morte. E il medesimo avviene tuttavia all' umanità; sebbene vestita della grazia del Riparatore. Perocchè fino a tanto che l' uomo vive, l' uomo può sempre accumulare un numero maggiore di meriti e crescere in perfezione di virtù. In quanto all' ordine soprannaturale noi ragioneremo nell' articolo seguente. La differenza fra gli aumenti successivi della grazia nello stato presente dell' umanità e nello stato primitivo, consiste in questo che il crescere della grazia nell' umanità presente non può giammai essere tale che ci rechi senza morte alla visione beatifica di Dio: laddove nello stato primitivo non v' aveva morte, e convenia passare allo stato di gloria per successivi incrementi della grazia. La ragione per la quale l' uomo non può ora congiungersi pienamente al Sommo Bene se non intervenendo la morte, è fondata nella natura della grazia del Redentore: la quale, come abbiamo detto, non è affissa alla natura, ma alla persona; e non tutte le parti della natura vengono perciò da essa medicate e redente, ma la parte animale rimansi sempre disordinata e sempre perciò degna di essere data preda alla morte. E la visione piena di Dio non istà nell' uomo con tale disordine; sicchè l' uomo non è atto a veder Dio fino che veste la carne del peccato. Perocchè quando dico uomo, dico prima un animale, e poscia gli aggiungo l' intelligenza e la grazia quasi su quel primo fondamento: onde sarebbe assurdo il dire che un animale corrotto potesse esser levato alla piena partecipazione e visione della divinità. Ma così non era degli uomini innocenti: la loro natura perfetta, la grazia affissa alla natura, la parte animale dell' uomo non ritrosa a seguire a suo modo l' altezza dell' intelletto e della volontà, la quale teneva dietro alla grazia fedelissima. Allora tutto l' uomo congiungevasi a Dio per grazia, nè egli aveva nulla a distruggere in sè medesimo, ma tutto era degno di vedere svelatamente la faccia di Dio. Egli è dunque a vedere come sarebbe probabilmente seguito questo discuoprimento graduato del volto di Dio all' uomo, col quale questo sarebbe stato pienamente inebbriato di beatitudine. Gli aumenti della grazia avrebbero tenuto una cotal proporzione cogli aumenti dei meriti morali. Ora il corso della crescente perfezione morale abbiam veduto esser doppio, cioè l' uomo avrebbe cresciuto di perfezione morale e di meriti tanto per la via di una più chiara notizia che avrebbe acquistato di Dio, oggetto principale de' suoi atti morali, come per la maggior forza dell' adesione della volontà nell' atto buono e morale. A questo doppio progresso di moralità e di merito corrisponder dovea una doppia successione o serie dei gradi della grazia. Si rifletta bene che il merito morale può aversi grande assai anche con una tenue o almeno indistinta cognizione dell' oggetto dell' atto morale: anzi egli avviene ben sovente che con meno cognizioni vada congiunta una maggiore bontà morale. Avviene ancora sovente nello stato presente dell' umanità che il buon volere e quindi il merito morale si congiunga con un errore della mente e coll' ignoranza: e quante volte non avviene che una coscienza erronea dia occasione di acquistare un merito? Certo colui, il quale fa un penoso sacrifizio, credendolo a Dio gradito e in sè stesso virtuoso, non perde il suo merito, eziandio che quell' opera riguardata per sè stessa non avesse alcun pregio, o fosse inopportuna e fuori di luogo. Nella fede pure v' ha sempre un' ignoranza ed oscurità: e di questa ignoranza appunto nasce in gran parte il merito di essa fede; sicchè colui, il quale non ha bisogno d' altro argomento a credere che l' autorità della divina rivelazione, va innanzi, per merito di fede, a quell' altro che viene sostenendo la sua credenza con degli argomenti tratti dalla ragione umana, ed ha bisogno di ricorrere a questi per rimuovere da sè ogni dubitazione. Nello stesso tempo però che si dà questa specie di merito da desumersi e misurarsi dal grado di energia della volontà buona, indipendentemente dal grado della cognizione o anche in proporzione opposta a questa; si dà anche un' altra specie di merito che tiene proporzione col grado di luce e di cognizione di cui gode la mente contemplante, dietro al quale grado di lume tende direttamente la buona volontà che insieme colla chiarezza di quell' oggetto s' innalza e si sublima. Or all' una e all' altra di queste due specie di merito, come dicevamo, corrisponde una grazia, e nelle due specie al grado del merito il grado d' aumento della grazia. La differente natura di queste due grazie apparisce ove si consideri che quella, la quale ha relazione al merito della volontà senza che abbia rispetto alla perfezione del conoscimento, è più positiva, per così dire e ha più ragione di premio: quando l' altra che s' aumenta proporzionalmente a quel merito che cresce di pari passo colla cognizione, procede per una legge, quasi direbbesi, più naturale e men dipende da un positivo atto di Dio che rimunera o certo che si compiace dell' opera buona della sua creatura. In ragione d' esempio: a colui che contempla la natura divina di una contemplazione amorosa per volontà di via più onorarla e servirla, viene crescendo di mano in mano non meno il lume che l' affetto con essa la grazia. Ma questo accrescimento pare che sia un cotal effetto naturale della sua contemplazione medesima; pare che il conoscere gli cresca unicamente per la virtù del contemplare, e l' affezionarsi gli cresca unicamente per la virtù del conoscere: benchè infatti la grazia si associ all' atto del contemplare e dell' amare, ed ella stessa il sollevi in un ordine soprannaturale e il faccia crescere di più e più lume e calore. All' opposto la virtù di quello che merita piuttosto anzi coll' efficacia della volontà che coll' aiuto del conoscimento, la virtù del semplice fedele il quale pochissimo conoscendo delle cose divine, pure mantiene la giustizia e cerca ovecchessia di fare ogni cosa ch' egli creda dover piacere a Dio; questa virtù non pare che produca di sè stessa aumento di grazia, per modo che quell' uomo virtuoso ne rimanga più e più abbellito e perfezionato: ma l' aumento della grazia che quest' uomo riceve par che sia più un dono spontaneo di Dio il quale vuol premiare con essa la fedeltà che gli piace di quell' uomo semplice cui distingue perciò e decora coi doni suoi. Tuttavia, chi ben considera, anche gli aumenti di questa grazia si legano colla natura degli atti virtuosi di quell' uomo. E come questi atti traggono più il loro merito dalla volontà che dall' intelletto, così anche la grazia che si accresce a quest' uomo è diretta più a crescere la perfezione della sua volontà che le notizie del suo intelletto. Di che si può fermare il carattere che segna e distingue non meno quei due meriti che queste due grazie; cioè il primo merito trae dall' aumentata luce dell' intelletto, e la grazia che a questo consegue è perfettiva del lume intellettivo; il secondo merito trae più dall' energia della volontà, e la grazia che a questo consegue è più perfettiva della volontà. E così dicendo, non intendo già che manchi nella prima intieramente la volontà, e nella seconda intieramente l' intelletto; i quali due elementi dell' azione umana e morale non possono mai mancare: ma intendo dire che nel primo caso domina più l' intelletto e i gradi di merito si computano secondo i gradi di luce ch' egli acquista; nel secondo caso domina più la volontà e i gradi di merito si computano secondo i gradi dell' energia che questa acquista. Il che nulla vieta che la grazia, che illumina l' intelletto, non si rifletta altresì a corroborare la volontà; nè che la grazia, che da prima corrobora la volontà, non abbia virtù di schiarire poscia l' intelletto medesimo. Ora nello stato degli uomini innocenti, io mi penso che per queste vie dell' intelletto e della volontà gli uomini pervenissero al pieno possesso di Dio; e alcuni di essi per l' una via, altri per l' altra prima vi pervenissero. Ciò è consentaneo con quello che abbiamo detto dei due modi nei quali l' uomo può vedere Iddio, cioè in forma di cognizione e di amore. Perocchè così io penso meco medesimo che crescendo nell' uomo quella grazia, che mostra Iddio all' intelletto, questa per successivi aumenti potea pervenire fino a mostrare sì chiaramente Iddio fino a che l' uomo vedesse di Dio lo stesso Verbo, che è quanto dire la stessa sussistente divina conoscibilità: e che crescendo nell' uomo quella grazia che raccende l' amore della sua volontà, ella potesse pervenire a segno sì che l' uomo vedesse in questo amore lo stesso Spirito Santo, ossia la sussistente divina amabilità. E di vero ho già dimostrato che quel conoscimento di Dio che l' uomo ha per grazia, è un principio della visione di Dio (2), il cui termine è il Verbo: e quell' amore onde l' uomo per grazia ama Iddio è un principio di quel possesso il cui termine è lo Spirito Santo. E ora egli è manifesto che giunto l' uomo o alla visione del Verbo o al possedimento dello Spirito, egli è pervenuto con questo solo alla visione beatifica della divina essenza; conciossiachè nulla si pare che distingua le persone dall' essenza nella deità. Di che doveano poscia conseguirne a una tal visione tutti quelli effetti che di lei son proprii, cioè a dire la beatificazione dell' intera umanità, la quiete del desiderio nel suo termine, e dalla pienezza riboccante di gloria onde ebbrio è lo spirito, un travasamento anche nelle inferiori potenze, e quella cotale spiritualizzazione, di cui parla l' Apostolo, del corpo stesso (3). Il che tutto però doveva avvenire, secondo che a me pare, di una maniera oltremodo soave e appieno conveniente alla costituzione della umana natura. Noi abbiamo descritto il modo del conversar d' Iddio colle sue creature innocenti, cioè vestito di alcune forme sensibili e forse non diverse dalle umane. Dal Creatore così circoscritto e reso accessibile agli uomini di recente usciti dalle sue mani, i quali non avrebbero altramente potuto sostenerne la maestà, ricevevan essi gli ammaestramenti e i precetti e i consigli che loro abbisognavano. Ma non solo le vocali parole del Creatore risonavano ai loro orecchi, e per essi nelle menti e nei cuori; ma egli cadeva ancora sotto gli altri loro sensi, conversando con esso lui come con un Signore simile a loro. Da tutte queste sensazioni che ricevevano immediatamente dal Creatore velato e atteggiato alla loro capacità, usciva la grazia, che per la via dei sensi entrava nelle loro anime e le condecorava, in un modo non dissimile a quello onde la grazia esce da quei segni sensibili che nella legge di Cristo si chiamano Sacramenti. E per questa grazia poi cresceva in essi la percezione di Dio medesimo, e quel loro Creatore conversante in forma da cadere sotto i loro sensi, sempre più rendevasi sensibile e visibile al loro intendimento: sicchè quei veli sensibili onde il Signore si avvolgeva, si rendevano, per così dire, sempre men densi e lasciavano ognor più penetrare la vista spirituale dell' uomo a percepire la faccia di Dio, cioè la divina essenza. Certo è che anche la umanità del nostro Signore Gesù Cristo tramandava di sè certi cotali raggi divini, sicchè per essa si potea travedere la sua divina natura. Per questo egli diceva a Filippo: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio« (1) ». E si faceva maraviglia di non essere ancora conosciuto: « Io sono con voi da tanto tempo, e ancora non mi avete conosciuto?« (2) ». Perocchè le parole di Cristo, l' aspetto e i modi suoi avrebbero dovuto tutti insieme mostrare agli uomini, se ben disposti fossero stati, la sua divinità. Il Creatore adunque conversante in forme sensibili colle sue creature innocenti, avrebbe, in un somigliante modo, cioè per via di parole e di sensazioni, secondate dagli interiori doni di grazia, più e più manifestato e rivelato sè stesso agli uomini, fino a tale che questi avrebbero percepito coll' intendimento la stessa divina essenza; nè, mentre l' intendimento si levava e afforzava a ciò, sarebbero periti i loro sensi, i quali pure dall' oggetto divino sarebbero stati pasciuti, fortificati, perfezionati. E perchè l' uomo fosse preservato da ogni maniera di separamento mentre succedeva nel suo intelletto questo successivo aumento di divino lume e nei sensi esterni questo avvaloramento e perfezionamento, doveva anche nell' interno del corpo umano ricevere aiuto e nutrizione vitale; il che gli avveniva col mangiare il frutto dell' albero della vita, che era anch' esso un sacramento di quella età, dando all' uomo non pure un cibo di corporea sostanza, ma insieme con essa un dono soprannaturale d' incorruzione, una grazia e una virtù speciale (3). Il perchè gli uomini innocenti dovevano essere forniti di quella perfezione, della quale la mente di Platone trovò convenire a delle divinità minori. Perocchè avendo voluto quel filosofo ideare degli esseri forniti di corpo e di anima, i quali fossero altrettanti dei, cioè a dire esseri perfetti, attribuì loro l' immortalità e introdusse il sommo Dio a parlare agli dei da lui formati, in questo modo: Voi che siete nati allo stato di deità, or vedete di che grandi opere io sia padre o facitore. Queste opere sono indissolubili per cenno mio; sebbene tutto ciò che è colligato, di sua natura possa disciogliersi. Ma egli non è punto buon consiglio disciogliere checchè è colligato con ragione e con sapienza. Pure voi, sebbene nati immortali, tuttavia non potete essere anche indissolubili. Ma nulladimeno non verrete disciolti nè i fati della morte vi uccideranno: chè i fati non saranno più vigorosi del mio consiglio, il quale è un vincolo più forte a mantenervi perpetuamente che non siano que' fati, coi quali foste colligati allorquando venivate generati (1). Sicchè il vigore che lo faceva immortale era dato al corpo dall' albero della vita; e le parole e sensazioni che riceveva da Dio erano segni che a lui servivano come d' altrettanti mezzi ed aiuti co' quali pervenire alla visione beatifica di Dio medesimo. Ciò che abbiamo detto mostra quale era e doveva essere lo stato morale degli uomini innocenti secondo le cristiane tradizioni e le tradizioni de' popoli. Di più quello stato in cui abbiamo contemplata l' umanità, non è solamente dato dalle tradizioni, ma egli è altresì un ideale di perfezione che dalla natura dell' uomo viene suggerito e proposto alla mente contemplante. La quale mente, tosto che ha un concetto, non può a meno di discernere in esso le parti imperfette e le perfette e imaginare e aggiungere tutto ciò che gli manca: e quel concetto recato così all' ultima perfezione ideale di lui propria è dilettevole spettacolo alla stessa mente contemplatrice. Solamente v' ha questa differenza fra l' ideale stato dell' uomo a cui la mente cerca di sollevarsi, e quello che ci narra la cristiana verità, che la prima colla sua contemplazione non eccede i confini dell' essere ideale , quando la seconda ci parla di uno stato che appartiene all' essere reale : cioè la seconda è una storia che racconta realizzato quello che il pensiero non poteva venir ideando che come possibile. Veduta pertanto l' ideale perfezione dell' umanità e il suo realizzamento nella storia de' primi uomini creati da Dio innocenti in mezzo a questo universo sensibile di cui erano costituiti regi, rimane di abbassare ora lo sguardo a considerare lo stato della umanità presente, a rilevare se con quello che dovrebbe essere consente quello che è. Dico quello che dovrebbe essere , perocchè, supponendo accordato che l' uomo e il mondo sieno l' opera di Dio, egli è manifesto che non si dovrebbe trovarvi difetto alcuno, ma che in essa opera tutto dovrebbe essere perfettamente ordinato, e l' uomo e le altre nature di tale guisa fatte e disposte che nulla si potesse pensare di meglio; giacchè egli è evidente che un Essere sapientissimo ed ottimo che possa fare tutto quello che concepisce, non deve produrre se non cosa la più perfetta che cada in pensiero di chicchessia. Altramente se l' operazione di Dio non producesse un' opera conforme all' ideale della perfezione, egli è manifesto che un altro artefice potrebbe concepire più nobilmente ed eseguire l' opera dietro una più eccellente idea di quello che facesse Iddio: ciò che ripugna, e il tipo della perfezione non poteva sicuramente mancare alla mente divina, nè la divina volontà aver altra norma di operare che quel tipo, a realizzare il quale non trovava ostacolo alcuno, attesa la somma potenza dell' operante. Ora se l' opera di Dio non può essere altro che un realizzamento dell' ideale perfezione, e se l' uomo e le altre cose tutte sono veramente opere di Dio, come ammettono tutti quelli a' quali noi rivolgiamo il discorso; noi dovremmo, isguardando l' umanità e l' universo che la circonda, trovarla fornita al tutto della perfezione che abbiamo accennata descritta come a lei propria. Ma è ella dunque in uno stato così desiderabile l' umana specie? Vediamolo brevemente. Che la umanità sotto il peso di gravi mali e di molteplici sofferenze, non è cosa che esiga troppe parole per essere provata. L' esperienza della vita che ciascun mortale ha preso in sè medesimo e quella che ha potuto cavare dallo spettacolo de' suoi simili, è una prova troppo dura e troppo convincente a riconoscere che dalle lagrime della culla al sospiro della morte quaggiù l' uomo non varca che un mare di guai, di minore angoscia se breve è il viaggio; benchè neppure è dato all' uomo il sollievo della brevità della vita, che per legge di natura ama la vita e con essa la prolungazione delle sue fluttuazioni e de' suoi patimenti. Quando si considera gli ampi voti del cuore umano e quella felicità indefinita e immortale a cui aspira continuamente l' anima dell' uomo, e si paragona coll' immensità di questi desideri nati e contemperati coll' uomo l' estrema limitazione di quest' essere medesimo che non può mai realizzare de' suoi voti nè anco la minima parte, ma li trova tutti contrariati, illusi, scherniti, e non ha in sua mano nè il fuggire i mali, nè il procacciarsi nè anco i beni più frivoli, che pur dipendono dagli accidenti; egli par sovente giuoco maligno, un trastullo crudele della natura stessa, acconciamente chiamata da un savio del paganesimo matrigna e non madre, la quale con una mano gli sparga in cuore immensi desiderii e speranze, coll' altra percuotendolo delle più inattese sciagure, produca lo spettacolo di un essere fatto per una somma felicità che lotta indarno con una somma sciagura. Nè notizie più confortanti noi raccogliamo circa lo stato della umanità se la consideriamo sotto l' aspetto morale. Noi abbiamo parlato della corruzione morale congenita con noi nella prima parte di quest' opera, e abbiamo descritto lo stato dell' umanità sotto questo lato considerata seguendo la scorta dell' osservazione (1). Aggiungeremo sole poche parole a conferma di ciò che ivi abbiamo detto. In ogni città, dice Bayle, vi è patibolo e spedale: ecco in breve tutta la umanità. Gli uomini riflessivi di qualunque secolo sono stati altamente colpiti al vedere quell' inclinazione al male che nasce coll' uomo, che opera in lui prima ancora dell' uso della ragione, che infaticabilmente lo aggrava e precipita a tutti i disordini della immoralità. Cicerone non finisce di stupirne e ne fa in più luoghi la descrizione tutta al vero: [...OMISSIS...] . Tale è il fatto dello stato dell' uomo: l' uomo ha in sè stesso e nelle cose che lo circondano una fonte inesausta di mali fisici e morali. Or questo fatto innegabile, veduto sempre, confessato sempre e che ha parlato sempre altamente nella coscienza dell' uman genere, di tutti i popoli e di tutte le sètte, ha pur sempre anco prodotto la più grande maraviglia nei filosofi di buona fede, privi della rivelazione, i quali hanno confessato di trovare in esso qualche cosa di solenne, di portentoso, di inesplicabile. La ragione di questa maraviglia, e di questa somma difficoltà in assegnare una conveniente e verosimile spiegazione di quel fatto, sta in quelle dimande o questioni singolari che un tal fatto offre alla mente di chi lo considera e che sono principalmente le seguenti: La natura in tutte le opere sue si mostra sempre consentanea con sè medesima, e piena di sapienza e di bontà. Or come nel solo uomo, che pur sembra il suo capo d' opera, può esser mancata a sè stessa? Forse nella produzione dell' uomo fece ella uno sforzo che vinse le sue proprie forze? Perocchè altramente come si spiega la contraddizione che racchiude la natura umana? Da una parte quest' uomo appena entra nel mondo delle cose reali, ignora sè stesso, è impotente, pieno di bisogni, sempre in cimento di morire senza conoscere d' esser vissuto: egli campa per accidente, e ogni passo che fa, ogni respiro con cui assorbe l' aure della vita, è anco un passo che lo avvicina alla morte, e un respiro di meno che gli rimane: con grandi fatiche e fra patimenti allevato e suoi ed altrui, egli non esiste quasi per far altro che per cercare i mezzi di vivere, giacchè alla massima parte del genere umano non sopravanza tempo se non per spenderlo nel sudore della sua fronte; senonchè questo tempo stesso viene sovente rapito da tante specie d' infermità che in varie e crudeli guise straziano i corpi già destinati al supplizio della morte. E son pochi i morbi che distemprano e dilacerano i corpi, che gli uomini non vi aggiungano la propria crudeltà contro sè stessi: le divisioni e discordie, innalzandosi e gonfiandosi gli uni sopra gli altri, e rincrudelendo di più maniere, di che le guerre, le schiavitù, le tirannidi. E di fianco a questo stato delle cose sta pure nell' uomo, inseritovi da natura, un focosissimo ardore della libertà, l' anelito dell' amore, il bisogno indeclinabile della felicità, un sospiro alla vita, una vita incorrotta e immortale. Quella natura che ha messo in noi questi indettamenti, or come ci ha poi fatti così infelici? Che maligno diletto potea rallegrarla a donarci sì alti e sì implacabili desiderii, i quali dovesser poi esser tutti frustrati? O è ella una stessa autrice colei che parla nel fondo dell' uomo di grandezza, di pace e di beatitudine; e colei che ha poi formato l' uomo stesso pieno di abbiezione, di inquietezza e di miseria? O pure che l' uomo tragga l' origine non da un solo principio, ma da due opposti, il principio del bene e quello del male? Egli è vero che anche gli animali sono soggetti al dolore: ma privi come sono d' intelligenza essi nè conoscono, nè posson bramare una felicità che si stenda nella eternità e che si sollevi alla dignità morale. Il loro dolore come il loro piacere sono de' fenomeni inerenti alla loro natura e che passan con essa. Nel solo uomo tutto mostra dovervi essere uno spirito immortale ordinato a una spirituale e immortale felicità: nel solo uomo può aver luogo la deformità morale: e solo in esso la morte è una contraddizione col voto e coll' indole della sua natura. Chi adunque può giustificare la natura? E se la natura non si giustifica, se si ammette in essa stoltezza e malignità, non vi ha dunque più una intelligenza divina che presiede all' universo? Ed ella stessa che è questa natura tanto sapiente in ogni fil d' erba e ogni vile insetto, e tanto stolta nell' uomo? O chi la limita nel suo sapere, e nel suo volere, e nella sua possa? - Queste interrogazioni resero pensosa tutta l' antichità e fecero la disperazione di tutte le scuole de' filosofi. Nè meno i mali dell' uomo, ove si considerino senza il lume della rivelazione, sono difficili a conciliarsi colla giustizia di Dio: perocchè sotto un Dio giusto, come dice un Padre della Chiesa, nessuno innocente può essere misero. Or dunque come è misero il bambino prima ancora che conosca le cose che lo circondano, e che acquisti l' arbitrio della sua volontà? Come può esser misero colui che nacque ebete di mente e non potè mai usare a sua voglia le proprie potenze? Come può essere misero anche quell' uomo che condusse una vita benefica e virtuosa e che tuttavia perì oppresso dalle sventure? Se l' uomo per natura è innocente, come poi per natura è misero? E che l' uomo nasca colpevole, può egli cadere in mente ad uomo alcuno? Chi può concepire che l' uomo prima di essere abbia peccato? O chi può spiegare in che modo nel fanciullo di pochi giorni sia entrata la colpa? Le due questioni proposte sin qui si offeriscono alla mente considerando il fatto rispetto allo stato eudemonologico dell' uomo. Ma il suo stato morale non reca meno d' imbarazzo e difficoltà a spiegarsi. Perocchè, chi può assegnar l' origine, esclusa sempre la rivelazione, d' una tanta inclinazione al male, da cui l' uomo viene senza posa impulso? Una legge che porta nel suo cuore gli intima di essere giusto: e una propensione della sua natura lo sospinge incessantemente nella ingiustizia. Questa propensione intorbida i suoi pensieri, mette in tumulto i suoi affetti e la sua volontà: o non vede più la luce, e va barcolloni per le vie della iniquità; o la vede, e tuttavia non può seguitarla, ma ubbidisce alla violenza d' una forza che lo soverchia e lo padroneggia. Chi ha messo nell' uomo questa reità così potente? Se egli è il figlio della natura, o d' Iddio, si può credere che la natura o Dio gusti inserendo in una creatura, fatta per la virtù, un seme che frutta la immoralità e che egli stesso è immorale? Queste dimande l' uomo le ha sempre fatte a sè stesso; s' assottigliò per rispondersi, stupì della difficoltà che trovava a soddisfarsi, si indegnò seco medesimo, disperò di riuscirvi. E pure l' uomo non può vivere senza farsi qualche risposta a queste dimande, e in mancanza di una verità, inventa un sistema che con ogni sforzo d' ingegno vuole imporre per vero non solo agli altri ma anche a sè medesimo. I sistemi però inventati a spiegare il disordine dello stato presente dell' uomo, sono degni di ogni attenzione; poichè da una parte attestano il fatto di questo disordine e provano quanto abbia colpito la riflessione de' più grandi filosofi; dall' altra mostrano l' impotenza della filosofia a spiegare la condizione dell' uomo reale a lui medesimo. Uno dei sistemi di cui parliamo, fu quello che trovando nell' uomo due principii contradditorii, cioè l' aspirazione a una immensa felicità e con essa una somma impotenza di ottenerla ed una somma miseria, dissero che la cagione di quest' essere non poteva esser unica e che si erano avvenuti a formare l' uomo due principii interamente contrarii, il principio del bene e quello del male, indipendenti, supremi, eterni, essenzialmente nemici. Tale è il sistema de' Manichei e di un gran numero di sètte e di nazioni. Un altro sistema è quello abbracciato da Platone. Come il sistema de' Manichei pare che avesse più risguardo al male fisico e alle questioni che da lui nascono, così quel di Platone pare che più togliesse di mira le questioni che nascono dal male morale inviscerato nell' umanità. Egli veniva imaginando che le anime umane, prima d' essere inserite nei corpi, fossero state abitatrici degli astri e che avendo colà peccato fossero poi per giusta punizione di Dio legate nelle carceri dei corpi. Cicerone, che espone questo sistema e che non lo attribuisce tanto a Platone quanto alla più remota antichità, dice così: [...OMISSIS...] . Un terzo sistema che ha grande affinità col Platonico, è quello della trasmigrazione delle anime, tolto a seguire e reso celebre da Pitagora, per la quale trasmigrazione gli spiriti, passando per varii corpi e secondo varie leggi, venivano appurandosi. Tutti questi tre sistemi si perdono colla loro origine nelle tenebre della più remota antichità. Nel passo seguente di un dotto autore che tratta della religione dell' Indo, si trovano tutti questi tre sistemi avviluppati insieme in quelle religiose tradizioni. [...OMISSIS...] . Altre tradizioni, tolte egualmente secondo ogni apparenza dal Bramaismo, ci parlano di una ribellione di spiriti o di angeli acciecati come Brama dall' orgoglio e come lui precipitati nell' abisso. Aggiungono che Iddio creò il mondo visibile perchè nella sua misericordia egli volle dare un mezzo agli spiriti caduti di ritornare a lui. Cominciò allora il tempo, e con esso le trasmigrazioni delle anime che già prima erano puri spiriti (3). Qui si vede a un tempo la dottrina de' due principii di Manete, quella di Platone sul peccato commesso dagli spiriti prima di essere inseriti nei corpi, e la trasmigrazione delle anime di Pitagora: o certo almeno tutte quelle dottrine vi hanno grande analogia con quelle indiane. Le tre opinioni sopra esposte si trovano nei libri dei filosofi vestite di forme filosofiche e acconciate a modo di sistema. Ed esse hanno bensì subita l' azione della meditazione filosofica, ma nel loro fondo sono più antiche del nascimento della filosofia; sono opinioni popolari tradizionali, e dal popolo i filosofi le presero e le si appropriarono, lavorandole e riducendole per quanto seppero ad espressioni scientifiche (1). I filosofi stessi però giammai non si contentarono del proprio lavoro e si trovarono sempre impacciati con quelle opinioni tradizionali alle quali essi non trovavano nulla da sostituire di meglio; e tuttavia vedevano toccar esse tali punti, sui quali gli uomini volevano assolutamente o sapere o almeno credere qualche cosa. Lasciando adunque i filosofi per ora e ricorrendo al fonte ond' essi stessi attinsero, cioè alle tradizioni de' popoli, veggiamo se in queste nulla si trova di uniforme e di consentaneo nella faraggine delle favole, ove si abbia qualche raggio di luce che renda una verisimile ragione del grande fatto di cui parliamo, cioè dello stato misero e triste della specie umana. Tutte le tradizioni e tutte le mitologie si accordano in questo che narrano nel principio delle cose l' esistenza di una età d' oro, tempo di felicità e di virtù, dalla quale poi gli uomini sono scaduti per qualche loro mancamento. Per ciò con ragione dice Voltaire: La caduta dell' uomo degenerato è il fondamento della teologia di quasi tutti i popoli (2). Conviene adunque distinguere e separare tutte le frasche, per così dire, di che è stato imboschito questo fatto semplice e fondamentale dalla stemperata e strampalata imaginazione dei popoli e considerare lui solo che per tutto uguale si trova; come pure convien separarlo da tutte quelle invenzioni e ingegnose giunte, colle quali si pretese di spiegare il modo onde quel primo fallo che degradò gli uomini sia avvenuto, e come egli potè infettare e nuocere il genere umano sì fattamente fino a tanto in giù degradarlo. Il che ove si faccia, ritenendo quella sola parte della tradizione che intorno a questa materia si trova uniforme e costante fra tutti i popoli, si cava questo risultamento, che nelle tradizioni e credenze di tutti i popoli della terra per cagione del gran fatto della condizione misera e trista dell' umanità si assegna un peccato primitivo e originale. Non è mio intendimento di recare qui tutti i documenti storici che provano questa verità, i quali d' altra parte oggi son resi comuni: ma mi restringerò a un cenno sulla credenza indiana, la quale colla illustrazione che ha ricevuto dalle recenti scoperte ha viameglio dimostrato, che il fondo di tutte le tradizionali dottrine è il medesimo e che si trova sempre in questo fondo il peccato originale. La più antica religione (dice uno scrittore che toglie a esporre le diverse religioni o credenze dell' Indo) la quale si confonde coll' origine stessa delle cose, è quella che fu rivelata da Brahmƒ, il creatore del mondo, e da esso prende il nome di Brahamaismo. Brahmƒ (1) è la prima persona della Trinità indiana, Dio padre che s' incarnò il primo per venire ad annunziare la sua dottrina avanti ben molti secoli. Gli uomini allora vestiti d' innocenza e di pietà offerivano a lui de' sacrificii puri come i loro cuori, le primizie dei frutti, il latte dei loro greggi e non mai vittime di sangue. Ma questo culto sì semplice e sì commovente non potè durare sopra la terra. Gli uomini divenuti peccatori ne scancellarono fin l' ultima traccia; ed ecco perchè oggidì non si trova nè pur vestigio di qualche tempio dedicato a Brahmƒ. Ma nè le tradizioni popolari, nè i sistemi filosofici soddisfacevano pienamente al terribile problema dell' origine del male. I filosofi avevano fatto la critica alle dottrine popolari e sebbene avessero preso da esse il meglio di loro filosofie, tuttavia le sdegnavano, pretendevano di essere usciti dal volgo e sollevati a più alte regioni: avevano appunto contrapposti i loro sistemi filosofici alle opinioni popolari e preteso di supplire con essi a ciò che ad esse mancava. Ma dopo aversi dato questo vanto, veniva il momento, in cui sentivano la voce della propria coscienza, che diceva loro i sistemi da loro inventati non esser meglio soddisfacenti delle comuni credenze ch' essi avevano rigettate e benanco dileggiate; e confessavano talora ingenuamente mancar loro il modo di rispondere a quelle questioni che pure la natura umana faceva incessantemente a sè medesima. Così Platone, dopo avere insegnato con tanta sicurezza i peccati commessi dall' anime abitatrici delle stelle, s' accorgeva poi di non aver fatto con ciò che un cotal sogno filosofico, e scrivendo a Dionisio di Siracusa che l' aveva interrogato su questo argomento, confessava seriamente di non sapere che rispondere, e di non aver mai trovato alcuno che lo illuminasse in una materia così oscura e misteriosa (1). Per due ragioni i popoli e i filosofi non potevano uscire dal labirinto della strana questione sull' origine del male. Primo perchè lo scioglimento di una tale questione dipendeva dalla notizia di un fatto , di cui i racconti tradizionali avevano col procedere de' secoli alterate e confuse in mille maniere le circostanze; il che rendeva incredibile e inverosimile il fondo stesso del fatto, reso antichissimo e narrato in modi sì varii e sì contraddicenti fra loro e sovente anche del tutto assurdi. Ciò che dava buon appicco ai filosofi di rigettarlo, a' quali parea d' ingrandirsi e nobilitarsi col negar fede a ciò che aveva vista di essere una favola di donnicciuole. Secondo perchè quel fatto, quando pur si fosse conservato nelle tradizioni de' popoli senza alterazione alcuna, tuttavia egli riuscir doveva cosa oltremodo misteriosa e oscura. Sicchè il voler spiegare con quel fatto l' origine del male era cosa superiore alle forze della ragione naturale o certo della filosofia; nè vi aveva un' autorità infallibile che potesse comandare alla ragione stessa una cieca credenza al medesimo e alla spiegazione che per suo mezzo si dava all' esistenza del male fisico e morale sopra la terra. Egli è vero che il peccato originale (che come ognuno si accorge è il fatto di cui parliamo) fu nel suo fondo creduto da tutti i popoli, come abbiamo osservato, quasi per istinto, per un bisogno di credere pure qualche cosa che desse ragione dello stato miserabile della umanità. Ma questo peccato originale che colla spontaneità de' popoli veniva creduto, reggeva poi alla riflessione? Quante difficoltà non presentava a chi si ponea a ragionarvi sopra? Quanti misteri non involgeva che ributtava la filosofica ragione, voglio dire quella ragione che non soffre mai di trovare un mistero superiore alle sue forze e che negherebbe il sole di mezzogiorno anzichè confessare la propria limitazione. Primieramente il peccato originale è congiunto colla storia di uno stato della umanità infinitamente diverso dal presente, nel quale Dio e l' uomo conversavano insieme, per così dire, a tu per tu, stato di cui non si può avere esempio e già esso solo difficile a credersi. Di poi in che modo il peccato del padre poteva passare nei figliuoli? O come questi esser rei prima ancora che venissero in possesso dell' uso della ragione? E come castigati d' un peccato che non fu in loro arbitrio il non ricevere e che essi stessi non commisero? Egli è evidente che, acciocchè gli uomini potessero credere a questo fatto e alla spiegazione del male che da questo fatto dipende, non ci voleva meno che la testimonianza di un' autorità infallibile, incontro alla quale la ragione umana dovesse ammutolire e ragionevolmente dovesse dire seco medesima: io non veggo l' uscita di questo intrico: il peccato originale che mi si propone è per me un mistero, ma finalmente l' autorità che me lo annunzia è infallibile. Le mie forze sono limitate: se io non veggo come il peccato si possa propaginare e derivare nei figliuoli, non è per questo che non possa essere e che io medesimo non potessi vedere se crescessero le mie forze. Or come io veggo per certo che l' autorità che me l' annunzia non può fallire, così m' è forza di ammettere questo fatto del peccato originale, eziandio che egli involga in sè un altro misterio. Era adunque necessaria un' infallibile autorità che annunziasse agli uomini quel gran fatto che contiene la spiegazione dell' origine del male, perchè la facesse lor credere, perchè la facesse creder loro ragionevolmente, la facesse credere a tutti, la facesse credere non colla sola spontaneità, colla quale credono gli uomini che ancor sono nello stato d' infanzia, ma con una credenza che potesse tenersi ferma contro la riflessione degli uomini già avanzati e inciviliti. Perocchè un' autorità infallibile ben provata è forte contro all' esame di qualsivoglia riflessione, nè questa potenza critica, che tutto tende a distruggere ciò che non partecipa dell' infinito e dell' eterno, può addentrarla sventarla ed offenderla. Posto dunque che nel peccato originale sia la soluzione del gran nodo che presenta la questione dell' origine del male, egli è manifesto che nissuna filosofia, quando anche avesse conosciuto l' esistenza di questo peccato, era in grado di ammaestrare gli uomini di una tanta verità e di farla lor credere, perchè sarebbe sempre stata sprovveduta di autorità sufficiente cioè di un' autorità infallibile, chè meno non si richiedeva per infondere negli uomini la ferma credenza a una cagione sì misteriosa contenente in sè tanti elementi che ripugnavano all' assenso di una piena persuasione. Per questo dice acconciamente Lattanzio, che [...OMISSIS...] . Ora essendo all' uomo cosa di prima necessità il conoscere un tanto vero senza il quale rimane un enigma a sè stesso, un enigma insostenibile alla propria natura, che pur vuol sapere di sè qualche cosa e col quale solo egli può tranquillare l' animo suo, tentato altramente di negar fede alla sapienza della natura, alla giustizia e all' esistenza stessa di Dio, i quali sono i fondamenti della morale; egli è manifesto il bisogno che v' ebbe di una divina rivelazione coll' autorità della quale il mondo intero potesse essere certificato di questo dogma del peccato originale; il quale assicurato nella credenza degli uomini servisse come di base ben ferma a fabbricarvi su la morale conveniente all' uman genere nello stato in cui ora si trova caduto. E questa certa notizia dell' origine del male fermata nella credenza degli uomini è uno di quei sommi beni che diede loro il cristianesimo, che è quanto dire l' unica religione vera che fu sempre al mondo. Poichè questa si presentò al mondo con un' autorità divina e dopo avere persuaso l' umanità che era in nome di Dio che parlava, annunziò il dogma del peccato originale, che venne ricevuto senza più avervi difficoltà sulla parola di Dio. Così fu la Fede quella che soccorse al bisogno degli uomini a cui non poteva soccorrere la ragione umana. La qual fede vinse, per così dire, la stessa ragione dell' uomo, convincendola della sua limitazione e della sua impotenza a satisfare alle questioni essenziali che l' uomo le rivolgeva, al bisogno supremo di conoscere sè stessa, di sapere che ha l' umanità, e di operare in conformità e coerenza della cognizione di sè stessa. Se non che egregiamente dice S. Agostino che « la fede prepara l' uomo alla ragione e la ragione conduce alla intelligenza e alla cognizione« (1) ». Poichè quelle verità stesse che da prima son credute dagli uomini come altrettanti misteri sull' autorità di Dio che le rivela, venendo poi meditate dalla ragione medesima si vengono alquanto chiarendo, e la ragione che prima non vi rinveniva che fitte tenebre e apparenti assurdi, finisce collo scoprire in esse un abisso di luce e cava dal loro seno delle stupende cognizioni e trova che in esse si nasconde il più profondo della stessa scienza, e che quello scuro che da prima mostravano al di fuori non veniva tanto dall' essere quelle verità al tutto inaccessibili alla ragione, quanto dall' essere difficili e non asseguibili dalla ragione senza lunghe meditazioni e fatiche, e ciò che è più difficile a conoscersi è bene spesso la parte più sublime e vitale del sapere. Laonde se la fede non avesse fermata l' attenzione dell' uomo in verità così alte e preclare, queste sarebbero state perdute per la umanità: conciossiacchè l' uomo non si sarebbe giammai fermato a pensare lungamente e faticosamente in cosa a cui non prestava fede e nella quale nulla cagione il persuadeva di trovarvi nascosto profondamente un tesoro; ma sarebbe ricorso a vie più facili invenzioni e ipotesi e avrebbe queste continuamente rimutate; come quelle nessuna delle quali il poteva lungamente accontentare, senza pervenire giammai al fermo della salutare verità. Ma la fede mise l' uomo a dirittura in possesso dei veri più necessarii e degni, e così l' uomo ebbe la materia sulla quale esercitare poi la sua meditazione, materia raccomandata troppo bene all' attenzione di sua ragione dalla fede medesima che aveva persuaso l' uomo ivi dentro contenersi il più pregiato e il più recondito della sapienza. E il dogma del peccato originale può servire appunto di esempio di questo servigio che presta la fede alla ragione. Perocchè questo peccato che ricevono i bambini pur nell' atto di esser generati e che consiste in una vera macchia dell' anima, come dicono i teologi, non già solo in una esteriore e legale imputazione (2), in una macchia che rende l' anima giustamente degna di eterna dannazione, è tal cosa di che sembra nel primo annunciarsi che non possa darsi nulla di più strano e assurdo. E tuttavia ove si mediti lungamente, egli viene perdendo sempre più di quello strano e incredibile che nella prima faccia dimostra, e finalmente si perviene a trovare che egli non ripugna punto nè poco alla natura umana nè alla natura del male morale; e che tutta quella apparente assurdità che parea contenere non aveva altra cagione se non il non conoscere noi a fondo la natura intima dell' uomo e quella della sua moralità: e in nostra ignoranza a giudicare della possibilità del peccato originale con dei pregiudizii e con dei principii falsi intorno alla volontà dell' uomo e alla malizia o bontà della medesima. Il che io spero di dover dimostrare nel seguente capitolo, nel quale non farò altro che esporre il dogma del peccato originale; non ignudo, ma vestito e corredato di tutte quelle cognizioni intorno all' uomo e alla sua dignità o pregio morale che somministra la ragione filosofica. Le quali cognizioni gli t“rranno d' attorno per avventura tutto quel duro e aspro che ripugna alla ragione di coloro che non l' hanno se non per poco e superficialmente considerato. Gli espositori della verità cristiana dicono che il peccato originale è una « macula« » dell' anima. Egli è evidente che non si deve intendere la parola « macula« » materialmente, perocchè nell' anima non si dànno macchie nel senso proprio e materiale: dicendosi macchia in questo senso a quell' imbratto di colore che rompe e deforma la candidezza o comechesia il colore naturale di un corpo. E` dunque in senso traslato che si piglia la parola macchia quando si applica all' anima, e viene a dire una macchia morale, una deformità morale che deturpa e disgrega quell' ordine e bellezza di giustizia, di cui l' anima doveva altramente essere decorata. Egli è evidente che nella sola concupiscenza animale non può consistere peccato alcuno, perocchè il peccato è una macchia morale (1) e ogni moralità esige una natura intellettiva e volitiva. Ora nella sola concupiscenza animale non vi è possibilità di cognizione e di volizioni, ma solo sensazione e istinto cieco. Dunque nella sola concupiscenza animale non possono trovarsi le condizioni del peccato. Chi dicesse il contrario, dovrebbe attribuire moralità e immoralità anche alle bestie, nelle quali v' è l' animalità, contro il senso comune e la cristiana dottrina. Che nella nozione di peccato debbano avere luogo i due elementi della legge e della volontà , è cosa universalmente consentita da' savii (1). Ma nel fatto del peccato originale alcuni trovano questi due elementi essere stati in Adamo, e di questo sono soddisfatti senza più. Ma il venire imputato al bambino uno sregolamento della sola volontà del suo antenato Adamo, non sarebbe che la imputazione estrinseca del Caterino e del Pighio o di chichessia; sistema escluso da ogni cattolica teologia. E come, in tal caso, si avverrebbe quello che ha deciso il Concilio di Trento, che il peccato originale non è solo comune, ma proprio dei singoli bambini che nascono? (2). Il disordine adunque della volontà di Adamo potè essere cagione della propagazione del peccato nei bambini (3): ma perchè il peccato sia proprio di questi e non a questi solo imputato; perchè sia una macchia morale che contamina l' anima loro; conviene che il disordine del peccato sia altresì nella loro propria volontà. E perciò acconciamente dice Gaetano de Fulgure, che il peccato originale [...OMISSIS...] . Ciò che ha in sè di difficile questa sentenza tutto si dissipa colla chiara distinzione del volontario e del libero . Fino che non si conosceva che la volontà si può trovare in uno stato di necessità e in uno stato di libertà (5), questa materia rimase involta nelle maggiori tenebre. Ma le questioni intorno alla grazia, eccitate nella Chiesa in occasione delle dottrine di Baio e di Giansenio, condussero a fissare l' attenzione sopra la volontà istintiva, cioè in uno stato non ancora libero, e a conoscere che non si può confondere con una tale volontà il libero arbitrio propriamente detto. Dopo di ciò fu facile di concepire che la volontà poteva esistere nell' uomo fino dai primi momenti di sua esistenza e anteriormente al suo libero arbitrio; e che questo l' uomo lo acquista di poi a un tempo che acquista le cognizioni e che viene sviluppando il suo intendimento, poichè solo dopo che è in possesso della cognizione di più cose, egli può scegliere fra esse ciò che meglio gli aggrada: e veramente sarebbe un errore manifesto a supporre che vi avesse un tempo in cui l' uomo fosse, e tuttavia non avesse la potenza della volontà, ma l' acquistasse poi in isviluppandosi: il che sarebbe un mutare di natura, e da non uomo cominciare ad essere uomo. Come sarebbe pure un errore a pensare che nei primi momenti di sua esistenza l' uomo si trovasse privo dell' intelletto. Ora se vi ha la potenza della volontà in un bambino, ella è però evidentemente priva di libertà, in uno stato legato e necessitato. Ammessa poi una potenza di volere nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza, forza è di ammetter pure un primo atto volitivo, o piuttosto questo è ammesso tostochè è ammessa quella. Conciossiacchè una potenza è essa stessa un atto primo, e ove ciò non fosse, non s' intenderebbe più che fosse, sarebbe un nulla, una parola priva di significato, o al più la possibilità di una potenza, e non una vera potenza. Così io posso concepire in un soggetto qualsivoglia, poniamo in un bruto, la possibilità che egli venga a conoscere e volere, per opera di Dio: ma questa possibilità meramente passiva non costituisce in lui nessuna potenza di conoscere e di volere: non è che un affermare che la onnipotenza di Dio potrebbe per avventura dargli la potenza conoscitiva e volitiva. A chi avrà ben inteso quanto abbiamo esposto altrove sulla natura della volontà e delle potenze in generale, non rimarrà dubbio intorno alla verità di ciò che qui affermiamo intorno alla volontà (1). Questa dottrina intorno al primo atto della volontà è connessa colla teoria dell' intendimento; perocchè ogni volizione suppone una cognizione, e una volizione primitiva dimanda dinnanzi di sè e come suo termine una primitiva e originale cognizione. Questa primitiva cognizione o concezione, se si vuol meglio, è l' atto che costituisce la natura dell' intelletto; perocchè essendo l' intelletto una potenza, anch' essa deve esser un atto primitivo, secondo il principio accennato, ingeneratore di tutti gli atti successivi. Ogni atto poi dell' intelletto esige un oggetto; di che la necessità medesimamente di un oggetto primitivo dell' intendimento che sia il primo cognito e pel quale si conoscano le altre cose. E fatta poi diligente inquisizione intorno a questo oggetto primordiale per conoscere che possa essere, abbiamo trovato che egli è l' ESSERE INDETERMINATO: indi la notizia chiara della potenza, che l' uomo ha fino dal primo suo esistere, di conoscere e di volere e degli atti primitivi che racchiudono queste potenze e le costituiscono. Perocchè avviene che la potenza di conoscere sia la potenza di veder l' essere e la potenza di volere sia la potenza di appetire l' essere. Avviene ancora che l' atto primitivo ed essenziale della potenza di conoscere sia determinato dallo stato imperfetto nel quale l' essere originalmente è presentato all' uomo da vedere, cioè nello stato d' INDETERMINAZIONE; e da questo oggetto stesso sia determinato l' atto della potenza di volere. L' elemento conoscitivo adunque e volitivo che costituisce la natura umana e che entra nella sua definizione (2), sotto un aspetto si può dire un atto e sotto un altro una potenza . Egli è atto relativamente a quella parte di essere che fin da principio è scoperta e presente allo spirito umano: ed è potenza relativamente a quella parte di essere che non è ancora scoperta e presentata da vedere e appetire allo spirito, che viene presentata poi da sentimenti e che forma l' oggetto delle sue cognizioni acquisite e corrispondenti volizioni. Ora conosciuta in tal maniera la natura della volontà, consistente in una costante appetizione dell' ente conosciuto (sicchè da prima non essendo conosciuto l' ente che in universale, non è che un atto o tendenza universale ad appetire, poscia conoscendosi degli esseri particolari si sviluppa in altrettante volizioni di questi); non è più impossibile il concepire la possibilità di un disordine nella volontà fino dalla prima esistenza di questa. E veramente la volontà (volizione rispetto all' essere conosciuto per natura , e potenza di volere rispetto agli esseri non conosciuti per natura, ma coll' aiuto dei sensi) si può considerare o dalla parte del suo oggetto , o dalla parte del soggetto uomo, di cui essa è atto. Egli è evidente che la volontà può venire alterata e mutata intrinsecamente tanto per mutazione che nascesse nel suo oggetto naturale e primo, come per alterazione del soggetto volente, l' IO, l' uomo stesso. Lasciando qui di parlare di quella alterazione che potrebbe sofferire la natura della volontà da una mutazione dell' oggetto suo naturale, possiamo ancor concepire la possibilità che la volontà soffra nella sua natura una cotale alterazione e disordine dalla parte del soggetto a cui appartiene. Perocchè se l' uomo, l' IO, soggetto della volontà, è difettoso e guasto, e se è soggetto a delle perverse suggestioni, egli par naturale che dovrà fare anche della sua volontà un uso torto e sregolato. Come ciò avvenga, io dirò più sotto, parendomi qui aver detto abbastanza perchè si possa concepire la possibilità di un disordine nella potenza di volere, considerata anche nel suo stato primitivo anteriore a qualunque suo sviluppamento. Fatto così luogo a concepire la possibilità di un guasto della volontà anche in un bambino, egli perde tutto ciò che aver possa di più duro, come dicevamo, la sentenza che esige come elemento essenziale alla nozione giusta del peccato originale una prava affezione nella volontà dell' uomo, sebbene appena generato e non ancor venuto al libero uso delle proprie potenze. E non può essere altramente dall' istante che il peccato originale non si dice già con questo nome di peccato per una cotal metafora o traslato, ma s' intende cosa che, come ha definito il Concilio di Trento, ha in sè la vera e propria ragione di peccato (1): il che è quanto dire di cosa immorale e per ciò di cosa essenzialmente volontaria. Quindi è che S. Tommaso insegna che il peccato originale non è una mera privazione, ma un abito corrotto (2), e l' abito è sempre una cotale disposizione delle potenze; e poi cercando a qual potenza principalmente appartenga quest' abito corrotto, trova che alla potenza della volontà, come quella appunto che presiede alle cose morali. Ecco alcuni passi del Santo Dottore, tutti consentanei alla sentenza che abbiamo proposta. [...OMISSIS...] Ma sebbene il peccato originale tocchi la volontà e deve consistere sicuramente in una stortura della volontà, tuttavia non può consistere in qualunque stortura della volontà, non può essere semplicemente la inclinazione al male della volontà umana. E veramente nei rigenerati dal battesimo rimane la inclinazione al male della volontà, e tuttavia è definito dal Concilio di Trento che il battesimo ha efficacia di t“rre dall' anima pienamente la macchia del peccato. [...OMISSIS...] Dunque la mala inclinazione della volontà, secondo il dogma cattolico, non costituisce da sè solo l' essenza del peccato originale. Abbiamo veduto che il peccato originale non può consistere nella concupiscenza animale considerata per sè sola (2), e che non può consistere nella sola mala inclinazione della volontà. Ma esso non può consistere nè anco nella lotta che hanno insieme la concupiscenza animale e la volontà. E veramente questa lotta, per la quale lo spirito concupisce contro la carne e la carne contro lo spirito, come dice la Scrittura (3); rimane nell' uomo anche dopo il battesimo, il quale pure è di fede che toglie dall' uomo tutto ciò che ha vera e propria ragion di peccato, come definisce il Tridentino. Il quale così soggiunge: [...OMISSIS...] . Dunque questa battaglia non è punto, secondo la cattolica fede, ciò che costituisce il peccato originale. Fin qui le nostre ricerche ci condussero a vedere che cosa non è il peccato originale, cioè come egli non sia nè una macchia nel senso materiale della parola, nè il puro istinto animale, nè la sola inclinazione al male della volontà, nè la lotta fra la concupiscenza e la volontà. Abbiamo trovato nulladimeno anche qualche cosa di positivo intorno alla natura del peccato originale, cioè che egli deve essere una macchia morale dell' anima e che per conseguente deve affettare anche la volontà dell' individuo che nasce e non la sola volontà del primo padre dell' uman genere che attualmente lo commise. Dobbiamo adunque ora seguitare la ricerca per comporci, se ci riesce, la notizia positiva di questo misterioso peccato originale. Se il peccato originale non consiste nella sola mala inclinazione della volontà, ma pure questa inclinazione mala è qualche cosa di essenziale nel peccato originale, converrà cercare da qual principio proceda questa mala piega della volontà, che cosa è che urge questa potenza e la inclina verso il male. Trovandosi questa inclinazione mala nell' uomo fino da' primi istanti della sua esistenza, questa inclinazione non nasce da un atto sopraveniente della sua libertà, ma questa piega è nata in lui anteriormente all' uso della sua libertà, e all' acquisto delle cognizioni che attinge da' sensi. Ora se la volontà non si piega da sè stessa liberamente nè da un essere esteriore che agisca nell' uomo, conviene che nella stessa natura umana vi sia un principio cattivo che seduca la volontà e la inclini al male. Poichè la volontà è una potenza che come tale non è inclinata nè da una parte nè dall' altra, e conviene perciò che qualche principio naturale la inclini, se questa inclinazione, come dicevo, è necessaria e non libera. Per questo un peccato che sia nell' uomo fino dai primi momenti della sua esistenza deve procedere da un disordine della stessa umana natura. E questo rende ragione del perchè S. Paolo dica che noi siamo figliuoli d' ira PER NATURA (1): e del perchè comunemente il peccato originale sia chiamato dai Padri anco naturale . Per questo S. Giovan Grisostomo il chiama radicale (2), toccando la radice dell' uomo, cioè il principio soggettivo: e S. Agostino dichiara che esso trasfondersi « occulta tabificatione naturae ». Veduto che il peccato originale ha per primo seggio l' intima natura umana, conviene che noi veggiamo come il peccato si abbatta nella natura e che dichiariamo l' ordine della umana corruzione. Per natura umana intendiamo il complesso delle potenze che si trovano nell' uomo, non meno che il nesso che tutte le unisce in un solo soggetto. Ora perchè il peccato appartiene all' ordine razionale, conviene che esaminiamo l' uomo principalmente come soggetto intellettivo e nello stato in che Dio l' ebbe posto sulla terra: indi quale sconcerto abbia prodotto nell' uomo la colpa. E richiamando quello che abbiamo detto intorno a ciò, l' uomo è soggetto intellettivo per la visione dell' essere indeterminato. La volontà è l' inclinazione verso il bene conosciuto; e perchè ogni essere è bene, è la tendenza verso ogni essere conosciuto. Indi nell' uomo vi ha un atto primo d' intelletto e un atto primo di volontà. Quello è l' idea dell' essere indeterminato: questo è la tendenza appunto indeterminata verso quest' essere. La natura umana adunque ha nel suo seno fin dall' origine un intelletto e una volontà in atto, e da questi risulta e si crea come da' suoi proprii costitutivi elementi. Ma Iddio, oltre aver dato all' uomo in sul principio la contemplazione costante dell' essere ideale indeterminato, gli ha dato altresì la percezione di sè stesso, essere sussistente e assoluto. Indi una nuova tendenza della volontà, la quale naturalmente doveva quasi direi, precipitarsi verso la pienezza dell' essere offertasi da concepire all' intendimento. Questo primo e veemente moto della volontà rispondente alla grazia divina (2), fu l' originale inclinazione al bene dell' uomo innocente, e quello stato di originale giustizia, nel quale era costituito e col quale dovevasi propaginare. L' uomo fu costituito da Dio perfettamente fino dal primo istante, nè fu un tempo anteriore, nel quale egli fosse posto nel solo ordine di natura e non anco in quel della grazia. Quindi nel primo uomo per la sua stessa costituzione la volontà trovavasi edotta, non solo in quell' atto primo che termina nell' essere ideale e indeterminato, ma si bene anche in quello che termina nell' essere assoluto e completo. La volontà in tal modo si era volta fin dal principio con un atto pieno e, come diceva, precipitata in quell' oggetto che è il TUTTO, del quale cercava di pienamente sfamarsi, per così dire, e bearsi. Se la volontà dell' uomo primo si fosse terminata solo all' essere ideale indeterminato, non ci sarebbe stata cagione di volere di più, almeno per molto tempo. Ma coll' aver conosciuto e gustato l' assoluto, doveva nascere in essa un bisogno tutto nuovo, una necessità di esso e senz' esso uno sforzo di cercarlo per tutto, una incontentabilità, una affogata brama e tendenza di completarsi con un suo atto che il tutto abbracciasse. Così noi veggiamo che l' uomo educato in piccolo e ristretto cerchio di cose, è pago nè sa bramar oltre perchè oltre non conosce: ma tratto fuori del suo paesuzzo o fatto discendere dalla sua montagna e dai tugurii passato nei palazzi e dalla scarsezza di tutte le cose nell' abbondanza, non avviene poi che restituito nell' umile e povera vita che faceva prima trovi la pace e il suo cuore gli sembri oppresso e per poco soffocato dall' angustia del casolare e dal ristretto numero di oggetti che lo circondano e che cagionano in lui poche, e sempre uguali e perciò noiose sensazioni. Conciossiachè la volontà sua ritiene ancora le brame che in lei sviluppatesi in essa nello stato di vivere dovizioso e ampio in cui era passato e nel quale aveva tratti da sè de' nuovi voleri e soddisfattili. E ora egli avvenne appunto così che la volontà del primo uomo mossa originariamente dall' oggetto assoluto, fu poi privata dopo il peccato di questo oggetto. Perocchè essendosi Iddio ritirato dall' uomo, non fece più nella sua mente quell' azione deiforme che abbiamo di sopra descritta; gli tolse la sua grazia, gli sottrasse il senso dell' essere sussistente: non lasciandogli che l' oggetto del solo intendimento naturale, cioè la tenue idea dell' essere e questo indeterminato. Ma nel tempo medesimo che alla volontà attuata e piegata verso l' infinito fu sottratto il suo oggetto, ella però rimase così piegata e così attuata: e non trovando più l' oggetto reale infinito perchè sottrattole, il suo atto, col quale il cercava, diede nel vƒno e tentò di trovarlo da per tutto, quando non era più in alcuna parte in ch' ella potesse colpire e giungere. Sicchè la volontà di Adamo doveva rimanere con una brama infinita che non poteva essere appagata e che pure voleva ad ogni costo essere; e però con un bisogno di fingere a sè stessa quell' oggetto che non aveva, e nutricarsi, per così dire, di vento, cioè di sue vuote finzioni: e questo ancorchè null' altro fosse avvenuto se non se sottrarsi l' oggetto infinito, posto a lei nella sua prima costituzione, da dover per inclinazione spontanea volare. Ma a ciò si sopraggiunse un atto di libero arbitrio, col quale l' uomo stesso stolse la volontà dall' oggetto infinito resosi a lei naturale e la piegò verso la finzione del bene, cioè verso il frutto vietato, il mangiare del quale per la menzogna del demonio fu creduto atto a render l' uomo sapiente e trarlo in istato via migliore ancora che non sia quello stesso della grazia di Dio. Sicchè liberamente l' uomo volse la volontà che dava nel bene reale, a dover dare col suo atto nel vƒno del bene finto, cioè falsamente imaginato, col quale atto anco la facoltà di eleggere , non solo quella di volere, fu storta, e datale mala piega, datole un abito vizioso; e quindi procedette principalmente e direttamente il guasto del soggetto stesso a cui la facoltà di eleggere appartiene (1). Per sopraggiunta accade che nel mangiamento del frutto l' istinto animale medesimo si rinforzò e alterò, venendone alterata e pervertita la materia del sentimento animale. Sicchè nacque in lei un' aspettazione (2) esagerata e ingannatrice, la quale doveva a sè rapire naturalmente la volontà che voleva un tutto e non aveva più ove rinvenirlo, (toltolesi dinnanzi il tutto reale ); e l' istinto alterato o la concupiscenza si presentava ella, quasi direi, ogni bene promettendole a ribocco sopra quello che potesse desiderare e portare. E si consideri che, parlando noi di senso, di volontà e d' intendimento, consideriamo queste potenze nel loro primo atto in quanto determinano la costituzione del soggetto, l' ordine intrinseco del medesimo e di quelle abitudini di cui questo primo atto è vestito; e non già nelle loro operazioni. Quindi pertanto si potrà formarsi il concetto del disordine avvenuto nel soggetto uomo mediante il primo peccato: ed ecco in che guisa. Egli è manifesto che l' atto onde Adamo peccò fu atto di libera volontà. Ora atto di libera volontà non è già un atto puramente della potenza, ma è atto immediatamente del soggetto (3). Perocchè l' uomo, collo scegliere liberamente, ha da una parte quello che l' intendimento retto gli rappresenta di vero, e dall' altra quello che la concupiscenza gli rappresenta di falso bene: e come in mezzo egli a ciò che gli offrono innanzi queste sue potenze, sceglie quella parte che più egli vuole. L' energia dunque della sua libertà viene dal soggetto immediatamente, e sceglie fra i risultamenti delle potenze e quindi è superiore alle potenze stesse e per così dire le signoreggia. Questa forza intima del soggetto è per sè stessa cieca, per così dire, perchè non ha altra ragione che pur sè sola: ma ella può sottomettersi all' intendimento retto e illuminarsi, ovvero può sottomettersi all' intendimento fallace e al senso e può illudersi da sè medesima. Or dunque quell' atto tutto libero, tutto procedente dal soggetto di Adamo fu quello che ingegnerò nel soggetto medesimo, in questa forza intima e primitiva che è il fonte della libera energia o piuttosto è ella stessa la libera energia, una mala disposizione e propriamente un ISTINTO di piegarsi al male, convalidato dalla remozione nell' intendimento dell' essere sussistente, e dall' accrescimento e alterazione d' impulso nel senso animale (1). Il perchè convien dire che come l' atto della libera energia, che è atto immediato del soggetto, fu cagione della rovina delle potenze dell' intendimento e della sensibilità, così viceversa il guasto di queste potenze reagì sul soggetto stesso e rese la sua forza volitiva debole e tarda e comecchessia oltremodo difettosa nel suo operare. Riassumendo adunque, l' ordine del guasto originale nella natura umana è il seguente. Il peccato cagione di questo guasto nacque con un atto libero, col quale l' uomo mangiò il frutto e così disubbidì a Dio. L' energia prima e elettiva propria del soggetto, togliendosi dal bene percepito anche soprannaturalmente e violentandosi alla finzione del bene, esorbitò, pigliò un nuovo peso verso il male e propriamente un ISTINTO del male (inclinazione al male morale) (2). La volontà già edotta in quell' atto che ha per iscopo l' essere completo (tutto l' essere, Iddio) e quindi bisognosa di un bene infinito; poi privata di questo, fu volta a cercare di fingersi una infinità di bene nelle creature (inclinazione al falso) (3). L' istinto animale finalmente fu reso violento e senza il freno delle potenze superiori, distratte, traviate e congiurate con lui. Il difetto della volontà e del senso reagisce sul guasto del soggetto, come il guasto di questo perverte la volontà e lascia il senso senza freno. Perocchè la volontà vuota di beni reali e bisognosa di essi non può aiutare al bene la energia radicale del soggetto, ma lasciarla pesare verso il male; la violenza del senso animale, quella aspettazione istintiva , menzognera, di un immenso e perpetuo piacere, deve trarre a sè la forza del soggetto e snervarne la facoltà di eleggere, come abbiamo detto avvenire per alterazione che nasca nella materia del sentire (4). Quindi vi ha una mutua perniciosa influenza fra questi tre principii dell' uomo: 1 il principio soggettivo elettivo; 2 la volontà; 3 l' istinto animale: per modo che ciascuno esercita un' azione corruttrice sull' altro, che aggrava il male della umana natura. Abbiamo detto che il peccato originale infetta e guasta la natura umana; or diciamo ch' egli corrompe lo stesso soggetto umano che lo riceve: ella è una conseguenza delle cose dette fin qui. Abbiam veduto che la volontà è piegata al male fino dal primo istante della esistenza dell' uomo; e ciò per un principio seduttore giacente nella natura stessa dell' uomo. Ora in quel primo momento non ancora è sviluppata la libertà umana, nè vi ha alcun atto riflesso della volontà con la quale l' uomo possa correggere l' inclinazione al male dell' atto primo e diretto. La volontà in quel primo tempo non ha che un atto solo, anzi nè pure propriamente un atto ma un abito: e questo è l' abito per conseguente dell' uomo. Conciossiachè la potenza attiva, in cui il soggetto principalmente risiede, è l' atto prevalente, e molto più se egli è unico, della volontà. Egli riman dunque il soggetto stesso infetto e peccante. Si consideri la conseguenza che deve nascere dal guasto della parte animale. Esso basta a spiegare l' infettamento del principio costituente il soggetto uomo: perocchè, come abbiamo detto, la concupiscenza animale tira e rapisce a sè la forza intrinseca e radicale del soggetto, e così la indebolisce e la perverte: e la volontà cercatrice e al tutto bisognosa del bene di cui è privata, lungi dal poter aiutare il soggetto, dal non darsi giù e farsi suddito al senso, anzi fattasi al medesimo infida consigliatrice, lo persuade a ciò e lo impelle. Perocchè è in quel bene vago e illusorio che con tanta baldanza le promette il senso materiale, che ella si persuade di poter riparare la sua perdita e felicitarsi, nè ha verun' altra cosa in che menomamente sperare, massime innanzi che l' uomo conosca i beni ideali e astratti. E un tal guasto, che per tal modo ridonda dalla natura, cioè dalle potenze nel soggetto, non si dee far già per intervallo di tempo; di modo che vi abbia un tempo nel quale le potenze sieno corrotte e non il soggetto, e vi abbia un altro tempo [in cui] la corruzione del soggetto veniente dalle potenze sia già compita: ma forza è che in un tempo medesimo e comincino a essere le potenze e in esse il lor guasto, e la comunicazione di questo guasto fatta al soggetto. Di che la ragione è che il soggetto non ha un' esistenza da sè, divisa dalle potenze; ma egli comincia a esistere con queste e in modo a queste consentaneo. Ciò che non sarà difficile d' intendere a chi si rammenta il modo onde abbiamo descritta la produzione del soggetto: il quale abbiamo detto per sè subitamente esistere tosto che sia dato un sentimento, una materia o un oggetto di sentire. E finalmente, in terzo luogo, anche lo stesso guasto delle potenze si attribuisce al soggetto, ove egli pure è infetto, per quella unità e armonica comunicazione che le potenze hanno col soggetto nel quale risiedono. E` adunque il peccato originale una infezione della natura per la disarmonia (1) e l' intimo guasto delle potenze, dalle quali la natura risulta: è una infezione del soggetto perchè essa va a infettare e depravare quel principio supremo di tutte le potenze, quel punto più eminente della natura umana che costituisce propriamente il soggetto, l' IO dell' uomo. Da tutto ciò che è stato detto si fa palese una via di conciliare la sentenza de' Tomisti, i quali insegnano che il peccato originale risiede primieramente nell' anima stessa e dall' essenza dell' anima trapassi a contaminare le potenze; colla sentenza di San Anselmo (2), di Giovanni lo Scoto (3), e altri (4), i quali sostengono il peccato originale aver sua sede primieramente e propriamente nella potenza della volontà. Questi secondi facevano risiedere il peccato originale nella potenza della volontà per la ragione che abbiamo toccata di sopra, che la sola volontà è la potenza morale, e che tutto ciò che nell' anima vi è di morale esser vi dee per cagione della volontà; e che perciò anche il peccato, essendo morale, e non è altro, come si definisce anche da S. Tommaso, che una stortura della volontà, egli deve nella volontà come in sua propria e primitiva sede ritrovarsi: ragione irrefragabile ed evidente. E tuttavia non è men vera la sentenza di quelli che abbiamo nominati, i quali vogliono che nell' essenza dell' anima, anzichè nelle sue potenze, il peccato originale s' incominci: e il contrastare di questi a quelli parmi una di quelle battaglie delle scuole, le quali collo schiarire de' vocaboli o coll' approfondire la materia vanno intieramente a pacificarsi. Conviene dunque sapere che dall' essenza dell' anima, secondo la dottrina di S. Tommaso, fluiscono le potenze. Se dunque per essenza dell' anima s' intende il principio delle potenze, egli è manifesto che, parlando dell' uomo, ciò che costituisce una tale essenza è quel principio stesso che noi abbiamo chiamato il soggetto, l' Io. Ora il soggetto l' abbiamo fatto risultare da due elementi, cioè da un principio sensitivo e da un principio operativo (giacchè il passivo e l' attivo non si possono mai dividere insieme) (1). E questo principio operativo del soggetto abbiamo detto che è una volontà primitiva e propriamente una facoltà di eleggere , che abbiamo distinto dalla potenza comunemente detta volontà; che questo principio operativo e volitivo costituisce l' essenza dell' anima, il soggetto, e non v' ha niente di attivo a lei anteriore nell' uomo. Or ecco la sede del peccato originale: ella non è nella volontà comune (potenza), ma nella volontà primitiva, la quale costituisce il soggetto uomo e con esso l' essenza dell' anima. Egli è dunque anche vero che il peccato originale risiede nell' essenza dell' anima. Io spiegherò qui sotto in che senso dica il Dottore angelico che il peccato originale macchi prima l' essenza dell' anima che la volontà; e qui mi basterà solo di notare che il Santo Dottore riconosce così necessaria la perversione della volontà a costituire il peccato che, tolta questa, è tolta l' essenza del peccato e che per ciò il peccato non comincia se non dove questa comincia, sicchè tutto ciò che di dispositivo vi può essere nell' uomo antecedentemente al guasto della volontà non è ancora peccato. E veramente cercando egli ciò che vi ha di formale nel peccato originale, comincia dallo stabilire questo principio: [...OMISSIS...] . E poi immediatamente soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la mente del santo Dottore manifestatamente si appalesa. Perocchè ci riconosce in esse che non può avervi formal peccato prima che non sia storta la volontà: e per ciò qualunque infezione e guastamento fosse nell' anima anteriore allo storcimento della volontà, ciò non sarebbe peccato ancora se non materiale, cioè a dire materia del peccato sopraveniente e non essa stessa peccato. E mi gioverà aver fatta questa osservazione a schiarimento di ciò che mi converrà dire parlando più sotto della trasfusione del peccato di origine. Abbiamo veduto che il peccato originale è peccato della natura umana. E abbiamo veduto che egli è peccato altresì del soggetto umano. Or egli è manifesto da sè stesso che il peccato originale si fa peccato anche della persona, poichè il soggetto uomo, in tutti quelli che per naturale generazione discendono da Adamo, è una persona. Egli è per ciò che il Concilio di Trento definì essere il peccato originale non solo comune della specie, ma proprio di ciascuno che nasce (6). E S. Agostino nel medesimo senso dice: [...OMISSIS...] . Ed è per questo che il peccato originale tocca la persona, che ha tutta la sua proprietà la espressione del Grisostomo che chiama questo peccato radicale : conciossiachè la persona si può veramente considerare, sotto un aspetto, come il principio, la virtù, la radice della natura umana. Dalle cose dette noi potremo racc“rre finalmente una conveniente definizione del peccato originale. Perchè noi abbiamo veduto: che il peccato originale non è già una mera negazione o una mera privazione della grazia. Che esso non è già puramente un disordine nella natura animale, conciossiachè l' animalità non ha per sè stesso niente che sia bene o male morale. Che tuttavia il disordine dell' istinto animale, in quanto è congiunto individualmente al soggetto umano, si fa materia alla reità di questo soggetto. Che il peccato originale risiede nella natura intellettiva e volitiva dell' uomo: e principalmente in una stortura abituale della volontà (6), ma di quella volontà primitiva che entra come un elemento essenziale della natura umana e che costituisce il principio attivo del soggetto uomo e ancor più della persona (7). Di che abbiamo conchiuso che il peccato originale infetta la stessa personalità dell' uomo e che perciò, oltre al chiamarsi naturale, deve poter ricevere anche l' appellazione di peccato personale. Ora col nome di concupiscenza noi denomineremo in generale qualunque conversione dell' uomo al bene commutabile in onta di Dio (2): e dopo di ciò ecco la definizione che noi proponiamo del peccato originale: Il peccato originale è una cotal concupiscenza e inclinazione al male della volontà (non già solo dell' istinto animale) in quanto questa volontà è la suprema parte attiva dell' uomo, e però quell' elemento nel quale risiede la personalità umana. Noi abbiamo definita la imputazione delle azioni quello attribuirsi che si fa alla persona le azioni morali come a loro causa (3). Per ciò non vi è imputabilità dove il principio da cui muove l' azione non sia la persona. Ma il peccato originale abbiamo veduto essere anche personale, cioè infettare la stessa persona e ricevere da questa la sua qualità di vero e formal peccato come da suo primo principio formale. Per ciò è manifesto il perchè per cui il peccato originale venga imputato all' uomo che per generazione lo contrae. Ma di qual genere è ella l' imputabilità del peccato originale? Noi abbiamo distinto due specie di imputabilità, la imputabilità del peccato e la imputabilità della colpa (4). Noi abbiamo detto, quando la persona umana colla sua volontà è opposta alla legge, allora vi è peccato . Se questa opposizione della volontà è libera allora vi è colpa , cioè allora il peccato è imputabile a colpa (5). Or egli è manifesto, che il peccato di origine non si contrae già per un atto di libera volontà, ma si contrae solo per un atto di volontà personale sì, ma non libera, del qual atto non è in potere dell' uomo far senza, ma anzi egli vien generato e naturato in quell' atto; sicchè non è già un atto posteriore alla sua esistenza, ma è contemporaneo e congiunto con quell' atto medesimo, col quale da principio esiste. Dunque il peccato originale non può essere imputabile di quell' ultimo genere d' imputabilità che abbiamo accennato, ma sol di quel genere d' imputabilità che spetta al peccato che non è colpa personale: ad Adamo poi che lo commise liberamente fu imputabile eziandio a colpa. Egli è così che conviene intendere l' angelico Dottore quando, parlando dell' imputabilità del peccato originale, la riferisce sempre in Adamo: a quel modo che l' errore di una mano o di un piede s' imputa all' uomo o all' anima che mosse quella mano o quel piede. Si deve intendere che il santo Dottore parli del primo e del perfetto genere d' imputabilità, cioè della imputabilità a colpa: perocchè anche il peccato s' imputa alla persona, ma in altro modo, e talora non si diede a questo secondo modo il nome d' imputabilità. Ecco i passi dell' Aquinate: [...OMISSIS...] . E applicando questo principio al peccato di origine, così dice: [...OMISSIS...] . Sicuramente non voleva S. Tommaso con queste parole t“rre quella imputabilità del peccato originale che viene alla persona generata in esso dall' esserle peccato proprio: conciossiacchè è intrinseco alla natura del peccato che la persona che lo possiede abbia da lui vituperio e macchia di reità: il che è appunto quel genere d' imputazione che noi troviamo essere nel peccato originale e che è essenzial cosa in ogni peccato. Lo stesso si dica delle due specie di demeriti che corrispondono alle due specie d' imputabilità (2). Ognuno ben vede quale de' due appartenga al peccato di origine. Dopo fatta la sposizione della dottrina del peccato originale, egli è facile intendere come la rivelazione risponda alle tre grandi questioni che l' infelice stato dell' umanità offre al pensiero, che la filosofia non ha mai potuto sci“rre e che pur sono di tanta necessità all' uomo di saperne il risolvimento (3). Alla seconda questione che dimanda: come convenga alla giustizia dalle mani della natura, risponde la rivelazione che non la natura il fece tale, ma si corruppe da sè medesimo. Alla prima questione: come l' uomo possa essere uscito così misero divina che sia soggetto ai dolori e alla morte anche il bambino che non ha ancor commesso alcun peccato attuale, la rivelazione risponde che anche in quel bambino, pur colla sua medesima generazione, entrò una infezione segreta e intima che pervertì la sua morale natura e storse la sua volontà, rendendolo per tal modo di un volere perverso, e che è la pena di questa morale corruzione in tutti quei mali a cui va soggetto (1). Alla terza questione finalmente che cerca l' origine di quella perpetua lotta e contraddizione che l' uomo prova in sè medesimo, sempre sbattuto fra una legge augusta che gli intima il bene e un incalzante e perpetuo movimento che lo caccia al male, la rivelazione risponde esser quella legge impressa da Dio e non possibile a cancellarsi, ed essere quel funesto stimolo opposto alla legge la stessa ribellione dell' uomo al suo Creatore, ribellione mutata in una infelice servitù e in un istinto lagrimevole che il precipita al male. E così è sciolto il gran nodo e spiegato il grande enigma della natura umana. Questa proposizione è della fede cattolica. [...OMISSIS...] . Come abbiamo distinte due imputazioni, due meriti e due demeriti, così abbiamo distinte altresì due maniere di retribuzioni, di premii e di pene: l' una che consegue al peccato e che abbiamo nominata retribuzione e pena di fatto, l' altra che consegue alla colpa e che abbiamo nominata retribuzione e pena di diritto (1). La prima di queste due pene che si può dire anche pena naturale, perchè viene da sè come natural conseguenza del fallo commesso, è quella che appartiene al peccato originale. E veramente noi abbiamo detto che questo peccato è della natura e che essendo annesso alla natura come un cotal morbo, viene colla natura trasmesso, e per ciò una tal pena viene naturalmente comunicata. Abbiamo veduto che il principio supremo dell' uomo, la personalità, è quella che vien lesa dalla corruzione originale. Egli è appunto per questo che la corruzione originale ha la propria e vera ragion di peccato, sicchè l' infezione della persona è ciò che vi ha di formale nel peccato originale. Abbiamo veduto che anche tutte le potenze dell' anima sono state vulnerate dal peccato originale. Ora questa lesione e questo deterioramento delle potenze, quando si considera da sè solo, cioè prescindendo dal principio supremo costituente la personalità dell' uomo, allora non costituisce propriamente alcun peccato, ma solo ciò che si chiama la materia del peccato. Ove però questo guasto sia unito alla deformità della persona, allora forma una cosa sola col guasto personale per l' unità individua che formano le potenze col loro principio supremo: allora anche il guasto delle potenze partecipa la ragione di peccato: allora nell' uomo si considera una sola grande e universale corruzione, la qual tutta è morale e tutta insieme dicesi peccato originale: e solamente per astrazione della mente si può considerare il guasto delle potenze a parte dal guasto della persona, chiamando quello la parte materiale del peccato. Nè solo il guasto delle varie potenze si considera come formante un solo peccato di origine col guasto della persona; ma le stesse operazioni che fa l' uomo impulso e mosso dall' originale colpa si possono considerare come comprese nel peccato di origine. Di che si vede ragione onde nelle divine Scritture si dica che l' uomo è concepito non solo nel peccato, ma nei peccati: [...OMISSIS...] . Or da quello che fu esposto apparisce come le potenze, non solo prese in relazione con loro e col soggetto principio di esse, ma ben anche considerate singolarmente, soffrono dalla infezione originale una intrinseca alterazione e deterioramento. Considerate poi in relazione col soggetto che è il loro principio, le potenze ricevettero dalla infezione originale la disarmonia , per la quale non si trovarono più egualmente sottomesse al soggetto medesimo: e ciò era degno, dopo che l' uomo si era sottratto dalla soggezione a Dio (2). Una evidente prova di fatto di questo cotale indebolimento che ricevette la signoria del soggetto sulle potenze, e della prevalenza presa da queste su di quello, si ha in ciò che il soggetto trovasi impacciato e legato nell' operare delle potenze: di maniera che a ogni potenza, per così dire, riesce di tirare a sè il soggetto e interessarlo tutto, per così dire, dell' affare suo; quasi come un debole principe che vien guadagnato facilmente dai partiti e prende impegno degli interessi parziali, prodigando in servigio di essi la sua autorità e potenza che dovrebbe essere riservata solo all' interesse generale. Così, a ragione di esempio, l' istinto animale suol talora esercitare una tal forza sul soggetto che il soggetto o è impedito dall' usare della ragione, o vien tratto a usarne in servigio dello stesso appetito e, per affetto dato a questo, anche a traviare il ragionamento in errori e fallacie. Se il soggetto avesse un proprio sentimento sì forte e dignitoso, in cui trovasse più nobil diletto che in quello che a lui dà o promette l' istinto animale, non abbasserebbe mai sè stesso mendicando la sua felicità da questo istinto e nell' interesse di questo riponendo tutto l' interesse proprio. Or solo in tal caso egli potrebbe essere signore dell' istinto animale, facendone quel conto, nè più nè meno, ch' egli si merita: in tal caso egli avrebbe una indipendenza dall' istinto animale e potrebbe lasciar operare l' istinto animale, senza prendere egli parte nella operazione, senza mettere in azione la forza propria a vantaggio di quell' istinto e senza muovere a favore dell' istinto la potenza razionale. In tal caso avverrebbe ancora che le operazioni di istinto animale nell' uomo non potrebbero turbare, nè alterare o impedire la intelligenza ne' suoi esercizii; e che anche nelle massime commozioni del senso animale una tranquillissima calma e un' attività imperturbata regnerebbe nella mente. E infatti l' istinto animale non ha veruna diretta comunicazione colla intelligenza, e queste due parti sono due essenze separate, l' una delle quali, per così dire, non sa niente dell' altra e per ciò non può agire l' una sull' altra nè sturbarsi a vicenda. Ma mediatore fra esse è il soggetto, ed è questo che comunica con l' una e coll' altra e che muove l' una e l' altra (1): ed è perciò che quando l' istinto animale ha tirato a sè e guadagnato il soggetto, allora per mezzo del soggetto muove a sua voglia e turba l' intelligenza (1). Egli è per questo che nell' uomo perfettamente costituito dalla natura le massime dilettazioni animali non potevano menomamente turbare l' uso della intelligenza. Egli è per questo medesimo che nel divino Redentore i movimenti della natura animale non impedivano quelli della razionale, ma che gli uni e gli altri erano tenuti indipendenti come a lui piaceva. [...OMISSIS...] . E per contraddistinguere questa passione ammodata di Cristo che non trascorre fuori dei limiti della sensibilità animale nè va appunto a dominare la ragione, separandola da quella passione smodata a cui va soggetto l' uomo corrotto, i teologi inventarono il nome di propassione e dissero che quella di Cristo era una propassione, e una passione quella degli altri uomini (3). Un' altra prova della debolezza della forza del soggetto si è che ove le potenze inferiori non riescano a tirare a sè e disporre del soggetto stesso, stando questo saldo in opporsi a ogni smoderato lor desiderio, allora si partono da lui e operano senza sua dipendenza, rifiutandosi a ogni soggezione. Sicchè o tirino esse il soggetto nei proprii interessi, o nol tirino, mostrano egualmente che egli è troppo debole ed esse troppo forti, perocchè o lo hanno legato, o esse almeno vanno sciolte da lui. E perchè il soggetto umano è persona, le potenze, se operano d' accordo colla persona, hanno un atto personale, ed essendo riprovevole questo atto, il male che fanno è personale: o dove il loro operare dall' intenzione della persona discorda, ivi cessa dall' essere personale e rimane solo un disordine materiale. S. Agostino, parlando delle conseguenze del peccato originale, le distingue secondo le potenze passive e attive dell' umana intelligenza; e nelle potenze passive trova essere la piaga dell' ignoranza , e nelle potenze attive la difficoltà di fare il bene (1). Vi fu altri che, analizzando la difficoltà di fare il bene, trovò che ella nasce da tre infelici principii, cioè dalla malizia che impiaga la volontà , dalla debolezza che impiaga quella interna forza per cui l' uomo è atto alle cose difficili, e che fu detta irascibile ; e finalmente dalla concupiscenza che offende l' inclinazione al diletto, detta concupiscibile (2). Ora perchè tutti questi danni, in quanto riguardano la parte morale dell' uomo, ricadono tutti in detrimento e perversione della sua volontà , per ciò noi ci tratterremo solo a raccogliere qui in poche parole ciò che ebbe a soffrire la libertà umana dal peccato originale (3). Il potere della libera volontà nello stato dell' uomo innocente si stendeva non solo alla virtù naturale, ma ben anche alla soprannaturale. Ma il potere di operare soprannaturalmente venendo all' uomo conferito dalla grazia, egli è manifesto che, sottratta la grazia, l' uomo non ebbe più questo potere. E in ordine appunto alla virtù soprannaturale si devono intendere molti luoghi di S. Agostino, ove sembra dire che sia perito il libero arbitrio dell' uomo. L' uomo non potè più operare cosa alcuna di buono in quell' ordine dal quale era decaduto e nel quale non era in conseguenza di sua natura, ma solo in conseguenza di un dono sopraggiunto alla sua natura gratuitamente da Dio (4). Nello stesso ordine di cose soprannaturali si devono principalmente intendere quelle parole di Cristo: « Senza di me non potete far nulla« (5) »; e quegli innumerevoli luoghi delle divine Scritture ne' quali si afferma la necessità della grazia divina per qualsivoglia opera salutare, eziandio per le parole e pei pensieri (6). E ciò perchè sebbene l' uomo nell' ordine naturale possa fare qualche cosa colle forze della natura, purchè Dio lo aiuti come autore della natura, mantenendogli l' esistenza e le forze coi loro atti; pure questo qualche cosa è detto nulla nelle Scritture, perchè è un vero nulla per l' uomo, conciossiachè è nulla al fine di esso uomo, cioè all' eterna salute che è come il frutto, a portare il quale l' uomo fu creato. Perciò Cristo illustra il suo detto: « voi senza di me non potete far nulla« »; colla similitudine del tralcio che non può far nulla senza essere inserito nella vite. Questo far nulla del tralcio reciso dalla vite equivale a non portare il suo frutto: ed il tralcio della vite veramente non fa nulla se non vegeta e non produce il suo frutto, sebbene gli rimangono tuttavia le proprietà del legno secco e sia idoneo per avventura a certi usi e ad ardere. Cristo dichiarò ancora il suo pensiero in quei luoghi, nei quali, invece di dire che non potevano far nulla, disse in ragione di esempio: « Nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre mio« (1) »; o usò altre simili espressioni che evidentemente trattano dell' eterna salute degli uomini, del bene completo spettante all' ordine soprannaturale. Che cosa poi sia quest' ordine di cose superiore alla umana natura, appare manifestamente da ciò che abbiamo detto nel libro I di questa opera, dove lungamente abbiamo dei due ordini naturale e soprannaturale tenuto ragionamento: e le cose quivi ragionate or più che mai ci bisogna rammemorare. Conciossiachè risulta da quanto colà fu detto che la operazione soprannaturale fa due cose nell' uomo: 1 o dà delle notizie nuove; 2 o dà nuova luce e forza alle notizie naturali. E applicando questa distinzione alle cose morali, ne verrà che il lume della grazia produrrà nell' uomo che lo partecipa 1 delle obbligazioni nuove , le quali corrispondono alle nuove notizie da lui per tal lume acquistate; 2 e certe modificazioni circa le obbligazioni vecchie, cioè circa le obbligazioni che aveva l' uomo di eseguire i precetti naturali, di modo che egli debba, avuta la grazia, eseguire i precetti naturali in un modo nuovo (soprannaturale): le quali modificazioni corrispondono alla nuova luce aggiunta alle notizie precedenti e naturali. Or, ciò posto egli è evidente che, essendo perito nell' uomo col peccato tutto che aveva di soprannaturale, esso uomo perdette il potere non meno di eseguire i precetti naturali in modo soprannaturale. Ed è questa dottrina come evidente in sè stessa, così conforme alla mente dell' angelico Dottore, il quale, dimandandosi se l' uomo possa adempiere i precetti della legge colle sue forze, risponde: [...OMISSIS...] . I precetti adunque naturali si possono eseguire in qualche parte, ma non già in un modo soprannaturale, e solo in un modo naturale: altramente il libero arbitrio dell' uomo sarebbe interamente perito, contro la definizione del sacrosanto Concilio di Trento. E qui conviene avvertire che l' uomo, il quale si trova nell' ordine della natura, e a cui perciò è impossibile l' operare nulla nell' ordine soprannaturale, poichè in ciò fare non ha nè meno la facoltà, non è obbligato di eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, conciossiachè, come dice il Concilio di Trento, Iddio non comanda le cose impossibili. Chè se l' uomo, che si trova nell' ordine della natura, fosse obbligato ad eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, in tal caso egli peccherebbe ogniqualvolta operasse il bene naturale: il che è contrario a quanto è stato definito dalla Chiesa nella condanna di quella proposizione: Che tutte le opere degli infedeli sono peccati (2). Egli è bensì vero che la virtù naturale non porta alcun effetto soprannaturale e perciò non dà all' uomo in alcun modo l' eterna vita, la quale consiste nella visione di Dio; ma se l' uomo che fedelmente eseguisce la legge della natura viene escluso dal celeste regno, il quale aver non si può che per la grazia di Gesù Cristo, non ne siegue da questo che egli debba venire anche positivamente punito con giudizio proprio e speciali supplizii destinati a farvi scontare le sue buone opere naturali. La quale dottrina, sebbene noi sappiamo spiacere a certi Teologi di stretta sentenza, tuttavia noi la teniamo, intimamente persuasi di aderire con essa ai sentimenti della Chiesa cattolica e alle decisioni dell' Apostolica sede. E forse la divergenza delle opinioni fra i teologi che trattano di queste materie nasce dal non essersi ancora dopo tante dispute sufficientemente chiarite le idee elementari della controversia: il che vogliamo provarci a far qui noi brevemente. Ma prima, o simultaneamente, rendiamo ragione della nostra sentenza. La difficoltà che trovano gli avversarii è nel precetto dell' amore di Dio. Perocchè, dicono essi, egli è necessario che i precetti stessi naturali, acciocchè sieno bene eseguiti, si facciano pel motivo dell' amore di Dio. Ma l' amore di Dio è certo non potersi avere se non per dono di Dio stesso. E perciò l' uomo senza la grazia non può eseguire i precetti naturali pel giusto motivo; e in questa mancanza di motivo è il peccato che lo condanna anche allora quando egli adempie la materialità del precetto naturale. Ora noi crediamo che in questa materia si deva primieramente esaminare la vera natura del precetto di amare Iddio. Egli è espresso in queste parole: « Amerai il Signore Dio tuo di tutto il cuore tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua« (1) ». Egli è il medesimo che dire che l' uomo deve amare Iddio con tutte le sue forze, cioè con tutta la facoltà di amare che ha l' uomo, o, come è in S. Marco, con tutta la sua virtù, la quale risulta dalle forze del cuore, della mente e della stessa vita animale. Perciò in questo precetto non si comanda già all' uomo che ami Iddio con quelle forze che egli non ha: nè gli si comanda che egli impieghi all' amore divino quelle facoltà o potenze che non sono ordinate a questa operazione. Perocchè se tutte le potenze, anche di altra natura non ordinate all' operazione dell' amore, soggiacessero al precetto di amare Iddio, converrebbe che questo precetto obbligasse anche le pietre e gli animali, i quali hanno pure delle forze e delle potenze, ma il cui oggetto non è Dio conoscibile e amabile. Sarebbe ciò contro la natura delle cose: e questa oppugnazione della natura non può essere nella legge che viene da Dio, il quale è l' autore di essa natura. Laonde ciò che è comandato all' uomo si è di amare Iddio con tutto il potere che egli ha, sia questo potere naturale, sia soprannaturale. E perchè la grazia aggiunge una cotal forza alla essenza dell' anima congiungendola con Dio, della quale partecipano tutte le potenze; per questo in virtù della grazia viene ordinato all' amore divino il cuore, la mente, e l' anima, e a tutte e tre queste parti dell' uomo viene aggiunto un potere dalla operazione della grazia di tendere soprannaturalmente in Dio. Se ciò non fosse, ne verrebbe anche un altro assurdo, che la quantità del divino amore non potrebbe crescere, nè diminuire negli uomini: ovvero che in quell' uomo nel quale il divino amore non fosse pervenuto al sommo, cioè a tale che non potesse più crescere, per quantunque grande fosse il suo amore, non valesse nulla, ma sempre in lui esistesse il peccato e la violazione di quel massimo precetto di amar Dio con tutto il cuore, con tutta l' anima, e con tutta la mente. Il che è sommamente assurdo e sommamente contrario alla cattolica verità, la quale ci ammaestra anzi a credere che anche il giusto, fin che trovasi in questa vita, può crescere sempre in amore, e cresce e crescerebbe tuttavia ove anco la vita sua fosse lunga come quella de' Patriarchi e più. Or che è ciò? Ciò nasce da questo che l' uomo non è obbligato di amare Iddio con quel potere che egli non ha, ma sì solo con tutto quello che egli ha; e che l' amore può crescere perchè può continuamente crescergli questo potere con un grado maggiore di grazia che Dio gli conferisca. E perciò nessuna maraviglia che vi abbiano molti giusti i quali, amando disugualmente Iddio, sieno nondimeno tutti giusti, perocchè tutti amano Dio col potere che hanno e tutti adempiscono il precetto che loro comanda di amare Iddio con quel cuore, con quell' anima e con quella mente che hanno. Perocchè quel precetto non dice amerai Iddio col cuore, coll' anima e colla mente; ma dice col cuore tuo, coll' anima tua, colla mente tua: che è quanto dire con quelle parti e facoltà che tu hai. E una dottrina contraria a questa addurrebbe, per mio avviso, ogni uomo in disperazione: perocchè qual uomo mai potrebbe vivere con buona fiducia di adempire il gran precetto dell' amore se fosse altramente? Or posto che abbiamo questo fondamento, egli mi par certo altresì e consentaneo agli insegnamenti dell, Apostolica sede, avervi un duplice amor divino, l' uno naturale, e l' altro soprannaturale. Egli è notabile la proposizione condannata da Pio V: [...OMISSIS...] . Dunque è vera la contraria, che la distinzione di un doppio amore, naturale e gratuito o soprannaturale, ha suo ragionevole fondamento. Vero è che l' amor naturale e l' amore soprannaturale non è ben descritto ed espresso in quella proposizione: conciossiachè la natura dell' amor naturale non consiste già in questo che si ami Iddio come autore della natura, ma che lo si ami con forze e facoltà naturali, insomma con amore naturale. Conciossiacchè può Iddio amarsi come autore della natura, e tuttavia amarsi soprannaturalmente, se ciò si fa per istinto dello Spirito Santo. E questa è una di quelle distinzioni per mancanza delle quali io dicevo non essersi ancora intieramente chiarite le idee elementari di questa controversia. Il perchè non pochi teologi ritennero che fosse uopo la grazia per amare Iddio anche come autore della natura: e bene e ottimamente così ritennero secondo il loro intendimento, perocchè intesero di un amor di Dio, il quale si riferisse bensì all' autore della natura, ma fosse insieme un amore supremo, un amore sufficiente alla salute; ciò che è quanto dire un amore soprannaturale (1). L' amore dunque naturale di Dio consiste in amare Dio colle forze naturali, in amarlo come naturalmente il conosciamo. E certo è che esiste nella umana natura un potere di amar tutto ciò che l' uomo conosce come buono. Ma l' uomo può conoscere naturalmente Dio e conoscerlo come bene; perciò sarebbe affatto gratuito e contrario a ciò che insegna l' osservazione intorno alla umana natura il dire che questo bene che naturalmente conosce, nol possa altresì amare a quel modo che l' uomo ama qualunque altro bene tosto che da lui è conosciuto. Egli è vero bensì che la cognizione che l' uomo può avere di Dio per natura è sommamente tenue, perocchè essa non si appoggia a nessuna percezione, ma finisce tutta in una cognizione che abbiamo chiamata ideale7negativa, e che abbiam di sopra diligentemente descritta. Egli è vero ancora che un oggetto, che non si conosce se non mediante una cognizione così tenue e imperfetta, non si può amar vivamente; perocchè sebbene si conosca per bene sommo e infinito, tuttavia il modo di questa cognizione fa sì che questo bene sommo e infinito sia presente al nostro spirito debolissimamente e non vi eserciti se non una minima azione: un' azione che noi abbiamo chiamata ideale per distinguerla dall' azione che fanno su di noi le cose reali, cioè le cose di cui abbiamo la reale percezione. E tutto ciò prova la poca efficacia che deve avere questo amor naturale di Dio: ma non prova già che questo amore naturale non esista: prova la necessità della grazia perchè l' amore di Dio domini stabilmente nelle anime nostre: prova finalmente che questo amore non può reggersi a lungo contro a delle forti tentazioni, delle quali tentazioni è piena la vita umana, che le percezioni delle sensibili cose colla loro violenza tirano e governano a loro talento. Ma non prova già che alla forza che ha la natura umana di amare e che fa suo oggetto tutte le cose anche solo idealmente concepute, non possa punto fare suo oggetto anche Dio medesimo. S. Agostino dice che la natura invita ad amare Iddio e invita non solo quelli che hanno l' abito della grazia, ma tutti indistintamente gli uomini. « Il cielo e la terra, egli dice, e tutte le cose che in essi si contengono, ecco da ogni parte mi dicono che riami, nè cessano di dirlo a tutti acciocchè sieno inescusabili« (1) ». E il medesimo ripete di continuo la divina Scrittura intesa a far delle cose create scala al Creatore, come specialmente in quel sublime passo di Giobbe che comincia: « interroga i giumenti e ti ammaestreranno; e i volatili del cielo e ti daranno cenno« (2) ». Dove l' uomo è sollevato a considerare la grandezza del Creatore dalle cose dell' universo. Or se l' uomo ha questa cognizione di Dio, se da questa cognizione esce il debito di amarlo e ne sente la convenienza e suprema necessità; onde poi si dirà che per solo questo oggetto, il maggiore di tutti, gli sia impossibile fare un atto di amore, quando pure ha per natura il poter amare ogni altro oggetto che conosca sotto specie di bene? Egli è vero che il grado e la qualità dell' amore non è in proporzione dell' oggetto conosciuto, ma del modo di conoscerlo , come dicevamo: ma ciò non prova se non che l' amor naturale è tenue e inefficace, sebbene è amore. Egli è di questa inefficacia che deve parlare S. Agostino; è dell' amore soprannaturale che ei vuole alludere quando, dopo aver detto che il cielo e la terra il chiamavano ad amar Dio, soggiunge: « Ah! da più alto tu fai misericordia a cui fai misericordia, e misericordia farai a cui la farai: chè altramente il cielo e la terra parlano ai sordi le lodi tue« (3) ». Perocchè quelli che non hanno la grazia non possono intendere appieno le voci della natura, le quali certamente chiamano ad amar Dio non solo naturalmente, ma soprannaturalmente ancora: e così le intendevano i Santi, i quali da ogni oggetto naturale venivano innalzati ad atti di amor di Dio soprannaturale. Dopo di tutto ciò ancor resta a vedere se sia cosa del tutto sicura che i precetti naturali non si possano onestamente compire se non pel motivo dell' amore di Dio, e che adempiti senza questo motivo contengano una reità, una colpa. E intanto mi par di poter affermare come cosa certa che quell' uomo, il quale non abbia se non le sole forze della natura, tutto al più non possa essere obbligato se non ad adempire i precetti naturali pel motivo di un naturale amore di Dio, il quale abbiamo veduto esser possibile. Perocchè in tal modo egli dà al Creatore tutto quell' onore e quell' ossequio supremo del quale egli è capace, nè più esige dalle sue creature l' ottimo degli enti. Ma dopo di ciò io sostengo che nè pur tutto questo sia necessario, acciocchè l' esecuzione del precetto naturale sia interamente buona; ma che basti che il precetto naturale si eseguisca per amore della giustizia. Egli è vero che l' amore della giustizia si può, in un cotal senso, prendere per un amore di Dio, perchè Iddio è la verità e la giustizia stessa: e dove si prenda in tal senso, accordo anch' io che ogni precetto naturale, perchè sia onestamente eseguito e non abbia in sè alcun morale mancamento, debba essere adempito pel motivo dell' amor di Dio. Ma più propriamente parlando, mi sembra doversi distinguere l' amore di Dio e l' amore della giustizia: perocchè la giustizia, come noi naturalmente la veggiamo, non è che un ente ideale, una regola della mente nostra, una idea, e propriamente la grande, la prima idea, l' idea dell' essere in universale. Ora un' idea non è ancora Dio, perocchè Dio è anche una sussistenza. Egli è vero che quell' ente medesimo che da noi idealmente si concepisce, ha una sussistenza in sè che noi non veggiamo e che veggendola noi ci si rivelerebbe in forma divina e lo percepiremmo allora come Dio. Ma fino a tanto che lo percepiamo idealmente, non lo percepiamo come Dio, e ciò che facciamo per la riverenza e l' amore che riscuote da noi questo ente ideale, non si può, a tutto rigore, dire che noi il facciamo ancora per riverenza e amore di Dio; sebbene divina sia quella forza che riscuote da noi tanta riverenza e tanto amore. Ove non contendo di parole, come dicevo, e se si voglia mi accompagnerò a quelli che dicono operarsi da noi per amore di Dio tutto ciò che si opera da noi per amore della giustizia: purchè però mi si conceda di denominare l' amore della giustizia un amore di Dio mediato , e l' amore di Dio come essere sussistente, un amore di Dio immediato . Ciò adunque che io accorderò sarà questo solo, che perchè nel modo di eseguire i precetti naturali non ci abbia peccato, è necessario che essi si eseguiscano per un amore di Dio mediato . Che se poi si eseguiscono per un amore di Dio immediato , allora l' operazione nostra non solo non ha in sè stessa alcuna immoralità, ma ella ha un grado di perfezione: e questa è la perfezione della giustizia naturale. Che se poi essi si eseguiscono pel motivo dell' amor di Dio immediato e soprannaturale, l' operazione nostra ha conseguita la perfezione anche nell' ordine soprannaturale. Ciò che mi persuade questa dottrina è non solo la ragione dell' assurdo che ne seguirebbe se vera fosse la contraria, cioè che Dio giustissimo punisce le operazioni fatte per l' amore della giustizia; ma ben ancora il parermi solo fra tutte consentanea alle decisioni della Chiesa. Consideriamo le proposizioni condannate da Alessandro VIII intorno al peccato filosofico. Esse sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Se queste proposizioni sono condannate, dunque convien dire che sieno vere le contrarie: dunque un atto umano contrario alla retta ragione è un' offesa di Dio per sè, senza bisogno che colui che lo commette conosca Dio o a lui pensi. Ora un atto umano contrario alla retta ragione è lo stesso che un atto contro alla giustizia: dunque chi pecca contro la giustizia, offende Iddio senza più; la deformità dell' atto va a offendere Dio stesso appunto perchè Dio è la giustizia. Se dunque ciò è vero, sarà vero, altresì al contrario che quegli che opera in ossequio della giustizia, opera in ossequio di Dio (2); che il suo atto terminando nella giustizia, termina in Dio stesso e che perciò non può essere disaggradevole a Dio. Egli è che Dio non è conosciuto nel suo essere sostanziale e reale, ma dal momento che si conosce la verità e la giustizia, egli è con questo solo conosciuto almeno nel suo essere ideale: e questa cognizione della verità è comune a tutti gli uomini. Il perchè egli è certo che tutti gli uomini in questo senso conoscono Iddio per natura, sebbene molti il possano ignorare nella sua sostanziale e personale sussistenza (3). Egli pare dunque certo che nell' ordine della natura l' uomo, il quale opera pel motivo della giustizia naturale, non pecca nè in quanto alla sostanza del precetto, nè in quanto al modo. Si dirà probabilmente che consistendo la giustizia nell' amare le cose secondo quello che meritano e il lor merito essendo determinato dal modo della loro esistenza, non si può amare nessuna cosa legittimamente se non in Dio, perchè dipende da Dio l' esistenza di ogni cosa. - Ma rispondo che la obbligazione che abbiamo di amare le cose non è proporzionata all' esistenza delle cose come ella è in esse, ma come questa loro esistenza è nella nostra cognizione. Or in quelli che non conoscono Dio come essere sussistente o che attualmente non ci pensano, basta come dicevamo che le operazioni loro sieno riferite in Dio mediante quello che abbiamo chiamato l' amore mediato , cioè l' amore della giustizia, la quale luce sempre presentissima nelle anime intelligenti; perocchè in questa disposizione di operare è compreso virtualmente anche l' amore di Dio immediato. Si ripiglierà dicendo: che l' uomo essendo a principio costituito in uno stato di grazia, si trovò obbligato con ciò stesso a praticare la virtù anche nell' ordine soprannaturale. Or l' uomo si rese impotente a ciò col peccato. Ora egli è dunque sua colpa se gli mancano le forze a praticare la virtù soprannaturale. - Ragionevole è la istanza; e io non nego che l' uomo sia riprovevole in causa del mancargli le forze soprannaturali. Ma tutto ciò che ho detto non riguarda la causa dell' operazione, ma riguarda l' operazione stessa, e l' operazione non è punto difettosa se vien fatta per la giustizia. Vero è che gli manca un pregio, cioè la grazia: ma questo mancamento rifondesi nel peccato originale, è un elemento, una parte del peccato originale stesso. L' uomo cioè che nasce col peccato originale, operando giustamente secondo la legge naturale, non si aggrava già di un nuovo peccato; ma non resta nè meno di essere peccatore nella sua origine. E questa risposta credo poter soddisfare a qualsivoglia ragionevole avversario. Da tutte le quali cose consegue che all' uomo, sebbene infetto dal peccato originale, rimane qualche parte di libero arbitrio con cui può fare degli atti di virtù naturale (1). Sarebbe poi un entrare in altra ricerca chi si facesse a stabilire qual grado di forza s' abbia una cosifatta libertà, e per farne un cenno, dico che questo grado di libertà non si può con una universal misura definire, poichè varia nei varii uomini. Solo due cose si può dire in universale, la prima che in qualche modo definisce questo grado negativamente; e la seconda positivamente. Negativamente si viene in qualche modo a definire il quanto di questa libertà dicendo, che ella è poca e non tale che valga a vincere gravi tentazioni: ciò che consegue dalle dottrine già da noi esposte (2). Ove dunque la causa della virtù sia congiunta con quella della felicità ossia de' beni temporali, l' amore della virtù non riceve alcuna scossa e può operare. In ragione di esempio, la santità del giuramento nel caso di Regolo e il dovere di difendere la patria erano sostenuti e congiunti coll' amor della patria e della gloria e mediante questa alleanza di beni temporali e reali potè vincere la grave tentazione de' supplizi che gli vennero minacciati (1). Ma questa grave tentazione non l' avrebbe probabilmente vinta col solo motivo dell' onesto e del giusto, quando nessun altro motivo di amor temporale non fosse concorso ad aiutarlo in ciò. Dove adunque l' amore della giustizia non è combattuto da veruna tentazione, egli è uno stimolo sufficiente all' uomo per operare: ma dove abbia incontro delle tentazioni forti, l' uomo con lui solo non regge, vincendo l' amore della cosa reale sopra l' amore della cosa ideale, sebbene tanto più nobile e autorevole; ed è necessario in questo caso che il forte urto che produce contro il proposito della giustizia l' amore della cosa reale sia eliso da qualche altro amore pure di cosa reale acciocchè la giustizia prevalga. Positivamente poi si può in qualche modo determinare il grado di forza della naturale libertà dell' uomo, dicendo che egli è pari a quel grado di forza che può avere od acquistare nei diversi uomini l' amore della giustizia. Or quest' amore della giustizia varia di forza secondo le indoli naturali degli uomini, le educazioni e le abitudini contratte. E a tutte queste cose si deve aver riguardo ove vogliasi determinare in qualche modo quanto l' uomo colle forze naturali possa essere giusto (2). Certo che si ha per dimostrato da una funesta e universale esperienza che l' uomo non vale a reggersi giusto colle forze naturali per tutta la vita, nè per molto tempo, nè relativamente a tutti i precetti naturali; conciossiacchè troppe sono le tentazioni e troppo violente. E ciò basta a poter affermare che ogni uomo anche nell' ordine della virtù naturale è infermo e aggravato d' ingiustizia. Abbiamo veduto che pel peccato originale rimase infiacchita la forza della libertà con la quale l' uomo esercita la virtù naturale. Ora ci rimane a dichiarare meglio la natura di questo infiacchimento. Ogni atto onesto si pone in virtù di un giudizio di special natura che noi abbiamo chiamato giudizio pratico (1). La forza dunque della libertà non è altro che la forza di formare questo giudizio pratico a favore della virtù. Egli rimarrà dunque spiegato come la libertà sia stata vulnerata e indebolita, allorquando avremo dichiarata la ragione perchè in noi sia scemata la forza di formare il giudizio pratico in favore della legge della giustizia. Il giudizio pratico è quello pel quale noi in sull' atto dell' operare nostro, diciamo, considerate tutte le circostanze del momento, che qui e ora sia più bene per noi l' azione onesta, che la sua contraria: conciossiacchè, come abbiamo veduto, ciò che noi giudichiamo essere più bene per noi, tutto ponderato, nell' istante in cui operiamo, quello indubitatamente operiamo. Pratico adunque è quel giudizio che è il più particolare di tutti, e che precede prossimamente l' azione; cioè quel giudizio che determina del bene particolare, del bene risultante da tutte le circostanze in cui ci troviamo. E questo è ciò che il distingue dal giudizio speculativo, il quale è universale e non calcola le circostanze tutte dell' istante in cui cade l' operazione: ma solo ha riguardo all' oggetto e alle circostanze idealmente e specificamente considerate. Quindi è ancora che il giudizio speculativo non suole riguardare che una classe di bene, per esempio il bene onesto: come sarebbe che uno dicesse: si deve fare la tal cosa, la legge comanda la tal' altra; ovvero il bene eudemonologico, come chi dicesse: è utile questa operazione, è velenosa questa specie di frutti. Ma all' incontro il giudizio pratico abbraccia tutte le specie di beni, e, consideratele tutte, conchiude dicendo: qui e ora è meglio che faccia questo. E da questa differenza fra il giudizio speculativo e il giudizio pratico si vede la ragione per la quale il giudizio pratico si trova molte volte in opposizione collo speculativo; e quindi qui è altresì la spiegazione di quel verso che è tanto ripetuto, perchè descrive un fatto solenne della natura umana: « Video meliora proboque, deteriora sequor ». Il giudizio speculativo dice, a ragione d' esempio: la legge comanda di non fare la tale azione. L' uomo che trascinato dalla passione la fa, non ignora questo giudizio speculativo e parziale, cioè riguardante il bene onesto. Ma egli nell' atto dell' operare contrappone a quel giudizio speculativo un giudizio pratico il quale dice così: è vero che io perdo facendo questa azione il bene onesto, ma dall' altra parte il diletto che ha congiunto è tanto grande che io lo preferisco al bene onesto, e per ciò giudico che, nel momento presente, per me sia meglio il farla. Questo è un giudizio ingiusto ed in ciò sta la reità dell' azione: ma egli appare però da tutto questo come la facoltà che ha l' uomo di peccare, sia preceduta dalla facoltà di errare volontariamente: poichè tale doveva essere il nesso fra il conoscere e l' operare in un ente ragionevole; per modo che ogni colpa è figlia di un errore (1). A conoscere dunque onde procede l' infiacchimento della libertà relativamente alla naturale virtù, conviene investigare quali sieno le cagioni che sebbene l' uomo conosca speculativamente il diritto e l' onesto, e sebbene egli sappia altresì che il bene onesto non ha comparazione con altro bene alcuno, ma possegga una somma e infinita dignità; tuttavia nell' atto di operare preferisca a esso il bene eudemonologico quale di presente gli apparisce. Or ciò nasce dall' apparirgli questo bene sommamente vivace, quando l' onesto nol percepisce che assai languidamente, e ciò per quelle ragioni che abbiamo accennato altrove lungamente. Il primo male conseguente al peccato di origine dalla parte di Dio è la perdita della grazia. A cui consegue la morte dell' anima. Perocchè abbiamo definita la vita una incessante produzione del sentimento. E abbiamo anche veduto che la grazia è una percezione incipiente di Dio, il quale collo starci aderente all' anima e operante in essa colla sua propria sostanza, vi suscita continuamente un sentimento deiforme, il quale è propriamente la vita soprannaturale dell' anima intelligente. Perocchè l' anima in quanto ha il sentimento animale, intanto non vive come intellettiva, ma unicamente come sensitiva, ovvero soggetto animale: ed egli non sarebbe assurdo il dire piuttosto che di questa vita vive il corpo e non l' anima, sicchè, distrutto il corpo, anche l' anima sensitiva non è più (1). Or vero è che l' anima intellettiva naturalmente concepisce l' essere ideale, ma questa sola tenuissima e uniforme concezione non gli dà un sentimento di cosa reale e tutto al più è un cotal principio di sentimento, e non un sentimento intero. Perciò l' anima intelligente senza la grazia non ha più per natura che un principio di vivere, ma le manca la vita intera, e per ciò dicesi morta. A intender meglio questo vero si consideri primieramente che l' anima col solo essere indeterminato non vede ossia non sente nessun essere finito; e l' essere e perciò il sentimento che le può venire dall' unione con l' essere indeterminato, è egli stesso al sommo confuso e indefinito. In secondo luogo, l' anima colla vista di questo solo essere, non discerne sè stessa, ma tutta esiste, per così dire, nel suo oggetto. In terzo luogo, ella non ha alcun movimento, ma solo quell' atto immanente pel quale esiste, e quel qualsivoglia principio di sentimento è pure immanente, nè racchiude un' azione, ma un cotal principio di azione che non va più là, che non si compisce. Or a un tal principio di sentimento non si può dare il nome di vita, la quale abbiamo fatta consistere non in un principio di sentimento, ma in un sentimento compito e anzi in una incessante produzione di questo sentimento; nelle quali parole viene descritta una azione incessante e che, per così dire, continuamente si rinnova e si finisce. Or perchè l' azione che produce o della quale è il sentimento sia compita, perchè nell' anima vi abbia, per così dire, un moto continuo, non è sufficiente che essa anima possegga il solo essere indeterminato e ideale, ma è necessario che soffra l' azione di un essere reale, dalla quale azione l' anima riceve un sentimento compito e comincia da questo il suo moto che consiste principalmente in un continuo passaggio della sua attenzione, ossia della sua attività dall' essere reale all' ideale e dall' ideale al reale, e dall' idea al sentimento e dal sentimento all' idea. Ora cessando nell' anima l' azione degli esseri finiti e materiali colla morte del corpo, ove Dio non le sia presente, cader si deve necessariamente in quel cotale immobile sopimento che ragionevolmente cessazione della vita, ossia morte si può denominare. E perchè la vita animale è precaria e non propria dell' anima, quindi è che l' anima priva della grazia non ha anche unita al corpo se non una vita effimera e porta in sè stessa la morte (1). Tutto questo ha luogo anche considerando l' anima umana come semplicemente priva della grazia, sebbene difformata non fosse da nessun proprio peccato. Che se ella, oltre esser priva della grazia, sia anche peccatrice, come avviene nell' uomo infetto dalla original colpa, allora vi ha nell' anima anche un' avversione, come abbiam detto più sopra, dalla verità e da Dio, che pur è sua vita: e in questo doppio senso giustamente il peccato originale è dichiarato dal Concilio di Trento morte dell' anima (2). Un' altra conseguenza del peccato di origine, considerato dalla parte di Dio, si è che l' uomo viene rimesso a una provvidenza generale e di mezzo, in luogo di esser governato da una provvidenza speciale e di fine. L' uomo innocente era il fine dell' universo: Iddio faceva di lui le sue delizie, stava congiunto intimamente con lui e quindi aveva di lui una provvidenza immediata e veramente di fine, sicchè tutte le cose dell' universo erano ordinate e volte a servire quest' uomo, delizia di Dio e in cui era Dio. Ma dall' uomo peccatore Iddio si separò: la causa dell' uomo da quell' ora non fu più la causa stessa di Dio. L' uomo peccatore non poteva essere vero fine dell' universo, poichè Dio solo è fine, e intanto l' uomo era fine dell' universo, in quanto partecipava di Dio e era fatto una sola cosa col Creatore. Rimase adunque l' uomo una semplice creatura: fu abbandonato alle proprie forze: la natura stessa e tutti gli esseri che la compongono furono abbandonati alle sue forze e l' uomo si trovò esposto a tutti quegli accidenti che potevano naturalmente intervenire dall' azione simultanea di tutte le innumerabili forze degli innumerabili esseri creati che esistono. Se la cosa fosse rimasta così, l' universo avrebbe perduto il suo fine; ogni straordinaria provvidenza sarebbe cessata dal mondo, e del mondo e dell' uomo sarebbe avvenuto tutto ciò che avessero prodotto il complesso delle forze naturali con tutti i loro ordini e collisioni. Ma essendo fra la umanità predestinato un Individuo che non doveva essere macchiato di peccato, e congiunto della massima congiunzione con Dio e di congiunzione indistruttibile; avvenne che questo Uomo rimase il vero Capo e il vero fine dell' universo: e questo fu l' Uomo Redentore anche degli altri uomini. Perocchè Iddio conservò per quest' uomo la sua provvidenza speciale, o piuttosto specialissima, e così tutti gli altri uomini decaduti, come tutte le altre cose dell' universo divennero mezzo alla grandezza, alla felicità e alla gloria di quest' Uomo7fine. Di che accadde che molti uomini furono sanati dal peccato e ricongiunti con Dio, appunto perchè anche questo era necessario, acciocchè l' Uomo7fine riuscisse il più grande, il più felice, il più glorioso che esser potesse. Conciossiacchè egli desiderò che fossero associati a lui i suoi simili; e non potevano essergli associati se prima non venivano giustificati: e giustificati che furono, ripresero anch' essi lo stato e la condizione di fine insieme con quegli che era fine per sè stesso e che chiamava altri in parte di questa sua dignità. Ma considerandoli però come peccatori, essi, come dicevamo, maggior grado non tengono che di mezzo : e per ciò fino che sono peccatori, di tanto la divina provvidenza a loro soccorre e provvede, di quanto è uopo perchè servano acconcissimamente al fine , a cui sono subordinati. Per la massima gloria adunque di Cristo sono stabiliti tanto quelli che si salvano come quelli che periscono. Se non che i primi passano a esser fine insieme con Cristo coll' uscire dallo stato di peccato; ed i secondi rimangono eternamente puri mezzi. Ai primi per ciò è destinata una piena beatitudine e soprannaturale che non può loro fallire, e nello scorgerli a questa consiste la speciale provvidenza che guarda sopra di loro e veglia a questo scopo tutti gli avvenimenti (1): ai secondi poi viene amministrata nella vita presente quella misura di beni e di mali che più conviene, acciocchè servano nel miglior modo alla gloria de' buoni: e nella futura parimenti vien fatto di loro ciò che valga a rendere più magnifico e glorioso il regno del prediletto di Dio Padre e degli amici suoi. Di che apparisce che la provvidenza universale e di mezzo, che sola presiede al governo di quelli che hanno in sè il peccato, contiene questi tre scapiti: a ) Che essi considerati nello stato di peccato rimangono in preda ai mali naturali e alla morte, perchè nessuna provvidenza soprannaturale li difende da quelli. Laddove i giusti non vengono sottomessi ai mali se non con certa misura e con un certo modo di amorosa predilezione; assicurandoci le divine Scritture che Iddio si serve a questo fine del ministero degli Angeli (2). I peccatori all' incontro di loro natura non hanno alcuna virtù soprannaturale che temperi e guidi in lor favore le forze della natura e delle creature tutte, se non per accidente, cioè in quanto ciò potesse tornare bene ai giusti (1). b ) Ed essendovi fra le creature anche degli esseri malefici, cioè i demonii, i quali sono forniti di forze atte a nuocere alla umanità, viene in conseguenza che l' uomo pel peccato originale rimane altresì in balìa dei demonii e, come dicono le Scritture e i Padri, sotto la servitù e potestà del diavolo (2). Tanto più che l' uomo del peccato originale è fatto speciale conquista del demonio, come di quello che fu il tentatore e la cagione della lamentevole caduta che tolse il genere umano di Dio. c ) Dai quali principii procedono alcune conseguenze che ci dànno lume a far probabile conghiettura dello stato dell' anima la qual passi all' altra vita macchiata del peccato originale senza più. Perocchè le conghietture che si possono fare dal detto sono le seguenti: PRIMO. - L' anima che macchiata dal peccato originale passa all' altra vita, è priva di ogni visione di Dio, perchè priva di ogni grazia o comunicazione colla divina sostanza. SECONDO. - Essa è morta, cioè a dire esclusa dalla vita eterna; il che è quanto dire priva di quella vita che nasce dalla reale percezione di Dio, la quale è eterna, perchè Iddio che la produce colla sua azione nell' anima è eterno; ed essendo vita eterna, è sola vera vita. TERZO. - Essa è esclusa dal consorzio di Gesù Cristo e dei Santi, perchè priva di Dio non può aver comune l' oggetto della loro felicità e quindi non può formare una società, una unità con essi, giacchè questa sociale unione viene dall' unità dell' oggetto comune del loro godimento, ciò è quanto dire che è esclusa dal regno de' cieli. QUARTO. - L' anima divisa dal corpo col solo peccato originale, quell' anima deve essere in un cotale stato che possiam dire di assopimento, nel quale trovasi priva di sentimento e di vita, e non ha che un principio di vita e un principio di sentimento, portando di più un' inclinazione a rifuggire dalla verità e dalla vita. QUINTO. - L' anima in tale stato è esposta all' azione delle creature, come dicevamo, anche le più malefiche, ma essendo essa priva di corpo e non avendo che la sola vista dell' essere universale, non pare dover essere suscettiva dell' azione delle forze a lei nemiche. Perocchè il sentimento materiale non lo ha più, e l' intellettuale è tale che nessun essere creato può alterarlo, conciossiacchè nell' intelletto non ha virtù di operare che Dio stesso. Sicchè converrebbe supporre che all' anima per essere tormentata dai demonii, fosse aggiunto un cotal corpo. E ciò crediamo avvenire coll' anime ree di peccati attuali, dicendoci le divine Scritture che esse ardono nel fuoco, ma rispetto a quelle anime che sono aggravate dalla sola colpa originale, riteniamo assai probabile che non sia. SESTO. - Senonchè colla risurrezione dei corpi esse racquistano i corpi. Il riacquistare poi che fanno dei corpi è un aggiungersi loro un sentimento di cosa reale. Io non so in che stato questi corpi verranno raggiunti a quelle anime: non certo in istato glorioso, perchè la gloria viene dalla unione con Dio. Anche lo stato dunque di cotesti corpi risorti par verisimile dover essere un effetto dell' universal Provvidenza, cioè a dire essi saranno tali quali li vogliono le leggi universali che presiedono al gran patto del risuscitamento dei corpi. Io inclino a credere che essi corpi verranno ripristinati in buono stato, d' una bontà però loro naturale. E ciò che mi fa creder questo verisimile si è il general principio che mi guida in tutto questo discorso delle pene de' fanciulli morti senza battesimo o più generalmente di quelli cui non altra colpa danneggia che originale, il quale è: « la pena essere meglio negativa che positiva, cioè dipendere dall' abbandono che fece Dio di essi a sè medesimi e alle forze e leggi naturali« (1) ». Conosciuta ora l' indole e la natura del peccato di origine, conviene che esponiamo la dottrina della sua propagazione. E a tal fine ci è bisogno cominciare dal riassumere ciò che abbiamo detto circa il modo onde l' animale si propaga, e onde si propaga l' uomo, considerato secondo la natura. Abbiamo dunque veduto che negli animali generanti vi ha una cotal massa carnosa, la quale unita con essi forma parte de' loro corpi e vive in questo stato di parte. Ma staccata da essi per la generazione, non muore, anzi quella vita, che aveva prima, acquista una virtù e attività maggiore, per la quale sussiste da sè, ossia forma un animale nuovo, indipendente dai primi, da' quali provenne (1). Così si costituisce il soggetto sensitivo. Ma se questo soggetto sensitivo, per legge da Dio fissata, è ordinato a dover avere anche la visione dell' ente, egli si fa con ciò un soggetto ragionevole. E tale avviene il nascimento dell' uomo, al quale, tosto chè è naturato come soggetto sensitivo, è presente l' ente; conciossiacchè l' ente per legge costitutiva, come dissi, è fatto presente alla natura umana: e perciò moltiplicandosi i soggetti sensitivi nella natura umana, è dato loro di veder sempre l' ente, ossia, che è il medesimo, di essere incontanente intellettivi. Ma abbiamo ancora veduto che l' ente a principio si congiunse alla natura umana in un modo perfetto, cioè che si diede a vedere ad essa natura non solo nella sua forma ideale, ma ben ancora nella sua forma reale e sussistente (3). Ciò è quanto dire che l' uomo venne a principio costituito non solo in un ordine naturale, ma ben anco in un ordine soprannaturale. Perocchè tutte le nature, in quanto sono create, costituiscono ciò che si chiama l' ordine della natura. Ma la sostanza del Creatore è essenzialmente distinta dalla natura ed è superiore ad essa. Per ciò la percezione della sostanza del Creatore è ciò che costituisce l' ordine soprannaturale. Or l' ente universale in quanto non è puramente ideale, ma si dà a vedere ben anco come reale e sussistente, non è altro che il Creatore istesso, Dio. Perciò si dice che quegli esseri creati, i quali non solo concepiscono l' essere nella sua forma ideale e massime in uno stato indeterminato, ma percepiscono altresì la stessa sussistenza e realità di quest' essere sono costituiti in un ordine soprannaturale. E tale fu Adamo, come abbiamo provato. All' opposto, privo lo spirito umano della percezione dell' essere nella sua sussistenza e realità e solo fornito della concezione dell' essere ideale e in uno stato d' indeterminazione, egli trovasi esser posto dentro i confini della natura: perocchè l' essere ideale si può dire creato nel modo in cui è veduto dall' uomo, cioè in quanto egli è separato dalla real sussistenza e in quanto è privo de' suoi termini o determinazioni. Fino a che pertanto la natura umana si trovò congiunta coll' ente completo, ella fu fornita di tutto ciò che appartener potesse alla sua natura, e altresì della grazia. E perchè questa grazia nel modo detto era congiunta per legge costitutiva alla natura umana, ella doveva essere annessa di conseguente a tutti gli individui ne' quali si fosse moltiplicata questa natura: ed è per ciò che i figliuoli di Adamo innocente avrebbero ereditata dal padre la grazia santificante. Perocchè Iddio e l' uomo erano congiunti in modo da formare, per così dire, una cosa sola: cioè Iddio si comunicava all' uomo ove che si trovasse o cominciasse a esistere il soggetto animale umano (1). Or avendo Adamo peccato cioè ribellatosi a Dio, egli perdette la vista della divina sussistenza, cioè la grazia; e, morto all' ordine soprannaturale, non gli rimase che la natura. Egli fu da quel momento che l' essere universale non fu congiunto alla natura umana che idealmente, non più in una forma divina, ma creata e naturale. Si può qui domandare se questa perdita che fece la natura umana della grazia e di Dio, sia avvenuta dalla parte di Dio, cioè per essersi Dio tolto da lei, o dalla parte dell' uomo, cioè per essersi la volontà rivolta da Dio e non trovato più il modo di vederlo, a quel modo che l' uomo che volta le spalle in faccia al sole nol vede più. Egli è certo essere ripugnante alla divina natura che essa faccia copia di sè ad esseri suoi nemici. Lo Spirito Santo, dice la divina Scrittura, non abita in corpo soggetto a peccato (2). Però giustamente può dirsi che Iddio fece colla natura umana prevaricata quello di che minacciò gli ebrei: « Io asconderò la faccia mia ad essi e starò a vedere a che mali termini da loro soli si condurranno« (3) ». Ma con non minore verità si può dire che la privazione di Dio nacque perchè si stolse l' uomo da Dio, perchè l' uomo si mise in uno stato, nel quale egli sarebbe ripugnante e intrinsecamente assurdo che vedesse Iddio, come sarebbe ripugnante che vedesse il sole chi si cavasse gli occhi. Conciossiacchè Iddio si vede coll' occhio della buona e retta volontà: e però il pervertire la propria volontà, cioè il darsi ad amar la creatura in luogo del Creatore, e cercare in quella anzichè in questo la propria felicità, è un rendersi impossibile la vista del Creatore, un accecarsi. E perduta una volta tal vista del Creatore, ristretto lo spirito dell' uomo nelle sole creature, non gli è più possibile di rilevarsi e trovare con gli occhi suoi dell' animo quell' oggetto d' infinito bene che ha perduto, il quale è tale che, cessando un solo istante di vederlo, non si può veder più. Perocchè la volontà non può esser tratta da cosa incognita, e perduto una volta il sentimento di Dio, la divina sostanza le rimane come un bene incognito che non può essere più appetito o desiderato: sicchè non le restano all' appetire e desiderare se non i beni materiali; perocchè il sentimento di questi non cessa, e non cessando, essi beni rinnovellano continuamente le loro impressioni sull' uomo e le producono di nuovo. E nella stessa maniera perchè l' uomo tornasse a gustare di Dio, converrebbe che Dio medesimo riagisse nell' uomo e eccitasse in lui nuovamente il sentimento della divina sostanza (1). Egli è per questo che i santi Padri riconoscono una cecità volontaria e anche peccaminosa, ove questa cecità appartenga a una volontà personale. [...OMISSIS...] . Questa cecità si chiama nelle divine Scritture cecità del cuore, per distinguerla dalla cecità dell' intelletto; conciossiacchè il cuore vien preso per la sede della volontà. Il perchè dove la cecità consiste in un traviamento della volontà, e ove questa volontà sia personale, come dicevamo, acconciamente quella cecità si può chiamare peccato. E con quest' avvertenza si devono intendere alcuni passi di S. Agostino, nei quali chiama peccato la cecità originale, come pure la concupiscenza; siccome a cagion d' esempio nel passo seguente: [...OMISSIS...] . La natura umana adunque dopo la commissione del peccato rimase: 1 privata di Dio: 2 con una irreparabile gravitazione della volontà verso il bene creato e avversione dall' increato che più non percepiva. Or essendo questo stato proprio, come abbiam veduto, della umana natura, egli doveva necessariamente ripetersi in altrettanti individui, in quanti essa natura si moltiplicava. E perciocchè questa cecità e questa mala piega della volontà personale ha in sè ragion di peccato, per ciò qui s' intende la necessità che v' avea della trasfusione nei posteri del peccato adamitico. La ricerca come passasse da un uomo nell' altro il peccato originale diede cagione alla celebre questione dell' origine dell' anima. Per ciò non vorrà essere inutile che qui frammettiamo alcune considerazioni sopra un tal punto, valendoci ciò a render più chiara e più piena la trattazione nostra della trasfusione del peccato, che dopo questo quasi episodio riprenderemo. Tre furono le principali opinioni, nelle quali si partirono gli scrittori ecclesiastici circa il sapere come cominci l' anima intellettiva in un uomo che vien generato. Altri sostennero che le anime tutte furono create da Dio a principio e mandate o venute poscia ne' corpi nuovamente ingenerati: e di questa sentenza fra gli altri fu pure Origene. Altri pretesero che come il corpo ingenerava il corpo, così simultaneamente l' anima ingenerasse di sè un' altra anima, e per tal modo che l' uomo intero, anima e corpo, fosse naturalmente ingenerato: e questa sentenza tenne Tertulliano, Apollinare e, per testimonianza di S. Girolamo, quasi tutta la Chiesa occidentale (1). Altri finalmente opinarono che le anime fossero create immediatamente e per singola da Dio e da Dio infuse ne' corpi, mano mano generati: e di questa sentenza fu pure Innocenzo III, che così esprime la origine dell' anima intellettiva: « infundendo creatur, creando infunditur ». Così pensò anche Pietro Lombardo. La prima di queste tre opinioni fu al tutto di qualche autore particolare e non seguìta. Circa lo scegliere fra le altre due stettero in forse i più bei genii della Chiesa. S. Agostino, che chiama una tale questione caliginosissima , per quanto bilanciasse col suo raro ingegno, non potè mai venire a capo, sia per l' una, sia per l' altra parte (2); e invitava chi più di lui avesse potuto conoscere in questa parte a dargli in ciò aiuto di ammaestramento (3). La maggior parte degli antichi non vollero parimente decidersi, ma lasciarono in dubbio tal controversia (4). S. Fulgenzio pure dice la cosa dubbiosa (5): dubbiosa la trova Cassiodoro (6): dubbiosa il grande S. Gregorio. Ecco il luogo in che quest' ultimo ne parla in una lettera che scrive a Secondino: [...OMISSIS...] . Tal parve forte e non così facile a risolversi una questione siffatta a quei sommi uomini. Nè è da credere che loro sfuggissero quelle ragioni ovvie che si presentano in siffatta materia alla mente di ciascheduno. Ma essi vedevano molto addentro nella cosa, e però non si decidevano leggermente. E questa incertezza e dubbiezza in siffatta questione passò, quasi direi, per ecclesiastica tradizione, a tale che fu tenuta da taluno qual parte della cattolica verità. Così S. Isidoro Ispalense non dubitò di porre fra le cose da doversi tenere per fede, che l' origine dell' anima fosse incerta (1). Nel IX secolo la questione era nel medesimo stato, come si può vedere da un luogo di S. Prudenzio Vescovo di Troyes, che citeremo più abbasso. Solo due secoli dopo Ugone di S. Vittore tolse a provare: « probabilius animas ex traduce non esse (2) ». Colle quali parole mostravasi non darsi da lui la cosa per al tutto assicurata. Nel secolo susseguente però S. Tommaso d' Aquino insegnò: « haereticum esse dicere, quod anima intellectiva traducatur cum semine (3) ». E dopo di lui si ritenne per cosa certa e fu universalmente ammesso da' Teologi, che non venisse propaginata col corpo, ma creata da Dio. Egli è però da considerarsi che la sentenza ricevuta universalmente da' Teologi, sull' autorità principalmente dell' Angelo delle scuole, non è precisamente quella di cui trattavasi e questionavasi dai Padri, e che però non può dirsi che essi abbiano al tutto recisa o sciolta quell' antica questione. Perocchè due cose diverse sono a dimandarsi:« se l' anima sebbene spirituale si propagini in un modo spirituale simultaneamente al propaginarsi che fa il corpo dal corpo«; e domandarsi:« se l' anima si propagini mediante la generazione corporea, di maniera che il corpo ingeneri l' anima«. La prima era la questione dei Padri: ed ecco come ella viene accuratamente espressa dal luogo indicato da S. Prudenzio che viveva nel secolo IX sotto Carlo il Calvo: [...OMISSIS...] . All' incontro la seconda di quelle due questioni si può dire che non fosse nè pure mai messa in controversia. Nel IV secolo Prudenzio riprende la sentenza che l' anima venga generata dal corpo, non come dubbio, ma come certo errore. E non avrebbe parlato con tale sicurezza, se avesse inteso di toccare la questione che S. Agostino dichiarava superiore alle forze del suo intendimento. Ecco i versi del poeta cristiano: [...OMISSIS...] . Medesimamente il luogo del libro degli Ecclesiastici Dommi (6) attribuito a Gennadio, scrittore del secolo V, che si trova citato nella Somma di S. Tommaso, si riferisce all' opinione del venire le anime dai corpi, dichiarando erroneo l' affermarsi che le anime ragionevoli si seminino per l' unione de' corpi. Lo stesso e nulla più è riprovato dall' Angelico Dottore in quell' articolo cui egli intitola come questa dimanda: Se l' anima intellettiva sia cagionata dal seme? Nel quale articolo è da osservarsi come egli non trae punto le obbiezioni che fa alla sua sentenza dall' autorità di S. Agostino e degli altri Padri, quasi avessero lasciata la questione dubbiosa, ma anzi da ragioni naturali. Il che dimostra, che egli non intendeva di dichiarare già eretica quella sentenza che da S. Agostino e da' Padri antichi non era stata provata riprensibile: perocchè se voleva questo, il santo Dottore, che è sempre sommamente studioso di conciliare la sua dottrina con quella di S. Agostino e dell' antichità cristiana, ne avrebbe fatto indubitatamente parola. Se non che dalle ragioni stesse che apporta si fa manifesto, che egli altro non condanna in quell' articolo se non il farsi produr l' anima dalla materia; giacchè ecco come egli dice. Riferirò le sue stesse parole, perchè si renda evidente la verità che asserisco. [...OMISSIS...] Egli è manifesto da questa prima ragione, che l' assurdo che vuol dinotare qui S. Tommaso si è quello che noi dicevamo fuori di controversia, cioè che la materia non ha virtù a produrre lo spirito. Udiamo la seconda ragione del santo Dottore: [...OMISSIS...] Anche in queste parole si par chiaro, che tutto l' assurdo che si fa rilevare consiste nella incommunicabilità dell' intelligenza colla materia corporea anche sensitiva: perciocchè il principio intellettivo non fa uso di alcun organo corporeo alla sua operazione; e perciò il corpo non può agir nulla nell' intellettivo principio. Udiamo l' ultima ragione che reca l' Aquinate: [...OMISSIS...] . Il quale argomento viene a dire così: Se il corpo producesse l' anima, o l' anima dovrebbe essere una sostanza corporea, oppure una modificazione, un atto del corpo stesso. Sostanza corporea l' anima non è: e non è nè pure una semplice modificazione o atto di un corpo, poichè un tal atto non è sostanza per sè. Dunque l' anima non può esser fatta dal corpo. Ma per condurre la cosa all' evidenza e rimuovere ogni dubbio sulla partizione che abbiamo fatta della questione, volgarmente una, in due diverse, basterà recitare qualche passo di S. Agostino e mostrare che quando si tratta di dedurre l' anima dall' anima, niente risolve (2), e piuttosto il tengo favorevole, che contrario (3). Laddove quando trattasi di dedurre l' anima da corporea materia, è risoluto in negarlo come un errore manifesto e pernicioso. Pigliamo sott' occhio la lettera che il santo Dottore scrive a Ottato, il quale aveva proposta a S. Agostino la questione dell' origine dell' anima e ricercato il suo parere. Si veda adunque in qual parole tale questione era proposta. Dimandavasi: se le anime nascano per propagazione come i corpi e vengano da quell' una che nel primo uomo fu creata? (4). Parlasi dunque di trar l' anima dall' anima; e non altro. Or su questa ecco come si tiene in bilico S. Agostino. Egli dice: [...OMISSIS...] . Egli è dunque questo il costante modo di pensare di S. Agostino, quando si tratta di propaginare l' anima dall' anima. Ma vuolsi vedere all' incontro, come egli la senta quando trattasi di una propaginazione dell' anima materiale? Il santo Dottore avvertì benissimo che alcuni materializzavano l' anima col farla venire dai corpi, e fa colpevoli di questa sentenza i seguaci di Tertulliano, de' quali ecco come ragiona: [...OMISSIS...] . Or che cosa qui soggiunge il santo Dottore? Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Or dunque non era dubbioso S. Agostino se l' anima nascesse dal seme corporeo, che è la proposizione chiamata eretica da Tommaso. Ma ciò che non trovava assurdo, sebbene oscurissimo e inintelligibile, era che l' anima potesse propaginarsi dall' anima. Il primo diceva un errore sopra ogni altro pernicioso, un sogno e sino una pazzia; nel secondo vedeva un mistero. Il perchè, tosto dopo ripreso l' errore di Tertulliano, soggiunge: [...OMISSIS...] . Intorno alle quali cose conchiude che [...OMISSIS...] . Dalla storia della questione dell' origine dell' anima fin qui esposta apparisce, aver essa avuto tre periodi. Il primo anteriore al pelagianismo, nel quale essa non fu mai trattata di proposito, nè sottoposta a un rigor teologico. Il secondo, che comincia da Sant' Agostino, indottovi a trattarne per cercare un modo di spiegare la propagazione del peccato originale, e che non venne a capo d' altro se non di dichiarare la questione insolubile; e questa sua sentenza fermò ogni altra investigazione e fu tenuta per indubitabile almeno sette secoli. E il terzo, a cui diedero luogo gli scolastici, i quali, si può dire, diedero nuovo movimento agli intelletti che da tanto tempo riposavano; periodo che toccò il suo colmo in S. Tommaso, il quale, omessa ogni altra ricerca, tolse a dichiarare essere sentenza condannata dalla Chiesa di dire che le anime si propagano come i corpi (1). E dopo tanta autorità ognuno tenne la cosa per definita: senza però badare che S. Tommaso non condannò la sentenza se non a quel modo che veniva attribuita a Tertulliano e Apollinare (2) e che induceva irreparabilmente nel materialismo, il quale è certamente riprovato dal giudizio ecclesiastico. Ed egli è appunto perchè rimane, anche dopo la trattazione dell' angelico Dottore, una via alla disputa non chiusa dal giudizio perentorio della Santa Chiesa, che degli eccellenti teologi dichiararono la dottrina della quotidiana creazione delle anime non essere punto cosa di fede; fra i quali è l' Estio (3), il Berti (4), il De Rubeis (5), il Noris (6), e il Bellarmino (7). E così sarebbero rimaste le cose, se lo spirito umano non avesse ricevuto nei tempi moderni una nuova scossa e movimento dalle scuole de' filosofi: il che diede luogo a un quarto periodo nella storia della questione che noi trattiamo. A questo diedero origine le ricerche dei naturalisti (ai quali la filosofia moderna deve il suo primo movimento inquisitivo, come già nella Grecia) intorno alla generazione e allo sviluppo dei germi. Perocchè par loro di ritrovare i germi sì delle piante, che degli animali, non crearsi mai, ma non altro fare che svilupparsi, come quelli che sono ravviluppati gli uni negli altri continuamente: sicchè nelle ovaie delle prime femmine fosser già posti da Dio tutti i germi delle piante e degli animali che dovevan poi nascere. Cosa a cui la impercettibile lor piccolezza non fa punto di ostacolo, dopo che si è conosciuta la divisibilità per poco indefinita della materia e la sottigliezza a cui ella può pervenire, come vedesi nella luce e suoi colori e nella diffusione degli odori e negli animaletti microscopici (1). Or questo sistema de' germi involti diede cagione a Leibnizio di immaginare che a questi germi fossero già annesse le anime fino da principio e così gli animali tutti esistettero creati da Dio a principio, a tale che altro non facesse la generazione se non edurli alla luce e dar loro il successivo e convenevole crescimento. Quasi nello stesso pensiero caddero molti altri filosofi contemporanei di Leibnizio, tra quali lo Swammerdam, il Malebranche, il Baile, il Picarne, l' Hartst”ocker, e altri. Vero è però che Leibnizio affermava, riguardo all' uomo, che non preesistessero nella prima madre se non delle anime sensitive e animali, dotate bensì di percezione e di senso, ma prive di ragione, cui acquistassero poi mediante la generazione (2). Ma confesso di non sapere come egli intendesse che quelle facessero un tale acquisto: in che sta appunto tutto il forte della questione (3). Leibnizio fu seguitato dal Canzio (4) ma principalmente da Cristiano Wolfio, il quale però suppone inchiuse nell' ovario di Eva le anime spirituali e però intellettive, e non già puramente animali e sensitive (5). Si andò finalmente ancora più in là e si arrivò sino a dire che le anime inchiuse nel corpo di Adamo o di Eva ricevettero da Dio, insieme coi primi parenti, il precetto, e lo hanno insieme con lui, sebben men gravemente, violato (6). Non si può confondere in alcuna maniera col sistema Leibniziano e Wolfiano l' opinione da noi proposta sopra l' origine dell' anima. Perocchè sebbene noi supponiamo vera la preesistenza dei germi, tuttavia questi non sono già per noi dei piccoli animaletti, nè molto meno degli omicciuoli, ma de' puri germi, i quali diventano poi animali da sè per la generazione. Se non che noi abbiamo dato di questa una spiegazione tratta dalla natura dell' animale cui abbiam definito: un sentimento che sussiste da sè, in quanto esso si considera come principio senziente (1). Or noi abbiamo veduto che questo sentimento in ogni animale ha per materia il continuo, il quale non ha parti, e però tanti sono i sentimenti semplici quanti i continui. Il continuo però è divisibile, formandosi di un continuo solo due o più continui minori: e però se questi minori continui sien tali che possano sussistere come materia di sentimento (il che dipende da certe leggi fisiche, chimiche e animali), in tal caso la divisione del continuo ha fatto nascere due sentimenti per sè sussistenti, i quali, considerati come senzienti, sono altrettanti animali. Così ho spiegato la generazione negli animali più imperfetti come i polipi, i quali per diventare di un animale solo due o più, basta segarli con certa avvertenza in due o tre parti, senza bisogno di far altro. Perocchè le parti che ne nascono sono tali che corrispondono alle leggi fisiche, chimiche e animali che presiedono alla conservazione della materia animale; cioè a dire, le parti che si fanno di un animale solo ciascuna ha in sè un cotale equilibrio di forze per le quali si può conservare nello stato suo e non perdere quel tessuto e quella organizzazione che è necessaria a conservare l' animalità. Secondo gli stessi principii: 1. di una divisione che succede nella materia del sentimento; e 2. di un equilibrio o sistema di forze che conservasi nella materia divisa; spiegasi anche ogni altra maniera di generazione che avviene nelle diverse specie di animali più perfetti. Dove si vede che il seme del maschio non è, assolutamente parlando, necessario alla generazione; e forse anche negli animali perfetti esso non fa se non dare al germe quell' attività e forza vitale, per la quale, anche staccato nel debito modo dalla madre, possa avverarsi quell' equilibrio di forze, di cui abbiamo ragionato, il qual valga a conservare quella massa carnea staccata dalla madre in istato normale, cioè atto a conservare la vita e il sentimento e avere un dato particolare sviluppamento. Chè ove anche alcune particelle del seme virile si apprendano al germe e con esso lui s' impastino (forse delle parti sottilissime e quasi un' aura vitale che da esso spiri), la cosa però sarebbe la medesima: poichè queste particelle non sarebbero mai morte, ma vive e col vivo germe contemperate, sicchè dal maschio e dalla femmina, come da una sola carne, si staccherebbe quella vivente materia che, appena staccata e unita, sarebbe un animale. Generato così l' animale, che non è se non il costituirsi un sentimento da sè, a cui è inerente di sua natura il principio senziente; non è più difficile il concepire come il principio che è senziente diventi anche intellettivo, dopo che è stato ritrovato, essere l' intelletto null' altro che il sentimento dell' ente. Perocchè solo che si renda l' ente percettibile, egli è già con questo prodotto anche il percipiente: ciò che è conseguenza di quel principio, che ove si dà in natura la percezione, nella percezione si comprende il percipiente; come nel sentimento si comprende il senziente. Ora nella generazione umana noi diciamo succedere contemporaneamente, che l' animale si costituisca col precidersi e confondersi delle parti che costituiscono l' embrione; e che si costituisca l' intelligente principio coll' essere data al medesimo la veduta dell' essere. La quale veduta è già da principio conceduta all' umana natura a sola condizione che questa si costituisca nella sua parte organica: ed è data perciò a tutti i discendenti del primo uomo con quell' atto stesso con cui fu data al primo uomo. In tal modo non è che l' animale e molto meno l' anima intelligente preesista nei padri, ma bensì in essi esistono i germi o rudimenti, i quali in virtù della generazione stessa dell' umana natura, tal quale la fece Iddio da principio, si costituiscono poi naturalmente quasi sarei per dire in uomini. Egli è difficile conciliare molti passi delle divine Scritture colle opinioni da questa diverse; e confesso che la maniera nella quale i seguaci di quelle opinioni hanno tentato di conciliare con le medesime i luoghi delle Divine Scritture, non mi pare scevra di un cotale sforzo, e quasi direi che li traesse dal senso loro più ovvio e naturale. Tuttavia non essendo paruto a S. Agostino di trovare passo nelle Scritture che assolutamente recidesse la questione e che non potesse essere altramente inteso, io non vorrò dire il contrario. Ma sottoporrò a qualunque uomo equo e ai teologi di buona fede qualche testo, perchè veggano se non forse egli dalla nostra sentenza dell' origne dell' anima venga a ricevere l' interpretazione più piana e naturale. Iddio dopo aver creato l' universo, come dice la Genesi che riposò da ogni opera che aveva fatto (1): e in memoria di questo suo riposo stabilì il settimo giorno, dedicato al Signore, nel quale era interdetto agli Ebrei qualsiasi opera materiale e servile, a ricordo appunto di quella cessazione dal creare che Iddio aveva fatto, compita ch' ebbe l' opera dell' universo. Ora non è vero, che se si fanno a Dio creare continuamente dell' anime intieramente nuove, conviene fare una eccezione a quel gran riposo del sabbato e a quei passi tutti dove si legge che il cielo e la terra e ogni parte dell' universo era stata compita, sicchè non restava più altro a Dio che il conservare? O conviene almeno dare a quel luogo solenne una interpretazione sottile e tirata dalla lungi? In un altro luogo dice la Scrittura che Iddio fece a un tratto tutte le cose: « Fecit omnia simul (1) ». Le quali parole pure nella sentenza nostra vengono ad avere il più naturale significato. Perocchè in essa con quell' atto di Dio, che Mosè esprime con questa frase: « Inspirò nel suo volto lo spiracolo della vita« (2) »; verrebbe ad avere dato il principio intelligente alla umana natura e perciò a tutti i suoi individui; conciossiacchè quell' atto significherebbe propriamente aver dato l' ente a percepire ad essa natura. E questa interpretazione appunto dell' « inspiravit in faciem eius spiraculum vitae », è la sola, per quanto io ne capisco, che possa render chiara e giustificativa ragione di una maniera di dire così sublime. Perocchè se per quello spiracolo della vita (3), s' intende l' ente percepibile, allora nulla ha in sè che tiri al panteistico quell' espressione o che favoreggi l' assurdo sistema delle emanazioni. Conciossiacchè l' ente è veramente una appartenenza della divinità, un cotal raggio del Verbo divino; e però egregiamente si dice che questo ente è spirato da Dio medesimo e corrisponde a quell' altro passo di Giobbe: « Negli uomini vi è lo spirito, e la ispirazione dell' Onnipotente dà l' intelligenza« (4) ». All' incontro quelli che intendono per lo spiracolo della vita l' anima umana in quanto è soggetto, e non l' oggetto di quest' anima, l' ente, questi e devono sfuggire d' intendere quelle parole alla lettera e deviarle dal loro ovvio significato, o far l' anima una particella emanata dalla divina sostanza. E qui di passaggio siami lecito l' osservare che conviene intendere colla stessa avvertenza certe espressioni dei Padri della Chiesa, nelle quali fanno l' anima umana quasi una particella di Dio. Nell' anima vi è l' ente, e questo è il divino dell' anima, questo un riflesso, uno spiro di Dio: l' anima non è l' ente ma il vede, e per questo ella è così sublime, per questa sua congiunzione con un elemento divino, e attribuita a lei, quasi direi contenente ciò che spetta al contenuto, son date a lei delle divine attribuzioni. Per questa S. Giustino nel dialogo con Trifone chiama l' anima « Reginae mentis particula (1) ». Taziano allo stesso modo dice dell' uomo che è una porzione di Dio (2). Delle espressioni uguali si trovano in Clemente Alessandrino (3) e in S. Ireneo (4). Tertulliano dice che l' uomo è animato dalla divina sostanza (5): espressione con cui egli commenta il soffio divino della Genesi. L' autore delle false Clementine dice pure che l' anima ha una stessa sostanza con Dio (6). E Sinesio nelle sue poesie non dubita di chiamarla: Semente di Dio, scintilla del suo spirito, figlia, parte di Dio stesso. Nella sentenza da noi proposta ricevono parimenti un ragionevole significato alcune singolari espressioni de' Padri: come quella di S. Metodio che dice « il seme umano contenere, per così dire, una parte divina di potenza creatrice« (7) ». Perocchè ciò viene a dire pel seme essere il germe condotto a farsi animale intelligente, cioè a ricevere tale stato, nel quale possa vedere quell' ente che Dio ha fatto visibile fin dal principio agli individui della umana natura. E maggior verità e evidenza pure riceve quel dire del Genesi: « Tutte le anime che sono uscite dal femore di Giacobbe« (.) ». E quelle di S. Paolo ove dice che Levi fu decimato nei lombi di Abramo (9). E chi volesse sostenere che Dio crea di tutto punto l' anima e la mette nel corpo viziato, parmi che, di buona fede parlando e senza prevenzione alcuna, incorrerà una difficoltà grandissima nel conciliare in modo persuadente la giustizia e bontà divina con questo fatto. Perocchè questa sostanza spirituale non potendo uscire dalle mani del Creatore se non pura, senza alcuna colpa precedente, innocente e perfetta, difficil cosa è il pensare che ella, senza alcuna sua colpa precedente, sia condannata nel carcere di un corpo corrotto e astretta per necessità e violenza di esso corpo a rendersi fino dal primo momento della sua esistenza peccatrice. Io so bene che si suole assottigliarsi per dare una plausibile risposta a tanta difficoltà: ma so ancora non potersi dissimulare che in quelle risposte, se io punto nulla intendo, manifestasi più che altro uno sforzo di salvare la teoria preconceputa. Il perchè il dottissimo Gazzaniga, dopo aver recate queste soluzioni (1), ingenuamente soggiunge così: [...OMISSIS...] . All' opposto nella nostra sentenza Iddio diede l' intelligenza alla natura umana con quel soffio, col quale animò Adamo, e poscia non fece se non lasciare che essa natura si moltiplicasse per se stessa. Perocchè supponendo che in quel primo atto Iddio avesse posto, per così dire, visibilmente innanzi alla umana natura l' ente, dalla parte di Dio era fatto tutto, e solo restava a fare da parte della natura umana, cioè a generare; perocchè ciò che venia generato da questa natura avea sempre dinnanzi da sè l' ente, onde attinge l' intelligenza e nasce per tal modo l' anima intellettiva. Si consideri ancora che solo supponendo vera la nostra sentenza, prende sua forza quella ragione per la quale S. Tommaso risponde alla difficoltà, come l' anima venendo non dall' uomo, ma da Dio, ricever possa per eredità il peccato originale. Perocchè la sua risposta è questa: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è l' umana natura? Non certo il solo corpo, ma il corpo e l' anima insieme, e principalissimamente l' anima intellettiva che costituisce la specifica differenza di questa natura. Or dunque sarebbe egli vero che per virtù del seme si traduca l' umana natura, non traducendosi se non il corpo, sebben disposto in modo idoneo a ricever l' anima? Non veggo in che modo. All' incontro se il principio senziente, che si traduce pel seme, è già di natura sua, tosto che è costituito, ammesso alla visione dell' ente e così costituito intellettivo, prende un senso verissimo il dire che la natura umana si traduce per virtù dell' umana semente. Si consideri ancora come solo nella nostra sentenza si senta tutta la verità di quel celebre passo di San Paolo: « Eravamo PER NATURA figliuoli d' ira« (1) ». Perocchè la nostra natura, per dirlo di nuovo, è composta di corpo e di anima, e questa ne è la parte principale e formale, mentre il corpo non è che la parte materiale. Il solo corpo non siamo noi , ma l' anima anche sola può pronunciare questo monosillabo NOI: al corpo non appartiene l' ordine morale, e però solo nell' anima si trova giustizia o peccato. Or come, in senso proprio e stretto, potrebbesi dire che per la nostra stessa natura (2) fossimo figliuoli d' ira, se l' anima è di sua natura creata pura e monda e solo rimane viziata non per la sua origine divina, ma pel corpo nel quale s' introduce o dove si crea? All' incontro se l' anima si produce insieme coll' uomo in virtù di quell' ente che è legato coll' umana natura, egli è nel più stretto senso della parola che noi siamo figliuoli d' ira per natura, cioè per lo stesso nostro nascimento (3), per le leggi che presiedono al contemporaneo nascimento del corpo insieme e dell' anima, in una parola dell' uomo. Chiamo ancora ad osservare quelle altre parole dell' Apostolo, dove toccando in che modo tutti gli uomini nascano infetti da peccato dice: « Che il peccato entrò in questo mondo per un solo uomo - NEL QUALE tutti hanno peccato (4) ». E il sacro Santo Concilio di Trento dice: «« Che NELLA PREVARICAZIONE DI ADAMO tutti hanno perduto l' innocenza« (5) ». Quel testo dell' apostolo che i Concilii ecumenici hanno ripetuto o parafrasato merita tutta l' attenzione. Egli è evidente che si esprime in esso una congiunzione fra il padre dell' uman genere e i suoi discendenti siffatta, per la quale possa passare il peccato dall' uno negli altri. Tutti i Padri, su questa autorità di S. Paolo e altre somiglianti delle divine Scritture, parlano di una unione e comunanza fra il genere umano e Adamo loro capo. Ora tutti questi luoghi dei Santi Padri e quelli delle Scritture sui quali insistono non possono essere intesi nel loro vero significato, in tutta la loro forza, se non allora quando sia ben chiarita la natura di questa comunione e unione di tutti noi con Adamo. Udiamo a ragione di esempio S. Ambrogio. Egli dice: [...OMISSIS...] . Or resta a vedere in che modo appunto io fossi in Adamo, in lui peccassi, in lui fossi scacciato dal paradiso; in che modo tutti gli uomini non fossero che quell' uno e solo Adamo. Alcuni proposero una unione morale o sociale. [...OMISSIS...] . Usa anche S. Tommaso la similitudine delle membra che sono colpevoli e punite del peccato commesso dal capo. Ma egli è evidente che questi esempi, sebbene giovino a far concepire una cotal congiunzione fra i posteri e il primo padre, tuttavia non giungono a dimostrare l' intrinseca ragione della trasfusione del peccato originale e la inerenza interna di questo peccato al fanciullo che nasce di nuovo: come confessa anche il valente Domenicano Pietro Maria Gazzaniga (4). Perocchè non si può dir seriamente che una mano sia colpevole o che una mano si punisca; ma solo per un cotal modo traslato: e la imputazione che si fa ai membri di una società pel peccato del capo, in cui essi non abbiano avuta alcuna parte, nè l' abbiano potuto impedire, non può essere vera imputazione morale, ma solo una cotal imputazione legale per la quale sono involti in una pena che, considerata intrinsecamente, o non è pena, ma disgrazia, come una famiglia incendiata per negligenza di un membro che appiccò il fuoco alla casa; o se ella si dà per pena, è pena ingiusta. Vi ha dunque bensì fra i discendenti di Adamo e il padre una unione morale e sociale: ma questa, eziandio che bastasse a spiegare in qualche modo la trasfusione della pena, non basterebbe però a rendere una ragione plausibile della trasfusione del peccato (1). Altri proposero una unione intellettiva fra il genere umano e Adamo, cioè consistente nell' unità della natura o specie. Giacchè il comunicare più individui nella natura, come abbiamo altrove notato, non è altro che l' avere una stessa relazione coll' intelletto che tutti li percepisce con una sola idea o specie, la quale è appunto il fondamento della natura comune (2). Quest' unione di specie è toccata universalmente dai Padri. S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Ma ne è pur questa unione intellettuale, o di una medesimità di specie, sebbene vera, e atta anch' essa a facilitarci il modo d' intendere l' unione nostra fisica con Adamo, non è però bastevole a rendere ragione della trasfusione del peccato. Perocchè una tale unione è vera nell' ordine delle idee e non nell' ordine delle realità: e il peccato all' incontro appartiene a questo secondo ordine, non al primo. Nè fa bisogno in ciò insistere molto, quando si può dire essere cosa di fede o prossima a [esser] di fede, che il comunicare nella specie non basta a comunicare nel peccato: perocchè se bastasse, Cristo stesso che comunica nella specie, doveva esser soggetto al peccato. Ma la cattolica dottrina anzi insegna che Cristo ne fu immune: e ciò non per alcun privilegio, ma sì bene perchè egli non fu concepito per opera umana, ma dello Spirito Santo. Sicchè è intrinseco nella dottrina cattolica il principio che solo per la generazione si trasfonda il peccato e che in questa vi abbia un' unione non pur morale o sociale, non pur intellettiva o di specie, ma fisica fra il padre ed il figlio. Ora hassi a considerare che quest' unione, perchè sia vera, deve succedere fra la natura del generante e la natura del generato. E parlandosi di uomini, questa natura è un composto sostanziale di anima e di corpo, e non è il solo corpo: e perciò perchè vi abbia fra l' uomo generante e l' uomo generato l' unione di che parliamo, conviene che tutto l' uomo che genera sia legato e comunicante con tutto l' uomo che vien generato, altramente le due nature non hanno legame fisico insieme ma pur solo lo ha una parte della natura generata, la quale nè costituisce la detta natura, nè riceve il nome con cui la medesima natura si appella. Vi ha dunque una terza unione fra i posteri e il primo parente, e questa è fisica, unione e comunicazione di natura con natura: e questa sola rende un' acconcia ragione della trasfusione del peccato originale. Questa è intrinseca al sistema cattolico, per quanto a noi pare: questa è indicata nei passi delle divine Scritture e massime in quelli di S. Paolo: e per misteriosa che ella sia, non si può in alcun modo rifiutare. Or ella non può, se io nulla intendo, aver luogo se non nella sentenza dell' origine dell' anima che noi abbiamo proposta. Perocchè venendo l' anima creata di tutto punto da Dio, essa non comunicherebbe fisicamente con Adamo, col quale non rimarrebbe in comunicazione se non la bruta materia. E dico la bruta materia , perocchè quel Dio che creasse l' anima intelligente, creerebbe anche l' anima animale conciossiacchè non vi sono nell' uomo due anime, ma un' anima sola. Egli è vero che la sentenza da noi proposta non occorse fosse alla mente con tutta chiarezza degli uomini grandi dell' antichità: ma S. Agostino però diceva, che egli non proferiva giudizio sull' origine dell' anima, poichè non riputava impossibile che altri dopo lui trovasse il modo di ben accertare questa origine (1); e d' altro lato non deve recar molta meraviglia che dopo trascorsi tanti secoli, dopo fatte tante investigazioni e tentativi, dopo accresciute le scienze di tante osservazioni positive, venga acquistando luce qualche verità metafisica che prima solo si travedeva. E certo si travedeva, sebbene non si potesse chiarire interamente e liberare dalle difficoltà che si affacciavano: si travedeva, dico, scorti dalle autorità delle Scritture e dai dogmi cattolici che nel loro seno racchiudono le più profonde notizie della natura umana, ma che non è necessario sempre il penetrarle, ma solo il credere i dogmi stessi. In tanto colla fede de' dogmi si conservano nel mondo quelle notizie, fino a tanto che quasi direi uscendo dal profondo dell' oscurità in cui sicuramente si custodivano e venendo a galla secondo l' ordine della divina Provvidenza, sono donate agli uomini da quel Dio che rende sempre più splendida la parola del suo Verbo e ai bisogni degli uomini nei varii tempi diversamente la apparecchia. E che almeno oscuramente la verità di cui parlo si trovi deposta negli scritti di quelli che dànno testimonianza nella successione de' tempi alla cattolica verità, mi varrà a provarlo tutti quei passi dove i Padri della Chiesa parlano della comunicazione reale e fisica di Adamo co' suoi figliuoli, e in questa ripongono la vera ragione della trasfusione del peccato, dentro ai quali passi e quasi direi come sostrato potrà vedersi giacere la nostra dottrina. Si ponga attenzione primieramente a questo passo del gran Vescovo d' Ippona, dove accenna quella congiunzione fisica di cui parliamo: [...OMISSIS...] . Si noti in che modo S. Agostino dica qui che tutti nella natura di Adamo erano un solo uomo; ecco il modo: «ILLA INSITA VI QUA EOS GIGNERE POTERAT ». Il medesimo Santo Dottore parla di questa congiunzione fisica nel libro I dell' Opera imperfetta in questo modo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il Santo Vescovo confessa che in quella esistenza de' figli nei lombi de' Padri, toccata dall' Apostolo, si nasconde un vero profondo e misterioso; che ci confessa di avere bensì il desiderio di vedere e penetrare, ma che pure non ispiega: ed esorta tuttavia Giuliano, contro cui scrive, a tenerlo per fede, quantunque per argomento d' intelletto nol vegga (1). La stessa parola solenne di originale che si dà al peccato adamitico mostra la congiunzione fisica e propria di cui parliamo, secondo la quale origine , dice S. Agostino, tutti erano in quell' uno e questi tutti erano quell' uno, quando in se stessi ancora non erano (2). E questa origine, per mostrare che è la origine generativa del figlio al padre, è chiamata dallo stesso santo Dottore seminale . [...OMISSIS...] E chi considererà tutto il parlare delle Scritture, troverà che nelle stesse frasi, nelle parole, nella lingua scritturale insomma vi è inserita e supposta la sentenza dell' origine dell' uomo da noi indicata: così che questa sentenza, per misteriosa e difficile che possa parere, forma per così dire il fondo dell' eloquio biblico. Si consideri, a ragion di esempio, come i figliuoli sono, secondo quelle maniere di parlare, il padre stesso. Che cosa è il popolo ebreo? E` Abramo ovvero Giacobbe. Che cosa sono i discendenti di Davide? E` Davidde stesso. Giacobbe ossia Israello è quello che entra nella terra promessa; e tutto ciò che gode o soffre la discendenza di questo patriarca, è Giacobbe che il soffre, e che il gode (5). « A te darò questa terra« » dice Iddio ad Abramo (1). « Ti farò regnare in sempiterno« » dice Dio a Davvidde (2). Nei figli è il padre stesso il quale si moltiplica. « Io farò crescere te oltre modo, dice Iddio ad Abramo, e porrò te nelle genti« (3) ». I figliuoli son chiamati ancora il seme del padre e talora la scintilla (4). Si dice che tutte le generazioni saranno benedette in Abramo, volendo dire nel suo gran figliuolo Cristo (5). Egli è per questa maniera di vedere il padre propaginato nel figlio, che le divine Scritture parlano di Cristo sotto i nomi di Adamo, di Abramo, di Davidde e di Salomone, e questa è la chiave per la quale somiglianti profezie si possono letteralmente interpretare, e senza bisogno di alcuna stiratura. Or solamente nella sentenza sull' origine dell' anima da noi esposta tutti questi passi delle divine Scritture si fanno chiarissimi: altramente l' interpretazione loro ha bisogno di una certa condiscendenza, che tutti non sono presti egualmente di concedere. Finalmente si consideri ancora un passo dell' Apostolo, de' molti che potrei addurre, e sarà questo: « Siccome tutti muoiono in Adamo, così e in Cristo tutti saranno vivificati« (6) ». Ora in che modo nasce la vivificazione di Cristo? Per la rigenerazione. E in che modo la morte? Per la generazione. Or la rigenerazione si fa, come abbiamo altrove veduto, perchè Cristo ci comunica un principio nuovo vitale. Simigliamente la generazione ci deve comunicare un principio di morte spirituale. Questi due principii sono indicati dall' Apostolo in quel passo: « Il primo uomo fu fatto in anima vivente; e il secondo in spirito vivificante« (.) ». Per la generazione adunque si ha l' anima che dà la vita naturale: per la rigenerazione si ha lo Spirito Santo che dà la vita soprannaturale. La prima, infetta di peccato e morta: il secondo, incorruttibile giustizia e immortalità. Nella prima al soggetto è dato una imperfetta visione dell' ente: col secondo una incipiente visione di Dio (9). Nella medesima sentenza della origine dell' anima cadono a terra tutte quelle obbiezioni che i Pelagiani e i filosofi fanno contro il peccato originale e che troppo a lungo ci menerebbe il riferirle. Ma non credo però inutile anzi necessario il mostrare quanto si avvantaggi quest' opinione sopra quella degli scolastici: il che farò toccando le difficoltà che implica quest' ultima sentenza e di cui va immune la nostra. Al che fare destineremo un apposito paragrafo. Una sentenza di Aristotele, che non posso mai a meno di ammirare ove che la consideri, si è quella ove trattando della generazione degli animali e facendo venir tutto dal principio generatore, continuamente applicando all' uomo la sua dottrina, conchiude con queste parole: « Rimane adunque che il solo intelletto venga dal di fuori« (1) ». Questa sentenza direbbe tutto, se invece di dire l' intelletto, dicesse il lume dell' intelletto (2). Poichè la parola intelletto può racchiudere anche il principio soggettivo; laddove ciò che viene dal di fuori è il solo oggetto , dal quale, nella nostra sentenza, viene edotto all' atto anche il soggetto percipiente. Gli scolastici adducono in loro favore questo luogo di Aristotele; ma egli non può valere, preso nel senso in cui lo dice Aristotele, se non nel sistema delle tre anime separate, le quali sono giustamente rifiutate dalla Scuola (3). Insegnando dunque questa, che l' anima intellettiva è creata di tutto punto da Dio, quest' anima stessa, come essi dicono, racchiude anche dell' anima sensitiva e della vegetabile. Però in questo sistema non è più il solo intelletto che venga dal di fuori, come dice Aristotele, ma è ben anco il principio del sentire e del vegetare, in una parola l' anima tutta con tutte le sue parti e potenze. Ma esponiamo brevemente il sistema della Scuola intorno all' origine dell' anima umana; e poi additiamo le difficoltà che esso involge. Dicono adunque gli scolastici, che in primo luogo l' embrione è animato da un' anima nutritiva o vegetabile; ma che questa nello sviluppo dell' embrione si corrompe e a lei succede un' anima sensitiva; e finalmente si corrompe anche questa, e Dio allora vi crea un' anima intellettiva, la quale ha in sè le proprietà anche delle due precedenti. Ora su questa dottrina primieramente osservo, che l' anima vegetabile par cosa del tutto abbandonata: e però in questa parte non credo che nessuno t“rrà a difendere oggidì la sentenza scolastica. In secondo luogo il progresso delle osservazioni sullo sviluppo del feto umano, fa credere inverisimile che esso venga animato con anima umana solo dopo tanti giorni dalla concezione, come pone Aristotele, ma che piuttosto abbia l' anima sin dal principio del concepimento. Opinione che viene anche ricevendosi dalla Chiesa, giacchè ora certo in molti luoghi non si tralascia di battezzare, ove ciò sia possibile, anche l' aborto, almeno sotto condizione. Finalmente si consideri come torni forte a dover credere che prima s' abbia un' anima sensitiva nel feto, la quale si corrompe e perda; e poi v' abbia quella che Dio vi crea in suo luogo. Perocchè a qual fine un' anima sensitiva, se ella non è fatta se non per corrompersi? Forse per apparecchiare il corpo a ricevere l' intellettiva? Ma egli può essere apparecchiato senza lei, nel punto che l' anima intellettiva non entra se non dopo che ha sgombrato la sensitiva: perocchè altramente si troverebbe un istante, nel quale si troverebbero due anime in un corpo, l' una sensitiva e intellettiva l' altra. Dunque quando l' anima intellettiva entra nel corpo, essa non trova già un corpo animato da un' anima, ma il trova privo di anima; e un corpo privo di anima non ha bisogno di un' anima per apparecchiarsi a essere tale. Conciossiacchè corpo privo di anima non può avere altra disposizione che quella che consiste in un cotal ordine delle sue particelle materiali, ed ogni altro atto che appartenga alla vita anche animale, il deve ricevere dall' azione dell' anima intellettiva, che ha in sè anco la virtù sensitiva. Oltre ciò, se l' anima sensitiva si corrompe e si perde, in che modo avviene essa questa corruzione? Si fa in un istante o per successione di tempo? Se per successione di tempo, vi sarà dunque nel feto un' anima mezzo corrotta e mezzo non corrotta prima che entri l' anima intellettiva. E questo stato di mezza morte, questa vicissitudine a cui andrebbe soggetto il feto, non la mostrerebbe alla osservazione? E che nessun osservatore n' abbia mai trovato indizio? Ancora, l' anima intellettiva entrerà quando l' anima sensitiva è corrotta tutta, o quando è corrotta una parte? Se quando è corrotta tutta, dunque entrerà nel feto già morto. Se quando è corrotta una parte, dunque vi sarà un momento, nel quale il feto avrà in sè un' anima intellettiva e un' anima sensitiva mezzo corrotta. Se poi l' anima sensitiva si corrompe in un istante e in quel medesimo istante entra l' anima intellettiva, come mai il feto non darà nessuno indizio di questa gran metamorfosi? L' anima sensitiva è pur anima vera e propria del feto: or come si potrà ella staccare da lui, come si potrà corrompere e perir l' anima che è sua propria, senza che egli punto nol senta? Mutar l' anima a un corpo è egli poco? Sopravvenendo poi in un istante l' anima intellettiva, quale immenso passaggio! qual salto! un essere tramutato in un punto da bestia in uomo! Ma vi ha di più. Vi ha egli un modo possibile a concepirsi nel quale un' anima sensitiva perisca, se non corrompendosi il corpo a cui è aderente? Noi appronfondendo la natura dell' anima sensitiva, abbiamo trovato che essa è indivisile dal corpo, che forma la sua materia: che la materia del sentire e il principio senziente non formano che una sola individua natura, e che l' una ripugna a immaginarsi senza l' altra. Ora dato adunque un corpo animato, una materia del sentire, è dato pure un principio sensitivo, un' anima. Ma questo principio sensitivo non è mica cosa che si possa staccare da quella materia, perchè staccata non ha da sè sussistenza. Essa è passiva e il corpo a cui aderisce è attivo: ella nulla può adunque soffrire se non dal corpo, giacchè l' azione del corpo è appunto quella che le dà la sussistenza. Sarebbe adunque non solo superiore alle forze create, ma al tutto assurdo e contradditorio l' ammettere che un' anima perisca, restando intatto e senza alcun detrimento il suo corpo; perocchè questo corpo animato continua nella sua azione medesima, se egli non si disorganizza e guasta. Egli è qui che batte anche la dottrina di Aristotele, che definisce l' anima sensitiva un atto del corpo. Se ella è un atto del corpo (definizione ricevuta dalla Scuola), è il corpo che deve soffrire immutazione e stogliersi dal suo atto, perchè l' anima sensitiva cessi di essere. Nè vale il dire che gliene vien data un' altra; perocchè prima si cerca come si corrompa la prima. Tanto più che il corpo animato non riceve nè più nè meno dall' anima intellettiva, perocchè questa non comunica col corpo in quanto è intellettiva, ma solo in quanto è sensitiva. Il corpo dunque non fa che cangiar forma, non punto diversa di natura, ma solo di numero. Ed è egli ciò possibile? E` egli ciò concepibile? Sarebbe come se si dicesse che una pera, a ragion di esempio, viene spogliata di quella forma e qualità di pera bergamotta, poniamo, per darle una forma in tutto eguale alla prima nè più nè meno! Non è un tal cangiamento di forme assurdo anche secondo i principii medesimi della Scuola? Conciossiacchè la forma è unica, e non viene individualizzata se non dalla materia: sicchè tai cangiamenti di forme non si possono intendere, quando non si immaginassero queste forme come tante camicie uguali, e il cangiar di forme che le sostanze fanno, si prendesse per un cangiare di camicie. Io non intendo se non un solo cangiamento di forme possibile, ed è quello appunto che descrive Aristotele medesimo, per successive corruzioni e generazioni. Ma il cangiamento dell' anima sensitiva e la sostituzione dell' anima intellettiva non serberebbe nè pure la legge imposta dal duce degli scolastici alla generazione di nuove forme. Perocchè nella corruzione e successiva generazione di Aristotele gli elementi sostanziali della cosa rimangono ed è la loro forma che solamente cangia. Laddove l' anima che viene creata da Dio nulla ritiene, nella sentenza scolastica, della precedente, e nasce non per generazione, ma per creazione: oltre che non è possibile che a lei si attribuisca un successivo formarsi come nella generazione. E pure la Scuola è sollecita di applicare all' origine dell' anima i principii della generazione aristotelica (1). E finalmente noi dunque non abbiamo l' anima che abbiamo ricevuto dai nostri padri per generazione: non abbiamo nè pure ricevuto da essi l' animalità nostra, mentre quella che avevamo ricevuta da essi, è perita: non abbiamo tratto dall' origine se non la pura materia bruta e inanimata di cui è composto il nostro corpo; ed in tal caso, nè pur questa, perocchè la materia bruta e inanimata si cangia continuamente nei corpi umani mediante le sempre nuove particelle che questi ricevono e da sè emettono. In tal caso sarebbe convenuto meglio, che Iddio avesse comandato ai primi padri, che prendessero a comporre e effigiare delle statue di creta e di loto, come aveva fatto egli stesso con Adamo, e che poi infondesse Iddio le anime in queste statue; perocchè questo modo di moltiplicazione sarebbe stato, in un tal caso assai più semplice e nessuna anima sarebbe con esso andata a male. Ma l' assurdo maggiore che voglio far notare nell' ipotesi scolastica si è, che per la infusione dell' anima intellettiva che succede alla sensitiva, è perduta l' identità dell' uomo. Perocchè in un animale o in un uomo, quando gli si cangi l' anima, non è più quel desso, ma è un altro: il perchè i genitori non avrebbero per figlio se non il feto fino che ha l' anima sensitiva; ma quando egli riceve l' anima intellettiva il loro figlio è perito, e non rimane più che un figlio di Dio. Conciossiacchè l' identità dell' animale e dell' uomo non consiste se non nell' identità del sentimento e della coscienza; e l' identità del sentimento e della coscienza dipende dall' identità dell' anima. Cangiate dunque l' anima, un altro sentimento, un' altra coscienza, un altro animale, un altro essere ne è divenuto, e non più quello che fu conceputo dal padre. Che se questo nuovo essere è venuto da Dio, se è venuto da Dio immediatamente non solo l' intelletto, ma ben anco la sua facoltà di sentire, insomma il principio intelligente e senziente, che è tutto ciò che vi ha di formale non solo nell' uomo ma anche nell' animale, come questa nuova creatura di Dio potrà trovarsi viziata dal peccato dell' origine, quando l' origine sua è purissima? E se vi avesse alcuno a cui piacesse di negare questa verità evidente, che l' identità dell' animale e dell' uomo consiste nell' identità del sentimento, e volesse farla consistere piuttosto nella identità delle particelle materiali, per soprabbondanza e non per necessità, io chiamerò costui a considerare, che come di sopra ho detto, in nessuna maniera si può provare l' identità materiale delle particelle che compongono un corpo umano, le quali sono in un continuo movimento e partono dal medesimo per dar luogo a delle nuove. Se non che io giungo fino a dubitare, che una tale sentenza rinserri delle conseguenze, le quali non si possano sostenere, salva la verità della cattolica fede: anzi tali io tengo che siano anche quelle che ne ho finora dedotte, chi ben addentro e senza prevenzione le considera. Ma tale poi soprattutto parmi che deve essere riputata la seguente. Io tengo intrinseco alla fede cattolica essere, che il peccato originale passi per generazione e perciò nell' atto della generazione. Io potrei addur qui una nube di definizioni e di testimonianze che autenticano questa sentenza: ma mi limiterò ad addurre, ciò che ha dichiarato il Concilio di Trento, il quale afferma che il peccato passa nel figlio nell' atto del concepimento. Io recherò le sue stesse parole, nè pur traducendole, perchè non si trovi cagione forse di cavillare sul volgarizzamento. Eccole quali sono: [...OMISSIS...] . Ecco adunque, che mentre sono concepiti gli uomini, dice il Concilio, ricevono l' ingiustizia. Dopo la conceziione il seme paterno non ha più da fare cosa alcuna; e cresce il feto da sè nel seno materno. Ora supponendo che il feto appena concepito non abbia che un' anima sensitiva, egli non potrebbe essere soggetto capevole di peccato e di ingiustizia, meglio che una bestia qualunque; argomento insuperabile, dove non si voglia eludere con delle sottili e vane distinzioni. Di più, quell' anima sensitiva non è quella che resta all' uomo, ma ella va perduta e ne entra un' altra creata di tutto punto da Dio. Dunque, quando ancora quell' anima sensitiva fosse soggetto capevole di peccato, andando essa a perire, perirebbe con essa il peccato ricevuto dai padri. E sebbene l' anima nuova che viene infusa da Dio, dopo quei tanti giorni assegnati dalla sentenza aristotelica (2), venisse viziandosi e corrompendosi pel contatto del corpo in cui viene infusa, come liquore da un vaso infetto; tuttavia l' ingiustizia in essa anima non comincerebbe se non allora allora, e non nell' atto del concepimento: e quindi in questo solo punto, cioè quaranta o venti giorni dopo il concepimento, comincerebbe ciò che avesse propria e vera ragione di peccato. Conciossiacchè tutto ciò che precedentemente vi fosse nel corpo non potrebbe essere che sensitivo e qualsivoglia altra qualità vogliasi imaginare, ma non mai cosa che abbia propria e vera ragione di peccato. Nè basta il dire, che tale istinto e morbosa affezione della carne animale diventa poi cagione di peccato nell' anima intellettiva che sopraviene perocchè inclina questa al peccato; giacchè ciò sarebbe al tutto contro la mente del Concilio Trentino, il quale definì che sebbene la concupiscenza e il fomite che rimane dopo il battesimo inclini al peccato e per questa cagione si chiami dall' Apostolo peccato (1), tuttavia non è questa il peccato originale, perocchè ella non è peccato in senso vero e proprio, come è il peccato originale. Sicchè nella sentenza scolastica il vero peccato originale non si trarrebbe dai parenti, ma dai parenti si trarrebbe solo una cotal mala affezione della carne, che produce poi il peccato nell' anima, quando Iddio la vi crea. E il dir questo non saprei come non fosse un affermar cosa contraria alla cattolica fede circa il peccato originale, ed alla mente dell' Ecumenico Concilio di Trento. Io ho parlato fin qui della sentenza scolastica a quel modo che la espone l' Angelico Dottore (2). Il più dei teologi moderni si contentano di dire, che Dio crea e infonde l' anima nel corpo, senza parlare del tempo e del modo in che succede questa creazione e infusione. Ma egli è manifesto che dove anche si supponga, che venga creata e infusa nell' atto del concepimento, molte delle difficoltà sopra indicate sussistono egualmente in tutta la loro forza, e principalmente l' ultima. Perocchè se egli è vero, come è verissimo, che nell' uomo non vi ha se non un' anima, la quale è sensitiva insieme e intellettiva, sarà pur vero che nell' atto del concepimento Iddio crea tutto ciò che vi ha nell' uomo d' intellettivo e di sensitivo; e che per ciò i parenti non somministrano che la pura materia bruta e inanimata. Or dunque ciò che viene da' parenti non è nè l' uomo nè l' animale, non siamo NOI che siamo figliuoli dei padri nostri, perchè questa parola NOI indica la nostra coscienza, il nostro sentire, e tutto il nostro intelletto e la nostra animalità. NOI dunque non abbiamo l' origine da Adamo, ma da Dio, e non possiamo per ciò trarre da Adamo alcun peccato, ma tutto al più possiamo venir viziati in virtù dell' azione che sopra di noi esercita una materia bruta, che essa, e non noi, è venuta da Adamo. Ne verrebbe parimente l' assurdo, che essendo l' uomo un animale come tutti gli altri, ed anzi il più perfetto di tutti, tuttavia egli solo nel generare farebbe meno di quello che fanno tutti gli altri animali. Perocchè tutti gli altri animali in generando producono ne' lor figliuoli delle anime sensitive e animali, mentre l' uomo sebbene abbia una maniera di generare simile alla loro, tuttavia non potrebbe produrre neppure un' anima sensitiva e animale, giacchè Iddio crea l' anima umana da sè intellettiva e sensitiva a un tempo: e all' uomo sarebbe solo riservato come diceva, quel tanto che farebbe un vasaio, il quale mentre fabbrica colle sue dita una statua di molle terra, Iddio suo compagno di operazione le fabbricasse interiormente l' anima. Il che, se così pure avvenisse, non potrebbe succedere che per un miracolo; terzo assurdo che contiene la sentenza che confutiamo. Conciossiacchè, giacchè l' uomo è pure un animale come gli altri ed ha pur come gli altri la facoltà generativa, solamente per un miracolo potrebbe essere la virtù di questa sospesa e impedita dal produrre almeno un' anima sensitiva. Sicchè quelli che ammettono che le anime umane sieno create e infuse nell' atto del concepimento, sono costretti di non ammettere già un miracolo solo, facendo intervenire Iddio Creatore nella natura e accusandolo così di non aver fatta questa natura a sufficienza perfetta, ma due, l' uno del crear l' anima, l' altro d' impedire la potenza generativa dell' uomo dal produrne una ella, come fanno tutti gli altri animali. Se non che dovendo esser questa potenza generativa nell' uomo continuamente sospesa, e non potendo giunger essa mai a produrre un animale, cioè un corpo animato, ma solo a somministrare della materia bruta, da essere animata da un' anima che Dio stesso crea e v' infonde; perchè Iddio dar pure all' uomo una tale potenza? Ad effigiare e comporre una massa senz' anima non è necessario deputare una potenza e un apparato generativo; ma una forza meccanica ed esterna è sola bastevole a ciò. Avrebbe dunque Iddio operato in questo solo e unico fatto della natura stoltamente; poichè avrebbe posta una potenza inutile, anzi una potenza che serve d' impaccio, impedimento, e la cui azione gli conviene contrariare e sospendere con dei continui prodigi. Una difficoltà si affaccia alla mente contro la nostra sentenza dell' origine dell' anima, quando questa non s' abbia perfettamente compresa. E io intendo qui di risolverla, appunto perchè ciò mi dà luogo ad agevolare la conveniente intelligenza della medesima. Si dirà adunque: l' anima sensitiva non sussiste per sè, ma solamente unita al corpo, di maniera che, distrutto il corpo, anche quella è dissipata e distrutta. Or come passa questa a sussistere da sè? E se diventando intellettiva, non si fa sussistente, ella rimarrà materiale o mortale? Ma io rispondo: L' anima sensitiva, ove il corpo a cui aderisce distruggasi, ella pure si strugge e si dissipa: ciò è verissimo. Ma perchè nasce questo suo dissipamento? Perchè le vien tolta la materia del suo sentire, e senza materia di sentire non vi ha sentimento, senza sentimento non vi ha principio senziente, e senza principio senziente non vi ha anima, perocchè esso principio è l' anima stessa. Cioè a dire, nel sentimento fondamentale che costituisce l' essenza dell' animale, io ho distinto due elementi, cioè il principio e il fine, il senziente, e il sentito. L' animale si distrugge perchè è distruttibile il termine del sentimento, il sentito; ma non v' è altra maniera in cui concepir si possa dissolvibile l' animale, come dissi di sopra; sicchè se il termine o la materia del sentire non sofferisse alcuna alterazione, il principio senziente per sè non cesserebbe mai, e sarebbe immortale. Io non dubito adunque di chiamare spirituale l' anima delle bestie, considerata nel suo principio, e solo dalla parte del suo termine è materiale. Io non dubito di chiamare l' anima, considerata come principio senziente, spirito, e questa mia maniera di parlare è conforme a quella delle divine Scritture che dicono: « lo spirito di ogni carne« (1) ». Or dunque se il principio senziente per sè non perisce, ma solo per il termine suo, ossia per la cosa sentita; che sarà ciò che il possa rendere al tutto immortale? Basterà cioè che gli si dia un termine, il quale sia di natura sua indistruttibile e eterno. Perocchè avendo egli questo termine, allora il connubio fra il senziente e il sentito è fatto per guisa che non può più venir dissipato; e quel principio senziente che solo non può sussistere, congiunto con questo termine, non può perire, non venendogli mai meno qualche cosa cui senta. Or questo appunto succede in darsi che si fa la intelligenza al principio senziente, perocchè non è altro che un dargli a sentire l' ENTE, il quale è di natura sua eterno, immutabile, necessario, universale e fornito di altri caratteri divini. Un principio che senta l' ENTE, sussiste eternamente, perchè ha sempre un oggetto da sentire, che non gli può venire mai meno. E se questo principio, oltre avere per cosa sentita l' ente, abbia per cosa sentita anche la materia corporea, in tal caso esso è un' anima intellettiva e animale a un tempo, la quale ha due termini, uno eterno e industruttibile, e l' altro distruttibile. Venendo dunque a perire la materia corporea, quest' anima non si dissipa nè distrugge, ma rimane sussistente per sè, cioè per l' oggetto a cui è aderente e cui sentendo ha sua vita (2). Ed egli, chi ben considera, fu da un consimile ragionamento che fu provata la immortalità e la semplicità dell' anima dai maggiori filosofi dell' antichità e dai Padri della Chiesa. Perocchè essi indussero queste sue preclare doti da qualche cosa di sublime, d' immortale, di eterno, a cui la trovarono essere aderente. Fu perchè la videro dotata della cognizione della verità e della giustizia, dell' ordine e del bene, che la dichiararono di stirpe divina e partecipante dei pregi di questi oggetti a cui ella aderisce; e per ciò della loro immateriale e eterna consistenza. E ora che abbiamo fatto noi, se non meditare appunto la natura della verità, della giustizia, del bene, dell' ordine, e trovare che tutte queste cose si accolgono in una sola, cioè nell' ENTE universale, luce semplicissima, di cui è partecipe e dove sussiste l' anima intelligente? Sicchè quando noi abbiamo detto, che l' anima umana è intelligente, immateriale, sussistente per sè, appunto perchè è congiunta coll' ente, noi abbiamo con una sola parola indicato quello che tutta l' antichità ha predicato con molte; e abbiamo ridotto alla formola più precisa e più filosofica i vaghi e alquanto indeterminati ragionamenti della filosofia ancora immatura e la sapienza comune del genere umano. A confermare queste affermazioni non sarà inutile che io rechi qualche passo fra i moltissimi che potrei addurre degli antichi savi, nei quali si parla appunto di questa cognazione dell' anima colle cose eterne, che essi nominavano anche Dei, appunto perchè vedevano come quell' elemento che rende l' anima immortale sia divino, e non trovavano nè come unificarlo, nè come preciderlo dalla divinità. Iamblico, raccoglitore di dottrine antichissime, dice così: [...OMISSIS...] . Si sostituisca in questo passo alla parola Dio e alla parola cose divine l' ENTE IN UNIVERSALE, e si avrà appunto espressa la nostra teoria. Altrove il medesimo autore dice: [...OMISSIS...] . Finalmente aggiungerò ancora un passo di Iamblico, degno di considerazione all' uopo nostro: [...OMISSIS...] . Il che è un esprimere quanto più si possa al vivo la natura dell' anima, formata da un principio senziente, soggetto, e da una cosa divina, oggetto: le quali due parti sono così coerenti tra sè che nulla più; sicchè di due, senza mescolarsi, o confondersi punto, fanno risultare una sola natura. Ora i platonici di tutti i tempi e con essi molti altri filosofi, e con essi il comun dire medesimo parlò sempre nella stessa sentenza (2). Da ciò che abbiamo detto risulta, che Adamo peccando commise un peccato personale, come sono tutti i peccati attuali liberi. Che questo guasto della persona in Adamo guastò e corruppe la natura. Che la natura guasta fu comunicata ai posteri per generazione. Che nei posteri la natura guasta, aggravando e torcendo la volontà personale, guastò la persona (6). Ora la natura è una cui egualmente partecipano molte persone. Or questa natura o che è moralmente sana, o moralmente infetta. Essendo dunque stata infetta già col primo peccato, gli altri peccati non possono più infettarla e rimangono solo peccati personali senza più. La quale ragione viene esposta egregiamente dal Dottore angelico in queste parole: [...OMISSIS...] . Tuttavia chi sostenesse avervi nei padri talora delle disposizioni morali perverse, le quali vengono comunicate ai figliuoli per generazione, sicchè anche i figli rimangono maggiormente inclinati a certi vizii (2), siccome pure avervi delle buone abitudini morali che sembrano conservarsi in certe schiatte e tramandarsi per eredità; questi non terrebbe forse cosa contraria alla esperienza (3), nè sottosterebbe punto contro a quella decisione apostolica con la quale fu condannata questa proposizione di Baio: [...OMISSIS...] . Nel fanciullo la natura è quella che infetta la persona . Per natura abbiamo detto intendere il complesso dei costitutivi dell' uomo. In modo più proprio però la natura, che trae l' origine da nascere , significa le prime [qualità] costitutive dell' uomo con una relazione alla loro origine; quasi si definisce la parola« natura« con dire: ciò che si porta nascendo. Or per vedere adunque quel principio contenuto nella natura umana che va a pervertire colla sua azione la volontà, converrà cercare appunto nel nascimento dell' uomo, in ciò che per primo egli ha e riceve dall' origine, la causa prossima del peccato originale; perocchè questa sarà quella stessa causa prossima e istrumentale per la quale egli vien concepito. Ora la causa istrumentale e prossima, che muove il germe al suo sviluppo, è il seme paterno. E la tradizione cristiana di pieno consenso attribuisce appunto a una mala qualità del seme il ricevere che fa la natura generata in sè una cotal corruzione e disordine che ridonda nella volontà, ove così in uno colla generazione si forma il peccato. Le divine Scritture parlano senza ambiguità di questa rea qualità, che viene anco chiamata immondezza del seme umano. Giobbe deplorando la malizia della umanità, dimandava: « E chi può far mondo ciò che è stato concepito da un seme immondo?« (3) ». E di cui perciò tanta è la miseria che la corruzione abita ne' primi stami e rudimenti stessi di sua natura? E Davidde deplorava di esser stato concepito dalla madre sua « nelle iniquità e nei peccati« (4) ». A spiegazione e commento delle quali parole, Innocenzo III dice: « il corpo si concepisce corrotto e fedato nato da semi corrotti e fedati« (5) ». Un segno che infetto era il mezzo della generazione, e col quale Iddio volle mantenere la cognizione e la fede del peccato originale, fu la circoncisione; e quelli si avevano per soggetti alla morte presso gli Ebrei che non subivano questa ceremonia, indicandosi per tal modo e il principio del male e la necessità di una originale riformazione della natura umana. Questa infezione del seme è fisica , e perciò non è che in essa stia la propria e vera ragione di peccato, ma bensì la ragione istrumentale del peccato. Perocchè questa infezione fa sì che l' uomo nasca guasto nella sua parte animale, e ricevendo così un istinto animale alterato, questo istinto animale tira a sè le forze della volontà soggettiva, e in questo piegamento della volontà la ragione del peccato si assolve. Vi ha dunque, 1. la infezione del seme paterno: 2. l' istinto animale alterato, ossia la concupiscenza animale che viene prodotta nel generato: 3. la volontà stessa inclinata e condiscendente tutta alla concupiscenza: e in quest' ultima parte trovasi, come dicevamo, un vero e proprio peccato abituale. Niente adunque ripugna, anzi sembra consentaneo alla cattolica verità l' ammettere una morbosa qualità nel seme; purchè non si faccia consistere in essa l' essenza del peccato originale: niente ripugna che si ammetta una morbosa qualità della carne, ossia un' alterazione dell' istinto animale, purchè non si confonda con essa la piega della volontà, che sola può esser sede di moralità. E parmi che certi teologi parte si sieno male spiegati, parte sieno stati troppo severamente intesi in questa parte. Così Enrico di Gand, a cui si appone di far consistere l' essenza del peccato originale in una morbosa qualità della carne, si esprime pur chiaramente quando dice: [...OMISSIS...] . Delle quali parole si può egli dar nulla di più chiaro e di più preciso? Ed egli pare che questa morbosa qualità della carne tanto meno doveva essere occasione di censura, quanto che tutte le Scritture son piene di questo stesso sentimento, fino a chiamare carne lo stesso peccato originale, sicchè essere nella carne, nello stile di S. Paolo, vale essere ancora nel peccato originale (2). E S. Agostino secondo lo spirito di esse Scritture dice, che il peccato originale « è una cotal affezione di mala qualità e come una malattia« (3) ». E altrove parimente disse, che il corpo trasse pel peccato originale una qualità morbosa e pestilente (4). Alcuni per questa mala qualità intendono la concupiscenza stessa. Ma se per concupiscenza s' intende quell' insulto che fa la carne allo spirito quando, occupandolo di sè tenta di trarlo giù dalla sua padronanza e assudditarlosi, egli è manifesto che la concupiscenza deve essere piuttosto un effetto di quella morbosa qualità della carne. Perocchè se la carne è fatta così superba e stimolante, ella deve avere indubitatamente sofferita un' alterazione pari appunto a quella che ha sofferita la cute dello scabbioso o di colui che soffra delle insolite pruriginose sensazioni (1). Nè si potrebbe immaginare nella carne questo effetto senza pensar in essa esser succeduta appunto una morbosa alterazione: ed è questa che assai agevolmente s' intende potersi contrarre per via di generazione; come succede di tutti i mali gentilizii, i quali vanno comechessia a portare la loro corruzione contagiosa nelle prime radici della vita. Per ciò S. Agostino dice che Adamo peccando viziò in sè come in radice la propria stirpe (2). Nè però mai s' intenda, come qui sopra ho avvertito, che in questa alterazione morbosa della carne stia l' essenza del peccato originale, ma solo lo stimolo che dalla natura è applicato alla volontà, del quale stimolo questa viene sedotta e tolta dai beni intellettivi per bearsi degli animaleschi. Confermano questa dottrina tutte quelle maniere efficacissime di dire che usa la divina Scrittura; nelle quali l' uomo peccatore si dice nato di carne. In S. Giovanni è scritto: « Ciò che è nato di carne è carne; e ciò che è nato di spirito è spirito« (3) ». Che cosa vuol dire qui essere carne, se non essere peccatore, cioè schiavo della carne? E che cosa esprime quell' essere nato di carne, se non venire la nostra schiavitù dalla carne appunto male condizionata e violenta; il che è quanto dire avere in sè un' alterazione fisica indebita? E si noti quella frase esser carne , la quale indica che il soggetto, in luogo di applicare la sua forza più lungamente alle cose intellettive, si abbandona tutto a percepire la materia sensibile e da essa trae la sua esistenza: secondo ciò che detto abbiamo più sopra, che il principio senziente trae il suo essere dal termine sentito. Il medesimo sentimento esprime S. Paolo in tanti luoghi, nei quali alla carne attribuisce tutta l' origine del male. [...OMISSIS...] . Ora una tal carne, di cui anche più sopra aveva detto: « Io so che non abita in me, cioè nella carne mia bene alcuno« (2) », sarà ella la carne di Adamo innocente? O non si dirà anzi una carne alterata, impestata dal peccato? Anteriore dunque alla concupiscenza è una morbosa e pestifera qualità della carne, che si trasmette per generazione e che è la cagione prossima della concupiscenza, come la concupiscenza è la cagione prossima della stortura della volontà ossia del formal peccato. Or ciò posto, io non vedrei altresì che si potesse riprendere come contraria alla fede l' opinione di quelli ai quali par verisimile che nel frutto vietato da Dio ad Adamo potesse ascondersi un cotal veleno, il quale contaminasse l' uomo e principalmente ammorbasse la potenza generativa (3). Tale opinione, sostenuta da un' antica tradizione presso gli Ebrei (4), a me sembra verisimile e conforme a quelle leggi, secondo le quali Iddio suole governare le sue creature. Dirò di più, quando si dovesse fare in tal materia delle conghietture, più volte essermi passato per la mente che Iddio potesse aver permesso al demonio di prendere sua sede in quel frutto vietato appunto, e che insieme colle particelle di quel frutto, le quali si devono essere convertite nella carne e secondo la loro propria natura andate per avventura a unirsi colla seminale sostanza, il demonio avesse potuto trovare l' adito nel corpo dell' uomo peccatore e tenerlo come sua conquista e passare egli stesso per il mezzo della generazione in tutti i figliuoli di Adamo, travagliandoli appunto principalmente e insultandoli per via di carne. Or non sarebbe questo conforme a quel dire che fanno le divine Scritture, che tutta l' umanità fu pel mangiamento di quel primo frutto in potestà del demonio e che ogni carne fu da lui posseduta? Non mostra la santa Chiesa negli esorcismi che fa al bambino prima di battezzarlo, tener essa che dentro lui stia il demonio? Non gli dice, soffiandoli in volto: Escitine, o maledetto diavolo? E quanto naturale intendimento non riceverebbero pure quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Da questa morbosa qualità del seme adunque, dalla quale rimane infetto l' embrione, prima conseguenza è, come dicevamo, la concupiscenza, ossia un sentimento animale che agisce con forza sulla volontà soggettiva e tutta a sè ne tira l' attività, per modo che ella rimane distolta e avulsa dai beni intellettivi. Perciò i Padri parlano della concupiscenza come di cosa costitutiva del peccato stesso originale. Ma ella si deve intendere esser tale solo considerata come vittoriosa sulla volontà, sicchè la volontà le sia serva: cessando poi dall' essere peccato tosto che la volontà soggettiva e personale riprenda le redini e torni a signoreggiare sopra di lei colla forza della grazia divina; poichè allora lo stimolo della concupiscenza, sebbene rimanga, non serve che ad accrescere il merito della vittoria. Perciò il serafico Dottore esaminando un passo del Maestro delle Sentenze, dove afferma che il peccato originale sia la concupiscenza, dice egregiamente che ciò si può sostenere, purchè s' intenda non qualunque concupiscenza, ma quella che in sè racchiude la privazione della debita giustizia (1). La concupiscenza considerata nel fanciullo abbiamo detto esser cagionata da una morbosa qualità di cui è infetta la carne, nella quale egli fu generato. Ora egli sembra, che se la concupiscenza si considera nei generanti, ella possa essere stata, anzi che effetto, cagione in buona parte della morbosa qualità propagata nei figliuoli. Questo è ciò che S. Agostino dice tanto di frequente: in ragione di esempio, in un luogo così parla: [...OMISSIS...] . E S. Tommaso sulle vestigia del suo Maestro: [...OMISSIS...] . Nè mi farebbe maraviglia che la voluttà annessa alla generazione fosse partecipata dal generato, in quanto prima la massa carnea di cui egli è composto formava parte di essi, e poi diviso ed acquistato un essere da sè, non morì però mai, ma restò con quel vigore di vita e con quel sentimento che in lui fu suscitato e acceso pure in generandolo. Sicchè la causa istrumentale e prossima della trasmissione nei figliuoli del peccato originale è la morbosa qualità del seme paterno e la concupiscenza che accompagna l' atto della generazione, ove questa si faccia per via di esso seme paterno. Le quali due cose mancarono nella generazione di Cristo: perocchè, non essendo intervenuto in essa opera di uomo, non ebbe luogo l' effetto che suol produrre il seme guasto nella madre a un tempo e nel figlio, cioè la carnale concupiscenza. Il che apparisce assai più chiaro nel sistema de' germi inviluppati gli uni negli altri; perocchè in questo sistema, sebbene il germe da cui dovea poscia svilupparsi Cristo, passasse di parente in parente per tutta la serie de' suoi ascendenti, tuttavia rimanendosi egli sempre inviluppato fino al momento, in cui fu depositato nel corpo purissimo di Maria Vergine Immacolata, fu protetto per modo, che non venne mai tocco nelle generazioni antecedenti da seme umano, e così non potè contrarre mai, nè pure se ne fosse stato capace, alcuna macchia o infezione. Così si trovano conciliate e insieme contemperate le sentenze apparentemente diverse intorno alla ragione per la quale Cristo naturalmente fu immune da peccato. Perocchè innumerevoli sono i luoghi de' Padri co' quali affermano che ciò fu perchè non vi intervenne uman seme; e molti pure e evidenti sono quelli nei quali si legge che fu perchè non vi intervenne alcuna concupiscenza. Questo secondo sentimento ripete assai di sovente S. Agostino, come a ragion di esempio là dove dice: [...OMISSIS...] . Considerando adunque l' alterazione e il guasto del seme umano come cagione di questa concupiscenza, è vero l' uno e l' altro, che Cristo fu immune dal peccato perchè non ci intervenne l' uso del seme, e non quella concupiscenza che accompagna quest' uso. Quella concupiscenza adunque è propriamente la cagion prossima della trasfusione del peccato, che accompagna il concepire in virtù dell' uman seme; non altra, se ella essere vi potesse. E con ciò io credo di cogliere la mente del Dottor della grazia, il quale non si potrà provare che in nessun luogo parli di altra concupiscenza se non di quella che accompagna appunto la umana seminagione: il che dimostra nel passo sopracitato, chiamandola non puramente concupiscenza, ma concupiscenza di uomo che con femmina si accoppia, « concumbentis concupiscentia ». E ancor più precisamente altrove dichiara il suo pensiero determinando di quale concupiscenza egli parli, dandole l' epiteto di concupiscenza seminatrice . E per ciò dice di Cristo che quantunque anche egli sia secondo la carne seme di Abramo, perocchè la Vergine Maria ond' egli tolse la carne fu di quel seme propagata, tuttavia egli non fu sottoposto all' azione di quel seme, non venendo da viril seme concetto, e libero rimanendosi dal legacciolo della seminatrice concupiscenza (1). Ricapitolando ora e paragonando ciò che abbiam detto sulla natura e sulla trasfusione del peccato originale, noi abbiam parlato sì in quella trattazione, che in questa del principio di esso peccato e ne abbiamo parlato in modo diverso. Perocchè parlando della natura, noi abbiamo posto il principio del peccato originale nella personalità dell' uomo: e parlando della trasfusione, abbiamo posto questo principio nella rea qualità e concupiscenziale del seme virile. Colà abbiamo detto che il peccato prima è nella persona ossia nella volontà soggettiva: e qui abbiamo mostrato il disordine originale cominciare dalla carne ossia dall' animalità. Colà abbiamo fatto discendere il peccato dal punto superiore della umana natura e condottolo a contaminare le potenze subordinate: e qui abbiam fatto nascere il disordine nel punto inferiore di tutti, cioè nella carne dell' uomo, e l' abbiamo fatto ascendere e comunicare la sua infezione alle altre potenze più nobili, deturpando ultimamente l' altissima di tutte, cioè la volontà soggettiva. Insomma colà abbiamo assegnato al peccato un principio diverso e opposto da quello che gli abbiamo assegnato in quest' ultima trattazione. Come si conciliano e stanno insieme queste dottrine? La natura umana ha veramente due estremi, che sono, quasi direi, i due poli della medesima: il più nobile è ciò che forma la personalità, e il men nobile è ciò che forma l' animalità. Ora la generazione della umana natura procede dalla parte men nobile alla più nobile, dall' imperfetto al perfetto, dall' animale alla persona. Questo processo risulta da tutto ciò che abbiamo detto intorno all' umana generazione, la quale è una operazione animale sicchè ha virtù di formar l' animale. Ma essendo da Dio congiunto con questo animale per ferma legge l' ente percettibile, egli non può essere formato questo animale se non a condizione che veda l' ente: e per ciò all' operazione generativa, che di natura sua non avrebbe virtù se non di produrre un animale, tiene dietro, immediatamente la percezione dell' ente, mediante la quale il principio senziente in quell' animale si eleva a stato di soggetto intellettivo e di persona; il che succede senza progressione alcuna di tempo , ma è contemporaneo l' animale e l' uomo. Nasce adunque la formazione dell' uomo mediante una mozione animale dall' imperfetto al perfetto. Ora comunicandosi il disordine adamatico per generazione, di che è che si chiama originale , egli deve in producendosi nell' infante tenere lo stesso ordine e processo che tiene l' infante stesso in generandosi e formandosi. Quindi è che egli deve cominciare a infettare e corrompere le parti basse e da queste passare il suo disordine alle più sublimi. Il che è ciò che esprimono le Scritture collocando nella carne tutto il fonte del male morale dell' uomo e usando di questa parola carne a significare il nido, quasi direi, di tutte le tentazioni e il complesso di tutti gl' inimici contro lo spirito della virtù e della giustizia. « Perocchè la carne, dice S. Paolo, concupe contro lo spirito e lo spirito contro la carne: conciossiacchè queste due cose si contrariano insieme, pericolandone la vostra libertà« (1) »; della quale la baldanza della carne vorrebbe pure spogliarvi. In questo senso adunque, parlando della trasfusione del peccato, noi abbiamo messo il suo principio nella parte più bassa della umana natura, per la quale entrato il disordine si comunicò alle altre. Ma convien riflettere, che questo disordine fino che si resta nelle parti basse dell' uomo, non ha vera e propria ragion di peccato, nè però peccato si può denominare. Ma bensì può dirsi principio di peccato , in quanto che egli produce nell' uomo uno stimolo che tenta la sua volontà, e come priva di aiuto e di forze, qual' è la volontà di quello cui manca la grazia, la trae agevolmente dalla sua e la fa quietarsi nella vita animale e nella carnale dilettazione. Egli è però certo, che il formal peccato non è prodotto nell' uomo se non da quel punto che questa volontà soggettiva non ha piegato e ceduto al dilettico animale. E però noi abbiam detto, che il peccato non comincia se non nella volontà soggettiva, nella più alta parte dell' uomo, che è quanto dire nella personalità: perciocchè tutto il male che precede al guasto della personalità non è cosa per sè morale, ma fisica e animale, essendo sola la persona la vera e propria sede di ogni bene e di ogni male morale. Sebbene adunque il disordine cominci nell' uomo prima della sua personalità, tuttavia solo in questa e con questa comincia propriamente il peccato . Quando poi la personalità stessa ha allettato in sè il disordine, rendendo con ciò morale quello che prima era fisico e animale, allora la persona comunica per così dire l' immoralità propria alle potenze subordinate e tutto diventa immoralità, tutto peccato nell' uomo. La concupiscenza è peccato, l' ignoranza e la cecità di cuore è peccato, come dicono a una voce i Padri. Relativamente dunque al peccato di che vengono infette le potenze dalla volontà personale, prima e propria sede del peccato, noi abbiam detto che il principio del peccato originale risiede nella persona, nella più alta parte dell' uomo, e che da quest' apice discende e macchia le parti inferiori. Se si considera dunque il disordine in generale, il suo principio è nella parte più bassa dell' umana natura. Se si considera poi l' immoralità di questo disordine, il suo principio è nella parte più alta di essa natura. E questo ci valga a conciliare, a legare insieme e a ricapitolare quanto abbiamo detto sul principio del peccato originale in questo e nel capitolo precedente. Trovata la cagione prossima del peccato originale, egli è facile render ragione perchè anche i figli di coloro che sono rigenerati nel santo battesimo, ricevano il peccato originale. La grazia del santo battesimo non è che personale , cioè non riforma che la persona, come abbiamo accennato e come più a lungo dimostreremo nel libro seguente. Il disordine originale all' incontro contamina non meno la persona che la natura. Riformata adunque la persona col battesimo, rimangono le altre parti della natura umana ancora disordinate. A queste parti disordinate dell' umana natura appartiene principalmente la facoltà generatrice, e quindi la causa prossima e istrumentale per la quale s' insinua nel neonato e vi si eccita il peccato originale rimane viziata anche nei fedeli battezzati. Il perchè una natura corrotta produce una natura corrotta e che ha pur bisogno di essere rigenerata. Questa ragione adduce S. Agostino contro i Pelagiani che dimandavano perchè se il peccatore genera il peccatore, anche il giusto non generi il giusto. [...OMISSIS...] . La quale medesima ragione adduce in altre parole S. Tommaso, il quale afferma rimanere il peccato originale, materialmente preso, negli stessi battezzati; [...OMISSIS...] . Dalla natura del peccato originale, dottrina fondamentale della Chiesa Cattolica (4), si spiega lo spirito di questa, e per l' opposto lo spirito da cui è animato il mondo. La Chiesa professa che l' uomo nasce corrotto per natura: e quindi il figliuolo della Chiesa riceve da questa dottrina un sentimento di umiltà che lo accompagna in tutti i suoi passi. Il mondo niente ode più mal volentieri quanto la dottrina del peccato originale: egli fa di tutto per ritorcere gli occhi da questa profonda piaga dell' umanità, e dice volentieri: l' uomo nascere uomo, ovvero le indoli formarsi per la educazione senza più. Dell' ignoranza pertanto, in cui il mondo si tiene volontariamente del peccato originale, è effetto a un tempo e cagione lo spirito di superbia di cui sempre è gonfio il figliuolo di questo secolo. Quanto più lo spirito del mondo prevale anche nel mezzo delle nazioni cristiane, tanto più si vede allontanarsi e rimuoversi la memoria del peccato originale, massime dai libri di educazione; e dipingersi in essi in quel cambio l' uomo sempre con dei lieti e ridenti colori, ma, ohimè! purtroppo menzogneri, e simili per avventura a quelli che facevano si bello e desiderabile il pomo di Eva. La Chiesa col peccato originale insegna, che ciò che portiamo di corrotto fino dalla prima origine è la carne; e deduce da essa il fomento d' ogni peccato. [...OMISSIS...] . Per questa dottrina che possiede la Chiesa, avviene che il suo spirito sia di mortificazione della carne e di penitenza: e ciò a tal segno da desiderare fino la distruzione totale della carne, riguardando tale distruzione come l' abolizione del peccato e la liberazione dell' anima dai ceppi di una tediosissima schiavitù. Fino poi che questa felice distruzione non sia avvenuta, il figliuolo della Chiesa si propone di non prendere giammai a principio del suo operare il desiderio della carne, di non riconoscere nè pure la carne quasi come parte di sè, ma di riguardarla già come fosse al tutto morta. Questo è il proposito che si fa nel battesimo, questo è il sentimento che esprime S. Paolo là dove dice: [...OMISSIS...] . Or questa è nuova cagione per la quale il mondo non riceve o rifiuta di considerare la dottrina del peccato originale, la quale gli è troppo triste e malinconiosa, eziandiochè vera. Indi lo spirito del mondo si fa uno spirito di solazzo, di gaiezza e di accontentamento appunto della carne, così dalla Chiesa ripresa e vituperata. Il peccato originale adunque è quella gran dottrina la quale mette quella grande separazione che pure è tra l' operare della Chiesa e del mondo. Egli è manifesto che il peccato originale è il fatto solenne della umanità, il quale determina il vero e proprio suo stato. Or la morale deve esser acconcia al soggetto per il quale ella è fatta: e però un fatto che modifichi l' uomo, soggetto della morale, egli è evidente che deve recare una modificazione corrispondente in tutta la morale dottrina. Ma la filosofia non è stata solita di considerare i fatti solenni che hanno modificata la natura umana e hanno condotto l' uomo a essere quello che è: ma ha preso in veduta la natura umana astrattamente presa senza più. E il fatto del peccato originale tanto più lo ha negletto che esso è un fatto soprannaturale per così dire, cioè a dire un fatto che si lega con un ordine di cose soprannaturali e con una primitiva e immediata comunicazione col Creatore; e per la stessa ragione questo fatto fu di sua natura proprietà della cristiana teologia. Quindi principalmente nacque il carattere che divide la morale de' filosofi dalla morale cristiana. Perocchè quelli non poterono considerare l' uomo se non imperfettamente nelle sue qualità universali e comuni date dalla sua natura: laddove la rivelazione e religione cristiana lo considera fornito di tutti i suoi accidenti e alterazioni da lui sofferte e nei varii stati nei quali egli si trovò di fatto. Egli è perciò che la predicazione del Cristianesimo tende direttamente a sorreggere e riformare la umana natura in quelle parti, nelle quali fu più vulnerata dal peccato originale: onde è suo proprio carattere di inveire contro la superbia e la carnalità, e di soprammodo promuovere la virtù dell' umiltà e della castità, nomi peregrini e al tutto insoliti in bocca alla filosofia. Di più la morale teologica mettendo tutta la forza, per la quale divien possibile all' uomo di resistere contro all' ingiustizia cui gli vien suggerendo la concupiscenza originale, nella grazia del Redentore che solo vinse e riparò il peccato originale; avviene che rivolga la sua morale predicazione principalmente a indurre e consigliare l' uomo di provvedersi di questa grazia nell' orazione e nei sacramenti della Chiesa. Ed egli è per queste vie, di domare la carne colla penitenza e colla grazia, che la morale cristiana trae l' uomo alla reale virtù, mettendo la scure alla radice del male e insegnando quello che diceva di pur fare l' Apostolo: [...OMISSIS...] . Questo scopo determinato e che batte il sodo e nel vero dell' uomo, è appunto ciò che manca alla morale filosofica. Essa vi propone dei bellissimi precetti, ma tutti vaghi e universali, i quali non discendono ad applicarsi allo stato dell' uomo infermo e caduto sì come egli è, e non insegnano onde attinger egli possa le forze da rilevarsi; non gli fanno nè conoscere il suo male, nè il rimedio del medesimo; e finalmente da una parte non ha coraggio di proporgli tutta intera la virtù, temendo di sgomentarlo; dall' altra non la conosce: perchè una tale morale è essa stessa l' opera di quel medesimo uomo infermo e scaduto cui solo può guarire e rilevare un medico maggiore di lui, un altro essere sopraumano che tenda a lui soccorrevoli delle braccia piene di pietà e di misericordia. Le dottrine cattoliche da noi esposte sul peccato originale mi chiamano a lumeggiare meglio con esse una osservazione altrove per me fatta, cioè che la divina rivelazione, ossia quel complesso di dogmi che forma la sostanza della fede cattolica, suppone sotto di sè e accenna una filosofia, il ricercamento della quale Iddio commise alla umana ragione da lui stesso sovvenuta e aiutata, acciocchè col trovare i principii e le ragioni delle verità, dia essa ragione un tributo alla fede, la quale acquista di continuo una vie maggior luce e bellezza. Così noi veggiamo nelle divine Scritture e nei libri de' Padri della Chiesa che contengono il deposito della fede, parlarsi di verità le più sublimi e recondite colla massima precisione e sicurezza: e tuttavia confessare assai di sovente di non avere ragione naturale con la quale provarle, ma solo l' autorità di Dio che le ha fatte conoscere agli uomini. Tuttavia mettendosi poi l' ingegno umano a partito, procedendo innanzi le investigazioni filosofiche della umana natura e della divina, e a questo fare venendo stimolati principalmente i maestri stessi della Chiesa dalla disposizione della divina Provvidenza, la quale permette che gli eretici o gli infedeli o tutti quelli che si fanno nemici a Cristo, insorgano contro alle verità rivelate e accampino contro di esse delle obiezioni cavate dalla ragione naturale; allora, dico, si vanno trovando e scoprendo altresì tali verità naturali, le quali e valgono a ribattere le opposizioni avversarie e sorreggono o fiancheggiano mirabilmente gli stessi dogmi rivelati, mostrandoli di un perfetto consentimento ed accordo coll' intima natura delle cose e resi fin necessarii da questa natura delle cose ben conosciuta, di modo che l' ordine stesso delle cose naturali diverrebbe un assurdo, non che un enigma inesplicabile, quando quell' ordine di verità soprannaturali non fosse. Insomma, come ho detto ancora, la verità rivelata è un cotal compimento della verità naturale e presuppone questa sotto di sè, a quel modo che una dipintura suppone sotto di sè la tela sopra di cui è lavorata; e molte dottrine rivelate, o non sono misteriose se non perchè rimangono ancora a trovarsi quelle naturali verità che formano come l' addentellato a cui esse si continuano, o certo, trovate queste, cessano dall' essere difficili a credersi, e come che sia sublimi si fanno però tali che riesce sommamente difficile a non credersi. Il che forma una manifestissima prova della verità della divina rivelazione. Perocchè non può esser l' opera degli uomini una dottrina che gli uomini, i quali per molti secoli l' hanno insegnata, confessano inesplicabile e di cui non dànno altra prova che la divina rivelazione: una dottrina che tuttavia nel correre dei secoli acquista sempre più luce: una dottrina che per quantunque nuove verità naturali si scoprano, ella non si trova mai in contraddizione con alcuna: una dottrina che anzi si mostra in mirabile accordo colla filosofia più che questa si approfondisce e che perciò mostra supporre sotto di sè la più profonda filosofia, quasi un suo preliminare: quindi una dottrina che non potè essere annunziata se non da un Essere che fosse già in possesso precedentemente di una tale filosofia, che ad essa dottrina forma quasi direi un sotterraneo e tutto occulto fondamento. Queste generali osservazioni ricevono appunto lume dal dogma del peccato originale. Esso è annunziato nelle divine Scritture come un fatto, nè si pone cura ad accompagnarlo di alcuna ragione. Egli anzi alla ragione umana di prima giunta si presenta siccome il più mostruoso assurdo o certo come un impenetrabile mistero. Tuttavia la Chiesa lo insegna costantemente, non adducendone altra prova che l' autorità di Dio rivelante; e sicura di questa sola fede, sebbene alla ragione apparentemente contraria, lo proclama in modo che il toglie anzi ad uno de' principali cardini di tutto il suo insegnamento. I Padri della Chiesa, quelli stessi che sono riputati come ingegni naturali i più straordinarii, confessano di non poter penetrare la oscurità di questo mistero. S. Agostino stesso, la cui mente era considerata da un filosofo dei nostri tempi inimicissimo della religione (1), dichiara che « come non vi era nulla che fosse più noto del peccato originale per la predicazione della Chiesa, così non vi aveva nulla che fosse più secreto e nascosto all' intelligenza« (2) ». Questo gran Padre, dopo le più profonde meditazioni sopra questo argomento, non trovava che sempre nuovi imbarazzi. La natura del peccato originale lo sconfidava di penetrarla e piegava la fronte dicendo che vi si inchiude una occulta giustizia di Dio (3). La propagazione di esso peccato non gli era men forte nodo, e traendolo nella questione dell' origine dell' anima, il faceva perdersi in quest' altro labirinto, giacchè da una parte non poteva concepire alcun modo onde le anime potessero propaginarsi; e dall' altra « confessava di non poter spiegare a sè medesimo, come mai l' anima possa trarre il peccato da Adamo, se essa stessa non viene pure da Adamo« (4) ». Or dunque se la ragione umana nel suo massimo vigore non poteva dare alcun suffragio al dogma del peccato originale, non è egli evidente che questo dogma, conservato pur dalla Chiesa senza dubitazione alcuna, non poteva venire dagli uomini, ma da una sapienza più sublime? Dico da una sapienza più sublime, perocchè quantunque questo dogma non presentasse alla ragione se non un inesplicabile mistero, tuttavia da una parte la ragione stessa non potè mai trovare in nessun tempo un principio evidente che fosse in evidente contraddizione con esso, e dall' altra oggimai io credo non essere difficile d' accorgersi che si possa dare e che veramente si dia una filosofia, la quale rechi molta luce sulla stessa dottrina dell' original peccato e faccia in essa dileguarsi molte di quelle nubi che l' ignoranza umana vi vedeva, o piuttosto vi produceva. E se questa filosofia si dà veramente, parmi che a lei dovesser far buon viso tutti i cattolici. Perocchè l' accordo perfetto in cui ella verrebbe a trovarsi col Cristianesimo, e segnatamente con questo terribile dogma del peccato originale che essi credono per fede, dovrebbe fare a lei appo loro buona raccomandazione e prova efficace di sua verità. All' opposto persuasa colla virtù delle sue prove intrinseche una tale filosofia a coloro i quali discredono la cristiana religione e per troppo forte nodo hanno il peccato originale, essa dovrebbe avvicinare costoro, quanto può ragione naturale, al cristiano insegnamento. Sicchè la filosofia e la teologia si darebbero così insieme mano e l' una aiuterebbe l' altra in vantaggio degli uomini. Ora, egli è appunto questa filosofia la quale giace occulta nelle viscere della cristiana teologia, che noi ci siamo proposto di aiutare perchè venga alla luce: facendo ancor noi, (se ci è permesso di usare in altro senso la frase di Socrate) l' ufficio, quasi direi, di levatrice. E veramente tutta la dottrina del peccato originale riceve chiarissima luce da due verità filosofiche, le quali noi abbiamo provato con ragioni naturali e che costituiscono per così dire la teoria filosofica dell' uomo, cioè: 1. Che si ha una distinzione reale tra l' esservi nell' anima un sentimento ed un' idea qualunque, e l' avvertenza di quel sentimento e di quell' idea. Di modo che vi possono essere e vi sono nell' anima dei sentimenti e delle idee di cui l' uomo non ha nessuna avvertenza per molto tempo, acquistandola poi mediante l' uso della sua riffessione. 2. Che l' uomo fino dal primo istante del suo esistere ha un sentimento fondamentale e l' idea dell' essere universale, dei quali però egli non ha ancora avvertenza. Dai quali due elementi succede poi tutto lo sviluppo umano, perocchè tutte le sensazioni che riceve appresso non sono che modificazioni di quel primo sentimento; e tutte le idee che egli acquista e i ragionamenti che fa, non sono che i sentimenti veduti in rapporto coll' idea dell' essere, o rapporti di rapporti. Ben provate queste due verità, tutto ciò che ha di più oscuro la natura del peccato originale si chiarifica. Perocchè non è più un assurdo apparente, ma anzi una verità chiarissima di dire, che nel fanciullo appena nato vi abbia una volontà verso l' essere in universale, la quale sia piegata e tirata dalla violenza del sentimento animale; sebbene questa volontà non sia libera. Ed or, ciò posto, una immoralità si trova nell' uomo fino dalla prima sua esistenza, la quale ha ragione di peccato , sebbene non abbia ragione di colpa , perocchè a formare il peccato abbiamo detto bastare la volontà , a formare poi la colpa esigersi altresì la libertà . Ora ciò che è peccato nell' infante, considerato in lui solo, niente vieta che si chiami colpa, considerato in relazione colla prima libera volontà che il cagionò, cioè colla volontà di Adamo (1). Egli è per ciò che con molta assennattezza, per nostro avviso, Vincenzo Palmieri in un suo libro scrisse così: [...OMISSIS...] . Da questo passo apparisce che il citato professore di Teologia dogmatica sentì lo stretto nesso che aveva la questione filosofica dell' origine delle idee col dogma teologico del peccato originale, e che questo portava la risoluzione di quella nel suo seno. Egli è vero che l' acuto teologo che ciò vide, non potè però indicare un sistema delle idee innate che potesse al tutto reggersi e sostenersi contro gli avversarii; perchè non ne aveva altri che quello di Cartesio e quello di Malebranche: ma ciò non toglie che egli intravedesse la verità che noi tocchiamo. Il peccato non accennava se non la necessità di un sistema filosofico che ammettesse qualche cosa d' innato, ma non diceva che solo una diligente e fedele investigazione della natura della mente umana doveva poi trovare che cosa fosse questo che d' innato; e questa ricerca da noi affrontata ci condusse alla teoria della naturale intuizione dell' essere in universale. Si dica il medesimo circa la questione dell' origine dell' anima, che ha pure un così stretto rapporto, sebben filosofica, col dogma puramente teologico della trasfusione del peccato originale. Il dogma della trasfusione poteva egli essere inventato da chi non conosceva la soluzione di quella prima questione? Ma si consideri la soluzione che noi ne abbiamo dato; e poi quanta luce, ci si dica, non manda fuori di sè un insegnamento sì strano a prima giunta come quello che dichiara originario un peccato? Quel maestro che lo insegnò il primo, non doveva essere qualche gran cosa, se confidò agli uomini un risultamento che non poteva dare se non una dottrina, che non sarebbe stata nota se non quando il mondo fosse ben vecchio? Delle riflessioni simili a queste mi potrebbe somministrare la dottrina della Chiesa intorno alla maniera nella quale ella insegna che i fanciulli vengono mondati dal peccato originale nel santo battesimo. Perocchè la Chiesa chiaramente e costantemente insegna ed ha sempre insegnato, che nel battesimo non solo vien rimesso il debito contratto dalla natura umana con Dio, ma che viene purificata l' anima stessa del fanciullo dalla macchia originale e che in quest' anima viene infusa la grazia dello Spirito Santo e gli abiti delle virtù teologiche della fede, della speranza e della carità. Ma cerca ella la Chiesa di spiegarci come avvenga tutto ciò nell' anima del fanciullo che non dà ancora nessun segno esterno di uso di ragione? Non cerca: solo ci dice che questo è la verità e ci ingiunge di crederlo. - Ma non è egli una tale dottrina opposta al pensare comune degli uomini e apparentemente assurda anche agli occhi della filosofia che non iscopre in quel bambino appena nato nè idee, nè volontà, nè perciò discernimento e amore del bene e del male? - Di tutto questo non si dà veruna pena la Chiesa: non risponde a tali obbiezioni se non solo con queste parole: Chichessia ciò non crede, sia anatema. I maestri poi anche più insigni della religione cristiana parlando di ciò confessano assai spesso la loro ignoranza ed è loro frequente in bocca: così è, ma in che modo ciò sia la ragione lo ignora, perocchè vi giace un mistero. Non si è parlato così solamente nei primordii del cristianesimo, ma dai più gran genii dei secoli moderni: e quando è venuto a questo punto lo stesso Bossuet, ha dovuto conchiudere con queste parole: « Egli è questo il mistero dello Spirito Santo« ». A me pare di veder ben chiaro l' impronta di un magisterio divino in questa maniera di enunziare le più sublimi verità e apparentemente contrarie alla ragione come altrettanti fatti indubitabili senza fornirli di loro ragioni e spiegazioni: il ciò farsi per molti secoli e il venir solo in ultimo col progresso delle scienze trovate quelle ragioni che rendano quei misteri chiari, o certo che li dimostrino, anzi che contrarii alla ragione, ad essa medesima necessarii e d' essa nobile finimento. E veramente quando si conosce lo stato del fanciullo a quel modo che egli risulta dai principi filosofici per noi dimostrati, non ci rende egli manifesto come la infusione delle virtù teologiche e il raddrizzamento e sollevamento a Dio della volontà possa aver luogo? E poichè ho toccato di sopra una parola di Bossuet da lui proferita nella celebre disputa che tenne col ministro Claudio, non sarà inutile che io arrechi ancora un passo dello stesso insigne prelato, tolto dalla relazione di quella medesima disputa. Questo passo mi varrà a dimostrare due cose: 1 Come il gran Vescovo di Meaux colla sua solida mente giunse a vedere il rapporto strettissimo della dottrina della Chiesa colla questione filosofica intorno alla natura dell' anima intelligente, e come quella dottrina della Chiesa richiedeva assolutamente che questa questione si risolvesse in modo che l' anima dovesse avere una comunicazione primitiva e naturale colla verità: 2 Mi varrà a mostrare quanto cautamente la sana mente di quel prelato toccasse questa risoluzione, non buttandosi perciò nel sistema delle idee innate di Cartesio (come poco avvedutamente vedemmo fare più sopra un teologo italiano), ma anzi si contenesse dentro a' giusti limiti, non avanzando più di quello che la necessità richiedesse ed esigesse di quelle cattoliche dottrine delle virtù infuse. Perocchè avendo ridotto il ministro protestante e strettolo a confessare che sviluppandosi nel fanciullo battezzato la ragione, questo non può premettere alla fede delle verità che gli sono proposte da Santa Chiesa alcun esame e alcuna dubitazione, ma deve crederle subitamente; e che il mezzo onde può far ciò non è altro che la fede infusa nel battesimo; restava a levare la difficoltà che faceva il protestante, come questa fede infusa potesse essere ragionevole nel fanciullo, senza esame e non facendo uso della ragione. Or ecco come l' egregio prelato si fa a rispondere: [...OMISSIS...] .

Antropologia soprannaturale Vol.II

626836
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

In questo abbandono ella fu soggetta a tutta quella vicenda di alterazioni e disordinati mutamenti a cui necessariamente la espone la natura delle proprie limitazioni e il disordine introdotto in essa dagli atti disordinati della creatura intelligente peccatrice; quindi la natura non ebbe più alcuna virtù nè di significare nè di produrre alcun effetto soprannaturale nello spirito dell' uomo. Non le rimase se non l' attitudine degli effetti naturali, e quella di significare un cotal ordine misterioso, di cui appena con delle idee negative rimaneva traccia nella umana intelligenza. Di più: non rimase all' uomo nè anco la natura intatta, ma vulnerata in tutte le sue potenze. La ragione fu offuscata e perturbata dalla sensualità e la volontà resa tarda al bene insensibile. Dimodochè l' uomo è sempre accompagnato da que' mali gravissimi che S. Agostino ridusse all' ignoranza e alla difficoltà di fare il bene, e che il Divin Redentore espresse in quelle parole: «O stolti e tardi di cuore (2) »: nelle quali cose la stoltezza risguarda l' intelletto, e la tardezza del cuore la volontà impedita. La sensualità rapì a sè per tal modo le forze anche più nobili dell' anima, che ad essa è fatta vilmente ubbidiente, e che fino per potere fare il bene deve spesso dipendere dall' aiuto di quella. Così fu dissipata e guasta la mirabile armonia che era fra il Creatore e la creatura, come pur quella che subordinava fra di loro le varie potenze e facoltà di [cui] l' umana natura era fornita. Non basta ancora. L' uomo privato della grazia di Dio non ebbe altre forze che le sue proprie. Egli rimase adunque abbandonato agli esseri malevoli più forti di lui. Il demonio trovò il modo di entrare nella natura non più protetta da Dio e di operare nell' uomo per mezzo delle cose corporee, di cui era entrato in balìa. Circa il modo onde il demonio si rese padrone de' corpi ho già toccato una conghiettura, nel libro precedente. Comechessia, la dottrina tradizionale ci assicura della signorìa dei demonii circa i corpi e mediante i corpi ancora sulle anime degli uomini. E poichè i corpi comunicano colle anime mediante la vita e la sensibilità, quindi nella vita animale e massime nella fantasia si mostrò più funesto e crudele l' impero del demonio, sia col tormentare gli uomini mediante de' mali, sia colle suggestioni della immaginazione, dietro la quale l' umanità, senza Cristo, venne e viene deplorabilmente aggirata. Iddio ha in sè originalmente e essenzialmente la forma ideale e la forma reale dell' essere. Considerato secondo la forma ideale egli è la giustizia: considerato secondo la forma reale egli è la causa efficiente e il signore di tutte le cose. L' effetto del peccato relativamente a Dio come giustizia, fu il debito che l' uomo contrasse, la natura del qual debito è questa. Secondo la giustizia Iddio doveva essere onorato senza modo dalla creatura intelligente, la volontà della quale doveva subordinarsi appieno e assimilarsi alla volontà divina. Un atto solo della volontà umana opposto alla divina era un disordine infinito: perocchè l' obbligazione nasce dall' oggetto, come dimostra la scienza morale, e però tale è l' obbligazione quale l' oggetto, e se l' oggetto è infinito, egli induce una obbligazione infinitamente grave. Ora infinita è la natura divina, e però l' obbligazione dell' onore dovutole è di una gravezza infinita, e infinito disordine perciò è il violare detta obbligazione. Violata poi che sia e prodotto questo infinito disordine, egli è manifesto che alla creatura, che ne fu cagione, agli altri doveri suoi si sopraggiunse il debito di risarcire la divinità dello scematole onore; e questo nuovo debito è pur esso obbligatorio con forza infinita, come son tutti gli altri doveri che si riferiscono ad un infinito oggetto. Perocchè l' onore dovuto a Dio uscendo come necessaria conseguenza dalla stessa natura divina, e questa pure essendo immutabile e necessaria, conviene che anche il debito sia necessario e immutabile, cioè che non venga mai meno sino a tanto che non sia pagato e soddisfatto. Ora da ciò appar manifesto che è impossibile alla creatura, che ha incontrato questo debito col peccato verso la divinità, pagarlo e conguagliare le ragioni. E ciò: 1. Perchè la creatura, lasciata sola colle proprie forze e spogliata dalla grazia, ciò che succede pure per lo peccato, non ha alcuna possibilità di levarsi fino a Dio, e però nè pure di fare un atto infinito di ossequio verso la natura divina, che egli non percepisce più e non conosce se non negativamente; 2. Perocchè tutti gli atti che egli far potesse in questo stato ad ossequio della divinità già non sarebbero più di quanto essa divinità si merita per sè stessa, anche senza il nuovo debito, ma bensì si terrebbero sempre al disotto del giusto. Sicchè computando e sommando tutta la serie degli atti di onore che questa creatura desse al Creatore si troverebbe sempre, ragguagliata alla somma del debito, mancante di una differenza infinita, per cagione che tutti gli atti di onore non potrebbero levar via quella lacuna che lascia il peccato commesso e fare che la disonorata divinità non fosse stata disonorata. Conciossiacchè la creatura doveva con tutta sè stessa e in tutti i tempi servire al Creatore. Se dunque in tutto il corso dell' esistenza della creatura trovasi un momento in cui sia mancato l' onore a Dio, egli è di natura sua irreparabile: nè gli altri momenti in cui Dio fu onorato valgono a risarcire quel momento vuoto della debita onoranza; ma resta difettoso tutto il complesso della vita morale della creatura, e questa soggetta a tale obbligazione a cui non ha onde soddisfare; 3. Perchè la creatura dopo il disordine commesso rimane ella stessa disordinata e indebolita; sicchè le è troppo difficile il solo sostenere il passo che non precipiti in nuove rovine e che non aggiunga altri disordini al primo. Havvi dunque un ordine di giustizia eterno, immutabile e indipendente dallo stato della creatura, il quale non può essere alterato; e se viene alterato deve essere ristabilito. Sicchè quando anche si potesse pensare che la creatura, dopo essere scorsa al peccato, ella in sè stessa fosse riformata e ritornasse come prima cogli affetti ordinati, ciò non basterebbe ancora. Perocchè l' ordine della giustizia non sarebbe con questo solo ristabilito, il qual ordine consiste in questo: 1. che sia dato a Dio tutto l' onore che si merita di presente; e 2. che gli sia restituito anche quello che gli fu tolto in passato. E questo secondo sarebbe sempre stato ciò che avrebbe soverchiato le forze della creatura. Che se consideriamo Iddio sotto la forma di essere reale e sotto questa forma il consideriamo nella relazione coll' uomo, l' effetto del peccato è doppio, cioè: 1. Una remozione di Dio dall' uomo come da persona resasi incapace e indegna del suo consorzio: il quale effetto è proprio del peccato come violazione della legge naturale. 2. Lo sdegno di Dio, ossia la disposizione di Dio a punire l' uomo: il quale effetto è proprio del peccato considerato come violazione della legge positiva, ossia della positiva volontà di Dio. Riepilogando adunque quanto fu detto fin qui intorno all' alterazione che nacque nel sistema primitivo dell' uomo mediante il peccato, noi l' abbiamo considerata sì relativamente a ciò che soffrì di mutazione lo stato dell' uomo, come relativamente a ciò che soffrì di mutamento il rapporto di Dio coll' uomo. Abbiamo detto che lo stato dell' uomo fu alterato per l' accidente sopravvenuto del peccato, in due punti, cioè: 1. l' uomo fu privato di tutte le forze sopra natura e limitato alle sole forze della natura; 2. nella sua stessa natura furono alterate le singole potenze e dissipata quella mirabile armonia che le teneva accordate fra loro, e messa in esse l' inordinazione. A ciò s' aggiunse che anche tutte le forze della natura esterna furono private di ogni influsso soprannaturale, alterate e disordinate; e mancò quella speciale provvidenza che dirigeva le loro forze e tutti i loro movimenti al bene dell' uomo come dell' amico di Dio; 3. e così l' uomo privato della divina protezione e la natura caddero in balìa degli esseri malefici più forti di lui. Abbiamo detto ancora che fu alterato il rapporto di Dio coll' uomo: 1. perchè fu violato l' ordine eterno della giustizia, di che ne venne un infinito debito all' uomo di ristorare un tale ordine, e, non potendolo ristorare, la necessità di una punizione senza fine vendicatrice della giustizia offesa; 2. l' allontanamento di Dio dall' uomo; 3. lo sdegno di Dio, ossia la punizione effettiva. Sei adunque sono i punti nei quali venne alterato il sistema primitivo col fatto della prima colpa: tre consistenti in mutazioni successe nella natura umana, e tre in mutazioni successe nei rapporti con Dio. L' uomo adunque era perduto irreparabilmente, se non si riparavano questi mali effetti del peccato, e, solo rimossi questi, poteva essere ristorato dal suo ricadimento. Acciocchè adunque l' uomo tornasse a stato di salute, egli doveva cansare la vendetta dell' onnipotente e doveva ottenere che questo di bel nuovo gli si avvicinasse. Ma questo non poteva essere, se prima non si ristabilisce l' ordine della giustizia: il quale ordine è necessario, e Dio, che è la giustizia per l' essenza medesima non può altro voler che lui, cioè sè stesso. E però dice S. Agostino: [...OMISSIS...] . Ma era impossibile alla umanità ristabilire l' ordine della giustizia, come fu detto. Perocchè a ristabilire il detto ordine conveniva che l' uomo desse a Dio non pure tutto l' onore che merita la divina natura per sè, ma oltre a ciò anche un culto di onore di più di quello che a lei fosse dovuto per sè sola considerata, il qual valesse a risarcirla dell' onore prima sottrattole, pagandole così quel credito che ella s' era acquistato presso all' uomo che le aveva tolto il suo. Or poi l' uomo non aveva neppure tanto da dare a Dio quello che egli per sè meritava, perciocchè dando a Dio tutto sè stesso, non gli dava ancor nulla di ciò che fosse pari alla divina maestà e di lei degno, ed era scusato dal dare di più solo perchè di più non aveva che dare: la qual ragione del non avere nè aver mai avuto in sè di più che potesse dare a Dio faceva sì che il solo dare tutto sè stesso non fosse imputato ad ingiustizia. Col peccato all' incontro aveva pure una volta sottratto sè stesso a Dio: e però, checchè si facesse, non si poteva più avverare che egli onorasse il suo Creatore con tutto sè stesso, perocchè non è più un onorarlo con tutto sè stesso quando anche un momento solo dell' esistenza venne furato al culto divino; chè quando si dice tutto , non si esclude nulla dell' essere che sussiste e del tempo in cui sussiste. La natura umana adunque era, come si diceva, irreparabilmente perduta, poichè non aveva più in sè stessa onde ristabilire l' ordine dell' eterna giustizia da lei perturbato. Ora non potendosi quest' ordine ristabilire dalla natura umana, dalla parte di Dio non poteva più essere placato il suo sdegno, cioè evitata una implacabile punizione; nè Iddio avvicinarsi all' uomo soggetto della sua punizione. E dalla parte dell' uomo non poteva nè ricomporsi l' armonia disgregata delle sue potenze, e togliersi il guasto introdotto in esse; nè che riacquistasse la comunicazione coll' ordine soprannaturale e quelle facoltà o attitudini che ad esso ordine di grazia si riferiscono. Il principio adunque della ristorazione dell' uomo non era nella umana natura. E se a noi non ci fosse noto, nati e allevati come siamo nel cristianesimo, e però se non conoscessimo il sistema della redenzione, non ci potrebbe cadere in animo che ci rimanesse pur una via, per la quale potesse ancor salvarsi l' umanità. Conciossiacchè sarebbe stato assai facile il dire a noi stessi: Nella umana natura non ci ha più principio di salute per le ragioni dette; in Dio neppure ci ha, perciocchè è lontanato dall' uomo e sdegnato con lui, cioè mosso dalla sua giustizia a punirlo: dunque manca al tutto il rimedio, e l' uomo è interamente sfidato di salute. Pure la umana natura fu salva, e il sistema della redenzione che noi troviamo nel cristianesimo è quello stupendo mistero della bontà e della sapienza di Dio, che risponde mirabilmente a quelle terribili difficoltà della ragione umana, per le quali non si vedeva più modo come l' uomo potesse con Dio nuovamente riconciliarsi. In questo sistema la redenzione del mondo nasce, quasi direi, per accidente. L' oggetto delle compiacenze del Padre non è per sè l' uomo, ma il Verbo divino. In questo non vi ha peccato nè difetto; egli è la giustizia stessa, perchè è Dio come il Padre. Or l' eterno disegno si fu che questo Diletto del Padre si unisse coll' umanità, per modo che con essa formasse una sola persona. Ma egli non poteva assumere l' umanità corrotta dal peccato, e tuttavia doveva prendere quell' umanità stessa che da Adamo peccatore si propaginava, giacchè l' eterno disegno esigeva che l' umanità che doveva prendere il Verbo fosse identica coll' umanità di Adamo. Però fu trovato lo spediente che il Verbo pigliasse l' umana natura dalle viscere di una figliuola di Adamo, ma che in questa generazione non intervenisse concorso di uomo, giacchè è per questo concorso che si corrompe l' umana natura in propaginandosi. Ora è da osservare qui che questo è un fatto nuovo, come dice il Profeta: « Creò il Signore una cosa nuova sopra la terra« (1) »: ella è una nuova creazione. Come era libero Iddio di creare e di non creare, così era libero di far nascere un uomo senza opera d' uomo e che fosse una persona col Verbo. Niente vi aveva nella natura o nella umanità che potesse produrre o cagionare un tal fatto; nè il peccato dell' uomo impediva Dio dal fare una cosa che non aveva per sè alcuna relazione con esso peccato. E questo fatto del tutto nuovo prodotto spontaneamente da Dio fu quello che rese possibile la salute dell' umanità, mentre senza questo nuovo fatto non era più in essa umanità nè in tutta la natura delle cose alcun principio di riparazione e di salute. Ed è da osservarsi che quel fatto solenne dell' Incarnazione sta da sè ed è compito in sè medesimo: solo si rappicca a lui, quasi per un soprappiù e un accidente, la salute del mondo. Se non fosse così, sarebbe paruto che Dio si fosse abbassato, e che, in grazia dell' uomo peccatore, quasi cedendo nel conflitto, egli avesse operato. All' opposto egli fece tutto per amore del suo Figliuolo Unigenito, senza un risguardo diretto e primario all' uomo: ma l' uomo fu racquistato e salvato appunto perchè così esigeva l' amore del Figliuol suo, che era pur uomo. Conciossiacchè è proprio dell' uomo amare la propria natura anche negli altri soggetti che la partecipano, e quindi Cristo per un amore naturale amò gli altri uomini e li desiderò salvi, e il suo Padre nessun suo desiderio poteva negargli. Nè questo desiderio di Cristo cozzava coll' ordine della giustizia, perchè il Verbo incarnato aveva tal possa da soddisfare appieno il debito contratto dall' uomo, e anche soprabbondantemente. Conciossiacchè egli stesso era Dio, e gli atti suoi di culto erano per questo adeguati alla divina maestà. Ma oltre a ciò egli potè dare a Dio un culto maggiore che non gli si spettava in ordine di giustizia. Perocchè la giustizia voleva che Cristo, come innocentissimo e santissimo, fosse al tutto beato e nessuna pena soffrisse. Ora Egli invece, fu abbandonato dal Padre al dolore e fino alla morte, e parve che Iddio peccasse quasi contro quest' uomo, come un altro uomo aveva peccato contro Dio. Certo è che Iddio contrasse un debito infinito verso di Cristo, quando essendo questo infinitamente giusto e degno di ogni protezione e cura, pure in quel cambio il lasciò fra le angustie, e fino lasciò distruggere l' umanità di lui; ed egli si sottopose obbediente a così crudele decreto, che aveva tutta l' apparenza di essere ingiusto, e che il sarebbe stato, se la volontà stessa di Cristo non l' avesse accettato, rinunziando per amore di Dio Padre al proprio diritto. Allora si trovarono adunque due partite aperte: dall' un canto gli uomini avevano un infinito debito con Dio: dall' altro eravi fra gli uomini uno, che aveva con Dio un credito infinito. Questi però era il ricco, questi poteva essere il Redentore de' suoi simili: e gli riscattò difatti e ricomperò col suo credito, col quale ebbe di ritorno il chirografo del debito di quelli, e lo stracciò, affiggendolo alla croce. Così nel desiderio e nella mano del Cristo pendette la salute del mondo, perchè in lui solo stava la possibilità che ristabilito fosse l' ordine turbato della giustizia. E la salvezza però di ciascuno è un dono del Redentore. Ristabilito pertanto quest' ordine della giustizia, non erano più posti confini alla comunicazione della bontà di Dio: niente più impediva che Dio: 1. si ravvicinasse di nuovo all' uomo e il riducesse ancora colla comunicazione della grazia nell' ordine di perfezione soprannaturale; e 2. che quindi sanasse e riformasse tutta la sua pervertita natura. Cristo cioè ebbe potestà di comunicare ai suoi simili di quello spirito che aveva in sè e che usciva di sè, perocchè egli aveva tolto via ciò che vietava il far ciò, vale a dire il debito dell' uomo, cui Cristo col prezzo di sè stesso largamente pagò. Ora potendo Cristo fare questa comunicazione del proprio Spirito divino all' uomo, e volendolo in un modo sapiente e per varii gradi secondochè gli dettò la sua sapienza e bontà, in ciò usò pur egli dei segni, come que' mezzi che erano convenienti alla umana natura e fino dalla prima istituzione dell' uomo adoperati da Dio. E di questo modo, di questi gradi e dell' ufficio e natura di questi segni ora ci cade qui di dover brevemente ragionare. [I segni adoperati da Cristo per salvare e perfezionare l' umanità redenta da lui, sono di due specie, cioè altri sono istruttivi , e altri effettivi o Sacramenti. Parliamo prima di questi, rimettendo al capitolo seguente il ragionare degli altri] (1). L' uffizio adunque dei segni dati da Dio all' uomo, perchè con essi si perfezionasse dopo il peccato, era diverso dall' uffizio de' segni dati all' uomo avanti il peccato. Avanti il peccato l' uomo era santo e quella parte dell' umana natura, ove come in propria sede abita la santità, era in comunicazione diretta con Dio e da lui immediatamente attingeva la grazia. Sicchè essi non potevano avere altra incombenza che di disporre convenientemente le parti inferiori dell' uomo acciocchè bene si accordassero in servigio della suprema. L' uomo peccatore all' opposto non poteva essere perfezionato se prima non riacquistava la giustizia. E però i segni deputati a mezzi di sua perfezione dovevano essere cotali che avessero efficacia e virtù di dare ad esso la stessa santità, almeno in certa speranza e promissione. Il che mirabilmente si accordava alla condizione della natura umana già guasta dal peccato. Poichè il guasto di essa natura principalmente in questo effetto si manifesta, che l' anima spirituale nelle sue operazioni si trovò legata e fatta schiava ai movimenti del corpo: sicchè ella non ha più in balia di sè, come prima, il corpo animale, ma anzi questo si muove senza sentire il freno di quella, e di più trascina l' anima stessa dietro alle sue proprie operazioni, e la sforza ad operare in un modo consentaneo ai suoi sentimenti e fantasmi. Il che è una servitù lagrimevole dell' anima, e un dimostramento dell' alterazione sofferta dal peccato. L' anima adunque nell' umanità peccatrice è influita dal corpo. Or che restava se non di fare che questa influenza del corpo tornasse a bene dell' anima stessa? E così ordinò la sapienza divina, la quale si servì di certi segni sensibili a riformare l' uomo, che per la via del corpo dovessero giungere col loro effetto fino all' anima, tirando questa stessa alla dirittura della giustizia e infondendole per la medesima via la grazia e la santificazione. Per le quali cose sapientemente l' angelico Maestro insegna: [...OMISSIS...] . - Ma all' incontro dopo il peccato, anche rispetto alla parte superiore, l' uomo abbisogna di ricevere alcun che dalle cose corporee pel proprio perfezionamento (1). Vero è però che la maniera onde per la via de' segni sensibili e però delle sensazioni corporee l' anima riceve la grazia è misteriosa e del tutto incognita (2). Tuttavia se fosse lecito in cosa sì arcana formare qualche congettura, a me sembrerebbe non improbabile, che quelle sensazioni, che eccitano i segni sensibili a ciò destinati da Dio o certo quelle impressioni che essi fanno, avessero cotale efficacia congiunta da rendere la parte superiore dell' anima più indipendente che prima non era dal corpo, e porgere alcuno interiore e soprannaturale eccitamento al soggetto umano che il movesse alla contemplazione di Dio e quindi alla percezione di questo; venendo il soggetto a ciò sollevato da quella virtù divina che accompagna quelle sensazioni. Giacchè Iddio è sempre tutto presente a tutte le cose e vuole riempirle di sè e santificarle: ed è solo difetto delle cose se nol veggano e nol percepiscano. Sicchè rinforzata la creatura intellettiva e toltole questo difetto che prima aveva, pel quale non vedeva Iddio soprannaturalmente, già per questo solo ella viene a vederlo, senza che in Dio sia nata alcuna mutazione di avvicinamento o allontanamento da parte sua, se non riguardo all' effetto ch' egli produce. E` adunque l' identità del soggetto umano, sensitivo a un tempo e intellettivo, che può spiegare come ciò che nasce nel senso ridondi a migliorare la volontà intellettiva: tanto più che nel senso sta propriamente la radice della natura umana, e, informata di soprannaturale virtù questa radice, indi viene l' elevazione di tutto l' uomo a Dio. E in questo sistema si vedrebbe, perchè il corpo non venga riformato, sebbene per un movimento che comincia da lui nasca la riformazione dello spirito. Tanto più che questo movimento del corpo non ha luogo che nella via delle parti più delicate e sottili del corpo che immediatamente servono alle sensazioni; e gli altri sistemi, di cui è il corpo umano composto, non ne sono immediatamente affetti, e per conseguente nè pure riformati. Ora questa maniera di spiegare l' azione de' Sacramenti sull' anima, che è il gran quesito di S. Agostino: « Come l' acqua tocchi il corpo e lavi il cuore« (1) »; converrebbe a capello, se non mi inganno, con ciò che dice il grande Basilio nell' opera che scrisse dello Spirito Santo. Parlando egli del battesimo, un effetto egli assegna all' acqua santificata, un altro allo Spirito Santo, dei quali due effetti risulta il frutto intero del battesimo. Ora l' effetto che egli assegna all' acqua [è] di togliere il peccato cioè di mortificare l' uomo vecchio: laddove allo Spirito attribuisce l' effetto di vivificare l' uomo nuovo. E così anche noi diciamo, che l' effetto dell' acqua informata dalle sacre parole, è quello di tòrre la corruzione originale, che ha sua sede originaria nel corpo, il quale aggrava lo spirito, e quindi di levare dall' anima, cioè dalla suprema parte della volontà, quella tendenza che è un abituale consenso nel male: e l' anima sollevata da una tale schiavitù, libera da tali ceppi, rettificata e ben disposta alle cose divine, può allora ricevere il lume dello Spirito Santo, che influisce in essa senza ostacolo pei meriti della passione di Cristo. Ora si oda quanto convenientemente insegni tutto ciò il gran Padre che abbiamo nominato. [...OMISSIS...] In questo bellissimo passo adunque il santo Dottore non attribuisce all' acqua, come quella che è cosa corporea, se non un effetto nel corpo, soprannaturale però e tale che ridonda nell' anima. Giacchè il corpo, come dicevamo, mosso da una virtù divina può dare all' anima tal movimento e quasi tal guizzo da farla atta a toccare poi lo Spirito divino che le si fa incontro. A questo Spirito poi attribuisce l' operazione di avvivare egli solo quest' anima colla sua virtù tutta spirituale e non immersa, se mi è lecito così parlare, in materia alcuna. E veramente la grazia risiede nell' intelletto, e questo non opera per mezzo di alcun organo materiale (2). Quindi una sola virtù immateriale può esser quella che infonda direttamente la grazia: ma come le sensazioni nell' ordine naturale aiutano e dispongono l' anima intellettiva a formare le intellezioni, così nell' ordine soprannaturale l' elemento materiale, avvalorato dalla parola, dispone l' uomo a ricevere la vita della grazia intellettuale. Concludiamo da tutto ciò, che la prima differenza dei segni dati all' uomo peccatore, da quelli dati all' uomo innocente, si è, che questi secondi dovevano essere un rimedio contro il peccato e però aver virtù di dare all' uomo la santità; quando quei primi non prestavano all' uomo che disposizioni alla santità. Or veduto l' ufficio dei segni deputati da Dio a dover ristorare la umanità peccatrice, gioverà che noi veggiamo o richiamiamo il modo altrove indicato e l' ordine onde l' umanità per via di segni si ristora e ripristina alla salute. Il quale ordine procede così: che la grazia conferita per via del segno sensibile vada a terminare mediante il corpo nella personalità umana, e questa sia ristorata la prima, restando ancora la natura umana nelle sue parti inferiori soggetta alle funeste conseguenze del peccato, e però corrotta e pervertita: che la persona poi così riguadagnata e risarcita salvi e rigeneri anche la natura, ma non però ad altra condizione che a quella della morte e distruzione di essa natura. Perocchè ogni uomo è abbandonato alla dissoluzione della morte, dopo la quale venuto il tempo prestabilito, egli deve risorgere e ricomporsi a una compiuta perfezione; e ciò in virtù dell' anima salva, ossia di Cristo che abita in lei immortalmente. Sicchè l' anima perfetta trae dietro a sè la perfezione del corpo, e la persona trae a sè la perfezione della umana natura. Questa ristorazione, della persona dapprima e poi per essa anco della natura, è manifestamente insegnata in tutte le divine Scritture; ma ella è la chiave questa dottrina massimamente colla quale aprire il senso di molti luoghi della sublime lettera di S. Paolo ai Romani, la quale spesso tocca e si fonda su questa distinzione della ristorazione della persona umana e della natura (1). Quando la grazia di Gesù Cristo opera la rigenerazione dell' uomo peccatore produce in lui una mutazione nel principio personale, come abbiamo detto altrove, il quale è il principio attivo più elevato che nell' uomo si trovi. Conciossiacchè come nell' uomo privo di grazia il supremo principio della sua attività è la volontà naturale, serva all' errore ed alle passioni; così nell' uomo rigenerato dalla grazia il principio supremo di agire è la stessa grazia divina informatrice della sua volontà. E quindi S. Paolo vuole che si distinguano i figliuoli di Dio, secondo quelle parole: « Tutti quelli che sono spinti a operare dallo Spirito di Dio, questi sono i figliuoli di Dio« (3) »: ecco il nuovo principio attivo introdotto nell' uomo. Sicchè a tutta ragione si può dire, che un' altra persona è nata nell' uomo per la grazia da quella di prima, sebbene la natura umana non siasi mutata e anche il soggetto sia restato il medesimo (4). Ella è questa dottrina che fa intendere tutta la forza e la verità di quella parola, già consacrata nell' uso ecclesiastico, di rigenerazione a indicare il rinnovellamento dell' uomo che si fa per Cristo; del quale parlò Cristo a Nicodemo quelle celebri parole: « In verità, in verità ti dico, chi non sarà rinato di nuovo, non potrà vedere il regno di Dio« (5). » Delle quali parole stupì quel maestro della legge e non ne poteva intendere il significato, il quale era però assai meno traslato che non paresse. E consuonano a questo stesso modo di dire quelle altre maniere che occorrono assai frequenti nelle divine Scritture: nascere di Dio, essere figliuoli di Dio (1) ed altre tali, che si riferiscono alla persona rinnovellata; conciossiacchè acconciamente si dice nascere la persona e essere figlia di quel principio da cui riceve la sussistenza come persona. Di maniera che l' angelico Maestro, della riunione dell' uomo peccatore con Dio, ebbe a dire così: [...OMISSIS...] . E di qui è la similitudine vera con Dio che si mette nell' uomo per opera della grazia: similitudine la quale consiste in un consorzio della natura divina; ciò che compisce appunto il concetto di generazione, che vale trasfusione o comunicazione della natura di un soggetto in un altro. E perchè, come dicevamo, questa natura divina comunicata all' uomo non è tutta la natura costituente l' uomo, ma solo una parte, il principio supremo di lui; perciò convenevolmente si dice essere la persona che viene mutata col sopraggiungersi all' umanità dell' elemento divino. Quindi l' uomo nuovo e l' uomo vecchio, in quelle parole dell' Apostolo: « Rinnovellatevi nello spirito della mente vostra, e vestite l' uomo nuovo, che è creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità« (3). » Dove la parola uomo nuovo e quella creato dimostra il rinnovellamento della persona (4): là dove la parola vestire indica la conservazione della natura umana sopra cui la nuova persona si veste e si depone (5). Le fasi poi: nello spirito della mente vostra; e quell' altra: nella giustizia e nella santità della verità; dichiarano, quale sia la parte dell' uomo rinnovellata, cioè la suprema, col rinnovellarsi della quale nasce la nuova persona. Le medesime osservazioni si possono fare su quell' altro passo dell' Apostolo ai Colossesi: « Non vogliate mentire fra voi, spogliandovi l' uomo vecchio cogli atti suoi e vestendo il nuovo, quello che si rinnova nel conoscimento, secondo l' imagine di lui che lo creò« (1). » Dove dicendo, che si rinnova nel conoscimento , dimostra che questa rinnovazione si fa nella parte suprema, e dicendo che lo creò , dimostra che non è una mutazione che solamente succeda, ma l' aggiunta di cosa nuova; e dicendo secondo l' imagine, dimostra che l' uomo si fa a imagine di Dio per la grazia, cioè per Dio stesso che abita nell' uomo: e convenevolmente si dice, che Dio è simile a sè stesso, quando nessun' altra cosa senza Dio può essere in alcun modo a Dio somigliante. Vedesi che questa maniera di parlare non è a caso, nè solo usata l' una o l' altra volta nelle Scritture, ma ella è propria e costante nei sacri libri e massime nelle lettere di S. Paolo. Egli è coerentemente alla stessa dottrina che l' Apostolo dice, che quando nasce l' uomo nuovo, muore il vecchio e che non si deve il vecchio far rivivere: [...OMISSIS...] . E dice: il corpo del peccato essere distrutto; volendo dire che questo corpo pieno di concupiscenza non ha più quella forza che aveva di regnare colle sue voglie sottomettendosi la volontà, e che però questo corpo, relativamente alla volontà e alla persona, è già come morto, chè nulla più può e nulla conta; come poco appresso dicendo: « Stimatevi essere morti al peccato, e vivi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro. E però non REGNI il peccato nel vostro corpo mortale, sicchè ubbidiate alle sue concupiscenze« (4). » Il qual regnare del peccato è appunto l' influire e muovere la volontà umana. E quindi dà all' uomo, considerato come persona, due esistenze, l' una nella carne e l' altra nello spirito; che è quanto dire l' esistenza della persona priva di grazia e al peccato soggetta, e la persona nuova informata dalla grazia e da lei mossa: « Quando ERAVAMO NELLA CARNE » (ecco le sue parole) «le passioni de' peccati operavano » (ecco i principii operanti) «nelle nostre membra, acciocchè fruttificassero alla morte. Ora poi siamo sciolti dalla legge della morte » (cioè della carne destinata alla morte), «nella quale eravamo legati, dimodochè serviamo nella novità dello spirito e non nella vetustà della lettera« (5). » Egli è vero che anche nell' uomo nuovo rimane la concupiscenza, giacchè non si risana la parte inferiore ma solo la suprema, e però avviene che la carne disubbidisca allo spirito. E S. Paolo ciò non dissimula: ma dice tuttavia francamente, che non vi ha nulla di condannevole in quelli che hanno l' esistenza in Cristo (1); intendendo col pronome quelli le loro persone; giacchè le nature loro non sono ancora esenti dalla corruzione che le danna alla morte. E ciò perchè non sono più essi (la persona) quelli che operano i moti della concupiscenza, ma è il guasto che nella loro natura rimane, cioè un principio inferiore al supremo, che appartiene bensì alla natura, ma non alla persona: « Or poi già non IO opero ciò, ma quel peccato che abita in me« (2). » Nelle quali parole il pronome personale IO significa la persona, e il peccato che abita in me è una frase che equivale a quest' altra: quel peccato che sebbene sia cessato formalmente, pure materialmente preso abita ancora nella mia natura. E quell' in me è da intendersi detto non in modo che significhi propriamente la persona, ma la natura; conciossiacchè nel discorso comune tutto ciò che è della natura si suole attribuire alla persona, per la cognazione e strettezza che ha quella con questa, e perchè la persona è nata a reggere la natura e questa è fatta per uso di quella. E perchè non nascesse equivoco S. Paolo diede egli stesso l' interpretazione di questo ME usato per natura, dicendo: « Io so che non abita IN ME, cioè NELLA MIA CARNE alcun bene« (3). » Colla quale aggiunta, cioè nella mia carne , dimostra di avere sentito il bisogno di spiegare quell' uso del pronome ME, acciocchè qui non si prenda a significare la persona, ma la parte inferiore della natura umana. E da questi due usi del pronome IO, coll' uno de' quali si prende a indicare in senso proprio e rigoroso la persona, coll' altro per figura di sinˆddoche a indicare ciò che è annesso alla persona e ne costituisce la natura, cioè la parte inferiore dell' uomo, nasce quel che introduce S. Paolo tosto appresso, il qual ragiona così:« Perocchè a ME (persona) sta congiunto il volere, ma non trovo come condurre l' opera voluta al suo intero effetto (per difetto delle potenze che dovrebbero ubbidire alla volontà e nol fanno). Conciossiachè non faccio (io persona) quel bene che voglio; ma faccio (cioè la mia natura fa), quel male che IO (persona) non voglio«. E da ciò appunto che fa quel che non vuole, deduce che non è la sua persona che il fa, ma la sua natura, argomentando così:« Ma se io faccio quel che non voglio, dunque non sono già IO (persona) che il faccio, ma quel peccato che abita in me. Trovo adunque una legge che a ME (persona) che vuol fare il bene, stia il male congiunto: poichè IO (persona) trovo il mio diletto nella legge di Dio SECONDO L' UOMO INTERIORE (cioè la persona nuova rigenerata), e poi veggo un' altra legge della mia mente e captiva ME nella legge del peccato che è nelle mie membra«. Dove egli dice che la legge delle membra captiva e assuddita lui, volendo dire che tiene legata e impedita la sua volontà superiore e personale, perchè al buon volere non corrisponde l' ubbidienza pronta e fedele delle membra o inferiori potenze. Conciossiacchè il debito ordine sarebbe che la natura ubbidisse alla persona, il qual ordine venne già espresso fin da principio nelle divine Scritture in quelle parole di Dio a Caino: « Sotto di TE » (pronome personale che viene a suonare quanto sotto la tua persona) «sarà il tuo appetito« (1), » che è la parte inferiore della natura umana. Quello adunque che i segni, istituiti da Dio al perfezionamento dell' uomo peccatore, mirano a fare, si è di guadagnare la persona riformandola e rigenerandola; e non badano a riformare così tosto il corpo, il quale verrà poi rigenerato a suo tempo, cioè nella risurrezione dei corpi, tirandolsi dietro l' anima in grazia, nella quale abita lo Spirito Santo (2). Il perchè S. Agostino egregiamente disse: « Il regno de' cieli non cerca altro prezzo che TE stesso » (cioè la tua persona e non il resto della tua natura). «Tanto egli vale quanto sei tu. Dà TE e avrai quello« (3). » E nei pii libri viene inculcato di dare SE stesso a Dio. Si possono vedere le belle cose che ha il celebre libro della Imitazione di Cristo in conformità di questo sentimento. In un luogo egli fa parlare Cristo così al discepolo suo: [...OMISSIS...] . Concludiamo adunque, che il secondo carattere de' segni dati al perfezionamento dell' uomo peccatore e la differenza da quelli dati all' uomo innocente, si è il modo onde i primi santificano l' uomo, il quale consiste« nell' indurre la santità nella persona umana per via di sensazioni corporee, rinnovellando così la persona, senza però rinnovellare al tempo stesso il corpo che a essa è congiunto«. Da ciò che abbiamo detto nei due capitoli precedenti consegue, che quei segni sensibili, i quali sono deputati alla ristorazione dell' uomo peccatore, devono essere una cerimonia religiosa determinata e istituita peculiarmente da Dio medesimo, autore della santificazione. E questo è il terzo carattere di quei segni che possono avere valore da santificare l' uomo dopo il peccato; è la terza differenza che li separa dai segni con cui il Creatore perfezionava a principio gli uomini innocenti. Perocchè i segni nell' età innocente dell' uomo non era bisogno che avessero tanta virtù da infondere nell' uomo la grazia stessa e la santità, ma solo da disporlo e dargli occasione da doversi conservare questi beni e accrescerlisi (1). Quando i nuovi segni dovevano ricevere da Dio medesimo una efficacia straordinaria, al tutto straniera alla loro natura, colla quale operando nel soggetto umano lo sollevassero fino alla congiunzione con Dio medesimo. E all' opposto mediante il peccato tutta la natura era stata privata di ogni soprannaturale virtù, e di più nelle cose dell' universo era già entrata la corruzione. Ora tutti gli oggetti naturali che compongono l' universo non possono produrre nell' uomo che effetti naturali per sè medesimi, e anche questi in gran parte funesti pel guasto entrato in essi. Tutto al più possono valere a significare o simboleggiare cose spirituali, ma non a produrle: e anche quelle significazioni sarebbero sterili per l' uomo, che privo di lume soprannaturale non le intenderebbe. Volendo dunque Iddio con dei segni sensibili significare la grazia e la salvazione che egli intendeva di dare all' uomo peccatore, per modo che l' uomo intendesse in que' segni l' ordine sublime di detta grazia e di detta salvazione, e volendo altresì che i medesimi segni avessero efficacia e virtù di produrre o almeno di occasionare, o per sè o per la fede loro annessa, le cose che significavano; era al tutto necessario che egli manifestasse la sua volontà e che determinasse quali fra tutti gli oggetti sensibili, atti a significare, egli trascegliesse all' ufficio di detti segni, comunicando loro quella virtù e quel valore. Questo era quanto dire, che Dio [doveva] istituire questi segni e dichiarargli agli uomini: e da quel punto che si fossero da Dio istituiti e dichiarati, quei segni diventarono una religiosa cerimonia, e sono questi i segni a cui, per contraddistinguerli da tutti gli altri, si applicò peculiarmente il nome di Sacramenti. Egli è manifesto che i Sacramenti per tal modo istituiti diventano, oltre la cagione o l' occasione della salute, altresì un culto che a Dio si presta e una cotale consacrazione dell' uomo all' onore e culto divino (2). Egli è dunque il terzo carattere, dei segni dati da Dio all' uomo pel suo perfezionamento,« l' essere Sacramenti, ossia cerimonie religiose, che significano e producono od occasionano la salute dell' uomo e il suo consacramento al culto divino«. Ma questi segni istituiti espressamente da Dio in cerimonie religiose a lui grate, con che acquistavano la natura di Sacramenti, non impedivano però che la divina Provvidenza usasse ancora molti altri segni o simboli naturali a istruire l' uomo, ammonirlo, eccitarlo: sicchè continuarono i segni primitivi, e solo si sopraggiunse la determinazione di alcuni speciali [segni] in cerimonie di culto. Il perchè divideremo i segni, dei quali Iddio si servì in beneficio degli uomini, in due classi, chiamando quelli della prima segni istruttivi , quelli della seconda segni effettivi o Sacramenti. Una natura nemica di Dio, fonte della esistenza, non può sussistere: e se ella dura, non è per rispetto di lei che il Creatore la mantiene, ma sì in grazia di altra natura di lui amica. Il peccato adunque ha per naturale conseguenza la distruzione di chi pecca. Se gli Angeli dopo il peccato non furono annichilati, fu solamente che essi dovevano servire ai disegni di Dio, ad accrescere la gloria di Cristo e la santità degli eletti, e ad essere un monumento perpetuo della sua giustizia insieme e della sua bontà conservatrice in cospetto a tutte le create intelligenze e a Dio stesso. L' uomo potè essere distrutto senza venire annichilato, perchè l' uomo risulta dalla unione di due elementi, il corpo e l' anima, tolta la quale unione l' uomo non è più, sebbene esistano ancora gli elementi de' quali egli si componeva. Nell' ordine della divina giustizia e della divina bontà fu trovato che una tale distruzione dell' uomo, che non portava annichilamento, ma lasciava soprastare gli elementi, non opponevasi alla massima glorificazione di Dio e santificazione della creatura, presa questa nel suo complesso; e però la natura umana peccatrice fu abbandonata alla sua sorte naturale, cioè alla morte. L' ordine del divino consiglio nella redenzione dell' uomo era appunto quello, che per mezzo della morte si ristorassero tutte le cose rovinate dal peccato. Così davasi corso alla giustizia, e col soddisfarsi pur della giustizia facevasi luogo alla divina misericordia. In tal modo tutto si conciliava, non derogavasi nè all' uno nè all' altro dei due sommi attributi della divina natura, giustizia e bontà, e operavasi in un modo ammirando ciò che dice il Salmo: [...OMISSIS...] . La morte per sè stessa o è una conseguenza naturale della limitazione della creatura, o è un suicidio di essa creatura, o finalmente una giusta vendetta del Creatore. Se vi potesse essere una creatura corruttibile, come l' uomo, nello stato di natura pura, ella sarebbe stata mortale, sebbene non avesse peccato: e in questo rispetto la morte non è che una naturale conseguenza della creatura limitata nelle sue forze e nella sua azione. Se poi si considera che il peccato porta anco fisicamente un' alterazione nella natura umana, capace a produrre in essa o certo ad accelerare la sua distruzione, in questo aspetto la morte si può chiamare un suicidio della creatura. Se poi si riguarda la morte dell' uomo come una cotal punizione del peccato, ella in quest' ordine di giustizia è giusta vendetta del Nume ingiuriato. Ma la morte considerata in qualsivoglia di questi tre aspetti, ella non si presenta ancora menomamente come un mezzo di placare Iddio e di riconquistare la sua misericordia. Acciocchè la morte potesse essere un tratto di giustizia il quale facesse la via alla misericordia, conveniva che ella fosse un sacrificio e un sacrificio grato al Signore. Ora perchè la morte acquistasse la natura di sacrificio era uopo, che chi la sosteneva la pigliasse volontariamente e per amore di giustizia; era uopo insomma che alla morte si aggiungesse l' oblazione e che questa oblazione fosse accettata da Dio . Nessuno degli uomini che ereditavano il peccato di Adamo poteva tanto; nessuno amava tanto la giustizia; nessuno aveva il coraggio di morire per essa, perchè non conosceva, non aveva alcuna esperienza dei beni che stanno al di là della morte: avesse anco saputo e potuto morire per la giustizia, la sua offerta era ancora troppo scarsa a dover poter pagare l' immenso debito della natura umana con Dio, e il suo sacrificio [sarebbe stato] perduto. Non c' era che la morte di Cristo che potesse [esser] valida a tanto officio; era la morte di un innocente che offeriva sè stesso, che dava più che non doveva, un prezzo infinito ed atto a pagare pienamente e con soperchio il debito della umana natura. Così l' Uomo7Dio potè essere sacerdote facendosi vittima. Questo fatto pertanto della incarnazione del Verbo fu il fatto, come abbiamo detto innanzi, che rese possibile la salute dell' uomo peccatore. Del merito della passione dell' Uomo7Dio i Sacramenti scaturirono: essi dunque nascono tutti dal sacrificio e hanno questo intrinseco carattere di portare l' effetto di questo sacrificio in se medesimi. Laonde dice S. Tommaso, che Cristo per la sua passione [...OMISSIS...] . Egli è per questo, che coi Sacramenti della nuova legge si rappresenta e rinnova in imagine la morte di Cristo e però quasi si vede questa sott' occhio operante in essi. Questa dottrina è dell' Apostolo, il quale nella lettera ai Romani la applica al battesimo, mostrando in lui effigiata la passione di Cristo: [...OMISSIS...] . Le quali parole alludono al battesimo che si faceva ordinariamente per immersione della persona nell' acqua, che era figura del seppellire e del risorgere poi, estraendosi dall' acqua la persona. La medesima rappresentazione del sacrificio di Cristo ed anzi rinnovazione è dimostrata nella Eucarestia, della quale dice: [...OMISSIS...] . E degli altri Sacramenti soggiunge il Cardinale Bellarmino, non così noto, ma tuttavia certo è che significano tutte quelle cose almeno implicitamente; perocchè significando tutti la grazia, di conseguente significano altresì il principio e il fine di essa grazia (4). Nè solo i Sacramenti della legge nuova, ma anche quelli dell' antica avevano per così dire l' impronta della distruzione in sè e della morte, come si vede particolarmente in tutti i sacrificii. E però S. Tommaso dice che [...OMISSIS...] . I segni dunque destinati da Dio a dover perfezionare l' uomo dopo il peccato dovevano essere, per così dire, altrettanti atti di quel sacrificio che era richiesto dalla giustizia offesa, e col quale questa veniva placata, e però quasi espressioni della passione di Cristo e di quella morte altresì degli uomini tutti, la quale unita a quella del Redentore prende anch' essa forma e natura di sacrificio accettevole. Ora anche in questo differivano dai segni perfezionatori dell' uomo innocente, al quale non era necessaria alcuna vittima di propiziazione, nè che la umanità fosse colla morte realmente distrutta. Fin qui de' segni destinati a risarcire e riformare l' umanità peccatrice. Ora egli è da por mente a quello che abbiamo di sopra toccato (1), cioè che sebbene fosse necessario, a tenore della legge della divina Provvidenza circa il perfezionamento della creatura umana, che Iddio fornisse l' uomo peccatore di alcuni segni di un' indole particolare, i quali chiamiam Sacramenti, di cui al tempo della innocenza non era bisogno, ciò che anco fece la divina bontà; tuttavia non cessò però punto l' ordine primitivo, col quale Iddio aiutava lo sviluppo dell' umanità, circondandola di segni e per questi rivelandole le verità, di cui ella vieppiù si ammaestrasse: ma l' istituzione de' Sacramenti non fu se non dalla serie dei segni coi quali Iddio parlava all' uomo, un trarne alcuni e questi elevarli a dover essere sacre cerimonie e per grazia speciale aggiunta loro sopra gli altri efficaci. E il torne alcuni pochi a cui aggiunger Dio questa sua virtù era massimamente necessario alla umanità peccatrice; perchè, divisa questa da Dio e con essa la natura, avveniva che tutto ciò che ella operava e tutte le cose, colle quali comunicava immediatamente, erano rimaste puramente naturali, perduto quell' adombramento di soprannaturale e divina forza che involgeva le cose tutte del mondo innocente, quando la divina natura era congiunta e aderente alle sue creature anche in modo grazioso e con effetti soprannaturali, come detto è. Sicchè se all' uomo non fossero rimasti che segni puramente naturali, questi non potevano in modo alcuno aiutarlo a nulla che appartenesse alla sua eterna salute e all' opera della grazia. Continuò dunque l' ordine dei segni primitivi (senonchè resi ad esser puramente naturali), e a questi Iddio ne aggiunse alcuni pochi speciali deputati da lui a dover aiutare l' uomo come religiose cerimonie al suo soprannaturale destino. Quei primi sebbene puramente naturali, tuttavia erano istruttivi appunto perchè significavano: e a tal fine li volgeva la Provvidenza, a rivelare cioè alla mente dell' uomo sempre più le verità salutifere. I Sacramenti all' incontro erano atti di culto, e non avevano a solo fine d' illustrare la mente umana, ma di salvare l' uomo stesso. I segni però, che chiamammo semplicemente istruttivi e che erano il mezzo della divina rivelazione, sebbene di loro natura fossero puramente naturali e ad essi non fosse aderente alcuna virtù dello Spirito Santo, sicchè Iddio l' usava come provvisore e non propriamente come santificatore; tuttavia per indiretto giovavano l' uomo anche quanto allo stato suo soprannaturale. E ciò avveniva quando l' uomo avesse già in virtù della fede ottenuta la riconciliazione con Dio e la grazia divina; conciossiacchè allora cominciavano ad appartenere alla prima di quelle quattro classi di segni che abbiamo distinte (1), cioè a quelli che, sebbene puramente naturali tuttavia dall' uomo in possesso della grazia vengono usati e volti a proprio merito e lume maggiore; conciossiacchè investito l' uomo dalla grazia, tutto in lui può essere da questa vivificato, e però anche quegli effetti che in lui sono prodotti da cagioni naturali. Conviene poi distinguere due tempi, nei quali la divina Provvidenza fece uso coll' uman genere di questi segni istruttivi: il primo da Adamo fino ad Abramo, il secondo dalla vocazione di questo Patriarca in poi. Nel primo tempo Iddio comunicò la rivelazione delle salutifere verità a tutta la umana famiglia: nel secondo tempo alla sola casa di Abramo propagginata per Isacco e Giacobbe. Ragione dell' aver Iddio cessato dal comunicare al corpo della umanità le sue rivelazioni, si fu la corruzione di questa: la quale sviata dietro le sensibili cose, in esse finiva il lume di sua intelligenza, e però non riceveva più con rispetto le comunicazioni di Dio, nè aveva intendimento a capirne i cenni, nè grazia a giovarsene. La distrusse col diluvio, rinnovellandola colla famiglia di Noè: ma i discendenti di questo patriarca moltiplicati perdettero il senno dietro ai diletti delle cose materiali e non rivolsero più l' animo a udire Iddio che pur parlava loro; e perciò Iddio non udito cessò dal loro parlare, e trascelse di tutti un uomo fedele per rivelarsi indi in poi a lui e alla sua stirpe, escludendo le altre generazioni da questa speciale sua cura. E in ciò fare la divina pietà mirava tuttavia al bene universale degli uomini (2). Perocchè il grande scopo della scelta che faceva della stirpe Abramitica era di fare che al mondo non venisse meno chi ricevesse e conservasse il deposito delle verità, a cui conservare diligentemente si esigeva oggimai che fosse deputata una società di persone, la quale ne avesse speciale incombenza e venisse a quest' uopo di speciale provvidenza soccorsa, fino a tanto che il Cristo venuto al mondo colla sua onnipotente virtù riguadagnasse di nuovo l' umanità tutta e la rimettesse a parte delle verità al mondo conservatesi e della pienezza della salute. Conciossiacchè senza l' istituzione di quest' ordine di persone incaricate del ministero di conservare il sacro deposito, questo lasciato in balìa degli uomini, sarebbe in breve tempo perito e ogni luce spentasi sopra la terra. Sicchè come nelle comunanze numerose è necessario stabilire certi ordini e deputare certe persone a speciali ministeri; così nella comunanza delle nazioni la nazione ebraica era quella che Dio deputò a mantenere il magistero delle verità salutifere (1). Questa disposizione benefica della Provvidenza, che mirava alla salute di tutta la terra pur sembrando di restringere la sua cura alla famiglia de' Patriarchi, è ciò che pone in vista S. Paolo nella Lettera ai Romani, ove mostra che la legge non valse a salvare gli ebrei, i quali furono riprovati, e questa riprovazione diede anzi occasione alla salute dei gentili: [...OMISSIS...] . Nè però furono abbandonati gli Ebrei, le reliquie dei quali saranno pure salvate, il qual salvamento ridonderà pure in vantaggio del mondo intero: [...OMISSIS...] . Conciossiacchè è da dire che la nazione ebraica venne coltivata e sviluppata bensì negli iniziamenti dello spirito, e tuttavia fu immatura alla piena luce di Cristo: laddove le genti maturarono prima a ricevere la luce di Cristo, sebbene non fossero atte alla luce minore e preparatoria della legge e della rivelazione iniziatrice alla venuta del Messia. E però dice pure l' Apostolo [...OMISSIS...] . Ora il preciso tempo in cui Dio cominciò a dare a una famiglia particolare i segni istruttivi che prima dava al corpo intero degli uomini, si fu allora che venne istituita la circoncisione e promesso Isacco, o l' anno appresso in cui questi nacque: dopo che erano passati dal diluvio più di quattro secoli e mezzo (4), durante i quali il mondo era tornato a corrompersi. Perocchè prima Iddio chiamò il santo Patriarca Abramo fuori della sua patria, che era Ur città di Caldea e ne uscì venendo col suo padre Thare in Haran dove dimorò alquanto. Spacciato poi del padre, cui sepellì in Haran, fu nuovamente da Dio chiamato, perchè se ne andasse nella Cananea. E di qui cominciano le promesse divine del seme eletto, che avrebbe posseduto quel paese di Canaan. Il nascimento però del figliuolo della promissione era troppo ancora lontano: fu solamente ventiquattro anni di poi che la nascita d' Isacco come prossima si annunzia: e allora si istituisce la circoncisione a suggello che doveva contrassegnare e distinguere da tutte (5) la schiatta prescelta a dover ricevere in deposito le rivelazioni che da quell' ora innanzi Dio avrebbe fatto agli uomini. Fin qui adunque Abramo non aveva fatto per così dire che il noviziato a ciò che doveva poi essere. Ma dopo tant' anni di tal noviziato, toccando quel santo Patriarca già l' anno centesimo, Iddio pose mano a mantenergli il promesso facendogli nascere Isacco che fu circonciso a riprova del patto: dal che comincia, a mio parere, l' istituzione piena di quella stirpe designata a ricevere e conservare le divine comunicazioni. Il perchè anche S. Paolo unisce insieme l' essere il popolo Ebreo destinato a ricevere le comunicazioni divine e l' essere circonciso: [...OMISSIS...] . Ecco qui l' essere gli Ebrei depositari dei divini eloquii fatto un conseguente della circoncisione che Abramo ricevette, come dicemmo, quando gli fu promesso e gli doveva già tosto nascere quell' Isacco la cui discendenza avrebbe posseduta la terra della santità e della fecondità (2). Quale fu poi il tempo preciso nel quale cessò quella serie di segni istruttivi, coi quali Iddio comunicò al seme eletto di Abramo la verità che voleva rivelare agli uomini? Quanto durò lo svolgimento intero di quelle verità che si dovevano a mano a mano consegnare da Dio alla casa eletta de' Patriarchi? Io credo non errare se affermo che il fine delle antiche rivelazioni destinate alla casa di Giacobbe si può porre nell' anno 453 avanti la venuta di Gesù Cristo, o in quel torno, che risponde all' anno del mondo 3551 (3). Egli è in quest' anno che Neemia rinnovella l' alleanza del popolo d' Israello col Signore. Questa nuova alleanza celebrata solennemente per opera di questo grand' uomo era assai manifesta figura della nuova alleanza che doveva farsi pel Cristo, e dimostrava l' alleanza antica già pervenuta al suo termine. Lo stesso veniva significato dal nuovo fuoco sacro riacceso miracolosamente dall' acqua crassa trovata dai Leviti in quel luogo ove era stato nascosto l' antico: la quale acqua, di cui Neemia aveva fatto aspergere le legne e le vittime preparate in sull' altare, si levò in fiamme all' entrare dei raggi del sol nascente, perpetua imagine nelle divine Scritture di Cristo. Il secondo tempio rifabbricatosi e dedicatosi pur or di nuovo, quel tempio che doveva essere più grande del primo, secondo le predizioni dei profeti, non per la mole e ricchezza dell' edificio, ma perchè destinato ad accogliervi il Messia; accennava pure con bella imagine la nuova Chiesa spirituale che già doveva essere fondata dal Redentore, passata e distrutta interamente l' antica. Insomma cadono in quest' epoca tutti i segni, che l' ordine antico è oggimai finito e che non si fa che aspettare l' ordine nuovo a cui preparare quell' antico era rivolto. Non lasciano dubitare di ciò lo circostanze tutte che accompagnano una tal' epoca e che si devono attentamente considerare. Qui finiscono i Profeti, l' ultimo de' quali è Malachia, di cui pure è la profezia del secondo tempio visitato dal Messia, della oblazione monda che si offerirà in tutta la terra, e del dover essere il veniente Messia un fuoco ardente che purifica e monda. Nel tempo medesimo che si chiudono per tal modo le profezie, cominciano le settanta settimane di Daniello, predizione mirabile che appalesa il tempo preciso della venuta dell' aspettato Legislatore, e il cui principio cade appunto nell' anno indicato della nuova alleanza celebrata da Neemia, il 453 avanti il nascimento di Cristo. Seguendo questa legge la serie successiva delle profezie intorno a Cristo, che le anteriori profeteggiano le cose del Cristo più in generale, e le posteriori meglio particolareggiano; doveva quella delle LXX settimane appartenere alle ultime fra tutte le profezie, conciossiacchè nulla restava oggimai a dirsi di più preciso e di più determinato (1). Daniele ebbe questa grande rivelazione in sulla fine della cattività Babilonese: e il fine di questa celebre cattività di settanta anni predetta già da Geremia (2), è appunto una nuova figura della liberazione del mondo che doveva essere fatta pel Messia, e del fine di quell' antico popolo che serviva sotto il peso importabile della legge. Chi bene osserva nelle divine Scritture troverà che questo solenne tipo della schiavitù babilonese e della francagione da essa del popolo eletto è come il costante segno a cui mirano le predizioni precedenti appartenenti all' antico patto; ed egli pare questa grande sciagura del popolo ebraico l' ultimo colpo, col quale la divina Provvidenza avesse decretato di dargli forma e di compire la sua educazione. L' antico patto doveva preparare il nuovo. La dottrina fondamentale del nuovo era di fare conoscere agli uomini e adorare la Trinità delle divine persone: qui parava la missione di Gesù Cristo (3). Ma la Trinità delle persone non poteva essere conosciuta e adorata dagli uomini prima che questi non avessero conosciuta e adorata l' unità della divina sostanza. La dottrina adunque dell' unità di Dio era la preparazione che doveva precedere quella della Trinità. Egli è per questo che tutte le antiche Scritture che riguardano il popolo ebraico, e per parlare ancor più generalmente, tutti i segni istruttivi dati successivamente a questo popolo, tendono costantemente ad abbattere l' idolatria, verso la quale tutta la umanità incredibilmente aggravavasi, e stabilire la cognizione e il culto del solo vero Dio Creatore del cielo e della terra. Qui tendono costantemente le prime e le ultime parole delle antiche carte: qui convergono e parano tutte le linee dell' istoria maravigliosa dell' Ebreo popolo. Ora questo scopo fisso alla educazione del popolo ebreo fu da Dio intieramente ottenuto e compito al tempo in cui Israello tornò dalla schiavitù babilonica, riedificò Gerusalemme, le mura, la piazza e il tempio. La seconda alleanza che celebrò Neemia col popolo, non fu, come la prima, infranta ognora e manomessa col peccato dell' idolatria, ma fu stabile e immune da sì fatta abbominazione, come doveva essere a rappresentare vivamente la perpetua e vera alleanza, che Cristo e il popolo da lui francato, avrebbe stretto con Dio (1). Per ciò nel Profeta Zaccaria è chiamata la nuova Gerusalemme città della verità, cioè fedele: [...OMISSIS...] . E nel tempo stesso che queste cose annunzia Geremia nella Giudea, le medesime cose prediceva Ezechiele in Babilonia a' suoi concaptivi. Questi vide il Signore portato dai Cherubini uscire dal vecchio tempio poco prima che fosse distrutto da Nabucodonosor, e vide lo stesso Signore sui Cherubini rientrare nel tempio di nuovo edificato, colla promessa di sua stabile dimora in quel luogo: [...OMISSIS...] . Veramente l' allontanamento costante dell' idolatria da questo tempo in poi fu tale nel popolo Ebreo, che nè pure le più atroci persecuzioni come fu quella di Antioco Epifane, non poterono più crollare e smovere dal culto dell' unico vero Dio e dall' aspettazione del Messia, che solo restava a recare la pienezza delle rivelazioni. [...OMISSIS...] Il tempo adunque entro cui furono dati da Dio i segni istruttivi alla stirpe d' Israello abbraccia un corso di oltre ai quattordici secoli. Nei quattro primi questa stirpe trovasi ancora nello stato di società familiare. Il Signore la trae dall' Egitto, e al Sinai la costituisce nazione, 405 anni dopo il nascimento d' Isacco. La educazione di questa schiatta, come nazione, dura dieci secoli: i quattro primi colla legge mosaica, confortata dagli avvenimenti; gli altri sei, che cominciano con Davidde, che 443 anni dopo la legge pubblicata sul Sinai è riconosciuto Re dalla tribù di Giuda, acquistano un ampliamento di luce da quanto Dio rivelò a' suoi eletti e che fu scritto nei Salmi, nei libri Sapienzali e in quelli dei Profeti. Può dimandarsi, perchè tardò il Cristo ancor quattro secoli e mezzo, dopo che erano comunicate alla casa di Giacobbe tutte le rivelazioni destinatele, e resa al tutto salda nella dottrina dell' unità di Dio e del suo culto? Non lice agli uomini entrare curiosamente investigando i divini consigli; pure egli par probabile, che fra le molte ragioni a cui poteva riguardare la divina Provvidenza in così facendo, queste due non mancassero: la prima, che non bastava la rivelazione dell' antico patto essersi tutta comunicata, ma conveniva altresì che fosse studiata e meditata e penetrata ben addentro negli animi, e conformate altresì ad essa le operazioni, acciocchè la plebe del Signore riuscisse per essa preparata e matura al ricevimento del Messia: e a un tal lavoro bisognava non poco tempo (3). La seconda [fu] che, come dicevamo, l' elezione del popolo Ebraico, non fu solo a suo vantaggio, ma in servigio degli altri uomini altresì. Il perchè era necessario, che due cose operasse la divina Provvidenza per esso popolo, cioè che a lui terminasse di dare la rivelazione, e che poscia ne facesse brillare il lume dalla Giudea anche all' altre nazioni, acciocchè queste se ne giovassero come di un preparamento che le acconciasse a ben accogliere il sole del Vangelo. E la schiavitù stessa dell' ebraico popolo in Babilonia aveva questi due fini ad un tempo, e di correggere col castigo l' infedeltà e durezza d' Israele, e di spargere presso l' altre genti i divini oracoli, di cui l' israelitico popolo era il depositario. Quasi per intero le dieci tribù rimasero, anche dopo la riedificazione di Gerusalemme, disperse fra le nazioni. I primi che tornarono da Babilonia, uscito il decreto di Ciro, non oltrepassavano il numero di cinquemila, e delle ventiquattro famiglie sacerdotali non fecero ritorno che quattro. E benchè in più tempi poscia troppo più ritornassero, che quei primi, tuttavia rimasero da quel tempo assai Ebrei disseminati per tutto il mondo: e quello che è maraviglioso, tutti costanti nella fede e nel culto del vero Dio, senza che più traboccassero nelle idolatriche superstizioni dei popoli fra cui vivevano. Ora di ciò quei popoli idolatri ricevevano la notizia dell' unità di Dio e della vera religione. Questo consiglio della divina Provvidenza era noto anche ad essi medesimi. [...OMISSIS...] Dopo due secoli e mezzo che colla dispersione degli Ebrei e colle molte relazioni di questi colle nazioni idolatriche si proseguiva quest' opera di far conoscere il vero Dio al mondo tutto (2), Iddio provvide altresì d' un altro mezzo questo suo grande e benefico consiglio, cioè del volgarizzamento delle divine Scritture in greco, lingua comune allora a tutti i popoli colti, fatto dagli interpreti che mandò il Sommo Pontefice Eleazaro a Tolomeo Filadelfo in Alessandria e che si fa cadere l' anno 176 avanti la venuta di Cristo. Così non solo per la viva voce, mezzo proprio delle società familiari, ma finalmente anche per la scrittura, mezzo proprio delle società nazionali, le dottrine rivelate furono aperte e pronte a tutto il mondo, che doveva essere conquista della verità Incarnata. Quindi è, che come il Precursore fu mandato a dare l' ultima mano alla formazione del popolo santo, apparecchiando, come dice il Vangelo, al Signore una plebe perfetta (1); così pure poteva dire Cristo anco per risguardo ai gentili che « le regioni già biancheggiano per la ricolta« (2). » Ora facendoci noi a divisare quelli che abbiamo chiamati segni istruttivi in classi, primieramente due principali generi ci si presentano, quello delle parole e quello delle cose. Ora le parole segnano le idee e le richiamano per una associazione di memoria fra la parola udita e l' idea; e anche per una analogia che passa fra l' ordine delle parole e quello delle idee, come prima fu detto (3). Quindi se una lingua qualunque si parlasse a un uomo che non avesse mai avuto sensazione di sorta alcuna e per ciò stesso non idee fattizie; quest' uomo nè intenderebbe cosa alcuna di quelle voci di cui componesi la lingua parlatagli, nè verrebbe mai a capo d' impararne l' uso per quantunque tempo la udisse. Le sensazioni adunque che dànno le percezioni e quindi le idee prime delle cose sono indispensabili all' uso delle lingue vocali, le quali ricevono da esse il loro valore e uso, o certo la loro possibilità. Or poi se le percezioni sensibili e le idee prime che da esse si hanno, recano questa luce alle lingue vocali, senza la quale queste nulla notizia potrebbero comunicare; molto più era necessario che delle percezioni sensibili accompagnassero i discorsi divini coi quali il Creatore voleva comunicare all' uomo la cognizione di sè e in generale delle cose soprasensibili. Questo vero risulta da ciò che ragionammo di sopra (1) e conviene qui averlo chiaramente presente. Lo sviluppo naturale dell' uomo tiene quest' ordine: che 1. percepisca co' sensi suoi le cose materiali e se ne formi mediante tale percezione le imagini e le idee; 2. quindi che colla lingua possa comunicare le idee ricevute pei sensi, cioè altrui risovvenirle e disporre queste idee variamente, cioè far di esse diverse sezioni (astratti) e varii accoppiamenti (giudizii raziocinii e ragionamenti); 3. nelle imagini e idee delle cose materiali e nei prodotti avuti da queste coll' uso della lingua trovare delle analogie colle cose insensibili e divine; 4. e ciò principalmente mediante la lingua o il discorso che chiama l' attenzione sopra quelle analogie e le fissa in mente e le richiama e moltiplica. Tutto questo ragionamento dimostra che Iddio non poteva ammaestrare gli uomini primitivi nelle cose divine che non cadono sotto i sensi, con delle sole parole vocali (2); ma che conveniva a dar corpo e senso a queste parole, e far che elle non suonassero vanamente agli orecchi umani, ch' esse primieramente significassero oggetti materiali e sensibili, e in secondo luogo, che in questi oggetti fossero emblemi delle cose insensibili per una cotale analogia di esse a quelle, e questo emblema analogico venisse fatto osservare. Ciò posto, le cose materiali si percepiscono da noi primieramente col senso esteriore. In secondo luogo esse ci vengono rappresentate anco dalla imaginazione, essendo il senso già a lei preceduto. Per ciò tutti si riducono finalmente a dover essere percezioni e imagini . Ora due cose possono essere percepite dal senso: 1. i fatti esterni che avvengono; 2. dei segni o cerimonie espressamente istituite acciocchè vengano percepite, e per esse noi veniamo a conoscere quello che esse cerimonie vogliono rappresentare. Queste due specie di segni emblematici appartengono alle percezioni. Anche le imagini possono farci l' ufficio di segni istruttivi emblematici per due modi. Perocchè l' imaginazione può essere scossa e eccitata a ricevere le impressioni: 1. da delle visioni , che così noi le chiameremo, o in sogno o in veglia; 2. ovvero da delle locuzioni metaforiche , da parabole, allegorie e da ogni maniera insomma di traslato che cade nel discorso: il che è ciò che alcuni chiamano parlare enigmatico delle sacre Scritture. Perciò a quattro specie si riducono i segni emblematici istruttivi, cioè 1. fatti o avvenimenti esterni; 2. cerimonie; 3. visioni; 4. lingua enigmatica. E tale doveva essere e fu il sistema de' segni istruttivi coi quali Iddio rivelò agli uomini la serie delle divine verità. Noi ne faremo prima l' enumerazione di alcune delle tre prime specie; e poi diremo alcuna cosa di quelli che appartengono all' ultima, cioè alla lingua enigmatica. Già abbiamo veduto che tutto l' universo materiale fu da Dio imaginato e creato con tale sapienza ch' egli fosse emblema dell' universo spirituale (1). Or quella stessa divina Sapienza e Provvidenza ordinò siffattamente gli avvenimenti o mutazioni che succeder dovevano sì nel mondo esterno come nella società umana, che questi avvenimenti e mutazioni dovessero appunto essere un continuato emblema di quella dottrina religiosa che veniva così di mano in mano agli uomini comunicata: la quale per ciò procedeva sviluppandosi e ingrandendosi di pari passo colla storia dell' umanità. Tutto adunque era rappresentativo in quel primo tempo, cose, persone, fatti. Ed egli sarebbe pur bellissimo e utilissimo lavoro il trar fuori per ordine, secondo una fine critica, tutti quei tanti emblemi coi quali Dio parlò agli uomini. Ma a noi non è conceduto qui di far tanto; non possiamo che darne dei principali un brevissimo cenno. Nel tempo anteriore all' elezione della famiglia dei Patriarchi i principali emblemi che seguitarono ai primi, posti nella prima creazione delle cose e nella prima istituzione dell' uomo innocente, da noi già indicati, furono i seguenti: 1. Il Cherubino colla spada versatile e fiammeggiante posto alla parte orientale dell' Eden, che impedisce la via che reca al legno della vita ai primi uomini scacciati dal luogo delle delizie e della immortalità. Questo tipo fu rinnovellato nella rivelazione data alla famiglia de' Patriarchi coll' essersi stabilita quella porta orientale del tempio di Gerusalemme, che doveva essere sempre chiusa, e per la quale il Profeta Ezechiello vide uscire ed entrare quel misterioso Cherubino quadriforme e fiammante (1): [...OMISSIS...] . L' uno e l' altro di questi tipi rappresentava la porta del cielo (la carità, la grazia), chiusa dopo il peccato, e per la quale Dio solo poteva passare, e non l' uomo senza Dio. Ma l' uomo vi entrava avvolto e rapito dalla divinità, come il Profeta Ezechiello che viene dall' impeto del carro dei Cherubini trasportato dentro quella porta (2). Così Cristo uomo e quelli che sono incorporati in Cristo, sono portati dentro dalla divinità che li circonda e assume seco: gli altri non possono sostenere il fuoco del Cherubino, ma ne rimangon consunti (3). Il terzo tipo di questa porta celeste della santità, chiusa a tutti fuorchè a Dio, fu dato nel tempo della nuova legge nell' utero di Maria, cui per consenso di tutti i Padri e gl' interpreti figuravano i due tipi precedenti; perocchè ivi il solo Dio entrò e ne uscì il Dio uomo. 2. Abele tipo del Messia. 3. I figliuoli di Dio e i figliuoli degli uomini, che colla loro divisione marcavano e rendevano più evidente l' inconciliabilità dei due principii, il bene e il male morale; e come la creatura non si poteva accostare al Creatore senza che egli il primo si accostasse: ciò che ricade all' emblema primo del Paradiso chiuso, secondo quel detto dell' Apostolo che « Iddio abita una luce inaccessibile« (4). » 4. La distinzione degli animali mondi e immondi rappresentò pure la stessa divisione del bene e del male morale, degli uomini buoni e dei cattivi. Questo è un tipo antico. Al tempo poi del popolo eletto fu rinnovato lo stesso tipo colla separazione di questo popolo dalle altre nazioni. E questo secondo tipo era rappresentato da quel primo: perciò gli animali mondi rappresentavano gli Ebrei come Santi (rappresentanti dei Santi); e gli immondi, i Gentili. Tale è la chiara spiegazione di questo tipo che si ha nella visione che ebbe S. Pietro in Ioppe riferita negli Atti apostolici, dove per fare intendere al santo Apostolo di dover predicare il Vangelo e battezzare non meno i Gentili che gli Ebrei, gli è mostrato in sogno il lenzuolo pieno di quadrupedi, di serpenti e di volatili, e gli è detto: « Sorgi, o Pietro, uccidi e mangia« (1). » Nel nuovo Testamento una simile separazione è rappresentata coi tipi degli agnelli e dei capretti, dei pesci buoni e non buoni, del frumento e della zizzania. E qui conviene riflettere in generale, che gli animali sono stati presi per emblema degli uomini, e nei varii costumi di quelli fu espresso e significato il vario costume di questi. Ciò conveniva specialmente agli uomini primitivi nei quali prevaleva la parte animale e non conoscevano sè stessi tanto da astrarre la parte intelligente e riconoscerla per principale e veramente umana. Usavano bensì di questa ma per così dire senza saperlo, perchè senza riflessione; e per la stessa ragione negli animali bruti immaginavano che avvenisse quello che in essi e che i principii di operare fossero uguali e per ciò non operassero senza ragione (2). Questo errore era delle masse, sebbene alcuni pochi si sollevassero talora a conoscere che il cavallo e il mulo non ha intelletto (3). Ora la divina Provvidenza mirava principalmente alla massa degli uomini, e non aveva per iscopo principale di t“rre loro uno o un altro errore materiale, ma di condurli al bene morale. Questo ottenuto, gli errori materiali svanirebbero da sè, perocchè sono i progressi che fa l' uomo nella moralità quelli che il mettono a segno da potere poscia progredire anco intellettivamente. Quest' ordine col quale la divina Provvidenza guida innanzi la perfezione dell' umanità, è l' opposto di quello della filosofia. Questa fa gran caso di qualche errore materiale e perde di mira la perfezione morale. Non solo è ciò ingiusto, anteponendosi il bene minore al maggiore, ma è anche contro natura. Perocchè l' ordine della natura umana esige e chiede di tendere prima a ciò che è immediatamente morale, e allora questa ha prese forze e agio di rettificare con pace e frutto gli errori puramente intellettivi. Conosciuto questo essere l' ordine proprio e legittimo del progresso della perfezione umana, non sarà maraviglia di vedere la divina Provvidenza che, non contrariando punto l' uomo nel credere che fa i bruti simili a sè nell' operare, tolga anzi questi per emblemi co' quali ammaestrarlo: appunto in un modo simile a quello che faceva quel filosofo greco che inventò più tardi le favole (Esopo). Ecco pertanto alcune prescrizioni emblematiche che Dio fece agli uomini de' primi tempi intorno agli animali bruti, acciocchè fossero segno e specchio di ciò che dovevano fare gli uomini fra di loro. Agli uomini usciti dall' arca proibisce di mangiare la carne col sangue: e ciò per rimuoverli dalla ferocia e dal metter le mani nel sangue umano: [...OMISSIS...] . Un altro ammaestramento voleva Iddio dare agli uomini con questo precetto, ed era di inculcargli il rispetto all' anima dell' uomo, e così chiamarli a riflettere alla dignità di quest' anima intelligente e fatta a similitudine di Dio, alla quale l' uomo animalesco non sapeva anco p“r mente. E per far ciò metteva innanzi agli uomini quest' anima come principio della vita animale, giacchè in quest' atto era più facile a quegli antichi poter fissare colla mente quest' anima e riconoscerla per qualche cosa. E conciossiachè la vita animale comincia nel sangue, per ciò s' inculca il rispetto al sangue, appunto come alla sede dell' anima (3). Laonde prosegue a dire Iddio in conferma del precetto di non mangiare carne col sangue: [...OMISSIS...] . Egli vi ha qui un' altra cosa a riflettere. Iddio a Noè uscito dall' arca dà la potestà di ammazzare e di mangiare gli animali: [...OMISSIS...] . Or non esclude dal potersi mangiare se non la carne col sangue. Si manifesta dunque chiaramente che questo rispetto al sangue delle bestie è puramente emblematico, non per sè, ma per ragione del sangue dell' uomo, che solo dicesi fatto a imagine di Dio. Ove si consideri questo vero, che le bestie in questa antica e primitiva scuola che dà Dio agli uomini, sono prese per emblema a significare uomini, verso cui sono i doveri morali, si vedrà come falsamente il Calmet ed altri assai vogliano indurre da siffatti luoghi dei divini libri la conseguenza: che la Scrittura supponga nelle bestie qualche parte d' intelligenza (2). Per altro lo stesso permesso, che Dio dà alla famiglia di Noè dopo il diluvio di ammazzare gli animali, è emblematico. E in quegli animali (di cui si fa pure rispettare emblematicamente il sangue), si ravvisano gli empi condannati da Dio a morte, e però indegni di vivere: tipo rinnovellato nello sterminio, che da Dio fu comandato agli Ebrei, dei Cananei e di que' varii popoli idolatri coi quali ebbe guerra il popol di Dio. E dove si rifletta che la famiglia di Noè rappresentava l' umanità rinnovellata da Cristo, perseguitata e martoriata che dimanda a Dio vendetta del suo sangue, verrà agevolmente alla memoria il Salmo che dice: [...OMISSIS...] . Insomma si viene a significare per quel permesso, che l' uomo non ha diritto alla vita se non per Iddio e per l' imagine che di Dio ne porta in sè stesso; e che l' uomo empio è abbandonato alla morte. Per ciò egli sembra, che a Noè e alla sua famiglia sia stato dato altresì il diritto della pena di morte da infliggersi pel delitto di omicidio, secondo quelle parole: « Chiunque effonderà il sangue umano, il sangue di lui sarà sparso« (4). » Dove si vede che l' imagine di Dio su cui è fatta l' anima umana varrebbe a riparare i buoni dall' essere uccisi, ma non gli uccisori perchè cattivi e da Dio alla propria ventura lasciati. Questo tipo viene illuminato da diverse osservazioni. Alla umanità antidiluviana, tipo dei peccatori, fu diniegato di far vendetta di Caino, di Lamec e degli altri micidiali. Voleva insegnarsi con questo, che Dio solo è il padrone della vita degli uomini; e che per far vendetta dei malvagi, siccome gli uccisori sono, egli non cede il suo diritto di morte agli stessi malvagi: ma incarica di fare questa sua giustizia i buoni, che vengono così a rappresentare la persona di Dio stesso. Conciossiacchè Iddio ha dominio della vita non solo perchè Creatore, ma, rispetto ai peccatori, anche perchè giudice e vindice della giustizia; e se conserva loro la vita, ne è anche per ciò sempre padrone. Or la divina giustizia non si può placare se non colla distruzione del peccatore, e però colla effusione del sangue, sede e simbolo della vita di lui: indi il Signore aveva riserbato a sè il sangue nei sacrifizii, per additare questo suo diritto sovrano di vendetta e di conquista. Il dir poi che egli fa che col sangue effuso nei sacrifizii si sarebbe placato, era un tipo del sangue di Cristo, solo atto a placarlo: [...OMISSIS...] . Che gli uomini attribuissero alle bestie intelligenza, ciò è facile di spiegare coll' ignoranza loro. Ma parlando Iddio, non si può assegnar questa causa al dare che egli fa ragione alle bestie, e convien prendersi ciò per un emblema volto a significare ben altro. Con quest' avvertenza medesima si deve intendere quello stringere che fa Iddio alleanza dopo il diluvio non solo cogli uomini ma colle bestie ancora: [...OMISSIS...] . Che questo parlare sia simbolico e venga a dire: io risparmierò d' ora innanzi tanto quelli che vivono da uomini come quelli che han costume di bestia, pare manifesto (3): massime raffrontando insieme tutti i diversi luoghi della Scrittura che dànno luce a queste maniere di parlare. La Scrittura si spiega da sè stessa. L' Apostolo S. Paolo, a ragion d' esempio, ci dichiara nascondersi una legge simbolica in quella nella quale si proibisce di mettersi la musoliera al bue che tritura, e dice il Santo: « Forse che Iddio si dà cura de' buoi?« (1) » trovando chiarissimo che con quella legge si voleva provvedere di cibo l' operaio evangelico che ha cura delle anime, e che nel bue triturante veniva rappresentato (2). Sarei infinito ove io volessi discendere a divisare il simbolo che si traeva da tutte le specie di animali, e mi rimetto all' opera de' Principii discussi dalla società Ebrea7Clementina, dove si traggono fuori i diversi enimmi che la divina Scrittura toglie dagli animali bruti (3). 5. I giganti, emblema dell' umana superbia e impotenza (4). 6. La famiglia di Noè nell' arca, tipo della Chiesa di Gesù Cristo salvata pel legno della croce (5). 7. Cogli usciti dall' arca uomini e bruti, Dio fa un' alleanza sempiterna. Ella era il tipo di quella alleanza che doveva farsi fra Dio e il popolo nuovo redento da Cristo (1). L' eternità e immobilità del patto con Noè e suoi discendenti non poteva avere altra ragione che questa tipica. Indi è l' efficacia delle parole che usa Dio ad annunziare quest' alleanza. Egli odora la fragranza del nuovo sacrificio che gli offerisce Noè: egli ripete più volte la formola dell' alleanza: [...OMISSIS...] . Pone per segno di questa alleanza l' arco celeste che avrà tale ufficio per tutte le generazioni avvenire (2): [...OMISSIS...] . Certo non vi ha patto sempiterno, secondo i dogmi cristiani, fra Dio e l' umanità se non quello del mediatore Gesù Cristo (4). E quando così si descrive il Figliuol dell' uomo che verrà sulle nubi, le quali sono l' emblema degli Angeli (5), apparisce assai chiaro, che l' arco celeste è un' acconcissima figura del Verbo incarnato che congiunge la terra al cielo. Ora il tipo del nuovo patto, del patto sempiterno venne più volte rinnovellato di poi presso il popolo Ebreo (6). Il Deuteronomio, che significa seconda o nuova legge, il patto rinnovato da Giosuè con Dio dopo entrati gli Ebrei nel possesso della terra promessa, e principalmente l' alleanza rinnovata da Neemia dopo il ritorno dalla schiavitù di Babilonia, come detto è innanzi, sono altrettante figure di una verità così importante, che non era mai abbastanza rammemorata e impressa negli uomini, perchè la fondamentale a cui tutte le altre si riferivano. .. La torre di Babele tipo delle opere dei malvagi che cominciano con grandi e superbe speranze, ma che restano imperfette e confuse. Questa maniera d' istruire gli uomini da Dio tenuta non è semplicemente una nostra opinione: ella è una verità positiva insegnataci dalla stessa Scrittura, la quale a un tempo registra i simboli e li spiega, mette innanzi gli enimmi e ci dice che sono tali, chiamandoci a penetrarne il senso nascosto. Tutta la storia ebraica, secondo l' Apostolo, è una serie di segni e di figure colle quali Iddio venivasi formando e ammaestrando quel popolo (1): e i Padri della Chiesa sono così uniformi in questa sentenza, sicchè ella si può dire a tutta ragione essere dottrina cattolica. Iddio scelse dal genere umano l' individuo Abramo: a questo suo eletto fece una famiglia in Isacco: questa famiglia la cangiò in nazione al monte Sinai, quando le diede la legge e strinse il patto solenne con essa col quale si faceva suo Re (2): questa nazione fu cangiata nella umanità tutta mediante il Messia. Il titolo di Dio di Abramo, d' Isacco e di Giacobbe che prese, è un titolo che esprime un Dio adorato da degli individui (3). Quando egli è per trarne i discendenti dall' Egitto, assume il titolo di Dio degli Ebrei, denominazione di un Dio nazionale, cioè coltivato da una nazione (4). Il Messia all' incontro si chiama Dio di tutta la terra (1). Quel tempo che passò dalla morte di Giacobbe in Egitto (2) fino al tempo della liberazione, è un anello di mezzo fra lo stato di società domestica e quello di società nazionale; e propriamente si può dire una continuazione della società familiare che si prepara a divenir nazione. Iddio si acconciò alla limitazione umana, e i segni istruttivi emblematici che diede al suo popolo furono corrispondenti a questi diversi stati nei quali la riflessione di lui e particolarmente la facoltà di astrarre si andava in lui sviluppando e perfezionando (3). 1. L' abbandono della propria casa . - L' abbandono comandato ad Abramo della propria casa e della patria era un simbolo del distacco spirituale dalle cose terrene, condizione necessaria della virtù soprannaturale. Egli spicca questo simbolo nella efficacia delle parole che usa Iddio per separarlo dagli altri uomini: [...OMISSIS...] . Questa separazione influiva anco allo sviluppo delle naturali facoltà di Abramo: conduceva la mente di questo Patriarca a formare una grande astrazione, a metter da una parte Iddio, la fede alla sua parola, la virtù; dall' altra tutto ciò che più piace al cuore umano, il luogo natale, le abitudini, i parenti, i familiari; e a scegliere fra queste due cose, infra loro partite e contrapposte (5). 2. Il seme promesso . - Il seme promesso ad Abramo era un simbolo del Messia che doveva appagare pienamente la umana natura, nutrendola di virtù e di felicità. 3. La terra promessa . - Venuto Abramo nella Cananea dove l' aveva chiamato Iddio apparendogli (6), promette di dare al seme di lui quella terra, simbolo della Chiesa di Gesù Cristo e del cielo (7). 4. Melchisedecco - e il suo sacrificio di pane e di vino è quel simbolo del Messia che viene spiegato da San Paolo nella lettera agli Ebrei. 5. Il primo patto stretto da Dio con Abramo . - Passò non poco tempo dopo le promesse fatte da Dio ad Abramo, e questo indugio era un' occasione di esercizio alla fede del santo Patriarca e giocava mirabilmente a condurre la sua mente a pensare più spiritualmente, più in grande, venendo ad apprezzare non solo il presente, ma più ancora il futuro. Avvicinandosi però il tempo in cui le promesse dovevano cominciare ad avverarsi, Iddio conforta Abramo nella sua aspettazione, dicendogli: [...OMISSIS...] . Ma il santo Patriarca non sapeva ancora colla sua mente fare astrazione da tutte le cose sensibili e terrene e massime dalla felicità familiare: non poteva concepire una felicità al tutto spirituale, come gli veniva proposta, da trovarsi in Dio solo, anche soprabbondantemente. Perciò come Iddio non gli avesse ancor promesso nulla con avergli promesso sè stesso, soggiunge Abramo: [...OMISSIS...] . Il Signore lo condusse fuori a cielo scoperto e facendogli guardar le stelle, gli disse: « Così sarà il seme tuo«. » E dice la Scrittura, che qui Abramo credette e il creder suo gli fu riputato a giustizia: [...OMISSIS...] . La cerimonia che sacrò questo patto di alleanza si fu da parte di Abramo un sacrificio solenne; e da parte di Dio una fornace fumante e una lampa di fuoco che apparì nella caligine della notte passando fra le vittime divise in due parti, e una orrenda visione che ebbe Abramo caduto in profondo sopore, nella quale gli fu mostrato che egli sarebbe morto in buona vecchiezza e il suo seme peregrino per quattrocento anni, solo dopo i quali doveva divenir possessore di quella terra. Con questi segni Iddio istruiva Abramo, che pur non era tutto la felicità di questa vita e lo sollevava a pensieri più ampii che si stendessero fin oltre il sepolcro, degni di un' anima che sopravvive alla distruzione del corpo. 6. Il patto sempiterno e la circoncisione . - Passarono quindici anni e ad Abramo nasceva la figliuolanza promessa: indugio che sforzava Abramo a sostenersi e a operare vie più con virtù spirituale, staccandosi dalle cose della terra. Quando fu giunto il sant' uomo all' età di novantanove anni, il Signore rinnovò il patto col suo seme, e ciò con parole più alte e magnifiche che non aveva fatto; perocchè allora gli promise che quel patto sarebbe sempiterno (1) tanto con lui che col suo seme; il che supponeva l' immortalità dell' anima, e dimostrava che il patto era nell' ordine delle cose non transitorie, ma che non passano, nell' ordine che riguarda l' uomo nella sua parte immortale. E acciocchè meglio apparisca la diversità delle promesse temporali dalle eterne, dice Iddio ad Abramo di averlo esaudito anche nei suoi prieghi in favore di Ismaele e che gli benedirà anche questo figlio, ma il suo patto sempiterno sarà con solo Isacco (2), chè da questo doveva nascere il Messia. A questa alleanza e protezione dalla parte di Dio doveva rispondere da parte di Abramo la perfezione morale, che Iddio gli intima fino a principio: « Io sono Dio onnipotente: cammina dinanzi a me e sii perfetto« (3). » E segno di questa giustizia morale, che colla fede nella parola di Dio doveva rinunziare e quasi toglier da sè il male della carne venuto per origine, si fu la circoncisione allora appunto data al santo Patriarca. 7. Simboli della Santissima Trinità . - I tre Angeli, fra i quali parla un solo e un solo è adorato da Abramo a cui dànno l' annunzio del prossimo nascimento d' Isacco, sono riconosciuti da' Padri per simbolo della Trinità. Il numero tre è con frequenza ripetuto negli avvenimenti e nei riti (4), appunto perchè gli uomini si assuefacessero a congiungere a questo numero qualche cosa di misterioso e divino, e così si apparecchiassero a ricevere poi il dogma della Santissima Trinità che il Messia doveva chiaramente annunziare al mondo. Gli stessi tre Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe sono emblemi delle tre divine persone. 1. Agar e Sara . - Agar e Sara, l' una serva e l' altra libera, sono tipi della Sinagoga e della Chiesa. E` l' apostolo che ne dà l' interpretazione (1) e accusa d' ignoranza gli Ebrei che non intendessero questo tipo. [...OMISSIS...] Anche in Rebecca si può ravvisare un tipo della Chiesa dei Gentili (3). Lo stesso tipo trovano i Padri nelle due mogli di Giacobbe Lia e Rachele (4). Lo stesso di nuovo nel nascimento di Fares e di Zara, figliuoli gemelli di Tamar; quegli che prima aveva sporto il braccio e che pur nacque dopo, simbolo della Sinagoga; questi che nacque innanzi, della Chiesa che prevalse alla Sinagoga (5). 2. Sacrificio d' Isacco . - Il tipo del sacrificio di Isacco, sì efficace a significare il sacrificio di Cristo, non è solo spiegato nelle divine Scritture, ma è uno di quelli altresì di cui par che dica l' Apostolo che allora stesso furono intesi e conosciuti per tipi quando furono dati. Conciossiacchè dice che per la fede Abramo l' offerse e lo ebbe per una parabola (6). 3. Giuramento colla mano sotto il femore . - Non vi è traccia di questa cerimonia presso altri popoli: e nella Scrittura non si narra usata se non due volte dai due santi Patriarchi Abramo e Giacobbe (7). Egli è manifesto che vi si nasconde un mistero, spiegato da S. Agostino e altri Padri, cioè che con quel segno si voleva additare il Cristo che doveva uscire dai lombi di quei Patriarchi, pel qual Cristo si faceva il giuramento (.). 4. Giacobbe e Esaù . - Questi due figliuoli furono un tipo dei predestinati e dei presciti, spiegatoci dall' Apostolo (1). Giacobbe uomo semplice rappresenta il giusto del Vangelo che coll' umiltà e colla mansuetudine giunge a soverchiare gli uomini feroci: e però è tipo principale di Gesù Cristo. Le pelli caprine di cui egli si copre per ottenere la benedizione paterna, sono un tipo, secondo S. Agostino, dei peccati degli uomini di cui apparve Gesù caricato (2). 5. La scala di Giacobbe . - Questa era un bellissimo emblema del mediatore che congiunger doveva il cielo colla terra e che doveva discendere da Giacobbe. Gli angeli che ascendevano e discendevano possono significare le anime sante che per Cristo ascendono in cielo, e le grazie che di colassù i ministri di Dio ci riportano. 6. Lotta coll' angelo . - Giacobbe, che lotta coll' angelo e rimane vincitore e solo ratratto il nervo del femore, è un tipo di Cristo che pugna col suo Padre sdegnato contro l' uman genere peccatore, e disarma la sua giustizia sol col sofferire la morte nella sua umanità, che è rappresentata nel femore di Giacobbe: di che acquista il nome di gran principe, che è il significato della parola Israele. 7. Giuseppe venduto . - Questo tipo di Gesù Cristo è mirabilmente dichiarato da tutti i Padri ed interpreti. .. Schiavitù di Egitto e liberazione . - La schiavitù del popolo Ebreo sotto i Re Egiziani è il tipo della schiavitù del demonio da cui ci libera Gesù Cristo figurato in Mosè. Già ho accennato come il Mar Rosso indica, per testimonio di S. Paolo, le acque battesimali tinte della virtù del sangue di Cristo. 9. Pasqua . 1. Peregrinazione pel deserto . - L' uomo, dopo liberato dal peccato per Cristo colle acque del battesimo, si mette per questa vita piena di tentazioni e di pericoli viaggiando alla patria del cielo. Il viaggio del popolo di Dio che fa pel deserto dopo passato il Mar Rosso, era il tipo di tutto ciò. Non c' è avvenimento in questo mirabile peregrinaggio che non sia un emblema o segno istruttivo, come insegna S. Paolo. 2. Legge morale . - Iddio fu Re di questo popolo, la cui forma di governo da Giuseppe Ebreo fu chiamata acconciamente Teocrazia (1). Il Signore pubblicò una triplice legge, cioè morale, giudiciale e cerimoniale (2): e in tutte queste tre parti della legge ebraica si trovano moltissimi precetti emblematici, anche fra le stesse leggi morali. Eccone alcuni (3): a ) Il Sabbato in cui ogni uomo si doveva astenere dalle opere servili, rappresentava la libertà e la pace dei figliuoli di Dio, cui pienamente goderebbero nella requie eterna. Questo è uno dei primissimi emblemi, giacchè si trova nella narrazione della creazione fatta da Dio, il quale, riposatosi dopo creato il mondo, è modello ai giusti che, dopo le fatiche sostenute a conseguir la virtù, vi riposano, fatti simili a Dio (4). b ) La legge, comandata di portarsi scritta sul braccio e innanzi la fronte, indicava come essa doveva dirigere le azioni e i pensieri nostri. Lo scriversi poi sopra la soglia delle porte delle case mostrava, il non doversi vergognar punto l' Israelita di lei; ma pregiarla come il più caro ornamento (5). c ) Molte cose, come fu accennato innanzi, furono prescritte verso gli animali, a emblema di ciò che doveva farsi verso gli uomini. Si proibisce di cuocere il capretto nel latte della sua madre (6); di non pigliare i pulcini mentre sono ancora nel nido (7); di non uccidere la pecora cogli agnellini; di non legare la bocca al bue che tritura (.); di non mutilare gli animali (9): coi quali precetti si comanda di rispettare le affezioni naturali; di coltivare l' umanità, la dolcezza, la gratitudine, e la consideratezza in tutto ciò che si fa. d ) E` legge di non vestir vestimento contessuto di lana insieme e di lino; di non seminare la vigna di due specie di sementi (1). Il decreto è emblematico, e dimostra la schiettezza e semplicità che deve usare l' Israelita nelle sue parole e nell' operare. e ) Non arerai col bue accoppiato insieme coll' asino (2). S. Paolo medesimo ci spiega l' emblema di questa legge dicendo ai Corinti: [...OMISSIS...] . Torna a un medesimo lo spiegarla coi santi Basilio e Agostino (4) degli operai evangelici, de' quali non si deve congiungere nella vigna del Signore un sapiente con un insipiente. Dell' una e dell' altra interpretazione la sostanza è, che non si deve mescolare il sacro e il profano e evitare la compagnia dei malvagi. f ) La donna non vestirà veste di uomo, nè l' uomo userà veste di donna (5). Che qui si nasconda un simbolo si scuopre dal dirsi, che è abbominevole innanzi al Signore chi fa tali cose. Le quali forti parole appalesano, che si intende coprirsi sotto quella legge un più grave delitto che non il vestire vestimento di altro sesso, a rendere odioso ed abbominato il quale delitto mira quella terribile dichiarazione. g ) Colla proibizione di far sì che animali di diverso genere non fossero accoppiati insieme per la generazione, emblematicamente si condannano i vizii contro natura (6). Finalmente i Padri della Chiesa dicono in generale che tutti i precetti della legge mosaica significavano la giustizia di Cristo, a cui disponevano altresì gli uomini (7). 3. Legge cerimoniale . - E` dottrina dell' Apostolo che la legge cerimoniale fosse emblematica. Basti recar qui un solo luogo delle sue Epistole. Ai Colossesi egli scriveva: [...OMISSIS...] . Egli non sarebbe bisogno recare tante prove di questa verità di cui tratta tutto il presente libro, se degli eruditi, o più veramente grammatici de' nostri tempi, non mostrassero un' avversione incredibile a trovare emblemi e figure negli avvenimenti registrati nelle Scritture e nelle ebraiche leggi. Io credo che costoro si mostrano assai lontani dal conoscere lo stato intellettuale e il genio degli antichi popoli che nell' Oriente tuttora si conserva; e dall' aver fede in quella divina Provvidenza che, regolando le cose tutte con materno affetto, alla condizione degli uomini cui voleva istruire e abbonire si accomodava. Ma non è mio intendimento di entrare con cotestoro in una lotta erudita (la quale però non temerei, attesa la bontà della causa e gl' immensi monumenti a mio favore che gli studii critici, fatti modernamente intorno alle antichità e il genio di tutti i popoli, mi somministerebbero). Mia intenzione e fine di queste carte è solo di esporre la dottrina della Chiesa cattolica: e credo un fatto innegabile questo, che in tutti i secoli, massime i più antichi, i Padri e scrittori della Chiesa con grande unanimità riconoscono le antiche Scritture essere tutte piene de' segni istruttivi emblematici , di cui parliamo. A suggellare un tal fatto sostenga il lettore che io aggiunga un testimonio di somma autorità nella Chiesa quale è l' Aquinate, che come è noto raccolse il succo di tutta la tradizione e la midolla per così dire della dottrina cattolica sparsa negli innumerabili monumenti dell' antichità. Così adunque epiloga il grand' uomo la dottrina tradizionale della Chiesa intorno alle figure contenute nella legge cerimoniale di Mosè e alla natura di queste figure paragonate con quelle che si trovano nella legge nuova. [...OMISSIS...] Da queste ultime parole si vede il filosofo che parla. Egli è lo stato intellettivo dell' umanità nei diversi tempi che si deve meditare e dal quale solo si può conoscere quale maniera di insegnamento fosse acconcia nei diversi periodi della vita del genere umano; e massime dal diverso grado di sviluppo che venne conseguendo negli uomini la facoltà di astrarre. Il santo Dottore prosegue dunque a determinare due stati della cognizione umana così: [...OMISSIS...] . Fin qui l' Aquinate. Venendo poi a divisare le varie parti della legge cerimoniale, ella si compone di due parti cioè di segni istruttivi emblematici (3), e di Sacramenti . Di questi secondi ragioneremo in appresso: ora il nostro discorso non si volge che intorno ai primi. I segni istruttivi emblematici contenuti nella legge sono di tre specie, vale a dire: 1. i sacrificii ; 2. le cose sacre , come sarebbero il tempio, i vasi sacri, le vesti sacerdotali; e 3. le osservanze . I primi formano il culto dovuto a Dio, le ultime determinano la conversazione e la vita dell' uomo, e le seconde sono strumenti e mezzi che servono tanto al culto come alla vita. Diremo qualche cosa di tutte tre queste maniere di segni istruttivi emblematici. Giusta la dottrina del Cristianesimo due sono le vite dell' uomo, la presente e l' eterna: nella presente l' uomo è imperfetto e si perfeziona nell' eterna. Ma l' una è simile all' altra, perciocchè quelle stesse cose che quaggiù credute per fede formano la santità, colassù vedute nel proprio loro essere formano la gloria. Sicchè ciò che è emblema della vita santa deve essere per sua natura anco emblema della gloriosa. Dell' una poi e dell' altra vita il modello è Cristo, nel quale è espressa la perfezione delle due vite. Non deve adunque far maraviglia se gli antichi emblemi esprimessero, secondo i Padri, tutte due queste cose a un tempo, conciossiacchè non poteva essere diversamente, giacchè se aver dovevano similitudine con una di quelle cose, per la ragione stessa dovevano averla colle correlative (1). Laonde anche i sacrifici ebraici sono a un tempo figure della santità della vita e figure della celeste gloria e figure di Cristo che quelle due vite in un modo perfetto ebbe in sè medesimo. Gli animali immolati a Dio sono emblema degli uomini che devono essere tanto in questa vita che nella futura a Dio dedicati con intero e perenne sacrificio: particolarmente poi rappresentano tutti il sacrificio dell' eterno Sacerdote Gesù Cristo. Di tre specie di sacrificii erano nell' antica legge, l' olocausto, il sacrificio per lo peccato, e il sacrificio pacifico. Nell' olocausto, dice l' Angelico, si bruciava tutto per significare che come tutto l' animale risoluto in vapore si alzava in alto, così tutto l' uomo e le cose sue erano soggette al dominio di Dio ed a lui da offerirsi. Nel sacrificio per lo peccato una parte della vittima si bruciava, e un' altra cadeva in uso dei Sacerdoti; e ciò a significare che l' espiazione dei peccati si faceva da Dio pel ministero dei Sacerdoti. Nell' ostia pacifica che si offeriva, o in rendimento di grazie, pei beneficii ricevuti, o per ottenerne di nuovi, una parte si bruciava in onore di Dio, un' altra cadeva in uso de' Sacerdoti, e una terza in uso degli offerenti: e ciò a significare che la salute dell' uomo procede da Dio secondo la direzione de' suoi ministri e colla cooperazione degli stessi uomini che si salvano. I primogeniti dovevano essere tutti offerti al Signore in segno della sua signoria tanto come Creatore, sì come per la qualità di vendicatore dei peccati. Ma gli animali immondi dovevano essere riscattati con certo prezzo e i mondi dovevano essere immolati senza riscatto. E ciò a significare che a Dio non è grato se non il sacrificio di cose monde. Or poi il primogenito dell' uomo riscattavasi collo stesso prezzo onde si riscattava l' asino, animale immondo, che era di cinque sicli: efficace modo di significare la immondezza dall' uomo contratta col peccato originale, e la necessità del nascere un giusto il quale potesse essere sacrificato in odore di accettevole sacrificio; il quale non poteva essere che Cristo. Tutto era figurativo negli istrumenti e utensili delle sacre funzioni del popolo Ebreo. Ecco alcune di queste figure. a ) Il tabernacolo è in piccolo il tempio: e l' uno e l' altro rappresentavano la Chiesa, o certo il corpo dell' umanità nelle sue relazioni con Dio. E` l' Apostolo S. Paolo che chiama Cristo « il ministro della santità e del vero tabernacolo cui ha formato il Signore e non l' uomo« (1). » L' antico tabernacolo adunque non era il vero, ma una figura del vero. Questo vero tabernacolo non è terreno ma celeste, cioè tutto spirituale (2): non si tratta di un luogo santo materiale ma della santità stessa, dell' essenza della santità. Perciò continua a dire: [...OMISSIS...] . Cristo adunque era quel Sacerdote che offeriva un dono celeste, un sacrificio spirituale: laddove i discendenti di Aronne non offerivano che doni terreni ed erano simboli, secondo l' Apostolo, dello spiritual sacrificio (3). L' entrare che faceva una sola volta all' anno il solo sommo Sacerdote nel santuario, secondo l' Apostolo, era il tipo dello entrare che doveva far Cristo in cielo una sola volta per sempre, pel sacrificio della sua morte: un solo sacrificio, la sua morte; un solo gran Sacerdote in cielo vivente in perpetuo. E si osservi che lo stesso sacrificio eucaristico è più veramente celeste che terreno, poichè la vittima è ivi nascosta agli occhi terreni e non si parte dal cielo; sicchè tanto la vittima quanto il Sacerdote anche nella Eucaristica è veramente in ciel; e in questo gran rito può dirsi veramente che è il cielo che comunica colla terra. Aperto poi il cielo per Cristo, è tolto quel divieto che non entrasse che il solo Sacerdote in quel verace Santuario: e perciò l' antico rito è abolito perchè oggimai a tutti è aperto l' adito nel Santuario (1): [...OMISSIS...] . b ) I monti santi erano due, il Sion ed il Moria. Il monte di Sion, sopra il quale era edificato il palagio di Davidde, figura del Cristo, rappresentava la giustizia nella quale è fondata la Chiesa. Basta confrontare fra loro i varii luoghi della Scrittura per accertarsene. Giacchè in essi or si dice che Gerusalemme ha i suoi fondamenti sopra Sionne, come nel Salmo LXXXVI, 1: [...OMISSIS...] . E or che è fondata nella giustizia, come nel profeta Isaia che della nuova Gerusalemme dice con parole proprie e non enigmatiche: « Tu sarai fondata nella giustizia« (3). » Dai quali due luoghi confrontati insieme si vede che i monti santi e la giustizia sono sinonimi significando la stessa cosa, quelli in enigma e questa fuor di ogni velo (4). I Salmi esprimono la stessa cosa non in forma di enigma solamente, ma anche di espressa similitudine, là dove dicono: « La tua giustizia è come i monti di Dio« (5). » Egli è a questo fondamento solidissimo che attribuiscono le Scritture Sante l' immobile fermezza della casa del Signore. Cristo dice colla stessa maniera di parlare, che la sua Chiesa non può essere scossa dall' inferno, perchè fondata sopra la pietra (1) e i Salmi dicono che egli « prepara i monti della sua potenza (2). » Per questo ancora Davidde e in lui Gesù Cristo disse [...OMISSIS...] . c ) In generale il Re del popolo di Dio era l' emblema del vero Re del popolo eletto, Gesù Cristo. Per ciò era stato ordinato nel Deuteronomio, che questo Re dopo che sarà assiso nel solio del suo regno si trascriverà il Deuteronomio di questa legge in un volume, ricevendone l' esemplare dai Sacerdoti della tribù di Levi (4). I Re di Giuda seduti sopra una cattedra di legno nell' atrio principale del tempio (5) leggevano nell' anno sabbatico a tutto il popolo la legge nuova, ossia il Deuteronomio: e così leggiamo che faceva il santo Re Giosia (6). d ) Anche il monte Moria su cui era edificato il tempio, era uno de' monti santi. I quali erano due, [come due] sono i principii della giustizia (7) e della legge, cioè la ragione e la rivelazione, la natura e la grazia, la giustizia ideale e la giustizia reale: e due sono parimente gli oggetti della giustizia, cioè Iddio e la creatura ragionevole; inde i due precetti della carità. e ) La giustizia ideale non eccede l' ordine delle idee, ma la giustizia reale appartiene all' ordine delle cose: questa tocca il sentimento, quella la sola norma dell' operare: questa seconda è il lume, e quella è la forza di operare secondo questo lume. Appartengono queste due cose ai due modi dell' essere, l' uno ideale e l' altro reale. Queste due giustizie, se così mi lice chiamarle, sono egualmente necessarie all' uomo, perchè l' uomo ha bisogno di un lume per conoscere i suoi doveri e di una attività che il faccia capace di eseguirli. Que' due santi monti, su l' uno de' quali era la casa del Re che comunica al popolo la scienza della legge, sull' altro la casa di Dio che comunica la grazia la quale muove la volontà, sono gli emblemi delle due parti della giustizia di cui parliamo. Poichè questi sono i due perni di tutto l' universo morale, non è maraviglia che l' emblema di essi sia ripetuto sì di frequente nelle divine Scritture. Già l' abbiamo trovato al principio delle cose in quelle due piante della vita e della scienza del bene e del male (1) locate nel mezzo del paradiso. Entro il tabernacolo e il tempio avevaci lo stesso emblema, e questo era ripetuto nel sancta e nel sancta sanctorum . Perocchè nel sancta vi aveva il candelabro, simbolo della luce che illumina l' intendimento, e appartiene alla scienza, e i pani della proposizione, simbolo della vita e della forza che avvalora la volontà, ciò che appartiene alla grazia. Medesimamente nel sancta sanctorum v' avevano le tavole della legge o la scienza, ordine ideale: e la manna o cibo vitale, ordine reale. Questi due elementi sono della natura delle cose; e quindi la spiegazione che io do di tali [simboli] non può sembrare in conto alcuno ricercata e speculativa al lettore sensato. E perchè si vegga che questa dottrina appartiene anzi al deposito delle più comuni tradizioni cristiane, io citerò un brano di un pio libro, dove si contiene quanto ho detto. Il celebre autore dell' Imitazione dice appunto così: [...OMISSIS...] . (Ecco le due cose di cui parliamo, l' una appartenente all' essere reale e all' ideale l' altra. Seguita in questo modo toccando come queste due cose si abbiano nella legge nuova). [...OMISSIS...] (Or ecco come accenna dopo di ciò il tipo di queste due cose nella legge antica). [...OMISSIS...] f ) Gerusalemme, o città santa (4), era l' emblema della Chiesa di Cristo per l' unione degli eletti nel mezzo de' quali abita il loro Re. g ) La terra promessa significa il medesimo dal lato dell' abbondanza di tutti i beni di cui godono i Santi che compongono la Chiesa, massime nella consumazione della loro predestinazione in cielo. E però quella è detta la terra che scorre latte e miele, con una espressione che sarebbe soverchia a pigliarsi alla lettera e non trasportandosi al significato traslato che viene sempre indicato da quelle espressioni che nella divina Scrittura mostrano di eccedere prese materialmente. h ) La lunghezza della vita promessa ai mantenitori della legge era simbolo dell' immortalità, e tutti gli altri beni terreni simboleggiavano i celesti (1). i ) Le feste degli Ebrei erano sette temporanee e una continua: perocchè, dice S. Tommaso, era come una continua festa pel popolo di Dio, perocchè ogni giorno la mattina e la sera s' immolava l' agnello. E per quella continua festività del perenne sacrificio si rappresentava la perpetuità della divina beatitudine: come anche più prossimamente il perpetuo sacrificio di Cristo che sempre è vivo a interpellare per noi. Le sette feste erano le seguenti: 1. Il Sabbato, in memoria della creazione, simbolo della vita spacciata dalle cose terrene. 2. La festa della nuova luna, in memoria della conservazione e del governo divino dell' universo: e rappresenta la Chiesa di Gesù Cristo e Maria che a questa presiede. 3. La Pasqua era in memoria della liberazione degli Ebrei dall' Egitto, e rappresentava l' agnello che toglie i peccati del mondo, immolato appunto nell' anniversario dell' agnello mangiato dagli Ebrei in Egitto. 4. La Pentecoste che celebravasi, cinquanta giorni dopo Pasqua, in memoria della legge data al Sinai, e rappresentava lo Spirito Santo che doveva discendere in quel giorno appunto sopra gli Apostoli. 5. La festa delle trombe nel primo giorno del settimo mese, in memoria della liberazione d' Isacco quando Abramo trovò l' ariete intricato colle corna nella siepe: e questa significava la predicazione degli Apostoli. 6. La festa dell' espiazione il decimo dì del settimo mese, alla quale la festa delle trombe era come l' invito, in memoria dell' essersi Iddio placato alle preghiere di Mosè, quando il popolo Ebreo ebbe adorato il vitello d' oro: e rappresenta l' emendazione del popolo Cristiano dai peccati. 7. La scenopegia o festa de' tabernacoli, in memoria della protezione da Dio accordata al popolo nel deserto, l' ottavo dì della quale era la festa della Colletta, in cui mettevasi a parte ciò che il popolo voleva offerire per mantenimento del pubblico culto, e ciò in memoria dell' unione, pace e abbondanza del popolo di Dio nella terra promessa dove erano dopo la peregrinazione: le quali feste figuravano la peregrinazione dei fedeli pel deserto di questo mondo e la loro unione in cielo. a ) Gli animali figuravano i Gentili e nella varietà di questi animali erano significati i varii vizii di cui i Gentili erano macchiati. Il mangiare nelle sacre Scritture è l' emblema del congiungersi intimamente, acquistare la stessa natura e ripor[vi] la propria felicità. Era dunque vietato con quell' osservanza agli Ebrei di addomesticarsi coi Gentili, pigliare la natura ossia i costumi di questi, e riporre la propria felicità non in Dio ma nei beni sensibili nei quali gli incirconcisi (i viziosi) ponevan la loro. L' immondezza legale era figura della immondezza spirituale: pena di tale immondezza era la scomunica, cioè la separazione dal popolo puro e mondo, acciocchè questo non contraesse pure la stessa macchia. b ) Le frutta dei tre primi anni erano immonde; e ciò a significare il peccato originale per il quale le cose tutte di questa terra sono infette sino a tanto che Cristo non le purifichi. Per ciò quel lasciarsi dei primi frutti è detto circoncisione nelle Scritture, poichè come questa richiamava alla mente l' original peccato, così quei frutti de' primi tre anni; dopo il quale venivan quelli del quarto anno che si offerivano al Signore, e così si purificava la pianta che produceva negli anni seguenti frutti puri, di cui potevano raccogliere e mangiare i figliuoli d' Israello. Ecco come è espressa questa legge nel sacro Testo: [...OMISSIS...] . c ) Le fimbrie poste nei quattro angoli del pallio, e le bende color celeste che indi pendevano, erano simboli della purità degli occhi, che dovevano allontanare lo sguardo dalle cose seducenti e impure, e dar opera alla contemplazione delle celesti. Anche questa spiegazione risulta manifesta dalla lettera del sacro Testo: [...OMISSIS...] . d ) Nel Deuteronomio (3) è comandato: [...OMISSIS...] . I Farisei secondo la lettera scrivevano in membrane la legge e le si tenevano legate alle mani e alla fronte le appendevano, acciocchè si muovessero innanzi agli occhi loro. Ma il precetto era simbolico, e per le mani significavasi l' operazione e per gli occhi la contemplazione, volendo dire che la legge si doveva meditare colla mente ed eseguire coll' opera e così averla del continuo presente allo spirito. e ) Molte poi osservanze erano volte a conservare la politezza esteriore de' corpi, la quale significava la mondezza interiore dello spirito. 4. Legge giudiziale o politica . - Anche le leggi politiche degli Ebrei non erano senza figure. S. Tommaso non fa altra distinzione da queste leggi alle cerimoniali, quanto al contenere figure, se non che le cerimoniali osserva essere state istituite direttamente e principalmente a dover essere figure, e « i precetti giudiziali sono figurativi, non in primo luogo e per sè, ma per un cotal conseguente. » [...OMISSIS...] . 5. Sangue delle vittime, nell' alleanza contratta ai piedi del Sinai . - Mosè, che disceso dal Sinai per ratificare l' alleanza innalza i dodici altari e fa sacrificio, usa fra gli altri riti quello di aspergere col sangue delle vittime non solo il popolo ma ancora il libro dell' alleanza. Ciò rappresenta il doppio effetto dell' applicazione del sangue di Cristo che salva i fedeli e rende possente la parola di Dio, ossia la lettera della legge collo Spirito Santo. 6. Tavole della legge spezzate . - Le prime tavole della legge spezzate da Mosè rappresentano l' antica legge che doveva essere abolita e rinnovellata. 7. Serpente di bronzo e altri simboli nel deserto . - Notissima immagine di Gesù Cristo è quella del serpente di bronzo. E così pure il legno che indolcisce le acque amare, la pietra percossa colla verga di Mosè, la manna e altri tali sono troppo noti simboli del Messia o dei fatti della sua vita. .. Uomini grandi del popolo Ebreo . - Tutti gli uomini grandi del popolo Ebreo, come Mosè, Giosuè, Sansone, Davide, Salomone e i Profeti furono parimenti tutte figure di Gesù Cristo. I simboli enumerati fin qui vogliono essere altrettanti esempi che mi valgano a provare la verità generale, che Iddio usò ad ammaestramento degli uomini questo mezzo delle sensibili rappresentazioni. Or raccogliendoci a contemplare quei simboli in massa, non ci sarà difficile il conoscere quali maniere di cognizioni essi miravano a far entrare nelle menti degli uomini. Due specie di cognizioni sono insensibili, cioè le astratte e le negative . Queste ultime hanno bensì per oggetto qualche cosa di sussistente e di reale, ma questo ci è piuttosto indicato al vedere della mente che offerto da percepire (1). Per ciò non potendo questi due oggetti cadere sotto i sensi corporei, ai quali l' uomo è condizionato, hanno bisogno di simboli per essere dall' uomo ricevuti nello spirito e impressivi con qualche efficacia, cioè di rappresentazioni sensibili che abbiano con essi una cotale similitudine, analogia, relazione, come già fu detto. Lumeggiamo via meglio la cosa con qualche esempio: pigliamo l' idea della giustizia, la quale è un' idea astratta che non cade punto sotto i sensi. Gli uomini avevano bisogno di ben fissare un' idea sì importante, di fissarla in modo che l' avessero nel loro spirito netta, spiccata dalle altre cose che a lei non pertengono e possente in modo che prevalesse in forza alle stesse idee delle cose sensibili. Ora gli uomini primitivi erano tutto senso, non percepivano che pel senso, non credevano che al senso, perciocchè non essendo ancora formate in loro le grandi astrazioni, queste nulla operavano sullo spirito. Come adunque poteva il divino istruttore condurre tali uomini a formarsi l' astrazione della giustizia e renderla questa nelle menti lucente, cioè rendere atte le menti a vedere e quindi gustare l' ineffabile bellezza della giustizia, che di sua natura sfugge ai sensi corporei? (2). Questo era il primo problema che si era proposto di sciorre il gran Maestro degli uomini; ed ecco in che modo lo sciolse ed operò dietro ad un tale scioglimento. Egli cominciò dal far andare unite insieme la felicità temporale e la virtù, il vizio e la temporale infelicità, promettendo dei premi temporali a quelli che avessero operato secondo le norme della sua legge, e delle pene temporali a quelli che avesser violati i suoi comandamenti. Or posciachè i beni e i mali sensibili e terreni erano i soli ben conosciuti dagli uomini primitivi, e però i soli che fossero sopra loro efficaci e possenti, col fare Iddio questa congiunzione aveva resa importante la virtù e il vizio anche agli occhi di quegli uomini non atti che a percepire le cose sensibili. Se la virtù e il vizio fossero stati al tutto sciolti dai beni e dai mali temporali, non era possibile agli uomini primitivi di mettere in tali oggetti una grande importanza: tali oggetti non potevano chiamare la loro attenzione, col solo lungo affissare della quale solamente le idee astratte acquistano vita ed efficacia nell' animo degli uomini e prendono per così dire un corpo. Ma con quella congiunzione avvenne, che tutto l' amor degli uomini posto ai beni sensibili e tutto il timore dei mali serviva alla virtù e alla giustizia come al solo mezzo unico di ottenere quei beni desiderati e di schivare quei mali temuti. Furono dunque gli uomini per tal modo condotti a dire seco medesimi: « Or ella deve essere pure la bella cosa questa giustizia se essa sola trae con sè tutta l' abbondanza dei beni desiderabili; egli deve essere pure brutto e deforme il vizio, s' egli arreca tutti i mali temibili, se in odio di lui l' essere supremo castiga così severamente i viziosi«. Qui si vede eccitata l' attenzione umana a riflettere seriamente sulla natura della virtù e del vizio, del giusto e dell' ingiusto: qui si vede gli uomini stimolati di continuo a vigilare e spiare se nelle proprie azioni si intromettesse furtivo quel peccato che li renderebbe subitamente sventurati, e fatti anzi tutti solleciti e industriosi a dover conoscere e introdurre nella maniera del loro vivere quella virtù che aveva possa di far stillare il cielo in ubertose rugiade, e dare la pinguezza alle biade della loro terra e la fertilità ai loro armenti. Con ciò si era fatto il primo passo, ed era un gran passo quello di far conoscere agli uomini tre cose. 1. che la giustizia valeva almeno altrettanto di tutti i beni terreni di cui era madre; 2. che questa giustizia sebbene insensibile meritava pure una grande attenzione e doveva nascondere in sè stessa qualche cosa di misterioso e di sublime; 3. che la natura divina era sommamente amante di questa giustizia, dal momento che distribuiva i beni in ragione di lei. Ma pervenuta la mente umana a questa istruzione, ella già doveva salire più alto, e aveva acquistato il punto di appoggio, per così dire, dal quale spingersi al di là di tutte le cose terrene e pervenire al concetto puro della giustizia. E veramente Iddio con quella congiunzione del bene e del male morale al bene e al male temporale aveva per così dire resa sensibile la giustizia, le aveva aggiunto un corpo, era, se mi lice usare questa similitudine, l' anima tutta spirituale che si vede mediante un corpo da lei animato. Trovato così il modo di far vedere all' uomo sensibile la virtù e la giustizia, questa era già entrata nel pensiero dell' uomo. Or non restava altro se non spogliarla di ciò che non le apparteneva, e così ridurre a perfetta purezza quell' idea che era bensì formata, ma che si trovava ancora grossolana e materiale, quasi come l' oro non appurato nella miniera. La materia dunque su cui esercitare l' estrazione non mancava più: era posto da Dio un gran fatto esterno, sensibile, dal quale era contrassegnata e marcata la giustizia, come da un segno luminoso, che non permetteva che ella non fuggisse più dall' occhio spirituale dell' uomo. Ma Iddio doveva ancora aiutare l' uomo a fare una tale separazione del concetto della giustizia da ogni altro concetto. Questo era il secondo problema dell' educazione umana; ed ecco anche di questo problema, la divina soluzione. Prima Iddio aveva congiunta la giustizia coi beni terreni, e con questo artificio trasse gli uomini a porre la loro attenzione sulla giustizia come cosa di molta importanza. Poscia divise questi beni terreni dalla giustizia e lasciò questa sola, e con tale artificio ridusse nella mente dell' uomo la giustizia isolata, la pura astrazione di giustizia; ciò fu la soluzione del secondo problema. Per tal modo fece Iddio nascere nelle menti umane un' operazione simile a quelle che fanno i chimici quando vogliono isolare qualche sostanza, che prima la congiungono a un' altra che poi separano per la maggiore affinità che ha questa seconda con una terza. Col congiungere la giustizia coi beni temporali Iddio indusse gli uomini a fissare col pensiero questa giustizia. Fissata bene che l' avessero, ella non aveva più bisogno dell' accompagnatura dei beni temporali; e però questi furono staccati da lei ed ella rimastasi sola reggentesi da se stessa come una volta a cui si tolgano di sotto le armature e le centine. Ora tutto il tempo che precedette la venuta di Cristo fu speso principalmente nella prima operazione (1): al nuovo Testamento appartiene la perfezione della seconda. Per questo nell' antico patto sono sempre promessi ai giusti dei beni temporali e nel nuovo è detto che la mercede loro copiosa è nei cieli. Nulladimeno anche nell' antico si cominciò la seconda opera che dal Messia si doveva al tutto perfezionare (2). Per ciò si vede quanti patimenti fossero dati anche in quel tempo a Giobbe e a Tobia, uomini giusti: ma furono però patimenti che ebbero fine con un esito buono anche temporalmente. Vi aveva un amore del luogo natale; e Iddio per ammaestrare Abramo che qui non istà il vero bene, chiama quel Patriarca fuori della Caldea. Vi aveva un istinto alla figliuolanza; e Iddio nol contraria in tutto, ma rende sterili le donne più sante (1), e fa che i genitori debbano spesso aspettare i figliuoli fino all' ultima vecchiaia e ad averli come suo dono, acciocchè lo servano lungamente anche senza mercede temporale, e così imparino a pregiare la giustizia per sè stessa e a riconoscere Iddio come datore de' beni: il che mirava a fissare nelle menti questa idea per sè negativa di Dio (2). Abramo è tentato fino ad esigere da lui il sacrificio di quel figliuolo, natogli in vecchiezza, sul quale era appoggiata tutta la speranza della sua gran discendenza. Il santo uomo messo in quella prova, aveva da una parte l' amore del figlio, dall' altra la giustizia: doveva scegliere, e per scegliere doveva riflettere al valore delle due cose fra cui cadeva la scelta. Preferendo la giustizia al figlio, egli aveva pronunciato seco medesimo questo giudizio:« la giustizia è una cosa tanto preziosa che va anteposta agli stessi figliuoli«. Di più aveva giudicato:« Iddio che mi comanda tal cosa è un essere così grande e buono che mi può riccamente compensare della mia perdita«: ed essendo costretto di dover formare colla sua mente questo giudizio, egli veniva a fissare la potenza, la fedeltà e la bontà di Dio. Così queste idee negative s' imprimevano e scolpivano nella sua mente, condotta dalle circostanze, guidate dal supremo maestro a dover fare somiglianti riflessioni. Non c' è forse un solo bene temporale che Iddio già nell' antico tempo non l' abbia fatto venire in collisione colla giustizia e di cui non abbia richiesto il sacrificio (3). Grande era l' amor naturale della ricchezza temporale e del dominio. Iddio promette tutto ciò ai Patriarchi, promette loro la Cananea, vasto e reale possedimento, se a lui saranno fedeli e ubbidienti. Ecco la prima operazione colla quale Iddio impegnava quegli uomini a porre tutta la loro attenzione nella giustizia. Dopo di ciò egli fa che vivano tutta la loro vita pellegrinando in paese straniero, senza possedere pure un palmo di terra e che si contentino di una parola, di una promessa da eseguirsi solo molto tempo dopo la loro morte, quattrocento anni dalla chiamata di Abramo (1). Quest' era la seconda operazione colla quale li teneva staccati dai beni temporali e faceva loro riflettere che vera ricchezza è solo il timore di Dio, la vita giusta e il fidarsi della sua parola: tutte idee astratte e negative. Ora convien qui porre una osservazione. Le idee astratte possono formarsi nella mente umana coll' aiuto de' simboli naturali. Ma per condurre la mente bambina dell' uomo a fissare e bene imprimersi le idee negative appartenenti alla natura divina e ai suoi attributi, ciò non era egualmente acconcio: e la ragione ne è manifesta a chi considera la differenza fra le idee astratte e le idee negative di Dio. Il principio di ogni astrazione si trova naturalmente nella mente umana, che ha in proprio l' idea dell' essere, l' astrattissima di tutte le idee; e le altre idee astratte non sono che la stessa idea dell' essere limitata, circoscritta, applicata. A ragion d' esempio, l' idea della giustizia è l' essere applicato a giudicare del prezzo delle cose poste in relazione colla volontà che sente di doversi accomodare a tali giudizii. Questi giudizii si fanno in tutte le azioni: e l' astrarli dalle azioni e il ridurli ad una formula generale è il medesimo che formarsi gli astratti del giusto e dell' ingiusto. La materia adunque da cui si toglie l' idea della giustizia è data nell' ordine della natura, come è pur dato il principio dell' astrazione (l' idea dell' essere). Non si richiede adunque altro acciocchè la mente si formi tali idee, se non di rendergliele importanti, sicchè ella dal bisogno che n' ha sia stimolata e mossa a fissarle e formarsele, contemplandole anche con diligente attenzione. Al che la provvidenza usò della industria sopra descritta, di congiungere la giustizia colle prosperità temporali, e poi da queste spartirla. Ma le idee negative di Dio non hanno alcuna materia nell' ordine naturale; hanno solo delle analogie. Non si poteva dunque con dei simboli puramente naturali condurre il pensiero umano a formarsi accurate idee della divinità; chè anzi tali simboli, se fossero stati puramente naturali, l' avrebbero agevolmente ingannato, facendogli credere che Dio fosse simile alle cose naturali. Per condurre adunque il pensiero degli uomini a Dio, dovevasi sollevarlo sopra tutta la natura e fargli intendere, che Dio era un Essere principio di tutte le cose, il quale da queste interamente differiva e la cui natura era tanto grande e levata che da mente umana concepire non si poteva perchè non vi avevano cose dall' uomo percette che rendessero di lui similitudine. Ora a far questo Iddio tolse a divietare agli Ebrei tutte le imagini delle divinità (1), per pericolo appunto di confondere la natura con Dio, attribuendo o le divine proprietà alla natura o a Dio le proprietà naturali; il che era stato larghissima fonte d' idolatria, massime presso gli Egiziani, fra i quali gli Ebrei avevano lungamente abitato e non lasciatili senza andarne tinti di loro costumanze. [...OMISSIS...] Veramente di nessuna cosa sono più sollecite le divine Scritture quanto di far conoscere Dio incomprensibile: di che è ragione contenersi nella incomprensibilità quel più e quel tutto che può conoscere l' uomo di un tal essere; e a significar questo para anche il nome ineffabile, conciossiacchè quel non potersi pronunziare un tal nome doveva significare non potersi comprendere un sì grande Ente. Chiamasi anche Dio nascosto e che abita una luce inaccessibile (3). Per sì grande concetto non usavansi dunque più i simboli, ma solo il linguaggio proprio, e l' esclusione di ogni simbolo, la quale esclusione essa stessa significava, e potrebbesi chiamare un efficacissimo simbolo. Questo esser però di natura incomprensibile doveva esser conosciuto dagli uomini colla indicazione de' suoi effetti. Tutto l' universo era effetto che indicava questa causa prima: ma la mente umana doveva essere eccitata a fissarla principalmente col nuovo e collo straordinario; e quindi la necessità de' portenti. Non che questi disvelassero la natura divina o a pieno ne esprimessero gli attributi, ma determinavano però meglio l' Ente supremo, il quale per essi acquistava un nome. A ragione di esempio, egli si chiama il Dio di Bethel (1) per la visione che ebbe in questo luogo Giacobbe. Egli si dice il Dio che ha tratto gli Ebrei dall' Egitto con mano forte (2): il Dio che ha parlato dal Sinai (3): e così di tutti gli altri grandi e straordinarii avvenimenti. Quando anche la lingua che esprimeva Iddio non avesse guadagnato con questi fatti un nome o una espressione di più, doveva però imprimersi nelle menti e contrassegnarsi con quel fatto Iddio, ciò che era un aiutare l' umano intendimento ne' suoi primi sviluppi a fissarsi e aderire a Dio e alle cose divine e insensibili. E l' uomo pur coll' essere condotto a vedere Iddio negli avvenimenti straordinarii e mirabili come invisibile cagione, veniva a imparare in che modo il doveva vedere anche negli ordinarii e comuni, sebbene questi non lo scuotessero e quasi dire svegliassero come quelli. Sebbene nelle età prime quando l' uomo era nuovo e nuova era la natura, questa aveva una cotal forza maggiore di farsi considerare come opera stupenda e di levare a Dio le menti collo stupore (1). Perchè adunque l' uman genere ancor fanciullo e vuoto di cognizioni si conducesse a formarsi e ben imprimersi le idee negative di Dio , si richiedeva un magistero maggiore della provvidenza che non sia per condurlo a formarsi le astrazioni. A condurlo a queste bastava il linguaggio e i simboli naturali: ma per le idee negative di Dio voleva anzi la cassazione di ogni simbolo od imagine, ed in una la considerazione degli effetti divini, in tra' quali vi dovevano apparire di quelli che si togliessero al tutto dal corso regolare e ordinario della natura. Ma un altro spediente messo in opera dalla sapienza di Dio per maggiormente scolpire nella mente all' uomo quelle idee negative che gli bisognavano e che nella natura non avevano ritratto alcuno, furono i simboli moltiplici e mostruosi . Non servivano già questi a esprimere la natura divina. Come abbiamo veduto, erano divietate tutte le rappresentazioni, o naturali o anche artificiali di essa divina natura in sè stessa considerata. E che il divieto delle imagini non fosse universale ma si restringesse a quelle che si ordinavano a significare la divina essenza, mi par provarsi anche con quel luogo della Scrittura dove si parla di Dio disceso sul Sinai a dar la legge. [...OMISSIS...] . Per tal modo col non mostrarsi Dio sotto figura alcuna volle insegnare, che la sua essenza è cosa al tutto diversa da quanto si trova nella natura; e quindi proibì che non l' effiggiassero. Qui è manifesto che la proibizione delle imagini e sculture si restringe a quelle che si facevano per rappresentare la natura divina; l' uso delle quali avrebbe rovesciati gli Ebrei nella idolatria, come era avvenuto sotto il velo delle imagini. Ragione che dà lo stesso sacro Testo, del non essersi Iddio mostrato figurato sul Sinai: [...OMISSIS...] . Ma altro è a considerarsi Iddio nella sua recondita maestà e pura essenza, e altro nelle comunicazioni che di sè fa alle sue creature. La maggiore di queste, la più solenne, quella che regola tutte le altre è la divina Incarnazione. Or la natura divina circoscritta per così dire e velata dall' umanità è il principale soggetto dei simboli mostruosi che si scontrano nelle sacre pagine. La ragione di questi accozzamenti di varie figure che non sono in natura è questa. Iddio anche circondato dalla carne è però cosa così augusta e così lontana dal trovare in tutte le altre cose acconcie similitudini, che non si può altramente avvicinarsi a simboleggiare i suoi molti e singolari pregi, che col pigliare a simbolo di lei, non già alcun essere naturale, ma un qualche ente imaginario e artificiale che congiunga in sè le membra e le proprietà di molti. Con un tal simbolo mostruoso si viene a significare, che la cosa che si rappresenta eccede i confini degli esseri che sono nella natura, e unisce in sè medesima le qualità e virtù separate in molte e varie nature. Per chiarir meglio questa sapientissima economia che tenne Iddio nell' ammaestramento degli uomini, scegliamo fra i simboli moltiplici e mostruosi usati nelle Scritture il più solenne di tutti, che abbiamo già accennato, ma che gioverà un po' più distesamente descrivere, voglio dire il carro di Dio . Questo carro è un simbolo costante nelle divine Scritture. Egli rappresenta la Provvidenza, colla quale Iddio conduce le creature tutte, ma una Provvidenza trionfatrice; rappresenta la Provvidenza nell' atto che trionfa de' suoi nemici e li disperde; egli è perciò principalmente un carro terribile di battaglia. Per ciò si dice ch' egli porta « la gloria del Signore« (2), » ossia il Signore glorioso. Essendo poi Gesù Cristo quegli dalle cui mani è condotta la Provvidenza del mondo, secondo il detto d' Isaia, che « la volontà del Signore sarà diretta nella sua mano« (3); » per ciò Gesù Cristo è altresì l' auriga di questo carro maraviglioso. Chè la Scrittura fa espressamente menzione di questo auriga, come si può vedere nelle parole dette da Eliseo quando Elia fu rapito, il quale sclamò: [...OMISSIS...] . Questo carro dicono le divine Scritture va circondato da dieci milioni di spiriti esultanti e beati (1), ed è carro di fuoco (2). Con questo fuoco Iddio incarnato accende, vivifica e immortala i suoi santi e incenerisce altresì gli empi: egli è un carro di guerra e ne sono l' armi le fiamme; i Cherubini l' attirano, o anzi il portano (3). La prima visione di questo misterioso carro, terribile e trionfale sembra quella che ebbe Adamo (4), quando s' avvide dei Cherubini stanti alla custodia della porta orientale dell' Eden (5) minaccevoli di morte contro chi si attentasse di inoltrare il passo oltre a quella soglia (6). Dice la Scrittura che essi custodivano « il legno della vita« (7), » al quale non va l' uomo se non passando per le fiamme, e non può passarvi illeso, quando prima non abbia ricevuto da Dio quella tempera al tutto divina che resiste a tali fiamme, anzi che innatura l' uomo con esse e il fa in esse vivere la vita immortale. Perocchè queste fiamme sono quella potenza misteriosa e irresistibile, colla quale Dio brucia e distrugge nell' uomo tutti i godimenti de' beni creati e naturali; di che avviene che essa distruzione sia intollerabile a quelle anime che non hanno null' altro per bene se non le creature, anime che diventano miserissime pur coll' essere spogliate a forza di tutti i beni lor cari, ed è in cotal modo un annientarle, un crucciarle d' indicibili affanni: e non altro fa il fuoco dell' inferno e del purgatorio (1). La tradizione di questa terribile forza di cui va Dio circondato passò a tutte le genti; ed è per questo che si reputava anche dalle nazioni idolatre che la visione di Dio fosse insostenibile all' uomo, e che l' uomo il quale vedesse Iddio, morrebbe di tratto: sentiva il genere umano l' alienazione che egli aveva dalla divinità; era la profonda coscienza della colpa originale che in lui parlava (2). Un' altra insigne visione di questo carro divino fu quella che ebbe il solo Mosè e non il popolo sul Sinai medesimo. [...OMISSIS...] Nei Salmi si dice espressamente che si mostrò a Mosè il carro di Dio (4). Questo carro di vittoria fu l' esemplare veduto dal Santo Legislatore in quel monte a cui similitudine fece poi l' arca (5), perpetuo trofeo della sconfitta degli Egiziani: e perchè quest' arca era appunto rappresentativa di quel carro di vittoria e trono di gloria ove Iddio siede e vola sui Cherubini; perciò il Salmo LXVII dice che il carro di Dio è nel Sinai e nel Santuario, cioè nel Tabernacolo dove fu riposta poi l' arca (6). L' incarnazione e l' ascensione al cielo viene simboleggiata da questo carro. Il Verbo di Dio discende e si mostra sopra la terra terribile a' suoi nemici per l' infallibile effetto della sua volontà: egli riascende in cielo trionfatore sul carro medesimo e si trae dietro i vinti captivi (7). Egli viene in soccorso dei suoi eletti sbattuti e perseguitati dagli empi e seco traendoli li campa da tutti i pericoli (1). Sta alla testa come capitano del popol suo e lo conduce siccome un pastore (2). Ma la visione di questo mobile trono ossia carro di Dio provisore e del Verbo incarnato più manifesta e più compiuta, fu quella che ebbe Ezechiello nel quinto anno della trasmigrazione del Re Joachino sei anni innanzi la distruzione di Gerusalemme. Iddio mostrava di dovere uscire del tempio profanato e della città santa, non più santa, in cui abitava, abbandonandola in preda a nemici ministri dell' ira sua. Veniva il bellico carro dell' Onnipotente da Babilonia quasi alla testa non più delle armate del suo popolo, ma bensì degli eserciti dei Caldei che sotto la sua guida dovevano fare scempio e rovina della infedele Gerusalemme (3). Or quest' azione del giustissimo sdegno dell' Eterno era pure un tratto di sua provvidenza e faceva parte del grande ordine secondo il quale Iddio con un solo pensiero governa tutte le cose sia nei momenti della sua misericordia, sia in quelli del suo furore. Questa unità di pensiero è manifestamente espressa nella visione di Ezechiello. In quella non si figura già Iddio occupato di un atto solo e passeggiero, ma sì bene quell' Ente sapientissimo che quando si occupa di un fatto non perde la memoria degli altri; che non si lascia assorbire come fa l' uomo da una passione di iracondia o di benevolenza per modo che nol guidi sempre la considerazione di tutta la serie degli avvenimenti che formano una indisgiungibile catena; insomma quel Dio che da Babilonia viene guerriero a oppugnare Gerusalemme è il Dio provisore, è quel Dio che governa insieme le cose tutte dell' universo. Ciò è quanto si rileva dall' analisi della visione. La visione del figliuolo di Buzi (1) ha tre parti. Nella parte superiore è il firmamento, simbolo della immobilità di Colui che muove tutte le cose. « E sul firmamento era come un trono di pietra zaffiro (altro simbolo d' immobilità e durevolezza) e su quella figura di trono era la figura come dell' aspetto di un uomo« (2). » Quest' uomo era l' auriga, cioè, Gesù Cristo, il Verbo, vero Dio che doveva rendersi vero uomo. La parte di mezzo erano i Cherubini, simbolo degli spiriti celestiali e beati della Chiesa trionfante (3). Essi portano gli stemmi del Figliuolo di Dio, che è il loro Signore e l' auriga loro, cioè hanno forma di uomo nel tutto insieme, perchè fu l' umanità che Dio volle innalzare al di sopra degli Angeli coll' unirla alla persona del Verbo. L' auriga, il guidatore della Provvidenza è finalmente un uomo divinizzato, un uomo Dio, così piacendo all' Eterno di sollevare sopra tutte le nobilissime creature quella che per sè fra le intelligenti occupa il più basso luogo, cioè la creatura umana. Ma quest' uomo è tanto innalzato perchè è anche Dio (4): e però quei Cherubini sono anche aquile, avendone la testa e le ali. Ed essi hanno ancora il capo di leone e il capo e i piedi di vitello, stemmi delle due qualità del Signor loro, che sono l' esser egli Re di tutte le cose e unico sempiterno Sacerdote. Conviene dire, che i celesti spiriti sieno santi e beati appunto pel profondo conoscere di tanto mistero e pel continuo ammirar che fanno un sì profondo senno di Dio nell' incarnazione; sicchè portano di tutte queste cose l' impronta nelle loro anime, indi deducendo la loro vita e il loro movimento, devotissimi sì come sono a servire a effettuazione e consumazione di un tale disegno, superiore a quanto può stendersi il pensiero della finita intelligenza. Ma la parte inferiore di quella grande visione erano le ruote le quali toccavano terra (1), e simboleggiavano il mondo delle cose mobili e esteriori nel quale ciò che è formale è propriamente quella parte che costituisce la Chiesa che milita nella presente vita, e colla quale Iddio e Cristo in cima ai beati comunica per mezzo di essi spiriti angelici e delle anime già pervenute a stato di angelo (2), che sono le cagioni medie per le quali opera Iddio e Cristo in sulla terra. Nè questo ministerio dei celesti, anello di mezzo fra Dio e gli uomini in istato di via, toglie punto, nè impedisce che lo stesso Dio operi anche immediatamente nella Chiesa militante collo spirito suo che tutto penetra, e tutto accende, ed avviva: di che il Profeta: [...OMISSIS...] . Ma questo spirito spira da Cristo, e non fa che imprimere Cristo nelle anime (4): e però anche le ruote portano gli stessi stemmi de' Cherubini e hanno quattro faccie (5), di uomo, di leone, di bue, e di aquila, impresse nei dossi de' due cerchi di cui ciascuna è composta, incrocicchiati l' un nell' altro e formante come una sfera rivolubile da ogni parte: conciossiacchè anche la Chiesa militante non ha altre insegne che quelle di Cristo, alla cui similitudine si deve volgere tutta e conformare e per lo spirito parteciparne le sublimissime qualità. Fin qui noi abbiamo parlato dei tre primi generi di segni istruttivi, gli avvenimenti, le cerimonie, le visioni. Ci rimane a dire del quarto genere, ossia della « lingua simbolica (1). » La lingua per sè stessa non è rappresentativa se non in una piccola parte, cioè nelle parole e costrutti onomatopeici. Ed essendo ella un aggregato di suoni, manifesto è che non può imitare se non cose sonore e che però questa sua imitazione si restringe a una minima parte degli innumerevoli oggetti segnati dalle parole. Ora il nostro discorso non si volge a questa minima parte, ma ha in mira l' uso della lingua in generale. La lingua richiama le idee e le idee richiamano le imagini; le imagini sono somministrate da quei tre fonti che ho toccato, gli avvenimenti, le cerimonie, le visioni. Sotto la parola di avvenimenti abbiamo voluto raccogliere tanto 1. le cose esistenti nella natura come 2. i fatti che vi succedono. Sotto quella di cerimonie tutti i fatti che sono stati posti dall' uomo in pruova all' uomo di significare e perciò 1. tanto le cerimonie stabili, quali son quelle stabilite da Mosè pel culto divino, 2. come quelle azioni che venivano fatte dai Profeti a intendimento di significare le cose avvenire, verbigrazia il maritaggio del Profeta Osea colla donna peccatrice e i nomi imposti ai figliuoli che ne nascono (2). Sotto la parola di visioni finalmente intendiamo tutte le [visioni] imaginarie che dipingono alcuna cosa sensibile alla fantasia del veggente, gli si presentino esse in sogno o in veglia, palesi a tutti, o visibili a lui solo. Ora le parole possono richiamare e risuscitare nella fantasia le imagini ricevute in queste varie maniere, cioè: 1. esse possono significare un oggetto sensibile nella natura esistente; 2. un fatto avvenuto; 3. una cerimonia sacra; 4. un' azione cerimoniale o significativa; 5. una visione avutasi. In tutti questi casi le parole significano una cosa significativa. Non sono esse stesse le imagini sensibili, ma bensì le cose da loro significate sono queste imagini e simboli di idee astratte o negative. Ma le parole prestano di più un altro servigio. Quando anco non sia avvenuta una visione (la quale consiste sempre in accozzamenti di oggetti sensibili già da noi percepiti in separato), le parole possono tracciare e comporre una specie di visione nella nostra fantasia. E ciò esse fanno col risuscitare nel nostro spirito degli oggetti sensibili componendoli variamente in modo che essi rappresentino al nostro pensiero alcun che appunto per la loro composizione o per l' accordo che hanno colle circostanze presenti. Così fa il linguaggio nelle allegorie e nelle parabole. Ora questi sono i due fonti di tutta la lingua simbolica: ella o annunzia una cosa reale sensibile e rappresentativa, o eccita nello spirito delle imagini variamente accozzate dalla efficacia della lingua stessa in modo che pel loro accozzamento quelle vengano a rappresentare o indicare l' oggetto insensibile che è lo scopo del ragionamento. Discendiamo più al particolare. La parola terra non è già per sè stessa simbolica se non significa altro che la terra: ma se questa terra stessa si considera come un simbolo o segno di altra cosa, allora la parola terra è simbolica. Sicchè non è già che una lingua possa essere mai simbolica per sè stessa, ma bensì, tale si appella perchè ella segna ed esprime degli oggetti che sono dei simboli (1). E ciò che si dice di un oggetto particolare simbolico si può dire di un complesso di oggetti i quali uniti insieme formano una storia, una cerimonia, una serie di azioni, una visione o un prospetto d' imaginazione, secondo la classificazione che noi abbiamo data de' simboli (2). Quando la lingua esprime un oggetto che egli stesso è preso per segno di qualche altro oggetto, ella si chiama simbolica (3). Ma questo oggetto7segno non può essere sempre così atto a segnarne un altro che al tutto ed esclusivamente lo determini; anzi quasi mai avviene, e le più volte, per non dir sempre, un oggetto stesso può usarsi a segnare più e più oggetti, cioè tutti quelli che hanno con lui qualche somiglianza, o qualche rapporto qualunque si voglia. A ragion di esempio se io prendo per simbolo un fiume che si rigonfia e minaccia di rovesciare le città co' suoi flutti, quale sarebbe l' Eufrate, il mio simbolo potrà significare l' impeto e la superbia di un conquistatore: e in tal caso il dire l' Eufrate minacciò colle sue onde sterminio, in lingua simbolica significherà, il Re o l' esercito nemico che si accosta con empito. Ma questa parola Eufrate potrebbe esser simbolo egualmente atto a esprimere i popoli abitatori delle sue sponde pel rapporto di vicinanza che ha con questi; e quindi dicendo l' Eufrate esultò di gioia, in lingua simbolica può significare il tripudio degli abitatori di Babilonia. Ora questa indeterminazione, che ha il simbolo, si deve rimuovere in qualche maniera, perchè la lingua simbolica si possa interpretare con sicurezza; altrimenti ella non presenterebbe se non dei discorsi equivoci e sempre incerti. Ora questa via d' interpretare la lingua simbolica ora è più, ora meno difficile. Indi avviene alla lingua simbolica primitiva ben sovente una certa oscurità , non assoluta ma relativa, ed è allora quando vi si trova questa oscurità, che ella viene nominata enimmatica . In che modo si può dunque giungere alla determinazione sicura del significato del simbolo? Or dissi che la oscurità della lingua enimmatica primitiva non è assoluta, cioè non nasce della perplessità della stessa lingua, ma relativa alle cognizioni e all' abilità dell' interprete, poichè vi ha sempre una via che conduce alla sua piena e certa intelligenza. Ma qual' è questa via? Questo si fa in sette maniere, ed ecco quali sono: 1. Coll' aggiungere al simbolo la spiegazione in parole proprie. Così Ezechiello nel capo XVII narra quello che due aquile operavano. Ora esse non erano che simboli di due Re. Ma come saperlo? E come indovinare quali Re fossero? Il profeta stesso spiega il suo simbolo dicendo, che per quelle due aquile intendeva figurare il Re di Babilonia e il Re di Egitto. 2. Coll' intrameschiare alle parole simboliche tali parole proprie che mostrino le prime esser simboliche e a che significare ordinate. A ragione di esempio Osea (II) parla di una vigna di cui spianterà le viti e le ficaie. Ma egli è facile d' intendere che questa vigna è simbolica e segna il suo popolo, se si considerano le parole proprie che seguono alquanto dopo, ove il Profeta dice, che una tal vigna rientrata a Dio in amore « canterà come a' giorni della sua gioventù e come a' giorni della sua uscita dalla terra di Egitto« (1). » 3. Talora il discorso simbolico si rende chiaro e determinato in virtù delle circostanze di chi parla e di quelli a cui parla. Sapendosi che chi parla è un inviato dal cielo a minacciare di castighi sopravenienti le scelleratezze del suo popolo, questo solo già mette sulla strada a intendere i simbolici detti del Profeta: per lo meno il sapere ciò, esclude una quantità d' interpretazioni che potrebbero forse avere luogo non sapendosi al tutto la qualità dell' uomo che parla e de' suoi uditori. Ridotto così il numero de' sensi possibili assai minore, viene fra questi stessi determinato l' unico ammissibile dal considerare tutte le altre circostanze. Quando Isaia minaccia che il Signore chiamerà con un fischio la mosca che è nelle estremità dei fiumi di Egitto, e l' ape che è nel paese di Assur (1), è facile l' intendere che la mosca e l' ape qui sono due simboli e che voglia segnare il Re di Egitto e quello di Babilonia: e ciò dal sapersi la circostanza che la Giudea era collocata fra questi due Re potenti, e che erano essi i nemici più formidabili da cui aveva essa a temere. 4. Può togliersi l' incertezza del simbolo da una circostanza storica straniera a quelle di chi parla e di chi ascolta. Poniamo esser noto che la colomba era lo stemma di Babilonia: si farà chiaro con ciò che la colomba nominata nel Salmo LXVI è un simbolo di quel potente impero. 5. Può il simbolo rendersi chiaro e certo per convenzione. Se la convenzione è privata, la lingua diventa un gergo , e questo non ha mai luogo nella Scrittura. Una metafora venuta in tant' uso che si è fatta proprietà di una lingua, sicchè appena ritiene più qualità di metafora, ma corre come parola che fosse propria, giacchè non si bada quasi più al suo primo senso, egli si può dire un simbolo chiaro e palese per convenzione comune e pubblica (2). Non però è questa una convenzione al tutto arbitraria, ma è sempre fondata nella similitudine o in qualche altra relazione che passa fra il significato primitivo e proprio della parola, e quello che le fu dato traslatamente. Così nella lingua ebraica un legame materiale è simbolo di una legge, e però stringere vale il medesimo che comandare , per un traslato comunemente usato presso gli Ebrei. Nel primo libro de' Paralipomeni, ciò che la volgata traduce « praecepit Dominus Moysi » dovendosi tradurre il testo ebraico alla lettera, riuscirebbe: Iddio strinse Mosè (3). 6. Il simbolo si rende ancor chiaro per la notizia storica della sua istituzione. Dovendosi tenere il nostro discorso entro i limiti della lingua simbolica, ed essendo ordinato solo a porgere un chiaro concetto di quella lingua primitiva colla quale Iddio doveva venire istruendo il genere umano bambino, non faremo parola che della istituzione di parole simboliche. Già ne abbiamo veduta la necessità per l' uman genere bambino: ne abbiamo veduto anche il modo onde queste parole dovevano stabilirsi. Non faremo dunque qui che riassumerci, ma secondo il nostro solito non colle stesse parole colle quali abbiamo esposte tali dottrine altrove, ma dando loro un aspetto nuovo e una nuova luce. A venire a capo di ciò noi dobbiamo in primo luogo schierare sott' occhio del nostro lettore gli aiuti che prestò il linguaggio allo sviluppo della umana intelligenza. In secondo luogo sarà nostro carico il dimostrare che tali aiuti non poteva il linguaggio prestargli allo spirito se non avesse ammesso in sè stesso i simboli, e così non si fosse reso simbolico. Ecco adunque il riassunto dei diversi vantaggi che dà la parola allo spirito nel suo intellettivo sviluppamento. I. La parola: 1. completa , 2. fissa la percezione. Dico che la completa. Quando l' uomo privo d' altre idee percepisce un oggetto sussistente, egli se ne forma una cotale idea ma imperfetta. Solo quando gli pone il nome a questo oggetto percepito, la sua idea di lui è completa. La ragione di ciò si è, che la percezione è un atto molteplice dello spirito, cioè composto di più parti, è un prodotto di più facoltà, come il prova l' analisi di essa percezione. Ora ciò che dà unità a queste molteplici operazioni dello spirito, ciò che unisce quelle varie parti è un segno a cui se le attacca. Questo segno, cioè la parola, acquista virtù per una cotale associazione di risvegliare a un tempo 1. l' imagine sensibile (materia dell' idea), 2. l' essere (sua forma) e 3. la veduta dello spirito che nell' imagine vede l' essere. Per questa parola l' essere per sè indeterminato viene meglio determinato, precisato; e lo spirito con tale guida è volto a cogliere per così dire l' oggetto reale scopo di tale operazione, e quello che viene propriamente nominato nella intenzione dello spirito col nome proprio . Dico ancora che la parola fissa la percezione. Una percezione innominata è tenue, e svanisce tosto dalla mente. Ma quando il suo oggetto ha acquistato un nome, questo nome gli lega, per così dire, le ali, e nol lascia sfuggire, il tien fermo nella presenza della mente, il richiama presente quando se ne è partito e il rende atto a poter venir colto quando si voglia dall' attenzione, che col mezzo del nome suo si rivolge a lui e il contempla e il lavora con quante riflessioni meglio gli piace. II. La parola relativamente alle idee positive , che sono il fondamento della classificazione specifica delle cose, ritiene innanzi allo spirito la specie e la richiama: il che fanno i nomi comuni . III. Relativamente alle idee negative la parola 1. fissa un sussistente nel comune , mediante la facoltà del verbo: 2. rapporta a questo sussistente esse idee, che diventano altrettante indicazioni di quel sussistente fissato nel comune, con una operazione che si può acconciamente nominare una cotale creazione intellettuale; e 3. ciò che è il più, fissa un sussistente nell' universale , il che è quanto dire sostantivizza l' ente, la verità, la giustizia e la bontà, e così ascende alla più grande e perfetta idea di Dio che a lui sia possibile di avere nel presente, congiungendosi in questa mirabile operazione il comunissimo (l' ente possibile) e il particolarissimo (il sussistente). IV Finalmente rispetto alle astrazioni generiche è la parola quella 1. che eccita la veduta dello spirito, 2. che la dirige questa veduta, e 3. che la limita e determina; senza le quali tre condizioni non potrebbe lo spirito nè muoversi, nè procedere, nè quietarsi nella visione di que' rapporti o caratteri, che costituiscono appunto la natura delle idee generiche. Veduti e classificati i vantaggi che la parola presta allo spirito nella formazione e nel perfezionamento delle idee, non ci sarà difficile d' intendere come la parola, a poter prestare sì nobili servigi, non poteva non essere stata nella prima sua istituzione simbolica. E veramente riprendiamo in mano questi vantaggi nell' ordine in cui gli abbiamo registrati; cominciamo dalla percezione, a cui corrisponde l' istituzione de' nomi proprii . Ho detto che il nome proprio che esprime l' oggetto della percezione unisce insieme diversi elementi e ne fa risultare un solo oggetto d' intelletto, e che questi elementi sono: 1. l' essere universale, 2. l' imagine o percezione sensitiva, 3. la veduta dello spirito. Ma in tutto ciò non c' è ancora la sussistenza , ed è solamente quando il nome si riferisce a un oggetto reale, individuo, sussistente, che si dice nome proprio. Pigliamo un esempio: il nome del primo uomo era un nome proprio: analizziamolo insieme, cerchiamo di scoprirne l' intima natura. Quale è dunque la natura di questo nome ADAM? Guardiamo che cosa significa: egli per sè non significa che terra , ossia soggetto composto di terra. Questo nome, dice la divina Scrittura, fu imposto da Dio ad Adamo per esprimere con esso che Adamo era stato formato dalla terra. Ma un nome che significa un oggetto composto di terra, per sè considerato, è egli un nome proprio o un nome comune ? Non più che un nome comune, poichè egli non restringe il suo significato a solo il primo uomo, ma significa egualmente qualunque oggetto composto di terra. Tanto è vero che lo stesso nome, che fu preso a dover significare il primo uomo che fu al mondo, si usa anche a significare UOMO in genere, pigliandosi nell' ebraica favella questa voce ADAM tanto come nome proprio di Adamo, quanto come nome comune della specie umana. La natura adunque degli antichissimi nomi propri è tale, che essi siano per sè veramente nomi comuni , ma che vengano appropriati a un individuo sussistente, non per la loro intrinseca natura, ma per qualche mezzo a loro estrinseco. Noi esamineremo fra poco quale possa essere questo mezzo o circostanza estrinseca che riduce un nome comune e lo coarta nella significazione di nome proprio. Intanto tornando alla nostra analisi del nome Adam diciamo, che l' oggetto da lui espresso, un composto di terra, dovendo essere un oggetto percepito dalla mente ed espresso con quel nome in quel modo appunto che la mente il concepisce, egli si compone e risulta, questo oggetto intellettivo, dei tre elementi indicati, cioè 1. dell' essere, 2. della percezione sensibile della terra, la quale si presenta al nostro senso coi suoi caratteri fisici, e 3. della veduta dello spirito, colla quale veduta questo fissa un aggregato di terra (materia) possibile a sussistere. Ma questo aggregato di terra non è indicato ancora come hic et nunc attualmente sussistente, e in tutto determinato e ristretto a una sussistenza individuale e propria. La sussistenza adunque, la quale sola dà al nome il carattere di proprio, non è compresa negli antichissimi nomi proprii, ma questi sono nomi comuni applicati a un essere sussistente e resi così suoi proprii da qualche mezzo o industria estrinseca e straniera ai nomi stessi. Qual è dunque questo mezzo, industria o circostanza, che fa capire un individuo reale e sussistente, al sentirsi pronunciare un nome comune? Questo mezzo non è sempre il medesimo: talora è un' altra voce che viene aggiunta al nome comune e che lo fa proprio attaccandolo a un individuo sussistente: talora è una tacita disposizione dello spirito di coloro che usano di quel nome. A. Dico che una voce talora ferma il nome comune a significare un individuo sussistente. Questa voce è comunemente un pronome: 1. Alcuna volta è il pronome dimostrativo questo ; ma rimanendo un tal pronome separato da esso nome comune cui determina, non ne cangia la natura. Così se io dico: quest' uomo; sebbene una tale locuzione determini il nome comune uomo a significare l' uomo che è presente e forse anco da me indicato coi cenni, o l' uomo nominato più sopra nel discorso, tuttavia il vocabolo uomo resta nome comune che fa, solo per quel caso, l' ufficio che farebbe il proprio; 2. Più spesso fan proprii i nomi comuni nelle lingue antichissime i pronomi personali che si affiggono al nome comune e fanno con esso lui un solo vocabolo. Per non prendere gli esempi se non dalla lingua ebraica, molti sono i nomi a cui è affisso dal loro istitutore il pronome possessivo mio : così Rachele impose a Beniamino, il cui parto difficile la fece morire, il nome di BEN7ON7I, che vuol dire figlio del mio dolore (1). Il nome che aveva Sara prima che Iddio glielo mutasse, era SARA7I, cioè signora mia (2). Il nome ISA7I, vuol dire mio uomo (3). A Dio stesso per dargli un nome proprio e contraddistinguerlo dagli dei degli idolatri, talora da chi lo invocava si aggiungeva il pronome possessivo mio , come in Adona7i Signor mio (1); e in quella appellazione che gli diede Agar, quando ebbe la visione nella solitudine, che li nominò il Dio che vede me (2). Egli è manifesto che per quel primo che impone un tal nome, esso nome ha forza di proprio, perchè determina una relazione unica e stabile dell' oggetto nominato colla persona che il nomina, e però quell' oggetto non può esser più vago nè accomunarsi ad altro, che a quella cosa sussistente che ha la relazione indicata coll' imponitore del nome. Ma per gli altri uomini in che maniera quel nome conserverà la vece e l' ufficio di nome proprio? (3). Non [in] altra certamente che in virtù della memoria che dura dalla prima sua istituzione: sicchè anche un nome così determinato dal pronome possessivo mio , per conservarsi nel suo vigore di nome proprio, ha bisogno che per tale passi a esser ricevuto dal comune degli uomini. 3 Talora il nome comune prende la forza di proprio dall' aggiungervi che vi si fa un nome per proprio antecedentemente ricevuto. Così dicendo il Dio di Abramo, è il nome proprio di Abramo che determina a far l' ufficio di proprio il nome comune di Dio. B. La seconda maniera, onde un nome per sè stesso comune si fa correre per proprio, è una tacita disposizione e operazione dello spirito di chi parla e di chi ascolta (la quale operazione appartiene alla facoltà del verbo) per la quale operazione chi pronunzia od ode quel nome comune subito vi attacca l' oggetto individuale e sussistente. La sussistenza dunque non è espressa, ma viene supplita dallo spirito. Per esempio, tornando a un esempio recato avanti, nella parola Adam non è punto nè poco espressa la sussistenza individua del primo uomo che fu; e pure al suono di questo nome tosto si presenta allo spirito non già solo le qualità comuni di ciò che è terra, suo vero significato, non già solo l' uomo in genere, nella quale prima restrizione di significato lo spirito aggiunge qualche cosa da sè; ma sì bene il primo padre di tutta l' umana specie, che è la restrizione somma del senso che può ricevere quel vocabolo, restrizione che da comune il rende al tutto proprio. Questa operazione che fa lo spirito colla quale all' udire un suono intende più di quello che il suono esprime, si opera non per la virtù che quel suono ha come segno, la quale virtù non si potrebbe estendere oltre la cosa significata, ma per una associazione fra la cosa significata da quel suono e la cosa supplita dallo spirito (4). La cosa non è nuova nella lingua. Non si deve credere che la lingua esprima tutto ciò che noi intendiamo per essa: vi ha un' infinità di cose che sono supplite dallo spirito di quelli che parlano e che ascoltano, e che non sono punto segnate coi suoni. Sarebbe lungo l' entrare in questa materia per altro molto importante a essere trattata in una filosofia delle lingue. Noi osserveremo solo che questi sottointendimenti sono specialmente innumerevoli nelle lingue antichissime, e si può in generale stabilire questo principio che i primi uomini esprimevano il menomo possibile di quanto bisognava perchè i loro sensi fossero intesi. Mi rimetto intorno a ciò al trattato delle elissi e delle reticenze che si trova nei grammatici. E dico, ora che cosa è che induce lo spirito nostro a supplire nel nome comune la sussistenza individuale , sicchè noi veggiamo il particolare nel comune? Ciò nasce da molte cagioni: ma la principale è certamente l' uso positivo della lingua da noi appresa fin dall' infanzia, il che è quanto dire la primitiva istituzione del nome passata di padre in figlio, di bocca in bocca fino a noi. Fin qui ancora non apparisce la necessità de' simboli, ma quello che abbiamo detto ci lastrica la via di giungere a conoscere questa necessità. Intanto si può conchiudere da ciò che abbiamo detto che in questa specie di nomi il comune si congiunge e lega col proprio e si fa servire come di segno a dover segnare questo proprio sussistente. Andiamo innanzi. Questa idea comune che risveglia in noi la persuasione della sussistenza di un oggetto, quanto si estende ella? E` una idea specifica o generica? Ella è una idea specifica . Questo ha bisogno di spiegazione. Quando noi percepiamo coi sensi un oggetto sensibile, non percipiamo mica tutta la natura e proprietà di quell' oggetto: no, è vero che noi crediamo di averlo percepito tutto e fedelmente; questo è un errore comune (1). In quella vece noi non abbiamo percepito dell' oggetto se non quel tanto che la capacità del nostro senso fu atta a ricevere, e in un modo al tutto conformato, per non dire sformato, alla qualità del senso medesimo. Di più fra le varie sensazioni che noi riceviamo da un oggetto medesimo all' atto della sua percezione e delle quali l' intero della percezione stessa si compone e risulta, ve ne ha solitamente una che primeggia sull' altre, che più ci colpisce e tira tutta a sè la nostra attenzione: e suol essere quella a cui rivolgiamo il nome che imponiamo all' oggetto. Così a ragione di esempio, nella percezione del sole non sarà la sua grandezza, la sua forma o altra qualità quella che più ci muove, ma l' acutezza della sua luce. Indi denominandolo, il sole non sarà già chiamato cosa rotonda o con altro nome, ma sì bene cosa ossia oggetto luminoso. Nella percezione del firmamento l' uomo non sarà già ferito tanto dal suo colore quanto dalla sua estensione; il firmamento sarà quindi nominato oggetto esteso, o anche semplicemente l' esteso (1). Qui pertanto si vede che il fondamento de' primi nomi proprii doveva essere una qualità sensibile, quella che nei diversi oggetti spiccava fuori dell' altre (2). Ora che idea è quella di una qualità sensibile? ella è una idea specifica accidentale. Ma non come accidente si poteva prendere dall' uomo questa qualità: l' uomo era costretto dall' indole della sua mente di sostantivare la sua percezione: quella qualità dunque veniva sostantivata, presa come una sostanza. Tale concetto appunto è ciò che dà queste denominazioni, il luminoso, l' esteso. Questi nomi che in latino riescono neutri, equivalgono a dire una sostanza luminosa, una sostanza estesa. Tali erano i nomi comuni che in origine servivano per nomi proprii in virtù dell' istituzione e dell' uso. Or si consideri la differenza che passa fra le idee significate da questi vocaboli l' esteso e l' estensione, il luminoso e la luce o luminosità (3). Si vedrà assai agevolmente che l' estensione e la luminosità sono pure astrazioni: all' incontro l' esteso e il luminoso sono astratti sostantivati. Ora questi astratti sostantivati sono il primo passo che fa lo spirito umano onde pervenire alle astrazioni. Sebbene gli astratti sostantivati sieno più complessi e le pure astrazioni più semplici, tuttavia lo spirito umano si forma prima quelli che queste. E la ragione di ciò si è che lo stesso spirito umano è un complesso di facoltà, non una sola facoltà; per ciò i primi passi dello spirito sono complessi, operando più facoltà insieme; e i semplici sono gli ultimi. Ciò che dico non è una pura conghiettura, ma un fatto. Mi appello a coloro che conoscono le lingue antiche nelle quali si vede un' abbondanza straordinaria di astratti sostantivati posti in luogo di astratti puri. A ragion di esempio nella ebrea, in quel luogo del Genesi, in cui la Volgata dice che la terra era inane e vuota (4); altri tradussero che era inanità e nullità (5). Ma l' Ebreo dice all' incontro coll' astratto sostantivato, che era « l' inane e il vuoto« (6). » Isaia dice secondo la Volgata che « il Signor Iddio verrà nella fortezza« (7); » ma l' Ebreo dice all' incontro « veniet in forti «. » Nel salmo CXVIII (137), si dicono retti i giudizii del Signore, ma l' Ebreo lo esprime coll' astratto, che noi tradurremmo « i giudizii del Signore sono rettitudine«: » ma la lettera dell' Ebreo sostantiva l' astratto di rettitudine come il latino direbbe neutralmente rectum , cosa retta. E ad ogni piè sospinto si trovano di tali esempi nelle lingue tutte più vetuste. I due ultimi esempi che ho recati non sono astrazioni specifiche sostantivate, ma sì bene generiche; e li ho addotti perchè si veda che lo spirito umano sostantiva non solo la specie ma anco il genere, quando a questo è pervenuto. Ma questa osservazione sia toccata di passaggio. Ritorniamo al filo del nostro ragionamento. Gli uomini primitivi nominavan dunque gli oggetti sensibili e sussistenti con de' veri nomi comuni, i quali diventavano in tal modo proprii nello spaccio che avevano; sicchè« l' esteso« era il nome proprio del cielo,« il luminoso« era il nome proprio del sole, e così via. Ma lo spirito umano non potea fermarsi in ciò, egli avea bisogno altresì di astrazioni pure, di nomi che fossero puramente comuni e non proprii. Ora che avvenne? quel che dovea avvenire, cioè che essendo avvezzi gli uomini a dare il nome di« esteso« al firmamento, di« luminoso« al sole, non si poteano poi applicar questi nomi comuni ad altri oggetti senza che venisse in mente, a chi li usava, il sole, il firmamento, ecc., il che è quanto dire, stante l' accettazione universale di questi nomi per proprii, che tutte le cose solennemente luminose si chiamavano soli, tutte le cose estese e grandi si chiamavano firmamento, ecc.: o sia, che è il medesimo, che il firmamento divenne« il simbolo« dell' estensione, il sole della luminosità, e così via. In tal modo gli astratti puri che sono idee insensibili furono concepiti nelle menti degli uomini mediante altrettanti loro« simboli« che mirabilmente aiutavano la mente a dar corpo per così dire e sostanza a tali idee. Così l' istituzione de' simboli ebbe origine dalla natura stessa e dalla prima istituzione della lingua primitiva. Ed egli è evidente che se« i simboli« aiutarono in tal modo lo spirito umano alla formazione degli astratti puri, molto più il dovettero aiutare alla formazione delle idee negative di Dio e degli spiriti trascendenti. Concludiamo da tutto questo discorso che la lingua primitiva doveva esser simbolica, e che questi simboli aveano la chiara loro intelligenza dalla notizia tradizionale della loro istituzione, che trapassava di generazione in generazione coll' uso della lingua stessa (1). 7 Finalmente v' ha un' altra via onde il simbolo si rende determinato e chiaro, e questa è il complesso armonico di più simboli insieme presi. Quella ambiguità e incertezza che avrebbe un simbolo solo preso isolatamente viene levata da degli altri simboli che insieme con lui si presentano nel discorso. Conviene però qui osservare che se si tratta di effigiare in questo complesso di simboli un avvenimento futuro, esso può rimanersi nell' oscurità fino a tanto che non riceve luce dall' avvenimento medesimo, e ciò non già perchè egli non valga ad esprimere quell' avvenimento nel modo il più fedele e preciso; ma perchè non può necessariamente che rappresentarlo in alcuni suoi termini ed estremi senza potere metterne sott' occhio il nesso. Il medesimo avviene in quelle profezie nelle quali si predicono gli avvenimenti descrivendoli dalle loro circostanze, le quali insieme prese non possono convenire che a quegli eventi predetti, ma che prima di vederle avverate sembrano fino inconciliabili fra di loro. E chi poteva a ragion d' esempio trovare prima dell' avvenimento il nesso fra quelle due profezie sopra Sedecia (1): delle quali l' una diceva che non avrebbe veduto Babilonia, e l' altra che Nabucodonosor non l' avrebbe ucciso ma l' avrebbe condotto in Babilonia? Il fatto mostrò come tali predizioni si conciliavano quando Sedecia non fu ucciso ma accecato, ed entrò in Babilonia senza vederla. Così parimente come conciliare queste tre predizioni sopra il Messia: l' una diceva che sarebbe stato chiamato Nazareno, l' altra che sarebbe nato in Betlemme, la terza che Iddio l' avrebbe fatto venir dall' Egitto? Il fatto è che nato in Betlemme per puro accidente fu ritenuto esser di Nazaret patria dei suoi abitatori (sic) e dov' egli pure condusse con essi molta parte della sua vita, e che fuggito ancor tenerello in Egitto di là fu chiamato da Dio nella Giudea. Da tutto quello che abbiamo detto si può intendere facilmente che la lingua simbolica istituita a principio non può essere stata al tutto stazionaria; ella dee avere avuto un progresso, dee avere sofferto delle vicissitudini. E` ciò una conseguenza della natura dell' uomo inclinata a trovar nuovi simboli di paro che a trovar nuove idee; come pure a ciò si presta la natura di un simbolo stesso che può passare dal significare uno al significare un altro oggetto, e l' oggetto significato dal simbolo può essere un altro simbolo egli stesso. La storia pertanto de' simboli è un argomento di ricerche erudite immense, e che sola potrebbe deciferare la storia della umanità: ma come ella non può esser a pieno trattata nell' opera presente, così pure ella non può essere proporzionata alle nostre piccole forze, nè manco al picciol tempo che ci rimane da dedicare agli studii. Noi non porremo qui pertanto se non una sola osservazione, che tocca la base che dar si dovrebbe a questa storia de' simboli. Diciamo che la base di una tale storia dovrebbe essere la simbolica primitiva, quella che veramente ebbe in parte una origine divina come abbiamo innanzi dichiarato. Questa pertanto dovrà essere la prima ricerca di chi si accinge ad una tale storia« quale fu la simbolica primitiva?« ricerca nella quale i documenti storici di tutto l' Oriente, l' antichità di tutte le nazioni, e di tutte le lingue raffrontate insieme potranno dare, come io spero, una piena luce. Trovato questo fondamento, e come regola suprema della storia indicata rimarrà a dimandare« quali furono le alterazioni che sofferì la simbolica primitiva?« che cosa fu dimenticato di lei, che cosa aggiunto, che cosa permutato? Nel qual buio reca chiarezza, siccome face luminosa che dee precedere, quella parte della filosofia delle lingue che insegna come di mano in mano l' uomo inventò i nomi e qual parte del linguaggio fu prima e qual dopo. Ne darò qui un solo esempio preso da due sole parole, cielo e terra. Io mi persuado che nella lingua primitiva il cielo e la terra fossero nominati con de' nomi comuni sostantivi, il quale è, come abbiamo veduto, il primo modo, onde gli uomini dovettero denominare le cose (2). Fu dunque il cielo denominato dall' altezza sua, la terra dalla sua bassezza in rispetto al cielo, cioè il nome proprio del cielo si fu l' alto , il nome proprio della terra si fu« il basso « (3). Fin qui de' segni istruttivi dati da Dio all' uomo dopo il peccato perchè gli fossero mezzi di perfezione. Ora ci bisogna parlare de' segni effettivi o sia de' Sacramenti; e di questi pure dobbiamo tracciare la storia, e render palese il progresso in che vennero crescendodo nelle varie età, fino a Cristo dal quale ricevettero loro intera perfezione. A tal uopo si dee prima conoscere la differenza che divide i Sacramenti che ebbero gli uomini prima della venuta e passione del Redentore, da quelli che ebbero dopo; e questa è la ricerca a cui noi ora poniam mano. La differenza de' Sacramenti si dee dedurre primieramente dal differente stato soprannaturale degli uomini pe' quali essi sono istituiti: il quale stato viene determinato dalla natura della grazia da cui sono illustrati. Conviene adunque rammentare ciò che noi abbiamo detto circa la differenza della grazia dell' antico Testamento, e quella del nuovo (1), la qual differenza noi l' abbiamo ridotta a questa parola, che l' antica grazia era deiforme , e la nuova triniforme (2). Abbiamo ancora detto che il principio della rivelazione, dietro la quale conseguitava la grazia nell' antico Testamento era il Verbo occulto, nel nuovo il Verbo manifesto (3). Al fine poi di spiegare in che maniera nell' antico Testamento il Verbo potesse essere principio della rivelazione, abbiamo fatto osservare, che ogni rivelazione si attribuisce al Verbo, come dicono i teologi, per appropriazione di parlare; il che non importa già un dire che sola la persona del Verbo operasse nelle antiche rivelazioni, le quali come opere esterne competono alla divina natura, e però a tutte e tre indistintamente le persone; ma quella maniera di parlare non viene a dire altro se non passare una cotale simiglianza o analogia fra le cose rivelate e il Verbo generato dal Padre, quasi con un pronunziare che fa l' intelletto una parola interiore. Nel che vedesi ancora come si dica rimanersi il Verbo occulto in quell' antica rivelazione, poichè ciò che si rivelava non era tanto, che bastasse a dare alle anime una, tuttochè imperfetta, percezione del Verbo. Il Verbo divino adunque era principio dell' antica rivelazione a quel modo che la parola di un precettore è principio della scienza del discepolo; similitudine che non quadra però al tutto; perocchè la parola del maestro umano è materiale e distinta dalle verità spirituali, che vede il discepolo colla sua mente. Si pensi dunque un maestro la cui parola sieno le verità stesse senz' altro segno; sicchè egli abbia virtù di presentarle immediatamente alla mente di quelli che insegna: queste verità si direbbero il principio della scienza del discepolo. Ora ciò non toglie che sotto altro aspetto si possa dire principio della scienza del discepolo anche il maestro stesso che ha virtù di comunicare quelle verità. E però nell' antico Testamento le verità comunicate interiormente allo spirito degli uomini erano il Verbo (per appropriazione); e tuttavia il maestro che comunicava queste verità era il Padre. Perciò l' essere stato nell' antico Testamento principio della rivelazione e della grazia il Verbo, non toglie punto il potersi dire anche il Padre principio di quelle antiche rivelazioni. E consideriamo un po' attentamente come il Padre fosse principio dell' antica rivelazione. Ciò che si voleva con questa era d' infondere nelle menti delle traccie, e quasi un abbozzo del Verbo: il quale abbozzo preparasse la tavola per così dire a riceverne poi a suo tempo la perfetta imagine. Or dunque il termine di questa interna operazione era il Verbo, ma il principio era il Padre. Conciossiacchè essendo il Padre quegli che genera e manda di sè il Verbo, a lui compete altresì il disegnare nelle menti le prime linee per così dire o vestigi del Verbo medesimo. Questo è ciò che viene a dir Cristo dove afferma che il Padre è quegli, che tira gli uomini a lui. « Nessuno può venire a me, se il Padre che mi ha mandato non l' avrà tirato« (1). » Non si contenta di dire semplicemente« il Padre«, ma dice« il Padre che mi ha mandato« cioè che mi ha generato e mandato altresì nelle menti coll' atto stesso che mi ha generato; esprimendo in tali parole acconciamente il modo onde il Padre tira gli uomini al Verbo, che è quello di mandare il Verbo stesso, o le traccie di lui, nelle loro intelligenze. Distinguasi adunque negli uomini due stati, in rispetto alla relazione soprannaturale con Dio; l' uno è di quelli uomini i quali conoscono già il Verbo; l' altro stato di quelli che non lo conoscono ancora, ma a ricever la cognizione e percezione di lui si dispongono. Questa disposizione vien loro a gradi pei quali l' uomo si avvicina sempre più al Verbo, di cui riceve un cotal riflesso di luce che cresce fino a che è degno di denominarsi percezione del Verbo stesso. Or dunque innanzi che questa percezione sia formata, il Verbo come tale propriamente parlando non opera in essi: il qual Verbo in essi opera tosto che in essi è formato (1). Da qual principio viene loro quel lume o più tosto quel barlume che è come l' aurora del sole che gli tien dietro? questo è appunto quel tirare che il Padre fa gli uomini al Verbo. Al Padre si attribuiscono adunque tutte le disposizioni che precedettero o che precedono la venuta del Verbo nell' uomo, e rimote e prossime. Così il Padre fu quello che mandò il Verbo al mondo nella incarnazione, e tutto il disegno di questa grande opera al Padre si attribuisce (2). Venuto poi il Verbo, il Padre cede a lui il lavoro di compir l' opera della salute umana; e questa è quella grande opera di cui sì spesso parla Cristo aver ricevuta dal Padre, [...OMISSIS...] . Dice d' essere stato mandato dal Padre: questo è quello che fece il Padre; e l' esser mandato dal Padre negli uomini è una espressione che equivale a quest' altra« il Padre trae gli uomini a me«. Dice che fu mandato perchè faccia« l' opera sua«, cioè l' opera del Padre, quell' opera che il Padre ha cominciato col mandare il Verbo negli uomini, e che perciò rettamente opera del Padre si dee nominare. Ora quest' opera che il Padre ha imposto al Figliuolo è che egli facesse conoscere agli uomini il Padre suo, perchè il Padre operando non si è reso visibile agli uomini, ai quali non ha comunicato se non le vestigia del Figlio, e il Figlio. Questa opera ricevuta a farsi dal Padre, Cristo l' annunzia in quelle parole [...OMISSIS...] . Perciò il Padre fu come uno che favella senza esser veduto. « Ciascuno che udì dal Padre e imparò, viene a me« (6). » E non dice che udì il Padre, ma che udì dal Padre; perciocchè l' uomo percepì i vestigi del Verbo nel suo spirito, ma senza conoscere il principio che glieli comunicava. Il perchè le profezie dicevano che « nessuno saprebbe onde il Cristo venisse« (1), » e Gesù dopo aver detto che chi udì e imparò dal Padre viene a lui, soggiunge: [...OMISSIS...] . L' opera adunque dell' umana santificazione nascer doveva per la comunicazione del Verbo divino, il quale dovea far conoscere agli uomini il Padre celeste pel suo sermone e pel suo spirito. Or l' uomo essendo un essere fornito di corpo, datogli per istrumento da percepire ed attingere le cognizioni di cui è privo in nascendo; conveniva che il Verbo a rendersi palese all' uomo s' incarnasse e per la via de' sensi comunicasse la sua virtù e sapienza allo spirito umano. Il Verbo incarnato fu Cristo che predicò, operò e patì per compire la grande opera commessagli dal Padre. Così la rivelazione esterna fu compita, a cui rispose il compimento dell' interna, cioè la grazia data sempre in misura di quella (3). Però l' umanità di Cristo fu il mezzo pel quale venne alle anime umane rivelato il Verbo divino, e la pienezza della grazia in lui contenuta. Laonde se l' umanità di Gesù Cristo fosse stata sempre presente agli uomini, non sarebbe bisognato l' istituire de' Sacramenti. La vista di quella santissima umanità, le sue parole, il contatto delle divine carni erano altrettanti mezzi sensibili pe' quali da Cristo poteva passare negli uomini ogni maggiore abbondanza di grazia. Al tatto delle sacratissime mani di Cristo era annessa virtù non solo di sanare tutti i morbi del corpo, ma anco quelli dell' anima, e così di « sanar tutto l' uomo intero« (4) » in corpo e in anima: le parole sue erano « spirito e vita« (5) » e il suo sermone « mondava« » l' uomo da ogni macchia di peccato (6); la vista dell' umanità sacratissima di Cristo aveva efficacia di innalzare l' anima di chi la vedeva alla cognizione e contemplazione del Verbo e per esso del Padre (1). Perciò l' umanità di G. Cristo era quel mezzo sensibile, che agendo sui sensi dell' uomo valeva soprabbondantemente a ristorarlo e santificarlo. Ma questa umanità non dovea restar sempre palese e sensibile fra gli uomini, ma da essi occultarsi; doveva ascendere alla destra del Padre (2). Era dunque necessario di lasciare al mondo qualche altro mezzo o segno sensibile, acciocchè per l' azione di cose sensibili l' uomo racquistasse la salute, e questo mezzo furono i Sacramenti. Egli è a questo che allude Gesù Cristo quando in sul partire dal mondo diceva quelle parole: « Padre Santo - fino a tanto che io era con essi, io li conservava nel nome tuo (3), » e ancora «« conservali tu nel nome tuo - santificali nella verità« (4), » attribuendo al Padre la virtù santificatrice de' Sacramenti, come fontale origine dello Spirito Santo, il quale però procedendo per via del Figlio dice che « li santifichi nella verità, » che viene a dire nel Figlio che disse «« io sono la verità« (5). » Il più augusto di questi Sacramenti è quello della Eucaristia. Per esso Gesù trovò il modo di far rimanere sopra la terra in occulto la sua sacratissima umanità nello stesso tempo che è palese in cielo in istato glorioso: e questa umanità, mediante un tal Sacramento, si trova contemporaneamente in qualsivoglia luogo del mondo e vicina a tutti gli uomini. Mentre fu visibile in terra comunicò della propria autorità e virtù a' suoi Apostoli, acciocchè potessero consecrare ed amministrare gli altri Sacramenti (6). Egli prescrisse loro l' uso di alcune parole, in virtù delle quali in suo nome e come suoi istrumenti amministrassero i Sacramenti. Determinò loro altresì l' uso di alcune materie cioè dell' acqua e dell' olio, di alcuni riti come dell' imposizione delle mani, alle quali cose debitamente adoperate aggiunse la virtù santificatrice uscente dal suo corpo (1). La sua umana presenza consacrò parimente il matrimonio in Sacramento. Perciò egregiamente S. Tommaso scrive che [...OMISSIS...] . Si chiederà, in qual maniera l' umanità di Cristo possa comunicare della virtù alla materia de' Sacramenti? Di quell' acqua o di quell' olio ch' egli toccò nel Giordano o in altra occasione mentre era su questa terra, può in qualche modo concepirsi, ma della materia che si usa nella Chiesa dopo la sua salita al cielo come si può dire altrettanto? Rispondo direttamente alla questione, che in più modi, a noi del tutto incogniti, l' umanità sacratissima di Cristo può comunicare di sua virtù all' acqua del battesimo, e all' olio della Cresima e dell' Estrema unzione; e fra questi modi non è punto assurdo, anzi egli è cosa probabile e pia, il concepire che l' umanità santissima in un modo invisibile ed ineffabile si metta al contatto con quelle materie al pronunciarsi delle parole mistiche da chi amministra il Sacramento. E qual maraviglia di ciò, se nella consecrazione del pane e del vino, avviene invisibilmente non solo il contatto dell' umanità di Cristo con quelle sostanze, ma ben anco quel fatto degno d' ogni stupore che l' umanità dell' Uomo7Dio assuma la sostanza del pane e del vino in sè e la tramuti in sè stesso? Se in questo che è il massimo de' Sacramenti l' umanità di Cristo unisce a sè sì fattamente quel cibo e quella bevanda fino a transustanziarla, quanto più è facile a credersi che l' umanità medesima di Cristo possa venire, in proferendosi delle parole, a un invisibil contatto con quelle altre sostanze, il che sarebbe pur tanto meno di quel che crediamo fermissimamente avvenire nel Sacramento eucaristico! (3). E non viene rinforzata questa opinione dall' insegnarsi comunemente nella cristiana teologia, che la facoltà del benedire e consecrare il pane eucaristico contiene in sè anche quella di amministrare i tre Sacramenti sopra toccati, e in universale la facoltà di benedire tutte le cose? Egli è poi manifesto che ne' Sacramenti dell' ordine, della penitenza e del matrimonio la virtù santificatrice della divina umanità si dee comunicare in altro modo. In questi Sacramenti non è la carne ma l' anima dell' Uomo7Dio che immediatamente opera: conciossiachè si effettuano que' Sacramenti mediante atti di potestà giudiziaria o sacerdotale, o finalmente mediante un atto di amore; e gli atti di potestà e di amore vengono dall' anima a dirittura. Egli è Cristo giudice che opera nel Sacramento della penitenza, Cristo sacerdote in quello dell' ordine, Cristo sposo nel matrimonio. Ma ci tornerà ancora il bisogno di ritoccare quanto qui vogliamo solo avere accennato. Veramente i Sacramenti della nuova legge non sono già puri elementi sensibili e materiali, ma ciò che è sensibile in essi non è che l' esterno e questo esterno in un senso assai vero potrebbesi chiamare tutto insieme la materia del Sacramento (1). Ad esso va congiunto una parte invisibile che è lo Spirito Santo, il quale veramente è la forma di tutto il Sacramento. Queste due parti l' una esterna e l' altra interna son espresse in quelle parole che Cristo disse del Battesimo: « Se alcuno non sarà rinato dall' ACQUA, e dallo SPIRITO SANTO non può entrare nel regno di Dio« (2). » Nè si contentò Cristo d' indicare con tutta distinzione queste due parti, di cui è formato il Sacramento; ma volle anche fare intendere che la parte principale ed attiva, il che è quanto dire la parte formale, in esso è propriamente lo Spirito invisibile, al che fare soggiunge: « ciò che è nato di carne è carne, e ciò che è nato di spirito è spirito« (1). » Non dice più ciò che è nato dall' acqua e dallo spirito; ma a dirittura ciò che è nato di spirito. E` dunque uopo di considerare la parte esterna e la parte interna del Sacramento, il sensibile e lo Spirito Santo, come due cose congiunte insieme in un modo ineffabile e formanti un solo Sacramento, appunto a quel modo, come innanzi dissi, dovea essere allo stato innocente del mondo congiunto Iddio colla natura e come una cosa con questa operare (2). A quella similitudine, per giovarmi di un pensiero di S. Tommaso (3), che nella favella umana opera congiuntamente qualche cosa di materiale, cioè la voce, e qualche cosa di spirituale, cioè un' intelligenza, che dirige e cagiona quella serie di suoni; sicchè la favella è una sola produzione di due cagioni, che opera congiuntamente; così anco il Sacramento risulta e dall' esterna operazione dell' uomo, e da quella interna del Santo Spirito che s' accompagna all' operazione esteriore. E questa non è, secondo la mente dell' Angelico, un solo accompagnamento (4). Ma Iddio con quel congiungersi che fa alla parte sensibile ed esteriore del Sacramento è come l' anima per così dire che avviva e avvalora essa parte materiale del Sacramento. Vero è che nella similitudine della lingua, ciò che fa intendere il significato delle parole non è solamente l' esser esse disposte e regolate dall' intelligenza che le pronunzia, ma bensì l' esser ricevute da una intelligenza che ha in sè stessa il lume della verità e la facoltà di ragionare cioè di applicare quel lume alle sensazioni (5). Sicchè nel mirabil fatto della intelligenza delle lingue, tutto il formale dell' intendere procede dal lume interno di chi intende, e le parole non sono che suoni materiali che diventano segni appunto in virtù di quel lume. Il perchè ritenendoci a questa similitudine di S. Tommaso e volendo usare il parlare teologico, la parte esterna del Sacramento non sarebbe più che una causa istrumentale e fisica, ma di quelle che operano indirettamente alla consecuzione dell' effetto (6). E questo conviene con ciò che abbiamo più sopra esposto circa il modo di operare de' Sacramenti (1). Ma se noi non usiamo la parola Sacramento a solo significare la parte esteriore di lui, ma tutto insieme essa e lo spirito che è come l' anima sua; senza alcuna esitazione noi affermeremo allora, che il Sacramento è non solo causa fisica, ma ben anco causa fisica7diretta (2). E con queste distinzioni crediamo agevole il comporre insieme i diversi pareri de' teologi cattolici, e i vari luoghi delle Scritture e de' Padri che sembrano fra loro contrari e ripugnanti. E tuttavia aggiungerò una parola su quel mirabile modo di agire della materia de' Sacramenti santificata dalla forma. Io non parlo che del pane e del vino consecrato, dell' acqua del battesimo e dell' olio della cresima e della estrema unzione. E di queste corporali sostanze o qualità domando io: in che modo esercitano esse sull' uomo quell' azione, che le rendono, come detto abbiamo, cagioni istrumentali indirette della grazia? (1) operano esse per la via delle sensazioni? Rispondo che non per la sola via delle sensazioni, ma sì bene per un principio anteriore a quello della sensazione, voglio dire pel principio della vita. Noi abbiamo veduto che la vita è qualche cosa che precede il sentire, il quale è una funzione della vita (2): abbiamo veduto ancora come il principio vitale presiede sì fattamente a tutta l' animalità, che qualsivoglia modificazione nasca in esso, l' animalità tutta si risente e modifica secondo certe leggi, il che si appalesa ne' nuovi fenomeni che, secondo certe leggi, compaiono nelle diverse facoltà e funzioni ed atti dell' essere animato. Che se la modificazione che risente il principio vitale è buona, tutto nell' animale si ristora e si rallegra: se per opposto è mala, nascono in lui variatissimi sintomi morbosi. Ora io avviso che la virtù della materia santificata ne' Sacramenti operi ineffabilmente sul principio animale; e per questa via modifichi salutarmente l' animalità, in quelle sue parti più sottili e delicate, che inservono agli istinti migliori; e indi avvenga che l' uomo cominci in questa parte ad essere acconciato e disposto all' ultima e tutta spirituale azione che contemporaneamente e congiuntamente viene operata dalla grazia. Per tal modo è bensì necessario il contatto alla valida collazione de' Sacramenti indicati, ma non è punto uopo che questo contatto generi un' avvertita sensazione. Questa maniera di operare si renderà ancora meno difficile a spiegarsi in qualche modo, quando si pensi che la comunicazione di Dio coll' uomo non avviene già mediante qualche modificazione che sostenga la natura divina, ma sì mediante una modificazione della natura umana. Perocchè Iddio è immutabile; è presente in ogni luogo, in ogni cosa. Acciocchè dunque l' uomo il percepisca, non si richiede se non che l' uomo riceva la facoltà di percepirlo; come a vedersi una luce diffusa ovunque non si addimanda se non una virtù visiva: conciassiochè ai ciechi quella luce splendente in ogni luogo parrebbe che non fosse. Si tratta dunque nella rigenerazione soprannaturale dell' uomo di dare a questo un principio di vita nuova contenente virtù di vedere Iddio presentissimo a tutte cose (1). Ora egli è meno difficile a intendere come all' uomo possa essere aggiunto questo nuovo principio vitale senza alcuna mutazione da parte di Dio, che non sia l' intendere come Dio stesso potesse essere comunicato pel veicolo dei sensi. Questa virtù o vita nuova, onde l' uomo si fa potente di vedere Iddio, verrebbe in tal modo a sussister nell' uomo in una maniera molto analoga a quella onde comincia in esso l' intelligenza. Questa, che è la facoltà di veder l' essere iniziale, viene prodotta nell' uomo all' atto della generazione in quella maniera che abbiamo altrove descritta. Ora a quella foggia che organizzandosi l' animalità dell' uomo mediante la generazione carnale vien dato a questo contemporaneo il lume dell' intelligenza, perchè la carne viva ch' egli riceve è porzione e propaggine della carne del primo uomo, a cui il lume d' intelligenza è stato affisso, così essendo stato affisso all' umanità di Gesù Cristo il lume divino o anzi Dio stesso, non è meraviglia che [a] quel contatto delle carni divine colle carni degli altri uomini questo divino lume pure si comunichi, cioè ricevano gli uomini la virtù soprannaturale di vedere Iddio, quasi, voleva dire, come un corpo riscaldato ne scalda un altro al suo contatto, o quasi come un ferro magnetizzato ne magnetizza un altro che a lui si strofina, o più veramente a quel modo che le particelle inanimate del cibo intromesse per le vie dello stomaco nei meati sottilissimi del corpo umano, ricevono per quella elaborazione e vicinanza di parti vive anch' esse la vita. La ragione poi per la quale questo discorso non si può applicare a' tre Sacramenti della penitenza, dell' ordine e del matrimonio è la seguente: Il fine essenziale al Sacramento della Penitenza è l' assoluzione da' peccati, e il sacerdote amministrandolo fa un atto di giudice. Ora un tal atto non si fa coll' applicare all' uomo alcuna medicina, ma col pronunciare la sentenza: il perchè non è bisogno d' altro in questo Sacramento che delle disposizioni del penitente, e del proferimento dell' assoluzione. Il fine essenziale al Sacramento dell' Ordine è di conferire una potestà sul corpo reale e mistico di Cristo, non di guarire o migliorare direttamente l' uomo che lo riceve. Ora la potestà viene conferita semplicemente dalla volontà di chi la possiede e ne può disporre, e può conferirla in quel modo che a lui ne pare. Ella passa dunque dal Vescovo negli ordinandi come passò da Cristo ne' Vescovi, senza bisogno che venga applicata al corpo umano alcuna sostanza medicinale per così esprimermi, se non come segno stabilito a manifestare la volontà di Cristo; dalla qual sola quella potestà si trasferisce. Finalmente il Sacramento del Matrimonio ha per fine di santificare l' amore che unisce gli uomini, e ciò si ottiene per l' imitazione dell' amore ch' ebbe Cristo verso gli uomini. Ora l' unione dell' uomo e della donna è attissima a rappresentare appunto l' indissolubile unione di Cristo colla sua Chiesa. Ora Cristo comunica appunto dell' amor suo agli sposi battezzati, che osservano nelle loro nozze quanto stabilisce la Chiesa a fine di riconoscerle per Sacramento. Conciossiachè se la Chiesa vede in quelle nozze l' imagine dell' unione sua con Cristo, anche Cristo ivi parimente la ravvisa e se ne piace, e così comunica loro della grazia del suo amore. Riepilogando tutto ciò che abbiamo detto, la perfezione della grazia non si potea comunicare agli uomini che colla comunicazione del Verbo pel quale solo potevano conoscere il Padre, e dal quale ricevere lo Spirito Santo, e quindi edificarsi nelle loro anime la rivelazione e la grazia triniforme. Ma il Verbo si dovea comunicare mediante l' umanità da lui assunta. Questa umanità assunta dal Verbo, cioè l' umanità di Cristo era piena di grazia e aveva potenza di trasfonderla negli altri, non pure perchè inabitata e retta da Dio, ma perchè coi patimenti soddisfaceva alla giustizia e pagava il debito della redenzione, e a Dio rendeva un ossequio infinito, e da lui di poter tutto in vantaggio degli uomini si meritava (1). Era ella adunque strumento acconcissimo a comunicare agli uomini la cognizione del Verbo da cui era informata, e la pienezza della grazia. Ma ciò potea fare non solo immediatamente per sè stessa quella umanità, ma comunicando altresì la stessa virtù ad ogni altra cosa sensibile (2). Ora queste comunicazioni di virtù e di santità che si riversa per così dire e travasa dal Verbo nell' umanità assunta da questa, nelle cose sensibili, materia de' Sacramenti, al proferirsi delle parole, e dalle cose nelle persone che ricevono i Sacramenti, sono altrettante azioni reali che non potevano aver luogo in modo alcuno prima della reale incarnazione di Gesù Cristo. Però degli antichi Sacramenti non si potea dire ciò, che tanto acconciamente si dice de' nuovi, cioè che per essi l' uomo S' INCORPORA a Cristo (1): la qual maniera prende luce di evidentissima verità dalla dottrina da noi esposta sul modo onde l' umanità di Cristo opera ne' Sacramenti. E perciò quelli che si chiamano Sacramenti dell' antico Testamento non potevano in alcun modo avere la virtù di quelli del nuovo, e convenevolmente sono detti da S. Paolo « elementi infermi e poveri« (2). » I Sacramenti di Cristo adunque operano nell' uomo con un' azione reale e necessaria. Conviene rammentarsi de' due principii che abbiamo stabiliti nel sistema della perfezione umana, l' uno il principio della morale naturale, e l' altro il principio della religione soprannaturale (1), quello consiste in un' idea dietro la quale opera la volontà, questo consiste in una percezione che muove istintivamente l' uomo anteriormente ad una deliberazione volontaria. La grazia de' Sacramenti è un principio antecedente alla volontà, opera nella essenza dell' anima prima che nelle potenze (2) ed è perciò che la sua azione è da parte di sè necessaria (3). Egli è per questo che S. Paolo avvisa l' uomo di non gloriarsi del suo operare, perocchè con solo questo egli non ha la salute, ma egli l' ha per l' operazione che fa in lui Cristo; il che è quanto dire che non è il principio morale che lo salva, ma il principio religioso . La potenza e la necessità con cui opera questo principio è tale, che l' atto e l' effetto suo viene paragonato alla creazione, e l' uomo che riceve una tanta azione è una nuova creatura, nel qual senso disse l' Apostolo: « Niente vale la circoncisione nè il prepuzio, ma la nuova creatura« (4), » la qual nuova creatura non si fa per alcuna morale naturale, ma per la mistica e ineffabile operazione de' Sacramenti di Cristo nell' anima di quelli che li ricevono. E nella lettera a' Romani, è l' Apostolo quasi solo inteso a dimostrare pur questo, che la morale dell' uomo è un principio insufficiente alla salute dell' uomo, che la volontà è così debole che è incapace di mantenere la legge; ma che all' uomo fa bisogno l' altro principio religioso, che opera in lui, prevenendo la sua volontà, per la potenza di Cristo, e così il fa rinascere, e l' avvalora a mantener poi anche la legge morale, sicchè tutto ciò che l' uomo può avere di salute in sè il trae dall' abbandonarsi a Cristo, o dalla fede in lui, nella sua potenza e virtù salutifera « per le opere della legge nessuna carne si giustificherà in faccia sua« (5) » perchè tutti hanno peccato e sono impotenti a mantenere la giustizia, avendo l' ingiustizia aderente a sè stessi per natura: [...OMISSIS...] . Che resta dunque a salvamento? Non la umana, ma la giustizia di Dio, cioè quella che infonde Iddio pe' Sacramenti e che ha per base la fede: [...OMISSIS...] . E sono i Sacramenti quelli che infondono la fede, di cui tante cose dice S. Paolo, massime il Battesimo, il quale è ordinato appunto a rigenerar l' uomo colla infusione dell' abito della fede (3). Or dunque, se questo è l' operare de' Sacramenti della nuova legge, se la loro è un' azione reale, se il poter fare quest' azione reale viene loro comunicato dalla reale umanità di Cristo, che restava adunque di virtù a que' riti che si chiamano Sacramenti dell' antica legge, quando Cristo non era ancora realmente venuto al mondo e non aveva patito, e perciò non potea da lui derivarsi una tanta virtù? Nessuna azione reale poteva ad essi derivarsi, come più sopra abbiam detto. Nulla di meno anche allora non mancava il mezzo della salute, ed essi stessi que' riti a ciò non poco giovavano. Se Cristo allora non era nell' ordine delle cose , poteva però essere nell' ordine delle idee ; e come dopo Cristo gli uomini sono salvati dalla sua reale azione, così avanti Cristo erano salvati, se mi è lecito così esprimermi, dalla sua azione ideale . Che cosa è l' idea di una cosa? egli è il principio della cosa (4). Cristo dunque coll' essere nelle menti degli antichi cominciava per essi ad esistere e ad operare. Il principio adunque da cui dedurre la differente virtù degli antichi e de' nuovi Sacramenti è la distinzione fra l' ordine ideale e l' ordine reale (5): gli antichi Sacramenti appartenevano al primo di questi due ordini, e i nuovi appartengono al secondo. Perciò egli basta considerare la natura del primo di questi due ordini e paragonarla colla natura del secondo a dover poter conoscere qual fosse l' indole e la virtù de' Sacramenti antichi messi a paragone de' nuovi. Come l' ordine ideale non è che un primo elemento dell' ordine reale; così gli antichi non potevano essere che primi elementi de' nuovi Sacramenti; ed è perciò che con questo nome di elementi li chiama S. Paolo (1). Per la ragione contraria, come l' ordine reale è il compimento e la perfezione dell' ordine ideale, così i nuovi Sacramenti sono il compimento e la perfezione degli antichi. E però disse S. Paolo che « la legge non avea condotto nulla a perfezione« (2). » L' idea ancora è il tipo esemplare della cosa, e perciò gli antichi Sacramenti stavano a' nuovi come la rappresentazione sta al rappresentato. Ed è questo che S. Paolo dice chiamandoli ombra delle cose future, della qual ombra il corpo è Cristo (3). L' idea non ha alcuna azione reale sull' uomo, e la grazia consiste in una azione reale (4). Gli antichi Sacramenti adunque non potevano contenere la grazia, e però S. Giovanni dice: « la legge è stata data per Mosè, ma la grazia e la verità è stata fatta per Gesù Cristo« (5). » Nelle quali parole è da osservare la proprietà di quello« è stata fatta« e non data, come la legge, indicando così l' energia e l' efficienza della grazia, a differenza della legge che si comunica in parole senza cangiar nulla nell' uomo. L' idee e la cognizione rappresentativa delle cose può aver congiunta la promessa e la predizione di esse, e quest' ufficio prestavano appunto gli antichi Sacramenti. Per ciò distinguendo gli antichi Sacramenti da quelli del nuovo S. Agostino dice: [...OMISSIS...] . A cui consuona quanto il Sommo Pontefice Eugenio IV scriveva agli Armeni: [...OMISSIS...] . Un altro ufficio, ed il più nobile, a cui furono destinati i Sacramenti dell' antica legge era di eccitare la fede nelle promesse del venturo Messia, e la certa speranza del Redentore. Al quale ufficio è acconcissimo l' ordine ideale, che rappresenta la cosa futura all' intelletto, massime s' egli sia aiutato e sorretto da imagini le quali colorano e incarnano, per così dire, le idee traducendo sotto i sensi le cose ideate. E questo appunto facevano i Sacramenti antichi, i quali nel mentre che pubblicavano continuamente le promesse rivelate dal Redentore, le fermavano e le scolpivano nelle menti. Indi nasceva o certo si manteneva, e s' avvigoriva la fede nel Cristo futuro, la brama della sua venuta, e la grande aspettazione di lui; e questo era atto della volontà meritorio; perocchè per questa fede l' uomo si riconosceva misero e bisognoso di chi il giustificasse, e si fidava di Dio e di Cristo, che avrebbe egli operata quella giustificazione, che l' uomo non potea dare a sè stesso. E l' uomo che a Dio così s' abbandonava non poteva non essere da lui sostenuto e soccorso. Ora Cristo in tal modo nelle menti degli antichi esistente in idea operava, la quale operazione è una cotale emissione del suo spirito, di cui dice S. Pietro [...OMISSIS...] . E S. Giovanni osa ancor più, e dice che « l' agnello è stato ucciso fino dall' origine del mondo« (2) » per indicare che è stata rivelata la sua morte, conosciuta, creduta, e così resa operativa a salute degli uomini. S. Paolo poi si stende nella lettera agli Ebrei (3) a lungo a mostrare come tutti gli antichi Padri ebbero ogni loro salute e virtù dalla fede, e dice che di questa fede era « autore« » Gesù, quegli stesso che ne fu anche il « consumatore« (4) »: autore della fede antica, consumatore della nuova: non che Gesù, come figliuolo dell' uomo, esistesse realmente nell' antico tempo, ma egli esistea nelle menti e nella fede, e così operava, e dirigeva le loro operazioni (5). Finalmente i Sacramenti antichi non pure giovavano a mantenere o fomentare la fede di generazione in generazione; ma in quelli che li ricevevano erano« segni protestativi« della fede già ne' loro animi concepita. Perciò dice S. Tommaso che « i Sacramenti della vecchia legge erano certe protestazioni di quella fede, in quanto significavano la passione di Cristo e i suoi effetti« (1). » Tanto più che que' Sacramenti sotto la legge di Mosè vennero da Dio comandati, sicchè inchiudevano ad un tempo un atto di fede e un atto di ubbidienza: con che divenivano condizioni a dover piacere a Dio, al quale non può piacere il disubbidiente. La salute avanti Cristo non veniva che dalla fede in Cristo. Perciò egregiamente dice l' Angelico: [...OMISSIS...] . Or se la fede nell' antico tempo era il principio della giustificazione vedesi come questa giustificazione potea seguire talora senza i Sacramenti, come presso le nazioni, talora co' Sacramenti, come presso gli Ebrei, essendo questi Sacramenti da loro richiesti da Dio per segni della loro fede (3). Di qui si vede ragione perchè in Abramo la giustificazione precedette la circoncisione; fu perchè alla circoncisione precedette la fede. V' ebbe nel santo Patriarca prima la fede, poi la giustificazione, finalmente la circoncisione suggello di quella giustificazione che aveva ottenuta per la fede. Perciò il Genesi attribuisce alla fede la giustificazione di Abramo, dicendo « Abramo credette a Dio, e gli fu riputato a giustizia« (1). » Commentando il qual passo l' Apostolo soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma questa fede che giustificava dovea essere effettiva ed operativa; chè non sarebbe stata vera fede alla parola di Dio quella che fosse disubbidiente. Perciò, dopo istituiti i Sacramenti come atti protestativi della fede, si doveano questi praticare per ubbidire a Dio che gli avea comandati e non vi potea essere vero fedele che li trascurasse. I Sacramenti adunque mettevano il suggello alla fede, e la completavano, la rendevano meritoria col renderla ubbidiente e perciò effettiva (3). Indi è che S. Giacopo attribuisce la giustificazione di Abramo alla ubbidienza, cioè alla fede ubbidiente, dicendo: [...OMISSIS...] : le quali parole fanno la dichiarazione di quelle sovra recate di S. Paolo, anzi che loro contraddire. Per tal modo i Sacramenti antichi giustificavano l' uomo non in virtù loro propria, come quelli del nuovo patto, ma della fede di quelli che li ricevevano in quanto erano atti consumativi di questa fede (5). Da tutto ciò che abbiamo detto fin qui si può raccogliere quale è la legge, secondo la quale crescer dovea la perfezione umana soprannaturale, e in che stato si trovava questa perfezione innanzi alla venuta di Cristo, in che dopo questa venuta. Ritorniamo un po' sui nostri passi, giacchè un argomento sì rilevante richiede che sia illuminato con ogni più diligente dichiarazione. Abbiamo già toccato altre volte questo vero, che« la dottrina della perfettibilità umana« come la presentano i filosofi, è in contraddizione alla dottrina cattolica. I filosofi e propriamente parlando i sofisti vogliono che« l' uman genere considerato nelle sole sue forze naturali abbia una tendenza e un movimento reale verso una sempre crescente perfezione«. La dottrina del cristianesimo all' incontro intorno alla perfettibilità della specie umana consiste ne' capi seguenti: 1. L' uomo fu creato da Dio innocente. In questo primitivo stato all' umanità presiedeva la felicissima legge della perfettibilità e l' uomo avea tanto la tendenza quanto il reale movimento incessante verso una maggior perfezione. 2. L' uomo si corruppe mediante la colpa. In questo stato di scadimento l' uomo non perdette una cotale tendenza alla perfezione, poichè questa è a lui naturale, giacchè la sua natura è come un germe destinato a svilupparsi; ma perdette il reale movimento verso la perfezione, perchè a cagione del peccato sono entrate in lui delle altre tendenze verso il male più forti di quelle verso il bene, che però isterilirono e al tutto oppressero la tendenza alla perfezione. Di più. Inserito nell' uomo un germe di corruzione più forte del germe nativo di perfezionamento, quello dovette crescere e vegetare più rigoglioso e soffocar questo, e per ciò nel genere umano corrotto, ove si considera abbandonato alle sue sole forze, secondo lo spirito della cristiana dottrina« vi ha una sterile tendenza al bene e un reale continuo movimento verso il male«, ciò che è quanto dire, che non è la legge di perfettibilità che domini, ma la legge di degradamento . S. Tommaso, questo autorevolissimo compendiatore dell' ecclesiastica tradizione, insegna in più luoghi avervi una degradazione continua dell' umana specie abbandonata a sè stessa, a cui riparare dovette Iddio, venir crescendo successivamente i lumi della sua rivelazione. Ecco uno di questi luoghi assai chiari del santo Dottore: [...OMISSIS...] . 3 L' uomo che aggravato dal peso della propria corruzione precipitava nel male fu soccorso da Dio, colla rivelazione e colla grazia. Questo elemento divino è un nuovo principio, un nuovo germe che pur egli deve svilupparsi e crescere, ed è più vigoroso dello stesso germe del male. Esso per ciò dà origine ad una« nuova legge di perfettibilità« a cui è avventuratamente soggetta non l' umanità abbandonata a sè stessa, ma solo l' umanità aiutata da Dio. Da tali verità S. Paolo deduce per corollario, che la salute e la perfezione umana è superiore alle sole forze naturali dell' uomo. Conciossiachè l' uomo avendo un principio prevalente di degradazione conosce il bene e non ha le forze di seguirlo. Per riferire compendiate le sue parole egli dice che [...OMISSIS...] . Di che avveniva che eran perduti, per giudizio lor proprio, perocchè il conoscere il vero era la condannazione del male che operavano (2). Nè più valse a salute degli uomini la legge mosaica. Poichè anche questa non faceva che dar la notizia delle cose a farsi, non la virtù di farle. Ed ora « non sono giusti appresso Dio gli uditori della legge, ma sono giustificati solo quelli che la eseguiscono« (3). » In quanto alla cognizione della presente legge, dice S. Paolo, « i Gentili avevano il lume naturale, e però erano legge a sè stessi« (4) » e mostravano talora di conoscere il bene anche ponendo alcune opere buone, o disputandone (5). Ma come non valse loro il conoscere il bene, se non a condanna maggiore, così non valse a' Giudei l' aver la legge se non ad aumento di condannazione non praticandola (6). Nè nella natura adunque, nè nella legge esterna, la quale nel suo stato di legge esterna nulla conteneva di soprannaturale, poteva l' uomo trovare virtù e forza che riparasse alla corruzione originale: egli era infermo, egli era impotente sì a seguire la ragione che ad osservare la legge, ed era fatta la sentenza « tutti quelli che senza legge peccarono, senza legge periranno, e tutti quelli che peccarono nella legge, secondo la legge saranno giudicati« (1). » Iddio adunque diceva all' uomo, che « renderà a ciascuno secondo le sue opere« (2). » Ma l' uomo per questa via di giustizia non poteva salvarsi perchè le sue opere non potevano esser buone. Il principio morale (il volontario) era guasto nell' uomo, e quinci non era da sperare salute: tutti secondo un tal principio erano rei: rei li dichiararono le divine Scritture senza eccezione da Giudei a Gentili (3). Ci voleva adunque un altro principio, argomenta S. Paolo, da cui venisse la salute umana. E questo principio qual poteva essere se non era il morale? Risponde l' Apostolo: questo principio è « la virtù di Dio che dà salute ad ognuno che crede; al Giudeo prima ed al Greco« (4). » Non la giustizia può salvar l' uomo, ma la gratuita misericordia di Dio, che salva i suoi stessi nemici. E però dice, che la « giustizia di Dio (cioè la sua santa misericordia) si è manifestata senza la legge - che questa giustizia di Dio (e non dell' uomo) si è manifestata per la fede di Gesù Cristo (la qual sola può salvare) poichè tutti peccarono e però tutti abbisognan della gloria di Dio« » che risplende in una misericordia così preveniente. E conchiude che dunque siamo « giustificati gratis per la grazia di lui per la redenzione che è in Cristo Gesù - che però l' uomo non si può gloriare menomamente« (5). » Egli reca l' esempio di Abramo, la cui giustificazione provenne anch' essa da una gratuita misericordia in conseguenza della sua fede, non per una giustizia dovuta alle sue opere. [...OMISSIS...] . Da questa frase S. Paolo argomenta che per la fede fu giustificato Abramo non perchè ciò meritasse secondo una stretta giustizia, ma per un dono della grazia di Dio. Perchè la Scrittura dice: « gli fu riputato il suo credere a giustizia«. » Quel « gli fu riputato« » viene a dire che non gli era dovuta strettamente da Dio una tale giustificazione: [...OMISSIS...] . E questa è quella beatitudine che Davidde commenda in coloro a cui furono rimesse le colpe (2): erano colpevoli, ma sono tuttavia beati perchè Iddio ha loro perdonato, e gli ha resi salvi senza loro merito di propria virtù. Se la giustificazione di Abramo fosse stata dovuta per giustizia, la Scrittura l' ascriverebbe alle sue buone opere; ma nulla di ciò; l' ascrive tutta alla sua fede, senza le opere. Ella dunque fu e non poteva essere che gratuita (3). Ma per un' altra ragione, secondo l' Apostolo, era necessario il principio extra7morale, oltre per quella della impotenza dell' uomo ad operare il bene. Quando anco le forze morali dell' uomo fossero intere, egli non avrebbe potuto eseguire una perfetta giustizia, che al tutto il salvasse. Rimaneva certo intatto il principio della giustizia; perocchè Iddio è giusto [...OMISSIS...] . Ma che? qual è il codice, secondo il quale si dee giudicare e distinguere quelli che operano il bene? quelli che operano il male? forse la legge naturale? forse la sola legge mosaica? No, dice S. Paolo; ma l' Evangelio: [...OMISSIS...] . Alla somma giustizia e perfezione di Dio partiene di giudicare secondo una legge perfetta; ma la legge naturale non è che incipiente, la legge mosaica non è che legale. La legge perfetta è una legge interiore e soprannaturale a cui non giungono le forze della volontà naturale, se non sorrette dalla grazia. Egli è dunque questo principio extra7volontario in ogni caso necessario alla salute dell' uomo. Forse, dice S. Paolo, che Iddio non renda giustizia ai Gentili se fanno il bene? se mostrano l' opera della legge scritta nei loro cuori? (1). No; ma questo preteso bene che fanno dee subire la prova del giudizio divino, che sarà fatto secondo la legge perfetta. Forse che Iddio non rende giustizia agli Ebrei che operano le loro cerimonie? No; ma la circoncisione anzi giova, purchè « vi sia la condizione aggiunta che osservi la legge« (2). » E che questa legge sia non la lettera, ma veramente « le giustizie della legge« (3)« la consumazione o perfezione della legge« (4),« la legge spirituale«, » che è il carattere della legge evangelica. Perocchè non è vero Giudeo quegli che è tale al di fuori, nè vera circoncisione quella« che è al di fuori nella carne; [...OMISSIS...] . Tutte le opere dell' uomo non arrivano a tanto, se Iddio stesso non solleva l' uomo a quest' ordine di perfezione. Perciò quando anco « Abramo fosse giustificato in virtù delle opere sue, che potrebbe esser ciò? avrebbe gloria, ma non presso Dio« (6). » Avrebbe potuto soddisfare gli uomini, che giudicano con una norma imperfetta, quale è il lume della ragion naturale; ma non avrebbe mai soddisfatto Dio, il qual giudica con una norma perfetta, col lume del suo Verbo, nel Vangelo fatto a noi manifesto. Ogni operazione umana adunque qualunque ella possa essere, rimansi imperfetta, e incapace di giustificare pienamente l' uomo nel divino cospetto; e non havvi altro fonte perciò di salvamento se non l' operazione di Dio stesso; sì fattamente che il solo Dio sia in ultimo glorificato. Ora se questo è l' ordine dell' umano salvamento e perfezionamento; se questo non si può ottenere se non per quella via che umilii l' uomo, e Dio solo esalti; qual sarà quella strada legittima che a tanto lieto fine ci scorga? forse quella de' fatti nostri? non già, ma quella della fede nella sua misericordia: [...OMISSIS...] . A questa dunque dee l' uomo ripararsi come a solo asilo di suo salvamento. Ma forse che facendo dipendere la salute umana da un principio estraneo all' umana volontà (1), si viene con ciò ad escludere l' uso di quella potenza e però l' esercizio delle buone opere? Non già, dice l' Apostolo, perchè il principio extra7morale, che è la virtù di Dio ed aiuta l' uomo credente, opera anzi sulla volontà e la fortifica, la rende capace di adempire la legge, che prima non era. [...OMISSIS...] . Ella è questa efficacia operativa della fede che S. Paolo chiama ora « giustizia della fede (4) » ora «« obbedienza della fede« (5). » Ed egli pare che l' ordine della giustificazione e santificazione dell' uomo secondo S. Paolo fosse il seguente: Cominciò l' uomo negli antichi tempi dopo il peccato a prestare a Dio una fede che almeno in quanto alla sua materia era naturale, cioè aveva per oggetti cose di questo mondo, e non invisibili e soprannaturali. Ora questa fede è al tutto sproporzionata al prezzo della santità giacchè quella è di cosa naturale, questa è soprannaturale. Iddio non di meno concedette all' uomo la giustificazione in vista di quella sua fede; ma non gliela potea concedere per giustizia, sì bene per pura grazia senza verun merito precedente (1). E veramente la fede di Abramo a bel principio fu di cosa naturale, cioè egli credette alla paternità promessagli contro tutte le apparenze umane quando il suo corpo era spento per poco e mezzo morta la vulva di Sara« per estrema vecchiezza«: e tenne tuttavia per fermissimo che quello che Iddio prometteva egli poteva ancora mantenere. Non ebbe adunque per oggetto di sua fede la divina santità, ma la divina potenza: [...OMISSIS...] e questa in cosa della presente vita « quale è un' amplissima discendenza, e perciò, dice l' Apostolo, gli fu riputato a giustizia« (3) » non secondo il debito ma secondo la grazia. Così avvenne la giustificazione gratuita di Abramo e degli antichi Santi. Ma come una grazia ne trae seco un' altra, così dopo avere Iddio giustificato Abramo, strinse con lui un' alleanza, la quale era una ripruova della giustificazione ottenuta da Abramo. Conciossiachè Iddio non fa alleanza se non co' giusti, come dicono le Scritture. Inoltre gli dà la circoncisione per segnacolo non meno di questa alleanza (4), che della giustificazione donatagli (5). Per conseguente di ciò avvenne in quinto luogo che Iddio consegnasse alla famiglia del Patriarca le sue rivelazioni: dicendo S. Paolo [...OMISSIS...] . Ora questi eloquii divini costituivano una materia soprannaturale alla fede, e così questa fede diveniva soprannaturale per cagione della sua stessa materia; ed ella si disviluppava, e rendeva sempre più esplicita, più che veniva crescendo il lume della rivelazione, cioè più che si veniva rivelando e svolgendo la gran tela dell' economia della umana salute e deificazione. Conviene adunque nel progresso della perfezione religiosa dell' uomo distinguere due fedi, l' una che precede la giustificazione, l' altra che la sussegue; l' una che ha per sua materia oggetti di questa vita, l' altra che ha per sua materia« gli eloquii divini « cioè le rivelazioni intorno alla comunicazione spirituale della divinità coll' uomo. Colla giustificazione comincia propriamente la grazia, anzi la giustificazione stessa è la prima grazia abituale e stabile; e questa grazia vien crescendo di mano in mano col crescere delle rivelazioni, e fa crescer la fede alle medesime. Ma giova ancora un po' più addentro ricercare la natura di questa fede, donata agli uomini da Dio medesimo colla sua grazia, e vedere in quale stato ella trovar si dovesse ne' giusti dell' antico Testamento. Già abbiamo distinta la reale comunicazione che fa Iddio di sè stesso all' uomo, dagli effetti o doni ch' egli produce nell' uomo senza tuttavia comunicare sè medesimo (3). E veramente altra cosa è che un agente produca un effetto restando egli stesso nascosto, e altro è che l' agente stesso si mostri operante. Colui che, stando dietro ad una tela o ad un muro, in virtù di certe sue macchinette fa comparire su questa tela o su quella scena qualsivogliano diverse rappresentazioni di figure che variamente si muovono; questi produce e dà vedere al di fuori i suoi effetti, ma sè stesso ancora non appalesa. Vero è che da questi effetti si può conghietturare e in alcun modo conoscere il giocoliere nascosto, il qual pure non si percepisce. Così parimente è a dirsi delle operazioni divine negli animi degli uomini. In alcune di esse Iddio produce mirabili effetti, senza però comunicare realmente e pienamente sè medesimo, in alcune altre dà sè medesimo a percepire. Nelle prime operazioni si può però ascendere coll' argomento della mente ad una causa al tutto divina, apparendo l' effetto così eccellente o difficile a prodursi, che nessuna causa finita il potrebbe. Ora la reale e piena manifestazione e comunicazione che Dio fece di sè agli uomini fu solo nella incarnazione (1). Prima di Cristo adunque vi aveano bensì delle operazioni divine nelle anime degli uomini, degli effetti e doni di Dio, ma Dio stesso non era ancora sostanzialmente e pienamente comunicato all' umanità. Nulla di meno Iddio7incarnato veniva rivelato. E questa ideale comunicazione di Dio era quella, che veniva dalla grazia illustrata e vivificata. Ma questa era una comunicazione tenuissima e al tutto iniziale; senza il lume della grazia poi era impossibile cosa che fosse intesa perocchè Iddio non si può intendere per via di sole idee (2), ma per atto di percezione. Nulla di meno l' ideale concetto unito alla grazia, che è una virtù reale, diede agli uomini una idea7percezione; o sia una tenue iniziale percezione della divinità, sì che non abbiamo dubitato di chiamare anche quella grazia dell' Antico Testamento deiforme . Questa idea7percezione di Dio e di Dio7Uomo era la materia della fede soprannaturale dell' antico Testamento (3). Conviene considerare attentamente la diversa maniera onde Iddio operava nell' uomo in antico, e quella onde Iddio opera dopo la unione ipostatica di Dio coll' umana natura in Cristo. Nell' antico Testamento tutta l' operazione di Dio nell' uomo era mentale , ma nel nuovo non opera per la sola via della mente, ma sì bene anche per la via della natura sensibile, perchè essendosi il Verbo fatto carne, la sua sacratissima umanità è divenuta istrumento atto ad operare anche sulla corporea natura degli uomini e purificar questa e santificarla a quella guisa che abbiamo dichiarato poc' anzi, sottraendola massimamente dalla potestà de' demoni (4). Ora la natura umana è cotalmente ordinata che riceve per gli organi vitali e sensitivi la materia delle cognizioni. Non essendoci adunque prima della venuta di Cristo una operazione per la quale Iddio si facesse sentire all' anima dell' uomo per la via dell' animalità, conveniva che tutta quell' idea di Dio, che formava come abbiam detto la materia della fede nell' antico Testamento, fosse negativa, e che la percezione che vi aggiungeva la grazia, non in altro consistesse se non in una cotale energia divina data a quella idea sebbene di forma puramente negativa. Di che apparisce via meglio come si potesse chiamare deiforme quella percezione; cioè non punto per ciò che rappresentava (essendo al tutto negativa l' idea), ma per la forza o energia da cui era accompagnata, il che spiega medesimamente come ciò che si comunicava nella rappresentazione non tanto dir si potesse Iddio medesimo immediatamente, ma un suo effetto, un suo dono (1). Si distingua adunque nella materia della fede dell' antico Testamento la parte rappresentativa dall' energia annessa. Quella prima parte era veramente nulla, perchè le idee negative non hanno rappresentazione alcuna , e per questo appunto si chiamano negative. Esse però hanno un' indicazione della cosa non rappresentata, la quale indicazione serve a determinare la cosa, unica maniera di conoscerla. Iddio e Iddio7incarnato non era rappresentato propriamente nelle anime degli antichi, ma indicato ; e questa indicazione per la virtù della grazia annessavi bastava però a dominar l' uomo; cioè l' idea negativa del Creatore potea aver tanta forza da prevalere a tutte le altre idee e percezioni (2). All' incontro nel nuovo Testamento Iddio7incarnato si è comunicato realmente e pienamente all' umana natura, e si comunica continuamente; e quindi l' anima dell' uomo ne sente e percepisce la real forma e natura, e quindi ne ha un' interna positiva rappresentazione , o intuizione. Ora il non conoscersi una cosa per sè medesima e l' aversi di lei una semplice indicazione viene a dire che quella cosa la si conosce per mezzo di altre cose da noi percepite le quali significano, simboleggiano o indicano essa cosa per una qualsivoglia relazione a noi cognita che con essa si hanno. Il perchè se di Dio7incarnato nell' antico tempo non s' aveva che quella idea negativa di cui toccammo, egli è manifesto che questa idea non poteva reggere nella mente senza quelle altre cose che fossero appunto gl' indizii di Dio, e però non senza simboli, figure e segni di ogni maniera. All' incontro nel nuovo Testamento si ha una percezione dell' uomo7Dio, e però ella è un' idea che ha corpo, è un' idea positiva; la quale può reggersi da sè, senza bisogno di quegli indizii che facevano uopo nell' antico Testamento. Questi indizii , vestigi umani, o traccie indicative di Dio e delle cose divine non fanno bisogno nel nuovo Testamento, se non per quel tanto della divina notizia, che non s' acquista per grazia ma solo per gloria. Laonde nella condizione della gloria, quando Iddio si vede e contempla al tutto svelatamente, cessa ogni simbolo ed ogni figura. [...OMISSIS...] Tre stati adunque si distinguano relativamente al bisogno de' simboli instruttivi e d' indizii: 1 quello in cui si percepisce interamente la cosa reale, nel quale cessa ogni bisogno di segni, e parlando della divina cognizione è lo stato de' comprensori; 2 quello in cui si percepisce in parte la cosa reale e in parte non si percepisce, e in questo non v' è bisogno di segni per quella parte che si percepisce, ma per l' altra che ci rimane impercetta. Tale è lo stato del' uomo in grazia nel nuovo Testamento indicato da S. Paolo in quelle parole « in parte conosciamo, e in parte profetiamo« (2) » cioè conosciamo come i Profeti dell' antico Testamento per via di figure. E poichè quella parte che noi quaggiù ignoriamo risguarda la vita futura del cielo, perciò i simboli misteriosi non si trovano nel nuovo Testamento se non nel libro dell' Apocalisse, che tratta della intera rivelazione che farà di sè Gesù Cristo, o in quegli altri luoghi nei quali a questa compiuta rivelazione di Dio, e di Cristo glorioso si accenna; 3 finalmente quello in cui la cosa reale punto nè poco si percepisce, nel quale stato i segni o indizii sono indispensabili, e senz' essi non si potrebbe avere pensiero alcuno della cosa. E questo è lo stato degli uomini dell' antico tempo, che S. Pietro chiama « luogo caliginoso« » dove non il sole ma solo splendeva la lucerna de' Profeti (3). L' antico tempo adunque era quello de' simboli o indizii della divinità, il nuovo è tempo misto, parte di percezione e parte d' indizii ; il futuro è tempo solo di percezione . Questa è la ragione per la quale venendo Cristo cadde e fu tolto quell' ammasso di riti, cerimonie e legalità che trovasi nell' antica Chiesa [...OMISSIS...] L' uomo nell' antico Testamento necessariamente dovea dunque essere legato e per così dire oppresso da un gran numero di pratiche e di simboli esterni e materiali, perchè senza di queste non potea sostenersi, e lumeggiarsi nella sua mente il concetto di Dio. Quello era un giogo, come dicono le Scritture stesse, insopportabile (2) e tuttavia necessario. Bastò poi un solo lume accresciuto nella mente dell' uomo, perchè tutto quel fascio di osservanze si rendesse inutile (3), nè più necessaria quella servile condizione; bastò che Iddio si comunicasse realmente agli uomini, il che fece il Verbo incarnandosi: indi la libertà de' cristiani; e perchè il Verbo è la stessa verità sostanziale, perciò egli disse [...OMISSIS...] Ma nel nuovo Testamento i segni prendono un altro ufficio che aver non potevano nell' antico. In questo non facevano che istruire, che sorreggere la mente a Dio; ma nel nuovo Testamento essi diventano i veicoli dell' azione reale, che il Verbo esercita su di noi e colla quale si comunicano; perocchè, come detto è, partecipano dalla reale umanità di Cristo una reale virtù di comunicarci ineffabilmente Dio medesimo. Ora poichè la fede è delle cose che non si veggono, apparisce da ciò che è detto, che il regno della fede era propriamente l' antico Testamento. Questa è la ragione perchè quel personaggio che rappresenta il Padre de' credenti (1) si trovi non nel nuovo, ma nell' antico Testamento, quando la cognizione della persona del Verbo era tutta negativa, e perciò tutta fede. Nel nuovo all' incontro regge la fede bensì, ma mista con una cotal luce « in parte veggiamo, e in parte profetiamo« (2) » come gli antichi. E tuttavia, sebbene la cognizione del Dio incarnato che venne data nell' antico Testamento fosse puramente negativa, ella però aveva un progresso ed uno sviluppamento. Questo progresso consisteva nell' aumento successivo delle indicazioni , colle quali Iddio determinava nella mente degli uomini le verità riguardanti il Dio Redentore. La prima rivelazione fu fatta subito dopo il peccato. Il demonio fu conosciuto come un essere malefico sotto l' indicazione di un serpente; Gesù Cristo sotto l' indicazione del seme della donna . La rivelazione è concepita in queste parole: Iddio dice al serpente: [...OMISSIS...] . Egli è manifesto, che con delle indicazioni al tutto naturali qui si determina degli oggetti soprannaturali. Però una tal maniera di parlare non potea mettere nelle menti degli uomini altro concetto che solo negativo di questi oggetti, quando le menti stesse non fossero interiormente illustrate colla comunicazione reale delle cose divine così indicate; il che fu fatto solo nel nuovo Testamento. Tali indicazioni di Dio Redentore crebbero di mano in mano: in Melchisedecco fu conosciuto come sacerdote, in Mosè come legislatore, in Giosuè come conquistatore, in Davidde come re; ma tutti questi personaggi erano uomini, puri uomini, ed esprimevano delle dignità appartenenti alla società umana; le quali non potevano per ciò realmente far conoscere Cristo, ma solo indicarlo ; con delle attribuzioni non uguali, o simili alle sue, ma in qualche modo analoghe. Così si sviluppava, crescendo le figure, la cognizione di Cristo; ma ella rimanevasi sempre però essenzialmente negativa. Ora in tutta l' antica legge si dee distinguere adunque: 1. le indicazioni e 2. la cosa indicata. Le prime erano materiali, esterne, naturali: ma la seconda cioè la cosa indicata, la quale era il fine di tutta la legge, era cosa spirituale, interiore principalmente, soprannaturale. Indi nasce la distinzione che fa S. Paolo fra la lettera e lo spirito della legge: la lettera conteneva le indicazioni ; ma la cosa indicata dovea cogliersi collo spirito , con un lume interno che la lettera nè conteneva in sè medesima, nè somministrava. La cosa spirituale , oggetto ultimo della legge, non essendo rappresentata ma solamente indicata , rimanevasi nell' ombra e nell' oscurità. Il percepirla era dunque impossibile nell' antico Testamento. Questa è la ragione per la quale gli Ebrei medesimi non intesero la legge nella sua profonda e spirituale verità, ma solo nella sua scorza, e per la quale dicono le Scritture ed i Padri, che l' intelligenza vera delle Scritture non si ebbe se non quando il Verbo prese carne umana [...OMISSIS...] . Cristo mostrò d' esser egli la luce che illuminava le antiche Scritture quando dopo la sua risurrezione « aprì il senso agli Apostoli a poter intendere le Scritture« (2). » S. Pietro non dubita di affermare, che gli antichi Profeti non a sè stessi, ma a' Cristiani porsero le divine rivelazioni, come a quelli che soli potevano a pieno intendere, dopo essere venuto di cielo lo Spirito Santo (3). S. Paolo attribuisce all' ignoranza dello spirito della legge l' aver gli Ebrei rifiutato il Vangelo « i quali, dice, ignorano la giustizia di Dio » (cioè la giustizia spirituale e soprannaturale che si fonda nella fede) «e la lor propria giustizia cercano di stabilire - e però alla giustizia di Dio » (che è tutto spirito) « non sono soggetti. Perocchè il fine della legge è Cristo a giustificazione di ogni credente« (4) » e però ignorando Cristo ignorano il fine e lo spirito della legge « hanno zelo ma non secondo la scienza« (5). » E perchè gli Ebrei del riputarli così ignoranti e non intelligenti della legge non si tenessero per oltraggiati, prova la loro ignoranza collo stesso Mosè. [...OMISSIS...] , cioè anteporrò i Gentili a Israello, a quelli darò più intelligenza che a questo. Ma di ciò è forse in colpa la legge, no, dice l' Apostolo, non dipendette dalla legge la materialità colla quale fu intesa; ella nel suo intimo fondo era spirituale; ma mancava il lume che scorgesse a cogliere quello scopo così alto della legge, perchè l' uomo non era ancora rinato per Cristo e resosi spirituale, ma era rozzo e materiale. [...OMISSIS...] Per questo conchiude che gli Ebrei, « andando dietro ad una legge di giustizia, non entrarono nella legge della giustizia« (3) » cioè nel Vangelo, ma rimasero al di fuori a differenza de' Gentili, i quali « non seguivano la giustizia (della legge), eppure appresero la giustizia (del Vangelo)« (4). » S. Paolo osa ancor più. Non solo la legge antica mancava della luce dello Spirito Santo (della percezione di Dio) e però lasciava l' uomo nella oscurità, non presentandogli che un corpo di precetti nudi di osservanze esterne, e di esterne temporali promesse; ma per questo suo difetto essa si rendeva anche occasione di peccati e di errori. Ella non poteva munire di esterna sanzione i peccati interiori dello spirito, come sono i mali pensieri, che Iddio solo vede e punisce. Ora questo Dio non era percepito vivamente nella sua santità, e come giudice spirituale, ma solo negativamente come un legislatore e re temporale. Sebbene adunque proibisse la legge i mali desiderii, tuttavia non valeva quella legge [a far] conoscere agli uomini la malizia e reità di questi e molto meno a far che li evitassero (5). Tanto la notizia di Dio influisce nella moralità! Gli uomini che non percepiscono vivamente quest' essere in sè stesso come invisibile e santo; non possono in alcun modo intendere a pieno l' iniquità de' peccati che si commettono col solo spirito (1). La legge mosaica adunque era incapace di dare agli uomini una tale nozione, come pure era incapace di somministrar loro nulla di perfetto nella morale; e quando ella precettava o di sfuggire le male intenzioni, o di amare i nemici, od altro tale precetto, che non si regge nell' uomo se non in virtù della percezione di Dio; ella non faceva che mettere un inciampo, una occasione di maggiormente peccare. Questo è quello che vuol dire l' Apostolo quando insegna che « non ha conosciuto il peccato se non per la legge. Perocchè io ignorava la concupiscenza se la legge non mi diceva: non volere malamente desiderare« (2); » la legge mi ha illuminato a conoscere la reità dello spirito, ma non dava forza di evitarla, e però « presane l' occasione, il peccato (cioè il fomite del peccato originale) per cagione del comandamento (che mi ha maliziato) ha operato in me ogni mal desiderio - esso toltane l' occasione dal precetto mi ha sedotto ed ucciso per mezzo della legge« (3). » Questo è il significato nel quale dice l' Apostolo che « la lettera (della legge) uccide, e lo spirito solo vivifica« (4). » In questo senso non dubita l' Apostolo di chiamare l' antica legge « legge di morte« (5) » e di esortare i Cristiani a seguirne il solo spirito colle seguenti parole: [...OMISSIS...] . I Farisei si attenevano alla lettera della legge ed è noto per ciò come da Cristo sono chiamati « ciechi e condottieri di ciechi« (1); » è noto quanti errori avevano in morale (2) e quanto a ragione Cristo ebbe a dire al popolo a cui predicava: [...OMISSIS...] . E per mostrare che quella perfezione di virtù che Cristo predicava era conseguente al lume interiore, col quale potevano conoscere Iddio per la sua grazia, dopo aver Cristo enumerati i precetti più spirituali e più perfetti conchiude richiamandoli all' imitazione appunto di suo Padre « siate voi dunque perfetti, come anche il Padre vostro celeste è perfetto« (4). » Riassumendo, la legge antica, e intendiamo con questo nome il complesso delle antiche rivelazioni, risguardava la dottrina intorno a Dio e la morale. La dottrina intorno a Dio era un complesso d' indicazioni di Dio, e nulla più. Gli uomini non avevano a quel tempo il lume ch' ebbero poscia per Cristo, col quale percepivano Dio7incarnato positivamente. Questo Dio7incarnato, in una tenebra allora, fu rivelato solo nella pienezza de' tempi quando si eseguì veramente l' incarnazione. La dottrina morale rispondeva all' imperfezione in cui era la cognizione di Dio presso gli uomini. Non avendo ricevuto lo spirito di questi la percezione di Dio, esso spirito poco era veggente, dominava il senso esteriore e non poteva l' uomo in alcun modo elevarsi a quella morale che si vede in Dio, come in un esemplare da imitare, appunto perchè questo Dio non si vedeva. Restringevasi pertanto la legge nei confini delle esteriorità, e col gran numero di queste occupava gli uomini, a intendimento d' una parte di riscuotere degli ossequii morali almeno nelle cose più gravi e più sensibili, e d' altra di tenere ben segnato nello spirito il fine occulto, e a questo diretto lo spirito, come verso un essere nascosto dietro una parete. Non mancava insieme la legge di accennare anche le cose spirituali, ma queste non avevano efficacia, come le prime, sugli uomini così rozzi come erano quelli della natura. Queste perciò restavano inadempite; e le leggi materiali erano anch' esse tante, che non giungeva mai l' uomo a pienamente osservarle. Imperfetto adunque nell' osservanza delle materialità della legge; molto più imperfetto era lo stato dell' umanità nel mantenere lo spirito di essa legge appunto proposta oscuramente e ravvolta in enimmi; ma nel nuovo è data la stessa verità: però convenne che si aggiungessero le parole che chiarissero ogni oscuro; e che da esse venisse la forza della santificazione, per significare che ogni santità nel nuovo patto procede dalla rivelazione e fede nel Verbo manifesto. E se ancora si tiene in una colle parole l' enimma del rito, egli è perchè, come dice l' Angelico seguendo le vestigia dei Padri, [...OMISSIS...] . Mediante queste considerazioni s' intendono quelle parole di Cristo, il quale dice generalmente di tutti gli antichi maestri: « Tutti, quanti vennero, sono ladri e assassini, e le pecore non li hanno uditi« (1). » Perocchè essi non davano lo spirito, e per ciò non davano la facoltà di udirli; « l' udito è per la parola di Cristo« » come dice l' Apostolo (2). All' incontro Cristo aprì gli orecchi e gli occhi spirituali degli uomini, del qual fatto erano simboli i miracoli pe' quali risanava i sordi ed i ciechi. Egli mostrò Dio in sè stesso e così dice che egli solo è la porta che conduce a Dio. [...OMISSIS...] A questa dottrina risponde quella che S. Paolo espone nella lettera a' Romani. Egli attribuisce al Battesimo e alla grazia di Cristo la reale giustificazione, e prima di questo dichiara tanto i Gentili come gli Ebrei colpevoli. [...OMISSIS...] L' Apostolo dice che gli Ebrei prima di convertirsi al Vangelo erano non solo « infermi ma empi« (1), » che Cristo è morto per essi « mentre erano ancora peccatori« (2) » e quindi non giustificati nella legge; che « essendo inimici sono stati riconciliati con Dio per la morte del suo figliuolo« (3) » e che per questa morte Cristo riparò anche a quelle colpe, a cui la legge avea data occasione (4), che solo dopo la morte reale di Cristo in una parola furono tratti di sotto la schiavitù del peccato (5) e fu compita in noi « la giustificazione della legge« (6). » Ma se nell' antico Testamento, secondo queste dottrine e sotto la legge e fuori della legge tutti gli uomini erano peccatori, i quali furono riconciliati con Dio solo allora che Cristo realmente morì, come poi in altri luoghi delle divine Scritture si afferma di Abramo e di altri personaggi che possedettero la giustificazione? In primo luogo rispondo, che nelle divine Scritture si parla di due maniere di giustificazione, l' una propria dell' antico Testamento, e l' altra propria del nuovo, e che questa del nuovo è tanto eccellente e perfetta che quando quella dell' antico Testamento si mette a petto di questa, quella perde quasi il nome di giustificazione. Quando S. Giacopo dice « Abramo nostro padre non fu egli giustificato mercè le opere?« (7), » egli parla della giustificazione dell' antico Testamento. Quando all' incontro S. Paolo, ebreo e osservatore della legge, dice di sè e de' suoi correligionari che « Cristo risorse per la loro giustificazione (.) » e che per Cristo furono «« giustificati« (9), » allora parla della giustificazione del nuovo Testamento, parla come se non fossero stati prima giustificati; per ciò come se l' antica giustificazione verso la nuova fosse nulla (1). E la ragione di questa nullità della giustificazione antica quando si mette a paragone della novella si mostrerà evidente dalle verità già per noi esposte. Gli uomini tutti erano peccatori per natura; e non potevano essere giustificati se non a patto che Iddio si riconciliasse e si unisse realmente con essi. Ora qual mezzo vi potea essere di ciò prima di Cristo? La legge mosaica non era in sè stessa che un ammasso di precetti che avevano per oggetto cose esterne, materiali, o finalmente nulla più che naturali. Questo ammasso però di cose naturali aveva un fine soprannaturale, a cui cercava di rivolgere la mente e lo spirito degli uomini, ma non mostrandolo visibile nella propria sussistenza, ma indicandolo futuro , e promettendo solo che si sarebbe conosciuto a suo tempo questo fine sublime. Questo fine adunque nella sua essenza divina rimaneva del tutto nascosto agli antichi, e pure egli solo era la loro giustificazione (2). Considerata adunque quella legge in sè stessa, nulla aveva che potesse rendere l' uomo veramente giusto; e per la sua difficoltà ad eseguirla il rendeva anzi più peccatore. Questa è la giustizia che nasce dalla legge, della quale S. Paolo mette fuor di speranza gli Ebrei, sì perchè non la poteano mai conseguire, incapaci com' erano di osservar la legge; sì perchè, anche conseguita, essa non valeva veramente a giustificarli agli occhi di Dio; ma solo tutto al più a quelli degli uomini (3). Che restava dunque ad essi? ove porre la loro speranza? essi doveano volger gli occhi al fine della legge (che era Cristo), e da questo aspettare la giustificazione e la salute. Questa è quella giustificazione che S. Paolo dice nascere non dalle opere della legge, ma dalla fede (4). Or qual sentimento involgeva la fede in Cristo degli antichi Padri? Il sentimento di credersi e di confessarsi peccatori, senza potere colle proprie forze conseguire mai la giustificazione; e tuttavia nutrire in sè la certa fiducia di venir salvati, non per proprio merito, ma gratuitamente da Gesù Cristo venturo. Dovevano adunque, dice S. Paolo, credere in Cristo come in quello che giustifica il peccatore (5). Or questo atto profondo di umiltà, questo abbandono a Dio, questa fiducia nella bontà e potenza di Cristo, era tal cosa agli occhi di Dio, che non gli permetteva di abbandonare uomini, peccatori sì ma che a lui ricorrevano, in lui pienamente si confidavano. E questo non abbandonarli di Dio era la giustificazione degli antichi (1). Ora poi, giacchè una tale giustificazione è piuttosto un' aspettazione ferma di quel Cristo che giustifica comunicando sè stesso agli uomini; egli è manifesto che ella era piuttosto una giustificazione promessa e sperata che una giustificazione attuale e presente; e quindi che ove si paragona alla giustificazione de' Cristiani , i quali hanno aderente a sè « la vita « cioè Cristo, chiamato vita nelle Scritture (2), ella non è giustificazione come la cosa promessa, non è ancora essa medesima cosa; e però rettamente le divine Scritture dicono che Cristo colla sua morte salvò e giustificò realmente anche tutti gli antichi Patriarchi (3). Conosciuta la natura della giustificazione propria dell' antico Testamento, non riesce più difficile intendere la ragione degli effetti, che alla medesima attribuisce la divina Scrittura. Parte di questi effetti risguardavano la vita presente, parte la futura. I tre principali sono poi i seguenti: Il primo si era che a que' giusti aderiva ancora lo spirito di timore e di servitù; mentre a' giusti del nuovo Testamento aderisce lo spirito di figliuolanza e di amore. Sicchè l' Apostolo a' convertiti al Vangelo dicea: [...OMISSIS...] . E la ragione di ciò si è perchè Cristo (principalmente dopo essere asceso al cielo) mandò il suo Spirito e congiunse per esso realmente gli uomini a Dio, dicendo l' Apostolo che « figliuoli di Dio sono tutti quelli che sono mossi dallo spirito di Dio« (2). » Tutto ciò s' intenderà facilmente, ove si tenga ben presente il gran principio da cui muovono tutte le nostre parole. Nell' antico Testamento Dio non era realmente comunicato agli uomini, non era percepito; ma solo indicato con delle indicazioni e segni naturali. Queste indicazioni non il luminavano l' uomo, non lo afforzavano, nol rendevano partecipe della natura divina, e però nol facevano figliuolo di Dio, nel senso del nuovo Testamento . Egli adunque non poteva essere incoraggiato dentro e rinforzato; ma veggendosi peccatore nelle tenebre, escluso dal sancta sanctorum , non potea che temere, e questo era il sentimento che dovea dominare negli antichi santi. Nel nuovo Testamento surse il sole della giustizia, illuminò, incoraggiò le menti: l' uomo si sentì pieno di Dio, e partecipe della divinità allettò in sè un amore e una confidenza di figliuolo. E` Gesù Cristo stesso che distingue la condizione servile degli Ebrei, e la condizione di amici in che erano i discepoli suoi, appunto dalla percezione data a questi di Dio ed a quelli non data. [...OMISSIS...] Ecco la condizione de' servi caratterizzata dall' ignoranza e dalle tenebre in cui i servi sono lasciati dal padrone, come avveniva appunto nell' antico Testamento. E dicendo che « il servo non sa quello che faccia il suo padrone« » accenna una cognizione dell' operare del padrone, che trasportata a Dio viene a significare la sua santità, giacchè lo spirito di Cristo fa conoscere Dio appunto come Santo, che è il suo nome solenne. Prosiegue: « voi poi ho chiamati amici; perocchè tutte quelle cose che ho udite dal Padre mio le feci note a voi« (4). » Si sa che l' udire che fa Cristo dal Padre è il proceder suo dal Padre. Il dire adunque di aver comunicato loro quanto udì dal Padre è un dire che comunicò loro la propria processione dal Padre; e questa non può venire comunicata se non per la percezione interiore. Altramente, sarebbe egli possibile che Cristo avesse comunicate a' suoi Apostoli le cose tutte per singolo udite dal Padre? e chi non sa che queste sono infinite? Ma come il Padre gliele comunicò tutte senza successione, con quell' atto solo col quale lo generò; così Cristo le comunicò pure a' suoi discepoli con quell' atto appunto col quale li generò col suo spirito; perchè nella percezione, che diede loro di sè, tutte le cose veramente si comprendono, giacchè nel Verbo divino sono le cose tutte. Il secondo effetto, o carattere dell' antica giustificazione, si fu che il regno del peccato non era però ancora interamente distrutto, e i giusti stessi soggiacevano ad una cotal servitù di esso peccato. Perciò S. Paolo agli Ebrei convertiti dice: « Il peccato non vi dominerà, perocchè non siete sotto la legge ma sotto la grazia« (1) » facendo intendere così che sotto la legge dominava il peccato. E ancora facendo il paragone dell' antico Testamento e del nuovo, ed attribuendo all' antico la legge, e al nuovo la grazia, dice: [...OMISSIS...] E tosto dopo toglie a mostrare che l' uomo del peccato visse fino alla morte di Cristo, che da Cristo fu crocifisso sulla croce, e viene crocifisso in noi nel Battesimo che ci applica il merito della passione di Cristo: [...OMISSIS...] Questa dominazione poi del peccato non importa mica che quei santi personaggi non fossero veramenti giustificati nel modo detto più sopra, cioè che non avessero una dirittura di volontà e di fede: ma importa ben altro. Quegli antichi nel loro spirito non avevano ancora la percezione di Dio, non avevano la Divinità in se stessi; questa Divinità era l' oggetto della loro fede, come cosa che doveva comunicarsi loro in futuro. Ora dalla percezione della Divinità scaturisce la nuova vita, l' uomo nuovo: da quella percezione esce la grazia onnipotente contro tutti gli assalti dell' inimico. Tutta la grazia degli antichi si riduceva ad una fermezza di volontà contro il peccato, in virtù di quella fede che non dava loro la vita ma la prometteva: questo bastava per non cadere più giù, ma non per ascendere fino a Dio; come quegli che rovinato nel profondo di una valle ombrosa e fermato sulla pendice non ha forza da ritornare alla cima del colle ove vede il sole; ma pur solo di abbrancarsi a' cespugli tenendosi sospeso fin tanto che gli viene recato conforto e tirato da quel profondo. Non essendo adunque nell' uomo Iddio dominatore colla sua propria ed essenzial luce, il peccato si poteva dire ancora regnante; perocchè non era scacciato dall' uomo realmente, ma solo in isperanza. Che poi sia il solo Verbo quegli che libera l' uomo dal dominio del peccato col comunicarsi internamente, si ha espresso in quelle parole: « Se voi vi terrete nel mio discorso, sarete miei discepoli. E conoscerete la verità (cioè il Verbo), e la verità vi libererà« (1) » dal peccato, come spiega tosto appresso (2). Laonde la giustificazione dell' antico tempo non liberava interamente dal peccato, ma avea bisogno di essere completata e perfezionata colla reale incarnazione e morte di Cristo (3). Per ciò l' Apostolo afferma che « la giustificazione della legge si completava in noi , i quali non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito« (4) » per Gesù Cristo; di che fare la legge era incapace (5); sicchè quella antica era una giustificazione quasi direbbesi in potenza ed in germe, la quale dalla reale venuta di Cristo doveva essere attuata e addotta a perfezione. E questo ci prepara la strada a dichiarare il terzo carattere ed effetto di quell' antica giustificazione. Ella nasceva tutta dalla fede. Si formava con questo sentimento che l' uomo formava dentro di sè: [...OMISSIS...] . Iddio non poteva abbandonare un tal uomo, il quale prometteva di « soddisfare non da sè, ma mediante il Redentore promesso«. » Che dunque faceva Iddio? quello che fa un creditore, a cui venga dimandato dilazione al pagamento dal suo debitore. Iddio diceva: [...OMISSIS...] . Non poteva essere più equa e benigna la sentenza: perciò gli antichi giusti non erano condannati, morendo, alla dannazione; ma sospesi nel limbo, fino a tanto che venisse colui che pagasse per essi, e comunicasse loro quel lume, quella vista di sè, che li congiungeva realmente con Dio, e gli ammetteva ad un tempo stesso alla grazia del Redentore e alla gloria. Tale era l' effetto dell' antica giustizia nascente dalla fede in Cristo venturo. Perciò S. Paolo dopo aver mostrato che la giustificazione non viene dalla legge ma dalla fede, dice che « la legge è stata posta per trasgredirla fino a tanto che venisse quel SEME a cui era stato promesso« (6). » Questa fede poi che pienamente giustifica è la fede cristiana secondo S. Paolo [...OMISSIS...] - E la Scrittura ci mostra esser serrate tutte le cose sotto « il peccato, acciocchè ciò che fu promesso si desse a quelli che credono in virtù della fede di Gesù Cristo« (1). » E ancora più manifestamente apparisce, come l' Apostolo per quella fede che salva intende quella in Cristo venuto, non essendo l' antica fede che una fiducia nella fede che doveva venire e salvare, dalle parole che sieguono: [...OMISSIS...] . La fede che dovea rivelarsi era quella di Gesù Cristo venuto. [...OMISSIS...] Perciò acconciamente dice S. Paolo, che quelle parole scritte di Abramo « che la sua fede gli fu riputata a giustizia« » non sono solamente scritte per lui, ma per noi altresì, come in quei suoi figliuoli ne' quali s' è pienamente avverata quella parola (4). Laonde come ne' Sacramenti della nuova legge (cose, azioni, parole) si possono chiamare la parte materiale del Sacramento, e l' invisibile grazia si può chiamare la parte formale (5); così nell' antica legge v' avevano pure queste due parti: ma in luogo della grazia costituiva la forma di que' Sacramenti la fede di quelli che li ricevevano e li amministravano. Dalla fede poi annessa al Sacramento nasceva la giustificazione, la quale era proporzionata alla natura di quella fede, che abbiamo descritta (6). Si può dunque dire che nel popolo peculiare sceltosi da Dio, la fede avea bisogno de' Sacramenti perchè da Dio positivamente voluti (7), e che i Sacramenti avvivati dalla fede erano concausa della giustificazione. Questa giustificazione poi abbracciava due elementi, cioè la sospensione del pagamento del debito del peccato, e l' addirizzamento della volontà. Il Sacramento avvivato dalla fede otteneva innanzi a Dio la sospensione del pagamento; ma la fede era quella che dirizzava la volontà, spingendo questa al di là di tutte le cose naturali, fino all' esser divino, sebbene in un modo implicito, sicchè era sola la punta dell' anima che a Dio volgevasi per quella fede (1). Duplice era dunque la causa operante, duplice l' effetto. La causa operante era la fede col Sacramento; l' effetto era l' addirizzamento della volontà colla sospensione dell' esigenza del debito (2). Ma poichè questo dirizzamento di volontà non avea un oggetto esplicito e positivo, ma era come l' occhio guardante bensì in dirittura del segno, ma non veggente chiaramente ancora il segno, troppo lontano, per ciò dovea la volontà umana acquistare più alti gradi di perfezione, innanzi di poter passare alla visione beatifica; e i fedeli che allora morivano non vedevano per ciò immediatamente Iddio. E questo dà ragione perchè l' effetto de' Sacramenti dell' antica legge non si possa chiamare un cotal cominciamento della futura gloria, come S. Tommaso co' Padri chiama la legge nuova (3): conciossiachè quell' effetto degli antichi Sacramenti non congiunge l' uomo immediatamente con Dio, ma lo dispone all' immediata e positiva congiunzione. Perchè Eucherio di Leone dica che i Sacramenti della nuova legge dànno la vita , che sta nella percezione di Dio, e gli antichi mostravano solo la vita (4); perchè Innocenzo III scriva la circoncisione non dare l' ingresso al regno di Dio (5); verissimo detto ove pel regno di Dio s' intenda il regno de' Santi che già percepiscono Dio; e Giovanni lo Scoto riprovi l' espressione, che la circoncisione aprisse la porta del cielo (6). L' uomo è creatura di Dio: dunque è fatto all' onore di Dio (1). Iddio è creatore dell' uomo, e non poteva avere altro fine che sè stesso nella creazione: « tutte cose, dice la Scrittura, il Signore le ha operate per sè« (2). » L' uomo dunque è ordinato al divino servizio. La legge evangelica, che è la morale nella sua più alta perfezione, riduce tutti i doveri alla carità di Dio, nel qual nome di carità ella comprende ogni servigio e ogni amore. E lo stesso amore del prossimo il fa venire come un ramo dal pedale del divino amore: imponendo all' uomo che di tutte sue potenze ami il Signore, ella non lascia in libertà dell' uomo cosa alcuna dell' uomo, ma ogni suo elemento, per così dire, il consacra al divino culto. Di più, il divino culto nella perfezione della morale evangelica va preferito alla stessa vita; e quando la distruzione di questa possa accrescere a Dio onore e culto, anch' essa dee essere sacrificata. Indi l' origine de' sacrificii: indi il sacrificio accettevole, onde Cristo immolò sè stesso all' eterno Padre. Ogni cristiano è chiamato dietro a Cristo: e però ogni cristiano, colla disposizione almeno di sua volontà, dee aver sacrificato sè stesso: [...OMISSIS...] . Ora se chi sacrifica è sacerdote; la perfezione della morale evangelica importa che ogni cristiano sia sacerdote come fu Cristo, e tal sacerdote che abbia la vittima in sè medesimo (5). Nello stato d' innocenza l' uomo aveva questo spirito sacerdotale. La chiarezza di sua ragione gli mostrava che tutto doveva a Dio, e che in servire e glorificare il suo Creatore si conteneva tutta la sua morale perfezione. La rettitudine di sua volontà, la grazia che la confortava aggiungendole forze divine, avrebbe disposto l' uomo a sacrificare effettivamente sè stesso per la causa dell' onore e del culto di Dio, ove ne fosse stato bisogno. E sebbene questo bisogno non si sarebbe forse avverato, tuttavia non sarebbe mancato quella perfetta disposizione di animo per la quale il santo uomo ama più Dio di sè stesso. In tale stato non era uopo che fra Dio e l' uomo seguisse un cotal contratto positivo ed esterno, pel quale questi promettesse a Dio di servirlo fedele, e Dio gli promettesse proteggerlo. La cosa andava da sè: i rapporti della creatura e del Creatore eran chiari, manifestissimi: nè poteva dar materia ad alcuna convenzione, conciossiachè questa è inutile, ove la natura delle cose parla chiaro e di forza. Ma la mente oscurata dell' uomo peccatore, e il cuore corrotto non sapea legger più distintamente il dettato della ragione, nè udire quanto la natura e la grazia favellavano: disconobbe l' uomo il suo dovere, smarrì di vista il bene morale, cercando sua perfezione e sua grandezza nel fisico e nell' intellettuale; allora ignorò quanto doveva a Dio: e per riannodare la sua corrispondenza col Creatore, fu bisogno che intervenisse un contratto positivo mediante il quale gli si ricordasse ciò che avea tanto obbrobriosamente dimenticato, cioè che egli esisteva pel culto e per l' onore di Dio. In tal modo venìa riseminata nell' uomo la morale e la stessa perfezione della morale, che nasce da Dio comunicante coll' uomo. Per un' altra ragione poi rendevasi necessario un contratto positivo fra Dio e l' uomo dopo il peccato. La coscienza dell' uomo mostravagli dover essere Iddio irato a lui peccatore, e Dio stesso gliel fece conoscere da principio con positive rivelazioni. L' adito adunque a Dio per l' uomo era chiuso. Come poteva questi riavvicinarsi al Creatore, se Dio stesso non gli faceva conoscere di voler deporre lo sdegno, entrando così in qualche trattativa coll' uomo? E rinnovandosi l' alleanza fra il Creatore irato e la creatura colpevole, questa non potea essere che positiva, dipendendo da un atto non necessario ma gratuito della divina Misericorda di tornar l' uomo nel divino favore. Però la prima alleanza espressa che nelle divine Scritture si rammenta è quella fatta in occasione del diluvio colla quale Iddio, vendicatosi dell' umanità pervertita, rassicura la famiglia di Noè e con essa stringe alleanza: [...OMISSIS...] . Ecco il patto positivo di Dio coll' uomo, occasionato dall' infrazione del patto naturale. Ora un contratto positivo in cui entri l' uomo, conviene che abbia delle forme esterne che lo manifestino. Vi dee essere altresì un segno durevole di questo patto, acciocchè gli uomini se ne possano ricordare col venir loro, o tener sott' occhio, quel segno. E però del patto che Iddio strinse con Noè, pose Iddio questo segno: [...OMISSIS...] . Cotal segno dovea ricordare continuamente all' uomo i suoi doveri verso Dio e la stretta alleanza. E perchè efficacemente parlasse e giovasse al disegno della Provvidenza di venir crescendo fra gli uomini la apprensione della verità e la perfezione morale, dovea quel segno essere acconcio allo stato intellettuale dell' uman genere, e però col variare di questo stato doveva variare altresì quel segno e le forme onde il patto fra Dio e l' uomo si rivestiva. Diamo un cenno dello sviluppamento della umanità, al quale Iddio temperava quella sua amorevole provvidenza, onde conduceva l' uomo alla santità. Lo sviluppamento dell' uomo può considerarsi secondo le mutazioni che subiscono le facoltà dell' uomo in ciascun individuo, e secondo i rapporti sociali. Lo stato di ciascun individuo si sviluppa di mano in mano in tutte le parti seguenti: 1. Le facoltà dell' uomo a principio operano tutte simultaneamente, purchè abbiano materia ed oggetto in cui occuparsi, e ciò per istinto. L' uomo acquista più tardi, e un po' alla volta il potere sulle proprie facoltà, pel quale comanda ad alcune di operare, e ad altre di tenersi quiete, e giunge a metterne in movimento una sola alla volta. Fino a tanto che non acquista questa libera direzione delle sue facoltà, l' operare dell' uomo è complessivo, è tutto l' uomo intero che agisce; e questo carattere si ravvisa nelle opere de' primi uomini. Tale osservazione spiega come gli antichi Patriarchi nominati nella Scrittura, mescolavano colle idee religiose quelle della terra. Se le loro facoltà intellettuali avessero potuto operar sole, essi si avrebbero formato delle idee pure della divinità, cioè scevre dagl' integumenti per così dire de' sensi. 2. La materia o gli oggetti sensibili delle facoltà umane vanno sempre crescendo, il che dee variare necessariamente lo stato intellettivo dell' uomo. Convien riflettere che la materia, ossia gli oggetti sensibili, si presenta da prima complessivamente, di poi partitamente, con infinite variazioni. Il presentarsi gli oggetti sensibili partitamente fa sì che operino nell' uomo le parziali facoltà, standosi quiete le altre; e questo è il primo aiuto che presta la natura all' uomo, a poter acquistar egli il dominio sulle sue facoltà, accennato al numero primo. Perocchè egli s' accorge con tale sperienza involontaria di poter operare in due modi, cioè complessivamente con tutte le facoltà, o partitamente con poche alla volta, o con una sola: e accorto di questo, egli studia poi il modo di poter muoverle ad arbitrio o tutte, o parte, o l' una alla volta. Fra gli oggetti sensibili che si presentano alle facoltà dell' individuo, entrano altresì i suoi simili co' quali egli conversa, e onde gli nascono i rapporti sociali. 3. Si aumentano, variano, si spezzano, si adunano anche gli oggetti puramente intellettivi. Indi nasce il progresso delle varie riflessioni, le quali dividono la scienza umana in altrettanti ordini secondochè le riflessioni sono più o meno elevate (1). In ciascun ordine poi la riflessione è più o meno generale, ond' ha le tre seguenti funzioni: 1. mera contemplazione, 2. analisi, 3. sintesi. 4. Finalmente ad ogni stato intellettivo risponde uno stato dell' animo, divenendo ogni oggetto dell' intelletto segno alle affezioni del cuore. 5. Come poi l' uomo acquistò il libero dominio delle sue potenze, l' arbitrio suo è un principio novello che influisce nell' umano sviluppamento, e che se non ne muta le leggi certo ne accresce o diminuisce la celerità. Rispetto poi ai rapporti sociali questi sono successivamente causa ed effetto dello sviluppo individuale, e lo sviluppo che ne nasce dell' umanità procede in quest' ordine: che vi sia 1. la società domestica, 2. la relazione de' servi e de' padroni, 3. la società civile, 4. [la] società fra più nazioni che finisce nella società universale. La divina Provvidenza che ha per termine fisso il condur l' uomo alla perfezione morale, diresse nella sua sapienza le operazioni di lei a seconda degli sviluppamenti naturali dell' umanità; i quali però venivano influiti e aiutati da quelle stesse divine operazioni. Di che è ragione questa, che l' ordine soprannaturale s' innesta su quello della natura, di cui è compimento. E poichè l' ordine della natura era guasto, però insieme colle facoltà umane doveva svilupparsi altresì il seme di peccato giacente nella natura, e coll' aumentare le operazioni umane crescere altresì l' umana perversità. Due adunque sono gli sviluppi simultanei dell' uman genere: 1. quello delle facoltà naturali, e 2. quello del germe vizioso che nell' uomo caduto si chiude. E secondo questi due sviluppamenti la misericordia di Dio ordinava altresì lo sviluppo dell' ordine soprannaturale, acciocchè le facoltà sviluppate potessero di mano in mano tendere a Dio, e crescesse altresì la virtù del rimedio contro il peccato. Per ciò di pari passo con ambo gl' indicati sviluppamenti delle facoltà naturali e della perversione dell' umanità procede: 1. L' incremento della rivelazione, 2. La fede de' Santi si rende sempre più esplicita, 3. Ad una fede più esplicita corrisponde nuova specie di grazia, 4. La rettitudine della volontà corrispondente alla grazia, viene negli uomini Santi sempre più dimostrandosi mediante una intenzione più pura e spoglia di vedute terrene. Or la rivelazione facevasi in parte mediante i segni istruttivi, e però abbiam veduto di questi un continuo progresso, e particolarmente abbiam distinto i segni familiari dai segni istruttivi nazionali. Ora in aiuto della volontà umana e in eccitamento dell' attenzione che dovea p“r l' uomo a' suoi doveri verso Dio, furono altresì stabiliti i segni durevoli che ricordassero i patti positivi fra Dio e lui intervenuti. E però anche questi segni variarono appunto a tenore dello stato dell' umanità (6), del grado di suo sviluppo (7) e del bisogno che avea l' uomo di rimedii contro l' inondazione della crescente corruttela (.). Alcuni di questi segni durevoli volti a rammemorare il patto positivo strettosi fra Dio e l' uomo, furono delle cerimonie religiose. Tali sono i Sacramenti. Per ciò S. Tommaso togliendo a classificare tutte quelle cose che si riferiscono al culto di Dio le divide in quattro parti, mettendo in primo luogo i sacrificii ne' quali il culto di Dio consiste; in secondo luogo gli strumenti del culto o cose sacre ( sacra ), siccom' era il tabernacolo, i vasi e gli altri utensili che si adoperavano nel tempio; in terzo luogo la dedicazione delle persone al culto divino, e qui mette i Sacramenti; e in quarto luogo le osservanze che regolano la conversazione di quelli che sono al culto di Dio dedicati distinguendoli da quei che non sono (1). Nel qual luogo e in altri l' angelico Dottore fa consistere la nozione de' Sacramenti in atto che dedicano la persona al culto di Dio (2): il che è quanto dire, in altrettanti segni esteriori, pe' quali consta del patto onde l' uomo a Dio si consacra, e Dio promette all' uomo protezione. E poichè le ragioni di un patto positivo fra Dio e l' uomo sono due, l' ignoranza dell' uomo, per la quale non conosce che languidamente la sua relazione col Creatore, e lo stato di peccato pel quale ha bisogno che Iddio positivamente gli si avvicini (3); però S. Tommaso dà due fini ai Sacramenti, l' uno di perfezionar l' uomo in quelle cose che riguardano il culto divino, l' altro di rimediare al peccato (4). Adunque perchè l' uomo fosse aiutato contro il peccato crescente, e sempre più a Dio si consacrasse, i Sacramenti avanti Cristo ebbero un progresso. Conciossiachè da principio l' uomo peccatore faceva de' sacrifizii al Signore, e il Signore in varie maniere gli mostrava il suo gradimento. Questi sacrifizii però non erano Sacramenti, perchè non segnavano alcun patto fra Dio e l' uomo; ma erano solamente un atto religioso dell' uomo, col quale cercava di ottenere il divino favore, nè disponevano l' uomo al culto, ma erano atti di culto. Non pare improbabile tuttavia, che fino ab antico quelli che facevano sacrifizii, o quelli per cui si facevano, partecipassero delle cose offerte al Signore; rito che significa assai bene l' unione dell' uomo con Dio, mostrando di aver quegli una mensa ed un cibo comune con questo. E però tal rito poteva essere un Sacramento del tempo così detto della legge di natura (1). Così parimente egli è verosimile che assai per tempo s' introducesse qualche rito onde si consecrassero i sacerdoti, i quali erano in primo luogo i padri di famiglia, fino a tanto che non v' ebbero se non società familiari divise l' una dall' altra; ma quando più famiglie si unirono in un corpo e cominciò la tribù e la nazione, allora fra i padri di famiglia si designarono alcuni de' più cospicui i quali offerissero de' pubblici sacrifizii: nello stato monarchico è poi certo che i re congiungevano questa dignità: tale era Melchisedecco re e sacerdote di Salem (2). Anche questo rito della consacrazione sacerdotale può forse annoverarsi fra i Sacramenti della legge di natura. Finalmente antichissime sono le esterne purificazioni ed espiazioni, le quali potrebbero anch' esse essere appartenenti a quegli antichi Sacramenti (3). Ma non si trova nella sacra Scrittura l' instituzione positiva divina di queste sacre cerimonie, la quale è necessaria a costituire propriamente de' Sacramenti (4). Nè basterebbe per potersi chiamar Sacramenti che fossero stati istituiti dall' uomo mosso da quel sentimento religioso che è proprio della natura umana (1): bensì la loro origine divina si riputerebbe a ragione ove l' istinto dello Spirito Santo gli avesse agli antichi santi suggeriti. E questo tiene essere avvenuto l' Angelico Dottore: [...OMISSIS...] . Nella quale sentenza, che questi antichi riti fosser venuti da Dio, mi conferma il vedere come Dio stesso riconosce i sacerdoti precedenti all' instituzione del sacerdozio levitico (3), e le purificazioni precedenti a quelle per Mosè instituite (4). Ma si sviluppa ognor più il germe del peccato disseminato nell' umanità; e crescendo l' intelligenza ne' figliuoli di Noè, l' affetto alle cose terrene, e i vincoli che li stringeva fra loro e con esse, Iddio nella sua provvidenza separò Abramo dal rimanente del mondo, e in lui cominciò un nuovo contratto; una peculiare educazione dispose dare a quella famiglia, e alla nazione in che si sarebbe sviluppata, acciocchè abbandonati gli uomini a sè e non soccorsi di special provvidenza non ispegnessero il regno di Dio sopra la terra. Allora col nuovo patto cominciarono de' nuovi Sacramenti che fossero segni di lui; e il primo di questi segni, co' quali attestavano gli uomini di essere dedicati al divino culto fu la circoncisione (1). La Scrittura ci rappresenta espressamente la circoncisione come segno del patto strettosi fra Dio ed Abramo. Ecco come narra la sua istituzione: [...OMISSIS...] . Questo Sacramento appartiene nella sua origine alla società familiare; e la parte circoncisa contrassegnava l' unità della stirpe eletta da tutte le altre. Tuttavia egli era destinato a diventare un Sacramento nazionale, e tale divenne quando gli Ebrei uscirono d' Egitto o certo quando entrarono al possesso della terra promessa, tempo in cui si costituirono in nazione (1): di che all' entrare in quella terra la circoncisione, intralasciata durante il viaggio del deserto, fu ripresa (2). Il tempo che passarono nell' Egitto fu per gli Ebrei stato di tribù, che è lo stato di mezzo fra il familiare e il nazionale. Che poi la circoncisione fosse destinata a dover essere Sacramento nazionale, vedesi dalle parole del contratto seguito fra Dio ed Abramo, nelle quali il patto è fermato non solo con quel Patriarca, ma ben anco col suo seme dopo di lui nelle generazioni future in sempiterna alleanza (3); e si vuole che tutti i bambini maschi sieno circoncisi da una generazione all' altra, e anco il servo o nato in casa, o comperato (4). Questo sapersi che la circoncisione è Sacramento famigliare e nazionale, e non puramente individuale, vale a farci conoscere perchè la circoncisione non si desse alle femmine. Bastava che l' avessero gli uomini, perchè questi erano sufficienti a rappresentare la famiglia e la nazione; e le femmine partecipavano dell' alleanza perchè parti di quel corpo o di quella società che insolidariamente era legata con Dio, e perchè si consideravano formanti una sola cosa coll' uomo, per cagione dell' unione maritale, nodo della società domestica, dove la donna e l' uomo sono una carne (5). Per la stessa ragione il bambino che moriva prima dell' ottavo giorno, in cui solo era prescritto la circoncisione non è a riputarsi diviso dal popolo santo, ma sì partecipante dell' alleanza stretta da Dio col corpo di sua nazione. E però dal Sacramento de' Padri riceveva anch' egli la sospensione del pagamento che a' Padri suoi era concessa (6). Ora vediamo le condizioni di questa alleanza. In primo luogo ella fu promessa ad Abramo, e promessa gli fu, perchè uomo fedele e perfetto. [...OMISSIS...] Precedette dunque al patto, ed alla circoncisione che n' è il segno, la fede e la giustizia di Abramo. Abramo assentì a voler esser perfetto: « si gettò Abramo boccone per terra« (1): » così diede il suo assenso. Allora fu conchiuso il patto con queste condizioni: che Iddio fosse onorato e riconosciuto per Dio da Abramo e da tutta la sua discendenza (2). E Iddio all' incontro prometteva ad Abramo, per dargli prova di suo potere e di sua bontà e così dar nuova materia a sua fede, 1 di farlo padre di molte genti e di far da lui uscire dei re; 2 di dare in possesso ai suoi discendenti tutta la terra di Canaan nella quale allora peregrinava (3). Dove si osservi come ciò che promette Dio ad Abramo sieno cose temporali, esigendo però da Abramo un culto veramente spirituale; il che era un proporzionare l' educazione religiosa allo stato dell' umanità: conciossiachè era ben facile conoscere come fosse giusto il dar culto a Dio; e questo il conobbero gli uomini fino da principio; ma il riconoscere nello stesso culto ed onore di Dio la propria felicità, questo era difficilissimo, e non pervennero gli uomini a intenderlo innanzi a Cristo (4). Si esigeva uno stato intellettuale molto elevato a poter fare astrazione da tutte le cose terrene e fissare la mente nella sola giustizia come nel solo vero bene. Tanto non potea l' uomo per natura: bisognava la grazia del Redentore, come appar chiaro da quanto abbiamo detto della natura di questa grazia. Perocchè questa sola grazia dà una percezione viva delle cose spirituali e divine per l' infusione dello Spirito Santo; e in questa viva percezione di Dio, verità e giustizia sussistente, l' uomo si sazia e vede il suo vero ed unico bene. Alla quale altezza di lume non potevano arrivare quegli antichi Patriarchi: e Iddio, parlando ad essi in modo proporzionato allo stato di loro intendimento non pervenuto a riflessione d' alto grado e allo stato di loro grazia corrispondente, provò ad essi i suoi attributi di potenza, di giustizia e di bontà col proteggerli possentemente e regalarli abbondantemente di cose temporali. Frammezzo però a queste cose temporali proporzionate all' intelligenza degli uomini, Iddio prometteva qualche cosa di più: un non so che di misterioso e di recondito: dal seme di Abramo non dovevano uscire solamente dei re terreni, ma un re al tutto singolare e di una grandezza degna di Dio, per ciò spirituale e divina. E attentamente sguardando all' istituzione della circoncisione, apparisce come un doppio patto o una doppia promessa fatta da Dio ad Abramo: la prima generale e risguardante tutti i discendenti di quel Patriarca: per ciò Iddio comandò che fosse circonciso Ismaele, e senza eccezione alcuna tutti i bambini maschi di otto giorni (1). [...OMISSIS...] E Isacco non era ancor nato. Or il patto era generale, e riguardava tutti i discendenti di Abramo. Ma una condizione di questo patto generale era questa che Iddio avrebbe poi fatto un patto speciale con Isacco che dovea nascere: [...OMISSIS...] . Questo è un patto futuro e sempiterno che promette Iddio di far poi col figliuolo nascituro Isacco (5). Non solo adunque Isacco non era circonciso, ma nè pur nato quando il patto spirituale ed eterno fu promesso, e però non in virtù della circoncisione, ma della predestinazione di Dio fu scelto; e quella scelta si dovette alla fede di Abramo, che occasionò il primo patto. Conciossiachè veggendo Iddio Abramo esser fedele, propose a lui di stringere un patto, col quale Abramo e i suoi discendenti promettevano la continuazione di quella piena fede che aveva quel patto occasionato. E in segno di questa fede stabile e continua si commisero alla circoncisione, che però è chiamata da S. Paolo « segnacolo di quella giustizia che viene dalla fede« (1). » E col rito del circoncidersi, tutti gli Ebrei protestavano di volere aver quella fede stessa del loro padre Abramo (2). Or in tal modo l' atto della fede era reso facile a tutti egualmente anche a quelli che non potevano sollevarsi a intendere le cose più alte e spirituali del Redentore. Ad Abramo era stata data luce di percepirla: in quel recondito patto che Iddio avea promesso di stringere con Isacco, il santo Patriarca per lume soprannaturale avea veduto la promessa del Cristo futuro: ciò si ha espressamente nel Vangelo: « Abramo vostro padre vide il mio giorno (cioè vide me nella gloria); lo vide e ne giubilò« (3). » Ma non tutti gli Ebrei potevano avere una grazia sì straordinaria: tutti però potevano avere una fede implicita nel Redentore in quanto che essi si riferivano e protestavano di credere a tutto ciò che aveva creduto il loro padre Abramo. Egli è per questo che fu chiamato Abramo il padre dei credenti. E S. Paolo spiega in un modo sublime e spirituale la promessa fatta da Dio ad Abramo di esser padre di molte genti, intendendo per queste genti non pure quelle che sono nate da lui secondo la carne, ma quelle che partecipano della sua fede, credendo in ciò che ha creduto Abramo, e a tutte queste dice che si riferisce la promessa fatta da Dio (4). Per la medesima ragione il luogo dove andavano le anime degli Ebrei che santamente morivano prima di Cristo si chiamava il seno di Abramo (5). Era la fede di Abramo, a cui si riferivano, che le salvava. Secondo la maniera di dire scritturale il figlio esce dal seno del padre: tornar nel seno del padre significava adunque ricongiungersi al padre, e vivere della sua vita. Le anime de' giusti adunque nell' altra vita vivevano della fede di Abramo, ed è credibile che loro fosse nel limbo esplicitamente rivelato ciò che Abramo credette, e che esse nella vita presente non intesero e non credettero se non implicitamente, cioè nella fede di Abramo (1). La fede adunque significata dalla circoncisione era la fede in Cristo, e l' esser fatta in quella parte del corpo significava il dovere Cristo discender da Abramo per generazione. E Cristo veniva a redimere il mondo e p“r rimedio al peccato originale. Or questo peccato corruppe principalmente il fonte della vita. Il che significava la circoncisione pel doloroso taglio in quella parte dell' uomo, e il recidersi di quella pelle era rito idoneo a significare come doveva essere tolta e da noi rigettata la vetustà del peccato e rinunziato alla concupiscenza. Significava adunque la circoncisione una purificazione dell' uomo: l' uomo vecchio mortificato (2). E perchè l' uomo vecchio fu mortificato nella passione di Cristo, perciò quelle gocciole di sangue che in tal rito si spargevano, ottimamente segnavano la morte di Cristo, e il darsi nell' ottavo giorno al bambino accennava alla risurrezione dell' uomo nuovo in Cristo che avvenne l' ottavo giorno (3). Tanta materia di fede contenevasi nel rito della circoncisione simile nel significato al Battesimo nel quale pure la morte dell' uomo vecchio e la resurrezione del nuovo si rappresenta (1). E questa fede promettevano a Dio e protestavano gli Ebrei con tal rito, non tutti sapendo queste cose, ma riferendo la loro fede ai lumi ricevuti dal loro santo padre Abramo. Nè in questa fede finiva il culto che a Dio promettevano col circoncidersi. Essi protestavano al Signore che riguardandolo per loro padre e re si sarebbero sommessi a tutte le leggi anche politiche e cerimoniali che avesse lor promulgato, e a tutti i suoi voleri. Perciò S. Paolo dice « Io dichiaro ad ogni uomo che si circoncide che con tal rito egli si obbliga ad osservare la legge« (2) » e quindi dissuade i primi fedeli dal circoncidersi, mostrando loro che vanno con ciò a sottomettersi a un peso servile, importevole e inutile dopo Cristo (3). E in corrispondenza di una tal fede e promessa degli Ebrei, Iddio prometteva da parte sua che ad essi soli avrebbe consegnate le sue divine rivelazioni, e fu così che quel popolo il depositario de' sacri libri (4). Tali erano le condizioni spirituali del patto; di cui le condizioni temporali non erano che figure e sostegni dati alla limitazione umana (5). Or le promesse divine contenute in quel patto doveano esser condotte a compimento col succeder de' tempi. L' ultimo scopo di queste promesse era il recar l' uomo alla morale perfezione, la quale dovea effettuarsi di mano in mano per una serie di avvenimenti. L' uomo era peccatore per natura; laonde la prima cosa che convenia farsi a dargli perfezione morale era il redimerlo dal peccato e dalla pena di morte che di conseguente meritava. Ma perchè l' uomo traesse profitto dalla redenzione dovea credere nel Redentore, umiliando sè stesso incapace di venire a salute e sperando la salute sua da colui che l' avrebbe redento. Il primo patto era adunque generale e Iddio prometteva con esso di prender l' uomo in protezione, l' uomo di dar culto a Dio. Questo patto generale ne conteneva un altro particolare riguardante il mezzo di eseguire quel primo, col quale Iddio prometteva all' uomo il Redentore necessario a salvarlo, e l' uomo a Dio di credere fiduciosamente in questo Redentore, e sperar da lui solo la sua salute. Acciocchè all' uomo ancora poco sviluppato nelle sue facoltà intellettive, si scolpisse in mente la necessità che egli aveva di esser liberato dal peccato mediante un Redentore, Iddio figurò innanzi agli occhi degli Ebrei questa grande verità con un avvenimento solenne e nazionale, cioè colla schiavitù di Egitto e colla liberazione da questa schiavitù che rappresentava quella spirituale del peccato; e acciocchè apparisse la necessità del Redentore perchè fossero salvi nell' anima e nel corpo, ordinò in quell' occasione la cerimonia dell' agnello pasquale, secondo Sacramento dell' Ebraico popolo (1). Conviene osservare, come passando l' Angiolo del Signore a dar morte a' primogeniti Egiziani, salvò dalla strage le case degli Ebrei tinte col sangue dell' agnello. Quel sangue era sommamente acconcio a rappresentare quello di Cristo, che venendo immolato placava Iddio nell' ora della sua giustizia, che è l' ora del passaggio dell' Angelo. Ora in quel passaggio l' Angelo del Signore non recava agli Ebrei alcun bene, ma solo li esentava dalla morte; il che acconciamente dimostrava qual fosse l' effetto della fede nella morte futura e non ancora seguita di Cristo, cioè di apportare a' fedeli la sospensione del pagamento o castigo, non però ancora il bene positivo della gloria eterna data dagli uomini solo in virtù del prezzo già sborsato del sangue di Cristo. Ma perciocchè Cristo sacrificato sulla croce dovea esser dato anche in cibo a' suoi discepoli, per ciò l' agnello svenato dagli Ebrei dovette esser da lor mangiato, e ciò in fretta per sommo desiderio di uscir dall' Egitto e fuggire la celeste vendetta di Dio (1), cotto nel fuoco della carità col pane azimo della pura conversazione, e coll' amaro delle lattughe agresti simbolo di penitenza, cinte le reni di castità, ed i piedi calzati di opere buone (2). E per indicare l' unione de' fedeli partenenti ad una sola famiglia della quale il Padre è Dio, dovea mangiarsi in ogni casa, e niuna parte della vittima poteasi portare al di fuori (3). Ora questo secondo Sacramento consacrava di nuovo il popolo Ebreo al culto di Dio più esplicitamente e specificamente: prometteva questo popolo di credere che da Dio dovea venire la sua salute mediante il Redentore e la passione di questo, in virtù della quale liberati dalla morte del peccato dovevano pervenire al cielo significato dalla terra promessa verso cui uscendo dall' Egitto si rivolgevano. Or questo Sacramento dell' agnello pasquale è detto SEGNO nella Scrittura: [...OMISSIS...] . Ecco la promessa e il patto di Dio, ed ecco il segno del patto. [...OMISSIS...] Ecco il culto che da parte loro doveano prestare gli Ebrei. Or il segno di questo patto era una cerimonia permanente: [...OMISSIS...] . E acciocchè più vivamente si scolpisse negli Ebrei l' obbligo di questo culto che doveano dare al Signore, ritenne il Signore in ispecial suo dominio i primogeniti salvati dall' Angelo: [...OMISSIS...] . E questo pure dovea essere in segno perpetuo agli Ebrei: [...OMISSIS...] . Or poscia Iddio continuò a dare effetto al patto da lui stretto con Abramo ed Isacco, del quale l' uscita dall' Egitto era un cominciamento. Come Dio in virtù di quel patto dovea salvare Israello, essergli buon re e scorgerlo alla perfezione morale, però tolse nel deserto a dargli sue leggi. Gli pubblicò da prima la legge morale; poi la legge civile o giudiziale; e finalmente le cerimonie religiose; e in tale occasione volle rinnovato solennemente l' antico patto (4). E disse al popolo d' Israele: [...OMISSIS...] . Or in questa occasione fu istituito un nuovo Sacramento, cioè l' ordinazione de' sacerdoti (6). Come tutto il popolo era stato consacrato al culto divino e n' era segno la circoncisione, così fu peculiarmente stretto da Dio un patto colla famiglia di Aronne, mediante il quale questa famiglia si obbligava di servire in un modo speciale al divino culto, e Dio da parte sua prometteva a questa famiglia una special protezione, e di essere egli stesso la sua porzione e la sua eredità (1). Della quale eredità il mantenimento temporale de' sacerdoti che ricevevano dall' altare, avendo parte delle vittime che si offerivano per lo peccato o per impetrare e render grazia, era niente più che un simbolo. Or la consecrazione era il segno di questo patto peculiare fra Dio e gli Aronnici sacerdoti. Ed è di questo patto colla tribù di Levi che si parla in Malachia, ove Iddio dice a' sacerdoti [...OMISSIS...] . Qui parla del comando che Iddio fece a' sacerdoti di occuparsi nel culto di Dio e nelle sacre funzioni. Nè questo patto risguardava solamente le cerimonie esteriori, ma si riferiva al primo patto generale e morale: doveano i sacerdoti cercare veramente la divina gloria (4), esser santi e ministri di santità (5). E però dice: [...OMISSIS...] . Una delle cerimonie della consecrazione sacerdotale consisteva in vestire il sommo sacerdote di abiti che indicavano le virtù che il dovevano ornare. Quattro vesti vestiva; la prima di bianco lino (7), sopra questa la tunica azzurra, atte a significare la perfezione rispetto a sè, cioè la purità della vita significata nella bianchezza, e la grazia divina significata nel color celeste che sopraggiunta all' anima perfezionava la naturale onestà. Le due altre erano l' Efod, e sopra questo il Razionale atte a significare le virtù rispetto al popolo: simboleggiandosi la carità nell' Efod, e la giustizia che il sacerdote dovea amministrare nel Razionale. Per ciò sì nell' Efod come nel Razionale erano scritti i nomi delle dodici tribù che dovea abbracciare colla carità e con una imparziale giustizia. E le due pietre dell' Efod o sopraumerale chiamansi per questo memoriale de' figliuoli d' Israello; poichè la carità non si scorda degli amati (1); e il Razionale dicesi Razionale del giudizio, perchè rammentava quel ragionevole e giusto giudizio che il Sacerdote come primo giudice dovea pronunciare nelle occorrenze del popolo (2). E il Razionale e l' Efod erano congiunti insieme con uncini e catene d' oro perchè dimostrassero che le due virtù della carità e della giustizia non si dovevano mai dividere (3). Sul Razionale poi del giudicio stavano scritte le due parole Dottrina e Verità, significatrici della cognizione della legge necessaria a ben giudicare e della rettitudine del giudice che applica con verità la legge (4). La lamina d' oro poi pendente dalla mitra sacerdotale con su la scritta:« Santità del Signore« dimostra come tutte le virtù discendono dalla contemplazione continua della divina santità (5). E il cingolo cingeva il sacerdote in emblema di quella discrezione onde le virtù si debbono esercitare (1). I sacerdoti avevano parte delle cose sacrificate al Signore, e vivevan con esse. Questo è considerato da S. Tommaso come un altro Sacramento dell' antica legge (2). Egli era una condizione, come abbiamo veduto ed un segno del patto stretto dal Signore con Levi (3). I Leviti erano mantenuti dal Signore cioè colle offerte a lui fatte; e questi cibi ceduti da Dio a' sacerdoti rappresentavano il cibo spirituale e divino onde Iddio nutrisce quelli che sono peculiarmente dedicati al suo culto: il quale cibo è Dio stesso che però si chiama porzione de' sacerdoti. Come adunque l' agnello pasquale e parte delle vittime pacifiche si mangiavano dal popolo ed erano segno del patto onde questo voleva a Dio essere dedicato ed unito; così i cibi sacerdotali erano parimente segno della consumazione o realizzazione del patto speciale onde i sacerdoti a Dio si univano al culto suo dedicati (4). S. Tommaso annovera fra i Sacramenti dell' antica legge anche le purificazioni ed espiazioni legali. Poichè erano cerimonie, le quali appurando l' uomo, lo disponevano al culto di Dio (5). E come erano due i gradi della consecrazione al culto divino, l' uno comune a tutto il popolo che si otteneva nella circoncisione, l' altro speciale de' sacerdoti che si poneva in atto nella ordinazione sacerdotale; come eran due altresì i cibi sacri l' uno comune a tutto il popolo, l' agnello pasquale, l' altro proprio de' sacerdoti, la parte loro spettante delle vittime immolate e degli altri commestibili offerti al Signore; così parimenti corrispondevano a questi due gradi di sacerdozio (1) due maniere di mondarsi e purificarsi, quanto al popolo cioè le purificazioni propriamente dette da certe impurità esteriori, e le espiazioni da' peccati, e quanto a' sacerdoti e Leviti le lavande delle mani e de' piedi e la rasura di tutti i peli del corpo. Laonde volendo or noi riassumere dando uno sguardo generale su questi antichi Sacramenti diciamo: Che due erano i gradi di sacerdozio o di consecrazione a Dio dell' ebraico popolo: il primo de' quali si faceva per la circoncisione, e con esso il popolo prometteva di osservare tutte le leggi morali, giudiciali e cerimoniali da Dio intimate, dando in tal modo a Dio ossequio e culto; il secondo consisteva nella consecrazione de' sacerdoti, e per esso promettevano che oltre di osservare per sè le leggi avrebbero altresì promosso il divino culto in altrui, adoperandosi a porre in atto le esteriori religiose cerimonie, e aiutando il popolo anche al culto interiore coll' ammaestramento nella legge ed eccitarlo ad osservarla. Che a questi due gradi di sacerdozio rispondevano due cibi consecrati, l' uno pel popolo l' altro pei Leviti; i quali cibi erano come una conseguenza di que' due gradi di sacerdozio, una consumazione di quella prima consecrazione e una caparra che voleva Iddio data a quelli che a lui si dedicavano del mantenimento di sue promesse, e del comunicarsi all' umanità che avrebbe lor fatto. Queste comestioni di cibi sacri non erano dunque nuove consecrazioni propriamente, ma una continuazione delle prime; il perchè queste si replicavano; ma le prime fatte una volta, non più era uopo ripeterle. Che finalmente v' avevano le purificazioni ed espiazioni, colle quali pure il popolo, e i sacerdoti a Dio consecrati confessavano la loro indegnità e come erano male acconci al patto di Dio; come anco a questo patto eran venuti meno coll' infedeltà del peccato. Questi perciò convenivano rinnovarsi ogni qualvolta cadevano in peccato o nella immondezza legale; co' quali riti non forma[va]no già una nuova consecrazione di sè a Dio; ma si rendevano degni della consecrazione di sè al Signore, o dal popolo circonciso o da' sacerdoti consecrati. Abbiamo fin qui veduto come cominciò e progredì il patto positivo dell' uomo con Dio. Cominciò colla famiglia di Adamo peccatore e fu violato dagli uomini. Fu rinnovellato colla famiglia di Noè, e i suoi discendenti il violarono di nuovo. Allora fu scelta la famiglia di Abramo, e per segni di questo patto Abramitico furono stabiliti de' Sacramenti più determinati. Il patto con Abramo racchiudeva da parte di Dio delle promesse temporali e spirituali: queste seconde erano le principali e le prime erano figure delle seconde, atte a far intendere agli uomini il prezzo di esse. Iddio pose mano ad effettuare le sue promesse ed ogni passo che diede in ridurle ad effetto fu a lui occasione di rinnovare il patto antico e di stabilire un nuovo segno di questo patto, già in parte da Dio effettuato, affine di restringere vieppiù e consacrare a sè gli uomini colla memoria di ciò che egli fedele al promesso faceva per loro. Così istituì il Sacramento dell' agnello pasquale quando li liberò dall' Egitto per istabilirli nella Cananea promessa nel patto Abramitico; così indusse la consacrazione de' sacerdoti quando al Sinai organizzò il popolo Ebreo in nazione; diede a lui come re un Codice di leggi, stabilì tribunali, e con esso popolo, qual già vera e perfetta nazione, rinnovò l' alleanza e costituì l' aronnico sacerdozio. Nella quale occasione il Sacramento della consecrazione sacerdotale fu istituito a segno e memoria perenne di quel benefizio di Dio e a stimolo dato al popolo di via più promuovere il culto del suo divino dominatore (1). E tutti questi segni del patto che consecrava l' uomo al culto divino procedevano di pari passo, come abbiamo veduto, collo sviluppamento della divina rivelazione e della fede sempre più esplicita degli uomini. Questa fede però mancava sempre della comunicazione all' anima del Verbo, poichè il Verbo non erasi ancor vestito dell' umanità, che è il mezzo ond' egli si comunica agli altri uomini. Perciò la fede si rendeva sempre più esplicita solamente in quanto alla cognizione di Dio ideale ed in quanto a quelle circostanze dell' Incarnazione che a percepirle si chiede altro più che le facoltà naturali. Per ciò poi chè spetta allo spirituale e soprannaturale della fede, questo non l' avevano gli Ebrei comunemente se non implicito nella fede di Abramo; eccetto quei Santi privilegiati a cui dava Iddio delle particolari illustrazioni, attuali il più, e non mai tali che si potesse dire aver essi veramente e abitualmente il Verbo percepito. La natura per ciò di una tal fede implicita nella sua parte soprannaturale o divina esigeva che il patto con Dio stesso fosse esterno e che vi avessero molti esterni segni che di frequente il richiamassero alla memoria degli uomini. Ma posciachè il Verbo s' incarnò, esso Verbo fu comunicato all' umanità tutta. In questo consisteva la consumazione del patto di Abramo; le promesse spirituali di Dio che conteneva quel patto con ciò erano pienamente adempite: le promesse temporali che servivano di sostegno alle spirituali e di caparra cessavano dall' avere uno scopo, come l' armatura e le centine di una fabbrica quando questa è condotta a fine; e anch' esse s' erano già compite. Or come Iddio ogniqualvolta avea eseguito l' una o l' altra delle sue promesse contenute nel patto Abramitico avea rinnovato il patto medesimo cogli uomini, così fece pure quando vestì il suo Verbo di carne umana, adempiendo così l' ultima sua promessa, la massima delle promesse, quella promessa a cui le altre tutte erano ordinate come mezzi e apparecchiamenti e che sola per ciò formava propriamente la sostanza del patto medesimo. Per ciò dice Isaia del futuro Redentore: [...OMISSIS...] . In questo gran fatto pertanto, in cui Iddio da parte sua liberava la sua fede agli uomini, conveniva che quasi chiamando gli uomini loro dicesse così: [...OMISSIS...] . Questo è il patto nuovo che consuma l' antico, la nuova alleanza, il nuovo Testamento. Or hassi a considerare la natura di questo nuovo patto nel quale sta il compimento delle promesse fatte ad Abramo. Col Redentore donato in esecuzione di quella promessa il debito dell' uman genere venne realmente pagato, non fu già dilazionato il pagamento, il che solo otteneva l' antica fede dei giusti che speravano nel Salvatore. Di più il Verbo stesso comunicavasi allo spirito umano, e non era più sola aspettazione di una futura comunicazione. Per ciò l' uomo non parlava già più a Dio per mezzi naturali ed esterni, ma senza alcuno intermediario l' uomo e Dio si abboccavano insieme, per così dire, nella grazia del Redentore. L' essenza adunque del nuovo patto a differenza dell' Abramitico è tutta interiore, egli non si stringe con apparizioni esteriori ed esteriori dimostrazioni di potenza e maestà come sul Sinai; ma sì bene nel segreto dello spirito fu stretto col reale e personale congiungimento del Verbo e della umana natura da prima, poscia colla comunicazione del Verbo agli altri uomini per grazia (1). Tutto l' esteriore adunque nella nuova alleanza è un effetto ed effusione di questa alleanza già stretta e pienamente verificata, e per ciò è cosa questa posteriore, quando l' antiche esteriorità erano anteriori e conduttive all' alleanza medesima. Quindi consegue, che col nuovo patto l' individuo si ricongiunge veramente a Dio. In tal modo l' uomo è ricondotto allo stato primitivo della perfezione morale, nel quale egli era dedicato al culto divino per sua costituzione e lo conosceva senza bisogno di alcun patto positivo ed esterno (1) che glielo ricordasse; egli era per così dire nel culto stesso costituito, perchè il culto era in lui già in atto, perchè in atto era in lui l' unione sostanziale ed intrinseca con Dio: egli la sentiva questa unione, nella quale egli attingeva la similitudine col Creatore (2). Per la ragione medesima il nuovo patto è universale, perchè è nell' interiore dell' individuo che si consuma. Il patto con Abramo potea essere famigliare e nazionale, perchè era esteriore e positivo: potea cioè stingersi col corpo della famiglia o della nazione rappresentata da alcuni: ma nel nuovo, trattandosi che il commercio di Dio coll' uomo avviene nell' interiore dell' individuo, egli è manifesto che a tal fatto l' individuo non può delegare un altro nè essere in modo alcuno rappresentato; ma è solo al tutto opera personale. Ora quello che è personale è anche universale, perchè a ciò è chiamata ogni persona, e non una singola casa od un singolo popolo. Un' altra conseguenza dello stringersi questo patto con Dio nell' interiore dell' anima di ciascun uomo è questa, che un tal patto non ha quel bisogno di un segno esteriore che aveva l' antico; dico di un segno che fosse come solennità essenziale al contratto; sebbene anche il nuovo patto ha bisogno di quei mezzi esterni che il formano, e che sono i Sacramenti di Cristo. Il perchè ai nuovi Sacramenti è più essenziale l' essere mezzi efficaci produttori del patto che di essere segni di lui come gli antichi, i quali niente nell' anima producevano. E se anche significano i nuovi Sacramenti, ciò fanno per la volontà di Cristo, che li ha istituiti, e che ha giudicato ciò conveniente, non già per una loro intrinseca necessità, cioè perchè il patto sia di tal natura che negli esterni segni si assolva. Tuttavia havvi anche un segno necessario del nuovo patto; ma questo è tutto interiore: e come il patto si opera nell' intimo dell' animo così anche il segno suo necessario s' imprime nell' anima stessa (1) ed è ciò che le divine Scritture chiamano or segno, or sigillo, or signacolo, e che S. Agostino chiamò carattere indelebile, e dopo di lui la Chiesa tutta (2). Questo segno interiore che dovea imprimere nell' anima Cristo era adombrato nell' antico tempo e dai Profeti promesso. [...OMISSIS...] Or venendo a ricercare che sia questo segno che Cristo co' suoi Sacramenti imprime nell' anima è uopo a noi rammemorare ciò che abbiam detto intorno alla grazia del Redentore. Questa grazia l' abbiamo deffinita una comunicazione intellettiva del Verbo siffattamente che il Verbo si rivela all' anima, e questa vista del Verbo che l' anima ne riceve è il lume soprannaturale onde cominciano tutte le soprannaturali operazioni. Or la comunicazione intellettiva del Verbo altra è passeggiera, ed altra è stabile per fissa legge e se si vuol così chiamarla abituale. Di più, volendo noi analizzare questa comunicazione, ella si può considerare rispetto all' impressione che lascia nell' anima la qual viene dal Verbo stabilmente informata; o rispetto alla potenza ch' ella suscita o produce nell' uomo; o finalmente rispetto al perfezionamento della volontà a cui la santità si riferisce. Conciossiachè certa cosa è che il Verbo risplendente nell' anima vi imprime la sua forma o similitudine, e questa è quella luce secondo la quale l' uomo che opera soprannaturalmente si guida. E questa impronta del Verbo può dirsi acconciamente sigillo o segno. Ella però non è ancora santità, poichè all' esser tale conviene che la volontà umana a quella luce ubbidisca, o sia almeno pronta ad ubbidire. Or dunque essendo la grazia quella che produce e forma la santità, alla nozione della grazia non basta ogni impressione del Verbo posta unicamente nella parte intellettiva dell' anima; ma conviene che la volontà non ripugni a quella luminosa impressione. Sicchè quella luce del Verbo impressa nell' anima acquista nome di grazia solamente quando influisce nella volontà, ma non allora che in essa non influisce spingendola o movendola alla carità. Or tuttavia l' impressione del Verbo può rimanersi nell' anima ristretta nella sola parte intellettiva di lei eziandio che la volontà ricalcitri e respinga da sè ogni sua benigna e santa influenza. E questa stabile e ferma impressione del Verbo nella sola parte intellettiva dell' anima, a dispetto della volontà perversa che si rifiuta assecondarla, viene appunto operata ne' tre Sacramenti cristiani del Battesimo, della Confermazione e dell' Ordine, i quali con una tale impressione che si opera da Dio per ferma legge senza rispetto alla cooperazione dell' uomo pongono il divino fondamento dell' universo soprannaturale. Or egli è però ad avvertire che congiungendosi il Verbo in tal modo coll' uomo egli ne prende il possesso come di cosa sua, e che la prava umana volontà non impedisce punto che dall' esser nell' anima la luce e l' impressione del Verbo non iscaturiscano nuovi doveri all' uomo e altresì nuovo potere. Egli a cagione di quella unione col Verbo che lo possiede è consecrato al Verbo stesso: nuovo suo dovere è quello di riconoscere il Verbo siccome degno di ogni culto e di darglielo. Epperò quella impressione che ha in sè del Verbo importa il venir egli per essa ordinato e chiamato al culto soprannaturale di Dio. E perciocchè se non avesse quella luce non conoscerebbe quel suo dovere, nè avrebbe virtù in sè di elevarsi sopra all' ordine soprannaturale; laddove riconoscendo egli il Verbo in sè e amandolo come è degno di buona volontà trae da esso Verbo ogni aiuto e grazia maggiore; però convenientemente si può dire che quella impressione, quel segno, quel carattere indelebile di Cristo sia la potenza di culto soprannaturale che all' uomo viene aggiunta coi toccati Sacramenti. E tutto ciò vogliamo ora provar noi coi documenti che ci somministra l' ecclesiastica tradizione. I. Il carattere viene impresso nell' anima dallo Spirito Santo. S. Paolo parlando del carattere dice: « che in Gesù Cristo dopo aver creduto (1) siete stati segnati nel Santo Spirito di promissione« (2). » E altrove dice parlando di questo segnacolo o carattere: « Non vogliate contristare lo spirito di Dio, nel quale siete stati segnati nel giorno della redenzione« (3) » cioè del vostro Battesimo. E` dunque una operazione dello Spirito Santo, secondo l' Apostolo l' impronta che in noi si fa del carattere indelebile. E all' azione dello Spirito Santo nell' anima l' attribuiscono pure costantemente i Padri della Chiesa. Udiamo S. Cirillo: [...OMISSIS...] . Giovanni Grisostomo parimente dice: [...OMISSIS...] . Ove si vede chiaramente espressa la differenza fra il segno esterno del patto stretto da Dio cogli Ebrei, e il segno interno e spirituale de' cristiani. Perocchè non essendo ancor dato innanzi a Cristo lo Spirito Santo non potevano gli antichi Sacramenti imprimere il carattere indelebile de' nostri. Dal che si conchiude che la grazia e il carattere indelebile sebbene cose distinte, come abbiam detto, tuttavia procedono dallo stesso principio, dallo Spirito Santo (.). II. Il carattere è l' impressione del Verbo fatta nell' anima. Ho già dimostrato che è proprio dello Spirito Santo l' imprimere il Verbo nell' anima, il qual Verbo è sempre il termine dell' operazione del Santo Spirito (9). Perciò dice S. Paolo, parlando del carattere battesimale ricevuto da' primi fedeli, che essi erano stati segnati dallo Spirito Santo nel Verbo della verità (10). Perciò il carattere si chiama dai Padri segnacolo di Cristo (11), e gli si attribuisce come suo effetto speciale il configurarci a Cristo. E poichè Cristo, o sia il Verbo è l' imagine del Padre (12) perciò afferma l' ecclesiastica tradizione che nel carattere indelebile riceviamo noi l' immagine di Dio. [...OMISSIS...] Per la medesima ragione avviene che i Teologi dànno allo stesso carattere il nome di Sacramento, appunto perchè è segno di cosa sacra, come quello che è segno e impressione del Verbo (3). III. Il carattere è luce o splendore. Se il carattere è un' impressione del Verbo, come abbiamo dimostrato, forz' è ch' egli sia luce e splendore, perocchè il Verbo all' anima a cui si comunica non è che luce. E questo dice S. Ambrogio nel passo ultimamente recato. Il medesimo insegna l' antico autore dell' ecclesiastica gerarchia: [...OMISSIS...] . Nè questa luce di cui si parla è altro che intellettiva, la qual dà all' anima conoscimento. Per questa osservazione si spiegano chiaramente que' passi de' Padri ne' quali si dice che col Battesimo viene impresso nell' anima il nome di Dio, volendo dire che viene impresso il carattere (2); conciossiachè come abbiamo altrove osservato, il nome di una cosa equivale, secondo la frase scritturale, alla cognizione di quella. IV. Il carattere è nella sostanza dell' anima. E` proprio del Verbo il congiungersi coll' essenza dell' anima intellettiva. E però se il carattere è una impressione del Verbo, come abbiam provato, egli deve aver sua sede nell' essenza o sostanza dell' anima nostra. Questa sentenza si può conciliare con quella di S. Tommaso che ripone il carattere nella potenza intellettiva dell' anima (3); poichè esso carattere si può risguardare da due lati, cioè in quanto segna , e in quanto opera . In quanto opera egli è potenza (e certo che la luce del Verbo impresso nell' animo, non è inattiva); ma in quanto segna (4), egli non è potenza, ma è impressione, una modificazione dell' anima, la qual riceve un lume nuovo, e in tanto giace nella sua essenza (5). Vero è, che la parola carattere nomina propriamente il segno e non la potenza; come pure egli è vero che antecedentemente alla potenza v' ha l' impressione della luce, fondamento e principio della potenza stessa: e però ragionevolmente, dice il Cardinal Bellarmino, toccando le diverse opinioni de' Teologi intorno alla sede del carattere, queste parole: [...OMISSIS...] . Di qui è, che i Concilii di Firenze e di Trento, parlando del carattere, non dissero già che questo sia in alcuna potenza, ma sì bene puramente e semplicemente nell' anima. V. Il carattere distingue il cristiano dai non cristiani. S. Anselmo dice: [...OMISSIS...] . S. Giovanni Grisostomo osserva come i chiamati alla gloria fino a tanto che erano solamente nella prescienza di Dio non potevano conoscersi e distinguersi se non da Dio: come Iddio volle poi anche contraddistinguerli con un segno che li rendesse manifesti alle creature; e presso gli Ebrei questo segno fu esterno e carnale, la circoncisione, ma presso noi fu posto nell' anima stessa, e suggellatovi dallo Spirito Santo (3). Or essendo questo segno invisibile agli occhi della carne, a' quali non luce se non il segno esterno dell' acqua battesimale, manifesta cosa è che l' anima nostra non è distinta da quelle degli infedeli mediante un tal segno spirituale, se non alla vista di quegli esseri che hanno virtù di percepire le anime, i quali sono, oltre Dio, gli Angeli beati e i demonii. E questo è quello che insegnano i Padri, come si vedrà più sotto, ove saranno addotti i luoghi de' Padri che affermano quel segnacolo indelebile dare alle pure intelligenze notizia di quali anime sieno a Cristo consecrate. L' impressione del Verbo nell' anima intellettiva non può essere mai oziosa, e, come dicono i santi Padri, è anzi attivissima in tutte le potenze dell' uomo. Però l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia , parlando del carattere che imprime il Battesimo dice: [...OMISSIS...] . Ma l' azione che esercita in noi il carattere che riceviamo in alcuni Sacramenti, non ha per oggetto solamente gli abiti animali de' quali parla il citato Padre. Egli ha un' attività e produce degli effetti nella parte più nobile dell' uomo; ed è relativamente a questi effetti che pel carattere si aggiunge all' uomo una nuova potenza soprannaturale. Cerchiamo di chiarire la natura di questi effetti, di questa potenza. Due sono principalmente questi effetti; l' uno è l' attitudine che acquista l' anima e il diritto di ricevere o di amministrare gli altri Sacramenti: l' altro è la potenza di partecipare della grazia di Gesù Cristo. Parliamo del primo di questi due effetti. Col carattere indelebile che imprime il Battesimo, l' anima vien posta in tal condizione, che ricevendo gli altri Sacramenti, ella ne possa ricevere tutti i loro effetti. La Confermazione non fa che avvalorare e confermare, come mostra il suo nome, lo stesso carattere nel Battesimo ricevuto (2). Col carattere del Sacramento dell' Ordine poi l' uomo acquista una nuova potenza per la quale egli consacra l' Eucaristia, rimette i peccati ne' Sacramenti della Penitenza e dell' estrema Unzione, e amministra validamente i Sacramenti altresì della Cresima e dell' Ordine stesso. La potenza per ciò che acquista l' uomo relativamente agli altri Sacramenti è passiva od attiva . Passiva è quella del carattere del Battesimo e della Confermazione; attiva poi quella dell' Ordine, onde può l' uomo dare all' altr' uomo con certi riti il carattere e la grazia, o sia [di] amministrare con validi effetti i Sacramenti. Egli è difficile poi il diffinire se questa potenza spirituale che vien data all' uomo in conseguenza dell' impressione del Verbo nell' anima sua sia un effetto spontaneo e necessario di detta impressione come io credo almeno probabile, ovvero sia egli solamente susseguente, senza nesso di causa e d' effetto fra l' impressione del Verbo o carattere e detta potenza, come crede il Bellarmino, che vede in questo come un vero patto positivo fra l' anima e Dio; e però la chiama potenza morale e non fisica. [...OMISSIS...] Noi non veggiamo perchè il carattere non possa toccare il suo effetto, come dice qui il Bellarmino. Che se il carattere è luce del Verbo, fulgente nell' anima (3), chi può limitare la forza di un tale splendore? A quali effetti non può giungere la virtù del Verbo stesso? Però noi non veggiamo improbabile, a ragion d' esempio, che il carattere del Battesimo per un suo spontaneo e fisico effetto renda l' anima capace di ricevere il carattere della Confermazione. A quel modo appunto come nell' ordine naturale, il lume della ragione che sta nell' anima quando nasciamo, ci fa capaci di ricevere qualsivoglia altra cognizione che ci venga da un maestro insegnata; o a quel modo onde il lume primo della ragione, ci fa capaci di riflettere poi sopra lo stesso lume e per essa riflessione renderlo a noi più luminoso. Così nell' ordine soprannaturale, il carattere battesimale è un primo lume, e il carattere della Confermazione è un altro lume che ci sopraggiunge. Come dunque non intenderebbe un discorso pieno di luminose verità colui che non avesse intelligenza, ma quel discorso sarebbe a lui inutile e nulla significante; così invano si opererebbe il rito della Confermazione in chi non avesse ricevuto il Battesimo, poichè questi non sarebbe capace di percepire quel lume maggiore che nel carattere della Confermazione s' imprime. Ugualmente a niuna verità ripugna il credere che, coll' ordine sacerdotale, l' uomo che già pel Battesimo ha il Verbo in sè stesso acquisti una nuova potenza; cioè che il Verbo già impresso nell' uomo operi di guisa che mediante i riti necessarii usati da quest' uomo s' imprima in altrui il carattere della Confermazione, o si dia la rimession de' peccati, o il pane e il vino si consacri. A quella guisa appunto che chi ha la ragione ha altresì una nuova forza volontaria di operare, e di ammaestrare altri che hanno la ragione; così colui nel quale il Verbo diventa operante per la consecrazione sacerdotale, può trasfondere e comunicare in altrui della propria virtù e della propria luce secondo certe leggi e riti dalla volontà di Cristo costituiti. Or dovremmo parlare come il carattere sia anche la potenza della grazia, cioè in qual modo la grazia conseguiti al carattere per natural conseguenza, ove l' uomo colla volontà sua non vi ponga ostacolo. Ma di questo dobbiamo parlare più sotto distesamente; e qui fermiamoci un poco a trarre qualche conseguenza dal vero esposto, che il carattere sia potenza aggiunta all' anima, la quale per esso diviene atta a ricevere in sè gli effetti de' Sacramenti o a produrre questi effetti in altrui. Come nell' ordine della natura l' intelligenza è data all' uomo pel dono della luce dell' essere, così è data all' uomo una intelligenza soprannaturale pel dono della luce del Verbo che costituisce il carattere sacramentale. Come l' aggiungersi a noi la luce dell' essere è un crearci nell' ordine della natura, così l' aggiungere a noi pe' Sacramenti la luce del Verbo è un crearci nell' ordine della grazia. E come tutto ciò che fa Dio per via di creazione non lo distrugge più mai, poichè è egli solo che lo fa, senza il concorso della creatura, secondo ciò che sta scritto: « Non hai odiato nulla di tutto ciò che tu hai fatto« (1), » così nè l' uomo può più perder giammai l' intelligenza (2); nè può perder più mai il carattere, il quale per questa ragione si chiama indelebile. I Teologi della perpetua durata del carattere adducono appunto questa ragione, che egli è impresso in un soggetto incorruttibile, cioè nell' anima (1), la quale ragione ha tutta sua forza ove si tenga la sentenza nostra che egli giaccia nella stessa sostanza dell' anima, la quale viene modificata o piuttosto accresciuta con esso carattere. Di qui ancora s' intende che la generazione spirituale dell' uomo nuovo si fa pel carattere. Rechiamone alcune prove teologiche. Gesù Cristo diceva a Nicodemo: [...OMISSIS...] . Or qui Cristo al nascimento spirituale dell' uomo non richiede altro se non il Battesimo. Non è dunque la grazia che dà questa prima rigenerazione all' uomo, poichè il Battesimo può stare senza l' effetto della grazia, ma è desso il carattere, perocchè questo è un effetto necessario del Battesimo e ne forma la propria natura (3), conciossiachè quando il rito battesimale non imprimesse il carattere ei non sarebbe più il Battesimo di Cristo, ma un altro. Si noti ancora che il nascere non è mai opera della volontà di chi nasce, ma della natura (4). Ora la grazia non si può dare senza che la volontà ne venga piegata al bene dalla sua presenza, e questo è essenziale alla grazia, sicchè la rigenerazione della grazia non si fa mai se non per qualche cooperazione di volontà. S. Agostino da quelle parole di Gesù Cristo prova assai acconciamente che il Battesimo non si può iterare. Perocchè, dice: [...OMISSIS...] . Or su questa maniera di argomentare, che usa il gran Dottore, così ragioniamo:« Non può ripetersi il Battesimo, secondo S. Agostino, perchè è la nascita spirituale, perchè ripugna al concetto della nascita di una cosa o di una persona che ella si ripeta. Or qual è la vera e intrinseca ragione sola adotta dai Concilii di Firenze e di Trento, per la quale il Battesimo non può ripetersi? Non altra che il carattere indelebile (2). Dunque, conchiudo io, il carattere indelebile è quello che forma la nascita spirituale dell' uomo«. In tal modo (vogliam dirlo con sommo rispetto al gravissimo teologo che egli è) noi ci discostiamo dall' opinione del venerabile Bellarmino, il quale nega che sia al tutto solida e concludente l' argomentazione di S. Agostino da noi recata; la quale all' acutissimo Aquinate par anzi degna di collocarsi in primo luogo fra tutte quelle che provano il Battesimo non potersi ripetere (3). E questo scostarsi alquanto che fa qui l' Eminentissimo Bellarmino da due sì gran lumi procede, pare a noi, manifestamente dal non aver chiaro osservato o tenuto presente, come il nascer dell' uomo [cristiano] non sia altro che ricever il carattere del Verbo, trovando anch' egli solidissima la ragione del non potersi iterare il Battesimo nell' indelebilità del carattere (4). Si consideri che sino a tanto che non viene affetta la volontà il lume del Verbo non può chiamarsi grazia. Ora quando questo lume influisce a santificare la volontà prima di fare quest' atto egli irraggia necessariamente l' intelletto, poichè l' intelletto è anteriore alla volontà e la volontà non si piega se non dietro a ciò che è conosciuto. Dunque il lume del Verbo prima di tutto luce nell' uomo in uno stato nel quale non è ancor grazia e questa viene appresso. Ma la generazione è il primo passo onde comincia una persona. Onde la generazione propriamente parlando non si può attribuire alla grazia che appartiene all' uomo generato, ma sì bene alla primissima impressione del Verbo che si chiama carattere. Nè noi neghiamo per questo che possa dirsi generazione spirituale dell' uomo anche il primo ricevere ch' egli fa della grazia per una cotal similitudine. Perocchè come il figlio somiglia al padre, così l' uomo che ha la grazia somiglia a Iddio, e in questo senso Gesù Cristo diceva che gli Ebrei sono figli del demonio. Altra da questa è la figliuolanza di Dio che nasce dall' impressione del carattere. Chiamasi questa figliuolanza, perchè come mediante la generazione l' uomo comincia ad essere acquistando la sostanza di uomo, e però PUO` fare poscia gli atti da uomo; così colla luce del Verbo l' anima riceve la potenza degli atti soprannaturali, e colla sua sostanza è veramente nell' ordine soprannaturale, cioè congiunta al Verbo che l' ordine soprannaturale constituisce. Si può dire che col carattere sia data all' uomo una nuova natura; non so però se una nuova persona; poichè a questa si esige la volontà. Però parmi che col carattere la persona nuova sia già in potenza; ma che colla grazia si tragga quella potenza all' atto; quasi maritandosi la volontà al carattere : due generanti dell' uomo nuovo. Di questa generazione che si opera pel carattere si oda per tanto S. Giovanni Grisostomo. [...OMISSIS...] Or a conferma del detto recherò un bel passo di Ugone da Prato, nel quale questo scrittore ecclesiastico chiaramente attribuisce al carattere la generazione spirituale che nel Battesimo avviene. Enumerando egli le varie differenze che separano il Battesimo dalla circoncisione, venuto alla quarta differenza dice così: [...OMISSIS...] . Farò anche osservare finalmente, come in molti luoghi del Vangelo si rassomiglia Iddio a un padre, il quale ha de' figliuoli scapestrati e perduti, che egli poi anche ricupera. Or di questi figliuoli disubbidienti e ribelli al padre, non si dice però che cessino con questo da essere figliuoli. Ciò si vede principalmente nella parabola del figliuol prodigo, che propriamente è simbolo del cristiano dissipato e partito dalla casa paterna; il quale però è riconosciuto dal padre per suo, appena che a lui ritorna; perchè ha in sè la fisionomia e i segni a' quali il riconosce per figliuolo sebbene in cenci e coperto di lurida sordidezza, pallido e scarno di fame. Anche il battezzato in egual modo, per iniquo che e' sia al Padre celeste, non perde la figura di figliuolo, datagli nella prima generazione coll' impronta dello spirituale carattere e per suo suddito e figliuolo la Chiesa sempre li riconosce (2). Adunque come la circoncisione distingueva e segnava la famiglia di Abramo, così il carattere contrassegna e distingue la famiglia di Dio. Cristo è solo figliuolo di Dio per natura: i battezzati per questo si chiamano figliuoli di Dio, perchè hanno Cristo seco congiunto, perchè alle loro anime è immobilmente annesso il Verbo che costituisce appunto il« carattere« o segno pel quale Iddio gli riconosce essere della sua famiglia, perchè il Verbo innaturato in essi, per così dire, è suo vero figliuolo. In tal modo il Verbo nelle Scritture si chiama anche« SEGNO«. [...OMISSIS...] Nel capo LXVI d' Isaia Iddio parla manifestamente della generazione spirituale degli uomini, e dice alludendo a' tempi della venuta del Messia: [...OMISSIS...] e dopo vien subito a descrivere le glorie e la felicità della Chiesa, e dopo aver detto che le genti verranno e vedranno la sua gloria soggiunge: [...OMISSIS...] . Or questo segno è quel vessillo nominato tante volte in Isaia, cioè il venturo Messia (3). Cristo adunque è quello che« segna« gli uomini colla impressione di sè in essi e in tal modo dà loro l' adozione di figliuoli. Di qui s' intende chiaro perchè si dica da' Teologi, che Cristo non ha il carattere (4). Gli altri uomini hanno bisogno di essere segnati da lui, ma egli che è quello che segna non è segnato da altri, non può aver bisogno di esser segnato: gli altri uomini ricevendo l' impressione di Cristo partecipano la figliuolanza di Dio, ma Cristo è figliuolo di Dio per natura e non ha bisogno di partecipare della detta figliuolanza (5). Laonde quando Cristo è chiamato nelle Scritture« patto« egli si considera in sè come l' oggetto dell' alleanza di Abramo; quando è chiamato « segno« egli si considera ne' Cristiani ne' quali viene congiunto col Battesimo. La circoncisione all' opposto era bensì« segno« del patto; ma non il« patto stesso« come Cristo si appella (6). E quindi ancora apparisce ragione perchè i Teologi chiamino il carattere una consecrazione dell' anima (7). Consecrare una cosa è destinarla al culto divino, deputarla all' onore di Dio, a lui offerirla, acciocchè egli se ne serva a suo piacimento maggiore. Or io dico di più, che questa sola è vera consacrazione: perocchè interiore. Il Verbo stesso prende il possesso dell' anima, e mette in essa la sua fede, e l' anima così è nelle mani del Verbo consegnata. Or tutti i riti esterni non possono che significare la volontà degli uomini di destinare un oggetto qualunque al culto di Dio; ma non valgono a far sì che Iddio veramente ne prenda uno speciale possesso; o certo que' riti non costituiscono questo possesso stesso. All' incontro l' anima, ricevuto il carattere, è così al Verbo unita, che non può più scongiungersi; e però è veramente e perpetuamente al Verbo e dal Verbo consecrata (1). Anche per tal modo ha dato un verace e reale fondamento alla religione: ella non si assolve più in simboli esterni, ma ha per base una vera consecrazione. Di qui ugualmente si vedrà perchè S. Tommaso, seguito da tutti i Teologi, dica, che « i caratteri Sacramentali sono puramente altrettante partecipazioni del sacerdozio di Cristo, da Cristo medesimo derivate« (2). » Il sacerdozio di Cristo non terminava in offerire solamente degli esterni sacrifizii, senza propria virtù; offeriva un sacrificio interno, infinito, che era il massimo atto di culto e l' esaurimento di ogni morale perfezione. Egli avea una virtù propria, infinita, e il suo effetto non potea mancare; lucrava le anime degli altri uomini e le santificava. Questa virtù, che avea Cristo come sacerdote, di placare Iddio e tirarlo per così dire ad abitare nell' anime a cui si applicava l' effetto di quel sacerdozio, viene partecipata ai cristiani e forma il carattere indelebile. Dice il Bellarmino, come abbiamo anche di sopra notato, che in virtù del carattere viene stretto fra l' uomo e Dio un patto, pel qual patto Iddio si obbliga di concorrere alle azioni sacramentali, cioè a dire a tutti i mistici effetti de' Sacramenti (3). Noi abbiamo osservato, che non è propriamente un patto positivo la ragione per la quale Dio concorre agli effetti de' Sacramenti amministrati e ricevuti da chi ha il carattere; ma che la ragione di ciò è la virtù sacerdotale del Verbo impresso nell' animo (1). Perocchè Cristo fece ritornare, come accennammo, la condizione del primo stato d' innocenza, in cui non erano d' uopo de' patti positivi fra l' uomo e Dio (2). Di che Cristo ridusse al suo vero effetto ciò che al popolo Ebreo non era stato che promesso, ed esteriormente in varii simboli rappresentato: cioè di rendere il popolo « un regale sacerdozio, una gente santa« (3), » che viene a dire consecrata al divino culto. Cristo adunque potea solo essere un sacerdote verace, potente di chiamare Dio dal cielo e farlo amico dell' uomo; e di questa virtù sacerdotale comunicò all' uomo comunicandogli sè stesso. Tale è la natura del carattere. Noi abbiamo considerato in primo luogo il carattere in sè stesso, cioè nella sua qualità di carattere, e come tale l' abbiamo diffinito una unione permanente del Verbo colla essenza dell' anima intellettiva, per la quale l' anima percepisce il Verbo e se ne informa. Di poi l' abbiamo considerato come potenza, perocchè questa forma nuova dell' anima le aggiunge un potere soprannaturale che non avea prima; e questo potere la fa atta a due altissime e al tutto divine operazioni, cioè ad esercitare il culto del sacerdozio di Cristo e a partecipare della grazia (1). Abbiamo parlato della potenza che si riferisce agli atti sacerdotali o sacramentali; ora dobbiamo parlare della potenza che si riferisce alla grazia e alla santificazione dell' uomo. L' ordine in che stanno fra loro questi tre aspetti, in cui il carattere può considerarsi, è appunto questo accennato, che prima sta il carattere come carattere dell' anima, di poi viene il carattere come potenza del sacerdozio, e in terzo luogo il carattere apparisce come potenza della grazia. Rispetto all' ordine in che stanno questo due potenze che procedono dal carattere, l' angelico Dottore dice così: [...OMISSIS...] . Qui S. Tommaso mostra di considerare la disposizione o potenza dell' anima ad eseguire le cose appartenenti al culto come una conseguenza del carattere, e però non come carattere stesso: la nozione dunque di carattere, come carattere, precede a quella di potenza. Prosegue poi: [...OMISSIS...] . E in queste parole l' Angelico conferma ciò che abbiamo di sopra dimostrato, cioè, che il culto cristiano essendo principalmente interiore s' immedesima, rispetto a questa sua principal parte, colla santità. Vedesi ancora nelle stesse parole, come il potere di ricever la grazia venga dopo il potere di esercitare gli atti di culto, come il potere di esercitare gli atti di culto viene dopo il carattere preso nella sua propria nozione. Per questo medesimo la grazia è chiamata dal Maestro delle scuole « l' ultimo effetto del Sacramento« (1) » ed il carattere è detto il «« segno della grazia« (2). » Indi è che tutte le scuole convengono nell' affermare che il carattere precede alla grazia (3). Io dirò di più: il carattere precede alla grazia come la causa all' effetto. Questo essere intrinseco pensiero delle scuole cristiane vedesi da ciò, che il carattere si appella da esse concordemente« Sacramento«, nè così potrebbe appellarsi propriamente, ove segnando la grazia, non valesse altresì di sua natura a produrla, perocchè i Sacramenti della nuova legge hanno questo di proprio, che sono segni al tutto efficaci, ove non sia posto alcun obice volontario a questo loro effetto di santificazione. S. Paolo favellando del carattere dice: « Non vogliate contristare lo Spirito Santo, nel quale siete stati segnati nel giorno della redenzione« (4), » cioè del vostro Battesimo (5). Che vuol dire contristare lo Spirito Santo? Non altro che perdere la grazia colla commissione del peccato. Dunque lo Spirito Santo, nel quale siamo segnati, segnandoci, cioè imprimendoci il carattere, ci avea donata altresì la grazia. Egli è manifesto che S. Paolo in questo passo unisce il carattere e la grazia di una cosa sola, e considera queste due cose come effetti di una sola operazione dello spirito de' quali il principale e fondamentale è il carattere; e non pone che questa differenza fra l' esservi o non esservi la grazia, che nel primo caso lo Spirito Santo che segna l' anima è lieto ed amico, nell' altro caso egli è contristato. Anche in altri luoghi l' Apostolo unisce il carattere e la grazia come venienti dallo stesso fonte dello Spirito Santo, e come effetti di una sola operazione di lui (6). S. Paolo chiama altresì lo Spirito Santo che ci ha segnati, secondo la Volgata, « pegno della celeste eredità , » e secondo la forza della parola greca, « arra della elezione nostra (7): » il che viene a dire parte della gloria futura: giacchè l' arra è parte della cosa promessa che si anticipa in pegno del tutto, e ciò non si può intendere che nella grazia. I Padri della Chiesa tengono la stessa maniera di parlare, S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Qui dà il santo Vescovo per ragione dell' esser noi segnati questa, che un tal segno ci fa possenti a mantenere la grazia; il che mostra appunto come il carattere si possa chiamare la potenza della grazia, cioè la potenza di partecipare stabilmente della grazia del Redentore. In altro luogo dice il medesimo Dottore della Chiesa: [...OMISSIS...] . Qui congiunge al segnacolo spirituale i doni dello Spirito Santo, e mostra come dipende dalla buona volontà nostra il mantenerne gli effetti. Non poteva però far dipendere dalla volontà nostra il mantenimento del segnacolo stesso, che questo santo Padre in più luoghi dimostra al tutto indelebile. Questo segnacolo è chiamato« santo« (3) comunemente da' Padri, il che non sarebbe propriamente detto quando non aggiungesse all' anima alcuna santità. Però un celebre scrittore ecclesiastico dice, che il peccato di un battezzato, è simile a quello di un vassallo che falsificasse il sigillo del principe, e che al carattere indelebile dee susseguire la santità (4). Finalmente osservò che il Battesimo opera in virtù della passione di Cristo, e anche per questa cagione prova S. Tommaso che non si può rinnovare (5). Ora la ragione assegnata da' Concilii del non potersi rinnovare il Battesimo è quella dell' impressione del carattere indelebile. Ciò posto odasi il ragionamento di S. Tommaso: [...OMISSIS...] il che viene a dire, che tolto l' obice del peccato colla Penitenza, la virtù del Battesimo che rimane riproduce nell' anima la grazia battesimale. Ora perchè lo stesso ragionamento non si può applicare al Sacramento della Penitenza? Non per altro, dico io, se non perchè il Sacramento della Penitenza oltre la grazia non produce altro effetto, e però chi pecca dopo l' assoluzione sacramentale perde tutto l' effetto del Sacramento. Non così nel Battesimo, perocchè questo lascia il carattere anche dopo perduta la grazia, e questo carattere è radice sempre viva dalla quale, levato il peccato che la impediva, pullula e fiorisce l' ultimo effetto del Sacramento, cioè la grazia battesimale (1). Lo stesso si dica della grazia del Sacramento della Confermazione e dell' Ordine, che perduta col peccato, risuscita di bel nuovo tostochè il peccato sia tolto: perocchè rimane il carattere, il quale è quel fonte descritto da Gesù Cristo, che pullula un' acqua saliente in vita eternale (2). Il naturale effetto adunque del carattere è di santificare gli uomini colla emanazione di sè della grazia, e quando questa emanazione è impedita dalla perversa volontà, riman però viva nel carattere la potenza di riprodurla. Per questa natural congiunzione colla grazia santificante, di cui il carattere è come un fonte, viene altresì che i Padri attribuiscono al carattere l' essere segno di distinzione fra quelli di cui Cristo ha preso il possesso e fatti suoi, e gli altri da Cristo non posseduti; al qual segno gli Angeli li riconoscono e li difendono dalle nemiche insidie, o li separano e mettono, al tempo della messe, alla parte de' salvi. Di ciò credere v' è fondamento nelle Scritture. Perocchè di Cristo propriamente sta scritto, che [...OMISSIS...] . Ora se il carattere è appunto Cristo congiunto immobilmente coll' uomo nella sua parte intellettiva, ne viene che gli Angeli debbano esercitar quell' officio anche verso dell' uomo così segnato, che è come a dire Cristo per partecipazione. Però S. Basilio coerentemente al parlare delle Scritture dice, che Iddio dà le tessere a chi milita sotto di sè, soggiungendo: [...OMISSIS...] . Però io non vedo come alcuni teologi nieghino di conoscere a figura del carattere indelebile il sangue onde furono segnate le soglie delle porte de' figliuoli d' Israello in Egitto, quando passò l' Angelo uccidente i primogeniti; perocchè anzi non veggo cosa più acconcia di quel segno a significare il carattere di Cristo. Questo carattere viene impresso in virtù della passione di Cristo, per la quale operano i Sacramenti cristiani, ed è segno che difende i segnati dalla morte (1). Nè nuoce alla verità della similitudine, che il carattere non difenda i cristiani peccatori dalla dannazione; perocchè questo è accidentale impedimento posto al carattere, che per sè conseguirebbe indubitatamente quel salutevole effetto. Quindi anzichè con tali teologi, io me ne sto co' Padri più antichi della Chiesa a' quali non isfuggì la manifesta similitudine fra il segno del sangue nelle superliminari imposte degli Ebrei, e il carattere di Cristo ucciso, sulla cima dell' anima che è la sua parte intellettiva. E a conferma di ciò basti questo luogo di Gregorio Nazianzeno sopranomato il teologo per l' eccellente esattezza di sua dottrina: [...OMISSIS...] . Per la medesima ragione a me pare dover intendere del carattere quel T onde Ezechiele (3) predisse doversi segnare le fronti di que' che gemono e piangono, e onde nell' Apocalisse si affermano segnati gli eletti (4). Non è già che il Tau non significhi acconciamente la croce di Cristo, come oppongono quelli che negano esser egli figura del carattere. Ma appunto perchè egli è il segno della croce, sembrami acconcissimo a indicare il carattere che viene impresso in virtù della passione di Cristo (1). E si vorrà sostenere che le fronti di tutti gli eletti sieno improntate di una croce materiale? Il rito del segno della croce usato nella Chiesa non lascia nissuna impronta nella fronte corporalmente presa; ed Ezechiele parla di un segno che rimane nella fronte, scrittovi con inchiostro mistico, non dalla persona segnata, ma da un uomo biancovestito, che si descrive dal Profeta (2) e che si chiama espressamente un Angelo nell' Apocalisse « il quale ha il segno del Dio vivo« (3). » La fronte poi è acconcissima a indicare la parte suprema dell' anima in cui viene impresso il carattere. Solamente si può aggiungere, che il segno di cui parla l' Apocalisse, non è il carattere solo, ma unito colla grazia, poichè è quello di cui sono segnati gli eletti. E per la medesima ragione, onde al carattere gli Angeli conoscono quelli cui difendono, i demonii conoscono quelli da cui hanno a temere: [...OMISSIS...] . S' intende anche da ciò che è detto, perchè i Padri della Chiesa veggano nel carattere una caparra della celeste gloria: egli è quella luce del Verbo che rivelatasi interamente forma la celeste gloria. Spiegando quelle parole di S. Paolo « quegli che ci unse e segnò« (1) » Teofilatto dice, che [...OMISSIS...] . Il carattere, come abbiamo detto, è una cotal percezione del Verbo. Il Verbo lucente nell' anima produce varii effetti, che a due classi si riferiscono: la prima al potere del culto divino che nelle azioni sacramentali principalmente consiste; la seconda nel potere di partecipare stabilmente alla grazia del Redentore, ove non sia posto obice alcuno dalla volontà. Il Sacramento della Penitenza e quello dell' estrema Unzione ha per iscopo di levare dall' anima il peccato che è appunto l' obice che impedisce la infusione della grazia dal carattere di natura sua promanante; però questi due Sacramenti non imprimono carattere, ma lo suppongono. Il Matrimonio è un sacramento la cui essenza consiste in un contratto consumato e indissolubile. Lo scopo è di rappresentare l' unione di Cristo colla Chiesa, e però di santificare l' unione maritale a quel modo che è santa l' unione di Cristo. Perciò egli suppone bensì che ne' singoli contraenti sia già impresso il carattere, fonte della santificazione; ma egli nol dà questo carattere, non avendo un tal Sacramento di mira tanto la santificazione dei singoli in generale, quanto la santificazione dell' atto della loro unione particolare. E come l' unione maritale non è che una unione particolare delle persone, perciò essa non può che aggiunger loro un grado di santità speciale e grazia, ove le persone stesse si suppongano esser già nella grazia. Finalmente l' Eucaristia è l' unione di Cristo all' uomo per via della sua umanità in forma di cibo. Sono i corpi che si congiungono, di Cristo e del cristiano. Ora il carattere risiede nella parte intellettiva dell' uomo e non ne' corpi. Perciò l' Eucaristia non imprime il carattere. Ella è l' ultima finale santificazione dell' uomo che abbia il carattere e la grazia; perocchè come il carattere risiede nella parte intellettiva, così l' Eucaristia opera nella parte corporea e da questi due fonti procede la grazia nel cristiano acconciamente disposto. E avviene per la grazia che nella volontà risiede principalmente, che tutto l' uomo sia santificato tanto la parte spirituale che la corporale. Rimangono i tre Sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell' Ordine che imprimono il carattere, come detto abbiamo, imprimendo il Verbo nell' anima coi descritti effetti. [...OMISSIS...] Di ciascuno de' Sacramenti della nuova legge noi vogliamo parlare del modo ond' egli opera, e degli effetti che produce. Cinque sono i modi di operare de' Sacramenti della nuova legge. Perocchè operano o in modo simile a quello onde opera una medicina, o simile a quello onde opera il cibo, ovvero a quella maniera onde si comunica una potestà, o a quella onde si pronunzia dal giudice una sentenza, o finalmente a quella onde si stringe ed effettua un contratto. Per modo di medicina operano i tre Sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell' estrema Unzione, i quali hanno una materia propriamente detta che applicano al corpo umano, come s' applica un rimedio alle corporali infermità, e quella materia è l' acqua del Battesimo e l' olio della Cresima e dell' estrema Unzione: per modo di cibo opera la SS. Eucaristia: per modo di comunicazione che altrui si fa di una potestà opera l' Ordine, nel quale la imposizione delle mani affigura la congiunzione dell' ordinante e dell' ordinato: per modo di giudizio opera il Sacramento della Penitenza assolvendo o ritenendo i peccati: per modo di contratto finalmente opera il Matrimonio che è un sacro contratto fra gli sposi. Poniam dunque mano a trattar brevemente di ciascuno de' sette Sacramenti della nuova legge; e prima del Battesimo, che è principio e porta di tutti gli altri. Non mi sta nell' animo di tenere su questo primo Sacramento del Battesimo lungo ragionamento, perocchè bastano al fine nostro le cose dette qua e là in quest' opera, che raccolte insieme, sufficientemente dichiarano la natura e gli effetti di questo lavacro di rigenerazione. Le raccorremo dunque tutte insieme ordinatamente e brevemente: e con questa recapitolazione ci studieremo di aggiungere qualche nuovo lume alle medesime. Osservammo adunque, che l' umanità di Cristo è il veicolo della santificazione degli altri uomini (1). Però prima che comparisse al mondo questa sacratissima umanità non vi poteva avere compiuta e reale santificazione. « La legge fu data per Mosè, la grazia, la verità fu fatta per Gesù Cristo« » disse Giovanni Battista, il quale confessava di avere ricevuto « dalla pienezza di Cristo« (2). » Il modo onde l' umanità di Cristo comunica la santità all' umanità degli altri uomini, non potea essere che pel contatto delle sue sacratissime carni da cui usciva virtù di sanare non meno il corpo che l' anima (3): purchè in quelli che toccavano il sacratissimo corpo, non vi avesse mala disposizione (4). Il contatto però delle carni sacratissime di Gesù Cristo vivente in questo mondo non potea essere che di pochi; e l' amore di Cristo voleva che la santificazione dovesse potersi comunicare agli uomini di tutti i luoghi, di tutti i tempi. A sì grande uopo egli comunicò la virtù che usciva dalle proprie carni a degli elementi materiali, e così istituì i Sacramenti. E questa comunicazione medesima noi crediamo venir fatta mediante un mistico ed ineffabile contatto del corpo glorioso e invisibile di Gesù Cristo cogli elementi costitutivi delle materie sacramentali. Perocchè la virtù santificatrice uscente dal corpo di Cristo è tale, che non pur santifica l' umanità degli altri uomini immediatamente al contatto con essa, ma dà la virtù santificante anche a quegli elementi inanimati che ella a sè congiunge e tocca, i quali elementi dagli uomini toccati producono in essi santificazione. Come ciò avvenga, non vogliamo noi perscrutare troppo curiosamente; basti il cenno fattone innanzi (1). Osserveremo solo, che la virtù santificatrice uscente dal corpo di Cristo unito al Verbo, era però sempre soggetta e dipendente dalla volontà di Cristo; la quale poteva, secondo ciò che sapienza esigeva, variamente temperarla, raffrenarla, sommetterla a certe leggi e ben parse condizioni (2). Però appena che Cristo fu concepito e che nacque, non tutta si fece manifesta questa stupendissima virtù del suo corpo; parte a dir vero per la disposizione manchevole degli uomini (3), ma parte altresì pel consiglio della sua sapientissima e ordinatissima volontà. Or circa trent' anni si rattenne Cristo all' oscurità della vita privata: poi cominciò il divino suo pubblico ministero. Al cominciamento fu battezzato da Giovanni, e i Padri della Chiesa attribuiscono al contatto delle divine carni la virtù che ricevette l' acqua di mondare le anime degli uomini da' peccati (1). Ma perciocchè solo un po' di quell' acqua ebbe toccato veramente il divino corpo di Gesù Cristo (2); convien dire, che quel primo contatto dell' acqua del Giordano, in cui s' immerse il Redentore, fosse fatto, non tanto a comunicare effettivamente a tutte l' acque che non toccarono in quell' occasione il suo corpo la virtù di mondare i peccati, quanto a dimostrare la grande verità, che dall' umanità sua sacratissima usciva la virtù santificante e comunicavasi alle cose inanimate e materiali; e fosse fatto altresì a determinare il momento, in cui alla volontà sua piaceva di lasciare uscir libera di suo corpo quella virtù, il momento cioè dell' istituzione del Battesimo; e finalmente fosse fatto a indicare e significare il mistico e invisibile contatto reale di suo corpo coll' acque della rigenerazione (3). Nè il Battesimo così istituito traeva meno virtù dal sacrificio della croce, sebbene non ancora consumato. Perocchè un tal sacrificio era già consumato nel cuore di Cristo, i cui patimenti d' infinito valore erano già incominciati. Tuttavia il Battesimo in tal momento istituito dal divino Redentore non produceva ancora tutti quegli effetti, che da lui uscir doveano dopo la venuta dello Spirito Santo. In primo luogo egli non era ancora necessario alla salute, primieramente perchè non era ancora abrogata la legge Mosaica, che rimase estinta solo nella morte di Cristo; poscia perchè non era solennemente promulgata la legge Evangelica, che fu solo il dì della Pentecoste (1). Potrebbesi domandare, se il Battesimo da Cristo istituito, se non alla salute, fosse necessario almeno a riceverne i due essenziali effetti del carattere e della grazia abituale. Rispondo, vivente Cristo, il contatto delle sue sacratissime carni aver potuto a ciò supplire pienamente; quelli però che non erano a Cristo vicini e toccar nol potevano, aver avuto bisogno del Battesimo non alla salute, ma sì al conseguimento in questa vita di quei due mirabili doni. E facendoci più vicini a ricercare la differente virtù del Battesimo di Cristo appena istituito nel Giordano, e amministrato dopo la venuta del Spirito Santo, dico da prima non esser mancato nulla di ciò che appartiene all' essenza del Battesimo di Cristo appena ch' egli fu istituito; perocchè produceva i due effetti del carattere e della grazia. In che il carattere consista, l' abbiamo veduto, e così pure la grazia. E col carattere e colla grazia da lui uscente nasce l' uomo novello, l' uomo soprannaturale (2). Il primo concepimento di quest' uomo si fa mediante il carattere; ma il compimento di questa nascita non si ottiene che per la grazia. Conciossiachè essendo la persona un principio d' azione, e anzi il più sublime principio d' azione che sia nell' umana natura (3), apparisce che in alcun modo può dirsi col carattere nascer l' uomo, ma compiutamente non nascer che colla grazia. Cioè non può negarsi, che tosto che l' uomo riceve il carattere non abbia una nuova potenza in sè medesimo soprannaturale; ma essendo contraria la volontà, non v' ha ancor nell' uomo un principio volitivo soprannaturale, e nel principio volitivo è solo il principio d' azione compito. L' uomo che ha solo il carattere si potrebbe adunque dire aver in sua balìa la potenza di nascere soprannaturalmente, anzichè la nascita stessa (1). Perocchè il principio d' azione soprannaturale dell' uomo non è ancora posto in atto. Solo può essere all' atto ridotto, se la volontà si approfitta della luce del carattere ad operazione soprannaturale (2). Tostochè dunque il Battesimo fu da Cristo instituito, esso fu suo Battesimo, potente a rigenerar l' uomo col carattere e colla grazia. Tuttavia questi due effetti poterono sofferire diverse modificazioni ne' diversi tempi che corsero dal Battesimo di Cristo nel Giordano fino alla venuta dello Spirito Santo nel dì della Pentecoste: ed ecco in che modo. Il carattere è Cristo unito coll' anima, come abbiamo veduto. E Cristo non poteva unirsi coll' anima se non a quel modo in cui veramente si trovava essere. Dunque Cristo ancora vivente doveva unirsi coll' anima vivo; Cristo morto doveva unirsi coll' anima morto; Cristo glorioso doveva unirsi coll' anima glorioso. Nella gloria poi Cristo ebbe due stati, conversante in terra co' discepoli dopo la Resurrezione, e salito al cielo alla destra del Padre invisibile a' viatori e mandante di là lo Spirito Santo. In questi diversi periodi di tempo il Battesimo congiungeva all' anima del battezzato Cristo, in quello stato in cui si ritrovava. Or abbiamo detto, che dalla volontà di Cristo dipendevano gli effetti della virtù ineffabile della sua divina umanità; e che egli moderava e temperava questi effetti ordinatissimamente secondo che esigeva la infinita sua sapienza. E questa sapienza richiese, che a' diversi stati della sua umanità egli riserbasse certi effetti; e però che certi determinati doni e grazie provenissero dalla sua umanità ancora vivente in questo mondo, certi altri scaturissero dalla sua morte; certi dal suo corpo risorto, e finalmente certi dall' umanità sua già posta nell' altissimo trono de' cieli alla destra del Padre. Laonde il Battesimo acquistò virtù successivamente dall' umanità di Cristo a produrre tutti que' diversi effetti. S. Paolo parlando del Battesimo, amministrato a' fedeli dopo che gli Apostoli ebbero ricevuto lo Spirito Santo, attribuisce gli effetti di questo Sacramento appunto ai varii misterii o stati di Cristo. [...OMISSIS...] Qui l' effetto della giustificazione viene attribuito alla giustizia di Cristo senza farsi ancor menzione di sua morte. Prosegue l' Apostolo: « Ignorate forse, che tutti voi quanti siete battezzati in Cristo Gesù siete stati battezzati nella morte di lui?« (2). » Di che trae questa conseguenza. « Noi che siamo morti al peccato in che maniera vivremo ancora in esso?« (3); » attribuendo così alla morte di Cristo l' effetto della perseveranza nella grazia di lui e l' esser morti interamente al peccato. Però il Battesimo dopo la morte di Cristo dovea una virtù maggiore manifestare aggiungendo all' uomo forza di vincere la concupiscenza, che S. Paolo dice crocifissa in Cristo, e tal forza, per la quale l' uomo, che ad essa debitamente risponda, può vivere come morto al peccato, vivendo di una vita al tutto spirituale, secondo ciò che dice l' Apostolo: « Voi poi non siete più nella carne, ma nello spirito« (4). » Come poi dalla vita di Cristo veniva la giustificazione, e dalla morte il fermo proposito di non più peccare; così dalla Risurrezione l' Apostolo stesso deduce l' effetto di una luce maggiore data all' anima, la quale intende e comincia a partecipare le gioie della vita gloriosa. Il qual effetto non potea produrre il Battesimo, se non dopo la resurrezione: [...OMISSIS...] . E dice alla similitudine della sua morte e della sua risurrezione. Perocchè tutto l' operare di Cristo tende mai sempre a render simili i suoi redenti a sè stesso causa esemplare; e però non è credibile cosa che partecipasse ad essi quanto in sè non era proprio pienamente compito. E si osservi come la causa esemplare non è altro che una rappresentazione o effettuazione di ciò a cui altri si dee conformare; è una norma, un' immagine e quasi una pittura originale onde debbono ritrarre le copie. Ciò dunque che Cristo esprime in sè stesso quale esemplare, è ciò che produce volontariamente ne' suoi santi tali cose: nello stato suo viene significato ed espresso quello stato che dee esser prodotto e che produce in questi. Di qui la ragione perchè anche i Sacramenti sieno segni ed espressioni di ciò che producono. Ma ciò che esprimono e significano, non è condotto ad effettuazione se non dal corpo di Cristo, come istrumento della divinità; e però si richiede che lo stato di questo corpo sia acconcio a tali effetti: e questa è la perpetua dottrina di S. Paolo. [...OMISSIS...] Parole che assai acconciamente esprimono come dalla morte di Cristo scaturisca qual proprio effetto la piena vittoria dell' uomo sulla sua concupiscenza: per la qual vittoria l' uomo non pregia più il corpo presente e i desiderii di lui, ma il tiene per morto e alla morte volentieri l' abbandona: il che è quanto dire, proprio effetto della morte di Cristo è il distacco da tutte le cose umane. Della risurrezione all' incontro proprio effetto è l' unione e la percezione sensibile delle cose divine: « Se poi siamo morti in Cristo, crediamo che vivremo anche insieme con Cristo« (3). » Dalla costanza poi della vita nuova di Cristo viene la costanza della percezione delle cose divine. [...OMISSIS...] Alla Ascensione poi di Cristo appartiene lo Spirito Santo che dalla destra del Padre Cristo mandò sulla terra: « Dio è che giustifica, chi è che condanna? Cristo Gesù che è morto, anzi che è risorto, che sta alla destra di Dio, che anche interpella per noi« (1): » cioè che prega e ottiene dal Padre lo Spirito Santo e i doni per gli uomini. E dopo la venuta dello Spirito Santo sopra gli Apostoli questo stesso s' infonde nel santo Battesimo. Già abbiamo veduto che cosa voglia dire propriamente l' espressione biblica del « ricevere lo Spirito Santo« (2). » Or a me pare, che con questa dottrina si possa conciliare colla sentenza degli altri Padri quel celebre passo di S. Leone, nel quale questo Sommo Pontefice e accuratissimo Dottore sembra di volere insegnare, che il Battesimo di Gesù Cristo sia stato istituito solamente dopo la sua risurrezione. Secondo noi il sommo uomo volgeva allora nell' animo quell' effetto particolare, che cominciò al Battesimo solo dopo la risurrezione di Cristo, come pure l' istituzione espressa della forma da usarsi nel Battesimo; non precisamente la prima istituzione di questo Sacramento. Si ascolti come parla il santo Dottore e veggasi come le sue parole possano ricevere il significato che noi loro attribuiamo. Egli scrive a' Vescovi di Sicilia, che il dì di Pasqua è il più conveniente ad amministrarsi il Battesimo, e il prova con queste parole: [...OMISSIS...] . Ora perchè mai questa virtù del Battesimo, di cui parla S. Leone, non si può intendere di quella, che anche noi diciamo essersi aggiunta a questo Sacramento colla divina Risurrezione? La specie poi dell' azione nacque al Battesimo dall' aver in quel dì fatta Cristo espressa menzione della forma onde egli voleva che indi in poi il Battesimo suo fosse amministrato, cioè coll' espressa menzione della santissima Trinità. Ma non potea per innanzi amministrarsi ugualmente il Battesimo colla nuncupazione del solo Cristo? il tener ciò non è punto sentenza dalla Chiesa riprovata (4). D' altra parte, egli pare più conveniente, che così passar dovesse la cosa; perocchè il Verbo erasi bensì comunicato agli uomini ma non ancora lo Spirito Santo, come espressamente dice S. Giovanni: « Lo spirito non era ancor dato, perocchè Cristo non era ancora glorificato« (1). » Or non essendo dato ancora lo Spirito Santo, nè per conseguente quella che noi abbiamo chiamata grazia triniforme , pare assai probabile secondo noi, che la Trinità non potesse essere nominata e invocata pel conferimento del Battesimo, ma solo il Verbo; ricevendosi con tale Sacramento allora solo la grazia chiamata da noi verbiforme . Si dirà che lo Spirito Santo non era ancor dato subito dopo la Risurrezione, essendo venuto sugli Apostoli il dì di Pentecoste. Rispondo, che, in questo dì venne [lo Spirito Santo] sugli Apostoli con ogni pienezza, secondo le parole degli Atti apostolici « furono tutti ripieni di Spirito Santo (2) » e ancora «« riempì tutta la casa dove stavano a sedere« (3); » ma che però erasi cominciato dare agli Apostoli subito dopo la Risurrezione, come quando soffiò Cristo verso gli Apostoli, e disse: « Ricevete lo Spirito Santo« (4), » e come allora che disse in presente « ed io mando il promesso del Padre mio in voi« (5), » volendo significare che già glorioso com' era poteva da sè mandarlo, se non che attendeva di salire al Padre, per mandarlo di là pienamente. Ed è degno di osservarsi altresì, che sebbene agli Apostoli fosse, solo dopo la Risurrezione, ordinato di battezzare tutti gli uomini, e da quell' ora ne avessero ogni potestà, fatti veri e ordinarii ministri di questo Sacramento (6); tuttavia era loro ordinato di aspettare la venuta piena e solenne del Santo Spirito prima che ponessero mano a esercitare un tanto ufficio di battezzare il mondo tutto. Il perchè dopo accordatagli una tale facoltà, Cristo soggiunse però ancora: « Voi poi sedete nella città fino a tanto che siate rivestiti dall' alto di fortezza« (7) » venendo così loro a dire: sostenete però a esercitare questo vostro grande ministero fino a che riceviate lo Spirito Santo, e possiate allora comunicare la pienezza degli effetti del Battesimo. Al quale sentimento pare anco alludere il Redentore, quando chiamò la venuta dello Spirito Santo Battesimo , Battesimo suo proprio, e tutt' altro da quel di Giovanni. [...OMISSIS...] E allora battezzati voi pienamente col Battesimo mio, il potrete conferire anco agli altri uomini; essendo già il cielo apertosi e disceso sul mondo il mio Spirito, onde viene al Battesimo dell' acqua ogni sua forza. Sì, dopo la Risurrezione gli Apostoli ricevettero, come dice S. Leone, la forma del Battesimo che poi si usò nella Chiesa; e la potestà di esercitarlo, essendo da quell' ora costituiti ministri ordinarii di questo Sacramento; ma la ricevettero questa potestà e quest' ordine di battezzare il mondo, perchè ne facessero uso solo dopo il dì della Pentecoste (1). Nè questo toglie punto che il Battesimo di Cristo forse instituito già prima, atto a produrre tutti i suoi essenziali effetti; sebbene poscia vi si aggiungessero degli effetti maggiori e nuovi secondo i misteri diversi che si succedevano e adempivano nel Salvatore. Nè in tal caso era bisogno che il battezzato avanti la morte di Cristo, si ribattezzasse dopo di questa, perocchè egli aveva il germe di tutti gli effetti futuri, i quali venivano in lui sviluppandosi più tardi all' occasione che Cristo mutava di stato e rendeva più efficace il carattere e la grazia già ricevuta (2). Or proseguiamo. Fin qui abbiamo parlato dei diversi effetti del Battesimo corrispondenti agli stati diversi del corpo di Cristo quanto all' ordine della grazia nella vita presente: ora tocchiamo la diversità degli effetti del Battesimo quanto alla futura. Il battezzato che fosse morto prima di Cristo, sebbene non potea essere ammesso alla gloria, perchè Cristo era ancora sofferente in terra; tuttavia dovea a differenza de' giusti morti senza Battesimo ritenere l' impressione del carattere e della grazia di Cristo come nobilissima e gloriosa insegna e certa caparra di futura gloria, e per tal marchio dovea avere una mistica comunicazione con Cristo ancora vivente e di essa non poco godere. Dopo la morte di Cristo poi l' anima battezzata e senza peccato era ammessa alla visione di Dio per la visione del Verbo e dell' anima di Cristo già gloriosa. Imperciocchè Cristo avea finito di patire e meritato tutto: sicchè l' anima di Cristo, scevra oggimai di ogni molestia, abbandonavasi volontariamente nelle delizie della unione ipostatica senz' altro affanno, benchè il corpo non fosse ancora surto alla gloria. L' anima del battezzato però sebbene già beata non dimoravasi per questo in cielo, ma là dove era Cristo, a cui stavasi unita; l' essere in cielo è aggiunta di maggior gloria e felicitazione. Nella parola però detta da Cristo al ladrone: « Oggi tu sarai meco in Paradiso« (1), » questa voce di Paradiso pigliasi per la stessa visione beatifica, venendo a significare che Paradiso è ogni luogo per l' anima che vede Dio (2). Dice però meco facendo conoscere che la beata visione quel ladro acquistavala per la unione con Cristo. Dal corpo poi risuscitato del Redentore il Battesimo acquistava virtù di ravvicinare e risuscitare il corpo degli altri uomini; venendo dato all' anima, con esso il Battesimo, quello spirito potente che ha virtù di aggiungere vita alla materia inanimata, e di cui parla S. Paolo, ove dice: [...OMISSIS...] il quale spirito secondo l' Apostolo rivela, cioè mostra con esteriori segni di gloria quali siano i figliuoli di Dio (4). E qui non sarà utile aggiungere parola del Battesimo considerato come segno. Definizione di S. Agostino è questa: « Sacramento è segno di cosa sacra« (5). » Ma che è poi questa cosa sacra significata ne' Sacramenti? Il Catechismo del Concilio di Trento risponde: [...OMISSIS...] . Si potrebbe anco aggiungere che per la cosa sacra significata ne' Sacramenti si comprende non meno la grazia che il carattere, potendosi anche questo contenere sotto il significato generale di grazia, essendo anche il carattere una grazia o dono gratuito di Dio, e il fonte, come detto è, dell' acqua viva della grazia. Or a significare la grazia non era altra via che rappresentare la causa prossima della grazia e i suoi effetti ; perocchè essa grazia propriamente non può essere effigiata, come quella che niente ha che fare colle sensibili cose. Però l' Eucarestia, a ragion d' esempio, significa ad un tempo il corpo ed il sangue di Cristo commestibile, che è la causa prossima e il fonte di quella grazia che nell' augustissimo de' Sacramenti si contiene, e per esso corpo, sotto la specie di pane e di vino, la grazia nel suo effetto della nutrizione e incorporazione spirituale (2). Applicando la stessa dottrina al Battesimo apparrà chiaramente, perchè egli significhi ad un tempo la morte , la sepoltura e la risurrezione di Cristo; essendo Cristo morto, seppellito e risorto la cagione prossima de' diversi gradi di grazia, che nel Battesimo vengono conferiti: e nello stesso tempo rappresentano la grazia medesima per mezzo degli effetti che in noi produce, configurandoci al nostro esemplare Gesù Cristo. Così appariscono connessi insieme e ridotti ad unità tutti i diversi significati da' Padri e Scrittori ecclesiastici al Battesimo attribuiti (3). Diciamo grazia sacramentale a quella che è proprio e peculiare effetto di un Sacramento. Non è più difficile definire qual sia la grazia sacramentale del Battesimo, dopo tutto ciò che abbiamo ragionato intorno a questo Sacramento. La grazia sacramentale del Battesimo consiste nella comunicazione della vita soprannaturale di Gesù Cristo. Gesù Cristo possiede la pienezza della vita soprannaturale in proprio e per primordiale costituzione a cagione dell' unione ipostatica in lui avverata fra la natura umana e divina. Perocchè la vita soprannaturale consiste nell' unione reale fra l' uomo e Dio (1). Cristo ottenne dal Padre di comunicare della propria vita agli altri col merito della sua passione: l' ottenne per giustizia, e non per grazia. In conseguenza di che nacque ciò che disse S. Giovanni: [...OMISSIS...] . La comunicazione della vita di Cristo agli altri uomini si fa in un modo simile a quello della comunicazione della vita naturale alle particelle inanimate del cibo. Queste particelle non hanno la vita prima d' essere accostate strettamente alle parti vive del corpo, come accade nella nutrizione: accostate nel modo debito alle parti vive, ricevono la vita divenendo carne e sangue vivo. Così abbiamo detto che il corpo di Cristo comunica la vita spirituale a questi uomini che unisce a sè, e la comunica non solo per l' immediato contatto, ma ben anco con dei mezzi, il primo dei quali è l' acqua. Convien riflettere a quello che fu già detto altrove, cioè che quando l' uomo acquista la vita soprannaturale, o visione incipiente di Dio, non nasce già alcuna mutazione in Se stesso, che è immutabile, onnipresente e conoscibile per sè stesso; ma nasce solo una mutazione nell' uomo che acquista la virtù visiva a quel modo come se si desse vita ed occhi ad una pianta in sul pieno meriggio; la qual pianta comincerebbe pur allora a vedere il sole senza che fosse nata alcuna mutazione nel sole. E volendo parlare ancora più accuratamente, dovrebbesi dire, che l' uomo rigenerato soprannaturalmente, riceve non tanto la virtù visiva quanto la stessa visione. L' uomo dunque pel Battesimo s' incorpora a Cristo, secondo la frase consacrata dalla Chiesa, e così partecipa , in Cristo, della visione di Dio che ha Cristo. Che questa incorporazione poi dell' uomo colla umanità sacratissima di Cristo, la quale si opera ineffabilmente nel Battesimo, sia un' unione sostanziale comunicante la stessa vita, e non una unione puramente accidentale, apparisce da quelle diverse similitudini usate da Cristo a significare l' unione di sè coi discepoli suoi. Perocchè ora rappresenta sè come una vite, e i discepoli come tralci che escono dalla vite, onde ricevono la nutrizione e tutta la vegetazione (1); talora egli è il capo di un corpo del quale i discepoli suoi formano le membra (2); altra volta egli è il seme marcito sotterra dalla sostanza del quale sbuccia l' albero rappresentante la Chiesa (3): e non di rado Egli è il cibo che si converte nelle carni e nel Sangue dei suoi diletti; tutte similitudini tolte da unioni sostanziali che avvengono nella natura. Dice ancora Cristo di sè stesso, che egli è la vita (4): di che apparisce, che gli uomini non possono avere la vita se non hanno Cristo, cioè se a lui non sono congiunti in una cosa sola, sicchè una stessa vita sia quella che a tutti si comunica, come una sola vita è quella di un solo corpo, una sola vita è quella che ricevono le particelle del cibo cangiato in carne e in sangue in un uomo vivo. Questa sostanziale e vitale unione adunque degli altri uomini con Cristo si opera nel Battesimo; e innanzi al Battesimo, la vita non è immanente nell' uomo. Abbiamo distinto l' effetto della santificazione dell' uomo, dall' unione sostanziale con Cristo, e abbiamo detto che in questa unione consiste il carattere. Acciocchè questa unione produca la vita compiuta dell' uomo è necessario che influisca a bene sulla volontà dell' uomo, inclinandola e convertendola a Dio. Questo avviene ove la volontà stessa non resista e ponga ostacolo col vigore suo proprio che si chiama libertà. In questo caso, nel quale la volontà ricalcitra (ciò che non può avvenire che nell' adulto) havvi nell' uomo la potenza, il principio, il germe della vita (l' unione sostanziale): ma non la vita nel compiuto suo atto, che solo nella volontà del bene si spiega. Dato adunque il carattere o unione con Cristo, primo effetto del Battesimo, potendo questo produr fuori le sue conseguenze, avviene: 1. La remissione del debito dell' uomo con Dio, quello del peccato originale, e quello del peccato attuale commesso avanti il Battesimo. Questo è ciò che si chiama nelle Scritture la morte dell' uomo vecchio (1). 2. La inclinazione buona della volontà proveniente da una luce nell' intelletto, nel che consiste propriamente la grazia positiva santificante. Questo è ciò che nelle Scritture suol dirsi la risurrezione dell' uomo nuovo (2), e che da' Padri è attribuita allo Spirito Santo. Questa prima grazia santificante, abituale, immanente nell' uomo è adunque la grazia sacramentale del Battesimo. Questa grazia del Battesimo differisce dalle grazie attuali e transeunti principalmente per la sua immanenza nell' uomo; perocchè essendo stabilmente dato all' uomo il fonte della grazia (il carattere), anche la grazia che da quello rigurgita è continua, ove ostacoli non vi si frappongano. Questa grazia battesimale è triniforme per le ragioni dette: i vestigi della Trinità che mette nell' anima sono: 1. un sentimento di Dio in Cristo (forza infinita), 2. una luce intellettiva, e 3. un amore al bene: tre elementi contemporanei dello stato di santità in cui l' uomo viene costituito. E qui ci sia permesso aggiungere a conclusione di quanto esponemmo sul Battesimo la dichiarazione di quel celebre passo di S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Quanto ne pare a me, questo passo risguarda il Battesimo. S. Giovanni parla di quelli che sono nati da Dio, e dice: « Tutto ciò che è nato da Dio, vince il mondo« (3). » Ora secondo la dottrina cattolica, l' uomo nasce da Dio pel Battesimo. Il nascimento dell' uomo pel Battesimo poi si fa mediante la fede che viene infusa nel Battesimo (4); cioè mediante quel lume datoci nel Battesimo, per lo quale noi cominciamo a percepire Iddio, e veggiamo che è degno di fede, e a lui crediamo e aderiamo colla nostra volontà. Quindi soggiunge S. Giovanni: « E questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede« (1). » Ma qual è l' oggetto immediato della nostra fede? Abbiamo veduto che nel Battesimo l' uomo viene congiunto immediatamente a Cristo, e per Cristo a Dio. Per ciò S. Giovanni proseguendo a dichiarare la nostra fede che vince il mondo ne fissa l' oggetto appunto in Cristo, dicendo immediatamente: [...OMISSIS...] . Ma resta a cercare: come è poi che Cristo si congiunge con noi, si fa sentire a noi, e così diviene l' oggetto immediato della nostra fede? Egli è qui che S. Giovanni tocca i mezzi adoperati da Cristo per congiungersi a noi, e dice che furono tre; cioè: 1. il suo sangue, pel quale si acquistò dall' eterno Padre il diritto e la piena libertà di poter comunicare agli uomini la percezione di Dio che era in lui piena e compita; 2. l' acqua che egli scelse perchè fosse il veicolo onde passasse negli uomini la vita soprannaturale; e finalmente 3 lo Spirito Santo che al tempo stesso che l' acqua monda il corpo viene infuso nell' anima di chi è battezzato. Descrive adunque S. Giovanni il modo onde Cristo produsse negli uomini la fede in lui: [...OMISSIS...] . Queste ultime parole spiegano la connessione del discorso di S. Giovanni. Lo Spirito testifica che Cristo è verità: è quanto dire, che Cristo è degno a cui si creda. Perocchè se noi veggiamo la verità, noi non possiamo a meno di crederle; sicchè per infondersi in noi la fede verso Cristo Gesù, basta che infonda in noi quel lume pel quale veniamo a conoscere che egli è la verità. Dice poi: Non nell' acqua sola; perocchè l' acqua sola non basta a salvarci; ma dovea ricevere la sua virtù dal sangue di Cristo, altrimenti sarebbe stata come l' acqua di S. Giovanni Battista o de' Battesimi dell' antica legge: conciossiachè Cristo solo coll' aver patito e sparso il suo sangue, come detto è, si acquistò dal Padre la signoria del genere umano. Ma il Battesimo non c' infonde solamente la grazia verbi7forme, cioè quella che ci fa conoscer Cristo; ma sì bene la grazia triniforme, come abbiamo veduto; conciossiachè in Cristo conosciamo il Padre che è principio di lui, e da Cristo riceviamo lo Spirito Santo, che procede dal Padre pel Figlio. Così la nostra mente è irraggiata da un trino raggio, il quale vieppiù ci attacca a Cristo, dal quale a noi venne. S. Giovanni adunque distingue quelli che non sono ancora rigenerati da quelli che già hanno avuto la soprannaturale generazione. Quelli che già sono generati e nati di Dio, avendo in sè la grazia triniforme, sono confermati da essa nella loro fede e unione con Cristo; ma quelli che non sono ancora rigenerati col Battesimo non possono esser condotti alla fede e all' unione di Cristo se non dall' acqua del Battesimo, che per la virtù del sangue del Redentore comunica loro lo Spirito. Per indicare i primi, usa S. Giovanni, secondo lo stile delle Scritture, la parola cielo , e per indicare i secondi usa S. Giovanni la parola terra e dice così: « Poichè tre sono quelli che danno testimonio (a Cristo) in cielo » (cioè nelle anime rigenerate dal Battesimo), «il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo, e questi tre sono una cosa. E tre sono quelli che dànno testimonio (a Cristo) in terra » (cioè agli uomini non ancora rigenerati dal Battesimo), «lo spirito e l' acqua e il sangue, e questi tre sono una cosa«, » o come dice il greco, sono volti a un solo fine (1). E chi ha meditato sulla lingua enigmatica delle Scritture, non troverà difficoltà alcuna sull' interpretazione de' vocaboli cielo e terra , il primo de' quali è spiegato da Cristo, come abbiamo detto altrove, quando disse che è il trono di Dio, e nissun trono ha Dio migliore delle anime sante; e così pure la voce terra , quando disse che è lo sgabello de' suoi piedi, similitudine tolta da' re d' Oriente, che facevano servire di loro sgabello il dorso de' principi captivati in battaglia e fatti schiavi, a cui ben si assomigliano gli uomini non rigenerati che servono colla loro soggezione alla maestà di Dio. Si consideri che sarebbe assurdo, se non erro, interpretare la parola cielo per lo stato de' beati, quasichè nella vita presente la Santissima Trinità non desse nessuna testimonianza a Cristo, quando anzi Cristo stesso adduce, parlando agli Ebrei, la testimonianza che gli rende il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo (1), e adduce contro essi il testo della legge, che « nella bocca di due o tre testimonii sta ogni parola« (2). » Conchiude poi S. Giovanni, che « chi crede nel Figliuolo di Dio » (cioè che è unito a lui nel Battesimo) «ha il testimonio di Dio in sè« » (cioè ha il testimonio in sè della Santissima Trinità) (3). E spiegando vieppiù la natura di questa testimonianza interiore, dice che per tale testimonianza si sente che Iddio ci ha dato la vita eterna (la quale comincia nel Battesimo), e che questa vita è nel suo Figliuolo, il quale disse di esser la vita; sicchè la vita nostra soprannaturale non è che una partecipazione della vita divina di Cristo. [...OMISSIS...] Quanto poi a' Battesimi di sangue e di desiderio essi non sono Sacramenti. E sebbene convengano col Sacramento del Battesimo nell' effetto che apportano all' uomo di salvarlo, tuttavia essi differiscono principalmente nel modo onde lo salvano. Conciossiachè il martirio e il voto del Battesimo non hanno loro effetto fino a tanto che l' uomo vive; giacchè fino che vive egli non è ancora martire, nè ancora è impossibile ch' egli venga battezzato. Perciò questi due mezzi di salute non possono imprimere nella vita presente il carattere indelebile che imprime il Battesimo, e non incorporano l' uomo ancor vivente abitualmente e stabilmente con Cristo; sebbene quest' uomo possa ricevere da Dio delle grazie attuali anche prima d' avere consumato il martirio, o comechessia prima di essere passato all' altra vita. Tutto ciò che abbiamo detto dimostra, il Battesimo produrre due effetti nell' uomo, l' uno negativo, cioè la remissione del debito del peccato, e l' altro positivo, cioè l' incorporazione con Cristo, e la partecipazione della sua grazia. E sebbene questo secondo sia il proprio ed immediato effetto del Battesimo, e sia il primo una conseguenza di questo che incontanente avviene; tuttavia niente ci proibisce di considerare l' effetto negativo e poscia il positivo, giacchè relativamente all' uomo che viene perfezionato e all' ordine di idee, prima viene il toglimento del peccato, e poscia il dono della grazia. Così anche l' Apostolo prima pone per effetto del Battesimo la morte dell' uomo vecchio, e appresso la risurrezione del nuovo. Or però l' efficacia del Sacramento del Battesimo ha quel limite che gli ha voluto p“r Cristo nella sua instituzione: limite che è determinato dallo stesso suo fine. Il fine di lui è l' incorporazione dell' uomo con Cristo, come detto è. Or convien distinguere l' incorporazione, o l' unione dell' uomo con Cristo, e le conseguenze che procedono a bene dell' uomo da tale unione; come si dee distinguere il seme dalla pianta che esce da quello, e la generazione del corpicciuolo d' un bambino, dall' incremento che succede dopo la generazione. V' ha adunque un effetto essenziale nel Battesimo, e v' hanno molti effetti che procedono da quel primo. A spiegar meglio la cosa conviene considerare la costituzione dell' uomo. Questo è un essere semplice, ma delle molte sue parti che formano la sua natura, una sola è quella che costituisce la base della sua personalità (1). L' effetto essenziale del Battesimo risguarda la personalità dell' uomo, come abbiam detto, cioè unisce la parte più nobile dell' uomo con Dio, e crea in tal modo un uomo nuovo: gli altri effetti che sortono da questo primo, sono quelli che santificano le altri parti dell' uomo stesso costituenti la sua natura. Mediante questi effetti successivi, che escono tutti come da loro radice dall' effetto primo ed essenziale del Battesimo, la formazione di questo si completa nell' uomo, e l' uomo acquista diverse virtù ed attitudini. Or in che maniera ciò accade? In due maniere, cioè o per operazione dell' uomo o per operazione di Dio. E veramente quando Iddio è unito coll' uomo mediante il Battesimo, l' uomo possiede in sè stesso un tesoro di cui può più o meno usare e cavar profitto secondo il libero arbitrio che possiede. Imperocchè l' unione stessa con Dio lo fa atto agli atti soprannaturali e a meritar soprannaturalmente. E prima ancora di ricevere il Battesimo, l' uomo può avere la volontà più o meno disposta a cavarne profitto, o sia che s' intenda di grazia attuale che talora Iddio concede straordinariamente anche ai non Battezzati, o sia che s' intenda d' una disposizione negativa, cioè alienazione dal peccato. Però i Teologi insegnano, che i Sacramenti conferiscono ex opere operato una grazia ineguale a quelli che sono inegualmente disposti: della qual tesi Onorato Tournely dà questa ragione: [...OMISSIS...] . Si accresce dunque la santificazione che all' uomo nasce dal Battesimo per la cooperazione dell' uomo stesso. Ma dicemmo ch' ella s' accresce ancora per l' opera di Dio, mediante la quale Iddio s' unisce all' uomo e agisce in lui più intensamente, avvolgendo in tale operazione e avvalorando le altre potenze dell' uomo. E questo avviene negli altri Sacramenti, i quali lavorano sul fondamento postosi nel Battesimo, e compiscono l' edifizio spirituale: di che s' intende, perchè si dica che il Battesimo è la porta degli altri Sacramenti, e perchè gli altri Sacramenti non producono verun effetto in chi non è battezzato: conciossiachè il lor fine è solo di perfezionare ciò che il Battesimo comincia, e di dedurre in più copia acque salutari di grazia da quella prima sorgente che secondo le profezie doveva innondare e mondare tutta la terra (2). Or come due dicemmo essere gli effetti del Battesimo, negativo l' uno, cioè la remissione del debito, e positivo l' altro, cioè la percezione di Dio; così da prima veggiamo essere istituiti due Sacramenti volti a condurre a perfezione questi due effetti. Questi due Sacramenti sono l' estrema Unzione, che rimuove dall' uomo le reliquie de' peccati, e la Confermazione che aumenta la grazia ricevuta nel Battesimo, e rende per così dire adulto l' uomo nuovo uscito bambino dal battesimale lavacro. Tutti e due questi Sacramenti si effettuano con una unzione, quasi medicina all' umana infermità. Tutti e due ne' loro effetti influiscono anche sul corpo, o certo sulle potenze inferiori della natura umana; il primo alleggerisce fin anco il fisico morbo che aggrava l' infermo: il secondo infonde all' uomo coraggio, il quale dipende in gran parte dalla fisica disposizione, conciossiachè il timore è anche passione animale. E veramente il Battesimo non è istituito, come fu per noi detto, se non a fine di santificare la punta dell' anima, la facoltà suprema, producendo nell' uomo una nuova personalità: egli però non rigenera il corpo, nè le potenze inferiori. Queste dunque aveano bisogno di essere confortate e munite colla grazia di altri Sacramenti: e assai acconciamente questi doveano poter conferirsi in forma medicinale, quasi per sanare una infermità. E l' olio era idoneo a rappresentare una medicina. Or parleremo a suo luogo dell' estrema unzione, cominciando qui a dir qualche cosa della Cresima. Della quale dimostreremo in primo luogo com' ella renda adulto l' uomo uscito bambino dal Battesimo, che cosa sia quell' infanzia spirituale, che cosa questa età perfetta; al che tosto poniam mano. Abbiamo mostrato, che in due modi si comunica la grazia del Redentore: l' uno per l' immediata comunicazione del Verbo: l' altra per l' immediata comunicazione dello Spirito Santo. Il Verbo si percepisce quando esso si comunica con un' azione diretta all' anima. Lo Spirito Santo è quello che muove la riflessione ed opera mediante operazione riflessa dell' anima medesima. Questo noi l' abbiamo osservato là dove dichiarammo quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Parlò dunque primo il Verbo; lo Spirito Santo suggerì di nuovo le cose dette dal Verbo; e suggerendo le cose che altri ebbe già udite, questo non è che un muovere vivacemente la riflessione sopra le cose udite. Lo Spirito Santo adunque a cui Cristo attribuisce di suggerire le cose da lui insegnate, opera mediante la riflessione dell' anima, dando però a questa riflessione una vista soprannaturale. Ora il Verbo aveva impresso sè stesso nell' anime de' suoi discepoli col suo aspetto sensibile, che avea virtù, come dicemmo, d' illuminar soprannaturalmente l' anima, e colle sue parole, e così avea dato a' suoi quella grazia che chiamasi Verbiforme, colla quale l' anima percepisce immediatamente il Verbo. Tutti due questi mezzi dell' aspetto di Cristo e delle sue parole sono indicati da Cristo stesso nel colloquio ch' egli tenne con Filippo. Alla chiara intelligenza del qual colloquio non è bisogno che d' una sola avvertenza, e tutto si rende chiaro; e questa è che la persona del Verbo non si conosce se non conoscasi la relazione di generato e di generante che ha col Padre: perocchè questa relazione è quella che costituisce la distinzione di una persona dall' altra. Or si odano le parole di Cristo. Dimandato da Filippo che gli volesse mostrare il Padre, risponde: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre« (2). » Nelle quali parole tocca il primo mezzo, cioè il suo aspetto visibile che avea virtù di far conoscere il Verbo, e però il Padre, giacchè l' una persona senza l' altra non si conosce. Tocca poi il secondo mezzo, che era la virtù delle sue parole, dicendo: « Non credete che io sia nel Padre, e il Padre in me?« » che viene a dire: Non conoscete il Verbo e conseguentemente il Padre? [...OMISSIS...] E alle parole aggiunge un terzo mezzo, che erano le sue opere, dicendo: « Se non altro credete per le stesse opere« (4); » una delle quali opere erano i Sacramenti. In questi modi adunque il Verbo imprime sè stesso nell' anime, dando loro a vedere la propria luce divina rifulgente nel suo aspetto, nelle sue parole e nelle sue opere. Ma tutto ciò ancora prima che lo Spirito Santo fosse dato personalmente. Che cosa rimaneva dunque a fare allo Spirito Santo? La luce del Verbo era la luce prima che riceveva l' anima. Su questa luce doveva riflettersi, e con un occhio al tutto spirituale vagheggiandola, innamorarsene, e sempre più penetrarne l' intima forza e bellezza, e in tal modo ridurla all' uso pratico. Ella è questa l' opera dello Spirito Santo nell' anime (1), di cui parla sì lungamente Gesù Cristo nei capitoli XIV e XV di S. Giovanni. Dopo aver parlato Cristo della cognizione di sè e del Padre egli aggiunge, che questa dee essere operativa, che dee consistere nell' amore e nell' osservanza de' suoi precetti: [...OMISSIS...] . Ma in qual modo chi crede in Cristo potrà far le opere fatte da lui? « Perchè, dice, io vado al Padre«, » a mandar lo Spirito Santo: « E io pregherò il Padre, e darà a voi un altro consolatore che rimanga con voi in eterno« ». Questo consolatore 1 farà conoscere il Verbo più vivamente; 2 renderà operativa questa cognizione. « In quel giorno (nel quale riceverete lo Spirito Santo) voi conoscerete che io sono nel Padre«: » ecco la cognizione del Verbo per l' impressione fattale dallo Spirito Santo: « e voi in me, ed io in voi«: » ecco la riflessione che lo Spirito Santo ci fa fare sopra noi stessi, e ci fa intendere come noi siamo nel Verbo, e il Verbo in noi: « Chi ha i miei comandamenti e gli osserva, quegli è che mi ama«: » ecco la pratica osservanza de' comandamenti procedente dallo Spirito Santo. « E chi mi ama, è amato dal Padre mio, e io lo amerò e manifesterò a lui me stesso«. » Dice manifesterò a lui me stesso, perocchè è egli che manda lo Spirito Santo che lo manifesta, lo manda in maggiore copia quanto è più l' amore. E dice che sarà amato dal Padre suo, perocchè anche il Padre suo manda lo Spirito Santo colla medesima spirazione, sicchè dice anche di poi, che « lo Spirito della verità, che dal Padre procede, darà testimonianza di lui« (2). » Sicchè lo Spirito Santo rende luminosa, esplicita, possente e operativa nell' uomo la vista del Verbo, appunto a quel modo come nell' ordine della natura la meditazione e la riflessione aggiunge luce, distinzione, consapevolezza maggiore, e potenza di muover l' uomo ad operare il pensiero spontaneo e diretto. Di tutte queste cose abbiamo già altrove più a lungo ragionato. Or venendo al proposito nostro sarà facile diffinire in che consista propriamente quell' infanzia spirituale che viene attribuita all' uomo appena uscito dall' acque del Battesimo, e per la quale il progresso della vita spirituale ne' Sacramenti viene paragonato al progresso della vita naturale (3). L' uomo è nell' infanzia spirituale, quando sebbene abbia ricevuto il Verbo nella parte suprema dell' anima; tuttavia gli manca ancora lo Spirito Santo, che quella luce del Verbo maggiormente discopra ed imprima nell' anima stessa, e la faccia operare in tutte l' altre potenze, rendendo l' uomo per essa robusto e valoroso a poter anche resistere agli assalti degl' inimici. Or il Battesimo ha di proprio, come abbiam detto, di congiungere l' uomo a Cristo invisibilmente, e di fargli percepire il Verbo; all' incontro è proprio ed essenziale effetto della Confermazione il dare lo Spirito Santo. Perciò egli è proprio del Battesimo far nascere l' uomo spiritualmente, ma egli è ancora nell' infanzia; è proprio della Confermazione il renderlo adulto « alla misura dell' età della pienezza di Cristo« (1). » E che cosa è la pienezza di Cristo se non la pienezza dello Spirito Santo? Il principio adunque dell' operazione battesimale è Cristo o il Verbo; il principio all' incontro dell' operazione del Sacramento della Cresima è lo Spirito Santo: il termine sì dell' una che nell' altra operazione è sempre il Verbo. Confrontiamo con questa dottrina i passi delle Scritture e della tradizione, e troveremo quanto sieno coerenti tra di sè e consentanei alla medesima. Primieramente la teologia cattolica insegna che nel Battesimo l' uomo spirituale nasce, ma è ancora bambino (2), il quale, cresce e si fa adulto nella Confermazione (3). Spiegando poi la natura di quest' ultimo Sacramento essa dice che è quello che conferisce all' uomo lo Spirito Santo. Si deve dunque conchiudere che il ricevimento dello Spirito Santo, che s' ha mediante il Sacramento della Cresima, è ciò per cui l' uomo spirituale diviene da pargoletto grande e perfetto. Proviamo prima che alla Confermazione si attribuisce l' incremento dell' uomo spirituale. Al che in vece di molti testimonii ci valga colui che si può chiamare il Teologo per eccellenza, e l' abbreviatore della cristiana tradizione. Egli attribuisce l' incremento dell' uomo spirituale alla Confermazione, come il nascimento al Battesimo in questo modo: [...OMISSIS...] . Proviamo di poi che alla Confermazione si attribuisce il conferimento dello Spirito Santo ad esclusione del Battesimo; il che dimostra che nel Battesimo propriamente vengono conferiti de' doni del Santo Spirito, anzichè il Santo Spirito medesimo. S. Paolo chiama i confirmati « quelli che hanno gustato il dono celeste, e che sono stati fatti partecipi dello Spirito Santo« » a differenza de' battezzati che li chiama solo « illuminati« (2). » Negli Atti degli Apostoli si distingue fra l' essere battezzati, e l' aver ricevuto lo Spirito Santo, anzi si dice espressamente, che ne' battezzati lo Spirito non era ancor venuto, e che fu mestieri confermarli acciocchè venisse in essi (3). Quando adunque si parla dello Spirito Santo in questo modo, per esclusione del modo onde viene col Battesimo, convien dire che nella Cresima sola lo Spirito Santo venga personalmente , mentre nel Battesimo viene con alcuni doni ed effetti e non colla persona (1). Altramente non reggerebbe la proposizione che « ne' battezzati lo Spirito Santo non era venuto«. » Ben è vero però, come fu detto, che se lo Spirito Santo vien dato nella Confermazione, ciò nasce in conseguenza del Battesimo, che ha resa questa venuta possibile, e ne ha messo il principio. S. Cornelio parimente (2) in una lettera a Fabio Antiocheno, parlando di Novato che in una infermità avuta avea ricevuto il Battesimo ma non la Confermazione, dice: « In che maniera potè ricevere lo Spirito Santo, se non ebbe questo signacolo (3) della Confermazione?« » colle quali parole viene a negare che lo Spirito Santo (cioè la persona) nel Battesimo si conferisca. Finalmente questo è parlare di tutta la tradizione, che amministrare il Sacramento della Cresima venga detto un darsi lo Spirito Santo (4). Se adunque d' una parte il Sacramento della Confermazione è quello che conferisce lo Spirito Santo ad esclusione del Battesimo, cioè in un modo pieno e personale, e se d' altro lato questo Sacramento è quello che rende adulto l' uomo spirituale, convien dire per giusta illazione, che l' età adulta, nel linguaggio cristiano, significa la partecipazione del Santo Spirito, e l' infanzia significa quello stato dell' uomo in cui è ben nato per l' unione del Verbo, ma non ha ricevuto ancora la grazia spiriti7forme. Ma a provar maggiormente la verità di questa dottrina, rechiamo in terzo luogo quei passi de' venerabili scrittori antichi, ne' quali non si dice già solo l' una di queste due cose staccata dall' altra, cioè o che la Confermazione renda l' uomo adulto e perfetto, o che la conferisca il Santo Spirito; ma ambedue si affermano nel tempo stesso, attribuendosi appunto allo Spirito Santo il perfezionamento dell' uomo rigenerato. Ho già detto che il Santo Spirito da' Padri greci massimamente si chiama « virtù o forza perfezionatrice« (1), » appunto perchè a lui appartiene di perfezionar l' uomo spiritualmente. S. Clemente Papa I dice, che niuno può essere « perfetto cristiano« » se oltre il Battesimo non abbia ricevuto nella Confermazione la settiforme grazia dello Spirito (2), attribuendosi così al ricevimento del Santo Spirito la perfezione del cristiano. S. Cirillo di Gerusalemme deduce dal Crisma il nome del cristiano, e dice, che non si può in certo modo nè pur dire che alcuno sia cristiano se non ha ricevuto lo Spirito Santo coll' unzione della Cresima (3). S. Urbano nella sua lettera decretale dice espressamente, che ciò che ci rende pieni cristiani è lo Spirito Santo che noi riceviamo dopo il Battesimo per l' impostazione delle mani dei Vescovi (4). Nell' antichissimo Concilio Eliberitano dicesi, che è necessaria al battezzato l' imposizione della mano del Vescovo, acciocchè egli si possa perfezionare (5). [...OMISSIS...] Egli è poi questa dottrina medesima, che allo Spirito Santo attribuisce la perfezione dell' uomo cristiano, con istile sublime esposta in più luoghi del celebre e antico libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Vi si legge, a ragion d' esempio, chiamata « perfezionatrice« » quella unzione che si usa nel Sacramento della Cresima (2), la si dice quella che congiunge al divino Spirito le cose che debbono esser perfette (3), e così « compisce la divina rigenerazione (4). » Vi si legge pure che «« il segnacolo di quell' unguento fa partecipe della comunione sacratissima« (5), » la qual comunione sacratissima è quella del Santo Spirito. [...OMISSIS...] ; le quali ultime parole si osservi che non sarebbero state necessarie ove non si parlasse della comunicazione della persona stessa del Santo Spirito; ma trattandosi della comunicazione dello Spirito, era convenevol cosa notarsi, come fa questo acuto scrittore, che lo Spirito Santo comunicandosi a noi, non sofferiva però alcuna mutazione nella sua divina natura. Finalmente addurrò ancora S. Cipriano, il quale alla Cresima ad un tempo attribuisce e il conferimento dello Spirito Santo, e l' essere il cristiano consumato e perfezionato col signacolo del Signore (.). Da tutti i quali luoghi apparisce, come la perfezione, e però l' età adulta, del cristiano consiste nel ricevimento del Santo Spirito, e che il Sacramento della Cresima fa crescer l' uomo spirituale all' età adulta che infonde lo Spirito Santo. E perchè è cosa molto notevole a ben intendere le Scritture e le Tradizioni quella distinzione fra il ricevere lo Spirito Santo in qualche suo dono particolare, ciò che avviene nel Battesimo, e il riceverlo nella stessa persona, io mostrerò ancora con qualche passo degli ecclesiastici scrittori che nella Confermazione si riceve personalmente, e non solo ne' doni suoi. E da prima ho già osservato, che provano questa dottrina tutti que' luoghi de' Padri ne' quali si dice che lo Spirito Santo si riceve nella Cresima ad esclusione del Battesimo. Il dirsi semplicemente di alcuna persona che viene o va in un luogo, non può intendersi che vi va co' suoi doni, ma sì che vi va ella stessa, altrimenti non sarebbe esatta e chiara quella maniera di dire. Tanto più che essendo certo, che nel Battesimo lo Spirito Santo viene co' suoi doni, l' affermar poi ch' egli nel Battesimo non ci viene non può avere altro significato che quello di voler dire che non ci viene colla persona. E pel contrario affermando che viene nella Cresima, pure in quella che si esclude dal Battesimo, si dee intendere che nella Cresima viene appunto in quel modo nel quale dal Battesimo si esclude, cioè personalmente. Di poi non possono indicare se non una unione della persona coll' anima quelle maniere che usa l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, quando dice del Sacramento della Confermazione che ci fa partecipi della sacratissima comunione, la quale è quella dello Spirito Santo, che ci congiunge al divino Spirito, che ci fa percepire nell' anima la santa e deifica società del medesimo Spirito divino e che consuma in noi la venuta del Santo Spirito. Come può esser consumata e perfezionata la venuta del Santo Spirito meglio che comunicandosi egli a noi personalmente? La comunicazione personale ha in sè stessa necessariamente i doni tutti del Santo Spirito implicitamente cioè in causa, perchè ha l' autore stesso dei doni; nè si può dare la pienezza dei doni se non colla persona, perchè questi separatamente presi sono infiniti. Però quando i Padri vogliono significare il conferimento personale dello Spirito all' anima, il chiamano la pienezza dello Spirito, e descrivono i sette doni come rappresentanti di questa pienezza che chiamano anche grazia settiforme (2). S. Ambrogio non si contenta di attribuire al Sacramento della Confermazione i sette doni, ma dice che questi non sono che i principali. [...OMISSIS...] Ma io non ho sott' occhio nissun passo di antichi scrittori i quali parlando del Sacramento della Confermazione, parlino più esplicitamente della comunicazione personale dello Spirito Santo, e la distinguano più chiaramente dalla comunicazione de' suoi doni, di quello che faccia in un luogo il celebre Rabano Mauro nell' opera dell' istituzione del clero. Egli distingue due unzioni che si fanno col santo Crisma, l' una dal sacerdote subito dopo il Battesimo, e l' altra dal Vescovo nella Confermazione; colla prima, dice, non si fa che preparare e consecrare la casa, ma nella seconda si riceve lo stesso ospite divino: il che è quanto dire che nella prima non si ricevono che alcuni doni del Santo Spirito; ma nella seconda lo stesso Spirito Santo colla pienezza de' suoi doni. Gioverà che qui io rechi le proprie parole di questo scrittore: [...OMISSIS...] . Qui chiaramente è distinta la preparazione dell' uomo a ricever lo Spirito, dalla discesa dello Spirito stesso; la venuta parziale dalla venuta intera di esso Spirito; nè può darsi intiera comunicazione senza comunicazion personale, o comunicazion personale senza ch' ella sia intera e piena, di maniera che può stabilirsi questo canone nell' interpretazione delle Scritture e de' Padri, che ogni qual volta si parla di venuta totale o pienezza dello Spirito Santo, il discorso si volge intorno alla venuta personale, e dove non è espressa la pienezza o la totalità del Santo Spirito o de' suoi doni, non si parla della venuta personale. Il perchè solo nella Confermazione si completa la grazia triniforme del cristiano; e però possiamo conchiudere colle parole di uno scrittore ecclesiastico del secolo X: [...OMISSIS...] . E quanto abbiamo detto dà chiarezza a molti altri insegnamenti de' Padri, i quali insegnamenti formano alla lor volta una riprova di quanto fu detto. A ragion d' esempio S. Giovanni Grisostomo in una delle sue omelie viene cercando in che consista l' infanzia spirituale, e in che la perfezione; e conchiude che l' infanzia consiste nella fede, e la perfezione nelle opere della vita santa (2). Ora la fede appartiene all' intelletto, e al cuore la carità. La fede viene a noi impressa colla luce del Verbo, e la carità viene in noi diffusa dallo Spirito Santo. Ancora, viene attribuito al Battesimo il darci la luce e la fede, ed alla Confermazione il diffondere in noi la carità. Per conseguente egli è questo un dire, che il Battesimo ci genera infatti e la Cresima ci fa adulti e perfetti. Quindi è che« illuminazione« (1) si chiamò il Battesimo fino dai tempi apostolici, e« illuminati« nel linguaggio di S. Paolo equivale a battezzati (2). All' incontro della Confermazione l' Apostolo dice: [...OMISSIS...] . Consuona all' Apostolo S. Agostino che attribuisce propriamente la carità alla Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Egli è parimente un detto comune de' Padri quello che attribuisce al Battesimo la purgazione de' peccati, che è il primo grado della vita spirituale, e alla Confermazione all' incontro la grazia, la pienezza dei doni lo Spirito Santo (5) che ne è il compimento. Nè tutto ciò detrae punto al Battesimo, la grazia del quale è piena anch' essa. Ma si dee spiegare in che modo dicasi pienezza di grazia quella del Battesimo, e in che modo dicasi pienezza di grazia quella della Confermazione: come l' infanzia spirituale possa stare con quella prima pienezza e non punto colla seconda. L' ufficio dello Spirito Santo nelle anime nostre di sopra da noi dichiarato, dà piena luce a questa materia. Tale ufficio noi vedemmo significato da Cristo in quelle parole: « Egli insegnerà tutte le cose, e vi suggerirà tutte le cose che io avrò dette a voi« (1). » Nelle quali parole appar chiaro, che tanto il Verbo come lo Spirito insegnano tutte le cose, ma lo Spirito Santo ha ufficio di suggerire all' animo le cose già insegnate dal Verbo e di ricalcarle nella mente e renderle operative: primo dunque è il Verbo a operare, secondo viene lo Spirito Santo: il Verbo dà la cognizione diretta delle cose divine, ma lo Spirito Santo muove ed accende la riflessione. Però s' intende come l' uno e l' altro operi in noi con pienezza, giacchè l' uno e l' altro ci comunica tutte le cose. Il Verbo dice: « Io vi ho fatto note tutte le cose che ho udite dal Padre mio (2). » Dello Spirito pure è detto: «« quando verrà quello Spirito di verità insegnerà a voi ogni verità« (3). » E la ragione di ciò si è « perocchè non parlerà da sè stesso, ma parlerà tutte quelle cose che udirà« (4) » cioè che udirà dal Verbo. Quindi s' intende come la grazia del Battesimo sia piena, e sia piena pure quella della Confermazione (5). Nel Battesimo si riceve il Verbo, e in lui la notizia di tutte cose divine: nella Confermazione si riceve lo Spirito Santo, e in esso la viva riflessione delle cose medesime. Quindi è che S. Giovanni attribuisce all' unzione, cioè alla Cresima, quello che Cristo attribuisce allo Spirito Santo, cioè di far conoscere tutte le cose: « Ma voi, dice, avete l' unzione dal Santo » (cioè dal Verbo pel quale è la spirazione dello Spirito Santo) «e conoscete tutte le cose« (6). » [...OMISSIS...] Quindi acconciamente Clemente Alessandrino, riferendo l' istoria di un giovane affidato da S. Giovanni alla cura di un Vescovo novello, parla de' due Sacramenti del Battesimo e della Confermazione in questo modo: [...OMISSIS...] . Or il sigillo che si mette sopra un tesoro vale a custodire tutto il tesoro intiero; e così la grazia della Confermazione è piena, perchè custodisce tutto ciò che si ha ricevuto nel Battesimo. Simile a questa idea è quella di alcuni Padri che rassomigliano lo Spirito che ricevesi nella Confermazione a un tutore e difensore della grazia battesimale. Tra i luoghi che potremmo addurre preferiremo uno del celebre Abate Ruperto, sebben non sia de' più antichi (2), il quale dice così: [...OMISSIS...] : similitudine acconcissima; perchè il tutore assai acconciamente rappresenta l' occhio della riflessione, che vigila e contempla la grazia prima ricevuta, e sente il pregio di essa, e così s' infiamma a difenderla. Dal medesimo principio, che lo Spirito Santo ricalca nell' anima la notizia del Verbo, ravviva la fede, vi deduce la carità che fassi operativa, scendono quai naturali conseguenze gli effetti speciali che si sogliono attribuisce alla Confermazione, cioè la fortezza dell' animo cristiano, il coraggio di confessar Cristo e di combatter qual valoroso milite per la fede da lui ricevuta. Dalle quali cose apparisce, che la Confermazione non dà già all' uomo qualche cosa del tutto nuova, ma, come dice il Catechismo Romano, conferma ciò che il Battesimo ha cominciato ad operare (1). Ora il Battesimo dà la grazia ed imprime il carattere; e queste due cose perfeziona la Confermazione. Di che si vede che il carattere della Confermazione essenzialmente considerato, non è che un aumento del carattere del Battesimo; ed è da questo principio che S. Tommaso toglie a provare come il carattere della Confermazione presuppone quello del Battesimo. [...OMISSIS...] E veramente, noi abbiamo veduto il carattere consistere in una impressione stabile del Verbo nella parte intellettiva dell' anima; questa è la definizione generica del carattere, nella quale uopo è che convengano i tre caratteri del Battesimo, della Cresima e dell' Ordine, i quali sono radicalmente uno; perocchè sono sempre una comunicazione del Verbo all' intelletto. Ma da questa comunicazione nascono all' uomo diverse potenze ; cioè nel Battesimo la potenza passiva di ricevere gli altri Sacramenti, come pure la grazia prima o potenza di operare soprannaturalmente; nella Confermazione la potenza attiva di resistere alle tentazioni nell' operare il bene, confessando Cristo assai coraggiosamente; e nell' Ordine la potenza di esercitare pienamente il sacerdozio di Cristo. Per questo si è, che i Padri dicono costantemente, tanto parlando del Battesimo, quanto parlando della Confermazione, che il carattere è il segno di Cristo, e che l' ufficio dello Spirito Santo è quello di imprimere nelle anime il Verbo. Così S. Ambrogio parlando di chi fu confermato, dice: [...OMISSIS...] . Per questo l' unguento si chiama Crisma di Cristo (1). E S. Cirillo d' Alessandria dice: [...OMISSIS...] . Lo stesso apparisce da un' altra maniera di parlare de' Padri specialmente de' più antichi, i quali ragionando ad un tempo del Battesimo e della Confermazione come di due Sacramenti che si amministravano nel tempo stesso l' un dopo l' altro, non distinguono però due caratteri, ma sempre favellano di un carattere o di un segnacolo solo; e par che l' attribuiscano più alla Confermazione come quella che il compisce ed integra. A ragione d' esempio Teodoreto dice così: [...OMISSIS...] . Al qual passo risponde a capello ciò che dice un greco scrittore del secolo XVI, che può servire di commentario e schiarimento a quel di Teodoreto; perocchè in questo greco scrittore non riman punto dubbio che si parli della Confermazione, come potrebbe nascere in quello del Vescovo Cirense. [...OMISSIS...] Qui parlasi chiaramente del carattere, che ci segna col segno del Cristo e ci mette nel dominio di Cristo. Più ancora si rende manifesto che si parla del carattere, e di quello della Confermazione, da ciò che segue: « Il sacerdote che unge il battezzato dice: Segnacolo del dono dello Spirito Santo, Amen«. » (Questa è la forma della Confermazione presso i Greci). [...OMISSIS...] L' unione stessa usata antichissimamente, e tuttavia presso i Greci, del Battesimo e della Confermazione, mostra l' unità del carattere che imprime: e l' attribuirsi il carattere al secondo Sacramento, anzi chè al primo, che fanno i Padri antichi, non toglie già la verità cattolica che anche nel Battesimo il carattere s' imprima, ma mostra bensì, che solo colla Cresima venìa consumato e non eran due ma uno. Quindi il sangue dell' agnello, di cui tinsero gli Ebrei le imposte delle loro case, serve ai Padri di figura tanto del carattere del Battesimo come di quello della Confermazione, che considerano come uno, a quel modo che è una la figura. [...OMISSIS...] : parole che il Santo dice in una sua orazione sul Battesimo, dal quale trapassa a parlare della Confermazione come a lui congiunta, e del carattere che questa imprime senza menzionare il carattere del Battesimo, perchè già in quello contenuto. Il Sacramento della Confermazione negli antichi scrittori ecclesiastici viene denominato solitamente in quattro maniere, o egli si chiama orazione, invocazione, o imposizione delle mani, o segnacolo, o unzione. Queste quattro denominazioni nascono dalle quattro parti di cui il Sacramento della Confermazione si compone; e si spiegano l' una coll' altra. Per esempio S. Agostino dice: « Che cosa è l' imposizione delle mani se non l' orazione che si fa sull' uomo?« (2). » Quasi voglia dire l' imposizione delle mani è quel Sacramento che si chiama anche orazione che si fa sull' uomo. Sebbene adunque nella denominazione di « imposizione delle mani« non si contenga espressa alcuna invocazione od orazione, tuttavia con tal denominazione s' intende espressa e significata anche l' orazione che si fa contemporaneamente all' imporsi delle mani, e che è un' altra parte dell' amministrazione del Sacramento. Talora poi le due parti indicate sono espresse distintamente nel parlare de' Padri e non l' una nell' altra sottintesa. Così dice S. Cipriano: [...OMISSIS...] . Medesimamente Innocenzo III spiega la parola« unzione o crismazione« con quell' altra di« imposizione delle mani« scrivendo, che « per la crismazione della fronte vien significata l' imposizione della mano degli Apostoli« (2). » Questo è quanto dire che le due appellazioni di« crismazione o unzione« e di« imposizione delle mani« si usurpano ad indicare lo stesso Sacramento, che si denomina ugualmente dall' una o dall' altra di quelle due parti principali. Talora però negli scrittori ecclesiastici si esprimono tutte e due queste parti. Così Amalario scrive: [...OMISSIS...] . Non di rado anco tacendosi l' unzione si esprimono l' imposizione delle mani e l' orazione, ciò che si fa negli stessi Atti degli Apostoli, dove si legge [...OMISSIS...] . E come l' esprimersi una sola cosa non esclude l' altra, ma è una maniera che si usa per brevità; così non è a credersi che esprimendosi« l' unzione e la imposizione delle mani« s' intendano escluse le parole che accompagnano queste azioni, e che« orazione o invocazione« furon dette. Chè anzi talora tutte e tre queste parti vennero dagli scrittori ecclesiastici espresse, come si esprimono a ragione d' esempio da Aimone ove dice: [...OMISSIS...] . Clemente Alessandrino chiama finalmente la Confermazione « il beato segnacolo (3) » o anco «« il sigillo del Signore« (4), » perchè lo Spirito Santo imprime Cristo nell' anima, come abbiamo veduto. Ciò si rappresenta anche col segno esteriore, giacchè si unge la fronte del fedele che si conferma col segno della croce. Di che Dionigio Areopagita, o chicchessia l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, porge quest' altra buona ragione, che dandosi lo Spirito Santo nel Sacramento della Confermazione, e questo procedendo dal Verbo, e venendoci dato dal Verbo pel merito della sua passione, assai ben convenìa che nell' atto che si riceveva questo Spirito venisse segnata in sulla nostra fronte la croce (5). Ma se il Sacramento di cui parliamo è bene spesso chiamato « il segnacolo« o« il sigillo di Cristo« non dee intendersi questa appellazione così strettamente che si vogliano escludere da essa le altre tre cose, che formano il tutto di questo Sacramento. Ciò si rende manifesto osservando che talora l' espressione di segnacolo si congiunge con alcuna delle altre tre. Con quella di unzione o di crisma è congiunta per sè, conciossiachè il segno di croce non in altro modo s' intende descritto in fronte se non ungendo in qualche modo la fronte stessa (6): di che parmi potersi trarre nuovo argomento da credere che gli Apostoli usavano del sacro crisma, appunto perciò che si parla come di cosa apostolica segnare in fronte i fedeli per esprimere la Confermazione (1). S. Clemente papa discepolo di S. Pietro dice, che [...OMISSIS...] . Nel libro delle Costituzioni apostoliche non si fa menzione solamente del segno, ma anco dell' unguento col quale si fa il segno. « Prima, vi si dice, ungerai coll' olio santo » (questa è l' unzione preparatoria al Battesimo) «poscia battezzerai coll' acqua, finalmente SEGNERAI coll' UNGUENTO del crisma » (questo è il Sacramento della Confermazione)« (1). S. Ambrogio unisce insieme le due parti dell' invocazione del Santo Spirito e del segnacolo in queste parole: [...OMISSIS...] . San Leone in quella vece fa espressa menzione del segnare e dell' imporre le mani, come in quel luogo ove dice: [...OMISSIS...] . Vedesi adunque, che se talora chiamasi la Confermazione semplicemente « segnacolo« ciò non si fa per escludere l' altre parti di cui questo Sacramento si compone, ma per la comodità di avere alle mani una breve e semplice appellazione di questo Sacramento. Conciossiachè in altri luoghi de' Padri si esprimono anche l' altre parti sott' intese, e indifferentemente si congiunge la cerimonia del« segnare« la fronte con quella dell' ungere, o con quella dell' invocare lo Spirito Santo, o con quella dell' imporre le mani. Che se si vorrà più diligentemente cercare le maniere ecclesiastiche di favellare, sarà facile altresì rinvenire de' testi autorevoli, ne' quali il segnare sia espresso non pure con una sola delle altre parti, ma con due qualsivogliano di esse. E veramente si brama un luogo in cui si faccia menzione ad un tempo del segno, dell' unzione, e dell' imposizione delle mani? Odasi Tertulliano: [...OMISSIS...] . Ecco espresse tre parti della Confermazione. Bramasi invece un luogo nel quale oltre il segnacolo sieno esplicitamente accennate le due parti dell' imposizione delle mani e dell' orazione o invocazione del Santo Spirito? Aprasi S. Cipriano, e si legga: [...OMISSIS...] . Vuolsi ancora un altro luogo dove al signacolo siano in quella vece congiunte le due parti dell' unzione e dell' invocazione? Considerisi l' invocazione od orazione che sta nell' Ordine Romano, dove si veggono espresse le tre parti di cui parliamo. Ella è la seguente: [...OMISSIS...] . Ecco l' orazione, l' unzione ed il segnacolo. Che se finalmente si vogliano ancora vedere espresse tutte e quattro le parti da noi toccate potremo trovarle nell' Ordine Romano ora citato o nel sacramentario di Gregorio il grande, o nel rituale che tuttavia è in uso presso di noi. Solo dopo avere io scritto questo articolo mi accorsi essermi sfuggito nel Bellarmino quel lungo tratto, nel quale il venerabile uomo dice altrettanto e più di quanto io dissi. Tuttavia non volli cancellare l' articolo, ma sì bene colla somma autorità del Bellarmino, che qui in nota riferisco, confermarlo. Egli risponde all' eretico Kemnizio, che per escludere l' unzione del crisma reca i luoghi degli Atti degli Apostoli (VIII, 17; XIX, 6), dove è fatta bensì menzione dell' imposizione delle mani ma non del crisma, e dice così: [...OMISSIS...] . Poscia il Bellarmino si propone l' obbiezione delle parole d' Innocenzo III, e di Eugenio IV nel Concilio di Firenze, le quali sembran dire, che il crisma ora tenga il luogo dell' imposizione delle mani usata dagli Apostoli e risponde: [...OMISSIS...] . Fissata così la maniera di parlare della tradizione, cadono tutte le obbiezioni contro il Sacramento della Confermazione, e apparisce assai chiaro che questo rito si compone di quattro parti, 1. le parole, 2. l' imposizione della mano, 3. l' unzione, 4. il segno di croce. Fermata questa verità è sciolta da sè la questione: « Qual sia l' imposizione della mano necessaria in questo Sacramento«; » ella è quella che si fa nell' atto stesso dell' unzione e indivisibilmente da quest' atto: perocchè i Greci non ne hanno altra; e tuttavia la Chiesa riconosce per valido il loro rito della Confermazione. Dunque o la Chiesa erra, o l' imposizione delle mani non è necessaria. Ma l' una e l' altra cosa è falsa. Dunque è il contrario, cioè che l' imposizione delle mani necessaria alla Confermazione è quella che fa il Vescovo elevando la mano sulla fronte per ungerla e non altra. Può riuscire di conferma a ciò l' osservarsi, che questa cerimonia si chiama spessissimo dagli scrittori antichi imposizione della mano e non delle mani, e che si dice farsi a' singoli e non a tutti ( « quod nunc in confirmandis neophytis, manus impositio tribuit singulis », dice la celebre Omilia in die Pentec. attribuita da alcuni ad Eucherio di Lione): come pure l' obbiezione che fa Benedetto XIV (2), contro la prima imposizione delle mani: [...OMISSIS...] . Se dunque il P. Iacopo Sirmondo trova degna di riso una tal dottrina, egli è da attribuirsi un tal riso all' intemperanza della critica, che rende presontuosi ben sovente i dotti, e che insegna loro a sorridere delle opinioni più rispettabili. Io mi accosto poi al P. Merlin (1) in quanto le sue osservazioni provano che l' imposizione delle mani è indivisa dall' unzione del crisma; non convengo però nella sua opinione che gli Apostoli conferissero il Sacramento colla sola imposizione delle mani senza Crisma. Tale mi sembra l' intimo e vero sentimento di tutta la cristiana antichità. Può essere ancora che qualche autore greco, sentendo tanto nominata nella Scrittura l' imposizione delle mani e non osservando che nel segnare la fronte la mano necessariamente s' impone, si persuadesse che il crisma sia stato sostituito all' imposizione delle mani apostoliche, ma ciò dee attribuirsi a mancanza di riflessione di uno o d' altro autore; fra questi parmi di poter citare Simone di Tessalonica, che nel secolo XII scrive: [...OMISSIS...] . Quanto poi all' opinione di coloro che sostengono negli antichi tempi l' imposizion delle mani essere stata distinta dall' unzione, ma poscia forse nel secolo VII essersi unita e fatta una cosa con essa, parmi almeno frivola e inetta. Perocchè se riconoscono che alla validità del Sacramento nei secoli posteriori al VII, e massime presso i Greci, non si richiedesse imposizion delle mani distinta dalla stessa unzione, perchè mai ne' primi secoli sarà stata essenziale al Sacramento un' altra imposizione distinta da quella che il Vescovo fa necessariamente ungendo la fronte? Non è piuttosto assai naturale il dire, che se oltre l' unzione della fronte si faceva allora una distinta imposizione delle mani, questa non era cerimonia essenziale, come non è essenziale quella distinta imposizion delle mani, che si usa ancora nella Chiesa latina e che la greca ommette senza rendere perciò invalido il Sacramento? La parte indicata anticamente colla denominazione di« orazione« o« d' invocazione« è la forma del Sacramento; il Crisma è la materia remota, l' imposizione delle mani e il segno di croce determina il modo onde la materia rimota viene applicata e si fa materia prossima. Delle quali affermazioni potrebbe incontrare qualche difficoltà la prima, che la parte del Sacramento indicato colla parola« invocazione«, od« orazione«, significasse la forma, come quella che dee essere fatta di parole consecratorie e non impetratorie. Ma sebbene ciò sia vero, niente vieta che unitamente alle parole consecratorie si proferissero delle invocazioni e delle orazioni, dalle quali si denominasse il Sacramento più tosto che dalle stesse parole consecratorie, tenute sempre nascoste gelosamente dall' antica disciplina della Chiesa (1). In fatti così fu: avanti e dopo la unzione s' invocava lo Spirito Santo, e nell' antichissimo Ordine Romano la stessa forma della Confermazione comincia con una particella impetratoria la quale è questa: « Signa eos, Domine, signo crucis « » seguitando però in stile consecratorio nell' atto dell' ugnere: « Ego te confirmo in nomine Patris, etc.« » La parola« invocazione« può essere oltracciò dichiarata con altri passi analoghi. In ragione d' esempio il passo di S. Clemente Papa o sia delle Costituzioni Apostoliche da noi citato di sopra « l' invocazione è la VIRTU` (2) dell' imposizione della mano « (3) » viene chiarito quando si riscontra a quest' altro, che si trova in un Commentario degli Atti Apostolici attribuito a S. Ambrogio « la imposizione della mano sono le parole mistiche« (4), » le quali parole mistiche voglion significare indubitatamente quelle della forma. Il P. Merlin nel suo trattato sulle forme de' Sacramenti non dubita punto di ciò che S. Clemente chiama« invocazione« non sieno che « le parole della forma« (5). Finalmente molti Teologi e di gran vaglia sostengono, che la forma adeguata e totale del Sacramento della Confermazione è ad un tempo l' orazione e le parole che seguono a quella, e il provano con assai validi documenti; de' quali Teologi nominerò due, cioè Onorato Tournely, e Natale Alessandro, a' quali valentuomini rimetto il lettore (1). Quanto poi alle altre tre parti del Sacramento della Confermazione, cioè l' unzione, il segno della croce e l' imposizione delle mani, esse simboleggiano, secondo la Scrittura e i Padri, i tre effetti di questo Sacramento. S. Paolo nel primo capitolo della seconda lettera a' Corinti parla manifestamente, a mio avviso, del Sacramento della Confermazione, ed accenna queste tre parti di lui. Egli dice a que' di Corinto, che veniva ad essi affinchè avessero« la seconda grazia« la quale vien data dal Sacramento della Confermazione, essendo il Battesimo quello che conferisce la prima (2). Dice che Dio era quegli che li confermava in Cristo (3). E poi soggiunge che Dio pure li ungeva e li segnava e dava lor il pegno dello Spirito ne' cuori (4). Ecco l' unzione, il segnacolo, e il pegno dello Spirito, che s' attribuisce da' Padri all' imposizione delle mani. Tertulliano commenta questo passo di S. Paolo accennando i tre effetti del Sacramento della Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole è manifesto, che questo Padre del secondo secolo della Chiesa non intese mica quell' unzione che nomina S. Paolo, di un' unzione metaforica e puramente spirituale, ma l' intese dell' unzione esterna della carne; e lo stesso dicasi del segno di croce, che nomina l' Apostolo; il che dee aver gran forza contro quelli che abbandonano il senso letterale di questo e d' altri passi simili, e che non li vogliono intesi se non in un senso spirituale. E alla stessa guisa di Tertulliano spiega il passo dell' Apostolo S. Ambrogio, il quale attribuisce l' effetto dell' unzione al Padre, l' effetto del segno di croce al Figliuolo, e l' effetto dell' imposizione delle mani allo Spirito Santo; di maniera che, secondo questo santo Padre, i tre elementi costituenti la materia del Sacramento della Confermazione si riferiscono alle tre persone della Santissima Trinità che operano in questo Sacramento, il quale conferisce, come abbiamo detto, all' anima la grazia triniforme. [...OMISSIS...] Anche in alcuni luoghi delle Scritture l' unzione è attribuita al Padre. Negli Atti degli Apostoli si legge che Cristo fu unto dal Padre (2), e S. Paolo spiega di Cristo il Salmo che dice: « perciò te unse Iddio, il Dio tuo coll' olio dell' esultanza« (3). » Il segno poi è stato attribuito a Cristo avendo forma di croce, ed essendo effetto suo la fortezza, appartiene a Cristo altresì, perchè la croce è l' arma che vince il diavolo, e perchè Cristo è la virtù e la forza e il braccio del Padre. Però la parola confermare viene propriamente da questo effetto dell' armare e fortificare colla croce di Cristo: sicchè S. Ambrogio in altro luogo invece di dire ti segnò Cristo, dice: « Cristo ti confirmò« (4). » Il pegno poi dello Spirito è la carità e il gaudio spirituale, caparra dell' eterna eredità attribuita allo Spirito Santo, che per ciò si chiama Spirito di promissione, e l' effetto suo« pegno dell' eredità nostra« (5). Questi tre effetti poi sono la santità, la fortezza e il gaudio. Il secondo vien dal primo, e l' ultimo dai due precedenti, sebbene la fortezza per quanto dipende dall' uso delle potenze diverse dalla volontà non sia necessariamente connessa colla santità di sua natura; come pure il gaudio per quanto egli scaturisce dalle potenze minori non va di sua natura congiunto a que' due primi effetti; e però giustamente questi tre effetti si distinguono, giacchè la nozione dell' uno non è quella dell' altro e la lor natura permetterebbe che stessero fra di sè separati. Ma tutti uniti dànno perfezione all' uomo, e di perfezionar l' uomo è appunto ciò che intende il Sacramento della Confermazione. L' angelico Dottore cercando in che maniera sia stato istituito il Sacramento della Confermazione, dice che [...OMISSIS...] ; e rende ragione del non essersi potuto conferire questo Sacramento prima della Risurrezione di Cristo, soggiungendo così: [...OMISSIS...] . Cercando poi lo stesso santo Dottore, se gli Apostoli abbiano ricevuto questo Sacramento risponde di no, e ne dà la ragione seguente: [...OMISSIS...] . La soluzione di questa questione, seguìta da tutto il meglio de' Teologi, trae qui a pensare all' altra del Battesimo degli Apostoli. Comunemente or si tiene da' Teologi, che sieno stati battezzati da Cristo, ma ella è però cosa incerta e controversa (4), e non ispregevoli mi sembrano quelle ragioni, che si possono addurre per l' opinione contraria. Perocchè se poteron essi ricevere lo Spirito Santo senza Sacramento mandandol loro Cristo dal cielo, come non poterono ricevere la grazia del Verbo, che si dà nel Battesimo conversando essi col Verbo in terra? In tal modo ne verrebbe meglio chiarito il passo di S. Paolo, che « ricevettero le primizie dello Spirito«, » e gli Apostoli, immediati discepoli di Cristo e riceventi dalla sua bocca le parole della vita, avrebbero ricevuto immediatamente nell' anima loro il Verbo e lo Spirito; e gli altri fedeli avrebbero ricevute queste grazie mediante i Sacramenti conferiti dagli Apostoli e lor successori. Ho già dimostrato, che Cristo non avea bisogno d' alcun mezzo per comunicare le sue grazie, e che se Cristo fosse potuto essere al contatto di tutti gli uomini non ci avea bisogno alcuno di Sacramenti; i quali sono istituiti come anelli, o canali intermedi fra Cristo e quegli uomini, che non possono con lui immediatamente conversare (1). Egli è vero, che Cristo dice positivamente: « non può entrare nel regno di Dio niuno, che non sia rinato di acqua e di Spirito Santo« (2), » ma certa cosa è, che questa sentenza ammette una ragionevole interpretazione in quanto all' acqua materiale, il bisogno della quale non è assoluto per tutti gli uomini. Tanto è vero che ne sono eccettuati per comune consenso tutti quelli che morirono prima del dì della Pentecoste; e da quel dì tutti quelli che si salvarono col Battesimo di penitenza o di sangue. Or Cristo dava immediatamente quell' acqua viva di cui egli parla alla Samaritana « saliente in vita eterna« (3), » la quale non era già un' acqua materiale, sebbene l' acqua materiale sia stata istituita a simbolo dell' acqua spirituale. S. Giovanni Battista fu ripieno di Spirito Santo col solo avvicinarsegli Gesù nell' utero di Maria; non ebbe questi il Battesimo prima di nascere? Gesù diceva a Filippo: « Io sono tanto tempo con voi e non mi conoscete? Filippo chi vede me, vede me e il Padre mio« (4), » indicando con ciò, che la sola vista di Cristo dava la grazia e la percezione di Dio. La Scrittura dice che l' uomo vive di ogni parola, che esce dalla bocca di Dio (5); e le parole di Cristo avranno forse avuto minor efficacia del Battesimo quando anche al Battesimo non proviene la forza sua se non dalla parola del Verbo? (6) non sono chiamate parole di vita quelle di Cristo? (7) non ha detto Cristo agli Apostoli, ch' erano mondi per cagione del sermone che avevano udito da lui? (1) E al presentarsi che facevano a Cristo gl' infermi non diceva loro tostochè vedeva in essi la fede e la contrizione: « i tuoi peccati ti sono rimessi«, » senza far loro parola di Battesimo? (2) e se i peccati loro eran rimessi avevano già ottenuto l' effetto del Battesimo senza più. Non disse a Zaccheo che « la salute di quella casa era in quel giorno avvenuta« (3) » appunto perchè l' avea santificato coll' aspetto suo e colla sua visita? E se appresso tutti i Teologi si conviene, che la necessità del Battesimo non cominciò se non dopo la Pentecoste, questa necessità non ci fu mai per gli Apostoli, perocchè dopo aver ricevuto lo Spirito Santo non poteano aver bisogno del Battesimo, e prima necessità non ce ne aveva per alcuno. Ora noi dobbiam favellare del più compiuto e del più ineffabile de' Sacramenti, voglio dire dell' Eucaristia. Il verremo prima considerando in sè stesso, trattando della confezione del corpo e del sangue di Cristo; poscia rispetto ai battezzati di cui egli è soprasostanziale nutrimento; e finalmente rispetto all' ordine stesso della santificazione umana. Il divino Autore di tanto mistero illustri a noi la mente e ci conduca la penna, acciocchè collo scrivere nostro fedele possiamo conseguire quello che solo è bene, desiderando noi di non mescolare in queste pagine nulla di nostro a quanto da lui medesimo e dalla sua chiesa noi abbiamo imparato. E prima mi si conceda di sporre il modo del trasmutamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue di nostro Signor Gesù Cristo, a quel modo che io il concepisco contenersi nel deposito delle verità della fede, nelle Scritture e nella Tradizione. Dico in prima, che questa trasmutazione si fa in un modo assai somigliante (1) a quello onde in noi si converte il cibo, mediante la nutrizione, nel corpo nostro e nel nostro sangue. Conviene attentamente osservare ciò che avviene nel fenomeno della nutrizione. Delle particelle inanimate vengono ricevute nel nostro stomaco, e indi distribuite pe' meati del corpo e ravvicinate sì fattamente, assimilate, inserite, contemperate, fuse nella nostra carne viva e nel nostro sangue vivo, che anch' esse in un modo ammirando ricevon la vita e si fanno animate, sensitive; in una parola diventano vera nostra carne e vero nostro sangue. Ora in un modo somigliante, come dicevo, io intendo che Gesù Cristo comunichi la vita propria alle particelle del pane e del vino, e in tal guisa le renda suo vero corpo e suo vero sangue. E ove in tal modo si concepisca la transustanziazione del pane e del vino si rendono assai chiare alcune parole di Cristo che altramente possono parere oscure ed inesplicabili. Così leggiamo in S. Luca, che dopo aver detto il divino Redentore giacente co' suoi discepoli nel cenacolo: [...OMISSIS...] . Dove quella maniera« dico io a voi« dico enim vobis , annunzia che egli vuole comunicar loro qualche gran cosa. Il regno di Dio poi consiste propriamente nella glorificazione di Cristo; perocchè Cristo glorioso a pieno regna « m' è stata data ogni potestà in cielo ed in terra«, » e Dio regna in Cristo. Volea dunque dire, che non mangerà più la pasqua prima della sua Risurrezione, nella quale Risurrezione la pasqua sarà pienamente adempita: perocchè l' agnello pasquale rappresentava il vero agnello ucciso, e fatto salute e cibo vitale de' veri israeliti, cioè Cristo ucciso e fatto glorioso, potente perciò a comunicare vita e pienezza di vita, a cui se ne ciba vivendo. E nello stesso significato soggiunse del calice del suo sangue: « prendete e dividete fra voi: imperocchè vi dico, che non berrò della generazione della vite, fino che non venga il regno di Dio« (3), » cioè la mia Risurrezione. Nè si può muover dubbio per cagione della particella« fino che« donec , la quale nella maniera d' usarla che fa la Scrittura indica sovente ciò che non fu fatto fino a quel momento, non ciò che far si deva in appresso. Benchè ciò sia vero, e valga per intendere altri luoghi delle Scritture; pure qui il testo di S. Matteo e di S. Marco non ci permettono tale interpretazione, leggendosi espressamente, che Cristo non solo non berrà più vino fino alla Risurrezione, ma che « berrà un vino nuovo nel suo regno«, «cioè fatto glorioso. [...OMISSIS...] Le quali parole sono chiarissime, nè ammettono una facile interpretazione altrimenti che coll' intenderle dell' Eucarestia che dovevano i suoi Apostoli celebrare, lui già risorto. Perocchè dicendo Cristo « di questo figliuolo della vite« » esclude ogni spiegazione spirituale, che dar si volesse a quelle parole; giacchè quel vino a cui alludeva era cosa reale e non puramente allegorico e figurato, e dove s' intendesse che un vino figurato sarà quello che berrà dopo la sua Resurrezione dovrebbe necessariamente intendersi che un vino figurato beveva allora, il che sarebbe contrario alla fede; perocchè l' identità di natura fra il vino che allora beveva e quello che dice di dover bere nuovo dopo la Risurrezione è chiaramente espressa in quelle parole: « io non berrò più di questo figliuolo della vite«. » Dice adunque, che nel regno del Padre suo, cioè dopo risorto, berrà del vino, ma non d' ogni vino, ma di quello appunto che tenea allora in mano, ed era il vino consacrato; e di più dice, che lo berrà con essi « lo berrò nuovo con esso voi«. » Aggiunge poi che sarà « un vino nuovo« » per indicare che il vino consecrato dopo la Risurrezione non era più un sangue passibile e che si potesse veramente spargere; ma un sangue impassibile, e immortale, e meglio che un vino nuovo, di recente e inestinguibile vita potente. Tutte queste circostanze mirabilmente si avverano nell' Eucarestia, se a quel modo si spieghi che abbiam toccato. Conciossiachè in tal caso veramente avverrebbe, che Cristo glorioso, banchettasse continuamente, per così dire, avvivando della sua vita divina il pane ed il vino, e convertendolo tutto nelle divine carni e nel divino suo sangue. Che se attentamente si considerano le parole di Cristo non si troveranno capaci di alcun' altra interpretazione. Perocchè Cristo stesso lo espone dell' Eucaristia. « Di gran desiderio ho desiderato, dice, di mangiare con voi questa pasqua innanzi che io patisca«. » Che vuol dire questo « innanzi che io patisca?« » non sembrano parole superflue? non bastava dire:« di gran desiderio ho desiderato di mangiare questa pasqua?« no, perocchè Cristo poteva mangiare quella pasqua avanti patire e dopo aver patito, cioè già risorto. Però egli mostra l' immenso desiderio che avea di mangiare quella pasqua, prima che patisse, quella pasqua nella quale sarebbe morto. Or se quelle parole « innanzi che io patisca«, » alludono assai convenientemente ad una pasqua ch' egli mangiar poteva dopo aver patito, non è egli assai chiaro, che quel pane e quel vino, che dice poi che avrebbe mangiato nuovo nel suo regno, è appunto questa pasqua, di cui così favella fino a principio del suo discorso? e che però per quel pane e per quel vino nuovo non può intendersi convenientemente se non l' Eucarestia che sarebbe stata rinnovata, lui già risorto? Or in tal modo intese seguire la transustanziazione del pane e del vino S. Gregorio Vescovo di Nissa, uno de' Padri del secolo d' oro della Chiesa, e de' più acuti e di tanta fede e venerazione, che in sua vecchiezza chiamavasi il Padre de' Padri (1). Questi nella sua celebre Catechesi si fa a cercare diligentemente, come il corpo di Cristo nella Santissima Eucarestia possa alimentare tanti fedeli, rimanendosi egli intero e in sè perfetto (2). [...OMISSIS...] Così questo grand' uomo trovava opportuno di chiamare la ragione in ossequio e in servigio della fede, non dissociando quello che Iddio ha congiunto. Viene adunque a stabilire 1 che il corpo nostro nello stato presente si mantiene coll' alimento a lui adattato (1), 2 che questo alimento precisamente è il pane ed il vino che si convertono nel corpo (2), 3 che però chi vede del pane e del vino il corpo umano in potenza, cioè tali cose che sono atte a farsi corpo (3). Premessi questi principii egli viene applicandoli all' Eucarestia (4). Ed osserva 1 che il Verbo divino prese un vero corpo umano (5), 2 che anche questo corpo umano preso dal Verbo non si sottrasse mentre era in terra alla legge degli altri corpi, di nutrirsi cioè di pane e di vino (6), 3 che il pane e il vino di cui Cristo si nutriva diventava una cosa stessa col corpo di Cristo, perocchè trapassava alla natura del corpo sebben corpo divino (7), 4 [...OMISSIS...] . Si fa poi l' obbiezione tratta dalla maraviglia che v' ha in una trasmutazione sì maravigliosa per la quale un pezzo di pane ed un calice di vino si trasmuta in un essere divino; e risponde, che se ciò avveniva indubitatamente quando Cristo vivea, niuna maraviglia che avvenga anco di presente; perocchè l' onnipotenza del Verbo, che faceva quella trasmutazione vivendo in terra è la medesima anche ora. [...OMISSIS...] Le quali parole del Nisseno non si possono già considerare, come contenenti una cotal vaga similitudine fra la nutrizione e la consecrazione; ma bensì come una spiegazione ch' egli manifestamente prende a dare di questa mediante di quella. Il secondo testimonio che noi addurremo sarà S. Cirillo Alessandrino, il quale senza nominare la parola nutrizione, dice però il medesimo affermando, che Iddio converte il pane nel proprio corpo, comunicandogli la virtù vitale del proprio corpo; che è appunto quel modo in che noi crediamo avvenire la transustanziazione. Le parole del gran Vescovo sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Può dirsi più propriamente e più espressamente quello che noi diciamo, cioè che la consecrazione consiste in una diffusione e comunicazione della vita divina del corpo di Cristo? E un testimonio maggiore ancora a prova della proposta sentenza possiam forse cavare dal libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Quando anco l' autore di quest' opera si dovesse collocare nel secolo V, fra il Concilio Efesino e il Calcedonese, come vogliono taluni, e però fosse posteriore a Gregorio e a Cirillo, tuttavia l' autorità di quel libro parmi vincer non poco quella de' due grandi Vescovi allegati, non foss' altro perchè vi si descrive la liturgia della Chiesa, che venìa dagli Apostoli. Ora i fedeli che comunicano sono appellati in questo libro« connutrizi « di Cristo: appellazione, come a me sembra, tenerissima ed efficacissima, la qual suppone che nella stessa Eucarestia trovar debbasi un cibo in pari tempo per Cristo e per noi. E veramente se il pane e il vino si converte nelle carni e nel sangue di Cristo per una operazione simigliante, sebben più sublime, di ciò che avviene nella ordinaria nutrizione; veramente i fedeli cibano quel cibo che ha cibato prima Cristo, e sono veri suoi connutrizii. Ella s' avvera in questo caso alla lettera la similitudine usata dagli scrittori ecclesiastici, i quali raffigurano Cristo nell' Eucarestia in una madre che nutrisce i suoi bambolini, del proprio suo cibo convertito in suo latte, convertito in propria sostanza. Dice adunque l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia che « la divinissima partecipazione comune e pacifica di un medesimo pane e di un medesimo calice prescrive a' partecipanti, siccome A CONNUTRIZII (1) una divina conformità di costumi - e che lo stesso autore de' simboli, a meritissimo diritto esclude (dal banchetto) colui che SECO avea frequentata la sacra cena, nè santamente, nè con animo concorde« (2), » cioè Giuda tipo di quelli che indegnamente comunicano. E se l' interpretazione di questo luogo può esser dubbiosa ad alcuni, niuno dubiterà però che con noi non la senta Giovanni di Damasco. Nel IV libro della fede ortodossa (3) egli scrive così: [...OMISSIS...] . Il qual passo è certamente chiarissimo: e conviene osservare, come il Damasceno riconosca come il cibo convertito naturalmente in carne ed in sangue vivo non formi già un corpo diverso, ma l' identico corpo che v' aveva prima: e come la similitudine che usa la crede atta appunto a dimostrare l' unicità e l' identità del corpo di Cristo, sebbene Cristo assuma e transustanzii nelle sue carni e nel suo sangue la sostanza del pane e del vino. Non può adunque dirsi che la similitudine usata dal Damasceno sia in questa parte deficiente: egli almeno la tien per attissima al suo intendimento. Nel secolo seguente Teofilatto, commentando il capo VI di S. Giovanni, così scriveva: [...OMISSIS...] . Le quali parole dice Teofilatto a intendimento di rendere più credibile sì grande mistero a quelli che s' atterivano pensando, che annunziasse cosa impossibile. Ora le sue parole niente varrebbero a tale intendimento quando non v' avesse una vera similitudine fra la nutrizione naturale e la consecrazione, che si può dire una cotale soprannaturale ineffabile e divina nutrizione di Cristo glorioso. E questa conversione in tal modo concepita viene espressa appunto allo stesso modo, ma senza l' uso di alcuna similitudine, da Elia Arcivescovo di Creta scrittore dell' ottavo secolo, a quel modo stesso come vedemmo espressa da Cirillo Alessandrino, dicendo egli, che « Iddio abbassandosi all' infermità nostra immette nelle cose proposte (in su l' altare) una virtù vivificatrice e le trasferisce all' operazione della sua carne« (2) » cioè dà loro l' atto o la natura della propria carne: il che è appunto quello che avviene nelle particelle del cibo, le quali avvolte quasi direi nel vortice della vita vengono anch' esse avvivate e acquistan natura ed atto di verissima carne. Al quale greco scrittore s' accorda un altro che fiorì nello stesso secolo nella Chiesa latina, voglio dire Alcuino, il quale così scrive dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] . Dove si vede manifesto come questo scrittore intendeva che il pane passasse nel corpo di Cristo, e così con lui si mescolasse e immedesimasse. Or sebbene, come dirò appresso, il Durando abusasse del concetto della nutrizione male intendendolo; tuttavia egli si scontra anche ne' teologi cattolici che scrissero dopo di lui, come in Simonate di Gaza, in Giovanni Bromiardo, nel Gersone, nel Sabundio. De' quali non sarà inutile l' addurre i luoghi. Scriveva adunque Simonate Gazeo nel XIII secolo: [...OMISSIS...] , il qual passo veramente non si può storcere a indicare altro che quello che noi vogliamo. Scrive pure il Bromiardo: [...OMISSIS...] : argomentazione che non istringerebbe, quando non si trattasse nella consecrazione di una trasformazione somigliante a quella che avviene veramente nella natural nutrizione. Giovanni Gersone simigliantemente: [...OMISSIS...] . Finalmente udiamo Raimondo Sabundio: [...OMISSIS...] . Il perchè l' errore di Durando non consiste nell' avere paragonato la consecrazione alla nutrizione; ma nell' aver detto che il pane non si converte già tutto nel corpo di Cristo, ma la materia del pane rimanere partendosene la forma sostanziale (3). Sembra che Durando sia caduto in tale errore per non essersi formato un' idea giusta della nutrizione; ed egli pare che credesse rimanere la materia del pane informata dall' anima di Cristo, il che sarebbe una vera impanazione (1). I teologi stessi, e fra questi un sommo, il Bellarmino, se non erro, hanno confuse insieme queste due cose. E veramente basta attentamente considerare con quali decisioni della Chiesa il Bellarmino combatta il Durando, per accorgersi, che l' errore che vien combattuto, non istà propriamente nel considerare la consecrazione come una cotal nutrizione di Cristo glorioso (detratto tutto ciò che nel concetto di nutrizione si trovi d' imperfetto e di difettoso); ma bensì nel supporre che la materia del pane rimanga immutata. Due sono i solenni decreti della Chiesa che il Bellarmino contrappone al Durando: 1. Il capitolo IV e il canone II della Sessione XIII del Concilio di Trento, dove si dichiara mutarsi « tutta la sostanza del pane nel corpo, e tutta la sostanza del vino nella sostanza del sangue«. » Or a questo canone si oppone certamente la dottrina che insegna rimanere la materia del pane, ma non quella che dice tutta la materia del pane si trasmuta nelle carni del Signore; e questo avviene appunto supponendo avvenire nella consecrazione una conversione simile (sebben più sublime) a quella della nutrizione. Imperocchè supponendo la nutrizione perfetta avverrà, che nel pane Eucaristico non vi sia nè pure una particella, nè pure un elemento il più tenue che non sia vera carne di Cristo; nè del vino rimanga un atomo che non sia verissimo sangue; ciò che risponde a capello alla fede cattolica (2). 2. La Sessione VIII del Concilio di Costanza, nella quale si condanna l' errore di Vicleffo, il quale era che « gli accidenti non rimangono senza soggetto«. » Ora se la materia del pane rimane, certo che questa materia è il soggetto proprio degli accidenti, e però gli accidenti non sarebbero senza il loro soggetto, contro a quello che definì il Concilio di Costanza. Ma all' opposto se si afferma, che la materia del pane, soggetto degli accidenti, mediante la soprannaturale nutrizione di cui parliamo siasi cangiata nella vera e viva carne di Cristo, egli è cosa manifesta, che il soggetto degli accidenti non rimane più; e che non restano se non gli accidenti del pane e del vino, senza il pane ed il vino, senza la sostanza loro. Conciossiachè il corpo di Cristo ha ben degli altri accidenti, ma che tiene a noi occulti nell' Eucaristia, celandosi quasi direbbesi sotto gli accidenti altrui, che a noi appariscono. La dottrina nostra adunque è sommamente consentanea alle decisioni del Concilio di Trento e di quello di Basilea. Non v' ha dunque alcuna decisione della Chiesa, che c' impedisca la nostra sentenza, la quale anzi è mirabilmente consentanea ai Concilii di Costanza e di Trento. Non è però, ch' ella non trovi alcune difficoltà non leggiere nell' apparenza, ma che non mi sembrano tali nella sostanza. Oltre di che a portare un retto giudizio conviene raffrontare le difficoltà che porge la sentenza nostra, con quelle che trae seco la sua contraria, le quali a me sembrano oltremodo più gravi. Il perchè io verrò sponendo e ponendo a fronte le une colle altre, e così potrà ciascuno savio con piena cognizione di causa scegliere l' opinione che gli parrà meno involta di nodi e più consentanea alla rivelazione ed alla tradizione. La prima difficoltà dunque, che ci si affaccia, si è quella di non saper comporre la nutrizione collo stato di Cristo glorioso. E certamente, che se noi parlassimo di quella stessa maniera di nutrizione che in noi succede, ella non si potrebbe in modo alcuno avvenire in un corpo glorioso. Ma egli è necessario osservare, che tutto ciò che è conforme alla natura di un uomo (1) può trovare un modo di essere anche nello stato di un uomo comprensore, sebbene noi non sappiamo in qual modo ciò avvenga, perchè non abbiamo esperienza dello stato de' corpi gloriosi, salvo ciò che ce ne dà la rivelazione. E veramente la natura umana col farsi gloriosa non muta l' esser suo, ma ella si nobilita e acquista delle nuove qualità. Il perchè non è da credere, che rimanendo il corpo nostro formato come è al presente e delle stesse membra composto, egli non debba avere altresì un uso delle sue membra, sebbene quest' uso soverchi di presente il nostro pensiero. Quello solo che mi sembra di poter dire si è, che la maniera di nutrizione che può cadere ne' corpi gloriosi deve esser scevra da tutte le imperfezioni che involge la nutrizione nostra. Per esempio, la nutrizione in noi supplisce alle particelle che continuamente si separano dal corpo nostro, e col riparare a queste perdite e co' movimenti annessi all' opera della nutrizione mantiene l' attività, il calore, la vita. Tutto questo appartiene all' imperfezione nostra; la nutrizione considerata come producente tali effetti, necessari al mantenimento del nostro vivere, non può cadere in modo veruno in corpi impassibili immortali. Ma tutto ciò non forma ancora l' essenza della nutrizione, al modo come noi intendiamo questa parola. L' essenza della nutrizione noi la facciamo consistere unicamente, 1. nell' assimilare al corpo vivo della materia non viva, 2. e nel comunicare la vita a questa materia nell' atto stesso che si assimila e inorganizza nel corpo, sicchè con esso diviene un solo e identico corpo. Ora a me sembra, che niente ripugni che questo concetto della nutrizione si applichi anche ad un corpo immortale; io non veggo cosa che a ciò si opponga nella parola di Dio o scritta o tramandata; molte all' incontro che me lo persuadono. E veramente, se il corpo nostro imperfetto com' è ha pur tanto di vita in sè stesso da poterla comunicare a delle particelle di materia inanimata; e come di una tale virtù sarà privo un corpo perfettissimo, che di vita è pienissimo a segno, che non può morire? Convien considerare, che il comunicare la propria vita a materia straniera è cosa che appartiene all' eccellenza di una natura e non a un difetto; che è opera potente, nobilissima. Si richiede solamente svestire quest' alta funzione da quegli accessori, co' quali noi la veggiamo continuamente accompagnata, ma che non le sono necessarii, e che accidentalmente le avvengono per l' imperfezione nostra, cioè per l' imperfezione del soggetto, in ch' ella si forma. Di che avviene, che mutato il soggetto e reso questo al tutto perfetto, anche l' operazione di cui parliamo non delle sue imperfezioni parteciperebbe, ma più tosto de' suoi pregi e delle sue eccelse prerogative. Acciocchè dunque un corpo comunichi ad un altro corpo della propria vita non è necessario 1. ch' egli perda qualche parte della sostanza di cui si compone, come avviene ora in noi, 2. nè che egli abbia bisogno della vita distesa e accomunata ad altri corpi per viver egli, come pure avviene nel corpo mortale, 3. nè ch' egli sofferisca tutte quelle permutazioni successive, colle quali si forma in noi la nutrizione. Tutto questo viene escluso dal corpo glorioso (1). Ma egli rimane però dopo di tutto ciò qualche cosa che al corpo glorioso non ripugna; e questa si è, ch' egli comunichi ad altri corpi la propria vita istantaneamente, e a sè li assuma ed immedesimi; non sè abbassando, ma quelli a sè elevando ed incorporando (2). Ora questo è quello, che anche crediamo avvenire ineffabilmente e soprannaturalmente nella Eucaristia. S. Luca ci descrive Cristo che dopo la Risurrezione mangia co' suoi discepoli, in prova ch' egli non è puro spirito ma anche vero corpo. Egli avea loro mostrate le cicatrici delle sue piaghe, e fattele loro toccare, ma essi tuttavia non credevano: a convincerli ch' egli era anche risorto vero uomo, vuol mangiare con essi. [...OMISSIS...] Ora io so bene, che cosa dicano i Teologi: essi vanno imaginando che quel cibo, che prese Cristo, non siasi convertito nelle sue carni, ma risoluto in aria, come dice il Bellarmino (4). Ma questo non è che una pura imaginazione non fondata punto nelle Scritture, imaginazione proveniente da non sapere come accordare insieme una vera nutrizione collo stato di un corpo glorioso. Per questo lo stesso Aquinate conghiettura, che il cibo preso da Cristo siasi risoluto nella « pregiacente materia«; » ma dice che tuttavia quel prendimento di cibo era una vera comestione « perocchè Cristo aveva un corpo di tal natura, che in esso corpo si poteva il cibo convertire« (1). » Ma questa è puramente teologia non fondata nè nella Scrittura nè nella Tradizione, e proveniente, come diceva, dal non saper essi formarsi della nutrizione un concetto elevato e puro da tutte quelle imperfezioni, ch' ella ha come avviene in noi. Per altro tanto è lontano, che le Scritture ci faccian credere che nella comestione di Cristo risorto il cibo non si convertisse nelle sue carni, che anzi fanno travedere il contrario. Primieramente si descrive quella comestione come ogn' altra. Poi Cristo voleva dar prova a' suoi discepoli che egli aveva un corpo della stessa natura del loro. La visibilità e la solidità di questo corpo l' aveva già loro provata facendosi vedere e toccare. Se il cibo da lui preso non avesse fatto che passare in lui, la prova non era tampoco maggiore del mostramento fatto loro delle cicatrici, e del toccamento di quelle ch' essi avean fatto. Ma volea loro mostrare, che il suo corpo era atto anche alle funzioni della vita, fra le quali è quella di nutrirsi, o sia di comunicare alla materia della propria vita. Per questo fine egli volle mangiare in loro presenza. Se il cibo non si fosse cangiato nelle carni di Cristo, perchè mostrar di mangiare? A che cosa è ordinato il mangiamento del cibo se non alla nutrizione? Conveniva egli che il Redentore facesse una tale azione del prender cibo in bocca, masticarlo, mandarlo nello stomaco, senza ottenere il fine pel quale sono state fatte tutte queste operazioni? tutte queste operazioni sono inutili e vane, quando il cibo non dee cangiarsi in carne e sangue, non dee nutrire; egli veramente non è più cibo. In tal caso in vece di far passare il cibo per la bocca e pe' visceri, bastava che Cristo lo prendesse in mano: perocchè il toccarlo colla mano o con altra parte di corpo è il medesimo quando il cibo non dee trasmutarsi. Oltrecchè non ingeriva egli nelle menti degli Apostoli una cotale erronea opinione, se avesse mangiato senza nutrirsi di ciò che mangiava? perocchè essi, non ricevendo da lui spiegazioni di quell' atto, non doveano pensare se non che il mangiar di Cristo era simile al loro; il che se avvolgeva una gran meraviglia, non rimaneva però men credibile: quando di fatti portentosi e per poco incredibili erano circondati. Certo S. Pietro rimase altamente preso da questo fatto di aver Cristo mangiato dopo la Risurrezione, e nel discorso che fece in occasione del Battesimo di Cornelio lo rammenta dicendo: [...OMISSIS...] . Egli fa notare che Cristo dopo che risorse da morte mangiò e bevette (1), ed essi con lui; nè aggiunge già che questo mangiare e questo bere non era che un trapassare del cibo e della bevanda pel corpo di Cristo; ma non crede che noccia alle doti gloriose di Cristo risorto il lasciar credere che il cibo si tramutasse in Cristo come in noi si trasmuta: anzi questo veramente avvicina maggiormente Cristo a noi, e lo stato glorioso de' nostri corpi al presente, e ci mette in più stretta e famigliare conversazione colle cose eterne. Ma il mangiare di Cristo dopo risorto cogli Apostoli, il mangiare il pane ed il vino Eucaristici, che non dee certo esser mancato in sì sublimi conviti, non solo provava l' umanità di Cristo d' ugual natura alla nostra; ma ben anco la sua divinità per l' avveramento della sua profezia. In vero egli pare che in tali agapi, che Cristo risorto fece co' suoi discepoli, si avverasse quanto disse nell' ultima cena, che non avrebbe mangiato e bevuto con essi se non dopo venuto il regno di Dio, cioè dopo la sua Risurrezione, ma che allora [avrebbe] banchettato in nuova maniera al tutto maravigliosa con essi, e avrebbe con essi bevuto un vino nuovo. E questo vino nuovo, di cui s' era inebriato, rammentava Pietro dicendo, che « aveano mangiato e bevuto con Cristo dopo che era risorto da morte«. » Ed egli era quanto un dire che aveva ricevuto dentro di sè Cristo glorioso, a loro principio e fonte di ogni potestà e d' ogni bene; perocchè Cristo risorto è oltre ogni pensiero vivifico e onnipotente. Sicchè con quelle parole Pietro mostrava qual Cristo erasi loro comunicato, qual potere era il suo, qual dignità, qual tesoro di vita. Può recare qualche maraviglia il riflettere, che se Gesù Cristo glorioso incorpora a sè e comunica la vita sua alla sostanza del pane e del vino; dovrebbe la mole del suo corpo or crescere ed ora scemare. Ma nè pur questo può veramente nuocere all' opinione proposta, ove pure dirittamente s' intenda. E` certo che Gesù Cristo nella Risurrezione ha un corpo, che non perde più alcuna menoma particella, e sarebbe grandissimo errore dire il contrario; così pure certo è che quel corpo non ha bisogno di cosa alcuna. Ma tutto questo fermato, niente poi ripugna che quel corpo possa or ricevere qualche accessione, or deporre l' accessione ricevuta; purchè questo accesso e recesso di materia straniera si faccia senza ch' egli punto nè patisca o soffra, nè per cagione di suo bisogno; anzi forse per suo infinito diletto. Pur troppo egli avviene, che noi ci formiamo de' corpi gloriosi un concetto arbitrario e che gli attribuiamo non quello solo che nelle Scritture e nella tradizione troviamo, ma quello ancora che noi crediamo gli debba convenire per cagione di dignità e di perfezione; quando egli è veramente troppo alta cosa il conoscer dove questa dignità e perfezione consista, e quali cose a lei si convengano, quali sconvengano. Di che accade che il corpo de' comprensori si concepisca per poco senza moto e senza azione. All' opposto io credo, come ho poco sopra toccato, che anzi il corpo glorioso abbia un movimento ed un' azione infinitamente maggiore che non il corruttibile mortale; e che tutte le sue membra giovino a qualche uso, nè sieno inutili: sebben l' uso loro sia d' un modo, di cui non possiam avere esperienza, e scevro da ogni presente difetto. Egli appartiene dunque, a mio parere, alla eccellenza e sublime perfezione del corpo di Gesù Cristo risorto, ch' egli possa assimilare a sè tutto ciò ch' egli vuole, possa a tutto ciò ch' egli vuole accomunar la sua vita (1), e or ricevere crescimento, or il crescimento ricevuto lasciarlo a tutto suo piacimento; senza che menomamente egli con queste azioni e mutazioni o sofferisca, o perda di sua vita, di sua dignità, di sua beatitudine. Credo di più che come tutte le sue azioni, così questa massimamente di cui parliamo conferisca alla pienezza del gaudio che il rende beato. La seconda fra le apparenti difficoltà contro l' esposta dottrina viene cavata da quelle parole di Gesù Cristo: « il pane che io darò è la carne mia per la vita del mondo (2), » e da quell' altre: «« Questo è il mio corpo che per voi sarà dato« (1): » secondo le quali parole il pane Eucaristico è quel corpo di Cristo che ha patito sulla croce. Ora quella carne di Cristo nella quale si converte il pane, posta la precedente teoria, non parrebbe esser quella stessa che sulla croce ha patito. Dunque una tale teoria non si regge in piedi. Ma chi un po' considera anche questa è una difficoltà apparente e non più. Io bramo, che ben si considerino in primo luogo le parole di Cristo: « il pane che io darò è la carne mia che io DARO` per la vita del mondo«:« questo è il mio corpo, che per voi SARA` DATO«. » Queste parole sono del futuro. O si considerano adunque nella bocca di Cristo che aveva ancora da patire, e in tal caso si riferiscono al sacrificio cruento che egli far dovea del suo corpo; e non presentano alcuna difficoltà, perocchè Gesù Cristo nell' ultima cena andò a morire dopo aver celebrato ed essersi nutrito della santissima Eucaristia che distribuì a' suoi discepoli; sicchè potea ben dire, anche in un senso materialmente vero, che il pane Eucaristico che loro dava era quel suo corpo che avrebbe patito. O pure si considerano ripetute dal sacerdote sull' altare, e in tal caso quel tempo futuro SARA` DATO non può riferirsi che al sacrificio incruento; e anche ciò posto, quelle parole si verificano alla lettera e materialmente; imperocchè al sacrificio incruento appartengono appunto quelle particelle, se così mi si lascia dire, del corpo di Cristo, e quelle stille di sangue, in cui si convertì il pane ed il vino. Le parole adunque, che si allegano, un po' considerate, non fanno la minima opposizione a quanto fu proposto. Ma senza di ciò egli è certo che il corpo e il sangue Eucaristico è identico col corpo e col sangue di Gesù Cristo che patì in croce (2). Di più, egli è di fede che il corpo di Cristo che nacque di Maria Vergine, quello col quale Cristo fece tutte le azioni della sua vita privata, quello che fu battezzato da Giovanni, quello che digiunò, predicò, patì, risorse da morte, ascese al cielo e sussiste nell' Eucaristia, è uno stesso e identico corpo, e non più corpi: il dire il contrario sarebbe eresia (1). Per ciò come dicono i Padri, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è il medesimo corpo che ha patito sulla croce, così dicono parimente ch' egli è il medesimo corpo, che è nato da Maria Vergine (2); e le liturgie fanno insieme coll' Eucaristia commemorazione di tutti i misteri (3). Ora in che consiste questa IDENTITA` del corpo di Cristo che il rende quello medesimo nella stalla di Betlemme, sulla croce, nel celeste regno? Può ella forse ritrovarsi in una identità materiale, sicchè nè più nè meno quelle particelle che componevano il corpo di Cristo bambino fossero identiche a quelle che componevano il corpo di Cristo adulto, il corpo di Cristo spirato sulla croce o riposto nel sepolcro, e il corpo di Cristo glorioso? No certamente. E chi non sa, che il corpicciuolo di Cristo appena nato era composto di assai meno materia, che non sia il corpo di Cristo già fatto adulto, il qual pesava forse un sei o un dieci volte di più di quello? chi non sa che il corpo umano durante la vita presente separa continuamente da sè una moltitudine di particelle, che lascian d' essere vive, uscendo in sudore, e in altre naturali secrezioni; e che in compenso di quelle riceve e unisce a sè moltissime altre piccole parti inanimate colla respirazione e colla nutrizione ed altre funzioni vitali, le quali rese vive diventano vere carni? e che però ad ogni certo periodo di anni il corpo nostro o del tutto o certo nella massima sua parte si rifà e si rinnovella? e tuttavia è sempre il medesimo e identico corpo nostro? Però le particelle che componevano il corpo di Cristo nato e morto e risorto non erano tutte identiche; e pure il corpo era identico: l' IDENTITA` adunque di un corpo umano non consiste nell' identità delle particelle che lo compongono (1). Ove adunque consiste l' identità di un corpo umano vivente? Se non consiste nell' aver egli sempre quelle identiche particelle materialmente prese, se il mutare delle particelle onde si compone un corpo non cangia la sua identità e la sua numerica unità; convien dire che il fondamento dell' identità si debba riporre non in altro, ma nella vita, nel sentimento fondamentale (2). Un sentimento identico rimane sempre, il quale si esprime colla particella IO. L' IO è sempre quel medesimo: IO so di essere stato bambino, d' esser cresciuto e d' essere pervenuto, trapassando molte permutazioni, allo stato presente, sono sempre quel medesimo IO. E` celebre il verso che dice: « Tempora mutantur, et nos mutantur in illis » ma tuttavia questo NOS mantiene una identità assoluta, per mezzo a tutte le permutazioni; la quale è tanta, quanta l' incomunicabilità della persona. La persona è incomunicabile per la sua diffinizione (1): ella allo stesso modo è immutabile almeno nella sua radice. E qui si attenda bene, che quando noi facciamo derivare l' identità del corpo dall' identità della vita e del sentimento fondamentale, non parliamo solo del sentimento intellettivo, ma del sentimento animale che informa la materia. Questo sentimento e la vita da cui proviene rimangono sempre gli stessi, cioè egli è sempre uno stesso principio vitale quello che inanima il corpo; ora egli è cosa certa che un principio vitale che inanima alcune particelle di materia organizzate è al tutto indifferente a inanimar più tosto esse che altre particelle materialmente diverse, ma della stessa natura e forma, e componenti in tutto lo stesso organismo: anzi quel principio vitale non potrebbe in alcun modo distinguere la differenza di queste particelle che inanima, quando rispetto a lui sono al tutto uguali sia nella specie, sia nella forma, sia nella posizione, sia nella organizzazione, e non differiscono che nella numerica identità. Questo merita di essere attentamente considerato: l' identità materiale delle particelle inanimate dall' anima nostra è al tutto indipendente e cosa diversissima dall' identità del corpo vivo. Noi abbiamo osservato un fatto che può illustrare questo vero. Il moto nostro assoluto è per noi al tutto impercettibile, cioè il NOI non sofferisce alcuna alterazione dal moto relativo (2). Di qui apparisce manifestamente che l' identità del luogo , e l' identità del corpo vivo sono due identità al tutto indipendenti l' una dall' altra. Or come adunque io sono quell' IO identico tanto in un luogo come in un altro, nè sofferisco col mutar luogo (per moto assoluto) nè pure la più piccola e al tutto accidentale alterazione, così parimente egli è al tutto indifferente all' identità del mio corpo vivente che il mio principio vitale avvivi queste o quelle particelle, bensì differenti quanto all' individualità loro, ma quanto alla specie e nell' altre condizioni perfettamente uguali. Io credo di poter recare a questo proposito le parole di Gesù Cristo il quale disse « lo spirito è quello che vivifica: la carne nulla giova« (3): » quasi volesse dire che lo spirito vivificando la carne è quello che le dà unità, l' essere di uomo; quando senza lo spirito la carne non appartiene più, materialmente presa, all' umana natura, che nello spirito principalmente risiede. Se poi il principio animale è unificato col principio intellettivo e personale in tal caso l' identità del principio intellettivo diviene anch' esso fondamento dell' identità del corpo, di maniera che l' identità della persona costituisce l' identità del corpo da quella persona informato. Or poi in Gesù Cristo conviene ancora più su sollevarsi. Il principio intellettivo umano non costituisce persona in esso, ed è subordinato al Verbo persona divina che tutto il resto governa di ciò che sta nell' uomo7Dio; sicchè finalmente l' ultimo principio dell' identità del corpo di Gesù Cristo conviene cercarla non altrove che nella sua divinità (1) sempre identica, a cui esso corpo appartiene (2). Le particelle adunque che compongono il corpo non sono il corpo; la loro identità non è l' identità del corpo. Ma quando delle particelle sono rapite dallo spirito, per così dire appropriate a sè, accese di vita, incorporate in un corpo vivo, o in somma informate dall' identico spirito; esse non hanno un' esistenza a parte da lui: formano un' unità con quello spirito e con tutto il corpo vivente: non sono due corpi ma un solo: ed è l' identico corpo che esisteva e viveva prima di ricevere in sè quelle nuove molecole. Le quali dottrine ben poste, dico che il corpo di Gesù Cristo nella Santissima Eucaristia è veramente identico con quello spirato sulla croce; perocchè quell' accessione ch' egli riceve coll' Eucaristico ineffabile alimento con esso si perde, confonde, immedesima, diventa una cosa sola fusa con esso; un' anima stessa l' avviva, una medesima vita partecipa, gode d' un medesimo unico impartibile vital sentimento, non venendo nè l' organismo del corpo nè alcun membro rinnovato o mutato. E qui a chiarimento e conferma maggiore delle cose dette osserviamo un' altra espressione che usano i Padri a determinare l' identità del corpo di Cristo nell' Eucaristia. Essi dicono che questo corpo che sta nell' Eucaristia è il corpo proprio del Verbo. [...OMISSIS...] S. Isidoro Pelusiota lo chiama pure corpo « PROPRIO del Verbo incarnato« (3). » Nell' antichissimo rito di amministrare la Santissima Eucaristia riferito da Tertulliano e da altri, diceva il sacro ministro « ricevi il corpo di Cristo » ovvero «« è il VERO E PROPRIO corpo di Cristo« (4). » Ora questa maniera di dire è tale, che per essa si pone nella persona del Verbo il fondamento dell' identità del corpo. Se dunque il Verbo, mediante una soprannaturale operazione, rapisce a sè e s' appropria la sostanza del pane, questa sostanza col corpo permanente di Cristo divien pure corpo vero e proprio del Verbo, non altrimenti che il corpo permanente di lui, perocchè è dallo stesso Verbo assunta, informata e d' una sola vita accesa e una cosa fatta con esso corpo che prima della consecrazione il Verbo si aveva. Questa difficoltà si mostra essere solo apparente e non solida da quello che fu detto di sopra. Le particelle del pane e del vino convertite nelle carni e nel sangue di Cristo non si distinguono già dal rimanente del corpo; ma formano una cosa sola e impartibile col corpo ove s' inseriscono. Nè Cristo già disse:« queste sono quelle particelle di mio corpo che ebbi in nascendo dalla Vergine; ma disse «« questo è il mio corpo« » volendo significare l' identità del corpo, non l' identità delle particelle componenti il corpo. Così non disse già queste sone le particelle che« componevano il mio sangue quando io nacqui«; ma disse bensì « questo è il mio sangue«, » volendo significare l' identità del suo sangue; il quale fu sempre identico anco emettendo o ritenendo quelle particelle divise, perchè fu continuamente informato da una stessa vita o certo da una stessa divina persona (1). Nè si può dire che non si trovi tutto il corpo di Cristo nel Sacramento Eucaristico in virtù delle parole consecratorie, ma per sola concomitanza. Imperciocchè come poteva il corpo di Cristo alimentarsi per così dire delle particelle del pane e del vino se ivi tutto non fosse presente, e non assumesse in sè quelle particelle? Si trova dunque presente nell' Eucaristico pane tutto il corpo di Cristo ex vi Sacramenti, e non per sola concomitanza; perchè non potrebbe succedere l' ineffabile e divina nutrizione, che segue in virtù delle parole, e che le parole, per così dire, comandano, se non fosse ivi tutto il corpo di Cristo, e in sè non assumesse e transustanziasse il pane ed il vino. Laonde acciocchè si avveri, che in virtù e in forza delle parole sacramentali tutto il corpo di Cristo stia nell' Eucaristia, non è mica necessario che il pane ed il vino si cangi in tutto il corpo e il sangue di Cristo, ma solo nel corpo e nel sangue di Cristo, incorporandosi e unificandosi con esso il corpo e con esso il sangue di Cristo; e ciò mediante quella operazione ineffabile, che è fatta da tutto il corpo glorioso del divino trionfatore. Il che conviene a capello colle parole del sacrosanto Concilio di Trento. Perocchè esso assistito dallo Spirito Santo definì bensì che « sotto entrambe le specie e sotto ogni parte di ciascuna specie si contiene tutto ed intero Cristo« (1); » ma parlando della transustanziazione non definì mica che il pane ed il vino, ed ogni particella del pane e del vino si convertisse in TUTTO il corpo e il sangue di Cristo, ma solo che « per la consecrazione del pane e del vino avviene la conversione di TUTTA la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo Signor nostro, e di TUTTA la sostanza del vino nella sostanza del sangue di lui« (2): » di maniera che è bensì di fede, che tutta la sostanza del pane e del vino si converta; ma non è già di fede che si converta in tutto il corpo e in tutto il sangue di Cristo; sebbene a tutto il corpo e a tutto il sangue di Cristo si contemperi e s' immedesimi. Il perchè secondo la fede cristiana cattolica è certo: 1. Che tutto il corpo e tutto il sangue di Cristo si trova nella Santissima Eucaristia. 2. Che egli vi si trova in virtù delle sacramentali parole. 3. Che tutta la sostanza del pane e del vino si converte. 4. Ma non che si converte in tutte le parti del corpo e del sangue di Cristo; sebbene si fonda e si unifichi con tutto il corpo e con tutto il sangue. Le quali quattro cose s' accordano a pienissimo colla sentenza da noi dichiarata. La qual sentenza riceve maggior lume e fermezza da quella dottrina teologica la quale insegna che« sotto le specie eucaristiche sta bensì in forza delle parole tutto Cristo quanto alla sostanza, ma non quanto alla dimensione«. Udiamo come una sì fatta dottrina sia spiegata da S. Tommaso: [...OMISSIS...] . E s' attenda bene alla similitudine che adopera il santo Dottore a render chiaro questo concetto: [...OMISSIS...] . Or dunque secondo il santo Dottore, come sotto ogni parte dell' aria non istà tutta la quantità dell' aria, ma quella parte che ci sta è però aria, n' ha la natura e niente manca a questa natura, e però è tutta la natura; e come sotto ogni parte di pane, non istà mica tutto il pane quant' egli ce n' ha al mondo, ma bensì quello che ci sta ha la natura di pane e tutta la natura di pane; così medesimamente sotto la specie del pane e del vino, cioè sotto quella piccola dimensione che da esse specie viene determinata nello spazio, non istà mica tutta la grandezza del corpo di Cristo; ma quello che ci sta è vero corpo di Cristo, e vi ha tutta la natura, ed è congiunto col rimanente del corpo; il quale vi sta per concomitanza, cioè perchè è dalle sue parti inseparabile. Indi è che S. Tommaso spiega come tutto il corpo di Cristo vi abbia intero tanto in tutta l' ostia, come nelle sue parti, sieno queste unite o divise mediante lo spezzamento dell' ostia. Perocchè in ciascuna parte vi è egualmente la natura del corpo di Cristo, non però la stessa quantità di esso corpo; nè tuttavia ci manca cosa alcuna; perocchè quella quantità la quale non ci sarebbe in virtù del Sacramento, non manca mai in virtù della concomitanza. E qui sottilmente osserva il grand' uomo errar quelli i quali dicono esser Cristo tutto in ciascuna parte dell' ostia, quand' è divisa, e non quand' è unita; usando la similitudine dello specchio, che fatto in pezzi, rende ogni pezzo il volto intero dell' uomo che lo riguarda. [...OMISSIS...] : ma qui non è che una consecrazione sola, per la « quale avviene il corpo di Cristo in questo Sacramento« (1). » Non è dunque che ogni particella contenga il corpo di Cristo quanto è lungo e largo; ma contiene la sostanza del corpo di Cristo, le dimensioni del quale, sebbene per sè eccedenti lo spazietto segnato da quelle particelle, vengono ad esserci insensibilmente per una reale concomitanza (2). Quindi è che tanto nelle liturgie, quanto ne' Padri, si paragona la transustanziazione del pane e del vino, alla trasmutazione dell' acqua in vino operata da Cristo nelle nozze di Cana (1). Or quell' acqua fu bensì della natura del vino, ma non fu mutata in un vino determinato e preesistente, e molto meno in tutto il vino che al mondo vi avesse. Come adunque la natura dell' acqua cessò e sopravvenne quella del vino, ma non tutto il vino quanto era quello ch' era nel mondo, ma un vino nuovo che non ci era; così il pane ed il vino si convertì nella sostanza del corpo di Cristo, senza che ci sia bisogno dire, che si convertisse nelle particelle preesistenti che componevano il corpo di Cristo; giacchè si parla di corpo identico e non di particelle identiche nelle parole della consecrazione « questo è il mio corpo«. » Or tali dottrine se non confermano, certo aiutano mirabilmente ad intendere, e rendere assai probabile, almeno, la sentenza nostra, che la transustanziazione avvenga per una cotal nutrizione ineffabile e soprannaturale. Questa difficoltà ci pare aver noi già dissipato quando notammo l' errore di Durando (2). Questo errore consiste nell' aver voluto che nella consecrazione rimanesse il soggetto, sicchè vi avesse un soggetto nella santissima Eucaristia che fosse pane e vino. Questo errore è lontanissimo del nostro sistema, e dal concetto di una vera soprannaturale nutrizione. E veramente nella nutrizione tutta la sostanza del pane e del vino cessa interamente dall' esser sostanza del pane e del vino e diventa sostanza della carne e del sangue di Cristo: il soggetto stesso adunque si cangia e si trasmuta. La qual dottrina riceve maggior evidenza da una dottrina de' moderni fisiologi, i quali mantengono la vita sia una qualità inerente all' intima materia; sicchè la materia stessa elementare ricevendo la vita si cangia e diventa quello che non era prima, essendo divenuto il soggetto stesso in una materia viva diverso da quello di una materia inanimata. Ma nè pur tanto richiede, come noi richiediamo, acciocchè si possa dire il soggetto mutato, il venerabile Bellarmino; imperciocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Dicevamo che nella conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo vivo o certo informato dalla divinità, noi veggiamo un cangiamento totale del soggetto, maggiore che nella trasmutazione del legno nel fuoco e dell' acqua nell' aere: perocchè in queste permutazioni ciò che s' è cangiato è propriamente la forma sostanziale, quando l' elementare materia rimase la stessa; e tuttavia pare, che il Bellarmino s' accontenti della distruzione del soggetto in quel senso che in tali mutazioni naturali si avvera. Egli pare a noi, che assai più perfetta sia la conversione del soggetto che accade nella consecrazione, intesa a quel modo come noi facevamo. Imperocchè al modo nostro le stesse particelle elementari della materia hanno subito cangiamento, la stessa essenza loro è trasmutata, essendosi resa viva: il quale elevamento all' essere vitale è forse il massimo e il più intimo cangiamento possibile, e tale a cui solo pienissimamente conviene il vocabolo consecrato dall' uso della Chiesa di« transustanziazione«. E così si avvera quello che dice S. Tommaso, cioè che sebbene si cangi la forma e la materia, tuttavia [...OMISSIS...] Ma contro l' esposta dottrina sta una sentenza la quale non si contenta, che nell' Eucaristia vi abbia l' identità del corpo e del sangue di Cristo, ma vuole di più che vi sia l' identità delle particelle materialmente prese che compongono il corpo di Cristo; la quale identità è cosa diversa da quella prima, come vedemmo. Questa sentenza volendosi rendere con chiarezza consta di due proposizioni. 1. Il pane e il vino si converte in quelle particelle del corpo e del sangue di Cristo, che prima della consecrazione stanno nel corpo glorioso di Cristo. 2. Queste particelle sono identiche a quelle, che ebbe il corpo di Cristo in nascendo, in tutti i momenti della sua vita, nella morte, nel sepolcro. Si noti qui che io non attribuisco ora una tale sentenza a nessun teologo particolare; perocchè ne' teologi non viene espressa colle parole colle quali io la riferisco; e perciò mi basta di confutarla come una sentenza diversa dalla mia, senza imputarla a nessuno. Dico però che questa sentenza non si trova ne' Padri antichi; ma che ella comincia a comparire, per quanto a me sembra, negli scolastici; e vien riprodotta ne' libri de' moderni. Se non erro però, ella nasce dal non avere abbastanza distinto l' identità delle particelle componenti il corpo: il che mi si mostra dal vedere come essi insistono sulla identità del corpo, e non nominano le particelle di cui questo è composto, se non in ordine alla identità di lui; di che avviene che non mi assicuro nè manco d' imputar loro risolutamente l' accennata sentenza. La quale, avendo noi ridotte a due proposizioni, sì rispetto all' una come all' altra discuteremo; e prima mostreremo della seconda, che non si può mantenere: poi esporremo le gravi e secondo noi insolubili difficoltà, che stanno contro alla prima. Questo risulta manifesto da ciò che è detto. E` cosa certa che il corpo umano nella vita presente perde continuamente delle particelle di cui è composto, le quali separandosi da lui perdon la vita, di cui a lui unite erano informate; come pure è certo ch' egli riceve continuamente delle altre particelle che prima di unirsi con lui erano morte, e cui la vita sua egli comunica. Or questa è legge della natura umana nella vita presente, è conseguenza delle funzioni animali nel presente stato di cose; nè la natura umana in Gesù Cristo si sottrasse a tali leggi, conseguenza delle quali fu pure l' esser nato Cristo bambino, e poi cresciuto fino a perfetta misura. Dunque anche in Cristo vivente quaggiù ebbe luogo la stessa continua permutazione delle particelle di suo corpo: e però le particelle che componevano il suo corpo divino nella presente vita non erano identiche in tutti i momenti del viver suo. Or come questa emanazione di particelle dal corpo di Cristo dovette continuarsi in lui fino all' ultimo sospiro, massime che nella passione oltre il sangue dovette effondere molto sudore e succedere in lui altre tenui separazioni; così il corpo morto di Cristo non dovette constare di tutte quelle identiche particelle di cui constava il corpo vivo. Ma nel corpo morto di Cristo mancava il sangue, mancava il sudore sparso e l' altre materie da lui separatisi prima di morire o morendo; le piaghe erano aperte. A tutto ciò fu riparato nella Risurrezione: perocchè il corpo risorto non potea mancare del sangue conveniente e di tutti gli altri fluidi che ad un corpo perfetto si convengono: le stesse piaghe furono cicatrizzate, il che si suol fare con quel rimettimento di carne col quale si rammargina la ferita e si copre d' una carne e pelle nuova ivi quasi direi rifiorita. Or tutto questo non è verisimile nè concepibile che si facesse senza aggiungere niuna nuova particella al corpo morto di Cristo. Dunque il corpo di Cristo risorto dovea avere più particelle che non il divino cadavere; come questo dovea averne meno, che il corpo vivo e nutrito nell' Eucaristica cena. Egli è adunque assurdo il credere che le particelle che componevano il corpo di Cristo nato, vivuto, morto, risorto fossero tutte identicamente le stesse. E tuttavia è certa l' identità del corpo di Cristo nel presepio, sulla croce, alla destra del Padre; come è certa l' identità del mio corpo in fasce, col presente e con quello che avrò nel sepolcro. Tutto ciò è consentaneo ai principi della naturale filosofia; ed è anco un articolo di fede che Cristo abbia avuto, ed abbia un solo ed identico corpo. Questo consegue da' precedenti. Se le particelle componenti il corpo di Cristo si mutarono, Se il corpo non si mutò mai dalla sua identità, Dunque l' identità di questo non è legata all' identità delle molecole o particelle che lo compongono. Questa proposizione ha dimostrazione fermissima nelle parole di Cristo, che come ho toccato di sopra, dicono: « questo è il mio corpo« » e non disse:« queste sono le particelle identiche di cui il mio corpo è composto«. Ed ella è consentanea altresì alle precedenti proposizioni. Perocchè, se si vuole, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia sia composto delle identiche particelle onde constava il corpo di Cristo; conviene assegnare un momento più tosto che un altro della vita di Cristo, in cui si consideri il suo corpo; perocchè da un momento all' altro le particelle si trovan mutate: e l' assegnamento di questo istante non potrebbe essere che arbitrario. Si dirà, il corpo di Cristo nell' Eucaristia consta di quelle identiche particelle (materialmente prese) di cui consta ora il corpo suo glorioso in cielo nè più nè meno: e se si fosse fatta la consecrazione in altro tempo (come quella dell' ultima cena) consterebbe di quelle particelle, che aveva allora il corpo di Cristo. Rispondo: che il corpo di Cristo che è presente nell' Eucaristia sia in istato glorioso, come quello che è in cielo, questo è fuori d' ogni dubbio: ma che le particelle che compongono il corpo di Cristo nell' Eucaristia sieno nè più nè meno quelle che ebbe nell' atto della sua Risurrezione, questo abbisogna di prova; e come voi mi provate ciò? Nessun' altra prova dar mi potete, se non che l' Eucaristia dee essere l' identico corpo di Cristo; e che voi vedete in questo solo modo verificarsi la perfetta identità. Perocchè il dogma sta tutto nell' identità di questo corpo, espressa in quelle parole: « questo è il mio corpo«. » Ottimamente, ma avvertite, ch' egli è di fede ugualmente, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo in cielo, e che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo bambino, col corpo di Cristo adulto, e massimamente col corpo di Cristo paziente in croce, col corpo di Cristo riposto nel sepolcro. Fermiamoci a considerare l' identità necessaria, che dee avere il corpo e il sangue di Cristo nell' Eucaristia col corpo di Cristo morto, col sangue di Cristo sparso per noi. Questa identità è principalmente notata in quelle parole: [...OMISSIS...] . E veramente il sacrificio Eucaristico è l' identico sacrificio della croce che incessantemente si rinnovella; e però il corpo, che si sacrifica, il sangue che misticamente si spande dee essere identico al corpo crocefisso, al sangue effuso nel sacrificio cruento. Per questo i Padri (1) e le liturgie (2) così di frequente parlando dell' Eucaristia toccano questo punto dell' identità del corpo di Cristo sotto le specie del pane e del vino, e del corpo di Cristo in croce. Ora certa cosa è che le particelle che compongono il corpo di Cristo glorioso non sono le identiche numericamente prese con quelle onde si componeva il corpo di Cristo o bambino, o adulto, o vivo ancora sulla croce; perocchè quel corpo divino e perdette e ricevette nuove particelle. Se adunque questa sottrazione e questa addizione di particelle materiali non pregiudica punto, che non vi abbia una verissima identità fra il corpo di Cristo nell' Eucarestia e il corpo di Cristo in fasce, in croce, nel sepolcro; egli è manifesto che l' accessione di alcune particelle al corpo glorioso non toglie punto nè poco la sua identità; nè impedisce che il corpo di Cristo nell' Eucarestia sia identico al corpo di Cristo risorto e sedente alla destra del Padre; perocchè queste particelle, come si diceva, niente mutano di essenziale in esso corpo del Redentore. Il che tanto più facilmente si dee concedere, quanto che si ritiene per fermissimo, che il corpo di Cristo glorioso non perde cosa alcuna di ciò che ha per sè; anzi noi riputeremmo empietà l' affermare, che perdesse qualche cosa di quello che ricevette in risorgendo, eccetto ciò che nell' Eucarestia gli viene aggiunto, il che egli anco depone senza alcuna sua pena o lesione, o diminuzione di sua integrità perfettissima. Egli è dunque certo e dimostrato che non si può sostenere la seconda delle due proposizioni, nella quale facemmo consistere quell' opinione contraria alla nostra che noi combattiamo: [...OMISSIS...] . Ora confesso che questa sentenza conta per sè delle autorità ragguardevolissime, le quali molto mi atterrirono e stolsero sul principio dal sostenere la contraria. Considerando però più maturamente mi rassicurai sulle seguenti tre ragioni: 1. Nessuna autorità io potei rinvenire chiaramente favorevole ad una tale sentenza anteriore agli scolastici. 2. Molte autorità contrarie ad essa a me pare di avere riscontrate ne' Padri più antichi e nella stessa Sacra Scrittura. 3. Quella sentenza involge delle difficoltà insuperabili ad ogni ragione teologica, sempre per quanto a me ne parve. Or avendo io già indicati i luoghi della Scrittura e de' Padri che stanno per la sentenza da me abbracciata (1) torrò qui a metter fuori le gravissime difficoltà, che a me si presentano come invincibili; e mi fanno abbandonare quella sentenza, per seguitar l' altra che ho esposta. E la prima difficoltà mi nasce da questo, che nel sistema degli avversarii il pane ed il vino rimarrebbero annichilati, cosa contro la dottrina comune e contro quella ammessa dagli avversarii medesimi. Or a veder ciò conviene rimuovere ogni vana sottigliezza e definire le parole secondo il senso comune degli uomini. Cominciamo adunque dal porre una vera e semplice definizione dell' annichilamento. Definizione del concetto di annichilamento . - « La cessazione intera dell' essere reale di una cosa si chiama annichilamento«. Osservazioni sull' indicata definizione. - Il nulla è opposto all' essere: la cessazione dell' essere è il nulla. Nelle cose si distingue l' essere e il modo dell' essere. La cessazion di un modo di essere non è ancora annichilamento: deve cessare l' essere stesso, e per conseguente tutti i suoi modi, tutta la possibilità de' suoi modi, perchè una cosa sussistente dicasi annichilita. Per ciò quando si dice che viene annichilito un modo di essere, un accidente, per esempio una forma o un colore, non si parla con tutta proprietà, ma si attribuisce al modo di essere una parola che di natura sua va applicata all' essere stesso. In secondo luogo la parola annichilamento esprime l' effetto di un agente senza relazione alla volontà o al modo di operare dell' agente. Poniamo che Iddio volesse annichilare un essere da lui creato; Iddio solo ha veramente questo potere di annichilare, come egli solo ha quel di creare, sebbene egli usi di questo secondo, e non mai di quel primo. In questa supposizione, l' azione di Dio non sarebbe già limitata a quel solo fatto dell' annichilamento; perocchè in Dio non può cadere che un atto solo e purissimo. Con quello stesso atto adunque egli creerebbe il mondo, collo stesso identico atto lo conserverebbe e governerebbe, e coll' atto pure identicamente il medesimo annichilerebbe quell' ente, che vorrebbe annichilare. Ora sebbene Iddio nell' operare abbia un fine solo e semplicissimo e con una sola azione operi ciò che fa; tuttavia l' effetto che questa azione ottiene in quell' ente che verrebbe annichilato, si chiamerebbe in senso vero e proprio annichilamento; perocchè questa parola, come dicevo, non involge alcuna relazione col modo dell' azione dell' agente, ma si restringe a dimostrare l' effetto quale si ottiene nell' ente che cessa di essere. Che se fosse altramente non potrebbe mai essere possibile l' annichilamento; perocchè è certo, 1. che niuno può annichilare le cose eccetto Dio, 2. è ugualmente certo che se Iddio annichilasse un ente la sua azione non si limiterebbe nè finirebbe in questo solo effetto, poichè l' opera di Dio è semplice, e con un atto solo e purissimo fa tutte le cose. Dunque perchè si trovi il concetto dell' annichilamento non è necessario imaginare un' azione limitata, la quale termini e si restringa nel suo operare in quel solo effetto della distruzione dell' essere, e non proceda punto più innanzi. Indi non posso io a meno di dipartirmi dal sentimento del gran Bellarmino circa il concetto dell' annichilamento. Pretende questo grand' uomo che l' annichilamento esiga che l' azione che fa cessare l' essere di una cosa debba cessare in questo effetto; e che se l' azione stessa, dopo avere annichilato un ente, ne crea un altro, non si abbia più il concetto dell' annichilazione. Ma parlando sempre col più profondo rispetto d' un uomo santo e sapiente io non posso vedere in ciò che una pura sottigliezza d' ingegno, a cui ricorse il Bellarmino nella persuasione che di lei avesse bisogno la sentenza cattolica intorno all' Eucarestia. Ma questa non ha alcun bisogno di ciò; ed anzi ella riceverebbe pregiudizio non leggero dall' ammettere, che il « cessamento dell' essere di una cosa non sia annichilamento per questo solo che l' azione che fa cessare l' essere non termini in questa cessazione, ma produca qualche altro effetto«. » Ogni qualvolta adunque cessa l' essere reale di una cosa interamente ella è annichilata, senza bisogno poi di cercare il modo onde fu annichilata, e se avvenne con un' azione terminante in tale distruzione o procedente a qualche altro effetto. Or di qui viene la conseguenza evidente che non può stare la sentenza de' nostri avversarii. Perocchè dicendo essi che il pane ed il vino si cangiano in quelle identiche particelle, che ha il corpo di Cristo prima della consecrazione; ne seguita ineluttabilmente che il pane ed il vino rimarrebbero annichilati . Ma questo pugna al tutto coi principii della teologia cristiana. Perocchè secondo questi principii è ammesso per certo da tutti e da' nostri avversarii stessi: 1. Che Iddio non distrugge alcuna cosa di tutto ciò che ha creato secondo quelle parole della Scrittura: [...OMISSIS...] . 2. Di che parimente si tiene per certissimo non essere annichilato nè pure il pane ed il vino mediante la consecrazione, ma trasmutato nel corpo e nel sangue di Cristo. Conviene adunque muovere il ragionamento intorno all' Eucarestia da questo principio teologico fuori di controversia:« che il pane ed il vino nella consecrazione non viene annichilato«. Ammesso questo principio, si consideri se v' ha una via da sostenere che il pane ed il vino si converta nelle identiche particelle che compongono il corpo di Cristo innanzi la consecrazione, senza che quel pane e quel vino rimanga per questo annichilato. Il Bellarmino vide che queste due cose non si potevano conciliare insieme. Egli dunque si appose a mutare il concetto dell' annichilazione. [...OMISSIS...] Chi non sente avervi qui una sottigliezza, e nulla più? Sia pure che l' azione non termini al niente; ma il pane ed il vino non rimane ugualmente annichilato, sebbene dopo la loro annichilazione continui l' agente nell' operare? che fa mai al pane e al vino quell' azione che continua, dopo che essi non sono più? L' effetto che avviene nel pane e nel vino è il medesimo o sia che l' azione continui, o che ivi termini: questo effetto è la cessazione intera dell' essere del pane e del vino. Dunque è una vera annichilazione nella opinione difesa dal Bellarmino (2). Questi illustra con un esempio naturale il suo concetto dell' annichilazione dicendo: [...OMISSIS...] . Ma qui sono a farsi più osservazioni; eccone alcune: 1. Le parole« annichilazione, annichilare« ecc., non possono aver luogo con piena proprietà parlandosi di una distruzione di forma, perocchè esse valgono, come abbiam detto, a significare la cessazione dell' essere, anzichè del modo dell' essere. 2. Quando si voglia applicare la parola annichilare ad esprimere la distruzione della forma, vorrei io ben sapere perchè non si potrà dire, che la forma dell' acqua, essendosi ella cangiata in vapore, non sia veramente annichilata? che cosa esprime questa parola, secondo la stessa etimologia, se non ridotta al niente? Se dunque la forma dell' acqua è ridotta al niente, non esiste più del tutto: onde mai non si potrà dire ch' ella siasi annichilata? non è ella una vera sottigliezza scolastica il dire, che sebbene quella forma sia ridotta al niente, tuttavia non è annichilata, perchè l' azione che la ridusse al niente continua, terminando in un' altra forma? che distinzione arbitraria e sottile non è questa, colla quale si vorrebbe stabilire che altro è ridursi al niente una cosa, altro è annichilarsi? 3. Non si dà e non si può dare mai il caso, che venga distrutta la forma di una materia, senza che questa materia non prenda un' altra forma, appunto perchè la materia senza forma non istà; e qui si suppone, che la materia non sia ridotta al niente. Il nostro rispettabile autore introdusse dunque un esempio nel quale, secondo le sue dottrine, l' annichilamento quanto alla forma è impossibile; perocchè è impossibile che si annichili ogni forma, rimanendo la materia. L' esempio adunque non era idoneo a far conoscere la distinzione fra l' annichilare e il ridurre al niente; perocchè non può il Bellarmino indicare quando sia una forma annichilata, non cadendo in esse (secondo lui) l' annichilamento. 4. Nell' esempio recato non sarebbe vero che il cangiamento dell' acqua in aria si farebbe per una azione sola, da un solo agente e rimanendo le stesse disposizioni; anzi è da dire che la trasformazione dell' acqua in aere è una serie di azioni che le une alle altre si succedono, sono più gli agenti, più i modi loro di operare e le disposizioni nelle quali operano. Non può adunque convenire l' esempio addotto ad aggiungere o chiarezza o forza all' opinione che confutiamo. 5. Finalmente, nell' esempio indicato la distruzione di una forma, è il medesimo che la formazione di un' altra forma; conciossiachè senza forma non può stare la materia. Allo stesso modo adunque che si dice l' una distruggersi, l' altra può dirsi prodursi nell' esser suo. All' incontro nell' Eucarestia non potrebbe dirsi nella sentenza degli avversarii, che il corpo di Cristo vien prodotto nello stesso modo e nello stesso senso in cui si dice che il pane ed il vino viene distrutto. L' esempio adunque non va di pari. Ma cerchiamo di mostrare ancora l' inutilità della distinzione, che si vorrebbe introdurre fra l' annichilare e il ridurre al niente . A qual fine si pone una tal distinzione? Per potere evitare lo scoglio, che il pane ed il vino nella consecrazione si annichilino. Ma coll' evitare questa parola si evita però l' inconveniente che con quella parola si esprime? No, perocchè quell' inconveniente sta anche senza quella parola, e con altre parole può essere significato. E veramente i Teologi a provare che niente viene annichilato di tutto ciò che Iddio una volta ha cavato dal nulla usano degli argomenti or cavati dall' autorità della Scrittura, ora dalla ragione teologica; e gli uni e gli altri mostrano qual sia l' inconveniente che si vuol evitare, collo stabilire la durazione sempiterna delle cose create, senza alcun bisogno di adoperare questa parola di annichilazione. A ragion d' esempio, una delle testimonianze scritturali, che provano la durazione degli esseri è questo luogo dell' Ecclesiaste « ho imparato che tutte le opere che ha fatto Iddio perseverano in perpetuo« (1). » Qui non si usa la parola annichilamento; ma il concetto è tuttavia chiarissimo. Sia adunque, se così si vuole, che l' essere del pane e del vino non si annichili, ma si confessa però che dopo la consecrazione quell' essere è ridotto al niente: dunque quest' opera di Dio non persevera in eterno, contro ciò che pone quel luogo chiarissimo delle Scritture. Nel nostro sistema all' incontro sebbene la sostanza sia trasmutata e non sia più sostanza di pane e di vino ma sostanza del corpo di Cristo; tuttavia niun essere creato è perito, ma solo immensamente nobilitato. Ci si dica di grazia, supponiamo si facesse l' inventario di tutti gli esseri da Dio creati. Or nel sistema degli avversarii nostri dopo la consecrazione converrebbe scancellare dal novero di detti esseri il pane ed il vino; perocchè non basta dire che il corpo di Cristo è in una maniera nuova: egli non avrebbe ricevuto alcuna accessione, sarebbe adunque mancante nel novero delle cose un essere sostanziale, e non si sarebbe aggiunto tutto al più che un cotal modo di essere, se pur questo stesso modo nuovo di essere si potesse (in detto sistema) sostenere. Veniamo alla ragion teologica. Ecco come S. Tommaso prova, che Dio non riduce al niente cosa alcuna delle già formate. [...OMISSIS...] Ora il pane ed il vino sarebbero esseri creati, che cesserebbero affatto, come detto è, nella consecrazione; e però non sarebbe in essa dimostramento dell' infinita bontà di Dio. All' opposto quanto la bontà non si dimostra nel sistema nostro, nel quale queste creature divine, voglio dire il pane ed il vino, vengono sublimati sino a mescersi e transustanziarsi veramente nelle carni e nel sangue glorioso di Gesù Cristo? Una seconda difficoltà per me nasce gravissima dal concetto di TRANSUSTANZIAZIONE. Conviene aver presente esser cosa pienamente decisa dal sacro santo Concilio di Trento, che la parola transustanziazione conviene all' Eucarestia in un senso proprio, conveniente, attissimo a significare « la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo « (2). » Or dunque non è lecito d' interpretare questa parola di transustanziazione in un senso lato e non proprio; ma si dee intendere per essa rigorosamente una conversione della sostanza del pane e del vino, nella sostanza del corpo e del sangue. Ora nella nostra sentenza il concetto di transustanziazione si ritrova avverato a rigore. Ma questo concetto io nol ritrovo nella sentenza degli avversari. E veramente essi fanno consistere la transustanziazione in un' operazione, in virtù della quale vien ridotta al niente la sostanza del pane e del vino, e sotto le specie del pane e del vino stesso si colloca il corpo di Cristo. Ma in tutto questo io non veggo che due operazioni successive, cioè 1. l' annichilazione del pane e del vino, del quale non rimangono che gli accidenti, 2. l' adducimento del corpo e del sangue di Cristo nel posto della sostanza del pane e del vino annichilato. Ora gli avversari sostengono all' opposto: 1. Che questa non è che una sola operazione, la qual termina coll' adducimento del corpo e del sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino. 2. Che quest' unica operazione si chiama propriamente e idoneamente transustanziazione (3). Ma io non posso accordare loro, come dicevo, nè l' una nè l' altra di queste due proposizioni, parendomi, che le operazioni o per dir meglio gli effetti sieno due e distintissimi, e che ad essi manchi il vero concetto, che noi dobbiamo gelosamente conservare di TRANSUSTANZIAZIONE, nel quale solo sta la cattolica verità. Vediamo adunque prima se nel sistema degli avversari nella consecrazione interverrebbe una azione sola o due: il Bellarmino ne sente tutta la difficoltà, ed ecco come a sè la propone, e come le risponde: [...OMISSIS...] . Questa obbiezione è fortissima; perocchè avea concesso il Bellarmino stesso che « la conversione in quanto distrugge il pane non è tanto un' azione quanto negazione di azione. Perocchè Dio distrugge il pane cessando dal conservarlo« (2). » Ora negazione di azione ed azione sono opposti come il sì e il no: come due contrarii si potranno [chiamare] una sola e semplice azione? Non trova altro rifugio il Bellarmino, che quello di ricorrere alla unità della volontà divina. [...OMISSIS...] Ciascun uomo spassionato e imparziale giudichi se questa risposta possa soddisfare. Non è egli evidente, che se si vuol ricorrere all' unità della volizione divina non si troverebbe giammai moltiplicità di azioni, perocchè in Dio tutte le azioni ch' egli fa è un' azione sola, ed ha un solo semplicissimo fine di suo operare? ma basterà questo a provare che la transustanziazione sia un' azione sola? Supponiamo che il pane sostenesse mille trasmutazioni diverse, per un miracolo della divina onnipotenza, non sarebbero sempre in Dio operate con una sola azione? Il Bellarmino qui prova troppo; perchè il suo argomento non solo proverebbe, che si dà un' azione sola nella consecrazione, ma in tutto l' universo, e che non si può dare di più che un' azione sola. Non è adunque dal fine di Dio, e dal modo dell' operar suo, che noi dobbiamo rilevare se l' azione sia una o più. Dobbiamo considerarla in sè stessa quest' azione, dobbiamo considerarla in ciò che produce; e se l' effetto è un solo diremo una l' azione, ma diremo che molte azioni si ravvisano in molti effetti distinti interamente fra loro, e l' un de' quali non è causa efficiente dell' altro. Conciossiachè, quando si parla dell' unità di azione che si trova nella transustanziazione non si fa questo discorso per sapere come l' azione avvenga in Dio, ma come si faccia nel soggetto stesso in cui viene l' azione. Il Bellarmino costituisce veramente due soggetti nella transustanziazione interamente diversi anco nell' essere; perocchè dice: « il soggetto nel quale si riceve l' azione divina di questa conversione parte è il pane, parte il corpo di Cristo« (1). » Ora qui si dice« il soggetto« e non dice« i soggetti« per far credere che non vi abbia che un soggetto solo; e l' impegno di far credere ciò mostra che il Bellarmino sentiva la necessità che un solo fosse radicalmente il soggetto della conversione almeno quanto all' essere comune, come sentiva la necessità che una sola azione v' intervenisse. Mi dica ciascuno con semplice e retta mente, se nel pane e nel corpo di Cristo nel sistema del Bellarmino possa notarsi un solo soggetto nè pure in quanto all' essere, e non anzi sieno due distintissimi e incommunicabili; giacchè uno di essi, cioè il pane si annichila, e l' altro, cioè il corpo di Cristo, viene addotto nel luogo del pane annichilato, solamente il pane non è più. Ora se due sono i soggetti assolutamente distinti, e interamente distinti anche quanto all' essere che ricevono, due effetti interamente diversi e successivi, cioè uno negativo la distruzione, l' altro positivo cioè l' adducimento; dica ciascuno se l' azione in quanto si fa e si compie ne' soggetti può essere una sola e non anzi due, e separatissime. All' opposto ammettendo con S. Tommaso che vi abbia di comune nel pane e nel corpo di Cristo l' essere (2), sebbene si cangi il soggetto pane, e diventi soggetto la carne di Cristo; tuttavia la identità della radice di questi due soggetti cangiati, cioè l' essere, fa sì che l' azione possa essere unica e semplicissima. Ma udiamo come il Bellarmino rende ragione del suo soggetto. [...OMISSIS...] Ora che forza hanno queste parole « quell' azione come conversione si riceve nel pane?« » Io non trovo in esse un significato. Intendo bensì che quell' azione come annichilamento si riceva nel pane, ma non come conversione. E veramente il pane si annichila, come mostrammo nel sistema de' nostri avversari; e se non vogliamo che pronunci questa dura parola« si annichila«, dirò quella che usano essi stessi « si distrugge, si riduce al niente, perisce« (2). Or bene quando il pane non c' è più, ha finito di convertirsi; esso cessa di essere, e dopo ciò egli non riceve nè fa altra azione; egli dunque non riceve la conversione, ma solo, come dicevamo, l' annichilazione. E` vero che nella mente di Dio si suppone che stia il fine di annichilar quel pane per condurvi in suo luogo il corpo di Cristo: la intenzione non basta, il dirò ancora, a costituire una azione che sia ricevuta nel pane. Da tutte le cose dette è facile di provare la seconda delle nostre tesi, che nel sistema degli avversari manca il vero e proprio concetto di transustanziazione , a cui voglion supplire interpretando questa parola con vana sottigliezza in un significato diverso da quel che suona. E veramente il Bellarmino pone a prima condizione della conversione d' una cosa in altra, che « qualche cosa cessi di essere, cioè quella cosa che si converte« (3). » Or nel suo sistema si converte l' essere stesso che è nel pane, e però cessa interamente l' essere stesso, il che abbiam detto chiamarsi annichilazione. Or dopo che il pane ha cessato d' essere, allora viene addotto nel luogo del pane il corpo di Cristo. Ma questa seconda operazione non risguarda più il pane (se non fosse nell' intenzione dell' operante) perocchè il pane non esiste più ne può più essere convertito in cosa alcuna. Dunque il pane si annichila bensì, ma non veramente si converte, non diventa egli vero corpo di Cristo, non si transustanzia, ma solo a lui succede il corpo di Cristo quando egli già non è più. E qui appunto il Bellarmino crede che al concetto di una vera conversione e transustanziazione basti che « una cosa succeda nel luogo dell' altra distrutta » purchè però ci sia «« una certa connessione fra il cessare di una e il succedere dell' altra, di maniera che l' una cosa finisca acciocchè l' altra succeda e la successione avvenga per quella forza onde la cosa è cessata« (1). » Ma io domando qual connessione vi può essere fra una cosa quand' è annichilata, ed una che viene in suo luogo? niuna connessione reale vi ha più, e se ci avesse una connessione prima di essere annichilata, nel punto in cui ella s' annichila, s' annichila con lei ogni connessione. Dunque questa connessione sarà nella unità della forza, giacchè una forza stessa che annichila è quella che fa succedere la cosa nel luogo della annichilata. Questo pure è assurdo, perocchè la forza che annichila non sarà mai quella che produce: ci vogliono a queste due azioni forze diverse, o più tosto, come osserva lo stesso Bellarmino, una cessazione dell' azione di Dio che conserva il pane per annichilarlo, e un' opera positiva per addurvi il corpo di Cristo. Dunque l' una cosa non vien fatta per l' identica forza onde vien fatta l' altra, non fit successio vi desitionis : tanto più che quella vis desitionis è una improprietà di parlare, quando non è una forza quella che fa cessare, ma un sottraimento di forza. Non ci può dunque essere connessione alcuna fra l' annichilamento e l' adduzione o produzione, se non l' unità d' intenzione e di fine nell' operante; ma questa connessione si termina tutta nella mente e nell' animo dell' operante, e non passa come abbiam veduto nell' esterno dell' azione, nè può costituire la sua unicità o moltiplicità. Per queste ragioni S. Tommaso riconosce, che ponendo che il pane si riduca veramente al niente, il concetto della transustanziazione non può più rimanere. [...OMISSIS...] Nè può già intendersi, che S. Tommaso insista sulla parola annichilazione presa nel senso del Bellarmino, perocchè il suo argomento vale ogni qual volta il pane avesse interamente cessato in tutto l' essere, e non solo nell' esser di pane (1): conciossiachè quando il pane fosse una volta cessato interamente, anche quanto all' essere, non si potrebbe più convertire, eziandio che nella mente di Dio stesse il pensiero di averlo fatto cessare per sostituire in luogo di lui il corpo di Cristo; nè conversione ci potrebbe essere, ma solo successione, sostituizione o altro simile. Il perchè S. Tommaso s' attiene come a fermissimo punto e articolo di fede a questo, che il pane si debba « propriamente e veramente convertire nel corpo di Cristo« » e non solamente dar luogo a questo col cessare di essere interamente: e mantiene questo dogma sì fermo, che nol rimuove da ciò qualsivoglia difficoltà a spiegarlo; perocchè non è necessario spiegarlo, ma crederlo e conservarlo. Or non si dee interpretare la mente di S. Tommaso con troppa sicurezza, la qual più si dee guardare bensì dov' ella è costretta di più manifestarsi, cioè nell' angustia delle obbiezioni. Il grand' uomo a ragione d' esempio sente assai chiaro, che se dopo la consecrazione la materia che prima era pane non si trovasse in luogo alcuno, non potrebbe fuggirsi dal concederla annichilata e però si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . Or si oda qual sia la via, che unica trova S. Tommaso per la quale farsi contro a questa obbiezione. Risponde egli: [...OMISSIS...] . E odasi l' esempio onde spiega una tale risposta al sistema nostro acconcissima: [...OMISSIS...] . Il santo Dottore riconosce adunque, che la sostanza del pane non si annichila, perchè si cangia in quella del corpo di Cristo; come non s' annichila l' aere, che nutre il fuoco. Ora l' aere nella conversione non si converte già in particelle di materia, che preesistevano, il che sarebbe impossibile a concepire senza che egli si annichilasse, ma le particelle sue prendono un' altra natura, diventano veramente fuoco e cessano dall' esser aere. Così avviene nel sistema nostro, nel qual solo si salva, pare a noi, una vera TRANSUSTANZIAZIONE del pane e del vino. E però non è una vana sottigliezza quella del Cardinale Gaetano, il quale commentando S. Tommaso (2) concede che dopo la consecrazione non rimanga nessuna parte del pane, e tuttavia insegna rimaner ciò, che fu pane, di guisa che dir si possa veramente: ciò che fu pane, ora è corpo di Cristo (3). Ma anzi egli è tanto necessario potersi dir questo, che se dir non si potesse, in nessuna maniera sarebbe seguìta vera e propria transustanziazione. Però io non posso nè pur qui sentirla col Bellarmino il quale non trova necessario, che rimanga ciò che fu pane, e a provarlo reca delle similitudini naturali dicendo: [...OMISSIS...] . Qui evidentemente prende sbaglio l' uomo grande; perocchè in tali naturali trasformazioni, la materia non perisce, e però può dirsi che rimanga tutto ciò che fu legno ed acqua: e che la materia che rimane sia stata veramente ed acqua e legno. Non conviene adunque far violenza al significato delle parole per sostenere una opinione particolare, tanto più che qui si tratta di cosa che può toccare la fede stessa. Perocchè avendo definito la Chiesa come articolo di fede, che nella consecrazione segue una vera transustanziazione ; non si dee mica credere che la definizione della Chiesa riguardi semplicemente l' autenticazione dell' uso della parola; ma più tosto hassi a dire che la medesima Chiesa ebbe in animo di fissare per dogma ciò che la parola significa e ciò che significa in senso proprio e vero, come apparisce dal Concilio di Trento (1). Il perchè non credo io che si possa alterare il vero e proprio significato della parola transustanziazione , senza che rimanga tocca con ciò qualche cosa che appartiene alla fede. Or il significato delle parole convien desumersi dall' uso. Però chi mai non fa differenza tra il succedere una cosa nel posto di un' altra che perisce, e il transustanziarsi l' una nell' altra? non sono questi due concetti al tutto distinti? e se sono per sè distinti, basterà l' intenzione che ha chi distrugge una cosa di sostituirgliene un' altra per poter dire che la prima cosa fu nell' altra convertita e transmutata? Niuno mai dirà ciò. Nè pure basta a far ciò la distinzione, che fa il Bellarmino fra la conversione che chiama adduttiva , e quella che chiama conservativa . Il termine, così spiega la cosa il Bellarmino, il termine in cui la cosa si trasmuta esiste tanto nella conversione adduttiva , che nella conservativa : e nell' una e nell' altra cessa di essere ciò che si trasmuta; ma nella conservativa la cosa che si trasmuta cangia di luogo, nell' adduttiva non cangia. A cagion d' esempio: [...OMISSIS...] . Ora più cose sono qui da osservarsi. 1. Non si vede perchè la prima specie di conversione si chiami conservativa più tosto che annichilativa ; giacchè non avviene altro di nuovo che l' annichilazione di uno de' due corpi: questo è l' unico fatto nuovo che veramente è intervenuto. 2. Nè la conversione adduttiva nè la conservativa , come le descrive il Bellarmino, sono vere e proprie conversioni, ma solo sono conversioni apparenti, e però tali a cui il nome di conversione non appartiene in proprio, ma solo in senso accomodatizio. E di vero in quelle due pretese conversioni non è avvenuto se non 1. l' annichilazione vera e reale di uno de' due oggetti; 2. la sostituzione dell' altro nel luogo del primo, o sia che si sostituisca facendogli mutare il luogo, o conservando anche il proprio luogo. Ora niente di ciò forma una vera conversione; altrimenti sarebbe conversione e transustanziazione anche quella del giocoliere, il quale sostituisce con un solo tratto di mano, e per così dire con una sola azione, una palla ad un' altra, un soggetto ad un altro (1); egli è una bella e buona sostituzione: nè essa muta punto la sua natura, o che l' oggetto che si sottrae s' annichili, o pure che si conservi; perocchè il conservarsi o l' annichilirsi dell' oggetto in cui luogo si mette un altro è straniero alla natura dell' atto di sostituzione. Da quello che è detto nasce un' altra difficoltà nel sistema degli avversari. E` cosa certa presso i cattolici, ed ammesso dallo stesso Bellarmino, che la transustanziazione non avviene già successivamente, ma in un solo istante (2). Ora nel sistema del Bellarmino questo non può aver luogo. E veramente se si trattasse di una successione di accidenti, si potrebbe in qualche modo intendere che nell' istante medesimo che cessa un accidente, ne venga un altro sostituito: perchè il cessare e il prodursi l' accidente nuovo è il medesimo atto considerato da noi con due relazioni. Così se in un corpo di molle creta io pongo un dito, l' incavo ch' io ci fo è ad un tempo distruzione della precedente figura, e sostituzione della nuova (1): ma questo nasce perchè le figure nel caso nostro non sono che modi di essere, e non esseri: l' essere stesso, il corpo, non si è trasformato, egli ha mutato il suo modo, e questo s' intende farsi in uno istante. Non così quando dovesse cessare non il modo dell' essere, ma l' essere stesso: perocchè la cessazione di un altro essere non è mica cosa identica colla sostituzione di un altro essere, che è indipendente al tutto per sua natura dal primo: quando all' opposto la cessazione di un modo e la sostituzione dell' altro è una ed identica cosa, come si diceva. Però dovendo nel sistema de' nostri avversari prima cessare interamente l' essere, e poi ivi addursi un essere nuovo, è impossibile il non trovarsi per lo meno tre istanti assai distinti fra loro, cioè: 1. quello in cui cessa l' essere; 2. quello in cui è cessato interamente il pane e non ancora addotto il corpo di Cristo; 3. e finalmente quello in cui il corpo di Cristo viene addotto. E veramente il corpo di Cristo non viene addotto se non quando il pane interamente è già cessato; altramente vi sarebbe un istante in cui si troverebbero insieme il pane ed il corpo di Cristo: ciò che saprebbe di eresia. Tutto al più si potrebbero forse questi istanti ridurre a due, cioè all' atto onde il pane viene distrutto e all' altro onde il corpo di Cristo viene addotto, senza notare l' istante di mezzo; ma ad uno istante solo non si può ridurre giammai una tale conversione, che risulta da due operazioni essenzialmente successive. All' incontro nel sistema nostro la transustanziazione s' intende avvenire in un minimo istante; perocchè si tratta di una vera conversione e transustanziazione, di un vero ed unico atto. Secondo noi perisce bensì tutto l' essere del pane, cessa interamente il soggetto pane; ma non per questo cessa ogni essere, non per questo cessa ciò che S. Tommaso chiama l' essere comune (che però solo non mai sussiste), e però nell' atto medesimo che il pane cessa, è già il corpo di Cristo. Questa istantaneità assoluta è, secondo noi, un carattere essenziale e proprio della transustanziazione. Abbiamo provato che nel sistema degli avversarii interviene l' annichilazione (1). Ma quando anco si volesse evitare questa parola, rimarrebbe il senso della medesima gravitante sopra il loro sistema. Il Bellarmino afferma che il pane perisce intieramente, e che perisce perchè Iddio cessa di conservarlo: [...OMISSIS...] . Ora, io osservo, che nel presente fatto Iddio cesserebbe interamente, secondo lo stesso Bellarmino, dal conservare una sua creatura, e cessando dal conservarla la distruggerebbe in tutto l' esser suo. Intralasciando ciò che abbiam notato di sopra della ripugnanza e sconvenienza intrinseca che in ciò si trova, così pure ragiono. Nessun altro caso si può accennare in cui Iddio distrugga una sua creatura cessando dal conservarne l' essere; egli di cui è scritto: [...OMISSIS...] . Ora ciò di cui non v' ha che un caso solo ed unico, è alquanto ripugnante dall' operare divino, che suol esercitare la sua possenza secondo certe stabili leggi, anche allorquando l' adopera in un ordine superiore alla natura. Ma oltrecciò, dove cadrebbe egli questo caso unico, questo fenomeno così isolato, in cui si vedrebbe Iddio divenuto quasi crudele e inimico alle sue creature? giacchè egli sottrarebbe ad esse l' intimo loro essere, che è quanto dire tutto ciò che sono? Nel Sacramento dell' amore, nel Sacramento nel quale ha voluto sfoggiare i portenti della sua liberalità, l' infinita prodigalità, per così dire, de' suoi tesori; nel Sacramento, dove veramente ha preteso di sfoggiare fino all' eccesso l' onnipotenza della sua virtù creatrice. E tutto ciò senza niun bisogno del mondo. Perocchè quando avesse voluto darci sè stesso in cibo, che uopo ci poteva egli avere di distruggere un essere da lui creato, per cavargli gli accidenti quasi fossero una sua camicia, e vestirsene egli? non potea senza più, darsi a noi in cibo sotto forma di pane creando intorno a sè degli accidenti, più tosto che distruggendo una sostanza perchè a suo uso rimanessergli gli accidenti di quella? io per me credo, che quando non avesse Cristo voluto convertire veramente in sè il pane, ma egli fosse piaciuto di darsi a noi in cibo senza questa conversione, era assai più conveniente a' suoi attributi l' essere in tale atto creatore degli accidenti, che non sia distruttore e propriamente vero annichilatore di sostanze. Ma mi si risponde: [...OMISSIS...] . Appunto gli umani ragionamenti debbon cessare rincontro alla parola di Dio: per questo è che dico io, che dovete cessare voi dall' introdurre una cotale annichilazione di un essere nel fatto della consecrazione; perocchè voi ce l' avete introdotta per un ragionamento umano, che non si trova nella parola del Signore. Questo è quello che osserva egregiamente il Dottore angelico, il quale appunto dice: [...OMISSIS...] . Conviene appunto attenersi a queste parole: « Questo è il mio corpo«: » elle esprimono una sola azione positiva di Dio, e non mai nessuna azione negativa, nessuna cessazione di azione: l' uomo adunque non la v' introduca. Questa proposizione viene a dire, che il pane viene assunto dal corpo di Cristo, non viceversa il corpo di Cristo dal pane. Ma nel sistema degli avversari il pane non può venire assunto perchè egli viene interamente distrutto, non solo come pane, ma ben anco come un essere. Però il Bellarmino è costretto di dare una interpretazione alquanto curiosa a quel detto de' Padri dicendo, che egli accorda che nasca la mutazione nel pane, ma una mutazione« deperditiva«: così egli la chiama. Non è però un parlar chiaro cotesto: nessuna propria mutazione nè conversione può nascer nel pane, secondo il sistema del N. A., ma solo la distruzione o annichilazione del pane. Ecco le parole del Bellarmino: [...OMISSIS...] . Ora dall' istante che per mutazione deperditiva s' intende la totale distruzione del pane quanto allo stesso esser comune, questa mutazione non è più tale, che in essa si comprenda il cominciar Cristo ad esser nel Sacramento; però questo nuovo esser di Cristo non s' acchiude nella mutazione del pane intesa, come fa il Bellarmino, ma a quella [che] sussegue senza un vincolo di naturale e necessaria dipendenza. Non è dunque più vero che Cristo vien ad essere nel Sacramento per la mutazione del pane; questa mutazione deperditiva del pane non dà che il luogo dove deve Cristo collocarsi; ma colà vi si colloca Cristo da Dio con un altro atto, non con quello della mutazione del pane. S' oda se nelle parole stesse del Bellarmino tutto ciò non si trova. A quelle che ho ultimamente recate seguono queste altre: [...OMISSIS...] . Ora in questo sistema: 1. Si tiene il giusto e antico linguaggio dicendo sempre che ogni cosa si fa per conversione del pane, « per conversionem panis idem corpus in sacra hostia ponitur », ma questa conversione del pane si spiega per una mutazione deperditiva, « intelligi debet de mutatione deperditiva », che non è altro che la intera cessazione dell' essere del pane stesso. 2. Si pongono due mutazioni separate una nel pane, la distruzione e annichilazione, e l' altra nel corpo di Cristo, l' adduzione; le quali senza un nesso loro intrinseco e fisico non si congiungono se non per una relazione esteriore che sta nella mente di Dio, il qual prima annienta il pane e poi adduce il corpo di Cristo. 3. Finalmente nè nella mutazione del pane nè in quella del corpo di Cristo si trova il concetto della transustanziazione. - Non si trova nella mutazione che avviene nel pane, come di sopra dicemmo, perocchè egli si distrugge, e distrutto interamente che egli sia non può convertirsi in altro: non succede nella mutazione del corpo di Cristo, perocchè il Bellarmino stesso confessa, che una mutazione sì fatta vien ricevuta nel corpo del Signore « non quidem ut conversio sed ut adductio est »: ella è una adduzione, ma non una conversione. Nè in tutte e due queste mutazioni insieme prese si trova; perocchè nel loro esser fisico sono al tutto separate, come dicevamo, e non possono formare una cosa sola, come sola è l' operazione che indica la parola conversione o transustanziazione. Dalle quali cose tutte apparisce, che il Bellarmino ammette questi due dogmi: 1. che tutta la sostanza del pane e del vino cessi interamente nell' Eucarestia; 2. che v' abbia la presenza vera, reale e sostanziale del corpo di Cristo. Quanto poi al terzo, che cessi il pane e si adduca sotto agli accidenti di lui il corpo di Cristo in virtù della conversione o della transustanziazione, questo è un terzo dogma che riconosce a chiare parole il venerabile autore (1), il che basta per collocare la sua fede fuori d' ogni controversia. Ma quando si tratta poi di spiegare in che modo nasce questa transustanziazione in virtù della quale debbono avvenire que' due fatti contemporanei e unificati della cessazione di tutta la sostanza del pane, e della presenza del corpo di Cristo; allora pare a noi, che l' uom grande entri in un sistema che non può stare col principio che egli stesso accorda e fermamente crede, cioè « l' avvenire di que' fatti per l' efficacia della transustanziazione« (1). » E qui voglio avvertire, che a parer mio questo della« transustanziazione« è anzi il dogma cardinale del mistero Eucaristico: di maniera che gli altri due sopra toccati dogmi s' attengono a questo, sono conseguenze necessarie di questo terzo della transustanziazione: perocchè la transustanziazione contiene in sè e la cessazione della sostanza del pane, e il ponimento della carne di Cristo. Per tutte le quali cose sapientissimamente la Bolla Auctorem Fidei condannò nel Sinodo di Pistoia quella proposizione, colla quale voleva restringere le istruzioni popolari de' Parroci sul Sacramento dell' Eucarestia a que' due primi dogmi della presenza reale e della cessazione del pane, ommettendo il terzo principale di tutti, cioè quello della transustanziazione (2). Riassumendo adunque il sistema degli avversarii essi sostengono: 1. Che Iddio fa cessare interamente non solo il pane come sostanza, il che diciamo anche noi, ma ancora come essere , ristando dal conservarne al tutto l' entità. 2. Che distrutto così il pane e conservati solo gli accidenti, Iddio adduca sotto gli accidenti il corpo di Cristo che è in cielo, senza mutar di luogo. 3. Che la distruzione del pane sia fatta da Dio coll' intenzione e col fine di addurre in suo luogo il corpo di Cristo. 4. Che mediante questa intenzione e fine unico che ha Dio, possa convenire alla distruzione del pane, e alla successione del corpo di Cristo il nome di conversione o transustanziazione del pane nel corpo di Cristo. Noi abbiam negato che a tai successioni di cose convenga veramente o propriamente un tal nome, e abbiam detto per ciò che in tal sistema non si può dire che« il pane si converta e si transustanzii« ma solo che cessi per dar luogo al corpo di Cristo. Abbiam detto altresì che non si può dire che sia nel pane più tosto che in Cristo che avvenga la mutazione, o che il pane si converta in meglio, maniere usate da' più autorevoli scrittori della Chiesa. Ora aggiungiamo che nel sistema degli avversarii non [si] saprebbe spiegare come potessero avere la loro chiara verità tante altre maniere di dire consecrate dalla più antica e più costante tradizione: e perchè più tosto non si trovino adoperate tante altre (1). Rechiamo l' esempio di alcune. 1. S. Gaudenzio di Brescia dice del pane Eucaristico: [...OMISSIS...] . Or come si dice qui che il pane è fatto celeste, se egli non fosse veramente cangiato in meglio, ma al tutto annichilato? non può esser fatto celeste quel pane che dopo distrutto non è più atto a diventare cosa alcuna, ma bensì quello che essendo diventato carne di Cristo fu distrutto in questo, e per questo, che fu cangiato in meglio? E si noti il modo onde S. Gaudenzio dice il pane fu trasmutato: « Cristo passò in lui«. » Che vuol dir ciò? non certo che si trasmuta in esso, ma bene lo rivestì colla sua divina vita ed onnipotente, che lo rapì a sè appropriandolsi e veramente cangiandol tutto in carne e sangue suo. Il luogo adunque di S. Gaudenzio mirabilmente esprime il nostro sistema. 2. S. Ambrogio dice « ove s' appone la consecrazione del pane si fa il corpo di Cristo« (2). De pane FIT corpus Christi : » maniera usata pure dal medesimo S. Gaudenzio « De pane EFFICIT proprium corpus « (3). » Con questa frase non volevano già esprimere gli antichi Padri, che il corpo di Cristo si componesse di pane, assurda cosa; ma bensì il pane si convertisse veramente nel corpo di Cristo, cessando così interamente di esser pane. Se ciò non fosse avrebbero essi parlato in modo così equivoco da dire costantemente che « del pane si fa il corpo di Cristo« » per voler dire che il corpo di Cristo succede al pane il quale cessa del tutto di essere? e che costava loro ad adoperare queste ultime parole almeno qualche volta, che non avrebbero dato cagion di errare, se tale fosse stato il loro avviso? 3. Simiglianti alle indicate sono le maniere di dire seguenti: « il pane ed il vino DIVENTA corpo e sangue di Cristo« (1)« mutare o trasmutare le nature« (2); » le quali non potrebbero mai convenire a nature che cessassero dall' essere conservate, come è nel sistema de' nostri avversarii. 4. S. Cipriano per descrivere la transustanziazione dice, che « la divina essenza S' INFONDE ineffabilmente nel visibile Sacramento« (3). » Or niente è in questa maniera di parlare che possa indicare annichilazione, ma bensì un' operazione colla quale Cristo colla sua divinità tocca e si unisce ed infonde nella sostanza del pane penetrandola di guisa da tramutarla in sè medesimo. 5. S. Ireneo pure usa di questa frase, che « il calice misto e il pane spezzato PERCEPISCE LA PAROLA di Dio« (4), » e così si consacra: la quale maniera di dire ha una mirabile verità nel nostro sistema. Ma fermiamoci specialmente a que' passi de' Padri ne' quali descrivono l' operazione che fa il Verbo di Dio transustanziando il pane ed il vino. Noi non troveremo mai in essi, che descrivano una tale operazione come inchiudente una cessazione di conservazione, un atto di distruzione: ma troviamo che lo descrivono sempre come un atto eminentemente positivo, senza nessun elemento negativo in esso racchiuso. Abbiamo già veduto che: 1. S. Cirillo Alessandrino, ed Elia Arcivescovo di Creta, ed altri descrivono l' operazione della transustanziazione come una comunicazione della propria vita che fa Cristo al pane ed al vino (1). 2. Che S. Gaudenzio esprime la stessa cosa dicendo che Cristo passa in tali materie, volendo dire che ad esse comunica l' esser suo (2). 3. Che S. Gregorio Nisseno, S. Giovanni Damasceno, Teofilatto ed altri dicono ancora più espressamente, che quell' operazione è una cotal nutrizione soprannaturale (3). E a questo medesimo si riferisce quel luogo di Teofilatto, di cui hanno abusato gli eretici, dove dice, che « il pane si muta nella virtù del corpo di Cristo« (4); » luogo che altro non tende a significare se non appunto l' investirsi del pane e del vino in un modo ineffabile dalla virtù del corpo di Cristo che in sè li trasforma. 4. Odone Vescovo di Cambray dice che il pane ed il vino sono investiti da una forza spirituale, che li tramuta (5). 5. Aggiungerò questa espressione di S. Giovanni Grisostomo: « Quegli che SANTIFICA e trasmuta questi doni è egli stesso il Cristo« (6). » Ora io intendo sì bene come questi doni del pane e del vino siano sublimemente santificati quando si pone che vengano investiti della virtù e della vita stessa di Cristo; ma non posso all' opposto formarmi alcuna idea di una loro santificazione quando essi sono distrutti, e sono distrutti prima che sia addotto Cristo in loro luogo, di maniera che essi non toccano Cristo, nè sono toccati, nè hanno comunicazione in nessun modo con Cristo, fonte della santificazione, il quale non sopravviene nel sistema degli avversarii, se non quando essi al tutto più non sono. Ma questa maniera che il pane« si santifica« non è solo pronunciata accidentalmente una o l' altra volta da S. Giovanni Crisostomo; ma ella è universale, ella è una di quelle formole solenni, che si trovano in tutte le liturgie, in tutti i Padri e che per conseguente contengono il deposito delle più sacrosante verità come in vasi d' oro incorruttibili. Quindi si chiama costantemente il corpo di Cristo pane santificato, e si prega perchè il pane posto sull' altare si santifichi : il che non potrebbe, come dicevo, ricevere un senso vero e proprio se Cristo nè pur toccasse il pane, ma solo venisse nel luogo del pane dopo che questo ha cessato di essere. Lo stesso dimostrano certi nomi dati dal pane Eucaristico tolti dalla natura dell' operazione, che sopra di lui si esercita, come quello di «eulogia» in latino benedictio veniente da benedire , perchè il consacrare è riputato un benedire (1), secondo un modo di parlare che risale agli Apostoli (2). Or benedire equivale (fatto da Dio) a moltiplicare, ingrandire, migliorare, perfezionare (3), sublimare, e perciò è un sinonimo di santificare nel caso nostro (4). Or il solo venir Cristo nel luogo del pane rimosso, in nessuna maniera potrebbe dirsi che fosse un moltiplicare, ingrandire, perfezionare, sublimare il pane; come se il servitore cede il posto che tiene al suo principe in nessun modo si può dire che per ciò il servitore sia moltiplicato, ingrandito, e molto meno convertito nel principe (5). Or questo miglioramento, santificamento e innalzamento del pane all' esser carne di Cristo è espresso da' Padri in modi diversi, ma che mantengono sempre il concetto stesso. Udiamo come lo esprima S. Fulberto Vescovo di Chartres in una lettera che scrive ad Adeodato: [...OMISSIS...] . Questo convertire nella dignità d' una più eccelsa natura, questo trasfondere nella sostanza del nostro corpo sono frasi assai calzanti, e che mostrano ciò che dicevamo la consecrazione del pane essere risguardata nella cattolica Tradizione come una cotale operazione, non volta a levar via l' essere del pane per collocarvi in suo luogo il corpo di Cristo, ma anzi a innalzare e sublimare quest' essere fino a rifonderlo e immedesimarlo nelle carni divine di Gesù Cristo (2). Gregorio M. pure dice che Cristo fa la conversione del pane e del vino « mediante la santificazione« (3); » S. Giovanni Damasceno pure « per la invocazione e la venuta dello Spirito Santo« (4); » Teofilatto « per la benedizione e l' accessione dello Spirito Santo« (5); » e sarei infinito se raccoglier volessi tutti i passi de' Padri in cui si descrive in questo modo la consecrazione del pane e del vino, come una spirituale benedizione, una santificazione, una virtù che riceve esso pane ed esso vino, virtù sì grande che ha valore di elevarlo ad esser carne di Cristo, non a diminuirgli un solo grado di essere, ma solo ad innalzare infinitamente e ingrandire l' entità da lui posseduta, ingrandirla tanto che il fa uscire di sua natura e non esser più quel ch' era prima (6): questa è transustanziazione. Nella generazione e nella nutrizione lo spirito è quello che interviene ed opera ad informare di vita la materia: nella prima v' ha una materia, che prima dell' atto della generazione appartiene ai generanti; ma staccata da essi forma il nuovo animale, e ciò che il forma è lo spirito proprio di questo che lo avviva. Nella nutrizione parimente è il nostro spirito quello che involge le particelle del cibo, comunicando loro sè stesso e rendendole suo proprio corpo. Ora essendo Cristo persona divina conveniva che tanto l' incarnazione come la consecrazione del pane e del vino venisse attribuita allo spirito di Dio, come la generazione e la nutrizione naturale si fa per lo spirito dell' uomo. Però la consecrazione è molto spesso concepita e descritta da' Padri come la incarnazione e a questa paragonata. S. Giustino dice: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure: [...OMISSIS...] . Eucherio di Lione: [...OMISSIS...] . Il venerabile Beda: [...OMISSIS...] . Eutimio più tardi (sec. XI) ripeteva lo stesso concetto: [...OMISSIS...] . E qui voglio fare una osservazione volta a dileguare maggiormente il timore di quelli a cui paresse che nel nostro sistema rimanesse qualche cosa della sostanza del pane non mutata nel corpo di Cristo, ai quali dirò così: Il Concilio di Trento definì che tutta la sostanza del pane e del vino si cangia nel corpo e nel sangue di Cristo, e questo a condannazione di quell' errore, che voleva trovarsi nelle sacra ostia oltre il corpo di Cristo qualche altra materia non immutata. Ora non v' ha sistema più lontano da quest' errore del nostro. E a rendere chiaro il concetto appunto ci può valere l' esempio dell' incarnazione del Verbo nel seno di Maria Vergine. Quando l' immacolata Vergine somministrò il suo sangue purissimo a comporre un corpo al Verbo divino; questo sangue che prima era della Vergine non divenne tutto sangue e corpo di Cristo? v' ebbe forse la minima stilla, gocciola o atomo di materia che rimanesse ancora dopo l' incarnazione cosa della Vergine, e non fu più tosto tutto e solo cosa di Cristo, cioè suo proprio corpo? e adorando questo corpo divino s' adorava forse qualche cosa che non fosse divina, o che fosse rimasta semplicemente umana, com' era prima dell' incarnazione quando al corpo della Vergine apparteneva? e pure in quell' operazione nessun essere, nessuna particella di essere cessò, Iddio non si rimase dal conservare ciò che v' avea prima, ma il cangiò solo in cosa infinitamente migliore, il che si può dire bensì un cotal perire della natura (3), ma non un perire inteso a quel modo che l' intendono i nostri avversarii pel quale l' essere si riduce a niente. Simigliantemente adunque nel sistema nostro tutta la sostanza e la stessa materia del pane diventa vero e adorabil corpo di Cristo, nè alcuna particella rimane indietro che non si cangi, sebbene nessuna particella di essere perisca (4). Ma tornando a noi, volevamo provare che l' immutazione che nasce del pane e del vino fu solita la Chiesa di risguardarla come una ineffabile operazione dello Spirito Santo, a quel modo onde si suol dire che Maria concepì per opera dello Spirito Santo. Rechiamo a maggior confermazione ancora alcune venerabili autorità, dove direttamente si esprima che la transustanziazione si fa per opera del Santo Spirito. S. Agostino dice espressamente che la consecrazione è un' opera dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . S. Cirillo Gerosolimitano: [...OMISSIS...] . Nella liturgia di S. Giovanni Grisostomo, alludendo alla conversione del calice, il diacono dice: « Benedici, o Signore«. » Il sacerdote benedicendo con ambo le mani: « IMMUTANDO collo Spirito Santo tuo: IMMUTANS SPIRITU SANCTO TUO« (3). » Nella liturgia allemanica (4) la messa della Domenica V dopo l' Epifania ha un' orazione dove si prega di poter [...OMISSIS...] . Ma udiamo più ampiamente, ma sempre nello stesso concetto, descrivere il gran mistero della consecrazione del pane e del vino S. Giovanni di Damasco. Egli nel quarto de' suoi libri della fede ortodossa (6) dice così: [...OMISSIS...] . Or dopo aver così comparata la consecrazione all' incarnazione viene a spiegare maggiormente quella grand' opera con un' altra similitudine: [...OMISSIS...] . Qui assai chiaro si rilevano due cose che il santo alla virtù dello Spirito Santo attribuisce il cangiamento del pane e del vino, come alla virtù santificatrice, e che questa virtù non distrugge già il pane, ma fa nascere in lui alcuna cosa di somigliante a quello che fa la pioggia che cade sui seminati, la quale bagna e muove i semi onde esce il grano, e così distrugge il seme conducendolo a perfetto stato di maturo sviluppo, ed alla natural sua fruttificazione. Continua ancora a parlare di quest' opera dello Spirito Santo dicendo: [...OMISSIS...] . Niente di più chiaro di questo passo, niente che meglio faccia conoscere come questo grande spositore e difensore della fede ortodossa, concepiva avvenire il mutamento del pane nel corpo del Signore: non intendeva egli che entrasse nel pane una forza distruttrice, ma sì la virtù dello spirito di Cristo, che inviluppandolo e penetrandolo, il convertirà in verissimo corpo di Cristo medesimo; e questo è il modo comune, onde i Padri concepiscono la transustanziazione; di guisa che San Fulberto giunge a dire che lo Spirito Santo in quel pane « compone, ossia compagina il corpo di Cristo« (4). » Sebbene però venga attribuito allo Spirito Santo, cioè allo spirito di Cristo, l' opera della transustanziazione, tuttavia non appartiene meno al Padre, del quale ha detto Cristo: « il Padre mio dà a voi il pane vero dal cielo (5); » od al Figliuolo, che dice: «« Io sono il pane vivo che discesi dal cielo« (1). » Perocchè al Padre appartiene di dare il suo Figliuolo sotto ogni forma, perocchè egli lo genera e il dà generandolo. Al Figliuolo appartiene di dare sè stesso, perocchè nessuno altro che l' amor suo il potrebbe forzare a darcisi in cibo. Finalmente lo Spirito Santo cel dà, perchè esso è l' amabilità del Figliuolo, e ciò che noi partecipiamo e comunichiamo nel Santissimo Sacramento è appunto il Figliuolo nella sua amabilità (2), sicchè esso si chiama il Sacramento dell' amore, e Cristo sotto l' eucaristiche specie, carità incorruttibile (3). Cristo dunque s' asconde sotto il velo delle mistiche specie per un atto d' amore, ed è questo che volle dire l' amoroso Evangelista, quando accingendosi a narrare il pegno dell' infinito affetto che lasciava a' suoi discepoli nell' istituzione della Santissima Eucaristia si fa dicendo che « avendo Cristo amato i suoi ch' eran nel mondo li amò pure sulla fine« (4). » Egli faceva veramente siccome una madre, la qual mangiando delicatamente vuol empire le proprie mammelle di latte per ispremerlo poscia in bocca de' suoi cari bamboli, de' frutti delle sue viscere. E di qui nasce che nell' invocazione dello Spirito Santo, che si rinviene in tutte le sacre liturgie si prega sempre due cose, e che il divino spirito trasmuti il pane ed il vino e che lo trasmuti a noi (5) cioè a nostro profitto; conciossiacchè Cristo viene e sta nell' Eucaristia nell' atto della diffusione e delle unioni amorose, come più largamente diremo appresso. Nè solo l' opera ammiranda della transustanziazione del pane e del vino si fa colla concorrenza di tutta l' augustissima Trinità; ma ben anco colla cooperazione della umanità sacratissima di Cristo. Il perchè fu detto: [...OMISSIS...] . Dunque non pur Cristo come Dio ma come Figliuol dell' uomo altresì dà sè stesso in cibo, e all' uomo sommamente conviene e la preghiera e il rendimento di grazie che il divin Redentore premise all' Eucaristica consecrazione. Il che dà nuovo rincalzo all' opinione nostra; perocchè se non si trattasse che di solo far cessare l' essere del pane, ed ivi render presente Cristo, non si vedrebbe in tutto ciò se non un' opera divina, in cui l' umanità non sarebbe che passiva, e però non sarebbe veramente l' uomo che avrebbe parte attiva nella transustanziazione; ma se si pone che questa grande conversione avvenga per una ineffabile assunzione e incorporazione della sostanza del pane e del vino nel corpo di Cristo, in tal caso anche questo corpo glorioso dee averne parte attiva, e così l' anima, ora che a questo corpo è congiunta, e la divinità medesimamente, che è una natura identica col Padre e collo Spirito Santo: sicchè a pienissimo s' avvera, che quel pane è dato al mondo dal Figliuolo dell' uomo . Da tutte le quali cose apparisce, che se il Padre concorse alla produzione della santissima Eucaristia, generando il Verbo e mandandolo al mondo, se il Verbo vi concorse rendendosi in cibo, e il Padre e il Verbo mandando lo Spirito Santo; il Verbo incarnato però, che mediante l' opera del suo Spirito avea presa carne umana, perchè il prender carne era un rivelarsi amabile agli uomini, ugualmente si rese da sè cibo per l' opera del suo spirito giacchè in questo cibo si compiva la rivelazione dell' amabilità sua massima nell' ordine della fede. Questa amabilità poi del Verbo incarnato adoperava come istrumento la stessa umanità, acciocchè mediante una operazione ineffabile di questa, sempre indivisa dalla divinità, si apparecchiasse e quasi concorresse agli uomini il divino cibo di essa umanità, sicchè Cristo dir potesse « la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda« (2). » Nè l' essere la transustanziazione nel modo descritto opera dell' umanità investita dallo Spirito Santo (3), e congiunta ipostaticamente col Verbo, e mossa dal Verbo con quella onnipotenza che è comune col Padre da cui procede, toglie punto nè poco, che anco negli effetti della divina Eucaristia lo spirito di Gesù Cristo si manifesti e comunichi per varii gradi, e solo dopo salito Cristo al cielo e disceso lo Spirito solennemente sugli Apostoli comunichi sè medesimo nella sua forma massima, e come l' abbiam già detto, personale (1). Intanto l' invocazione dello Spirito Santo in tutte le liturgie massime orientali era così comune e talmente ordinata a impetrare la trasmutazione del pane e del vino (2) che diede origine ad un errore, cioè a credere che la transustanziazione non nascesse in virtù delle parole di Cristo, ma in virtù dell' invocazione dello Spirito Santo: il qual errore i Greci abiurarono l' anno 1493 nel Concilio di Firenze: trovandosi presente il sommo Pontefice Eugenio IV (3). Ma egli è ben facile di conciliare la virtù delle parole consecratorie coll' opera intiera dello Spirito Santo. Queste due cose sono affatto distinte. Perocchè nelle sole parole consecratorie sta il decreto onnipotente, che ordina l' opera: lo Spirito Santo poi entra a dare esecuzione, in certa maniera a tanto decreto: quello Spirito dico che è spirato dal Verbo, e che unge l' umanità di Cristo (4), della quale poi si serve come di strumento e di termine della ineffabile sua operazione. Come adunque Cristo ipostaticamente unito coll' umanità empie questa umanità del suo spirito e così a sè l' adatta e l' appropria (5), in egual modo egli comunica del suo spirito abitante nella sua umanità alla sostanza del pane, e l' assimila al suo corpo, e diventa essa pure corpo, e corpo suo, cioè ipostaticamente unito alla divina sostanza. Che se le mistiche parole non l' avesse Cristo proferite, o non le ripetesse il sacerdote, non si compirebbe una tant' opera che è un cotale estremo d' infinito perfezionamento dell' essere del pane e del vino e che però con somma convenevolezza s' appropria allo Spirito chiamato dagli antichi Padri « forza o virtù perfezionatrice« (1). » Non è dunque necessaria l' invocazione dello Spirito Santo perchè avvenga la consecrazione del pane e del vino: perocchè questa nasce solo in virtù delle parole consecratorie, le quali hanno forza di far venire lo spirito di Cristo che produce il portento. Tuttavia si usò d' invocarlo il divino Spirito in tutte le liturgie; cosa convenientissima, e acconcissima altresì a spiegare il modo, onde invisibilmente si opera la grande e misteriosa opera della transustanziazione. [...OMISSIS...] Che se questa preghiera allo Spirito Santo si fa dopo che già furono proferite le parole della consecrazione, egli è perchè non si potea fare nell' atto stesso; ma debbonsi considerare come formanti una cosa sola, un atto solo coll' atto consecratorio, di cui sono una cotale appendice, non però mai necessaria (1). E a conferma di tutto ciò osserviamo le similitudini e tante e così diverse, che usano i Padri a dichiarare il modo onde avviene la transustanziazione. Non se ne troverà pur una sola la quale s' accomodi col sistema de' nostri avversari; e la quale faccia credere che l' essere della cosa che si converte intieramente si distrugga. Nè vale il dire, che le similitudini recate in questo appunto sono imperfette; perocchè il dir questo è gratuito, e contrario alla mente de' Padri i quali su di ciò tengono il più alto silenzio. E` egli credibile che usando similitudini di tante maniere, niuna n' abbiano arrecato di quelle in cui apparisse un totale annientamento dell' essere della cosa che si converte? è possibile che mancandone nella natura non l' avessero almeno imaginata? o se non ciò, è possibile che non avessero notato, che le similitudini che usavano erano deficienti in un punto sì principale, quando omettendo di notarlo, quelle similitudini dovevano indurre necessariamente ne' fedeli un errore, un falso concetto? Oltre a che se quelle similitudini in questo punto mancavano, a che servivano esse? perfettamente a nulla: perocchè esse non si adoperavano se non per indicare come avveniva o poteva avvenire la transustanziazione; e quando avessero avuto quel difetto non potevano in modo alcuno far concepire o render più facile a concepire questa transustanziazione, di cui non avrebbero più dato alcuno esempio. Sia pur dunque che non v' abbia esempio di una conversione sì mirabile, portentosa, ineffabile come quella del pane e del vino che si consacra; ma altro è che questa sia unica e inconcepibile per le sue circostanze uniche e inconcepibili nelle quali avviene; altro è che la conversione stessa come conversione o transustanziazione debba al tutto essere un fatto solitario, di cui in tutto l' operare divino non apparisca niente di simile. Questo si torrebbe dal solito modo dell' operare divino: Iddio in tutte l' opere sue mantiene certe leggi uguali, immutabili; sebbene i casi nè quali vengono quelle leggi applicate sieno talora novissimi, e tali in cui si perde l' umano intendimento. Certo negli antichi Padri non appare vestigio alcuno, ch' essi riputassero così unico il fatto della transustanziazione, quanto alla sua natura di transustanziazione, che esempio o similitudine alcuna non potesse rinvenirsi nelle altre opere dell' onnipotente: anzi con tutta buona fede ed a fidanza il vengono variamente spiegando, e trovandolo in assai avvenimenti e naturali e soprannaturali ripetuto. Rechiamo alcuna delle similitudini che a tal uopo usavano. 1. Ho già notato, che i Padri rassomigliano la consecrazione del pane e del vino all' incarnazione di Cristo fatta nel seno della Vergine (1). Ora in questa similitudine niente si distrugge, ma solo quella sostanza del corpo della Vergine che era predestinata a dover essere carne di Cristo, si tramuta veramente nel corpo di Cristo: e non ne rimane più minuzzolo che sia della Vergine e non vera carne del Salvatore. E come ciò? per opera dello Spirito Santo, per la quale dicono i Padri avviene pur la consecrazione. Lo Spirito Santo che è spirito del Verbo reca seco il Verbo, col quale ha la natura indivisa, e il Verbo informa l' anima e il corpo nello stesso punto della verginal concezione. Qual similitudine più acconcia ad un tempo al sistema nostro, e ripugnante a quello de' nostri avversari? 2. S. Remigio Antisioderense non pure rassomiglia la consecrazione del pane e del vino a quell' unirsi che fece alla carne umana il Verbo nell' incarnazione, ma ben anco alla trasformazione de' nostri corpi da mortali in immortali dicendo: [...OMISSIS...] . Or chi non vede in questo luogo che le similitudini introdotte non presentano alcuna distruzione, ma solo un perfezionamento, un elevamento delle nature a stato di natura migliore? chi non sente con quanta proprietà sia indicata la consecrazione con dire che la materia del pane e del vino si trasporta nella natura del corpo e del sangue di Cristo? 3. Altri alla similitudine dell' incarnazione aggiungono quella della formazione del primo uomo. Recherò un testimonio non tanto antico, ma nulladimeno opportuno, primieramente perchè non fa egli che ripetere ciò che ha detto l' antichità: in secondo luogo perchè appartenendo alla chiesa orientale dimostra la consentaneità di questa nella maniera di concepire la consecrazione colla latina. E` questo un Vescovo di Amida del secolo XII chiamato Dionigio Bar7salibi perchè figlio di Saliba di rito Jacobita, il quale scrisse un commentario sulla liturgia di S. Giacopo, nel quale dice appunto così del Sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] . Or considerando la similitudine tratta dalla terra di cui Iddio compose il corpo di Adamo, non v' ha qui una materia che si trasforma bensì, ma non che si distrugge? e tuttavia non fu ella al soffio divino convertita tutta quella materia nelle carni e nell' ossa di Adamo? forse che rimase qualche cosa non tramutato? rimase qualche cosa terra? non si cangiò anzi il soggetto medesimo? conciossiachè la carne viva di un uomo è certamente un soggetto diverso dalla polvere sciolta ed inanimata. A simigliante maniera perciò intendevano gli antichi avvenire la transustanziazione del pane e del vino. 4. S. Giovanni Grisostomo, volendo dare in qualche modo meglio ad intendere come Gesù Cristo nell' Eucaristia si propaghi per così dire e si moltiplichi in ogni luogo della terra, usa appunto la comparazione della moltiplicazione del genere umano: [...OMISSIS...] . La qual similitudine è acconcissima, e tutta per noi. Conciossiachè la propagazione dell' uman genere avviene per una cotale comunicazione della vita, e non per alcuna vera distruzione o cessazione di alcun essere. 5. S. Gaudenzio introduce la similitudine della produzione del frumento dalla terra: [...OMISSIS...] . Or chi non vede che quegli elementi della terra o più tosto dell' acqua e dell' aria che si cangiano nel frumento, non s' annientano già; ma solamente cessano di essere quello che erano, per divenire frumento? S. Gaudenzio adunque non pensava a quello strano sistema della cessazione di un essere, che fu introdotto solo da' moderni; per non sapere essi trovar altra via da spiegare il grande fatto della transustanziazione. 6. S. Ireneo molto prima (sec. II) usava di somiglianti similitudini del legno che fruttifica, delle fonti che scaturiscono, del frumento che matura: [...OMISSIS...] . Ora l' albero che frutta e la terra che manda l' erba, la quale spiga e poi grana, non dànno esempio d' altre trasformazioni che solo di quelle dove l' un essere non già si distrugge ma nell' altro si tramuta. 7. Un' altra similitudine usata dagli antichi scrittori a spiegazione dell' opera della conversione del pane e del vino si è quella della legna, che s' infiamma e diventa acceso carbone. Così dice Ildegarde che scriveva nel secolo XII: [...OMISSIS...] . Questo scrittore adunque concepiva la transustanziazione come noi, i quali diciamo, che il Verbo e l' anima e il corpo di Cristo mediante lo Spirito Santo, fuoco divino, avviluppano per così dire le minime particelle del pane, come la fiamma fa d' un fusto di legno, e l' avvilupparle è un appropriarsele, un congiungersele incorporandolesi e facendole divenire parte indivisibile dell' unico corpo di Cristo, cessando quelle interamente per cotale ineffabile operazione da esser sostanza di pane e di vino. .. E` frequente l' incontrare ne' Padri il confronto fra la conversione del pane e del vino, e le altre conversioni, che si narrano avvenute prodigiosamente nelle Divine Scritture; come son quelle del nuovo Testamento, dell' acqua conversa in vino alle nozze di Cana (2), e nell' antico della verga di Mosè cangiata in serpente ed altre tali (3). Or che giammai notassero i Padri una assoluta ed essenzial differenza fra il modo del cangiamento del pane e del vino, ed il modo onde avvenuti sono quegli altri cangiamenti? Ciò che dimostra, ch' egli non concepivano quello come assolutamente e intrinsecamente diverso da questi: perocchè se l' avessero così concepito nè ci aveva ragione di somigliar quello a questi; e tacerne la dissomiglianza non si potea senza indurre i fedeli in error gravissimo toccante cose di fede. S' egli dunque è da credere, che non riputassero la conversione del pane e del vino intrinsecamente e specificamente diversa da quelle altre conversioni avvenute prodigiosamente dell' acqua in vino, della verga in serpente; così si può giustamente ragionare, e ho già di questo ragionamento fatto un cenno di sopra: L' acqua non fu già mutata in un vino particolare preesistente, nè la verga fu mutata in un serpente preesistente: ma solo quella prese natura di vino, questa di serpente: non però l' essere elementare fu essenzialmente annichilato nè dell' acqua nè della verga. Però quando quell' acqua fu convertita in vino, e quella verga in serpente, si trovò al mondo del vino più di prima, e un serpente che prima non era. Qui non ci ha nulla di assurdo e d' inconcepibile. Or è bensì vero che il corpo di Cristo e il sangue preesiste alla consecrazione; e che il pane ed il vino si dee convertire nell' identico sangue. Ma altre sono come abbiam distinto le particelle componenti un corpo ed un sangue; altro sono il corpo ed il sangue. Il pane ed il vino certo è convertirsi nell' identico corpo e nell' identico sangue di Cristo; questo è di fede: ma questo pienissimamente avviene anche ponendo che le particelle sieno diverse; cioè che s' aggiungano al corpo ed al sangue di Cristo delle particelle nuove, le quali non mutano, ma anzi esse pure partecipano l' identità del corpo e del sangue a cui individuamente si congiungono. Per sì fatto modo rimangono chiarissimi, e privi d' ogni oscurità i passi de' Padri, e convenientissime si ritrovano le comparazioni, a cui essi sono ricorsi, per dare in qualche modo convenevole dichiarazione del modo onde avviene il gran fatto della mistica consecrazione. Or a tante autorità dobbiamo continuarci con degli argomenti somministrati dalla ragione teologica. Già abbiamo veduto che gli avversari concedono che nella transustanziazione cessa interamente Iddio dal conservare un essere distruggendo interamente il pane ed il vino. Noi abbiamo detto che il pane ed il vino è quello che si dee trasmutare, e che però, se Iddio lo distrugge non si può trasmutare (1). Ma or non ci basta nè della confessione degli avversari, i quali sostengono che il pane ed il vino quanto all' essere stesso si distrugga, negando però a questa distruzione con una vana sottigliezza il nome di annichilazione; nè ci sta di aver provato, che il concetto di vera transustanziazione non si può avverare tosto che si pone che, in qualsivoglia modo, l' essere che si dee trasmutare cessa interamente diventando nulla. Vogliamo oltreciò considerare la cosa dalla parte del corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire; e provare che anco da questa parte la transustanziazione è impossibile nel sistema degli avversarii. Poniamo adunque innanzi all' animo nostro questi tre punti che sono contenuti nel sistema de' nostri avversari. 1. Il corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire preesiste; 2. Questo corpo di Cristo non può ricevere l' aumento di niuna particella che gli s' aggiunga; 3. Questo corpo di Cristo colla consecrazione si pone nel luogo della sostanza del pane che viene ridotta a nulla. Premessi questi punti de' quali il primo è fuori di controversia così ragiono: Poniamo che un essere qualsivoglia si trasmuti. Qui non consideriamo la forza che lo trasmuta; ma la stessa trasmutazione. Quest' essere dee successivamente passare a tutti quegli stati ne' quali dee trasmutarsi. Ma potrà egli mai entrare nella natura di un altro essere già sussistente? Un individuo sussistente racchiude già nel suo concetto di essere così separato dagli altri individui, di non potersi giammai mescolare, confondere, immedesimare con essi. Nè pure adunque una potenza infinita potrebbe fare che un individuo sussistente ne diventasse un altro pure sussistente: perocchè ciò è ripugnante al concetto d' individuo sussistente, che consiste nella incomunicabilità di suo essere. Se dunque questa parola« individuo sussistente« esprime il medesimo che essere incomunicabile ed essenzialmente uno, ne dee avvenire: 1. Che un individuo sussistente non può divenire un altro individuo sussistente, perocchè per diventare un altro individuo dovrebbe deporre la propria individualità, e questa non può deporla per via di trasmutazione, ma solo per via di annichilazione; 2. Che l' altro individuo pure sussistente, in cui si vuole che il primo si cangi, non può ricevere in sè altra sussistenza che la sua; però non può sofferire nessun cangiamento risguardante il suo essere individuale, se non si voglia che il suo essere individuale e sussistente si annichili egli pure: giacchè l' individuale sussistenza è cosa unica e semplice; chè fra l' essere e il non essere suo niente si trova di mezzo; 3. Che ove vogliamo pure fantasticamente imaginare una conversione di un individuo sussistente in un altro pure sussistente, questo non sarebbe un vero concetto di conversione, ma solo un concetto composto ( a ) di cessazione del primo individuo ( b ) della conservazione del secondo, senza che questo secondo abbia ricevuto niente dal primo. Non potea fuggire tutto ciò alla gran mente del Bellarmino; e però chi lo legge attentamente trova che ei confessa in sostanza tutto ciò che noi abbiam detto, dove viene a parlare della conversione ch' egli chiama conservativa . Perocchè egli descrive la conversione conservativa in questo modo: [...OMISSIS...] . Or noi diciamo che questo fatto sembrerebbe bensì una conversione, ma niuna vera conversione in ciò interverrebbe. Sarebbe un inganno che prenderebbero gli occhi nostri, o la nostra imagine, credendo non che l' un de' due corpi si convertisse nell' altro perchè li vedremmo forse avvicinarsi e l' uno cessare di mano in mano che mostrasse d' immergersi nell' altro, non però si convertirebbe, non però il primo avrebbe subìto altra mutazione che quella dell' annichilamento, e il secondo non avrebbe subito cangiamento di sorte alcuna. Ogni uomo di buon senso, non preoccupato l' animo da una sentenza già imbevuta, può esser giudice in questa parte. Ora fra la conversione meramente conservativa e l' adduttiva (che così chiama il Bellarmino quella che interviene nella consecrazione) non passa alcuna diversità circa la distruzione dell' essere che si converte: non passa sempre diversità quanto al non prodursi nell' una e nell' altra niente di nuovo. V' ha solo diversità in questo che quel corpo in cui l' altro si converte, oltre conservarsi nel suo luogo, vien posto anco in altro luogo. [...OMISSIS...] La conversione adduttiva adunque non differisce dalla conservativa se non in questo, che l' oggetto che si conserva in entrambi, senza che nulla nasca di nuovo, in quella, oltre conservarsi nel suo luogo, viene addotto o condotto, o posto anche in altri luoghi; sicchè ha contemporamente la stessa ed identica esistenza in più luoghi. Ora posto che nulla s' aggiunge alla sostanza di questo corpo, l' essere addotto in più luoghi senza abbandonare il proprio luogo non è ancora ricevere in sè un altro corpo che in lui si converta: però se la conversione conservativa non è conversione: nè pure l' adduttiva può essere conversione: conciossiachè questa aggiunge solo una circostanza, nella quale non si avvera il concetto di conversione alcuna. Il perchè egli sarebbe impossibile nel sistema del Bellarmino evitare quella difficoltà gravissima che si fa egli medesimo, che la conversione terminerebbe in un accidente, anzichè in una sostanza (1). E veramente il corpo di Cristo non avrebbe sofferito nessun cangiamento sostanziale, ma solo accidentale; egli oltre essere in cielo avrebbe un sito di più in cui si troverebbe, cioè sotto le specie del pane e del vino (2): or questo non sarebbe sicuramente nulla di più di un cangiamento accidentale. Nè vale rispondere, come fa il Bellarmino, che [...OMISSIS...] . Nessun uomo di buon senso accorderà questa conclusione. Di poi, si fa che il corpo di Cristo succeda al pane; questo è vero, ma non è mica questo un farsi il corpo di Cristo (4), ma è solamente che al corpo di Cristo succeda la relazione della presenza. Dunque la mutazione che nasce è meramente accidentale e non è vero che nasca un trasmutamento di sostanza in sostanza. Io non veggo in qual maniera possano gli avversarii di buona fede evitare questa gravissima difficoltà. Nè si badi al vocabolo di accidente , che io adopero per indicare la mutazione che avviene nel corpo di Cristo per la consecrazione, perocchè io intendo per accidenti anche le relazioni che acquista un essere; e in una parola tutto ciò che« non tocca, non muta la sostanza dell' essere«. Ora che la mutazione che nasce rispetto al corpo di Cristo, secondo il Bellarmino stesso, sia l' acquisto di una nuova relazione l' abbiamo espressamente da lui confessato. Conciossiachè ricercando egli che mutazione nasca nel corpo di Cristo, risponde: [...OMISSIS...] . Or si congiunga questo luogo con un altro precedente dove nega che il corpo di Cristo che è in cielo muti o la sostanza, o gli accidenti, o il luogo (2). Se dunque non nasce mutazione nè quanto alla sostanza nè quanto agli accidenti, tutta la mutazione si dee ridurre alla relazione nuova che acquista; la quale crediam di poter riporre fra le mutazioni accidentali, appunto perchè non risguardano la sostanza. Laonde dall' avere il Bellarmino avuto ricorso alla sua conversione adduttiva per ispiegare la transustanziazione, due cose si raccolgono: 1. Ch' egli stesso conobbe che l' individualità d' una cosa non può passare nell' individualità di un' altra cosa, il che implica contraddizione, e però ricorse a quella conversione impropria ch' egli denomina adduttiva . 2. Ch' egli non dà una vera spiegazione della transustanziazione, ma più tosto dà il nome di transustanziazione alla successione d' una cosa all' altra che s' annienta; senza però che si converta veramente o si transustanzii. E qui si conviene fare un' osservazione che mette in maggior lume di evidenza l' impossibilità della transustanziazione nel sistema degli avversari; ed è questa: Il Bellarmino descrivendo quella ch' egli chiama conversione conservativa recò in mezzo l' esempio di due corpi che facesser vista di penetrarsi (il che veramente non sarebbe che un distruggersi dell' uno per opera divina, conservandosi l' altro). Ora il venerabile uomo usa di queste parole: [...OMISSIS...] . Quella parola naturalmente vien qui introdotta, perchè il Bellarmino opina non essere cosa ripugnante, e però possibile a Dio la penetrazione de' corpi. Ma ciò ora noi non vogliamo discutere. Ciò che noi vogliamo osservare si è, che supposto che la penetrabilità non implichi contraddizione, quand' anco l' uno de' due corpi non fosse distrutto da Dio, come pone il Bellarmino, ma compenetrato nell' altro; ancora non sarebbe punto seguita la conversione dell' uno nell' altro fin a tanto che i corpi sussistessero nello stesso luogo: ma perchè veramente si potesse dire essere avvenuta la conversione o transustanziazione converrebbe, che l' individualità dell' uno fosse passata nell' individualità dell' altro; cioè che l' uno individuo fosse diventato l' altro individuo. Or questo è manifestamente assurdo; giacchè la propria sussistenza individuale è al tutto incomunicabile, non solo rispetto ai corpi, ma ben anco rispetto a due individui quali si vogliano, anco spirituali: perocchè nel concetto dell' individuo si contiene quello di cosa incomunicabile, però inconvertibile. Non si dee adunque fermarsi solo a considerare le difficoltà che trae seco la penetrazione de' corpi; ma si dee prima sollevarsi alla difficoltà più generale che nasce dall'« incomunicabilità dell' individuo« sussistente: la quale, a mio parere, non può essere dagli avversari nostri in modo alcuno superata. Ma da ciò si deve scendere a considerare altresì se posti i tre principii degli avversari una vera transustanziazione sia consentita dalla natura della sostanza corporea. E qui si dee partire da questo principio che una vera conversione d' una cosa in un' altra non si dà, se non a condizione che la cosa che si converte S' IDENTIFICHI colla cosa in cui si converte (1). Ora questa identificazione non può seguire se non a condizione: 1. Che la cosa che si converte perda la propria identità, quindi cessi di essere quello che era prima, e altresì cessi di essere al tutto, intendendo l' espressione in questo senso, che non può dirsi più dopo la conversione« ella è«: conciossiachè quell' ella esprime la cosa di prima che non è più. 2. Che la cosa in cui si converte non perda la sua identità ma rimanga perfettamente quella di prima. 3. Perciò che le due cose, dopo la conversione dell' una nell' altra, già non siano più due, ma una sola; e non già una mista di tutte e due; ma la sola seconda identica a sè stessa innanzi la conversione; nella quale ha perduto il proprio essere la prima in essa convertitasi. Dopo di ciò dee ancora osservarsi, che acciocchè una cosa entri nella natura dell' altra, fino a lasciare la propria natura e prendere la natura di quella in cui entra, conviene che tutte e due le cose, la trasmutantesi , e la trasmutataria (mi si conceda questa voce) sostengano mutazione: perocchè la prima dee sofferire quell' alterazione che le faccia assumere l' altrui natura, l' altrui essere, lasciando il proprio: e la trasmutataria dee pure sostener mutazione in ricevere l' essere altrui nella propria natura, e nel proprio essere. Or nulla di meno si richiede perchè accada un tale trasmutamento, il quale in senso vero e proprio si possa denominare conversione, transustanziazione, transelementazione ; nomi sacri, e propriissimi nell' uso della Chiesa, che li applica al Sacramento Eucaristico. La conversione adunque vera e propria non è quella che il Bellarmino chiama conservativa , nè quella che chiama adduttiva , e nè pure quella che si chiama produttiva . Perocchè nè conserva semplicemente, nè semplicemente adduce una cosa in altro luogo, come lo spirito che inanima nuova materia, il quale perciò non si trasmuta, nè produce un essere nuovo; perocchè il trasmutatario rimane l' essere identico che era prima che avvenisse la conversione. Nelle tre conversioni adunque distinte dal Bellarmino non si dànno i caratteri proprii della conversione vera, che sono pur quelli che noi abbiamo recati. Ora tutte queste cose ben ritenute, egli è evidente, che un essere ricevendo in sè l' entità di un altro essere che in lui si converte, non mantiene l' identità sua, se non si suppone che tanto prima di divenir trasmutatario, come dopo essere divenuto tale, rimanga uno e semplice come prima. E veramente se coll' accogliere l' entità dell' altro essere egli diventasse due esseri mediante tale aggiunta, già non sarebbe vero che il nuovo essere si fosse in lui convertito, ma solo a lui apposto, avvicinato, appiccicato e nulla più. Or non sarebbe possibile che un essere trasmutatario rimanesse uno e identico, tanto più dopo aver ricevuto in sè l' altro essere, se non supponendo che l' unità sua sia un' unità complessa, cioè risultante di più parti, le quali sono unificate da un principio unico. In tal caso seguitando questo identico principio ad unificare le parti e a costituire la loro unità base dell' identità del loro complesso; egli è evidente che le parti possono crescere e diminuire; senza che nè l' unità, nè l' identità del tutto punto perisca o sofferi alterazione alcuna. All' opposto dove non si trattasse di una unità complessa; dove l' unità non provenisse da principio unificante più parti, le quali vengono da lui compaginate in un tutto unico e semplice; dove non si trattasse dell' identità di questo tutto: sarebbe impossibile concepire una vera e propria conversione. L' impossibilità di questo è manifesta; perocchè ne avremmo questa formola 1 .più . 1 .uguale . 1 E veramente si tratterebbe di rifondere l' entità di un individuo in un altro individuo, che è quanto aggiungere unità ad unità; e di averne per risultato non due individui, nè un individuo maggiore di prima, ma quell' individuo stesso nello stato di prima; cosa assurda come è assurdo che due e due facciano uno. All' opposto se l' individuo in cui l' altro si converte è complesso, egli è facile a sciogliere il nodo. Perocchè sebbene sembra, che venga a dirsi ugualmente che uno ed uno facciano uno; tuttavia è da sapersi che queste unità non sono uguali nei loro elementi ma solo nel loro risultato; sicchè l' unità che ne risulta è uguale nella sostanza, non nella grandezza, sicchè la formula si ridurrebbe a quest' altra 1 .più . 1 .uguale .1 la quale non ha contraddizione alcuna: se non che è da osservare, che questa formola, che varrebbe per la quantità, non varrebbe punto ad esprimere l' identità della sostanza o sia l' unità totale. Or questo è appunto ciò che avviene continuamente in noi. Noi bambini e noi uomini adulti siamo identici; perchè è identico il principio unificante, il principio nostro formale; pure ci sono state aggiunte delle parti, che non avevamo; il nostro corpo è cresciuto. Questo crescimento nelle parti non è crescimento nel tutto unico e identico; questo crescimento nella quantità, non è crescimento nella sostanza o nella individualità. Mediante la nutrizione adunque nasce una vera conversione e transustanziazione del cibo nel corpo nostro vivente. E simile a questa, noi sosteniamo dover essere quella che avviene mediante la consecrazione del pane e del vino. Non hanno alcun modo all' opposto [gli avversari] di mostrare nella conversione da loro descritta i caratteri sopraccennati di una conversione vera. Perocchè posto per principio che al corpo di Cristo non si può aggiungere niuna particella; viene per conseguente che non si consideri l' identità del tutto, ma l' identità delle particelle che compongono il tutto; non il tutto come uno, ma come una collezione di determinate particelle. Quindi se si volesse supporre una vera conversione non si potrebbe in alcun modo evitare quell' assurdo che esprimemmo nella formola, 1 .più . 1 .uguale . 1: il che non può fare nè pure l' onnipotenza divina: perocchè è ripugnante intrinsecamente che uno ed uno faccia uno; come che un' entità fusa nell' altra non accresca o di numero o di grandezza l' altra entità. Ricorreremo per esser brevi a ciò che fu stabilito intorno alla natura del corpo nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee , alla qual opera rimettiamo il lettore che brami più estese prove di ciò che qui affermiamo. Noi abbiam detto che le nostre cognizioni intorno al corpo ci vengono per due modi: 1 pel sentimento fondamentale spontaneo e sue modificazioni, e questo modo l' abbiam chiamato soggettivo ; 2 pel sentimento di resistenza al sentimento fondamentale, e questo l' abbiamo chiamato oggettivo [estrasoggettivo] (1). Or di questi due modi (sebbene ciascun porga un testimonio verace alla intelligenza) quello però che è principale, e fondamentale è il soggettivo; e su questo si fonda l' oggettivo [estrasoggettivo] : però la verità di questo dalla verità di quello interamente dipende (1). Or dunque, o noi non conosciamo cosa alcuna di vero intorno alla sostanza corporea, o pure dobbiamo a quel primo modo far fede. Ciò ha massimamente luogo trattandosi del corpo proprio, che noi percepiamo per un sentimento spontaneo fondamentale. L' unica maniera di conoscere che abbiamo un corpo si è questo sentimento appunto: e questa maniera è infallibile: perocchè l' essenza del corpo sta in questo sentimento, o certo da questo sentimento ci è immediatamente fatta percepire, consistendo questa essenza 1 in un agente; 2 che produce in noi quel sentimento diffuso nella estensione. Or venendo ad applicare questi principii al mistero Eucaristico; io domando se Gesù Cristo sente il proprio corpo nella dimensione di spazio circoscritta dalla specie del pane e del vino. Non si può rispondere, che o sì, o no. Ora se si risponde, che Gesù Cristo in quella dimensione di spazio che dalle specie Eucaristiche è circoscritta non ha il sentimento fondamentale del proprio corpo, in tal caso non si verifica che esista nello spazio disegnato dalle specie consecrate il corpo di Cristo: perchè l' essenza del corpo proprio di ciascuno sta nell' essere materia e confine al sentimento fondamentale. Se poi si risponde di sì; in tal caso convien dire che il sentimento fondamentale di Cristo oltre estendersi a quel luogo, che occupa in cielo, si stenda anche a quegli spazii che vengono dai confini del pane e del vino consecrati determinati. E in tal caso il corpo di Cristo non sarebbe restato quel di prima; ma si sarebbe veramente ingrandito, estendendosi agli spazii che dalle specie sono coperti. Perocchè io ho dimostrato che la vera grandezza del corpo è quella che viene determinata dal sentimento fondamentale, nè può essere altramente (2). Ora nel sistema degli avversarii si pone che il corpo di Cristo colla transustanziazione non acquisti aumento di sorta. Dunque racchiude l' assurdo, perchè d' una parte lo distende il sentimento fondamentale, il che equivale a ingrandire il corpo di Cristo: dall' altra [si] esclude qualunque ingrandimento; il che è contraddizione in terminis . Che se alcuno volesse dire, che v' ha l' estensione del sentimento fondamentale e però l' ingrandimento del corpo; ma che questo ingrandimento non nasce per aggiunta di particelle corporee avvicinate: costui cadrebbe in gravi errori. Perocchè: 1. E` assurdo che v' abbia il sentimento fondamentale corporeo là dove non v' ha materia corporea, che ne è il termine. 2. Questa materia non potrebbe essere creata, perchè non si vuole che niuna materia s' aggiunga al corpo di Cristo. Però si porrebbe la materia col porre il sentimento, ed insieme la si escluderebbe; il che è pure contraddizione. Si negherà forse che l' essenza del corpo di un uomo consista nel sentimento fondamentale del medesimo, o certo che da lui sia determinata? Dove adunque si vuol collocarla? Forse nella potenza non di agire sullo spirito (producendovi il sentimento fondamentale) ma in quella di agire sugli altri corpi esteriori? Io ho dimostrato che ciò implica assurdo, perocchè verrebbe fuori le definizione circolare: il corpo essere una potenza di agire sul corpo « idem per idem «. Ma tralasciando la dimostrazione diretta dalla falsità della dottrina che vorrebbe porre l' essenza del corpo in una potenza di agire sugli altri corpi o di produrre il moto, ecc.; io con argomenti egualmente efficaci, sebbene indiretti, verrò a convincere gli avversarii di rinunziare al loro tentativo. E a far ciò mi basterà osservare. 1. Che il corpo di Cristo nell' Eucarestia non mostra al di fuori nè la propria grandezza o forma, nè i proprii accidenti. 2. Che però l' operar suo è tutto secreto, non operando sul corpo nostro fisicamente colle forze proprie di lui, ma colle forze fisiche del pane e del vino; sebben questi cessino interamente. 3. Che quindi se l' operare all' esterno costituisce l' essenza del corpo; sotto le specie sacramentali non ci sarebbe più il vero e real corpo di Cristo mancandone l' essenza. 4. Chi poi dicesse bastare che abbia la virtù di operare esternamente, sebbene non operi; osserverei che questa virtù di operare non producendo nessun effetto fisico suo proprio non sarebbe però il corpo di Cristo, quando Cristo non n' avesse il sentimento e la consapevolezza; e se questo l' avesse, avrebbe colla consecrazione acquistato ciò che non gli si vuol dare, il sentimento fondamentale: e torneremmo ad osservar quelle cose, che abbiam toccate nell' articolo precedente. Insomma avverrebbe che fosse un corpo che nè avrebbe congiunzione sentita e proprio collo spirito di Cristo, nè con noi, in quanto sta ne' luoghi dalle specie circoscritto: il che distrugge l' idea del corpo. All' incontro bene stabilito il principio che« l' essenza del corpo umano« non consista nella sua azione al di fuori, ma nella sua congiunzione individua collo spirito da cui è informato, e con cui produce insieme il sentimento fondamentale, rimane chiarissima la verità e realtà del corpo di Cristo nella santissima Eucarestia, eziandio che egli non ferisca i nostri sensi, e non sia a noi oggettivamente [estrasoggettivamente] percettibile. Rimane la percezione soggettiva che di lui fa Cristo, e questo è il fondamento della sua verità e realità. Laonde que' filosofi che definirono il corpo un complesso di sensazioni esterne e oggettive, come Berkeley e Condillac, resero impossibile il dogma dell' Eucarestia, dove si crede la verità e realtà del corpo di Cristo, benchè manchino tutte le sensazioni esterne e oggettive [estrasoggettive] sopra di noi. Nè meglio può convenire al dogma Eucaristico il riporre nell' estensione attuale l' essenza de' corpi, come facevano i Cartesiani. Perocchè l' estensione circoscritta dalle specie dell' ostia consacrata, avendo un' altra figura e un' altra grandezza dal corpo umano, non potrebbe esser mai nè contenere il corpo di Cristo (1). Leibnizio vide l' errore di Cartesio, e s' accostò molto al vero ponendo la natura del corpo non già nell' estensione, ma nella « materia e forma sostanziale, cioè nel principio di passione e di azione« (2). » Or il collocare la natura del corpo solo in un principio di passione o di azione è troppo poco; perchè è troppo generale, conciossiachè questo descriverebbe più tosto l' essenza della sostanza in genere, anzichè quella della sostanza corporea. Convien dunque nel descrivere l' essenza del corpo, oltre porre il principio passivo ed attivo comune a tutte le sostanze, determinare altresì che cosa sia ciò che un tal principio sostanziale faccia appartenere più al corpo che ad altro essere, ciò che Leibnizio chiaramente non dice. Prosegue Leibnizio, dopo aver detto che l' essenza del corpo consiste in un principio di azione e di passione, in una facoltà attuale o entelechia primitiva, a dire, che questo sostanzial principo in cui consiste l' identità del corpo esige certe potenze ed atti secondi che sono realmente distinti dall' essenza, e che però dall' onnipotenza di Dio si possono separare interamente dall' essenza senza che questa perisca (1). Queste potenze seconde sono veri accidenti reali, non conseguenti di necessità dall' essenza del corpo, ma più veramente sopraggiunti ad esso, e per sè essenti. Due di queste qualità assolute o accidenti reali egli nota nel corpo, i quali sono la mole o potenza di resistere «pyknotes,» ovvero anche «antitypeia») e il conato o potenza di agire, ed essi son quelli che costituiscono veramente l' estensione de' corpi: il perchè l' estensione, e di conseguenza le dimensioni, e il luogo non sono cose a' corpi essenziali (2). Posta questa distinzione reale fra la sostanza del corpo e l' estensione, egli è manifesto che non solo può cessare l' estensione senza che cessi la sostanza, ma può l' estensione variare, non variando la sostanza: quindi lo stesso corpo può avere contemporaneamente più dimensioni, ovvero la stessa dimensione, lo stesso accidente reale può appartenere a diverse sostanze corporee: finalmente può rimanere la dimensione e la qualità, tolta la sostanza (3). Applicando questa dottrina intorno alla natura del corpo al mistero Eucaristico, ella suppone: 1. Che nel corpo di Cristo non sia avvenuta una mutazione di essenza, ma bensì una mutazione ne' suoi accidenti reali, quali sono la mole, il conato, l' estensione (1). 2. Che nel pane viceversa sia avvenuta una mutazione di essenza o sostanza, essendo questa cessata, rimanendo intatti i suoi accidenti reali, la mole, il conato, l' estensione. 3. Che la mutazione avvenuta nel corpo di Cristo consista in esistere oltre che nell' estensione propria, anche nell' estensione descritta dalle specie del pane: di guisa che l' identica essenza del corpo sia stata fornita di più estensioni. 4. Che la mutazione avvenuta nel pane consista nell' aver perduta la sostanza propria (se pure non si vuol dire che questa sia uscita di luogo, resasi spirituale, ciò che nel sistema Leibniziano potrebbe dirsi) e ricevuta nel luogo stesso della sostanza propria l' estensione del corpo di Cristo. Ora questo sistema difficilmente potrà soddisfare pienamente ed approvarsi da' teologi cattolici. Imperciocchè: 1. Nel mistero Eucaristico si trova sotto le specie del pane consecrato il corpo, l' anima e la divinità di Cristo. Hassi dunque a spiegare non solo come sotto le specie del pane si trovi l' identico corpo di Cristo, ma anche come si trovi lo spirito tutto intero di Gesù Cristo. Ora quel sistema non si occupa che di spiegare la presenza in più luoghi del corpo, e nulla più. 2. Si spiega egli la esistenza del medesimo corpo sotto diverse specie nel Leibniziano sistema? Forte ne dubito. Perocchè avendo distinto l' estensione del corpo dalla essenza del corpo, rimane a dimandare: ciò che voi collocate sotto le specie del pane è la sola estensione, o è anche la sostanza corporea? Se è la sola estensione: dunque sotto le specie del pane non esiste il corpo di Cristo, ma solo un suo accidente reale, che estensione si appella; il che sarebbe contro il dogma. Se poi sotto le specie del pane voi ponete la sola sostanza del corpo di Cristo senza l' estensione, vi rimarrà a spiegare come questa sostanza posta in tanti luoghi diversi non si moltiplichi (1). Di più rimarrà a dimandare, come la stessa identica sostanza di Cristo possa nello stesso tempo essere coll' estensione, e senza l' estensione. Nè vale già il dire, che si pone in due luoghi diversi in cielo, e sotto le specie del pane; perchè si parla della stessa identica sostanza metafisicamente considerata, cioè fuori di ogni luogo; la qual perciò come tale, non può dirsi essere in cielo od in terra; perocchè questo sarebbe già un dire avere determinazione di luogo, il che è contrario al concetto che si vuol formarsi della sostanza. Riman dunque a spiegare che una stessa identica sostanza per sè fuori di luogo debba esser collocata in due luoghi diversi nell' uno de' quali sia estesa, e nell' altro no, senza che perda la sua identità. Che se poi si pone sotto le specie del pane e la sostanza e l' estensione, in tal caso resta di nuovo a spiegarsi: 1. come la sostanza posta in più luoghi non si moltiplichi; 2. come l' estensione, che ha il corpo di Cristo sotto le specie dell' ostia, aggiunta all' estensione che ha il corpo di Cristo in cielo, non produca una sommaria estensione maggiore della prima; nel qual caso il corpo di Cristo si sarebbe ingrandito e disteso; 3 supponendo che sotto le specie sacramentali sussista il corpo di Cristo colla sostanza e colla estensione, che è l' unico sistema che possa convenire alla fede cattolica; rimane nel sistema Leibniziano a dimandare, la sostanza che sta sotto la specie colle sue dimensioni, è ella qualche cosa che fosse aggiunta al corpo di Cristo in cielo, o è nulla? Il Bellarmino dice che il corpo di Cristo in cielo acquistò l' essere sacramentale, il che suppone qualche mutazione essere avvenuta in lui [...OMISSIS...] . Or dunque, se il corpo di Cristo in cielo acquistò qualche cosa, se sotto le specie egli esiste colla sostanza e coll' estensione, se cosa certa è, che queste estensioni sono diverse, e che la somma di estensioni diverse forma un' estensione maggiore di prima, se in tutte queste estensioni opera la forza o sostanza corporea, che ha virtù di effondersi ed operare nell' estensione, altramente non sarebbe; rimangono dunque queste due difficoltà gravissime a superare: 1. Come il corpo di Cristo siasi ampliato. 2. E come siasi ampliato, senza aggiunta di nuova materia, la quantità della quale viene necessariamente determinata dalla estensione. Quest' aggiunta fu creata da Dio? perocchè se non fu prodotta dall' aggiunta di una materia nuova preesistente, nè da materia da Dio creata, ella non fu fatta in modo alcuno: e però cadremmo in contraddizione ponendo una giunta al corpo di Cristo, e negando nello stesso tempo la giunta stessa che noi poniamo. Conviene tutte queste difficoltà, che assai facilmente si superano nel nostro sistema, freddamente considerare e ponderare. Ma passiamo alle particolari difficoltà, che si rinvengono nel sistema del venerando Bellarmino. La sentenza di Leibnizio muove, come vedemmo, dall' aver distinta la sostanza (materia e forma sostanziale) del corpo, dall' estensione di lui prodotta dalla mole o forza di resistere e di impellere. Il Bellarmino all' incontro vide quanto forte cosa era a dire, che il corpo possa starsi privo di ogni estensione; e però immaginò di distinguere due estensioni, l' una essenziale al corpo, della quale egli non può essere spogliato senza che sia distrutto, l' altra a lui non essenziale, della quale può essere spogliato senza che perisca; l' una interna al corpo stesso, e l' altra locale o sia commensurativa al luogo che occupa (1). Ora, sebbene che il Bellarmino arrechi una ragione non solida a provare, che un corpo può trovarsi coll' estensione interna , e tuttavia senza l' estensione esterna che lo adegua al luogo (1); tuttavia la distinzione del Bellarmino trova fermo sostegno nelle dottrine intorno al corpo ed allo spazio, che io ho espresso nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee . E veramente io ho dimostrato avervi due modi di percepire l' estensione, l' uno soggettivo , l' altro oggettivo [estrasoggettivo]; di che si può acconciamente distinguere un' estensione soggettiva da una estensione oggettiva [estrasoggettiva] : e questa appunto mi pare che possa corrispondere alla distinzione recata in mezzo dal Bellarmino, la quale, senza intenderla in questo modo, non so qual potrebbe avere significato. E veramente mi dà motivo d' interpretare in sì fatta maniera la distinzione del Bellarmino fra l' estensione interna e l' estensione esterna , un luogo del Bellarmino stesso, dove rispondendo ad una obbiezione chiarisce maggiormente il suo pensiero dicendo: [...OMISSIS...] . Or da queste parole pare potersi conchiudere, che l' estensione che attribuisce al corpo di Cristo nella Eucarestia è quella che noi chiamiamo estensione soggettiva , cioè relativa al soggetto. E certo se così dee intendersi quella che il Bellarmino attribuirebbe al corpo di Cristo nell' Eucarestia sarebbe un' estensione verissima e non già apparente: quando anzi noi abbiamo dimostrato che l' essenza propriamente dell' estensione noi la percipiamo soggettivamente, mediante il sentimento fondamentale e sue modificazioni; di maniera che la sensazione soggettiva è la misura e il fermo criterio de' giudizi che noi facciamo sull' estensione esterna ed estrasoggettiva (1). Nè s' incontra contraddizione alcuna che v' abbia l' estensione soggettiva, senza che v' abbia la oggettiva [estrasoggettiva] corrispondente. Perocchè è manifestamente un atto diverso quello che fa la sostanza corporea ponendo la estensione soggettiva , da quello che fa ponente la estensione oggettiva [estrasoggettiva] . Conciossiachè la estensione soggettiva l' abbiamo noi definita« un modo del nostro sentimento fondamentale« in quanto questo è un sentimento animale. Or questo sentimento è l' effetto di una forma che agisce nel nostro spirito e col nostro spirito; e che ivi lo produce, e lo produce col suo modo dell' estensione soggettiva; di maniera che questa estensione noi la percipiamo immediatamente col sentimento fondamentale; e la forza che la produce, considerata come cosa congiunta col suo effetto esteso, è il corpo nostro proprio. All' incontro l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] è quella che percipiamo quando un corpo esteriore modifica il corpo nostro, e sentiamo non un sentimento spontaneo (come è il sentimento fondamentale), ma un sentimento violento, come è quello che proviamo nell' atto che un oggetto esterno agisce su di noi modificando il sentimento nostro fondamentale, col produrre qualche moto nella sua materia. Or qui è evidente la distinzione essenziale fra l' atto che produce l' estensione soggettiva, e l' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [estrasoggettiva]. L' atto che produce l' estensione soggettiva opera immediatamente sul nostro spirito. L' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] non opera sul nostro spirito (almeno immediatamente), ma opera sulla materia del nostro sentimento fondamentale; e se noi troviamo l' identità delle due estensioni non è per altro se non perchè l' estensione esterna viene da noi commensurata e immedesimata coll' estensione interna, nel modo che ho spiegato nel Nuovo Saggio , e non per altro. Or l' azione sopra uno spirito e l' azione sopra un corpo sono azioni essenzialmente diverse, e però si possono concepire divise. Di più queste due azioni si ravvisano ne' corpi sì come sono nello stato loro naturale; ma l' azione però del corpo sopra il nostro spirito è anteriore all' azione de' corpi esterni sopra il corpo nostro; e quella basta a farci concepire un corpo esteso. Dunque alla vera essenza del corpo esteso non appartiene che la estensione soggettiva, e non involge punto di contraddizione, che rimanga privo dell' estensione oggettiva [estrasoggettiva] a quella posteriore, e da quella essenzialmente distinta. E in vero se il corpo nostro continuasse ad essere da noi sentito col sentimento fondamentale, ma egli cessasse di agire interamente su corpi esterni di guisa che non cadesse più sotto il senso degli altri uomini: questo corpo avrebbe tutta la sua estensione soggettiva, e tuttavia avrebbe perduta la estensione oggettiva [estrasoggettiva]; egli continuerebbe ad agire sull' anima nostra, e avrebbe cessato di agire sul corpo degli altri uomini, azioni e facoltà assai disparate. E questo parmi che molto probabilmente possa essere lo stato del corpo glorioso in quei momenti, ne' quali cessava dal rendersi sensibile esternamente; ne' quai momenti, sebbene non feriva i sensi organici degli Apostoli e de' discepoli, non continuava meno per questo ad essere congiunto coll' anima di Cristo, nè meno continuava ad essere in quest' anima il sentimento del corpo al quale era unito (1). Or sebbene un corpo perda la sua estensione oggettiva [estrasoggettiva] cioè rattenga l' atto di quella forza che il fa operare sugli altri corpi; non perde per questo, come osserva ottimamente il Bellarmino, la stessa facoltà di operare all' esterno (2): di che viene che questa facoltà, nel caso de' corpi gloriosi, possa or porre l' atto suo, or raffrenarlo, e così or apparire visibile, or invisibile, ora tangibile ed ora intangibile. Ma or applichiamo questa dottrina intorno all' estensione al modo onde il corpo di nostro Signore si trova nell' Eucaristia. Primieramente un corpo umano, il quale conservasse l' estensione soggettiva, sarebbe in uno stato il quale sebbene relativamente al soggetto senziente esisterebbe come prima, avrebbe le stesse dimensioni e ogni parte fuori dell' altra; tuttavia relativamente a' corpi esterni sarebbe intieramente come se non fosse, non avrebbe ad essi alcuna abitudine nè di luogo, nè di azione, cioè di quell' azione che costituisce l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] od esterna . Ora questo farebbe intendere quello che dice S. Tommaso, che il corpo di Cristo si trova nell' Eucaristia illocalmente , cioè non come una quantità dimensiva; ma come una sostanza (1). Perocchè la sostanza del corpo si mantiene, quand' anco ella non si commisuri a un luogo cioè al suo spazio esterno, la qual commensurazione di S. Tommaso viene a corrispondere a quella che noi chiamiamo estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] (2). Sebbene però S. Tommaso insegni che il corpo di Cristo non è in questo Sacramento sì come in luogo, quando anzi non vi potrebbe stare in tal forma, conciossiachè il luogo che presta questo Sacramento al corpo di Cristo è molto più ristretto della dimensione propria di esso corpo di Cristo; sebbene insegni pure, che il corpo di Cristo non sia in questo Sacramento per modo di quantità dimensiva, nè circoscrittivamente; tuttavia il santo Dottore aggiunge, che, se non in forza del Sacramento, tuttavia per ragione della reale concomitanza si trova altresì nell' Eucaristia tutta la quantità dimensiva del corpo di Cristo. Ora egli sembrano queste cose apparentemente contradditorie; giacchè se si adduce per ragione del non essere il corpo di Cristo nel Sacramento come in luogo, quell' essere il luogo del Sacramento assai minore del corpo stesso di Cristo (3), una tal ragione vale per escludere la quantità dimensiva assolutamente, o per virtù del Sacramento, o concomitante. Ma l' angelico Dottore agevolmente si concilierebbe seco medesimo, ammettendo la distinzione suggerita dal Bellarmino, e intendendo che il corpo di Cristo è privo nel Sacramento della quantità dimensiva esterna , ma non della quantità dimensiva interna e a lui essenziale . Or questa, essendo essenziale al corpo, dee esserci in virtù del Sacramento; quella non abbisogna che vi sia se non virtualmente , e però in conseguenza della naturale concomitanza dovrebbe esservi, ma per un modo portentoso soprannaturale vien ritenuta indietro, rimanendo la potenza e non l' atto. O pure può distinguersi nella quantità dimensiva interna, la determinata misura di questa, e intendere che per concomitanza è questa determinata misura che si trova nel Sacramento, non una quantità dimensiva interna qualunque, che pur vi dee essere, come elemento della corporea sostanza. Ma qui comincia tosto a manifestarsi una difficoltà. Se il corpo di Cristo è al tutto privo della estensione oggettiva [ estrasoggettiva ], egli non ha più alcuna relazione cogli altri corpi, o co' luoghi che occupano; come dunque si dirà che il corpo di Cristo sia sotto le specie del pane e del vino? come si dirà ch' egli, se non è circoscritto dalla propria estensione oggettiva [estrasoggettiva] sia però circoscritto dalla estensione esterna e oggettiva [estrasoggettiva] del pane e del vino stesso? (1) non però che quella estensione sia un suo accidente, ma sì il limite del luogo entro il quale egli si trova. Insomma come manca l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del corpo di Cristo, così rimane l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del pane colla quale il corpo di Cristo ha quelle relazioni che aveva il pane prima della transustanziazione, fuor solo che il pane era il soggetto di quella estensione sensibile, quando tale non è il corpo di Cristo. Come dunque si spiega questa relazione, quando la quantità che conserva il corpo di Cristo è al tutto priva di relazione a corpo estraneo o a luogo alcuno? (2). .......... La base del Cristianesimo è il dogma del peccato d' origine. A redimere l' umana famiglia dalla perdizione, in cui l' ebbe rovesciata la disubbidienza del padre suo, disubbidienza da S. Agostino detta « ineffabiliter grande peccatum (1), » il Figliuolo di Dio si fece carne e fu crocifisso. Egli illuminando gli uomini ciechi a conoscere Iddio, e donando loro i mezzi co' quali sollevarsi all' eternal beatitudine, fondò il Cristianesimo. Laonde fu sempre riconosciuto, che l' attentato di distruggere il dogma del peccato originale mira a distruggere tutta intera la cristiana religione; la cui causa, come disse divinamente S. Agostino, si racchiude in due uomini, Adamo e GESU` Cristo. A malgrado tuttavia dell' importanza di questo dogma dell' originale peccato, furon sempre, non solo tra gli infedeli, ma tra i cristiani altresì, alcuni che l' attaccarono, e mossero ogni pietra, ogni ingegno adoprarono affin di distruggerlo. Se cercasi la cagion di una guerra così incessante contro tal verità, la cui tradizione conservossi da tutti i popoli, conviene rinvenirla nella stessa importanza principalissima di quel dogma; contro al quale il demonio fa gli sforzi maggiori; perchè bene intende che smossone il fondamento, l' edifizio, per magnifico e solido ch' egli sia, precipita da sè stesso; onde così lusingasi di crollare agevolmente tutta intera la cristiana religione solo che gli riesca di levarle di sotto il primo fondamento, sul quale ella si erige, quello dell' originale infezione. Tale è l' intendimento costante dell' inimico dell' uman genere, e di tutti i suoi figliuoli. Al quale empio divisamento del primo autore del male apparecchia poi il camino l' umano desiderio di conoscere, e la limitazione ed infermità della mente e la manchevolezza dell' umana virtù; onde l' uomo si appiglia più presto al partito di affermare il falso, che di confessare la propria ignoranza, e piuttosto di dire a sè stesso di non vedere, imagina de' vani fantasmi e dice di vedere. Laonde essendo il peccato di origine uno de' veri i più misteriosi, a tal che ebbe a scrivere S. Agostino: [...OMISSIS...] ; niuna maraviglia è, che gli uomini ripugnino ad aderirvi; come ripugnano sempre a credere quello che non intendono, e che per tante vie eglino tentassero di spacciarsene col proprio ragionare, quanti erano i nodi che vi rinvenivano al loro debol pensiero insolubili. L' uomo in una parola ristretto alle forze della sua mente e dalla grazia non sollevato più su, è agevolmente razionalista; agevolmente ei si persuade di dover ritrovare nella forma della propria ragione ogni scibile. Quest' è il fonte da parte della natura umana degli sforzi fattisi in tutti i tempi affin di distruggere il dogma del peccato originale. Non tutti però quelli, che all' annullamento di questo primo dogma della Religione diedero opera, ebbero egualmente coscienza di tentare con ciò un' impresa criminosa. V' ebbero in prima di quelli, che dichiarandosi di professare il Cristianesimo e d' ammettere tutte le verità rivelate, negarono in pari tempo colle parole e co' concetti loro il peccato d' origine. Furono condannati dalla Chiesa; e dall' istante che la Chiesa definì esplicitamente il vero, e dannò quella loro dottrina, la coscienza del delitto che comettevano, rimanendo pertinaci in tale errore, non potea più loro mancare. Ma il dogma del peccato d' origine non ebbe solo a nemici quegli eretici manifesti. L' astuzia del diavolo primo autor suo, e il razionalismo a cui l' uomo spesso, come dicevamo, si lascia guidare, non cessò mai di dare in lui de' secreti morsi. Ed ecco in che modo si venne a questo dogma pregiudicando, fino a distruggerlo interamente co' concetti, nel tempo stesso che lo si confessava colle parole . Le varie difficoltà, che alla ragione dei singoli uomini presenta il peccato d' origine si vollero ad ogni costo superare. E certamente sarebbesi prestato un servizio grandissimo alla stessa religione coll' appianare quelle apparenti difficoltà. Laonde molti vi lavorarono intorno a buon fine, e con animo reverente e sommesso al sentir della Chiesa; di che nacquero le diverse scuole teologiche, che convenendo tutte in quello che trovavano dalla Chiesa chiaramente ed espressamente definito, e sempre pronte a condannare quel che fosse per condannare la Chiesa, e a difendere quello che la Chiesa fosse per definire; giustamente si meritarono egual protezione dalla Santa Sede, che non di rado con divina sapienza e moderazione difese la libertà di ciascuna, a niuna d' esse permettendo di condannare le altre con quell' autorità che sol si compete al supremo apostolico Magistero. All' opposto ingiustamente gli empi e i profani straziarono le cristiane Scuole, traendone cagione dalle differenti opinioni in cui si dividono. Conciossiacchè la divisione nelle mere opinioni non toglie l' unità concordissima della fede, nè pregiudica necessariamente all' intima carità, la quale semplifica i cuori coll' identità di ciò che cercano tutti, benchè per vie diverse, la verità; e di ciò che tutti amano e per cui tutti egualmente i veri teologi di qualsivoglia Scuola lavorano, Iddio. All' incontro quello sforzo di arrivare allo stesso fine per varie strade, giova non poco alla scienza; che di varie considerazioni, quasi di raggi da diverse parti riffettenti e convergenti, s' illustra. Che se si volessero le ragioni indagare del diverso opinar delle Scuole, forse questa si troverebbe esser una: l' essersi una Scuola allarmata maggiormente di uno degli estremi errori, e un' altra l' essersi maggiormente allarmata d' un altro; onde ciascuna, volendosi provvedere e cautelare principalmente in contro a quell' errore che più prese a temere e a combattere, s' appigliò a quelle sentenze e a quelle espressioni, che dall' odiato errore più le paresser lontane. Di che ben può dirsi, che l' emulazione che mostraron fra loro queste Scuole fosse una cotal gara a chi meglio evitasse gli scogli degli errori e la purezza della dottrina intemerata conservasse. Le quali cose affermando, io non ignoro però, nè dissimulo a quali sconvenevoli modi, a quali imputazioni calunniose si lasciassero talor andare i disputatori, con tanto dolor de' fedeli, e troppo n' ho provato io stesso l' aculeo; ma dico essere questi peccati degli uomini e non delle Scuole, i quali furono già da me nei due libri precedenti sufficientemente ripresi e lagrimati. E però in quest' ultimo reputo tali increscevoli difetti umani lasciar da parte; e della sola dottrina storicamente venir ragionando, senza badare se con modi o decenti o sozzi dagli scienziati ella si maneggiasse. Laonde senza dubitazione ripeto, essere le Scuole tutte della Chiesa cattolica in sè stesse commendabilissime, benchè sieno in opinare diverse; conciossiacchè tutte fanno finalmente una guerra incessante agli errori; benchè non tutte guerreggino gli errori stessi egualmente, ma l' una più questo, e l' altra più il suo opposto. Così, per tornare a noi, nel definire in che consista l' essenza del peccato originale, una Scuola si pose maggiormente in guardia contro all' errore di annientare questo peccato, per non rendersi in quanto a' concetti simile alla setta eretica de' Pelagiani, poco giovando di confessarne nudamente l' esistenza, a chi ne annulli l' essenza; un' altra per lo contrario vegliò contro l' errore opposto, che è quello di collocare il peccato colpevole e demeritorio in qualche cosa indipendente dalla libera volontà, per non accompagnarsi alle sette eretiche de' Calviniani, de' Bajanisti e de' Giansenisti. E chi non dovrà lodare questo studio di evitare e di combattere gli errori opposti dalla Chiesa proscritti? Or non si dee egli dire giustamente, che lo spirito di queste Scuole benchè varie, è finalmente uno solo e il medesimo, se tutte contendono a questo solo, di mantenere intatta la purità della fede? Dividansi adunque, come dicevo, dalla tendenza inerente alle varie Scuole cristiane, la quale è lodevole, i difetti de' singoli uomini, che di esse Scuole si dichiararon campioni; e non s' incarichino le Scuole stesse di questi umani difetti; perocchè non sono essi essenziali alle Scuole, anzi dallo spirito di esse naturalmente son condannati. Colla quale distinzione rimangono le Scuole cattoliche a pieno giustificate; nè ciò, in cui peccarono gli scrittori, benchè non possa a meno di registrarsi nell' istoria delle teologiche discussioni, dee recar ombra alcuna alla gloria delle Scuole medesime, ma solo dar materia di compatimento in verso gli erranti, e servir d' esempio funesto da doversi diligentemente evitare. Che anzi se cotesti difetti trapassano certo segno, quelli che se ne rendon colpevoli, già per ciò solo non appartengono più a campioni delle Scuole cristiane; rifiutandosi queste di riconoscere per loro seguaci coloro che eccedono di sì grave foggia. Perocchè distinguansi tre maniere di peccati, in cui avviene che incappano i difensori dell' una o dell' altra sentenza. La prima sono le maniere ingiuriose che usano contro quelli che opinano da lor diverso; e di questo ho già sopra toccato. La seconda sono le calunnie che gli opinanti reciprocamente s' appongono. Della quale sconcezza, ecco la cagion principale. - Una Scuola, dicemmo, si mette principalmente in sospetto d' uno degli errori estremi proscritti dalla Chiesa: un' altra si mette in sospetto principalmente dell' errore opposto. Indi sorge agevolmente in fra le Scuole una cotale diffidenza; perocchè l' una Scuola non vede che l' altra si allontani tanto da confini dell' errore da essa più aborrito, quant' ella studia di tenersene lontana. Indi una cotal vigilanza de' campioni d' una Scuola, in su' campioni dell' altra tutt' intenti ad osservarsi scambievolmente, se forse chi diversamente opina porga il piede un cenno più là della linea del giusto confine, vicino al quale egli cammina, per sorprenderlo in fallo, ed avvisare il pubblico dello sdrucciolo, se così incontra, sicchè non ne soffra danno la fede. Ma talora l' accusatore, non ne sa abbastanza, od ha l' occhio traballante per umane passioni; ed allora gli avviene, che invece d' accusare, calunnia il suo confratello, che gli pare trascorso, quando pure di quà dal limite ancor si tiene. Onde nel secolo scorso principalmente, non pochi Molinisti furono ingiuriosamente denunziati per Pelagiani ; ed a non pochi Agostiniani o Domenicani s' appose in quella voce, ingiuriosamente del pari, la taccia di Bajanisti e di Giansenisti , con gravissimo scandalo e rumore de' fedeli. Ma la sapienza e giustizia dell' Apostolica Sede venne in soccorso degli ingiustamente vituperati e difese la giusta libertà di opinare, finchè i teologi si contenessero entro la sfera delle scolastiche opinioni, fuor d' essa non punto disorbitando. E questa è la terza maniera appunto di peccati, a cui posson trascorrere; il disorbitar voglio dir da' limiti delle Scuole, talmente impaurendosi d' un errore, di quell' errore che la Scuola maggiormente e più direttamente impugna, da non guardarsi poi abbastanza dall' errore opposto, e inavvedutamente cadervi. Ora io dicevo, che se un campione dell' una o dell' altra delle Scuole, ammesse nella Chiesa cattolica, traboccasse così fattamente nell' errore, questi oggimai cesserebbe dall' esser campione della sua Scuola; perocchè ognuna delle Scuole cattoliche egualmente proscrive gli errori tutti dalla Chiesa proscritti, nè niuna d' esse riconoscerebbe per suo l' errante, quando d' errore, contro una chiara definizione della Chiesa, fosse convinto. Laonde nella mia Risposta ad Eusebio, io dissi, che invano egli sarebbesi lusingato, che una delle Scuole cattoliche gli venisse in aiuto: conciossiachè s' ella è Scuola cattolica non può in alcun modo dar braccio all' errante (1). E però in quello che fin qui io scrissi intorno al peccato d' origine, non ho inteso punto di condannare alcuna opinione tollerata e nelle Scuole difesa; ma solo un' opinione così fattamente esagerata e sformata, che, quanto a me sembra, ella già non può più appartener ad una Scuola cattolica di vero nome, ma solo al novero degli errori. Tale io considerai la sentenza, che« l' essenza del peccato d' origine consiste unicamente nella privazione, in cui nasce l' uomo, della grazia santificante, e che l' uomo ora delle naturali sue forze e facoltà sia provveduto tanto perfettamente quanto sarebbe, se fosse stato creato in questo stato di pura natura, che la Chiesa ha dichiarato, contro Bajo, possibile«. Agli occhi miei questa sentenza contiene il concetto stesso dell' eresia pelagiana; salvochè i difensori moderni di essa si dichiarano sottomessi alla Chiesa; dichiarazione che dovendovi supporre sincera, dimostra che essi la credono dall' eresia pelagiana diversa, il che può escusare davanti a Dio le loro persone, non può migliorare la condizione della loro sentenza. Nel che si osservi, che le menti degli uomini per la naturale loro limitazione ed infermità, mantengono anco nelle cose teologiche quella legge medesima che costantemente si manifesta nella storia dell' altre discipline, massime poi di quelle, in cui le passioni e l' animo umano prende gran parte; legge per la quale l' opinione s' incammina verso uno degli estremi, ma giuntavi nel movimneto suo progressivo e trapassatolo, ritorna indietro, ed all' estremo opposto s' incammina, che pure incautamente trapassa; per oscillar poi di bel nuovo fra i due errori contrarii, rimanendo sul territorio della verità quel tempo che abbisogna a percorrere il cammino intermedio, sia in una, sia nell' altra direzione; ma rompendo interamente e manifestamente all' errore nel fornire del viaggio, quando ella è già tanto andata da trovarsi nell' assurdo così addentro da non poterne più disconvenire e da vergognarsene ella medesima. La qual legge presiede sì fattamente all' incessante moto della mente umana, che nulla vi si sottrae fuor che la divina fede; la quale è immobile come la verità, nè tale ella sarebbe, se fosse sol' opera dell' uomo e non dono di Dio. Laonde havvi questa differenza fra quelli che nella fede teologica dimoran costanti, e quelli che ne van privi o che l' abbandonano; che le menti di quest' ultimi oscillano perpetuamente da uno all' altro estremo errore in ogni cosa; là dove le menti di que' primi si stanno ferme nel vero definito per cosa di fede, e solo oscillano in quelle cose circa le quali l' opinare è permesso. Ma poichè come si dànno de' veri credenti, così si dànno altresì di quelli che cedono alla naturale pendenza dell' inferma e breve loro ragione, anche quando questa li preme e sollecita a distaccarsi dalla fede; così parlandosi dell' università degli uomini, noi possiamo agevolmente additare quella legge come seguita nelle materie sia sol filosofiche, sia anco teologiche. La qual legge è il filo conduttore nel labirinto de' pensamenti umani, troppo necessario a conoscersi da coloro che tolgono a narrare le vicende delle scienze e delle dominanti opinioni; nè tuttavia guari ancor conosciuto da tali istorici. Che se noi ci restringiamo a considerare quai pensieri fece sollevare nelle menti lo spettacolo dell' umana perversità, ci sarà facile rinvenire i due estremi, tra di cui quelli andarono vibrandosi, i quali sono stati, volendo noi designarli con due vocaboli, il fatalismo ed il razionalismo . Definiremo in questo senso il fatalismo quel sistema che toglie a spiegare il male morale ricorrendo a una causa qualsiasi in esclusione della libertà umana: gli uomini fino che trovansi sotto il dominio di questa opinione fanno uno scarso uso del proprio ragionamento; e piuttosto aspettano e vogliono ricevere ogni lume direttamente dalle nature invisibili e superiori, quasi da maestri d' infallibile autorità, e da signori d' insuperabile potenza. L' intelligenza in tale stato è contemplante, la volontà non delibera: segue impetuosamente la propensione. Definiremo all' incontro il razionalismo per quel sistema che a spiegare il bene ed il male morale non ricorre che alla sola ragione e alla libertà. L' uomo cade in tale opinione, quando prima sente con vivezza il proprio sviluppo: lo sorprendono i passi che fa la propria ragione, e lo svolgimento impensato della sua attività è tale che lo inebbria di sè stesso: allora crede d' esser capace di tutto, di poter saper tutto, e di rendersi da sè stesso indipendente da chichessia, o perverso o virtuoso. Il mondo orientale presenta massimamente il dominio del primo sistema; ma la Grecia, la ragione greca, l' attività greca fa comparire in iscena il secondo. Nè questa doppia tendenza dell' umana mente potea distruggersi col sopravvenire del Cristianesimo, perocchè l' uomo non si distrugge; e quella doppia tendenza è una legge costitutiva della umanità. Nella Chiesa adunque videsi lo stesso alterno movimento delle menti: una tendenza al fatalismo (nel senso detto) fino a precipitarvisi; ed una tendenza al razionalismo , fino parimenti a rimanere dal suo vortice assorbiti. Ma di presente, si dimanderà, a quale stadio sono pervenute le menti? verso quale de' due errori camminano? e però qual de' due è oggidì più pericoloso alla fede? Non è difficile il rispondere a queste domande: perchè la cosa è patente; non havvi uomo di buon senso al mondo, che non vegga il male del secol nostro essere il razionalismo , come ho già altrove detto. Ma giova, che noi veggiamo per quali vie poi siamo venuti a questo nostro periodo di tempo; e perciò che tocchiamo della storia degli accennati due errori, a quel modo e in quelle forme, delle quali vestiti essi sursero nel seno stesso della Cattolica Chiesa. All' epoca in cui nacque il Cristianesimo, il fatto umanitario, che riscosse l' attenzione più profonda, fu quello della corruzione dell' uomo. Tutti i secoli e tutte le nazioni concordemente attestavano, che l' uomo soggiace al male non meno morale, che fisico, dal dì che nasce. Questo fatto, da nessuno chiamato in dubbio, volevasi pure spiegare. Il Cristianesimo si presentava appunto al mondo promettendo di sciorre l' enimma. Quelli che si dipartirono dalla spiegazione cristiana produssero le prime eresie (1). I primi di costoro furono de' filosofi Samaritani, Dotiseo, Simone, Menandro; e il fecero in modo che detrassero alla libertà umana: era il sistema orientale del fatalismo. Così il mago Simone non solo considerava l' uomo come soggetto alla tirannide degli Angeli, ma era altresì cotanto alieno dall' imputare la virtù e il vizio all' umana libertà, che egli attribuiva all' opera degli angeli malvagi la persuasione messasi fra gli uomini, che v' abbiano delle buone e delle cattive azioni, degne le prime di ricompensa, le seconde di castigo. Insegnava che niuna azione è buona o rea di sua natura, e che si salvavano gli uomini solamente per la grazia che usciva da lui, non pe' meriti loro (2). L' opinione che attribuiva la creazione del mondo, ed il male a cui l' uomo soggiace, agli angeli, uscita da Samaria, fu propagata nella Siria dall' antiocheno Saturnino, e nell' Egitto da Basilide, entrambi discepoli del Samaritano Menandro. Saturnino aggiunse, creato il mondo da sette angeli, un de' quali essere il Dio degli Ebrei. Basilide e il suo contemporaneo Carpocrate erano d' Alessandria, cioè di quella città dove s' erano unite insieme le tradizioni orientali, le dottrine ebraiche, specialmente mediante la versione in greco de' libri sacri, e le dottrine di Platone; da' quali tre elementi risultava la Scuola di Alessandria. Quindi la dottrina intorno agli angeli come creatori del mondo e autori di tutto il male, vestì in mano di questi due eresiarchi delle forme più filosofiche, e propriamente platoniche : gli angeli ebbero delle genealogie: il mondo fu creato dagli angeli inferiori, il capo de' quali era il Dio degli Ebrei (1). Convien però osservare che in Platone s' eran riunite le due filosofie di Pitagora e di Talete, la tradizionale e la razionale, l' orientale e la greca (2); e che la scuola alessandrina, essenzialmente orientale, avea dal filosofo greco ritolto, per così dire, quello che egli stesso avea tolto all' oriente, assai più che quello ch' egli avea posto di greco e di razionale ne' libri suoi. Laonde la filosofia alessandrina7greca in alcune forme ed espressioni è veramente orientale nel fondo e nella sostanza (1). Cerdone fece fare un passo innanzi all' erronea dottrina de' nominati eretici. [...OMISSIS...] Questi eretici attribuirono agli angeli la creazione del mondo e l' origine del male. Con Cerdone già appariscono i due principii supremi, l' uno del bene e l' altro del male, chiaramente espressi: il principio del male è lo stesso angelo creatore de' precedenti eresiarchi, da lui convertito in un Dio. Il Massuet, dopo avere accennate le dottrine di Cerdone, dice: [...OMISSIS...] . Marcione che gli fu discepolo insegnò la stessa dottrina de' due principii, e via più sviluppolla, via più depravandola. Perocchè se Cerdone avea detto che quel Dio a cui era dovuta l' origine della legge e de' profeti non era buono, confessava però che era giusto; ma Marcione, dice S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Tertulliano di Marcione scrive così: [...OMISSIS...] , donde vedesi, come appoggiava all' autorità delle Scritture inspirate l' empietà dei due principii. E poichè il disordine della carnale concupiscenza è quel sintomo patentissimo dell' umana corrotta natura, che più colpì le menti de' popoli e de' pensatori; perciò quindi appunto venivano a detrarre gli eresiarchi che nominammo, alla bontà del Creatore, perchè il supponevano autore della concupiscenza, la reità della quale rifondevano nella pravità della materia, di cui il corpo umano componesi, e questa concupiscenza disordinata, in cui sentivano il male insito alla natura, traevali ad odiare le nozze, e a molte altre strane e nefande empietà (4). Taziano (5), Bardesane filosofo cristiano d' Edessa (6), Apelle (7), Zarane (.), ed altri abbracciarono gli stessi errori già grandemente diffusi nel secondo secolo della Chiesa. Nello stesso secolo Sciziano (1), il suo discepolo Terebinto (2), divennero i maestri del persiano Manete, la cui nascita sembra doversi collocare nel secolo terzo non molto inoltrato (3). Con Manete la mente umana giunse a toccare quest' ultimo estremo errore che toglie a spiegare il fatto dell' esistenza del mal morale mediante una necessità di natura: il sistema del necessitismo fu compiuto, ebbe forme sistematiche e certe: non gli mancò che di propagarsi e radicarsi: perocchè ogni sistema suol sempre avere due periodi oltre a quelli del decadimento; nel primo de' quali vien formandosi sì quanto al concetto e sì quanto alle forme determinate e alle espressioni tecniche; nel secondo poi vien diffondendosi e stabilendosi nelle menti. Ora il sistema che del male formava una propria natura e sostanza compì, come dicevo, il suo primo periodo in Manete, che perciò appunto divenne il più celebre degli eretici che avevano insegnato un tale errore, e quello che gli lasciò definitivamente il suo nome. Laonde S. Cirillo Gerosolimitano dice acconciamente: [...OMISSIS...] . L' errore di Manete è manifestamente distruttivo della libertà; conciossiacchè per ispiegare l' esistenza del mal morale si dimentica al tutto di questa causa, e ricorre ad un principio eterno che è quell' immaginata sostanza del male, onde riman sottomesso, come osserva S. Agostino, Iddio stesso alla necessità del peccato: [...OMISSIS...] . Dalla qual maniera di fatalismo invano cerca il Beausobre (1) di purgare cotesti eretici; perocchè quantunque accordassero la libertà all' uomo nella stato d' innocenza, tuttavia lo stesso peccato originale, e per esso la perdita della libertà, viene da essi al malo principio e non alla libertà umana come a causa riferito: [...OMISSIS...] . Onde non considerano la concupiscenza come il segno della viziata natura e come un accidente di questa, ma come una cotale sostanza intrinseca rea. [...OMISSIS...] Di che avviene, che la concupiscenza, secondo questi eretici, non è un vizio che si sani, come diciam noi cattolici, ma è una sostanza sola che si separa, e sanno ancora, quegli acuti ingegni, ch' ella prenderà poi alla fine una forma rotonda come in igneo globo racchiusa! [...OMISSIS...] Tale è la teoria manichea portata alla sua perfezione. Questa dottrina fu sempre condannata dalla Chiesa come contraria alla rivelazione: fu anche sempre riprovata dalla ragione, alla quale non fu difficile il dimostrarla generatrice di assurdissime conseguenze. Ma per confutarla non ragionando dall' assurdo, ma dall' erroneità intrinseca del principio dal quale moveva, egli era necessario sci“rre la grande questione dell' origine del male, sulla difficoltà della quale insistevano i Manichei (1). Ora il chiaro ed ineluttabile scioglimento d' una questione sì ardua deesi a S. Agostino. Questo Padre dimostrò chiaramente che il male non è alcuna sostanza, ma solo un' accidentale privazione, e che la sua possibilità giace nella limitazione inerente alle creature tutte (2). Con questa filosofica scoperta l' eresia dei Manichei fu atterrata nel suo principio: fu annullata in teoria per sempre. Ma come accade che l' errore abbia i due periodi accennati della formazione e della propagazione ; così parimente la teoria vera, che contrapposta alla teoria erronea per diretto e per intero l' annulla, ha pur essa i medesimi due periodi dell' invenzione o formazione cioè e della propagazione e convalidazione: e il secondo di questi suol riuscir lungo, allorquando trattasi d' una questione difficile, in cui suol esser più facile intendersi la proposta che la soluzione; come avvien pure di quella del male. Perocchè egli è agevol cosa l' accorgersi che la natura del male difficilmente si scuopre; ma si richiede poi sottile ingegno a ben penetrare com' essa sia una privazione, un accidente della natura che riman priva di ciò che alla sua interezza è richiesto. Di che si spiega come il trovato nobilissimo di S. Agostino che dimostrò il male essere cosa negativa, benchè recidesse la radice della manichea pravità e assicurasse per sempre il trionfo del vero; tuttavia non potè trattenere il Manicheismo dal suo corso, sicchè egli non compiesse il suo secondo periodo, quello della propagazione. Al qual corso venne in aiuto l' ignoranza e barbarie de' tempi di mezzo, ne' quali la società degli uomini ebbe abbandonata quasi del tutto la contemplazione de' veri teoretici, per la vita pratica e bellicosa; sicchè troppo dovea esser difficile in quella notte il sollevarsi fino alla specolazione del dottor d' Ippona intorno alla natura ed origine del male. Io trascriverò qui, acciocchè si vegga di che vita tenace fu l' errore dei Manichei, cominciato co' primi eresiarchi che insorgessero a infestare la Chiesa, voglio dire da Dositeo e Simone, anche dopo che fu teoreticamente distrutto da S. Agostino, quanto si legge nel dizionario delle Eresie stampato dal Contin in Venezia (1) intorno al secondo periodo, che è quello della propagazione, come abbiam detto, di questa eresia. [...OMISSIS...] Tale è la storia del necessitismo apparito sotto questa prima forma de' due principii supremi inventati per dar ragione dell' esistenza del male (1). Veggiamo ora come la ragione umana s' avviò per la via contraria, e giunta all' altro estremo ruppe al razionalismo . Come la prima forma completa che prese nella Chiesa il necessitismo fu l' eresia manichea , così la prima forma completa in cui si manifestò il razionalismo fu l' eresia pelagiana . Se si cercano le traccie di questa eresia nelle antiche opinioni, vedesi d' essa, quello che si vide da noi del manicheismo; cioè ch' essa non si formò già d' improvviso nella mente di un solo individuo, ma cominciata a nascere nelle menti umane fino dalla più remota antichità discese da una mente nell' altra tradizionalmente, s' accrebbe, si sviluppò e finalmente prese il nome da quell' individuo che le diede forma ed espressione determinata e la rese celebre per ostinato conflitto. Richiamisi la riduzione ch' io feci di tutta la storia della filosofia a due grandi Scuole secondo i due metodi tradizionale e razionale: delle quali Scuole furono rappresentanti nell' antichità Pitagora e Talete, l' Italia e la Ionia. Ora la Scuola ed il metodo razionale parve sempre tendere ad escludere le cause soprannaturali influenti sulla volontà umana e però ad esagerare le forze del libero arbitrio (2); onde non senza ragione può rinvenirsi il seme del pelagianesimo nell' elemento razionale dell' antica filosofia. Infatti come l' errore del Manicheismo consiste nell' attribuire il bene ed il male ad una causa al tutto diversa dalla volontà umana e però necessitante; così l' errore opposto, del Pelagianismo, ridotto alla sua ultima espressione, consiste nell' attribuire tutto il bene ed il male morale alla libera volontà dell' individuo in cui esso bene ed esso male si trova; e« in non voler riconoscere che un' anima umana possa venir affetta dal male morale senza che non solo la sua volontà, ma la sua libera volontà vi incorra, sicchè dipende interamente dalla libertà umana l' essere immune da qualsivoglia male morale« e però l' esser giusto. Di che deducevano che non si poteva comunicare il peccato per generazione; non entrando nell' uomo il peccato che per la sua libera volontà; e quindi non potea nascer l' uomo infetto dal peccato d' origine; nè vi potea essere tentazion di peccare così forte, che a vincerla fosse impotente la libertà umana tale quale l' uomo l' ha per natura; alla quale libertà umana riducevano però ogni grazia veniente da Dio. Udiamo S. Agostino ad esporre quest' eresia che sopravenne al necessitismo de' Manichei. [...OMISSIS...] Dal qual luogo chiaramente si vede, che la sostanza dell' eresia pelagiana consisteva nel disconoscere quella specie di moralità buona o malvagia che è nell' uomo non per cagione d' una libera volontà (2), ma per l' influenza che ha sull' umana natura un' altra causa, o rea e introducente nell' uomo il peccato, o buona e introducente nell' uomo la giustizia e la santità; benchè la causa rea non sia il principio cattivo de' Manichei, ma sia il guasto della natura umana, effetto della libera volontà del primo uomo quanto all' origine sua, ma quanto alla comunicazione agli individui che si riproducono nell' umana specie, effetto necessario dell' umana generazione. La causa poi che introduce nell' uomo la moralità buona, la giustizia e la santità, e che non è la libera volontà dell' uomo stesso, altro non è che Iddio stesso che comunica la sua grazia anco a quelli che non sono pervenuti ancora al libero uso delle loro potenze e con essa li santifica, come avviene co' Sacramenti amministrati agli infanti. Il principio adunque e tutta la sostanza della pelagiana eresia consiste in questa proposizione:« Ogni moralità buona o rea d' un individuo umano ha per causa la sua libera volontà, fuor della quale non vi ha altra causa che possa produrre nell' uomo il male od il bene morale« (1). Da questo principio discendevano i due errori capitali de' Pelagiani: 1. Dunque non esiste il peccato originale, cioè un mal morale che si contrae per generazione; 2. Dunque non esiste la grazia con cui Iddio ci santifica, o ci aiuta a' singoli atti della perfetta virtù, cioè un bene morale che viene dall' azione che Iddio fa nell' anima nostra senza la nostra libera volontà, o in aiuto di questa. Due altri errori dovevano del pari provenire da un tal principio eretico ed empio: 1. Che essendo la libertà dell' uomo sola causa del bene e del male morale dell' uomo, dunque non si dànno tentazioni nè sigolarmente prese nè complessivamente irresistibili; ma l' uomo colla sua libera volontà può vincerle tutte e conservare la giustizia; 2. Che il pregare Iddio perchè ci aiuti a vincere le tentazioni e a praticare la giustizia sia superfluo ed assurdo; perocchè non essendo che la nostra libera volontà la causa del bene e del male morale; dataci questa, Iddio non può far altro, giacchè egli è causa estranea al libero nostro volere, e però incompetente alla produzione in noi, sia in tutto sia in parte, della moralità. De' quali due errori così parla S. Agostino, scrivendo al Vescovo Ilario (2): [...OMISSIS...] . Ora se col solo libero arbitrio dalla grazia non aiutato dalla grazia non si può essere perfettamente giusto, nè vincere tutte le tentazioni; dunque il solo libero arbitrio non è l' unica causa che produca nell' uomo l' ingiustizia e la giustizia, il peccato e la santità: conciossiachè vi ha una causa che trascina in peccato senza che il libero arbitrio possa difendersene, se dalla grazia di Cristo non è assistito; e questa stessa grazia colla quale l' uomo acquista la forza di vincere i suoi nemici pienamente e costantemente s' ottiene quando la si domanda; nè solo Gesù Cristo c' insegnò a domandar questa grazia, ma anche a temere santamente e prudentemente con questa, pregando ogni giorno che tuttavia allontani da noi le tentazioni di peccare: [...OMISSIS...] . Laonde di nuovo espone così S. Agostino la pelagiana eresia: [...OMISSIS...] . Laonde se la carità, che è la giustizia soprannaturale, viene immessa nelle anime nostre non dalla libertà nostra, ma dallo Spirito Santo; egli è forza adunque dire che l' unica causa della moralità buona nell' uomo non è la libertà dell' uomo; ma lo Spirito Santo stesso è anch' egli causa, e prima, della giustizia perfetta e soprannaturale. Onde S. Agostino continua: [...OMISSIS...] . I quali argomenti che S. Agostino arreca contro a' Pelagiani, deducendoli da' testi più ovvii delle divine Scritture, sono efficacissimi. Perocchè se la moralità buona o rea dell' uomo non avesse altra causa che la sua libertà, non sarebbe mai soggetto alla necessità del male morale; e però sarebbe superfluo ch' egli pregasse Iddio che non l' adducesse in tentazione, anzi non vi sarebbe tentazione; perocchè il concetto di tentazione suppone una causa esterna che induca al male. Ma se il male non si potesse operare se non col libero arbitrio, niente vi potrebb' essere, non dico che necessitasse, ma nè pure che inducesse e sollecitasse al male. Giacchè chi è sollecitato al male da altra causa che dalla sua libertà, dee riconoscere una forza traente al male; e quindi non può più fare l' arbitrio causa unica del male. E qui si consideri come il principio indicato, cioè« il libero arbitrio (o sia la libertà che i teologi chiamavano d' indifferenza, e che io chiamai bilaterale) è la causa unica di ogni moralità« trae dietro a sè la conseguenza che« il libero arbitrio può da sè solo operare tutte le virtù che la ragione dimostra convenire all' uomo«. Vero è che pare a primo aspetto che quest' ultima proposizione non sia contenuta nella prima; ma la cosa non istà così. Perocchè la prima proposizione suppone che non vi sia moralità possibile se non è prodotta dal libero arbitrio. Dunque quando la ragione dimostra all' uomo qualche opera morale o di dovere o di sopraerogazione; ella altro non fa che mostrargli un effetto del libero arbitrio. Il libero arbitrio adunque dee essere la causa pienamente sufficiente a compiere quell' azione (o complesso di azioni). Altrimenti nell' uomo vi avrebbe lotta: la ragione dichiarerebbe cosa moralmente buona quella che non sarebbe tale, perchè non sarebbe effetto del libero arbitrio. L' onnipotenza adunque del libero arbitrio per esercitare la virtù ed evitare il male è conseguenza irrepugnabile del principio che« la causa della virtù e della innocenza« è il solo libero arbitrio dell' uomo. Laonde chi dicesse, che« il libero arbitrio è la causa di ogni moralità buona o cattiva«, ma ch' egli tuttavia non può fare certe cose imposte dalla ragione come moralmente buone, e che allora queste cose cessano dall' esser morali; sarebbe costretto a riporre fra' caratteri delle cose moralmente buone non solo l' ordine della ragione, ma anco le corrispondenti forze della libertà: il che s' opporrebbe d' una parte al dettame della ragione, che dichiara assolutamente quelle cose moralmente buone; dall' altra al senso comune degli uomini. D' altra parte il dire in generale che« se la nostra volontà fosse piegata al male necessariamente, il male a cui fosse indotta non sarebbe più male morale«, indurrebbe sempre la conseguenza che non ci dovesse esser più bisogno assoluto che tutti gli uomini pregassero Iddio di rimettere loro i debiti, o di non abbandonarli alla tentazione, ma liberarli dall' inimico. Sia dunque che si ammetta l' una o l' altra di queste due opinioni, o che il libero arbitrio possa sempre da sè solo vincere le tentazioni del male morale, o che, non potendo, cessi il male dall' esser morale; ne viene egualmente che quelle preghiere non sieno necessarie a tutti affatto gli uomini. Perocchè nella prima opinione non sarebbe assurdo trovarsi un uomo che essendosi conservato da sè giusto e volendo tuttavia conservarsi tale, non avesse bisogno nè di pregare per la remissione de' suoi debiti, nè d' invocare la protezione divina contro le tentazioni. Egualmente nella seconda opinione, in cui tutto ciò che avviene per necessità e non per arbitrio si suppone non esser morale: conciossiachè potrebbe quell' uomo usare delle forze del suo arbitrio, senza darsi cura che queste fossero molte o poche, giacchè tutto ciò a cui tali forze venisser meno non sarebbe mal morale, nè egli obbligato perciò ad evitarlo: nè si vedrebbe ragione perchè il Signore avesse ordinato di pregare e adoperare altri mezzi; i quali posto anco che fossero utili, non riuscirebbero però mai assolutamente necessarii per mantenersi innocenti e viver giusti (1). Del rimanente, l' opinione che la causa del bene e del male morale sia la sola libertà umana è essenzialmente gentilesca: gli stoici specialmente l' ebbero pronunciata con tutta precisione (2): dall' una parte gli uomini senza esperienza della grazia divina colla sola natura difficilmente potevano sollevarsi a concepire la possibilità d' un aiuto soprannaturale: dall' altra parte considerando l' uomo speculativamente, come suol fare il razionalismo, e non vestito co' suoi accidenti di fatto, riesce spontaneo il pensiero, che la volontà possa tutto ciò che la ragione le dimostra doveroso; tanto più che la volontà operando sempre spontaneamente non può concepire come essa non possa volere in altro tempo praticamente quel bene che di presente vuole speculativamente, sembrandole che il volere sia sempre cosa presta e alla mano. Così come il Manicheismo nacque all' aspetto dell' uomo com' è di fatto per natura servo del mal morale, il pelagianismo nacque alla considerazione dell' uomo com' è in idea, ordinato e costituito pel bene morale. Gli autori del primo errore considerando esclusivamente il fatto del male pretesero ragionarvi sopra (1), e invece di ragionare immaginarono un' ipotesi vana a cui dieder cieca credenza; agli autori del secondo errore considerando esclusivamente l' essenza dell' uomo senza l' accidente del male, pretesero pure di ragionarvi sopra e ne cavarono l' onnipotenza dell' umano arbitrio al bene ed al mal morale. In origine furono razionalisti entrambi, perchè entrambi, scossa la fede alla Chiesa, s' abbandonarono alla sola ragione; ma i primi v' aggiunsero l' osservazione storica, le tradizioni e l' imaginazione: i secondi, esclusi questi dati, alla sola speculazione, o piuttosto all' astrazione della natura umana s' attennero; e però furono costantemente razionalisti. Questo doppio metodo si trovò sempre mescolato nell' antica filosofia; e però niuna meraviglia che non solo del manicheismo, ma ben anco del pelagianismo sieno stati ripetuti i semi fin da Pitagora. Infatti a Pitagora ed a Zenone S. Girolamo riporta l' eresia di Pelagio (1); e più tardi l' opera del filosofo pitagorico Sesto contribuì non poco ad inserirla nelle menti (2). Nella Chiesa però il razionalismo e il conseguente pelagianismo non appare coi primi eretici: è un' eresia che venne introdotta più tardi dalla filosofia Alessandrina. In Origene si è formulata, espressamente manifestata; benchè questo dottore gittò i semi, certamente senz' accorgersene io credo, del razionalismo , non meno che del necessitismo ; che sono i due sommi generi a cui si possono ridurre le eresie tutte, coll' abbracciare, senza troppa considerazione, i dommi della filosofia pagana, che come vedemmo racchiudeva in sè i principii di quelli opposti errori. Onde l' Imperator Giustiniano nelle lettere pubblicate contro Origene in virtù della sentenza del Sinodo, lettere che il Diacono Liberato (3) dice essere state sottoscritte dal Papa Vigilio e dagli altri Patriarchi, chiamò Origene maestro de' pagani, de' manichei e degli ariani (4); e Teofilo Alessandrino l' appella l' idra di tutte ugualmente l' eresie (5). Ma S. Girolamo il fa specialmente precursore e principe (6) de' Pelagiani, di cui il nomina anche l' amoroso (7). E veramente in Origene non solo v' è il principio di Pelagio, che « del male e del bene morale d' un individuo non siavi altra causa che il libero arbitrio dello stesso individuo«; » ma se ne traggono altresì le conseguenze con logica insistenza. In primo luogo osservo, che se il male morale dipende dal solo libero arbitrio, dunque l' uomo col suo libero arbitrio può essere immune da ogni peccato. Da questa conseguenza nacque, che l' eresia pelagiana fu chiamata «anamartesias,» cioè dell' impeccabilità (.), o per dir meglio il poter non peccare si avvera egualmente sia che si consideri il libero arbitrio come capace di tutto il bene, sia che lo si consideri come debole e di molte cose incapace. Perocchè nell' uno e nell' altro caso l' uomo si manterrebbe giusto usando di quelle forze che ha del libero arbitrio; nè potrebbe essere strettamente obbligato ad accrescere queste forze; perocchè non si dà vera obbligazione, se non d' evitare il vero peccato, e il non far quello che eccede le forze del libero arbitrio non è vero peccato (1). Non solo dunque il cristiano, ma ancora l' infedele può essere in un tale sistema giusto da sè medesimo. - Tuttavia Origene, d' alta mente e seco stesso coerente, dava all' umana libertà tutte le forze necessarie al compimento d' ogni virtù e perfezione; perocchè egli vedeva bene che la virtù e la perfezione è tale per sè, e tale perchè tale viene indicata dalla ragione, anche prescindendo dalla considerazione del potere che s' abbia accidentalmente l' umana libertà. Onde quanto la ragione dimostra estendersi la virtù, tanto egli fu costretto d' estendere le forze dell' arbitrio, sola causa di quella; perchè quella non sarebbe stata virtù, se non fossero state queste forze [tali] da produrla. Indi l' error suo fu chiamato non solo dell' impeccabilità «(anamatesias)» ma ben anco dell' impassibilità «(apatheias)» perocchè dava all' arbitrio fin la potenza di rendersi l' uomo immune da ogni commozione e senso del male (2). In secondo luogo, o convien dire che i demonii e l' anime dannate all' inferno non sono in istato di peccato, ovvero che sono in tale stato pel proprio libero arbitrio, pel quale ci vogliono stare. Ma se lo stato di peccato di tali demonii ed anime dannate è prodotto dall' attuale loro libero arbitrio; dunque non sono costretti di stare in un tale stato, ma col medesimo loro libero arbitrio possono abbandonare il peccato. Indi l' errore d' Origene che negava l' eternità delle pene dell' inferno. Certo Origene così scrive: [...OMISSIS...] . In terzo luogo dovea discendere, che il concetto della grazia dovea cangiarsi: non potea più essere un aiuto che accrescesse le forze della volontà e della libertà, ed anzi l' elevasse all' ordine soprannaturale, e così concorresse a produrre il merito soprannaturale; ma una conseguenza, una mercede del merito stesso. Indi l' errore che la grazia non si desse da Dio agli angeli ed agli uomini gratuitamente, ma secondo i meriti colle proprie naturali loro forze ottenuti, che è il primo de' tre principali errori notati da S. Agostino ne' Pelagiani là dove dice: [...OMISSIS...] . Ora Origene toglie a provare che la grazia venne da Dio data agli angeli ed agli uomini secondo i lor meriti nella citata opera de' principii (2). In quarto luogo, se dal solo merito, effetto della libertà sua naturale, procede, che Iddio comunichi la sua grazia all' uomo, come accade poi che nella Scrittura si legga, che certi bambini non ancor giunti all' uso della riflessione ed all' esercizio della loro libertà, si leggano da Dio santificati, poniamo, un S. Giovanni Battista? - Questa riflessione condusse Origene a imaginare co' Platonici, che le anime abbiano esistito prima de' corpi, e in quella vita precedente abbiano meritato o demeritato. Onde del Battista scrive così: [...OMISSIS...] . Ecco qua come questo uomo riputasse cosa ingiusta che Iddio donasse la santità, senza che il libero arbitrio se l' avesse prima meritata; come appunto poi dissero i Pelagiani. Di che veniva che la stessa unione ipostatica di Cristo dovea essere il conseguente effetto de' meriti dell' anima di Cristo precedentemente alla sua Incarnazione; errore che la mente d' Origene conseguente a sè medesima non si stette dal derivare (4). I Pelagiani da prima il ricusarono; ma la logica invitta di S. Agostino stringendoli (5), nè trovandone alcuna uscita; in fine anche quell' errore contenuto nel principio da cui partirono e che non volevano abbandonare dovetter ricevere. In quinto luogo, scorgesi che l' eresia pelagiana contiene nel suo seno la Nestoriana; perchè supponendo che la persona umana di Cristo avesse meritato l' unione colla divina, induce la sussistenza di quella, epperò le due persone; cosa dal dottissimo Cardinal Noris già acutamente osservata: [...OMISSIS...] . Da' quali errori e da tant' altri che dal principio pelagiano derivano ineluttabilmente, si fa manifesto, che come fu detto a ragione del manicheismo che conteneva nel suo seno tutti gli errori, così S. Girolamo potè scrivere la stessa cosa dell' eresia a quella contraria, cioè del pelagianismo, dicendo di questa, [...OMISSIS...] . Dopo Origene vennero i suoi discepoli, in fra i quali fu forse il più celebre Didimo d' Alessandria. Questi aveano già diffusi gli errori in Oriente, quando ancora non si conoscevano nell' Occidente. S. Girolamo fa precursore del Pelagianismo Evagrio da Ibora, Gioviniano Rufino (1): Orosio aggiunge a questi nomi un Priscilliano (2). Evagrio avea pubblicato il libro dell' imperturbabilità «(peri apiaethas)» bevendo sempre al fonte d' Origene; il qual libro fu fatto conoscere alla Chiesa occidentale dalla versione latina lavorata da Rufino (3). Teodoro Vescovo di Mopsuesta avea pur egli nell' Oriente seminato errori alla pelagiana eresia partenenti (4). Insegnò l' errore che Adamo sarebbe morto, eziandiochè non avesse peccato. Mario Mercatore pretende che un tale errore di Teodoro passasse in Rufino, e da Rufino il ricevesse il monaco Pelagio, che diede il suo nome all' eresia. Perocchè dopo accennato quest' ultimo error di Teodoro così soggiunge: [...OMISSIS...] . Scrisse altresì Teodoro cinque libri contro i Pelagiani, e li intitolò Contra asserentes peccare homines natura, non voluntate , libri che esistevano al tempo di Fozio; il quale ne riporta alcuni brani (6). Il brano seguente dimostra chiaro la mente pelagiana di questo celebre Vescovo. Ecco le parole di Teodoro: [...OMISSIS...] Nelle quali parole si nega la trasmissione del peccato d' origine, e ciò pel solito principio di naturalismo di non riconoscer peccato in un individuo nel quale non sia libera la volontà. Scorgesi essere sfuggita a questi eretici la distinzione fra la volontà che opera spontaneamente, e la volontà che opera liberamente; sicchè, disconosciuta quella e osservata sol questa, parve loro assurdo che dar si potesse peccato dove non era libertà, appunto perchè altra volontà non conoscevano, che la libera. Il vero è che senza volontà non si dà peccato; ma senza libertà sì; e però che l' uomo può essere peccatore per natura, giacchè l' esser peccatore per natura non esclude la volontà, ma solo la libertà; conciossiachè l' essere peccatore per natura, non altro vuol dire se non« l' avere per natura una volontà peccatrice«, ed indocile, o sia difficilmente arrendevole all' ordine della legge. All' incontro questi eretici opponevano la natura alla volontà; quasichè tutto che è natura non potesse essere volontario, e niun mezzo ci avesse fra la mera natura irrazionale e la volontà. L' errore dunque della loro mente, che li travolse nell' eresia si fu non aver osservato che fra la natura irrazionale e la libertà vi è la natura razionale, avente cioè ragione e volontà: intralasciato nel loro calcolo questo elemento, dovettero rovesciare necessariamente o nell' assurdo di ammettere un peccato dove non v' ha volontà, o nell' eresia di negare che i bambini nascono col peccato: per evitare quel primo precipitarono in questo secondo (1). .......... 1. A maggiore dilucidazione della dottrina svolta in questa Collezione di Opuscoli che per la terza volta esce in luce aumentata, e nelle altre opere dell' Autore, specialmente per ciò che riguarda il peccato originale e l' umana libertà, e ad evitare che niuno nè per ignoranza nè per malizia possa attribuirle un significato diverso dal suo proprio e naturale, che è quello dell' Autore medesimo, ci par utile di premettere un compendio della dottrina medesima sciolta da quelle questioni incidenti che sono inevitabili nelle lunghe trattazioni polemiche. 2. E per seguire qualche ordine nel riepilogo che ci proponiamo di fare, parleremo in primo luogo dell' origine e dell' esistenza del peccato originale propagato ne' posteri, di poi della sua natura, in terzo luogo delle sue conseguenze, e finalmente del suo rimedio, indicando i principali errori contro alla fede cristiana intorno a ciascuno de' quattro punti indicati. 3. Dobbiamo però avvertire che essendo tali quattro punti intimamente tra loro connessi, non se ne può rigorosamente e al tutto separare la trattazione. Gli errori infatti che furono insegnati intorno alla natura del peccato originale de' posteri per lo più furono una conseguenza degli errori professati intorno alla sua origine e propagazione, o anche viceversa; e così del pari gli errori che furono spacciati intorno alle conseguenze di esso peccato procedettero dagli errori intorno all' origine e alla natura del medesimo, e quindi pure provennero gli errori circa la maniera e la possibilità di rimediare al medesimo, come meglio apparirà nella stessa esposizione. 4. La causa del peccato in universale è, e non può esser altro, che la libera volontà della creatura (1): [...OMISSIS...] . Chi vuole impugnare una verità così chiara, viene di necessità a cadere nell' uno o nell' altro de' due opposti assurdi, o di far che lo stesso Creatore Iddio sia la causa del peccato (3), o di ammettere il sistema de' Manichei, che insegnavano essere esistiti ab aeterno due principii indipendenti, l' uno buono e causa del bene, l' altro malo e causa di ogni male. 5. Discendendo al particolare, il peccato, a cui soggiacque la creatura umana, entrò da principio nel mondo per la libera trasgressione che del divino precetto fece il primo uomo da Dio creato, stipite di tutta l' umana schiatta. 6. Le funeste conseguenze di questa prevaricazione caddero non solamente sopra di lui che la commise, ma ancora sui suoi figliuoli, poichè colla sua disubbidienza Adamo perdette la santità e la giustizia ricevuta da Dio non solo a sè stesso, ma ancora a noi tutti, e come egli, nostro progenitore, rimase macchiato e incorse nell' ira e nell' indignazione del suo Fattore e soggiacque alla morte che gli era stata minacciata ed alla schiavitù del demonio, deteriorato tutto tanto per riguardo al corpo quanto per riguardo all' anima; così pure in noi sua propaggine, insieme colle penalità del corpo, trapassò lo stesso peccato, che è morte dell' anima. Laonde questo peccato, uno nella sua origine, trasfuso nei posteri divenne proprio di ciascun umano individuo, e in esso lui inesistente, e non restò più alcun rimedio che potesse guarire l' uomo e rilevarlo da un tanto male, se non il merito del solo Mediatore Signor nostro GESU` Cristo. Tale è la dottrina cattolica intorno all' origine ed alla propagazione del peccato originale definita dogmaticamente nella sessione V del Sacrosanto Concilio di Trento. 7. Le principali eresie che insorsero contro questo dogma, fondamento di tutto il sistema della cristiana religione, furono due, che, denominate dai più celebri e più noti loro autori e fautori, furono dette Pelagianismo, condannato da più Concilii, tra i quali dal Milevitano (anno 416) e dell' Arausicano II (anno 519) che ottenne autorità di Ecumenico, e dai Santi Pontefici Innocenzo e Zosimo; e il Giansenismo condannato pure colla Costituzione In eminenti , 6 marzo 1642, di Urbano VIII, e colla Bolla Apostolica Cum occasione , 31 maggio 1653, di Innocenzo X, e di nuovo con quella Vineam Domini Sabaoth , 16 luglio 1705, di Clemente XI, che rinnova le precedenti, e da altre bolle e decreti comunemente noti; e lo stesso pravo sistema era stato già anche anteriormente riprovato e dannato in Baio e in altri dottori. .. Ora che Adamo avesse trasgredito il divino comandamento, e così col peccato della sua disubbidienza incorso nell' ira di Dio, su di ciò non v' ebbe questione n`' coi Pelagiani, nè coi Giansenisti che ammisero questo vero della fede cattolica. Ma tutta la controversia versò intorno alla propagazione del peccato adamitico ne' posteri, e intorno alle sue tristi conseguenze in questi prodotte. 9. Quelli che professavano l' eresia pelagiana negarono, ora espressamente, ed ora copertamente e subdolamente, la propagazione e però l' esistenza del peccato originale nei posteri. Il sistema giansenistico per lo contrario, spingendosi all' altro eccesso, non si contentò di asserire colla Chiesa cattolica che il peccato originale si propaga ne' posteri, ma pretende che trapassasse in questi di più di quello che è necessario a costituire il peccato, e principalmente che nell' uomo, quale nasce in istato di natura caduta, rimanesse in conseguenza del peccato, estinto ogni libero arbitrio, ovvero ogni possibilità di farne uso, per operare un bene morale qualunque, necessitato dalla dominante cupidigia a far sempre il male, senza un aiuto di grazia. [...OMISSIS...] 10. Tutto il fondamento delle dispute che queste due schiere opposte di eretici agitarono tra loro e coi dottori della Chiesa cattolica, era la diversa maniera di concepire la natura del peccato. I Pelagiani ragionavano in questo modo:« Tale è la natura del peccato, che al tutto ripugna che un vero peccato trapassi da un uomo in un altro per via di generazione, senza alcun libero consenso da parte di chi lo riceve«. Sono parole di Giuliano di Eclana appresso S. Agostino: [...OMISSIS...] . Quindi riguardavano come un assurdo la trasmissione dell' originale peccato ne' bambini, e con mille cavillazioni cercavano di torcere ed eludere i luoghi della sacra Scrittura, ne' quali s' insegna questo dogma. I Giansenisti per l' opposto sostenevano, che la natura del peccato non è tale che esiga essenzialmente l' esercizio del libero arbitrio nella persona che vi soggiace, bastando a costituire il peccato quel libero arbitrio che esisteva nel capo dell' umana stirpe, e fin qui non dissentivano gran fatto da S. Agostino; ma mentre il santo Dottore applicava un tale principio a quel solo peccato che era nel tempo stesso e peccato e pena d' altro peccato liberamente commesso, cioè dell' originale (2), essi lo estendevano a tutti i peccati che l' adulto commettesse nello stato di natura lapsa, e sostenevano che [...OMISSIS...] : che è la terza proposizione condannata siccome eretica in Giansenio; e che quindi tutti gli atti degli infedeli, o di quelli che non sono in grazia, e i movimenti involontarii della concupiscenza, fossero necessariamente liberi e peccati, perchè fatti senza coazione, benchè per necessità, venendo tutti informati dalla libertà con cui fu commesso da Adamo il primo peccato. Che anzi la dottrina di Baio intorno alla definizione del peccato andava anche al di là di questa di Giansenio: poichè egli asseriva, che all' essenza del peccato non apparteneva nè pure il libero arbitrio che era in Adamo, nè alcun rispetto ad un' altra volontà qualunque, onde tra le proposizioni condannate come sue si annoverano queste: [...OMISSIS...] vero è che Baio soggiungeva, che quando poi si tratta della questione della imputazione del peccato, allora conviene ricorrere alla volontà che ne fu causa: [...OMISSIS...] . Ma nel rispondere appunto a questa nuova dimanda stabilisce il cardine di tutto il suo erroneo sistema; perchè invece di ricorrere a una volontà libera, come fu quella di Adamo, ricorre alla volontà del bambino stesso, privo ancora di libertà, e la dichiara subbietto capace di imputazione: e ciò perchè non fa un atto contrario, che non è in suo potere di fare. [...OMISSIS...] Onde fu giustamente condannata anche quest' altra proposizione: [...OMISSIS...] . Giansenio dunque avendo forse presente la condanna da cui era stato colpito Baio, ricorse alla libera volontà di Adamo per ispiegare come possa aver condizione di peccato quel de' bambini, così scrivendo: [...OMISSIS...] dove si vede che Giansenio rifugge a una volontà, e propriamente alla volontà libera di Adamo, per conservare al peccato originale la ragione ossia la natura di peccato , mentre Baio, ricorre alla volontà del bambino per ispiegare l' imputazione e non la ragione di peccato, per la quale egli accumulando errore sopra errore, non esige l' intervento di alcuna volontà nè libera nè necessitata, nè di quella di Adamo, nè di quella del bambino. 11. Questa breve esposizione intanto basta, acciocchè apparisca, come la questione suscitata da' Pelagiani intorno alla propagazione e all' esistenza del peccato originale nei posteri, si ridusse tutta in quella della natura e della definizione del peccato , e dell' applicazione di questa definizione al peccato che, secondo il dogma cattolico, l' uomo eredita per via di naturale generazione dal primo padre che prevaricò colla disubbidienza al divino precetto, e come questo fu il punto fondamentale, sul quale si accese la controversia sia tra i Pelagiani e i Giansenisti, sia tra queste due eresie opposte, e il cattolico insegnamento. Su di che si possono fare le seguenti considerazioni: a ) Che la controversia prese il carattere di questione filosofica: poichè è proprio del filosofo l' investigare le definizioni e la natura delle cose; e conviene infatti ricorrere all' osservazione e al raziocinio filosofico per iscoprire la natura della volontà umana e i suoi diversi modi di operare, la natura dell' obbligazione morale, del peccato, ecc.. Onde Pelagio ricorre sempre per difesa del suo errore alla filosofia di Aristotile (1). b ) Che qui si trova pure la ragione per la quale S. Agostino dica del peccato originale: [...OMISSIS...] . Per colui che crede alla cattolica Chiesa cessano tutte le difficoltà, e non c' è verità che sia più nota, per la predicazione de' sacerdoti, dell' originale peccato. Ma se taluno desidera di avere di questo peccato, oltre le fede, anche l' intelligenza, allora trova che esso è molto secreto e difficile a penetrarsi, perchè conviene di necessità che la mente di un tal uomo entri nelle più difficili e sottili ricerche filosofiche intorno alla natura intima dell' umana libertà e delle sue relazioni col bene e col male morale, da cui solo si ritrae la natura di ciò che è retto ed onesto, e di ciò che è male e peccato. E i Dottori stessi della cristiana fede furono spinti nel campo di tali ricerche dalla necessità di ribattere e di confutare le eresie, che, malamente filosofando sulla natura del peccato originale, o tentarono di distruggerlo e di dichiararlo impossibile come i Pelagiani, o ne esagerarono e sformarono così fattamente la natura, che il peccato originale che ammettevano non era più quello che la Chiesa proponeva a credere ed annunziava ai popoli per la predicazione, il che fecero i Giansenisti. c ) Che questo pure dà ragione del perchè non vi ebbero forse altre sette che fossero tanto sottili e cavillose e così ricche di scaltrezze e di effugii come queste due de' Pelagiani e de' Giansenisti, perchè nelle materie di raziocinio filosofico, massimamente quando si tratta di una materia difficile come questa, e non accomodata alla intelligenza di tutte le menti, i sofismi e gli equivoci, e le distinzioni, non hanno, per così dire, alcun termine. 12. Come dunque la dottrina cattolica tiene il mezzo fra i due opposti errori del Pelagianismo e del Giansenismo, così il teologo che espone e difende questa dottrina non soddisferà al suo uffizio se non presenta un sistema, nel quale non uno solo di quegli errori, ma entrambi sieno evitati ad un tempo. Non dovrà dunque combattere, a ragion d' esempio, il Pelagianismo in tal modo, che lasci poi nella sua dottrina le radici del Giansenismo: e viceversa dovrà ben guardarsi dal pericolo che per uno zelo troppo esclusivo di abbattere il Giansenismo non iscada egli stesso, come troppe volte è avvenuto, fino a favorire il Pelagianismo. A soddisfare adunque a questo primo uffizio del teologo cattolico è rivolta la dottrina contenuta in questi Opuscoli, di cui qui diamo il compendio. 13. Il secondo uffizio del teologo cattolico (ed è anche un secondo carattere, a cui si può riconoscere la verità e la sufficienza del sistema che si oppone ai detti errori) si è, che il sistema che egli propone sia tale che valga a distruggere entrambi quegli errori sotto tutte le forme di cui possano rivestirsi, cioè che li colpisca nella loro essenza, e non solamente in qualche loro espressione verbale, o forma particolare, a cagione specialmente dell' indole loro sottile e sofistica. Al qual fine si avrà presente la sentenza di S. Ilario, che [...OMISSIS...] . Colle quali parole non solo s' insegna di non sottilizzare sulle parole, quando queste nulla contengano di profana novità, ancorchè nove, ma servano a più chiaramente e precisamente fermare la verità cattolica; ma s' insegna ancora a non perdonare all' errore, ancorchè vestito di parole e frasi cattoliche, ma che nel loro contesto non nascondono meno per questo un senso eretico o certo erroneo. 14. E infatti i detti errori si sono talora accompagnati o coperti con tali espressioni, che alla loro onesta apparenza ingannarono i giudici stessi. Di che per dare qualche esempio tolto dall' eresia pelagiana, a tutti è noto come Pelagio ingannò i Vescovi palestini confessando il peccato originale, mediante subdola restrizione, per la quale intendeva che il peccato di Adamo passasse ai posteri per imitazione e non per la naturale generazione : come impose ancora a Papa Zosimo intendendo sotto il nome di grazia la legge e la dottrina, o una grazia data secondo i meriti: come lo stesso Celestio sorprese del pari il Santo Pontefice Zosimo, con modi e forme che potevano avere un senso ortodosso, ma che, rimanendo indeterminate, ammettevano un altro senso eterodosso, che era quel dell' eretico. E per venire a' sistemi più recenti, si dirà forse che sia un confessare a sufficienza il dogma dell' originale peccato nei bambini, quale lo confessa la Chiesa cattolica, il dire, che esso non è peccato simpliciter , ma secundum quid , e quadantenus solamente, come si esprime un recente teologo? E chi non sa, che ciò che simpliciter non è, si può negare con tutta verità senz' altra restrizione o aggiunta di parole? E non è forse questa l' eresia pelagiana? Del pari, il dire, che il peccato originale ne' bambini non tragga seco alcuna dannazione , non è un negare sostanzialmente il detto peccato? (2). Giacchè come ci può essere un vero peccato senza dannazione, sotto un Dio giusto? E non sembrano parole uscite dalla bocca di Pelagio quell' altre d' un teologo, che ci dimanda: [...OMISSIS...] . Poichè anche Pelagio negava il peccato di origine asserendo essere cosa ingiusta che i bambini fossero puniti senza attuale loro demerito. Ma la Chiesa cattolica insegna tutto il contrario, e chi non può intendere, creda. Ora sarà forse interdetto e non anzi lodevole il difendere la purità della fede anche contro queste forme di pelagianismo? Chi riputerà a colpa il farlo? E d' altri simiglianti sistemi che, sotto il pretesto specialmente di inveire contro il Giansenismo, fomentano l' errore contrario, parleremo in appresso. Passiamo ora adunque a parlare della natura del peccato originale de' bambini, in cui sta, come dicevamo, tutto il nodo della questione. 15. Affine di procedere con lucido ordine e presentare colla maggior chiarezza possibile una dottrina così difficile com' è quella della natura del peccato originale ne' bambini, di cui dice S. Agostino: « quo nihil est ad intelligendum secretius, » conviene che premettiamo alcune nozioni generali, di cui dovremo poi fare nell' applicazione un uso frequente. 16. La moralità buona o cattiva consiste nell' abitudine o relazione in cui sta la volontà dell' uomo inverso alla legge o naturale o positiva (2). 17. Come questa abitudine è varia e di specie e di grado, così lo stato morale dell' uomo ammette altrettante varietà di specie e di grado, quante sono le varietà possibili di essa abitudine. 1.. Una varietà importante dello stato morale dell' uomo nasce dalla doppia attività di cui è fornita la sua volontà, secondo la qual doppia attività ella agisce in due maniere ben distinte. Poichè essa si può considerare come una parte essenziale della natura umana, e, come natura, ella è obbligata a certe leggi naturali, dalle quali non si può mai dipartire nel suo operare, senza distruggere sè stessa. Ma queste leggi non determinano in tutto il modo del suo operare, e però ella è ancora una potenza, alla quale, salve le dette leggi, rimane un' attività di operare liberamente . Tanto poi allorchè la volontà umana opera come natura, quanto allorchè ella opera liberamente, il suo modo di operare è sempre spontaneo , e però è sempre libera dalla coazione: ma non si dice che opera liberamente, se non quando il suo operare non solo è spontaneo, ma indipendente da ogni necessità, appunto per non essere determinata antecedentemente a una cosa piuttosto che ad un' altra dalle leggi di sua natura (1). 19. Di qui nascono due diverse abitudini o relazioni della volontà alla legge, le quali dànno origine a due forme di moralità, l' una delle quali riguarda l' abitudine della volontà all' oggetto della legge come natura, la qual volontà si riferisce ad esso oggetto in un modo spontaneo, ma non libero; l' altro riguarda l' abitudine della volontà come potenza libera al medesimo oggetto. E nell' uno e nell' altro modo c' è un bene od un male morale. Così, a modo d' esempio, la volontà dei celesti comprensori portandosi tutta in Dio spontaneamente, benchè senza alcuna libertà antecedente, possiede il sommo e perfetto bene morale; e i dannati avversando spontaneamente, sebbene non più liberamente, Iddio, soggiacciono a un sommo male morale. I viatori all' opposto, quando liberamente eleggono o il bene o il male, vengono pure in possesso del medesimo e le loro azioni hanno una moralità d' altra forma, poichè dell' acquisto di quel bene e di quel male sono essi medesimi i liberi autori, a cui perciò è congiunto il merito o il demerito, come diremo. Di queste due forme di moralità noi abbiamo parlato con tutta chiarezza ed estensione nella Dottrina del peccato originale (2), nel Trattato della Coscienza (3), nell' Antropologia (4), e ne' Principii della Scienza Morale (5). 20. Dobbiamo ora notare un' altra verità dello stato morale dell' uomo, se vogliamo procedere con chiarezza nel presente argomento. La volontà umana si atteggia e si riferisce verso un oggetto non solo ne' due modi che abbiam detto spontaneo semplice e libero ; ma per ciascuno di essi in due altri, cioè o per un movimento finale , o per un movimento d' inclinazione . Ella si porta in un oggetto o per un abito o per un atto con un movimento finale , quando termina e riposa la sua azione nell' oggetto e subordina al detto oggetto tutti gli altri che non sono fini del suo atto, e vuole questi solo per lui, di modo che in essi non ama altro che la qualità che hanno di mezzi al fine. Si porta in un oggetto con un movimento di semplice inclinazione, quando è bensì propensa e attirata verso un oggetto, ma non si acquieta nè finisce in esso la sua azione; non lo prende a suo fine ultimo e assoluto, nè lo ama come mezzo, perchè esso contrasta con quell' oggetto che ella ha per fine. 21. E` ora da osservarsi, che la volontà che riguarda il fine e che vuole anche le altre cose pel fine, di maniera che ciò che vuole anche nelle altre cose non è altro che il fine (1), dicesi volontà superiore e anche volontà personale, secondo la dottrina della persona da noi data nell' Antropologia (2): la volontà poi di semplice inclinazione, che si trova in contrasto col fine voluto e amato, dicesi volontà inferiore, e non è personale ma naturale, come quando l' uomo sente nelle sue potenze un movimento che egli non vuole, e a cui contrasta colla volontà superiore. 22. Finalmente dobbiamo spiegare in terzo luogo quello che dicevamo, che il movimento finale della volontà (cioè di quella volontà che riposa in un oggetto come in suo fine, e che però dicesi superiore e personale) può essere per un atto ovvero per un abito . Ciò che osta apparentemente a questa sentenza si è la definizione della persona, che dichiara questa« un principio attivo« (3), onde sembra che un abito che non nasca da un suo proprio atto non possa chiamarsi propriamente personale, ma solo naturale. Pure considerandosi attentamente la cosa, si rileva che anche l' attività personale può ammettere modificazioni, le quali non sono e non si dicono certo atti personali, ma bensì sono passioni personali (4), e in questo senso personali si dicono. E questo accade perchè nelle stesse passioni può entrare un' attività di chi le subisce, e però come la persona è il principio supremo di ogni attività nella natura umana, ad esso è uopo attribuirsi anche questa specie di attività che si spiega col cedere all' azione, che qualche causa diversa tende a esercitare sopra la persona, che come tale avrebbe virtù di resistere (5). Poichè se non cedesse ad una tale attività (ceda poi per qualunque ragione o per una legge di spontaneità o per una elezione), se non cedesse dico, ma resistesse alla passione che si vuole esercitare sopra di lei, la detta passione non si potrebbe più dire personale, appunto perchè l' attività della persona non rimarrebbe punto modificata da essa, nè alcun abito contrarrebbe: ma essa passione si conterrebbe in sè e finirebbe nella natura, ritenendo la persona tutta intatta la sua purità e attività e indipendenza. Vero è che ogni passione e ogni debito, se non è l' effetto d' un atto della volontà finale e personale, ma venga imposto altronde all' uomo, comincia nella natura, e però dicesi naturale . E se la volontà ripugna ad esso, rimane puramente naturale, come dicevamo, e non diventa personale. Ma se la volontà, in qualunque condizione ella sia, cede e consente in esso come in suo fine (1), allora essendo sempre personale quella volontà umana che nel fine riposa, come consta dalla definizione, con questo cedere e consentire della persona, la passione e l' abito passa dalla natura ad effettuare anche essa persona, e in questo senso dicesi personale. Il qual abito, se è in sè stesso malvagio, macchia di conseguente la persona: ma qualora il cedere e il consentire che essa fa sia puramente spontaneo e non libero, non è tuttavia colpevole nè demeritorio, come diremo in appresso. 23. Di qui si può dedurre per corollario, che cosa si deva intendere quando si dice che« qualche cosa è propria di una persona«. La proprietà in genere esprime un' unione fisica e morale colla persona, per modo che la cosa propria di una persona dee formare qualche cosa di uno con essa (2). Ma restringendosi il nostro discorso alla proprietà di ciò che è morale, vedemmo che la volontà personale può acquistare una condizione morale per due modi, o per abito impostole, quando cedendo spontaneamente e senza precedente elezione s' acquieta e consente nell' oggetto dell' abito come in suo fine; o quando ella si acquieta in esso come in suo fine per un atto di sua libera volontà (N. precedente). Nell' uno e nell' altro caso, cioè sia che questo suo riposarsi si faccia per un atto di cedevolezza e abbandono spontaneo, il che diremo passione personale, sia che si faccia per un atto libero, o azione personale; la passione o l' azione della persona è sempre con esso lei connessa fisicamente. Una qualità o atto morale dunque non può esser proprio di una persona se non costituisce fisicamente qualche cosa dello stesso suo essere. 24. Pure oltre questo carattere generale di ciò che è proprio d' una persona, è a distinguere le due accennate specie di proprietà: poichè altro è esser proprio d' una persona come una sua azione libera, ed altro esser proprio della persona come una sua passione, nella quale la persona non mette del suo se non l' atto spontaneo del cedere e abbandonare la sua attività propria nell' oggetto della passione o dell' abito. Questi due modi ne' quali un' affezione morale qualunque può esser propria di una persona, vanno ben distinti, affine di evitare gli equivoci. Poichè si potrà dire con verità, che una data affezione morale sia propria di una persona, ritenendo che sia propria di lei come passione o abito personale, e nello stesso tempo si potrà dire che ella non sia propria d' una persona intendendo come azione personale . E con questa distinzione si conciliano delle autorità, che sembrerebbero in contraddizione tra loro, come vedremo in appresso. 25. Premesse queste nozioni sulle diverse abitudini che la volontà umana può aver coll' oggetto della legge, onde nascono i diversi stati morali dell' uomo, nozioni che conviene avere di continuo presenti, possiamo ora passare alla definizione del peccato in genere: e quindi a conoscere in ispecie la natura del peccato originale ne' bambini. Che cosa è dunque il peccato? in che giace la sua essenza? « Il peccato » (parliamo sempre nell' ordine delle cose morali) «è una deviazione della volontà personale dalla legge eterna« » la qual definizione si trova esposta largamente nella Dottrina del Peccato originale (1). 26. Se dunque il peccato è una deviazione della volontà personale, consegue, secondo le cose dette di sopra, che ella sia una deviazione della volontà superiore, di quella volontà che ha per oggetto il fine dell' umana vita. Infatti la legge eterna è quella che stabilisce all' uomo (e lo stesso può dirsi delle altre creature intelligenti), il suo fine e al medesimo lo dirige. Se dunque si trattasse d' una inclinazione della volontà inferiore, che non rimove necessariamente l' uomo dal suo fine, questa inclinazione che sarebbe naturale e non personale, quale è il fomite della concupiscenza ne' renati, potrebbe bensì costituire un male, un' imperfezione nell' ordine morale, ma non avrebbe la natura di peccato. E` per questo che S. Tommaso, sapientemente al suo solito, distingue il male, come concetto più generale, dal peccato, concetto meno generale, scrivendo: [...OMISSIS...] . E segue anche in ciò S. Agostino che contro Giuliano (2) che voleva essere un bene la concupiscenza ne' battezzati scrive: [...OMISSIS...] . 27. E in fatti la data definizione generale del peccato va perfettamente d' accordo colla dottrina costante e universale de' maestri in divinità. Per non eccedere i limiti di un compendio noi la confermeremo solo coll' autorità di S. Tommaso medesimo e di S. Agostino. S. Tommaso dice: [...OMISSIS...] . Ma poichè anche la natura e l' arte hanno un loro fine, non solo la volontà, perciò distingue tre generi di peccati: i peccati della natura, dell' arte e della volontà: viene poi a definire i peccati proprii della volontà di cui noi parliamo, in questo modo: [...OMISSIS...] . E poichè è la legge eterna, come dicevamo, quella che propone all' uomo il suo fine, e subordina a questo l' altre cose, perciò dice ancora così: [...OMISSIS...] . 2.. E in questa l' Angelico segue ancora S. Agostino, della cui autorità si prevale citando la definizione che questo Padre dà del peccato (7) a conferma della sua: [...OMISSIS...] . Dichiarando poi S. Agostino che sia la legge eterna, la definisce così: [...OMISSIS...] . Il qual ordine consiste in anteporre le cose che vanno anteposte pel loro pregio o dignità a quelle che vanno posposte, e però a tutte anteporre Iddio, che è un dire che Iddio dee aversi a solo fine ultimo di tutte. [...OMISSIS...] ; e dimostra che la sola Trinità augustissima è ciò di cui si dee fruire come del solo fine, dell' altre cose poi usare (9) come di altrettanti mezzi. 29. Tale è dunque la vera e propria ragione del peccato, la quale, consistendo in una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, priva l' uomo del suo fine; e però il Sacrosanto Concilio di Trento lo caratterizzò in modo da non poterlo confondere con alcun altro concetto quando disse: « quod mors est animae (1), » poichè l' uomo è morto spiritualmente, quando la sua volontà è così atteggiata che lo priva del suo fine, nel possesso del quale consiste la vita spirituale. Da questa nozione e definizione per tanto del peccato derivano i seguenti corollari: a ) Che ciò che essa contiene è essenziale a costituire il peccato, e ciò che essa non contiene non appartiene all' essenza del peccato. Laonde poichè nella data definizione si contiene bensì una volontà la quale sia il subbietto del peccato, deviando dal suo fine, questa volontà è necessaria a costituire il peccato: ma non contenendosi una volontà che sia ella medesima ad un tempo e subbietto e causa libera del peccato, e bensì sia necessaria una causa libera acciocchè il peccato esista nella sua essenza, già esistendo, non è necessario alla sua essenza, che questa causa libera sia sempre l' identica volontà che n' è il subbietto ; il che negava giustamente S. Agostino ai Pelagiani, che così pretendevano, [...OMISSIS...] . b ) Che contenendosi nella data definizione tutto e solo quello che costituisce l' essenza del peccato, in essa si abbracciano tutte le specie di peccati, e che perciò tutti que' mali morali, ai quali quella definizione conviene, sono semplicemente peccati in senso vero e proprio, e non per un modo traslato o interpretativo, o come sotto un solo rispetto. Perciò quella definizione conviene ugualmente al peccato mortale tanto attuale quanto abituale, poichè se col peccato attuale l' uomo devia dal suo fine, coll' abituale ritiene in sè permanente questa deviazione e perdita del suo fine, in cui consiste la forma del peccato, la morte dell' anima. E così quella definizione è conforme al linguaggio delle divine Scritture, e dell' ecclesiastica tradizione, della quale tradizione vale per ogni altra testimonianza l' autorità del Tridentino, che dà la propria e vera ragione di peccato all' originale ne' bambini, che è puramente abituale, e ne ripone il carattere formale nell' essere« morte dell' anima«, che è quanto dire, deviazione e quindi perdita del fine dell' uomo, in cui sta la sua vita. Per riguardo poi alla maniera di parlare delle Scritture, noi ne abbiamo addotti i testimoni nel Trattato della Coscienza (3), e molti altri se ne potrebbero aggiungere. Così quando GES`u' Cristo parla d' un peccato che rimane [...OMISSIS...] , non può intendere dell' atto della trasgressione che passa, ma di quella detorsione della volontà dal fine che rimane nell' anima. E quando dice: « In peccato vestro moriemini (1) » non vuol dire che morranno nell' atto del peccato, ma nell' abito che resta loro infisso. Laonde vanno sanamente intesi que' luoghi de' Padri, ne' quali sembra che neghino al peccato abituale, o all' originale nei bambini, la ragion propria di peccato, intendendo essi parlare del peccato colpevole e demeritorio, che è quello di cui si suole più di frequente e comunemente tener discorso, il che ad evidenza si vede in questo luogo di S. Agostino: [...OMISSIS...] . Altri luoghi poi, ne' quali i Dottori dicono, che il peccato consiste propriamente nell' atto anzi chè nell' abito, non vanno già intesi per modo che vogliano negare che nel peccato abituale, che rimane dopo l' atto, non si conservi e permanga la forma del peccato che fu messa in essere coll' atto della prevaricazione, ma vogliono dire, che questa forma permanente trasse la sua esistenza dall' atto liberamente peccaminoso, e però a questo conviene la denominazione di peccato per una specie di priorità e all' abituale per una specie di posteriorità, secondo la distinzione che fanno i logici circa la predicazione di un predicato a subbietti diversi (3). c ) Che mediante la definizione data si può discernere il peccato nella sua propria ragione ed essenza dai concetti a lui affini, e dalle diverse denominazioni che gli competono, o gli sono attribuite secondo diversi rispetti ne' quali si considera, alcuni de' quali sempre si trovano al peccato congiunti, altri non sempre. Tali concetti e denominazioni sono a ragion d' esempio quelli di colpa, di demerito, di reato di colpa, di reato di pena, d' iniquità, di macchia, di offesa, di offesa di Dio, di trasgressione, di prevaricazione, disubbidienza, ecc.; che tutti aggiungono qualche concetto di relazione al semplice concetto del peccato. Laonde tutti questi concetti sopravvenienti suppongono prima quello di peccato su cui si fondano. E per modo d' esempio, come dice il Gaetano: [...OMISSIS...] . d ) Che si può del pari colla regola della addotta definizione dimostrare, che il peccato veniale manca della perfetta ragion di peccato, perchè non toglie all' uomo il suo fine, e quindi che come dice S. Tommaso: [...OMISSIS...] . e ) Che finalmente nella stessa definizione si ha una norma sicura per discernere, quando nelle Scritture o nei Dottori si adopera la voce peccato in un senso improprio e traslato. Così il fomite che rimane ne' battezzati si chiama da S. Paolo peccato, perchè viene dal peccato, ed al peccato inclina, ma non ha l' essenza del peccato, perchè non priva l' uomo del suo fine. Lo stesso dicasi dei moti involontarii della concupiscenza, a cui la volontà suprema ripugna. Lo stesso dell' uso della parola peccato che si fa nelle divine Scritture per indicare l' ostia o la vittima espiatrice del peccato, onde S. Paolo (2) dice che Cristo si fece per noi peccato. Onde Giovanni Fischer Vescovo di Rocester che suggellò col suo sangue la cristiana fede, distinguendo questi diversi significati della parola peccato contro Lutero che li confondeva, conchiude dicendo: [...OMISSIS...] , la quale riviene alla definizione da noi posta e a quella del Tridentino « quod mors est animae ». 30. Stabilita dunque la definizione generica del peccato, che ripone la natura di lui« in una deviazione della volontà personale dalla legge eterna«, ossia dal fine dell' umana vita, rimane a farne l' applicazione al peccato originale e vederne la differenza specifica dai peccati attuali, la quale già viene non poco chiarita dalle cose fin qui ragionate. Il peccato originale si può considerare sotto due rispetti, cioè si può ricercare:« che cosa egli sia nel bambino«, e« che cosa egli sia relativamente al primo padre che l' ha commesso, e da cui il bambino per generazione lo ha ricevuto«. Poichè il bambino dee aver ricevuto in sè qualche cosa che abbia ragion di peccato: ma poichè egli n' è divenuto bensì il subbietto, ma non la causa, che sta solo nella libera volontà di Adamo stipite dell' umana schiatta (4), perciò senza riferire il peccato che è nel bambino alla causa, che è in Adamo, non si potrebbe trovare l' imputazione del medesimo, per la quale imputazione il peccato acquista denominazione di colpa . Due sono dunque le cose da spiegarsi, l' una come nel bambino ci sia qualche cosa che abbia ragion di peccato, sebbene questa cosa rea non abbia per causa la libera volontà del bambino stesso, ma di un' altra persona, l' altra come e a chi questo peccato sia imputabile: e ciò per ribattere non meno l' errore pelagiano che l' errore giansenistico. Poichè i Pelagiani, come dicemmo, negavano l' esistenza del peccato nel bambino, perchè non intendevano come potesse darsi in un umano individuo vero peccato senza un atto di sua propria libera volontà; i Giansenisti all' incontro ammettevano non solo il peccato nel bambino, ma anche la imputazione, la colpa, il demerito, riferendo tutte queste cose al bambino stesso, o sostenendo che a essere colpevole e a demeritare bastasse o l' atto libero della volontà di Adamo, come se questa esistesse nel bambino, che è la sentenza di Giansenio (1), o il non farsi dal bambino colla sua volontà alcuna opposizione alla concupiscenza « eo quod non gerit contrarium voluntatis affectum, » quale è la sentenza di Baio, e così venivano a stabilire in generale che l' imputazione, la lode e la colpa, il merito ed il demerito di una persona potesse esistere senza opera della sua libera volontà. 31. Ritenendo dunque noi fermamente colla Chiesa Cattolica, coll' insegnamento della quale s' accorda anche il naturale e filosofico raziocinio, che l' imputazione morale non si può fare se non a chi è causa libera di ciò che le s' imputa, perchè, come abbiamo mostrato nell' Antropologia , la sola causa libera ha natura di vera causa (2), e che però a niuna persona umana si può applicare lode o colpa, merito o demerito di quelle azioni o passioni che non sono da lei liberamente prodotte o acconsentite, il che si oppone all' errore giansenistico, diciamo all' incontro, che senza libera volontà si può dare peccato, cioè si può dare « deviazione della volontà dall' ordine del fine dell' umana vita« nel che, come abbiamo veduto, è riposta la nozione e la definizione del semplice peccato, secondo la dottrina de' Maestri in Divinità: e questo è quello stesso che abbiamo dimostrato più a lungo nell' opuscolo intorno alla distinzione tra le nozioni di peccato e quelle di colpa e altrove; dove tra le altre cose abbiamo notato che Iddio nell' antica legge, per mantenere ben distinte queste due nozioni nelle menti voleva che fossero istituiti due specie di sacrifizii, gli uni per il peccato, gli altri per il delitto (3). Di che cava anche S. Agostino un argomento contro i Pelagiani per dimostrar loro il peccato originale, ove dice: [...OMISSIS...] . Si apre qui dunque il passaggio a rispondere alla prima questione contro i Pelagiani:« Che cosa sia ciò che abbia ragione di peccato ne' bambini?«. Poichè rispondiamo che ciò che ha ragione di peccato ne' bambini è una deviazione della loro volontà dalla legge eterna, ossia dal fine dell' umana vita. E posciachè abbiam detto che questa deviazione può essere o attuale o abituale, ne' bambini, ne' quali non c' è ancora l' atto, altro non è e non può essere che una« declinazione abituale e non attuale«. 32. Ora che la volontà umana possa avere questo mal abito prima di ogni suo atto libero, ciò non involge alcuna ripugnanza, il che solo si può esigere che sia dimostrato. Poichè l' obbiezione che può fare il raziocinio naturale contro le verità della fede è che involgano assurdo, al quale scopo infatti tende il raziocinio che, come vedemmo, fanno i Pelagiani contro il dogma del peccato originale. Contrapposto che abbia dunque l' apologista della fede un altro valido raziocinio che disciolga la apparente contraddizione, rimane intatta la verità da credersi, ancorchè essa continui ad essere o misteriosa, ovvero difficile a intendersi e per molti anche impossibile. Dicevamo dunque che niente ripugna, che la volontà umana si trovi vestita prima d' ogni suo atto accidentale di un mal abito morale, perchè essa volontà indubitatamente prima ancora di emettere alcuno degli atti suoi accidentali e liberi esiste come parte essenziale della natura umana, e l' abito è cosa permanente che dà una certa disposizione alla potenza, non già un atto transeunte; e perchè non ogni abito d' una natura e potenza è necessariamente un effetto lasciato in essa da un atto transuente della medesima, com' anche si vede, volendo prendere un esempio da altre verità cristiane, dagli abiti infusi delle virtù teologiche nel santo battesimo. Sono abiti che si ricevono dalla volontà dell' uomo per generazione anche tutte le buone o cattive disposizioni ereditarie, riconosciute ed ammesse da tutti i filosofi. Che se queste ancorchè sfavorevoli all' acquisto delle virtù non sono peccati, ciò accade perchè non affettano la volontà personale, ma solo la volontà inferiore e naturale; e di ciò si darà ragione tantosto, bastando qui un tale esempio a comprovare questo fatto psicologico, che la volontà è veramente suscettiva di abiti buoni e cattivi, che non sono sempre l' effetto lasciato in essa dalle sue proprie libere operazioni, ma aventi un' altra origine da essa indipendente. 33. Questa dottrina intorno alla natura del peccato, la quale dimostra che tanto i Pelagiani, quanto i Giansenisti erravano ugualmente per non sapere distinguere il peccato dalla colpa, negando i primi il peccato ne' bambini, perchè non sapevano come incolparli di una cosa di cui non era causa il loro libero arbitrio, incolpando gli altri gli stessi bambini perchè non sapevano come potessero senza di ciò confessare in essi il peccato, può dirsi francamente, a nostro avviso, essere sostanzialmente definita dalla stessa Chiesa, o certamente manifesta risultare dalle sue infallibili definizioni. 34. E veramente Alessandro VIII (1) condannò questa proposizione: « Homo debet agere tota vita paenitentiam pro peccato originali », non solo come quella che detrae alla satisfazione di Cristo, e all' efficacia del Sacramento del battesimo, e che contiene l' assurdo, che colui che ha bisogno di essere redento e rinnovato, venendo tolto via da lui il reato del peccato di origine, per poter meritare e soddisfare, possa cooperare co' suoi meriti e colle sue soddisfazioni alla propria redenzione e rinnovazione; ma ancora come quella che suppone che il peccato originale abbia per sua causa la volontà di chi lo riceve, giacchè nessuno si può pentire se non degli atti suoi proprii, di cui egli avesse avuto il libero dominio. In fatti che cosa costituisce la base della penitenza, secondo la stessa etimologia della parola, se non il pentimento di ciò che si è fatto, e che si potea non fare? Laonde nel libro Della vera e della falsa penitenza, che fu attribuito a S. Agostino, si definisce la penitenza così: [...OMISSIS...] . Da questa definizione pertanto della Chiesa noi argomentiamo così:« Il peccato originale esiste: ma egli non ammette penitenza e contrizione, perchè questi affetti non possono cadere se non in colui che fu causa libera del peccato. E appunto perchè il peccato originale è subìto da' posteri senza che la loro libera volontà vi concorra, perciò anche il rimedio al medesimo è dato senza loro libera volontà (3). La Chiesa dunque riconosce colla condanna di quella proposizione bajana e giansenistica che: 1. il peccato originale ha vera ragion di peccato benchè manchi la libera volontà in colui che ne è il subbietto; 2. che esso non è colpa di colui che lo subisce, perchè se fosse sua colpa non potrebbe esser tolto senza che egli se ne contrisca e se ne penta; 3. che esso peccato viene tolto via dalla redenzione e satisfazione di Cristo immediatamente come peccato (tolto il quale non è più la colpa perchè le è tolta ogni sua materia) e non solamente come colpa: cioè esso viene tolto via da noi nella sua ragione di peccato, da Adamo poi, personalmente considerato, venne tolto via immediatamente nella sua ragione di colpa, ossia di peccato colpevole, per la fede in Cristo futuro Redentore. 35. La Chiesa del pari ha definito contro di Bajo e Giansenio, colla condanna di più proposizioni, che non si può dare un peccato imputabile a colpa, e però demeritorio, senza che sia posto dalla libera volontà di quello a cui si imputa, e di novo tra le altre ha condannata questa proposizione: [...OMISSIS...] , che è la prima delle 31 condannate da Alessandro VIII col decreto de' 7 dicembre 1690. Ora se il peccato originale ne' bambini fosse loro colpa, cioè fosse peccato commesso dalla loro libera volontà, le conseguenze di esso (almeno quando avessero potuto e dovuto prevederle) sarebbero pure colpevoli e demeritorie in causa. Dunque l' originale è un vero peccato che sussiste nel bambino, quantunque non entri a costituirlo la volontà libera del bambino. Del pari come puro peccato, senza imputabilità e demerito proprio del bambino, sussiste senza che entri a costituirlo la libertà di Adamo, perchè questa non basta a renderlo libero della libertà del subbietto che lo subisce e non lo commette, onde colla condanna della detta proposizione si dichiara, che non basta a costituire il peccato formale e il demerito nè pure la volontà libera qual' era in Adamo, non essendo essa volontà libera del bambino. 36. Nè faccia difficoltà la parola peccato formale inserita nella proposizione condannata, quasi che il peccato ne' bambini non fosse peccato formale, poichè si usò di dire formale quel peccato che è ad un tempo colpa di chi n' è il subbietto, quando il peccato originale ne' bambini manca rispetto ad essi della forma di colpa, di cui esso è come la materia, ma non manca per questo della forma del peccato , senza la quale non sarebbe vero peccato. Onde il celebre compendio della Teologia che fu attribuito a S. Tommaso e ad altri insigni dottori, dice che il peccato originale: [...OMISSIS...] . 37. Se dunque si considera da una parte che il Sacrosanto Concilio di Trento definì che il peccato originale unicuique inest , differente perciò di numero in ogni uomo, e che l' inesistere non è proprio delle relazioni che non sieno per sè sussistenti, e che esso peccato consiste formalmente nella morte dell' anima , la quale non è una relazione alla causa del detto peccato, ma è una pena che soffre il subbietto di quel peccato che è anche pena, e se si considera dall' altra che è pur definito, per le accennate proposizioni condannate ed altre già conosciute, che il detto peccato morte dell' anima non ha ragione di colpa e di demerito, se non come prodotto dalla libera causa che fu la volontà di Adamo: apparirà chiaro, che si può dire già definita dalla Chiesa, come dicevamo, la dottrina che da una parte riconosce ne' bambini un peccato formale considerato nella sua entità senza uscire dal bambino stesso, e però senza che entri, in questa sua entità che ha nel bambino, alcuna libera volontà, dall' altra parte che un tal peccato, vero peccato, ha bensì ragione di pena, ma non di colpa, la quale sta nella libera causa che l' ha prodotto a principo. 3.. Ora questa dottrina è appunto quella che somministra le armi per combattere i due errori opposti de' Pelagiani e de' Giansenisti; e i principali Dottori della Chiesa la opposero costantemente agli eretici; de' quali Dottori mi restringerò per ragione di brevità a nominare solamente S. Agostino e S. Tommaso. I Pelagiani caduti nell' eresia dall' essersi dati a credere, che il peccato non possa esistere senza un atto di libero arbitrio in colui che ne è il subbietto, abusavano in propria difesa della definizione del peccato che S. Agostino stesso avea dato: « voluntas retinendi vel consequendi quod justitia vetat, et unde liberum est abstinere , » di cui si abusò cotanto anche di poi (1). Che cosa rispose loro Agostino? Che conveniva distinguere due specie di peccato, la prima di quelli che sono peccati e non anche pena di un altro peccato precedente, la seconda specie formata da quel peccato che oltre esser peccato è anche pena di peccato: alla prima sola di queste due specie convenire quella definizione, non alla seconda, a cui appartiene il peccato originale ne' bambini. [...OMISSIS...] . Avendo così dunque il santo Dottore stabilito che il genere del peccato abbia due specie, cioè che ci sono peccati che s' incorrono per una libera trasgressione dei divini precetti, e unde liberum sit abstinere, e che ci sia un' altra specie che si subisce, come pena, per via di generazione senz' atto di libera volontà, non solo abbattea con ciò il pelagianesimo, ma sottraeva anche il peso della sua autorità ai futuri Giansenisti, giacchè mentre egli riconosce nello stato presente dell' uomo, oltre il peccato di origine, anche quello che liberamente e consapevolmente si commette, i Giansenisti che falsamente si dicono suoi discepoli, non riconoscono la specie di peccati che si commettono dalla volontà libera dalla necessità, unde liberum sit abstinere . 39. S. Agostino oltrecciò coll' avere stabilito che il peccato originale ha condizione di pena (il che non gli toglie però la natura di peccato) venne con questo solo a rendere ragione del perchè non possa essere un peccato libero della volontà di chi lo subisce. Poichè la pena è contraria alla libera volontà: [...OMISSIS...] . E come la pena è contraria alla volontà, così è contraria alla colpa. Onde S. Tommaso divide il male nell' ordine delle cose volontarie in queste due specie appunto di: 1 male volontario, cioè liberamente voluto, e questa è la colpa ; 2 male involontario, e questa è la pena (1). Se dunque il peccato originale ne' bambini ha ragione di pena secondo S. Agostino, segue da questo stesso, ch' egli non possa essere per essi il contrario, cioè colpa . Nè vale il dire che talora si vuole anche la pena non come pena, ma come soddisfattoria o come medicinale; perchè il peccato originale non è pena soddisfattoria, ma trae anzi seco, come causa, la necessità di pene soddisfattorie; nè è pena medicinale, che è anzi il morbo che dee essere guarito, ed è ancora più che morbo, perchè è male dell' anima. 40. S. Agostino adunque difende contro i Pelagiani che il peccato originale è vero peccato, benchè sia anche nello stesso tempo pena del peccato precedente commesso da Adamo, distinguendolo così entitativamente da quel di Adamo: [...OMISSIS...] . Con che nello stesso tempo che stabilisce, che la macchia originale ne' bambini è un vero peccato in sè stesso considerato, riconosce però che è l' effetto di una prima causa libera, che fu quella di Adamo, alla quale si riferisce l' imputazione e la colpabilità, rimanendo sempre fermo che l' effetto non sia la causa . Onde non finisce di ripetere, che « origo tamen etiam huius peccati descendit a voluntate peccantis (4), » rimanendo di nuovo distinto l' originale dall' originato. Combatte dunque S. Agostino i Pelagiani da una parte e i Manichei dall' altra coi due aspetti in cui si deve considerare il peccato originale ne' bambini, in sè stesso, nella sua entità propria come puro peccato, cioè come una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, e relativamente alla volontà libera di Adamo che ne fu causa, da cui viene la nozione di colpa. Pe' quali due aspetti, il peccato originale si chiama peccato comune in quanto è un solo nell' origine di cui tutta la massa è stata corrotta e macchiata, è una sola la colpa; e si chiama anche peccato proprio , come lo dichiara il Tridentino, in quanto partecipato ne' singoli è più di numero, benchè uno di specie, avendo ciascuno la sua propria corruzione e macchia, che è non è quella di un altro. S. Agostino in fatti chiama il peccato originale commune , dove dice: [...OMISSIS...] . Ma il santo Dottore lo riconosce anche come proprio de' singoli dove dice: [...OMISSIS...] . 41. Sulle traccie di S. Agostino, e con un linguaggio in alcune cose più scientifico e da scola cammina S. Tommaso. Poichè anche questo santo Dottore, data la definizione del peccato in tutta la sua generalità, si fa a distinguere le due specie di peccato puro e di peccato imputato al libero suo autore. Nel concetto dunque di peccato (nell' ordine morale) altro non si acchiude, secondo l' Aquinate, se non « una deviazione dall' ordine della ragione relativamente al fine comune della vita umana«, » quando nel concetto di colpa si acchiude di più l' imputazione alla causa libera, e però ivi solo propriamente è la colpa, dove è la libertà. Laonde il peccato può essere in un individuo umano secondo la vera nozione di peccato, e la colpa di questo peccato essere, propriamente parlando, non in un modo traslato, in un altro individuo che liberamente ne sia stato causa ed autore. Tali sono le distinte nozioni che ci dà S. Tommaso in queste parole: [...OMISSIS...] . Sulle quali filosofiche definizioni del santo Dottore ragioniamo così:« Solo allora l' atto s' imputa all' agente e diviene colpa, quando è in potestà del medesimo, di modo che questo abbia il dominio del suo atto, cioè possa farlo e non farlo. Ma il bambino ha bensì il peccato originale, ma non ha il dominio del suo atto, e non può colla libera sua volontà evitarlo. Dunque non gli può essere imputato, e però non è sua colpa, ma solo peccato, secondo l' Angelico. Quindi per trovare un modo nel quale si dica che il peccato originale venga imputato al bambino, conviene ricorrere ad un modo non proprio, ma traslato, come fa lo stesso santo Dottore, dicendo che il peccato originale s' imputa al bambino, come s' imputa l' omicidio alla mano di chi l' ha commesso, dicendo che è colpa della mano. Ma è ben chiaro che l' istrumento non è in senso proprio imputabile e colpevole di ciò che fa di bene e di male colui che usa dell' istrumento, perchè l' istrumento non è un agente che abbia il dominio del proprio atto, e non ha neppure la cognizione di ciò che l' agente gli fa fare, o piuttosto di ciò che egli stesso fa per mezzo suo. E` dunque più chiaro del sole, che secondo l' Angelico nel bambino esiste il solo peccato, separato dalla colpa, quel peccato che S. Agostino dichiarava peccato pena di una colpa antecedente; e che la colpa, in senso vero e proprio di un tal peccato, non esistette che in Adamo, che fu il solo agente che avesse il dominio del proprio atto; e che in senso puramente traslato, s' applica poi la colpa di Adamo a tutti i suoi discendenti che ricevono per la generazione il peccato. 42. Ma quantunque la mente dell' Angelico sia così aperta, tuttavia v' hanno di quelli che non arrivano ad intenderla, e gioverà che ci facciamo ad esaminare le loro obbiezioni. Costoro adunque per riconfondere di novo il peccato colla colpa ci oppongono che S. Tommaso al passo da noi citato soggiunge, che [...OMISSIS...] . Ma questo passo appunto lungi dal favorire gli oppositori, conferma apertamente e ribadisce la distinzione che voglio distruggere. Esaminiamone il senso con diligenza. a ) Ammettendo il santo Dottore che il male possa esistere in ogni cosa creata anche inanimata, perchè non è altro che privatio boni , e così pure che possa esistere il peccato in tutti gli agenti, perchè non è altro nella sua definizione generalissima che un atto che tendendo ad un fine devia dal medesimo, « cum non habet debitum ordinem ad finem illum , » perciò distingue tre ordini in cui possa cadere il peccato preso in questa generalità, cioè l' ordine della natura , l' ordine dell' arte , e l' ordine morale . Ora è chiaro che negli agenti naturali, o negli artistici, non ci può essere colpa, e però il male e il peccato non s' identifica in essi colla colpa; ma negli agenti morali cioè nei loro atti volontarii il male, il peccato e la colpa s' identificano, perchè sono agenti suscettivi di lode o di biasimo quando agiscono liberamente. S. Tommaso adunque non intende qui che paragonare gli atti volontarii cogli atti della natura e dell' arte, e in questi soli dice che s' identificano il male, il peccato e la colpa: non paragona una specie di atti della volontà con altri atti, non paragona gli atti necessarii cogli atti liberi, il che fa in altri luoghi. b ) Che poi l' espressione che usa qui S. Tommaso « in actibus voluntariis , » si deva intendere senza dubbio di atti liberi , non solo apparisce dal contesto, attribuendo loro lode e colpa e avendo poche linee avanti già spiegato in che consiste l' imputazione a lode o a colpa, con queste parole: « Tunc enim actus imputatur agenti, quando est in potestate ipsius, ita quod habeat dominium sui actus , » ma si trova di questa maniera di usare la parola« volontario« una ragione intrinseca anche nella stessa dottrina dell' Aquinate. Poichè avendo distinta la volontà come natura, voluntas ut natura , e la volontà come volontà, voluntas ut voluntas, e a questa appartenendo la libertà, a quella la necessità, egli chiama volontarii gli atti che appartengono a questa seconda, riponendo nel numero di atti naturali quelli che appartengono alla volontà operante come natura, benchè riconosca che anche questi appartengono alla stessa volontà, e in questo senso si possono dire« volontarii«. Applicando la qual teoria di S. Tommaso alla questione, così argomentiamo: S. Tommaso dice, che il male, il peccato e la colpa sono il medesimo nei soli atti volontarii, cioè liberi: ma il peccato originale ne' bambini non è un atto volontario libero: dunque, secondo il santo Dottore, in esso peccato non è il medesimo il peccato e la colpa. Il testo che ci si oppone convalida la distinzione. c ) Di più, S. Tommaso nel detto testo parla di atti , dice che ne' soli atti volontarii male, peccato e colpa diventano la stessa cosa. Ma nei bambini non ci sono atti volontari : il peccato da lor contratto non è un atto della loro volontà, ma è un abito della medesima contratto per via di generazione: dunque, secondo S. Tommaso, ne' bambini non è il medesimo il peccato e la colpa , perchè l' identità di queste due cose, secondo lui, cade solamente negli atti volontari, in solis actibus , e però non cade negli abiti : in questi può accadere l' opposto, può accadere che dove c' è l' abito peccaminoso, ivi non ci sia la colpa corrispondente: ed anzi la maggior parte dei teologi sostiene che cogli abiti non si meriti, perchè essi non sono atti liberi, a cui solo il merito è dovuto. Di nuovo dunque il testo citato per distruggere la detta distinzione la conferma mirabilmente. d ) E tutto questo viene espressamente confermato da San Tommaso, che distingue il peccato originale così: [...OMISSIS...] . 43. Con questi stessi principii 1. che volontario comunemente significa libero presso S. Tommaso, per la ragione detta, 2. che egli parla di atti , e non di abiti: (e così per doppia ragione, rimane tagliato fuori il discorso del peccato originale), si disciolgono le difficoltà contro la distinzione sopra mentovata tra peccato e colpa , che altri passi dell' Angelico potrebbero ingerire nell' animo di chi li considera superficialmente, e che noi abbiamo già dissipate nelle varie nostre opere (2), principalmente nella prima e seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa illustrate . Altri luoghi dell' Angelico con facilità pure si spiegano ponendo attenzione al valore delle parole. Così ciò che dice: « ibi incipit genus moris, ubi primum dominium voluntatis invenitur , » è vero tanto se si intende nello stesso senso, in cui S. Agostino aveva detto: « nisi voluntas mala, non est cujusquam ulla ORIGO peccati , » testo da noi citato di sopra, quanto se s' intende di un dominio della volontà potenziale, sebbene non esercitato per accidentali cagioni; quanto finalmente se per genus moris s' intende la moralità che ognuno si procaccia liberamente coi suoi costumi, colle sue proprie operazioni, che è l' uso più consueto che si fa di questa parola. Ma un argomento ugualmente ineluttabile, che non lascia dubitare della mente di S. Tommaso si è, che l' intendere S. Tommaso contro la proprietà del linguaggio da lui usato e fargli dire, a ragion d' esempio, che« il bambino che riceve il peccato originale per generazione con questo sia anche colpevole, e gli si deva imputare a colpa, come s' imputano le male azioni all' uomo che le fa liberamente«, il dir questo, non solo mette S. Tommaso in contraddizione seco stesso e coi principii più inconcussi della sua dottrina, ma lo fa diventare di più Giansenista, giacchè i Giansenisti sono quelli che vogliono appunto, che il peccato originale sia rispetto al bambino imputabile a colpa e a demerito, o perchè egli lo ricevè senza impugnare colla sua volontà, come disse Baio, o perchè basti a costituire la colpa e il demerito d' un individuo, la volontà libera d' un altro individuo, cioè di Adamo, che è la sentenza propria di Giansenio. Se dunque non si vuole calunniare a questo segno il santo Dottore riman fermissimo, che egli distinse nel peccato dei bambini il peccato dalla colpa, confessando quello inesistere in essi come vero peccato, la colpa poi riferirsi in Adamo che ne fu la libera causa: il che ho comprovato in più opere con tanti e sì luminosi testi del santo Dottore, che non mi saprei spiegare, come ancora possa rimanere su di ciò il minimo dubbio. 44. Con questa distinzione adunque, comune nella sostanza a S. Agostino e a S. Tommaso, rimane da una parte atterrato il sofisma de' Pelagiani, dall' altra quello dei Giansenisti. Poichè ai Pelagiani è dimostrata per essi la possibilità, che in un individuo esista realmente un vero peccato che egli non ha commesso con alcun atto di sua libera volontà, il che non si potrebbe loro dimostrare se si trattasse di una colpa: ai Giansenisti del pari è dimostrato, che niun peccato può essere imputato a colpa propria in chi non fu libero a riceverlo o a commetterlo, e che può stare il dogma del peccato originale senza l' imputazione a chi lo subisce, bastando che essa si possa fare alla causa libera che lo commise e commettendolo lo pose in essere, onde risplende manifesta la ragione della condanna che fece Innocenzo X della terza proposizione di Giansenio, e quella d' altre simili proposizioni dalla Santa Sede anatematizzate. Ripeterò qui dunque le parole colle quali ho conchiuso la seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa . « Trattasi di due concetti che sono, quasi voleva dire, i poli su cui si gira l' intiero Cristianesimo: tolta la colpa con Giansenio e Calvino, l' obbligazione, il merito, la pena, il premio è perito: tolto peccato necessario con Pelagio - non è più quello che le Scritture chiamano peccatum mundi : la redenzione, la grazia medicinale, l' efficacia de' Sacramenti ex opere operato , Cristo, le sue promesse, la Chiesa da lui fondata, non hanno più una ragione«. Ammessi quei due concetti e ben distinti, tutto è restituito, le contrarie eresie cadono sotto entrambi, alla luce della dottrina della Chiesa. 45. Ma è necessario, che dimostriamo più specificatamente la necessità di distinguere le due nozioni per poter rispondere con efficacia ai Pelagiani non meno che ai Giansenisti. E alle obbiezioni dei Pelagiani risponderemo in quest' articolo: l' errore de' Giansenisti intorno alla natura del peccato originale, essendo intimamente connesso con altri errori intorno alle conseguenze del peccato stesso, sarà confutato nel paragrafo che segue. Tutti gli argomenti dei Pelagiani a favore della loro eresia come a capo e principio si riducono al seguente:« Il peccato (e così dicasi di tutto ciò che riguarda l' ordine morale) è l' opera della volontà umana propria di ciascun umano individuo, e non l' opera della natura: [...OMISSIS...] . Essendo la volontà di un individuo propria di lui, essa stessa non può passare in un altro individuo, e perciò non può neppure passare in un altro il suo proprio atto buono o reo: quindi il peccato di un individuo non può trasmettersi in un altro. Ma la volontà del bambino non produce con alcun suo atto il peccato originale che dicesi essere in lui: dunque non può darsi esso peccato originale nel bambino. Nè vale il dire, che lo riceve per via di generazione, perchè questa appartiene alla natura e non alla volontà , a cui solo spetta il peccato«. Tanto risulta dai luoghi di S. Agostino, in cui reca la dottrina di Pelagio, e dai propri testi dell' opere di Giuliano Vescovo di Eclana, come si può vedere, oltre ai luoghi citati (2). 46. Ora per rispondere direttamente a quest' argomento è necessario dimostrare che la natura razionale, la natura umana, può soggiacere al peccato senza che concorra nessun atto della libera volontà di quella persona che subisce il peccato medesimo, e poichè questo non si potrebbe mai dimostrare della colpa e del merito , che, come mostrano la ragione e le definizioni della Chiesa, non possono stare in un individuo senza che la sua libera volontà ne sia la causa (e dire il contrario sarebbe l' eresia gianseniana), perciò è necessario separare il peccato dalla colpa e dimostrare che quello, e non però questa, ci può essere in una persona, senz' opera di sua libera volontà, ma per naturale generazione, e che così avviene rispetto al peccato d' origine. 47. Ora alcuni teologi moderni che d' altra parte hanno valorosamente combattuto contro l' eresia gianseniana, avendo abbandonata questa via, non sono sempre stati così cauti da non esporre un fianco indifeso all' eresia pelagiana, di cui credevano non esserci forse gran fatto a temere. Pochi esempi che ne darò, de' molti che me ne somministrerebbe la storia della Teologia, basteranno a dimostrare, per la ragione de' contrari, la solidità del metodo che noi proponemmo, sulla traccia dei più antichi e sicuri maestri, per abbattere non una sola, ma entrambe le eresie opposte ad un tempo. Il dotto e per altro accurato teologo Domenico Viva (e lo stesso professano altri teologi) scrive così dei dannati: [...OMISSIS...] . Ora il Pelagiano non mancherebbe di approfittarsi di questo principio, argomentando in questo modo:« Voi mi accordate che il peccato fisicamente necessario non è peccato formale, ma solo materiale. Ma il peccato, che si dice originale ne' bambini è per essi fisicamente necessario: dunque è per essi puramente un peccato materiale, e non un peccato formale. Ora il peccato materiale non è peccato, mancandogli la forma, che è quella che dà la specie e il nome alle cose. Dunque non esiste alcun peccato originale nei bambini«. La maniera adunque di favellare che usano tali teologi non sembra abbastanza cauta contro la eresia pelagiana. Il dire che il peccato necessario è piuttosto pena che peccato non è conforme alla dottrina di S. Agostino, che trova che i due concetti di pena e di peccato possono stare insieme come accade nell' originale. Che l' odio poi in Dio, in qualunque modo esista in un' anima, sia formalissimo peccato consegue dalla definizione da noi data del peccato sulle vestigia di S. Tommaso e di S. Agostino essere cioè« il peccato una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita«. E qual deviazione maggiore dal fine dell' umana vita dell' odio di Dio? Questo è ciò che vi ha di sommo, di perfettissimo nel suo genere, e male a proposito lo stesso Viva (2) paragona a quest' odio gli atti necessari della concupiscenza, dicendo che il Tridentino nega che sieno peccati, ma sì venienti dal peccato e inclinanti al peccato; poichè tali atti, non voluti dall' uomo rinato, non sono una « deviazione della volontà dal fine«, al quale anzi la volontà del giusto intimamente unita e via più si stringe, lottando contro di essi, e così dando prova di amare Iddio suo fine. Nè pure dunque al peccato originale, sebbene fisicamente necessario per riguardo al bambino, può negarsi la forma di peccato; e il farlo contraddirebbe alle parole del Sacrosanto Concilio di Trento, che dicendo: [...OMISSIS...] , riconosce nell' originale « la vera e propria ragion di peccato« » che equivale a dire la forma vera e propria di peccato. Conviene dunque togliere l' equivoco delle parole, e invece di negare che ci possa essere un peccato formale , necessario, è da negarsi che ci possa essere una colpa formale rispetto alla persona che soggiace alla necessità: con che si chiude la bocca ad un tempo ai Pelagiani e a' Giansenisti. 4.. Nè del pari si cautela abbastanza la dottrina cattolica contro l' eresia pelagiana dicendo col Lugo (2), che il peccato originale ne' bambini è solo « peccatum interpretative proprium ob inclusionem voluntatis propriae in voluntate Adae, tamquam tutoris humani generis ». L' istitutore di un tutore appartiene alla legge positiva civile, e non si può trasportare all' ordine naturale, se non come una vana metafora. Di poi, il tutore non si dà dalla legge civile a quelli che non sono ancora concepiti, e però non esistendo, non hanno diritti da tutelare. In terzo luogo il tutore può bensì rappresentare il pupillo riguardo a' suoi interessi temporali ed esterni, e può produrre degli effetti legali che modificano la condizione del pupillo nel foro esterno, ma non può assorbire in sè la personalità del pupillo, e tutto ciò che appartiene all' interiore moralità del pupillo stesso di maniera che il pupillo sia reo o sia buono in sè stesso solo perchè il suo tutore è reo o è buono: cosa assurda. La personalità d' ogni uomo è incomunicabile, non può essere contenuta in nessun' altra personalità: riguardo alla dignità personale e morale non solo il pupillo è indipendente dal tutore, ma anche il figliuolo dal padre e il servo dal padrone, ed era un enorme abuso di autorità, proprio solo del paganesimo, quello di considerare il figlio o il servo come una cosa , di cui la volontà del padre e del padrone potesse disporre anche per riguardo alla dignità morale, come abbiamo già dimostrato nella Filosofia del Diritto , e specialmente dove abbiam parlato de' diritti connaturali dell' uomo (1). In quarto luogo finalmente nè pure le leggi civili accordano al tutore il potere di abusare della sua autorità a danno del pupillo: e però l' autorità tutoria che si vuole attribuire metaforicamente ad Adamo non si potrebbe mai estendere a rendere tutti i nascituri da lui rei del proprio peccato, nè pure se Adamo avesse voluto, sia per l' intrinseco assurdo che c' è in un tale concetto, sia perchè neppur la legge positiva accorda o può accordare una tale autorità al tutore, sia perchè tutela non ci può essere finochè i pupilli stessi non esistono. In che senso dunque si può mai chiamare un peccato proprio solo interpretativamente quello in cui nascono i bambini? Quale interpretazione arbitraria e crudele volete voi fare a danno dei poveri bambini? Volete voi interpretare che se le volontà di tutti i bambini nascituri da Adamo fossero state presenti quando Adamo trasgredì il divino precetto, avrebbero anch' esse dato il loro consenso? Infatti i teologi chiamano intenzione interpretativa « cum quis nullam habet nec habuit intentionem actualem sed ita est dispositus, ut si adverteret, haberet . » Voi adunque giudicate che tutti i bambini nascituri, prima di essere infetti del peccato originale, sarebbero stati così disposti da consentire nel peccato adamitico. Ora non è questo un giudizio temerario? Che un uomo esista, e che, esistendo, abbia disposizione a consentire in un peccato avendone l' occasione, si potrà forse congetturare da certi segni, che dimostrano quella sua mala disposizione , e quindi si potrà in qualche modo, dire che interpretativamente e per via di mera congettura, è già in peccato. Ma di uomini, che non esistono ancora, e che non hanno nessuna precedente mala disposizione, perchè si suppone che non sieno ancora in peccato (trattandosi di spiegare come vengano a soggiacere al peccato), di uomini dalla libera volontà de' quali in istato ancor buono e perfetto dipende la scelta, si potrà egli dire che siano disposti a consentire nel male stesso, nel quale consentì il loro padre prima di generarli? Delle cose contingenti e molto meno della scelta che farà una volontà perfettamente libera non c' è ancora alcuna determinata certezza (se non davanti agli occhi di Dio che vede anche la scelta, perchè è presente ad ogni tempo): onde è impossibile interpretare , che tutti i milioni di nascituri, non già saranno disposti a scegliere il male (come vuole l' intenzione interpretativa), ma senza essere disposti precedentemente, nè inclinati a scegliere il male, lo sceglieranno liberamente. Attribuire adunque a tutti i bambini non ancora esistenti un peccato interpretativo è un collocare l' interpretazione dove non può esistere, è formare un giudizio temerario e calunnioso, ed è sostituire in fine vane parole al dogma della Chiesa cattolica. Per il che dobbiamo conchiudere, che nè pure in questo sistema la verità del peccato originale rimane sufficientemente difesa contro il Pelagiano che risponderebbe:« Voi difensore del dogma del peccato originale non credete poterlo difendere se non dicendo che è un peccato proprio del bambino solo interpretativamente. Questo ben mostra la debolezza del vostro assunto, perchè un peccato interpretativo, come il fate voi, non è peccato. Convenite adunque con noi che il peccato originale ne' bambini non esiste veramente, e non può esistere«. 49. Agli stessi inconvenienti soggiace il sistema di Vasquez (1) e d' altri teologi che deviarono dalla tradizione scolastica d' accordo con quella de' Padri, affine di rendere più facile l' intelligenza della trasfusione del peccato. Immaginarono essi un patto tra Dio e l' umana natura sussistente in Adamo, in virtù del quale Iddio ripose le volontà de' singoli nascituri in quella di Adamo, di maniera che se Adamo conservasse la giustizia si riputasse che le volontà di tutti l' avessero voluta conservare, se per opposto egli eleggesse l' ingiustizia, anche le volontà di tutti i suoi figliuoli non ancora esistenti si considerassero rei di non averla conservata. E` difficile l' assegnare una differenza veramente sostanziale tra tale pensiero e quello di Giansenio, che diceva bastare la volontà libera di Adamo, acciocchè fossero imputati a' suoi figliuoli i loro atti non liberi: o piuttosto quel patto, se si potesse ammettere, sarebbe un modo di coonestare e giustificare la sentenza gianseniana. Ma in nessuna maniera si può ammettere. Primieramente, perchè la dignità personale, a cui spetta la moralità, non può essere materia di un contratto o di un patto, sia che questo patto lo faccia la stessa persona della cui dignità e moralità si tratta, sia molto meno che lo facciano de' terzi. In secondo luogo, perchè in Adamo c' era bensì la natura umana, ma non la persona de' suoi discendenti, della cui sorte si tratta, giacchè in quella natura non sussisteva che la sola persona di Adamo, e non quella di coloro che non esistevano ancora. In terzo luogo sarebbe un patto inonesto tanto da parte di Dio, quando da parte di Adamo, quanto da parte de' suoi discendenti, il cui consenso si presume. Da parte di Dio, il quale dispone delle sue creature cum magna reverentia , quando con quel patto disporrebbe della giustizia e ingiustizia dei posteri di Adamo, senza loro intervento e senza che nè pure esistessero: e ne disporrebbe preconoscendo con certezza che il patto andrebbe a finire male, cioè che la conseguenza del patto sarebbe stata quella di rendere rei di morte eterna tutti i discendenti del primo padre in virtù di un solo atto di questo, senza alcuna loro partecipazione: quando, se Iddio potesse fare un contratto simile, per la sua infinita bontà, non potrebbe farlo che a loro favore e vantaggio. E dato, per supposizione impossibile, che a Dio fosse stato ignoto l' abuso che Adamo avrebbe fatto della sua libertà; ancora rimarrebbe che lo stato di giustizia o d' ingiustizia de' posteri di Adamo, e quindi la loro eterna sorte, sarebbe stata esposta ad una specie di giuoco di sorte, poichè l' elezione libera di Adamo poteva esser fatta egualmente in senso bono e in senso non bono . Sarebbe stato inonesto dalla parte di Adamo, che non poteva nè avere alcuna autorità di patteggiare della moralità de' suoi futuri discendenti, nè poteva senza presunzione o temerità farla dipendere da un atto suo proprio, sapendo di essere fallibile, sebbene costituito in grazia. Sarebbe stato inonesto dalla parte degli stessi discendenti, volendo attribuir loro non esistenti ancora un assenso interpretativo, giacchè nessun uomo può lecitamente fare che l' esser egli giusto od ingiusto, innocente o peccatore, dipenda da un atto di un altro uomo: non potendo rinunziare alla propria responsabilità in cosa di tanto momento. Al che si aggiunge l' assurdo che si contiene nel pensiero, che la giustizia e l' ingiustizia di una persona umana possa mettersi in essere, non da una loro propria azione o passione, ma dall' azione di un' altra persona; come chi patteggiasse che se un' altro mangierà un cibo avvelenato, sarò avvelenato io che non ne ho mangiato; e chi mangierà un cibo salubre, ne starà bene il mio stomaco al pari del suo. Un sistema pieno di tante difficoltà e assurdi non poteva venire in mente, se non perchè dimenticandosi il concetto di peccato che è quello di disordine inerente alla persona, altro non si cercò di spiegare se non il concetto di colpa senza il substratum del peccato, che è la materia imputabile a colpa, onde si pensò come si potesse applicare la colpa a chi non aveva peccato. Egli è chiaro che anche con questo sistema hanno buon gioco i Pelagiani, i quali possono dire a un teologo che così ragiona:« Voi fate dipendere il peccato originale de' bambini da un patto che altri hanno fatto senza di essi: con questo venite a confessare che essi in sè stessi non hanno peccato alcuno, ma che loro viene imputato l' altrui peccato, pel buon volere di altri, a cui è piaciuto di fare un patto pel quale si obbligarono, in caso che Adamo avesse peccato, di imputar loro questo peccato!«. 50. E non meglio, per quanto io vedo, provvede all' illustrazione e alla difesa del dogma cattolico del peccato originale ne' bambini contro quelli che lo impugnano, il sistema di que' teologi, che fanno consistere questo peccato nella sola privazione dell' ordine soprannaturale, a cui il primo uomo era stato elevato per mezzo della grazia santificante. Essi si persuadono d' essersi con questa invenzione fabbricato un istrumento, dirò così, a due manichi, prendendolo dall' un de' quali possano dimostrare ai Cattolici la loro perfetta ortodossia nell' ammettere il peccato originale, prendendolo dall' altro possano dimostrare agli increduli che spacciano questo dogma contrario alla ragione, che esso non involge nè pur l' ombra o l' apparenza di difficoltà, e che quindi essendo facilissimo a spiegarsi e a dimostrarsi conforme alla ragione, si possa risparmiar loro quello che S. Agostino diceva a Giuliano: « Si potes, intellige; si non potes, crede (1), » e si possano considerare come esagerate quelle altre parole del santo Dottore, che però esprimono il sentimento di tutta la tradizione, prima de' nuovi teologi di cui parliamo: [...OMISSIS...] . 51. Coi Cattolici questi teologi dimostrano il peccato originale così: « La vita dell' anima è la grazia santificante: la privazione di questa grazia è dunque la morte dell' anima, e però in questa consiste il peccato originale ne' bambini. Avvertite però che c' è differenza tra la mancanza ossia carentia della grazia, e la privazione . Il peccato originale consiste nella privazione della grazia e non nella semplice carenzia. La differenza è questa: Iddio poteva crear l' uomo senza la grazia santificante e di conseguenza senza l' ordine soprannaturale: in tal caso gli sarebbe mancata la grazia soprannaturale, ma non sarebbe stato per questo peccatore, nè morto dell' anima, perchè Iddio avrebbe decretato fino a principio di non dargli una cosa che non gli era dovuta. Ma Iddio costituì Adamo nella grazia santificante, e fece a principio il decreto che sarebbe passata a' suoi discendenti s' egli non avesse peccato, benchè ben sapeva che avrebbe peccato. Avendo dunque Adamo perduta colla sua disubbidienza la grazia, i suoi discendenti, benchè non abbiano disubbidito, sono restati privi della grazia, che posto il decreto di Dio era loro dovuta: e però questa mancanza di grazia in essi non è semplice mancanza in essi, ma privazione , e così, atteso quel divino decreto, sono peccatori, morti nell' anima, schiavi del demonio, ecc.«. Così provano l' esistenza del peccato originale ne' bambini. Rivolgendosi poi agli increduli, che dicono essere contrario alla ragione che un bambino che ancora non ha posto alcun atto di sua libera volontà, deva avere in sè un vero peccato che lo renda oggetto dell' ira e dell' indignazione di Dio, parlano loro in questo modo:« Non c' è la menoma repugnanza colla ragione: e voi non siete bene informati che cosa si intenda pel peccato de' bambini. Per questo peccato altro non s' intende se non che viene loro tolto quello che non è per sè stesso dovuto alla loro natura: la natura l' hanno tutta senza lesione o ferita di sorte: ma i doni soprannaturali che non appartengono alla natura, Iddio se li ritiene senza concederli loro: ecco che cosa è il peccato originale. Vedete dunque che non solo qui non c' è assurdo, ma nè pure c' è la minima difficoltà: e il modo della sua propagazione è tanto piano che non può nè manco essere oggetto di una questione, perchè non si vede alcun motivo di dimandare « quomodo propagetur quod non est , » come dice un chiaro teologo« (1). 52. Non so a dir vero che cosa l' incredulo, udendo che il peccato originale non è finalmente altro che questo, non è nulla che pregiudichi veramente all' umana natura che solo rimane per esso spoglia di quello che per sè non le appartiene, sarà per dir poi di tanti lamenti e vituperi, di cui è piena la dottrina e la tradizione cattolica intorno all' originale peccato come a somma calamità e sciagura caduta addosso al genere umano, da volerci la morte di un Uomo7Dio per ripararla: e se egli non riputerà forse di essere ingannato o da nuovi teologi, o dagli antichi, con danno ed onta della cattolica fede. Ma lasciando lo scandalo che possano prendere gli eretici confrontando la nuova espressione del dogma coll' antica e perpetua, noi restringiamoci a confutare il sistema proposto in sè stesso. 53. L' uomo, si dice, poteva essere creato da Dio come nasce al presente non adorno della grazia santificante. L' uomo che fosse stato così creato, e l' uomo qual nasce al presente sono nè più nè meno, per riguardo ad essi, nella stessa condizione della natura umana. Ma in quello la privazione della grazia non sarebbe peccato, e però con quello Iddio non sarebbe irato nè indegnato, in questo la stessa privazione della grazia è peccato e però Iddio con questo è irato e indegnato. Da che nasce questa differenza, per la quale la stessa identica condizione naturale nell' un caso non è peccato, nell' altro è peccato? Rispondono:« Nasce da un decreto di Dio: nel primo caso Iddio non avrebbe fatto il decreto che gli uomini che nascessero da un padre costituito nella grazia santificante, ereditassero anch' essi la grazia: e avrebbe anzi decretato che tanto il padre, quanto i figli rimanessero nello stato naturale. Nell' altro caso Iddio ha decretato che il padre fosse costituito in grazia, e che se la perdesse, la perdesse per tutti i suoi discendenti: perciò questi nascendo senza la grazia hanno il peccato; laddove i primi nascendo senza la grazia non avrebbero il peccato«. In questo sistema dunque il peccato originale de' bambini dipende da un decreto di Dio: secondo che a Dio piacque di fare piuttosto uno che un altro decreto, essi senz' altro, o sarebbero peccatori o nol sarebbero: benchè in quanto ad essi niente è mutato, nell' un caso non hanno in sè nè più nè meno dell' altro: non c' è in essi altro difetto inerente che abbia per sè ragion di peccato: ma quello che non ha per sè ragion di peccato, cioè la mancanza della grazia, diviene tale per un decreto positivo di Dio, che Iddio poteva non fare. Di qui sembrano venirne più assurdi e difficoltà: a ) Che Iddio col suo decreto è il vero autore del peccato ne' bambini, cangiando col detto decreto in peccato ciò che senza il detto decreto non sarebbe peccato. b ) Cresce questo assurdo, quando si consideri che quel decreto di Dio, pel quali stabilì che la giustizia o il peccato del padre Adamo debba passare ai posteri, e così sia loro dovuta l' una o l' altro, non è un decreto condizionato, se non al nostro modo di concepire, nè è un decreto che stabilisca una vera alternativa da parte di Dio: perchè Iddio ben sapeva che Adamo non avrebbe già conservata la giustizia ma avrebbe peccato, e questo stesso peccato era contenuto nel decreto totale di Dio, perchè Iddio non fa già molti decreti, ma con un solo decreto stabilì tutta l' economia del governo dell' umanità e della sua salute. Iddio adunque sapea di certo che Adamo avrebbe peccato, e se egli decretò che il peccato di lui passasse ai posteri, egli non fece un tal decreto sopra una ipotesi, o sopra una vera alternativa come accade degli uomini, ma egli avrebbe con ciò costituiti col suo decreto positivo tutti i discendenti peccatori, privandoli della sua grazia, e attribuendo a questa privazione, secondo tal sistema, ragione di peccato. c ) Un tale sistema contiene ancora questo assurdo, che un decreto positivo cangerebbe la natura delle cose, non dico già un decreto efficace che influisce e cangia colla sua operazione le cose, ma un decreto che lascia la cosa qual' è. Ella non può cangiare certamente di natura solo pel buon volere di chi decreta che sia un' altra, quando la sua natura non diviene un' altra. Così nell' uomo creato nell' ordine naturale, e nel figliuolo generato da Adamo, la mancanza di grazia è e rimane in sè la stessa, ma questa identica senza subire alcuna modificazione, solo perchè nell' un caso Iddio decretò di non voler dare la grazia, non ha natura di peccato, nell' altro caso solo perchè decretò bensì di non volerla dare a' discendenti di Adamo, ma che l' avrebbe loro data se Adamo non avesse peccato, sapendo già egli che avrebbe peccato, questa privazione acquistò la natura di vero peccato, che non aveva prima. d ) In un tale sistema inventato per ovviare le difficoltà nascenti dall' essere il bambino reo di peccato senza aver preso alcuna parte al peccato di Adamo, ritornano in campo, anche con maggior apparenza, rimanendo sempre a spiegare come Iddio potesse, salvi i suoi divini attributi di bontà e di giustizia, rendere il non dare la grazia al bambino (il che dipende unicamente da lui cioè da un suo libero decreto) un peccato del bambino, tale da fare che il bambino per sè innocente diventi un oggetto della sua ira e della sua indegnazione, degno di eterna condanna, morto dell' anima, schiavo del demonio, ecc., cose tutte che sarebbero concertate nel consiglio di Dio, senza intervento alcuno del bambino stesso, della cui sorte nelle mani di Dio si sarebbe così infelicemente disposto. 54. Ma per vedere più chiaramente quanto manchi a un tale sistema a poter vantarsi di rappresentare fedelmente il dogma cattolico e a difenderlo contro l' eresia, gioverà intendere ed esaminare le ragioni de' suoi fautori, o, per meglio dire, quelle vane frasi di parole e distinzioni di cui lo vestono, perchè ora vi dicono che il bambino è peccatore perchè non semplicemente nudo, ma spogliato della grazia santificante; ora che questa mancanza è peccato perchè non è sola mancanza ma privazione; ora perchè la detta grazia non è per lui cosa estranea alla sua natura, ma dovutagli; ora perchè costituisce un' avversione a Dio, ma non positiva, ma solamente negativa ; ora finalmente credono di trovare il saldo fondamento di un tale loro sistema nelle proposizioni condannate in Baio e in Giansenio. E` dunque a esaminare la solidità di queste molteplici e diverse maniere di cui si riconosce aver bisogno il sistema di cui parliamo, affinchè possa essere insinuato nell' altrui persuasione. a ) Se un uomo, dicono, venisse creato da Dio nudo della grazia santificante, questa nudità non costituirebbe per lui alcun peccato: ma se un uomo viene spogliato della grazia e per questo rimane nudo di essa, questa condizione di spogliato lo costituisce in istato di vero peccato, e però il bambino nasce in peccato. Qualunque sia la verità di questa asserzione, essa potrà convenire ad Adamo che fu veramente vestito e poi spogliato della grazia santificante (non però per sempre): ma il bambino che nasce da Adamo non fu mai vestito, e però non fu mai spogliato da Dio. Rispetto poi ad Adamo egli fu spogliato della grazia santificante a cagione del suo peccato. L' aver dunque Iddio tolto ad Adamo la grazia non poteva essere il peccato di Adamo che ne fu la giusta causa, ma solo la pena e la conseguenza del peccato. Che se in Adamo questo spogliamento non costituì il peccato, molto meno può costituirlo ne' bambini, il peccato de' quali è uno solo nella sua origine con quel di Adamo, e della stessa specie del peccato abituale di lui, benchè numericamente diverso. Altramente sarebbe passato ne' posteri solo quello che in Adamo non era peccato, contro il dogma, che, come dice S. Tommaso, « solum primum peccatum primi parentis in posteros traducitur (1), » e non sarebbe più uno di specie. [...OMISSIS...] Ma rispondono, se il bambino non fu spogliato di fatto, fu spogliato di diritto, perchè aveva diritto alla grazia. Ma perchè aveva diritto? pel decreto fatto prima da Dio: senza questo decreto che Iddio, secondo gli avversarii, potea non fare, il bambino non aveva alcun diritto. Il peccato dunque del bambino ha per vera causa quel decreto di Dio: e così tornano in campo le difficoltà precedenti. Che se si dice che il bambino avea diritto non per decreto di Dio, ma per qualche altra ragione, convien dare quest' altra ragione, e torneremo nel ginepraio delle difficoltà. Ma suppongasi che il bambino sia stato spogliato della grazia. L' esser spogliato da altri è egli un peccato? S' intende che lo spogliatore possa essere peccatore se spoglia altrui della veste ingiustamente: ma che colui che viene spogliato, e che non può impedire al più forte di spogliarlo, per questo sia costituito peccatore, chi lo può intendere? O dunque Iddio spogliò il bambino della grazia ingiustamente, e allora il peccato ricade in Dio, o giustamente, e allora bisogna dire qual ragione di giustizia ci aveva di spogliare il bambino innocente di quella veste, e torneranno tutte le difficoltà che si volevano evitare, converrà di nuovo spiegare il detto di S. Paolo in quo omnes peccaverunt , e dopo di ciò ne verrà che il bambino rimarrà spogliato della grazia pel suo proprio peccato, e però lo spogliamento seguirà come pena al peccato, e non sarà il peccato stesso, il quale conterrebbe solo la ragione per cui quello spogliamento sia giusto. b ) Gli argomenti a favore di questo sistema reincidono sempre nel medesimo: i suoi fautori non moltiplicano che le parole e le sottili e puramente logiche distinzioni per darvi credito. Così vi dicono: noi distinguiamo la carenza della grazia santificante dalla privazione della medesima. Se Iddio avesse voluto creare l' uomo nell' ordine della natura, la mancanza della grazia santificante nè sarebbe peccato, nè sarebbe morte dell' anima, benchè prima dicano in universale che la detta grazia sia la vita, e che la mancanza della vita sia la morte dell' anima. Ora non più: non ogni mancanza della grazia è morte dell' anima, ma solo quello che è privazione. Poichè avendo Iddio decretato di dare la grazia a Adamo e a' suoi posteri, non dandogliela, tale mancanza è privazione , e così vogliono che sia morte dell' anima e peccato. Or che Adamo si sia demeritata la grazia, questo è chiaro per la sua prevaricazione, e però che Iddio l' abbia punito col privarlo della sua grazia, questa è necessità e patente giustizia. Ma questa privazione della grazia in Adamo è pena conseguente al suo peccato, e non è il peccato stesso commesso da Adamo. Ma riguardo ai bambini, che non hanno peccato, ci dicano come sia giusto il privarneli. Negano che abbiano in sè alcun peccato? perchè dunque privarli della grazia, perchè pretendere di più che questa stessa privazione sia per essi peccato? Che se dicono avere ereditato il peccato; in tal caso certo è giusto che sieno privati della grazia. Ma allora altro è il peccato da essi ereditato, altro la pena della privazione della grazia. questa pena è giusta perchè dovuta al peccato che è in essi. Rimane dunque sempre a spiegare come in essi sia il peccato; cioè rimane quella difficoltà che si vuole evitare, cangiando quello che è pena del peccato in peccato: e così distruggendo il peccato stesso ne' bambini, ai quali si lascia solo la pena, senza che ne apparisca la giustizia. Di poi la parola privazione in un tale discorso, si prende in un senso largo ed improprio. Poichè privazione in senso proprio è solamente quando manca ad un subbietto ciò che dovrebbe avere per sua propria natura. « Carentia formae in subiecto apto nato . » Ora i nostri teologi sostengono che al bambino che nasce, per sua natura, niente manca, perchè gode della natura umana senza ferita o lesione alcuna. La natura umana adunque in tale stato non ha veramente alcuna privazione , nulla al bambino manca di quello che è nato atto ad avere, poichè esser« nato ad avere«, vuol dire che è atto per sua natura ad avere. Ma i nostri teologi dicono:« Questo è vero se si riguarda la natura umana, ma se si riguarda il disegno che aveva Iddio su di essa, di rivestirla cioè di grazia santificante, questa grazia, in virtù di tal decreto, è divenuta una cosa appartenente alla natura stessa dell' uomo«. Loro si può facilmente rispondere, che Iddio con un suo decreto non può fare che quello che non appartiene a una natura, le appartenga, perchè sarebbe una contraddizione. Rimane dunque, che la natura umana nel bambino abbia tutto quello che essa esige come tale, e più che non abbia alcuna privazione in sè stessa. Replicheranno, che pure il non avere quel più che potrebbe avere, e che avrebbe avuto, se Adamo non avesse peccato, è una specie di privazione, sebbene questo più non sia dimandato dalla natura stessa. Si ricorre dunque al vocabolo di privazione , dando a questa parola un' estensione maggiore di quella che le è propria, per accomodarla al sistema. Ma non si accomoda tuttavia. Poichè questa pretesa privazione consisterebbe in una relazione tra il disegno di Dio e la natura umana oggetto di questo disegno. In tal caso una tal sorta di privazione non sarebbe inerente a ciascun bambino, perchè un estremo della relazione, cioè il decreto di Dio, non è qualche cosa che inesista nel bambino (che anche l' ignora), ma è cosa che esiste solo nella mente e nella volontà di Dio. Mancando dunque nel bambino un estremo della relazione, e le relazioni avendo bisogno per esistere de' due estremi, apparisce che la relazione di cui si tratta, può esistere bensì in una mente che col pensiero abbraccia nello stesso tempo e il bambino, che ha la natura umana senza difetto nè privazione alcuna, e Iddio, che ha in sè concepito il decreto di esaltare questa natura e che mette questi due estremi a confronto; ma non esiste perciò nel bambino stesso, che è un estremo e un estremo che non costituisce neppure nè il fondamento nè il principio della relazione, ma solo il termine. Non è dunque una relazione inesistente nel bambino; e però non si può dire nè pure privazione , poichè i filosofi insegnano, che la privazione deve inesister sempre in un subbietto vero e reale (1). Che se in questa relazione si pone il peccato d' origine, convien dire che questo peccato non esista nel bambino, contro quanto decise il Concilio di Trento, ma che un tal peccato altro non sia che una relazione esterna al bambino medesimo e un ente di ragione. In terzo luogo, dato anche si possa chiamare privazione, in vece di semplice carenzia, la mancanza della grazia santificante nel bambino, è provato con questo che egli sia in peccato? Non ogni privazione è peccato: la pena, a ragion d' esempio, è anch' essa una privazione e non però un peccato. E se volete sostenere che la privazione della grazia nel bambino costituisca il suo peccato, non ricadete con ciò in quelle difficoltà stesse che col vostro sistema credete evitare? Poichè il bambino nulla ha contribuito a una tale privazione che gli si fa subire. Si è forse egli meritata con un atto di suo libero arbitrio questa privazione? Come è egli dunque peccatore, se pur voi intendete ch' egli abbia in sè un vero peccato, come l' intende la Chiesa Cattolica? 55. Di poi S. Tommaso, che questi teologi citano, e a dir vero con poca sincerità, come favorevole alla loro opinione, insegna e dimostra apertamente, che il peccato originale non può consistere in una pura privazione, ma che egli è un abito corrotto: [...OMISSIS...] . E qui si osservi come S. Tommaso distingua nel peccato attuale « ipsam substantiam actus, et rationem culpae (2) » e nel peccato originale in luogo della sostanza dell' atto distingue la sostanza dell' abito della natura, che chiama « quaedam inordinata dispositio ipsius naturae (3), » il che torna alla distinzione tra il peccato entitativamente considerato che è la sostanza dell' abito, e la colpa che è l' imputazione del medesimo « in quantum derivatur ex primo parente . » Ottimamente dunque distingue tra la materia dell' imputabilità, e l' imputabilità stessa. Ma i nostri teologi stabiliscono una imputabilità senza materia, perchè non ammettono nella natura del bambino nessun disordine che si possa imputare, e la privazione della grazia, che è la pena conseguente all' imputabilità stessa, vogliono che sia il peccato ad un tempo imputabile e imputato, il che è antilogico ed assurdo. Laonde se S. Agostino rimprovera giustamente a' Pelagiani di fare ingiusto Iddio perchè puniva i bambini senza che in essi ci avesse alcuna materia d' imputazione: [...OMISSIS...] , che cosa avrebbe poi detto il santo Dottore di un sistema che pretende, che la stessa privazione della grazia con cui sono puniti i bambini, dalla qual privazione provengono tutti gli altri loro mali, costituisca la stessa materia dell' imputazione, lo stesso peccato imputabile? Non vince questo nuovo sistema, almeno in assurdità, lo stesso pelagianismo? Non così certamente S. Tommaso, il quale riconosce che, non volendo fare ingiuria all' infinita bontà e giustizia di Dio, conveniva che la ragione per la quale negava loro la grazia santificante conferita alla natura umana in Adamo, si trovasse ne' bambini stessi, cioè fosse appunto il peccato da essi ricevuto per via di generazione, il quale mettesse ostacolo alla grazia: onde il peccato nel bambino lo chiama contrarium prohibens, dicendo: [...OMISSIS...] . E però dice appresso, che la mancanza della divina visione è pena e del peccato originale che è nei bambini, e dell' attuale di Adamo (2). E però, coerentemente a questa dottrina dice ancora, che la remissione del peccato importa due cose 1. la restituzione della grazia, e 2. la remozione dell' impedimento che impediva la grazia di essere ricevuta nel peccatore: [...OMISSIS...] , laddove i nuovi teologi che fanno consistere il peccato nella sola privazione della grazia, devono ridurre la remissione della colpa alla sola restituzione della grazia, e non all' impedimento che poneva il peccato alla medesima; il che è un nuovo e manifesto errore. 56. c ) L' uomo dunque che fosse creato colla sola natura, e il bambino che ora nasce da Adamo, secondo questo sistema, trovansi nella stessa interezza di natura. Ma nel primo l' assenza della grazia dicesi mancanza o carenza, nel secondo dicesi privazione, perchè al secondo la grazia era dovuta e non al primo. La qual distinzione, quand' anche fosse solida non porterebbe ancora per conseguenza, come vedemmo, che nel secondo ci fosse un peccato, perchè a costituire un peccato non basta una semplice privazione. Ma questo concetto di grazia dovuta merita che non resti nè pur esso un concetto confuso, ma dev' essere chiarito, acciocchè s' intenda bene che cosa vi si contenga. In generale e assolutamente parlando, che la grazia sia dovuta all' uomo non si può dire, « alioquin gratia jam non est gratia (4). » L' averla una volta data al primo uomo, questo solo non costituisce nell' uomo un diritto d' averla anche in appresso: poichè essendo la grazia cosa di Dio, egli può darla e riprendersela senza fare ingiuria a nessuno. Nè pure il proposito che fece Iddio di dare la sua grazia al genere umano, costituisce in questo un diritto di averla, poichè Iddio salva quelli che sono predestinati alla salute « secundum propositum gratiae Dei (1). » E pure questo proposito e disegno misericordioso di Dio, non cangia natura alla sua grazia, rimanendo grazia, e non debito, nè mercede. Ciò dunque che può costituire un titolo di diritto non è che una formale promessa da Dio fatta liberamente all' uomo, come sono le promesse di Cristo ai credenti. Ma ai bambini che nascono non fu fatta alcuna promessa: essi non conoscono quando nascono, che loro sia fatta promessa acuna, nè sono in caso di accettare la promessa che non conoscono, e pure la promessa dee essere in qualche modo accettata acciocchè costituisca un diritto. Per questo anche l' antico Testamento o patto stretto da Dio col suo popolo si fece con solennità tra le due parti contraenti (2); e il nuovo Testamento o patto si fa coi credenti, i quali colla loro fede accettano le promesse di Cristo, e lo stesso conferimento del battesimo, secondo l' ecclesiastica tradizione, prende forma di un patto bilaterale. Se dunque i bambini che nascono non hanno alcuna cognizione del proposito fatto a principio da Dio di conferir loro la grazia, quando il loro stipite avesse conservata la giustizia, qual è il titolo al diritto che si suppone in essi, pel quale la grazia sarebbe stata loro dovuta? Converrà dunque ricorrere a un patto fatto da Dio con Adamo anche in nome loro. Ma primieramente la Scrittura non fa di questo patto espressa menzione, onde rimane un' ipotesi congetturale, su cui non si possono stabilire i dogmi inconcussi della fede cattolica, specialmente a fronte degli eretici: di poi abbiamo già veduto quali e quante difficoltà involga un patto di questa sorte. E` bensì vero, dunque, che i bambini, se Adamo non avesse peccato, sarebbero nati in grazia, per l' eterna e misericordiosa economia del Creatore, ma che la grazia sarebbe loro stata dovuta in modo che essi ne avessero avuto un vero diritto, questo è quello che non si prova, e solo viene asserito da tali teologi, che obbligati in fine a supporre un patto con Adamo, invece di rendere più facile l' intelligenza del peccato di origine de' bambini, ricadono nelle difficoltà che promettevano facilmente evitare e in altre maggiori. 57. d ) A un' altra distinzione futile di parole i fautori di un tale sistema ricorrono, affinchè non offenda troppo le pie orecchie. Tra la conversione e l' avversione c' è l' indifferenza . Riguardo a una persona che io non conosco, non posso essere nè avverso nè converso coll' animo mio, ma solo indifferente. Ora risulterebbe dal detto sistema che il bambino non fosse avverso a Dio, nè converso al bene commutabile; ma il dir questo s' opporrebbe a tutta la tradizione cattolica. I nostri teologi adunque introducono una distinzione dicendo che c' è un' avversione positiva e un' avversione negativa, e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione. Così mutando il nome a quello stato negativo d' indifferenza, e chiamandolo avversione [ negativa ], e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione, coprono il difetto del sistema, introducendo nella sacra Teologia di quelle distinzioni futili e verbali, che tanto la discreditano presso gli eretici. L' avversione indica sempre qualche cosa di positivo, come pure la conversione , avvertendo anzi S. Tommaso che l' avversione e la conversione sono il medesimo, colla sola differenza di termini verso i quali si riguardano (1). Dal che non ne vengono menomamente le conseguenze gianseniane che se ne vogliono derivare, come diremo in appresso. Laonde S. Agostino riunisce l' avversione e la conversione nella stessa definizione del peccato dove dice, che [...OMISSIS...] . 5.. e ) Finalmente i fautori di questo sistema abusano delle proposizioni condannate in Baio, citandole senza darsi cura di osservare in qual senso furono a ragione condannate. Ne darò due soli esempi. La propos. 47 dice: [...OMISSIS...] . Di qui essi deducono francamente, che il nome di peccato applicato a quel de' bambini deesi intendere di un peccato che sia tale non in sè, « sed quia rationem habet ad peccatum Adami (2). » Ma il dire che il peccato in cui nascono i bambini, e che inest unicuique proprium secondo il Concilio di Trento, non è peccato in sè stesso, è egli conforme al dogma cattolico? Non è lo stesso che negare il peccato originale, riducendolo a una sola relazione esterna tra una cosa che non è peccato ed una cosa che è peccato, cioè al peccato personale di Adamo? Non sarebbe stato contento Pelagio, se gli si avesse conceduto dai campioni della fede che lo combatterono, che ne' bambini che nascono nulla si rinviene che sia peccato in sè, ma che quello che non è in sè peccato si chiama o si considera come peccato (così diceva appunto uno degli autori a cui noi rispondiamo) (3), unicamente perchè fu un effetto della libera trasgressione di Adamo? E` dunque a considerarsi che quella proposizione fu condannata in Baio, perchè questo Dottore parlava dell' imputazione e del merito del peccato de' bambini, e voleva che fosse imputabile e demeritorio, senza riferirla alla libera volontà di Adamo, il che è quanto dire avesse ragione di colpa perchè il bambino non fa un atto contrario, cioè un atto che non può fare; onde ammetteva la colpa e il demerito senza la libertà. S' aggiunga, che se quella proposizione condannata in Baio non s' intenda con discernimento teologico si urta nello scoglio del giansenismo per troppa voglia di evitare il baianismo. Poichè come nel sistema di Baio basta al peccato originale la volontà non libera del bambino, così nel sistema di Giansenio basta la volontà di Adamo, che nel bambino non solo non è libera, ma nè pure esiste. E questo si può vedere nell' Augustinus (1) dove al capo 4 si sostiene appunto che [...OMISSIS...] . I fautori poi del sistema che esaminiamo, citano tanto più a sproposito quella proposizione condannata in Baio, che la vera causa, per la quale la privazione della grazia ne' bambini essi vogliono che sia peccato, non è già propriamente l' atto della libera prevaricazione di Adamo, la quale è soltanto una condizione: ma sì bene il decreto di Dio di dare a tutto il genere umano la grazia, se Adamo fosse stato fedele, e di toglierla se fosse stato infedele, il qual decreto Iddio poteva fare e non fare. In virtù di questo decreto dunque, dicono, che la grazia era dovuta alla natura umana, e che medesimamente in virtù di esso gli fu tolta, ed essendogli tolto ciò che gli era dovuto, questo fece sì che tal privazione si dovesse chiamare peccato . Di che viene indeclinabilmente, come abbiam già osservato, che quella disposizione divina sia ciò che dà forma o piuttosto il nome di privazione e di peccato a tale mancanza di grazia, e non la volontà di Adamo: il che è un collocare in Dio stesso, cioè nel suo decreto, la causa del peccato ne' bambini, e non nella libera disubbidienza del primo padre. Con minore efficacia ancora abusano della proposizione 55: « Deus non potuisset ab initio talem creare hominem, qualis nunc nascitur, » deducendone che dunque al presente l' uomo nasce senza alcuna ferita nella sua natura, e talora dando la taccia di eretici a quelli che professano il contrario. Ma basta conoscere i primi elementi della teologia cattolica per non ignorare che questa è una di quelle proposizioni di cui S. Pio V nella sua Bolla dice, che « aliquo pacto sustineri possunt, » benchè in altro senso da quello di Baio, su di che rimettiamo il lettore a quanto ne scrisse il P. Filippo da Carboneano, uno dei tre teologi che Benedetto XIV solea consultare, nel suo solido trattatello De propositionibus ab ecclesia damnatis (2). Quivi riprende, tra gli altri teologi lo Sporer e Felice Potestà per le spiegazioni date alle dette proposizioni Baiane, [...OMISSIS...] . E dimostra come queste ed altre proposizioni sono sostenute in un senso ben differente da quello di Baio dalle più celebri scuole cattoliche in Roma, sotto gli stessi occhi del Papa, e quanto replicatamente i Sommi Pontefici abbiano vietato, sotto precetto di ubbidienza, d' accusar d' eresia i loro sostenitori. Tali proposizioni baiane dunque nulla provano, se chi le adduce non ne spiega prima il senso nel quale furono dannate e non dimostra che l' autore che accusano le prende in quel senso. Concludiamo adunque da tutto ciò che neppure questo sistema, che ricade in quelli che abbiamo esaminati precedentemente, ha in sè alcun valore per abbattere l' eresia di Pelagio, il quale può dire a tali teologi: « Voi mi concedete che il peccato originale, che i cattolici attribuiscono al bambino, non è peccato in sè stesso, ma che solo così si chiama relativamente a un decreto di Dio che aveva stabilito che così si considerasse qualora Adamo suo padre avesse trasgredito il divino precetto: voi dunque convenite meco nel fondo, dissentite solo nelle parole per salvare le apparenze«. 59. Servano adunque questi esempi di un saggio di que' sistemi inventati modernamente intorno alla dottrina del peccato originale, i quali non hanno virtù d' abbattere ad un tempo le due opposte eresie del pelagianismo e del giansenismo: e di attenersi agli insegnamenti più solidi degli antichi. E per rispetto al pelagianismo (giacchè del giansenismo ci riservammo di parlare all' articolo seguente) dicemmo che tutta la forza dell' obbiezione pelagiana si riduce a sostenere che« l' ordine morale, a cui appartiene il peccato è opera così esclusivamente propria della volontà umana, che non può essere un fatto della natura« come sarebbe il peccato dei bambini, se fosse vero che l' ereditassero insieme colla natura per generazione, e che per confutare direttamente una tale obbiezione conviene dimostrare il contrario, esservi cioè una moralità ed un peccato distinto dalla colpa, che non alla sua volontà, ma alla stessa natura può, senza alcun assurdo, appartenere. 60. E veramente i Pelagiani caddero nell' eresia, perchè vollero filosofare invece di credere, non avendo tanto di filosofia che bastasse a sostenerli dall' errore. Essi posero sempre in opposizione la natura e la volontà , senz' avvedersi che tra queste due cose non passa quella separazione che s' immaginavano (1). Infatti la volontà è una natura anch' essa, e come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Laonde si distinguono due movimenti o modi di operare, della volontà, l' uno che ubbidisce necessariamente alla natura, e s' attribuisce alla volontà come natura, voluntas ut natura, l' altro che è libero, e si attribuisce alla volontà come volontà, voluntas ut voluntas, i quali due modi dagli scolastici, seguendo S. Giovanni Damasceno si chiamarono il primo «thelesis» e il secondo «bulesis» (3), denominazioni atte a segnare la volizione diretta, o intenzione, e il consiglio . Secondo questa distinzione di atti, o, se più piace, di funzioni della volontà, procede S. Tommaso, distinguendo la volontà semplice dal libero arbitrio, osservando che quella corrisponde all' intelletto, e questo alla ragione: [...OMISSIS...] . 61. Questa distinzione fu sconosciuta o trascurata non meno dai Pelagiani che dai Giansenisti, ed è quella, come abbiamo accennato, che tronca con un solo colpo la radice de' due opposti errori. Ma vediamone a bell' agio le conseguenze: a ) Primieramente da essa nasce la distinzione del peccato semplice che ha nozione di peccato astraendo dalla libera volontà, dalla colpa che esige il libero arbitrio: quando i Giansenisti disconobbero la natura di questa seconda, confondendola col primo; i Pelagiani, non tenendo conto che di questa seconda, negarono il primo. b ) Con altre parole, essendo la moralità, secondo la definizione che ne abbiam data,« l' abitudine che ha la volontà cogli oggetti della legge eterna« ne viene, che come è doppio il modo di operare e di essere abitualmente della volontà, l' uno naturale, l' altro elettivo, due devono essere le specie di moralità ben distinte che si manifestano in essa, l' una dipendente dalla natura degli oggetti che essa apprende e a cui aderisce come a fine, e questa specie di moralità non dipende attualmente e necessariamente dall' atto del libero arbitrio, in maniera che quell' atto elettivo entri a costituire la sostanza di quella moralità; l' altra dipendente dalla sua propria libera elezione, per la quale essa stessa tra i diversi oggetti che le sono offerti sceglie l' oggetto buono e ordinato a cui aderire, e rigetta l' oggetto non buono e disordinato: e queste due specie di moralità sono riconosciute, come abbiamo dimostrato nella Dottrina del peccato originale (1), nella cattolica dottrina, e su di esse si fondano diversi dogmi della nostra santa fede. c ) L' oggetto voluto che sia dalla volontà, in qualunque maniera lo voglia, costituisce la forma di questa potenza, e in quanto è buono o cattivo, ordinato o disordinato, dà la specie e la condizione morale al suo atto ed al suo stato, e però se l' oggetto è intrinsecamente cattivo, come abbiamo detto dell' odio di Dio, e lo stesso si può dire dell' odio del prossimo e d' un essere intelligente qualunque, la volontà che ha quest' odio, non può mai essere buona, ancorchè non sia più libera di fare il contrario, perchè dal disordine intrinseco dell' oggetto essa riceve il disordine in sè, come ogni ente che riceva una forma corrotta, anch' egli si corrompe (2). Onde giustamente S. Tommaso dice che « bonitas voluntatis proprie ex objecto dependet (3). » E qui si può riferire un luogo difficile di S. Agostino, in cui dice che si può peccare non solo voluntate peccati, ma anche voluntate facti (4), il che si deve intendere del caso, quando il fatto sia un intrinseco male, e però in sè stesso un peccato. - Poichè chi vuole ciò che è un male intrinseco ed essenziale, con ciò vuole il peccato che è indivisibile dall' essenza di quel fatto, ancorchè chi vuole quel fatto non sappia fare l' astrazione per la quale distingua la ragione del peccato dalla ragione del fatto. Onde viene la regola morale, che niuno può esporsi a far cosa che sia intrinsecamente mala, solo che ne dubiti (5), perchè s' espone con ciò al pericolo di dare a sè stesso di fatto la forma dell' immoralità. d ) Infatti l' oggetto voluto dalla volontà e la volontà che vi aderisce formano qualche cosa di uno, sebbene quest' uno consti di due elementi divisibili colla mente, perchè l' oggetto ha natura di termine e la volontà di principio, ed il principio ed il termine formano una sola entità. Laonde se il termine non è, rispetto al principio, cosa accidentale, ma così essenziale che lo costituisca quello che è, il termine stesso è un elemento che costituisce il principio nel suo essere di ente. Questo avviene primieramente e perfettissimamente in Dio, dove l' oggetto della sua volontà non solo gli è essenziale e uguale e immutabile in modo che non ammette accidenti di sorta, ma di più esso è la stessa essenza divina, come anche la volontà è l' identica essenza. Laonde in Dio la volontà è sempre necessariamente nel suo pieno atto, ed ha sempre lo stesso oggetto, e quest' oggetto è l' identica essenza che è la volontà: onde principio e termine non si possono mai dividere, ma sempre uniti costituiscono una sola semplicissima natura. E questa natura è appunto la moralità e la santità sussistente: dove si vede, che la moralità nella sua prima sede, e nel suo primo fonte, e nella sua perfezione essenziale , è una natura sussistente (la quale considerata come nozione personale è la proprietà del Santo Spirito) e non l' effetto di un atto di volontà libera di eleggere tra il bene e il male. e ) Ed essendo l' uomo creato ad imagine di Dio, niuna maraviglia che si trovi anche nell' uomo qualche vestigio di questa morale natura sussistente. Infatti anteriormente all' elezione libera trovasi nell' uomo quell' atto che i filosofi e teologi morali chiamano intenzione , il quale dà all' uomo un certo essere o natura morale, in cui si radica la stessa potenza della volontà, di maniera che non si potrebbe concepire l' esistenza di questa potenza senza presupporre nell' essenza umana quella morale natura, onde il Gaetano, dichiarando S. Tommaso, dice: [...OMISSIS...] . Ma grandemente differisce la natura morale in Dio, dove è natura completa, dalla natura morale dell' uomo, dov' è solamente iniziale, che ha bisogno poi di ultimarsi con altri atti, e massimamente con quelli della libera elezione. Poichè in Dio l' oggetto naturale così dello intelletto come della volontà è la stessa essenza divina attualissima; laddove l' uomo non ha per oggetto naturale la propria essenza, ma un' altra essenza, laonde da questa è dipendente, carattere comune a tutte le intelligenze create e finite. Di poi il suo oggetto naturale non contiene tutti gli enti attualmente, ma solo virtualmente, onde non è che un lume che gli fa conoscere la moltiplicità degli oggetti, che in appresso gli sono aggiunti in modo accidentale, e il quanto della loro entità e bontà, onde può eleggere fra essi. L' oggetto all' incontro in Dio essendo Dio, tutto attualmente contiene, e non bisogna d' altra aggiunta qualunque: ma la volontà stessa distingue e crea i finiti, e dà loro l' entità reale e ciò che hanno di bene: onde il bene degli enti finiti è posteriore all' atto della volontà divina come l' effetto alla causa, e non preesistono in modo che le possano esser dati sussistenti tra cui eleggere. 62. Dimostrato adunque che ci sono nell' uomo due specie di moralità, l' una dipendente dall' atto del suo libero arbitrio, l' altra anteriore a questa e principio di questa, giacente nella sua natura morale, l' obbiezione de' Pelagiani contro il peccato originale rimane del tutto annichilita, come quella che si fondava sul falso supposto, che tutto l' ordine morale si assolvesse negli atti del libero arbitrio. E veramente se ci può essere una moralità inerente e appartenente alla natura, e se la natura viene trasmessa per via di generazione, dunque è tolto ogni assurdo che ci sia qualche cosa di morale che si possa trasmettere insieme colla natura per la naturale generazione. E questo è quello che insegna la Chiesa Cattolica col dogma del peccato originale, il quale si chiama costantemente e peccatum naturale, e languor naturae . E perciò anche i bambini, come dichiara il Sacrosanto Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . 63. Gli eretici e gli increduli accampano due specie di argomenti contro alla cattolica verità, cogli uni pretendono di trovare qualche dogma da essa insegnato in contraddizione con qualche principio indubitato di ragione, cogli altri non pretendono tanto, ma sono obbiezioni tratte dalla difficoltà di spiegare gli stessi dogmi, e da certe verisimiglianze che deducono da tali verità. Ai primi argomenti è necessario che il teologo risponda direttamente sciogliendo l' apparente assurdo, perchè niuno è obbligato a credere a ciò che si oppone ai primi principii della ragione: ai secondi, basta che esponga e provi i motivi di credibilità, poichè dimostrato, che la cosa è rivelata da Dio, può dire con tutta ragione agli avversarii:« se non potete intendere, credete« (2). L' argomento dei Pelagiani contro la moralità indeliberata della natura era della prima specie, e abbiamo veduto come cada disciolto, quando si approfonda il concetto di moralità e di peccato: gli altri appartengono alla seconda specie, e basta che si combattano coll' autorità della rivelazione e colle definizioni della Chiesa. Tuttavia toccheremo e ragionando abbatteremo anche alcuni di quelli, la cui confutazione giova a far via meglio conoscere la condizione del peccato d' origine, di cui ci siamo proposti trattare in questo paragrafo. 64. a ) Se alla natura si attribuisce l' immoralità si rovescierebbe nel manicheismo, ammettendo una natura malvagia. - Si risponde con S. Agostino e gli altri maestri, che la natura umana è stata creata da Dio da ogni lato buona, ma che l' uomo col suo libero arbitrio l' ha guastata, e l' ha guastata solo ne' suoi accidenti, e non in ciò che costituisce la sua essenza. Ora tal è la limitazione di ogni natura creata (non della sola natura umana, o della sola natura morale), che ella sia corruttibile nella sua parte accidentale: i Manichei all' incontro pretendevano, che ci fosse una natura che non fosse già corruttibile nella sua parte accidentale, ma fosse mala per sè nella sua stessa essenza: [...OMISSIS...] . 65. b ) Essendo la natura umana opera di Dio e non dell' uomo, s' ella potesse essere malvagia, verrebbe a rifondersi in Dio, come in causa, il peccato della medesima. - Si risponde allo stesso modo, che Iddio fu l' autore della natura umana, buona e perfetta, e arricchita di più di doni soprannaturali; ma che l' uomo col suo libero arbitrio, peccando, la guastò nella sua parte accidentale e mutabile; che Iddio fu l' autore della natura umana in Adamo innocente; che uscì dalle sue mani colla creazione; ma che Iddio non è la prossima causa della natura umana ne' discendenti di Adamo: perchè la causa prossima della natura umana in essi esistente è il padre che per via di generazione comunica loro la natura umana, e la comunica quale la ha in sè stesso, cioè disordinata dal peccato commesso da lui col suo libero arbitrio. E qui conviene rimuovere l' equivoco che nasce pe' varii significati che s' attribuiscono alla parola natura, che male a proposito in quest' argomento si prende per l' essenza o ideale o realizzata, laddove deve prendersi per la natura tutt' intera, cioè co' suoi accidenti, generabile, che è il primo significato che Aristotele attribuisce a questa parola natura a nascendo [...OMISSIS...] (2). Dato dunque che la natura umana sia corruttibile ne' suoi accidenti, parte de' quali appartiene all' ordine morale, e che in quest' ordine possa scompaginarla e guastarla il libero arbitrio dell' uomo stesso; e posto che l' autore prossimo di questa natura, in quanto è moltiplicabile, non sia Iddio creatore, ma l' uomo stesso che ha per legge naturale di generare il simile a sè: niente più ripugna, che lo stesso guasto e disordine che l' uomo ha prodotto nella propria natura, lo comunichi insieme colla natura a quegli individui, che egli per opera della generazione fa sussistere, mentre prima non sussistevano. 66. c ) Dato anche che la natura umana possa essere disordinata per effetto dell' atto libero di Adamo, questo non può essere un disordine morale, e molto meno un peccato mortale abituale, che è un disordine personale. - Rispondesi colla dottrina di S. Tommaso, che è quella della tradizione, la qual dottrina nel citato Compendio della Teologia così viene espressa: [...OMISSIS...] . E per intendere come ciò sia, non conviene separare la persona dalla natura, quasi che siano due separati sussistenti, ma considerare, che la persona non è altro che un modo d' esistere della natura, quando questa sia intelligente, è quel modo che ne costituisce l' ultima e più elevata sua attualità, che unifica e contiene sotto di sè tutto il resto che nella natura si trova, come abbiamo dichiarato nella Antropologia, onde gli scolastici solevano anche definire la persona: una sussistenza o ipostasi « distincta proprietate ad dignitatem pertinente . » Se dunque la persona non è che il modo nel quale sussiste a pieno determinata e semplificata la natura tosto che questa sia intelligente, qual meraviglia, che il guasto morale della natura s' estenda al suo modo proprio di sussistere? Vero è, che, come abbiamo detto, la persona non può essere mai del tutto passiva, essendo essa un principio attivo (2); ma da questo non procede altro, se non che la persona non ammette coazione, senza però escludere (parlandosi di persone limitate e create) la spontanea consensione alla piega che le dà la natura, di cui è, come dicevamo, il modo di sussistere. Di che consegue pure, che se il guasto rimanesse nella sola natura, e non ascendesse a pervertire il suo principio supremo, ossia il suo modo di esistere intellettuale e morale, esso non potrebbe ricevere il concetto di peccato mortale. Ma tosto che attrae a sè e seduce il suo principio personale, tosto riceve un tale concetto, come insegnarono, seguendo l' ecclesiastica tradizione, gli scolastici: [...OMISSIS...] . Di che ancora si può inferire che nè le nozze, nè la generazione sono peccato, non producendo immediatamente il peccato, perchè la generazione comunica solo la natura guasta, venendo poi la persona a ricevere da essa l' infezione che si fa morale, perchè si fa personale; la persona viene altronde come diremo. A quel modo dunque che non sono peccati morali i difetti che un pittore o uno scultore lascia nelle opere sue per imperizia dell' arte, o per imperfezione di stromenti, così la generazione lascia un difetto nella carne, che in sè solo non è peccato morale, ma è poi causa del peccato alla persona. 67. d ) Voi dite che la persona viene altronde e non immediatamente dalla generazione, e con questo volete dire certamente che essa viene da Dio che crea e infonde l' anima intellettiva. Ora con questo le difficoltà si aumentano. Se aveste sostenuto che l' anima intellettiva, subbietto, come voi dite, del peccato d' origine, venisse ex traduce, s' intenderebbe in qualche modo che il peccato passasse per generazione, ma venendo creata e infusa da Dio, si fa Iddio autore del peccato. - In nessuna maniera noi ammettiamo che l' anima intellettiva si comunichi ex traduce , il che involgerebbe diversi assurdi, e tra gli altri quello che la persona sia moltiplicabile e comunicabile, quando è essenziale alla persona l' essere incomunicabile, appunto perchè è una natura perfettamente determinata e quindi tutta finita in sè stessa. Ma tuttavia in nessun modo procede che Iddio sia l' autore del peccato. Così sebbene Iddio intervenga e concorra come prima causa nella produzione di tutti gli eventi mondiali, non ne viene che egli concorra come causa a' mali che in essi permette, intervenendo egli solamente come causa e fonte del bene, e il male provenendo dalle cause seconde e deficienti, come abbiamo dichiarato nella Teodicea .

Aristotele esposto ed esaminato vol. I

628138
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Questo lavoro (1) intorno alla filosofia d' Aristotele nacque tra le mani dell' Autore senza un disegno premeditato, e quasi contro la sua intenzione. Dettando il secondo libro degli « Ontologici », che ha per titolo « Le forme dell' essere », gli fu necessario esporre in qual maniera concepisse e divisasse le « Categorie », Aristotele. Non pensava che di dare un sunto del libro celeberrimo di questo filosofo su tale argomento. Ma postosi all' opera, la sua attenzione fu trattenuta dall' intimo nesso che congiunge le dieci categorie con tutta intera la dottrina dello Stagirita, e s' avvide che, per intendere a pieno il concetto che presiedette alla mente del filosofo nel compartimento dell' ente in sommi generi, si rende necessario addentrarsi nelle altre parti del sistema, ed esaminarne diligentemente le relazioni che le legano tra loro: così una questione conduceva ad un' altra, e un problema ad un altro. Troncare a mezzo queste ricerche gli spiaceva, e lo spronavano a proseguirle la curiosità non meno che la speranza di pervenire finalmente al fondo del pensiero aristotelico che si congiungeva con molti fili alle filosofie precedenti, e d' accertarsi se in questo fondo si trovava davvero un solo sistema, come fu supposto fin qui, ovvero s' avesse in fine soltanto un accozzamento d' opinioni, o anche di contraddizioni, del che gli dava gran sospetto la discordia degli interpreti, e i faticosi lavori dei conciliatori (2). Le stesse difficoltà che gli accadeva d' incontrare sulla via, nell' intelligenza dei luoghi difficili, anzichè stancarlo, acuivano in lui il desiderio e l' impegno di vincerle con confronto dei luoghi paralleli, colle determinazioni dei varii significati delle parole e delle frasi tecniche, coll' aiuto degli scoliasti antichi e dei lavori critici, sebbene ancor molto imperfetti, che alcuni dotti della Germania recentemente tentarono, all' emendazione e alla rettificazione del testo (1). Così perduto di vista il primo proposito, quel che dovea essere un brano, e anche breve, del trattato « Le forme dell' essere », crebbe in una lunga dissertazione, che ormai non poteva più appartenere al detto libro, e per la sproporzione della mole, e perchè il discorso usciva dai limiti dell' argomento prefisso al medesimo, spaziando per tutta intera la dottrina del maggior discepolo di Platone. Fu dunque separata dal rimanente questa parte, sopraccresciuta quasi a modo di gemma sulla prima pianticella; ed è quella che prese forma dall' opera presente, che intitolammo: « Aristotele esposto ed esaminato ». Colla qual narrazione dell' origine di questo scritto, intendo invocare l' indulgenza dei miei lettori sui difetti del lavoro; e nello stesso tempo giustificare in qualche modo l' ordine seguito in esso, e i limiti ad esso prefissi. Se fin da principio io avessi concepito il proposito di presentare all' Italia il sistema aristotelico accompagnato dall' esame razionale del medesimo, avrei distribuite le diverse parti in altro modo, avrei potuto più facilmente far apparire agli occhi dei lettori la conveniente simmetria di tutto il disegno. E in questa esposizione avrebbero trovato luogo quelle parti della dottrina aristotelica, che non appartengono strettamente alla filosofia, ma alla fisica, alla politica, alle arti del bello, come posto hanno trovato, per esempio, nella « Filosofia d' Aristotele » di Francesco Biese (2). Io restrinsi dunque il mio lavoro nei confini delle dottrine filosofiche, come quelle che sono intimamente connesse colla questione delle categorie, la quale diede l' occasione dello scrivere. Inoltre, se, nel primo accingermi a quella più ristretta esposizione e discussione delle dottrine prettamente filosofiche, avessi potuto prevedere dove m' avrebbe condotto l' annodata serie del discorso, avrei forse fatte andare innanzi alcune nozioni a quello che dovea seguire, le quali avrebbero sparso qualche luce su tutto il cammino. A ragion d' esempio, avrei probabilmente incominciato coll' esporre la serie delle aporie o dubitazioni, colle quali Aristotele spesso delinea l' ambito delle sue ricerche metafisiche (1): e di poi avrei esposto il libro aristotelico della significazione delle parole (2), che sebbene non sia ricco abbastanza per dichiarare tutto il vocabolario e il frasario aristotelico, pure presta un grandissimo aiuto in tale bisogna. E veramente questi due sono la chiave degli altri libri che si hanno sotto il nome di « Metafisici » e di tutte, si può dire, le opere aristoteliche. Poichè, conosciute chiaramente quali e in che modo fossero concepite le questioni che quel filosofo si proponeva, e che erano indubbiamente quelle che s' agitavano nelle altre tre scuole platoniche del suo tempo, e conosciuto il valore, sempre molteplice, dei vocaboli scolastici e di molte maniere di dire da lui usate in proprio, si può con più fiducia accingersi, quasi bene armati, all' interpretazione, e quasi vorrei dire all' espugnazione d' una filosofia, così chiusa e irta di difficoltà. Chi v' impediva, mi si dirà, di rifondere l' opera vostra, e di dare alla materia una migliore disposizione? O non era meglio sopprimerla del tutto, piuttosto che presentare al pubblico una cosa assai più imperfetta di quella che potevate fare con nuovo e maggiore studio? Se debbo addurre una scusa per meritarmi in qualche modo l' indulgenza che invoco, dirò che mi mancava del tutto il tempo necessario a rifonder quest' opera di lunga lena, ed estranea a quel disegno della filosofia che sto colorendo; che d' altra parte non ho creduto doverla del tutto sopprimere, considerando la scarsezza che di tali lavori ha finora l' Italia, e confidando, che quantunque l' abbozzo della dottrina aristotelica, che oso presentarle, sia molto imperfetto, potrà forse giovare quasi d' eccitamento e di stimolo per altri a far troppo meglio. Le imperfezioni stesse dell' opera contribuiranno per avventura a questo; perchè se l' opera fosse perfetta, chiuderebbe, quasi direi, la bocca a tutti; al contrario trovandosi da dirci sopra e da censurare, si moverà una discussione più facilmente; e la speranza che rimane agli ingegni nobilissimi della patria nostra di ritrattare l' argomento con migliore riuscita, e il diletto d' emendare falli e difetti d' un primo tentativo, li condurrà più facilmente in quella via di solidi studi, a cui abbiamo sempre desiderato di provocarli. Chè anzi a chi considera la storia dell' aristotelismo, non sarà difficile fare seco medesimo questa osservazione: « Se i libri pervenuti a noi del greco filosofo non ritenessero o dall' origine o dalle ingiurie de' tempi molti difetti, si sarebbero forse così profondamente studiati, siccome furono in tanti secoli? Se non fossero o non paressero così scomposti, e il ragionare in essi così discontinuo, il linguaggio così breve, oscuro e quasi ritenente un non so che degli antichi enigmi, avrebbe forse lo Stagirita avuti tanti commentatori? Si sarebbe accumulata tanta ostinazione negli animi e nelle menti di penetrarlo, d' intenderlo? ». In conseguenza, stavo quasi per dire che questa nostra esposizione d' Aristotele, se mostra in sè qualche difetto d' ordine, per questo avrà in certo modo diritto di partecipare a quell' impegno, che si pose per tanti secoli nello studio del « maestro di color che sanno ». S' aggiunga che, se il rifondere da capo questo lavoro potrebbe arrecare il vantaggio di una distribuzione di parti più netta e cospicua tutt' intera sin dal principio, non sarebbe tuttavia senza qualche suo scapito. Poichè il nuovo ordine caccerebbe quello che, sebbene meno appariscente, pure vi può scorgere anche nel presente dettato chi pone mente alla successione del discorso. Poichè si vedrà che noi procurammo tener dietro passo passo all' ordine d' Aristotele stesso; non all' ordine materiale de' libri, e nè pure al metodo che il filosofo tiene nell' esporre le singole dottrine, ma alla connessione intima di queste dottrine e delle sentenze che le contengono. In realtà la dichiarazione d' un luogo del nostro autore ci conduceva da se stessa a un altro chiamato in aiuto per illustrare il primo, e questo a un altro, e così via quasi per una catena continua; per la quale strada se ne va naturalmente e facilmente il pensiero; e benchè da principio non si affacci allo sguardo tutto il quadro intero delle dottrine, pure niuna sentenza è sconnessa e spezzata dalla susseguente; il qual notabile vantaggio sarebbe perduto, qualunque altro ordine si prendesse, e qualunque altra distribuzione si prestabilisse al lavoro. Vero è che quel tessuto di passi raffrontati, acciocchè reciprocamente s' illustrino, riconduce più volte il discorso ai medesimi argomenti. Ma oltre che questi sono rappresentati sotto nuovi aspetti e sotto nuova luce, difficilmente si potrebbe ritrarre al vivo Aristotele, e far conoscere la sua maniera di filosofare, senza questo, che è proprio di lui, non esser stanco mai di far ritorno sugli stessi principŒ, e ripetere gli stessi argomenti, e colle stesse parole altresì e colle stesse forme immutabili, come le forme delle statue degli Dei. E basta per convincersene dare uno sguardo al punto principale di tutta la polemica aristotelica, che è quel delle idee , su cui in luoghi diversi e tante volte ricade il suo ragionare (1). Sulle quali considerazioni e non su queste sole, presi in animo a fare di pubblica ragione lo scritto presente, qualunque sia, con tutte le sue imperfezioni. Se non m' inganno, il pensiero aristotelico nella sua totalità vi si riconoscerà ritratto fedelmente e illustrato con quel lume che presta la coerenza e il contesto di vari luoghi del filosofo. Dico nella sua totalità ; non pretendo io aver colto il vero nell' interpretazione d' ogni singolo testo, talora d' incerta lettura, e di locuzione oscura; abbandono agli eruditi queste minute, e ad un tempo importanti ricerche, e dichiaro subito che soprattutto mi sarebbe gradito vedermi emendato dai lavori di valenti filologi italiani. Non ci dimentichiamo che anche la filologia greca nacque presso di noi: e che il testo greco d' Aristotele comparve la prima volta in pubblico a Venezia per le erudite cure di Aldo Manuzio (2), e che a Giovambattista Bagolini e a Marco Oddi non costò leggeri studi critici e brevi fatiche (è cosa doverosa per noi il non dimenticarlo) la prima edizione latina dell' arabo commentatore, uscita del pari in Venezia (3). Sarebbe dunque ormai tempo che gli Italiani, che si lasciarono vincere negli studi dell' erudizione e della filosofia dai Tedeschi, dagli Inglesi e dai Francesi, si ricordassero finalmente dei loro padri, e la nostra ingegnosa gioventù, scosso il torpore e cessato l' importuno cicalio, riprendesse in mano l' opera gloriosa e tradizionale de' solidi studi filologici e filosofici, quasi del tutto lasciati. E già ce ne dà buon preludio un giovane ingegno, che sta per ora sul pubblicare colle stampe una traduzione italiana della « Metafisica », cioè dell' opera più importante d' Aristotele: arduo lavoro, a cui fin qui niuno italiano, ch' io sappia, aveva posto mano, e forse prima d' ora non si poteva. Ma ritornando a quello ch' io voleva dire, mi parve che in questo tempo, nel quale fu richiamato a nova vita lo studio di Aristotele, in Germania principalmente per le cure del Brandis e d' un gran numero d' eruditi che a lui seguirono, in Francia per quelle del Cousin e dei valenti giovani usciti dalla sua scuola, non dovesse riuscire inopportuno che si pubblicasse questo scritto in Italia, sia ch' esso adempia il tema e l' intento che gli è prefisso (di che altri giudicherà), sia che lo si consideri come un semplice tentativo di adempirlo. Poichè l' intento è certamente questo: ritrarre con fedeltà la filosofia d' Aristotele, definire come e fin dove le parti di essa siano tra loro coerenti ed atte a formare un solo tutto: se ce ne siano alcune che rimangano sospese e isolate, o ripugnanti all' intero sistema e quali siano: quali pure per la loro indeterminazione non si possano ridurre a concetti precisi: finalmente qual sia il valore scientifico di tutto il sistema e delle sue parti . Non vuol dunque esser considerata questa nostra, come un' opera di filologia e di pura storia, ma come filosofia, in una parola come un esame critico dell' aristotelismo, il quale serva a compiere in qualche modo quello che noi abbiamo fatto, troppo leggermente per verità, sopra alcune speciali sentenze del medesimo filosofo nei diversi scritti, dove la materia ce ne dava occasione (1). A portare un equo giudizio del sistema aristotelico, sono al presente rimosse quelle difficoltà che s' incontravano per addietro: prima della sua caduta, la venerazione superstiziosa che si faceva dei suoi detti, a cui era temerità il contraddire; dopo la sua caduta, l' orgoglioso e insolente disprezzo di quelli che insultavano al vinto. Ai giorni nostri è cessata l' una e l' altra passione: si sa ora quanto fosse grande l' ignoranza nel culto superstizioso reso ad Aristotele dal medio evo, e quanta più ce n' era nelle contumelie, di cui lo coprirono i sofisti del secolo XVIII: si sa come la dottrina aristotelica non fu appieno conosciuta dai moderni sensisti per un soverchio d' avversione pregiudicata e pel vezzo divenuto universale di non cercare più la scienza in uno studio serio e laborioso, ma solamente nel ridicolo. I primi erano rimasti abbagliati dalla troppo viva luce e repentina che mandava tra le tenebre il filosofo più consummato della Grecia, e il nobile entusiasmo, che la bellezza di quella luce suscitava nei loro animi, faceva tacere ogni critica. Appena si scorsero le prime macchie nel filosofo, e dopo molti contrasti appena si certificarono errori non pochi nelle cose fisiche, quell' ammirazione piena ed assoluta fu scossa, e i suoi credenti rimasero da prima come pusilli scandalizzati. Accusavano, quasi direi, di temerità la verità stessa che veniva a contraddire al filosofo per eccellenza. Ma quando una venerazione che s' è posata nell' animo umano assoluta e illimitata, rimane in qualche punto, anche minimo, offesa; prima resiste tutta intera, e poi cade tutta intera: l' uomo, che si riconosce ingannato, prova un sentimento tanto grave di sorpresa e di dispetto che lo sconcerta e lo confonde: ed è appunto allora che egli trascorre nella sua passione a bestemmiare quello che prima adorava, quasi per rifarsi, con soverchia disistima e licenza, del soverchio cieco ossequio con cui da prima aveva scemato e legato a se stesso il libero esercizio del proprio pensiero. E siccome i primi a dubitare dell' infallibilità d' un filosofo universalmente seguìto, com' era Aristotele, debbono lottare coi meno perspicaci e coi più cocciuti, quindi un grand' inasprimento di animi, che alla fine produce nei vincitori una specie di furore simile a quello che si manifesta nei soldati al prendere d' assalto una piazza forte che da lungo tempo ha resistito e non s' è voluta rendere a buoni patti. I sofisti dell' Enciclopedia, sopravvenuti dopo la presa di questa piazza, serenarono sulle sue rovine, dandosi allo stravizio, accendendovi fuochi e danzandovi intorno ubriachi. Queste superstizioni, questi disinganni, queste ire, queste licenze barbariche sono passate: ed è per più ragioni desiderabile che oggi si riprenda con calma lo studio e l' esame critico d' una dottrina, che ha occupati e affaticati e divisi per tanti secoli, non solo gli ingegni, ma gli affetti stessi e le passioni degli uomini; il dominio della quale, e il successivo ludibrio, ha immensamente influito sul mondo: e ancora ne rimangono gli effetti profondi nello stato dell' umana società. Sarebbe degno d' una mente perspicace vederli, e veduti raccoglierli in un libro, che riuscirebbe un anello non dispregevole nella grande storia dell' umanità. Ma uno spassionato esame critico dell' aristotelismo non è solo desiderabile che oggidì si faccia per una semplice curiosità scientifica, o per dare con esso ragione di tante discrepanze e scissure, che nelle opinioni degli uomini ci furono sempre intorno alle vere dottrine dello Stagirita, e al valore di esse, o prese tutt' insieme come un sistema, o considerate per parti: ma molto più pare a noi esser desiderabile, per toglier via, s' egli è possibile, e del tutto annientare l' occasione di altre scissure non meno gravi e di altri errori che quelle stesse dottrine potrebbero ingenerare in futuro, se non venissero una volta definite e giudicate in una maniera certa, chiara ed irrecusabile. Poichè le questioni che giacciono nella filosofia aristotelica sono vitali per lo uman genere, e la grandezza e l' importanza di queste, non meno che la loro difficoltà, restituirà sempre ad Aristotele un gran peso d' autorità ogni qualvolta il mondo scientifico volgerà gli occhi a quelle questioni inseparabili dal nome d' un autore che le ha trattate con tanta acutezza e con tal nerbo di pensiero e d' espressioni. Poichè le espressioni aristoteliche ancora al dì d' oggi suonano su tutti i labbri, anche di quelli che ne ignorano l' origine, e sono confitte, per così dire, in tutte le scienze, principiando dalle fisiche sino alla teologia (1), quasi sopravviventi d' una vita tenacissima al sistema a cui appartengono. Pare accertato dalle accurate ricerche de' moderni eruditi, che, eccetto l' « Organo », o alcune parti di esso, le altre opere d' Aristotele, perdute nell' occidente, vi rimasero affatto incognite sino al principio del secolo XIII, quando vi furono d' improvviso riportate da due parti contemporaneamente, cioè da Costantinopoli presa dai crociati, e dalla Spagna dominata dagli arabi. Allora furono lette con avidità, latinizzate, sia dall' arabico e dall' ebreo, sia dagli stessi testi greci (2). Tuttavia non convien credere, che le questioni principali della « Metafisica » d' Aristotele fossero del tutto sconosciute prima del secolo XIII; chè anzi se ne trovano qua e là nelle scritture di quei tempi vestigi così profondi, che sarebbe difficile spiegarne l' origine, senza ricorrere a un' antica tradizione, o a qualche estratto, tuttavia rimasto, dei libri metafisici e d' altre opere dello Stagirita (3). Ma l' epoca, nella quale lo studio d' Aristotele crebbe d' importanza e cominciò ad attrarre l' attenzione di tutti quelli che s' applicavano alle scienze, e della Chiesa stessa, risale a più d' un secolo prima che s' avessero i manoscritti arabi o greci, e quelli fossero fatti latini, quando il celebre canonico di Compiègne (circa 10.9 d. C.), Giovanni Roscellino mise in campo il nominalismo (4): dal qual tempo alcuni incominciano la storia della Scolastica, chè infatti con questa disputa tutte le menti s' accendono di nuovo ardore per le discussioni, e la Scuola acquista un carattere e una forma determinata, che più o meno si conserva fino al suo decadimento. L' universale non esiste nelle cose reali come universale, era stato detto da Boezio (n. 4.0, m. 526), che credeva di ripetere con ciò quanto aveva detto Aristotele (1). Come dunque quello, che è singolare nei reali, è poi universale nella mente? Lo stesso Boezio con molta giustezza osservava che il genere [...OMISSIS...] . Ora se l' universale è tutto in un singolare, non resta più nulla di lui da darsi ad un altro singolare. Oltre a ciò lo stesso Boezio spinge rigorosamente avanti la difficoltà. Dimostra infatti che il genere non può esser uno , perchè, essendo comune, si trova tutto in molti singolari diversi, nè può esser molteplice , poichè se fosse molteplice ci sarebbe un altro genere superiore, e così all' infinito. Come liberarsi da questa alternativa? La prima cosa che ricorre alla mente è quella di negare l' esistenza del genere e d' ogni altro universale, e così sbrigarsi di cotesto essere incomodo. [...OMISSIS...] Ora abolito l' universale, quegli universali che pur entrano nei nostri ragionamenti che cosa saranno? Non possono più esser altro che semplici vocaboli, meri nomi : ed eccoci nel nominalismo di Roscellino. Vero è che Boezio stesso si fa a risolvere poi quella difficoltà, già da lui proposta con tanta forza, per fare intendere quant' ardua fosse la questione accennata da Porfirio nella sua Introduzione , e lasciata da parte come troppo alta e bisognevole di lunga disputa. Ma la soluzione di Boezio non agguaglia certo la forza della difficoltà. E per accorgersene, basta che noi poniamo mente all' incostanza del suo ragionare. Egli ci cangia improvvisamente l' universale in una similitudine dei singolari, senza punto dirvi il perchè d' un tale cangiamento, senza giustificare questa repentina trasformazione. Ma che cos' è la similitudine ? Quest' è quello che ci si doveva dire, e quest' è quello che ci tace. E pure nell' arcana natura della similitudine giace tutta la questione, e tutta la difficoltà , che noi abbiamo dimostrato altrove (2). Di poi, si può egli dire che la similitudine d' una cosa sia la cosa, o sia nella cosa? Non è dunque vero, che gli universali sieno nei singolari, ma conviene che sieno fuori di questi, se non sono che una similitudine di questi (3). Finalmente se gli universali non fossero una similitudine , non potremmo conoscere con essi i singolari, perchè la similitudine è un astratto che nasce dal confronto di due cose simili. Ma il confronto di due cose simili non si può fare senza l' uso d' un universale precedente nella mente, che fa il confronto, al quale universale si riportino (1); e quand' ancora far si potesse, altro non s' avrebbe per risultato che una relazione di similitudine tra più cose singolari: ora una relazione tra più cose singolari è unica e singolare anch' essa, e perciò non può essere un universale. Dato dunque l' universale, si ha la relazione di similitudine e non viceversa. Che se in quella vece si volesse dire che il singolare somiglia all' universale, in tal caso converrebbe provare questa somiglianza, il che non si può se non si suppone prima, come dati avanti, l' universale e il singolare, e converrebbe provare l' esattezza di questa somiglianza, al che di nuovo si dovrebbero confrontare i singolari cogli universali, e si supporrebbero cogniti i singolari prima di ricorrere agli universali come a loro similitudini (1) per renderli noti. Era dunque naturale che tostochè si svegliasse qualche ingegno acuto e pensasse da sè, mal contento della soluzione data da Boezio, egli rimanesse in quella vece preso nella rete dell' argomentazione stessa, colla quale Boezio intendeva dimostrare la perplessità e l' arduità della questione toccata da Porfirio. Poichè quell' argomentazione conchiudeva che il genere , ossia l' universale , non esiste, e non può esistere (2): il che posto, non rimangono dei così detti universali altro che i nomi che è appunto l' induzione di Roscellino. Ma questo memorabile ingegno non aveva certo preveduto le terribili conseguenze che derivavano dall' annullamento degli universali, e quindi delle idee . Insieme con queste è tolto via dal mondo tutto ciò che c' è di divino, è sottratto il naturale veicolo, pel quale la mente umana si solleva a Dio . Il vizio del sistema cominciò ad apparire, come sempre accade, in una conseguenza particolare: non potendo Roscellino concepire che ci fosse qualche cosa di comune , era condotto necessariamente a parlare indebitamente della divina Trinità, dove l' essenza è comune alle tre persone. Per salvare dunque la Trinità delle persone, egli cadde necessariamente in una specie di triteismo, errore che fu condannato e da lui ritrattato nel concilio di Soissons del 1092 (3). Il suo discepolo Abelardo sostituì al nominalismo , il concettualismo (4), nel qual sistema gli universali non sono più puri nomi , quasi stimoli fisici che eccitino a pensare ai singolari, ma nomi, ai quali s' aggiungono gli attuali concetti della mente. Non bastava però questo a restituire agli universali una vera esistenza, perchè una cosa di cui si cangia la natura, non è più quella. Nel sistema d' Abelardo si disconosceva al tutto la natura obiettiva degli universali, e si rendevano puri pensieri subiettivi: erano nè più nè meno la « cogitatio collecta ex individuorum similitudine » di Boezio: non i veri universali. Se Roscellino, invece di salvare la Trinità delle persone in Dio, si fosse applicato a salvarne l' unità della natura, sarebbe ugualmente caduto nell' unitarismo. Poichè non potendo essere nel suo sistema comune la natura , rimaneva obbligato a scegliere tra questi due errori opposti o che le persone avessero tre nature numericamente distinte, o che, essendoci una sola natura singolare, le persone non fossero altro che attributi, qualità, rispetti della medesima. Abelardo, che disconoscendo la natura dell' universale, veniva in sostanza ad annullarlo altrettanto quanto Roscellino, per evitare l' errore condannato nel suo maestro, cadde nell' errore opposto, cioè nel sabellianismo (1) e fu condannato anch' egli dal concilio di Soissons nel 1121, e in quello di Sens nel 1140, come pure da Innocenzo II, ritrattandosi egli nell' una e nell' altra occasione, e abbruciando di propria mano la sua « Teologia cristiana » (2). Queste condanne abbatterono nella pubblica opinione il nominalismo di Roscellino, non meno che il concettualismo d' Abelardo, non solo per l' autorità da cui procedevano, ma perchè richiamavano l' attenzione alle conseguenze di tali sistemi. Il realismo puro non era men fecondo d' equivoci e di conseguenze erronee ed assurde, e Gilberto della Porretta fu condannato dal concilio di Reims del 114. per aver dedotta dal suo realismo l' erronea dottrina, che [...OMISSIS...] . Questa era conseguenza d' un sistema di realismo, che dell' essenza generica faceva una cosa reale distinta dall' individuo , e real causa del medesimo come appunto Aristotele fa della forma una causa reale della materia (2); nè questo solo però sarebbe bastato a poter dedurre quella conseguenza, se di più non fosse intervenuto nella mente di Gilberto un altro principio erroneo, quello che ci possa essere in Dio vera composizione, come accadrebbe se Dio fosse Dio per la sua forma, e non dipendesse dall' imperfezione del nostro concepire e del nostro favellare, il coniare dei vocaboli astratti: « divinità, deità », che rappresentano non Dio, ma la sua supposta forma universale (3). Ma sebbene il realismo puro sembri nel primo aspetto l' estremo opposto del nominalismo , tuttavia riesce in ultimo al medesimo: poichè l' uno e l' altro sistema annulla in sostanza l' ordine ideale (4): i nominalisti più schiettamente, dichiarando che le idee universali sono puri nomi; i concettualisti un po' meno, dichiarandole atti subiettivi del pensiero; i realisti puri finalmente coll' aria di difensori delle medesime idee, dicendo che sono reali; di che consegue, che anche per costoro rimangono in fatto i soli reali, le idee non più. Onde non senza acutezza e verità Abelardo nel concilio di Sens, dove fu condannato, rivolse, se è vero quel che narrano, a Gilberto Porretano, che l' impugnava, questo verso oraziano: [...OMISSIS...] . Tutte queste dottrine diverse erano sempre anche per innanzi venute in sul labbro dei maestri e sulla penna degli scrittori. Abbiamo veduto che il nominalismo stesso si trova nel germe in Boezio (1), e se ne trovano altre tracce nei dottori precedenti a Roscellino (2). Ma erano dottrine passeggere su cui non si fermava l' attenzione, di cui non si osservavano troppo le differenze, non si prevedevano le conseguenze, e si pronunciavano di corsa e involte in quell' indeterminato e in quel confuso, che ritiene le dottrine piuttosto in istato di feto, che di parto. Anzi anche quando i sistemi pel movimento dato al pensiero da Roscellino si separarono, essi non erano certo subito disegnati a precisione di contorni, ma tracciati alla grossa: e lo stesso realismo si divise in più scuole, nessuna delle quali andava priva delle sue nubi ed incertezze (3). Che anzi quando il realismo di Guglielmo de Champeaux, incalzato dalla inesorabile dialettica d' Abelardo, giunse fino agl' individui reali per la prima volta, allora nè pure s' accorse d' essere uscito dalla sfera delle idee, nella quale era racchiusa la questione, e confessando che gl' individui reali differivano d' essenza , non seppe distinguere tra l' essenza e la realizzazione dell' essenza , e però fu sospinto alla mostruosa sentenza, che l' essenza nella sua realizzazione , cioè l' individuo reale , fosse egli stesso, sotto un certo punto di vista, l' universale. Tutto questo per non essersi giammai distinto chiaramente e costantemente nè da Aristotele, nè da Boezio, nè dagli studiosi di tali autori fino al secolo XIII, le due forme primitive dell' essere , l' IDEALE e il REALE. Il realismo dunque prima dell' età di Roscellino esisteva solo e pacificamente, non come un sistema filosofico contrapposto al nominalismo , ma come un' opinione vagante, di cui non s' era trovata la formula. Tuttavia il realismo si conteneva nella sfera delle idee ; poichè non era venuto ancora a nessuno in mente lo strano pensiero che gli universali fossero le stesse realità individue . Ma l' equivoco, che giacea nella parola reale , lo conteneva in seme. La parola res non si prendeva come opposta a idea , ma come opposta a voce e a qualunque altra negazione d' esistenza. Quindi non c' era assurdo a dire che « gli universali fossero reali », intendendosi con ciò che non erano non esistenze, non erano nulla, non erano voci senza significato. Si dava dunque tanto agli enti sensibili e materiali, quanto alle idee, la realità , senza accorgersi che questa parola applicata ai primi e alle seconde mutava di significato: prendendosi, quando s' applicava alle idee, come un opposto di nulla , e quando s' applicava ai sensibili come un opposto d' idealità : la parola reale dunque, data egualmente ai sensibili e alle idee, impedì alla riflessione d' occuparsi seriamente nel rilevare la natura diversa ed opposta di quelli e di queste: gli uni e gli altri raccogliendosi in confuso sotto la denominazione comune di reali . In questa disposizione delle menti, trattandosi nelle scuole degli universali , si rimaneva bensì nella sfera delle idee , ma si poteva anche uscirne e trascorrere in quella delle sussistenze , senza pure avvedersene, senza avvedersi dello sdrucciolo che dava il pensiero. Il nominalismo ebbe appunto di qui l' origine. Videro alcuni ingegni dei più acuti che già incominciavano a pensare da sè, che l' universale era l' opposto dell' individuo singolare : essi non trovarono che ci potesse essere di reale altro che questo: conchiusero dunque che l' universale non esistesse, fosse un puro nome. Questa maniera di pensare e di parlare restringeva il significato della parola reale e in pari tempo lo determinava a un significato solo; il che fu un indubitabile vantaggio recato alla filosofia. Il realismo non si trovava preparato a questa battaglia, chè egli non conosceva la natura delle idee meglio che la conoscessero i nominali. Questi domandavano: « In che riponete voi la natura comune se non c' è nulla fuori degli individui? ». I realisti che si sollevavano ad una specie di platonismo, come Bernardo di Chartres, erano pochi, o piuttosto non ce n' era una scuola. Gli altri tutti, studiosi dell' aristotelismo, quali il poteano conoscere, accordavano che fuori dell' individuo non c' era nulla. Che rimanea dunque allora a rispondere? Non trovarono altro se non dire che « le essenze degli individui erano comuni, ma questi poi si dividevano per mezzo degli accidenti ». Venuti qui, non era più difficile a un dialettico potente come Abelardo cacciarli alle più stravaganti conseguenze che da quel principio veramente si derivavano. Dovettero dunque retrocedere, e confessarono che gli individui si distinguevano per le loro essenze. Ma così furono presi nell' equivoco della parola essenza ; poichè questa potea significare tanto l' essenza ideale , quanto l' essenza realizzata , equivoco che c' è in Aristotele di frequente. Confessando che gli individui si distinguevano per l' essenza , essi, con questo stesso prendevano la parola essenza in significato di essenza realizzata , e già con ciò si trovavano spinti, senz' accorgersi, fuori del territorio dell' idea . entro la quale si conteneva la questione. Dovettero allora giocare di sottigliezze per dimostrare che l' individuo reale era egli stesso universale , sia per la moltitudine , sia per la similitudine . Il realismo dunque delle idee, di cui si disputava, si cangiò in un realismo di sussistenze : appunto per l' equivoco della parola; e così si può dire che i realisti rimanessero a pieno sconfitti nel campo del ragionamento. Ma quella confusione che noi accennammo dei due significati del vocabolo reale , aveva cagionato pessime conseguenze, molto tempo prima che apparisse al mondo il nominalismo . Ella era nata, come abbiamo accennato, dalla mancanza d' una distinzione filosofica tra il sussistente , e l' ideale : ed ella stessa impediva col suo senso equivoco questa distinzione. Il realismo esisteva dunque prima di Roscellino e dominava pacificamente nei pensieri degli uomini dotti senza nome di sistema. Ma l' ammettersi che i generi e le specie sono dei reali , senza determinar di quale realità si parlasse, era al sommo pericoloso: non s' aveva altro esempio di realità che attirasse l' attenzione fuor di quella dei sussistenti e particolarmente dei corpi: anche ai generi ed alle specie davasi dunque con somma facilità questa realità che è in fatti il senso a cui fu poi ristretta questa parola. In una tale condizione delle menti era inevitabile che ogni qualvolta un pensiero potente s' occupasse della questione: dove dunque sono e che fanno nel mondo questi generi reali ? rovinasse in un baratro d' errori: vi era precipitato Aristotele ammettendo le specie eternamente congiunte colla materia. Aristotele di più diceva che niente esiste separato se non il singolare: l' universale dunque non poteva essere un reale , nel senso d' esistente, se non fosse nei singolari. Secondo questo concetto, il vocabolo reale aveva solo il significato di sussistente, poichè non c' era altra esistenza che quella dei sussistenti, che per vero sono i singolari. C' erano dunque tre sole vie per mantenere agli universali una realità di questa sorte, o che sussistessero in Dio, o che sussistessero da sè come altrettanti Dei, o che sussistessero negli individui creati. La sentenza di mezzo era un politeismo che non poteva essere facilmente abbracciato in secoli di fede cristiana. Rimanevano le altre due. Chi avesse collocati in Dio gli universali sarebbe venuto al platonismo: chi li avesse riposti negli individui creati avrebbe seguìto Aristotele. I realisti del secolo XII s' attennero a questo secondo partito, e ho accennato in una nota com' essi poi si divisero. Ma essi non ponevano mente che se questo poteva sembrar coerente in un sistema come quello d' Aristotele che ammetteva il mondo eterno, era inammissibile in un sistema, come il cristiano, che riconosce l' origine del mondo dalla creazione: poichè gli universali mostrano d' avere in se stessi una natura eterna. Questo ben videro i realisti anteriori di maggior polso, onde riposero gli universali in Dio ed anco nelle cose create. Evitando essi uno scoglio ruppero inavvedutamente in un altro, quello del panteismo . Poichè se gli universali sono in Dio come reali e sussistenti, non si possono più ricacciare l' uno dentro l' altro, (non essendo la realità suscettiva di questo involgimento), e così unificarli, nella quale unificazione solo si possono pensare esistenti in altro modo da quello in cui noi li pensiamo. Di poi , se questi reali e sussistenti sono quegli universali di cui partecipano le cose create, dunque anche queste sono composte della sostanza di Dio. Se avessero conosciuto che le idee hanno un altro modo di essere, opposto alla realtà dei sussistenti, avrebbero altresì conosciuto che il mondo è di un' altra natura diversa da quella delle idee ; perchè composto di sussistenti che sono realizzazioni delle idee , non idee. E in questo sistema soltanto è possibile una vera creazione che trae dal nulla il mondo reale. Ma se le idee s' unificano in Dio, e di esse in quanto sono reali partecipa il mondo, non ci può esser più che una cotal specie d' emanazione della divina sostanza. Io credo, coi più recenti critici (1), che Giovanni Scoto, il più grande pensatore del suo secolo, si possa benissimo purgare dalla taccia di panteismo; anzi le dichiarazioni ch' egli fa nella sua mirabile opera ch' è a noi pervenuta, sono una continua protesta contro il panteismo. E nondimeno un' opinione antica l' addita come il gran panteista del medio evo, precursore d' Amaury di Chartres e di David di Dinant, e quest' opinione è fondata in proposizioni che suonano un aperto panteismo, come queste: [...OMISSIS...] ; e somiglianti. Ora tali proposizioni conseguono necessariamente dal realismo delle idee. Se le idee, la specie e il genere sono realità, come si dicono reali le cose sussistenti, e, per esempio, le sensibili, in tal caso la realità del genere e della specie deve essere la stessa realità delle cose; perchè la realità non ha alcun altro mezzo di comunicarsi se non mettendo se stessa nelle cose: diventa così la materia di cui constano le cose. Ma tutte le idee si riducono all' essere che si chiama spesso anche da Aristotele il genere generalissimo: l' essere ancora secondo Aristotele è tutte le categorie e le categorie abbracciano tutte le specie e non hanno altra esistenza che negli individui: la loro esistenza dunque è la realità di questi. Dove si vede il realismo in Aristotele. Ma quando s' aggiunsero dottrine più elevate che non avesse Aristotele intorno a Dio, le idee reali ridotte all' essere reale erano con questa riduzione Dio stesso: perchè l' essere reale è certamente Dio. Se dunque le idee reali si riducono da una parte in Dio che è l' essere reale , e dall' altra sono nelle cose colla loro realità (non potendo esserci altramente, essendo reali), e però sono la materia delle cose (4): segue che Iddio sia la materia stessa di tutte le cose, che appunto è la proposizione di David di Dinant, chiamata insania da San Tommaso (1), e in fondo non punto lontana dalla proposizione dell' Eriugena che [...OMISSIS...] . Le idee reali dunque, l' universalissima massimamente, in cui tutte rientrano, l' essere reale essendo Dio (se rimane in questo sistema creazione , come pur vogliono i suoi fautori) (2), debbono esser creatrici del mondo . Ma poichè queste stesse idee sono nelle cose colla loro realità, di maniera che sono il fondo e la materia delle cose, quindi debbono essere anche create. Questo insegnava appunto il maestro di David di Dinant, Amaury di Chartres, cioè che [...OMISSIS...] . E questo richiama manifestamente la divisione della natura fatta più secoli prima dall' Eriugena per quattro differenze in quattro specie, la seconda delle quali specie di cose [...OMISSIS...] . Infatti, convien dire che le stesse ragioni delle cose che sono in Dio, siano create nelle cose, se (non distinguendosi il reale e subiettivo dall' ideale e obiettivo) si prendono le idee per cose reali , a quel modo che tali si dicono le cose sussistenti (5), onde ripete l' Eriugena assai di frequente: [...OMISSIS...] : il che potrebbe ricevere un senso immune da errore, qualora ciò che è nel Verbo s' intendesse d' un modo d' essere obiettivo , e ciò che è fuori di lui nel tempo s' intendesse d' un modo d' essere subiettivo , o estrasubiettivo ; e così non s' attribuisse alla natura stessa del Verbo la subiettività o l' estrasubiettività che costituisce la natura creata. Ma fatte le idee e le ragioni eterne reali, non si considerano veramente più come esemplare , da cui è totalmente distinta la copia: onde questa si confonde con quello; e non c' è più verso di distinguere quant' è mestieri la creatura dal Creatore, cioè di distinguerla per modo che la natura di questo rimanga di tutta sè ( ex toto ) diversa, e infinitamente separata dalla natura di quella. L' esperienza tuttavia e la storia della filosofia dimostrano, che c' è una somma difficoltà a distinguere e mantenere costantemente distinta nella mente la forma ideale ed obiettiva dell' essere, dalla forma reale , e ne somministrò recentemente prova quel facondo e immaginoso scrittore che diede a me biasimo e mala voce d' aver proposta e stabilita una tale distinzione, dettando tre volumi col titolo dei miei errori. Laonde con tutto lo zelo e la fidanza egli si pose di contro a me, quasi abbarrandomi il passo, e si dichiarò perfetto realista : incolpando gli stessi scolastici realisti, di non essere stati tali abbastanza, eccetto alcuni pochi (1). Ma pace a quell' anima ardente: e torniamo alla storia. Il realismo, quale si stava nelle menti ancora indeterminato e senz' abito sistematico, aveva prodotto quelle sentenze panteistiche, che s' incontrano nell' Eriugena, a malgrado del suo indubitato proposito di non uscire dalle dottrine della fede, e che non ci sono sole, ma mescolate con altre del tutto opposte al panteismo stesso. Tali sentenze non di meno non si potevano abolire fino a che non si fosse abbattuto il principio da cui derivavano; onde a quando a quando ricompariscono nelle scuole, come si vide più espressamente in Amaury, e in David, e in altri suoi discepoli. Che anzi, prima assai dell' Eriugena, ed oso dire sempre, risonò il panteismo in bocca di quelli che meno il volevano, inevitabile conseguenza del realismo puro, cioè del concepirsi le idee siccome cose reali . Onde all' Eriugena parve d' assicurarsi sull' ortodossia della dottrina, appoggiandosi a quelle espressioni che ricorrono negli stessi Padri più rispettabili della Chiesa, come in un S. Basilio, che scrive: [...OMISSIS...] , nelle opere attribuite a S. Dionigi Areopagita e dall' Eriugena per la prima volta latinizzate, in cui si legge: [...OMISSIS...] ; in S. Massimo monaco, che non dubita pronunciare: [...OMISSIS...] , ed altre consimili. Ma qui è d' uopo distinguere un doppio ciclo dell' umana intelligenza, cioè quello del lume naturale , e quello del lume soprannaturale . I filosofi razionalisti non possono riconoscerne la differenza: ai loro occhi il lume soprannaturale è un lume falso, altro non è che l' effetto d' una esaltazione naturale dell' immaginazione. Nella dottrina all' incontro del cristianesimo quei due lumi e quei due cicli d' intelligenza sono profondamente distinti, e in pari tempo armonicamente uniti, e questa distinzione medesima ha per suo fondamento quella delle due forme, l' ideale e la reale , dell' essere. Il solo cristianesimo scoprì e produsse questo quasi doppio orbe scientifico, se pure scientifico si può chiamare il soprannaturale. Ma si dà almeno una scienza di lui. Mediante questa rivelazione, noi possiamo definire qual sia la cognizione naturale di Dio, e quale la cognizione soprannaturale; la prima « è quella cognizione di Dio che l' uomo ha mediante le idee », la seconda « è quella cognizione di Dio che l' uomo ha per una percezione intellettiva di Dio stesso »: in questa s' apprende la realità divina, non già colla immaginazione ma colla pura ed essenziale intelligenza. Questo l' uomo non può fare da sè: conviene al tutto che Iddio comunichi se stesso: e lo fece prima e ineffabilmente in Cristo, Verbo di Dio incarnato, poi, e certo in un altro modo, in molti altri uomini per Cristo ed in Cristo. Nondimeno l' uomo, impotente a percepire da se stesso la realità di Dio, capace soltanto di conoscerlo idealmente e negativamente , può sentire il vuoto e la negazione intrinseca di questa sua cognizione naturale, e può anche cadere nell' inganno, dandosi a credere di poter coi suoi propri sforzi giungere a riempire quest' ammanco della sua cognizione, raggiungendo Dio stesso nella sua reale sostanza. E a tal fine, non soccorrendolo l' intendimento naturale, che non eccede la sfera delle idee, egli mette in movimento la sua immaginazione e il suo sentimento: e così pel vano sforzo, nasce l' agitazione e l' esaltazione contro natura e compariscono i falsi mistici, gli Yoga e i Buddha, i filosofi teurgici; Maometto, i sufi, Gazali e i suoi seguaci, e via via fino a Giacomo B”hme, che tanto prolificò in Germania, terreno troppo adatto a tali stravaganze e ben preparatovi dal protestantesimo. Qui il falso misticismo s' infiltrò più che altrove nella filosofia, e non poco contribuì alla produzione degli ultimi sistemi di quella per altro dottissima nazione (1). A tutti costoro mancando la materia intorno a cui pretendono lavorare col loro pensiero, cioè la realità di Dio , devono necessariamente tessere con fili immaginari, e quindi cadere nei più strani errori: talora sono obbligati di conchiudere che Iddio è il nulla, e ciò quando s' avvedono di nulla stringere per quanto si sforzino; talora poi compongono Iddio di tutti gli enti naturali, o fattili rientrare in una oscura potenzialità, alla grossa sincretizzati. Per tutti costoro il panteismo non suol essere tanto la causa, quanto l' effetto del loro misticismo. Ad ogni modo anche questi sono sempre perfetti realisti , nel senso che conferiscono alle idee una realità di sussistenza . Non si trovano certamente costoro nell' ordine soprannaturale , ma vogliono prendere il soprannaturale d' assalto colle forze del pensiero naturale, il che è impresa non solo temeraria, ma assurda. Ma se ci trasportiamo veramente in quell' ordine divino e soprannaturale che ci ha rivelato e apportato il cristianesimo, nel quale troviamo i veri mistici, in tal caso, ci si fanno incontro di quegli uomini che ci parlano della realità di Dio, per averne un' interiore esperienza. Il loro linguaggio tuttavia non si può intendere nè si può interpretare se non da altri che abbiano fatto in sè l' esperienza medesima. Onde questa è scienza chiusa e segreta. Conviene che noi lo diciamo, sebbene ci sia noto che una simile sentenza turbi non leggermente i savi del mondo. Volevo dunque osservare che molte di quelle espressioni che in bocca dei filosofi naturali suonano panteismo, nel ciclo della dottrina soprannaturale, che riguarda la realità di Dio e l' unione intima di questa colla realità umana, ricevono un significato vero e non punto panteistico, perchè si riferiscono a un oggetto diverso da quello a cui le riferisce, e a cui solo può riferirle, il filosofo naturale. Laonde tali sentenze s' incontrano nei sacri libri, e nei Padri, e in ogni pio scrittore, e soprattutto nei più celebri mistici della scuola cristiana cattolica tedesca del secolo XIV, voglio dire d' Enrico Susone, di Giovanni Taulero, di Giovanni Ruysbrock (1), i quali assai volte imitano i concetti e le espressioni stesse dell' Eriugena. Non intendo certamente dire, che tutte le espressioni di cotesti scrittori siano rigorosamente teologiche: soltanto voglio osservare, ch' essi non parlano di pure idee , ma di sentimenti reali che nelle anime intellettive si eccitano da una causa soprannaturale, che è Dio stesso, essere realissimo, che immediatamente e graziosamente presenta se stesso alla sua creatura senza confondersi con essa. Laonde quand' anco costoro diano una certa realità alle idee, non si può inferire da questo, che professino il realismo filosofico, ma il realismo mistico e soprannaturale, che è tutt' altro (2). E che sia tutt' altro si vede ancora da questo, che la realità mistica non si predica delle cose create, se non, quasi per una comunicazione d' idiomi, dell' anima umana in istato soprannaturale, come quando si dice che i giusti sono luce, aggiungendosi: « nel Signore », laddove il realismo filosofico si predica, da quelli che lo professano, di tutti gli enti finiti. Il falso misticismo si trasforma facilmente in un realismo filosofico: il realismo filosofico degenera in un falso misticismo. La differenza sta nella forma, affettando il misticismo sconnessione e disordine di esposizione; la filosofia all' incontro vestendo le stesse immaginazioni d' una scrupolosa regolarità e d' una deduzione metodica. Giacomo B”hme e Giorgio Hegel (3) presentano queste due forme; come presso gli Arabi le presentarono Gazali (Algazel) (n. 105., m. 1111) e Ibn7Roschd (Averroè) (n. 1126, m. 119.): tutti realisti nel significato di cui parliamo. Ma per vedere come il realismo arabico s' infiltrasse nelle scuole cristiane e vi si rendesse fonte di gravissimi errori, conviene che risaliamo più alto. Teniamo distinto il realismo impropriamente detto, dal realismo di cui parliamo. Il primo sta nella sentenza di quelli, che quando dicono: « le idee sono reali », altro non intendono se non che le idee « non sono un nulla ». A questo modo siamo realisti anche noi, con Alberto Magno, con S. Tommaso e coi migliori dottori che mai fossero, e che il Gioberti chiama semirealisti . Noi crediamo che tanto la denominazione di realisti , quanto quella di semirealisti , applicata al sistema di questi valentuomini, sia impropria ed equivoca. Il secondo è il sistema di quelli che dicendo reali le idee, intendono d' una realità attiva , come quella delle cose sussistenti nell' universo: questo è quel realismo, dal quale trassero origine errori innumerevoli e mostruosissimi. La parola realità non definita, non distinta coll' opposizione dell' idealità fa sì che l' umana mente sdruccioli da quella in questa, quasi per un suo proprio peso, confondendo due entità infinitamente distinte. E nel vero, ciò a cui dapprima si volge naturalmente l' attenzione umana, sono gl' individui reali e sensibili componenti il mondo. Quando la mente s' innalza a Dio, spintavi o dal magistero tradizionale, o da una sua propria argomentazione o contemplazione, trova ancora un ente reale, il cui termine esterno è il mondo. Fin qui tutto è realità nel pensiero: non già ch' esso non abbia o non faccia uso d' idee: ne ha per certo, e ne usa: ma elle sono in esso come un mezzo di pensare, non ancora come oggetto dell' attenzione e della riflessione, perciò inosservate: ci sono come non ci fossero pel ragionamento riflesso: le idee in questo stato non entrano nel calcolo, non fanno parte della scienza (1). Viene più tardi il tempo in cui la riflessione speculativa s' affissa sulle stesse idee: e in questo momento nasce la filosofia: mille problemi si presentano allo spirito: la loro diversa soluzione fa comparire una molteplicità di sistemi. Ma quello a cui lo spirito umano può difficilmente e dopo più lungo tempo pervenire, si è a risolversi che le idee abbiano una maniera di essere tutta loro propria, interamente diversa da quella delle cose reali. Non arrivandosi a questo colla mente che già specula e non sa contenersi, o si negano a dirittura le idee, e nasce il sensismo , il nominalismo , lo scetticismo ; o si cade in quel realismo , di cui noi stiamo dimostrando le assurde conseguenze. Il qual realismo nelle menti acute vacilla incoerente con se medesimo: nelle meno perspicaci procede più franco e quasi sicuro di se stesso. La sapienza orientale, che ricevette la prima una forma filosofica, non potè mai uscire da un realismo di questa natura e giungere alle idee pure , che appartengono certamente agl' ingegni italici e greci. Perciò l' oriente apparve sempre la terra nativa del panteismo; e di qui l' ebbero i greci per mezzo degli orfici e d' altri poeti mitici prima del nascimento della filosofia; c' era Iddio in tutta quanta la natura, anima e vita di questa. Dalla vita della natura Anassagora separò la parte intellettiva e pronunciò quella memoranda sentenza, che « la mente non poteva avere mistura di sorta alcuna »ma con questo non si separava ancora l' oggettivo , che per l' uomo sono le idee, dal soggettivo , che è la potenza e l' atto d' intendere. Platone fu il primo, per quanto pare, che, avuto l' indirizzo da Socrate, pose nella serena quiete della sua mente, ferma attenzione all' oggetto per sè, cioè al mondo ideale: e senz' uscirne, dall' idea, mirò e vide in essa i caratteri divini dell' eternità, della necessità ed altri tali. Ma seppe Platone evitare totalmente il realismo? Il realismo, dico, nel senso che noi riproviamo, nel senso di quel sistema che attribuisce alle idee un' esistenza subiettiva ed attiva , come quella delle cose mondiali? Circa la quale questione, per quanto pare a noi, si suol prendere errore anche dai più dotti commentatori ed espositori. Il Tennemann sostiene che le idee di Platone sono pure nozioni della mente, fuori della quale non esistano (1). Questo ancora non basta ad assicurarci che Platone non dia alle idee una propria realità , non potendosi decidere una tale questione, senza sapere in che modo esse siano nella mente. Può intendersi che ci siano come atti della mente, e in tal caso non esistono più le idee che di nome, poichè gli atti della mente, la cui esistenza nemmeno il nominalismo ha mai negata, sono tutto altro che le idee; pure sono reali. Può intendersi che esistano nella mente come oggetti in opposizione al principio d' intendere subiettivo: e qui solo trova luogo la questione: « se questi oggetti siano reali o ideali ». Se si risponde che sono reali , è ancora a domandarsi di qual mente si parli, della divina o dell' umana. Poichè se si parla della divina, l' oggetto del suo conoscere non può essere che realissimo, altro esso non essendo che la stessa divina essenza, o ciò che nella divina essenza Iddio liberamente distingue senza porre in essa alcuna distinzione: e questo realismo è verissimo, ma non è punto quello della questione agitata tra i nominali e i realisti : perchè questa controversia riguardò le specie e i generi, ossia le idee che sono oggetti della mente umana secondo il modo proprio della sua intuizione, e non secondo quel modo tutto diverso con cui conosce Iddio. Rimane certamente qualche oscurità nella dottrina di Platone, quale risulta dalle opere che di lui ci rimangono e dalle indicazioni che ce ne dà Aristotele; ma pare tuttavia indubitato che le idee proprie dell' uomo per Platone siano produzioni di Dio e non qualche cosa d' essenziale a Dio stesso (2): siano cioè la prima produzione, il disegno, l' esemplare del mondo, come la mente nostra lo può concepire. Ora la natura d' esemplare , «paradeigma» (1), che Aristotele schernisce come una vana metafora poetica (2) è pure la parola solenne che esclude il realismo , perchè per essa s' intendono chiaramente contrapposte le cose reali alle idee , onde queste, secondo la teoria dell' esemplare, sono categoricamente diverse e anteriori logicamente alla realità di quelle. Goffredo Stallbaum si oppone al Tennemann, scrivendo: [...OMISSIS...] ; e dà alle idee di Platone una forza produttrice. Questa maniera di concepire le idee di Platone viene ad attribuire a questo filosofo due sistemi di realismo ad un tempo: 1 quello che cangia le idee in principŒ subiettivi ed attivi ; 2 quello che colloca le idee nelle cose reali come loro forme o atti. E questo secondo sistema è in parte quello d' Aristotele, come vedremo. Qualora dunque collo Stallbaum si dovesse assegnare alle idee , quali sono vedute dall' uomo, quest' attività di produzione, e non la semplice natura di luce, d' intelligibile, d' esemplare, converrebbe certo classificare Platone tra i realisti : ma questo ripugna, come osservavamo, al concetto di paradigma costantemente da Platone mantenuto nelle sue idee. E` sempre Iddio, il «demiurgos», che opera in Platone: le idee sono la sua produzione, e riguardando in queste, come in esemplare, Egli crea la realità del mondo . Questa maniera di concepire, indubitatamente platonica, è aliena affatto dal realismo , le idee non vi compariscono che come norme del divino operare, oggetti conoscibili e possibili, non reali. Gli altri luoghi, dove sembra che Platone dia alle idee una loro propria attività, si devono intendere con cautela e conciliare colla sua dottrina fondamentale e indubitata: le idee operano solo in quanto Iddio opera per esse: l' attività si rifonde tutta in Dio. Ma se le idee si considerano in Dio, non quali sono nell' uomo e all' uomo appariscono, ma quali sono veramente in Dio, certo che hanno l' attività di causa, perchè si riducono necessariamente nel Verbo divino, e con questo riducimento cessano d' essere pure idee. A tal concetto pare che in alcuni luoghi s' elevi Platone, o almeno così fu inteso dai platonici nei tempi cristiani e da alcuni padri della chiesa. Del pari non crediamo potersi attribuire a Platone il secondo sistema di realismo , quello che fa esistere le idee nelle cose reali: le idee esistono fuori del tempo, molte delle cose reali soggiacciono al tempo. Tant' è lungi che secondo Platone le cose reali abbiano le idee in sè, ch' esse non ne sono altro se non imitazioni, e però servono alle menti di segni delle idee, perchè ne sono il realizzamento. Quanto poi alla partecipazione che le cose hanno delle idee, questa ha luogo solo nella mente umana , a cui è data la contemplazione delle idee stesse: e nella nostra mente le realità sensibili certo si copulano a quelle essenze eterne che le rendono conoscibili. Onde crediamo che Platone il primo e il solo abbia scosso dalla filosofia il pernicioso realismo dei suoi predecessori ed abbia conosciuta la singolar natura delle idee (1). Era impossibile che Aristotele, avendo udito per vent' anni Platone, non ne ritraesse nulla della nuova e sublime dottrina delle idee. Ritenne le idee immateriali, ma in molte maniere le realizzò, abbandonandone la parola, e sostituendo quelle di forma e di specie . Le realizzò primieramente confondendo l' oggetto , che solo appartiene alle idee, col subietto intelligente , ponendo che tutto quello che fosse senza materia dovesse essere ad un tempo e intelligibile e intelligente. Tale è il Dio d' Aristotele, tale anche la mente umana. L' oggetto non è per lui qualche cosa che involga un' assoluta esistenza contrapposta al subietto umano. Ora l' intelligente appartiene all' esistenza subiettiva e reale: quest' è dunque un sistema di realismo. Tuttavia egli descrive Iddio come una pura causa finale non attiva, ma solo intelligibile ed appetibile: il che dimostra che il concetto dell' intelligibile platonico aveva lasciato una profonda impressione nell' animo suo. A questo primo sistema di realismo in Aristotele se ne congiunge un altro. Poichè le specie mondiali sussistono ab aeterno reali negli enti reali del mondo, possono essere separate dalla materia soltanto per opera del pensiero; ma anche nel pensiero umano sono attive, come sono attive nella natura. In realtà nella natura costituiscono insieme colla materia quella causa efficiente che Aristotele chiama appunto natura , e nel pensiero costituiscono quella causa efficiente che Aristotele chiama arte . Le idee dunque per Aristotele sono principŒ attivi e non già puri oggetti intelligibili; perciò veramente reali. Che anzi egli fa della sua forma un sinonimo di atto . Tali sono le viste diverse e i principŒ (dai quali svolgendosi, o separati o confusi insieme, come per lo più è avvenuto, uscirono le diverse dottrine che apparvero intorno alle idee e dominarono nelle scuole da Aristotele fino a noi) quali ora riassumeremo ed enumereremo così: 1 il realismo orientale e orfico , che non distingue, dal mondo ideale, Iddio, ma fa la divina mente vita dell' universo; 2 l' esemplarismo di Platone, che evita ad un tempo il realismo, il nominalismo e il concettualismo; 3 il realismo aristotelico , che si parte in due proposizioni, ciascuna delle quali, prese a parte, costituisce da sè un sistema di vero realismo, e sono: a ) l' intelligibile in atto è identico all' intelligente, qualunque sia, in atto, e però l' intelligibile è un reale ; b ) le forme o specie esistono nella natura come atti nella materia , e nella mente umana come atti puri da materia , ma, nell' una e nell' altra esistenza, sono principŒ e cause attive (natura ed arte), e perciò reali. Il nominalismo e il concettualismo delle scuole ebbero il loro germe nello stesso realismo aristotelico . La prima proposizione del realismo aristotelico contiene il germe del nominalismo : la seconda quello del concettualismo , che è anch' egli una specie di nominalismo. Coloro che posero mente alla proposizione che « i generi e le specie non esistono che nella natura, cioè negli individui reali », conchiusero a ragione che dunque gli universali non esistono: sono puri nomi. Coloro la cui attenzione fu più colpita dalla prima proposizione che « le specie sono nelle menti come puri atti », conchiusero a ragione che gli universali non esistono in sè: sono puri concetti subiettivi e individuali anch' essi. Era sommamente difficile ad intendersi e a mantenersi in tutta la sua purità il sistema di Platone dell' esemplarismo : Aristotele stesso, io credo, non l' aveva bene inteso: dopo di lui, nel decadimento della filosofia, molto meno un così sottile concetto potè cogliersi dalle menti. I neoplatonici e gli alessandrini (1) bevevano grosso: tutta la fatica ch' aveva durata Platone per separare i prodotti dell' immaginazione dagli oggetti della pura intelligenza, e per distinguere ciò che andava confuso nelle dottrine filosofiche precedenti, si perdette per essi interamente: essi con pieno sincretismo rimpastarono in uno il panteismo ed il misticismo orientale e orfico, e il pitagoreismo, e il platonismo: tornò dunque a galla il realismo puro, confuso, cieco, senza contrasto, senza che nè pure si movesse nelle menti il sospetto che l' esemplarismo , di cui si riteneva il linguaggio, fosse qualche cosa di contraddittorio appunto a quel realismo che si professava. E veramente, sconosciuta la forza e il valore di questo concetto dell' esemplarità , che contiene anche quello dell' intelligibilità delle idee, il carattere che distingue la filosofia platonica da ogni altra non si vede più, e però non rimane più difficoltà a confonderlo da una parte colle contemplazioni orientali, dall' altra colle speculazioni aristoteliche. Di qui ancora venne quella sentenza così frequente in Cicerone, che gli antichi accademici e gli antichi peripatetici, d' accordo nelle cose, differissero solo nelle parole (3). Il vero carattere dunque, che rende unica da tutte le altre la filosofia di Platone, non fu ereditato dai suoi successori, e ben presto non si seppe più vedere. Il realismo dunque, distinto nei vari modi di concepirlo, ebbe libero il campo: esso regnava ugualmente nel preteso platonismo di Filone, che fu uno dei primi tra gli alessandrini, nella Cabala di Akibha e di Simeone Ben7Jochai, nei nuovi pitagorici, negli gnostici: tutti più o meno entusiasti o panteisti. Nessun filosofo di queste scuole si dava cura di rendere a se stesso o agli altri un conto accurato delle proprie idee: anzi nell' oscurità misteriosa delle loro locuzioni si piacevano d' involgere una pretesa sapienza indefinibile (4). Quelli dunque, che rifuggivano dalle cognizioni confuse e bramavano di pervenire a cognizioni chiare e distinte, inclinavano a buttarsi nello scetticismo: e questo nella bocca d' Enesidemo e di Sesto aveva un gran vantaggio dialettico a fronte di tali avversari. Onde non è maraviglia se gli scettici di questi tempi sembrano più acuti dei loro avversari, più dialettici, e abbiano conseguito una momentanea prevalenza. Ammonio Sacca, da cui prese la scuola profana d' Alessandria un nuovo vigore dopo la fine del secondo secolo, pretendeva di fondere Platone ed Aristotele insieme, come i suoi predecessori: la serie dei filosofi che ne uscì, specialmente Porfirio, Jamblico, Proclo, non dubitarono più che i due maggiori filosofi professassero una stessa filosofia: il solo Plotino si può considerare come un ingegno a parte, che pur sentì l' influenza del secolo, come vedesi dall' imperfezione del suo stile. Veramente questo era un darla vinta ad Aristotele, poichè quello che si sacrificava, senz' accorgersi, alla pretesa conciliazione dei due filosofi, era tutto ciò che Platone aveva di proprio e di eccellente, cioè la dottrina non più intesa delle idee, delle idee dico, quali si presentano alla mente nostra come eterne conoscibilità delle cose : e con ragione fu osservato che questa prevalenza d' Aristotele spiega l' origine della dottrina, tutta aristotelica, degli Arabi. [...OMISSIS...] Perdutasi quindi interamente la chiave dell' esemplarismo di Platone, il solo realismo era restato padrone del campo: e se si nominavano a quando a quando le idee, era un nome vano; chè non se ne intendeva punto la natura. Il realismo poi, lo vedemmo, ora cercava la sua base nella divinità, realità prima emanatrice di tutte le altre di cui si compone il mondo, e se n' aveva il panteismo , il misticismo , il quietismo , il teurgismo ; ora la cercava e credeva di trovarla nelle realità sensibili dello stesso universo, e se n' aveva il naturalismo , il razionalismo , il sensismo , il soggettivismo , il materialismo , e quando più tardi si osservò che di tutte queste realità niuna poteva essere universale , si trasse la naturale conseguenza della negazione degli universali, sentenza che prese le due forme e i due nomi di nominalismo e di concettualismo . Schernitore acuto di tante aberrazioni e di tante stravaganze era nato da sè, e s' era messo di contro a tutti, lo scetticismo . Una filosofia maestra di tanti errori non poteva condurre avanti il suo corso senza che venisse ad urtare, e in fine a rompersi, da una parte contro il cristianesimo, dall' altra contro l' islamismo che riteneva una parte di verità dal primo ond' era uscito. Giustiniano dunque nel 529 fece chiudere le scuole pagane di Atene; nè valse che i filosofi, dopo quattr' anni, dalla Persia dove s' erano rifugiati, potessero ritornare; chè nella luce già diffusa del cristianesimo non poteva più essere ben accolto un magistero così imperfetto: la filosofia pagana dunque, confusa da se stessa, ammutì. Pure al mondo cristiano la pagana filosofia lasciava una eredità, ma sporca. A nettarla dai pesi degli errori, ponevano già da molto tempo ogni lor cura gli scrittori ecclesiastici. Ma questo gran lavoro fu storpiato dalla violenza dei barbari, che coll' impero romano sconvolsero dai fondamenti la società e vi distrussero la civiltà, senza nondimeno poterne sterpare le radici custodite dal cristianesimo, vincitore e maestro paziente dei barbari stessi. Il lavoro cristiano dunque nei primi tempi si limitò, quasi direi, a combattere le erronee conseguenze, che propagginavano dalle antiche filosofie e dalla loro degenerazione: ma non ci fu campo, nè tranquillità sufficiente a richiamare in esame i primi principŒ e a ricostruire dal suolo una filosofia degna del Vangelo. Quindi l' esemplarità delle idee si tenne, quanto bastava a spiegare la divina sapienza e la creazione senza renderla fondamento d' un sistema filosofico (1). Il realismo dunque, che formava il vizio radicale delle ultime scuole filosofiche, rimase fitto e appiattato nel comune insegnamento, senza però che osasse metter fuori le unghie: nè ci fu alcuno degli ultimi filosofi cattolici, nè Boezio, nè Cassiodoro, nè Beda che lo scoprisse e che gettasse pure un sospetto sopra le sue conseguenze. Di che non deve cagionar maraviglia se in progresso di tempo e a quando a quando, uscissero da quel realismo medesimo che s' ammetteva a fidanza, illazioni inaspettate ed eterodosse. Queste certamente si guerreggiavano tosto dal sentimento cattolico, e si recidevano dall' autorità, come accadde a quelle che ne dedusse nel IX secolo l' Eriugena (1), ma più ancora i pretesi suoi discepoli del secolo XII e XIII Amaury e David. L' islamismo non trovava in sè quella forza logica e morale che ha il cristianesimo, e però non poteva difendersi con egual polso contro le conseguenze del realismo aristotelico . Anzi non poteva difendersi punto con armi dialettiche dalla corruzione e dal veleno di quel realismo. Non gli restava altro scampo che di combatterlo con la forza bruta, di cui trovavasi ben armato. Non ragionò dunque, ma distrusse a ferro e a fuoco la stessa filosofia; e Averroé che tirò dal realismo d' Aristotele le ultime conseguenze di razionalismo e di naturalismo puro, fu, si può dire, anche l' ultimo filosofo presso gli arabi (2). Il cristianesimo non ha paura di sorta della filosofia: egli dunque non la distrugge, e anzi ne promove e ne incoraggia lo studio; ma in pari tempo con una continua vigilanza combatte acremente e legittimamente gli errori, e li corregge, giovando con questo incredibilmente alla filosofia stessa. Tuttavia gli errori sono tenaci: lo spirito d' empietà, immortale quanto il genere umano sopra la terra, se ne impossessa e vive di essi, difendendoli a morte come la sua propria vita. Poichè la prima, la perpetua e più profonda divisione del genere umano sulla terra, è indubbiamente quella delle due società, di cui fa menzione il « Genesi » (3); e ogni qualvolta comparisce nel mondo una filosofia imperfetta, o avente qualche indeterminazione o qualche incoerenza, o, quello che è sempre inevitabile, circondata, agli occhi di molti, d' oscurità e di difficoltà, tosto ella si biparte in due, e si differenzia per la contraria interpretazione e per la piega diversa che le danno quelle due società che a gara se ne vogliono impadronire. Il che è quanto dire, che l' abuso si mette sempre al fianco dell' uso. La scissura del genere umano s' imprime dunque e si riflette nelle filosofie, e principalmente in quella che in un dato tempo è più autorevole e più acclamata, la quale così si fa segno di speciale discordia e oggetto e materia della lotta più di tutte ostinata. Il che viene confermato dalla storia del platonismo non meno che da quella dell' aristotelismo. Nelle considerazioni storiche fatte da noi fin qui, vediamo l' aristotelismo abbracciato e tirato a sè dalle due parti. Di qua la dottrina d' Aristotele insegnata e proclamata altamente come un aiuto naturale e un sostegno del cristianesimo: di costà essa medesima pure divenuta un' arma possente nelle mani dell' empietà, con cui questa tenta niente meno che l' intera distruzione del cristianesimo e d' ogni altra religione, e lo stabilimento del materialismo e dell' ateismo più consummato. Appresso gli arabi erano ricomparse le due fasi opposte del realismo che non mancano mai nella storia della filosofia: voglio dire il realismo panteista e mistico (1); e il realismo naturalista . Quando la filosofia araba comparve nella cristianità, l' uno e l' altro errore vi fu combattuto, e se rimase tuttavia il realismo delle idee, sotto questa parola equivoca s' intese dai più sani che le idee erano qualche cosa, non puri nomi. In questa lotta, il primo errore cioè il mistico e panteistico, fu del tutto vinto e dovette nascondersi per fare soltanto delle uscite momentanee: poichè, appena si affermava, veniva compresso. Quando l' errore si presenta sotto forma di religione, il cattolicismo colla stessa coscienza di sè lo ripudia. Nel cattolicismo cammina la ragione a lato della fede; due lumi che non vi possono essere nè confusi, nè disgiunti. Il razionalismo e il naturalismo all' incontro , non presentandosi con la forma d' una religione, e però non domandando, per esistere, d' occupare il luogo del cristianesimo, potevano mantenere per qualche tempo una propria esistenza, dissimulando la propria opposizione alla dottrina cristiana. Questa la ragione, per cui l' averroismo infiltrato nelle scuole lungamente vi si mantenne (1), talora coperto, talora pigliando sicurità e denudandosi; quando sterile tronco, e quando col seguito delle sue ultime conseguenze, ora senza schermi ed ora schermendosi con ridicole ed insolenti distinzioni, qual fu quella celeberrima della doppia verità, la filosofia e la teologia. L' aristotelismo fu dunque condannato da prima nel 1209, poi nel 1215 e 1231; vi fu condannato, come l' avevano esposto gli arabi, insieme col panteismo di David e d' altri nominati nella sentenza del concilio di Parigi pubblicata dal Marlene (2). Il realismo aristotelico consisteva nell' aver dato alle specie ed ai generi, cioè alle idee delle cose mondiali, una esistenza nelle stesse cose reali . Essendo le idee cosa divina e ponendosi esse come forme reali delle cose, si faceva manifestamente Iddio forma reale degli enti mondiali. Ora gli enti tutt' intieri si riducono alla forma, perchè la forma, causa della materia, è quella che li fa essere, e dalla forma si denominano. Se questo sistema, riguardato da una delle sue facce, è una specie di panteismo, riguardato dall' altra, è naturalismo e ateismo. Quanto tenacemente si abbarbichi negli animi e nelle menti cotesto realismo che, portando il suo frutto, si converte in un sistema d' empietà bifronte, lo dimostra, oltre le ripetute condanne frequenti, la dura lotta che gli scrittori più eminenti, cominciando da Guglielmo d' Auvergne e discendendo fino a quelli del secolo XVI, sostennero per abbatterlo; e le rovine che tuttavia egli andò menando, combattuto, non mai pienamente estinto. Che più? Se noi stessi, nel tempo nostro, altro non facciamo che combattere lo stesso nemico sullo stesso campo? L' averroismo , figliuolo, per generazione logica, dell' aristotelismo, diede al mondo la formula della più mostruosa empietà: ognuno intende che alludiamo alla bestemmia dei tre impostori . L' empietà sbocciata da questo fonte aristotelico ed arabico comparisce sotto forme volgari e religiose nel gioachinismo, nell' evangelio eterno, nei catari, beguardi, lollardi, bizzocchi, fraticelli, poveri di Lione, ecc., che cotanto commossero la società nel secolo XIII; e si dovettero frenare e comprimere colla forza scientifica specialmente nell' università di Parigi; e si dovette con autorevoli decisioni ecclesiastiche degli anni 1240, 1269, 1277 condannare, quand' esso si proponeva nelle tesi le più strane e le più empie, e che pure si riprodussero per molto tempo ancora (1). Sventuratamente la casa degli Hohenstaufen divenne il centro di tutta questa empietà e dell' immoralità che ne era e ne doveva essere causa ed effetto (2); la filosofia araba nella sua forma più bassa, materiale e dissoluta, annidatasi in quella corte, e ivi protetta da Federico e da Manfredi, corruppe tutto il secolo XIII, che fu pure maestro all' empietà del XIV, nè la tradizione d' empietà e d' incredulità s' interruppe più mai, e la esplosione terribile ch' ella fece nel secolo XVIII, indica troppo bene lo stesso fuoco vulcanico che coperto in parte da ceneri e da rovine, ci fa ancora sotto le piante traballare ed ardere il suolo (3). L' averroismo purtroppo corruppe specialmente la filosofia in Italia: entrato nell' università di Padova per opera di Pietro d' Abano (n. 1250, m. 1317) e cresciutovi d' autorità per opera di Gaetano Tiene (n. 13.3, m. 1465) vi durò fino al Cremonini (m. 1641), cioè più di trecento anni. E questa non fu la minore delle deplorabili calamità a cui questa nazione soggiacque. Lo stesso studio incessante d' interpretare benignamente Aristotele ed Averroè, e di confutarne gli errori, contribuì non poco a mantenere più a lungo nelle cattedre autori, i cui principŒ erano prolifici delle più perniciose dottrine: si credeva renderli innocui con interpretazioni stiracchiate o false, o con confutazioni che non distruggevano ciò che quegli errori contenevano di seducente. Coloro a cui basti la perspicacia per rannodare le conseguenze più remote ai principŒ e gli effetti alle cause, dopo aver profondamente meditato sulle sciagure italiane, non crederanno esagerazione il conchiudere che l' erronea filosofia introdottavi e pertinacemente mantenutavi, c' entra molto da per tutto. Le sciagure morali, checchè ne dicano i vani e belli spiriti, cagionano tutte le altre. E tutte le altre dell' ordine morale furono indubbiamente scosse e guaste dal realismo aristotelico e averroistico, che trovò tant' altre cause a lui affini con cui associarsi. Queste parti integranti dell' ordine e dello stato morale della società sono: 1 la religione ; e l' averroismo introdusse in varie parti d' Italia una scientifica incredulità, incominciando da quei medici atei che tentarono d' attirare al loro materialismo il Petrarca (1), e più sù ancora (2) e più giù fino al Vanini (3); 2 il costume ; e l' averroismo ci dà gli epicurei di Firenze del secolo XIV coi loro successori (1); 3 la politica ; e dalla stessa filosofia aristotelica, sorse il macchiavellismo (2), che fa perdere affatto agl' Italiani la traccia della vera politica; 4 il diritto politico ecclesiastico ; e sotto il regno dello stesso sistema filosofico, esso degenera in una guerra appassionata che si fa alla Chiesa da Arnaldo da Brescia (m. 1155) fino a Fra Paolo (m. 1623), tanta parte del decadimento di Venezia, cioè dello stato meglio ordinato che avesse l' Italia; 5 la letteratura ; e si rimane sudicia e snervata dalla scostumatezza nei suoi stessi esordi, come specchio che doveva essere della società italica e fiorentina del secolo XIV, cioè d' una società travagliata dalle quattro piaghe indicate. Tale è l' eredità ricca di guai che l' Italia raccolse dal realismo aristotelico e arabico, tenuto da essa, per sua sciagura, più tenacemente di tutte le altre nazioni (3). Certo nelle bocche del Cesalpini (m. 1603) e del Cremonini (m. 1641), che vanno contati tra gli ultimi rappresentanti dell' aristotelismo in Italia, il principio del realismo aristotelico suona così fresco e così spiccato come se fosse un trovato pur d' allora: le forme delle cose si riducono in Dio che n' è principio, causa formale egli stesso del mondo (4). Le conseguenze si possono negare, dissimulare, impugnare, ma brulicheranno tuttavia nelle menti che avranno ricevuto in sè quel principio fecondissimo. E un sistema di questa natura si continuava a insegnare, perchè non ce n' era allora un altro. Pure tostochè gli occhi cominciarono a levarsi dai libri e a riguardar la natura, esso perì, ucciso, da quegli stessi germi di corruzione che portava in se stesso (1): si tentò dunque per un poco di far senza della filosofia, ristorandosi di questo mancamento colle fisiche scoperte (2). E per vero l' avverroismo doveva necessariamente rendere la filosofia trista, barbara, pedantesca, sofistica, difetti tutti, che cresciuti col tempo, venivano infine a renderla insopportabile agli ingegni che secretamente da essi stessi progredendo si andavano svezzando (3). In questo modo invecchiò e si corruppe la filosofia scolastica; e dall' ali del nuovo genio che invase l' Europa ne furono spazzate le rovine. L' ultimo sforzo fatto da essa per prolungare la vita, se fosse stato possibile, ebbe ancora il doppio carattere di razionalismo e di misticismo. Spossata e discreditata la forma realistica , Ockam, l' idolo degli ecclettici francesi (questi terribili riabilitatori delle riputazioni perdute ) ripropose nel secolo XIV la forma nominalista , già abbattuta al suo nascere due secoli prima. Molti buoni ingegni, spauriti dalle conseguenze del realismo, sperarono di trovare nel nuovo nominalismo qualche asilo sicuro alla sbattuta filosofia. Dopo un lungo tafferuglio col vecchio realismo, il nuovo nominalismo pareva rimasto padrone del campo, e già Ockam riceveva il titolo di Dottore invincibile. Del rimanente, al vedere che la scuola nominalista può vantare delle glorie postume, dal secolo XVI e XVII fino a noi, ben apparisce che la filosofia aristotelica non sapeva più dove posare il capo, e invano le si voleva acconciar sotto un nuovo origliere. E veramente in Italia Mario Nisolio combattè due secoli dopo Ockam pel nominalismo contro il realismo (1). E in Germania l' opera del grammatico modenese ebbe l' onore di essere ristampata e commentata dal Leibnizio nel 1670; e nella dissertazione, di cui il maggior filosofo arricchì quell' edizione, non dubitò di scrivere: [...OMISSIS...] ! In Francia Giovanni Salabert pubblicò nel 1651 la sua Philosophia nominalium vindicata . L' Inghilterra finalmente, la patria di Ockam, non mancò mai di quei dottori che insegnassero il nominalismo. Nel secolo XVII Melchiorre Goldast ed Edoardo Brown fecero l' apologia di Ockam, e nello stesso secolo il nominalismo fu rivestito a nuova foggia dall' Hobbes, e si rimase poi nella scuola scozzese (3). Tutti questi tentativi, fatti in sul cadere della scolastica e continuati con perseveranza anche dopo la sua caduta, per ristabilire il nominalismo, dimostrano la ripugnanza e quasi direi l' orrore che aveva lasciato in tutti gli animi il realismo aristotelico. Ma si tentava l' impossibile: ed era un' illusione il credere di riparare così ai danni della filosofia. Il realismo e il nominalismo sono i due fianchi dell' ammalato [...OMISSIS...] E veramente, l' abbiamo già detto innanzi, il realismo e il nominalismo nascono dallo stesso errore aristotelico, cioè che « l' universale sia nelle cose reali e non altrove ». Se è nelle cose reali, dunque l' universale è reale; ecco il realismo nel senso proprio. Se è nelle cose reali, dunque l' universale fuori di queste è un nulla, un puro nome: ecco il nominalismo . Sono dunque due formole della stessa dottrina e non due sistemi, sono due conseguenze dello stesso principio. Questa dunque del nominalismo fu la faccia razionalistica che mostrò l' aristotelismo nel suo spegnersi: in Germania scoperse di nuovo, nello stesso periodo, anche l' altra cioè la mistica . E questo accadde perchè, in sullo scorcio della sua vita, s' abbattè nella riforma protestante. Il protestantesimo, scossa l' autorità, non si potè mai adagiare e rimanersi tranquillo nel raziocinio, così mal sicuro nei suoi passi quand' è solo, impotente del tutto, se trovasi sfinito in un puro nominalismo. Niuna maraviglia che l' uomo, ridotto a questo solo, provi una incredibile inclinazione a buttarsi in un falso misticismo. Il quale è come il bigottismo dei dissoluti di professione. Ma il seguace della religione cattolica con assai più confidenza s' affida alla ragione, come il fanciullo muove più ardito le gambe quando sa d' aver vicina la madre. Da questo provenne dunque che in Germania l' aristotelismo cadente s' avviluppò di nuovo nel falso misticismo, e di nuovo in progresso, rivolgendosi, mostrò ancora l' altra sua gota razionalistica, che ricomparve a pieno discoperta nel Kant e nel Fichte, per riapparire mistica e panteistica nello Schelling e nello Hegel, ove questa filosofia sembra aver determinato il suo corso fatale divorando se medesima. Quegli storici della filosofia che raccolgono le opinioni, che di secolo in secolo corrono intorno a un dato sistema e a un dato filosofo, e le trovano discrepanti, e oltracciò vedono succedere alle lodi i biasimi, o ai biasimi leggeri altri biasimi più gravi (com' è avvenuto dell' averroismo già convinto d' errore nel secolo XIII, ma nel XIV detestato come padre d' empietà e d' immoralità), si persuadono facilmente che in tali giudizi non ci sia altro che talune contraddizioni casuali, la causa delle quali si debba cercare o in un andazzo del tempo o in accidenti stranieri alla scienza; e s' incaricano sul serio di rettificare e di ammoderare, colle loro discrete sentenze, quelle esorbitanze, quelle esagerazioni o contraddizioni. Ma questo tono di superiorità giudiziale, così comune nei nostri tempi, non ha sovente altro fondamento che o una scarsa perspicacia, o la mancanza d' uno studio profondo sulla natura intima delle filosofie che hanno esercitata una lunga dominazione nel mondo. Poichè niuno può essere storico della filosofia se prima non è filosofo egli medesimo . Tale vicenda ci porge, come dicevamo, la filosofia d' Aristotele, ora esposta dai commentatori greci, ora dagli arabi, ora spiegata dagli orientali, ora dagli occidentali. Onde dunque tante diverse interpretazioni spesso contrarie? Se ne dovrà dare tutta la colpa agli interpreti? Onde tante lodi a lato di tanti biasimi? E onde il biasimo e, direi quasi, la detestazione, cresciuta in fine a segno da considerarsi l' aristotelismo come sorgente inesausta d' errori, come germe d' irreligione, come ostacolo al progresso della civiltà, come soffocatore del gusto e non più oggimai tollerabile sulle cattedre? Fu tutto questo l' effetto d' un semplice riscaldo di testa, d' un eccesso appassionato e nient' altro? Così per vero considerano la cosa alcuni storici ed eruditi, che hanno per massima di dire sempre un po' di bene di tutto ciò di cui fu detto male, e un po' di male di tutto ciò di cui fu detto bene. Quanto a noi, siamo d' avviso che tutte le principali maniere d' intendere Aristotele, sebbene diverse ed anche contrarie, trovano qualche fondamento di solidità nella stessa lettera del testo aristotelico. Mi condusse a questa conclusione l' esame del fatto; e di questo fatto si trovano le ragioni: 1 nel disordine con cui furono affastellati gli scritti d' Aristotele: nella perdita di molti di essi, e nel guasto che debbono aver subìto gli altri a noi pervenuti; 2 nella maniera colla quale Aristotele stesso scrisse quasi a brandelli molte sue cose, senza forma sistematica; 3 finalmente nell' imperfezione d' esposizione e di linguaggio. I guasti che debbono aver riportati i libri dello Stagirita nella grotta ove furono nascosti dagli eredi di Neleo, e ci rimasero sì a lungo per sottrarli ai re di Pergamo, che mandavano a caccia di libri per le loro biblioteche; il disordine nel quale probabilmente furono estratti di là; gli errori e i nuovi guasti introdotti nelle copie che ne fece trarre Apellicone, supplendone le lacune con mano imperita, più filòbiblo che filosofo, come lo chiama Strabone (1); la classificazione e la disposizione arbitraria, e i nuovi restauri fattivi da Tirannione e da Andronìco Rodio peripatetico (2); tutte queste sventure debbono aver assai male conciati gli scritti del nostro filosofo, di maniera che or ci è impossibile trovare quanto quelli che abbiamo, s' allontanino da quelli veramente usciti dalla sua mano (3). Ma più ancora di cotesti guasti, doveva influire a rendere incerta e molteplice l' interpretazione della dottrina d' Aristotele, il non averla egli stesso voluta esprimere chiaramente, ancor che non si voglia credere genuina la nota lettera ad Alessandro. Anzi sebbene la tela della dottrina aristotelica sia forse la più ampia che mai alcun filosofo anteriore ardisse d' intelaiare, tuttavia si potrebbe dubitare, senza temerità, s' egli stesso si sia costruito in mente un sistema filosofico unico, netto e coordinato in tutte le parti. Certo (anche senza contare che alcuni dei libri che ci rimangono col nome d' Aristotele non sono autentici, altri non autentici in tutte le loro parti), basta por mente alla maniera e al fine diverso in cui e per cui egli compose quei diversi scritti, per avvedersi tosto quanto debba esser difficile il raccogliere qua e colà i brani sparsi in essi, e intenderli, e accozzarli in unica dottrina, quand' anco nessuno ne mancasse all' interezza del sistema. Si sogliono dividere le opere del filosofo in tre classi, intitolandosi le une «hypomnematika» o memoriali, le altre «exoterika», o cose popolari, e le altre ancora «akroamatika» o cose scolastiche, o se piace meglio, scientifiche (1). Ora i memoriali , scritti per uso proprio, altro non sono che annotazioni, tratti, pensieri, consegnati occasionalmente alla carta, senza alcun metodo scientifico, sol quanto bastasse allo scrittore per ricordarsene. Egli è manifesto che in questo genere di scritture non si deve cercare un sistema compiuto, nè pretendere che sia chiaro a noi quello che l' autore notò perchè fosse chiaro a sè medesimo. Nè manco si può aspettare di conoscere la sua vera mente dai libri popolari , poichè gli antichi filosofi non solo credevano di dover nascondere al popolo una parte, e la più preziosa parte della verità, ma anco si facevano lecito di allettarne e molcerne gli orecchi con insegnamenti, di cui pur conoscevano tutta la falsità. Finalmente i libri acroamatici , riservati ai soli uditori della scuola, e certi anche tenuti via più occulti «en aporretois» si solevano scrivere a bello studio in un modo astruso e misterioso. Laonde nè pure in questi il sistema (quando anco ci si contenesse) potrebbe apparire in piena luce. Al che s' aggiunga, essere tutti questi libri venuti alla posterità così uniti e sparpagliati come dicevamo, anche per la venalità dei librai, che non avrebbero trovato a smerciare facilmente l' intero corpo voluminoso e costoso di tali scritti, e però li spacciavano divisi e con tanta e tale sconnessione, che difficilmente si potè e si può riconoscere a quale delle due indicate classi ciascuno dei libri si debba riferire, e forse uno stesso libro ora è composto di brandelli d' altri da distribuirsi per tutte e tre. Si crede tuttavia che Aristotele abbia lasciato a Teofrasto i suoi libri ordinati e distinti in «pragmateiais», o trattazioni, dette da Cicerone disciplinae partes (1). Ma a queste non pare che possano appartenere gli ipomnematici , troppo imperfetti e d' uso privato, e forse nè pure gli exoterici o popolari , siccome alieni dal sincero pensiero dell' autore, ma puramente gli acroamatici o scientifici, come quelli che soli possono ricevere, e di ricevere son degni, una divisione scientifica (2). E tra i molti libri che si sono perduti d' Aristotele, non possiamo sapere quanti ce n' erano d' acroamatici, anelli forse necessari al sistema. Ognuno intende che, con tutte queste difficoltà gravissime, è vano lo sperare di pervenire a conoscere con sicurezza l' intero sistema filosofico che fu nella mente del nostro pensatore, se pure ce ne fu veramente uno intero. Ma soprattutto a chi attentamente considera la lingua, lo stile, la maniera di scrivere adoperata da Aristotele, non solo in diversi libri, ma anche nello stesso, diversa, cessa la maraviglia del vedere che in diversi tempi e da diversi ingegni il suo pensiero sia stato inteso e spiegato in modi diversi e contrari, e che pure non sarebbe facile convincere una sola delle tante teorie, di non aver a base qualche passo delle opere dello Stagirita strettamente interpretato. Primieramente non c' è un solo vocabolo filosofico che non riceva nei suoi scritti diverse e molte significazioni, e quando l' usa è ben rado ch' egli ci avvisi in quali di esse lo prende. Mancando questo avvertimento, poco giova ch' egli in V dei « Metafisici » abbia raccolto trenta vocaboli o locuzioni tra le più frequenti, e a ciascuna abbia assegnato un certo numero di significati, senza contare che quelle trenta voci sono assai lungi dall' esaurire il suo dizionario filosofico, e che i significati posti a ciascuna non sono ancora tutti quelli ch' egli stesso attribuisce nell' uso che ne fa. Finalmente talora adopera i vocaboli nel significato attribuito dai filosofi anteriori e contrario a quello che assegna egli stesso. S' aggiunga la maniera sospensiva e dubitosa con cui esprime le sue proprie opinioni, sulle quali sembra spesso vacillante. Pone il maggiore sforzo nel suo dire e spende la maggior copia delle parole in ottenere che il lettore senta la difficoltà della questione, men sollecito poi di darne una retta soluzione (1): al qual fine fa largo uso di ragioni pro e contra, e non si sa sempre discernere se parli in persona degli avversari, o in sua propria: e fa uso frequentissimo della particella «pos», che lascia in una cotale incertezza i contorni della dottrina. Come Aristotele insegna che la virtù consiste nel mezzo, così pare che egli si compiaccia di fare altresì delle opinioni (2): cerca di collocarsi tra i due estremi contendenti: distribuisce un po' di ragione e un po' di torto a tutti i filosofi che l' hanno preceduto. E se facesse sempre il taglio netto tra quello che approva e quello che disapprova, s' avrebbe chiaro il suo pensiero: ma non lo fa per tutto, e dice l' una cosa e l' altra, rimettendo troppe volte al lettore l' interpretazione sotto quale aspetto la dica e sotto quale la contraddica. Non solo poi nei libri ipomnematici , ma anche nei sintagmatici (3) egli ragiona di questioni vive al suo tempo, e agitate nelle scuole che Speusippo e Senocrate guidarono dopo la morte di Platone: e suppone che il suo lettore conosca come si conducevano quelle dispute, e quali argomenti s' usavano in quelle pugne, e di quali formule si vestivano, come invero tutto ciò dovevano conoscere i suoi contemporanei. Ma non è questa per noi una delle più piccole cagioni dell' oscurità d' alcuni luoghi dello Stagirita: chè siamo venuti troppo tardi, e di quei filosofi, condiscepoli ed emuli d' Aristotele, non ci rimangono gli scritti, ma frammenti scarsissimi: la solenne voce poi dei maestri, e il frastuono clamoroso dei discepoli svanì ben presto in un assoluto silenzio (4). Che se al presente gli eruditi si affaticano di raccogliere qualche parola o qualche detto, e accozzarlo, e congetturare su qualche punto la maniera speciale di concepire e di favellare in quelle scuole usata: il lavoro è appena incominciato, e la sterilità del terreno non promette abbondevole raccolta. Ma si può spiegare come i discepoli d' un filosofo, suddividendosi tra loro, attribuiscano poi al medesimo sistemi diversi e contrari, e ciascuno accampi a suo favore ragioni non dispregevoli, anche astrazion fatta dalle circostanze indicate, che tutte s' uniscono a contribuirvi nel caso d' Aristotele. Poichè un sistema sta per intero nei principŒ , e le conseguenze sono già tutte in essi. Ma la deduzione di queste può esser fatta bene e male, e da filosofi diversi. Ora, allo storico della filosofia appartiene certamente l' indicare chi abbia posti i principŒ, e chi dedottene le conseguenze: ma questa è la storia dei filosofi e dei loro speciali lavori e non ancora la storia dei sistemi. Il sistema non perde la sua identità, o ch' esso si presenti concentrato nei soli principŒ, o che l' esposizione ne svolga le conseguenze, siano poche o molte, e anche tutte. Colui che ha formulati i principŒ è il solo autore del sistema. Se le conseguenze non sono state da lui dedotte e nè anco prevedute, a lui non appartiene l' imputabilità morale di esse; ma glien' appartiene tuttavia, per dir così, l' imputabilità filosofica, poichè chi ha posto i principŒ ha già posto le conseguenze. Il che vale pel caso in cui i principŒ siano pienamente definiti e determinati. Ma accade troppo spesso, che i principŒ stessi insegnati da un filosofo vengano da lui posti in un modo indeterminato e imperfetto, o che la loro indeterminazione sia intrinseca agli stessi concetti della mente, o dipenda dalle formule verbali, delle quali quei principŒ si vestono. Nell' uno e nell' altro caso il pensiero dei discepoli, che pur accettando senza controversia i principŒ del maestro, non può formarsi, ma tende continuamente a renderli feraci di conseguenze, è naturalmente portato ad aggiungere da sè a quei principŒ che il maestro lasciò nell' indeterminazione, le determinazioni che mancano. Ora, i principŒ stessi determinati diversamente si moltiplicano: determinati a un modo riescono diversi ed anche contrari da quei principŒ medesimi determinati a un altro modo; chè l' indeterminato contiene il diverso ed anche il contrario. Non è dunque fuori di ragione il riferire ad un medesimo filosofo diversi e contrari sistemi sotto quest' aspetto: e possono esser vane in tal caso le contese dei discepoli per vincere chi abbia bene interpretato il maestro e ne abbia colto il sistema: poichè tutti, in un senso, possono veramente avere il sistema del maestro, e in un altro senso non averlo nessuno: l' hanno cioè tutti, se si considera che i loro sistemi, benchè diversi e contrari, giacciono virtualmente nel sistema più indeterminato del comune maestro: non l' ha nessuno, se per sistema del maestro si intenda la sua dottrina materialmente presa con tutta quella indeterminazione nella quale egli la lasciò. Poichè i discepoli, per lo spontaneo progresso del pensiero, togliendovi d' attorno l' indeterminazione che gli dà il carattere, non si mettono nè pure in sospetto d' alterarlo con ciò, e tutti potrebbero intendersi e aver ragione qualora s' avvedessero e convenissero che una delle determinazioni non esclude l' altra, onde il principio indeterminato sta lì per tutti, e questo solo ritengono dal comune maestro. E non fu questa certamente la meno efficace delle ragioni per le quali i seguaci di Platone e quelli d' Aristotele si dividessero in tante sette, e così disparate, senza però trovar mai la via della concordia. Da questo stesso provennero poi altre conseguenze. I principŒ di Aristotele, variamente determinati dai suoi seguaci ed interpreti, racchiudevano altrettanti complessi diversi d' illazioni. Perciò non fa maraviglia che essi, da una parte si traessero al servizio del cristianesimo, dall' altra divenissero sementi dell' empietà. Nei commentari di Averroè prendono questa rea natura. Che i maestri cattolici del secolo XIV come Alberto Magno e san Tommaso, abbiano confutati gli errori dell' arabo commentatore senza veemenza, e che nel secolo susseguente il Petrarca e i dottori domenicani con alto e nobile sdegno combattessero l' araba dottrina, imputandole l' immoralità, la eresia, l' incredulità che vedeano propagata per tutto e annidata nella corte degli Hohenstaufen e penetrata in tutta la parte ghibellina, non può far meraviglia, se non agli storici dell' eclettismo francese. E` assai naturale che i principŒ, fino a tanto che stanno da sè soli, si combattano col freddo raziocinio: armi uguali s' appongano ad armi uguali. E` naturale e giusto del pari, che la corruzione che s' ingenera in appresso quando se ne inducano le conseguenze e se ne fanno le applicazioni alla vita e il contagio ampiamente n' è propagato, venga assalita e investita dall' eloquenza di uomini che ardono d' uno zelo santo e provano nel cuore un crudel dolore che ne li fa lamentare. Ci si dirà forse che le varie difficoltà fin qui indicate tolgono quasi la speranza di pervenire a conoscere con chiarezza tutto l' intero della dottrina aristotelica. E se la cosa è così, come voi ci annunciate un' opera che la espone? o che cosa dunque vi proponete in questo vostro libro che intitolate: « « Aristotele esposto ed esaminato » »? Domanda ragionevolissima a cui brevemente dobbiamo rispondere. Dicevamo che in Aristotele si trova un sistema, ma indeterminato e incerto in molte sue parti, e che a una tale indeterminazione e incertezza si deve reputare principalmente il vario modo d' intenderlo dei suoi interpreti. Ora, questo appunto noi intendiamo far risultare dallo scritto presente nel quale affrontiamo i diversi luoghi nelle opere dello Stagirita sopra le questioni capitali, e facciamo ogni prova di conciliarli insieme. Apparirà che una perfetta conciliazione è almeno a noi spesse volte impossibile, e che talora si presentano principŒ che sembrano piuttosto diversi che contrari; ma esaminato poi il loro valore nelle conseguenze che portano in seno, si scoprono appartenere essi a dottrine contraddittorie e inconciliabili. Abbiamo posta ogni diligenza per iscoprire nei singoli luoghi del nostro autore quale dei molti significati che attribuisce ad ogni vocabolo filosofico sia appunto quello di cui in essi fa uso. Con questa cura si conciliano, a dir vero, in parte i luoghi diversi che si riferiscono a uno stesso punto di dottrina, ma non interamente però. Ora, questa incoerenza dipende, a parer nostro, dall' indeterminazione della dottrina medesima. E il fare che spicchi agli occhi del lettore questo vero, è la prima parte della critica che noi intraprendiamo di fare alla filosofia d' Aristotele. Poichè noi abbiamo già avvertito che il carattere di quest' opera non è già d' essere filologica ; ma d' esser critica , e d' una critica che riguarda la stessa dottrina. In una parola, noi scriviamo come filosofi , scriviamo un giudizio sopra un' antica filosofia: vi ci accingiamo spassionati, senza lasciarci prevenire da alcuna autorità. Questo giudizio nostro (qualunque valore possa avere in se stesso) accusa la dottrina che giace sparsa nelle opere che si attribuiscono ad Aristotele di tre peccati: il primo d' esser formulata in un modo indeterminato e di prestarsi per conseguenza a interpretazioni diverse e contrarie; il secondo d' essere incoerente, anche prescindendo dalle contraddizioni puramente verbali che sono la conseguenza dei diversi significati pei vocaboli, considerata solo la dottrina in se stessa; il terzo d' essere erronea non già in tutte le sue singole parti, ma in ciò che costituisce il fondo e l' unità del sistema. In certe parti farà certamente bella mostra di sè la perspicacia ammirabile e la sottigliezza d' Aristotele, e niun' altra qualità sembra così propria a tanto ingegno quanto questa della sottigliezza . Non ebbe tutta l' antichità, io credo, un' altra mente che fosse più analitica e più dialettica di questa d' Aristotele, e sol essa poteva lasciare ai posteri quel gran monumento aere perennius della sillogistica . E fu questa parte dialettica appunto che innamorò di sè, a buona ragione, tutto il medio evo, nè potrà mai essere, per iscoperte nuove e nuovi progressi, obliata e dismessa: quest' è ancora la parte, per la quale l' aristotelismo recò grandissimo vantaggio alla cristiana teologia che ne serbò sempre riconoscenza. Ho indicato brevemente l' intento dell' opera presente: più ancora che di conoscere storicamente quali fossero le dottrine professate da Aristotele, noi siamo solleciti della verità : il nostro intendimento, lo diremo ancora, non è storico, nè eclettico, ma strettamente filosofico e razionale . L' ultimo risultato, a cui tendono di loro natura le diverse ricerche ed osservazioni che andremo esponendo, si è di vagliare il vero dal falso che ci possa essere in tutto quell' ammasso di opinioni che si presentò fin qui con pretesa d' appartenere agli insegnamenti ed alla dottrina d' Aristotele. Sceverandone il falso e quasi affiggendovi segni, ai quali possa esser da tutti conosciuto, speriamo che si debba scemar il pericolo d' incorrervi nuovamente: porgendo netto il vero, se ci riesce, e procurando di fare che ciascuno veda l' evidenza della sua luce, speriamo che più facilmente se ne conserverà il possesso tra gli uomini, e l' oro che troviamo nella miniera del peripatetismo, separato dalla scoria, potrà essere accresciuto dai moderni con nuovo metallo di buona lega. S' abbrevierebbe di molto il lavoro che il mondo presente aspetta dagli scienziati, che cioè gli restituiscano o ricostituiscano una sana e sufficiente filosofia, qualora non s' avesse più a disputare sul buono e sul reo degli antichi sistemi e specialmente di quello che trionfò di tutti gli altri, l' aristotelismo; ma ne fosse riconosciuta per sempre la separazione. Allora nessuno più abuserebbe d' una incerta autorità nei trattati filosofici a complicare e avviluppar le questioni, e nessuno oserebbe di riprodurre le antiche maniere di dire senza averle prima giustificate e sanate da ogni equivocazione. L' autorità infatti deve essere sbandita dall' interiore della filosofia essenzialmente razionale. L' ufficio dell' autorità è quello di precedere alla mente razionatrice come consigliera e amica, e di susseguire ad essa dando conferma ai raziocinii e aiuto alla persuasione che va troppo lenta e debole dietro all' astratto ragionamento. L' autorità divina oltracciò presta all' umanità un beneficio assai maggiore; supplisce alla ragione quando questa si ferma venuta ai suoi ultimi confini; e la rimette in sulla via se erra nelle cose di suprema importanza, quali sono quelle che riguardano gli eterni destini dell' uomo. Ma tutto questo è sempre guadagno estraneo alla filosofia che si tesse puramente a filo di raziocinio. Se il nostro lavoro contribuirà a rendere più netto e men intralciato il pensiero e il discorso dei filosofi, spacciandolo da un gran numero di concetti e di vocaboli equivoci che sopravvissero in tutta la loro ambiguità alla caduta dell' aristotelismo, esso avrà ottenuto l' uno dei due scopi che gli furono proposti. In tal caso apparecchierà altresì la via (e questo è l' altro scopo) alla seconda scienza metafisica che abbiam promesso di comunicare al pubblico, cioè alla « Teosofia », l' ultima, e per vero la più elevata parte dell' edifizio filosofico, quella in fine che più di tutte le altre esige proprietà nelle voci, distinzione nei concetti, rigore nei raziocini. Propagata l' umana stirpe, e divisa successivamente in nazioni, ella smarrì un po' alla volta, e confuse la memoria della propria origine e della prima sua istituzione. Se si eccettui l' ebraica stirpe, nella quale l' antica tradizione fu conservata per speciale provvidenza, noi vediamo i più dotti del popolo più ingegnoso del mondo, il Greco, ignorare che l' umanità avesse avuto un padre ed una madre comuni (1). Tra queste genti spoglie della storia umanitaria e della primitiva sapienza, e quindi abbandonate a se stesse, nacque la filosofia, e questa toccò tra i gentili il suo apice per opera di Platone. Aristotele fu il più celebre dei suoi discepoli, ingegno di gran lunga meno elevato, ma acre, sottile, laborioso. Se si dovesse prestar fede all' autore d' una sua vita, sia questi Ammonio o Filopono, Aristotele, colla sua scuola, non intendeva punto di combattere il maestro, ma « « quelli che meno rettamente interpretavano le sue sentenze »(2) », il che è quanto dire i suoi condiscepoli Senocrate, Speusippo, Amicla ed altri. Ma molti luoghi delle sue opere e il fondo stesso della sua dottrina ci persuade del contrario. Sappiamo che Platone stesso si lamentava di lui dicendo: « « Aristotele ricalcitrò contro di noi, come i poledri generati, contro la madre »(3) », ed Eliano e Diogene ci narrano l' arroganza del discepolo, che obbligava il vecchio maestro a rimuoverlo dal suo consorzio (4). Oltre di che l' ambizione [...OMISSIS...] , rimproveratagli da Senocrate, era in costui sì grande, che non solo voleva primeggiare nelle filosofiche discipline, ma punto dalla gloria oratoria d' Isocrate, anche alla scuola di questo contrappose una sua scuola d' eloquenza (1). Ma lasciando da parte la storia dei dissapori privati (chè quel solo che a noi importa è la dottrina), reputiamo non potere noi in altro modo condurre questa nostra esposizione e critica della dottrina Aristotelica, che raffrontandola di continuo a quella veramente originale del suo maestro, dalla quale la derivò nella sua miglior parte, e dimostrando in quali sentenze e come dalla medesima s' allontani. Volendo noi dunque esporre ed esaminare a questo modo la dottrina propria d' Aristotele, quale risulta dagli scritti di lui, che a noi pervennero, conviene che incominciamo col determinare quel punto di dottrina, che cagionò la separazione del gran discepolo dalla scuola di Platone. Il qual punto è chiaramente indicato nel libro M (XIII) dei metafisici con queste parole: [...OMISSIS...] . E lasciando per ora i numeri, quelli che pongono le idee, « a un tempo fanno le idee (2) come essenze universali, e di nuovo come separate, e come predicate dei singolari. Ora noi abbiamo già prima dubitato che la cosa vada così. A coloro che dicono le idee universali, il non dar essi le stesse essenze ai sensibili fu cagione che unissero in un medesimo queste contraddittorie attribuzioni. Poichè credevano che i singolari, che sono nei sensibili, fluissero: e niuno di essi permanesse: l' universale poi fuori di questi non solo essere, ma essere un altro che. Questo pensiero fu mosso da Socrate per le definizioni, come abbiamo detto avanti, ma non le separò dai singolari. E vide bene, non separandole. E` manifesto dall' opere. Poichè senza gli universali non si può ricevere scienza. Ma il separare è la causa delle difficoltà, che occorrono intorno alle idee:. [...OMISSIS...] Il punto dunque, che cagionò lo scisma aristotelico fu la separazione delle idee. Egli riconosceva: 1 che senza le idee universali non ci può essere scienza [...OMISSIS...] , ammetteva dunque idee universali; 2 riconosceva altresì in queste qualche cosa di stabile e di eterno, onde viene la necessità della scienza, e lodava Socrate per aver eretta la morale su definizioni delle essenze incorruttibili delle cose; 3 ma diceva, dopo di ciò, che Socrate non aveva mai pensato a dividere le essenze delle cose sensibili da queste, e che aveva ben veduto non separandole. Biasimava perciò coloro che delle idee fecero altrettante sostanze sussistenti da se medesime diverse dalle sostanze sensibili, e trovava una contraddizione nella dottrina di questi filosofi, che ad un tempo stesso facevano le idee: 1 essenze universali; 2 essenze separate dei singolari; 3 essenze dei singolari; [...OMISSIS...] quasi facessero le idee ad un tempo stesso universali e singolari, e affermassero e negassero, che fossero le essenze dei singolari. Egli dunque disse che le specie si separano bensì colla mente, ma sono realmente negli individui reali sussistenti. Essendo nella mente separate dalla materia, danno luogo alla scienza; essendo negli individui reali, sono le vere forme sostanziali ed individue di questi. Alla difficoltà poi, che le cose sensibili siano di continuo fluenti, e non possano per conseguenza avere nulla di stabile, come pur sono le essenze, rispose col fare la materia eterna e immutabile, e ridurre le specie ad un' ultima eterna sostanza, scevra d' ogni materia, mente divina; a cui le cose tutte tendendo incessantemente, come al bene, acquistassero la specie di cui sono capaci. Così credette d' aver trovato due punti fissi e quasi due poli: la materia prima e l' ultima divina forma . Ma questo era un ricadere in sostanza nel sistema del suo maestro circa le idee: perchè concedeva la necessità, che esistesse una prima e suprema forma separata e per sè essente. Nè voleva certamente di più Platone, che, quantunque riconoscesse nelle idee la necessità eterna di essere, le riduceva nondimeno anch' egli in una mente prima, e le dichiarava esistenti in virtù degli atti di questa mente. Perciò non fa maraviglia, che molti in tutti i tempi credessero possibile di conciliare la dottrina aristotelica colla platonica, dichiarandola piuttosto diversa nelle parole che nella sentenza (1). E benchè noi crediamo questa conciliazione impossibile, tuttavia egli pare che Aristotele affetti talora di mostrarsi discorde da Platone anche quando non è; e che in quei luoghi, nei quali s' attiene alla dottrina del maestro, benchè con altre espressioni, proceda con lucidezza, in quelli nei quali se n' allontana veramente, si perda spesso in sottigliezze, equivoci e difficoltà inestricabili. Uno di questi luoghi è appunto quello in cui pretende che le specie stesse, che nella mente sono universali, inesistano come particolari negli individui reali, cadendo così nella stessa contraddizione che imputa ai suoi avversari [...OMISSIS...] e che non si può imputare certamente a Platone, il quale non pone le idee stesse nei singolari sensibili, ma solo in questi riconosce delle copie «ektypa», di quegli esemplari. Il concedere, come Aristotele fa costantemente, che « « senza gli universali non ci può essere scienza » », giacchè la necessità stessa della scienza nasce dall' universalità (1), e nello stesso tempo affermare, che gli universali sono nei singolari, è appunto, come dicevamo, e come meglio vedremo in appresso, dichiarare le essenze singolari ad un tempo e universali. Sembra che Aristotele cerchi di nascondere questa contraddizione sua propria, che indebitamente riscontra nella scuola di Platone, non solo ai suoi lettori, ma a sè medesimo, colla varietà e quasi direi sinuosità del linguaggio e della maniera di concepire. Ora, essendo in Aristotele la maniera di concepire universalissima e del tutto formale (2), avviene ch' egli riponga sotto uno stesso vocabolo, e tratti ad un tempo cose le più disparate, riunendole sotto le medesime vedute logiche. Possono infatti vestire una stessa forma logica entità reali, ideali, dialettiche etc. (3). Ma questa maniera di ragionare rompe tutte le classificazioni naturali degli enti; e da una parte si possono far comparire, come aventi una stessa natura, cose di natura diversissime: dall' altra si moltiplicano gli enti senza necessità, chè una stessa entità diventa molte davanti al pensiero, rivestita di varie relazioni logiche e di vocaboli ad esse corrispondenti. Nel passo citato in principio del nostro discorso si nominano idee, essenze, universali. Ma tutte queste parole, e quant' altre si riferiscono alla stessa questione, cangiano di significato ad ogni piè sospinto nel dettato aristotelico: per raggiungerlo conviene che teniamo dietro ai suoi andirivieni. Cominciamo dall' essenza, o se vogliam mantenere la parola greca, dall' «usia». . [...OMISSIS...] Ma ciascuno di questi quattro modi si moltiplica. Poichè del subietto dice continuando che in un modo questo si dice materia «he hyle», in un altro forma, «he morphe», in un terzo il composto della materia e della forma, «to ek tuton». Chiama poi la forma « « lo schema dell' idea, » [...OMISSIS...] . Sono tre dunque i significati della parola subietto , e questo è uno dei quattro significati della parola «usia». Un altro di questi quattro significati è la quiddità , ma questa si divide anch' essa per lo meno in tre significati. Poichè dice in un altro luogo che le cause come quiddità, [...OMISSIS...] , sono: il tutto, «to holon», la composizione, «he synthesis», e la specie «to eidos» (3). Che cosa dunque è la quiddità, il «to ti en einat»? Secondo il primo e proprio significato « « non c' è quiddità in altri se non nelle specie del genere »(4) »: poichè questa è l' oggetto della definizione. Per questo la quiddità è una specie, «to eidos», ma non tutte le specie sono « specie del genere ». Infatti la parola specie s' applica da Aristotele al genere stesso e a tutte le idee. Quando dunque Aristotele dice, che la quiddità è la specie, deve intendersi unicamente della specie sostanziale, che è la sostanza categorica, che si predica degl' individui, e non deve intendersi degl' individui stessi. Ora se la quiddità è la specie, o come anche dice, è la specie del genere, dunque è un universale: tant' è vero che ammette definizioni, e che i singolari non l' ammettono. Ma quando dice, che anche il tutto, «to holon», e la composizione «he synthesis», è quiddità, allora si può intendere tanto la quiddità degli individui reali, quanto quella degli individui ideali: poichè il tutto e la composizione possono esser pensati come possibili, ovvero anche come sussistenti. C' è dunque sempre la dimenticanza (pur comune ai filosofi) di tener separato l' ordine ideale dall' ordine reale (1). Ora il tutto ideale, e la composizione ideale è la stessa specie sostanziale , quando però il tutto abbia unità, senza di che non potrebbe avere definizione (2), e per composizione s' intenda quella che mette l' ente in atto. Un altro dei quattro significati dell' essenza è il genere . Ora qui siamo in un universale ancora più esteso che non è la specie: ma la stessa parola genere riceve molti significati (3). Come dunque, non contento di queste definizioni, aggiunge che l' «usia» è anche l' universale? Non l' aveva già affermato dicendo che significa la specie e che significa il genere? Per Aristotele non c' è universale che non sia genere o specie. Ma convien dire che introduca qui l' universale come nuova parola, che dice lo stesso con una relazione logica diversa. Pure quando prende l' «usia» prima e singolare, allora s' affatica a dimostrarvi ch' ella non può essere un universale (4). Come dunque crede d' evitare la contraddizione? Da una parte l' «usia» in senso primo e proprio non è e non può essere l' universale; dall' altra l' «usia» è la quiddità, l' universale, il genere, parole tutte che indicano universalità. Risponderemo forse col distinguere la prima e la seconda «usia» (5), e diremo che la prima sola non è universale, e che quando insegna che l' «usia» si dice in quattro modi (poichè « sembra essere «usia» a ciascun ente la quiddità, l' universale, il genere, il subietto di queste cose ») parla solo dell' «usia» seconda ? La risposta non appagherebbe, poichè per lo meno il subietto deve appartenere alla «usia» prima , come quello che non si dice d' altra cosa, ma di lui le altre cose si dicono. Osserveremo ancora che in quel luogo parla dell' «usia» senza fare alcuna distinzione tra la prima e la seconda. Vero è che il subietto stesso può essere ideale o reale (le due modalità perpetuamente confuse), e che il subietto ideale è un universale anch' egli (1); onde questo secondo apparterrebbe alla sostanza seconda, che si può predicare della prima (2). La parola «usia» dunque sarebbe usata equivocamente, quando dicesi «usia» seconda : il che involge di necessità tutti i ragionamenti in equivoci inestricabili, se non s' emenda il linguaggio. Ma noi crediamo che la maniera, con cui Aristotele tenta di conciliarsi con se stesso, non si limiti ai due significati della parola. Acconsente egli che un vocabolo abbia diversi significati, purchè si riferiscano tutti ad un primo e proprio, e gli altri nascano dalle relazioni delle cose nominate colla prima nominata in senso proprio (3). La seconda «usia» dunque ripeterà il suo nome di «usia» dalla prima. Ma come è possibile questo, se la prima è singolare e non si predica d' altra cosa (4), e la seconda è universale e si predica? Come l' universale riceverà il nome dal singolare? E` sempre la stessa questione, che ritorna, delle due attribuzioni contrarie: all' «usia» si dà l' essere singolare ( «usia» prima ), all' «usia» si dà l' essere universale ( «usia» seconda ). Il dire che questa venga dalla prima è un tentativo di conciliazione: è la soluzione della questione aristotelica, che rimarrà ad esaminarsi, ma questa soluzione ad ogni modo suppone le due attribuzioni di universale e di singolare date alla cosa stessa, all' «usia»: contraddizione, di che a torto si accagionava Platone. Esaminiamo dunque brevemente questa soluzione di più in appresso. Nel libro E (VI) dei metafisici, nel quale Aristotele dà i vari significati delle parole filosofiche, in vano si cercherebbe quello di cui abbisogniamo, dell' universale : convien dunque che noi lo raccogliamo dai vari luoghi, nei quali Aristotele ne fa uso, e dall' intrinseca natura del medesimo. Tra i vari sensi che riceve la parola universale , noi dobbiamo fissare quei due che divennero il fondamento delle due filosofie di Platone e d' Aristotele; e che nascono da due maniere diverse di concepire, vere in se stesse entrambe. Per legare a nomi questi due universali chiameremo l' uno idea , l' altro individuo vago . Il primo nome di idea è usato da Platone, ed evitato, quanto mai può, da Aristotele che le sostituisce i vocaboli di specie e di genere . Il secondo nome di individuo vago non si trova nè in Platone nè in Aristotele ed appartiene agli scolastici, ma è opportunissimo a indicare quell' universale, in cui massimamente concentrò la sua attenzione Aristotele, e con cui volle discacciare di luogo l' idea platonica. Che queste due maniere d' universali cadano nella mente umana apparirà chiaro a chi avrà ben intesa la distinzione delle due fondamentali facoltà, da noi distinte nella medesima, dell' intuizione e dell' affermazione (1). L' intuizione ha per oggetto un' essenza intelligibile , che, a quel modo che si rappresenta all' uomo, dicesi idea . In questo pensiero non cade alcun individuo reale, anzi nessuna realità. La riflessione poi trova la possibilità che quell' essenza intelligibile venga realizzata; trova ancora che ordinariamente può essere realizzata in molti individui; e conchiude che l' idea è universale: quest' è il primo universale , che diremo platonico. La seconda facoltà, cioè l' affermazione , comincia a produrre i suoi atti nelle percezioni dei reali sensibili : giacchè queste percezioni inchiudono sempre almeno una implicita affermazione (2). L' oggetto della percezione è un reale, che in essa s' afferma. Il reale compiuto, su cui non è stata ancora esercitata astrazione di sorta, è un individuo , un individuo , dico, reale e però un singolare. Ora diamo un uomo, che abbia conosciuto in tal modo un dato individuo reale . Costui può dire indubbiamente a se stesso: Quest' individuo reale, ch' io conosco, è possibile, poichè ciò che esiste è possibile. Dopo aver detto ciò, può dire ancora, facendo uso della sua immaginazione: Ecco che io immagino un altro individuo reale uguale a questo, e del pari un altro, e un altro, all' infinito. Finalmente egli domanda a se stesso: Che cosa ho io pensato fin qui? forse delle astrazioni? e risponde: No certo, ho pensato un numero determinato d' individui reali e non più: ciascuno di questi individui esiste esclusivamente in se stesso, e niuna sua particella, per menoma che sia, è comune a ciascun altro. Io non ho fatto altro, che affermare coll' immaginazione un individuo dopo l' altro, che vedere la possibilità d' individui reali: tutto ciò che è in ciascun individuo pensato rimane sussistente in lui, e fuori di lui non sussiste. Questo è l' individuo vago . Ora, è egli un universale? Se è un universale, è una maniera d' universale ben diversa dalla prima. Poichè, se si vuole descrivere questo concetto, si avrà che con esso si universalizza l' esclusione dell' universale. E in vero, quando si dice individuo reale, si dice: non universale. Onde col dirsi: è possibile questo non universale, altro non si dice se non: E` possibile questo non universale (1). L' universalità qui giace nella possibilità della non universalità. In questa maniera Aristotele si persuase d' aver escluso l' universale nel senso platonico sostituendo l' individuo vago , cioè il pensiero d' individui reali: si persuase d' avere lasciato l' universale come fondamento della scienza e del raziocinio nella possibilità che si replichi il pensiero dell' individuo reale. Senza bisogno d' ammettere alcun universale esistente nella natura delle cose, si persuase finalmente d' aver conciliata in tal modo l' universalità e la singolarità delle essenze. Laonde definendo l' «usia» non solo dice che è la materia, l' ultimo subietto, che non si predica d' altro (2), ma è anche la forma e la specie. Or come ciò? Si badi; la forma e la specie non prese in se stesse, ma inesistenti nelle cose reali o singolari, [...OMISSIS...] , però quella forma e specie che sia un che determinato realmente, [...OMISSIS...] . E ciò, perchè c' è sempre nella parola essenza i due significati d' ideale e di realizzata, e Aristotele si attiene a questo secondo, di maniera che parla di quell' essenza che si contiene nel concetto di individuo vago , che è quello della stessa realizzazione. I questo modo la causa formale essendo realizzata, non si predica del subietto, perchè il reale non si può predicare del reale (1): e così presa anche l' «usia» seconda è in sè reale e singolare, e conviene in questo colla prima. Appartiene dunque all' individuo vago: questo spiega perchè Aristotele desse il nome d' «usia» non solo alla prima (l' individuo) ma anche alla seconda (il genere e la specie): anche questa in quanto inesiste, è singolare e reale. Di qui si scorge ragione del perchè Aristotele non parli mai in un modo diretto e assoluto dell' essere , come d' una cosa unica e da sè; ma in quella vece vi dirà come l' essere si predica o per accidente, o per sè (2); e quando parla dell' essere che si predica per sè, vi dirà che l' essere sono le dieci categorie, di maniera che l' essere come essere non ha unità, è nulla, è solo una maniera di concepire le diverse categorie; come pure ciascuna di queste non ha neppur essa unità e, non essendo una, è nulla (poichè ogni cosa che esiste, esiste come uno), onde di nuovo non è anch' essa altro che una maniera di concepire gli individui reali , i quali solo esistono da sè, «choristos» (3). L' oggetto dunque del pensare è il singolare , l' individuo reale . L' universale poi rimane del modo con cui si pensa l' individuo reale, perchè si può pensar questo individuo reale, e poi si può pensar quello, e poi un altro, e così via: e c' è sempre la possibilità di replicar l' atto ( individuo vago ). Quindi le categorie stesse, se si considerano come realizzate in individui, sono singolari e reali. Ma c' è differenza tuttavia tra la prima categoria, cioè l' essenza sostanziale e l' altre. Poichè la prima dà il nome e la natura all' individuo: così quest' uomo riceve il nome e la natura dall' essenza umana e non dalla qualità del color bianco o da altra categoria (1): onde la prima, realizzata che sia, è lo stesso individuo reale, non così l' altre, che si predicano della prima, e si possono predicare e negare molte volte dello stesso individuo, come se un uomo cangiasse più volte di colore. Di che queste conservano un' altra specie di universalità predicabile, oltre quella propria dell' essenza sostanziale. Quindi la sola sostanza si divise in prima e seconda: intendendo per prima l' individuo reale (2), e per seconda l' essenza sostanziale realizzata nell' individuo, per esempio l' umanità realizzata in Socrate, di cui l' altre categorie o essenze accidentali si predicavano. Crede dunque Aristotele di conciliare l' universalità e la singolarità dell' essenza sostanziale a questo modo: « « l' essenza sostanziale è universale, perchè la mente può pensarla in quanti individui reali ella vuole, ed è singolare, perchè ella non esiste che in ciascuno di questi individui » », è la causa formale della loro esistenza, è ciascuno di essi. Quindi domanda: « « l' essenza sostanziale è universale? è, cioè, di quelle cose che si predicano universalmente? » ». E risponde di no e di sì. [...OMISSIS...] . Con queste ragioni dimostra, che l' essenza sostanziale non può essere un universale; ma egli volge il discorso e risponde anche di sì, cioè che può essere sotto un altro rispetto. [...OMISSIS...] . Vien dunque a dire, che quello stesso universale, se trattasi di quiddità o d' essenza sostanziale, inesiste realmente nell' individuo reale e così è singolare e proprio. L' uomo (l' essenza umana), a ragion d' esempio, è universale in se stesso considerato, ma in quell' uomo reale nel quale inesiste è singolare: l' animale (l' essenza animale) è pure universale considerato da sè; ma inesiste come proprio e singolare nella specie e non esiste da sè, separato. Vero è, che tutto ciò, che si contiene nell' essenza sostanziale d' un individuo reale, non ha una ragione o una definizione: come se prendiamo la ragione d' animale, o d' uomo, questa ragione non abbraccia tutto ciò, che costituisce l' essenza sostanziale e la quiddità d' un uomo singolare e reale; ma non è meno vero, che l' animale, o l' uomo inesiste, come essenza sostanziale, in un modo proprio, nell' individuo reale: e costituisce la causa formale di lui (3). In fatti, continua a dire, poniamo, che l' ousia prima sia un prodotto, come vogliono i platonici che sia la partecipazione dell' essenza. Ne verrà, che l' essenza ( ousia seconda ) sia quella che inesistendo in un individuo reale lo costituisce ciò che è, cioè un' ousia prima . Or se quella non fosse sostanza (essenza sostanziale), sarebbe una qualità o tal altra cosa accidentale; e come allora potrebbe essere costituita una sostanza da ciò che non è sostanza, ma cosa di posteriore alla sostanza? (1) Se poi l' essenza seconda (universale) fosse un' essenza diversa dall' essenza prima e singolare, e quella costituisse questa, ci sarebbe una dualità di sostanze nello stesso individuo, per esempio, in Socrate; [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che l' essenza costituente, e l' essenza costituita sia la medesima. Convien dunque conchiudere, che quella stessa essenza sostanziale, che in quanto si predica di molti è universale, cioè l' ousia seconda , sia quella stessa essenza sostanziale che costituisce l' individuo reale, ousia prima , ed esistendo in questo, è singolare, e questa essenza singolare sia perciò lo stesso termine della predicazione; affermandosi col predicare questa essenza reale nell' individuo. Poichè non c' è un' essenza sostanziale, che non sia di nessuno individuo, ma ogni essenza sostanziale è di qualche individuo, [...OMISSIS...] . Fuori dunque degli individui reali, ossia delle prime essenze sostanziali, altra essenza sostanziale non esiste, che sarebbe superflua a costituire gl' individui reali, e un impaccio. L' essenza sostanziale dunque presa da sè e non riferita ad individui non è punto: [...OMISSIS...] . In questa maniera Aristotele credeva di uscire da quell' ambiguità, da quella specie d' antinomia, in cui la questione degli universali involgeva la mente. Poichè 1 da una parte gli universali sono necessari a costituire la scienza, nulla sapendo l' uomo senz' essi; 2 dall' altra gli universali, come universali, non possono esistere, poichè tutto ciò che esiste è l' individuo singolare, e quest' è ancora l' oggetto vero del conoscere. Ai platonici, che ammettevano le essenze universali separate, le idee, e i singolari esistere per la partecipazione di quelle, faceva questo argomento: [...OMISSIS...] . Credette dunque di comporre quest' alternativa, che secondo lui resisteva al sistema platonico, dicendo: 1 che c' era qualche cosa di singolare negli enti, che non ammetteva alcuna ragione universale , e quest' era « il subietto ultimo »la prima materia: 2 che c' era negli stessi enti qualche altra cosa (l' essenza seconda, cioè la specie e il genere, e l' altre categorie), che si predicavano universalmente e in comune: questo predicarsi universalmente non voler dir altro, se non che lo spirito umano può attribuire a diversi individui la stessa qualità. Ma questa qualità predicata può essere essenziale, ed è quella che si dice « sostanza seconda », e significa un quale circa la sostanza prima, [...OMISSIS...] . Quest' è quella qualità sostanziale, quell' universale (la specie e il genere), che illustra, fa conoscere la sostanza prima, e però si chiama sostanza seconda (4). Ecco dunque che cosa sono gli universali d' Aristotele; non sono, nel senso proprio e vero, sostanze, ousie , come li vuole la scuola platonica: quindi sono posteriori alle sostanze (per le quali sempre s' intende la realità), qualità di esse, qualità o essenziali o accidentali. Ma così è forse sciolta la questione? Non ancora; perchè rimane a domandare tuttavia « come questi universali esistano nei singolari ». Da prima risponde, come vedemmo, che ciò, che si afferma colla predicazione, si afferma esistente nell' individuo singolare e reale, come una qualità di questo; perciò la cosa affermata è anch' essa inesistente come singolare e reale. Ma perchè dunque si dice universale? Perchè lo spirito può replicare lo stesso atto di predicazione rispetto ad altri individui. Questa risposta, di cui si fecero forti i nominali, non può soddisfare, se non a chi non l' analizza. E veramente, sia pure che lo spirito predicando affermi d' un individuo una qualità reale, e d' altri ancora la stessa qualità in ciascun d' essi reale, ma rimane a spiegare come questa qualità sia la stessa . Come più qualità reali, ciascuna delle quali inesiste come propria in diversi individui, possono essere una stessa qualità? Nè varrebbe il dire, che non sono le stesse, ma simili : poichè più cose non sono simili, se non hanno almeno qualche elemento uguale . Ritorna dunque la questione: « come più elementi reali possano essere un elemento uguale ». Aristotele crede di sfuggire alla difficoltà con una parola nova che introduce: dice dunque, che è uguale la loro ragione , «logos», distinguendo la realità dalla ragione della medesima, come vedemmo ne' passi citati. Ma una parola nova non iscioglie la questione. Che cosa è la ragione della realità? Ecco quello che Aristotele non dice, e dove rimane sana e salva, sebbene appiattata, l' idea che si vuole escludere. Questa ragione dunque sarà la conoscibilità delle cose, l' universale fuori delle cose. Si dirà che ella è un atto della mente? Sia pure. Ma che un atto della mente sia un quale della mente, s' intende: ma non s' intende come un atto della mente sia un quale delle cose, se pure le cose, per esempio le pietre e gli alberi, sono sostanze diverse dalla mente, e non la medesima sostanza prima, «usia protos». Il problema dunque della cognizione umana, come pure quello de' generi e delle specie delle cose, rimane insoluto, nelle mani del discepolo dissidente di Platone. Abbiamo veduto, che la parola subietto, secondo Aristotele, si prende in tre significati, come materia, come forma, e come l' ente reale composto di materia e di forma. La materia è il subietto ultimo di cui tutto si predica, anche l' essenza sostanziale, o sostanza seconda. Il composto di materia e di forma è un subietto, di cui propriamente non si predica l' essenza sostanziale seconda, che è uno de' componenti (la forma), ma gli accidenti. Del subietto come forma, cioè dell' essenza sostanziale o sostanza seconda, si predicano del pari gli accidenti (1): onde questi sono predicati di predicati, e però vengono ad avere una doppia universalità. Ma restringendo il nostro parlare alla forma, cioè all' essenza sostanziale o sostanza seconda, questa è quella, come vedemmo, che fa conoscere l' essenza prima, ne dichiara la natura, ne è, si può dire, la sua intelligibilità, in quant' è universale, ossia concepita come comune o predicabile di molti individui. Ma qui appunto s' affaccia ad Aristotele una nuova difficoltà: se cioè la forma reale e la specie siano cose perfettamente identiche. Il sistema aristotelico esige strettamente questa identità, perocchè in un tale sistema non esistono specie fuori degl' individui reali; e però spesse volte Aristotele usa promiscuamente dell' una e dell' altra parola. Ma non può reggere a lungo in questa confusione di cose così disparate, l' una essendo una realità, l' altra una idealità. Che cosa fa egli adunque? Ricorre all' espediente di dare due significati diversi alla stessa parola specie , o alla stessa parola forma . Chi non sente qui l' imbarazzo e la contraddizione? La specie è diversa di materia in Callia e in Socrate, ma è la medesima di specie . Conviene dire che la specie riceva in queste parole due significati, cioè sia adoperata specie per forma reale , la quale è molteplice e può considerarsi come subietto [...OMISSIS...] , e sia pure adoperata per specie o idea universale, qual è nella mente, che certamente è una e indivisibile (1). Ora, come poi quella forma reale , che dice in un modo essere subietto, sarà schema dell' idea, [...OMISSIS...] , come altra volta l' ha chiamata? (2). Che differenza c' è dunque tra lo schema dell' idea , e l' idea ? Questo rimane oscuro in Aristotele, non potendosi nel suo sistema interpretare questo schema, come si potrebbe in quello di Platone per una cotale copia dell' idea esemplare, nel qual modo cessano le difficoltà. Un altro impaccio. - Aristotele dice, che [...OMISSIS...] . Come poi, essendo uno e semplice, possa inesistere in molti, questo non lo dice, non soddisfacendo la spiegazione, che abbiamo esposta nei capitoli precedenti. Quando poi dice, come testè vedemmo, che è diverso nei molti per la materia, ed è il medesimo per la specie, [...OMISSIS...] , allora non s' accorge, che questa specie appunto, e non altro, è l' universale; onde il dire, che l' universale è il medesimo per la specie, è lo stesso che dire, che « « l' universale è il medesimo per l' universale » », cioè per se stesso, e se è il medesimo per sè, come dunque sarà diverso per la materia restando universale? O come sarà identico al singolare quello, che è universale per sè? L' attribuirgli un nome novo, quello di ragione, «logos», questo, come vedemmo, lascia la questione intera, come prima. Laonde, spinto dall' evidenza del vero, talora gli viene detto il contrario (senza avvedersi della contraddizione), come là dove, dopo aver parlato delle prime sostanze, cioè delle sostanze singolari che chiama « primi degli enti », dice che nelle sostanze seconde, che sono una classe d' universali, inesistono le prime, come nelle loro specie, [...OMISSIS...] . Questa maniera, che si adatta ottimamente al sistema platonico, è al tutto discrepante dall' aristotelico. Del rimanente l' una e l' altra delle due opposte espressioni, prescindendo dai sistemi, ha la sua verità. Poichè dovendosi distinguere in tutti i percepiti e i concetti la comprensione e l' estensione , sotto l' aspetto della comprensione gli universali sono nei singolari, e sotto l' aspetto della estensione i singolari sono negli universali. Ma convien riflettere, che quando noi diciamo, che gli universali sono ne' singolari, intendiamo (e non si può intendere altramente), in quanto sono percepiti o concepiti nella mente, perchè solo nella mente si può congiungere l' unico universale ai molti singolari. E tuttavia non v' ha dubbio, esser vera, assolutamente parlando, ed essere importante e luminosa questa sentenza di Aristotele: « « tolte via le sostanze singolari, non ci sarebbe più nulla »(2) ». La qual sentenza non gli può essere certamente contesa da Platone, che ogni cosa deriva da Dio, alla cui natura compete al sommo l' unità e la semplicità. Ma il guaio sta nell' applicare questo stesso principio alle cose finite e mondiali, alle quali pure l' estende Aristotele. Se questo filosofo avesse posta la necessità d' una sostanza singolare precedente a tutto, mente infinita, dove fosse l' universale eterno, e quindi la fonte delle idee, sarebbe andato d' accordo con Platone. Ma parlando delle specie in relazione agli enti reali della natura, pretese, che anche in quest' ordine le sostanze singolari precedessero agli universali. Egli non potè certamente mantenere un linguaggio coerente a un tale assunto. E veramente, se le sostanze prime e singolari sussistono nelle specie come potranno essere i primi degli enti? Il contenuto potrebbe essere prima del contenente? Aristotele medesimo dice di no; insegna anzi, che i contenenti si dicono anteriori ai singolari; [...OMISSIS...] . Di più egli riconosce senza esitazione, che la sostanza singolare riceve il suo nome e la sua definizione, e quindi la sua quiddità (2) dalla specie che di essa si predica, e che perciò è universale. [...OMISSIS...] La quiddità dunque viene alla sostanza singolare dalla specie universale, che le s' attribuisce, e quella si conosce dalla mente con questa. Come dunque quella sarà prima, se riceve la sua quiddità, l' esser quello che è, da questa? Come sarà prima ciò che si conosce, di ciò, con cui si conosce? Come si avrà il fine prima d' avere il mezzo necessario ad ottenerlo? Si può stringerlo ancor più cogli stessi suoi ragionamenti. Poichè egli pone, che gli accidenti sieno nelle sostanze, come in loro subietto. Dall' essere essi nelle sostanze, argomenta che non sono dunque i primi, e che senza le sostanze non ci sarebbero le altre cose degli enti (4). Ottimamente; ma quest' argomento trae la sua forza dal principio accennato, che « il contenente è anteriore al contenuto ». Ora egli colloca le sostanze singolari nelle specie, che danno loro la quiddità. Come dunque non deduce, secondo lo stesso principio, che le specie abbiano un' anteriorità a quelle singolari sostanze, e in quella vece pretende che sa il contrario? In un altro luogo, volendo provare, che non ci sono elementi comuni alla sostanza e all' altre categorie, dice che, se ci fossero, sarebbero anteriori alle categorie, perchè l' elemento è anteriore a ciò, che consta d' elementi. Ma anteriormente alle sostanze non c' è nulla. Riconosce dunque che il più comune, ossia il più universale ha un' anteriorità al singolare (1). In un altro luogo però dice, che la materia e la ragione «logos» cioè la specie, in quelle cose che si fanno per natura, sono ad un tempo (2). Se sono dunque ad un tempo la materia e le specie componenti la sostanza reale, come questa può esser prima, e non tutt' al più coeva a quelle? Pur egli va avanti e trae da quelle premesse questa conseguenza: [...OMISSIS...] . Ma qui c' è un salto nel ragionamento, perchè da premesse, che riguardano cose naturali e reali, si passa ad una conclusione che riguarda l' ordine delle cose ideali . C' è anche una petizione di principio, perchè sarebbe vero, che, essendo nelle cose reali la forma e la materia ad un tempo, non fossero necessarie le idee, quando non ci fosse da spiegar altro che le cose reali; ma se oltre queste ci sono le specie, se ci sono le cose possibili , che non essendo reali pur sono qualche cosa, in tal caso, ci sono anche queste da spiegare, e così le idee ridivengono necessarie. Quella conclusione dunque vale a condizione, che sia vero il principio, che colla conclusione stessa si vuole stabilire: pecca dunque di circolo. E questa conclusione era probabilmente venuta, o certo più facilmente ammessa, per una falsa maniera di parlare già introdotta nelle scuole, e da Platone stesso, mi pare, usata, od accettata, quella cioè che chiamava la materia il tuttinsieme «to synolon», o tutte cose, «panta», onde la questione [...OMISSIS...] come la propone Aristotele, questione che ha una ripugnanza intrinseca. Aristotele fa dunque gli universali ora posteriori, ora simultanei, ora anteriori ai singolari. Ma vediamo, se facendo uso delle sue sottili distinzioni, possiamo conciliarlo seco medesimo. Circa l' anteriorità nell' ordine della cognizione, che dice essere un' anteriorità assoluta (1), così distingue: [...OMISSIS...] . Ma che secondo il senso sieno anteriori i singolari agli universali, non c' è, a dir vero, bisogno di dirlo: poichè il senso, secondo Aristotele stesso, è dei soli singolari, e non raggiunge punto nè poco gli universali, se non per un certo parlare improprio e traslato. Laonde, quando Aristotele gli attribuisce gli universali per accidente (2), altro non fa che impacciare la nettezza del ragionamento, non potendo significare un tal modo di dire, così caro al nostro filosofo, se non che l' intendimento vede nella sua universalità quello, che nel senso è singolare. Ma il vedere questo non è altro, che il vedere la ragione della cosa sensibile, ossia la specie , la quale non è certamente lo stesso sensibile reale, nè con lui si può confondere, ma è appunto l' universale, e nient' altro che questo, riferito al singolare. Ora, secondo Aristotele, il solo intendimento ha per oggetto l' essere o la ragione della cosa (prendendo Aristotele questi due vocaboli come equivalenti): l' ordine dunque della cognizione, «kata logon», è l' ordine dell' essere e della verità, che nella mente e non nel senso si trova. Di nuovo dunque, nell' ordine dell' essere delle cose, l' universale è anteriore al singolare, parlando sempre delle cose contingenti. Finalmente, secondo lui, sono anteriori le sostanze singolari, perchè, dice, queste sole producono le altre colla generazione, e non producono la specie separata dalla materia, ma tutt' insieme. Quei primi principŒ, che sono in atto, « « non sono universali. Poichè il principio dei singolari è singolare. L' uomo detto dell' uomo è universale, ma non ce n' è alcuno »(1) »; ci sono soltanto degli uomini singolari. Quelli dunque sono i principŒ, e i principŒ sono anteriori. Ottimamente. Ma questo non prova, se non che il singolare generante è anteriore al singolare generato: il che non ha a far nulla colla questione delle specie. Questa comparisce ben tosto appresso, quando convien spiegare come la specie , essendo una e comune a molti, non sia qualche cosa di diverso da ciascuno dei molti, ed anteriore a tutti i singolari, e generanti e generati, potendo ella accomunarsi colla mente anche a qualunque numero di singolari possibili. Qui si sente l' imbarazzo del nostro filosofo, che si involge nell' oscurità. [...OMISSIS...] (2). Dunque s' abusa della parola specie , perchè 1 si dice che la specie mia non è la sua , la specie di ciascuno singolare è diversa (qui si prende evidentemente come forma reale ); 2 e pure si dice, che queste diverse specie non differiscono di specie o di ragione . Sono dunque due le specie, l' una singolare diversa in ciascuno dei singolari, l' altra universale, comune a tutte le specie singolari. Aveva dunque ragione Platone di dire che le cose sensibili non hanno la specie universale , ma solo la imitano, che la forma de' singolari è una certa copia o imagine della specie; e Aristotele non avrebbe fatto altro, che estendere la denominazione di specie a quello che non è veramente specie , fondando il suo nuovo sistema sopra un equivoco di parole. Così dunque Aristotele, parlando delle cose, che si generano, ossia, come dice, dei principŒ dei sensibili (1); ma venendo a quella specie, che è nella mente dell' artefice, confessa apertamente, che la specie è anteriore all' opera. E questo per lui è un nuovo imbarazzo. Vediamo come anche di questo procacci di uscire. Confessa dunque, che nell' opere dell' arte le specie sono anteriori, ma queste, dice, inesistono nell' opifice, e perciò in un reale, perchè « « le cause moventi (come l' opifice) esistono come nate avanti » ». L' arte non è un principio insito in ciò che si fa, com' è la natura, ma in un altro; [...OMISSIS...] . Onde, quando si cercasse la specie dell' opifice stesso, allora si troverebbe coesistente alla sua materia, e non anteriore. Ma di quante difficoltà rimane involta questa risposta? La prima è quella di sapere, se la specie , che è nell' artefice, sia specie dell' artefice stesso. A ragion d' esempio: la specie della casa, che è nella mente dell' artefice, è la specie dell' artefice, o dell' opera futura dell' artefice? Aristotele qui si trova in un impiccio tanto maggiore, quant' è maggiore l' acutezza della sua mente: ei si dibatte seco stesso tra le contraddizioni. Comincia dal dirvi, che [...OMISSIS...] ; e così mentre si parlava prima dell' artefice, ora si parla dell' arte, quasichè l' arte e l' artefice sia la medesima cosa. Ricomparisce dunque, sebbene con altra forma, la stessa questione: « se l' arte sia la specie dell' artefice, che opera secondo l' arte, o della sua opera futura ». Quand' anco dunque la specie , secondo cui opera l' artefice, si chiamasse arte , non sarebbe con questo sciolta la questione: « se la specie della casa nella mente dell' artista sia la specie dell' artista, o qualche cosa di diverso da esso, sostanza operante, che la possiede, qualche cosa fornita di caratteri e di natura propria », poichè la sostituzione d' un nome non scioglie la questione. Oltracciò il confondere la specie coll' arte va in opposizione cogli stessi principŒ d' Aristotele, il quale insegna che la natura , e l' arte sono due principŒ motori, l' uno interno e l' altro esterno, e insegna pure che la specie all' incontro è ciò, in cui tende il moto, [...OMISSIS...] , e che « « nè move, nè si move » » [...OMISSIS...] , poichè le forme o specie sono immobili [...OMISSIS...] . Dunque le specie non sono l' arte , come l' arte non è l' artista, sostanza reale e prima per Aristotele. Di più, se la specie, per confessione d' Aristotele « « è ciò in cui tende il moto com' a suo fine » », questo, che si dice anche « « primo nella mente dell' artista, e ultimo nell' operazione »(4) », conviene pure che sia qualche cosa, prima che l' opera abbia raggiunto e sia realizzato, poichè, se ci tende, non l' ha raggiunto ancora. Nè si dirà, che il moto tenda nel nulla, perchè anzi ciò, in cui tende, è dichiarato più nobile di quelle cose, che sono al fine (5). La specie dunque è qualche cosa d' anteriore alla sua realizzazione, secondo i principŒ riconosciuti da Aristotele medesimo: ma quest' elemento anteriore al reale finito sfuggì alla mente del filosofo. Quando poi ei non era preoccupato da questa terribile questione delle idee, confessava ingenuamente, che la specie, per esempio: la sanità (nella mente del medico) non è operativa, e però non è l' Arte, se non per la metafora; [...OMISSIS...] . Perchè dunque, quando nella questione delle idee si trova stretto, dice, che la sanità stessa è l' arte, cioè una causa operativa, senza avvertire il lettore della metafora? La ragione è chiara; se ne l' avesse avvertito, svaniva l' argomento. Ed è da notarsi, che come, per via di metafora, confonde l' Arte colla specie, così confonde pure colla specie, per un' altra metafora, la Natura, che è l' altro motore, cioè il motore interno; onde ne dà una doppia definizione, ossia la fa risultare da un doppio elemento, chiamandola ad un tempo un certo chè e un cert' abito a cui , [...OMISSIS...] . Il certo chè è la specie, l' abito poi a cui , è la tendenza alla specie, che ancora manca nella materia. Per natura dunque intende la specie, ma con aggiungervi un principio abituale attivo: dove osserviamo, che se la specie ha bisogno di quest' aggiunta, dunque essa da sè non è attiva. [...OMISSIS...] (1). Allo stesso modo dunque, che altrove fa risultare l' individuo dalla materia e dalla specie , qui il fa risultare dalla materia e dalla natura , sostituendo alla specie la natura, e per poter far ciò v' inserisce un abito attivo, e tuttavia non crede di moltiplicar con questo i suoi principŒ che sono costantemente tre: la materia, la specie, e la privazione. Ma in fatto non bastandogli la specie a spiegare la produzione delle cose, ci aggiunge un abito attivo che è veramente un quarto principio, che egli dissimula, e chiama così la specie , resa da lui attiva, col nome di natura . Tornando dunque a ciò, che dicevamo in principio, il luogo citato parso oscurissimo agli interpreti, che si dividono in varie sentenze, secondo noi contiene uno sforzo, che fa Aristotele, per conciliare il suo sistema « delle specie non altrove esistenti che nelle sostanze reali » col fatto delle operazioni e produzioni dell' uomo, che si fanno dietro le specie che sono nella mente dell' uomo stesso, e non nelle cose. Analizziamo senz' altro il nostro contesto. Ivi si propone di mostrare che « « nè la materia, nè le specie si fanno » ». E, tra gli argomenti, che adduce, il principale è questo, che ciò, che si fa, esige un principio, dal quale si faccia ( «u») e quest' è la materia , e un altro, in cui termini l' operazione ( «eis ho») e quest' è la specie . La materia dunque e la specie sono condizioni di ogni trasmutazione: dunque nè l' una nè l' altra si genera ( «u ginetai»), chè altramente s' andrebbe all' infinito, convenendo, che, se la materia o la specie fosse l' effetto della trasmutazione, ci fosse un' altra materia, e un' altra specie anteriore, e così senza fine. Ma la specie , che è nella mente dell' artefice, è ella forse il principio «eis ho», ossia «eis ti» ( « in quod, in aliquid »)? - Qui comparisce la difficoltà, perchè la specie reale, in cui termina la trasmutazione, non è nella mente, ma nella cosa prodotta dalla trasmutazione. Introduce dunque un terzo principio, che è il principio movente [...OMISSIS...] , e dice che appartiene a questo principio movente l' Arte, e che l' Arte è lo stesso che la specie, secondo cui opera l' artefice: quasi dica, che i principŒ moventi, essendo nati prima, [...OMISSIS...] , si dee cercare, come sia nata l' arte in un altro discorso. Ma con questa risposta riserva la questione e non la scioglie. Traduciamo ora le parole del testo come noi crediamo che vadano intese: [...OMISSIS...] . Pare che gli rincresca d' introdurre quest' arte, perchè lo fa dubitativamente, benchè tosto appresso, rinfrancato, ne parli in modo assoluto: quella specie dunque, che è l' arte , è fuori della casa reale, che è la sostanza composta di materia e di forma. [...OMISSIS...] ; in un altro per verità da quello delle cose naturali. - Qui confessa, che l' arte, la specie nell' artefice, è, ma in un altro modo da quello in cui sono le specie nelle sostanze naturali (e certamente anche nelle sostanze prodotte dall' arte, dove la specie è unita intimamente colla materia e da questa inseparabile). Non dice tuttavia quale sia questo modo, e però riserva di nuovo, e non iscioglie la questione. Dice bensì, che non si generano, nè corrompono: con che confessa di più, che tali specie sono privilegiate sopra quelle che si generano e si corrompono, e però sono in questo agguagliate a quella che prima avea chiamata « « l' ultima ( «ta eschata») » »; cresce con ciò, anzi che diminuirsi, la difficoltà. [...OMISSIS...] Traducendo così questo luogo io m' allontano alquanto dalla comune interpretazione; ma parmi che inteso così riesca più chiaro. Aristotele vuol persuadere, che tutto ciò che c' è, si riduca alle sue sostanze prime , cioè alle sostanze reali composte di materia e della specie che la finisce e determina. Ora questa mi pare, che voglia indicare colle parole «tes malist' usias he teleutaia», e che esse non si devano già riferire alla materia, essendo proprio della specie l' esser fine, e non della materia, che è indeterminata e senza fine per se stessa, e l' ultima materia si direbbe «eschate» ma non «teleutaia» (1). A quell' «he teleutaia» dunque si deve sott' intendere, per quant' io credo, «usia», che è la specie sostanziale, la seconda sostanza [...OMISSIS...] , finale della prima [...OMISSIS...] . Trae vantaggio da una sentenza di Platone, approfittandone a suo modo. Platone avea detto, che le cose reali e sensibili sono l' altro o il diverso delle specie, e le specie l' altro o il diverso delle cose «alla tuton»: di qui vuol conchiudere Aristotele, che le cose e le specie sono relativi indisgiungibili. Avea detto ancora Platone, che le essenze delle cose tutte sono le specie , e poichè nominandosi le cose si nominano le loro essenze, quindi le cose tutte sono specie; [...OMISSIS...] ; il che ammette e riconosce costantemente per vero Aristotele per tutto, ov' insegna, che le seconde sostanze, [...OMISSIS...] , quali per lui sono le specie sostanziali, si predicano delle prime, cioè delle sostanze reali [...OMISSIS...] in modo, che a queste si dà il nome e la definizione di quelle (e la definizione esprime l' essenza): onde se si domanda d' un uomo reale, (prima sostanza) « che cosa è », si risponde giustamente: « è un uomo »(seconda sostanza), il che ritorna alla sentenza platonica «eide estin hoposa physei» (3). Da questo adunque argomenta Aristotele, che le specie non ci possono essere, secondo Platone, che delle sole cose in quanto sono naturali, e non in quanto sono fatte da un artefice intelligente: le specie, dunque, conchiude, devono essere nelle nature reali, coerentemente alla dottrina di Platone, e resterà poi sempre a spiegare, che cosa sia la specie nella mente dell' artefice. Ora questo procura veramente di farlo nel primo dei posteriori, e nel terzo dell' anima; ma come gli riesce? Ci troviamo alcune sentenze generali, ma la questione non si lascia vincere (4). Vediamolo. Aristotele suppone, che l' intendere « sia un patire, simile in qualche modo, a quello del senso »; [...OMISSIS...] . Ora l' intendere è tutt' altro, poichè la sensazione o il fantasma non significano nulla, l' intendimento all' incontro rende lo stesso fantasma significativo degli enti . Come avvien dunque ai fantasmi stessi l' abilità di significare ? Questo è quello, che Aristotele non s' accorge punto di dovere investigare (6). Se avesse frugato qua entro avrebbe probabilmente conosciuta una verità, che gli sarebbe stata luce nova; perchè avrebbe veduto, che segno non si dà, senza che preesista una idea, avente un' esistenza obiettiva (1). L' idea dunque da Aristotele è supposta, non ispiegata, e in vano negata. Se si suppone che dalla passione sofferta dall' azione della sostanza reale resti qualche cosa nell' intelletto, a quel modo che spiega nel primo de' Posteriori, come, dimandiamo di novo, questa cosa, che resta, sarà un segno, come sarà rappresentativa d' una sostanza reale? Il nodo sta qui, e sfugge interamente ad Aristotele. Suppone senza difficoltà, che quello, che resta nell' anima, sia l' intelligibile , «noeton»; ma non si tratta di supporre l' intelligibile, bensì spiegare come una cosa qualunque possa essere intelligibile. Dice che la forma, in quest' azione della sostanza reale sull' intelletto, si separa, e conchiude che « come le cose sono separabili dalla materia, così sono le cose intellettuali » [...OMISSIS...] . Quello che si separa, secondo lo stesso Aristotele, è l' essere della cosa dalla cosa , come l' essere della carne dalla carne [...OMISSIS...] ; la quiddità [...OMISSIS...] ; il comune . Ma se veramente si separa quest' elemento intelligibile, quest' essenza seconda dei reali, e il filosofo non ci tiene anche qui a bada con delle metafore, è da conchiudersi, che le specie non sussistano solo nelle sostanze reali, ma anche separate, e nelle menti, e sieno di due maniere e d' opposta natura. Nel qual caso egli si fa con Platone, e rinnega il proprio sistema. - Vuol egli dire, che queste specie prima si trovano nelle sostanze reali, e posteriormente nell' intelletto, a cui dà la facoltà di prendersi per sè quell' elemento separandolo dalla materia? - Ma d' altra parte la specie comune non può stare in nessuno dei singoli, chè un singolare, come tale, niuna cosa propria comunica all' altro, ma è finito tutto in se stesso. Pure Aristotele, senza vedere, che quest' è impossibile, è obbligato dalla necessità del sistema ad ammettere il comune ne' singolari reali, e lo chiama « l' uno ne' molti »(3). Che se è uno , separato quest' uno da' molti per opera dell' intelletto, s' ha una specie sola partecipata da' molti, che è quello appunto, che attribuisce a Platone, [...OMISSIS...] , ma Platone la faceva anteriore alle cose finite, e da queste partecipata, Aristotele la vuole posteriore, e da queste partecipata all' intelletto umano, per un' operazione di questo, ritornando così indietro dal cammino fatto da Platone, e ravvicinandosi a' Pitagorici (1). Oltrechè poi, essendo manifestamente impossibile, che nei singolari, che come tali hanno una esistenza ciascuno separata, e senza alcuna comunanza, ci sia il comune o l' universale (e se non vi fosse l' intelletto non potrebbe separarlo), Aristotele è obbligato, per sostenere il suo sistema, d' adoperare delle frasi contradditorie. A ragion d' esempio dice che la specie è l' « uno ne' molti »(2), cui l' intelletto poi separa. Ora mentre qui fa, che la specie, cioè la sostanza seconda, inesista ne' molti singolari e reali, che sono le sostanze prime, tutto il contrario dice nel libro delle Categorie, dove, come abbiamo veduto, insegna, che le sostanze prime sono nelle sostanze seconde o specie; [...OMISSIS...] . Ora questo, che le sostanze reali (finite) sieno nelle ideali, non involge punto contraddizione, perchè s' intende, come nell' universale possa dirsi che si contiene il singolare ; ma che nel meno stia il più, nel singolare l' universale, l' idea nella realità, questo manifestamente ripugna, a meno che si consideri il reale, non quale è in sè, ma qual è pensato dall' intendimento; dove il reale è composto di reale e d' idea, e in questo composto l' intendimento può trovarci l' idea, come la parte che sta nel tutto; ma questo modo di concepire l' ideale nel reale pensato, o favorisce Platone, e non Aristotele, o riconduce Aristotele a Platone. Se dunque noi prendiamo da Aristotele quello che ci concede, che « le cose non si potrebbero conoscere per mezzo delle specie qualora queste non fossero nelle cose »verremo contro lui stesso ad argomentar così: « le specie che sono universali non possono esistere ne' singolari reali, ciascuno de' quali ha un' esistenza chiusa nella propria realità: ma quando i reali singoli sono conosciuti da un intendimento, allora c' è ad un tempo presente a questo, sebbene in diverso modo, la realità di ciascuno, che niente ha di comune colla realità degli altri, e la specie universale e comune, che coll' astrazione si può segregare. Dunque questa specie universale, che è l' intelligibilità de' reali, vien posta dall' intendimento, e non è ne' reali quali sono fuori di questo ». Ma pure conviene, che Aristotele ci dica chiaro, se la forma reale , che ha ciascuno degli enti finiti, sia numericamente la medesima colla specie , che è nell' intelletto che li conosce, o se questa sia diversa e forse una similitudine di quella. Non dimandiamo, se si chiamino equivocamente con uno stesso nome, perocchè gli equivoci non sciolgono le questioni, ma se si tratta d' una identica e univoca specie. Se dice, che sono diverse, benchè simili, in tal caso ricade su di lui la censura, ch' egli fa a Platone, di moltiplicare gli enti, e per ispiegare i reali introdurne altrettanti e più d' ideali (1). Nè varrebbe cos' alcuna l' aggiungere, che le specie dell' intelletto sono simili alle specie o forme delle cose reali: poichè lo stesso può dir Platone; e poi, come sa egli che siano simili se non confrontandole? E per confrontare la specie reale e l' ideale, conviene avere presenti all' intelletto sì quella che questa: ma se quella si conosce, questa seconda è inutile «( Ideol. 107, not.) ». Di più, se sono simili hanno una specie comune , e intorno a questa rinascerà la stessa questione, onde s' andrebbe all' infinito colla serie delle specie «( Ideol. 11.0 7 11.9) ». Dirà dunque, come effettivamente risulta dai luoghi allegati, che sono identiche numericamente. Ma questo è impossibile secondo i suoi stessi principŒ: e vediamolo. 1 Aristotele riconosce, che la forma degli enti è singolare; e che la specie dell' intelletto, con cui si conosce, è un universale . Il singolare non può essere identico coll' universale; nè vale il dire che l' intelletto è quello che aggiunge l' universalità, perchè l' universalità non è una cosa accidentale, che si possa aggiungere o levare alla specie, ma la specie è universale essenzialmente, e questa universalità deriva intrinsecamente dalla natura della specie stessa; 2 Aristotele dice, che [...OMISSIS...] ; dunque la specie nell' intelletto si produce all' atto dall' operazione dell' intelletto stesso. Ma la specie, forma dei particolari reali, è già prodotta all' atto in essi prima ancora che sieno conosciuti. Il che tanto più vale per Aristotele, che non riconosce necessario all' esistenza dei sensibili che sieno conosciuti, mettendo in beffa gli esemplari di Platone (2). Non possono dunque esser la stessa cosa la forma de' reali , e la specie dell' intelletto , facendosi quella in atto, quando questa non è in atto, ma ha bisogno, che l' intelletto stesso la renda in atto; 3 Aristotele dice, che la forma, che è l' essere stesso delle cose, è separabile dalla materia per opera dell' intelletto. Nell' intelletto dunque la forma o specie è separata dalla materia, ed è quello ch' egli chiama l' intelligibile ( «to noeton») (3). Ora la stessa numericamente, ed identica specie, non può essere, alla maniera di concepire aristotelica, nello stesso tempo, separata ed unita colla materia: dunque di nuovo la specie , che è nell' intelletto, non può esser quella stessa che è ne' reali (4). A malgrado di tutto ciò Aristotele è obbligato dal suo sistema d' ammettere, che la specie nell' intelletto e ne' reali sia veramente identica, poichè se dicesse questo per metafora, intendendo che sono simili, che forza avrebbe il suo argomento contro Platone d' aver coll' introdurre le idee moltiplicati gli enti inutilmente, rendendo anzi più difficile la spiegazione dell' esistenza delle cose? Ma per sostenere la detta identità, quanti assurdi non deve egli ingoiare? Primieramente è assurda questa proposizione: [...OMISSIS...] . Ora la scienza contemplativa è forse l' intelligente? No certamente; ma l' intelligente ha la scienza. Sia pur dunque, che la scienza si possa dire il complesso delle cose intese, non è per questo che l' anima intelligente sia queste cose. Ignora Aristotele, con tutta l' antichità, la profonda differenza tra l' esistenza subiettiva propria dell' intelligente, e l' esistenza obiettiva propria degl' intesi, che è il filo che riconduce da questo labirinto, o almeno egli confonde spesso in uno queste due cose. Aggiunge Aristotele che [...OMISSIS...] . Che se è ben detto, che l' anima intellettiva sia il luogo delle forme in potenza, consegue che l' anima intellettiva sia distinta dalle forme, come il luogo da ciò che occupa il luogo. E se le forme sono identiche nell' anima e ne' reali, sono nell' anima anche i reali indivisi dalla loro forma, il che nega Aristotele. Sembra piuttosto manifesto, che Aristotele, quando dice separabile per la virtù dell' intelletto la forma dalla materia, non considera le cose in sè, quali sono fuori della mente, ma quali sono nella mente concepite dall' anima. L' una delle due dunque: o le sostanze reali e prime non esistono che nella mente, o se esistono fuori della mente, non ha luogo la separazione: o si ammette che esistano identiche fuori e dentro, e in tal caso la mente non è più il proprio luogo delle forme, perchè queste stanno anche fuori della mente. Ma se le specie esistono nell' anima intellettiva solo in potenza, anche l' anima stessa esisterà solo in potenza, poichè « è il medesimo ciò che intende, e ciò che s' intende », e ciò che intende è l' anima intellettiva, ciò che s' intende sono le specie. Non si ritrae Aristotele da questa conseguenza, anzi chiama l' anima [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' uomo, secondo Aristotele, un' anima intelligente possibile, che è lo stesso che le forme possibili. Ora come è tratta poi quest' anima all' atto? Sente egli stesso che non può bastare il definire l' intelligenza un che puramente possibile, un suscettivo delle forme, e però è obbligato d' aggiungere all' anima stessa [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' anima una mente che diventa tutte le forme, [...OMISSIS...] ; e un' altra mente che la fa diventar tutte le forme. Ora quella mente che produce le forme non può essere le forme stesse da lei prodotte, perchè produrrebbe in tal caso se stessa: oltredichè le forme sono in potenza, e questa mente che trae le forme in atto, è per essenza in atto, separabile dalla materia, immista e impassiva; [...OMISSIS...] . Non può esser le forme nè pure dopo che le ha prodotte, perchè non le produce in sè stessa, ma nell' altra mente possibile, che è suscettiva delle forme, e che diventa tutte le cose. Tuttavia dice che questa mente producente è più eccellente dell' altra e sola immortale e perpetua. [...OMISSIS...] . Gli Arabi intesero, per questa mente separata, una mente separata dall' uomo, poniamo la mente divina; ma questa interpretazione è chiaramente smentita da Aristotele, che dice tale differenza, di mente in potenza, come materia, e di mente in atto, dover essere nell' anima stessa, [...OMISSIS...] . Se dunque la mente in atto trae la mente in potenza a divenire le specie in atto, e però quella è diversa dalle specie in atto da essa prodotte, e pure, quella sola è immortale e perpetua: convien dire che c' è qualche cosa di più eccellente delle specie stesse in atto, e queste periscono, quella poi sopravvive. Ma in tal caso come fa egli che la mente agente sia la scienza in atto, la quale è appunto il complesso delle specie in atto, come avea detto avanti? e queste stesse specie in atto aveva detto essere quella mente possibile che diventa tutte le specie? Poichè torna a dire, a proposito della mente agente, che « « quella scienza, che è in atto, è il medesimo che la cosa (4) » ». L' apparente contraddizione mi sembra conciliarsi a questo modo. E` da ritenersi che, secondo Aristotele, tutte le sostanze mondiali sono composte di materia e di forma, ma il loro essere sta nella forma (5), la materia poi, benchè non sia la forma, riceve da questa l' essere per sì fatto modo, che senza questa non esiste, e se si considera in separato non rimane più che un concetto astratto di relazione, come insegna espressamente nel secondo de' libri fisici. La forma dunque e la materia sono unite sì strettamente, che costituiscono un solo essere chiamato da Aristotele « « quella che da prima è sostanza » » [...OMISSIS...] . Questa dottrina l' applica egli anche alla natura dell' anima. [...OMISSIS...] . Ora questa materia e questa forma dell' anima sono la mente possibile e la mente agente. Queste due menti non si devono disgiungere, ma unite fanno un solo subietto intelligente, una sola anima intellettiva completa. L' effetto della loro unione, quando la mente possibile abbia ricevuto le disposizioni preambule , sono le specie. Queste adunque sono come il nesso tra la mente possibile e l' agente, e il termine d' entrambi: la mente possibile dunque le riceve per la sua unione e aderenza colla mente agente; ma come le forme sono atto, dipendono e appartengono a quest' ultima: così la materia riceve la forma, ma non è, e non diviene perciò la forma: la mente agente poi avendo la materia (la mente possibile e le condizioni preparatorie su cui operare) emette un atto che non avea prima e sono le specie: queste dunque sono la stessa mente agente in quanto è attiva sulla datale materia cioè sulla mente possibile, condizione della quale attività sono i sensibili (2). E conviene che vediamo appunto come la mente possibile si disponga alle specie, come altresì queste sieno prodotte dalla mente agente. E` da ritenersi in prima che il concetto della materia divisa dalla forma non è che un' astrazione, cioè un relativo (3) per Aristotele, e che ciò che è in potenza non è ancora. Onde la mente in potenza non è ancora mente. L' anima dunque in quant' è mente in potenza, non è ancora anima intellettiva. Che cosa è dunque per Aristotele? Senso. Vediamo come questo senso sia suscettivo delle specie . In fine al secondo libro degli Analitici posteriori, dopo che aveva dimostrato prima, che « « ogni cognizione nova nell' uomo nasce da una cognizione precedente »(4), » e che le conseguenze si cavano da principŒ preconosciuti: viene alla questione dell' origine de' principŒ stessi che non si possono dedurre da principŒ anteriori, senza andare all' infinito. Trova assurdo il dire, che noi li abbiamo per natura, perchè non ne abbiamo coscienza; trova pure impossibile, se non li abbiamo, di generarli in noi, perchè non c' è la cognizione antecedente, da cui generarli. Conchiude adunque che si deve ammettere una speciale facoltà (1), non però più eccellente dei principŒ stessi, che è quanto dire una potenzialità. E così si fa a spiegare questa facoltà inferiore, da cui poi s' hanno i primi principŒ della ragione. Da questo luogo sembra potersi inferire, che Aristotele deduca l' intelligenza dal senso, e che il sensibile corporeo, qual è il fantasma, si converta da sè prima in concetto ( «logos»), poi in memoria ( «mneme»), poi in esperienza ( «empeiria»), poi in principŒ ( «arche») delle arti e delle scienze pure col fermarsi nell' anima. Questi suoi modi, ripetuti da Aristotele altrove, hanno fatto credere ad alcuni, come tra gl' Italiani del cinquecento a Pietro Pomponazio (4), che colla filosofia d' Aristotele (e non si credeva ce n' avesse un' altra migliore), l' anima umana non si potesse dimostrare immortale, perchè i fantasmi sensibili se ne vanno col corpo. Per la stessa ragione Alessandro Afrodisio e Averroè introdussero l' Intelletto passivo , pel quale intendevano la potenza sensibile, atta a fare tutte quelle operazioni, e in questo l' arabo Commentatore poneva la specie , ponendo poi un intelletto agente separato dall' uomo, e unico per tutta la specie umana (1). Ma avendo Aristotele espressamente insegnato la sopravvivenza d' una parte intellettiva dell' anima (2), e altri luoghi delle sue opere esigendo una diversa interpretazione, conviene che ci atteniamo a quella che meglio e più facilmente concilia Aristotele con se stesso. Aristotele adunque dopo il luogo arrecato degli Analitici posteriori soggiunge: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque si possa fare quei passi ch' egli descrisse dalla sensazione al concetto fino a' principŒ scientifici , dice che l' anima dee essere costituita in un dato modo, ma qui non dice quale . Per conoscere adunque la natura di quest' anima, convien ricorrere ai libri dell' Anima e a' Metafisici, dove si vede che la natura d' una tal anima dev' essere intellettiva. Non è dunque il solo senso, che possa fare tutto ciò che in fine agli Analitici posteriori descrive, ma il senso in un' anima intellettiva. La dottrina dunque propria dell' intendimento è supposta, ed è quella che abbiamo prima indicata, e considerando quale sia questa, si può raccogliere, che l' opera del senso non è che una preparazione, o condizione materiale agli atti della intelligenza. Questa è la più conciliante interpretazione che si possa dare ad Aristotele, che certo s' esprime assai oscuramente. E per raccogliere come noi crediamo doversi intendere Aristotele, nel capitolo 4 del terzo libro dell' Anima, egli parla, secondo noi, della mente umana in universale. E poichè talora dà il nome di mente a ciò che non è mente, per traslato, come dice pure per un certo traslato, che il senso giudica (4); perciò qui si dà cura di definire di qual mente parli, e dice di quella « « per la quale l' anima conosce ed è prudente » [...OMISSIS...] ; e poco appresso di nuovo si dà cura, acciocchè non nasca equivoco, di avvertire che parla di quella mente « « colla quale l' anima raziocina e congettura » [...OMISSIS...] . Così distingue questa mente di cui parla e che è sola vera mente, dal senso. E quanto sia distinta da questo, risulta dalle parole che seguono, dove dice che [...OMISSIS...] . Distingue dunque i sensibili, e però i fantasmi, dagl' intelligibili: questi dunque, oggetto della mente, non sono i fantasmi. Ma gl' intelligibili non sono naturalmente in atto, ma in potenza: conchiude dunque, che anche la mente non ha altra natura, che quella di potenza , [...OMISSIS...] . Nel capitolo seguente viene a determinare come sia fatta questa potenza, e qui dice che quantunque sia potenza, ella deve avere una virtù in sè stessa, che (date certe circostanze) la trae all' atto, onde distingue nella stessa ed unica potenza due funzioni, l' una di ricevere, l' altra di fare, che non chiama parti ma differenze ( «diaphoras»). Queste funzioni o differenze appartengono alla stessa parte dell' anima di cui ha detto voler parlare (1). Ma l' averle chiamate, ciascuna, mente ( «nus»), fece sì che si rendesse più difficile l' intenderne la dottrina, considerandole come due menti, o intelletti diversi, il possibile, e l' agente. All' incontro il sistema riesce assai più chiaro, se si considerano come due attitudini, virtù, funzioni, o piuttosto elementi della stessa potenza, nella quale unità compariscono costantemente nel capitolo quarto. E veramente in questo capitolo in primo luogo loda la sentenza di Anassagora, che aveva detto la mente dovere essere immista ( «amige») e però senza alcun miscuglio di cosa corporea [...OMISSIS...] , semplice ( «haplun»), senza passione ( «apathes»), e non avente nulla affatto di comune con alcun' altra cosa [...OMISSIS...] : le quali qualificazioni la distinguono affatto da ogni cosa sensibile , e però la specie della mente, secondo questa dottrina, conviene che sia totalmente diversa e separata non solo dalla forma materiale, ma ancora da ogni sensazione: onde le difficoltà che più sopra abbiamo indicate, e che qui lasciamo da parte. Posta questa spiritualità e purità della mente, Aristotele propone due dubbi: 1 se la mente ha nulla di comune coll' altre cose, e se l' intendere, come fu detto prima, è un certo patire, in che modo la mente intenderà? 2 se l' intendere è patire, come la mente intenderà sè stessa? Come patirà da sè stessa? Acciocchè patisca da sè stessa ella dovrebbe esser duplice, dovrebbe agire e patire ad un tempo, e l' agire e il patire suppone un chè di comune [...OMISSIS...] . Se essa è intelligibile come l' altre cose, sarà mista di materia e di forma e non più semplice, cioè avrà qualche cosa in sè, che, separandosi dal resto, la renda intelligibile [...OMISSIS...] : nè intelligibile in un altro modo può essere, perchè l' intelligibile è unico di specie [...OMISSIS...] . Quant' è chiaro e lungo Aristotele nel proporre le obbiezioni, altrettanto è oscuro e breve nel rispondere alle medesime. Tuttavia non dubito che la risposta ch' egli intende dare sia la seguente. Alla prima difficoltà risponde così. Prima accorda che il patire supponga qualche cosa di comune tra il paziente e l' agente, [...OMISSIS...] . Poi non nega questo comune alla mente, ma esso è appunto comune per questo che [...OMISSIS...] . Ora l' intelligibile è l' agente, come ha detto prima [...OMISSIS...] , e la potenza suscettiva di questi [...OMISSIS...] è il paziente. Onde da prima questa è divisa, [...OMISSIS...] ; perchè non è uscita ancora al suo atto che la finisce. Ella, la mente, patisce quando fa l' atto di conoscere, perchè in virtù di quest' atto quella che prima era potenza, riceve gl' intelligibili; ma questi intelligibili, quando sono in atto, sono lei stessa, perchè essi sono l' estremo suo atto, o termine. Onde, di questa divisione, che da prima si ravvisa nella mente tra il suo essere in potenza e il suo essere in atto, dice che [...OMISSIS...] . Questo è il celebre luogo d' Aristotele, del quale tanto abusarono i sensisti moderni senz' intenderlo. Aristotele paragona la mente, in quant' è potenza, alla tavola rasa, ma questa tavola per Aristotele è una potenza viva, che quando vuole (1) si scrive da sè stessa (2). Ed aveva già prima avvertito, che ci sono due maniere di patire [...OMISSIS...] . Onde non è assurdo, che si attribuisca una tale potenza, che non importa alcuna corruzione nè alterazione, ad un incorporeo. Laonde un recente Scoliaste della psicologia Aristotelica raccoglie che, secondo questo filosofo, [...OMISSIS...] . E la cosa si rende evidente, dove si consideri la differenza che Aristotele pone tra il senso e la mente, dove chiaramente apparisce, che nè la mente viene dal senso, nè i sensibili si trasformano punto in intelligibili. Se dunque gl' intelligibili sono nell' anima, e per un atto di questa si attuano, la specie intellettiva e quella, di cui partecipano le cose reali fuori dell' anima, non sono identiche, ed è una metafora il dirle tali, onde ritornano in campo le difficoltà che Aristotele oppose a Platone, circa l' attitudine delle idee a far conoscer le cose. Come dunque si risponderà alla prima questione? Tutta la risposta si riduce a queste parole, che « quando la mente fa l' atto dell' intendere, allora la stessa mente e la cosa intesa sono il medesimo ». Ma tanto è lungi che Aristotele spieghi come ciò sia o possa essere, che dalla sua stessa dottrina risulta che la cosa intesa si divide in due, materia e forma, e con questa sola s' intende, rimanendo l' altra al senso; ma questa stessa, la forma, è solo equivocamente la medesima nell' intelletto, e fuori dell' intelletto, e per similitudine, come hanno più espressamente detto gli Scoliasti, e i loro successori, gli Scolastici. Ma che per via di similitudine non si possa spiegare la cognizione delle cose esterne, fu da noi dimostrato (10 7 11). Laonde si ricorse dagli espositori d' Aristotele ad un altro ripiego, cioè a dire, che la stessa forma aveva due maniere di essere, l' una nella mente senza materia, l' altra fuori della mente nella materia, e si limitarono ad impugnare la terza maniera di essere, che attribuivano, secondo noi falsamente, a Platone, cioè l' esistenza della essenza in sè fuori d' ogni mente, e fuori delle cose (1). Ora l' essere caduti a questo, era un trovarsi nel vero cacciativi dalla necessità logica, e senza pure accorgersene. Se avessero afferrata l' importanza di questa sentenza che usciva loro di bocca, ed avessero distinto accuratamente l' essere dalla maniera di essere , che nel loro linguaggio si confondono, avessero veduto che l' essere può conservarsi identico sotto più forme, avessero studiata la natura di queste forme e trovato che l' una era subiettiva (alla quale si riduce l' extrasubiettiva), e l' altra obiettiva , sarebbero pervenuti a vincere le immense difficoltà che seco ravvolge il problema della cognizione umana. Ma quanto rimanessero lontani da ciò, l' incertezza, l' improprietà e l' incoerenza, con cui parlano, il manifesta. E riguardo ad Aristotele, s' osservi anche qui, come inframetta di continuo al discorso delle particelle diminutive ed eccezionali, che poi non ispiega più in nessun luogo, e che pur gli valgono di scusa per avere la facoltà di prendere la stessa proposizione quando gli accomoda, o escluderla in caso diverso, appigliandosi alla sua contraria. Così quando dice che la mente « « è in potenza in qualche modo, «pos», le cose intelligibili » », tutto il nodo della questione sta in quella particella «pos», piccolissima di mole a segno che sfugge all' attenzione de' lettori, come un nonnulla, ma che pure è quella cosa che contiene tutto il sistema, se c' è sistema; e se non c' è, che fa credere che ci sia. Ora quella particella è appunto la più trascurata dal nostro filosofo, ne commette al lettore la interpretazione, e supponendola chiara da sè, non ci fa commento. Intanto da quella proposizione limitata e condizionata, perchè non s' avvera che in qualche modo, «pos», ne cava una conseguenza assoluta, che « « la mente può pensare quando le piace agl' intelligibili » », il che suppone che gl' intelligibili non sieno in qualche modo nella mente, ma che semplicemente ci sieno: altramente la conseguenza dovrebbe essere, per non riuscire più larga della premessa, che « « la mente in qualche modo può pensare quando vuole agl' intelligibili » ». Quando poi la proposizione non gli va bene, prende la contraria che, « gl' intelligibili sieno in qualche modo fuori della mente »; ed eccoli nelle cose reali, contro quello che avea prima supposto. La seconda questione, dopo la prima, è assai più facile a risolvere. Poichè se gl' intelligibili si fanno per l' atto stesso dell' intendere, e sono la stessa mente in atto, chiaro è che la mente in atto dee essere intelligibile a sè stessa, essendo l' atto della mente l' intelligibile, onde dice, che è « « anch' essa intelligibile come gl' intelligibili, poichè nelle cose scevre da materia è il medesimo l' intelligente e l' intelligibile »(1) ». E quest' è il passo dove Aristotele consumma la confusione e la identificazione del subietto coll' obietto: poichè la mente in tal modo da subiettiva che era in potenza, in atto è divenuta obiettiva. Continuando dunque ad esporre l' intricato ed oscuro sistema d' Aristotele circa l' intendimento umano, dicevamo, ch' egli nel capo quarto del libro terzo dell' Anima, stabilisce in generale da prima, che la mente umana è un potenziale, «dynaton», e non è altra natura che questa [...OMISSIS...] . Ma qui la parola potenza, o ciò che è potenziale, deve prendersi in altro significato da quello in cui la prende poco appresso, quando dice che [...OMISSIS...] . Poichè se quando gli intelligibili sono in potenza, non ci potesse essere una mente, in tal caso la mente sarebbe solo degli intelligibili in atto, e non ci sarebbe una mente potenziale, «dynaton», che non ha niuno degli intelligibili in atto; e pur questa non solo c' è secondo lui, ma è immista e pura da concrezione corporea, acciocchè vinca e domini, «hina krate», come aveva detto Anassagora, espressione che Aristotele ammette, e spiega così [...OMISSIS...] ; il quale luogo conferma quello che dicevamo avanti, cioè che Aristotele per la Mente possibile di cui parla nel citato capitolo quarto, intende l' unica mente umana, anche quella che opera, conosce, raziocina, congettura, prudenteggia [...OMISSIS...] , essendo prima potenza, ed ella stessa poi atto, entelechia. Il medesimo si prova da questo che nel capitolo quinto dice, che il solo intelletto agente, [...OMISSIS...] , è separabile, e nel capitolo precedente, dove parla del possibile [...OMISSIS...] , dice che è separabile dal corpo (1); il che mostra che si tratta della stessa mente analizzata, e considerata sotto due aspetti diversi. Rimanendo dunque a spiegare come questa potenza intellettiva passi al suo atto, dice che anche quando la mente è divenuta ciascuna forma [...OMISSIS...] , uscendo al suo atto « « è anche allora in certo modo in potenza » [...OMISSIS...] «ma non a quel modo come prima che imparasse o ritrovasse »(2) ». La mente umana dunque si rimane sempre una potenza, ma in altro modo quando non ha ancora appreso nulla, e in un altro quando ha già appreso. Queste due potenzialità della mente erano state dichiarate prima da Aristotele. Poichè aveva distinto l' uomo che non sa ancor nulla, ma che è in potenza ad imparare, ad acquistare l' abito della scienza; e l' uomo che già ne ha l' abito , come chi ha la scienza grammaticale, il quale può ripensare alle cose che sa, quando vuole, e quando non ci pensa è in potenza all' operazione del contemplare. Prima dunque la mente è in potenza all' abito della scienza; poi è in potenza all' operazione del pensiero attuale. Ora l' uomo, che è sciente in potenza al primo modo, lo chiama « « genere e materia dello sciente » » [...OMISSIS...] . Questa mente dunque « materia di tutte le specie », viene ad essere il medesimo della « materia ideale »di Platone, di cui abbiamo parlato, poichè di questa prima materia ideale, secondo Platone, si compongono tutte le idee. Dove si vede manifesto, che come abbiamo già prima osservato, Aristotele confuse l' esistenza puramente obiettiva di questa materia e di tutte le specie, che ne derivano, coll' esistenza subiettiva dell' uomo intelligente, onde la chiamò [...OMISSIS...] , « un che intelligente », e volle, che questo « che intelligente »dovesse essere lo stesso che « un che inteso », partendo dal principio « « che in quelle cose che sono senza materia (corporea) l' intelligente è il medesimo che l' inteso » » [...OMISSIS...] . Principio affatto gratuito, di cui Aristotele non reca in alcun luogo la minima prova, e contrario al testimonio della coscienza, giacchè chi pensa è consapevole di non esser nessuna delle cose pensate, eccetto se pensa se stesso: che se fosse le cose pensate, egli non potrebbe più distinguere quando pensa se stesso, e quando pensa l' altre cose. Che se avesse afferrata questa distinzione tra le due maniere d' esistenza di cui parliamo, e avesse riconosciuto che « la materia ideale, di cui si formano tutte le idee determinate »non ha e non può avere che un' esistenza obbiettiva, egli avrebbe colto nel segno. Poichè chiamandola «dynaton», possibile, l' avrebbe altresì saputa chiamare in un modo oggettivo «to dynaton», il possibile ; e sarebbe pervenuto alla nostra teoria delle idee, che pone nell' anima umana una materia ideale indeterminata, e questa non esser altro che « il possibile, «to dynaton» », ossia come noi lo chiamiamo più espressamente « l' essere possibile », distinto affatto dall' anima che l' intuisce. Le cagioni, che indussero Aristotele a dare alla materia prima dello scibile un' esistenza subiettiva ad un tempo ed obiettiva, confondendo insieme maniere d' essere così distinte, furono varie. - E prima, l' impegno che avea preso di mostrare, che le idee platoniche non potevano giovar nulla alla cognizione delle cose, perchè estranee a queste; onde non gli rimase che la via di unire le specie alle cose, e di fare le specie nelle cose e nella mente identiche, temperando poi un tale assurdo colla particella «pos», e col dire il contrario altrove in altre parole, come quando fa che la mente patisca dal simile, [...OMISSIS...] , cioè dall' intelligibile , [...OMISSIS...] , quando questo non doveva esser pur altro, che l' effetto e l' atto della mente stessa. Un' altra cagione è quella, comune a tutta l' antica filosofia, che vi era assai poco considerata la coscienza , e non si deduceva la dottrina dell' anima dall' anima stessa, ma dall' analogia delle cose esteriori, attribuendosi all' anima quella costituzione, che in queste si ravvisava. Ora in tutte le cose reali e finite non c' è che potenza , atto e limitazione , e la parola forma è tolta dall' intelletto e a loro applicata, ma in esse veramente, in quanto sono fuori della mente, non c' è specie o forma alcuna. Confondendo dunque le cose reali in sè colle cose reali pensate dalla mente, si prese l' atto che hanno i reali, per identico alla forma che non è in esse, ma solo nella mente, ed è dalla mente data ad esse quando si conoscono, essendone la forma o la specie l' essenza intelligibile. Questa confusione d' elementi diversi accadde anche ad Aristotele, nel secondo libro cap. due dell' « Anima », dove la materia è detta potenza , e l' atto è detto specie o forma , [...OMISSIS...] ; quando la specie o forma è diversissima dall' atto, essendo puramente oggetto in cui termina l' atto dell' intelletto. La confusione di questi due concetti, atto e specie od oggetto , si confermò nella mente di Aristotele, o si giustificò a' suoi occhi dall' aver supposto, senza sufficiente esame, che tra il senso e l' intelletto passasse una similitudine maggiore di quella, che veramente ci passa, come risulta da questo luogo: [...OMISSIS...] . Egli vuol dire, che noi diciamo d' intendere colla scienza , e d' intendere coll' anima : [...OMISSIS...] . Dove chiaramente apparisce, che Aristotele prende come equivalenti i vocaboli di forma, di specie, di ragione e di atto [...OMISSIS...] . Pare però rispetto a quest' ultimo, che dubiti egli stesso di ciò che afferma, perchè dopo aver detto francamente che la scienza e la sanità sono forme e specie e ragioni dello sciente e del sano, non osa poi dire, con egual franchezza, che sono loro atto , ma « « come atto, [...OMISSIS...] » ». E crede oltracciò necessario di giustificare quest' ultima appellazione dicendo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque osservato, che nel parlar comune si dice, che l' uomo conosce coll ' anima, ed anche che l' uomo conosce colla scienza, attenendosi a questa maniera di parlare strettamente, distinse due principŒ, denominandoli con cui , [...OMISSIS...] , quo appresso gli scolastici, l' uno de' quali l' anima , l' altro la forma ultimata cioè la scienza o la sanità . Ma si considerino attentamente queste parole: « Noi viviamo e sentiamo e raziociniamo coll' anima ». Si distingue dunque il noi dall' anima. Il noi indica certamente il subietto, la persona umana . Ma l' anima non è ella anche persona umana? Se si distinguesse l' anima dalla persona, come gli antichi infatti distinsero «psyche» da «pneuma», si potrebbe dire acconciamente che: « noi viviamo e sentiamo coll' anima », intendendo per anima « la vita animale e sensibile ». E probabilmente fu tratto Aristotele a considerare l' anima come un istrumento con cui noi operiamo, dall' aver fondata la sua psicologia sulla definizione dell' anima generica, e però della più imperfetta. Ma dicendo egli oltracciò che noi coll' anima « raziociniamo », non può più dirsi che noi facciam questo coll' anima sensitiva. Coll' anima intellettiva dunque? Nè pure, perchè quest' anima siamo noi stessi, subietto personale. Come dunque poteva dire Aristotele che noi raziociniamo coll' anima? Aristotele considera l' uomo composto di corpo e d' anima, come di materia e di forma [...OMISSIS...] , e questo composto è quello, a cui attribuisce gli atti che si fanno coll' anima. Ma in vano, perchè negli atti intellettivi, la parola noi che esprime il subietto che si fa, è un sentimento semplicissimo ed incorporeo (1). In secondo luogo Aristotele cade in un manifesto assurdo, poichè ponendo il corpo come materia e potenza, l' anima come forma e come atto, e dicendo che tutti gli atti sussistono nella materia come in loro subietto (giacchè nega che l' anima sia subietto), viene a fare che il noi intelligente sia il corpo e che l' anima sia il suo atto (2). L' anima umana dunque è ella propriamente il subietto che sente coll' istrumento del corpo, e intende coll' idea, e non è quella, con cui si sente e s' intende da un composto. Un' inesattezza così grande di parlare condusse Aristotele ad altre strane confusioni: [...OMISSIS...] : e questo che ha potenza ad essere così è il corpo suscettivo d' essere animato, cioè di ricevere quell' anima che è una ragione e una specie, componendo così l' uomo di corpo, organizzato sì, ma per sè del tutto materiale, e di specie , onde il puro corpo sarebbe il subietto della specie . Vedesi che Aristotele non colse punto nè poco la distinzione tra la forma subiettiva , l' estrasubiettiva e l' obiettiva (2), e però non intese, che la specie o idea è una forma obiettiva, e che ha quindi bisogno d' un subietto vivente e senziente per essere da questo intuìta, e così avuta; il che non può fare alcun organismo materiale, che ha un' esistenza puramente estrasubiettiva, ed è suscettivo soltanto della forma estrasubiettiva. Questa confusione tra la forma subiettiva ed estrasubiettiva, e la forma obiettiva, vedesi dal mettere insieme che egli fa la sanità e la scienza , quando quella è una forma subiettiva , e questa è una forma obiettiva . E come abbiamo già detto prima, alla subiettiva non appartiene nè pure il nome di forma , ma semplicemente quello di atto , e questo non si chiama forma, se non considerato in relazione all' intelligenza che n' ha l' idea, la quale, applicata all' atto conosciuto, dicesi forma. C' è ancora in questa dottrina Aristotelica un altro errore profondo, ed è quello di supporre che la materia costituisca sempre il subietto , anche de' composti. Prendendo la materia al modo Aristotelico come « ciò che è in potenza », convien distinguere tre materie, e relative ad esse tre maniere di forme: la materia e la forma estrasubiettiva, la materia e la forma subiettiva, la materia ideale e obiettiva, che è ella stessa in un altro rispetto, anche forma. Ciascuna di queste materie costituisce benissimo il subietto della forma a sè relativa, ma non di tutto il composto; come nell' uomo, se si prende per materia il corpo e per forma l' anima, quello non è punto il subietto di questa, benchè si possa prendere per subietto delle sue proprie forme corporee. La materia estrasoggettiva dunque è estesa e corporea, ed essa è suscettiva di sole forme (o piuttosto limiti ed atti ) estrasoggettive , come la sfericità, o la cubicità di un corpo: la materia subiettiva è la potenza di sentire o d' intendere, e quest' è l' anima sensitiva in quant' è costituita da un sentimento fondamentale e sostanziale suscettivo di modificazioni o sensazioni, ed è l' anima intellettiva in quant' è costituita da una prima intuizione e conseguente sentimento e potenza di emettere degli speciali atti intellettivi: gli atti poi sensitivi e intellettivi, rispetto all' intendimento che li pensa, si dicono forme subiettive: la materia ideale finalmente è l' essere indeterminato, e in quanto è suscettivo di determinazioni si può chiamar materia delle idee speciali e generiche, ma in quanto egli è essenziale obiettività, si dice forma obiettiva di tutte l' altre idee e di tutte le cose. Ora nelle due prime maniere di materia e di forma, la materia propria di ciascuna, o si prende pel subietto, od anche è tale; il subietto d' una forma estrasoggettiva non può essere altro che dialettico, cioè non propriamente un subietto, ma un estrasubietto che si prende per subietto dalla mente per la necessità del pensare: il subietto poi d' una forma subiettiva è vero subietto, e però non può mai essere un estrasubietto. Quanto poi alla forma ideale ed oggettiva, ella non ha subietto negli enti finiti, ma si prende come subietto dialettico delle sue determinazioni. C' è però un subietto, che non s' appropria già quella forma come un elemento della propria natura, ma un subietto che la intuisce come un diverso da sè, propriamente come oggetto; e quest' è l' intelligenza finita, come è appunto l' anima dell' uomo. Il vero dunque e reale subietto è costituito solo dalla materia subiettiva ed è il principio sensitivo e l' intellettivo: l' estrasoggettivo e l' ideale non sono subietti, se non dialettici. Se dunque si cerca di questo composto che dicesi uomo , qual sia il subietto, è da rispondersi non altro che « il principio sensitivo e intellettivo che è l' anima in quanto è persona », e perciò il subietto non è la materia, ma la forma dell' uomo, cioè l' anima intellettiva, che non è forma del solo corpo, ma di tutto il composto uomo (1). A torto dunque Aristotele considerò il corpo come il subietto dell' umana natura, il subietto di quell' atto , che chiamò anima, poichè scrisse: [...OMISSIS...] . Gli espositori cercano di attenuare il torto d' Aristotele, dicendo che egli parla non del corpo puramente materiale, ma del corpo unito all' anima (3). Ma se l' anima è un atto del corpo, chiaramente apparisce che il corpo è il subietto di quest' atto, e se l' anima è un quid corporis benchè non sia corpo, il corpo rimarrà di novo il principale; e finalmente il dire che « l' anima sussiste nel corpo »è un non intendere la dignità e potenza dell' anima, perchè in questa piuttosto, come dice S. Tommaso, sussiste il corpo vivente, e da essa è contenuto nella sua unità. I quali errori d' Aristotele nacquero in gran parte dall' aver considerata l' anima con principŒ troppo generici ed astratti (4), onde poi non potè conservare la coerenza seco stesso, quando pose che l' intellettiva era un altro genere d' anima , [...OMISSIS...] , e che potea separarsi dal corpo realmente [...OMISSIS...] , e non di mero concetto [...OMISSIS...] . Ma tornando ora noi alla confusione che fa Aristotele tra quello che per sè è atto , e non forma , e quello che è per sè forma: vedesi questo equivoco nelle due forme che reca in esempio, la scienza e la sanità , dicendo, che quella è forma dello sciente , questa del sano . Poichè la sanità non è che un atto dell' animale, e non è forma se non quando quest' atto è pensato dalla mente, perchè allora è oggetto, e non fa sano nessuno; laddove la scienza è per sè forma, non potendo esistere che nella mente come un complesso di oggetti da questa contemplati. Confonde dunque l' atto che si può dire forma subiettiva, colle vere forme obiettive (1). Ed anzi nella scienza stessa due cose si devono distinguere, quelle appunto che Aristotele prende per una sola, cioè l' atto della mente che contempla, e questo non è forma, se non in senso subiettivo e traslato, e le idee contemplate, e queste sono veramente e propriamente le forme. Da questa confusione avviene che Aristotele parli dell' anima intellettiva come fosse ad un tempo un atto subiettivo, e come fosse ella stessa obietto; negando però all' anima in genere l' esser materia e subietto, e accordandolo al corpo vivente (2). La considera in fatti come un atto subiettivo quando ammette che essa sia un che sciente. [...OMISSIS...] . Benchè parli qui d' uno sciente in potenza, tuttavia non si potrebbe chiamare sciente semplicemente [...OMISSIS...] , se non avesse un atto qualsiasi di sapere anteriore alla cognizione ricevuta. E veramente quello che nega Aristotele all' uomo per natura sono, come vedemmo, degli « abiti di sapere determinati (4) », e quando parla del sapere acquisito, sempre adopera tali espressioni, che indicano una scienza determinata, come in questo luogo adduce per esempio la grammatica. Aver dunque l' anima intellettiva ed essere sciente in potenza è il medesimo per Aristotele. Ora l' atto che s' esprime colla parola sciente , è un atto subiettivo, e non una forma obiettiva. Ma altre volte e interpolatamente, come gli accomoda, Aristotele parla dell' anima intellettiva come fosse una forma obiettiva , come abbiamo veduto, e come si può di nuovo rilevare dal seguente luogo (5). [...OMISSIS...] . E poco appresso la dice « « essenza come concetto » » [...OMISSIS...] , e la paragona al concetto della scure, che non è separato dalla scure se non di nome. Così ora la fa atto subiettivo del corpo vivente (1), ora specie ossia forma oggettiva, confondendo l' una cosa coll' altra. Ma quest' atto, questa entelechia del corpo, restringendoci all' anima intellettiva, ha egli stesso tre gradi successivi; il primo fa l' uomo sciente in potenza ed è l' anima intellettiva , il secondo è la scienza appresa come abito , di cui dà in esempio la grammatica, il terzo è l' atto della contemplazione d' una cosa determinata che già si sa per abito (2). Il primo che è l' essenza dell' anima, e che avea detto atto del corpo, diventa ella stessa nel discorso d' Aristotele, rispetto alla seconda e alla terza maniera di atti « genere e potenza »; [...OMISSIS...] ; di che deriva, volendo esser coerenti ai principŒ Aristotelici, che l' anima non solo è atto del corpo, ma anche subietto, perchè materia e potenza d' altri atti, che da lei procedono (4). Di più ella non ha bisogno, per fare alcuni di questi atti, di alcun organo corporale. Costretto di confessar tutto questo, Aristotele si trova impacciato più che mai, nel rispondere alla domanda: se quest' anima possa sussistere separata dal corpo, e dice e ripete, che questo è cosa oscura (1), ma finalmente confessa di sì: « « Niente vieta, che alcune parti dell' anima sieno separabili, perchè non sono atti di nessun corpo » »: a queste parti adunque, o parte, che non è atto del corpo, si deve necessariamente attribuire la condizione di subietto di quegli atti che sono esclusivamente suoi. Ora, se può sussistere, conviene che sia un subietto determinato , perchè l' indeterminato non può avere propria esistenza. Non si può dunque chiamare materia , se non relativamente ad atti accidentali. Ma il subietto degli atti accidentali è la forma, ossia è la sostanza, secondo lo stesso Aristotele, come vedemmo. Non può dunque dirsi materia , se non in un senso relativo e dialettico. E ancora Aristotele descrive l' anima come subietto, ogni qualvolta la descrive come quella che contiene e dà l' unità agli elementi corporei, [...OMISSIS...] (2), poichè il contenente ha ragione di subietto relativamente al contenuto; e molto più quando la considera come cosa superiore e dominante il corpo, il che attribuisce a tutta l' anima, ma soprattutto poi alla mente (3). Ma, di nuovo, come quest' anima, per sè subietto, passa dal primo suo essere di potenza, cioè di sciente in potenza , [...OMISSIS...] , a' suoi atti? Il primo genere di questi (ciascun de' quali può in appresso rimanere nell' anima com' abito determinato, o può divenire oggetto d' attuale contemplazione) è quello che Aristotele chiama mente, «nus», e che gli Scolastici tradussero intelligentia : questa mente ha per suo oggetto i principŒ, [...OMISSIS...] (4) e non è scienza, perchè la scienza è sempre accompagnata col raziocinio, e però non è mai de' principŒ (1), ma è anteriore alla scienza perchè è « « principio della scienza » », [...OMISSIS...] , ed è della scienza più evidente, [...OMISSIS...] . Questa mente dunque è la stessa mente da potenza passata all' atto suo proprio e primo, che è quello d' intuire le specie e gli astratti, che Aristotele unisce sotto gli stessi nomi d' indivisibili , [...OMISSIS...] , impartibili [...OMISSIS...] , universali, [...OMISSIS...] , immediati, [...OMISSIS...] , principŒ, [...OMISSIS...] , o principŒ primi, e immediati, [...OMISSIS...] (2) e la stessa mente che da «dynamei» è divenuta «entelecheia». Ora il maggiore sforzo del filosofo si pone appunto nello spiegare questo passaggio, nello spiegare come la mente si provveda delle specie determinate , che le mancano da principio, onde si paragona a una tavola rasa, la quale è la questione dell' origine delle idee. Poichè spiegate le idee, è facile lo spiegare gli atti che vengono appresso, cioè quello di contemplare attualmente le idee che si hanno, «theoreim», e di conoscere ragionando, «noein, dianoeisthai» (3). Ora Aristotele, per ispiegare questo passaggio concepì una facoltà di sentire in genere, nella quale si radichino tutte le attività dell' anima, d' ogni anima qualunque, e questa anche noi abbiamo ammessa (4). Ma questo sentire si diversifica ne' varŒ animali, e specialmente da tutti gli altri nell' uomo. In questo Aristotele riconosce un senso de' singolari, e una sensione degli universali. [...OMISSIS...] . E` dottrina costante di Aristotele, che il senso esterno è de' singolari, e l' intelletto degli universali (6), ma nell' uomo rimane una sensione dell' universale . Questa suppone una facoltà dell' universale nell' anima, che è l' intelletto, e che si può dire una special maniera di senso, perchè sente immediatamente l' universale. Quest' universale è quello che Aristotele chiama talora essere della cosa, talora essenza, specie, forma., ecc.. Il che si conferma con queste parole: « « Nell' anima ragionativa inesistono i fantasmi come pure i sensibili »(7) », il che si può intendere così, che i sensibili soggiacciono ai pensieri, come loro materia e condizione. In questa maniera si salva dall' assurdo la sentenza che « « la sensione faccia nel modo detto l' universale » » [...OMISSIS...] : distinguendo Aristotele la sensione dall' attuale sentire , che prende la sensione per ciò che rimane nell' anima intellettiva dopo l' atto del sentire; e si può congetturare, che questa maniera di restare, di rimanere nell' anima, sia stata suggerita ad Aristotele dalla stessa lingua greca, di cui la sua filosofia è una continua interpretazione, poichè da «meno», permaneo, constanter maneo , si derivava «menos», che significava « anima mente », da cui il latino mens . Viene dunque a dire Aristotele, che data una sensione esterna, rimane una sensione interna, che non è l' atto del sentire esterno, ma d' un' altra facoltà di sentire troppo diversa, della facoltà di sentire l' universale, che dicesi intelletto , «nus». E però benchè sostenga che l' universale da prima si trovi ne' singolari [...OMISSIS...] , pure è costretto d' ammetterlo anche fuori di essi [...OMISSIS...] , cioè nell' intelletto, dove è solo l' uno e non i molti, come prima abbiamo veduto della specie che dirige l' arte (.0 e segg.). E che la cosa sia così, rilevasi anche da questo che, a spiegare come l' anima abbia l' universale, non si contenta della sensazione esterna, ma c' introduce un' operazione interna, che chiama «epagoge», inductio (2), e chiama gli universali, che per essa si conoscono, «prota», quasi primi conosciuti. Poichè l' induzione aristotelica è cosa totalmente diversa dall' induzione introdotta da' moderni sensisti per ispiegare l' origine delle idee: i moderni introducono il paragone de' singolari, il che suppone questi conosciuti avanti gli universali; Aristotele non fa menzione di paragone alcuno, anzi dice, che i singolari si conoscono dalla mente per mezzo degli universali: è una operazione sola, che fa la mente, colla quale, all' occasione delle sensazioni, conosce ad un tempo gli universali e in questi i singolari, [...OMISSIS...] , riunendo quelle due operazioni, che noi abbiamo chiamate percezione ed universalizzazione . A una tale induzione Aristotele non accorda tuttavia la dimostrazione scientifica dell' essenza e della quiddità della cosa [...OMISSIS...] . Noi diciamo che nella percezione c' è ad un tempo il singolare e l' universale; ma con quest' ordine logico, che è prima la sensazione singolare che non è cognizione, per secondo l' universale, che è la prima cognizione, e per terzo la cognizione del singolare o l' affermazione: e quando questa si abbandona, rimane nella mente l' universale realmente diviso dal singolare. S' ascolti Aristotele: [...OMISSIS...] , come accade se non s' è fatta l' applicazione della cognizione universale al particolare. Ed è per questo che Aristotele rappresenta la mente come un senso, e la chiama sensione (il che impacciò gl' interpreti), e la distingue dalla facoltà di ragionare [...OMISSIS...] per indicare, che opera immediatamente, senza moto di raziocinio come il senso, ond' anche noi abbiamo chiamato « sensione intellettiva » l' intuizione dell' essere; il che Aristotele in quella vece dice della percezione, nella quale l' intendimento apprende con una sola operazione l' universale e in questo il singolare reale. [...OMISSIS...] Tale sensione dunque, che è la mente, non è la sensione esterna, ma l' interna e mentale; è in una parola la percezione intellettiva. Se dunque c' è, oltre il senso corporeo, una facoltà nell' anima umana, che quasi continuandosi al senso, forma gli universali, e che è un cotal senso anch' essa dell' universale, come lo chiama Aristotele [...OMISSIS...] , facoltà che altrove chiama mente, «nus», di novo dimanderemo come Aristotele la concepisca. E vedemmo, che secondo lui prima è potenza, «dynamis», poi atto, «entelecheia». E` la stessa mente che passa dallo stato di potenza a quello di atto. Ma la mente in potenza è come la materia de' suoi atti. Come dunque passa a questi suoi atti? Se fosse materia inerte, ci vorrebbe una causa esterna che la movesse. Questa causa esterna non può essere il sensibile , perchè espressamente dice Aristotele, che il solo senso è mosso dal sensibile, la mente poi dall' intelligibile . Ma se l' intelligibile è opera della mente, come può esser quello che la move a formarlo? Aristotele dunque accorda alla mente ancora in potenza un' attività propria, per la quale all' occasione delle sensazioni, ella si mova a formare, o più veramente a intuire gl' intelligibili e gli universali. - Ma può ella intuire gli universali, senza averne un primo in se stessa? Se si considera che alcune volte Aristotele riduce tutti gli universali alle dieci categorie, e si dimentica degli altri, come dell' ente e dell' uno, che altrove accenna pure come universalissimi: noi diremo, che così prendendo gli universali, egli ha ragione di negarlo, poichè le categorie sono tutte più o meno determinate. Prendendo dunque in questo senso la parola universale, non c' è che dire. Ma se si considera tra gli universali anche l' essere possibile al tutto indeterminato , che rimane dagli universali categorici d' Aristotele e dagli altri, ch' egli a questi subordina, squarciato e limitato, crediamo, che dalla stessa dottrina d' Aristotele consegua, che la mente in potenza di questo filosofo, presa come subietto, sia fornita di un tale universale, il quale le dà quella virtù, che la rende mente attiva, «nus poietikos», ossia atta a formare le categorie, e le altre idee inferiori, alle quali Aristotele riserbò il nome d' universali, e presa come obietto, sia ella stessa questo universale, che perciò diventa tutte le cose, e la rende «nus to panta gignesthai». Le ragioni, che a ciò mi movono sono le seguenti: 1) Aristotele dice, che ci deve essere nell' anima intellettiva, « « una mente tale che faccia tutte le cose » », [...OMISSIS...] , e che questa mente è « « come un cert' abito, quale il lume » », [...OMISSIS...] . Ora il lume è una cosa, che si vede, e non è l' occhio, nè l' atto dell' occhio, ma ciò che veduto, fa veder l' altre cose. Dunque questa virtù naturale della mente umana è un oggetto veduto, col quale si vedono l' altre cose. Onde Aristotele soggiunge: [...OMISSIS...] . Questo è il lume della ragione, che noi abbiamo dimostrato nell' ideologia essere l' essere in universale presente alla mente, senza il quale nulla potrebbe conoscere la mente, e col quale conosce tutto ciò che presenta il senso. Ma quest' essere non è nessun colore, ma indifferente a tutti, e in una simile indifferenza fa consistere Aristotele l' universale (1); esso è puro, immisto, non ha nulla di comune col sensibile ed ha tutte l' altre attribuzioni che gli dà Aristotele, tra l' altre quella di non essere alcuna delle specie, quand' è in potenza, ed esser tutte le specie, quand' è in atto, poichè ogni specie e idea è sempre l' essere variamente determinato, [...OMISSIS...] , onde, conchiude Aristotele, non ha altra natura che quella di possibile ; [...OMISSIS...] . 2) Dice poi che questa mente è « come un abito »: e un abito dice cosa che si ha , e non quello che si è (3). Onde indica una duplicità o differenza, perchè altro è l' avente , altro la cosa avuta . La mente dunque di cui qui parla Aristotele non è il principio subiettivo, che ha, ma un diverso da esso, com' è appunto questo lume diverso dall' occhio. Così l' anima intellettiva ha l' idea, ma non è l' idea. E poichè altrove Aristotele nega, che sieno innati nell' anima « abiti determinati di scienza », [...OMISSIS...] , convien dire, che questa mente, o lume, sia posseduta a foggia d' abito indeterminato, appunto perchè non è alcuna specie determinata. 3) Abbiamo veduto che Aristotele confonde in una l' esistenza subiettiva coll' obiettiva, e alla sua mente dà l' una e l' altra, e le proprietà d' entrambe. Questo gli accade, perchè la mente risulta veramente dall' unione per così dire dell' una e dell' altra esistenza, cioè dell' anima ch' esiste solo subiettivamente, e dell' essere ideale che esiste solo obiettivamente: ma il valore della parola « mente »per noi è subiettivo, indicando « « il principio o la facoltà che ha presente l' oggetto e lo intuisce e per esso conosce l' altre cose » ». Aristotele all' incontro, prendendo la mente ora come subiettiva, ora come l' obietto stesso, è costretto a dare di essa una doppia definizione, e però la dice: 1) abito , che si suol prendere subiettivamente per una facoltà del subietto, perchè chi ha, è il subietto; e la dice anche: 2) lume , che ha valore obiettivo. Non può dunque trovare una definizione unica della mente, che possa esser mantenuta con coerenza in tutti i suoi ragionamenti. Ma quando parla della « mente agente », egli per lo più la prende in senso obiettivo, ed è questo che dimostra, come quell' acutissima sua mente sentiva, senza poterlo nettamente esprimere, essere impossibile concepire l' umano conoscere, senza dare all' anima intellettiva qualche primo e fondamentale oggetto. Tale dunque è per lui la mente attiva, «nus poietikos». Questa dunque l' assomiglia al lume e non all' occhio: e vuole che produca le specie, cioè gl' intelligibili, come il lume produce ne' corpi i varŒ colori. Per questo noi già vedemmo, che la mente è chiamata altrove da lui specie, ragione, forma, tutte parole, che esprimono esistenze obiettive, e non punto subiettive. Che anzi chiama la mente non solo principio della scienza [...OMISSIS...] , ma « «principio del principio », [...OMISSIS...] »(1), e finalmente con tutta chiarezza « «specie delle specie », [...OMISSIS...] »(2). Ora niente più propriamente di questa definizione conviene all' essere indeterminato , come abbiamo osservato altrove, e d' altra parte l' appellazione di specie , e molto meno « di specie delle specie », non può convenire a niuna facoltà subiettiva. 4) In quarto luogo si richiami alla mente la dottrina aristotelica, da noi accennata di sopra, circa la materia. Per Aristotele la materia è un puro relativo, e però non può sussistere sola senza la forma, perchè dice Aristotele, da sè non è un chè determinato (3). Ora la mente umana, prima che acquisti le specie determinate, è detta da Aristotele materia . Ora, se la semplice materia non può sussistere da sè, conviene ch' ella abbia anche una forma. E in fatti la chiama anche forma, dicendola mente agente, «nus poietikos». Ora la forma della mente non è altro che la specie, che la rende qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (4), e quivi stesso dice, che è una forma come la scienza , [...OMISSIS...] (5), non come l' attuale contemplazione. Ora, queste appunto sono le proprietà dell' essere universale , che sotto aspetti diversi sia materia ideale , come quello che giace per fondo di tutte le specie determinate e subietto, e forma universale , ossia « specie delle specie »come lo chiama appunto Aristotele. Al modo stesso i generi , che sono ciò che c' è in più specie di comune, sono detti da Aristotele materia rispetto alle specie , benchè ne siano allo stesso tempo la forma. Ed è coerente, che Aristotele non solo chiami la mente materia delle specie, ma ben anco genere », poichè ammette nell' uomo per natura un « che sciente, [...OMISSIS...] (6) e tosto appresso dice, che l' uomo è « « un chè sciente come genere e materia » », genere di tutte le specie, materia di tutte le forme di scienti , che prende in appresso col suo sviluppo. Se non s' interpreta dunque a questo modo la mente d' Aristotele, non ci rimarrebbe altro che un viluppo di contraddizioni e di non sensi. Quelli che hanno voluto far comparire Aristotele un puro sensista, come i moderni, e anche un materialista, come il professore dell' università di Padova, Pomponazio co' suoi discepoli, fondavano il loro argomento principalmente sopra una sentenza che ricorre frequente in Aristotele, cioè, che [...OMISSIS...] . Ma essi non posero mente alla forza del verbo «noein», che esprime un movimento cogitativo della mente, e non la stessa mente, «nus», la quale, com' insegna Aristotele, non è movimento (2). Ora che la mente non esca a' suoi atti, o piuttosto l' uomo non esca a' suoi atti intellettivi, se non alla presenza de' fantasmi, questo lo diciamo anche noi: la questione è anteriore a questi atti transeunti della mente, riguardando la natura e la costituzione della stessa mente, domandando cioè, « « se questa, la mente, esiga un oggetto per esistere, se l' uomo abbia per sua propria natura immobilmente presente un oggetto, col quale operi quasi con istrumento » ». Aristotele risponde, a nostro parere, di sì, solamente che chiama questo stesso oggetto o istrumento, la mente, «nus», e l' uomo per lui è il subietto, che opera con essa, e questa mente oggetto, egli la chiama propriissimamente « specie delle specie », e la rassomiglia alla mano (3), che è per l' uomo « l' istrumento degl' istrumenti »(4). E questo stesso, di considerare la mente come un istrumento, di cui si vale l' uomo alle diverse sue operazioni intellettive, dimostra di novo quello che dicevamo, cioè che questa mente non è per Aristotele una facoltà subiettiva d' intendere, ma il mezzo , con cui l' uomo intende. Così appunto chiama Aristotele la mente e anche l' anima intellettiva « principio con cui », principium quo degli Scolastici. Di che apparisce la ragione che avea di negare ogni cognizione innata. Non dava egli questo nome di cognizione, se non a quella, di cui l' uomo ha consapevolezza: perciò, secondo lui, si conosce solo quell' oggetto, di cui si è consapevoli o di cui si può esser consapevoli, quando si vuole [...OMISSIS...] (1): e questo è un principium quod , cioè un principio, in cui si porta l' atto della consapevolezza. Ammise dunque nell' anima qualche cosa COL QUALE ci procacciamo consapevolmente le cognizioni, ma non qualche cosa IL QUALE sia oggetto della nostra consapevolezza. E l' essere ideale, ossia il possibile, «dynaton», è certamente tanto principium quod , termine dell' intellezione, quanto principium quo , mezzo di conoscere l' altre cose. Ma Aristotele l' ammise solo come mezzo , e non lo riconobbe come oggetto , perchè esso rimane da prima occulto all' umana consapevolezza, e non si scopre se non da poi per una riflessione che fa l' uomo sulle proprie operazioni razionali, a far le quali esso s' adopera come mezzo: lo dichiarò come un lume atto a far risaltar dalle cose i varŒ colori, ma non s' accorse poi, che il lume dovea essere prima veduto lui stesso, acciocchè facesse vedere i colori diversi, di cui egli non era che il complesso. Del resto l' aver distinto l' uomo dalla mente , e quello dichiarato il subietto conoscente, questa il mezzo , con cui conosce, conferma ad evidenza, che per mente agente Aristotele non intese il subietto o la facoltà subiettiva che è il subietto stesso considerato in relazione con una classe de' suoi atti, ma intende un obietto , appunto un lume. Allo stesso modo avea detto che l' uomo conosce prima « per l' anima »intendendo « l' anima intellettiva o la mente ». In questa dottrina però non è costante Aristotele, il quale in altri luoghi riconosce che la mente è anche da sè una sostanza, ed ha atti suoi proprŒ senz' uso d' organo corporale, come vedremo. Ma oltre ciò, dagli stessi principŒ del nostro filosofo, si cava che non si può dividere il principio con cui si conosce, da ciò che si conosce, perchè non si può conoscere con ciò che non si conosce. Aristotele stesso l' insegna con queste parole: [...OMISSIS...] . E così seguita a dimostrare che i principŒ si devono sapere e credere più delle conclusioni, altramente essi non ci potrebbero servire di mezzo a conoscere queste. [...OMISSIS...] . Da tutte queste premesse consegue che la mente non è solo, secondo Aristotele, un mezzo di conoscere, ma un oggetto, più evidente, più noto, più creduto di tutte l' altre cose. Ma tornando alla necessità de' fantasmi per conoscere, l' argomento col quale i Sensisti credono d' attirare a sè Aristotele, svanisce loro in mano anche per un altro modo, solo che si consideri ciò che veramente ne dice Aristotele. Esaminiamo con diligenza i luoghi più classici, in cui egli espone la sua mente. Nel terzo della sua Psicologia al capo ., riassume se stesso, e comincia a collocare nella natura dell' anima due elementi, un chè sensibile , [...OMISSIS...] , e un chè scibile [...OMISSIS...] , questo scibile è lo stesso che prima aveva chiamato « un chè sciente, [...OMISSIS...] »e, « materia e genere »degli scienti o aventi la scienza, [...OMISSIS...] (3). Dal che già si vede, quanto Aristotele fosse lontano dal fare dell' anima umana una qualche statua condillacchiana, che anzi in essa poneva, non certo alcuna idea, ma il genere e la materia universale di tutto lo scibile, che è appunto quello, che facciamo noi. Ora dice che « « questo sensibile e questo scibile o sciente dell' anima, sono le stesse cose in potenza, cioè il sensibile dell' anima è il sentito [...OMISSIS...] in potenza » », e lo scibile dell' anima è il saputo [...OMISSIS...] , pure in potenza (4). Non è lo stesso di quello, che noi abbiamo detto in altre parole, esser così fatta la natura dell' anima umana ch' ella possiede un sentimento fondamentale , dove si può dire, che ci sono in potenza le specie sensibili delle cose sentite (5), perchè diviene tutte le sensazioni, non essendo queste che sue modificazioni, e un' idea che è in potenza tutto ciò, che poi sa l' uomo in appresso, luogo delle specie, [...OMISSIS...] (6), anzi specie delle specie [...OMISSIS...] ? (7). Continua Aristotele proponendosi questa questione: [...OMISSIS...] . Ora niuna cosa è separata dalle grandezze sensibili, dice Aristotele, cioè a dire, non c' è la cosa intellettuale puramente, come voleva Platone, senza il sensibile, chè, rimosso questo, non esisterebbe più la cosa (1). [...OMISSIS...] . Primieramente trova assurdo, che le cose stesse sieno nell' anima, essendo composte di materia e di specie. Ora la specie può esser nell' anima. C' è dunque una specie colle cose fuori dell' anima, e una specie nell' anima, che fa sentire e conoscere le cose. Tornano le difficoltà più sopra notate. Poichè quando Aristotele dice « « che la mente è tutte le cose, perchè è le specie stesse, e queste sono le cose » » o conviene intendere tutto ciò metaforicamente, ed allora non ci rimarrebbe alcuna spiegazione del fatto della cognizione umana, ma parole, quasi un mantello da coprire le spalle del filosofo; o conviene ammettere che la stessa entità, rimanendo identica, abbia due modi d' esistere, il subiettivo o estrasubiettivo nelle cose, e l' obiettivo nella mente, il quale appunto perchè obiettivo è specie; al che non pare esser giunto Aristotele. Di poi, qui Aristotele non ha in vista altro, che di spiegare la cognizione che l' uomo s' acquista delle cose corporee, delle grandezze sensibili, e rispetto a queste, certo non si può ammettere cognizione innata. In terzo luogo Aristotele trova la necessità del fantasma per contemplare, «theorein», le dette cose sensibili, e questo « contemplare », com' ha espressamente dichiarato, non riguarda l' abito della cognizione, ammesso anche da Aristotele senza fantasma, ma l' atto della mente, che pensa l' oggetto, o la prima volta, e allora impara o percepisce, o di poi quando pensa alle cose reali e sensibili che già conosce (3). E chi mai potrebbe negare, che a pensare attualmente un sensibile determinato (che altramente non sarebbe sensibile), ci abbisogni il fantasma? Anche questo è fuori di questione. In quarto luogo dice bensì Aristotele che la specie intelligibile è veduta dal contemplante nella specie sensibile , ma con ciò stesso distingue quella da questa. E tant' è vero che la distingue, che dice che quella si contempla « «insieme col fantasma » [...OMISSIS...] »; onde non è il fantasma. E questo vie più chiaramente si spiega nell' opuscolo «peri mnemes», dove è indicato più precisamente l' uso che del fantasma fa l' intendimento, e l' aiuto, che esso presta all' intendere, e quest' aiuto non è ch' egli già sia l' oggetto inteso, ma si riduce a mantener ferma l' attenzione, come chi vuole speculare sulla natura del triangolo, si mette sott' occhio un triangolo reale, benchè lo specolatore non badi punto alla sua grandezza, o a' suoi difetti (1): ma gli giova quel cotal simbolo al pensiero del triangolo ideale ed astratto, che non ha alcun quanto determinato, e non è nè manco sensibile, non essendo sensibili punto nè poco le linee matematiche, che lo costituiscono: pure il triangolo intelligibile è in qualche modo nel sensibile, perchè nel sensibile c' è un atto che corrisponde a una specie che ne rappresenta alla mente la forma possibile: onde l' intendimento vede il reale (fantasma) nel possibile, nell' essenza, di che s' era per un momento accorto Aristotele stesso quando scrisse che «en hois eidesin hai protos usiai legomenai huparchusi» (2), e non viceversa quando scrisse al contrario, che «en tois eidesi tois aisthetois ta noeta esti» (3) dal che s' avrebbe, che « « le sostanze reali sarebbero nelle specie intelligibili, e queste nelle specie sensibili, e le specie sensibili nelle sostanze reali » ». O bisogna dunque convenire che Aristotele fu incoerente, o intendere che la mente vede gl' intelligibili nelle specie sensibili, non perchè quivi essi veramente ci sieno, ma perchè la mente stessa colla sua attività ve li pone, benchè per sè non ci sieno punto. E porre ne li deve indubitatamente, se si considera, che Aristotele stesso insegna che la mente opera senza organo corporale (4), laddove il fantasma non si può avere senza organo corporale. Finalmente quell' Aristotele che avea preteso contro Platone che tutte le specie intelligibili si riferissero alle cose reali, e che perciò non esistessero da sè, ma altro non fossero che la forma o l' atto di queste, si trova necessariamente condotto a distinguere « « i primi intelligibili » » [...OMISSIS...] , cioè gli universalissimi, da tutti gli altri; e di questi già dubita se si pensino co' fantasmi, o senza fantasmi, anzi mostra apertamente di credere che senza, come osserva il Trendelenburg (1); appartengono immediatamente questi intelligibili al lume della mente agente, e noi diremo all' oggetto. E veramente gl' immediati, [...OMISSIS...] , s' intendono immediatamente dall' intendimento (2), ed anzi l' intelligibile si fa col tocco e coll' atto dell' intendere, [...OMISSIS...] (3), onde l' intelligibile non esiste prima di quest' atto nè nel fantasma nè altrove, perchè l' esistere in potenza non è ancora esistere. Questi primi intelligibili sono chiamati da Aristotele principŒ, «archai» o principŒ della dimostrazione, «archai apodeixeos», ed essi sono indimostrabili, appunto perchè veduti immediatamente dall' anima intellettiva. Ma qual è il primo di questi intelligibili, secondo Aristotele? La stessa mente. [...OMISSIS...] . Conviene dunque che la mente sia qualche cosa di oggettivo e di per sè conosciuto, acciocchè sia il primo principio della scienza e della dimostrazione, quello che fa conoscere l' altre cose (5). Pure questa stessa mente acquista d' improvviso nelle mani d' Aristotele un' esistenza subiettiva, da per tutto dove la fa operante. E congiunge egli espressamente questi due modi di esistere da per tutto dove dice che « è il medesimo la mente e l' inteso » [...OMISSIS...] (1). Poichè è l' atto stesso della mente, che fa gl' intelligibili in atto, e questi li ha la mente, onde dice, che la mente « opera avendo » [...OMISSIS...] (2): gl' intelligibili dunque non sono fuori della mente, ma la mente li fa in se stessa, li fa in atto, avendoli in potenza: e quest' intelligibili, quando così sono fatti in atto, sono la mente stessa in atto, appunto perchè sono atti della mente. Quindi la doppia mente che Aristotele pone nell' uomo, in potenza, prima di fare gl' intelligibili, e in atto. Ma quella mente che fa gl' intelligibili, è essa stessa per natura sua in atto, altrimenti ci vorrebbe un' altra causa che la riducesse all' atto, onde di essa dice Aristotele, che « « questa mente è separabile, e immista, e impassiva, ed essente per sua essenza in atto » » (3), ond' anco asserisce, che di essa non si può già dire, che « « ora intenda, ora non intenda » » (4). Se dunque « « l' intelligibile è l' atto della mente » », e c' è nell' uomo una mente, che è atto per sua propria natura, consegue, che questa mente sia un intelligibile ella stessa, e però, che Aristotele ammetta innato nell' uomo un primo intelligibile , che chiama Mente, e questo primo intelligibile sia lume e principio della dimostrazione e della scienza, e non sia scienza, ma anteriore e più vero [...OMISSIS...] della scienza (5), e sia principio de' principŒ, e specie delle specie, e privo d' ogni corpo e d' ogni fantasma. Lo stesso si deduce anche dall' altro principio aristotelico, che « « ciò che è immateriale è per se stesso intelligente ed intelligibile » » (6). Ora la mente agente è tale: dunque ella stessa è il primo degli intelligibili, da cui tutti gli altri. Cercando quale sia il primo degli intelligibili per l' uomo, noi abbiamo trovato che è « l' essere possibile » al quale possiamo con verità applicare quello, che Aristotele dice della sua mente, insegnando che sia separabile solo «tuth' hoper esti» (7) « ciò che è », e quell' altre parole pure dello stesso filosofo: [...OMISSIS...] , perchè quello stesso intelligibile che in sè è in atto, in potenza è tutti gli altri intelligibili, il possibile assoluto indeterminato, l' essere. Risulta la medesima conclusione da un' altra dottrina di Aristotele, secondo la quale trova la mente in atto, ossia il primo intelligibile, tanto necessario per ispiegare la natura delle cose mondiali, da dichiararlo per sè sostanza , [...OMISSIS...] : onde ammette che possa sussistere per sè separato dalle cose corporee. Perciò dice che questa mente sia nell' uomo parte dell' anima, ma separabile, e la dimostra separabile perchè essa non « « è atto d' alcun corpo » » [...OMISSIS...] (2), come sono le altre parti, che colla mente formano nell' uomo un' anima sola: e perchè l' esperienza dimostra che l' anima non invecchia col corpo, benchè possa essere impedita da certi suoi atti per l' infermità del corpo (3). Dice dunque, che la mente è da sè sostanza, [...OMISSIS...] (1). Questa importantissima conclusione procede dal principio costantemente insegnato da Aristotele, cioè che, sebbene in uno, cioè in un qualche individuo della natura, possa precedere la potenza all' atto, come esserci, a ragion d' esempio, il seme prima del frutto, tuttavia non può esser così nella università delle cose, e il seme precedente a quel frutto, che di sè germina, deve essere stato preceduto dall' individuo perfetto che ebbe in sè o produsse il seme; e ciò: 1) perchè la potenza sola non esiste, è un concetto della mente; se esiste, è solo per essere unita a qualche atto; 2) la potenza non opera; che se operasse, sarebbe in atto; e però ha bisogno di qualche agente in atto, che la ecciti e la sviluppi facendola passare all' atto. L' atto dunque deve precedere in ogni ordine di cose, tanto nelle cose fisiche, quanto nelle intellettuali: altrimenti non si potrebbero spiegare gli atti , che sono nell' universo, il quale ridotto a pura potenza sarebbe annullato (2). Anche alla potenza dunque di conoscere dee precedere un atto primo di conoscere, e però ammette anche nell' anima umana una mente in atto e dice: [...OMISSIS...] . Riconosce dunque la necessità di dare all' anima intelligente, acciocchè sia tale, un atto d' intendere anteriore alla potenza di conoscere, un atto che non è nel tempo, che non cessa mai, onde di esso non si può dire che ora intenda e ora non intenda, una scienza in atto, la quale sia il medesimo coll' intelligibile, ossia colla cosa intesa, [...OMISSIS...] (4). Colloca dunque nell' anima un intelligibile indeterminato, e come genere, attualmente e continuamente contemplato, uno e continuo (5), che dice esser lo stesso dell' atto essenziale della mente, col quale questa mente riduce poi in atto tutti gl' intelligibili determinati, onde altrove usa le parole «to noein» e «to theorein», per la stessa mente, «nus» (6). Convien dunque osservare quale sia tutt' intera la dottrina aristotelica. Quest' è fondata sulla distinzione delle tre essenze elementari, materia, specie e composto . La materia è un concetto della mente, non può stare da sè, non è qualche cosa di determinato; [...OMISSIS...] . La specie o forma può stare da sè, perchè è già qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (1). E similmente il composto di materia e di forma può stare da sè. La specie dunque ha due modi d' esistere, da sè, e unita colla materia. La specie unita colla materia e formante il composto dà alla materia un atto delle operazioni, che non aveva da sè. Ora Aristotele dice che l' anima è specie, e però pone che possa tanto stare da sè, quanto unita alla materia (2), e quando sta da sè, le vengono meno quelle operazioni che a farsi hanno bisogno della materia (3), come d' istrumento, e non solo come d' istrumento ma anche come di potenza e di subietto. Aristotele accorda quest' esistenza dell' anima fuori della materia non solo all' anima intellettiva, ma ben anco all' anima sensitiva, poichè dice che per vecchiezza il principio sensitivo non perisce, ma solo l' istrumento; onde se al vecchio si desse un occhio vigoroso e giovanile, vedrebbe come il giovane (4). Pure più frequentemente insiste sulla separabilità della mente, e pare che ponga questa sola separabile; ma probabilmente intende comprendere in essa il principio sensitivo, considerandolo come un principio o rudimento della facoltà di conoscere; onde per indizio, che gli uomini per natura amino di conoscere, allega l' amore, che hanno, delle sensazioni (5). E poichè l' anima separata non cade sotto la nostra esperienza, si fa a considerarla nel composto, poi passa ad argomentare dalla sua natura ciò che può essere separata. Nel composto considera tutte le operazioni, e dice che l' anima è quella che le contiene tutte ed unifica e però non ha parti (6). Secondo questo principio, l' anima che contiene il corpo e tutte le operazioni del composto dovrebbe essere il subietto ; ma in questo non è coerente, e fa che l' anima tenga qualche cosa del materiale, perchè avendo detto che il corpo è la materia del composto e l' anima la forma, e la materia essendo per lui potenza, e l' anima di conseguenza atto, fece il corpo vivente subietto di quest' atto, chiamandolo sostanza, [...OMISSIS...] (1), onde vuole che « il corpo vivente (il composto, l' uomo considerato dalla parte del corpo), sia quello, che senta la compassione e impari e raziocini [...OMISSIS...] per mezzo dell' anima (2); e pure, come vedemmo, l' intendere [...OMISSIS...] l' attribuisce all' anima sola, senz' uso di corpo, e in mille luoghi parla delle diverse funzioni ed operazioni dell' anima, onde gli è forza di considerare l' anima come subietto paziente ed operante, e non come mezzo delle operazioni. E del pari in tutti quei luoghi dove dice, che il corpo e le sue parti sono istrumenti dell' anima, anche dell' anima sensitiva, riconosce questa per subietto, che adopera quegl' istrumenti, e la considera anche come potenza de' suoi atti (3). Come dunque il corpo per natura vivente sarà il subietto e non l' anima? A questa sentenza fu tratto Aristotele da' suoi principŒ dialettici, come si vede dalla ragione che dà per provare che il corpo vivente è il subietto; [...OMISSIS...] . Avea già detto nelle « Categorie » che gl' individui singolari non si predicano del subietto, ma sono sostanze prime, delle quali si predicano le specie come del loro subietto (5). Avendo dunque detto che l' anima rispetto al corpo è specie , e le specie si predicano del subietto, e non viceversa, fece che il corpo di cui si predica la specie dell' anima sia il subietto di questa, e questa la qualità essenziale e specifica di quello (6). Onde si vede che Aristotele confuse il subietto dialettico col subietto reale . Certo si può prendere il corpo vivente pel subietto dialettico, come quando si dice - e lo dice spesso Aristotele - che l' anima è nel corpo; ma il subietto reale è l' anima, e però si dice (quello che pur dice Aristotele), che il corpo è nell' anima come nel suo contenente ed unificante. Questo subietto dunque reale, l' anima, rimane, anche disciolto il corpo, ed uscita da esso, come s' esprime lo stesso Aristotele (7), ma senza quelle operazioni, che essa fa pel corpo. L' intendere poi [...OMISSIS...] non ha bisogno d' organo corporale, onde dice che la mente pare un altro genere d' anima (1), ed è non lontano dal considerarla un atto del corpo, come si può considerare il pilota un atto della nave. [...OMISSIS...] . Quest' anima dunque, secondo Aristotele, è una sostanza dell' ordine delle specie , che quantunque si può predicare del corpo vivente, come si predicano l' altre specie delle sostanze prime ossia composte (3), tuttavia è determinata, e da se stessa è atto sussistente, e così separata dalla materia è ad un tempo l' intelligente e la cosa intesa, ossia il primo intelligibile, materia e subietto di tutti gli altri intelligibili o specie più o meno determinate che sono suoi atti secondi. A questi atti secondi o specie intelligibili determinate, la mente ossia l' anima intellettiva non esce, se non quando è unita al corpo, perchè tali specie intelligibili le vede nelle specie sensibili, e le specie sensibili non sono divise dalle cose sensibili e reali, cioè dai corpi (4). E questo è il punto di divergenza d' Aristotele da Platone, poichè questi ammetteva tali specie o idee determinate come esistenti da sè fuori de' sensibili e de' reali, e Aristotele lo nega. Ma nello stesso tempo ammette una specie prima pura da ogni materia e da ogni elemento sensibile, che è in potenza tutte quelle specie determinate, e questa è quella che chiama mente, «nus». Stabilito questo, Aristotele ascende a questioni maggiori. Poichè domanda a se stesso, se, essendo la mente cosa che può stare da sè, abbia essa nel suo essere proprio e separato dalla materia, preceduto, almeno nell' ordine logico, la materia stessa e il composto. E quest' appunto sostiene: [...OMISSIS...] (1), dove allude alla dottrina di Anassagora, di cui accenna nel XII dei Metafisici (2). Nel qual libro questa stessa questione è trattata più pienamente. Quivi prende a dimostrare che ci deve essere « «una qualche sostanza eterna ed immobile », [...OMISSIS...] ». Egli muove la sua dimostrazione dalla necessità di spiegare il fatto della generazione e della corruzione delle cose, che suppone sempre stata e quindi sempre stato il moto. Ora dice, che a questo moto continuo conviene assegnare una causa, e questa in atto , poichè in potenza, ancorchè fosse eterna, non produrrebbe il moto continuo (3). Questo motore dunque deve essere un principio, la cui essenza sia atto; [...OMISSIS...] , e, sia uno o più, dee essere scevro da materia [...OMISSIS...] . Ora è qui da risovvenirsi che, secondo Aristotele, ogni sostanza che sia pura da materia, è per sè un intelligibile e un intelligente, ed è pura specie. Ammette dunque Aristotele delle specie eterne, che sono sostanze senza materia, e menti in atto, e sono eterne appunto perchè sono in atto per loro propria essenza, [...OMISSIS...] . Dice in appresso che quest' immobile sostanza è « separata da' sensibili »e che è « priva d' ogni grandezza »senza parti e indivisibile (4). Queste dunque non sono di quelle specie che sono vedute dall' uomo ne' sensibili. Trova dunque necessario di ammettere delle specie, come sostanze eterne, intelligibili, senza materia, separate al tutto dalle cose sensibili, per ispiegare, come per una prima causa, i movimenti mondiali e la generazione e corruzione delle cose. Perchè si concepiscono certe cose mosse e non moventi, altre mosse e moventi, altre finalmente moventi immobili, essenzialmente in atto: e queste sole possono essere prime cause. [...OMISSIS...] . Ora prosegue Aristotele a osservare, che non c' è nulla che possa movere restando egli stesso immoto, se non l' appetibile [...OMISSIS...] e l' intelligibile [...OMISSIS...] . Ora i primi appetibili e i primi intelligibili s' immedesimano (1). In fatti il primo volibile è il vero bello (2), il quale è ad un tempo intelligibile e appetibile. Ma osserva, che è anteriore la ragione d' intelligibile a quella di appetibile, perchè si appetisce una cosa per la ragione che sembra tale, e non sembra tale per la ragione, che la si appetisce: laonde il principio dell' appetizione volitiva è l' intellezione (3). Ma come la mente esce all' atto dell' intellezione? Risponde che è mossa dall' intelligibile ; [...OMISSIS...] . Dal che consegue che l' intelligibile come quello che move la mente, logicamente è anteriore alla mente in potenza, e anteriore altresì all' intellezione, che è la mente condotta al suo atto. Laonde l' intelligibile è anteriore a tutto e forma una serie per sè: tra gl' intelligibili poi la prima è la sostanza che logicamente precede agli accidenti, e tra le sostanze quella, che semplicemente è, cioè quella che è in atto; perchè se fosse in potenza non sarebbe ancora, e non potrebbe dirsi semplicemente che fosse. Il primo dunque tra tutte le cose è « « un intelligibile puro, sostanza in atto » ». Ma tale non potrebbe essere, secondo Aristotele, se non fosse egli stesso, quest' intelligibile, per sè intellezione e così atto o mente intelligente. C' è dunque una mente che è essenzialmente intelligibile e intellezione e intelligente nel tempo stesso, poichè l' intelligibile è per Aristotele l' estremità dell' atto della mente. Riconosce dunque Aristotele la necessità che preceda un intelligibile per sè a tutto, il quale abbia non solo un' esistenza obiettiva, ma anche subiettiva, e sia una mente in atto che si continui quasi numero trino, [...OMISSIS...] (5), nei tre stadŒ di mente, intellezione, intelligibile, [...OMISSIS...] e sia una sola sostanza eterna e divina, onde conchiude, [...OMISSIS...] , « poichè questo è Dio »(1): questo, dico, lo riconosce necessario per ispiegare non meno l' origine della mente umana, che la generazione e il movimento delle cose naturali. Ma come egli applichi quest' intelligibile eterno a spiegare tutto ciò, è difficile a dire, perchè ne tocca con brevità, oscurità e dubbiezza qua e colà ne' varŒ libri che ci rimangono. Cominciamo dalla mente umana. Nel secondo « Della generazione degli Animali » (2) propone la doppia questione se nel seme [...OMISSIS...] , e nel concepito [...OMISSIS...] ci sia l' anima, e onde venga [...OMISSIS...] ; e prima dice che c' è un' anima vegetale [...OMISSIS...] , che poi ne emette una sensitiva [...OMISSIS...] , per la quale il concepito diventa animale (3), finalmente una razionale, per la quale diventa uomo (4). Di queste tre anime ossia gradi di perfezione dell' anima il rudimento è nella vita de' generanti ossia nel loro seme, onde così ne descrive lo sviluppo. [...OMISSIS...] . E qui passa alla seconda questione, se queste tre anime vengano dal di dentro cioè dalla virtù seminale, che è nel corpo, o dal di fuori s' aggiungano al feto. [...OMISSIS...] . Dopo aver detto che le tre anime così sono insite nel corpo seminale e si sviluppano l' una dall' altra, da queste tre anime separa la mente e conchiude così: [...OMISSIS...] . Qui distingue dunque la mente, «nus», dall' anima, dico anche dall' anima intellettiva, «noetikes», in virtù della quale l' animale si fa uomo. Pare dunque evidente che qui Aristotele prenda la mente sotto l' aspetto d' intelligibile , ossia com' oggetto primo dell' anima intellettiva, e in fatti anche le parole che seguono dimostrano la mente distinta dall' anima stessa. [...OMISSIS...] . Dice dunque che la sola mente è divina e viene dal di fuori, cioè da Dio, che è, come vedemmo, l' intelligibile, pura forma, senza nulla di corporeo e di sensibile. Tuttavia il corpo animato avendo in sè il principio dell' anima trina, cioè vegetale, sensitiva, e intellettiva [...OMISSIS...] , alla qual ultima avviene dal di fuori la divina mente, partecipa anch' egli del divino, e però lo chiama « « più divino degli elementi » » [...OMISSIS...] . Ma come la mente s' aggiunge venendo dal di fuori, così anche si separa dal corpo; [...OMISSIS...] , sebbene egli pare che in questo luogo oscuro si separi piuttosto dal corpo crasso un corpo sottile, unita al quale sia la mente partecipata da Dio. Di qui nasce un' altra questione: Che cosa fa dunque questa mente divina al tutto separata dalla materia, ma che avviene all' uomo, cioè all' anima intellettiva, e che pure nell' uomo stesso non fa uso d' alcun organo corporale? Anche su questa questione un gran buio. Pure se attentamente si considerano e si pesano i diversi luoghi paralleli, parmi che ne risultino due cose: 1 Che la mente informa l' anima umana e la rende intellettiva e così capace d' intendere i sensibili e tutto ciò che da questi si trae per astrazione; 2 che essa mente somministra da sè i primi intelligibili, [...OMISSIS...] , in occasione delle sensazioni, i quali primi intelligibili nè sono fantasmi, nè s' intuiscono ne' fantasmi, nè vengono in alcun modo dal senso, ma dalla mente pura. Che questo sia il pensiero d' Aristotele, apparirà chiaro quando si osservi attentamente la differenza ch' egli pone tra la scienza, «episteme», semplicemente, e la mente , «nus», che è la scienza o cognizione de' principŒ «ton archon episteme». La scienza semplicemente detta , secondo Aristotele, si trae dalle sensazioni, non così la scienza de' principŒ ossia la mente , «nus», poichè egli così la chiama, «nus an eie ton archon» (1); questa viene da Dio, ossia dalla mente separata e pura. Per non essersi distinte queste due maniere di cognizioni, fu erroneamente creduto che Aristotele riducesse l' origine d' ogni sapere umano, come a suo principio, alle sole sensazioni. Ma niente di più falso, come già apparisce anche dal detto di sopra. S' esamini attentamente il luogo classico, che è l' ultimo capo de' « Posteriori », dove cerca l' origine dei principŒ. Per venire a questi, prima di tutto descrive la formazione della scienza semplicemente detta . La formazione di questa percorre i seguenti gradi: la sensazione , la memoria , l' esperienza , il principio dell' arte e della scienza , «technes arche kai epistemes», dell' arte se riguarda la generazione o l' operazione, della scienza se l' ente; [...OMISSIS...] . Fin qui ha descritto la formazione della scienza propriamente detta, e di questa conchiude che [...OMISSIS...] . Ma la formazione della scienza suppone avanti di sè un' altra specie di cognizione, che non è scienza, o abito di scienza, ma è ciò da cui viene la stessa scienza, e questa cognizione anteriore sono i supremi principŒ ossia la mente. [...OMISSIS...] . Descrisse dunque prima come successivamente si formi la scienza nell' uomo, ma perciò appunto non descrisse, come si sieno formati i principŒ, poichè questi non appartengono alla scienza. E veramente la scienza che descrisse, è quella che si fa per via di discorso, come egli stesso dichiara, [...OMISSIS...] , e gli abiti determinati, menzionati più sopra, qui li chiama abiti riguardanti la cognizione raziocinativa, [...OMISSIS...] . Il principio dunque della dimostrazione è fuori della dimostrazione come il principio della scienza non può esser la scienza, [...OMISSIS...] . E che la scienza, di cui aveva parlato, fosse raziocinativa e dimostrativa, l' avea mostrato anche dicendo che si conoscevano i primi per analogia, che è una specie di ragionamento come vedemmo; [...OMISSIS...] . Sopra la scienza dunque colloca Aristotele un genere più splendido, e questo è il complesso degli ultimi principŒ, cioè la mente stessa, [...OMISSIS...] . Colloca adunque nell' uomo un abito, non un abito determinato, un abito di scienza, ma un abito anteriore e più vero della scienza, principio della scienza, anzi principio del principio, [...OMISSIS...] . E lo chiama « « principio del principio » » per distinguerlo da quello, che prima avea chiamato «technes arche kai epistemes», con che intendeva l' universale, e da quello che avea chiamato «ta prota», cioè i più estesi universali ossia le categorie (1). Sopra tutti questi sono gli ultimi principŒ della dimostrazione, il principio del principio della scienza, la mente. Questa mente è la mente in atto, che nel terzo dell' anima chiamò abito e lume, [...OMISSIS...] e che disse esser quella, che trae al suo atto la mente potenziale, quella perciò che rende l' anima umana atta a trarre dalle sensazioni nel modo detto la scienza; poichè non ogni anima è atta a ciò, ma quella che è tale, cioè a cui è venuta dal di fuori questa mente divina, [...OMISSIS...] . Ora questi primi principŒ proprŒ della Mente, Aristotele li chiama immediati [...OMISSIS...] , e l' uomo non può saper nulla per via di dimostrazione, a cui appartiene la scienza, se non conosce prima que' principŒ (2), onde li chiama più noti della scienza, [...OMISSIS...] ; questi dunque precedono nella mente umana la scienza. Ma Aristotele qui si trova in una somma perplessità. Da una parte egli riconosce che niuna scienza ci può essere, se l' uomo non conosce avanti que' principŒ; onde dice: [...OMISSIS...] . Dall' altra, trova pure assurdo, che ci sieno in noi gli abiti della scienza, senza che noi n' avessimo coscienza [...OMISSIS...] . La risposta a queste difficoltà consiste nella distinzione tra due generi di cognizioni, la cognizione dimostrativa, e la cognizione de' principŒ, il qual ultimo genere avviene, che talora sia nell' uomo, e l' uomo nol sappia (1), e da esso si fa il secondo, cioè quello della scienza. Laonde la scienza suppone la cognizione de' principŒ, ma una cognizione latente fino che non c' è l' oggetto d' applicarla. Sia a ragion d' esempio quest' oggetto il triangolo. Il concetto generale di triangolo si forma per l' induzione aristotelica che abbiamo descritta. Conosciuto il triangolo si rileva che i suoi tre angoli sono uguali a due retti, mediante un sillogismo che parte dal principio di contraddizione . Questo principio, [...OMISSIS...] , dice Aristotele, deve assumersi come noto. Dee ancora preconoscersi il triangolo prima di venire alla dimostrazione; e se s' impara dal maestro, sapersi che questo appunto indica la parola « triangolo ». Due cose si devono dunque preconoscere prima di dedurre che gli angoli del triangolo sono uguali a due retti, [...OMISSIS...] . Preconosciute queste due cose, si conosce anche la conseguenza che se ne trae. Domanda dunque Aristotele: [...OMISSIS...] . E così scioglie il dubbio, che Platone proponeva nel dialogo intitolato il Menone «( Ideol. 222 segg.) ». Distingue dunque Aristotele l' universale individuo dai primi principŒ del ragionamento, e vuole che quello si formi per via d' induzione dal senso, questi vengano immediatamente dalla mente di sua essenza in atto, e, da latenti forse che stanno nell' anima, si manifestino in occasione di sillogizzare mediante l' universale conosciuto per la detta induzione. L' universale individuo [...OMISSIS...] è di quelli che si dicono senza congiunzione, [...OMISSIS...] , i principŒ sono di quelli che si dicono con congiunzione, [...OMISSIS...] , cioè s' esprimono in un giudizio o proposizione; tale è il principio di contraddizione: « che d' ogni cosa è vera l' affermazione o la negazione ». I primi non hanno nè vero nè falso in se stessi, perchè nulla affermano o negano: ai secondi appartiene la verità e la falsità. Ora la verità appunto delle proposizioni è ciò che Aristotele riconosce superiore alla sensazione e immune affatto da queste, e rimette totalmente alla mente in atto. [...OMISSIS...] . Dal che deduce che se il vero e il falso è la congiunzione degl' intelligibili ossia de' concetti, dunque non sono i singoli concetti, e però molto meno i fantasmi. [...OMISSIS...] . Ora l' aver posto Aristotele che l' oggetto della Mente in atto sia la verità , non discorda nè pure in questo da noi, che abbiamo detto il primo oggetto della mente essere appunto la verità «( Ideol. ) ». Ma resta a vedere più accuratamente che cosa sia questa verità che non viene da' sensi, ma è dalla mente immediatamente conosciuta. Cercando dunque Aristotele qual sia il fondamento della verità de' giudizi e delle proposizioni, trova che tutte dipendono in ultimo da due principŒ o prime proposizioni per sè evidenti ed indimostrabili: 1 il principio di contraddizione ; 2 e un principio che egli non denomina nè chiama principio, ma che noi per maggior chiarezza, parendoci che così si determini meglio il suo pensiero, chiameremo principio d' affermazione assoluta . A questi principŒ Aristotele suppone questo fondamento: [...OMISSIS...] , perchè niente è o si fa con incertezza o a caso, ma tutto l' essere è determinato (4). Ora consideriamo a parte i due principŒ. Il principio di contraddizione è questo: « D' ogni cosa è necessario che sia vera o l' affermazione o la negazione ». Su questo principio osserva Aristotele, che non è già necessario che sieno veri i due estremi dell' alternativa presi in separato, ma o l' uno o l' altro, e il principio non determina punto quale: [...OMISSIS...] . Laonde non determinando questo principio quale de' due estremi sia vero, ma solo, che l' uno o l' altro è vero; non basta per conoscere la verità, ma dee esser soccorso da qualche altro, che togliendo l' alternativa, mostri quale sia de' due il vero: dal che poi s' inferisce l' altro, falso. Questo secondo principio è quello, che noi abbiamo chiamato di affermazione assoluta e che da Aristotele viene solamente indicato. Poichè dice che l' alternativa che si ha nel principio di contraddizione, c' è solo ne' contingenti cioè in quelle entità che non sono sempre in atto, [...OMISSIS...] . C' è dunque un altro principio per le cose necessarie, che dice: [...OMISSIS...] . E come il principio di contraddizione ha per fondamento la natura dell' entità in astratto, senza che si consideri ancora se l' entità sia contingente o necessaria: così il secondo principio nasce quando s' è conosciuto che ci hanno degli enti contingenti e degli enti necessari, pei primi de' quali rimane valevole lo stesso principio di contraddizione che pone l' alternativa, per gli altri poi è già tolta l' alternativa, e al principio di contraddizione sostituita l' affermazione assoluta (4). Da questo si vede, che, secondo Aristotele, il vero è nei giudizŒ ed è lo stesso ente affermato (1) detto da lui, « « ente nel senso più eccellente e proprio », [...OMISSIS...] ». Poichè ciò, che non è affermato, cioè gli enti che si dicono senza composizione, come sono le specie, che si riducono alle categorie - si concepiscano queste in atto o in potenza - non sono da Aristotele considerati come enti completi, chè, concepiti in tal modo, e non affermati, non è ancor detto che sieno o non sieno, e restano solo possibili, per la mente, ma l' ente affermato è completo (se l' affermazione è vera) cioè è l' ente che veramente è (2). Distingue dunque le cose che ammettono composizione dalle cose semplici, come sono le specie. Nelle prime dice, che « « l' essere è il comporsi e l' esser uno, il non essere è il non comporsi e l' esser più » » (3). Questo comporsi e non comporsi è tolto dalla forma del giudizio, che è l' unione che fa la mente del predicato col subietto: e vuol dire, che se il predicato nel fatto si compone col subietto, la cosa è così come s' afferma, e questo la chiama essere , [...OMISSIS...] : se poi il predicato, che noi uniamo al subietto, nella cosa non si unisce e compone, essa non è qual s' afferma, e questo lo chiama non essere [...OMISSIS...] . Dunque, se la cosa è come s' afferma, c' è il vero, se non è, non c' è il vero. Il vero dunque è l' essere affermato. Ma dove non c' è composizione di subietto e di predicato come nelle specie?... Domanda dunque in queste cose incomposte « « che cosa sia l' essere e il non essere, e il vero e il falso »; [...OMISSIS...] ». E risponde che « « il vero è il toccare, ed esprimere colla voce », [...OMISSIS...] », cioè il toccarle colla mente, l' intuirle e il significarle colla voce, distinguendo il mandare una voce, dire un vocabolo «fasis», dall' affermare, pronunciare una proposizione, «katafasis». Ora osserva che circa gl' incomposti, «asyntheta», l' intuirli, o come dice, il toccarli colla mente è il vero, ma il contrario di questo vero non è propriamente il falso, ma semplicemente l' ignoranza, chè l' ignorare è non toccare, [...OMISSIS...] . Il che dice in molt' altri luoghi. Ed è molto da considerarsi questa sentenza d' Aristotele. Poichè se le essenze incomposte, le quali sono certamente le specie, che altrove chiama seconde essenze, [...OMISSIS...] , o se non queste sole, anche queste però, non si generano, nè si corrompono, e la mente umana non le produce già, ma le tocca o non le tocca, le intuisce o non le intuisce, e se queste sono sempre e sempre in atto, [...OMISSIS...] , e perciò eterne, e se queste nelle cose corruttibili e sensibili non sono sempre, perchè queste si cangiano e perdono i loro atti, e ne prendono altri, che rispondono ad altre specie: conviene certamente dire che Aristotele ritiene molto di ciò che ebbe appreso alla scuola del suo maestro. E come s' ha da intendere dunque quello che altrove dice che le specie intelligibili s' intuiscono dall' anima nelle specie sensibili? Non può essere in alcun altro modo, se non così; che le specie sensibili sieno l' occasione e quasi il luogo, dove la mente umana vede le specie eterne, sebbene queste sieno immuni da ogni corruttibile e sensibile elemento. Ma Aristotele vede un' altra verità maggiore. Poichè si presentò alla sua mente la questione, « perchè le essenze o specie semplici ed incomposte sieno sempre in atto, e non si generino nè corrompano, ma, o si tocchino dalla mente, o non si tocchino ». E rispondendo a se stesso s' accorge, che questo avviene necessariamente per la natura dell' ente , che è la specie o essenza prima e indeterminatissima, a cui tutte le altre si riducono: onde ne dà appunto questa ragione che [...OMISSIS...] . E in tutto questo troviamo che Aristotele è con noi, o a noi sommamente s' avvicina. Poichè: 1 Riconosce, che la verità è l' essere , o affermato , o toccato, intuito dall' anima intellettiva (2); 2 Che le essenze e specie, essendo incorruttibili ed eterne, sono o toccate o non toccate dalla mente, e però si dà ignoranza, ma non inganno circa di esse; 3 Che queste essenze o specie si riducono all' essere stesso [...OMISSIS...] , dal quale ricevono l' ingenerabilità e l' incorruttibilità e quindi l' altre loro doti. Altrove suddivide il falso delle cose, che ammettono composizione, e dei giudizŒ, in due specie; la prima quando le cose non si compongono, cioè il predicato non si affà al subietto, o anche è impossibile che si compongano, e queste cose, dice, non sono enti, [...OMISSIS...] : la seconda, quando le cose, gli enti, qualunque sieno, [...OMISSIS...] , sono atti per natura ad apparire quali non sono o quelli che non sono, come l' ombre ed i sogni. Queste cose sono un chè, ma non ciò di cui producono la fantasia, [...OMISSIS...] . Quest' acuta sentenza, che ogni ragione è falsa d' altro che non di ciò, di cui è vera, suppone che la ragione resti, e diventi vera o falsa, secondo che l' uomo l' applica all' ente a cui appartiene o a un altro, e in quanto resta ella è vera del secondo genere di verità, cioè degl' incomposti. Questa ragione poi, che è sempre vera in sè, ma di cui l' applicazione può essere falsa o vera, è il principio, come già vedemmo «( Ideol. 10.3 segg.) », che atterra lo scetticismo critico. L' essere dunque, secondo Aristotele stesso, è la verità, e rivestendo la sua dottrina del nostro linguaggio, l' essere presentandocisi in due modi, come reale e come ideale, due sono i generi della verità, il primo de' composti, il secondo de' semplici: al primo corrisponde il giudizio che unisce, e però il vero qui è «to sygkeisthai kai hen einai», al secondo corrisponde l' intuizione, e però qui il vero rispetto alla mente, è «to thigein» (2). Nè fa meraviglia, che si dia da Aristotele la verità egualmente alle cose e alla mente, perchè egli parte dal principio, che la mente dopo che ha intese le cose è divenuta le stesse cose e che [...OMISSIS...] . La mente in atto dunque, venuta dal di fuori all' uomo, somministra i primi principŒ all' atto di giudicare della verità e di raziocinare, che non è altro che un conoscere l' essere nelle cose. Quindi questa mente venuta dal di fuori è quella che rende intellettiva l' anima che la riceve, ossia che dà all' anima « « la mente in potenza » » cioè a dire una facoltà atta a raziocinare, che da Aristotele è anche chiamata « « mente dell' anima », [...OMISSIS...] », ed è definita « « quella con cui l' anima raziocina e percepisce », [...OMISSIS...] » (2). Ora come non si può raziocinare senza che anteriormente l' anima intuisca i principŒ, così questa mente dell' anima o facoltà di ragionare dee essere preceduta nell' uomo da un' altra mente in atto, ch' egli chiama [...OMISSIS...] . Solamente è da notare che Aristotele non intese bastevolmente l' intima connessione ed identificazione tra l' universale ed i principŒ , i quali, come noi abbiamo mostrato, non sono altro che lo stesso universale applicato a giudicare del meno universale «( Ideol. 559 7 566) »: onde ogni universale nella sua applicazione a' giudizŒ, che da lui, come da regola si fanno, è un principio del ragionamento, principio più o meno esteso, a quello stesso modo che è più o meno esteso l' universale. Se questo avesse veduto chiaramente Aristotele, non avrebbe divisa la cognizione dell' universale dalla cognizione de' principŒ: ma si sarebbe accorto che quella e questa dipendono dallo stesso atto d' intuizione dell' essere, benchè quella, posteriore a questa, abbia bisogno a formarsi d' altre facoltà, che chiameremo, complessivamente, facoltà d' applicazione e di deduzione. Non pare dunque, che Aristotele abbia colto la natura comune degli universali, ma solo vide, che gli ultimi e più estesi universali, [...OMISSIS...] , non poteano aver nulla di comune coi fantasmi. E questo lo argomentò dal considerare « i giudizi intorno alle verità delle cose », i quali, mettendo a confronto le specie per giudicarle, non poteano essere le specie stesse, e doveano avere altresì per regola de' principŒ evidenti e precogniti: onde disse, che [...OMISSIS...] . E dimostra ciascuna di queste qualità che devono avere i principŒ della dimostrazione; tra le quali quella di essere più noti e precogniti, [...OMISSIS...] . Dalle quali ultime parole si vede, che conobbe certo Aristotele, che i primi e sommi universali erano il medesimo che i primi e sommi principŒ; ma non molto s' accorse che di qualunque universale, fosse anche il minimo, si può dire il simile, cioè che è atto ad essere usato in giudicare, e in dimostrare, come un principio. La distinzione poi che fa tra le cose anteriori e più note assolutamente e semplicemente, e anteriori e più note relativamente a noi, acciocchè abbia un senso, dee intendersi relativamente alla nostra consapevolezza, poichè, come ha detto altrove, « « avviene, che le notizie più chiare » [...OMISSIS...] «nella stessa dimostrazione stieno celate » » nell' uomo (1), cioè l' uomo le abbia senz' accorgersene. Onde chiama cose anteriori e più note a noi quelle che sono tali in ordine alla riflessione nostra, benchè i sommi universali devano essere anche a noi stessi noti precedentemente, e più noti d' ogni altra cosa, se da essi dobbiamo dedurre la cognizione di tutte l' altre cose, come Aristotele stesso segue a mostrare: poichè dice: [...OMISSIS...] . Insegna dunque chiaramente Aristotele, che a quello stesso uomo [...OMISSIS...] che è atto ad imparare per dimostrazione, devono precedentemente esser noti e più noti i principŒ e l' assurdità di ciò che a questi s' oppone, [...OMISSIS...] perchè così è rimossa da lui la possibilità dell' inganno; e però quando dice, che rispetto a noi è più noto ciò che s' approssima al senso, dee intendersi rispetto al nostro accorgerci, e al nostro sapere riflesso e consapevole. I sommi universali dunque, i primi intelligibili, i principŒ indimostrabili [...OMISSIS...] sono il medesimo per Aristotele, e questi sono noti all' uomo prima d' ogni sapere acquistato per dimostrazione: ora dopo aver dimostrata la necessità che queste notizie nella mente umana precedano, riassumendosi, le chiama tutte insieme « « principio della scienza » »; [...OMISSIS...] . Ora in appresso dice che questo principio della scienza è la mente, [...OMISSIS...] . Per mente dunque intende Aristotele il complesso de' primi intelligibili anteriori alla dimostrazione, indimostrabili, notissimi, tutto ciò in una parola che ci può essere d' anteriore alla dimostrazione, di cognizione evidente, [...OMISSIS...] onde dice, che la mente è dei principŒ, [...OMISSIS...] . Di nuovo dunque raccogliamo che la mente è presa in senso obbiettivo come i primi intelligibili (3). E di questi primi intelligibili, che sono essenze incomposte, dice Aristotele che sempre sono in atto, e non mai in potenza da cui passino all' atto: [...OMISSIS...] . Questi intelligibili sono dunque, secondo Aristotele, sempre in atto, davanti all' anima intellettiva, e costituiscono la mente che viene dal di fuori, il lume della ragione, [...OMISSIS...] . Ma se questa mente è una, come poi essi che la costituiscono, sono molti? Se si considera attentamente i diversi luoghi d' Aristotele, si trova ch' egli stesso riduce la moltiplicità de' principŒ ad un solo, che contiene in sè tutti gli altri. E veramente gli altri non sono che il primo principio, che riceve diverse espressioni secondo il diverso genere d' entità a cui si applica. E questo primo principio per Aristotele è quello di contraddizione. Del quale dice espressamente che per natura sua è « « il principio di tutti gli altri assiomi », [...OMISSIS...] . Se dunque il principio di contraddizione è il principio di tutti gli altri assiomi, questi sono sue conseguenze, e però per lui, come per un primo lume, si conoscono: dice ancora, che [...OMISSIS...] . Sui quali luoghi notevolissimi conviene osservare: 1 Che se il principio di contraddizione è il principio degli assiomi, [...OMISSIS...] , e se la mente pure è il principii de' principŒ, [...OMISSIS...] , consegue, che il principio di contraddizione, che contiene nel suo seno tutti gli altri principŒ, sia lo stesso che la mente obiettiva ed in atto d' Aristotele, [...OMISSIS...] . Il principio di contraddizione è dunque, secondo Aristotele, la luce sempre in atto dell' anima intellettiva: vedremo in appresso a che cosa esso si riduca. 2 Il nostro filosofo insegna pure ne' luoghi citati chiaramente che non si può concepire un ente o una ragione qualunque degli enti senza già avere il principio di contraddizione, [...OMISSIS...] , e che chi si fa a conoscerla, deve venire a impararla, già avendo quel principio, [...OMISSIS...] . E dire esser necessario che si preconosca questo principio per concepire o imparare qualunque ente o ragione, nel linguaggio d' Aristotele risponde alla nostra percezione intellettiva o concezione degli enti: solamente egli nota in tale conoscere anche l' intuizione della necessaria certezza della cosa concepita, onde dice, che non si concepisce come ipotesi, [...OMISSIS...] , e anche noi ce la comprendiamo ma implicita e indistinta dalla percezione e concezione, distinguendosi poi solo in appresso per un atto di riflessione scientifica. 3 E qui si ha la chiara spiegazione di ciò che voleva dire il nostro filosofo in fine al secondo degli Analitici posteriori, dove descrivendo il modo col quale l' anima dalle sensazioni viene formandosi la scienza, dice che [...OMISSIS...] . La condizione dunque che dee avere quest' anima è che abbia precedentemente in sè in atto il principio di contraddizione ossia la mente che le viene dal di fuori: con questa mente ella può conoscere, percepire, ragionare, e però distingue l' anima intellettiva che è in potenza, dalla mente che è in atto, e colla quale l' anima intellettiva intende e ragiona tutto ciò che intende e che ragiona (3). Conviene ora osservare a conferma di tutto ciò, come sia lontanissimo da Aristotele il confondere ciò che dà il senso, con ciò che è l' oggetto dell' intelletto. Poichè quantunque dica che si vedono da noi le specie intelligibili nelle specie sensibili , e quantunque faccia venire la scienza nostra per via d' induzione , [...OMISSIS...] nel modo spiegato, e dica che il senso faccia l' universale, [...OMISSIS...] , tuttavia tiene sempre al tutto distinto il termine sensibile dall' intelligibile. E già vedemmo, che per senso non si dee intendere i sensi particolari ed esterni « ma una potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente »: onde questa potenza è generica e può variare di specie ne' diversi animali, nell' uomo poi questa potenza immediata è anche intellettiva, onde anche noi non ricusiamo di riconoscere nell' intuizione « un senso intellettivo »che tocca , per usare una parola Aristotelica, l' intelligibile. E che per senso Aristotele intenda in genere questa potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente, e non i soli cinque sensorŒ, vedesi anche dall' ammettere egli « « un senso comune » » [...OMISSIS...] (1), che non è niuno de' cinque. Oltre di che il sensibile per Aristotele non è che l' accidente degli enti (2), e anche questo si trova sì fattamente nell' anima, che fuori di questa non esiste più in atto; in potenza poi non è ancora esistere, e quindi al senso egli dà l' apparenza e non la verità, benchè dica, che di queste apparenze sensibili ciascun senso ha la sua e in essa non s' inganna (3). All' intelligenza sola poi riserva l' essere delle cose (4), le essenze , la verità, gli universali. Laonde censurando Democrito dice che [...OMISSIS...] . Dal qual luogo, come da molti altri si trae: 1 Che Aristotele assegna ai sensi l' apparente, [...OMISSIS...] : 2 che assegna alla mente l' essere , [...OMISSIS...] , la verità, [...OMISSIS...] : 3 e che dalla mente, che viene dal di fuori, vuole distinta l' anima, non solo come una parte di questa, qual sarebbe la mente subiettiva, ma come un' altra cosa, qual è la mente obiettiva (6). Ora per anima propriamente distinta dalla mente Aristotele intende « quel principio immateriale, che usa nelle sue operazioni per istrumento il corpo da esso animato ». E tra queste operazioni, [...OMISSIS...] del composto, enumera tra le principali e più evidenti [...OMISSIS...] , alle quali si devono aggiungere quei tre modi d' operare che, come vedemmo altrove, chiama compassionare, imparare, raziocinare, [...OMISSIS...] : poichè ogni discorso dell' anima intellettiva ha bisogno dell' aiuto de' fantasmi. Dice che quelle operazioni, che sono del composto, non sono tutte fatte dal senso, ma « « alcune dal senso, alcune altre col senso » » [...OMISSIS...] (4), onde il raziocinare si fa bensì col senso, ma non dal senso, e così, secondo Aristotele, insieme col senso opera la ragione, che non è il senso, ma che al senso s' unisce, e concorre a produrre un effetto congiunto in uno nell' anima, che per la sua unione è talora da Aristotele chiamato sensazione benchè abbia un elemento razionale ed intelligibile: il che io credo voglia dire in quelle parole che [...OMISSIS...] . Il termine dunque del senso corporeo è interamente diverso per Aristotele dall' oggetto della mente; ma questa ha due atti, il primo, «noein», è l' intuire, che si fa senz' organo corporale, e l' altro è «dianoeisthai», raziocinare, che non si fa dal senso, ma col senso, e che perciò abbisogna d' organo corporale (6). Non essendo dunque il puro sensibile il vero, ma l' apparente, se si confonde il sensibile col vero, si distrugge « « il principio di contraddizione » » e si cade nell' opinione di Protagora, che « « tutte le cose fossero ad un tempo vere e false, perchè or vere, or false appariscono » » (1). Aristotele confuta quest' opinione dimostrando che [...OMISSIS...] . Poichè il subietto del movimento e della mutazione deve essere uno e immoto, altramente, se tutto si movesse, non ci potrebbe essere movimento. E venendo al sensibile dice: [...OMISSIS...] . Il sensibile dunque è un relativo che domanda per condizione qualche altra cosa d' anteriore a sè, del tutto insensibile. Ora quest' altra cosa anteriore al sensibile è l' essere , e come il sensibile è il termine del senso, così l' essere è l' oggetto della mente in senso subiettivo, ed è la stessa mente in senso obiettivo. In quest' essere si trova quella costanza, che non si trova nel senso, onde come quelli che riposero la verità nel senso, la resero mutabile, ossia non verità, così quelli che la riconoscono nell' essere, la scorgono permanente. [...OMISSIS...] . Intende dunque sempre di asserire « « la natura degli enti » » quantunque parlasse dello stesso sensibile, perchè « « asserire qualche cosa del sensibile » » non è sentire, ma un' altra cosa diversa dal sentire, appartenente allo intendimento, che è quello che fa l' atto dell' asserire, e quest' altra cosa asserita è sempre « « la natura dell' essere » ». Ora per la costanza e immutabilità di questa natura procede che « « essere e non essere » » non istieno mai insieme, e però riman fermo il principio di contraddizione, la cui difesa fatta da Aristotele nel IV de' Metafisici obbliga il filosofo a riconoscere che questo principio a cui riduce tutti gli altri, non è infine se non « « la intuizione evidente della natura dell' essere, il quale non può contraddirsi mai, cioè è in un modo immutabile »(1) ». Se dunque, come vedemmo, la mente oggettiva e sempre in atto d' Aristotele sono i primi, ossia i principŒ (2), e questi si riducono tutti al primissimo, che è quello di contraddizione, e questo non è altro che « « la natura invariabile dell' essere » », ne viene che l' essere sia la mente in atto d' Aristotele. Nell' ordine dunque delle cognizioni umane, secondo Aristotele, c' è: 1 l' essere, ossia la mente obiettiva, [...OMISSIS...] : 2 il quale essendo immutabile e costante non può esser nulla di contrario a sè stesso, e questa sua permanenza s' esprime col principio di contraddizione, che dice « « l' essere non può non essere » » secondo la forma intuitiva; e secondo la forma di predicazione « « d' ogni ente è vera o l' affermazione o la negazione » »: 3 da questo vengono gli altri principŒ immediati e indimostrabili, [...OMISSIS...] , cause della conclusione, [...OMISSIS...] : 4 istrutto l' umano intendimento di questi principŒ, di cui a principio non è consapevole, ma che possiede impliciti nell' essere che intuisce per natura, vede nelle sensazioni, cioè nelle specie sensibili , le specie intelligibili immateriali, ed universali, e di universale in universale perviene all' essere stesso che intuiva per natura, e che ora conosce coll' atto consapevole della sua mente: e quindi; 5 la scienza di dimostrazione , che riguarda le conclusioni che si cavano da quei principŒ, ed è scienza mediata e riflessa. Tale risulta l' Ideologia d' Aristotele, se si mettono insieme, colla maggior coerenza possibile, i varŒ luoghi delle sue opere, ne' quali egli la sparpaglia, e la va quasi direi seminando. Tutto il principio di questo sistema è l' essere , la mente oggettiva, sempre in atto, che l' uomo ha, e perciò è detto « abito »parola che indica da se stessa una dualità d' opposizione tra l' avente e l' abito, cioè l' avuto, ed è detto parimente lume. E che questo essere7lume sia « l' essere indeterminato ossia comunissimo », vedesi da ciò che dice Aristotele della « Filosofia prima ». Poichè come anteriormente alla scienza di dimostrazione c' è un altro genere o modo di sapere, [...OMISSIS...] che è quello de' sommi ed immediati principŒ che si hanno dall' uomo per natura e che tutti sono contenuti nella natura dell' essere; così stabilisce Aristotele, che antecedentemente a tutte le scienze ci sia una scienza, che non tratta d' alcun essere particolare, e perciò dell' « essere comunissimo », e questa è quella che chiama Filosofia prima. La prima dunque di tutte le scienze deve considerare l' ente in universale, senza alcuna parziale determinazione, che è l' ente comunissimo. E questo ente, che dice esser lo stesso che l' uno, lo chiama primo, [...OMISSIS...] a cui tutte le notizie intorno all' ente si riducono (4): primo certamente nella mente, benchè, considerato come predicato, esso stesso si diversifichi, e non sia più il medesimo. Dove si parla manifestamente « dell' essere comunissimo »che non esiste tale in separato, ma che pure è davanti all' intelligenza, come « « il primo uno e il primo ente » » cioè quell' idea dell' ente che antecede ogni altra cognizione dell' ente, e alla quale ogni altra cognizione si riferisce, [...OMISSIS...] , poichè se quest' uno in questa universalità e indeterminazione non fosse davanti all' intelligenza, l' altre cose o notizie non si potrebbero a lui riferire, nè predicare egli stesso in un modo molteplice, onde [...OMISSIS...] . Se noi ora rivolgiamo indietro lo sguardo, vediamo qual lungo cammino abbia fatto il pensiero aristotelico e come si sia immensamente allontanato da' suoi primi principŒ. Egli incominciò la sua opposizione alla dottrina di Platone prendendo a provare, che le idee separate dai sensibili reali non esistono, e che esistono solo le specie , e queste sono le forme , e le forme altro non sono che gli atti sostanziali delle stesse cose reali: laonde esistono solo in queste unite colla materia. Ma a questa ardita e complicata proposizione s' affacciò come contraria la necessità degli universali , perchè ci sia la scienza e non restino le cose al buio. Tentò dunque di provare, che per universale altro non si può intendere se non ciò che gli Scolastici poi chiamarono l' individuo vago , il pensiero del quale termina sempre in un singolare reale, ma questo pensiero si può replicare per molti individui reali successivamente: onde il poter sempre pensare e immaginare nuovi individui reali è tutto ciò che si nasconde sotto il nome d' universale, e questa possibilità che un tal pensiero si replichi indefinitamente, è un carattere dello stesso pensiero, e non delle cose reali e singolari. Entrò nondimeno tra' piedi la difficoltà di questi individui reali, oggetto suscettivo di diversi pensieri ed immaginazioni, i quali sono pure tutti uguali o simili tra di loro; altrimenti, non si intenderebbe come si dicessero essere della medesima specie e del medesimo genere: e però rimaneva sempre a spiegare che cosa sia quest' uguale, simile, o comune, che si chiama specie o genere. Occorse a quest' incaglio il filosofo rispondendo, che quest' era la ragione delle cose. Ma si dimenticò d' avvertire che, se questa ragione comune delle cose, era diversa dalle cose, conveniva pur dire che cosa questa ragione fosse. Altrimenti i Platonici avrebbero potuto rispondere, che la ragione introdotta dal nostro filosofo che volea cacciare le idee, era appunto l' idea (mutato solo il nome), la quale non è le cose, essendo queste per loro essenza singolari, e quella per sua essenza universale , e per conseguente comune . D' altro lato veniva a turbare i sonni all' infedele discepolo di Platone un altro fatto della natura non possibile a negarsi o a dissimularsi; e quest' era, che l' uomo, che produceva dei lavori esterni, li lavorava sopra un' idea da lui preconcetta, e però esistente ancora scevra d' ogni materia reale, giacchè la materia reale si foggiava poi dall' artista su quel modello o esemplare. All' evidenza di questo fatto Aristotele dovette convenire che oltre le specie che informano le cose reali e singolari e che sono unite colla materia, ci sono altre specie separate dalla materia, il cui domicilio è la mente. Così cominciò ad ammettere in qualche modo le specie separate , intendendo per separate, prive della materia reale. Ma il valent' uomo corse a riparare la breccia, e cominciò a dire o a fare intendere che le specie nella mente, e le specie nelle cose reali, sieno identiche: onde la sanità nella mente del medico è quella stessa che da lui prodotta esiste nell' uomo sano. E così pure diede all' anima intellettiva la facoltà di separare nelle cose reali la loro specie dalla materia, e così separata in esse contemplarla. Ma il soccorso era debole a segno, ch' egli stesso dovette confessare che l' identità di tali specie non era che una metafora: confessione alquanto umiliante in colui, che aveva cacciato in faccia al maestro questa stessa parola di metafora , a proposito delle sue idee esemplari (1). Infatti è per ogni verso impossibile sostenere, che la specie intellettiva della pietra sia quella stessa specie reale , se così si vuol chiamare, che è l' atto sostanziale e reale della stessa pietra, da questa indivisibile, finchè la pietra dura; indivisibile, dico, egualmente, o si pensi dagli uomini, o non si pensi. Costretto dunque dalla perspicacia stessa della sua mente ad ammettere, che le specie delle cose reali esistono anche separate da queste, cioè nella mente, e così già sciolto quel connubio indissolubile che avea pronunciato a principio, egli fu sbalzato in una regione molto più lontana dalla materia e dai reali sensibili, a cui credea prima d' aver legate, quasi schiave alla catena, le idee o specie, e dovette fare altre ed altre concessioni alla scuola che avea disertato. Infatti egli ben vide, abbondandogli l' acume dell' ingegno, che nell' ordine delle cose intelligibili non c' erano solamente quelle specie, che sono prossime alle cose reali (1), ma c' era una gerarchia di specie, cioè sopra le specie propriamente dette c' erano i generi, e questi si riducevano come a ultime classi, ai generi categorici (2), e sopra questi ancora i generi universalissimi, cioè l' essere e l' uno, due generi, che tornano ad un medesimo. Ora venuto a quest' ultima specie, lontanissima più che mai dai reali e dai sensibili, non solo la riconobbe pura d' ogni materia, ma vide ancora, ch' ella dovea sussistere, e però essere un' essenza sostanziale, anzi una sostanza prima, che chiamò Mente. Questa Mente oggettiva poi nell' uomo la considerò in potenza alle specie inferiori fino alle ultime, cioè alle più prossime ai reali sensibili; in se stessa poi e fuori dell' uomo la dichiarò essere Iddio, Primo Motore di tutte le cose, in cui finisce ogni contemplazione ed ogni appetito. Così trovò una specie, la quale non è più solo separata di ragione, [...OMISSIS...] dai reali sensibili, ma ben anco di attualità e di sostanza, [...OMISSIS...] , dovendosi dopo un gran viaggio vedere ricondotto, quasi direi prigioniero, alla casa del suo maestro. Ma non però gli si arrese del tutto. Riprendendo noi dunque l' esposizione della divergenza della opinione di Aristotele da quella di Platone suo maestro, ripassiamo i novi argomenti che egli adduce contro le idee platoniche, o le nove forme di cui le riveste. Ma facciamolo in modo da restringere il dissidio entro a' suoi più brevi confini, non tenendo conto delle divergenze apparenti, anzi, per tutto dove ne incontriamo sciogliendo l' apparenza della discordia: il che ci obbliga a cercare tutte le vie di conciliare il maestro e il discepolo per tutto colà, dove una conciliazione è possibile. Diciamo dunque che i due principali argomenti accampati da Aristotele contro le idee platoniche sono: 1 Che esse nulla servono a spiegare l' esistenza de' reali sensibili, di cui consta il Mondo, perchè sono da questi intieramente separate, onde con esse altro non si fa che aggiungere sostanze a sostanze, e così accrescere le cose da spiegarsi invece d' assegnarne le cause (1). 2 Che esse nulla servono a spiegare la cognizione umana de' medesimi reali sensibili , per la stessa ragione, che quelle idee, essendo pienamente separate per loro natura, non sono l' essenza di questi, e però, intendendo esse, non s' intendono questi. Da tutto quello che abbiamo detto precedentemente, si può in qualche modo raccogliere, che Aristotele non intendeva propriamente impugnare nè l' esistenza delle idee o specie delle cose, nè l' immutabile ed eterna loro natura, ma unicamente l' essere state separate e dissociate dalle cose reali. Ammette quello che avea trovato Socrate, ma rifiuta quello che vi aggiunse Platone, come si vede da questo luogo: [...OMISSIS...] . Riserva la parola idea alle specie, in quanto s' ammisero separate, e non combatte la stabilità ed eternità loro, che anche egli riconosce necessaria, acciocchè si possa avere scienza, e un fermo ragionamento, ma solo il loro essere separato da' reali. Socrate, dice in un altro luogo, cercò l' universale e la definizione, pel bisogno che avea di dare una base ferma alla morale: Platone, [...OMISSIS...] . Sinonime chiama Aristotele quelle cose che si chiamano collo stesso nome, e la ragione della loro essenza è la stessa, [...OMISSIS...] equivoche ossia omonime quelle che si chiamano solo collo stesso nome, ma hanno un' altra ragione d' essenza, [...OMISSIS...] . Appone dunque a Platone, che le idee e le cose sensibili si chiamassero collo stesso nome, ma avessero un' altra ragione d' essenza, laddove i sensibili fossero tra loro uguali secondo la stessa ragione d' essenza: e questo solo biasimava nel suo maestro. Quello dunque che Aristotele non voleva, era la scissura tra il mondo ideale e il mondo reale, che attribuiva al sistema del suo maestro. [...OMISSIS...] . Voleva tutto connesso; ma è difficile assai ritrarre dalle opere d' Aristotele una chiara teoria di questa connessione di tutte le cose, e che abbia coerenza. Poichè è molteplice da per tutto il significato degli stessi vocaboli da lui usati, e le cose che dice sembrano parimente variare, secondo il bisogno del momento e dell' argomento di cui scrive, onde una grande apparenza almeno di contraddizione. Tuttavia tentiamo il guado. Aristotele divide tutto ciò che può cadere nel pensiero in sostanza e accidenti (1), riducendo alla prima, come vedremo, gli elementi della sostanza, e ai secondi le privazioni (2). Ora divide la sostanza in tre classi: gl' individui reali , la specie e il genere . I caratteri distintivi e definitivi di queste tre classi di sostanze li trae dalla dialettica, secondo il suo solito metodo, cioè dall' analisi del discorso: poichè da questa Aristotele deduce quasi sempre l' Ideologia e l' Ontologia. Assegna dunque per primo carattere della sostanza individuale che [...OMISSIS...] . Questa è una eccellente nota caratteristica, e la parola subietto qui indica il subietto del discorso, e però ha un senso generalissimo, che abbraccia tanto il subietto reale, quanto il dialettico. In fatti un individuo reale di null' altro si può predicare, e nè pure esiste in altro che in se stesso, cioè, per concepirlo non ha punto bisogno di essere concepito in altro, il pensiero di lui sta da sè, è finito in lui «( Ideol. 613 not.) ». Le altre due classi di sostanze, cioè le specie e i generi, hanno per carattere comune che si predicano « delle sostanze della prima classe come di loro subietti », di maniera che si attribuisce alle sostanze della prima classe il loro nome e la loro definizione. Così l' uomo e l' animale che è specie e genere si predica del subietto, cioè di quest' uomo singolare e reale, e si dà a questo tanto il nome di uomo quanto la definizione. Le specie e i generi dunque sono cose che « si dicono del subietto, ma non sono nel subietto », perchè l' uomo non è in un uomo particolare, il che verrebbe a significare una distinzione reale tra l' uomo particolare e la natura umana, ma è egli stesso questa natura umana. Ora, Aristotele dice, che le « sostanze individuali e reali »sono le prime, [...OMISSIS...] , e che si chiamano sostanze propriamente e nel più vero significato, [...OMISSIS...] , e che dopo quelle prime [...OMISSIS...] . E quest' è appunto la dottrina che Aristotele sembra voler contrapporre a quella di Platone. Poichè questi per trovare un punto fermo cercava l' universale, e d' universale in universale volea giungere all' universalissimo. Infatti ne' meno universali riconosceva una deficienza ed una limitazione (3), una moltiplicità, e non una perfetta unità (4): l' individuo reale poi come cosa cieca e indefinita, [...OMISSIS...] , era abbandonato a' sensi ed escluso dalla speculazione della mente. Come dunque Platone cercava nel comunissimo (5) l' unità sostanziale, assoluta, non ipotetica (6); così Aristotele per lo contrario disse, che anzi prima di tutto è la sostanza completa, individuale e reale. Consideriamo le ragioni più immediate che adduce Aristotele a sostegno d' un sistema che sembra a prima giunta direttamente opposto a quello di Platone, ma la cui opposizione s' andrà scemando di mano in mano, che si vedrà svolto, e talora racconciato da Aristotele stesso. La prima ragione è tratta dalla relazione logica tra quelle idee che si dicono generi e specie, e la sostanza individuale e reale. Poichè quelle idee si predicano di questa, e n' esprimono l' essenza, come, dicendosi d' un uomo particolare, che è uomo o che è animale, si dice che la sua essenza o natura è quella d' esser uomo o animale. Se dunque quegli universali, che si dicono specie e generi, involgono nel loro concetto una relazione alle sostanze individuali e reali di cui si predicano, quelli non possono essere prima di queste, onde « « tolte queste, è impossibile », dice Aristotele, «che rimanga nulla di quelli »(1) ». La seconda ragione d' Aristotele è ontologica e la trae da questo, che le idee universali, che si dicono specie e generi, non sono a pieno determinate, e però non hanno l' ultimo atto; ora ciò che è in atto deve, assolutamente parlando, precedere ciò che è in potenza: altrimenti non si potrebbe spiegare come questa si riducesse all' atto. Quest' argomento è svolto in questi termini nei Metafisici, e si conchiude così: [...OMISSIS...] . E perciò anche nell' uomo non si contenta di ammettere innato lo scibile, [...OMISSIS...] , ma un che sciente, [...OMISSIS...] , affinchè ci sia l' atto compiuto, poichè [...OMISSIS...] . Conviene che noi esaminiamo il valore di queste due ragioni, e che determiniamo precisamente ciò che hanno virtù di provare. Se noi prendiamo la prima, dividendola dalla seconda, e cerchiamo a che s' estenda, ci accorgeremo ch' ella è atta solamente a dimostrare, che le sostanze individue precedono logicamente quelle idee universali, che si chiamano generi e specie , e che perciò queste non si potrebbero concepire senza quelle prime, di cui si predicano; ma non prova punto, che avanti questi generi e specie devano esistere sostanze individue attualmente reali . Poichè vi hanno sostanze individue , che non sono reali attualmente, ma unicamente possibili, il che sembra sfuggire frequentissimamente a' filosofi. Conviene dunque riflettere che l' intendimento umano ha due facoltà nel campo dei possibili: 1 La facoltà d' intuire le idee fino alle loro ultime determinazioni, colle quali si ha la specie piena , per esempio, la specie piena di una data sostanza «( Ideol. 5.9 7 594) »; 2 la facoltà di affermare un individuo come possibile, coll' aiuto della immaginazione intellettiva, che in qualche modo lo segna e distingue dalla specie piena, il qual individuo è un reale possibile . Ora essendo la ragione aristotelica di cui parliamo, puramente dialettica, ella non ha virtù d' uscire dal circolo delle idee e dei reali possibili , che non hanno ancora attualità reale (2). Perocchè data un' idea specifica piena di sostanza, io posso dire di questa quello appunto ch' egli dice delle sue sostanze prime, cioè posso dire che d' un' idea piena di sostanza si predicano i generi e le specie «( Ideol. 591) », con che non si dice altro, se non che c' è quest' ordine tra l' idea specifica piena, e i generi e le specie (astratte) che di essa si predicano, e che questi sono posteriori a quella nell' ordine del pensiero totale, e però quella deve preesistere. Si dirà non di meno che un' idea specifica piena di sostanza non ha il carattere che Aristotele assegna alle sue prime sostanze, cioè, che non si possano predicare d' alcun' altra cosa, perchè quell' idea si predica pure degli individui reali. Vero; ma questo non implica ancora, che quest' individui reali sussistano attualmente, bastando che siano affermati ipoteticamente per mezzo dell' immaginazione, come reali possibili. Questa prima ragione dunque d' Aristotele vale bensì a favore delle sostanze individuali, ma non a favore delle sostanze attualmente sussistenti. La seconda ragione ontologica a favore della preesistenza della sostanza singolare e attualmente reale alle universali è di maggior peso. Ma se si considera a che precisamente si riduca la sua efficacia, qui appunto si vedrà, che non oppugna il sistema di Platone, se non in apparenza. Poichè la precedenza dell' atto alla potenza non riguarda punto ogni ente particolare, secondo Aristotele, ma accade che la potenza sia in uno anteriore all' altro, come il seme anteriore all' albero; ma questo non è possibile in tutta la serie, che dee cominciare dall' atto. Onde dice che ogni principio di moto e di quiete dev' essere anteriore [...OMISSIS...] . E` dunque necessario un primo atto, acciocchè sia ridotto in atto quello che è in potenza. Questo principio è evidente, ma questo non prova altro che la necessità d' una prima causa, d' un primo motore. Ora è lontanissimo Platone dal negare la verità di questo principio, e di questa conclusione, che unica procede dal principio, e che non si deve estendere al di là di ciò che dà l' illazione. E` una aperta calunnia l' attribuire a Platone ch' egli si fermi alle idee, ai generi ed alle specie (poichè Aristotele a queste due classi le riduce); egli n' esce senza equivoco. Sebbene riconosca nelle idee l' eterno, e il necessario, come ve lo riconosce pure Aristotele, tuttavia ei riconosce pure la limitazione: [...OMISSIS...] , e applicando questo principio alle specie, dice che [...OMISSIS...] , e vuol dire che in ciascuna specie si può distinguere più cose col pensiero e però c' è delle entità molteplici, ma nello stesso tempo si può negare di ciascuna tutte le altre cose, che non son essa, e perciò è indefinito il numero di quelle entità ch' essa non è punto. Ora Platone estende questa limitazione, o, come egli dice, mescolanza di non7ente, a tutte affatto le specie, anche alla prima, a quella dell' ente, che costituisce il primo de' cinque sommi generi platonici, il che è osservabilissimo. Poichè l' ente puro è lo stesso che l' idea dell' essere , astrazion fatta da ogni altra cosa. Se dunque il sommo genere delle idee secondo Platone è limitato, e limitato più d' ogni altra specie, appunto perchè di lui si negano tutte le altre cose, che non sieno puramente essere; di molto s' ingannano quelli che attribuiscono a Platone il ridurre tutto ai generi più universali, e credono che a questo solo conduca quella disciplina da lui tanto magnificata come la prima di tutte e chiamata Dialettica, quasichè l' unica operazione di questa sia l' ascendere alle ultime astrazioni (3). Che anzi secondo Platone le idee non sono l' una dall' altra divise e indipendenti, ma si copulano tra loro con certe leggi, e il principale ufficio della Dialettica platonica è il determinare [...OMISSIS...] . E per questo fine di dimostrare come si connettano tra loro le idee e vengano formando insieme un certo organismo, deve la Dialettica dividere le cose per generi [...OMISSIS...] , e non confondere una specie coll' altra [...OMISSIS...] . La Dialettica platonica adunque non ha solamente per ufficio di dividere le cose in generi, ma di mostrarne la loro connessione e la loro unità senza pregiudicare alla loro distinzione. E quando Aristotele nelle Categorie distinse le cose, che si dicono del subietto, e non sono in esso, quelle che si dicono del subietto, e ci sono, quelle che non si dicono del subietto, e ci sono, e quelle che nè sono nel subietto, nè si dicono di lui, altro non fece che far uso appunto della Dialettica platonica, che discopre il nesso tra le idee. Riconosciuta dunque da Platone la limitazione di ciascuna idea, presa in separato, egli riconobbe ancora che per varŒ nessi comunicavano e si connettevano tra loro, e connettendosi non a caso, s' organavano e completavano nel tutto ideale, che ne risultava, senza che perciò si confondessero le parti moltiplici contenute nell' unità. Ma è da rimovere oltrecciò il pensiero da un altro comune pregiudizio circa la teoria platonica, credendosi comunemente ch' essa s' esaurisca tutta nelle idee. Anzi sotto la parola «polla», i molti , egli non comprende solo le idee, ma anche le singole cose reali, che, come abbiamo veduto, nel Filebo chiamò «apeira», gl' indeterminati , perchè venuto il pensiero ad essi, non si può più oltre recare l' analisi e distinguerci nuove specie (2). Univa dunque Platone stesso tutte le cose in un grande organismo, nel quale si allogavano, connesse insieme gerarchicamente, ma distinte le idee e i reali, ultimi questi, ma non divisi dal tutto. E` bensì vero che non dava fede ai sensibili, come sensibili, perchè di continuo mutabili, e però inetti ad essere scienza. Ma questo l' accorda anche Aristotele. Se però Platone diceva che i sensibili per se stessi non hanno consistenza e sono apparenze, non negava per questo la realità dell' essere, checchè possa parere considerando alla sfuggita i suoi discorsi intorno alle idee. Chè altro è l' idea come semplice conoscibilità separata dalla cosa, o mezzo di conoscere; altro è l' essenza che nell' idea s' apprende «( Ideol. 646) ». Nell' idea Platone vedeva ciò che esiste per sè, assolutamente. Diceva dunque che acciocchè una cosa qualunque veramente esistesse, dovea partecipare di questa cosa per sè esistente. E non dice Aristotele lo stesso in altre parole? [...OMISSIS...] . Non dice che il nome e la definizione, cioè l' essenza delle specie e dei generi si predicano delle sostanze singolari, esprimendosi così la natura di queste, onde forz' è che questi siano appunto quell' essenza stessa che è nel genere e nella specie, altrimenti sarebbero un bel nulla? (2). Non dice, che così appunto e non altrimenti si conoscono i singolari, cioè riconoscendo in essi quell' essenza appunto che si vede nelle specie e nei generi, dove solo quell' essenza è conoscibile? (3). E non sono queste specie o idee dette da Aristotele ciò che è eterno, [...OMISSIS...] , fondamento d' ogni scienza, e della dimostrazione, che non è di cose caduche, [...OMISSIS...] ? (4). Se dunque, secondo Aristotele, l' essenza che si vede nelle idee è quella stessa de' singolari, in modo che a questi si deve attribuire la definizione di quelle, nè si può altramente conoscerli, non viene egli a confessare con ciò che i singolari partecipano, come diceva Platone, di quell' essenza appunto, che è veduta nelle idee? E dico partecipano , perchè nessuno de' singolari esaurisce in sè l' universale, egualmente partecipato da altri. Rimarrà tuttavia una differenza d' opinione circa la questione dell' origine dell' universale eterno. E Aristotele infatti non perde mai l' occasione di dire che [...OMISSIS...] . Ma tutto questo è vero certamente rispetto al conoscere consapevole dell' uomo, ed è da notare che il nostro filosofo non dice necessaria l' induzione per formare gli universali, quand' anzi egli li dichiara sempre eterni, ma per contemplarli, [...OMISSIS...] , la qual maniera di dire li suppone preesistenti e dimostra che si parla d' una cognizione relativa all' uomo. Il che ancor più si conferma se si considera che Aristotele distingue il contemplare dal conoscere semplicemente, quello significando il pensiero attuale, questo l' abituale, e quello suppone questo (2). Ma lasciando questa questione dell' origine e conchiudendo ciò che stavamo dicendo, Platone non separa punto l' esistenza reale dal discorso delle idee, ma anzi in queste vuole che si veda l' essenza che è per sè ed assolutamente, e vuole che le cose mutabili partecipino di questa per essere e che in queste noi conosciamo quella; e del pari Aristotele riconosce che l' essenza stessa, che è nelle idee, è quella che s' attribuisce veramente e si predica delle cose reali e singolari, e per quella queste si conoscono, perchè quella è la propria natura e causa formale di queste (3). Rimane tuttavia un' altra profonda differenza tra Aristotele e Platone, che abbiamo già toccata e che ci conviene ora meglio sviluppare. L' argomento che fa Aristotele, ridotto ad espressioni più chiare per noi, è il seguente: « Io osservo, viene egli a dire, che le specie e i generi si predicano d' un subietto che è la sostanza individuale, e che gli accidenti (idee degli accidenti) non si predicano, è vero, d' un subietto sostanza individuale, ma sono in un tale subietto ». Dunque questo subietto è necessario che preesista nell' ordine logico alle idee, e che esista realmente insieme con queste, informato da queste, perchè queste essendo relative a lui, non esistono realmente se non come di lui o in lui. Non dico già che sia necessario, che esistano tanti e tanti subietti, ma almeno qualcuno, di cui si dicano le idee specifiche e generiche, e in cui sieno quelle degli accidenti [...OMISSIS...] . E` dunque necessario, che quelle idee che si dicono specie e generi, non sieno propriamente sostanze, ma piuttosto « « qualità circa la sostanza » » [...OMISSIS...] , e si distinguano dagli accidenti, perchè questi sono « « qualità semplicemente » » [...OMISSIS...] (2); non c' è dunque veramente altra sostanza che l' individuale, perchè questo è un subietto che non si predica d' altro subietto, ma è subietto assolutamente. Ciò posto, se si vuole tenerla con quelli che tentano di spiegare l' esistenza delle cose reali per la partecipazione delle idee, converrà dire che la partecipazione di ciascuna d' esse sia in quanto non si dice del subietto, dovendo in tal caso ella stessa, l' idea partecipata, costituire il subietto individuale, che non s' ammette prima, e il quale non si dice d' altro subietto: dunque le idee saranno sostanze individuali. Ma in tal caso le idee saranno sostanze individuali doppie, cioè non partecipate ed eterne, e partecipate. Se questo è così, ci sarà ancora qualche cosa di comune tra le idee eterne e le idee cose, e così s' andrà all' infinito. Che se non c' è nulla di comune, il chiamare collo stesso nome la sostanza idea non partecipata, e la sostanza partecipata non sarà più che un equivoco, come il chiamar uomo, un uomo vero, e una statua di legno. La partecipazione dunque delle idee non può spiegare l' esistenza de' subietti individuali, ma questi rimangono sempre presupposti (1). Alle quali difficoltà un accorto difensore di Platone potrebbe con tutta verità rispondere in questo modo: « Voi tormentate la dottrina di Platone, contraffacendola per confutarla. E` verissimo, che Platone nega ai sensibili, e a tutto ciò che apparisce come in un continuo moto e trascorrimento, una vera esistenza, concedendogli un' esistenza solamente fenomenale, ma Aristotele, dove gli bisogna e dimentica Platone, dice il medesimo (2). Poichè qual vi può essere sentenza più consentanea a quella di Platone quanto il distinguere che fa Aristotele tra la carne , il sensibile, e l' essere della carne , che attribuisce al solo intelletto? (3). Negare dunque al sensibile e al continuo mutabile l' essere per sè, e dire che questo l' ha bensì, ma non è lui, non significa punto, che Platone neghi la realità degli enti o la loro individuale sussistenza, e riduca ogni cosa a generi, cioè a idee. Di poi, Aristotele pretende che l' essenza de' generi e delle specie consista unicamente in questo che sieno atte ad essere predicate d' un subietto; dal che deduce, che dunque avanti ad esse ci dee essere il subietto. Platone nega, che le idee sieno puri predicabili, e però cade l' argomento d' Aristotele. Dice, che se le idee possono esser predicate , è perchè prima sono partecipate ; e veramente non sarebbero predicate con verità, se la natura che si predica non fosse veramente partecipata dal subietto di cui si predica. Esser partecipate vuol dire che il subietto non ha in sè l' idea così totalmente, che questa non possa essere e non sia in altri subietti. Ora accordando Aristotele che tali idee sono universali, egli accorda che ogni individuo singolare non è quell' idea, ma la partecipa, perchè quell' idea è una e la stessa in ciascuno, onde lo stesso Aristotele la chiama «autoekaston» od «auto en ekaston», od «en kata pollon» (1), e con altri simili nomi. Se dunque non si vuol questionare di parole, la partecipazione dell' idea è innegabile e accordata da Aristotele. Se l' esser predicata e partecipata , benchè sia cosa propria dell' idea e conseguente dalla sua stessa essenza, pure non è la sua essenza, l' idea dunque si concepisce ed è anteriormente alla sua partecipazione. Ora ella acquista il titolo d' universale unicamente per la sua partecipabilità a molti individui, il che è ammesso da Aristotele; dunque se l' idea è universale in relazione agli individui a cui può essere partecipata, ella per sè, nella sua essenza anteriore al concetto della sua partecipazione, è ella stessa un singolare, e questo appunto significa la denominazione d' «autoekaston» che gli dà lo stesso Aristotele «( Ideol. 1020 not.) » (2). Con questa sola osservazione cade il secondo argomento d' Aristotele contro le idee platoniche, che abbiam detto ontologico, perchè niente ripugna l' ammettere che le idee sieno essenze singolari, che possono stare senza la partecipazione loro agli individui reali e irrazionali, di cui si compone il mondo materiale e sensibile. Ma di mano in mano che si seguita Platone nella perscrutazione delle idee, la sua dottrina diventa più consistente in ragione che si fa più completa. Platone distingue due cose nelle idee: 1 l' essenza; 2 l' intelligibilità; l' una e l' altra immutabile ed eterna. Tutti gli enti dell' universo, anche i sensibili, benchè in quanto sono sensibili sieno fenomenali, partecipano, concepiti come sensibili dalla mente, l' essenza , che è nelle idee, e così anch' essi acquistano qualche cosa di stabile, di consistente; la loro esistenza reale. Le menti poi godono della intelligibilità intrinseca a tali essenze, e per questa loro intelligibilità le essenze si chiamano propriamente idee , e su questa intelligibilità si fonda la stabilità e certezza e necessità delle definizioni e della scienza dimostrativa, onde la verità ne' ragionamenti della mente e nelle orazioni. Se l' essenza dunque è quella che si partecipa da' sensibili, e questa è veramente, non convien dire, che Platone sia un puro idealista, come hanno detto i moderni, giacchè Aristotele si guardò bene di fargli una tale censura; quando anzi pone sotto l' apparenze sensibili qualche cosa di così permanente come sono le loro essenze, che si intuiscono nelle idee. Confessa Aristotele che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, ma dà loro una natura anteriore alla predicazione, e dice che quelli che fanno le idee essenze, di conseguenza le devono porre separate, [...OMISSIS...] : confessa ancora che le pongono ne' molti, per modo che ciascuna, rimanendo una, sia ne' molti, [...OMISSIS...] . Se dunque Aristotele stesso riconosce che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, a che vale il suo argomento che le idee non sieno separate, perchè i predicabili suppongono il subietto, di cui si predichino? D' altra parte si contraddice anche in questo, che qui confessa, che le essenze nelle idee e nelle cose sensibili sono le medesime di specie, perchè l' essenza che è nella specie, è quella medesima che è ne' corruttibili; mentre altrove pretende che Platone coll' ammettere le idee raddoppi le sostanze, senza spiegar meglio l' esistenza delle sostanze sensibili. E quando dice che i sensibili tra loro univoci, nel sistema di Platone sono equivoci colle specie (2), abusa manifestamente di sottigliezza; poichè sono equivoci colle specie presi da queste in separato per astrazione in quanto così presi non sono che fenomeni; ma non sono equivoci presi come già partecipanti alla specie, se è vero che alla specie dia Platone la medesima essenza che ai corruttibili, [...OMISSIS...] . Ma ora di questo appunto Aristotele riprende Platone, di far cioè le stesse identiche nature ad un tempo universali e particolari, [...OMISSIS...] . Questo è quello che non intende Aristotele, e in cui sta tutto il nodo della questione. Egli reputa contraddittorio che la stessa essenza sia universale ad un tempo e particolare. Pure la chiave di tutta la filosofia è questa, che « l' essere, l' essenza, abbia due modi, ne' quali rimane identico, sotto l' uno è essere od essenza reale, sotto l' altro è essere od essenza ideale: e che il secondo di questi due modi, cioè il reale, per tutte le cose finite sia contingente e mutabile, e il primo, cioè l' ideale ed universale, sia necessario ed immutabile; per l' infinito poi ed assoluto essere, entrambi quei modi sieno necessarŒ e immutabili ». Ciò che impedisce di vedere, che qui la contraddizione non è che apparente, è prima di tutto lo spazio che coll' immaginazione s' intromette in una cosa semplice e immune affatto di spazio com' è il mondo metafisico. Pare dunque per un gioco d' immaginazione, che se s' ammette « un' essenza ideale »e poi questa stessa essenza ideale s' ammette in certo numero d' individui reali, la si ponga in diversi luoghi e così si moltiplichi. Ma nè ella è in alcun luogo nè si moltiplica veramente, ma sono i sensibili, che, essendo in diversi luoghi, quando sono percepiti dall' anima, la quale è semplice e senza luogo, s' uniscono a quell' unica essenza che è nell' anima cioè presente all' anima, e quivi hanno quell' essere o essenza che l' anima pensa, sempre identica in ciascuno di essi. Nasce qui subito la voglia di domandare: « che cosa dunque sono i sensibili prima di ricevere una tale essenza presente all' anima, nella quale essenza l' anima intellettiva li vede? ». Si risponde che, se si parla d' un' anima intellettiva singolare, essi non sono più a quest' anima, perchè per questa non è ciò che non è intelligibile. Che se si suppone che nessuna intelligenza gl' intenda, essi non sono punto a niuna intelligenza. - Ma il sensibile, non è qualche cosa di diverso dall' intelligibile? e se è qualche cosa di diverso, non rimane anche tolto via l' intelligibile? - Alla prima di queste due questioni si risponde di sì, alla seconda si risponde di no, se per « toglier via l' intelligibile », s' intenda non già astrarre ipoteticamente dall' intelligibile o dall' intelligente; ma toglierne via anche la possibilità, astrarre anche da questa: in tal caso il sensibile rimane privato di ciò che gli è essenziale, cioè di « poter essere intelligibile », e così diviene assurdo, egli è dunque nulla (2). Il sensibile adunque nè esiste solo, nè può esister solo; ma è in una relazione essenziale coll' intelligenza, e non si può pensare se non si suppone ch' egli sia in relazione almeno con una intelligenza possibile, e quindi che abbia il suo essere intelligibile. Considerato il sensibile in questa relazione, egli è diverso dall' intelligibile, ossia dall' essenza, come un termine è diverso dal principio , benchè il termine, quello che è essenzialmente termine, non possa stare senza il suo principio. Per la difficoltà d' intendere questa dottrina, si perpetuano i dissidŒ delle scuole filosofiche e sembrano inconciliabili. Aristotele dice: [...OMISSIS...] . L' argomento non ha forza, se non nell' erronea supposizione che qui fa Aristotele, e che poi, come vedremo, smentisce egli stesso, che le essenze che s' intuiscono nelle idee non abbiano altra natura che quella d' essere precisamente « universali o comuni ». Ma Platone risponde che la qualità d' essere universali e comuni è una relazione che consegue alla natura delle essenze quando queste si considerano come il fondamento de' reali; ma che anteriormente a questa relazione, esse esistono come singolari, anzi ciascuna è perfettamente una e causa d' unità all' altre cose; il che Aristotele stesso confessa senz' accorgersi della contraddizione ogni qualvolta le chiama «autoekaston». Nè ripugna punto che de' molti sensibili reali che a ciascuna corrisponde, ognuno di essi abbia per suo fondamento la stessa essenza e la mente veda il detto sensibile in questa essenza, onde si dica giustamente che essa s' estenda a ciascuno di essi, [...OMISSIS...] ; come nè pure non ripugna che tutt' insieme que' sensibili si vedano nella stessa idea, e per questo ella si chiami comune o universale, [...OMISSIS...] . Poichè essendo la idea semplice e fuori di luogo, la mente, spirituale anch' essa, può considerare in essa quello che è in luogo: e ciò con verità, perchè l' esteso ha un modo d' esistere nell' inesteso «( Antropol. 94 7 97; 12., 129) », ed anzi non può esistere altrove. La qualità dell' estensione in fatti è una relazione al principio senziente, a cui non appartiene, come confessa Aristotele, l' esistenza vera della cosa, ma l' apparente e fenomenale; all' incontro l' essere vero delle cose appartiene alla mente, e l' essere vero è uno essenzialmente e semplice (1). Se dunque, come dice lo stesso Aristotele, la sostanza esiste in se stessa, e in ciò di cui è sostanza, [...OMISSIS...] , niente più domanda Platone, secondo cui l' essenza esiste in se stessa non comunicata a' sensibili, ed esiste in questi di cui è sostanza, ossia essenza. Una obbiezione più speciosa, ma non meno vana, fa Aristotele all' idee di Platone. Egli viene a dire così: [...OMISSIS...] . Ma quello stesso che con queste parole si rimprovera a Platone, è quello stesso che lo giustifica. Poichè qual è il rimprovero? Che Platone faccia due sostanze separate. E se questo fosse, certo che dovrebbe dire, quale sia quest' altra essenza separata diversa da quella de' sensibili. Ma se fa un' essenza sola, e dice che questa è in sè, indipendentemente dai sensibili, se non che ella stessa è anche l' essenza de' sensibili, perchè ha l' attitudine d' essere partecipata, cade la censura, e non c' è più bisogno di dire che cosa sia quest' altra sostanza o essenza diversa da quella de' sensibili, che Aristotele rimprovera di continuo a Platone. Ora che questa duplicità di essenza o sostanza sia un puro equivoco d' Aristotele (proveniente forse dalle scuole platoniche, contro cui sembra combattere), si riconosce dallo stesso discorso d' Aristotele. Poichè non è egli stesso che dice, che fanno identiche e non già diverse le essenze de' corruttibili e de' sensibili? [...OMISSIS...] . E non è egli stesso che riprende Platone, perchè faccia le stesse essenze universali e particolari? [...OMISSIS...] . Ora questo è appunto un confessare essere vero il contrario di ciò che con incoerenza si rimprovera a Platone, cioè ch' egli faccia due serie di essenze, l' una sensibile e l' altra intelligibile. Che se ne fa una sola, non c' è più ragione di apporgli a colpa, ch' egli non sappia dire quali sieno coteste essenze separate da' sensibili (4), perchè non ne ha bisogno, non essendo esse altro che le essenze de' sensibili stessi, e la mente umana da questi ascende a contemplarle. Gli stessi sensibili e corruttibili dunque hanno bisogno secondo Platone d' una loro essenza immutabile, senza la quale non sarebbero, perchè l' essere, per confessione d' Aristotele stesso, non è sensibile ma intelligibile, e non mutabile, ma eterno. Se dunque i sensibili sono, se si predica di essi con verità l' esistenza, se per questo si conoscono, e si conoscono quali sono in verità: è dunque da dire che partecipino dell' essenza , e non senza questa, ma solo con questa e per questa, e in questa siano. Ma posto che sono in questa, niente poi vieta che la mente coll' astrazione ne faccia la separazione e li consideri privi di questa: allora restano non pure incogniti, ma assurdi, perchè privi di stabilità e d' unità, e del tutto annullati perchè privi dell' essere. Quando dunque Platone parla della continua mutabilità de' sensibili e della loro fenomenalità, egli parla de' sensibili così astratti e divisi dall' essenza, parla d' un astratto che non ha alcuna reale esistenza, non parla de' sensibili che sono; poichè i sensibili che sono, sono già uniti e inseparabili dalla loro unica essenza. E questo io credo in parte una delle cause, che condussero Aristotele in errore: vide che i sensibili non possono separarsi dall' essenza senza distruggersi: disse dunque, che queste due cose, il sensibile e l' essenza, erano inseparabili. Ma sono due proposizioni totalmente diverse, che il sensibile non si possa separare dall' essenza, e che l' essenza non si possa separare dal sensibile. Questa può stare da sè, perchè è indipendente da quelli: quelli non possono separarsi da questa, perchè da questa dipendono e hanno l' essere: quest' è necessaria, quelli contingenti. E qui s' osservi, che non può applicarsi, come vorrebbe Aristotele, la distinzione tra ciò che è separabile di concetto, [...OMISSIS...] , e ciò che è separabile di sostanza, [...OMISSIS...] , o come dice altrove, di grandezza, [...OMISSIS...] . Poichè che cosa significa separabile di sostanza, o di grandezza, e separabile di concetto? Non altro che separabile realmente, e separabile idealmente. Questa separazione ideale suppone già le idee, e sono appunto queste di cui si disputa: onde la distinzione applicata al caso nostro ci rimanda alla dottrina delle idee, e non vale a chiarirla. Consideriamo l' esempio con cui Aristotele stesso illustra questa distinzione (1). Un corpo si può dividere in più parti: questa è una separazione reale. In una figura rotonda, si può distinguere la superficie convessa dalla concava (2): questa è una separazione ideale, perchè il convesso non si può dividere realmente dal concavo, non essendo che due relazioni ideali. La separazione reale adunque importa che un reale si divida da un altro reale, la separazione ideale importa che un' idea si separi da un' altra idea: la prima separazione divide i reali, la seconda separazione (che è propriamente una distinzione) separa le idee ossia i concetti: l' una di queste due separazioni passa dunque tra reale e reale, l' altra tra idea e idea, benchè queste si possano riferire ad un reale. All' incontro tutt' altra è la questione delle idee separate di Platone; poichè non si cerca più se un reale è separato da un altro, o un' idea da un' altra idea; ma si cerca se l' idea stessa è separata dal reale. Questa non può essere separazione nè di reale da reale, nè d' idea da idea: ma un terzo modo di separazione, cioè separazione di reale e d' idea. Questo modo dunque di separazione non è tale su cui si possa istituire la questione se egli sia uno de' due primi modi, come pur fa Aristotele: anzi convien dire che questo terzo modo è il fondamento degli altri due. Poichè non si separerebbe e distinguerebbe la separazione reale dalla separazione ideale , se non si supponesse prima che fossero cose separate la realità e l' idea. La separazione dunque dell' idea e della realità è il primo e il massimo di tutti i modi di separazione e di distinzione possibili, e la causa degli altri: non è una separazione nè reale, nè ideale, ma è una separazione precedente, che dee avere un nome suo proprio, e che noi appunto chiamiamo categorica . Aristotele stesso, come ancora vedemmo, è ricacciato dalla necessità e dall' evidenza a questa separazione, che si studia in tanti luoghi di eliminare, e che pure è costretto in tanti altri luoghi di riconoscere. Poichè distingue l' essere della cosa, dalla cosa sensibile (3), e in quello, che attribuisce all' intelletto, ripone il vero (1), in questa, che attribuisce al senso, ripone il fenomenale ; sia pure il vero rispetto a noi mescolato col fenomenale, ma l' uno non è certamente l' altro, ed è separato d' essenza dall' altro, e non di nome o di concetto. In un luogo (perchè crediamo in cosa così contrastata non dover risparmiare le citazioni) stabilisce Aristotele che [...OMISSIS...] che è quanto dire delle prime e più universali idee. Distingue poi le scienze in attive, fattive, e speculative, e le speculative in matematica, fisica, e teologia , e chiama quest' ultima anche filosofia prima (3). Dice che in tutte queste scienze è sempre necessario che si conosca l' essenza della cosa di cui si tratta. [...OMISSIS...] . Ma quest' essenza o si definisce separata dalla materia o unita, e di queste essenze non separate dalla materia trattano la fisica e la matematica; dell' essenza poi separata e universale la teologia . [...OMISSIS...] . E qui dopo aver detto che la fisica tratta di cose che non sono senza materia, [...OMISSIS...] , benchè deva anche la fisica cercare e definire la stessa quiddità, [...OMISSIS...] , ma colla materia; e dopo d' aver detto che la matematica specula d' alcune cose in quanto sono immobili e separabili, [...OMISSIS...] , prosegue venendo alla teologia o filosofia prima e dice così: Da questo luogo si vede chiaramente: 1 Che Aristotele ammette una sostanza separata non per semplice concetto, ma di essere proprio, dalle sostanze fisiche e sensibili: questa sostanza è immateriale, immobile, perpetua, causa del movimento degli astri. Infatti un' una e medesima cosa non può essere col moto e senza moto ad un tempo; questi dunque non sono due concetti che si possano distinguere nella stessa cosa: non può essere soggetta alla mutazione, ossia generabile insieme e perpetua, perchè ciò che si genera e si corrompe principia e finisce, onde non si può distinguere la stessa identica cosa in generabile e non generabile. In una parola ogni distinzione di concetto suppone che i concetti, secondo cui si distingue la cosa, sieno bensì diversi, ma non contradditorŒ tra loro: dove dunque la separazione è di concetti contraddittorŒ, trattasi di separazione di esseri e non di concetti. 2 Ora questa cosa separata dagli enti fisici generabili e corruttibili, de' quali tratta la Fisica, è l' oggetto della Teologia detta anche Prima Filosofia, ed è Dio stesso. Ma che cosa è questo Dio d' Aristotele? Primieramente è la causa immediata de' movimenti e de' fenomeni celesti, perchè i Cieli, secondo Aristotele, sono quelli, come si dirà, che ricevono l' immediato impulso dalla prima causa. Ma questo stesso oggetto poi si dice « «genere onorabilissimo », [...OMISSIS...] », e la scienza che lo riguarda, « «universale, comune a tutti i generi », [...OMISSIS...] », e di nuovo l' oggetto di questa si definisce: « « l' ente come ente, e quegli universali che esistono nell' ente in quanto ente » », [...OMISSIS...] . 3 E qui l' oggetto di questa scienza che ha due nomi, cioè Teologia e Filosofia prima, apparisce pur esso duplice, cioè: 1 l' ente come ente, 2 quegli universali che esistono nell' ente come ente. Se dunque l' ente, come ente, è Dio, secondo il contesto, che cosa poi sono quelle cose che in lui inesistono, [...OMISSIS...] ? Certamente le idee o almeno quei primi, [...OMISSIS...] , che si distinguono da' fantasmi, e non si generano nè corrompono, ma unicamente si conoscono toccandoli immediatamente (2), e che sono il fondamento di tutto l' umano sapere: perocchè si parla di cose prive al tutto di materia, di cose immobili e separate, [...OMISSIS...] . E` dunque obbligato Aristotele stesso ad ammettere le prime nozioni separate, non separate dall' ente per sè, da Dio, ma separate dalle cose reali e finite. Come dunque insegna egli in tanti altri luoghi, contro Platone, che sono inseparabili, e che separate sono posteriori? Il pensiero d' Aristotele parmi che riceva luce, e in qualche modo si concili seco medesimo col confronto d' un altro luogo. « « C' è una scienza, dice, che specula l' ente com' ente e quelle cose che in esso inesistono per sè » ». Ecco di novo i due oggetti della Teologia e della Filosofia prima: ecco le cose che inesistono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Che cosa sono queste cose che inesistono nell' ente per sè? Certo quelle che nel passo precedentemente citato disse esistere come ente, [...OMISSIS...] : i primi intelligibili. Sembra evidente che da questi Aristotele distingua le specie de' sensibili, perchè queste non appartengono all' ente come puramente ente, ma come ente sensibile. [...OMISSIS...] . Le scienze dunque che trattano di qualche genere esclusivo di ente, si dicono in parte , e specolatrici dell' accidente: la Teologia o Filosofia prima non è di quelle che si dicono in parte, perchè trattano dell' ente nella sua interezza come uno e tutto. Di novo dunque qui si chiarisce, che Aristotele distingue due classi d' intelligibili: 1 quelli che appartengono all' ente come puro ente; 2 quelli che appartengono ai parziali generi dell' ente, che noi chiameremo i primi e i secondi intelligibili . Questi secondi poi li considera come accidentali all' ente, onde dice che le scienze di questi specolano l' accidente circa l' ente, [...OMISSIS...] , laddove la prima tratta delle cose che sono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Ma i principŒ e le supreme cause appartengono, all' ente per sè, o sono accidentali? [...OMISSIS...] . Ammette dunque una natura per sè, di cui siano i principŒ e le cause supreme, [...OMISSIS...] . Ora questa natura è indubitabilmente di quelle che egli chiama prime sostanze, anzi veramente di tutte la prima, [...OMISSIS...] , perchè l' altre tutte, di cui tratta la Fisica e le scienze inferiori, sono parziali, [...OMISSIS...] , e minori di quella prima natura a cui nulla aggiungono, ma da cui rescindono una parte, [...OMISSIS...] : quella natura dunque è più completa d' ogni altra sostanza. Questa natura o sostanza è per sè ente e non per accidente, e di essa sono i principŒ e le cause supreme, che sono immobili, perpetue, e separabili da ogni materia. Questi sono, come dicevamo, i primi intelligibili, i principŒ della ragione e le prime cause formali. Ora Aristotele è pure costretto di convenire che la scienza che tratta dell' ente in questo modo, e di quelle cose, che in esso inesistono, e che, essendo prive di materia, sono per sè intelligibili (1), è « «comune a tutti i generi e a tutte l' altre », [...OMISSIS...] », poichè tutte le cose che esistono essendo in qualche modo enti, possono essere considerate come enti, cioè come aventi quelle proprietà che sono dell' ente come ente. Quindi egli viene di novo a considerare l' universale in un doppio aspetto: 1 come separato, proprio dell' ente per sè, inesistente in questo, senza materia, [...OMISSIS...] ; e 2 come comune a tutti gli enti anche sensibili e materiali. Dal che ne viene che il comune può esistere, come diceva Platone, per sè indipendentemente dalle sostanze sensibili, non precisamente nella sua condizione di comune , ma in quella d' appartenenza d' un primo ente per sè, cioè di Dio. A questo dunque ricadeva Aristotele stesso argomentando da quel principio ontologico, che abbiamo innanzi accennato, cioè che « ciò che è in atto, dee assolutamente precedere ciò che è in potenza ». Il qual principio per la sua stessa confessione non vale per ciascun ente singolo, rispetto al quale può preesistere la potenza all' atto, ma per l' università delle cose, e però basta a soddisfarvi che ci abbia un atto primo anteriore a tutte le entità potenziali, e questo è Dio. Ora non è fin qui identica la dottrina di Platone? Lasciava forse Platone le idee disunite, vaganti a caso, per così dire, senza una singolare e compiuta sostanza in cui fossero? No, certamente; ma la sede delle sue idee era Dio stesso, al che vedemmo riuscire lo stesso Aristotele. L' argomento dunque d' Aristotele che le idee, essendo universali, sono enti in potenza (2), e che perciò deve esserci quella sostanza singolare che non si predichi d' altro, in cui sieno, non ha forza per due ragioni: l' una , che le idee non sono universali se non in quanto possono esser partecipate, ma in sè stesse sono singolari, che anzi ciascuna rimane una e identica anche partecipata da molti, secondo Platone (1); l' altra , che è soddisfatto al bisogno d' un subietto in cui le idee si trovino, nella dottrina di Platone, che le ammette in Dio. Poichè l' argomento d' Aristotele si deve accomodare così, acciocchè abbia valore: « Le idee non dimostrano che un' esistenza obiettiva. Ma un' esistenza puramente obiettiva, cioè priva della subiettiva, non fa che la cosa sia a se stessa, ma ad un' altra cioè alla mente, di cui è obietto. Dunque le idee non sarebbero a se stesse, se non fossero in un subietto, che desse loro anche l' esistenza subiettiva ». Quest' argomento è come traveduto da Aristotele, ma non espresso. Ora Platone soddisfa a questa condizione dando per subietto delle idee Dio stesso. E questo non è già un fuor d' opera nel sistema di Platone, come è sembrato a qualche scrittore moderno, ma è coerentissimo a tutta la sua filosofia, ed un risultato di quella sua dialettica, con cui egli l' ha lavorata, e che egli chiama perciò appunto la scienza massima (2). Alla dialettica appartiene, secondo Platone, di conciliare i contrarŒ, e per mezzo di questa egli non solo non si ferma ai numeri e alle astrazioni geometriche (3), che riguarda come altrettante supposizioni, ma nè pur si ferma alle idee che, come vedemmo, trova bensì eterne, ma limitata ciascuna, e da sè sola insufficiente ad esistere, onde le vuol tutte connesse ed organate in un gran corpo o mondo intelligibile (1). Che anzi dice chiaramente essersi appigliato allo studio delle ragioni, ossia delle idee, per poter sollevarsi da queste più alto, cioè a Dio, che rassomiglia sempre al sole. [...OMISSIS...] . Fra il contemplare adunque le cose nello stesso ente cioè nel sole, e il considerarle ne' sensibili, ripone il considerarle nelle ragioni o idee, che sono da più che non sieno le immagini sensibili degli enti, ma non sono ancora l' ente assoluto in cui risiede come in prima fonte l' assoluta verità delle cose. Laonde giustamente avverte Goffredo Stallbaum non doversi già credere, che Platone faccia di Dio un' idea, o il complesso delle idee (3); il che ben avvertano quelli, a' quali in Italia piace la maniera di parlare, che l' eloquentissimo Vincenzo Gioberti tentò introdurre nella filosofia. Invano dunque Aristotele oppone a Platone, che le idee non possono stare separate dalle cose, poichè essendo universali sono enti in potenza e l' atto deve precedere, poichè anche Platone fa che preceda l' atto (1), riponendole in Dio, a cui ascende appunto per un simile argomento, ricopiato poi da Aristotele, il quale pure ascende dalle idee ad un primo intelligibile separato al tutto dalla materia sensibile. E` del pari falso, come vedemmo, che le idee di Platone costituiscano delle essenze diverse da quelle de' sensibili, perchè questi senza quelle nè sono nè hanno alcuna essenza, ma l' essenza loro è quella stessa che sta e si conosce nelle idee di cui partecipano. E benchè Aristotele sparli di questa partecipazione che i sensibili fanno delle idee, tuttavia egli stesso attesta, che secondo Platone « « i sensibili sono enti per la partecipazione delle specie, come i Pitagorici dicevano esser enti per la imitazione di esse »(2) »: non ci sono dunque due serie di enti, ma una sola, che ha due modi, in sè, e partecipata, rimanendo identica. Si consideri oltracciò che Aristotele ritiene la denominazione che Platone diede alle idee di cause delle cose (3): onde la prima delle sue quattro cause « « l' essenza e la quiddità separata dalla materia, che definisce anche il primo o prossimo perchè, l' ultima ragione della cosa »(4) ». Questa denominazione di causa data alle essenze ideali, implica la distinzione di queste dalle cose reali, singolari e sensibili. Nello stesso tempo Aristotele insegna, che l' essere sta in queste cause delle cose, per modo che la loro definizione e quiddità si predica delle sostanze reali, singolari e sensibili, sicchè ciò che di queste si conosce non è altro, che quelle essenze appunto che nelle idee s' intuiscono (1): c' è dunque identità secondo Aristotele tra l' essere intuito nelle idee universali, e l' essere conosciuto nelle cose reali sensibili. E questo è quello che fa Platone per confessione dello stesso Aristotele, dicendo che quelli che introdussero le specie, fanno le specie quiddità a ciascuna delle altre cose, e alle specie l' uno (2). Avendo dunque riconosciuto così Aristotele, che le essenze insensibili e immateriali non sono le cose, in quanto sensibili, ma loro cause prossime, non poteva farle derivare da queste, e dirle posteriori a queste, e però quando le dice posteriori, conviene intendere posteriori unicamente rispetto alla mente umana. Ma nello stesso tempo riman fermo il suo principio « che la sostanza reale e singolare, come quella che è perfettamente attuata, dee essere anteriore a quelle che, essendo universali, hanno della potenza ». Quando dunque considera quelle cause o principŒ prossimi e formali delle cose in se stesse, non potendo negare che preesistano, nè potendo ammettere che esistano come primi, per la loro universalità e potenzialità, dice che si devono ridurre in qualche natura diversa affatto dalle sensibili e materiali, [...OMISSIS...] . Come poi Platone connetta i sensibili, a cui appartiene il moto, coll' idee o essenze, che sono immobili, è detto nel Sofista e in altri dialoghi. Poichè avendo ivi distinti cinque sommi generi [...OMISSIS...] , cioè l' ente (4), lo stato , il moto , il medesimo e il diverso , dimostra, che l' ente si copula cogli altri quattro generi, e che se non si copulasse con essi, non sarebbero, nè si potrebbero pensare (5): e tuttavia non si confonde con essi. Gli altri quattro generi dunque, a cui tutti i generi inferiori si riducono, sono per la partecipazione dell' ente, e pure nessuno di essi è l' ente. Platone viene a dire così: noi dobbiamo considerare com' è fatta la natura delle cose, quale noi la conosciamo e la esprimiamo nel ragionamento interno ed esterno, e questo fedele rilievo dell' ordine della natura delle cose, qualunque sia, purchè non involga contraddizione, non ci deve turbare, nè dobbiamo, uscendo di senno per la maraviglia di un risultato che non aspettavamo, impugnarlo, o negarlo, o contraffarlo coll' immaginazione nostra e coll' arbitrio. Ora che cosa ci risulta da questa attenta osservazione delle cose tutte da noi conosciute? Ci risultano queste conclusioni: 1 Che niuna cosa può essere se non ha l' atto dell' essere (1); 2 Che questo atto dell' essere comune a tutte le cose, condizione necessaria acciocchè siano, di maniera che rimarrebbero annullate senz' esso, non è nulla di tutto ciò che costituisce le loro differenze, e pur le fa essere in quel modo che sono, l' una dall' altra distinte, e molte. Le qualità dunque delle cose (chiamando qualità non i soli loro accidenti, ma anche quello che costituisce la loro natura o essenza speciale, che è quello che Aristotele dice «peri usian to poion») (2), queste qualità che noi diremmo « essenze speciali », non sono l' essere, perchè questo è comunissimo ed uno, e quelle sono speciali (specie e generi). 3 L' atto dunque dell' essere che è in ciascuna e in tutte si può acconciamente chiamare l' ente, «to on», e tutto il resto che costituisce le cose «me on», il non ente. 4 Che se le essenze speciali che prese da sè sono il non ente, hanno bisogno per esistere dell' ente: dunque consegue che l' ente si copuli col non ente, cioè con tutte le essenze e nature, che non sono lui. Questa copulazione del non ente coll' ente è quello, che Platone chiama partecipazione, «methexin» (3), la quale è triplice, come è triplice la materia platonica, cioè l' ideale (4), la matematica e la sensibile. Laonde dice, che « « il non ente sembra implicato coll' ente in mirabili modi »(5) ». 5 Ma l' ente stesso, il «to on», ha bisogno d' essere unito col non ente per sussistere, perchè s' egli pure non avesse alcun' altra proprietà, rimarrebbe indeterminato e però assurdo, sarebbe e non sarebbe essere, come dimostra nel Parmenide. 6 Ora l' ente, il «to on», puro, è uno; il non7ente, il «to me on», è molti, perchè abbraccia i quattro generi (1) e tutti gli altri e l' altre cose anche reali, gerarchicamente subordinate: l' uno dunque e i molti sono sempre, nella verità del fatto, copulati insieme, onde la formola «hen kai polla», che è la tessera del sistema platonico, distinto ugualmente da quello di Parmenide, che solo ammetteva il «to hen», e da quello d' Eraclito, e de' fisici che solo ammettevano «ta polla». Qui converrebbe inserire un' altra dottrina di Platone, per la quale questo filosofo dal concetto dell' essere, fornendolo di tutto ciò di cui abbisogna affinchè sussista come essere compiuto, perviene al concetto di Dio, ma di questo in appresso. Continuando dunque nell' esposizione dei cinque supremi generi, egli mostra che nè lo stato, nè il moto, nè il medesimo, nè il diverso non sarebbero se non partecipassero dell' essere , e che perciò sono per la partecipazione di questo: ma che tuttavia non sono questo; copulandosi bensì, ma non confondendosi mai le nature. Di qui vengono le antinomie , e di qui pure si sciolgono, cioè si dimostra che esse non sono punto vere contraddizioni, ma solo apparenti. Poichè accade che una cosa si possa dire in due modi: per sè, e per quello di cui partecipa. Quindi una prima antinomia nasce da questo che si dica la cosa essere la medesima e non essere la medesima. Prendiamo a ragion d' esempio il moto. Si dice tanto che « il moto è », quanto che « il moto non è »: con verità l' un e l' altro. Poichè è vero che il moto è, intendendosi che è per partecipazione dell' essere; ed è vero che il moto non è, intendendosi per sè solo, come moto, astraendo dalla partecipazione dell' essere. Allo stesso modo dicesi che « l' essere si move », e che « l' essere non si move »: vero di nuovo l' un e l' altro, ma sotto un diverso aspetto, perchè l' essere si move per la partecipazione del moto, ma non si move per sè come puro essere. Dunque, dice Platone, non c' è contraddizione a predicare l' ente del non ente, e il non ente dell' ente, come ci rimproverano gli avversari, quasi cadessimo in contraddizione. [...OMISSIS...] . Viene dunque a dire che tutte le nature che veramente esistono, sono mirabilmente organate d' ente, che è il fondo di tutte, col quale tutte si copulano, acciocchè sieno (onde lo chiama il massimo, il principale, il primo) (2), e di non ente, cioè d' altre qualità, che da sè sole prese differiscono dalla natura dell' ente, ma per partecipazione di questa sono. Ed osserva, come dicevamo, che ogni discorso interno ed esterno dell' uomo attesta questo sintesismo della natura. [...OMISSIS...] . Stabilita dunque questa comunione e copulazione delle diverse cose, che unite senza confondersi organano gli enti esistenti, vedesi come Platone ne concepiva la loro costituzione di cose opposte e non punto contradditorie. Ed è da considerare attentamente che quando qui parla di generi e di specie, intende sotto queste parole parlare delle essenze che ne' generi e nelle specie si contemplano dalla mente, cioè di cosa che è anteriore alle forme categoriche. Non parla dunque di esse in quanto sono ideali, o in quanto sono reali, o morali, ma puramente in quanto sono, e perciò in quanto il loro essere è poi suscettivo d' una di quelle tre forme. Onde la teoria universale, che dà qui Platone circa il mutuo abbracciarsi e copularsi delle essenze, vale egualmente sia che si parli d' una copulazione che si consideri nell' ordine ideale o nell' ordine reale, ovvero di una copulazione che si consideri tra l' ordine ideale e il reale. E in quanto a quest' ultima, dove sta il nodo della difficoltà, e a cui si rivolgono le obbiezioni d' Aristotele, è prima di tutto da osservare che Platone non dice mica, che tutto ciò che appartiene all' ordine reale sia apparente, e non ci sia di vero che l' ordine ideale, come falsamente gli viene imputato, a cagione che talora dà alle essenze il nome d' idee, perchè quelle nelle idee solo si vedono e si contemplano dalla mente; ma tra i reali distingue i sensibili e corporei dagl' incorporei e spirituali (dottrina ricopiata poi da Aristotele) (2), e a quelli lascia un essere fenomenale, a questi attribuisce una vera e non fenomenale esistenza. Posto dunque che le nature esistenti sieno così organate di elementi non contraddittorŒ, ma diversi, non c' è alcuna ripugnanza che gli enti stessi fenomenali della natura, cioè i sensibili, sieno copulati nel concetto della nostra mente, secondo il quale parliamo di essi, d' una essenza immobile ed eterna, e d' un elemento scorrevole ed apparente come fenomeno alla nostra facoltà di sentire, giacchè queste due cose, quantunque copulate insieme e così costituenti una natura, non si confondono tra loro, nè l' una non diventa l' altra, ma sintetizzano, avendo il sensibile bisogno dell' insensibile essenza per essere concepito e per essere. Così se si separa il sensibile dalla sua essenza, diviene un incognito e anche un assurdo; se lo si lascia unito, s' intende, ed è come s' intende: per sè solo adunque non ha la essenza, ma partecipata questa, è anch' egli per questa partecipazione: non già che egli sia avanti di questa partecipazione, ma l' esser suo è il parteciparla, [...OMISSIS...] , per usare una frase d' Aristotele. Platone dunque non deduce, e non intende spiegare questa partecipazione, ma v' invita a osservarla coll' attenzione della mente nel fatto della natura delle cose, rispetto alle quali la chiama più spesso comunione , e nel fatto degli oggetti del pensiero, rispetto al quale la chiama presenza (2), parola acconcissima e forse unica, perchè le essenze sono là presenti al pensiero senza punto confondersi con esso e nè pur co' sensibili, benchè con questi abbiano una cotal comunione. Non è dunque vero nè che Platone faccia due ordini di essenze, le eterne e incorruttibili, e le sensibili; nè che egli ammetta gli universali per sè esistenti, l' uno separato dall' altro, e separati tutti da ogni singolare sussistente, che sono le imputazioni che gli fa Aristotele con tant' evidente ingiustizia, che farebbero credere non poter esser d' uomo che ascoltò per vent' anni le lezioni di Platone. Platone ammette un solo ordine d' essenze e queste incorruttibili, le quali sono in due modi, per sè, e partecipate. Ma nè nell' uno nè nell' altro de' due modi esistono o divisi fra loro o divise dalla realità. In quanto sono partecipate sono le stesse che esistono per sè, e i sensibili sono in esse, frase ripetuta da Aristotele e appropriatasi quando disse: [...OMISSIS...] in quanto sono per sè (il che altro non significa se non che per essere non hanno bisogno de' sensibili, e che possono esser concepite separate da questi, come ammette pure Aristotele) esistono congiunte e tutte organate in Dio. Nè vale il dire, che l' uomo se le forma colla percezione de' sensibili, di modo che Aristotele imputa a Platone di formare le sue idee col prendere i sensibili e aggiunger loro il vocabolo «auto» (2), questo non provando menomamente, che le essenze sieno lo stesso che i sensibili, o da questi indivisibili, ma solo che la mente vede questi colle essenze copulati, in modo che ogni sensibile ha per fondamento suo la essenza colla quale è copulato; e il moto stesso, e il sensibile , ha un' essenza immobile ed insensibile per la quale e nella quale è, e si conosce (3). Poichè l' essenza del moto non è mobile, e l' essenza del corruttibile non è corruttibile: e tutte queste essenze sono per l' essenza prima (che si chiama semplicemente essenza), cioè per l' essere, che sotto di sè le contiene, senza confondersi punto con questi suoi termini, come noi li chiamiamo. Le idee in Platone dunque non rimangono divise fra loro e ciascuna come un ente da sè sussistente, senza appoggio d' altra cosa reale, ma, sia in Dio, sia nell' uomo, si trovano in un subietto sostanziale e reale; al quale non appartiene ciò che Platone dice dei sensibili e corruttibili, che sieno in perpetuo moto, senza aver nulla di consistente: quasichè dal negare che fa Platone la stabilità e verità di questi si deva dire, con Aristotele, che Platone in universale parlando ponga prime le idee, e posteriori i reali. Anzi i reali sono in Platone il sostegno delle idee, sono quelli a cui esse appartengono, e ne' quali si copulano e congiungono tra loro e diventano operative e quasi mobili, non perchè esse sieno tali, ma perchè i subietti reali in cui sono operano secondo esse, come secondo altrettante norme e misure e regole e forme. Ma di nuovo, questi reali veramente sussistenti non sono i sensibili, ma gli esseri intelligenti ed incorporei. Laonde quando distingue il genere del moto e dello stato da quello dell' essere, Platone dice, che si fa questa distinzione nell' anima , certamente intellettiva, [...OMISSIS...] e in generale descrive le essenze come quelle che colla sola intelligenza e sapienza si apprendono, [...OMISSIS...] (1), che anzi egli impugna risolutamente i Megarici (poichè pare indubitato, che a quelli alluda nel Sofista), che dividevano le idee dalle cose reali per modo che non ponevano tra le une e le altre una vera comunicazione, e dicevano, che « « la generazione (i sensibili) è partecipe della potenza d' agire e di patire, ma all' essenza non convenisse alcuna potenza di simil fatta » ». Onde l' ospite eleate nel Sofista domanda: « « se concedano che l' anima conosca, e l' essenza sia conosciuta » ». A cui Teeteto: « « L' asseriscono certo » ». Ottenuta questa risposta, dimostra l' ospite, che se conoscere è un agire, come non si può negare, dunque essere conosciuto conviene che sia patire, e però « « che l' essenza in questo modo, conoscendosi, patisca dalla cognizione, e in quanto patisce, anche si mova, il che circa una cosa stabile abbiam detto non potersi fare » » (2). La conseguenza che Platone vuol qui derivare dal conoscersi le essenze, non è certamente del tutto esatta, poichè veramente le essenze nulla patiscono dall' esser conosciute, benchè la mente agisca in conoscerle «( Rinnovam. 497 e segg.) ». Il fatto si è che l' operare dell' anima conoscente non produce altro effetto che nell' anima stessa, la quale si può dire in qualche modo che sia attiva e passiva ad un tempo, nel qual senso si potrebbe distinguere un intendimento attivo ed uno passivo, ma non in questo senso glie li dà Aristotele. Non c' è bisogno di cercare il termine passivo della sua azione fuori dell' anima. Oltre questo agire poi e patire dell' anima, c' è anche, rispetto all' oggetto conoscibile, il predicamento del ricevere «( Logic. 431) » e dopo essersi ricevuto c' è il predicamento dell' avere «( Ivi e segg.) », i quali non importano nessuna passione nell' oggetto. I Megarici dunque esageravano o mal applicavano una verità luminosa, e così cadevano nell' errore, cioè la verità dell' « impassibilità delle essenze ». Platone più forse per dimostrare quanto quella questione fosse implicata, e più per confonderli che per convincerli e dare la vera soluzione delle difficoltà, li tirava ad accordare, che l' essere conosciuto fosse patire, e quindi che patisse l' essenza conosciuta [...OMISSIS...] , e di conseguente che anche si movesse [...OMISSIS...] . Dal che deduceva non essere assurda la comunicazione delle essenze. Ma sebbene quest' ultima, cioè la comunicazione o comunione delle essenze, fosse indubitatamente opinione di Platone, tuttavia credo, che il raziocinio che qui trae dal patire non fosse che un argomento ad hominem , che poteva valere bensì co' Megarici e co' Sofisti, ma che Platone non facesse veramente patire le essenze (1). Poichè egli non insegna mai altrove che le idee o le essenze eterne patiscano o si movano, ma il contrario; e le parole che usa di comunione ( «koinonia»), di presenza ( «parusia»), e simili, non inchiudono propriamente il patire , ma solo il modo reciproco di essere , e in questo senso, secondo noi, cioè come esprimenti in qual modo sieno reciprocamente e co' reali, vanno intese l' altre espressioni, «metalambanein allelon, epikoinonein allelois, metechein», e simili, colle quali significa in più modi lo stesso concetto. La vera discrepanza dunque tra Platone ed Aristotele non consiste in questo che Aristotele faccia anteriori i reali e posteriori le idee, e Platone faccia il contrario; e Aristotele dissimula il vero e va cavillando tanto spesso, quanto spesso di questo calunnia il suo maestro. Se i successori e discepoli di Platone in questo peccassero per non aver abbracciata colla mente la dottrina del maestro in tutta la sua integrità, non mi è ben chiaro, nè forse sarà mai del tutto. Ma è chiarissimo, e la confessione stessa d' Aristotele n' è la riprova, che Platone antepone assolutamente l' atto alla potenza, e i singolari e i reali alle idee che sono il termine della loro intelligenza, ma non punto i reali corporei o i sensibili, che egli fa posteriori. E tuttavia rimane ancora una vera discrepanza tra Aristotele e Platone, e un dissidio profondo. In che dunque questo consiste? - Qui siamo obbligati di uscire, per rinvenirlo, dalla sfera della Ideologia, e questo prenderemo a fare nel libro seguente. Una diversa ideologia conduce di necessità le menti dei filosofi a una diversa Teologia e a una diversa Cosmologia, giacchè non si può speculare sui principŒ di queste ultime scienze se non traendone i primi fili da quella che dà il loro naturale iniziamento a tutte le scienze filosofiche «( Logic. 1 e segg.) ». Il che si avvera ogni qualvolta la mente ne' suoi ragionari va pel cammino naturale, e non s' accinge al filosofare colla mente imbevuta di preconcette e volgari opinioni, e queste false. Quando all' incontro, invece di cominciare dal principio della scienza, che è il lume ideale, sbalzando in mezzo ad essa quasi a caso, e più secondo le secrete propensioni del cuore umano e l' educazione ricevuta, che per via d' un limpido ragionare, l' uomo si è venuto formando cotali anticipate opinioni intorno alla divinità e alla natura del mondo: egli è condotto da questa sua Teologia e Cosmologia precoce a comporsi un' Ideologia in loro servigio. Perocchè ad ogni modo questa e quelle devono consonare e non possono rimanere nella mente umana a lungo discorsi: sia che questa preceda e somministri l' ordito di quelle, sia che precedano queste e a lor servigio co' proprŒ fili ordiscano e tessano quella. E questa diversità di metodo in procedere speculando, parmi aver data origine, chi ben considera, alla differenza delle due grandi filosofie dell' antichità, l' Aristotelica e la Platonica. Perocchè Platone incomincia dalle idee e da queste trae i primi dati ed elementi, su' quali viene argomentando e congetturando con somma sagacità ed elevatezza, quello che si deve reputare vero o verosimile intorno alla prima Causa e all' Universo; laddove Aristotele viene già provveduto d' opinioni intorno alla natura delle cose mondiali, dalle quali ascende al primo Motore; e così, fornito d' una qualunque sia dottrina cosmologica e teologica, chiama le idee a riscontro di queste, e quanto più può s' affatica per ridurle a tale condizione e natura, che a quelle sue opinioni non contraddicano, anzi ad esse umilmente servendo, via più le confermino. Da questo lato dunque considerata la questione, non dubito punto asserire che la ragione del dissidio tra i due filosofi giace nell' opinione diversa intorno l' origine del Mondo, facendolo Platone creato da Dio, e Aristotele volendolo eterno. Esponiamo dunque i due sistemi intorno a questo punto colle loro conseguenze. Platone, come abbiamo detto prima, non pone la materia eterna, ma la fa veniente da Dio, da cui pure fa venire le idee (1). Nel decimo libro della « Politeia » introduce il legnaiuolo che fa letti e mense, e osserva che egli li fa secondo una specie , e che in questa è l' essenza e la natura propria del letto o della mensa che fa, ma non fa la stessa specie e però non fa « il letto »ma « un letto ». Quello che è veramente il letto, cioè l' essenza stessa del letto, chi la fa dunque? E risponde: indubitatamente Dio (2); dimostra anche di più, che il letto che serve d' esemplare al fabbro per farne molti, non può essere che uno, col principio degl' indiscernibili (1), richiamato in vita da Leibnizio. Come poi il legnaiuolo imita e ricopia il letto fatto da Dio (l' essenza del letto), così il pittore imita e ricopia il letto fatto dal legnaiuolo: onde distingue tre letti: quello fatto da Dio, l' idea, quello del legnaiuolo, e quello del pittore (2). Se adunque Platone fa che le idee stesse, in cui ripone la natura delle cose, sieno generate o prodotte da Dio, molto più la materia. Poichè questa senza la forma, e però indefinita, non può sussistere e non è che una pura astrazione della mente (3), cosa ripetuta da Aristotele (4), giacchè, secondo Platone, non può sussistere niente d' indefinito, onde le idee stesse, sebben ciascuna inconfusibile coll' altre, non esistono se non copulate ed organate insieme, il che mostrò a lungo nel Parmenide per riguardo alla idea dell' uno , che svanisce ove si separi da tutte le altre, e di più ivi dimostra che l' uno in quanto è partecipato da ciascuna parte d' un tutto è contenuto dal tutto, ma in quanto è partecipato dal tutto insieme, pure non è solo in sè stesso, ma in altro, [...OMISSIS...] (5). Il che è detto in un modo dialettico e formale, così che si può applicare il principio a più casi. Se dunque si prende per tutto il mondo intero delle idee, certamente allude alla loro contenenza in Dio, come abbiamo detto altrove (1). E veramente nel Timeo egli pone anteriori alla formazione del cielo tre elementi, l' idea, la materia corporea non inerte ma dotata di forze, onde la chiama generazione [...OMISSIS...] , e lo spazio, nell' immensità del quale quella materia da' suoi proprŒ pesi disquilibrata era portata a caso e qua e là sbalzata (1), i quali tre elementi egli fa comparire come contemporanei, e aventi una stessa origine, cioè quella che assegna al più eccellente di questi tre elementi nel X della « Politeia », Iddio. E il dice anche a questo luogo del Timeo indirettamente e con certa riverenza, riguardando come un religioso mistero l' ultima origine delle cose. [...OMISSIS...] . Il che non direbbe se non considerasse Iddio come l' autore del tutto, e accennando all' amico di Dio, pare che alluda alle tradizioni conservate dai sacerdoti, le quali tutto facevano venire da Dio, arcano superiore all' intelligenza, e alla fede comune degli uomini. E qui s' osservi tutto l' andamento del discorso di Platone, che mi pare non bene distinto dai commentatori. Egli prima parla di tre principŒ elementari delle cose: 1 la specie; 2 la materia corporea; 3 il corpo, che è l' unione dei due primi. Questo lo chiama: « « ciò che si genera », [...OMISSIS...] ». La materia corporea: « »ciò in cui si genera » [...OMISSIS...] ». La specie: « « ciò da cui nasce assimilato quello che si genera », [...OMISSIS...] ». E paragona alla madre la materia corporea che riceve; al padre la specie da cui riceve; e alla prole la natura che ne risulta media ossia mediatrice tra esse, [...OMISSIS...] (3). Dice d' assumere questi tre soli principŒ per ora (1), dando così ad intendere che n' aggiungerà loro poscia qualche altro. Dopo aver dunque distinti questi tre principŒ elementari li riassume in due, l' uno immutabile e immobile, che sono le specie, l' altro mutabile e mobile che è la materia corporea e i corpi, che col ricevere successivamente varie forme, il che è generarsi, di essa si vanno formando. Ora l' uno e l' altro di questi due generi elementari, li dice prodotti e generati, cioè tanto le specie quanto la materia corporea, ma prodotti distinti, e in qualche modo separati, perchè dissimili, [...OMISSIS...] . Riassunti così que' tre principŒ elementari in questi due, cioè nella specie , e nella generazione (che comprende la materia e i corpi mutabili), vi aggiunge ora il terzo (che viene ad essere il quarto, se la generazione si sparte in due), cioè lo spazio , onde le entità matematiche che, secondo lui, erano immobili come le specie, ma moltiplici come i corpi (3). Con ragione dunque Goffredo Stallbaum [...OMISSIS...] sostiene, che questa appunto della Creazione fu la sentenza professata da Platone (5). E nel vero se le idee del mondo che pure contengono l' essere delle cose, sono « veri enti », o enti semplicemente (6), pure hanno per autore Iddio, come potrà ammettersi per increata quella natura, che non ha verità in se stessa, ma è mutabile apparenza, e che tende a imitare la specie, sempre da un altro, cioè dalla specie stessa, sorretta e portata, [...OMISSIS...] , e che perciò ha un' esistenza reale di necessità relativa alla specie? (7). Poichè, come dicemmo, Platone parla della materia separata solo per astrazione dalla forma; ma come esistente, egli la fa vestita di qualche forma; però cangiabile, e in questa facoltà di rimutare la forma, pone la natura della materia finita, cioè in quanto giace sotto la forma, onde dice, che « « tutte queste cose (il fuoco, l' aria e gli altri elementi) si danno reciprocamente, come appare, la generazione », «ten genesin», » che il Ficino traduce « vires fomentaque generationis ». Quest' è la materia esistente sotto la forma, ma non divisa della forma. Quando si concepisce poi divisa per astrazione dice, che « « sembra che si veda onniforme », [...OMISSIS...] », perchè non si vede veramente senza forme, essendo impossibile; onde l' immaginazione le aggiunge quasi di furto tutte le forme, di cui l' avea spogliata l' astrazione, e così si concepisce. La materia indefinita non essendo dunque, che solo concepita dalla mente, è ideale, e così può dirsi eterna e immobile, essendo le idee nate dal pensiero divino ab aeterno (1). Ma la materia definita è reale, e come quella si chiama immobile al par delle idee, così questa si move, chiamandola Platone « « simulacro che soggiace a ogni natura, agitata e figurata dalle (specie) ingredienti »(2) ». Avendo dunque Platone concepita la materia corporea indefinita come un' idea o essenza generica, ne parlò come fosse una (benchè virtualmente avesse il numero ne' suoi visceri), il che diede occasione ad Aristotele di redarguirlo. Poichè non ammettendo Aristotele idee separate dalle cose corporee (benchè poi ammettesse egli stesso le prime idee, [...OMISSIS...] , nella mente separate dai corporei e dai fantasmi), considerò la materia come definita, e quindi sostenne che tante erano le materie quanti i corpi, cosa che Platone non gli avrebbe negato; mostrandogli in quella vece che quelle materie, non differendo nè di specie, nè di genere, non potevano avere che natura di parti d' una sola materia specifica. Il nome dunque, che Platone dà a Dio di «phyturgos», piantatore, o autore della natura, ha virtù d' esprimere la creazione, così appunto spiegandolo Platone, come indicante che Iddio « « fa in natura e questo » » (il letto per essenza) « « e tutte l' altre cose » » dove «alla panta» abbraccia tutta la materia informata (1). Laonde prima avea detto chiaramente, che « « dal Bene (cioè da Dio) a quelle cose che si conoscono, non solo avviene il poter essere conosciute, ma di più da quello prendono l' essere e l' essenza, quand' egli non è l' essenza, ma è più su dell' essenza, superando questa in dignità e potenza » » (2). Dove chiaramente è distinta la conoscibilità delle cose, «to gignoskesthai» dall' essere, «to einai», e dall' essenza, «ten usian», delle cose, e tutti e tre questi elementi si dicono provenire da Dio che è il bene stesso, a tutte le cose superiore. Ora da questi tre elementi nulla si può escludere, nè pure certamente la materia, che ad ogni natura soggiace, foggiandosi a modo di simulacro, [...OMISSIS...] . Poichè se ogni natura risulta da que' tre elementi: 1 la conoscibilità; 2 l' essenza; 3 l' essere; e se ad ogni natura soggiace la materia, e la sua propria condizione è questa di soggiacere, per fermo essa da que' tre elementi non si può in alcun modo dividere. Convien dunque dire che, secondo Platone, Iddio creò la materia corporea coll' idea e nell' idea, e che, se ne parlò prima come d' un elemento da sè indefinito, ciò non facesse che per un processo dialettico, pel quale distinguendosi le cose per considerarle meglio nelle loro distinzioni, non si lasciano però divise, ma poi si riuniscono. Ed è da considerare i vestigi che sono nell' animo umano d' una doppia potenza, l' una che si riferisce alle idee, l' altra alla materia; dalla quale doppia potenza, che in noi stessi osserviamo, possiamo salire per analogia a Dio, e vedere come l' atto suo può abbracciare le idee e la corporea materia, e in generale ogni realità. Poichè l' uomo ha: 1 il potere d' intuire le idee, poniamo l' idea della casa, anzi la specie piena (facoltà d' intuire le idee); 2 il potere altresì di porla e affermarla sussistente, mediante una certa virtù imaginativa della mente (facoltà di pensare individui reali possibili; la quale s' inchiude nella facoltà del verbo) «( Ideol. 531 7 554) ». Ora questo secondo potere è il vestigio appunto di quel potere che ha Dio di creare. Poichè come l' uomo imaginando e affermando si pone avanti un simulacro d' individuo reale possibile, così Iddio con un atto analogo lo fa essere (1). Ma come l' uomo non potrebbe pensare un individuo sussistente possibile, se non ne intuisse la specie, così Iddio creando, pone colla materia la specie nella materia che crea, o per meglio dire figura la materia sul tipo della specie e ne fa un simulacro di questa. L' atto dunque col quale Iddio crea la natura sussistente, le cui parti poscia coordina e armonicamente dispone, non è già una semplice intuizione, ma, quasi direi, un atto efficace d' immaginazione ed affermazione divina: non è come nell' uomo l' intuizione delle specie, un ricevere, ma un fare collo stesso esser suo. Ora a quest' altezza non giunge Aristotele. Quantunque egli sia costretto dalla forza del suo ingegno a riconoscere, che l' essere delle cose non è punto sensibile, tuttavia non sa punto slegarsi da' sensi, che sono pania alle sue ali, onde contraddizioni per tutto e, diviso in due, ora sembra innalzarsi alle cose più spirituali e immateriali, ora nella materia ricade. E` sempre il sensibile da cui parte, e la prima ragione su cui fonda il raziocinio è il testimonio de' sensi anche dove questi, secondo la sua stessa dottrina dialettica, non possono avere alcuna autorità. Così a impugnare la Creazione del Mondo ricorrendo al testimonio della vista, induce che il movimento circolare de' cieli sia naturale in essi ed eterno, perchè si vedono mover sempre (2). L' argomento è manifestamente indegno di un tanto filosofo. Con simili ragioni toglie a provare contro Platone (3), che il moto e il tempo non ha mai cominciato (4) e sembra che non sappia concepire nè pure la stessa divinità fuori di luogo (5) e del tutto inestesa, non perchè non s' accorga che la mente non può ammettere estensione di sorta, chè questo bene il vede (1), ma perchè pare che la mente stessa deva risiedere in qualche corpo e non possa pura e sola sussistere. Onde recando i diversi significati della parola «usia» pone per primo che significhi « « i corpi semplici, come la terra, il fuoco, ecc.. »(2) ». Indi molte dottrine rimangono in Aristotele sospese quasi in aria, senza alcuna ragion sufficiente, come ad esempio, quella dell' unità del Mondo argomentata dall' esser egli composto di tutta quanta è la materia (1). Nella dottrina di Platone, ricevendo la materia da Dio l' esistenza, si trova la ragion sufficiente, per la quale sia tanta e non più: chè la volontà del Creatore le assegnò una misura proporzionata a quell' ideale organico del mondo da lui concepito secondo la perfezione che dovea in sè realizzare; ma ad una materia esistente per sè ed eterna chi può assegnare una misura? Onde non rimane più un perchè essa deva essere piuttosto tanta che tanta, o perchè al bisogno di questo mondo non ne sopravanzi una porzione, sia che altri mondi se ne compongano, o sia che disordinata si rimuova in un caos a guisa di materia nebulosa. Ma torniamo a Platone. L' idea suprema pel gran filosofo è « l' idea del bene ». Non si creda che quest' idea sia per Platone interamente diversa da quella dell' ente, che è da lui chiamato « « il massimo e precipuo e primo »(2) ». Ma poichè l' ente si può prendere secondo un concetto indeterminato e formale, secondo il quale tutti gli altri concetti a lui si copulano (3), non essendo egli che l' essere possibile, o potenziale, come Platone stesso lo definisce (4), e si può prendere nel suo atto da ogni parte compiuto, perciò Platone a quest' ultimo riserva il nome di bene (5). Ma il bene stesso, attesa la limitazione della nostra mente e i diversi modi dell' umano pensare, duplica il suo concetto. E però Platone distingue il Bene [...OMISSIS...] dal Figlio del Bene [...OMISSIS...] . Questo Figlio del Bene lo chiama « «similissimo al Bene » [...OMISSIS...] , ed è il lume dell' umana intelligenza, il lume di Dio segnato nell' anima umana, il qual lume perciò Platone lo distingue sapientemente da Dio stesso, e nol confonde punto con lui; come faceva, e in vano l' attribuiva a Platone, un recente scrittore di gran nome in Italia, che a noi s' oppose da principio con grand' impeto per quest' appunto, ma finì poi coll' esserci non concorde, ma benevolo (1). Platone dunque paragona il Bene, cioè Dio, al Sole, il lume della ragione umana al lume appunto del Sole, che s' imprime nell' occhio e si sparge ad un tempo su tutti i corpi, che, riflettendolo (2) all' occhio, si rendono per esso visibili. [...OMISSIS...] Il lume dunque, che viene da Dio al mondo, è ciò che Platone chiama il Figliuolo del Bene, cioè di Dio, e dice, che è generato analogo a Dio stesso [...OMISSIS...] , cioè simile per via di proporzione, e spiega questa proporzione così. Il Bene è in luogo intelligibile [...OMISSIS...] , il Figliuolo del Bene è in luogo visibile [...OMISSIS...] : quello nel luogo intelligibile sta alla mente e alle cose intelligibili [...OMISSIS...] , come questo nel visibile sta al vedere e alle cose visibili [...OMISSIS...] , il che viene a dire, che come dal Bene, cioè da Dio, viene il lume alla mente, e quindi la virtù intellettiva, e vengono le idee che sono le cose intelligibili; così da questo lume ricevuto dalla mente, accompagnato dalle idee, viene al senso (1) e alle cose sensibili l' essere conosciute e conoscibili. Le cose dunque che cadono sotto i sensi corporei ricevono la loro conoscibilità dal lume della ragione e dalle idee, ossia dall' essere indeterminato presente alla mente e avente in sè tutte le altre idee: ma questo lume e queste idee vengono, secondo Platone, da Dio stesso, salvo che egli non conobbe, come sembra, in che modo tutte le idee si riducano a quella prima, che è il lume, e in essa s' acchiudano virtualmente, e da essa escano all' occasione delle sensazioni, e altre operazioni dello spirito «( Ideol. 229, 230) ». Conviene di più che osserviamo come Platone pei sensibili che rimangono illuminati dal Figlio del Bene, cioè dal lume della mente, non intende solamente i corpi, ma tutto ciò che è sensibile, come le azioni, alle quali pure attribuisce la sua essenza e natura immobile, e la partecipazione d' altre essenze, come della giustizia e della bellezza (2). Onde definendo ciò che intende per intelligibile e per visibile così s' esprime: [...OMISSIS...] . Le azioni singole adunque appartengono alle cose visibili; ma l' idea del giusto e del bello alle intelligibili. Ma quest' idee, che costituiscono il Figlio del Bene, sono quelle che rendono intelligibili le singole azioni visibili, e che le fanno conoscere come buone e belle. Quando dunque Platone nomina « « molti belli e molti buoni » » [...OMISSIS...] , devonsi intendere quest' espressioni in senso diviso «( Logic. 373) », cioè per azioni, che poi dalla mente, che aggiunge loro l' idea del buono e del bello, ricevono la denominazione di buone e di belle (4); e quest' è la funzione, che il Figlio del Bene, cioè il lume della mente, esercita rispetto alle cose visibili in un modo proporzionale a quello che il Bene esercita colla mente, alla quale dà il lume e le idee, ossia gl' intelligibili puri. C' è dunque nell' uomo la virtù intellettiva, intendendosi anche questo in senso diviso, cioè come un principio subiettivo capace d' acquistare la detta virtù (1); ci sono le cose reali atte a divenire intelligibili: c' è il Bene, che come Sole manda il suo lume (suo Figliuolo) nelle menti, e con esso gl' intelligibili , cioè le idee pure (come «auto kalon auto agathon» ecc..): questo Figliuolo (lume7idee) produce ad un tempo due effetti: 1 dà al principio subiettivo la virtù e l' atto d' intendere; 2 e dà ai reali la facoltà d' essere intesi, li rende attualmente intelligibili. Con acconcissima similitudine adunque si può paragonare questo lume naturale delle menti ad un giogo che aggioga la mente e le cose reali, cose senza di lui disunite, e aggiogandole le fa essere. Onde Platone usando della similitudine del Sole materiale e delle cose visibili agli occhi, dice appunto: [...OMISSIS...] . E la parola idea che qui ad arte usa Platone, parlando del lume sensibile, si riferisce all' intelligibile, onde, senza dubbio il lume delle menti per Platone è una prima idea, quella che egli chiama massima, e precipua, e prima di tutte, l' idea dell' ente. Ma è necessario che noi vediamo come, secondo la mente di Platone, tutte le cose si derivano dal Bene. Il Bene dunque è l' essere assoluto, la cui più alta denominazione è quella di Bene (3). Questo colla sua propria energia produce in sè le idee del Mondo: in queste idee si contiene l' essere del Mondo. Tra queste idee ci sono quelle dell' anime finite. Il Bene che colla facoltà intuitiva vede l' anima nel suo essere ideale, ad un tempo, colla facoltà che chiameremo, benchè impropriamente, dell' immaginazione e affermazione divina, la realizza, la pone a se stessa, fa che l' essere dell' anima, che è nell' idea, acquisti una relazione a sè stesso, sia a sè stesso (4). Ora l' anima è vita, sentimento. Questo sentimento è suscettivo come di due impronte, l' una è quella del Bene stesso, e quest' impronta del Bene è il lume intellettivo, la cognizione e la verità, che da Platone si dicono non essere il Bene, ma suo Figlio, e boniforme , [...OMISSIS...] (1), ossia una specie impressa del Bene. L' altra impronta è quella del sensibile corporeo; perocchè i corpi sensibili sono, secondo Platone, de' fenomeni, che appariscono al sentimento dell' anima, e che imitano e si conformano alle idee, che trovano nell' anima stessa, onde come l' anima riceve le idee da Dio, e così s' informa ella stessa, così essa dà le idee al proprio sentimento inferiore, quasi in esso improntandole. E come il Bene improntato nell' anima non è il Bene, ma una sua partecipazione e similitudine, così l' impressione delle idee nel sentimento inferiore dell' anima non sono le idee stesse, ma un cotal simulacro delle idee, ed è perciò che i corpi formati dice che sono «homonyma» (2) alle idee, cioè riceventi lo stesso nome, ma differenti di natura, di che Aristotele lo riprende (3), come se con ciò facesse dell' idea e della cosa due sostanze. Così dunque nel sistema di Platone tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e tutto è connesso. Che se in descrivendo la produzione delle cose mondiali le divide, e prima descrive la formazione dell' anima, poi quella dei corpi, questo fa per ragione di metodo e per la priorità logica, ovvero di eccellenza, non perchè ammetta veramente una separazione tra i mondiali principŒ. Le quali cose conviene che noi confortiamo di qualche autorità. E prima è necessario dire una parola sulla questione più sopra toccata e tant' agitata tra' più recenti eruditi della Germania « Se il Dio di Platone sia il Bene o l' Idea del Bene ». La quale noi crediamo potersi agevolmente comporre, purchè si chiarisca il senso della idea platonica. Due proprietà ha quest' idea: 1 che è l' essere delle cose; 2 che quest' essere è oggettivo, cioè per sè intelligibile; e talora, usando il vocabolo Idea, Platone abbraccia in esso le due proprietà, talora lo prende a significare una sola di esse, e specialmente la seconda, cioè « l' essere della cosa in quanto è intelligibile ». Ora le cose si distinguono in due classi. Alcune non sono altro che l' essere stesso [...OMISSIS...] ; altre sono un' immagine o simulacro dell' essere [...OMISSIS...] . Queste ultime sono i corpi, e, almeno in parte, tutti i reali finiti. Ora le cose che non sono essere, ma simulacri di essere, non possono stare da sè sole, perchè hanno una esistenza relativa all' essere, ma sono per l' essere, e pure per l' essere, di fronte al quale sempre si pongono, sono conoscibili; onde dall' essere hanno la conoscibilità, [...OMISSIS...] , l' esistenza, [...OMISSIS...] , e l' essenza [...OMISSIS...] . Quindi avviene che le prime cose che sono essere, abbiano una unicità d' esistenza, l' altre che sono simulacri, abbiano una duplicità nella loro esistenza: nelle prime adunque non si può distinguere un' esistenza diversa dall' Idea, perchè l' idea è l' essere, e questo per sè intelligibile; ma nelle seconde altro è l' esistenza, che hanno come idea o essere, altro quella che hanno come simulacri o fenomeni, la quale può anche cessare, ed anzi cessa di continuo ne' sensibili, che mai non sono, sempre si fanno, perchè continuamente fluiscono. Di tutti adunque i noumeni , cioè di tutte le cose che sono essere e per sè intelligibili, il primo e massimo è Dio, ossia il Bene. L' Idea dunque del bene non è nè può essere nel pieno suo significato cosa diversa dal Bene stesso, e però ogni qualvolta si prende da Platone l' Idea in questo senso, distinta dalla specie partecipata , che è diversa dal Bene, ed è la scienza e la verità «agathoeide», egli usa indifferentemente Bene e Idea del Bene, a significare veramente la stessa cosa, cioè il Bene essenziale (1). Onde facilmente quella discrepanza d' opinioni così si compone. Vediamo ora qual sia la dottrina platonica intorno all' Essere assoluto, che egli chiama massima: riconosce in prima che essa eccede l' umana intelligenza, e non vi si accosta che con gran riverenza, toccandola sempre alla sfuggita, e protestando di riconoscerla d' una sublimità inarrivabile. Parla Socrate nel Fedone di quelli che nè investigano quella potenza per la quale l' Universo è così ottimamente disposto, nè reputano aver essa una cotal forza divina, ma si contentano meglio d' immaginare Atlante che porta il mondo, e « « non reputano punto che veramente il Bene e il Decente congiunga e contenga » » tutte le cose (1). [...OMISSIS...] . Non trovando dunque Platone alcun maestro tra gli uomini che gl' insegnasse a conoscere Iddio, ragione del Mondo; e non sapendo in che modo contemplarlo direttamente, perchè chiuso in un abisso di luce, tentò la seconda navigazione, [...OMISSIS...] secondo il greco proverbio. Ed ecco la vera ragione dello aver Platone ridotta la filosofia alla Dialettica (4). Nella quale vide che si potevano stabilire delle ferme basi su cui ragionare, e spiega tosto la via che tiene in tutto il suo filosofare. Suppone a tutti i ragionamenti una ragione che giudica validissima [...OMISSIS...] , e poi quelle cose che ad essa consonano ha per cose vere, quelle che ad essa ripugnano per cose false. Ora qual è questa ragione? Ella è la causa formale e finale, perchè questa seconda viene dalla prima nella filosofia di Platone. Il quale ragiona così: Se si domanda perchè una data cosa abbia una data qualità, per esempio perchè sia bella, si può rispondere in due modi, l' uno semplice ed innegabile, così: « perchè ha la bellezza »; l' altro soggetto a investigazioni difficili e controverse, così: « perchè ha un colore florido, una figura o altra tal cosa ». Ora, dice, benchè la prima risposta paia forse rozza (1), pure mi attengo per intanto a quella. Poichè il resto non oserei affermarlo così subito; ma « « che tutte le cose belle si fanno tali pel bello, il risponder questo e a me stesso e agli altri, mi sembra sicurissimo, e, fermo su di questo fondamento, stimo di non poter mai cadere » ». Non potendosi questo negar da nessuno, perchè evidente, questa è la ragione validissima [...OMISSIS...] su cui, come sopra un fondamento inconcusso, toglie a edificare la sua filosofia. Poichè dimostra, che il bello, pel quale sono belle le cose che così si dicono, non è le cose stesse: oltre le cose dunque, c' è qualche altro elemento, di cui le cose partecipano per esser quello che sono, ed esser così denominate come si denominano, e questo elemento, nell' esempio addotto, è il bello stesso, pel quale le cose si dicono e sono belle. Quest' è quello che Platone chiama l' idea. Non rimane dunque che a considerare la natura delle idee, e vedere ciò che alle idee si confà, o che ad esse ripugna, per trovare ciò che è vero, o non è. Ora lo studio della natura delle idee, causa prossima, per la quale le cose sono quello che sono, conduce a conoscere: 1 che tra le idee non cade e non può cadere alcuna contraddizione; 2 che quindi alcune di esse si collegano ad unità, altre non si possono collegare, quando s' incontrerebbe, collegandole, una contraddizione (2). E questo studio del collegamento e della opposizione delle idee è appunto quello che il filosofo chiama dialettica , a cui di conseguente tutta si richiama la filosofia. Essendo dunque le idee tra loro per natura aggruppate (e la dialettica è quella che cerca di conoscere questi gruppi e li analizza), non è maraviglia, che anche nelle cose sensibili e corporee, che ne sono il simulacro, si vedano aggruppate, e però non si sa intendere, come alla presenza d' una tale dottrina Aristotele potesse credere, che fosse un' obbiezione contro le idee del suo maestro, che « « una cosa stessa partecipasse di più idee, quasi di più esemplari » » (3). Se non che egli abusa della parola esemplare, «paradeigma», giacchè, a propriamente parlare, d' una cosa reale non c' è che un esemplare solo, e questo non è un' idea separata, ma il gruppo di quelle idee che la rappresenta e per il quale s' intende, che noi chiamiamo specie piena, avendo quel gruppo una perfetta unità per l' unico subietto, che è l' idea fondamentale, a cui sono congiunte organicamente le altre. Che anzi, a propriamente parlare, Platone non ammette che un Esemplare unico risultante dal perfetto organismo di tutte le idee, l' Esemplare voglio dire dell' Universo, di cui gli altri sono parti, e non diversi esemplari (1). E non è egli strano al sommo che Aristotele dissimuli tutto questo? Veduta dunque la via per la quale procede Platone, cioè per ragioni ed idee, e tenuto conto della sua dichiarazione, che non intende con ciò di dare la scienza compiuta della prima divina causa, che immediatamente non si percepisce, ma di parlare intorno ad essa secondo buone ragioni, e vere singolarmente prese, ma che conducono a conoscerla piuttosto per analogia , che per la propria essenza: vediamo come si venga componendo per idee e ragioni la dottrina del sommo essere. Primieramente egli pone che l' Essere sia la massima e precipua e prima idea, e che tutti gli altri generi privi di lui non sarebbero: l' essere stesso dunque è per sè essere, perchè questa è la sua essenza, ma l' altre cose hanno l' esistenza da lui (2). Ma egli stesso l' Essere per sè non potrebbe concepirsi se non avesse in sè altro che essere, cioè essere indeterminato, uno puramente senz' alcuna pluralità (3). E` da notarsi che la pluralità di concetti, che Platone vuol distinguere nell' uno esistente nasce dall' indicato metodo di procedere per via di ragioni , le quali danno necessariamente una pluralità, anche dove non ci potrebbe essere, e però una cognizione imperfetta, ma l' unica che possa aver l' uomo, secondo Platone (4). Conviene però osservare, che se l' essere è essere per sè perchè è l' idea, l' essenza dell' essere; anche quelle cose che noi, discorrendo per via di ragioni , come l' unica che ci resti, troviamo necessarie perchè esso sia, sono per la stessa necessità dell' essere, essendo a lui essenziali costitutivi, di che s' induce che sono puro essere esse stesse, e però che non pongono in lui che una pluralità apparente, nascente dal nostro modo di concepire per via di ragioni. Il che non so se espressamente dica in alcun luogo Platone, ma è logicamente coerente al principio. Vediamo dunque che cosa deva avere l' essere per sè, ossia l' idea dell' essere, acciocchè esista, cioè sia veramente essere. Egli è chiaro, che deve avere in sè tutto ciò che è veramente essere, perchè all' essere non può mancare, essendo perfettamente uno e semplice, nessuna porzione dell' essere: dee dunque aver tutte le idee, poichè, come abbiamo veduto, sotto il nome d' idee Platone intende l' essere stesso delle cose, non le loro similitudini, imagini ed ombre. Il che intende quando nel « Fedro » dice, che « « Dio è divino, perchè è colle idee » » (1). Infatti contenendo le idee lo stesso essere obbiettivo, Iddio non sarebbe Dio, se non avesse, in qualche modo, tutte le idee, cioè ogni porzione dell' essere; e dico in qualche modo, perchè niente vieta che egli le abbia non già in un modo confuso e indeterminato, ma indistinte tra loro, onde poi distinguendole all' occasione di creare il mondo, si dicono da lui create, come nel X della « Politeia », benchè io intenda questo delle sole idee del mondo, e non delle prime idee, che non sono tipi del mondo, come verrà forse altrove occasione di dire. Il che stabilito, s' intenderà come Platone ponga come sentenza indubitata e di verità universale, che « « la mente non possa concepirsi esistere senza un' anima » » (2). Il che non intende già affermare delle menti create, ma assolutamente, con questa avvertenza però che l' anima che egli attribuisce alla mente essenziale, cioè a Dio, è l' idea dell' anima, ossia l' essenza, l' essere stesso dell' anima, non una sua partecipazione o similitudine. Onde dice nel « Sofista »: [...OMISSIS...] ; dove è d' avvertire che il moto, secondo l' uso di Platone, si prende per azione in genere, senza che involga di necessità il concetto di passaggio o di successione. Ora qual è questo moto, questa vita, quest' anima, questa prudenza, che si dee manifestamente trovare appo l' Ente completo e assoluto? Certo le idee di tutte queste cose, non già le loro immagini o le loro ombre, ma lo stesso loro essere, lo stesso moto, vita, anima, prudenza essenziale. Onde in appresso dimostra che l' essere dello stato e del moto non è nè stato nè moto, ma cosa ad essi superiore, sotto il quale tuttavia il moto e lo stato si contengono (1). Così Platone ascende a riconoscere colla gran forza del suo ingegno eminentemente speculativo, che tutte le cose hanno un primitivo e originale loro essere, un essere oggettivo eterno, necessario all' essere stesso, senza la qual ricchezza interiore l' essere stesso non potrebbe essere. Questa dottrina è costante in Platone. Nel « Filebo » pronuncia pure la sentenza che « « la sapienza e la mente non sono mai senza l' anima » » (2). E quindi trae che « « nella natura dello stesso Giove alberga un' anima regia ed una regia mente, a cagione della potenza della causa » » che è in lui, parole che sembrano fatte a posta per ribattere l' obbiezione che Aristotele fa a Platone, quando gli rimprovera così spesso che colle sue idee non può spiegare il movimento; quand' anzi Platone appunto per ispiegare come Dio possa essere causa delle cose, [...OMISSIS...] , gli dà un' anima, cioè un sentimento sostanziale, principio d' ogni energia. Nè conviene intendere che quest' anima sia un' anima partecipata, ma lo stesso essere dell' anima, il genere sussistente, non già il genere in sè stesso indeterminato, come quello che noi concepiamo raccogliendolo per astrazione dalle diverse specie di anime, ma per sè determinato intrinsecamente. Laonde io stimo che quest' anima di Dio sia diversa da quella creata e partecipata che Platone dà al mondo. Poichè di questa descrive la generazione nel « Timeo », laddove Iddio è la causa generante, e acciocchè possa esser causa deve avere già l' anima, come leggiamo nel « Filebo ». Si distingue oltre a ciò nel « Timeo » l' esemplare del mondo dal mondo : quello è formato dalle idee che Iddio produsse in se stesso organate a maravigliosa unità come richiedeva la bontà del Creatore. Ora dovendo il mondo essere la copia di quest' ottimo esemplare, conveniva che in questo esemplare ci fosse l' idea non meno dell' anima che del corpo del mondo, e che quindi il mondo fosse costituito d' anima e di corpo perchè nell' esemplare c' era l' una e l' altra idea connessa insieme. L' anima del mondo dunque non è l' anima che c' è nell' esemplare, ma una copia o imitazione di essa: [...OMISSIS...] . L' anima adunque dell' esemplare non è l' anima del mondo, ma quella da cui fu ricopiata. Ma Iddio che fece e l' esemplare e il mondo dovea avere l' anima sua propria, acciocchè potesse esser causa. Nondimeno la difficoltà della materia e l' oscurità o piuttosto la sublimità del linguaggio fece credere il contrario a molti dotti, e ciò perchè fa Iddio presente a tutto il mondo e dappertutto inesistente. Ma ecco come questo si spiega. Stabilito che l' esemplare, essendo quel complesso d' idee, che pensò Iddio per formare il mondo, è in Dio ed appartiene a Dio, benchè da Dio si distingua «kata logus», e distinto così l' esemplare dal mondo ricopiato su di esso; questo esemplare stesso si vede tuttavia nel mondo, poichè la mente dai vestigŒ o similitudini di esso, raccolte pe' sensi, ascende al mondo eterno, come Platone ha spiegato nel « Fedro », attesa la reminiscenza delle cose colà vedute dalle nostre anime (2). Così deve intendersi quello che dice nel « Filebo » che la causa [...OMISSIS...] inesiste in tutte le cose (3) pe' suoi effetti e vestigi, perchè ella presta a noi, e ad alcune altre cose che sono quaggiù in terra presso di noi, l' anima e la via d' esercitare il corpo sano e, infermo, restituirlo alla salute, e in altre cose pone e ristaura altri pregi, dal che acquista il nome d' « « universale e omnimoda sapienza » », [...OMISSIS...] , che è appunto quella che contiene l' Esemplare; di che argomenta che la sapienza della Causa molto più si dee essere avvisata di dare anche alle maggiori parti del mondo, che sono le celesti, e al mondo tutto l' anima, « « la bellissima e venerabilissima delle nature » », [...OMISSIS...] (4). E l' anima si chiama appunto la bellissima e venerabilissima natura, perchè è suscettiva d' avere le idee, e così la sapienza. Ma altro è l' anima, altro la sapienza, e altro le idee; poichè queste ultime non possono essere senza l' anima, cioè senza il principio subiettivo che avendole diventa sapiente. Laonde dice che soprastando la Causa ai due elementi del mondo, l' indefinito e il fine, li congiunge e congiungendoli li adorna e dispone, e per questi effetti si chiama giustamente mente e sapienza, [...OMISSIS...] . Di che deduce che anche Giove come causa suprema, [...OMISSIS...] , dee aver un' anima e una mente regale e che proporzionatamente sia da dirsi lo stesso dell' altre cause che a quella somma s' avvicinano, cioè degli astri (2). Il che, dice, conferma l' antica sentenza (alludendo principalmente ad Anassagora), che a tutto l' universo impera mai sempre la Mente, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che « « la mente è prole della Causa di tutte le cose » » (3) e ciò certamente per quella ragione appunto, che è nel X della « Repubblica », che Iddio produce di sè le idee e così la sapienza. Conviene dunque distinguere l' anima e la sapienza dalla causa, e in questa sapienza l' Esemplare dall' effetto che è l' Universo, nel quale ci sono i vestigi dell' esemplare e c' è l' anima somministrata dalla Causa, e però diversa da quella propria della causa. Questa non può esser causa se non ha l' anima in cui sta la forza causale e le idee, cioè l' Esemplare, e la sapienza che da quest' idee risulta all' anima: e questa causa sta sopra all' altre cose, [...OMISSIS...] , e le adorna e dispone, [...OMISSIS...] , e sempre impera al tutto, [...OMISSIS...] ed è quella che presta l' anima alle cose animate di quaggiù [...OMISSIS...] , e ugualmente alle cose che sono in tutto il cielo, [...OMISSIS...] : onde rimane sempre distinta la causa dall' effetto; e se le anime nostre raccolgono i vestigi della sapienza sparsi nel mondo, non è che questi vestigi sieno le stesse idee che stanno nella sapienza e nell' anima della causa, ma è perchè le anime nostre prima di venire nel corpo hanno riguardato nell' Esemplare del Mondo qual è nella prima causa, e ora si ricordano di quello che hanno veduto a cagione delle similitudini di cui è abbellito l' Universo. Anche nel Cratilo Giove è detto « « il principe e il re di tutte le cose »; e « ch' esso sia la causa del vivere a noi e a tutte l' altre cose » » (1). Questa causa è l' Esemplare del Mondo vivente e operante, come avente la sua sede in una regia anima e mente. Ora si dice questo Giove dirsi figliuolo di Saturno per indicare che « « egli è prole d' un qualche gran pensiero » » (2), che è certamente quello con cui il Bene ossia Iddio produsse l' idee del Mondo quando s' accinse a crearlo (3). Attribuisce al padre di Giove « « la purità e la sincera integrità della mente » » (4), perchè nell' Esemplare non ci sono che pure idee scevre da ogni concrezione e realità. Iddio adunque è l' Essere, e questo perfetto, [...OMISSIS...] , e perciò è il Bene. Nelle idee c' è l' essenza, l' essere. Ma si devono distinguere due classi d' idee, appunto perchè l' essere si concepisce in due modi. Si concepisce un essere assoluto e un essere relativo. L' essere assoluto è in sè ultimato e non ne richiama alcun altro: quest' è a ragion d' esempio « l' idea del Bene »e tutte quelle idee che contengono le qualità di Dio, come la sapienza, la giustizia, la potenza, la vita, ecc., queste non possono mai mancare all' Essere, al Bene, a Dio, perchè lo costituiscono (5), e in parte corrispondono ai «ta prota noemata» d' Aristotele (6). Per questo mostra nel « Parmenide », che l' uno puro d' ogni altra cosa non può stare, e nel « Filebo » dice la Mente cognata colla Causa e dello stesso genere (7), e nel « Sofista » che al compiuto ente, [...OMISSIS...] , non può mai mancare l' attività, la vita, l' anima, la sapienza; ma per distinguere queste cose, quali sono nell' Ente assoluto, a diversità del modo in cui sono nel mondo, usa delle parole «alethos kinesin k. t. l.», e appresso dice che sono «os onta» (.). L' atto poi con cui è l' essere, e queste idee a lui essenziali, sembra un atto d' intelligenza, quella «megale dianoia» di cui nel Cratilo dice che Giove sia figlio, «ekgonos» (9). Così Iddio è tutto idea , ma non come prendiamo noi questa parola, cioè come la notizia della cosa separata dalla cosa, ma come avente valore di « essere », e di « essere per sè intelligibile », onde Iddio è puro essere e medesimamente è puro intelligibile e quindi di necessità intelligente, la «nus» stessa d' Aristotele (1); ma essendo Essere perfetto, ossia Bene, e non potendolo noi conoscere immediatamente, nè trovando Platone, come avrebbe desiderato, qualche maestro che avendolo veduto gliel' avesse rivelato, se ne compose il concetto per via di ragioni (2) e così fu obbligato a comporre questo concetto d' un certo numero d' idee organate, a quella prima dell' essere congiunte, benchè Iddio in sè sia semplicissimo e superiore alla verità ed alla cognizione umana ed all' essenza delle cose mondiali (3). Ma oltre queste idee che compongono, secondo le ragioni della mente umana, Dio, ci sono delle altre idee relative alle cose mondiali, che contengono l' essere e l' essenza di queste, non essendo le cose mondiali che un' imitazione dell' essere, una similitudine, un cotal simulacro, e non l' essere stesso. Il proprio essere oggettivo e vero l' hanno in Dio. Tutte queste idee dunque relative al Mondo sono quelle che costituiscono l' Esemplare del mondo, da Dio in se stesso col suo pensiero prodotto, quando volle creare il Mondo, ma non quelle che contengono l' essere stesso di Dio, il quale perciò è chiamato da Platone « « l' ottimo di tutti gli intelligibili che sempre sono » » (4), distinguendo così tra gl' intelligibili quelli che contengono l' essenza divina, da quelli che contengono l' essenza mondiale, ossia l' Esemplare. Nè pure è da credere che questo Esemplare, benchè sempiterno, sia stato prodotto con un atto di pensiero divino diverso da quello con cui creò il Mondo, ma con lo stesso atto fece essere l' uno in sè e creò l' altro fuori di sè, non essendo un tal atto del pensiero divino una semplice intuizione de' possibili, ma ad un tempo un atto di quella immaginazione e affermazione divina con cui Iddio pensando gli esistenti, li pone. Onde Platone descrive Iddio creante, dicendo, che « « facendo egli uso dell' esemplare effettua l' idea e la forza » » cioè ad un tempo fa uscire in opera la forma e la materia o natura reale della cosa, [...OMISSIS...] . La ragione della creazione del mondo è, dice Platone, l' essenziale bontà di Dio. Laonde volle che il mondo fosse, per quanto esser potesse, a sè similissimo. L' Esemplare dunque dovea essere sempiterno e contenere un contemperamento armonico di tutte le nature, dalle più eccellenti alle inferiori. L' ultima possibile delle nature, la materia corporea, non è di natura sua ordinata. Conveniva dunque che ricevesse un ordine. Ma se non ci fosse un' intelligenza che intendesse quest' ordine, era inutile ordinar la materia; un tutto in tal caso, comunque ordinato, non sarebbe stato migliore di un altro tutto. Era dunque necessaria un' intelligenza, e questa non potendo stare da sè, dovea avere un' anima in cui fosse. Il mondo dunque dovea risultare d' intelligenza, d' anima e di sentimento e di corpi ordinati; queste tre cose o piuttosto due (perchè l' anima è quella che ha l' intelligenza) congiunte insieme lo formavano « « un animale intelligente costituito dalla divina provvidenza »(1) ». L' Esemplare dunque è quest' animale nel suo essere oggettivo e sempiterno [...OMISSIS...] , il Mondo in verità, [...OMISSIS...] , l' essere, l' essenza stessa del mondo. Il mondo reale poi è quest' animale stesso nella sua copia od effigie [...OMISSIS...] . Dal che si vede che il mondo reale, anima e corpo, e noi stessi, anima e corpo, siamo, secondo Platone, al tutto distinti dall' eterno divino esemplare, e molto più da Dio stesso che lo vide. Secondo l' ordine logico, l' ordine di eccellenza, e anche, secondo Platone, cronologico, l' Anima del Mondo dovette esser creata prima. Essa è una specie di sostanza, media tra quella che è sempre la medesima e quella che è sempre un' altra , e lega in sè stessa queste due specie. [...OMISSIS...] . Questa descrizione dell' anima risultante da tre elementi ha una singolare analogia con quello che noi, non pensando a Platone, ma riguardando la stessa natura dell' anima, n' abbiamo detto negli « Antropologici » o sussistente avente due termini, semplice l' uno, esteso l' altro, di maniera che abbracciandosi essa quindi a ciò che è eterno, quinci a ciò che è temporaneo, mediatrice degli estremi, congiunge in sè le opposte nature. La sostanza dunque media di Platone, su cui tanto fu disputato, altro non è che il subietto stesso dell' anima, cioè quell' ente principio , chiamato anima, che finisce, col suo atto di essere, ne' due termini che dicevamo. Noi abbiamo osservato che, rimossi affatto i termini, il principio non è più, ed osserva una cosa simile lo Stallbaum, quando scrive che quell' essenza media di Platone, tolte le due nature che in sè medesima unisce, rimane un mero astratto, non è più cosa reale (1). Più difficile è il determinare che cosa intenda Platone per quel componente dell' anima che chiama il diverso «to thateron». Poichè non può con questo significare i corpi, parlando qui della formazione dell' anima anteriore all' esistenza de' corpi e d' ogni corporeo. Che anzi dopo aver descritta la formazione dell' anima del Mondo, venendo ai corpi, dice così: [...OMISSIS...] . Non si può intendere neppur la materia corporea, perchè è assurdo a pensare che l' anima si componga di ciò che è disordinato e qua e là a caso agitato e sbattuto (3), e informe, quando una tale materia informe, secondo Platone stesso, non può sussistere senza le sue forme, ma è un' astrazione della mente. Che anzi dicendo non che Dio facesse nell' anima già compiuta i corpi, ma tutto ciò che fosse corporeo, parlò vigilantemente, escludendo non meno i corpi dalla natura dell' anima che ogni corporea materia. Parmi dunque di non andare lontano dal vero dicendo che la «thateru physis» posta da Platone come uno dei due estremi elementi dell' anima, deva significare lo spazio puro. E benchè prima d' ora non mi fosse mai occorso alla mente una tale interpretazione di questa sentenza di Platone, tuttavia meditando la natura dell' anima umana, già da buon tempo mi ero convinto che lo spazio immensurato dovesse essere uno de' due termini essenziali all' anima, di che ho anche addotte le prove «( Antrop. 165 7 174; Psicol. 554 7 559, 703, 709) ». Ho dimostrato di più, che tale è la natura dell' estensione che ella non si può concepire se non essente in un semplice, e dal semplice, cioè dall' anima, contenuta «( Antrop. 94 7 97) ». Ora posto che lo spazio puro sia uno degli elementi dell' anima, non ha più difficoltà la sentenza di Filolao (1), seguita poi da Platone, che il corpo sia stato da Dio formato nell' anima. Poichè, come dice Platone stesso, lo spazio « « presta la sede a tutto ciò che si genera », [...OMISSIS...] », cioè alla materia corporea che generandosi diventa corpi (2). La materia è la nutrice della generazione, [...OMISSIS...] , laddove lo spazio n' è la sede, [...OMISSIS...] , cose che fa meraviglia essersi confuse in una da tutti forse i commentatori. Ma egli è difficile a dirsi come Platone concepisca questo spazio nell' anima scevra ancora dal corpo, se, come l' abbiamo descritto noi ne' « Psicologici », come una pura estensione immisurata ed immobile, o con aggiunta di qualche altra cosa. E a questa seconda sentenza ci atteniamo: giacchè crediamo difficile a provare che gli antichi avessero il concetto della pura estensione. Abbiamo veduto che Aristotele aggiungeva allo spazio, o piuttosto al luogo (chè egli confonde queste due cose), una forza attraente: e dice esser materia lo spazio preso come intervallo tra le grandezze. E quantunque al puro spazio, come noi lo concepiamo, possa convenire la denominazione di altro (altro cioè dall' idea), tuttavia non gli può convenire quella di diverso , di contrapposto a ciò che è sempre il medesimo , poichè lo spazio puro non mutandosi, non è diverso da sè stesso. Conviene dunque dire che quell' elemento dell' anima, che Platone chiama «thateron», non sia lo spazio puro, ma con qualche aggiunta. Ponendo egli dunque la vita e il principio d' ogni movimento nell' anima, convien dire che insieme collo spazio egli desse all' anima un sentimento soggettivo proprio bensì dell' essenza media, ma stendentesi anch' esso quanto lo spazio. Il che s' intenderà da tutti quelli, che conoscono la distinzione da noi esposta tra la sensazione soggettiva e la percezione intimamente a quella unita «( Ideol. 701 7 707; 722 7 747; .7. 7 900; 9.3 segg.) ». Come dunque noi, parlando del sentimento de' corpi, abbiamo distinto dal sentimento nostro proprio il diverso da noi percepito, e quello unito e conformato a questo per modo che dove c' è il diverso corporeo percepito, ivi sia anche la sensazione: così crediamo che si possa concepire il diverso di Platone; lo spazio percepito come un termine diverso dall' anima, consociato a un sentimento in questa che s' estende a tutto quello, il quale sentimento è vita e forza, proprietà innegabili ad ogni sentimento che ha natura di realità, come tante volte abbiamo detto. Ora a questo sentimento conviene certamente la qualità di diverso , avendo egli la virtù d' essere di continuo modificabile, date le condizioni che sono gli stimoli materiali, e anche in virtù dell' attività intellettiva e volontaria. Trovato questo principio sentimentale ed efficiente nell' anima, ivi ripose Platone un' intima azione vitale o moto continuo, e l' origine del moto all' altre cose (1), onde è a stupire, che Aristotele cercasse la causa del moto nelle idee, e non trovandocela ne biasimasse Platone, quasi a questi fosse impossibile render ragione dei movimenti mondiali. Andava in collera perchè non trovava la causa del moto dove non era, e dove non poteva essere in alcun modo. Trovato questo sentimento soggettivo, finiente nell' immensurato spazio, questo stesso spazio viene in certo modo ad essere tutto animato, e nella mutabilità del sentimento si trovava la natura del diverso , elemento dell' anima mondiale non ancora fornita di corpo. Ora questo sentimento soggettivo di natura sua mutabile, doveva contenere virtualmente tutte le potenze sentimentali dell' anima. Con questo si può facilmente illustrare il magnifico mito del Fedro, nel quale l' anima è assomigliata « « alla natura risultante da una biga subalata e da un auriga » » (2), dove il carro è la sostanza media che lega gli estremi, l' auriga rappresenta il medesimo , e i cavalli simboleggiano il diverso , cioè il sentimento e gli affetti che danno all' anima il movimento. E parimente supponendo che la natura del diverso , che Platone vuole uno degl' ingredienti dell' Anima del Mondo, sia il sentimento soggettivo, che s' estende a tutto lo spazio immensurato, s' intende, come Dio poteva, anche prima di creare il corpo, assegnare delle leggi armoniche a questo sentimento, quasi screziandolo di diversi istinti relativi allo spazio in cui finiva, e con questi disegnare nello spazio stesso de' luoghi diversi, con proporzioni tra loro di numeri e di figure geometriche e di movimenti (1), e come i discepoli di Platone, tanto minori del maestro, potessero poi definire l' anima « « un numero che si move da sè medesimo » » (2), o in altre maniere in cui si vede ritenuta qualche particella della dottrina, non tutta abbracciata la teoria del maestro. L' aver poi assegnato all' anima sola, senza il corpo, tutto ciò che spetta all' armonia e all' ordine di più cose connesse insieme, come il numero, la proporzione e somiglianti, dando al corpo l' esser sensibile, ma l' anima dicendo « « partecipe del raziocinio e dell' armonia degl' intelligibili sempre esistenti » » (3), prova da una parte l' alta mente di Platone che ben vide solo una sostanza semplice e vivente potere contenere in sè il numero e l' ordine, laddove l' esistenza del corpo bruto è solitaria, e di più per la continua divisione irreperibile, dall' altra conferma quanto dicevamo, che lo spazio, materia alle diverse figure geometriche, anch' egli poteva esistere solo nell' anima e da questa esser contenuto, non essendoci parte assegnabile in esso che non sia straniera a tutte le altre, e però incapace d' unire le altre ad unità, senza la quale unità niente esiste, poichè l' ente è per sua essenza uno. La pluralità dunque delle parti assegnabili nello spazio non esiste se non nell' anima, e neppure ciascuna di esse esiste, perchè ogni suo punto essendo fuori d' ogni altro, non può aver cogli altri unità. Ora, prima di proceder oltre vediamo che cosa sia l' altro elemento estremo dell' anima, il medesimo , ossia [...OMISSIS...] . Certamente quest' elemento è la materia ideale, come l' altro vedemmo essere la materia matematica , e medio tra loro sta il sentimento , che all' una e all' altra materia s' estende, di che egli dice esser l' altre con questa commiste [...OMISSIS...] : la materia ideale poi per Platone è indubitatamente l' ente (indeterminato) «to on» (1). Ora come dal sentimento unito collo spazio, Platone deriva la facoltà di sentire i corpi quando si presentano all' anima, così dal sentimento unito all' idea dell' essere cioè a quello, che è sempre identico, deriva la facoltà di conoscere, cioè d' intuire le idee determinate, e di ragionare. Questo ragionamento poi lo distingue in due, secondo l' oggetto intorno al quale si esercita; se si esercita intorno all' idee contenenti l' essere che è sempre il medesimo, e alle ragioni, nasce nell' uomo l' intuizione ( «nus») e la scienza ; se si esercita intorno alle cose mutabili, come i corpi od i sentimenti, e si esercita nel debito modo, nasce l' opinione vera e la fede vera . Dove si vede che Platone qui non parla più del suo mito della reminiscenza , ma, seriamente ragionando, in vece di dare all' anima le idee e notizie preconosciute, di cui all' occasione delle sensazioni non faccia che ricordarsi, le dà una vera potenza di procacciarsi nuove cognizioni e di ragionare. Costituisce poi questa potenza come noi appunto l' abbiamo costituita, ponendo cioè che l' anima per sua natura sia partecipe d' un primo identico , «tautu» (2), cioè di ciò che non è questo o quello tra le cose identiche, ma è l' identico stesso, «tautu genos», senz' altra determinazione, il che è quanto dire l' idea indeterminata (3), e che con questo primo identico ella conosca tutte l' altre cose identiche, cioè l' altre idee; e ponendo altresì che l' anima partecipi d' un primo diverso , cioè d' un sentimento terminante nell' estensione, col quale possa apprendere sensibilmente tutti i diversi, cioè i corpi, e in tal modo attingere la materia di altre cognizioni. E così col simile fa che si conosca e si apprenda il simile, secondo l' antico effato de' Pitagorici (4). Dalle quali parole e da tutta insieme la dottrina del Filosofo, si rileva: 1 Che l' anima conosce sempre per quel suo elemento che Platone chiama il Medesimo, e che vedemmo esser l' idea prima e universalissima. 2 Che nondimeno, se il mezzo del conoscere è un solo, gli oggetti del conoscere sono due, il sensibile, [...OMISSIS...] e il razionale, [...OMISSIS...] e la cognizione di quest' ultimo è intelligenza e scienza , [...OMISSIS...] la cognizione dell' altro è opinioni e persuasioni ferme e vere, [...OMISSIS...] . Laonde l' atto conoscitivo non è mai sensazione, benchè anche la sensazione possa divenire oggetto di cognizione, ma è sempre «logos alethes» e «kata tauton» (1); ma quando oltre essere «ho logos» l' operazione della mente, è anche «to logistikon» il suo oggetto, allora c' è intelligenza e scienza. 3 E` sempre tutta l' anima quella che conosce con un interno movimento, [...OMISSIS...] : onde non separa mai Platone le parti dell' anima, come a torto gli rimprovera Aristotele, e non ne fa più anime. 4 Essendo l' anima composta dell' identico e del diverso , ella di conseguenza ha due operazioni o movimenti che egli chiama cicli o giri, perchè con queste operazioni essa si rivolge intorno a se stessa, [...OMISSIS...] . Distingue dunque nell' anima il ciclo del Medesimo, [...OMISSIS...] , che produce l' intelligenza e la scienza, e lo chiama «eutrochos», e il ciclo del Diverso che vuol che sia retto, [...OMISSIS...] : il primo è il movimento dell' intelligenza, il secondo il movimento del sentimento. E con ragione Platone assomiglia questi movimenti spirituali a circoli; perchè qualunque cosa faccia il sentimento, egli lo fa in se stesso; il movimento parte dal sentimento e finisce nel sentimento; e così pure il ragionamento non esce e non può uscire di sè colla sua azione, ma partendo dall' idea e dalla cognizione ritorna e finisce sempre all' idea e alla cognizione, poichè la prima intuizione nella quale il soggetto parte per così dire da sè e va nell' idea, non è ancora movimento razionale, ma è l' atto costitutivo della razionalità. Questo poi costituito opera, per una certa riflessione, su di ciò che è in sè, cioè o sul sentimento o sulle idee, e come dice Dante « « sè in sè rigira » », soltanto che convien badare che quando si dice: « in sè »si dee intendere su di ciò che ha in se stesso. Veduto che cosa sia la natura del Diverso e la natura del Medesimo, di cui Platone compone l' anima, e come essi rispondano ai due termini dell' anima, cioè lo spazio sentito per natura, e l' idea universalissima; rimane a vedere di quella terza sostanza che li congiunge quasi nel mezzo di essi, [...OMISSIS...] , la quale certamente è il principio di essi due termini. Ma come il principio è indivisibile da' suoi termini, perciò dice Platone, che risulta da entrambi [...OMISSIS...] . Essendo dunque questa media sostanza che termina nelle due estreme e ad esse essenzialmente s' appoggia senziente secondo l' uno e l' altro termine, ossia unendo in sè il sentimento dell' uno e dell' altro termine, non può avere il sentimento dello spazio senza che lo percepisca anche coll' intendimento; onde in questa composizione dell' anima, ancorchè separata dal corpo, Platone pone una percezione intellettiva fondamentale, cioè la percezione intellettiva dello spazio, ad un tempo sentito ed inteso , e questa percezione è quella che dà all' anima, per così dire, una figura circolare, perchè essendo una per l' unità del principio che è la terza sostanza, si fa una anche per la riunione de' termini; giacchè ella col suo atto primo e costitutivo, dopo essersi divisa da una parte estendendo il suo atto all' idea, dall' altra allo spazio, continua il suo moto costitutivo ripiegando questi due in uno, e riunendo lo spazio e l' idea, fa che quello sia abbracciato da questa, il che noi chiamiamo percezione intellettiva fondamentale dell' anima separata. Descritto a questo modo l' interno ordine e costituzione dell' anima, niente vieta di concepire che il sentimento di quest' anima possa essere da certe leggi quasi screziato e variato, dotato di varie forze d' istinti relative a certe parti dello spazio, a certi conati, a certa successione di movimenti. Si consideri ciò che noi abbiamo esposto sulla legge cosmologica dell' armonia «( Psicol. 1537 7 159.) », e sull' altra che le corrisponde nell' anima umana «( Psicol. 1726 7 1779) », le quale due leggi del Mondo e dell' Anima corrispondendosi e sintetizzando, non ne formano, a dir vero, che una sola con due faccie o rispetti. Questa nobilissima verità, che l' anima abbia l' armonia in sè stessa, vide ed espose Platone nel « Timeo ». Solamente che noi considerammo l' anima già dotata di corpo, e in relazione col mondo corporeo; egli trova certe leggi d' armonica costituzione nell' anima prima ancora che questa sia immessa nel corpo. Il che gli è suggerito dall' opinione da lui professata, che l' anima abbia preesistito al corpo: opinione per vero erronea, ma che nel ragionamento di Platone annunzia, aver egli conosciute alcune verità nobilissime e profonde. Poichè da questo siamo assicurati, che egli vide doversi riporre il principio dell' armonia nel semplice, nel sensitivo ed intelligente, e non in qualsivoglia cosa corporea, onde dice dell' anima; [...OMISSIS...] , e dopo aver descritto com' ella armonicamente movendosi intenda i sensibili e gli intelligibili, aggiunge che in essa sola possono accadere tali cose (2). Egli vide ancora come per questa forza di sentimento armonico, di cui l' anima è per sè stessa dotata da Dio, ella era e dovea essere la dominatrice del corpo (1), e così mirabilmente spiega la virtù formatrice propria dell' anima «( Psicol. 17.7 7 1794) ». Certo che le leggi speciali dell' armonia nell' anima racchiuse sono d' una tanta grandezza, moltitudine e profondità che nè Platone le potè raggiungere, nè sono nè saranno esaurite dalle meditazioni di molti filosofi nel corso di molti secoli futuri. Ma una gran cosa è questo solo che da tempo così antico sia stato veduto, che esse si giacciono nell' intima costituzione dell' anima. Il primo pensiero sembra dovuto a Pitagora; il quale però, quando dal generale venne a specificare una tale armonia, si restrinse a considerare quella specie particolarissima di legge armonica che governa i suoni «( Psicol. 1565, 1566) ». Egli prese dunque la legge dell' armonia che si trova in un solo sensorio, cioè in una particolarissima facoltà dell' anima sensitiva e la universalizzò, prendendola per tipo, o tema d' ogni armonia non solo di tutta l' anima umana, ma anche de' corpi celesti e in una parola dell' universo. Questa maniera soverchiamente ristretta di concepire l' armonia che governa il creato, conteneva però come supposizione e base una gran verità, che « « l' anima e l' universo sono coordinati insieme da una mano sapientissima, quasi due corde unissone in due istrumenti » ». Che se questo principio è vero, come è indubitatamente, le principali leggi dell' armonia universale e di quella dell' anima devono essere le stesse. Se non che piuttosto che due armonie identiche, c' è tra l' anima e l' universo sintetizzante un' armonia unica e sola. Essendo dunque pervenuta a Platone per mezzo di Filolao la dottrina pittagorica dell' armonia, il suo pensiero rimase chiuso nelle angustie di questa tradizione (2). Non rimanendogli tempo, nella vastità delle ricerche in cui era occupato, di meditare una teoria più ampia per compiere la lacuna del suo sistema filosofico, accettò, come una vaga ipotesi, quella dottrina dell' armonia sonora , e ornandola di novi concetti e di elegantissimo linguaggio, l' applicò a dichiarare la costituzione dell' anima che dovea dar poi vita ed ordine alla macchina corporea dell' universo (1). Si fa adunque ad esporre gli istinti armonici che Iddio pose nell' anima in questo modo. Dice che dopo aver mescolati insieme i tre principŒ, cioè il Medesimo, il Diverso e l' Essenza, e di questi tre fatta una cosa sola, come spiegammo di sopra, distribuì in questo tutto le membra, dandogli il decoro d' un cotale spirituale organismo, e ciascuna delle dette membra riuscìa così composta di quei tre primi elementi (2). Con questo viene a dire, che la percezione intellettiva abbraccia lo spazio sentito e la sostanza media (3), giacchè solo per questa percezione può avverarsi, che in tutti gli istinti e modi d' operare dell' anima appariscano i tre elementi, da cui essa risulta. Le quali membra spirituali dell' anima vengono distinte secondo i numeri della doppia tetrade pittagorica formata dai sette numeri 1, 2, 3, 4, ., 9, 27 distribuiti nella serie de' pari e nella serie degli impari, avente ciascuna a capo l' unità: 1, 2, 4, . e 1, 3, 9, 27; le quali due tetradi rappresentano il sistema diatonico, composto di quattro ottave, più un intervallo di quinta e un tono intero (4). Per trovare poi le consonanze in queste quattro ottave, Iddio riempì d' altre porzioni della stessa sostanza trina ed una, gli intervalli tra i numeri della prima e della seconda tetrade, con due numeri medii, cioè col medio aritmetico e col medio armonico (5); onde ne risultano due serie di dieci numeri ciascuna, ossia una serie di venti numeri. Finalmente per trovare e distinguere i singoli toni e mezzi toni, da per tutto dove c' era l' intervallo di quarta, lo riempì con divisioni per toni interi, avanzandone il mezzo tono minore, la cui ragione è computata 256 .diviso . 243, e lo stesso, benchè nol dica Platone, convien supporre dell' intervallo di quinta, avanzandone il mezzo tono maggiore, la ragione del quale si computava 273 3 .fratto . . .diviso . 256. Così la sostanza trina ed una dell' anima fu distinta in membra rispondenti alle ragioni, in cui è compartito a consonanze, a toni e mezzi toni il Diagramma; e Platone per dimostrare meglio la grandezza di quest' armonica distribuzione dell' anima mondiale, a cui dovea rispondere il mondo visibile, prese ad esempio un Diagramma di tanta estensione, quale i Greci non usarono giammai nelle loro musiche, come già fu osservato da Adrasto presso Teone Smirneo (1). Così la sostanza una e trina, distribuita in altrettante membra per una serie di numeri rappresentanti ragioni armoniche, fu divisa da Dio tutta per lungo, di che si ebbero due serie, ciascuna dotata delle stesse proporzioni numeriche: delle quali due liste fece una croce decussata, e piegata, ciascuna lista a circolo, se n' ebbero due circoli intersecantisi ne' due punti opposti, i quali circoli rappresentano e rispondono al circolo equinoziale ed al zodiaco. Al primo, esteriore e molto più alto del secondo, attribuì la costanza e l' equabilità e lo fece movere verso la destra, cioè dall' occidente all' oriente, chiamando questo movimento « della natura del Medesimo »; all' altro, interiore e più basso e che fece movere verso sinistra, cioè dall' oriente all' occidente, attribuì la varietà e l' incostanza, chiamando il suo movimento « della natura del Diverso ». Al giro del Medesimo concesse il principato, poichè lo lasciò uno ed indiviso. Ma riguardo al circolo interiore, prima di ripiegare in circolo la lista numerica, ne tagliò via sei pezzi alle giunture de' numeri della doppia tetrade, e n' ebbe sette parti rispondenti ai sette numeri della medesima, ciascuna delle quali movendosi in giro, ne riuscirono le orbite dei sette pianeti, i tre primi e inferiori moventisi con eguale celerità, i quattro ultimi e superiori con celerità disuguali e da quelle de' primi e tra esse, ma pure secondo opportune ragioni. Ora di tutti questi sette orbicolari movimenti risulta quello che si dice il circolo del Diverso. Non è necessario a noi addentrarci in maggiori particolari circa questi armonici compartimenti, non consistendo in questi la parte solida della dottrina: questa sta nel principio generale, che l' anima è la dominatrice del corpo, e quindi che ella stessa lo adatta a sè stessa, l' informa, l' organizza, e il corpo in tutto le ubbidisce, di maniera che ogni movimento di questo all' anima è dovuto (1). Vediamo come ciò avvenga secondo la mente di Platone. Primieramente essendo nella sostanza dell' anima lo spazio immensurato, c' è il luogo dove Iddio poteva collocare il corpo. Di poi essendoci un primo sentimento, che s' estende a tutto lo spazio, c' è per così dire la morsa a cui attaccare il corporeo. Poichè il corporeo non è che il sensibile, e il sensibile non è che uno stimolo applicato con certe leggi fisse al sentimento primo, che eccitandolo lo modifica, così producendo in lui le sensazioni. Ora dato che un primo sentimento, qual è quello dell' anima, 1 soffra una violenza e così senta un altro principio diverso da sè che esercita su di lui la propria potenza; 2 e questa violenza non abbracci tutto lo spazio, ma essendo limitata disegni in esso co' suoi confini una figura; 3 ne nascano di conseguenza modificazioni o sensazioni nello stesso primo sentimento; 4 e tutto questo con quella stabilità di fisse leggi colle quali sogliamo avere le sensazioni esterne: dato questo, egli è evidente, che esistono quelle sostanze sensibili che noi chiamiamo corpi, e che n' è spiegata la creazione. Dice dunque Platone che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo s' osservi che: 1 Dice che il corpo fu fatto da Dio tosto dopo ultimata la costituzione dell' anima, «meta tuto», onde qui non lascia che l' anima dell' universo viva gran tempo separata dal corpo, secondo l' ipotesi che altrove introduce delle anime viventi immuni da ogni concrezione materiale. 2 Dando a tutto l' universo corporeo un' anima sola, cade rispetto all' anima mondiale la censura che Aristotele fa ai Pitagorici e a Platone, cioè che questi credesse, ogni anima poter convenire ad ogni corpo. 3 Dicendo che l' anima del mondo si volse in se medesima quand' ebbe il corpo e diede principio alla durata della vita, ben dimostra che tutte le membra e i movimenti prima distinti nell' anima esprimevano non atti, ma potenzialità instintive. 4 Che tosto che l' anima mondiale ebbe il corpo, i suoi due movimenti spirituali cioè quello dell' intelligenza ossia del medesimo , e quello del sentimento ossia del diverso , rapirono colla loro potenza dominante il corpo, e in questo si rappresentarono coi due movimenti opposti del cielo delle stelle fisse che si move equabilmente, prendendo la legge dal moto dell' intelligenza, e del cielo solare7planetario, che si move con variati e molteplici modi, prendendo la legge dal moto del sentimento: onde nel mondo materiale comparve un simulacro sensibile del mondo spirituale e invisibile, un simulacro cioè del ciclo del medesimo e del ciclo del diverso , i due elementi di cui l' anima si compone. 5 Che quindi la causa efficiente e movente del mondo sensibile e fenomenico è il mondo invisibile e spirituale, e quello non è che una cotale copia e imitazione di questo. 6 Che all' anima dell' universo, dopo aver data la vita a tutto il mondo corporeo, compresi gli ultimi cieli, rimane ancora una parte sopramondana, circonfusa al mondo [...OMISSIS...] contenente il mondo (1), quella parte certamente che nel Fedro chiama sopraurania . Così il mondo corporeo non può rappresentare l' anima compiutamente; perchè quantunque ci vengano rappresentati sensibilmente i movimenti dei due elementi dell' anima, il diverso e il medesimo , quello del diverso col volgersi del cielo planetario, e quello del medesimo col volgersi del sommo cielo: tuttavia rimane ancora, al di là di tutto il cielo visibile, uno spazio infinito occupato dall' anima, dove non dice Platone se ci sia moto o quiete, e vuol forse significare ciò che non ha moto nè quiete, cioè l' essere puro, a cui nel Sofista nega ogni quiete ad un tempo ed ogni moto, d' entrambi de' quali generi esso è il contenente; cioè è genere maggiore di essi. E certo che ivi, fuori del mondo corporeo, nulla più v' ha di sensibile, come avea detto avanti (2), laonde a quel luogo si riferisce indubitatamente l' anima, in quant' è partecipe de' puri e primi intelligibili (3). Agli intelligibili appartiene l' esemplare del mondo chiamato da Platone «zoon aidion» (4). L' eternità che a questo solo divino esemplare conviene, non può appartenere all' animale generato, cioè al mondo (1). Ma acciocchè questo imitasse, per quanto era possibile, quell' eterno, fece « « una mobile imagine dell' eternità » »; fece, adornando ad una il cielo, un' eterna imagine « « fluente secondo il numero dell' eterno manente nell' uno »(2) ». L' eterno manente nell' uno è Dio; e della stessa permanenza è dotato anche l' esemplare del mondo in se stesso considerato. Ma poichè questo esemplare era da Dio pensato, affinchè a sua norma si potesse produrre il mondo reale, esso non dovea rappresentare l' eternità di Dio, ma il tempo, per solo il quale può il mondo imitare la divina eternità. Laonde nell' esemplare del mondo Iddio pensò l' imagine a cui doveva crearsi il tempo , e questa imagine che forma parte dell' esemplare dicesi imagine della eternità, [...OMISSIS...] ; cioè dell' uno eternamente immanente che è Dio, e dicesi eterna , appunto perchè appartiene all' esemplare [...OMISSIS...] ma dicesi nello stesso tempo mobile, [...OMISSIS...] , e progrediente secondo il numero, [...OMISSIS...] , perchè rappresenta la mutabilità e quasi scorrevolezza del mondo reale. Dove apparisce in che modo Platone dica ora immobili , ed ora mobili certi intelligibili: sono immobili in se stessi, ma nel loro seno hanno la mobilità esemplare della mobilità reale, copia di quella (3). Distingue dunque Platone anche qui quelle due specie d' intelligibili di cui abbiamo parlato di sopra: 1 il primo intelligibile, che è Dio, e tutto ciò, che in proprio appartiene a Dio; 2 il secondo intelligibile che è l' esemplare del mondo. Il mondo è l' imitazione di questo esemplare, come l' esemplare è l' imitazione o la similitudine di Dio, la più fedele, che fosse possibile, data la condizione che dovesse esser creato. Questa condizione importava che il mondo non potesse esser necessario, nè eterno, nè immutabile, ma volendo tuttavia Iddio renderlo simile per quanto esser potesse alla propria eternità e consistenza, gli diede la durata del tempo. Pose dunque nell' esemplare la contingenza, il numero, la successione, la mutabilità, ma tutte queste cose ve le pose in un modo eterno: di maniera che l' esemplare non fosse il subietto della mutazione, ma il disegno e il decreto di tutto ciò che dovea esser nel mondo, vero subietto di tali vicissitudini. La natura di Dio dunque nulla avendo di tali cose, non potea nè pure prestare di tali cose l' esempio, e però convenne che il pensiero divino imaginasse un esemplare a posta a cui similitudine creare il mondo, che a lui somigliasse, di maniera che non gli somigliava pienamente, ma quant' era possibile che gli somigliasse l' esemplare. L' esemplare dunque sebbene eterno in se stesso, perchè ab aeterno da Dio pensato, riceve dall' atto della divina volontà, che si determina a creare, una condizione che lo limita, e una natura relativa al creabile, oggetto di quell' atto di volontà; di che apparisce che l' esemplare e il mondo, appunto per questa natura relativa, si chiamano e sintesizzano, ma quello è subiettivamente immutabile, avendo solo in se la mutazione obiettiva (e tutto ciò che è obiettivo è immutabile), questo è subiettivamente mutabile, realizzando in sè quella obiettiva mutazione. A Dio dunque, dice Platone, e all' esemplare, come oggetto, non ispetta il fu, o il sarà, ma solamente l' E`. [...OMISSIS...] . Descritta così la formazione dell' anima e del corpo mondiale, narra la formazione delle specie d' animali minori, le quali sono tante quante ne vede Iddio nell' idea d' animale (2), e tutte comprese nell' esemplare del mondo, poichè non sarebbe perfetto se alcuna ne mancasse. E però ci doveva essere anche la generazione degli animali mortali, i quali non potevano essere formati immediatamente da Dio, perocchè in tal caso sarebbero stati immortalati anch' essi (3). Ma di quello tra tutti questi animali, al quale conviene in comune cogli immortali l' appellazione di divino (4), Iddio stesso somministrò il seme ed il cominciamento [...OMISSIS...] formando, delle reliquie di quella stessa sostanza, di cui aveva elaborata l' anima del mondo, un certo numero d' altre anime che distribuì ai grandi e per divina virtù immortali animali, cioè agli astri, un' anima seminale per ciascuno di essi, lasciando a cotesti divini il carico di generare con questo seme di divina provenienza gli animali razionali, formando i loro corpi, e alimentandoli; e quando si consumassero, ricevendo di novo in sè la materia (1). Poichè le anime per una certa necessità, e non per colpe precedenti devono essere copulate ai corpi (2). Non appartiene allo scopo del nostro discorso esporre qui più ampiamente per quali ragioni Platone volle distribuite da Dio le anime seminali ai corpi celesti, l' affinità o convenienza di ciascuna a ciascuno de' detti corpi, nè ci giova entrare a discutere se e come Platone ammettesse i pianeticoli. Allo scopo del nostro discorso basta d' indicare che il nostro filosofo seco stesso faceva ragione, che Iddio, creato il mondo, avesse in esso collocato la virtù generativa; per modo che l' astro avendo una soprabbondanza di vita, cioè non solo la vita mondiale sua propria, ma l' anima seminale che il rende atto alla generazione, nè mancandogli la corporea materia dalla sua anima e mente e virtù generativa dominata, abbia forniti e organizzati di sè gli animali, e tra essi l' uomo ragionevole da Platone chiamato «theosebestaton» (3), il quale poi, come pure gli altri, per una sua propria generazione, atteso il continuo aiuto della natura mondiale, si moltiplica (4). L' anima dunque dell' uomo, formata colla stessa sostanza dell' anima del mondo, e quindi de' tre elementi del medesimo , del diverso e della sostanza media, e ordinata colle stesse proporzioni armoniche (5), ha in sè medesima di continuo il doppio movimento ciclico del medesimo e del diverso che si fa senza strepito e suono, [...OMISSIS...] , ed è l' azione dell' interna sua vita di sentimento e d' intelligenza [...OMISSIS...] . Nè quest' intelligenza è priva di idee, poichè ancor prima che per la virtù organizzatrice degli astri a cui appartengono le anime seminali, queste ricevessero i loro corpi speciali e si moltiplicassero, Iddio mostrò ad esse anime seminali « « la natura dell' universo e le leggi fatali » », [...OMISSIS...] (2), e in queste l' equità con cui furono a principio create tutte allo stesso modo, rimanendo a ciascuna affidata la futura sua sorte, e come di esse si sarebbe formato quell' animale umano di tutti religiosissimo. Ma quando l' astro, poniamo la terra, mette in movimento una moltitudine di particelle di fuoco e d' aria e d' acqua e di terra per provvedere all' anima seminale dei corpi, allora quelle particelle rapite in turbine con movimenti molteplici per apprendersi ed accozzarsi assaliscono in folla ed in tumulto l' anima; di maniera che dalle percosse disordinate di questo fiume d' atomi rimangono in essa impediti e sconcertati nel loro corso i due circuiti del medesimo e del diverso , che costituiscono la sua vita sapiente, ed essa rimane allora del tutto stupida e smemorata, ond' è che l' uomo nasce in apparenza così ignorante. Poichè il circuito della natura del medesimo sopraffatto da un tal fiume entrante ed uscente di continuo dal corpo che si organizza, viene impedito e sospeso, l' altro poi del diverso perde la sua armonia, e quantunque nè l' uno nè l' altro possano esser distrutti perchè posti da Dio, tuttavia contrastati, l' uno s' arresta, l' altro, quello del sentimento, va come senza ragione, [...OMISSIS...] (3), finchè non si rimettano nel pristino stato. Così le cose tutte finite e nella loro materia e nella loro forma si creano; e non solo la forma dà il suo finimento [...OMISSIS...] ai singoli enti, ma dà un altro finimento alle cose tutte insieme, cioè un ordine sapiente, [...OMISSIS...] . Conviene dunque distinguere tre cose, secondo Platone, le idee eternamente da Dio pensate, intelligibili, le anime spirituali ed insensibili composte de' tre elementi, del medesimo , del diverso e della sostanza media, e finalmente i sensibili , i quali nascono quando le anime s' uniscono ai corpi e acquistano i sensorŒ, nascimento che in più luoghi descrive Platone (5). E` dunque singolare a vedere come Aristotele quando si fa a combattere le idee di Platone, non riferisce mai ad esse altro che i sensibili, tacendosi interamente dell' anima nel cui seno sono creati i corpi, onde dalla congiunzione di essa con questi poscia i sensi ed i sensibili fenomeni traggono l' origine. E qui conviene osservare come il diverso , secondo la mente di Platone, sia un genere più esteso di quello de' sensibili, perchè vien posto da Dio nell' anima avanti della produzione di questi. Vi ha dunque nell' anima qualche cosa di mutabile e molteplice che non è il sensibile corporeo; ma la materia appunto del diverso , che è nella natura dell' anima, riceve la sua continua rimutabilità, cioè la rimutabilità della sua forma, che esce dalla materia e vi entra di continuo, come dice Platone in altro luogo. Il che si intenderà facilmente, se si considererà la materia corporea tutta per la sua stessa essenza esser dentro all' anima contenuta (dove Iddio l' ha creata, inseparabile da questa, e però da questa ricevente l' unità, senza la quale dissipandosi s' annullerebbe, cioè diverrebbe un essere assurdo), e altresì dall' anima pienamente dominata. La ragione dunque, per la quale le diverse particelle di materia hanno di necessità un' estensione, si è perchè dall' anima la ricevono; ogni estensione essendo nell' anima, e non potendo esistere, fuori del semplice ed uno, estensione alcuna, di sua natura continua e non moltiplice, chè il continuo e il moltiplice involgono contraddizione. Ora, come la estensione, che è nell' anima, è quella stessa in cui è diffusa la materia e la forza corporea (1) ai cui elementi però è determinata dal Creatore la quantità e la figura: così anche l' anima dominando e movendo questa materia e questa forza corporea secondo i suoi proprŒ istinti, le dà, secondo Platone, quella configurazione che mostra d' avere, sia come corpo dell' animale massimo, che è l' universo, e degli animali maggiori in esso contenuti, che sono gli astri: sia altresì come corpo degli animali minori, e in tutte le generazioni di cose; e produce tutti i grandi e i minimi movimenti, fino a quelli delle coesioni e delle chimiche affinità. Così la materia riceve dall' anima non già propriamente la forma ideale, che non può essere un abito della materia, ma una copia e un' imitazione apparente ai sensi di quella forma ideale. E che le forme e la distribuzione dalla materia corporea e sensibile siano una copia, imitazione e partecipazione dell' idee ad esse relative, vedesi da questo che le forme s' intendono nelle idee, quando sono nel senso ricevute, e nelle idee si vede il loro essere eterno; ma nei corpi, all' incontro, essendo forme periture, non si vedono eterne, e però non sono l' essere immutabile, ma una sensibile espressione e rappresentazione dell' essere immutabile. E poichè quando le sensibili forme son vedute e così intellettivamente apprese nell' idea, nell' anima nostra intellettiva si fa una cotale soprapposizione e immedesimazione della copia sensibile coll' originale intelligibile: perciò anche le forme sensibili si dicono giustamente partecipare le idee nella mente nostra, e nell' atto della nostra percezione intellettiva di esse, e nella memoria, secondo la quale ne' discorsi intorno a tali cose ci esprimiamo. Le forme adunque e la distribuzione delle cose sensibili, essendo determinate dall' anima secondo le ragioni armoniche della sua interna costituzione, e l' anima essendo con una così perfetta sapienza ordinata da Dio secondo l' eterno esemplare, procede che noi dai sensibili andiamo alla cognizione dell' anima, e da questa all' esemplare, e da questo alla mente eterna, e da questa al Bene, cioè a Dio, e che affermiamo « « ch' ei v' abbia molto infinito nell' universo e fine sufficiente; ed una non ispregevole causa, ad essi soprastante, ordinatrice e temperatrice degli anni, delle stagioni e de' mesi, la quale a troppo buon diritto sapienza ed intelletto potrebbesi addimandare (1) » ». Le idee dunque sono partecipate in un modo dall' anima, e in un altro dai corporei sensibili, ed è per questo che da Platone, come dicemmo, sono assomigliate ad un giogo imposto da Dio all' anima ed alle cose, dal quale, insieme connesse, insieme comunicano. Ma all' anima, come a me pare, specialmente si dee riferire la presenza delle idee, «parusia», ai corporei sensibili la comunione , «koinonia» 2). Giacchè i sensibili colle loro forme imitano, come dicevamo, le idee loro corrispondenti, e le loro imagini nell' anima nostra colle idee, quasi direi, combaciandosi, diventano con esse una cosa, rispetto all' atto del nostro vedere, cioè un solo oggetto della nostra percezione (3). L' anima poi, avendole presenti senza che con esse si confonda, le intuisce. Ma poichè di certe idee, come di quelle della bellezza e della giustizia, essa sola partecipa in modo che in sè le realizza, perciò Platone esprime l' unione di tali idee coll' anima non solo col vocabolo di presenza , ma ancora con quello di abito , come nel Sofista, ove dice che l' anima diventa giusta e sapiente per la presenza e per l' abito di tali idee, [...OMISSIS...] (4). Pure la giustizia e la sapienza e simili entità come abito , sono accidentali all' anima, e quindi nasce la questione se la giustizia e la bellezza, come abito dell' anima, siano una similitudine e copia della giustizia e della bellezza, come le forme de' sensibili sono una copia di ciò che è nelle idee. La qual questione non oserei dire che si sia presentata chiaramente ed esplicitamente alla mente di Platone: ma dicendo che sono di quelle cose che possono essere presenti od assenti (1) all' anima, non c' impedisce di credere che la stessa essenza della giustizia possa divenire un abito dell' anima, non potendo la giustizia essere imitata senza che sia distrutta, giacchè l' imitazione della giustizia, se non è giustizia, non può essere che una simulazione di giustizia e però tutt' altro che giustizia. Le idee dunque, secondo Platone, non possono essere ricevute dalle cose inanimate e sensibili, perchè la loro essenza è di essere intelligibili . Non essendo dunque intese, non sono per sè stesse ricevute da' corpi, ma questi partecipano solo di alcune loro similitudini . Similitudini poi si dicono, perchè, ove per mezzo del senso sieno date all' anima, essa vede le immagini sensibili nelle idee corrispondenti; quelle dunque conducono l' anima a queste, e però si dicono similitudini di queste. E così l' anima è descritta da Platone come la mediatrice e il vincolo del mondo sensibile coll' intelligibile, con quello comunicando per mezzo del suo elemento del diverso , e con questo mezzo del suo elemento del medesimo . E quindi nel « Sofista » dice che [...OMISSIS...] (2). Ma secondo Platone questa comunicazione dell' anima intellettiva coll' essenza involge un' azione reciproca, perchè dice che il conoscere , che appartiene all' anima, è agire, e l' essere conosciuto , che appartiene all' essenza, è patire (3). E che conoscere sia agire, non ci può esser dubbio; ma noi neghiamo che all' agire corrisponda sempre il patire (4). Ma il patire che adopera qui Platone deve intendersi piuttosto del copulativo esser avuto (5), perchè sarebbe contrario a tutta la dottrina di Platone che l' essenza sofferisse qualche vera modificazione dall' anima, quand' ella è anzi «aei kata tauta hosautos»; quella che si modifica è l' anima, ricevendo l' atto del conoscere e una luce che diventa anche subiettiva per l' appropriazione naturale dell' intelligibile essenza, luce resa così indivisibile dall' anima stessa. Si consideri che, sotto la parola conoscere Platone comprende non meno il conoscere speculativo che il pratico , onde la virtù stessa è concepita da Platone come una scienza . Quindi il praticare, a ragion d' esempio, la giustizia, non è che un conoscere la giustizia, appropriarsi questa idea , che diviene così abito dell' anima e parte della sua propria natura. Conoscendo dunque l' anima le idee, parte in modo speculativo e parte in modo pratico, s' intende come il medesimo , che abbraccia appunto le idee, sia posto da Platone come elemento mesciuto e rimestato da Dio nella sostanza dell' anima. Onde nel Fedone dice che all' anima appartiene quell' essenza che si denomina « « ciò che è »(1) », il che è quanto dire l' essere che sta nell' idee. E questo è il germe dell' immortalità dell' anima. Laonde nel Fedone il nostro filosofo è tutto intento a dimostrare questo: che le cose sensibili e corporee non hanno alcuna stabilità, alcun vero essere, che il vero essere è sempre il medesimo, ma che col raziocinio all' anima si manifesta qualche cosa di ciò che veramente è, e perciò non può perire. Più dunque le riesce di sottrarsi alle illusioni e distrazioni sensibili, e di raccogliersi in se stessa, lasciato il corpo, più altresì ella comunica coll' ente, e quasi con mano l' apprende [...OMISSIS...] ; onde quando poi ella del tutto priva del peso corporeo sarà con ciò che mai non muore, si troverà continua, ricevendo dalla intima e non più impedita sua unione con quella eterna natura, la perenne immortale e stabile vita. E questo astrarsi dell' anima dal sensibile e vivere d' intelletto, dice Platone, che è uno stare con sè stessa [...OMISSIS...] , un raccogliersi in sè stessa [...OMISSIS...] , appunto perchè egli considera le idee così unite all' anima, che ne informino la natura. Onde distingue il considerare che fa l' anima gli esistenti per mezzo del corpo [...OMISSIS...] , dal considerarli per sè stessa [...OMISSIS...] , recandole il primo modo inscizia, e scienza il secondo. Onde la filosofia insegna all' anima « « di non creder nulla fuorchè a sè medesima, in quant' ella per sè stessa intende ciascuna di quelle cose che sono per se stesse »(1) », il che è quanto dire che le essenze devono essere conosciute immediatamente dall' anima e non per alcuna effigie o copia che gliele presenti. A malgrado di questo, non confonde Platone l' anima intellettiva coll' idee, onde si contenta di dire che ad essa è simile ciò che è divino, immortale, sapiente, cioè l' idee; [...OMISSIS...] ; e che l' anima virtuosa, la quale in questa vita si divide colla contemplazione e coll' amore dell' eterno dal corporeo, e segue la ragione e quel vero e divino, superiore all' opinione che in essa si trova, quando lascia per la morte il corpo, spera di migrare in quello a sè cognato [...OMISSIS...] ; laddove all' opposto quell' anima che parte da questa vita infetta del sudiciume corporeo, ricade in un altro corpo, acciocchè, quasi ivi seminata, rinasca, e rimane priva del consorzio della divina, pura e uniforme essenza: Accenna poi che Iddio pose gli astri, animali divini, col corpo di puro fuoco nella sapienza del potentissimo, cioè del medesimo (5): laddove dice che all' anime seminali « « mostrò la natura dell' universo e insegnò loro le leggi fatali »(6) »; di che si può dedurre, che la scienza innata, da Platone conceduta all' anime umane, sia la cognizione dell' esemplare del mondo o d' alcuna parte di esso. Non diede dunque Iddio, secondo Platone, a queste anime la visione di sè stesso, causa dell' esemplare; ma l' esemplare imitandolo imperfettamente, per questi vestigi sono condotte sempre con un' inclinazione veementissima al Bene stesso, che è appunto la causa delle idee che compongono l' esemplare, e quella che in sè contemplandole, le contiene e le rende vive ed efficaci creatrici del mondo. Così spiega Platone il tendere di tutti gli esseri umani al Bene, come una tendenza a Dio, oscuramente e quasi per enimma conosciuto, e pur incessantemente desiderato. [...OMISSIS...] . Quella insufficienza con cui l' uomo conosce il Bene, quell' augurarsi che sia veramente qualche cosa e pur dubitarne, quel tendere tuttavia in questo oggetto, così oscuramente e incertamente conosciuto, con tutta l' anima, con tutti gli atti della vita [...OMISSIS...] , questo facile ingannarsi del giudicare intorno all' utilità dell' altre cose, benchè più conosciute, a cagione della insufficiente cognizione che s' ha del Bene, essendo la misura e la norma secondo la quale devonsi giudicare, sono tratti sublimi d' una mente straordinaria. E quantunque l' idea del Bene rimanga così all' umana mente involta in una certa misteriosa caligine, pure a preferenza d' ogni altra si dee pregiare e cercare siccome la massima delle discipline [...OMISSIS...] . Niun' altra cognizione giova senz' essa, come niente pur vale il possedere tutte l' altre cose senza il Bene (2). E Platone parla di quel puro e perfetto Bene, che dee essere misura di tutti i beni e le cose, di cui si pervertirebbe il concetto se d' alcuna sua minima parte si diminuisse, poichè « « di niuna cosa può esser misura ciò che è imperfetto »(3) ». Ma per quali vie può dunque l' uomo pervenire a quella, se non compiuta (mentre si trova in questa vita e circondato da questo corpo) almeno sufficiente notizia del Bene a cui aspira? Partendo dai più eccellenti intelligibili dati all' anima umana, dall' idee più eccellenti di cui ella sia stata fatta partecipe. Noi dicemmo che l' oggetto proposto da Dio all' intuizione naturale dell' anima non è, secondo Platone, Dio stesso, ma il divino esemplare del mondo, che alcun' anima intuisce più perfettamente, alcun' altra meno. Da questa intuizione naturale l' anima per mezzo del raziocinio può innalzarsi ad una sufficiente cognizione del Bene, che è la causa del mondo, Iddio, atteso che in quest' esemplare ci sono i vestigi del divino suo autore ed è con esso intimamente connesso come effetto ottimo, per quanto può essere, d' una causa assolutamente ottima. Ma a tanto non perviene se non con vari passi del raziocinio, i quali addimandano quel continuo esercizio di meditazione e continuo sforzo della mente per astrarsi dal corporeo ed ascendere all' invisibile e all' ottimo, a cui Platone riserva il nome di filosofia. Primieramente conviene ben distinguere quattro gradi di cognizione, due appartenenti all' ordine delle cose visibili, e due a quello delle cose invisibili. Perchè le cose visibili si dividono in due classi: 1 le imagini; 2 le cose reali di natura o d' arte (4). Di qui due affezioni dell' animo [...OMISSIS...] , cioè l' affigurazione , «eikasia», che si riferisce all' imagini visibili delle cose, come quelle che si vedono riflettute da uno specchio d' acqua o nell' ombre, e la persuasione , «pistis», che si riferisce ai reali stessi corporei, e dicesi da Platone fede o persuasione, poichè intorno ad essi noi prestiamo fede alle passioni de' nostri sensorŒ e ce ne persuadiamo senz' altra ragione. Le cose invisibili ed incorporee del pari si dividono in due classi: 1 le cose conosciute mediante un raziocinio che parte da altre cose conosciute, come da supposizioni ammesse gratuitamente per vere, senza ascendere colla mente al primo principio ed evidente della cognizione; 2 il principio stesso conosciuto mediante un raziocinio che movendo da supposizioni, non ammette queste per vere, ma da queste ascende a trovare il principio evidente, dal quale poi, discendendo, si conoscono poi indubitatamente per vere le cose dedotte. L' affezione che nell' anima corrisponde al primo di questi due generi è chiamata da Platone cogitazione , «dianoia», quella che corrisponde al secondo è chiamata mente o intelligenza , «noesis» (1). Tutte queste quattro affezioni e funzioni dell' anima suppongono l' intuizione dell' essere. Quando conosciamo la cosa sensibile per mezzo di qualche suo ritratto esterno, come, per servirci dell' esempio che usa Platone stesso nel X della « Politeia », d' una dipintura, allora noi abbiamo prima la percezione sensibile di quella imagine, poi la percezione intellettiva ; da questa, l' idea della dipintura, e da quest' idea passiamo all' idea della cosa reale: tutte queste operazioni e l' affezione dell' animo conseguente sono comprese da Platone sotto la parola «eikasia». Quando conosciamo la cosa sensibile per se stessa, dopo la percezione sensitiva e la percezione intellettiva e l' idea della cosa , noi prestiamo fede alla sua esistenza, e tutte queste operazioni e la fede o persuasione conseguente sono comprese sotto la parola «pistis». Fin qui non c' è ancora il raziocinio, ma solo la percezione intellettiva sia del ritratto sensibile della cosa sensibile, che dicemmo l' affigurazione , sia della cosa stessa, e la conseguente persuasione o fede. Nel primo caso la notizia della cosa è più imperfetta perchè si fonda sulla percezione del ritratto; nel secondo è meno imperfetta, perchè si fonda sulla percezione della cosa: ma l' uno e l' altro fondamento non eccede l' ordine sensibile. Il raziocinio invece di cominciare dalla percezione sensitiva arrivando fino all' affigurazione e alla persuasione , parte dalla idea pura , e qui comincia il raziocinio, e percorre pure due stadii. Poichè primieramente l' idea da cui parte, suol esser cavata dalle percezioni precedenti, e però il primo stadio di questo nuovo lavoro s' incatena co' precedenti e anche fa uso de' sensibili, non come fondamento al raziocinio, ma come fanno i matematici, che in aiuto della mente tengono sott' occhio de' triangoli ed altre guise di figure sensibili, benchè ad esse non dirigano il pensiero, ma al triangolo stesso e all' altre figure ideali, delle quali le sensibili sono imperfetti simulacri. In questo stadio adunque il raziocinio partendo da tali notizie e supponendole vere, ne trae le conseguenze come appunto fa il matematico che suppone il pari e il dispari e le figure e le tre specie d' angoli ed altre cose simili, di cui, supponendo tali cose note a tutti, non domanda altre ragioni, ma da esse discende a cercar altre cose, quelle che vuol rinvenire; e questo è quel primo stadio del raziocinio che Platone chiama «dianoia». Alla formazione di questa specie d' intelligibile [...OMISSIS...] , secondo Platone « « l' anima è costretta a far uso di supposti [...OMISSIS...] non rivolgendosi verso il principio [...OMISSIS...] , perchè non può ascendere più su dei supposti » » e questo si fa nella geometria e nelle altre arti affini [...OMISSIS...] . Ma la Filosofia sta più su e ad essa appartiene l' altra divisione d' intelligibile [...OMISSIS...] . Questa porzione o specie d' intelligibili sono le ragioni ultime, e la ricerca di queste è così descritta da Platone: [...OMISSIS...] . Così distingue Platone la filosofia da tutte le scienze e le arti, avendo queste de' principŒ supposti , la sola filosofia il principio non supposto, evidente per sè, necessario, [...OMISSIS...] . Platone, con tutto il meglio dell' antichità, s' affida sempre al raziocinio, e distribuisce sempre il sapere umano entro l' ordine della riflessione : manca del tutto nell' antichità la teoria dell' intuizione primitiva, non riflessa e inconsapevole. In luogo di questa, di cui pure sentiva il bisogno, Platone introdusse a colmar la lacuna, il tipo ingegnoso della riminiscenza . Questa però non s' operava per via d' un semplice ricordarsi, ma imperfettamente per mezzo della percezione, perfettamente per mezzo del raziocinio riflesso . A questo dunque Platone assegna due gradi: l' uno, quello delle matematiche e dell' altre scienze, che non ascendono al sommo ed evidente principio; l' altro, quello della filosofia che vi ascende. La distinzione di questi due gradi ha per fondamento la distinzione tra due classi d' idee, ossia d' intelligibili, l' una più eccellente dell' altra. La classe inferiore delle idee è di quelle che si riferiscono immediatamente al mondo sensibile , e che l' uomo ha mediante la percezione ( specie piene, specie astratte ). L' acquisto di queste idee non importa ancora il raziocinare, ma l' affigurazione e la persuasione. Da queste idee inferiori prossime ai sensibili, di cui sono l' intelligibilità, move il raziocinio per due vie a diverso intento. Poichè o si parte da esse per arrivare ad altre idee parimenti inferiori, per arrivare alle idee ultime: queste sono le idee superiori . Come le idee inferiori sono quelle che manifestano il mondo sensibile e corporeo, così l' idee superiori sono quelle che manifestano il principio dell' universo, e le cose tutte che ad esso sono inerenti, e che l' anima, per questa via d' alto raziocinio, può arrivare, in qualche modo, a toccare: [...OMISSIS...] . Queste idee o intelligibili superiori sono lontanissimi da ogni sensibile, e la mente va ad esse senza fare alcun uso del sensibile, [...OMISSIS...] , laddove il sensibile avea luogo nell' ordine delle percezioni, ed anche nel primo grado del raziocinio, servendo i sensibili come di simulacri a quelle idee a cui la mente si rivolge, atteso che queste idee ai sensibili appunto si riferiscono, come accade a' matematici. Le idee superiori dunque sono quelle che manifestano nature spirituali e doti e qualità di queste, e che perciò non si riferiscono punto ai corpi. Vediamo quali queste sieno, e come la mente giunga per esse al principio dell' universo, procedendo sempre nei campi del mondo puro, scevra d' ogni concrezione sensibile, d' idea in idea; [...OMISSIS...] . Sono indubitatamente tali idee quelle del giusto , dell' onesto , del sapiente e simiglianti, le quali tutte insieme s' unificano in un modo occulto nell' essenza divina, ossia nel principio del tutto e non possono esser partecipate da alcun corporeo e sensibile, ma solo dall' anima per l' intelligenza. Da queste idee dunque vuole Platone, che il filosofo dialettizzando pervenga a quella qualunque notizia che l' uomo può acquistarsi della divinità. Poichè il lume pel quale l' anima intuisce quelle idee e per esse è scorta alla cognizione di Dio, è ciò appunto che Platone chiama il Figliuolo del Bene, come chiama Iddio il Bene, cosa più augusta di quelle singole idee e del lume stesso che all' uomo le dimostra. Descrive dunque il filosofo come colui che [...OMISSIS...] . Dove Platone distingue il divino , «to theion», da Dio, attribuendo la qualità di divino alle idee veramente essenti, «alethos onta», e massimamente ad alcune più eccellenti ordinate con ordine immutabile, [...OMISSIS...] , le quali sono indubitatamente quelle della giustizia, della virtù, della sapienza e simiglianti, poichè a queste conviene, a preferenza dell' altre, l' essere tutte ornate e secondo ragione, [...OMISSIS...] , essendo il raziocinio [...OMISSIS...] , quello che ritrova il giusto e l' onesto e altre tali idee. In secondo luogo poi attribuisce Platone l' attributo divino a tutti quegli enti che partecipano di tali idee contemplandole ed imitandole, cioè all' anima del mondo, poi agli astri che ne sono avvivati, finalmente al filosofo che mettendo tutta la sua mente e il suo cuore in esse, si rende ad esse simile. Poichè secondo Platone è la contemplazione pratica della giustizia, dell' onestà, della virtù e di somiglianti essenze, la causa per la quale l' uomo si rende giusto, onesto, virtuoso e in ogni maniera ornato: come noi pure abbiamo affermato, che il principio della morale non si può trovare altrove che in un primo atto volontario d' intendimento, pel quale l' uomo aderisce col suo principio, e con tutto se stesso alla verità delle cose, e che abbiamo chiamato ricognizione dell' essere (3). Questa è dunque la maniera nella quale Platone insegna che l' uomo imita tali essenze: la contemplazione di esse incessante, ma affettuosa, pratica, assoluta; [...OMISSIS...] . E perciò appunto che Platone vuole che il fine della filosofia sia pratico ed effettivo, e non di astratta speculazione, dà per ultima e suprema essenza, non questa del nudo essere ma quella del Bene; poichè quella del puro e indeterminato essere non presta che il principio della filosofia, ma l' essenza del Bene ne è lo stesso termine e finimento. Onde s' affatica Platone a rimovere la falsa opinione che la filosofia sia una speculazione sterile, e a dimostrare che il vero filosofo, posto al reggimento della cosa pubblica, è il solo atto, non pure a informare alla virtù sè stesso, ma anche tutto il popolo (1). Dal quale prima rimove gli impedimenti, come il pittore che ripulisce prima la tavola su cui deve dipingere, e poi lo istituisce alle virtù per modo che lo conduce fino a Dio, rendendolo teofilo. [...OMISSIS...] . Così dalla contemplazione e dall' amore di quelle supreme idee del giusto, dell' onesto, del prudente e simili, l' uomo va, secondo Platone, alla cognizione, alla contemplazione, all' amore di Dio stesso. Pure Iddio è tal cosa che sta ancora più su di quelle singole essenze (3). Avendo distinte tre specie d' anima (4), in rapporto a quel che è giusto per natura, quel che è per natura bello e onesto, quel che è per natura saggio e temperato [...OMISSIS...] (5), Platone mostra che l' idea del Bene è superiore a tali eccellentissime essenze. Poichè dice, che « « la giustizia stessa e l' altre cose tutte devono avvalersi dell' idea del Bene, affine di rendersi utili e convenevoli »(6) »: di maniera che l' idea del Bene è la stessa regola suprema e la misura della giustizia e dell' altre essenze tutte, di quella dell' onesto, del temperato, del sapiente, dell' utile; le quali perciò da quella dipendono e ne ricevono la legge e l' ordine, e tutto ciò che hanno di bene. Dimostra lo stesso contro coloro che riponendo il Bene nella sapienza [...OMISSIS...] fanno di quelle due cose una sola. Poichè acutissimamente dice che se costoro s' interrogano di qual sapienza parlino, qual oggetto le assegnino, sono costretti in ultimo di rispondere, che intendono « « della sapienza del Bene » ». In tal modo ricorrono al Bene per determinare quella sapienza nella quale dicevano di riporre il Bene. Suppongono dunque di conoscere il Bene prima della sapienza, e per mezzo di quello definiscono questa, non viceversa (1). Dall' idea dunque del Bene anche la sapienza procede, e egli n' è la ragione, onde senza la cognizione del Bene non giova, o piuttosto non esiste, nè la cognizione della giustizia, nè d' altra cosa, quantunque eccellente ella sia (2). Con un altro carattere nobilissimo distingue Platone il Bene da tutte le altre cose più eccellenti, ed è che il Bene è sempre amato per se stesso, onde non è possibile che nessuno intorno a lui voglia ingannarsi: [...OMISSIS...] . L' essenza del Bene, dunque, è l' altissimo Iddio superiore a tutte le cose più eccellenti e causa di tutte. Ma qual è l' essenza più vicina a lui? Quella che Platone chiama il Figliuolo del Bene che è la luce , per la quale l' umano intendimento conosce tutte queste cose; ed è d' idea in idea diretto ad argomentare qualche cosa al di là di tutte le idee, la prima ed ottima causa, in una parola, il Bene stesso, che perciò non è immediatamente intelligibile, ma dal lume e col lume suo figliuolo s' argomenta: poichè col lume s' ha il vedere, e col vedere si vede il lume e nel lume come nell' effetto si vede la causa, [...OMISSIS...] . Come tra tutti gli organi sensori la vista è quella che è sommamente partecipe del sole e del lume, così tra tutte le facoltà umane quella che riceve più il lume intelligibile è la mente «nus» (4), che intuisce le idee e il loro ordine. Ora che cosa è questo lume delle menti, effetto, ossia prole del Bene, che per mezzo di questo lume, ascendendo dall' effetto alla causa, si conosce? Platone risponde la verità e l' ente , [...OMISSIS...] (1). Il che noi abbiamo ripetuto nell' ideologia. E la verità e l' ente è il medesimo lume, che considerato in relazione alla mente dicesi verità, considerato in relazione all' oggetto stesso, dicesi ente. Il Bene, adunque è al di là del lume della mente umana, essendone la causa. [...OMISSIS...] . Il figliuolo del Buono, adunque, da Platone è chiamato ente, verità, cognizione, scienza , vocaboli che significano sempre il lume e la forma oggettiva della natura umana. Poichè l' ente [...OMISSIS...] o, come altrove lo chiama, l' essenza semplicemente detta, è la prima specie che illumina la mente umana; la verità [...OMISSIS...] è lo stesso ente, in quanto è esemplare delle cose reali e definite e queste lo imitano e così partecipandone diventano vere; la cognizione [...OMISSIS...] è l' effetto che consegue nell' anima che ha presente l' essere o la verità; la scienza [...OMISSIS...] è la cognizione più ferma ridotta alle ragioni ultime (3). Il Bene dunque è il sovraintelligibile per Platone, perchè sta più su dell' ente indeterminato e comune, più su della verità, più su della cognizione e della stessa scienza; pure se ne può avere una cognizione per analogia , perchè queste cose tutte date alla mente umana sono boniformi , ed hanno un' analogia ed un' intima relazione colla sua causa, il Bene essenziale, Iddio; e nell' uomo stesso che le partecipa colla mente e che, conformandosi ad esse con tutto sè, si rende giusto, onesto e temperato, rimane come dipinta e formata una certa imagine di Dio [...OMISSIS...] (1). Questa certa cognizione poi, quantunque analogica, negativa e raziocinativa, del Bene, è tuttavia così preziosa e importante, « « la massima disciplina o istituzione » » che possa avere l' uomo [...OMISSIS...] (2): poichè da questa notizia del Bene, come da regola suprema, si può giudicare del giusto e dell' onesto e d' ogni altra cosa pregevole. Il Bene poi non è solamente causa del suo Figliuolo, la luce delle menti umane, ma, senza cessar d' esser luce inaccessibile in sè stesso, è causa effettrice di tutte le cose, ond' anche per questo Platone lo rassomiglia al sole: [...OMISSIS...] . Dove parla manifestamente dell' essenza delle cose finite, di quelle essenze che tutte unite insieme costituiscono, come vedemmo, l' eterno esemplare del mondo, del quale si dice Iddio più antico (perchè da Dio, sebben ab aeterno , fu formato), e perciò stesso più potente [...OMISSIS...] . All' essenza infatti di Dio, che è quella della bontà, Platone attribuisce nel Timeo la causa della creazione del mondo [...OMISSIS...] . Affine dunque di rendere il mondo similissimo a sè stesso, Iddio creò delle intelligenze, e in servigio e gloria di queste, altre cose sensibili da dominarsi, ordinarsi ed effigiarsi, per quanto esser potesse, alla stessa similitudine. Le intelligenze poi le creò a sua imagine e somiglianza, ponendo davanti ad esse le idee a contemplare. Ora contemplando in queste ed ascendendo la mente dalle une alle altre fino alle somme, fino a quella della stessa virtù, cioè a quello che è « « per sua natura giusto, per sua natura bello, per sua natura sapiente » » e da queste finalmente ascendendo col raziocinio dell' analogia alla cognizione della Causa, ossia del Bene stesso; se con tutti se stessi, con tutte le azioni gli uomini a questo ineriscano, di maniera che riescano i costumi informati dall' amor di Dio, [...OMISSIS...] : in essi finalmente s' impronta e rifulge una cotale specie e squisita dipintura della divinità. Tale è l' ideale dell' uomo appieno educato e istituito alla virtù; ciò che Platone chiama «andreikelon» (1). Nel Filebo dove Platone espone la stessa dottrina, accenna quanto la natura divina sia superiore alle idee che noi contempliamo e che costituiscono la nostra mente e la nostra sapienza. Vede infatti il Figliuolo della Causa suprema in queste, onde dice: [...OMISSIS...] . E poco appresso chiama la mente cognata alla Causa e quasi dello stesso genere: [...OMISSIS...] . Ma quanto la mente e la sapienza umana ossia il complesso delle idee accessibili all' uomo sia inferiore del Bene stesso, causa del tutto, lo dimostra in questo modo. Pone per caratteri del Bene primo che sia perfetto (4), quindi sufficiente a se stesso , [...OMISSIS...] . E questa sua piena perfezione e sufficienza è un carattere così proprio di lui, che per esso si distingue da tutti gli esistenti (5), niun altro di questi potendo essere a sè medesimo sufficiente. Un altro carattere nobilissimo del Bene è ch' egli non può essere da niuno conosciuto senza che ad un tempo sia ed amato e cercato, e così fattamente che niun' altra cosa si ama e si cerca, se non per lui (6). Dopo stabiliti questi distintivi del Bene, mostra che nè il piacere nè la sapienza umana sono in separato sufficienti a sè stessi. Poichè niuno vorrebbe godere tutti i piaceri del mondo senza avere alcuna conoscenza nè memoria de' medesimi, che non sarebbe la vita dell' uomo ma del polmone o spugna marina, o della conchiglia. Niuno del pari s' appagherebbe d' aver sapienza e mente e scienza e memoria di tutte le cose, privo di ogni qualsiasi godimento, benchè anche insensibile alla molestia (7). All' incontro tutti, senz' eccezione alcuna, eleggerebbero ugualmente la vita del piacere [...OMISSIS...] unita e mista colla vita della sapienza [...OMISSIS...] che Platone chiama anche indifferentemente la vita della mente [...OMISSIS...] (1). Così della sapienza e della mente dell' uomo, la quale essendo insufficiente non è lo stesso Bene. [...OMISSIS...] . Distingue dunque la mente divina dalla mente creata , quella perfetta e sufficiente a se stessa, questa imperfetta e insufficiente a rendere beato l' essere finito. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione. L' ente creato (secondo Platone, che a servigio del suo pensiero trae i concetti e il linguaggio dei Pitagorici) tutto ciò insomma che è creato, è il composto [...OMISSIS...] di due elementi, l' indefinito [...OMISSIS...] e il fine o finiente [...OMISSIS...] . All' indefinito appartiene la materia corporea, al fine l' anima, e però d' anima e di corpo il mondo si compone (3), animale razionale, che contiene altri animali in se, gli astri e l' uomo. Essendo dunque due gli elementi accoppiati insieme, la felicità dell' essere finito non può consistere nella vita della sola mente che appartiene alla sola anima, ma deve concorrere a render pago un tale essere anche la vita del piacere che appartiene al misto in quanto è fornito di corpo. Ma come il misto risulta da due elementi bensì, ma armonicamente tuttavia uniti e compaginati, così il pieno bene dell' ente creato deve risultare da un' armonica unione e contemperamento delle due vite, cioè della sapienza e del piacere, e di questo contemperamento armonico lungamente e sapientemente ragiona nel « Filebo ». Questo dunque è il solo bene di cui noi uomini e ogni altro ente creato abbiamo esperienza, un bene misto di sapienza e di piacere. Ma sebbene non abbiamo esperienza d' altro bene, non possiamo noi formarci in qualche modo il concetto d' un bene ancor più perfetto? Sì, risponde Platone, ma non per alcuna positiva esperienza; bensì per via delle ragioni , cioè raziocinando da quel bene che sperimentiamo; e così per analogia arriviamo ad una cognizione ideale e negativa dell' essenza stessa del Bene, che è quanto dire di Dio, il Bene stesso, ed ecco come. Poichè l' ente creato è composto d' infinitezza e di fine , ma questi, congiunti armonicamente, e così pure il bene di quest' ente è un accozzamento armonico di sapienza e di piacere , è manifesto che ci deve essere una causa che abbia così opportunamente collegati que' due elementi, e fattane uscire una sola essenza (4). Questa causa è cosa anteriore all' effetto, cioè all' accoppiamento de' due elementi (1) e per natura di entrambi più eccellente. Essendo dunque quella che dà l' essere e l' essenza e il bene a tutte le altre cose, conviene che ella sia il Bene stesso ed assoluto (1). Così dal bene imperfetto e partecipato, che si percepisce nel mondo e più o meno si esperimenta, vuole Platone che la mente ragionando, per una certa scala d' idee, ascenda al Bene stesso impercettibile e al di là di questo universo. Il primo lavoro adunque è quello di formarsi un concetto del Bene, di cui è suscettibile quest' universo, nel modo più perfetto. Questo concetto che risulta dal più perfetto contemperamento della sapienza e del piacere, conduce la mente nostra all' esemplare del mondo in cui, essendo opera perfettissima, è disegnato quel Bene. Onde, dopo aver lungamente mostrato per quali vincoli opportuni il piacere dee collegarsi alla sapienza, acciocchè ne esca la miglior vita, Socrate nel « Filebo » soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma dopo di tutto ciò rimane il secondo lavoro della mente raziocinatrice. Poichè rinvenuto « « l' ideale del bene mondiale » », questo, dice Platone, non è che come un atrio della casa del Bene stesso. [...OMISSIS...] . Dal bene creato dunque vuole che s' ascenda alla notizia del bene increato, dall' effetto alla causa che non si può esperimentare quaggiù, ma argomentare, ed ecco per qual via. Primieramente questa causa deve essere una Mente, essendo composto con tant' ordine, convenienza e perfezione il Mondo e commiste in esso con tant' arte le due vite della sapienza e del piacere. Distingue dunque due menti: quella partecipata dall' ente creato e quella che è per sè Mente. Chiama questa « «vera e divina Mente », [...OMISSIS...] (1), Mente regia, [...OMISSIS...] (2), e questa, dice egli, è la Causa certo non ispregevole che adorna e dispone, [...OMISSIS...] . Quest' intelligenza, causa del mondo, non è composta de' due elementi dell' infinitezza e del finiente , essendo essa anzi la Causa e l' accoppiatrice di essi. Non avendo in sè alcuna cosa che sia di natura sua indefinita, per questo stesso è immutabile . Poichè l' indefinito è quello che riceve il più e il meno, [...OMISSIS...] , e però che ha la natura del variabile. La variabilità, ossia l' ammettere più e meno, è il fonte, secondo Platone, delle imperfezioni a cui soggiacciono le nature finite e composte, ed essa stessa è il primo difetto e il genere de' difetti. La Mente causa dunque non ha difetto, e quindi ha le due qualità del Bene, la perfezione e la sufficienza . Il piacere e il dolore della vita animale nasce dall' elemento dell' infinitezza che è massimamente il corporeo, e perciò tali affezioni sconvengono del tutto alla Divinità: non possono dunque entrare nell' essenza del Bene, la quale non è, nè può essere come il Bene del mondo, composta d' indefinito e di definito: il che fa ben intendere che la vita della pura contemplazione sia in sè la divinissima, [...OMISSIS...] . Ma quantunque il Bene perciò stesso sia al tutto semplice, tuttavia noi dovendone raccogliere la cognizione per via di raziocinio induttivo e analogico dal bene partecipato del mondo, che è composto, non possiamo concepirlo mediante una sola idea (5). L' idea stessa dunque del Bene, cioè, ciò che è per sè il Bene quaggiù ci manca. Possiamo in quella vece esprimerlo con una cotal formola razionale composta e quasi organata di più idee: e sono quelle idee eminenti che si vedono nel mondo partecipate, ciascuna delle quali dà una tale essenza che dee essere necessariamente compresa in quella del Bene nè può essere altrove, benchè non sappiamo come si fondano in quell' unica somma ed a noi inescogitabile essenza. Si ferma Platone nel « Filebo » a tre di queste idee che ci servono a conoscere, come possiamo, il Bene stesso. [...OMISSIS...] . Trattasi qui di quella mistione da cui risulta il bene dell' animale intelligente (non essendo altro il creato che questo), il quale è misto di piacere, che si riferisce al corpo animato, e di sapienza, che si riferisce all' anima pura. Ora dice Platone che in questo stesso bene misto si scorge la partecipazione di quelle tre essenze, cioè della verità, della commisurazione e della bellezza; e per sì fatto modo che, tolte via queste, non resta più nello stesso animale, ossia nel creato, nulla che abbia ragione di Bene. La ragione dunque perchè l' ente creato animato è buono, ossia ha il bene, consiste unicamente nella partecipazione di quelle tre essenze. Se noi dunque prendiamo queste tre essenze e separandole colla mente da ogni altro elemento, le consideriamo come fuse in uno, [...OMISSIS...] (e in questa fusione e unificazione com' ella sia, sta il mistero impenetrabile alla mente umana, onde Platone dice l' idea del Bene appena visibile, [...OMISSIS...] ) (1), noi così ci formiamo la cognizione del Bene puro . Dimostra adunque prima che acciocchè il bene del creato sia bene, è necessaria la verità . E quanto al primo elemento di quel bene, cioè alla sapienza, è facile vederlo, non dandosi nè sapienza nè scienza senza la verità, ma questa è necessaria anche ai piaceri che sono il secondo elemento, chè se non sono veri piaceri nè pur sono piaceri. [...OMISSIS...] . E dimostra che ci sono de' piaceri veri e dei falsi: i primi ordinati e moderati che si possono di conseguente comporre e mescere colla sapienza; gli altri disordinati che non potendosi mescere con essa nè sono veri, nè possono convenire in quel misto nel quale sta il bene della creatura. E prende Socrate a interrogare la stessa sapienza e mente, se loro bisognino, per formare il compiuto bene dell' ente creato, oltre i veri piaceri, anche i più veementi e grandissimi; le quali rispondono: [...OMISSIS...] . Dimostra poi, e da questo stesso deduce, che al bene creato è necessaria in secondo luogo la commisurazione o simmetria, senza la quale non può riuscire la concorde e pacifica mistione dei due elementi [...OMISSIS...] . La misura dunque e il commisurato [...OMISSIS...] è la seconda idea che si scorge nel bene finito: il commisurato è lui stesso il bene finito ricevuto che abbia la misura, e la misura , che è quell' idea che noi caviamo per astrazione da questo commisurato, e che si deve attribuire in proprio alla causa, cioè al Bene puro ed essenziale, misura di tutti i beni, e perciò stesso da sè essenzialmente misurato, [...OMISSIS...] chè, come già disse nella « Politeia », [...OMISSIS...] . Quindi la terza idea partecipata dal Bene, quella della bellezza. [...OMISSIS...] . Il bene dunque nell' ente creato si mostra sotto tre aspetti, ora di verità, ora di misura e commisurato, ora di bellezza: e nessuna di queste tre idee può abbandonar l' altra, chè c' è tra esse un naturale sintesismo; nè tuttavia si possono da noi unificare come si converrebbe a comporre l' unica e semplicissima idea del Bene stesso assoluto. A queste tre idee si riducono quelle tre altre di cui fa uso nella « Politeia » di ciò che è giusto, bello, prudente o temperato [...OMISSIS...] , poichè, come apparisce dall' ultimo luogo citato, riduce allo stesso il bello e la virtù [...OMISSIS...] , e perciò la giustizia e l' altre tre virtù cardinali (2); nè si dà il giusto e il prudente o temperato senza verità, misura e bellezza. Il Bene dunque è la verità, la misura e il misurato e il bello. e ciascuna di queste tre essenze è il Bene, che prende diverse forme ed aspetti (3), e nel mondo risplendono. Venendo dunque Platone in sulla fine del « Filebo » a classificare i diversi ordini di bene che sono nel mondo, li distribuisce nella scala seguente. Il primo luogo, dice, dee darsi alla misura [...OMISSIS...] e al misurato e ammodato [...OMISSIS...] e a qualunque altre cose tali, di cui convenga credere aver sortito una sempiterna natura [...OMISSIS...] ; e quest' altre cose sempiterne sono appunto quelle indicate, la verità, la bellezza, la giustizia, la prudenza ed ogni virtù. Tutte queste cose per sè stesse non appartengono al mondo o all' uomo, ma sono di spettanza alla causa, [...OMISSIS...] , e tutte insieme formano l' idea del Bene, [...OMISSIS...] , il quale nel mondo e nell' uomo, siccome in uno specchio, si riflette con diversi raggi in tutte quelle diverse idee supreme, l' una reciprocamente inserta nell' altra, che dicevamo. Tutto questo lume riflesso poi non è lo stesso Bene, ma il figliuolo del Bene, [...OMISSIS...] , nel quale e pel quale noi divinando [...OMISSIS...] acquistiamo una cognizione oscura bensì «( per speculum et in aenigmate ) », ma preziosissima e la più necessaria di tutte, del Bene stesso, colla quale sola misuriamo e giudichiamo tutto ciò che del Bene partecipa, e quelle stesse idee eterne, che al Bene ci conducono, e a questo di nuovo, come ad ultimo principio, riferiamo, e vediamo che senza quest' ultima idea non sarebbero. [...OMISSIS...] . Le quali sublimi parole non pronunzia Platone senza dar segno di quella sua solita riverenza e modestia, con cui parla delle cose divine e che s' addice tanto ad un uomo, specialmente privo della divina rivelazione. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo è da notarsi come Platone riconosca chiaramente l' idea del Bene, non solo esser causa delle cose intelligibili, ma anche delle visibili; il che dimostra due cose: 1 che per « idea del Bene »intende l' essenza stessa del Bene, il Bene assoluto, Dio; 2 che nulla ammette fuori di Dio, che non abbia per causa Iddio. Questo dunque ha il primo luogo nell' ordine de' beni: il secondo è occupato dal tutto insieme, perfettamente ordinato, sia nel mondo, sia nell' uomo, cioè in quella perfetta composizione tra la sapienza e il piacere, onde risulta la felicità e la perfezione di tali animali intelligenti: è dunque «to xymmisgomenon». E di questo bene si deve intendere il passo che segue: « « Il secondo (bene) è circa il commisurato, e il bello, e il perfetto, e il sufficiente, e quante v' abbiano cose di questa generazione » » (2). Poichè il mondo e l' uomo a pieno virtuoso ha appunto queste qualità di commisurazione, bellezza, perfezione e sufficienza relativamente alla sua natura; e bene è del pari ogni altra cosa che le abbia in sè. Dipoi vengono i beni elementari, di cui questo bene composto, proprio dell' ente creato, si compone, e anche tra questi Platone cerca qual sia l' ordine di preminenza. Avea già detto che questi elementi buoni sono primieramente due, l' uno appartenente all' ordine intelligibile, e l' altro all' ordine sensibile, e che quello va di lunga mano preferito a questo, stante che abbia una stretta parentela col bene supremo. Ma non contento di ciò, spezza l' intelligibile in due, e all' uno dà le idee più sublimi, come appunto quelle dal cui complesso si arriva all' idea del Bene; e questo pone il primo bene degli elementari e il terzo della serie totale. Dice dunque « « se tu dunque porrai per terzo bene la mente e la sapienza [...OMISSIS...] , non andrai lontano dal vero, come io vaticino » ». Avea detto poco prima della mente che ella « « o è un medesimo colla verità, o certo di tutte le cose è la più simile e la più vera » » (3). Delle quali parole, le prime, cioè che la mente sia il medesimo colla verità, appartengono alla mente divina, alla Causa, al Bene: l' altre, cioè che la mente sia di tutte le cose la più simile alla verità e la più vera, appartengono alla mente creata o partecipata dagli animali divini e dall' animale umano. E questa è quella mente che pone terza nell' ordine de' beni, perchè sola non è sufficiente all' animale, benchè per essa comunichi colle cose divine, perchè egli non è pura mente, ma oltre a ciò ha per sua natura l' elemento dell' indefinito, [...OMISSIS...] , che deve essere dalla mente governato. Appunto per questo, oltre alla prima e più sublime delle facoltà intellettive, cioè alla mente che intuisce le più sublimi idee, s' aggiungono le scienze e le arti; e queste stesse talune sono pure e proprie della sola anima senza mescolanza d' alcun elemento attualmente sensibile, opere della mente e della ragione. A questo secondo genere d' intelligibili dà dunque il secondo luogo tra i beni elementari del creato; e il quarto nella classificazione totale: [...OMISSIS...] . E chiama scienze dell' anima, benchè alle sensazioni congiunte, anche questi piaceri (3): poichè non ammette punto per beni i piaceri sensibili, in quanto sieno scompagnati dalla cognizione e dalla verità, ma dall' essere a queste uniti e loro pedissequi ed inservienti [...OMISSIS...] deriva loro la qualità d' essere bene. Essi, dice, devono esser veri , [...OMISSIS...] . Il piacere dunque animale separato dalla cognizione è escluso da Platone dal novero de' beni, come quello che è indefinito, ma dall' idea, quando ne partecipa, riceve il suo finimento e da un' idea ancor superiore e finalmente dall' ultima che è misura suprema il finimento stesso è misurato (5), poichè le idee inferiori cioè più prossime ai reali sensibili, e il loro ordine dalle superiori e finalmente dall' ultima, che è quella del bene, ricevono la commisurazione. Conchiude dunque colla solita piacevolezza. [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo per conclusione e ricapitolazione di questo discorso segnare il principio ed il fine della filosofia platonica, e il corso di quell' arte del raziocinio che Platone chiama dialettica, e che conduce l' umana mente da quel principio passo passo finchè abbia raggiunto quel fine, diremo, con persuasione di non andare errati, che l' idea in universale, e propriamente l' essere ideale, [...OMISSIS...] è il principio, da cui vuole che si muova la filosofica disciplina, e il Bene, [...OMISSIS...] è il termine, a cui deve pervenire. Così descrive il filosofo dal principio e dal termine, quando lo dice « « amatore dell' ente e della verità » », [...OMISSIS...] . Ma torniamo oggimai ad Aristotele. Questo magnifico monumento filosofico non si trova nelle opere d' Aristotele, che mutilo a scarsi frammenti, insufficienti a ricomporlo, e guasti anche questi da un' esposizione infedele, sofisticamente tormentati piuttosto che discussi. Si direbbe, paragonando certi luoghi d' Aristotele, in cui parla delle dottrine di Platone, con altri che ancor si leggono nelle immortali opere di questo, che o gli scritti attribuiti ad Aristotele non fossero del discepolo di Platone, o avessero subite profonde alterazioni . Ad ogni modo ecco in che consistono le cardinali differenze tra i due sistemi, dalle quali dipendono tutte l' altre. 1 Secondo Platone, il mondo, e con esso il moto e il tempo, è cominciato per opera di Dio: secondo Aristotele è eterno, e Dio non fa che imprimergli ab aeterno di continuo il primo movimento; 2 Secondo Platone, il mondo è fatto nel tempo, secondo un eterno esemplare, il quale comprende tutte le idee, che si riferiscono al mondo; esemplare formato dalla mente divina per creare il mondo; secondo Aristotele, il mondo, essendo di sua natura eterno, non ha bisogno d' alcun esemplare, e però non ci sono le idee , che lo compongono, separate e indipendenti dal mondo; 3 Secondo Platone, le idee che si riferiscono al mondo come esemplari, sono intuite dalle menti create, che così ne partecipano; ma gli enti privi d' intelligenza, cioè i sensibili, non partecipano di esse, ma soltanto esprimono le loro similitudini , dalle quali, ricevute dall' uomo col senso, la mente trapassa alle idee , di cui quelle sono similitudini, ossia alle essenze de' medesimi sensibili, e per queste essi si conoscono. Aristotele nega, che gli enti reali e sensibili sieno similitudini, ma dà a loro stessi le specie o forme, che diventano intelligibili, tosto che l' anima che n' abbia il potere, le consideri in separato dalla materia, e così è, che ella conosce gli enti reali. Quindi Aristotele stabilisce, che tutte le cose mondiali sono composte di due elementi: 1 materia, [...OMISSIS...] ; 2 specie, [...OMISSIS...] (a cui si riduce anche il terzo elemento, la privazione ). Ma tutto questo complesso di enti, ciascuno composto di materia e di forma, che dicesi mondo, si muove in molte guise (1). Sebbene dunque nella sua supposizione d' un' eternità del mondo, egli non avesse bisogno di ammettere un ente creatore e ordinatore, tuttavia gli fu necessario di stabilire un principio , ed un fine del movimento del mondo e degli enti in esso contenuti: e quel principio non doveva essere mosso, altramente non sarebbe stato principio; doveva essere un primo motore immobile, [...OMISSIS...] , quel fine non potea essere che il Bene, [...OMISSIS...] , come aveva appreso da Platone. Ora i due elementi, di cui si compongono gli enti, e il principio e il fine del loro movimento, sono chiamati cause da Aristotele, e alla dottrina di queste quattro cause egli riduce tutta la metafisica (3). La prima causa dunque, ossia elemento, è la specie, o forma o essenza, [...OMISSIS...] . La seconda causa o elemento è la materia o il subietto , [...OMISSIS...] . La terza causa è il principio del movimento, [...OMISSIS...] , chiamata ancora causa efficiente, [...OMISSIS...] . La quarta causa è la finale, il fine del movimento, il Bene, [...OMISSIS...] . La materia è la realità in potenza, indeterminata, la forma è la sua determinazione, il suo termine, e però è un che determinato (9). Quantunque non possa esistere il solo indeterminato, tuttavia un ente determinato da una forma è in potenza ad altre forme, e così può passare da una forma all' altra; questo passaggio dallo stato di potenza a quello di atto è il movimento , la formola che esprime tutto ciò che si fa e si patisce nell' Universo. Ora questo passaggio, ossia questo movimento (1) dee avere la sua causa, e questa è il principio del moto ; dee avere anche un termine , e questo è il fine. Queste quattro e, colla privazione, cinque cause, sono considerate da Aristotele come i generi più estesi possibili. Ma ciascuna di queste cause generiche, quando si vuol determinare maggiormente e distribuire in generi minori e in ispecie e in individui, si può considerare sotto due aspetti che danno una diversa base d' eseguire una tale determinazione. Poichè: 1 ciascuna si può considerare nel suo effetto , in quanto può concorrere diversamente a produrlo, spezzandosi così quel genere unico in più classi e individui di cause; 2 e dopo ciò si può prendere ciascuna di queste cause, la più prossima all' effetto prodotto, e ascendendo ad una causa anteriore, e da questa ad un' altra pervenire a trovare la prima, la più remota di tutte l' altre. Si può dunque considerare ciascuno di quei generi di cause relativamente all' ultimo termine della sua azione in basso, e viceversa relativamente al suo primo principio in alto: distribuendosi in una serie dalla prima causa sino all' ultima. Consideriamo ciascuna di queste cinque cause, la materia, la forma, la privazione, la causa motrice e la finale sotto il primo aspetto, in quanto concorre in diverso modo a mettere in essere l' effetto. La materia , secondo Aristotele, non è mai priva della forma (2), ma esiste con questa formando l' ente singolare (3). Ora poichè questi sono diversi (4), perciò, secondo Aristotele, ci devon essere altrettante materie diverse che li moltiplicano. E poichè gli enti reali, oltre dividersi in individui, si classificano secondo le specie e i generi, così anche le materie (5). Le materie della stessa specie producono gli individui (è ciò che gli Scolastici chiamarono principio dell' individuazione), le materie di varia specie o genere appartengono ad individui di varia specie e genere. Così la materia degli astri è specificamente o genericamente diversa, secondo Aristotele, da quella, di cui si compone il mondo sublunare (1). Questa dottrina d' Aristotele intorno alla materia, non regge alla prova; poichè se le materie si distinguono tra di loro, hanno delle differenze, qualunque sieno: se hanno differenze, hanno delle forme, onde non trattasi più d' una materia prima, d' una pura potenza, che come tale, è indifferente a tutto. Se poi le materie si dividono anche specificamente o genericamente, partecipano dunque di forme specifiche e generiche. Aristotele dunque non giunse al concetto d' una prima materia e d' una pura potenza; ma il suo pensiero si fermò ad una materia non del tutto, ma solo in parte informata, e così potè trovare molteplice la materia. Se questa non fosse in parte informata non potrebbe avere il numero, che già è forma. Si fermò ad una potenzialità determinata a una certa classe di forme; ma questa determinazione della potenza è ella stessa una forma (2), quantunque non ultimata. Se la materia, secondo Aristotele, non può esistere nè concepirsi, senza la specie, e si parla di lei per via d' astrazione; della specie non osa dire il medesimo. In fatti riconosce una essenza immobile che appunto per questo dee essere pura specie secondo il suo principio; [...OMISSIS...] . E però anche alla sola specie dà la denominazione di «usia» (3) e di «to ti en einai» (4) come alla sostanza composta, denominazioni che nega interamente alla materia. Ma le forme degli enti singolari e composti non esistono se non in questi (5), e si classificano in dieci supremi generi che sono le categorie. Ci hanno dunque due generi di specie , secondo Aristotele: 1 Quelle che possono sussistere da sè stesse anche senza materia come il motore immobile e la mente; 2 Quelle che non possono sussistere che nella materia, come le specie di tutte le cose sensibili, sieno celesti o sublunari. Esamineremo forse in appresso qual sorta di purità Aristotele accordi al primo genere di queste specie, e se possano anche esse o no mescolarsi colla materia. Le categorie poi sono i generi formali che abbracciano le une e le altre; per esempio: sotto il genere di sostanza si comprendono tutte le sostanze singolari, siano pure forme o composte di materia e di forma. Poichè le categorie hanno per base della classificazione la nostra maniera di concepire per via di predicazione, sono una classificazione di predicati generalissimi; laddove la classificazione delle specie in pure e composte ha per sua base la natura delle forme stesse, è una classificazione di subietti . Venendo alle cause motrici e considerandole rispetto all' effetto che producono, queste si dividono da Aristotele primieramente in due: una causa interna alle cose che chiama natura , e una causa esterna che chiama arte (1). A queste ne aggiunge due altre, il caso e la fortuna , che nascono dalla privazione delle due prime, [...OMISSIS...] , e però presuppongono le due prime (3). Poichè quando la natura fallisce a produrre il suo effetto ordinario, si dice caso ; e quando all' uomo fuori della sua intenzione e aspettazione incontra per accidente qualche cosa, dicesi fortuna (1). Ma queste sono piuttosto cause rispetto al concepire dell' uomo che non conosce tutte le leggi della natura, che non vere cause. Quando poi l' uomo, volendo fare una cosa gliene riesce un' altra, il che dicesi fortuna, è caso anche questo, perchè è la natura che produsse quell' effetto inaspettato in vece dell' arte, onde il caso è un concetto più esteso della fortuna. La natura è dunque considerata da Aristotele come una causa motrice insita nelle sostanze composte di materia e di specie. Dalla materia in tal caso deve venire la forza del movimento, dalla forma la direzione del movimento: onde attribuisce il principio movente che dicesi natura , non meno alla materia ed alla forma che al composto. « « In un modo così si dice natura la prima subietta materia di ciascuna di quelle cose, che hanno in sè il principio del moto e della mutazione: in un altro modo la stessa forma e specie » »: ma questo per astrazione in quanto colla mente si considera la specie come altra cosa separata dalla materia (2). [...OMISSIS...] . Da questo apparisce, che i due principŒ d' ogni mutazione, la natura e l' arte , non sono entità diverse, secondo Aristotele, dai due elementi materia e specie , di cui risulta il mondo, ma sono virtù efficaci inerenti ai medesimi nell' ente composto (natura), e che oltracciò vi sono forme pure di materia, che danno origine all' arte , la quale è una causa fuori del composto (4). Del pari, la causa finale non differisce dalla forma . [...OMISSIS...] . La natura dunque, cioè il principio interno movente d' un ente naturale composto di materia e di forma, si muove verso un' altra forma ; e se niente osta, sempre verso la forma stessa: se non la consegue, dicesi caso . [...OMISSIS...] . Se poi c' è qualche impedimento, allora dicesi avvenire l' effetto per caso o per fortuna. E Aristotele per assegnare un fine agli agenti naturali dice non esser necessario che il movente deliberi, chè anzi l' arte stessa non delibera, operando abitualmente (1): [...OMISSIS...] . E veramente essendo il fine la forma , e questa, secondo Aristotele, essendo la medesima nell' arte e nella natura , nell' arte, cioè nella mente, separata dalla materia, nella natura unita colla materia, ma tuttavia dello stesso genere l' una e l' altra, conviene che tanto la natura quanto l' arte operino ugualmente pel fine. Dove si vede la profonda differenza, che passa da questa dottrina a quella di Platone; poichè questi nella natura sensibile non ammetteva la forma, ma la similitudine della forma riservata alla sola mente. Onde veniva la conseguenza che la natura sensibile non si poteva spiegare senza la mente , che le desse l' ordine e il fine, e a questo la dirigesse. Nel sistema d' Aristotele all' incontro la natura fa da sè, avendo la stessa forma in se stessa. Che la forma nella mente e ne' reali sia presa da Aristotele per la medesima, è chiaro da queste sue parole: [...OMISSIS...] (1). Il qual discorso nulla varrebbe o sarebbe sofistico, se la sanità e la casa senza materia non fossero identiche di numero colla sanità e colla casa reale e materiata. E veramente se fossero numericamente diverse, di maniera che ci fossero due forme, la reale e l' ideale (come in cert' altri luoghi sembra che dica Aristotele), s' incapperebbe nel sofisma del terzo uomo , di cui lo stesso Aristotele accusa ingiustamente Platone (2). Poichè se ci sono due specie della casa, devono aver qualche cosa di comune, e però ce n' abbisogna una terza che rappresenti la similitudine loro: e potendosi su questa fare lo stesso ragionamento che sulle due prime, si va all' infinito, nè si troverebbe mai l' ultima specie. Il che s' evita nel sistema di Platone, in cui la specie è una sola, e ne' sensibili c' è soltanto l' imitazione, la quale nella mente di chi conosce s' aduna insieme colla specie, su cui è stata esemplata. Onde la similitudine, che ha il sensibile colla specie, è la specie stessa imitata: di che anche a noi venne detto, che le idee sono la stessa similitudine (3). S' evita il sofisma del terzo uomo anche facendo, che la stessa numerica specie sia nella mente e nelle cose; ma questo sistema, nel quale ricaddero spesso i filosofi, tra i quali il fondatore della scuola tedesca (1), e appresso di noi il Gioberti conduce ad altri e gravissimi inconvenienti. Aristotele ad ogni modo prese questa via non giungendo a discernere la vera distinzione tra la specie , che solo alla mente appartiene, e il reale, come apparisce dal luogo citato, e come è necessario che sia, se deve mantenersi il suo ragionamento. Perocchè questo tende a dimostrare, che la natura ha in sè una virtù d' operare da sè convenevolmente ed ordinatamente, senza bisogno di ricorrere ad una mente che sia fuori di lei (bastando un primo Motore) per questo appunto che ha in sè la specie , come opera appunto l' arte, perchè ha la specie , sebben quella congiunta colla materia, e questa da ogni materia disgiunta. Alla materia dunque congiunta colla specie nell' ente composto, che è la sostanza perfetta, è inerente un principio di moto che tende a passare o a far passare un altro ente da una forma all' altra; quello che move, è il principio motore (natura), ossia la causa efficiente ; quella a cui arriva, è il fine ossia la causa finale . Aristotele dunque prende a spiegare l' operare della natura così. Alcune cose, dice, sono determinate dalla necessità , e la ragione di questa necessità è la materia (2); altre si fanno per un fine e la ragione dell' operare con un fine utile e buono è la forma o specie. Quando poi la natura pecca o se n' hanno effetti insoliti, questi s' attribuiscono al caso . Poichè l' operare secondo la forma può peccare, cioè non ottenere il fine, secondo Aristotele: e come la forma è nella natura ed è nell' arte , così si danno ugualmente peccati di natura e peccati di arte (3). La natura dunque, benchè legata in parte alla necessità che le impone la materia, ha in sè tutto ciò che le bisogna per operare ad un fine, il che Aristotele crede di dimostrare a questo modo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque dato la forma alle cose materiali e sensibili e la medesima anche alla mente, trova Aristotele un problema importante, quello di rendere ragione perchè « « le cose naturali non abbiano intelligenza, e l' abbia l' anima » » (2), e risponde, che nella natura la materia è quella che acceca, per così dire, la forma, e le toglie l' intelligibilità, e di conseguenza al subietto che la possiede, l' intelligenza. Sono da osservare nel passo citato quelle parole: [...OMISSIS...] , poichè in questo sta il nerbo del suo discorso, su cui torna spesso in altri luoghi (3): suppone che le cause remote e prossime nella natura sieno già incatenate da sè, come sarebbero se fossero poste dall' arte . Onde deduce, che non è necessario preporre quest' ultima alla natura (4), e di conseguente non è vero quello che volea Platone, che fossero necessarie le idee, per ispiegare la natura ed il suo operare sapiente, e la sua tendenza a fini migliori. [...OMISSIS...] (1). Ma l' argomento di Aristotele pecca di circolo. Poichè si riduce a questo: « le forze della natura sono connesse e concatenate per modo che conducono un ente da uno stato o da una natura all' altra per una serie di azioni ed effetti di queste, e quindi di gradi determinati. Questa serie rimane la stessa, tanto se la prima forza riceve l' impulso da una mente, che vedendo tutta quella serie di cause e di effetti dà quell' impulso col fine d' ottenere l' ultimo effetto; quanto se quell' impulso è dato dalla natura stessa, dal caso, da una causa cieca insomma, che non delibera e non conosce il fine: questo fine s' ottiene dunque egualmente e nello stesso modo. Non è dunque necessario ricorrere ad una mente e ad un' arte precedente, perchè le forze e l' ordine loro esistono indipendenti dalla mente e dall' arte che si supponga dare ad esse, con un fine preveduto, l' impulso ». Dico che quest' argomento pecca di circolo, perchè considera l' arte o la mente unicamente come causa motrice e suppone che la natura esista da sè, così fatta come noi la vediamo, e che quando produce qualche cosa, non abbia bisogno d' altro che di un primo impulso. Ma è appunto questa la questione platonica: « se la mente eterna ossia il bene sia puramente un principio motore , e non anzi sia causa piena della natura stessa, e vero creatore ». S' egli è dunque vero, come sostiene Platone, che l' universo non esistesse, ma Iddio mosso dalla sola sua bontà l' abbia prodotto, egli accingendosi a quest' opera doveva indubitatamente concepire prima, secondo le regole d' un' assoluta sapienza, l' opera a cui volea por mano, e questo è l' Esemplare eterno composto tutto d' idee, conforme al quale ogni cosa fu fatta e si fa di continuo. In tale supposizione adunque le idee esemplari sono tutt' altro che « vaniloquii e poetiche metafore »: sono anzi sì alte cose a cui il volo d' Aristotele non pervenne. Ma di questo meglio in appresso. Ora veniamo al secondo aspetto in cui dicemmo (1) considerate da Aristotele le sue quattro o sei cause, cioè nel loro ordine, dalla più prossima all' effetto all' ultima più remota, ed è su questo che ci dobbiamo estendere. Tutte queste cause, come vedemmo, si riducono finalmente alle due elementari, materia e specie , perchè la causa motrice è inerente nel composto alla materia e alla specie, e dicesi natura , alla specie separata dalla materia, e dicesi arte . La privazione (2) poi nella natura e nell' arte dicesi caso e fortuna . Essendo dunque tutto per Aristotele materia e forma (subietto e predicato nell' ordine dialettico), quello che si dice dell' ultima materia e dell' ultima specie, vale anche per le ultime delle altre cause. Dice dunque che sussiste in natura il composto di materia e di specie , e che l' ultima materia, come l' ultima forma [...OMISSIS...] non sono prodotte (3). Dagli argomenti che adopera Aristotele a provare questa proposizione si potrà rilevare meglio che cosa intenda per materia ultima ed estrema. Egli argomenta dall' osservazione di ciò che nasce nei cangiamenti naturali: poichè il pensiero del nostro filosofo è così legato alla natura sensibile, che non può concepire un operare diverso da quello che cade sotto la sua esperienza, onde il suo ragionamento ha sempre come supposto il pregiudizio che « le leggi dell' operare naturale siano universali e assolutamente ontologiche ». Osserva dunque, che ogni cangiamento suppone tre cose: 1 il subietto del cangiamento, la materia [...OMISSIS...] ; 2 la causa movente [...OMISSIS...] ; 3 il fine o specie a cui tende il moto [...OMISSIS...] . Da questo deduce che il cangiamento suppone sempre il composto di materia e di forma, e che è sempre il composto quello che si cangia in un altro composto. Poichè se ciò che si cangia o diviene, non fosse il composto, ma ciascuno de' suoi elementi, cioè la materia a parte e la forma a parte, s' andrebbe all' infinito, poichè nella materia, o nella forma si dovrebbero di nuovo trovare quei tre elementi e condizioni necessarie del cangiamento, cioè si dovrebbe di nuovo distinguere in ciascuna di esse: 1 una materia subietto; 2 una forma termine del moto; 3 una causa movente; e in ciascuno di questi ugualmente. Convien dunque fermarsi a quella materia e a quella forma che costituisce da prima il composto, e in quest' unione soltanto rinvenire il cangiamento. Si produce, dunque, per esempio « la sfera di bronzo », ma non si produce a parte il bronzo, la materia, e a parte la sfera, la forma (1). Così avviene in fatti in tutti i cangiamenti e le produzioni della natura; e certo nella natura non si produce mai la forma in separato dalla materia, nè la materia in separato dalla forma: questo lo sapeva anche Platone, nè è prova d' ingegno maggiore averlo osservato. Laonde la conclusione che ne vuole cavare Aristotele contro le idee di Platone, non coglie punto questa sublime dottrina: [...OMISSIS...] . Vuole insomma Aristotele che tanto la causa efficiente , quanto la causa della cognizione delle cose reali sieno nelle stesse cose reali, perchè dice, se ci fossero specie fuori delle cose reali, queste nè potrebbero produrre o informare le cose reali, nè potrebbero farle conoscere (3), perchè sarebbero da esse dissociate, e cosa al tutto diversa da esse. Quindi spiega la produzione collocando un principio produttivo nelle cose reali, che produce non la materia sola, o la forma sola, ma altre cose reali composte di materia e di forma, e lo chiama natura , e spiega la cognizione delle cose collocando del pari in queste un principio conoscibile , cioè la forma, conoscibile cioè tostochè sia ricevuto in un' anima che sia atta a riceverlo scevro dalla materia. Dove osserveremo, di passaggio, aversi qui una nuova prova, che Aristotele ragiona come se la forma , che è nelle cose sensibili, fosse la stessa identica di numero con quella che, ricevuta nella mente, dicesi idea (a differenza di Platone che, ne' sensibili, non riconosce che un' effigie dell' idea) reputando che se fosse diversa e fuori di esse, non potrebbe far conoscere le cose stesse sensibili (4). In questa conclusione dunque e in tutta questa dottrina ontologica giace sempre nel fondo lo stesso vizio di circolo. Si suppone cioè quello che si vuol provare, che il mondo sia eterno, un' eterna successione di generazioni e corruzioni. Questo è quello che si deve provare. In quella vece, Aristotele lo suppone. Supposto questo, è chiaro che la maniera colla quale gli enti reali si cangiano e trasformano è l' unica maniera di produzione che ci sia nell' universalità delle cose. Se questa è l' unica maniera, dunque la forma e la materia stanno sempre unite, e così unite e formanti le sostanze composte, si vanno insieme permutando. Non è dunque più possibile che la forma o la specie abbia preesistito alla materia, e sia concorsa alla produzione del mondo. Non ci sono dunque le idee separate di Platone. Il mondo dunque è eterno e non creato da Dio, come vuole Platone: dunque di separato dalla natura non ci può essere una causa efficiente , ma solo una causa motrice che eternamente il mova. Legato dunque ai sensi e all' esperienza materiale, Aristotele suppose gratuitamente che stesse tutto qui, e che bastasse osservare come son fatti gli enti specialmente sensibili e materiali, per foggiare su di essi e sul loro operare una perfetta ontologia : le leggi dell' ente reale e finito divennero dunque nel pensiero di Aristotele, con un salto immenso, leggi dell' essere in tutta la sua estensione. Ma Platone non gli accorda il supposto, e così il sistema Aristotelico rimane senza alcuna solida base. Prima però di notarne più particolarmente i difetti, conviene che ne ultimiamo l' esposizione, accompagnandolo degli argomenti, dei quali Aristotele lo munisce e fiancheggia. Aristotele osserva, che « « tutto ciò che si produce, si produce di qualche cosa e da qualche cosa, ed è di specie il medesimo » » col producente (1): dal che deduce che il composto di materia e di forma produce altri composti della stessa specie, come l' uomo genera l' uomo. Deduce ancora che quella specie, che non si trova per anco in ciò che è in via di prodursi, deve preesistere nel producente (1). In questa sfera di cose naturali Aristotele non riconosce che una perpetua trasmutazione d' un composto in un altro della stessa specie, senza che mai sia possibile rinvenire l' origine del composto stesso, l' origine dico della materia, o l' origine della forma separata dalla materia. Questa specie è inseparabile dalla materia che informa, ma si separa di ragione, [...OMISSIS...] ; e però esiste nella mente pura da materia. Questo gli fa la via a riconoscere e spiegare un altro genere di produzioni, quelle dell' arte , a cui riduce quelle che vengono da una potenza d' operare e dal pensiero, [...OMISSIS...] . Chiama geniture , [...OMISSIS...] , le produzioni naturali, l' altre fatture, [...OMISSIS...] . Le produzioni dell' arte, dice, sono quelle « « di cui la specie è nell' anima » ». [...OMISSIS...] (5). L' anima che vuol produrre un effetto, per esempio la salute, trascorre col pensiero la serie dei mezzi fino che arriva ad uno, che è in suo potere di produrre, per esempio la frizione per produrre il calore. Allora colla sua potenza d' operare produce questo mezzo, il quale per una serie di effetti produce quello che cercava, la sanità, fine che era presente all' anima sin da principio. Il movimento dunque dell' anima, che dalla prima specie perviene a trovare l' ultima, la specie cioè di quel mezzo che è in suo potere di produrre, dicesi, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e risponde a ciò che prima aveva detto [...OMISSIS...] : l' operazione poi che comincia da quest' ultima specie, producendo effettivamente il detto mezzo, dicesi [...OMISSIS...] , e corrisponde a quello che prima aveva detto [...OMISSIS...] (6). Da questo deduce che quantunque la sanità che vuol produrre coll' arte, sia nell' anima, sia cioè la stessa specie finale dell' anima (1), tuttavia essa sola non è la causa efficiente della sanità; produce solo il movimento del pensiero, [...OMISSIS...] , trova la specie ultima a cui si rattacca l' azione, per esempio la frizione; allora eseguendosi questa, comincia la vera produzione della sanità, [...OMISSIS...] . Ora se questa causa, cioè la frizione, fosse posta anche dalla natura o dal caso, s' avrebbe ugualmente la sanità, benchè non ci fosse la specie pura nella mente. Di più, quando trovata dalla mente l' ultima specie, la frizione nell' esempio addotto, questa si produce e con questa la sanità, non si produce la sola specie, ma la specie nella materia, cioè nell' uomo: la specie dunque non si genera sola, ma si genera il composto di specie e di materia. L' arte sola dunque nulla produce, ma abbisogna di materia. Ma basta forse la materia, per modo che a questa sovrapponga la specie, senza che quella non l' abbia in nessun modo? No, perchè se la frizione nel corpo umano produce il calore, e questo la specie della sanità, convien dire che questa specie era già in potenza nella materia, nè la materia era svestita al tutto di specie, ma n' avea una; e quel composto, prodotto il primo moto, la frizione, si trasmutava, per diverse trasformazioni, in modo da acquistar l' ultima, cioè la sanità. Dunque le specie non si producono sole; nè separate dalla materia, quali sono nella mente, sono cause efficienti delle cose di cui il mondo sensibile risulta (2). Stabilisce dunque Aristotele questa dottrina: « ciò che si trasmuta è sempre il composto de' due elementi, la materia e la specie ». Ma il primo movimento di questa trasmutazione può venire da tre principŒ; cioè o dal composto stesso, o dall' uno, o dall' altro de' due suoi elementi. Se il primo movimento viene dal composto, si hanno le produzioni della natura; se viene dall' elemento della specie sola, si hanno le produzioni dell' arte; se viene dall' elemento della materia, si hanno le produzioni del caso (1). [...OMISSIS...] . Tale è il sistema aristotelico. Ma di quante difficoltà non è egli circondato? - Molte n' abbiamo indicate: affrettiamoci ad esporre quelle che ci restano, e a rinforzare di nuovi ragionamenti quelle che sono già state sottoposte alla meditazione del lettore.

Aristotele esposto ed esaminato vol. II

629797
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Se questo severo giudizio debba ricadere tutto intiero sopra il precettore del Peripato, o una gran parte ne sia dovuta all' imperfezione de' documenti, da cui noi siamo obbligati d' attingere la sua dottrina, o quella che per sua ci è presentata, questo è impossibile a dirsi, ed inutile alla filosofia. A questa, i cui studŒ ed amori sono tutti collocati nella verità, importa solo, che si separi con diligenza nelle opinioni il vero dal falso, acciocchè l' autorità degli antichi non ci trattenga più indebitamente dal libero uso del pensiero filosofico, e dall' acquisto d' una scienza sempre più purgata e matura. Ricominciamo dunque a cimentare la dottrina del nostro filosofo esposta ne' libri precedenti. Il fondamento d' una teoria ontologica o metafisica, è il principio della ragione sufficiente. Poichè l' esposizione dei fatti della natura, di cui non si può assegnare alcuna ragione, sarà una storia naturale o una fisica, ma in nessun modo una teoria metafisica. Ma Aristotele, sia che disperi di rinvenire questa ragione e quindi con sobrietà e modestia filosofica s' astenga dall' indagarla, sia che non abbia appieno intesa la suprema necessità, che c' è in ontologia di dare o di cercare almeno quella ragione che basti alla spiegazione de' fenomeni mondiali, lascia i più notevoli fatti senza indicare nè cercare il loro perchè. Così qui vi dice, che la materia di cui constano certi enti si move da sè, la materia di cui constano altri non si move da sè, ma deve essere mossa dall' arte. Ma perchè questa differenza tra le materie di cui constano diversi enti della natura? Questo perchè manca affatto nella teoria Aristotelica; e non solo manca come una cosa non ancora trovata, ma come una cosa che non può trovarsi, perchè si suppone che affatto non ci sia. Così al caso , nel più stretto senso, Aristotele, checchè dica, è obbligato a far fare la sua parte negli avvenimenti mondiali. Ma quando si dice in questo senso il caso, si dice una non causa , una non ragione. E che cosa è una non causa, una non ragione, se non una mancanza di filosofia? Rimane infatti necessariamente questa gran lacuna in un sistema, che suppone la materia e il mondo eterno: è lo stesso che ammetterlo senza ragione e senza causa. Perchè la materia è piuttosto tanta che tanta? Perchè veste piuttosto queste che quelle forme? Perchè le veste con quest' ordine di prima e poi? Perchè è distribuita così nello spazio? Perchè ha quelle forze piuttosto che quest' altre? A tutte queste domande Aristotele necessariamente ammutolisce; non gli resta che a dire: « E` così ». Lo dica pure; ma chi l' autorizza poi a dire che fu sempre così? Qui l' abbandona l' esperienza; e senza questa gli rimane l' ipotesi; ma l' ipotesi, con cui egli travalica l' esperienza, è assurda, perchè è la negazione d' ogni ragione. Non s' è dunque sollevato nè ha punto inteso il bisogno di sollevarsi all' altezza della questione posta da Platone: qual è la prima ragione che spieghi l' esistenza e l' ordine dell' universo? Solo rispondendo come fa Platone: una mente eterna, ottima, creatrice, l' enigma del mondo riceve la sua spiegazione: e tutto ciò che è, ed il modo in cui è, e ciò che avviene, ricupera l' ultima sua ragione, da cui dipende, come un frutto da una pianta, la sua possibilità. L' arte, dice Aristotele, non può far nulla senza una materia. - Chi ve l' ha detto? - L' esperienza dell' arte umana . - Ve l' accordiamo intieramente se parlate dell' arte umana. Ma il discorso di Platone non risguardava nè l' operare dell' arte umana, nè quello della natura. Egli saliva più sù e dimostrava che è necessario pervenire ad un Ente assoluto, diverso dal mondo che non ha in se stesso nessuna ragione d' esistere; non condizionato, quest' Ente assoluto alle leggi del mondo, e perciò operante in modo affatto diverso da quello che vediamo farsi dalla natura e dall' arte umana; poichè solo supponendo codesto Ente, si possono spiegare quelle cose che non dipendono da questi agenti finiti, e la stessa esistenza, la stessa costituzione di questi stessi agenti. Platone dunque lascia valere tutti gli agenti d' Aristotele, la natura e l' arte umana: accorda ad Aristotele, che tali sono appunto le leggi e le condizioni di questi agenti quali Aristotele li descrive; ma dopo di ciò domanda, perchè sono tali? E la ragione la trova in Dio; laddove Aristotele a questo ammutolisce. Aristotele, a ragion d' esempio, vi dice: vi è questa materia; la materia non è una se non per analogia, ma le materie sono diverse secondo le specie degli enti; questa materia è suscettiva di tali specie, perchè le ha in potenza nel proprio seno, quest' altra no, ma è in potenza ad altre: questa materia ha un moto suo proprio, e quest' altra non l' ha, ma dee esser mossa dall' arte; questa ha un dato moto, ma non un altro: perciò fa alcune cose a caso, ma non può farne cert' altre, senza che l' arte la mova. Ma perchè tutto ciò? Che necessità? Non potrebbe esser altrimenti? Non potrebbe non esistere affatto questa materia? E che cosa la determina a ricevere queste piuttosto che quest' altre forme, ad aver in sè questa piuttosto che quest' altra virtù? Voi non trovate in essa nessuna ragione di ciò: il pensiero pensa l' una cosa e l' altra senza ripugnanza. Il sistema Aristotelico dunque è in aria, manca di ragion sufficiente, non spiega punto l' esistenza del mondo e le cose che in esso avvengono. Oltre di ciò, Aristotele è ingiusto con Platone quando pretende di confutare la sua sentenza che « le forme sieno le prime cause delle cose », sofisticamente interpretandola. Aristotele si stende a provarvi una cosa che Platone non avrebbe mai contraddetto, cioè che non c' è una generazione delle forme separate dalla materia; ma che il composto tutt' intero, materia e forma, si muta nello stesso tempo. Il dire, che si muta anche la materia , è un errore contraddetto da Aristotele stesso, e quest' errore nasce dalla confusione che fa sempre Aristotele tra la materia prima , che è una pura astrazione e che è svestita d' ogni forma, la quale, ne' corpi, deve esser una; e le materie seconde , a cui Aristotele, come vedemmo, lascia certe forme, dalle quali solo può nascere una varietà di materie, varie specie di materia. Di poi, si cangi pure il composto, ma la questione non istà sul cangiamento, ma sulla prima causa, per la quale un ente, dopo ultimato il cangiamento, è quello che è. Ora Aristotele stesso concede che questa prima causa è la forma: è dunque d' accordo con Platone. Altro è dunque cercare perchè un ente è quello che è: altro è cercare, perchè un ente si cangia e diventa un altro. Platone insiste sul primo perchè, Aristotele sul secondo: le due questioni sono diversissime. Platone credette che al filosofo spettasse: 1 trovare la dottrina della prima causa da cui procede la natura e l' uomo con tutte le sue leggi e forze; 2 trovare la dottrina di tutto ciò che c' è di divino, cioè di partecipato dalla prima causa nella natura e nell' uomo. Quanto poi alla questione del modo d' operare delle cause seconde, l' abbandonò al fisico, e non la reputò argomento proprio del filosofo. Aristotele s' impossessò di quest' ultima questione, e la volle elevare al primo seggio, esagerando l' importanza delle cause seconde, come se non ce ne fossero altre, come se fossero esse stesse le cause prime. Gli s' affacciò soltanto la difficoltà in un modo parziale, quando s' accinse a spiegare il movimento: allora vide che la natura intera non conteneva il principio del moto e ricorse ad un primo motore fuori della natura. Noi esporremo tantosto questa parte, la più elevata di tutte nella dottrina aristotelica. Ma prima vogliamo osservare quanto sia labile la mente umana anche negli ingegni più acuti. Nessun altro filosofo, meglio d' Aristotele, ha forse dimostrato l' assurdità del ricorso delle cause all' infinito, e della necessità d' arrestarsi ad una prima (1): questi vide pure che niun numero può essere infinito se non in potenza. Or bene a malgrado di questi principŒ veduti da Aristotele e dimostrati, che fa egli ponendo il mondo eterno e in continue vicissitudini? Egli stabilisce che le cose mondiali abbiano percorso un numero attualmente infinito di cangiamenti; ed essendo un cangiamento causa dell' altro per la continuità del moto, egli stabilisce col suo sistema, che ci sia stato nel mondo un vero ricorso di cause all' infinito. Inserisce dunque nel suo sistema due sentenze, che secondo gli stessi principŒ elementari ed evidenti da lui stabiliti, sono patentemente assurde. Ma è degno che, di più, s' osservi come lo stesso Aristotele che riconosce assurda una catena di cause infinita, da una parte applichi questo principio con esagerazione, e nello stesso tempo da un' altra lo dimentichi. L' esagerazione è questa. Tutti i quattro generi di cause debbono essere eterni, secondo Aristotele (1); deve, di conseguenza, essere eterna una causa materiale, una formale, una motrice, una finale: poichè, secondo il ragionare di questo filosofo, se d' una materia, a ragion d' esempio, ne venisse un' altra, e di questa un' altra, e così all' infinito, ricadremmo nel detto assurdo: dunque ci deve essere una materia prima eterna: la qual materia prima avrebbe bensì le forme più imperfette, secondo Aristotele, ma non ne sarebbe mai del tutto priva. Anzi ci sarebbero diverse materie prime, secondo lui, aventi ciascuna diverse altre specie in potenza. L' argomento avrebbe forza per verità; ma ad una condizione, a condizione che sia vero ciò che si vuol dimostrare. Pecca dunque di circolo, perchè quell' argomento prova unicamente che la materia è eterna, se non è stata creata, cioè se il suo principio non si debba ripetere da una prima causa immateriale. Non dimostrando Aristotele punto che questo sia impossibile, le trasmutazioni della materia, altro non provano se non che queste trasmutazioni hanno cominciato con una materia, ma non che questa materia con cui hanno cominciato non sia stata creata con un' azione, che è tutt' altro che una trasmutazione, con un' azione la cui natura non ha niente di simile alle azioni della natura, benchè verissima e necessarissima. Ma, come dicevamo, da un' altra parte poi Aristotele, posta l' eternità di quelle cause, dimentica il principio « dell' assurdità che c' è in una serie di cause e d' effetti infinita », quando non vede niente d' impossibile che la serie degli atti operati da quelle cause sia veramente eterna. Le cause in potenza e le specie delle cause non possono essere infinite; gli atti di ciascuna di queste cause non possono essere infiniti. Ma l' assurdità c' è tanto in questa seconda supposizione, quanto nella prima; e però il sistema è incoerente. Abbiamo detto, che Aristotele lascia il mondo e la quantità, la qualità, la disposizione delle cose di cui consta il mondo, senza ragione sufficiente, e però la sua dottrina non è veramente una teoria ontologica o cosmologica. Dobbiamo ora dire come parzialmente e da un solo lato si presenti alla sua mente il bisogno di ricercare una causa sufficiente fuori della natura. Egli s' accorge di questo bisogno dalla considerazione che non tutte le cose, com' egli stima, avvengono per necessità, ma alcune per caso, o, com' anco dice, per accidente. Ecco come definisce quest' accidente fisico, come noi lo chiamiamo (1): [...OMISSIS...] . Ma se è accidentale l' evento, argomenta Aristotele, dunque anche accidentale la causa (1). Ma qual sarà questa causa accidentale? Avea altrove insegnato, che la causa delle cose che avvengono per caso, è la materia che si move talora da se stessa, sottraendosi alla legge della forma. [...OMISSIS...] Ora s' accorge in qualche modo Aristotele, che questo non basta, e che bisogna trovare una ragione , perchè certe volte accada questo alla materia. Continua dunque a proporre la questione che riceve questa forma: [...OMISSIS...] (3). Egli vede che di queste stesse cause accidentali non può esservi una serie infinita. Poichè dice: Si farà questa cosa o no? - Si farà, se si avvererà questa condizione. - Ma questa condizione si avvererà ella? - Si avvererà, se avrà luogo quest' altra condizione. E così converrà fermarsi in un' ultima condizione. [...OMISSIS...] Dopo aver dunque Aristotele confessato, che ci sono eventi accidentali, che questi essendo incerti non possono essere oggetto di nessuna scienza e di nessuna arte (1), che nè manco possono essere spiegati colle leggi della generazione e della corruzione, le quali procedono per necessità e con leggi stabilite e determinate (2); dopo aver detto altresì che la causa di questo operare per accidente deve ridursi ad un principio ultimo, non riducibile più in un altro, chè altramente non sarebbe ultimo: lascia in dubbio, e dice esser cosa da ricercarsi, se questo principio la cui produzione non ha causa, si riduca ad uno dei tre generi di cause, la materiale, la finale, o la motrice; senza tener più conto di ciò che aveva detto prima, la causa dell' accidentale essere nella materia. Sebbene dunque lasci qui il discorso, e sembri che ponga l' ultima, quale causa dell' accidentale, ciò che sarebbe appunto il caso; tuttavia altre confessioni preziose si possono raccogliere intorno a questa prima causa dell' accidentale da questo stesso libro dei « Metafisici ». In realtà Aristotele riconosce una grande analogia o somiglianza tra la prima, causa dell' accidentale, e la mente che compone e divide, producendo così il vero o il falso. Dell' accidente dice, che la causa è indeterminata ; della mente poi dice che « « essendo la composizione e la divisione nella mente, non nelle cose, ciò per fermo che è così, è ente diverso dagli enti propriamente detti. Si tratta appunto o della quiddità, o della qualità, o della quantità o se altro c' è che compone o divide il pensiero »(3) »; onde anche il vero e il falso che definisce « « una passione del pensiero »(4) », è indeterminato e non ristretto a un solo dei generi categorici degli enti. Conchiude dunque che « « amendue » » (l' accidentale e il vero ) « « sono fuori del restante genere dell' ente, e non dimostrano una certa natura di enti fuori esistente »(5) ». Questa è un' osservazione acuta, che avrebbe potuto condurre Aristotele alla scoperta del vero. Poichè riconoscendo egli che il vero ed il falso che risiede nella mente non può allogarsi in alcuna delle categorie, e che la causa dell' accidentale è del pari indeterminata; facilmente avrebbe potuto proporsi questa questione: « non potrebbe forse essere questa causa una mente suprema, libera, e perciò appunto tale che le sue operazioni non sono determinate da alcuna necessità? ». Alla quale questione si trovava prossimo tanto più col pensiero, che sul principio dello stesso libro avea riconosciuto dover esserci una sostanza superiore a quelle che sono costituite da natura, e questa non appartenere a nessun genere degli enti, ma essere universale, e la scienza di questa sostanza esser la prima di tutte le scienze, e universale, e trattar dell' ente come ente, e non come un genere (1), e di più avea parlato dell' eligibile [...OMISSIS...] come principio delle scienze ed arti pratiche: poichè la facoltà d' eleggere è indeterminata, non è causa necessaria, onde si può manifestamente dir causa dell' accidentale . Che più, se egli stesso in alcun luogo esce in questa sentenza: [...OMISSIS...] . Sebbene dunque Aristotele non si sollevasse a ricercare la causa della natura e della generazione, nè dell' esistenza della materia, s' accorse però, che, anche ammessa e la natura e la materia, siccome eterna, rimaneva qualche cosa ancora, che con tutte le cause naturali non si poteva spiegare, e quest' era l' evento accidentale, e per questo filo la sua mente fu obbligata ad uscire dell' ambito della natura, a cui pur era così tenacemente appiccicata. Ma non potè attribuire alla libera volontà di Dio tali eventi accidentali, perchè egli avea chiuso Dio in lui stesso, e privato d' ogni efficienza nella natura, altro non lasciandogli che d' essere l' oggetto del desiderio e della contemplazione. A questo nondimeno si rattaccò nella sua mente la questione del moto. Egli vide che nella natura, oltre la materia , la forma e la privazione , oltre il composto di materia e di forma, oltre la virtù insita in questo composto, la natura , causa della generazione e della corruzione, c' era qualche cos' altro, cioè una causa motrice , che influiva per qualche modo in un ente naturale, benchè esistente fuori di esso; e anzi che più cause motrici potevano concorrere a dare il movimento a una materia che si naturava. Così rispetto all' uomo egli annovera tre cause motrici ed esterne (oltre la suprema), cioè il genitore , il sole e lo zodiaco (1), e queste due ultime non della stessa specie «ute homoeideis:» chè le sole cause puramente motrici possono, secondo lui, non essere unispecie coll' effetto. Ora partendo dalla sua ipotesi (e non è mai altro che una ipotesi, niuna vera dimostrazione arrecandone) che il movimento degli astri sia eterno ed eterne di conseguente le vicende della natura, da quest' ipotesi, ossia da quest' errore trae con molto ingegno una gran verità: la necessità cioè d' un eterno motore: ben accorgendosi che non si può ammettere un movimento , che è un cangiamento continuo, senza una causa. Poichè, quantunque Aristotele si contenti di lasciare senza ragione sufficiente l' esistenza delle cose finite, gli ripugna troppo a lasciare senza causa il moto; e quantunque sembri talora che abbandoni al caso alcuni avvenimenti che si tolgono dal consueto operare della natura, il che non è altro che lasciarli senza causa, tuttavia non sostiene che gli stessi avvenimenti ordinari della natura rimangano senza cagione, come rimarrebbero, qualora non si ricorresse a una prima causa estranaturale del movimento; e gli astri, e tutte le trasmutazioni dell' universo senza quella prima Causa si fermerebbero (2). Spaventato dunque, per così dire, dal pericolo di arrestare il mondo e ogni generazione dal suo corso eternale, si diede alla ricerca della prima cagione del moto. Afferrato questo capo, egli ragiona egregiamente sulla natura di questo principio eterno in questa maniera: Il moto nell' universo ed il tempo è continuo ed eterno (1): dunque è necessario che ci sia un motore continuo ed eterno: perchè l' effetto non può essere maggiore della sua causa. Questo primo motore deve essere una sostanza, chè la sostanza è la prima delle cose, l' altre tutte riferendosi alla sostanza e supponendola prima di sè (2). La qual sostanza deve essere anche continuamente in atto, anzi la sua natura deve essere puro atto: perocchè se potesse essere in potenza cesserebbe, almeno qualche volta, d' agire (3), e se una volta cessasse, come riprenderebbe poi la sua azione? Se ella poi è puro atto, è altresì priva di materia, ed è pura specie , per la definizione stessa della materia e della specie, intendendosi per materia ciò che è in potenza, per forma ciò che è in atto (4). E qui riconosce ancora che, qualunque sia il movimento di cui la materia sia suscettiva, ella non può mai dare da sè a sè stessa questo movimento, ma conviene che lo riceva o dalla specie pura, che è nella mente dell' artefice, o dalla specie che è congiunta alla materia e che vi produce quel principio attivo che si chiama natura (5). Essendoci dunque una prima sostanza immateriale fuori della natura, prima causa motrice, e dovendo essere sempre in atto, conviene che ella mova restando immobile (6). Ma che cosa c' è che rimanendo immobile mova altre cose? Risponde Aristotele, seguendo in questo certamente Platone: [...OMISSIS...] . Ora Aristotele distingue il bello apparente [...OMISSIS...] , ed è ciò che si appetisce col senso [...OMISSIS...] , dal vero bene , ed è ciò che si appetisce e si desidera prima di tutto dalla volontà, il primo voluto [...OMISSIS...] . Ma il primo Motore è assolutamente bello e in esso tende prima di tutto la volontà. Il primo appetibile dunque e il primo intelligibile sono la cosa stessa [...OMISSIS...] , sono l' assoluto bello [...OMISSIS...] . Ora qui Aristotele ottimamente dimostra come questo primo intelligibile formi la mente e questa a lui si leghi e con esso diventi, in un certo modo, una cosa. Ma conviene recare le sue stesse parole. Dopo aver detto dunque che l' intelligibile primo è il primo desiderabile, perchè assolutamente bello, continua così: [...OMISSIS...] . Dice dunque che l' intelligibile fa una serie di cose per sè, e la prima delle cose intelligibili è la sostanza, poichè l' altre cose si rattaccano a questa, e tra le sostanze la prima è di necessità quella che è semplicemente, e tutta in atto, poichè quello che ha una qualche potenza non è ancora semplicemente, ma è sotto un rispetto particolare. Ora l' intelligibile move la mente, e da questa mozione viene l' intellezione. C' è dunque prima di tutto l' intelligibile «noeton» (questo precede tutte l' altre cose ma solo di concetto), di poi la mente, «nus», di poi l' intellezione, «he noesis;» ma questa appunto perciò è l' ultimo atto, e perciò il principio come dice. E se la intellezione è l' atto, perciò è la sostanza prima, cioè il primo intelligibile. L' intellezione per sè dunque è il primo intelligibile per sè, onde la prima ed eterna sostanza « « è intellezione d' un intelligibile che è la stessa intellezione » » [...OMISSIS...] Nella sostanza prima dunque e tutta atto, conviene che queste cose si trovino unite e coesistenti, di modo che sia ad un tempo intelligibile, mente ed intellezione , ossia che la mente e l' intelligibile sia l' intellezione stessa. Questo si fa a spiegare il nostro filosofo considerando la natura della mente in universale colle seguenti parole: [...OMISSIS...] . Il puro atto adunque è riposto da Aristotele nell' intellezione che è ad un tempo e mente in atto ed intelligibile in atto, e queste due cose si distinguono dall' intellezione solo perchè la mente e l' intelligibile può essere in potenza, come è negli enti inferiori, ma l' intellezione e la contemplazione che è atto, non può mai essere potenza, chè sarebbe il contrario della propria natura. Laonde noi che abbiamo della potenza, non sempre contempliamo; ma Iddio, che è puro atto, sempre attualmente intende e contempla e però vive in eterno. [...OMISSIS...] In questa certo nobilissima dottrina è difficile ad intendere come Iddio sia pura intellezione per sè senz' altro. In primo luogo se si dà a quest' intellezione un oggetto diverso dall' intellezione stessa, già non è più intellezione pura. Aristotele, che vede la difficoltà, dice che l' intellezione prima e pura è oggetto di sè stesso, onde la definisce: intellezione d' intellezione, [...OMISSIS...] . E quest' è forse l' ultima parola che potea dire la filosofia, ma insieme quella in cui la filosofia stessa veniva meno. Poichè in quella parola compariscono non una sola intellezione, ma due; 1 l' intellezione come atto; 2 l' intellezione come oggetto: c' è dunque pluralità, e non più unità. Di poi, se l' oggetto è la intellezione stessa, questa intellezione oggetto deve avere tutto ciò che si richiede acciocchè sia intellezione. Ma l' intellezione per essere tale deve pure avere un oggetto. Dunque anche l' intellezione oggetto deve avere un oggetto; e così si va all' infinito. La speculazione filosofica dunque delle genti, all' ultimo, al più sublime e al più necessario suo passo venne meno, cadendo non tanto in un mistero, quanto in una contraddizione. Noi, illuminati da più che umana sapienza, discioglieremo il nodo nella Teologia, mostrando che ciò che cercava l' antica Filosofia senza raggiungerne il concetto era l' ente sussistente infinito per sè inteso (2), cioè il Verbo, dove non cessando ogni mistero, cessa però ogni contraddizione. Di poi, se l' intellezione pura altro non intende che se stessa, ed essa non è che intellezione pura, come conosce Iddio l' altre cose? A questa difficoltà si smarrisce di nuovo e cade Aristotele. Se questo filosofo avesse potuto concepire un Dio creatore, sarebbe altresì giunto a sciogliere la difficoltà che si presentava al suo spirito e che consisteva nella conciliazione di queste due proposizioni egualmente dimostrabili: 1 Iddio intende solo sè stesso; 2 Iddio intende tutte le altre cose. Poichè, solamente ammessa la creazione, si concepisce che le cose finite abbiano un modo d' esistere eminente e obiettivo in Dio, e che Iddio possa conoscerle compiutamente in sè, conoscendo solo sè stesso. Ma avendo dato Aristotele un' esistenza eterna alle cose mondiali indipendente, in quanto all' essere, da Dio, e dipendente solo come da causa finale e bene appetibile, concependo Aristotele Iddio sotto l' unico concetto di primo motore immobile, non c' era più verso di pensare che le cose mondiali fossero comprese in Dio, e da Dio nella loro natura propria conosciute. La conciliazione dunque di quelle due proposizioni nel sistema d' Aristotele diveniva impossibile, e quindi egli fu spinto a rigettarne una: mantenendo la prima sacrificò l' onniscienza divina . Ed ecco come egli ragionò: [...OMISSIS...] (1). Vedendo dunque Aristotele che l' inteso doveva immedesimarsi coll' intelligente e coll' intellezione, e non conoscendo quel modo oggettivo nel quale le cose mondiali esistono in Dio, ma solo l' essere di queste cose subiettivo, pensò, come sembra, che se la sostanza suprema ed ottima conoscesse le cose più vili si immedesimerebbe colle cose più vili, e così non vide altra via se non stabilire che l' oggetto della sostanza ottima debba esser l' ottimo, e null' altro che l' ottimo. Ora tra tutte le cose trovò che la migliore è la mente, ma questa non in potenza, ma tutta e pienamente in atto, perciò purissima intellezione. L' intellezione purissima dunque doveva essere l' oggetto ottimo di sè stessa: e dall' ottima sostanza così formata venne da Aristotele escluso il conoscimento delle cose inferiori, perche, disse, d' alcune cose è indegno pensare; [...OMISSIS...] , e alcune cose è meglio non vedere, che vedere, [...OMISSIS...] (2). Avendo dunque tolto a Dio la cognizione delle cose mondiali, gli tolse del pari la provvidenza di esse: era coerente: se le cose non sono create da Dio, nè pure conosciute; se non conosciute, nè pure governate: la gran differenza dunque tra Aristotele e Platone si riduce a questo, che l' uno concepisce la necessità d' un primo Creatore, e l' altro solo quella d' un primo Motore (3). Come poi a malgrado di questo in altri luoghi descriva Iddio come quello che contiene il mondo, noi dichiareremo altrove: vedremo cioè che questa contenenza è simile a quella, secondo la quale si potrebbe dire che un circolo contenga tutti i poligoni possibili, perchè è più ampio di qualunque poligono, e non perchè contenga i poligoni nella natura propria di ciascuno di essi. E` oltracciò da considerare che Aristotele parla dell' intellezione in sè stessa considerata, come d' unica cosa, come d' una prima sostanza realmente singolare (benchè la stessa prima e singolare sostanza egli senz' accorgersi la faccia poi universale), di cui l' uomo partecipa per brevi istanti, non potendo durare nella contemplazione molto tempo, ma essa, l' intellezione, non perdendo mai la sua natura d' intellezione, rimane eterna, infaticabilmente contemplante sè stessa, che è l' ottima di tutte le cose. Quello dunque che dice dell' intellezione divina, dice d' ogni intellezione come avente la stessa natura o piuttosto essendo la medesima, ma qui congiunta a una natura inferiore di sè, cioè all' anima ed al corpo umano. Ed è in questa maniera di concepire del nostro filosofo che si trova il primo anello col quale congiunge fisicamente Iddio alle cose mondiali. Poichè Iddio è l' intellezione pura di sè stessa, immobile, immutabile: quest' intellezione è il bene, la vita (1). L' uomo è un ente che per brevi istanti partecipa di quest' intellezione, e però di Dio. Quest' intellezione costituisce un medesimo coll' inteso. L' inteso è la forma. Le cose del mondo partecipano della forma e della materia. Ma questa forma non è intellezione se non in potenza, fino che è unita alla materia; l' atto intellettivo è impedito dalla materia. Ma quando queste cose materiali agiscano per via de' sensi nell' anima umana, allora quest' anima con una sua facoltà che è la mente, separa quella forma dalla materia. Allora quella forma nell' anima è una cosa coll' intellezione. Questa dottrina risulta da tutto l' insieme de' diversi luoghi paralleli dell' opere d' Aristotele, di cui molti abbiamo già riferiti. Il seguente ne fa la conferma. Dopo dunque che Aristotele ebbe mostrato necessità, che l' intellezione per sè abbia sè stessa per oggetto, e quindi che l' intellezione e l' inteso sieno una stessa cosa, si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . A questa obbiezione risponde dubitativamente come suole, ma esprimendo però il suo costante pensiero, [...OMISSIS...] . E questo poi afferma dicendo che la cosa, cioè la forma che è nelle cose, è ella stessa la scienza, come noi abbiamo mostrato anche di sopra, poichè dice: [...OMISSIS...] . Le quali ultime parole (3) vengono a dire che non c' è intellezione separata dall' inteso nè inteso separato dall' intellezione, ma l' intellezione dell' inteso è una sola entità, che si dice semplicemente intellezione . Dice dunque, che nelle scienze fattive la cosa è l' oggetto inteso privo di materia; nelle speculative la cosa è l' intellezione stessa. Ma poichè anche in quelle c' è intellezione, e anche in queste l' inteso, non c' è in verità che un' intellezione, cioè l' intellezione dell' inteso. Propone poi un altro dubbio, [...OMISSIS...] . Vuol dunque dire che la facoltà di giudicare e di raziocinare, cioè di comporre e di dividere, ha una operazione passeggera, e in questo passaggio non istà il perpetuo ben essere, [...OMISSIS...] , perchè il movimento non è atto compiuto; ma si trova quel ben essere, quando giunta alla fine si riposa nella contemplazione dell' ottimo: questo però non è essa stessa, bensì altro, [...OMISSIS...] . Ma l' intellezione per sè, è l' ottimo ella stessa, e però è intellezione di sè stessa, e quindi non composta, non mutabile, e tale che non può cessar mai. Questa dottrina Aristotelica per la quale il primo movente è il Bene, e questo bene non è altro se non l' Eterna intellezione , che ha per unico oggetto inteso sè stessa, molte difficoltà suggerisce al pensiero. Primieramente , quella che abbiamo accennata, che « una pura intellezione di sè stessa »è cosa assurda, e a questa non soccorre, come dicevamo, il pensiero aristotelico. Di poi l' altra pure toccata, di fare che Iddio non conosca le cose mondiali; a cui pure vien meno il sistema. Ve n' ha una terza a cui il sistema in qualche modo risponde, ed è questa: « se l' eterna e suprema intellezione non ha per oggetto che sè stessa, onde vengono le idee determinate, le forme delle cose mondiali che, separate dalla mente, sono intelligibili? O che cosa riceve il mondo da quell' intellezione eterna, se da essa non gli vengono le forme? ». Rispondere a questa domanda è il medesimo che continuare l' esposizione che stiamo facendo del sistema aristotelico, quale risulta dai libri che abbiamo. Aristotele dunque, considerando astrattamente la natura della perfezione e dell' imperfezione, ripose il concetto della perfezione somma nel puro atto , e dell' imperfezione somma nella pura potenza . Provveduto di questi due concetti, egli concepì una gerarchia tra tutti gli enti per modo che il luogo più basso si tenesse dalla mera potenza , che fu detta anche materia prima , e il luogo più di tutti sublime si tenesse dal puro atto , ossia da Dio e tra l' uno e l' altro estremo gli enti medŒ si distribuissero in una scala di maggiore o minor pregio, secondo che avessero più di atto, e meno di potenza, o viceversa. Ora questo puro atto lo trovò nell' intellezione che non avesse per oggetto altro che sè stessa. E in fatto le cose intelligibili hanno più di atto delle sensibili, e nell' ordine delle intelligibili, ciò che vi ha di più attuale è l' intellezione , e tra le intellezioni quella che non ha bisogno d' altro che di sè stessa per esser tale, e però che non dipende da alcuno oggetto, eccetto sè stessa. Questa dunque è di tutte le cose la più nobile, la più perfetta, il bene per essenza, l' ottimo, l' onorevolissimo, il divinissimo. Questo è il concetto aristotelico dell' entità ottima e perfettissima di tutte, che rimane nondimeno priva d' ogni azione propria fuori di sè medesima, nè può conoscere altro, nè operar altro, tutta essendo la sua natura attuata ed esaurita nell' istesso atto dell' intellezione di sè stessa, onde al Dio d' Aristotele vien meno l' onniscienza, l' onnipotenza, e la provvidenza, come abbiam detto. Un tal ente è necessario, secondo Aristotele, che s' ammetta veramente sussistente, secondo il principio che « « le sostanze singolari sono anteriori alle universali e queste non possono stare senza di quelle »(1) ». E qui si osservi, come in fondo questo argomento aristotelico non differisce dall' argomento a priori proposto da S. Anselmo, e dopo di lui da tant' altri, ridotto dal Leibnizio a questa forma: « « Iddio è possibile; dunque sussiste » (2) ». Infatti a che in fin dei conti si riduce il pensiero Aristotelico sciolto dalle pastoie? A questo: « La sostanza possibile (o universale) non può stare senza la sussistente: ma quella c' è, dunque anche questa ». Un secondo argomento poi con cui Aristotele dimostra la sussistenza di Dio, è quello da noi esposto, cioè la necessità d' un Primo Motore. Questo, più veramente, non è un secondo argomento, ma l' applicazione del primo al movimento locale, uno de' quattro movimenti da lui distinti. Ma nella mente d' Aristotele manca, come già abbiamo osservato, la precisa e costante distinzione tra il vero singolare , che è l' ente reale, e l' universale : e l' infimo tra gli universali è preso da lui per singolare. Quindi molte fallacie di ragionamento, e il distruggere poi quello che aveva prima stabilito. Questo gli accade per non aver penetrata abbastanza la natura dell' essere oggettivo, e aver creduto che ogni oggetto dell' intuizione intellettiva dovesse essere necessariamente un predicato . Distinse dunque la sostanza prima dalla sostanza seconda , e volle che la prima non si predicasse d' alcun altro subietto (1), e che la seconda si predicasse della prima. Così pareva, che avesse distinto chiaramente il singolare reale dall' universale, la sostanza reale dalla sostanza ideale che si predica di quella. Ma questa distinzione gli sfugge di mano per non avere afferrata abbastanza la natura del reale , e non aver inteso che questo solo è quello che costituisce il singolare . Eccone la prova. Nel VII de' « Metafisici » dopo aver detto che la sostanza prima è quella che non si predica d' altro, trova insufficiente questa proprietà, e finisce col conchiudere che « « la sostanza si predica della materia, della sostanza poi tutte l' altre cose » », [...OMISSIS...] . Quella sostanza dunque che prima non si predicava di nulla, ora si predica della materia. Chi non vede qui la confusione del reale e dell' ideale? Poichè o parla d' una sostanza reale , e in tal caso non si predica certamente nè della materia, nè di cosa alcuna: ovvero parla d' una sostanza ideale , e questa d' altro non si predica che della sostanza reale . Come dunque si può dire che la sostanza si predichi della materia? Evidentemente questo non ha luogo se non intendendo, per sostanza , talune forme aventi un nome sostanziale, ma che veramente sono accidentali, come se cogli stessi elementi corporei si componessero due corpi di nome diverso, poniamo il vino e l' aceto; in tal caso le forme indicate da questi nomi si potrebbero predicare della materia, dicendo per esempio: « questo è vino », e: « quest' è aceto », cioè « questa materia è vino » « questa materia è aceto ». Ma in tal modo « il predicarsi la sostanza della materia », vale ugualmente nell' ordine reale e nell' ordine ideale: e in quest' ultimo ordine è sparito affatto il singolare; giacchè la materia dell' aceto concepita come possibile, è anch' essa universale, non allo stesso modo della forma, ma come una possibilità indeterminata a questo piuttosto che a quell' altro pezzo di materia. Ripetiamo che questa mancanza d' una ferma distinzione tra la natura del reale , e la natura dell' ideale o dell' oggettivo accadde ad Aristotele, per aver egli considerate le idee e ogni oggetto intellettivo, unicamente come predicati delle cose (1), e considerati i reali unicamente come subietti, a cui s' attribuiscono que' predicati. Egli non s' accorse dunque: 1 che un ideale si poteva predicare tanto d' un reale, quanto d' un ideale: onde il predicato era sempre ideale, ma il subietto poteva essere tanto ideale, quanto reale; 2 che quindi allora, quando si predica qualche forma accidentale o parziale d' un subietto reale, c' è sempre nascosta una doppia predicazione, l' una, in cui tanto il subietto quanto il predicato sono entità mentali o ideali, l' altra in cui il subietto è reale e il predicato ideale. Così in questa proposizione: « questo era vino e divenne aceto », c' è implicita una predicazione tra un subietto mentale (2) e un predicato ideale, poichè il subietto « questo », non è un reale determinato, non è nè aceto nè vino, e però è un ente mentale, a cui si può attribuire poi indifferentemente la qualità di vino e quella di aceto . Aceto e vino sono due universali che s' attribuiscono ad un ente mentale che è la materia significata colla parola « questo ». C' è di più poi l' affermazione che questa materia esiste realmente prima nella forma di vino e ora in quella di aceto: e il predicarsi « l' esistenza in forma di vino e d' aceto »è lo stesso che predicarsi « l' idea della sostanza determinata », del vino e dell' aceto, cioè della sostanza reale. Ogni subietto dunque ed ogni singolare, secondo Aristotele, ha la sua natura dall' universale, onde dice: « « E` manifesto dalle cose dette che è necessario attribuire al subietto » » (alle prime e singolari sostanze), « « il nome e la ragionedi quelle che si dicono del subietto »(3) », che sono le sostanze seconde e universali. Se dunque le sostanze singolari hanno la loro ragione o quiddità, come pure il nome, dalle sostanze universali e ideali: consegue, come abbiamo osservato già prima, che le sostanze singolari non sarebbero senza le universali, che contengono il loro essere: benchè Aristotele dica il contrario, cioè che le universali non sarebbero senza che ci fossero prima le singolari. Fatto sta che Aristotele parla sempre de' singolari, attribuendo loro i predicati universali, e in questi, oggetto dell' intelletto, ripone costantemente l' essere, [...OMISSIS...] , di quelli. Lo stesso adunque egli fa anche della prima e divina sostanza, e con questo ne guasta necessariamente il concetto. Poichè attribuendo a questo suo Dio una natura comune, distrugge con ciò quello stesso Dio, che aveva prima costituito, e rende il sistema razionale ed astratto. Infatti attribuisce al suo primo motore l' essere atto purissimo, e prima intellezione; in modo che tutta la sua eccellenza consiste e deriva nell' avere questa condizione di puro atto e di pura intellezione. Essendo dunque i concetti « di atto e d' intellezione »di natura loro universali e comuni, Aristotele, osservando che tutti gli enti della natura tendono naturalmente ad uscire dalla potenza e a mettersi in atto, dichiarò che in tutti era una continua tendenza verso Dio. In questo modo insegnò (e certo c' è un lato di vero in tale sentenza, ma involge ancora del falso), che la natura divina poteva e doveva essere appetita da tutte le cose dell' universo. Diede dunque il nostro filosofo a tutti gli enti mondiali un intrinseco appetito , tendente al sommo bene, cioè all' ultimo perfetto atto, in cui nulla più resti di potenziale, supponendo che tutti quelli che ci potessero giungere, con questo appunto otterrebbero la divina natura, che in tale purità d' atto consiste. Ma onde avviene, che non tutti gli enti mondiali, nel loro perpetuo conato di giungere al puro atto, non ci pervengono, e alcuni più, alcuni meno vi s' avvicinano? Aristotele risponde, perchè vi hanno diverse materie e potenzialità (1). Se non constasse l' universo che d' una sola materia, tutti gli enti conseguirebbero la stessa forma, e in tal caso non ci sarebbe diversità tra gli enti componenti il mondo. Le materie dunque, ossia le potenzialità, sono diverse, in quanto che nel loro sforzo all' atto, cioè verso il sommo bene, non arrivano che a certi atti ossia forme, a cui sono in potenza e non ad altre. Ciascuna materia dunque non può arrivare nel suo naturale movimento che a certe forme ultime per essa. Ma non vi è sempre arrivata; quindi ciascuna trovasi in una serie di stati successivi, di minore e maggior perfezione, secondo che è più o meno lontana d' aver raggiunta l' ultima sua forma. La materia priva al tutto di forma non è che un' astrazione della mente, ma ciascuna materia può esser fornita di forme meno perfette, come il seme ha una forma meno perfetta della pianta già svolta. Ogni materia dunque, vestita sempre d' una forma qualunque, è dotata, secondo Aristotele, di due caratteri: 1 d' una forza istintiva verso il suo bene, cioè verso la sua maggiore attuazione, che è la causa finale, [...OMISSIS...] ; 2 della privazione , ossia mancanza di quella forma ultima o perfezione a cui tende (1). Tende dunque a cacciare da sè questa privazione, onde nella generazione d' un ente c' è un cangiamento « da ciò che ha la privazione in ciò che non ha la privazione », ma questo cangiamento si fa dalla forza istintiva che è nella materia avente una data forma (2). E così scioglie Aristotele il sofisma di quelli che dicevano niente potersi generare, perchè: « non potea generarsi dall' ente, perchè questo essendo già, non si genera, nè dal non ente, perchè il non ente nulla può fare ». Aristotele risponde che si genera dalla materia la quale in quanto ha la forza istintiva si può dire ente , e in quanto ha la privazione si può dire non ente ; ma la proposizione « si genera dall' ente », come pure la sua contraria « si genera dal non ente », sono vere in quanto s' intenda, che per accidente si genera dall' ente e dal non ente , in quanto con questi nomi si vuol chiamare « « l' istinto generativo che è in parte » » (cioè in potenza) « « l' ente che genera e non è ancor generato, e in parte non è » » (cioè in atto), « « onde tutto ciò che viene generato in parte è già, e in parte non è »(3) ». Sebbene dunque Aristotele chiami Iddio il primo motore di tutte le cose, tuttavia in questo sistema non è già esso quello che mova fisicamente la natura o a questa imprima un impulso meccanico o reale, o che le somministri le forze. Tutte le forze di muoversi sono già insite nella natura; e il Dio d' Aristotele non è che l' ultimo termine di questo movimento, chè da se stessa eseguisce la natura verso di quello che ella appetisce, cioè verso il bene, il bello, l' ultimo qualunque sia, che essa è atta a raggiungere. « « Poichè, dice, essendoci un certo chè divino e buono e appetibile, noi diciamo esserci qualcosa contrario a lui » » (la privazione) « « e qualcosa che in lui tende e lui appetisce, secondo la propria natura »(1) », che è appunto la tendenza insita della materia avente una data forma imperfetta. Tra le quali materie ce n' è una nell' universo che arriva ad attignere la specie altissima e divinissima, come la chiama, cioè la mente, e questa è un certo corpo che ha in potenza la vita, come a suo luogo meglio dichiareremo. Aristotele dunque descrive il divino, il buono, l' appetibile così formalmente e astrattamente, che cessa d' essere una sostanza singolare. Di che è prova manifesta questa, che, come apparisce dal brano ultimamente citato, egli gli dà un contrario; quando assegna per carattere costante delle sostanze singolari, il non avere contrario alcuno (2). Oltre di che egli dice espressamente, ricadendo nelle dottrine di Platone, che è migliore ciò che è nel genere , di ciò che non è nel genere, come la giustizia che è nel genere del bene è migliore dell' uomo giusto che non è nel detto genere (3). E` dunque una natura universale, che può essere conseguita da più individui. E quantunque ciascuno di questi lo faccia di natura semplice e puro atto, non lo fa però unico. E infatti dopo averlo detto semplice, s' affretta a far osservare a suoi lettori, che « « l' esser uno e l' esser semplice non è lo stesso: poichè uno significa misura, semplice poi certa abitudine della stessa cosa »(4) ». Ma vediamo quante difficoltà e contraddizioni involga su di ciò la dottrina aristotelica. Dopo aver detto che tanto l' appetibile [...OMISSIS...] , quanto l' intelligibile [...OMISSIS...] movono senza esser mossi, il nostro filosofo aggiunge che « « il primo appetibile e il primo intelligibile è il medesimo » » [...OMISSIS...] , di maniera che da questo primo, che è quasi la punta dell' angolo, movendo, la serie si divide in due, l' una d' appetibili, l' altra d' intelligibili. Ora il primo appetibile è il volibile, [...OMISSIS...] e questo è il vero bello, [...OMISSIS...] , distinto dal bello apparente, [...OMISSIS...] , che non è volibile, ma concupiscibile [...OMISSIS...] : il volibile, dunque, s' identifica col primo intelligibile. Ma qui prima di tutto la distinzione tra il bello apparente e il bello vero , cioè tra il sensibile o concupiscibile e l' intelligibile o volibile, appartiene al sistema di Platone da cui è tolta, ma in quello d' Aristotele è un fuor d' opera. Poichè la distinzione s' intende quando si pone con Platone, che il vero essere delle cose sensibili giaccia nelle idee, e i sensibili non sieno altro che ritratti di quelle: allora colà è la verità e qua l' apparenza. Ma come può aver diritto Aristotele d' ammettere questa distinzione, se vuole, in que' luoghi dove se la prende con Platone, che il vero essere delle cose non sia già nelle idee, che nega, ma nelle cose stesse sensibili? E` una delle tante sue incoerenze: dopo aver rifiutate le dottrineplatoniche, vi ricorre ogni qualvolta sente di non poter andare avanti senz' esse. Dice dunque che nella serie degli intelligibili la sostanza è la prima, [...OMISSIS...] (1), e che delle sostanze è prima quella che « « è semplicemente e secondo l' atto » », [...OMISSIS...] , e questa è « « l' intellezione stessa » », [...OMISSIS...] . Ora l' intellezione, questa che è prima nelle cose intelligibili, è anche il principio della volizione, perchè si vuole e desidera ciò che s' intende, e non viceversa. Ora ciò che move la volizione, ciò che è per sè volibile, è il vero bello; poichè « il bello e il volibile per sè è nella stessa serie », ma il vero bello è anche ciò che muove l' intellezione: il volibile dunque e l' intelligibile primo e nel suo primo atto s' immedesimano. Mette dunque il bene in ciò che è primo , ma questa qualità di esser primo, è relativa alla serie a cui il primo si riferisce, quindi Aristotele distingue « « l' ottimo che è sempre tale, e l' ottimo che è tale di proporzione » », [...OMISSIS...] . Ora questi due ottimi hanno essi qualche cosa di comune ? Se parla dell' ottimo sotto una concezione comune, Aristotele torna al comune, e così manca di nuovo al suo stesso sistema; chè il comune , egli osserva (1) con molta sagacità, è potenziale, e come tale, cioè come comune, non è l' ultimo atto dell' essere. Questa osservazione importante si renderà più chiara da ciò che diremo. Distingue dunque Aristotele l' intellezione , che non ha per oggetto altro che sè stessa, - e questa, secondo lui, è Dio; - dall' intellezione che ha altri oggetti, cioè degli intelligibili diversi, da sè stessa, come sono tra l' altre le intellezioni umane , le quali, dipendendo da oggetti stranieri a sè, non perdurano nel continuo atto della contemplazione, ma la mente umana per lo più è in istato di potenza, per breve tempo poi dura nell' atto contemplativo. Così il sonno e la veglia della mente si succedono nell' uomo. Ma le intellezioni umane e l' intellezione divina sono ugualmente intellezioni: ancora dunque hanno di comune l' essenza generica d' intellezione. Se poi v' ha un' essenza generica che abbraccia le intellezioni particolari, che cos' è quest' essenza generica ? L' intellezione suprema sarà dunque composta di genere e di differenza? Ma in tal caso ella non è più cosa semplicemente in atto, ha qualche cosa di potenziale, cioè la sua radice generica. Ritorna dunque sempre la stessa difficoltà, e contraddizione. Che dunque Aristotele abbia veduto la necessità d' un primo essere e che questo sia atto purissimo; e l' abbia veduto, forse meglio di tutti i suoi predecessori, certo è gran cosa, e costituisce il suo sommo merito. Ma seppe porre la questione, non risolverla. Come si potea risolverla? In una sola maniera dovuta alla luce del cristianesimo: cioè colla dottrina che fa di Dio un atto puro che non ha nulla affatto di comune coll' altre cose, le quali non sono simili a lui, ma solo analoghe (2). E veramente, se ci fosse un' essenza (non la semplice esistenza) comune a Dio ed alle cose mondiali, quest' essenza sarebbe superiore a Dio ed alle cose mondiali, e da essa dipenderebbe l' uno e le altre; sarebbe una forma dell' intelligenza, colla quale si conoscerebbe Dio e le cose mondiali, cioè si conoscerebbe Dio con un lume che non sarebbe suo proprio, ma comune alle creature: questo lume sarebbe veramente divino: e così un' essenza veramente divina verrebbe in composizione da una parte con Dio, dall' altra colle cose mondiali. E infatti questa conseguenza assurda si manifesta appunto nel sistema aristotelico, il quale non si contenta di dare la divinità al primo motore, ma la sparge altresì a piene mani per tutto l' universo. Il che, se da una parte mostra il vizio fondamentale del sistema, dall' altra mostra la penetrazione dell' ingegno che l' ebbe concepito: essendone prova l' ardire di questa conseguenza. Vede bensì Aristotele, che il primo motore deve essere unico numericamente, appunto perchè non deve avere alcuna materia o potenzialità: « « Tutte quelle cose, dice, che sono molte di numero, hanno materia » », cioè potenzialità « « la prima quiddità non ha materia: poichè è atto che ha in sè il suo compimento (1). Dunque il primo motore immobile è uno di ragione e di numero » » (2). Ma questo non basta a fare che il primo essere non abbia alcuna potenzialità in sè; non basta a fare, che la sua essenza non sia una specie, che non si realizzi se non in lui; conviene di più che nessuna sua parte o qualità sia tale; se la qualità d' intellezione può essere una specie comune, in tal caso, egli ha già in sè un elemento di natura potenziale, e c' è qualche cosa che è potenza (la qualità d' intellezione), qualche cosa che è atto di questa potenza, l' avere quest' intellezione per atto sè stessa. Quindi il politeismo aristotelico. E veramente nel concetto d' un' intellezione , che intende sè stessa, non si trova la ragione per la quale debba essere una di numero. Laonde Aristotele stesso vedesi obbligato di dedurre la prova della unicità del primo motore non dall' intrinseca sua natura, ma da ragioni esterne, com' è quella dell' unicità dell' effetto, cioè dell' unico movimento del primo cielo; [...OMISSIS...] . Per dimostrare dunque l' unicità del primo Motore ricorre alla supposizione che un primo cielo, detto il primo mobile, si mova d' un movimento unico ed uniforme. Ognuno sente come alla dimostrazione manchi il fondamento su cui si vuole edificare. Ma non è questo solo che vogliamo osservare; poichè foss' anco vero che esistesse questo primo mobile celeste, e procedesse bene l' argomento, esso tuttavia non sarebbe cavato dall' intrinseca natura del primo motore, e darebbe luogo alla pluralità d' altri primi motori. E veramente Aristotele stesso non trova assurdo, anzi necessario d' ammettere altri motori eterni, se non primi. E se non primi, non differiscono però dalla natura del primo nè per riguardo all' eternità, poichè sono eterni come lui, nè per la condizione d' essere motori immobili. [...OMISSIS...] Laonde non con alcun argomento a priori inducente necessità, ma argomentando in qualche modo da' fenomeni sensibili degli astri, senza saper liberarsi dalle più antiche superstizioni, Aristotele s' ingegna di comporre filosoficamente un politeismo e si dà il vanto oltracciò di essersi molto elevato sui pregiudizi volgari. [...OMISSIS...] Pareva dunque ad Aristotele d' essersi molto innalzato sui volgari pregiudizŒ coll' aver negata alla divinità la forma d' uomini e di bestie, e attribuita quella di astri! Dall' esserci dunque più movimenti ne' cieli, argomenta Aristotele che ci devono essere più Iddii, o prime sostanze, immobili e motrici, che chiama anche primi enti, e che fa ragione dover essere 55 o 47, altrettante quante le sfere che si credevano percorse dagli otto astri (2). Ora a ciascuno di questi si può applicare l' argomento con cui egli provò che il primo Motore dee essere « « un' intellezione che ha per oggetto sè stessa » » perchè l' intellezione è l' ultimo atto, e se avesse un oggetto intelligibile da sè diverso, dipenderebbe da questo nel suo atto, perchè «nus hypo tu noetu kineitai,» onde avrebbe dell' atto e della potenza e però non potrebbe essere in una eterna e continua attuazione. Se dunque Aristotele ripone la natura del primo Motore in un atto intellettivo che finisce in sè stesso, sempre immanente ed immobile, per la stessa argomentazione gli altri eterni motori hanno col primo la stessa natura, e la loro differenza rimane che sia accidentale, derivata dal diverso e più ristretto moto che producono. Ma che i movimenti sieno grandi o piccoli, che sieno grandi o piccole le sfere, la differenza rimane accidentale. Quindi non si può dire, come pretende Aristotele, che non abbiano la specie o almeno il genere comune: e se comunicano nel genere, già contengono tutti questi motori, anche il primo, un elemento potenziale, convenendo anche Aristotele, che il genere sia potenziale, come pure l' accidente . E perciò nessuno di essi possono essere sostanze prime, od enti primi, quando l' ente primo, come Aristotele stesso, e in questo eccellentemente, insegna, deve essere atto purissimo e per sè tale, senza mescolanza d' altro elemento. Non giunse dunque Aristotele a un sufficiente concetto della Divinità (3). D' altra parte fondare, non dico la prova dell' esistenza, ma la deduzione della natura di Dio, dall' effetto del sensibile movimento è impossibile. Poichè essendo quest' effetto del moto locale parzialissimo e ristretto allo spazio, che è l' infimo degli enti, esso potrà ben dare il filo a dimostrare che una prima causa debba esistere, ma in nessun modo a far conoscere quale e quanto eccellente ella debba essere. E per ciò stesso non si può dedurre l' unicità del Motore immobile, come infatti non potè inferirnela Aristotele. Pare che faticato il suo ingegno nel combattere gli altrui sistemi, almeno com' egli li acconciava, e in questa lotta avendo molte volte riportato il vantaggio (1), pare, dico, gli venissero meno le forze a sostituire agli errori una perfetta dottrina: poichè spesso avviene che l' uomo stanco del combattimento, e gonfiato della vittoria, diventi poi negligente e troppo sicuro di sè stesso nel governare il soggiogato paese. D' altra parte questi motori che sono causa de' diversi movimenti degli astri, essendo immobili come il Primo, non ricevono alcun moto da questo, e però da questo sono necessariamente indipendenti. E non accade così quello stesso ch' egli rimprovera ad alcuni filosofi che lo precedettero, che «epeisodiode ten tu pantos usian poiusin»? Poichè gli astri da loro mossi avranno un appetito tendente ad essi come tanti eligibili, ma queste stesse « sostanze prime »non avendo moto non hanno appetito alcuno con cui tendano verso la suprema tra queste prime sostanze. Egli è vero che Aristotele dà a queste sostanze l' ordine stesso che hanno i movimenti degli astri da esse prodotti. [...OMISSIS...] . Ma oltrechè in tale sistema manca la ragione sufficiente dell' ordine delle stelle medesime, la differenza tra le sostanze prime ed immobili motrici non è che accidentale, e non determina per ciascuna di esse un' altra natura. Sono tutte cause motrici immobili, sono atti puri, intellezioni che hanno per solo oggetto se stesse. L' ordine, dunque, in cui le dispone Aristotele, sembra appiccicato, non procedente dal sistema, ma veniente dal di fuori. Nondimeno udiamo ancora su quest' ordine Aristotele: « « Convien perscrutare anche questo, in che modo la natura dell' universo abbia il Bene e l' ottimo » » [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si intende come Aristotele non divida già il Bene e l' ottimo dall' universo, ma voglia che sia dall' universo stesso avuto. [...OMISSIS...] . Ammette dunque che il Bene e l' ottimo sia ad un tempo come il duce nell' università delle cose, distinto da questa, e tuttavia sia ancora nell' ordine che risplende in questa università. Il qual ordine è così descritto dal filosofo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole ben chiaramente si vede come Aristotele da' suoi principŒ non avea potuto cavare se non un concetto meschino e imperfetto dell' unità e dell' armonia dell' universo. Invano cita il verso di Omero che loda il governo d' un solo, e dice che gli enti vogliono un buon governo. Poichè egli poi non trova che le entità dell' universo sieno coordinate se non in qualche modo, [...OMISSIS...] , e acciocchè non si creda ch' egli parli d' una ordinazione veramente perfetta ed universale, soggiunge subito, riferendola alle parti, che non però allo stesso modo sono coordinati i pesci, gli uccelli e le piante [...OMISSIS...] , caduta immensa dall' ordine del tutto all' ordine di queste cose speciali, ben mostrando il suo solito modo di vedere e di speculare per forme individuali, senza sapere conservarsi a considerazioni veramente universali. Tuttavia, sebbene secondo lui le cose sieno indipendenti, quant' è al fine, le une dalle altre, pure dice « « non sono così fra loro, che l' una abbia a che fare coll' altra, ma sono ordinate, ad un certo chè » », [...OMISSIS...] . Ma quest' uno finale a cui sono ordinate le cose è rassomigliato all' ordine e al bene comune di una famiglia; «eis to koinon, eis to holon», onde non c' è più un ente supremo a cui tutto sia ordinato, ma a questo è sostituito nella famiglia qualche cosa di comune , senz' accorgersi che il bene comune è appunto quello che più disdice a' suoi principŒ, che dichiarano (e giustamente) il comune un essere potenziale, e non separabile dai suoi subietti individuali, e però non l' atto finale delle cose; e lo stesso si può dire del concetto dell' ordine che non è certamente una sostanza individua , la quale è per Aristotele la prima di tutte le cose. Di più, riconosce nell' universo i difetti stessi, che cadono nell' umano reggimento della famiglia, e questi descritti da lui, dirò anche, con esagerazione, poichè vuole che una parte de' membri di essa, cioè i figliuoli soli, operino cose ordinate, [...OMISSIS...] , gli altri, cioè gli schiavi e i giumenti, operino per lo più a caso, [...OMISSIS...] , e poco conferiscano al comune, [...OMISSIS...] . E così fa che vadano a caso alcune cose dell' universo (1), onde la disunione e la discordia, [...OMISSIS...] (se bene intendo queste controverse parole), ed altre sole tiene ordinate al tutto. Ed è conseguente, dal momento che la prima Causa non è che semplicemente motrice, come intelligibile ed appetibile, e però essa non ha una vera efficacia e un vero governo dell' universo, che si move secondo le forze sue proprie, eternamente ed indipendentemente esistenti, onde qui stesso dà questa cagione, dell' esserci alcune entità che operano le cose ordinate ed altre le casuali e che tale è la loro natura, principio del loro operare, [...OMISSIS...] . Noi diremo in appresso come il Bene e l' ottimo aristotelico possa essere ad un tempo separato e compreso nell' universo; ma vogliamo osservare il valore di quelle parole: « « E` dunque ente per necessità, e in quanto è necessità, è bene, e così è principio. Da tal principio dunque il cielo e la natura dipende »(1) ». Prendendo queste parole isolatamente, parrebbe che Aristotele parlasse del solo primo motore, e che volesse dire che da esso dipende l' universo. Ma non così. Aristotele parla del motore immoto, e tutto ciò che dice, conviene perfettamente a ciascuno de' motori immoti: onde, come fa spesso, parla d' un individuo specifico o vago, e non d' un vero individuo reale. Dà la teoria del motore, riservandosi nel capitolo seguente a mostrare che non è un solo, ma più. Dipende dunque tutto il resto dalla sostanza pura, ma, come queste sostanze pure sono molte, neppur questo luogo contribuisce a restituire all' universo la perfetta unità e armonia, che in tanti luoghi gli toglie. Veniamo ora ad altre questioni, cagione come le precedenti d' infinite dispute tra i commentatori (2). Se ciascuno dei primi motori move il suo astro, a che il moto del primo cielo mosso dal Motore supremo? - Il primo mobile gira con un moto uniforme, secondo Aristotele, e produce il movimento diurno, che si comunica a tutte le sfere e a tutti gli astri. Ma poichè questi oltracciò hanno i movimenti loro propri, perciò introdusse Aristotele, seguendo in parte più antiche favole, le altre sostanze motrici, indipendenti dalla prima, che non dà che un moto solo. Laonde ognuno degli astri partecipa del movimento del primo cielo, che viene dal supremo Motore, e nello stesso tempo ha i motori suoi propri. Ma lasciando da parte questo meccanismo immaginario de' corpi celesti, veniamo alla parte filosofica. Che cosa ha da fare il movimento locale coll' intellezione pura ? Come l' intellezione pura può essere il Bene, e l' oggetto dell' appetito di tutta la natura? Come appetendo l' intellezione può nascere il moto locale? Il solo proporre queste questioni parmi sufficiente a dimostrare che Aristotele fece una mostruosa mescolanza di due o tre ordini d' idee disparatissime, che si trovarono nella sua mente: da una parte delle speculazioni razionali sui concetti ontologici di sostanza, d' intelligenza, d' idee e simili; dall' altra delle osservazioni de' fenomeni sensibili e naturali; in terzo luogo delle tradizioni favolose e superstiziose annesse ai fenomeni naturali, specialmente celesti. Di tutte queste cose, senza badare troppo sottilmente se si potevano unire e tenere insieme, compose con ammirabile miscuglio il suo sistema. Pure crediamo che si possa spiegarlo investigando le analogie , che servirono al suo pensiero di cemento tra quei tre ordini di pensamenti (1). Il principio della filosofia aristotelica è l' atto : principio solido e luminoso. Aristotele disse, o volle dire: « Avanti a tutte l' altre cose è l' atto : dall' atto tutte dipendono »: per questo rigettò come principio l' idea di Platone, perchè non trovò che l' idea sia puro atto: e questa osservazione sarebbe stato un progresso, se non fosse stata una distruzione di ciò che s' era trovato precedentemente. Ma Aristotele vide dopo di ciò, che in tutti gli enti naturali c' era del potenziale, ma che tutti tendevano, secondo il naturale sviluppo, ad uscire al maggiore loro atto possibile. Disse dunque che l' atto era il bene, e che tutte le cose appetivano il bene. Questo concetto del bene non solo era una entità comune , ma comunissima ed astrattissima. Quando dunque si parla d' un bene, appetito da tutte le cose, che hanno in sè qualche potenza, non si parla d' un ente realmente unico col quale ogni cosa tenda a congiungersi, ma si parla di tanti beni , quanti sono gli atti compiuti a cui possono arrivare le diverse cose, ciascuna secondo la sua propria natura (1). Ora l' atto compiuto di ciascuna cosa fu da Aristotele chiamato specie (2), e la potenzialità della cosa materia . Il filosofo si fece a classificare questi atti o specie. La prima classificazione nasce dalle diverse materie in potenza a diverse forme. Ma tutte queste specie hanno qualche carattere comune , quantunque tra di loro differiscano. Questi caratteri comuni si riducono anch' essi in alcune classi, che servono di fondamento ad altrettanti generi di specie. Le classi di questi caratteri comuni alle specie di tutti gli enti sono le Categorie (3). Se si osserva l' ordine che hanno le categorie tra loro si trova che tale ordine considera: 1 l' ente, e a questa considerazione appartengono le tre prime categorie, la sostanza , il quale e il quanto ; 2 le relazioni di più enti o entità, e a questa considerazione appartiene la quarta categoria che è appunto la relazione , di cui le altre sei, cioè il dove , il quando , il sito , l' avere , l' agire , il patire , sono classi minori: perchè tutte queste sono relazioni . Le tre prime poi si riducono a due, cioè alla sostanza ed all' accidente ; chè il quale e il quanto sono classi minori d' accidenti. Onde tutte le dieci categorie Aristoteliche si riassumono in tre sommi generi, la sostanza , l' accidente e la relazione . Le specie adunque hanno questi tre caratteri comuni, di qualunque ente sieno specie, che esse sono sempre o sostanza, o accidente, o relazione. Ma poichè gli enti differiscono tra loro per la materia diversa, o per una potenzialità ad atti, ossia a specie diverse, perciò la sostanza varia secondo gli enti specificamente diversi, e non è una se non per analogia, e così è da dirsi degli accidenti qualitativi e quantitativi. Ma tra gli atti ossia specie c' è una gradazione, di maniera che un atto è più ultimato e perfetto d' un altro, e quindi suppone nell' ente meno di potenzialità. Quell' atto poi che dipende da un altro per esistere è meno perfetto e ritiene più del potenziale. Paragonati dunque sotto quest' aspetto que' sommi generi analogici di specie, vide che l' accidente dipende dalla sostanza , sicchè quello non si può concepir senza questa, e questa sì senza quello (1). Come dunque l' atto è anteriore alla potenza, così Aristotele stabilì che nell' universo prima delle entità e anteriore di concetto fosse la sostanza . Ma questa sostanza, come dicevamo, non è che una classe analogica, cioè tale che comprende degli enti diversi, solamente tra loro analoghi. Conveniva dunque cercare una classificazione di questi enti, per vedere quale sostanza fosse la prima. Gli enti dunque secondo questo rispetto furono divisi in sensibili e intelligibili . Così le specie o forme si classificarono in tre modi. 1 In un modo analogico , e la base di questa classificazione sono i caratteri comuni alle specie de' diversi enti. Questa classificazione distingue le specie in sostanziali, accidentali di qualità e quantità, e relative . 2 In un modo entico , e la base di questa classificazione è la diversità (specifica e individuale) degli enti, diversità che, secondo Aristotele, nasce dalla natura di ciascun ente risultante dalle forme diverse di cui è suscettivo. Questa classificazione distingue le specie in sensibili e in intelligibili con tutte le suddivisioni degli enti sensibili e intelligibili (2). 3 In un modo ultimativo , secondo che le forme di ciascun ente sieno sostanziali, sieno accidentali, sono prodotte più avanti verso l' ultima loro perfezione. Ma l' ultimazione stessa delle specie, cioè l' ultimo loro atto di perfezione, o è per sè tale, o è per accidente . L' ente che ha la forma ultimata per sè, dicesi da Aristotele entelechia , ed è più eccellente di quello nel quale la forma può essere ultimata o no, e perciò, se è ultimata, è ultimata per accidente. Tra le entelechie poi c' è ancora una gradazione, poichè 1 può essere la forma ultimata solo rispetto alla sostanza qual è l' anima umana, che dicesi entelechia , perchè è per sè atto del corpo, e tuttavia è perfettibile rispetto alle sue specie o forme accidentali; 2 può essere ultimata totalmente, di modo che non ci possa esser nulla di potenziale nè di accidentale, e così sono entelechie le prime sostanze motrici dell' Universo. E` da considerare la singolare contraddizione che si riscontra in Aristotele tra' suoi principŒ ontologici , e il metodo col quale va filosofando. Egli vuole che si parta sempre dalla sostanza individua , e che tutto si riferisca a questa, come quella natura che ha più atto, a cui tutte l' altre devono riferirsi quasi potenze. Pure il metodo lo conduce sempre ad un ragionare generalissimo, per forma che sotto la stessa parola abbraccia le cose più disparate; il che è quanto dire, ragiona per via di concetti al sommo generici ed astratti. Così, compartendo tutte le cose in atto e in potenza (che sono i due elementi che chiama forma e materia), benchè dica egli stesso che i diversi atti e le diverse potenze, sieno così diverse, che non sono une se non per analogia (1): tuttavia, dimentico di ciò, parla degli atti in universale come avessero le stesse proprietà essenziali. Con questa maniera di ragionare egli perviene a conchiudere che l' atto puro , per sè forma, è intellezione, nè riconosce altri atti puri fuori dell' intellezione. E poichè tutte le cose tendono per loro natura all' atto, dunque tutte tendono all' intellezione, benchè tutte non ci arrivino per difetto della loro materia. Stabilisce così un appetito universale verso l' intellezione, nella quale ripone il Bene essenziale. Ora tanto la parola atto quanto la parola intellezione , come abbiamo detto, non indicano che concetti generici e però non rappresentano che il Bene in genere . Nè gli argomenti che adduce Aristotele nel XII de' « Metafisici », c. 7, per provare che ci deve essere un' intellezione pura, hanno alcun valore a provare che quest' intellezione pura sia una di numero, come abbiamo osservato, non vedendosi ragione alcuna intrinseca, per la quale non ci possano esser molte di quelle intellezioni pure: anzi ammettendone molte Aristotele stesso nel c. ., benchè le consideri come inferiori alla prima, anche questo senza addurre una ragione che sorta dalla loro stessa natura. Comechessia, sottomettendo Aristotele i corpi e gli spiriti ad una stessa legge, per quel suo parlare universale e generico, cioè considerandoli come una catena di enti differenti solo secondo la quantità maggiore o minore di potenzialità e di materia e secondo la quantità maggiore o minore di atto o di forma, che sono gli elementi dai quali constano; egli così li classifica, come si può raccogliere da tutto il complesso delle sue dottrine: 1 Forme pure , prive di materia ed ultimate d' ogni parte per sè, sostanze prime, motrici de' cieli e degli astri, entelechie di primo ordine . Bene vero, desiderabile, eleggibile. 2 Forme pure , prive di materia rispetto alla sostanza, ma non rispetto agli accidenti, anime, entelechie di second' ordine . 3 Enti materiati , cioè enti aventi per subietto la materia, cioè una potenzialità: i quali enti si distinguono per le diverse materie , cioè per le diverse potenzialità a forme diverse . Una materia è potenza a certe forme, un' altra a certe altre: questo costituisce la differenza degli enti. Ma anche qui si ha una differenza specifica e non realmente individua, il che non sempre riconosce Aristotele (1). Ma poichè non si dà materia separata da ogni forma, ogni materia ne ha una in atto , e alle altre forme che le convengono è in potenza: o, come dice Aristotele, esistono in essa in potenza. Tutti questi enti, dunque, sono così classificati sopra una stessa base secondo il maggiore o minore grado di atto (2): e tutti hanno una tendenza ad ascendere, cioè a passare da quel grado di potenzialità che hanno ad un' attualità sempre maggiore. Ma perchè alcuni arrivino ad un grado di attualità in questo movimento ascendente, ed altri non vi arrivino, questo è attribuito da Aristotele alle diverse nature della materia ossia della potenzialità: ma la ragione di questa differenza fondamentale tra le materie manca del tutto in Aristotele: perchè suppone, come dicevamo, la materia eterna: così la sua ontologia è in aria, non posa sul fondamento d' una ragione sufficiente. La causa efficiente di questa tendenza e conato continuo degli enti verso l' attuazione, dice Aristotele, è intrinseca a ciascuno, e si chiama natura (1): risulta dalla forma o atto che già hanno nella materia: è potenza e atto insieme congiunti in un ente: l' atto opera nella potenza, operando si perfeziona, la potenza si lascia movere dall' atto che ha in sè, per arrivare ad un atto maggiore (2). La causa finale è dunque l' atto o specie che l' ente vuol conseguire e che ha già in potenza; come l' atto o specie che ha attualmente, è la causa efficiente interna. L' ente dunque che chiameremo materia7forma o potenza7atto è costituito tra due atti, quello che ha, e quello a cui tende; il primo è la causa efficiente , il secondo la causa finale : medio tra l' uno e l' altro ente è il movimento. Descriviamo il movimento, ossia la trasmutazione degli enti di questa terza classe, cioè degli enti materiati , degli enti potenza7atto . La specie a cui tende l' ente che si fa, può appartenere all' uno o all' altro de' quattro generi categorici che abbiamo annoverati, cioè sostanza, quale, quanto e relazione . Se la specie cui tende di conseguire è sostanziale , il movimento dell' ente chiamasi generazione (e il suo contrario corruzione ); se quella specie è qualitativa , il movimento dicesi alterazione ; se è quantitativa , il movimento dicesi aumento ; se quella specie è di relazione e riguarda lo spazio, il movimento dicesi moto locale (3). Il secondo ed il terzo di questi movimenti non migliorano o deteriorano l' ente materiato se non accidentalmente; il quarto non produce che un cangiamento di relazione . Ma il primo movimento, cangiando la forma sostanziale degli enti, li tramuta per intero, o facendogli passare a una classe più nobile di enti, o ad una inferiore. Su questo dunque conviene che ci tratteniamo. Aristotele suppone che ci sia passaggio da una sostanza all' altra. La sua maniera di ragionare degli enti con concetti così universali gli impedì di conoscere la profonda differenza tra i corpi e gli spiriti, tra gli enti che non esistono che come termini d' altri, e quelli che sono principŒ: onde non vide l' impossibilità del passaggio degli uni negli altri. Non concependo egli la scala degli enti formata in altro modo che per via di una graduazione di potenza e di atto , gli parve sempre possibile il passaggio da quella a questo, salvo dove l' esperienza gli mostrava apertamente il contrario; nel qual caso ricorreva alla ragione generale, che « « la natura di quella potenzialità non consentiva quel passaggio »(1) ». Quindi egli vide altresì la possibilità d' un passaggio sostanziale dal corpo all' anima, considerando che quello non differisce da questa se non per una potenzialità maggiore. Le diverse materie, ossia i diversi enti potenziali, sono in potenza a specie diverse. Ora tra questi enti potenziali ce n' anno alcuni, cioè alcuni corpi, che sono in potenza alla specie ossia all' atto della vita. Quando dunque questi corpi in potenza alla vita, e che però appetiscono questa specie sostanziale come loro bene , ricevuto l' impulso necessario, si mettono in movimento e arrivano a quell' atto e a quella specie che hanno già in potenza, allora mettono in essere l' anima ossia la vita. Di conseguente Aristotele definisce la vita l' atto di un tal corpo che ha in potenza la vita: [...OMISSIS...] (2). Così Aristotele definisce l' anima generica, secondo il suo metodo (1), per venire poi alle specie (2). Se poi tutti gli elementi corporei possano naturalmente organizzarsi in modo da avere la vita in potenza, e se questa potenzialità della vita sia un effetto dell' organizzazione, questo non si rileva da Aristotele, e non credo che si sia proposta questa questione (3). Venuto il corpo a questo suo atto che si chiama vita ed anima, rimangono ancora degli atti ulteriori. Poichè l' inferiore e il meno ultimato di questi atti è quello della vita vegetale , e questo basta alla definizione generica dell' anima, onde in una tale definizione Aristotele chiama l' anima in genere entelechia prima , cioè prossima al corpo che la produce e la tiene, come suo subietto, [...OMISSIS...] (4). Quest' anima vegetale si trova separata nelle piante (5). Ma in cert' altri enti l' anima vegetale contiene in potenza la specie della sensitività (6), e quando concorrono le condizioni necessarie a suo tempo il corpo che è passato all' atto dell' anima vegetale, da questa passa all' atto ulteriore che si chiama anima sensitiva . L' anima sensitiva, secondo Aristotele, è sempre contenuta in potenza in un' anima vegetale (7), come quest' anima è contenuta in potenza in un dato corpo naturale organizzato. L' anima vegetale adunque che ha in potenza la sensitività, tende alla specie o anima sensitiva come a suo fine, e a suo bene: chè in grazia del bene opera sempre la natura (.). Ora in un modo somigliante spiega l' origine dell' anima intellettiva . Ella è già in potenza nella sensitiva, come questa nella vegetale, e questa in certi corpi naturali organici. Ma quando viene all' anima intellettiva, distingue da questa, subbiettivamente considerata, la mente , che si cangia col suo ultimo atto in obbiettiva, come abbiamo accennato. Secondo Aristotele, anche il senso conosce (1). Che cosa conosce? Unicamente le specie sensibili . Queste specie o forme sensibili, che nelle cose corporee sono unite indivisibilmente colla materia, nell' anima rimangono senza materia, e però come puro atto (2). Ora avendo stabilito Aristotele che il puro atto è sempre per sè conoscibile (3), anche la sensazione dunque appartiene all' ordine delle cose che sono per sè conoscibili. Ma queste specie sensibili , sebbene prive di materia, sono particolari: e in questo si distingue il senso dall' intendimento, che quello conosce i particolari, questo gli universali (4). Le forme sensibili che sono nei corpi unite colla materia passano all' anima mediante l' atto de' corpi. Ora l' atto de' corpi sensibili e quello della sensitività s' uniscono in un istante e diventano una cosa sola nell' anima che sente (5). Essendo dunque la forma sensibile l' atto del corpo, e questo, pel contatto e per l' azione, facendosi ed esistendo nell' anima stessa, in questa c' è la forma stessa sensibile che prima in potenza era ne' corpi (6). Ma la forma sensibile sebbene sia priva d' un certo genere di materia e rispetto a questa sia puro atto, tuttavia ha in sè ancora della potenza. Infatti giace in essa potenzialmente, secondo Aristotele, la forma intelligibile . E per questo dice che il senso apprende per accidente l' universale in quanto questo è contenuto potenzialmente nel particolare sensibile (7). La facoltà dunque del conoscere, e l' atto conoscitivo non è ancora altro per Aristotele che un' attualità ulteriore del medesimo subietto. Nella natura ci sono degli enti sensitivi, secondo Aristotele, che hanno la virtù in sè di ridurre le sensazioni e imagini avute, ossia le forme sensibili , a quell' atto che hanno in potenza, e che costituisce le forme intelligibili , e per la produzione di questa nuova attualità nasce l' intendimento, e l' anima intellettiva. Queste forme intelligibili non hanno più nulla di sensibile, e sono per sè universali , sono ragioni. Perciò si dice che l' anima intellettiva possiede la ragione, «logon» (1). Senza la forma universale non ci sarebbe il ragionamento, perchè non si dà passaggio dal particolare al particolare, nulla essendovi di mezzo che serva di via, ma l' universale abbracciando molti particolari, fa da veicolo pel quale il pensiero può trascorrere dall' uno all' altro di essi: l' universale dunque è il mezzo del ragionare (2). Tuttavia la parte discorsiva, che ammette errore (3), e che rassomiglia ad un movimento (4), suppone bensì la mente, ma non ne è l' atto suo proprio: quest' atto proprio è l' intuizione dell' universale: la mente in atto, l' intellezione (5). Ma questa mente in atto, secondo Aristotele, è una sostanza da sè, che avviene all' animale, e che non si corrompe, [...OMISSIS...] , onde sopravvive alla morte dell' animale. [...OMISSIS...] E in queste ultime parole si ha la chiave per vincere una difficoltà, che parve fortissima ai commentatori. La esporremo colle parole del Trendelenburg: [...OMISSIS...] . La soluzione di questa difficoltà deve ripetersi, a nostro avviso, dall' avere Aristotele concepita la natura divina, come una natura impersonale, siccome abbiamo già dimostrato. Sfuggì infatti ad Aristotele, come pure a' suoi predecessori, il vero concetto della personalità. Platone è quello che più distintamente la conosce, ma nè pur egli l' afferra direttamente, e non ne dà un' espressa definizione. Quindi altri subietti reali non compaiono in Aristotele se non la materia (2), che confessa pur egli essere un indeterminato, e che di conseguente non può essere che un subietto estrasoggettivo , una classe di subietti dialettici (secondo le distinzioni da noi introdotte): comparisce l' uomo, senza che sia distinto in esso punto nè poco quell' elemento primo, uno, fondamentale che costituisce la persona (3). [...OMISSIS...] (4). Che l' anima non sia un subietto, ma solo una natura impersonale, si può certamente concedere, se per anima s' intende soltanto o la vita, o ciò che prossimamente dà ad un subietto personale la vita. Ma Aristotele, come dicevamo, accorda il nome e la qualità di subietto alla materia, e al composto, che opera col mezzo della specie; lasciando così la specie priva al tutto di personalità. Ora nella specie ripone la divina natura . Ciò posto, non è più assurdo che questa natura divina impersonale ora si trovi da sè, scevra da ogni potenzialità, ora mescolata colla potenza. Onde nel XII, 10 de' « Metafisici », si propone la questione « « come la natura dell' universo » [...OMISSIS...] «abbia il bene e l' ottimo, se come qualche cosa di separato e esso da sè, o come un ordine, o nell' uno o nell' altro modo » ». (La qual domanda già mostra che Aristotele suppone come fuori di questione, che l' universo abbia il bene e l' ottimo; e fa conoscere il valore dell' espressione « «qualche cosa di separato », [...OMISSIS...] », cioè non significarsi per essa che non sia congiunto coll' università delle cose, ma che abbia natura non mista coll' altre cose). E risponde che il bene e l' ottimo è appunto nell' uno e nell' altro modo (1), come un esercito che ha il suo bene nel suo capitano, ed anche nell' ordine delle schiere, benchè questo sia pel capitano, e non viceversa. La natura divina , com' è concepita da Aristotele, è sparsa per tutto e mista colla potenza, ma è anche da sè, immista e pura; e in quest' ultimo stato, le conviene propriamente il nome di Dio. Come poi, essendo in tal modo diffusa la natura divina del bene, ella sia una e singolare e non sia piuttosto una natura comune, questo non dice Aristotele; e non pare che abbia sentita la forza della difficoltà, a cagione che, senz' accorgersi, ed anzi negandolo, egli definì il divino, come abbiamo osservato avanti, unicamente mediante concetti comuni i quali non ammettono un' unità reale , ma solo ideale e d' essenza. Tuttavia su quest' unità torneremo tra poco. Tenedo dunque presente che Aristotele s' era formato un concetto impersonale della divina natura , e che il suo sistema manca della ragione sufficiente , che spieghi perchè l' universo sia così e così, quando al pensiero non ripugna che fosse altramente, si comprende ch' egli ammettesse un' ipotesi fondamentale, che cioè la divina natura mista colla materia e in uno stato potenziale tende continuamente a liberarsi dalla materia e passare all' atto perfettissimo, al quale giunta acquista il nome e la condizione di Dio. Questo è l' appetito universale, e il movimento ascendente verso l' ottimo di tutta intera la natura. Le materie dunque o potenzialità prime che sono le corporee, sono diverse. Ogni materia ha qualche forma in atto, ed altre ne ha in potenza. Ma non ogni materia le ha tutte in potenza, e questa mancanza di forme in potenza è una prima privazione . Le diverse forme in potenza costituiscono le diversità delle materie d' Aristotele. In quanto dunque una data materia ha certe forme in potenza, intanto appetisce l' atto, cioè appetisce che queste forme escano all' atto; in quanto poi ha la privazione di forme, in tanto non l' appetisce e vi mette ostacolo. Di più la materia ha talora una forza irregolare, secondo Aristotele, che non tende alla forma, e con questo cerca spiegare quegli eventi ch' egli crede casuali. In certi corpi dunque naturali e organati c' è in potenza quella forma o specie che dicesi anima nutritiva o vegetale , in altri di più quella che dicesi anima sensitiva , in altri anche quella che dicesi anima intellettiva , che si sviluppa per generazione. Venuta quest' ultima specie all' esistenza, ha in sè ancora della potenza che tende a svolgersi. Di qui due novi principŒ d' operazioni si costituiscono nella natura, cioè l' intendimento speculativo che tende a conoscere, e l' intendimento pratico , onde l' arte che tende a produrre. E che anche in quell' atto o specie naturale che si chiama anima intellettiva, ci sia la materia ossia la potenza, e con essa l' atto, qual principio attivo e causa d' altri atti, rilevasi da queste parole: [...OMISSIS...] . Or come la mente in potenza dell' anima passi ad emettere gli atti speculativi, cioè ad acquistare la scienza, mediante la mente in atto , [...OMISSIS...] , in parte è dichiarato nel « De Anima » (2), come abbiamo veduto. Passata poi, la mente in potenza, all' atto coll' acquisto della scienza, che può essere più o meno copiosa, ancora distingue Aristotele in quest' atto della scienza due gradi d' attuazione, l' uno de' quali simile al sonno in cui la scienza è in noi come abito, e l' altro alla veglia, l' ultimo e più perfetto atto, quello della contemplazione, che chiama costantemente divino, o divinissimo (1). Conviene dunque distinguere, secondo Aristotele, quasi quattro atti, l' uno più perfetto dell' altro, nello stato dell' anima intellettiva, due dirò così innati e due acquisiti. 1 L' atto o specie della mente in potenza , che dicesi atto rispetto all' anima sensitiva che lo emette; 2 L' atto ulteriore, o specie della mente in atto (intuizione primitiva) che ha virtù di fare che la mente in potenza esca al suo atto; 3 L' atto ulteriore o specie della scienza , che è l' atto, a cui è già uscita la mente in potenza, e quest' atto s' unifica colla mente in atto che rimane così accresciuta e rinforzata; poichè in quanto da potenza diviene atto, in tanto cessa d' esser potenza. Come dunque il sensibile in potenza è diverso dal senziente in potenza, ma il sensibile in atto s' unifica col senziente in atto, secondo Aristotele, così la mente in potenza si distingue dalla mente in atto finchè in potenza, ma non più quando cessando d' essere in potenza, diventa in atto. 4 L' atto ulteriore finalmente della contemplazione , con cui attualmente contempla le specie. Per ridurre questa dottrina a maggior chiarezza, conviene rispondere a tre questioni. 1 Che cosa è mente in potenza che diventa tutti gl' intelligibili secondo Aristotele? E` forse il complesso delle potenze anteriori, incominciando dal senso fino all' immaginazione, che somministrano la materia del conoscere, come vuole il dottissimo Trendelenburg? (2); 2 Che cosa è, qual è la sfera del divino, secondo Aristotele? (3); 3 Come il divino è da sè, ed anche sparso nella natura universa, e com' egli è uno, come moltiplice? (4). Veniamo alla prima. Noi non possiamo convenire col nominato erudito nella sentenza che Aristotele dia la denominazione di mente di cui si fa tutto , [...OMISSIS...] , all' imaginazione e a quel gruppo d' altre facoltà sensitive che somministrano effettivamente de' materiali all' intendimento, poichè di nessuna di queste, nè di tutte insieme, si può dire che diventi tutto. Noi reputiamo dunque, che come Aristotele tolse assaissime cose da Platone, ma le vestì a suo modo e le fece passare come sue proprie, così qui abbia ritenuta la materia comune che accordava Platone alle idee (1), ma invece di darla alle idee, ch' egli non voleva ammettere, la diede alla mente. Ora la materia delle idee secondo Platone è l' essere in universale. Ma questo essere stesso si può considerare sotto due aspetti: 1 o come il subietto delle determinazioni, colle quali egli diviene tutte le idee, generi e specie, e così tiene l' ufficio di materia ; 2 o come lume dal quale è illuminato lo spirito per misurare l' entità di tutte le cose, prima di tutto delle sensibili, e di vederne le essenze, che è appunto formare le idee, onde sotto questo aspetto egli tutto fa, egli produce tutte le specie o forme delle cose. Così lo stesso essere in universale da una parte costituisce quella mente (2) che è fatta tutte le cose, cioè tutte le specie, dall' altra costituisce quella mente che le fa tutte. Come questi caratteri non possono convenire alle facoltà sensitive, così anche ripugna che esse si dicano la mente in potenza, giacchè Aristotele chiama abito questa mente, [...OMISSIS...] , espressione, che non troverebbe una spiegazione naturale, se si dovesse applicare alle sensitive potenze. Secondo Aristotele dunque quando un corpo naturale organizzato, mediante il necessario impulso, viene all' atto dell' anima, prima vegetale, poi sensitiva, finalmente intellettiva, allora quest' ultima anima è così fatta che è suscettiva di tutte le specie, [...OMISSIS...] , e le ha in potenza, [...OMISSIS...] (3). Ora questa appunto è la mente in potenza che diventa tutte le forme. E tant' è lungi che questa sia la sensitività o l' imaginazione e l' altre facoltà sensitive, che da queste espressamente la distingue Aristotele là appunto dove paragona questa mente e il suo sviluppo a quello della sensitività (1). Dice di questa mente che « « intendendo tutte le cose, conviene di necessità che non sia mista, come disse Anassagora, poichè tutto ciò che è eterogeneo, quando accostandosi apparisce, impedisce e divide » ». Onde conchiude, « « la natura di lei non è niuna natura speciale , se non questa che è possibilità », [...OMISSIS...] »(2). Ora che è la possibilità, secondo Aristotele, se non materia, [...OMISSIS...] ? (3). Ma c' è una materia intelligibile , come dopo Platone disse Aristotele? (4). E che cos' è questa materia intelligibile se non l' essere in potenza, ossia l' essere possibile? Questo solo d' altra parte è privo di tutte le differenze, e perciò è del tutto immisto e puro; il contrario poi di questo, l' essere in atto, è privo d' ogni materia sensibile e intelligibile. Del solo essere in potenza e ideale, d' altra parte, si può dire quello che dice Aristotele della sua mente in potenza che, « « non è attualmente niuno degli esseri avanti che intenda » », [...OMISSIS...] . Nè farà difficoltà, che Aristotele attribuisca l' intendere a questa mente, che secondo noi è l' essere in potenza, perocchè egli, come già vedemmo, dell' obietto e del subietto pensante fa una cosa, e quando sono uniti attribuisce all' uno di essi ciò che apparterrebbe all' altro. Nè del pari sia d' ostacolo a intendere in questo modo il pensiero d' Aristotele l' osservare ch' egli sembra accordare a questa mente in potenza l' atto dell' intendere, [...OMISSIS...] , perchè ciò che è in potenza e ciò che è in atto è un medesimo ente, e ciò che è in potenza, la materia, per Aristotele è sempre il subietto dell' atto. Quivi stesso però egli adopera una maniera di parlare, che dimostra non essere la sua mente in potenza, quella che propriamente intende, raziocina e giudica, ma l' anima con essa, [...OMISSIS...] . Della qual maniera non c' è nulla di più proprio per esprimere l' essere ideale indeterminato , perocchè con questo appunto, quasi con un mezzo universale, il subietto intelligente fa tutte le sue operazioni. Finalmente al solo essere indeterminato conviene il carattere che dà Aristotele alla sua mente in potenza, d' essere « « le specie in potenza » », [...OMISSIS...] , con che mostra chiaramente di parlare d' una mente obiettiva, quali sono le specie; e d' essere medesimamente « « il luogo delle specie » » [...OMISSIS...] , giacchè le specie determinate altrove non sono che nella specie indeterminatissima, specie delle specie, come la chiama pure Aristotele, cioè nell' essere indeterminato (1). Si aggiunga un' altra considerazione. Che cosa è l' intelligibile, il proprio oggetto del pensiero? Secondo Aristotele è lo stesso essere della cosa, l' essere determinato ch' egli chiama «to ti en einai,» e che dice che è senza materia, indicando con ciò che è l' intelligibile (2). Ora ciò che può diventare un essere determinato, non può essere altro che l' essere indeterminato e potenziale, che acquistando diverse determinazioni diventa tutti gli intelligibili. Se dunque la mente in potenza è quella che diventa tutti gl' intelligibili, e l' intelligibile è l' essere, quella mente non può esser altro che lo stesso essere in potenza. Il che Aristotele sembra dire in espresse parole, là dove dice che la « materia dell' universale »è la scienza in potenza (3). Poichè l' universale in potenza, che cos' è se non quell' universalissimo indeterminato (epiteto che gli dà Aristotele), che col determinarsi diventa tutti gli universali? Passiamo alla seconda questione: qual è la sfera che abbraccia il divino , secondo Aristotele? Indubitatamente nelle forme pure , per questo filosofo, giace la divina natura . E veramente, cercando qual sia « « la sostanza sempiterna e immobile » » e riferendo le altre opinioni, dice che « « alcuni la dividono in due » » (le specie e le entità matematiche) « « alcuni pongono nella stessa natura le specie e le entità matematiche, alcuni le sole entità matematiche »(1) ». Ma Aristotele non ripone le entità matematiche tra le cose divine, che sono argomento della massima scienza. Poichè egli distingue tre scienze così: « « la fisica è circa gl' inseparabili » » (dalla materia) « « e non immobili; delle matematiche alcune sono circa gl' immobili per vero dire, forse tuttavia non separabili, ma come nella materia: la prima filosofia poi è circa i separabili » » (dalla materia) « « e gl' immobili »(2) ». Questi « « separabili e immobili » » sono appunto le forme pure . Continua poi: « « ora tutte le cause è necessario che siano eterne, soprattutto queste » » (le separabili dalla materia ed immobili), « « poichè sono cause a quelle tra le cose divine che appaiono (3). Onde sono tre le filosofie: la matematica, la fisica e la teologica »(4) »; dove manifestamente chiama scienza di Dio o teologia quella che tratta delle pure forme . Ma nasce il dubbio se Aristotele riponga tutte le forme pure ed astratte dalla materia tra le cose divine; e questo parrebbe, poichè egli dice, che ogni cosa della natura appetisce il bene, l' ottimo, il divino, per la specie a cui tende di pervenire (5), che, separata dalla materia, è divina (6). Ma altrove dice, che ci hanno degli oggetti vili del pensiero e degli oggetti nobili, e che l' eccellenza della mente sta in pensar quelli e non questi (7): sebbene il riputare vili alcune specie, direbbe il vecchio Parmenide esser di chi filosofa ancora inesperto, e si lascia intimorire da' pregiudizŒ del volgo (.). E veramente la cognizione e le specie delle cose vili non sono vili; benchè poco di bene saprebbe la mente, se quelle cose solo sapesse, ma se quelle sono ordinate nel tutto del conoscibile, debbono anch' esse esser conosciute da una mente sapientissima. Ma questo luogo in cui suppone Aristotele, che le notizie delle cose vili sieno vili, basta egli, o può valer tanto, quand' anco sia sfuggito veramente alla penna d' Aristotele, ad escludere alcune specie dalla sfera del divino? Quello che si può dire con sicurezza si è che nè i sensibili, nè le cose miste di materia corporea sono da Aristotele collocate nella classe delle entità divine. E nel vero, le essenze non sono date dal senso; Aristotele stesso ne conviene in tutti quei luoghi, dove distingue le cose corporee dal loro essere , e quelle concede al senso, ma riserva l' essere stesso delle cose alla ragione (1). Che cosa dunque ci dà il senso, secondo lo stesso Aristotele? Delle apparenze che sono vere solamente come apparenze, cioè relativamente: il che viene a dire: è vero che così apparisce. In fatti se tutte le cose fossero come appariscono al senso, apparendo esse a vari individui o anche allo stesso individuo in diversi tempi diverse, la stessa cosa sarebbe e non sarebbe, nè varrebbe più il principio di contraddizione (2). Non è dunque nelle sensazioni che si possa trovare la verità , la verità assoluta (3). Convien dunque ricorrere alle specie con cui conosciamo ogni cosa (4) per trovare una notizia vera e permanente; e la scienza non può avere altro genere che gli universali (5), però in questi solo, non nelle particolari e sfuggevoli sensazioni, dimora la verità. Di che conchiude, che, affinchè ci sia la scienza e la verità, è necessario che ci siano degli altri enti oltre i sensibili (6). E in fatti sono due cose ben diverse, che sia vero che a me un ente apparisca così, e che sia vero che un ente sia così. Della prima di queste due specie di verità, dice Aristotele, che il senso del proprio oggetto è sempre verace; non della seconda. Ma, a vero dire, nè pure questo si può accordargli, perchè il dire: « è vero che mi apparisce questo e questo », non è un pronunciato del senso, al quale solo rimane l' apparire, senza formarsi mai la questione, se l' apparenza sia vera o falsa: questa appartiene alla ragione: l' apparenza sensibile dunque non è giudicata dal senso, e rimane apparenza senza alcuna relazione col vero o col falso, che è sempre nella mente e non nel senso, come lo stesso Aristotele insegna (1). Oltracciò il carattere della verità è quello d' esser permanente ed eterna; quello che è vero, è vero sempre: il senso all' incontro e le cose sensibili sono perpetuamente rimutabili, e se non esistessero che queste, concede lo stesso Aristotele, che non ci potrebbe essere nè scienza nè verità, e che avrebbero ragione Democrito e Protagora (2). Ma quello stesso che si muta si può considerare con una specie e con un pensiero che non si muta, e in questo giace la verità di quello (3). Se si considera attentamente questa dottrina della sensazione, si trovano molte cose in essa levate dal sistema platonico, e in questo pienamente coerenti, ma ripugnanti all' aristotelico. Poichè se il sensibile è solo apparente e mutabile di continuo, e quindi non ha la verità in sè stesso, ma solo il pensiero fa intorno ad esso delle proporzioni vere, dicendo a ragione d' esempio « è di continuo mutabile, è apparente, mi appare questo e questo »; e queste proposizioni sono verità nella mente e quivi immutabili e non nei sempre mutabili sensibili: come mai, in tal caso, le specie possono essere ne' sensibili, alcune in atto nella materia, altre in potenza ? Anzi non resta altra conclusione possibile, se non quella che sagacissimamente ne cavò Platone, quando disse che le essenze delle cose sensibili erano nelle idee , e le cose sensibili non erano che certe similitudini e imagini di esse. In fatti, quando la mente distingue da una parte la specie d' un sensibile e dall' altra il sensibile , e vede che quella ha caratteri opposti a questo, essendo quella permanente, immutabile, eterna, questo sfuggevole di continuo, rimutabile e corruttibile: non è certamente più possibile nè di confondere questo con quella, nè di anteporre questo a quella, nè di dire che quella copii questo, perchè come può quello che è eterno, copiare da quello che non dimora mai nella stessa condizione, non è, ma sempre diventa? E` dunque indeclinabile convenire, nel riconoscere conveniente e sagacissima la maniera di esprimersi di Platone, che i molti sensibili imitino e simulino per un istante quella unica specie che mai non passa: ed è manifestamente insostenibile che la specie incorruttibile sia o possa essere, o in atto o in potenza, in ciò che ha natura corruttibile, momentanea ed apparente, cioè relativa ad un altro. Nè suffraga punto ad Aristotele il cercare, ch' egli fa nel sensibile, un punto fermo nella materia quasi in cosa permanente (1); perocchè, accordata anche la sua ipotesi erronea della materia eterna, egli stesso insegna che la materia non è il fondamento della cognizione e che tutto si conosce non per la materia, ma per la specie e per l' atto; e la specie e l' atto sensibile è appunto il fuggitivo e l' apparente. Nè gli val meglio un altro effugio che tenta Aristotele, dicendo che il sensibile ha la sua fermezza nell' anima in cui si attua la forma sensibile (2). Poichè l' anima stessa ha la sua verità nella specie con che è conosciuta, giacchè anche l' anima si conosce come l' altre cose (3); onde, per essere il sensibile nell' anima, non muta natura, è sempre vero solo come apparenza, e vero non perchè egli abbia la verità in sè, ma perchè ha la verità nella mente, che lo giudica tale, nella qual mente, a detta dello stesso Aristotele, sta il vero ed il falso: e che cosa è questo se non quello che avea detto Platone? E quando Platone diceva che le specie o idee non sono le cose, ma contengono l' essenze delle cose, non dice quello che poi ripete Aristotele, cioè che le cose si dividono in due classi, altre sensibili, altre intelligibili? (4) e che quelli che distruggono le cose intelligibili e lasciano solo le sensibili distruggono la scienza, la verità? (5). In che consiste dunque la differenza? Certo in quello che dicevamo: che Platone non riconosce nelle cose sensibili se non un riflesso, un' imagine, una realizzazione delle intelligibili; laddove Aristotele trova esser questo un sequestrare soverchiante le idee dalle cose sensibili, per un abisso che non si può più colmare. Ricorse dunque a dire che le cose intelligibili sono nelle sensibili in potenza: le sensibili poi sono in potenza nella materia corporea. Così credette di aver legata tutta insieme la natura e tolto lo sconcio del lasciarla sconnessa quasi un mucchio di episodŒ. Ma s' intenda bene tutto il pensiero aristotelico, che a dir vero è imaginoso e gigantesco, ma non regge alla prova d' un raziocinio rigoroso; noi l' esporremo colle nostre parole, per dirlo più in breve, ma rendendolo, come crediamo, con fedeltà. E qui si presentano alla mente da sè una folla di questioni; ne indicherò quattro: 1 Le specie che sono innumerevoli si riducono ad unità, o il divino è diviso e molteplice? 2 Le specie non sono universali? e se sono universali non sono esse in potenza, secondo Aristotele? Come dunque saranno il divino che dev' essere puro atto? 3 Le specie e i generi si formano nella mente umana per via d' induzione da' sensibili: ma come si formano se sono eterne e divine? 4 Le specie sono partecipate dalla materia: or come il divino può comporsi colla materia? Della prima questione ci verrà occasione di trattare in appresso. La seconda e la terza hanno una certa affinità tra loro. Poichè l' una e l' altra sembrano nascere dalla maniera dialettica di concepire d' Aristotele, per la quale la stessa idea o specie diventa nelle sue mani più cose, secondo la diversa relazione sotto cui la riguarda. Poichè pare che talora la consideri sotto la relazione d' universale e di comune a più cose, e in tal aspetto essa e i generi superiori si ritraggono dalle cose sensibili per via d' induzione, e non dànno allora una cognizione attuale delle sostanze composte di materia e di specie; talora poi in sè stessa, ed allora come una cosa eterna, o certo riducibile in un' ultima idea eterna, ingenerabile, che non si produce, che solo si vede o non si vede: e che è sostanza singolare ed ultimata. E veramente la ragione, per la quale nega che la specie sia separabile ed essente per sè, non è tratta propriamente dalla natura della specie stessa, ma dalla specie considerata in relazione con un subietto che può averla ed anche esserne privo: onde argomenta che è relativa al subietto, e che però non si può da esso separare: egli trova assurdo che si consideri la cosa in sè, e nello stesso tempo si consideri come inesistente nel subietto; in sè è antecedente al subietto, ma in tal caso non è più considerata come parte del composto. Egli trova un errore de' filosofi che lo precedettero, di fare che i principŒ sieno contrari, come sono le specie in relazione al subietto, perchè lo stesso subietto può avere specie contrarie. [...OMISSIS...] . Distingue dunque il bianco in sè, [...OMISSIS...] , dal bianco come predicabile d' un subietto, [...OMISSIS...] , e condanna que' filosofi che dicono esser principio una specie in quant' è predicabile. Ora, se questa specie, che si vuol principio, fosse a ragion d' esempio il bianco, egli è evidente che sarebbe anteriore il bianco in sè come puramente bianco, dal bianco come predicabile d' un subietto, [...OMISSIS...] , e però il principio sarebbe questo bianco in sè, e non il bianco predicabile. Da questo conchiude che niuna specie in quanto è predicabile , può essere il primo principio, perchè non ci può essere nulla d' anteriore al primo principio; e i predicabili hanno d' anteriore le specie considerate in sè stesse, pure da ogni materia, onde a queste si deve ricorrere per rinvenire il primo principio di tutte le cose. Ora, tutti i predicabili sono contrari, perchè i predicabili sono sempre d' un subietto, e però senza il subietto non può esistere il predicabile; il subietto poi è suscettivo del predicabile e del suo contrario. Hanno dunque torto quelli che fanno i principŒ contrari tanto nelle cose fisiche, quanto circa le essenze immobili (1), poichè i contrari sono predicabili. Distingue dunque Aristotele e qui e altrove (2) la specie come specie pura, e la specie come predicabile d' un subietto. Altra dunque è secondo Aristotele la stessa forma in sè, [...OMISSIS...] , e altra è la forma mista colla materia, [...OMISSIS...] . La prima è la ragione e la quiddità , [...OMISSIS...] , della cosa, per esempio d' un circolo, e in questa ragione non c' entra la materia, l' oro o il bronzo, come non appartenenti all' essenza, [...OMISSIS...] : la prima è detta da Aristotele semplicemente la specie , la seconda la cosa avente la specie (4); la prima è l' essere della cosa , come [...OMISSIS...] , l' altra è l' essere di questa cosa , come [...OMISSIS...] , la prima dicesi semplicemente «to eidos,» l' altra dicesi «to eidos en tehyle.» Or poi solamente questa seconda dicesi «to kath' hekaston» (5), cioè « « specie delle cose singolari » ». Quest' ultima denominazione dimostra chiaramente che ciò che si predica de' singolari non è per Aristotele la specie pura e presa in sè, ma la specie nella materia. Nega bensì Aristotele di molte specie che sieno fuori de' singolari, distinguendole però da' singolari, secondo la ragione [...OMISSIS...] , e ammettendo che la specie e l' essenza è unica in molti singolari (7): ma questo intende della specie nella materia, [...OMISSIS...] . E di questo biasima i Platonici, in quanto vollero che la specie, in quant' è ne' singolari, esistesse da sè stessa come un altro singolare. Della specie poi presa in sè stessa e non come predicabile, [...OMISSIS...] , fa tutt' altro discorso, e, per quel ch' io intendo, la riduce a certe specie ultime o all' ultimissima, l' essere o la mente in senso obbiettivo, di cui riconosce l' eterna sussistenza. La riprensione dunque che fa ai Platonici consiste primieramente in questo: ammettendo che la stessa specie che è in un individuo sostanziale, sia un individuo sostanziale ella stessa, [...OMISSIS...] (1), si avrebbe qui una terza specie comune, che è quello che dicevasi il terzo uomo . Ora, egli dice, non c' è il terzo uomo tra la specie pura e la specie nella materia, [...OMISSIS...] (2). Poichè se ci fosse quella terza specie (3), per la stessa ragione ce ne dovrebbe essere una quarta e così all' infinito, nel che i Platonici convenivano. In queste parole si ammette che esista la specie stessa, «par' hauton», e che esista il singolare composto di materia e di specie, «kath' ekaston,» ma quello che si nega si è solamente che questa seconda specie inesistente nella materia abbia una sussistenza individuale, sia un individuo anch' essa; nel qual caso sarebbe una terza cosa. Aggiunge poi Aristotele un' altra questione: « « se ogni specie considerata in sè, e non come predicabile, esista veramente separata? » ». « « C' è egli o non c' è qualche altra cosa oltre lo stesso tutt' insiemeDico la materia e ciò che è con essa? » » (la specie nella materia). « « Poichè se non c' è, quelle cose che sono nella materia, sono tutte corruttibili (4). Se poi c' è qualche cosa, per certo che sarà la specie e la forma »(5) ». Quest' è questione diversa dall' altra: nell' altra si cercava se oltre questi due, 1 la specie stessa e 2 il singolare composto di materia e di specie, ci fosse una terza cosa che potesse essere principio comune a quelle due, e si rispondeva di no: in questa si cerca se oltre il singolare composto esista la stessa specie in sè come sussistente, e risponde di sì, ma dice: « « essere difficile determinare rispetto a quali cose questa specie ci sia, e rispetto a quali cose non ci sia »(6) ». Toglie dunque a determinare rispetto a quali cose la specie in sè non esista separata e sussistente, e prima di tutto esclude le specie artistiche, poichè riguarda come cosa manifesta che la specie della casa non sussiste in sè, ma solo nella casa (1): dove si vede che per Aristotele altro è esistere la specie in sè scevra da materia, e altro è esistere separata come un ente da sè sussistente: poichè la specie della casa esiste scevra da materia nella mente dell' architetto, ma non come un ente che da sè solo sussiste. Resta il dubbio rispetto alle cose naturali: intorno al qual dubbio dice: [...OMISSIS...] . Non vuole dunque Aristotele che sussistano per sè come enti separati e indipendenti nè le specie artistiche, nè le specie delle cose naturali. Pure le ammette, ma in che modo? Le ammette tanto unite colla materia, quanto separate della materia, ma non come enti sussistenti da sè. In quanto sono nella materia da questa accecate non sono nè attualmente intelligibili, nè intelligenti, ma pur sono intelligibili in potenza. Quando poi si riducono all' atto, per opera della mente in atto, allora sono scevre di materia, ed esistono come pure specie, ma non come enti indipendenti, ma come appartenenze della mente: la mente poi è quella specie che sussiste in sè da ogni altra cosa separata, indipendente e al tutto divina. Trova dunque indegno della divinità l' ammettere specie eterne di cose corruttibili per sè essenti, poichè se così sussistessero, sarebbero altrettante divinità: e ripugna che la divinità sia fatta come gli enti finiti sensibili e corruttibili della natura, colla sola aggiunta, che sieno eterni e incorruttibili. Ma se la mente stessa è una prima specie, e però un primo intelligibile, ammesso da Aristotele, come contenente ora in potenza, ora in atto tutte l' altre specie, tutti gli altri intelligibili: come dice che intelligibile è dunque la mente, e come scevera essa dalla materia e riduce in atto le specie che si riferiscono agli enti materiati? La mente, dice Aristotele, è dei principŒ: ciascun genere è il principio di ciò che è subordinato ad esso (1); ma fuori e al disopra di tutti i generi c' è l' essere e l' uno che non differisce dall' essere se non di concetto (2): questo è principio di tutti i generi e di tutte le cose, e in questo si fonda il principio di contraddizione, primo principio di tutti i principŒ logici. Se dunque la mente è il principio dei principŒ, e l' essere è appunto il principio de' principŒ, consegue che la mente in senso obiettivo e come intelligibile sia l' essere , in senso subiettivo poi sia l' intuizione dell' essere e nell' essere dei principŒ primi del ragionamento. E qui appunto ha luogo il doppio aspetto, sotto cui dicevamo che Aristotele considera l' idea o specie, cioè in sè stessa come sostanza sussistente, e come universale partecipabile. Poichè cercando qual sia l' oggetto della prima filosofia, da una parte dice che è la prima sostanza separabile e per sè sussistente, dall' altra dice che è l' ente universalissimo. Nell' XI dei « Metafisici », dopo aver detto che ogni scienza ha per principio la quiddità (3), e mostrato in che modo questo accada nella fisica e nella matematica, venendo alla prima filosofia dice: [...OMISSIS...] . Riguarda dunque per primo e principale principio, [...OMISSIS...] , l' Ente separato ed immobile, [...OMISSIS...] , e questo vuole che sia l' oggetto della prima filosofia. Ma separato da che? Da tutto quello certamente che non è puramente ente. Questo si vede considerando come Aristotele distingue gli oggetti delle scienze in cui divide la speculativa che sono fisica, matematica e filosofia prima. L' oggetto della fisica è l' essenza delle cose naturali unita colla materia, come il naso simo che ha ad un tempo il concetto di concavo e la materia corporea di cui necessariamente il naso si compone, e però essendoci la materia e la forma, c' è in queste cose il principio del moto (1). L' oggetto della matematica è quell' essenza che si separa bensì coll' astrazione dalla materia, e però è immobile; come il concavo che è il concetto del naso simo dalla materia del naso (2), ma non è da essa separabile in fatto, di modo che sussista da sè sola, e una tale essenza è la quantità (3). Finalmente l' oggetto della prima filosofia è un' essenza non solo separabile per astrazione, ma separabile di fatto e sussistente da sè come una compiuta ed ultimata sostanza, e questa essenza separabile è l' ente come ente; [...OMISSIS...] (4). Da questo passo risulta, che ogni scienza ha per suo oggetto un' essenza, o quiddità [...OMISSIS...] ; ma che Aristotele distingue l' essenza dalla ragione dell' essenza , [...OMISSIS...] e quindi l' essenza è considerata sotto un' altra ragione o aspetto dalle tre accennate diverse scienze. L' essere dunque, secondo Aristotele, è solo quell' essenza che inesiste in tutte le cose (5), e che sussiste anche separata da tutte e per sè, ed è il divino, [...OMISSIS...] . Questa dunque è ad un tempo singolare in quant' è separata e da sè sussiste, e universale e comunissima, in quant' è in tutti gli enti, non come genere (6), nè come privazione , nè tampoco come specie limitata , ma puramente come essere comune a tutti i generi, a tutte le specie, ed anche alle differenze, ma sotto un altro rispetto, di maniera che la ragione, [...OMISSIS...] , sia diversa. Ciò posto, s' intende in qualche modo come la mente sia ad un tempo dell' universalissimo e del singolare, e come ad una stessa scienza, cioè alla filosofia prima, Aristotele attribuisca per oggetto Iddio, e l' essere comunissimo e universalissimo, come fosse un oggetto medesimo, supponendo Aristotele che l' Essere come separato e da sè sussistente sia Dio, e che l' essere stesso sotto un altro concetto logico sia in tutte le cose: e qui di novo c' è la traccia di quel panteismo che giace in fondo al sistema aristotelico. Concede dunque a quelli, che chiama gli elegantissimi, [...OMISSIS...] , cioè ai Platonici, che ci debba essere un' eterna sostanza e separabile, non potendo esserci senz' essa l' ordine nel mondo (1) e che questa sostanza sia l' essere e l' uno, che sono, pare, i principŒ sommamente immobili [...OMISSIS...] , perchè, rimosse anche tutte l' altre cose coll' astrazione, queste rimangono, ma vuole che essi si costruiscano e concepiscano come quiddità determinata e sostanza compiuta [...OMISSIS...] (2). Ma qui si fa egli stesso l' obbiezione: se, dice, supponiamo che l' ente e l' uno sia una quiddità e sostanza determinata (3), in tal caso s' avrebbe l' assurda conseguenza che tutto fosse sostanza, anche gli accidenti, perchè anche di questi si predica l' essere, e di alcuni anche l' uno. Quello dunque che ripugna ad Aristotele non è già che l' essere , a cui si riduce l' uno, sia una sostanza separata ed eterna, ma che tale sia l' essere come predicabile secondo quest' obbiezione, e non trova nè pure assurdo, che tale sia l' essere come predicabile delle sostanze, ma sì che tale sia l' essere come predicabile degli accidenti, poichè in tal caso, essendo l' essere sostanza, gli accidenti si cangerebbero in sostanze. La soluzione di questa difficoltà è oscura in Aristotele: pure ci pare, che egli l' intenda così. Ammette queste due proposizioni: 1 Che la prima filosofia tratti intorno all' Ente separabile, sostanza prima e singolare, Bene, Dio (1); 2 Che ogni scienza ed anco la prima filosofia tratti degli universali, tra' quali l' essere è il massimo e il comunissimo (2). Egli cerca la conciliazione di queste due proposizioni, poichè l' universale è in potenza e però è diverso dall' ente separato, che dev' essere atto purissimo: espone a lungo e replicatamente le difficoltà che involge l' una e l' altra proposizione: finisce coll' ammetterle entrambi; ma brevemente e oscuramente parla quando vuol dissipare quelle due serie di difficoltà e conciliare proposizioni che sembrano contraddittorie. La conciliazione dunque d' Aristotele, se non erro, è questa. L' ente come ente ha un senso primitivo ed assoluto, e preso in questo senso è separabile e sussistente, ed è Dio: ma quest' ente ha poi altri significati che si riducono tutti a quel primo (3). Questi altri significati sono quelli che appartengono alle predicazioni dell' ente. L' ente si può predicare in due modi, per sè e per accidente: l' ente per accidente non può costituire l' oggetto d' alcuna scienza; e nelle predicazioni, in cui l' ente si predica per sè, sia de' generi, sia delle specie, sia delle differenze, esso significa partecipazioni dell' ente. Ma queste predicazioni sono varie; e alcune sono relative ad altre, come l' ente predicato del quanto, del quale e del relativo, si riferiscono all' ente predicato della sostanza, e significano passioni di questa. L' essenza sostanziale invece non si predica che della sostanza singolare. Di più, tra le sostanze stesse che partecipano l' ente, altre lo partecipano potenzialmente, altre attualmente; più attualmente di tutte l' altre lo partecipano le anime intellettive, tra le quali è la Mente; e questa in senso obiettivo è l' ente stesso primitivo e divino. L' ente dunque predicato e partecipato è universale e comunissimo, e però anche la prima filosofia tratta dell' universale (1); ma essa non si ferma a questo, ma riduce questo all' ente separabile, come a sostanza compiuta. Che se il filosofo col suo pensiero si fermasse all' ente come universale e predicabile, non sarebbe ancora giunto all' ultima e più ultimata sostanza e specie, e però non avrebbe la prima scienza (2). Non si può dunque dividere la dottrina dell' essere universalissimo dalla dottrina di Dio, perchè questa risulta da diverse partecipazioni o relazioni con quella. Quello dunque, che Platone disse di tutte le specie o essenze, Aristotele restrinse al solo essere , e non si può a meno di ravvisare in questo un progresso dell' ideologia . Platone vedendo l' immutabile natura delle essenze, disse che dovevano essere eterne sostanze, di cui le sostanze sensibili partecipassero, e così spiegò l' esistenza di queste. Aristotele osservò, con molta sagacità certamente, che gli universali non indicano l' essere delle cose, ma alcune loro qualità comuni (3), perchè in fatti gli universali si predicano di molti individui, di che conchiuse « « che gli universali non potevano esistere da sè come enti compiuti » », ma solo potevano esistere negli enti compiuti, come loro qualità comuni (4). Che se si ponesse che l' universale sia un ente compiuto, in tal caso ne seguirebbero due assurdi: il primo , che tutti gli enti di cui si predica un universale, sarebbero il medesimo ente, l' altro, il secondo , che un ente solo sarebbe composto di molti enti compiuti, come Socrate dell' ente animale, dell' ente uomo, ecc. (5). Ma è facile vedere, che dell' essere non si può dire quello stesso, che degli altri universali, cioè non si può dire che non significhi «tode ti,» ma «toionde,» poichè essere non significa certamente una qualità dell' essere , ma l' essere stesso . L' argomento dunque d' Aristotele contro le idee platoniche qui si frangeva: ed egli stesso dovette convenire, che l' essere si potea porre a parte dal resto, [...OMISSIS...] , come sussistente da sè solo, e si potea di lui dire quello che Platone estendeva a tutte le idee, cioè che sussistessero da sè come essenze eterne, e i sensibili non fossero che una cotale imitazione e partecipazione di esse. Ma se quell' argomento contro la sussistenza degli universali non si poteva applicare all' essere , altri argomenti parevano valere ugualmente anche per l' essere universale . [...OMISSIS...] Quest' ultime parole, a dir vero, escludono l' essere dall' argomento; dico l' essere proprio della cosa, perchè l' essere della cosa è il subietto stesso, di cui si predicano l' altre cose, ed Aristotele dice appunto, che la prima scienza ha per oggetto gli enti come subietti , e non come qualche cos' altro, [...OMISSIS...] (3). Sembra dunque che la scienza prima non tratti dell' essere come predicato, perchè come predicato è universale, e s' incorre nell' obbiezione accennata, [...OMISSIS...] onde la scienza prima non tratterebbe della sostanza, e della prima sostanza, come pur deve (4). Ma per l' opposto Aristotele stesso insegna espressamente che la prima scienza tratta dell' ente comune , dell' ente in quanto ente in universale , e che se l' ente non si considerasse come un solo genere , non potrebbe essere oggetto d' una scienza sola, ma di più (1). E in fatti, poichè la scienza prima tratta di tutti gli enti, in quanto sono enti subietti , [...OMISSIS...] , come potrebb' essere una scie o genere comune? E` dunque indubitato che la prima scienza, secondo Aristotele, tratta dell' ente come puro ente, [...OMISSIS...] , e che questo puro ente in quanto esiste separato da ogni altro ed è compiuto è Dio, ma oltracciò è anche univocamente gli altri enti tutti della natura, benchè mescolati di potenza e di atto, ed essendo tutti questi enti , è comunissimo: dove si vede riaffacciarsi il panteismo aristotelico, che abbiamo già scoperto. E` comunissimo univocamente a tutte le sostanze prime e singolari, ma non alle nove categorie che seguono a quella della sostanza, delle quali l' ente si dice «omonymos,» e così non appartiene più alla scienza prima, se non per una cotale relazione di pensiero, per la quale si considerano que' diversi significati di ente, come passioni o altre attinenze dell' ente come ente (2). Or se l' ente si dice di tutte le sostanze singolari, oltre l' altre sue significazioni equivoche o relative, sarà egli l' ente un predicato , quando Aristotele nega assolutamente, che ciò che è predicato, sia sostanza ed oggetto della prima scienza? Ritorna qui quello che dicevamo a principio, che Aristotele considerando l' ente dialetticamente, ne fa due, cioè stabilisce due ragioni dell' ente, secondo l' una delle quali sussiste da sè separato da ogni passione, e quest' è Dio sostanza suprema e singolare, l' altro poi è la specie comunissima dell' ente. Ora rispetto a tutte l' altre sostanze, non ammette se non due modi, cioè: 1 la sostanza singolare , 2 la specie sostanziale , che non esiste separata da quella, e da sè come sostanza compiuta, ma solo separata di ragione e così esistente nella mente. Ma rispetto alla suprema sostanza, cioè a quella dell' essere, pare che ammetta tre modi: 1 l' essere che esiste separato come sostanza compiuta, e questo è Dio; 2 l' essere comunissimo , che è la specie dell' essere che esiste separata nelle menti prese in senso subiettivo, e che costituisce le stesse menti in senso obiettivo; 3 e l' essere che costituisce tutte le singolari sostanze come subietti delle modificazioni e passioni, e di tutti i predicati. Ora, la scienza è sempre degli universali; laonde delle singolari sostanze finite non si dà scienza, ma si conoscono colle specie loro che sono nella mente e col senso. Ma poichè l' essere come essere è egli stesso ad un tempo e specie universale e singolare sussistente, risulta che si conosca per sè, e però che sia intelligibile anche come singolare, chè quello stesso essere che è sussistente come singolare è anche universale, specie universalissima, specie delle specie. L' essere dunque è per sè conoscibile. E poichè le specie dell' altre cose sono nella mente oggettivamente presa, cioè nell' essere, perciò coll' essere e nell' essere si conoscono l' altre cose. Ma è necessario, che noi vediamo come l' essere possa esser predicato . Poichè se attentamente si considera ben si vedrà, che egli ha una natura interamente diversa da tutti gli altri predicati; e benchè Aristotele non esponga chiaramente questa differenza, egli è mosso a fare un' eccezione all' essere, perchè n' ha il sentimento. E veramente di che mai si può predicare l' essere? Forse del nulla? No certamente. Di qualche materia o potenza, di qualche specie od atto? In tal caso si supporrebbe che prima dell' essere ci fosse qualche cosa, che potesse servire di subietto all' essere predicato. Ma prima dell' essere non c' è nulla, perchè se ci fosse, sarebbe già essere (1): egli dunque è veramente il primo subietto (dialettico) di cui tutto il resto si predica. L' essere dunque non si predica, che dell' essere stesso. Ora, come non manca d' osservare Aristotele, la predicazione si fa nel pensiero (2) e propriamente consiste nell' applicare l' essere intelligibile o ideale al reale sensibile o a un altro intelligibile che è precedentemente nella mente. L' essere intelligibile fa conoscere all' uomo la natura dell' essere, unica e semplice (3): nei sentiti dunque e negli altri intesi si riconosce questa natura dell' essere: è una identificazione dell' essere inteso, e che è in potere della mente, col sentito o coll' inteso precedentemente, ma questa identificazione non si può fare che in quel grado e modo che è determinato dallo stesso sentito ed inteso, il quale fa il personaggio di subietto, benchè non esista se non per una tale identificazione della mente. La spiegazione dunque di questo mistero consiste nella distinzione tra l' essere reale e l' essere ideale o intelligibile, che gli antichi non avevano colta, o certo non aveano mantenuta costantemente. Se dunque si domanda se l' essere predicato d' ogni cosa è universale, si dovrà rispondere di sì avanti la predicazione; ma colla predicazione egli diventa uno con ciò di cui si predica, e perciò l' essere della cosa di cui esso si predica è reale o ideale, sostanza o accidente, assoluto o relativo; perchè l' essere universale che si predica è suscettivo di divenire tutto ciò mediante la predicazione. Quindi se l' essere si predica d' una sostanza reale e compiuta, egli stesso dopo la predicazione è sostanza reale e compiuta. Ma se si predica di cosa accidentale e relativa, egli dopo la predicazione non è un ente compiuto, ma ente in senso equivoco, ente imperfetto, parte di ente e non ente. Acciocchè dunque l' ente, che si predica, dopo la predicazione sia ente compiuto , conviene che sia predicato della sostanza reale ; e tuttavia non è meno vero che avanti la predicazione egli è essere universale e universalmente predicabile, tanto della sostanza, come del quanto, del quale, del relativo. Ma poichè avanti la predicazione è il medesimo essere che dopo la predicazione, come accade che dopo la predicazione diventi così vario e molteplice, e talora non si possa dire più semplicemente ente, come quand' è predicato dell' accidente? La ragione di ciò si è che avanti la predicazione l' essere è in potenza tutto ciò che dopo la predicazione è in atto: ora alcuni dnza sola, quando tutti questi enti non s' adunassero in una sola speciei questi atti, come gli accidentali, non sono atti compiuti dell' essere, ma parte di atti e però smarriscono la denominazione semplice di essere, benchè tali atti parziali si riducano agli atti completi. Ora ciò che è in potenza e ciò che è in atto appartiene allo stesso genere, secondo Aristotele; e però quella scienza prima che tratta dell' essere come essere, tratta anche delle passioni dell' essere come essere. Di più tra gli atti compiuti dell' essere ce n' ha uno ultimatissimo e compiutissimo, anteriore a tutti gli altri, dal quale gli altri dipendono come da loro causa finale, e quest' è Dio; onde la prima scienza dee trattare principalmente di Dio. Così questa scienza ha per oggetto ad un tempo: 1 Dio, essere attualissimo; 2 l' essere in potenza o comunissimo; 3 le partecipazioni di quest' essere, considerate non a parte, ma come passioni dell' essere come essere (1). Che cosa si presenta al pensiero del filosofo? Tutto, tale qual è l' universo. Questo, per ipotesi assunta (chè prove efficaci non se ne danno e le inefficaci trapassiamo per brevità), è sempre stato. Dunque ci si dovea trovare tutto ciò che c' è al presente. Poteva sussistere l' universo solo materia corporea senza alcun' anima vegetativa ? No, risponde, perchè senza questa non c' è l' anima sensitiva. Ma non potrebbe esistere l' universo senza alcun' anima sensitiva ? In tal caso non si potrebbe più concepire esistente cosa alcuna, [...OMISSIS...] (il solo corpo sensibile) [...OMISSIS...] . (2). Poteva esistere l' universo senza l' intelligenza, ossia l' anima intellettiva ? Impossibile del pari, perchè in tal caso non essendoci che i senzienti, e in essi i sensibili, e questi essendo apparenze relative, non esisterebbero che relativi, il che è assurdo (3). Poteva esistere l' anima intellettiva senza gli intelligibili ? Nè pure, perchè la mente non è tratta al suo atto, che da una specie di contatto cogl' intelligibili, [...OMISSIS...] (4). Aristotele dunque trova, che nell' università delle cose, ci sono e ci devono essere sempre state queste cinque cose: 1 materia corporea; 2 esseri vegetativi; 3 esseri sensitivi; 4 esseri intellettivi; 5 intelligibili; e che se un solo di questi anelli mancasse, non potrebbero più esistere gli altri. Questi anelli poi sono collegati così, che il seguente è il precedente in atto, e il precedente è il seguente in potenza. Quindi la materia corporea è in potenza l' anima vegetativa, la qual è l' atto di quella; l' anima vegetativa è l' anima sensitiva in potenza, e questa l' atto di quella; l' anima sensitiva è l' intellettiva in potenza, e questa l' atto della sensitiva; l' anima intellettiva è gli intelligibili in potenza, e questi sono l' atto di quella. Così costituito e organato l' universo, si fa a spiegare la generazione delle cose. Osserva, che certi corpi passando all' atto metton fuori l' anima vegetativa, e questa la sensitiva, e questa passando all' atto l' anima intellettiva, e questa passando all' atto gl' intelligibili. Ma come si fa questo passaggio? Risponde: è sempre una cosa in atto, quella che opera e trae un' altra cosa, che è in potenza, al medesimo atto, la potenza non si move da sè stessa, ma solo asseconda e segue il movente. Se dunque vi sono cose che relativamente sd altre sono in potenza, queste però che sono in potenza, non potrebbero passare al loro atto, se non per la mozione d' altre cose che sono in quel medesimo atto, a cui esse passano. Laonde, se rispetto a quelle cose, che, essendo in potenza, passano all' atto, la potenza precede, l' atto sussegue: questo però, assolutamente parlando, precede sempre la potenza, cioè deve esistere in altre cose. E poichè la potenza e l' atto non sono che un medesimo ente, quindi tutte le cose si continuano, e sono come un ente solo che va passando a diversi stati o gradi d' eccellenza; non mancando mai questi gradi, che traggono e sollevano a sè quella porzione di natura rimasta indietro in uno stadio inferiore (1). Fermandoci qui, dicevamo che questo ingegnoso sistema non regge ad un esame rigoroso. Invano ricorre a questo principio vero e acutissimo, che « « l' atto di chi opera, si fa in quello in cui si opera » » (2). Primieramente la materia corporea, mancando per sè d' unità, non può mai essere un subietto com' egli stesso riconosce (3), appunto perchè non può esser una: quindi vacilla la base di tutto il sistema. Di poi quest' espressione « « ciò che è in potenza » » o è una frase insignificante e che non dice nulla di reale, o significa un germe, un principio, da cui si sviluppi quello che inchiude. In tal caso converrebbe che nella pura materia corporea ci fosse in germe la vita vegetale. Ma se questa ci fosse, non sarebbe più la materia pura ma formata, e non potrebbe poi essere al tutto materia corporea ed estesa, ma già sarebbe un principio inesteso, insito ed operante nella materia; e questo principio solo potrebbe essere il vero subietto dell' anima vegetale, di cui la materia non sarebbe che un puro termine. Che cosa poi dovrebbe essere l' anima sensitiva in potenza? Se l' anima vegetale, come suppone Aristotele, non sente nulla, in che modo ci può essere un germe del sentimento che non sente nulla? Nel germe si acchiude sempre qualche cosa di ciò che si svolge da esso di poi (1). O conviene dunque ammettere nell' anima vegetale qualche cosa di sentito, per minimo che sia, o riconoscere che non c' è in essa punto nè poco l' anima sensitiva in potenza. Il sentimento dove non è, dovrebbe essere creato del tutto, e non sviluppato; esso differisce di specie, ed anzi di genere da tutto ciò che non sente, e lo stesso Aristotele confessa, senz' accorgersi che così atterra sè stesso, che la produzione si fa entro la stessa specie, e dall' univoco (2). Medesimamente, non contenendo il sensibile l' essere delle cose, che è l' oggetto, secondo Aristotele, dell' intelligenza, come l' intelligibile si potrà trovare in potenza nel sensibile? E come potrà ridursi all' atto quello che non c' è? e non dovrà piuttosto crearsi dal nulla? O dunque « trovarsi in potenza »è un suono vano, o se vuol dire trovarsene qualche parte, per quanto involuta, già non è più vero, che il sensibile non sia che fenomenale e puramente relativo, come pur insegna Aristotele. Da tutte parti dunque crolla cotesto sistema, rimanendo però veri certi principŒ e certe parti accidentali. Arrivati noi qui agl' intelligibili d' Aristotele, ci si offre di nuovo la questione che abbiamo trattata precedentemente: se ci sia per Aristotele qualche intelligibile, che sussista da se solo. Su cui ci par necessario d' aggiungere alcune altre considerazioni, essendo questo il nodo più difficile di tutto l' Aristotelismo, e il più controverso. E già abbiam veduto, che Aristotele distingue le specie in quelle che sono in natura, e in quelle che servono all' uomo di norma nell' opere dell' arte. Sulla quale distinzione osserviamo come Aristotele non concepisca la specie unicamente come un' idea, che fa conoscere le cose, ma confondendo la specie7idea colla forma reale delle cose (cioè col loro atto immanente), dà a questa forma reale un' efficienza nella cosa stessa che non può certamente dare alla pura specie ideale , che sta nella mente dell' artista, la quale è bensì efficiente, ma nell' artista, non nella cosa dall' artista prodotta (1). Questa confusione del reale coll' ideale impaccia tutto il sistema aristotelico, e in qualche parte anche quello di Platone, a cui Aristotele riferisce la distinzione tra la specie negli enti naturali, e nei prodotti dell' arte (2). Alla specie artistica dunque nega a dirittura, come vedemmo, l' esisenza da sè; delle specie naturali non parla così reciso. [...OMISSIS...] Osserviam dunque su questo luogo che il negare il titolo d' essenze alle specie artistiche, riservandolo alle sole specie naturali, che costituiscono la natura delle cose e il principio della generazione e della corruzione, è consentaneo al suo sistema, il quale non ammette con Platone che l' universo sia creato da Dio come da un artefice, sull' esemplare delle proprie eterne idee, ma vuole, che tutto sia stato sempre, e questo tutto si rimova eternamente e cangi per que' quattro modi di trasmutazioni che abbiamo indicati, rispondenti alle quattro prime e fondamentali categorie. S' osservi anche quell' espressione, « « che d' alcune specie non può accadere così » », [...OMISSIS...] , per la quale sembra che consideri come accidentale a tali specie il sussistere separate. Con questo egli allude indubitatamente all' anima intellettiva, che considera come specie del corpo corruttibile, negando che preesista al corpo, come pare facesse Platone o alcuno della sua scuola, sebbene conceda che sopravviva al corpo, corrompendosi accidentalmente questo. Escluse dunque le specie artistiche, veniamo alle naturali che oltre esser mezzo del conoscere, quando rimangano nella mente separate dalla materia corporea, sono anche forme degli enti della natura (4). Richiamiamo il gran principio aristotelico, che « « niente di quello che è in potenza è eterno », [...OMISSIS...] (1), «e che se c' è una specie separabile, questa dee essere in atto », [...OMISSIS...] (2). Questo principio ci conduce egli a qualche specie in atto compiuto e separabile? Primieramente non è da discorrere della privazione , che si riduce alla specie , essendo o il mancamento della specie, o la specie opposta (3). Di poi, i generi e tutti gli universali incompiuti, non avendo l' ultimo atto, sono da Aristotele dichiarati materia (4). In terzo luogo, non possono essere separate le specie degli accidenti, perchè questi non hanno l' atto per sè, onde dice: [...OMISSIS...] . Rimosse queste tre classi di specie, che rimane? Rimane da sè la mente, specie ultimata, e separabile non solo di concetto, ma anche realmente, non solo dal corpo (se pure Aristotele rimane a questa altezza), ma anche dal resto dell' anima: e la mente è il complesso degl' intelligibili. Gl' intelligibili dunque, per riassumere, sono specie e generi, e le specie altre sostanziali, altre accidentali: queste ricevono il loro esser da quelle; la specie sostanziale è più atto della specie accidentale. I generi poi sono più potenza delle specie, e ricevono il loro atto in queste (6). Le specie sostanziali ancora si considerano o come termini dell' atto intellettivo e contemplativo, o come atti intellettivi esse stesse per la solita o almen frequente confusione che fa Aristotele tra la specie e l' atto . Secondo la prima considerazione, essendo ancora in potenza, non sussistono da sè, e Aristotele riprende Platone, quasi abbia voluto ammettere le idee come essenze prive dell' atto contemplativo, e però potenziali, quando nulla ci può esser d' eterno, che sia in potenza. La qual censura quanto sia ingiusta, scorgesi anche dal decimo della « Politeia », dove Platone fa, che le idee nascano da atti della divina mente. Che anzi lo stesso Platone non ci sembra andare del tutto immune dalla stessa colpa d' Aristotele, di non avere abbastanza distinto l' atto dalla specie , termine dell' atto (1). Per ovviare dunque l' inconveniente di non ammettere come eterne tali specie che in sè contenessero del potenziale, Aristotele pose questo principio, che « « in quelle cose che sono scevre di materia l' intelligente e l' oggetto inteso sono un medesimo » », [...OMISSIS...] (2). Ma che vuol dire « scevre di materia »? Non altro, nel linguaggio d' Aristotele, se non senza potenza. Quel principio dunque viene a significare: « Nelle cose dove non c' è potenza, ma tutto atto, l' intelligibile deve essere intelligente; chè altramente quello conterrebbe della potenza contro l' ipotesi ». Donde si conferma quanto abbiamo di sopra toccato, che Aristotele non vede atto puro se non nell' ordine intelligibile, e dentro a questo, nell' intellezione , di guisa che « atto puro del tutto ultimato »e « intellezione » è il medesimo, e quello non è già un genere, ma una cosa con questa specie ultimata. E non basta che le specie sieno attuate e divenute intellezioni: le specie che appartengono al genere della sostanza precedono alle altre in dignità per una maggiore attualità: l' altre che appartengono al genere degli accidenti, esistono per le prime. Le sole specie sostanziali dunque, ossia quell' intellezione che ha per oggetto o atto ultimato la quiddità [...OMISSIS...] (3), è la più attuale di tutte. Ma questo non basta ancora per arrivare a quella specie che sussiste da sè, secondo Aristotele, cioè alla mente . Che anzi egli è obbligato di fare, e questo è degno di osservarsi, il cammino contrario. Poichè non qualunque intellezione, che abbia un oggetto speciale o singolare, è mente, ma dee averli tutti in potenza. Conviene qui dunque che Aristotele retroceda alla potenza, non a una potenza corporea, ma pure ad una potenza, ed ecco come egli lo fa. I generi sono materia delle specie, specie in potenza (1). Essendo, specialmente certi generi , quelli « « che Platone avea celebrati, e considerati come idee fondamentali » », si compiace Aristotele di ribassarli sotto le specie. Ma ben presto n' ha bisogno egli stesso e li rialza. Infatti, Aristotele s' accorge che tutta la scienza viene da certi principŒ, e questi hanno per fondamento gli universali, e i principŒ primi hanno per fondamento gli universali della massima estensione. I principŒ primi dunque non vengono dalle specie, anzi da' sommi generi, e da ciò che è più universale ancora de' generi, l' essere. Alla mente d' Aristotele si presentano dunque, come abbiamo veduto, i generi e gli universalissimi da due aspetti, e ne trae due conclusioni opposte. Quando considera i generi qualità comuni delle cose (2), dice contro Platone, che non possono esistere separati dalle sostanze singolari. Da questi universali esclude la sostanza in atto, poichè la sostanza collocata nel primo luogo tra le categorie è la sostanza in potenza, ed è anch' essa una certa qualità, [...OMISSIS...] (3). Altre volte invece considera i generi universalissimi, cioè le nature in questi significate, come intelligibili e anzi primi intelligibili ; e sotto questo novo aspetto, esistono nella mente non come qualità comuni delle menti, ma come atti di ciascuna mente, e questi atti sono primi principŒ . Ma tutti cotesti atti o principŒ si riducono ad uno, cioè a quello di contraddizione, e questo è fondato nell' essere puro indeterminato, universalissimo, che è in potenza tutte le cose. Ora l' intellezione che ha quest' oggetto è appunto la mente . Questa mente è atto perchè è intellezione, ma è ancora potenza perchè ha un oggetto che è in potenza tutte le cose. Così dice che la mente è de' principŒ [...OMISSIS...] (1), e in essa ripone la divina natura. Poichè se il divino esiste, dice, dee certamente riporsi nella natura separata ed immobile (2). La specie sostanziale dunque, presa come forma reale delle cose, è la quiddità (3), la natura delle cose, e il principio di ogni generazione e movimento (4). La generazione poi tende alla specie sostanziale come a suo fine (5). Tutto si move dunque da una specie sostanziale ad un' altra specie sostanziale. Operando così la natura, l' ultima e più eccellente e divina specie che perviene a produrre, secondo Aristotele, si è l' anima, e in questa la mente: tale è il fine dell' operare della natura. Questa gran produzione dell' anima appartiene a quell' efficienza naturale, che Aristotele chiama generazione , e che riguarda la produzione d' una sostanza nova: ella si distingue dalle altre tre maniere di permutazioni naturali, che producono solamente delle specie accidentali, che non riguardano la categoria della sostanza, ma alcuna delle altre nove. Ora Aristotele pone questa differenza tra le produzioni sostanziali , e le produzioni accidentali della natura, che non può esser prodotta una nova sostanza , se non esiste già prima una sostanza della medesima specie in atto; laddove gli accidenti nuovi delle cose possono esser prodotti quantunque precedentemente non esistessero che in potenza, perchè gli accidenti, il quanto e il quale , non si producono mai in separato dalla sostanza, ma insieme con essa (1). Da qui procede che ab aeterno, secondo Aristotele, doveano esistere delle menti: perchè altrimenti non se ne sarebbero mai generate di nuove. Pervenuta dunque la natura, per mezzo della sua più eccellente operazione, cioè della generazione, a produrre questo ultimo suo atto, puro da materia corporea, che dicesi anima e mente , alla natura non resta altro che fare, ma in quest' ultima sua specie, come in termine della sua fatica, riposa. Ma qui appunto è già con ciò posta in essere una nuova causa d' operare, e questa è l' anima stessa intellettuale, dotata di diverse potenze, e che dà luogo a nuova serie di operazioni. A queste e ai loro prodotti dà il nome di effezioni [...OMISSIS...] , per distinguerle dalle generazioni, e le distingue secondo le potenze dell' anima. In qualche luogo ne fa tre classi: quelle che vengono dall' arte, quelle che dalla forza, e quelle che dal pensiero (2). Altrove dice che « « ogni pensiero [...OMISSIS...] o è pratico, o fattivo, o speculativo » » (3). Il pensiero fattivo è quello che produce qualche opera al di fuori come quello dell' architetto che fabbrica la casa, o del poeta che compone un carme. [...OMISSIS...] Or dunque quel pensiero che, movendo altre potenze, produce un' opera esterna, è detto da Aristotele fattivo : quel pensiero poi la cui azione non esce dal subietto pensante o è speculativo se è una pura contemplazione che non esca dalla mente, o è pratico , se c' entra la volontà, come nelle operazioni morali ed eudemonologiche. [...OMISSIS...] Ora, come tutta l' attività della natura è, secondo Aristotele, annessa alla specie come forma reale, così tutta l' attività dell' anima intellettiva, che è l' altra causa da Aristotele spesso compresa sotto la denominazione di arte, è del pari la specie come idea, ossia mezzo del conoscere. [...OMISSIS...] . E reca questo esempio tratto dall' arte medica: [...OMISSIS...] . L' arte ancora osserva la stessa legge ontologica della natura, che « « quello che agisce sia un ente in atto (qual è la specie) che opera su ciò che è ente in potenza traendolo all' atto » (5) ». Dichiara poi come il pensiero produca un effetto esterno come la sanità o l' edificio. Dice che egli trascorre tutta la serie dei mezzi fino che ne trova uno che è in suo potere e che è poi causa naturale degli altri. Così, a ragion d' esempio, il pensiero del medico arriverà alle fregagioni che è in suo potere di fare sul corpo dell' infermo. Conosciuto questo, mette in atto le sue forze fisiche: eseguite le fregagioni, queste da sè promuovono il calore, il calore produce l' equilibrio degli umori e dell' interne forze: e questo la sanità. Conchiude che è impossibile che l' arte faccia nulla, se non preesiste qualche cosa naturalmente (6). In quest' operare poi dell' arte distingue il primo movimento, che viene dal principio e dalla specie e lo chiama intellezione , quello poi che viene dall' ultima intellezione, come nell' esempio addotto le fregagioni, lo chiama effezione (1). La specie dunque tanto nella natura quanto nell' arte è il principio dell' attività e de' movimenti. Ma se tutte le specie nell' anima sono acquisite, come l' anima sarà un principio operante? Aristotele risponde che la stessa anima intellettiva è una specie (2). E dice la mente, come abbiamo più volte detto, « la specie delle specie ». Ma poichè il pensiero speculativo è il principio e il fondamento del pratico e del fattivo, e quindi di tutta l' attività dell' anima intellettiva, gioverà che, richiamando le cose dette, e svolgendole in parte maggiormente, cerchiamo di dare la maggior luce alla teoria aristotelica intorno all' intelligibile ed al divino. Perocchè con questo sviluppo l' anima si provvede di specie determinate, di cui si compongono le arti, e ogni specie è nuovo principio d' azione. Dalle cose vedute fin qui sembra che in Aristotele compariscano su questo argomento due dottrine opposte. Noi possiamo compendiare la prima in questo modo: « i corpi hanno le specie sensibili in potenza ; quando essi affettano un essere vivente, un animale, suscitano nella sensibilità dell' animale le specie sensibili in atto . Queste specie sensibili nell' animale hanno le specie intelligibili in potenza . Quando l' animale di cui si tratta, abbia un' anima intellettiva, le specie intelligibili che sono in potenza nella sua sensibilità, si suscitano in atto nel suo intendimento ». Queste formole hanno un' apparenza di rigore e di chiarezza: ma quando si vogliano spiegare in altre parole, s' oscurano. La espressione in potenza può intendersi in due modi: quindi due dottrine. O le specie sensibili sono in potenza ne' corpi così fattamente, che il senso, che le riceve in atto, non faccia altro che separarle dalla materia: e in tal caso esse sono veramente ne' corpi, unite colla materia. O le specie sensibili non sono punto nè poco ne' corpi, ma coll' azione de' corpi sull' organo sensorio del vivente si suscitano in esso; e in tal caso ne' corpi c' è soltanto una forza bruta ed insensata, che occasiona però le sensazioni nel subietto senziente. Una simile alternativa si faccia rispetto alle specie intelligibili: e si avranno le due dottrine che dicevamo. Ora egli pare che Aristotele or pieghi all' una ed ora all' altra. La prima intanto sembra cozzare con certe verità da Aristotele stesso insegnate. Questo filosofo accorda veramente ai corpi la condizione di sostanza realmente individua (1), ma nello stesso tempo sente la difficoltà d' una tale concessione. - La materia corporea non ha unità. - Lo vede; e risponde che il corpo riceve l' unità dalla specie o forma, con che ammette veramente inesistere ne' corpi bruti talune specie . - Ma che specie sono coteste? Non intelligibili. Forse sensibili? Nè pure essenzialmente, chè un corpo di minima grandezza non è sensibile. Non è dunque inerente all' essenza del corpo l' avere forme sensibili, non essendogli necessario l' avere una certa grandezza. Aristotele ricorre alla sua diletta espressione: « « gli è essenziale averle in potenza, chè il corpo piccolo può farsi grande » ». Vana risposta; il corpo grande, in quanto è grande, non è un corpo, ma un aggregato di corpi de' quali ciascuno non è sensibile. - Di nuovo: un corpo grande, che è uno fenomenalmente, avrà forme sensibili ? Nè pure, almeno fino a che agendo nel subietto senziente non vi produca le sensazioni: le specie sensibili non possono essere che passioni del senziente, come le chiama lo stesso Aristotele (2): le forme sensibili son dunque nel senziente e non nel corpo. Replica che in questo sono in atto, ne' corpi in potenza, perchè l' azione di questi le suscita (3). Sia, ma in tal caso si vuol dire non già che ne' corpi ci sieno specie sensibili , ma soltanto una certa forza e virtù d' eccitarle nel subietto senziente: e a questa virtù si dà la denominazione impropria di specie sensibili in potenza. Parliamo dunque chiaro: ne' corpi non ci sono in nessun modo forme sensibili, nè pure in potenza; queste sono in potenza nello stesso subietto senziente prima che ci sieno eccitate; eccitate poi, sono nel medesimo in atto. Poichè dove le specie sensibili sono in potenza, ivi solo s' intende che possano essere eccitate e attuate. Il che, si noti, procede dai principŒ stessi d' Aristotele, il quale molto acutamente dice: « « La natura si fa nel medesimo, poichè nello stesso genere della potenza » », e poco appresso: « « poichè sempre da ciò che è in potenza, si fa l' ente in atto da un atto esistente (1) » », e un atto dello stesso genere e specie (2). Ora, il corpo materiale non avendo nulla di sensitivo in sè, non può avere un atto nell' ordine sensitivo, non avendo una potenza che sia nella stessa specie, nè nello stesso genere della sensazione. E veramente un corpo esterno operante sui nostri sensori altro non fa che cagionare un certo movimento o spostamento di molecole, e questo movimento locale è in effetto nello stesso genere e specie della potenza che egli ha di moversi localmente: la sensazione all' incontro non è effetto di cotesto corpo esterno, ma del principio sensitivo che in potenza trovasi nello stesso genere e specie dell' atto della sensazione particolare, perchè l' anima sensitiva è ella stessa un sentimento (3). La natura corporea dunque ed inanimata non ha specie sensibili (4): ma queste, se specie si voglion chiamare, appartengono ad un' altra natura, a quella del corpo animato, termine dell' anima sensitiva. Pure il corpo esterno si sente come forza che immuta, relativamente alla disposizione nello spazio, il sentito dotato d' estensione: e questa forza si compone e quasi si veste del sentito, e di queste due cose di diversa natura, se ne fa una nella percezione dello spirito. Indi l' illusione di credere, che le specie sensibili appartengano ai corpi esterni. E poichè la loro forza si cangia, per la diversa collocazione e aggregazione degli elementi, perciò sembra che alcune di queste specie rimangano in potenza, altre poi sorgano all' atto. Ora su queste specie, supposte ne' corpi esterni, sembra che Aristotele fabbrichi una teoria, considerandole come il bene a cui tende la natura inanimata. E come tutto il bene ha ragion di fine , e la causa finale è divina , anche le cose animate tendono al divino col loro appetito. Ma tutta questa dottrina s' appoggia sopra un falso supposto. E Aristotele stesso pare in qualche luogo ammetterla, in altri pari abbandonarla, e applicarsi alla seconda dottrina da noi sopra accennata: anzi noi crediamo che quest' ultima più ragionevole sia veramente quella sola d' Aristotele, benchè le sue maniere ambigue lascino luogo a dubitarne. E` dunque del pari falso, che quelle che Aristotele chiama specie sensibili sieno in potenza intelligibili . Infatti, si può fare un ragionamento del tutto simile al precedente: che nelle specie sensibili non c' è affatto nulla dell' intelligibile; e però questo non ci può essere nè pure in potenza; stante che la potenza e l' atto conviene che siano della stessa specie. Aristotele confessa ad un tempo e che l' intelligibile è l' essere delle cose, e che l' essere delle cose non è punto nè poco offerto allo spirito dalle sensazioni. Veniamo dunque alla seconda dottrina : prendiamo l' espressione « essere in potenza », non come « materia e subietto atto ad uscire all' atto », ma come qualunque causa occasionale. La dottrina indicata si cangerà in quest' altra: [...OMISSIS...] . In questa dottrina i corpi esterni sono cause occasionali delle specie sensibili, e le specie sensibili cause occasionali delle intelligibili. E queste cause occasionali sono di quella classe, che noi chiamiamo materiali o terminative , perchè altro non fanno che mutare la materia, o termine dell' atto, senza avere nessuna azione nè sulla potenza che produce l' atto, nè sull' atto medesimo. Ora che questa dottrina si presentasse alla mente d' Aristotele, parmi si provi dai luoghi seguenti: « « Diciamo l' anima stessa essere in un certo modo tutte le cose che sono » ». - Queste cose, come dice appresso, sono le sensibili e le intelligibili , a' quali due generi riduce tutto: ora, riconoscendo che tanto le cose sensibili quanto le intelligibili sono nell' anima non solo in atto, ma ben anco in potenza: ne riconosce con ciò la distinzione originale, di modo che fin da principio essendo distinte, non possono venire le une dalle altre. Oltre di che, se sono nell' anima in potenza ed in atto, di conseguente non sono ne' corpi bruti. Continua dunque: « « Poichè quelle cose che sono, o sono intelligibili o sono sensibili » ». - Riducendo tutto a questi due generi, dove restano i corpi bruti? Si vedrà. - [...OMISSIS...] Se dunque quello che è in potenza e quello che è in atto deve essere della stessa specie, conviene che ci sia nell' anima un primo sentito che sia in potenza tutti gli altri sentiti, e un primo inteso che sia in potenza tutti gli altri intesi. Ora tale è il sentimento fondamentale , e l' essere ideale , che noi abbiamo posti come costitutivi dell' anima umana. Aristotele dunque qui è nel vero. Continua poi mostrando come rimangano le cose corporee fuori dell' anima così: [...OMISSIS...] . - Sulle quali parole conviene osservare, che la parola « pietra » può significare l' idea della pietra, la pietra ideale, e la pietra reale. Oltre di che la « forma della pietra »ha anch' essa due significati, poichè per forma ora s' intende da Aristotele la stessa cosa ideale composta di materia e di forma, ora la sola forma, che è l' atto sostanziale e immanente della cosa, astrazion fatta dalla sua materia, anche ideale (2). Si può dunque intendere il passo citato in vari modi; e tra gli altri in questi due, che nell' anima sia la sola forma , rimanendo fuori di essa il composto di materia e di forma: o che nell' anima sia la forma , rimanendo esclusa dall' anima la sola materia. In quest' ultimo senso fu inteso da' commentatori. Ma ciò involge l' assurdo, che la stessa identica forma sia separata ed unita alla materia, separata nell' anima, unita al di fuori dell' anima. Ora che la stessa cosa identica, una di numero, sia ad un tempo separata ed unita alla materia, è contradditorio. Convien dunque intendere che altro sia la specie della pietra nella mente, ed altro sia la forma o atto sostanziale della pietra materiale; quella che contiene forma e materia ideale, fa conoscer la pietra reale, e nella pietra anche la sua forma reale. Ma Aristotele stesso sembra che rimanga preso nell' equivoco della parola «eidos», che egli applica ugualmente alla forma reale della materia reale, e alla specie intellettiva. Non distingue mai chiaramente queste due cose totalmente diverse, se non colle espressioni di potenza e di atto , che non possono convenire; poichè la specie intellettiva ha nella mente tanto l' essere suo potenziale, quanto l' attuale, onde non può averlo al di fuori. Che se Aristotele consentisse a riconoscere l' infinita differenza, che passa tra la specie intellettiva della cosa (e in questa specie tra la forma ideale e la materia ideale) e la cosa reale (e in questa tra la materia reale, e la forma reale di cui si compone, la qual forma reale, riguardo alla pietra, altro non è che i suoi confini nell' estensione): con ciò ei darebbe la mano a Platone, che nelle cose corporee non vede se non una similitudine e una cotale imagine dell' idea. Questo è dunque il passo in cui Aristotele cade e contraddice alle verità da lui stesso vedute. « « Laonde l' anima, prosegue, è come la mano: chè la mano è l' istrumento degli strumenti, e l' intelletto la specie delle specie, e il senso medesimamente la specie de' sensibili » » (1). Vedesi che anche qui per Aristotele (nè pur l' anima intellettiva) non è il subietto , ma uno strumento del subietto. Il qual luogo s' illustra con quest' altro: [...OMISSIS...] . Dal qual luogo si raccoglie che l' anima è strumento degli strumenti, come la mano, perchè essa è strumento dell' uomo, ed ella stessa usa come di suo strumento la scienza, che comprende tutti gl' intelligibili. E per la stessa guisa è specie indeterminata delle specie determinate. Anche delle specie sensibili? Così parve agli scoliasti doversi intendere quel luogo, come spiegazione di ciò che dice così di frequente, che « « l' anima senza i fantasmi nulla intende » » (1). Nè noi ripugniamo, osservando solo che se la mente è specie delle specie sensibili, già con questo s' ha, che le specie intelligibili sieno poste dalla mente là, dove sono le specie sensibili o i fantasmi; e in tal caso le specie intelligibili non sono nè pure in potenza ne' fantasmi, se non forse in un modo passivo o ricettivo, ma la mente li ha prima in potenza, e poi li attua all' occasione de' fantasmi. Perchè la mente è data dalla natura, dice Aristotele, ed ella è la specie intelligibile delle specie sensibili. Onde anche dice, che « « l' intellettivo intende le specie ne' fantasmi » » (2). Ora questo «to noetikon» è quel principio stesso nell' anima che chiama anche «to epistemonikon,» quel primo sapere indeterminato che è insito nell' anima e che costituisce la mente. Dice anche più espressamente che i sensibili « « non sono intelligibili, e che la mente non intende gli enti di fuori senza la sensazione, ma insieme con questa » » (3). Onde nè le specie intellettive sono i fantasmi, nè qualche cosa che sia veramente in essi, anzi qualche cosa che la mente vede in essi, cavandolo da sè stessa (4). Sebbene dunque gl' intelligibili non siano nei sensibili (benchè impropriamente lo dica Aristotele) e questi non siano specie, cioè oggetti; tuttavia s' avvera che « « chi nulla sente, nulla può imparare o intendere » » (5), perchè i sensibili sono quelli a cui l' intendimento applica l' essere ideale, e con questo prima li percepisce, e poi dai percepiti intellettivamente astrae gl' intelligibili puri, come abbiamo mostrato nell' « Ideologia ». Nè c' è bisogno per questo, che i sensibili siano vere specie, ma quelli che ricevono nell' anima intellettiva la specie della mente, e così s' intendono; sono dunque, come diceva Platone, non già le specie, ma la realizzazione delle specie; queste sono la loro parte intelligibile, e l' iniziamento del loro essere, essi sono il termine d' un tal essere. O conviene considerarli in questa relazione, o rinunziare a parlare di essi. Nè si sottraggono alla specie per essere trascorrevoli e rimutabili; perchè c' è anche la specie immutabile del mutabile. Concludiamo dunque, che il divino non è sparso nel mondo materiale; e che Aristotele fa uso di vane metafore, quando dice che tutta la natura, tendendo a prendere qualche forma appetisce il divino: il divino non è, e non può essere che nell' ordine dell' intelligenza. Anche secondo Aristotele questa non ci sarebbe, se ci fosse solo il sensibile, essendo ella d' altra natura, e conviene che preceda in atto ogni sensibile, perchè il sensibile è mutabile di continuo e relativo ed essa, eterna ed assoluta; e se essa non s' unisce nell' anima al sensibile come forma, il sensibile non sarebbe mai conosciuto, non essendo conoscibile per sè. Dopo aver detto che non può esserci altro che l' anima, che dia unità agli elementi corporei, e che ciò che contiene [...OMISSIS...] , checchè egli sia, è più eccellente del resto, soggiunge: [...OMISSIS...] , parole su cui insiste lo scoliaste Filipono, come concludenti a provare che, secondo Aristotele, la mente ha un' esistenza separata, e sua propria (2). Suppone altresì Aristotele che esista qualche cosa d' eterno e d' intellettivo con esistenza sua propria, per ispiegare la generazione degli animali. [...OMISSIS...] . Ammette dunque come eterna causa finale della generazione il bello e il divino , che è per sè intelligibile, e prima sostanza. E perchè la generazione è una tendenza a queste cose che sono eterne, non potendo l' animale terrestre essere eterno nell' individuo, s' eterna, come può, nella specie , [...OMISSIS...] . Pone ancora il principio, che sia « « cosa migliore per ciò che è più eccellente il separarsi da ciò che è deteriore » », [...OMISSIS...] , e che perciò quello che è migliore, tende sempre a separarsi realmente e non solamente di concetto da ciò che è inferiore, e a costituirsi da sè così separato; di che deduce, che in tutti gli animali ne' quali è possibile, il principio maschile e motore [...OMISSIS...] tende a costituirsi diviso dal principio femminile. Dal qual principio medesimo si ha la conseguenza, che la mente e Iddio sarebbero in uno stato d' imperfezione se non esistessero da sè, ma avessero bisogno d' inesistere in altro o ad altro congiunti. Ma quello che mi pare decisivo per riconoscere, che Aristotele ammette che la natura della mente è separata non solo di concetto, ma realmente dai corpi e dai sensibili che non sono senza i corpi, si è, che egli insegna, che l' atto della mente non comunica con alcun corpo. [...OMISSIS...] . Dunque nè pur l' anima in quant' è atto del corpo; ed avendo definito l' anima « un atto del corpo »carattere, che essendo generico è comune ad ogni specie di anime, ne viene la conseguenza, che quantunque l' atto della mente non comunichi con alcun corpo, ma da sè solo sostanzialmente sussista, tuttavia quando la mente, essendo data all' anima come uno strumento, viene dall' anima adoperata a percepire ed intendere, essa anima abbia bisogno del corpo. Onde alle citate parole Aristotele si continua così: [...OMISSIS...] . Onde per l' uso che fa l' anima della mente imagina un corpo etereo e divino, che si separa dal rimanente e sta colla mente congiunto. Veramente egli pare che Aristotele non possa concepire la mente senza un qualche corporeo involucro, o non possa almeno mantenersi a lungo costante in questo pensiero; può forse salvarsi da questo totale materialismo, se, come noi dicemmo, s' intenda, che l' anima, che è atto del corpo, n' abbia bisogno per far uso della mente. A questo conducono anche tutti que' luoghi, dove dopo aver insegnato che l' atto è anteriore alla potenza di concetto e di assenza [...OMISSIS...] , dice che « « necessariamente deve presussistere la ragione e la notizia alla notizia » », [...OMISSIS...] (1), e cioè nelle opere della natura deve preesistere la specie e nell' acquisto delle notizie, ce ne deve essere sempre una precedente. Non di meno ove si tratta della generazione di cose composte di materia e di forma, la specie ossia l' atto operante non è separato, onde dice parlando dell' uomo che « « un tale nascimento avviene per la specie , poichè colui che genera è tale » » (2), cioè ha quella specie, è in quell' atto. Ma nell' arte la specie operante è senza materia, e dice che alcune cose si fanno a caso a quel modo che le fa l' arte (3). Comechessia di ciò che opera la natura, pare non potersi dubitare che la mente, ossia l' intellezione sia, secondo Aristotele, una sostanza da sè, senza abbisognare d' altro subietto, e in essa tutti gl' intelligibili. Se dunque negl' intelligibili è contenuta la divina natura, qual unità possono questi ricevere? O sarà diviso il divino, secondo che nelle varie menti sono divisi gl' intelligibili? A questa questione che già prima ci avevamo proposta, ora dobbiamo rispondere. Che Aristotele non desse unità al divino, il brano seguente lo fa sospettare: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo esclude la grandezza, e le parti estese dalla mente: e tuttavia a torto, per quanto a me pare, se n' indusse che Aristotele volesse lasciare la mente sparsa per modo che nulla più fosse se non una successione di staccati pensieri (2). Acciocchè dunque si veda in che modo crediamo noi che Aristotele trovasse l' unità nell' ordine degl' intelligibili, distinguiamo queste tre cose, la mente , l' intellezione , gl' intelligibili , e cerchiamo che cosa egli dica dell' unità della mente, dell' unità dell' intellezione e dell' unità degl' intelligibili. Noi vedremo queste tre unità rientrare in fine in una sola e verace unità. Poichè fino a tanto che Aristotele considera queste tre cose in separato l' una dall' altra, ne parla come fossero tre, ma quando le considera unite, ne fa una sola e medesima sostanza, altro non essendo per lui l' intellezione che la stessa mente in atto, e gli stessi intelligibili in atto. Ma cominciamo da questi ultimi e vediamo se siano al tutto così divisi tra sè, che non abbiano vincolo alcuno. Primieramente Aristotele distingue gl' intellegibili in due classi: 1 gli universali (3), e 2 i primi principŒ. Gli universali, secondo lui, sono intelligibili medii tra' due estremi, cioè tra i singolari e i supremi principŒ . Aristotele in luoghi diversi li considera ora in relazione ai singolari , ora in relazione ai primi principŒ del ragionamento, e così riesce, senz' avvertirlo egli medesimo, a conclusioni diverse. Considerandoli in relazione ai singolari, Aristotele insegna che gli universali sono indeterminati (4), e hanno natura di materia, cioè di potenzialità relativamente alle specie e alle definizioni (5), e non sono l' essere delle cose, ma il loro modo di essere; l' essere stesso della cosa è l' essenza sostanziale di questa (1). Ma Aristotele, benchè voglia con quest' essenza sostanziale designare il singolare, ossia l' individuo reale, non ci arriva, chè la sua mente corre a un universale ch' egli prende per singolare, cioè alla specie: egli si sforza costantemente di dimostrare che « « l' essenze degli enti non istanno ne' generi » », e così crede di combattere Platone. Ma quando viene a indicare in che consista l' ente stesso, ora ve lo descrive come un individuo reale , ora scappandogli questo di mano, vi parla come fosse la specie piena , o l' individuo vago , ora come fosse la specie astratta . Questi tre modi dell' individuo, che è la sostanza prima d' Aristotele «protai usiai» (2) si permutano ne' suoi ragionamenti, il che genera somma oscurità e confusione (3). Spesso dunque sembra non s' accorga che la specie stessa è universale, e la considera piuttosto come un elemento degli enti singolari (1); e quando se n' accorge, pare che si piaccia di chiamarla, in vece che specie, genere ultimo [...OMISSIS...] . I generi poi li considera come universali, e specie in potenza. E appunto perchè i generi, ossia, come egli esclusivamente li chiama, gli universali non sono che entità potenziali, perciò non possono sussistere separati, ma solo insiti nelle specie; laddove le specie , almeno alcune, riconosce dover sussistere separate da ogni materia, e certamente, nel loro atto di menti e d' intellezioni, come diremo. Poichè, oltre gli argomenti che abbiamo più sopra arrecati, in questo appunto egli trova la ragione per la quale alcuni degli enti dell' universo sono corruttibili, altri poi incorruttibili e sempiterni. « « Poichè, dice, se »(i principŒ de' corruttibili e degli incorruttibili) « sono i medesimi, in che modo questi »(enti) « sono incorruttibili, quelli poi corruttibili e per qual cagione? » » (2). E risponde che la ragione della corruzione nasce dall' unione della specie o ragione e della materia: [...OMISSIS...] . E prosegue a dire che per ciò stesso non si dà definizione nè dimostrazione delle singolari sostanze sensibili, perchè hanno materia. Onde « « tutti gl' individui di esse sono corruttibili » », [...OMISSIS...] . Ora egli è indubitato che Aristotele riconosce esistere degli incorruttibili, de' sempiterni e questi immobili, giacchè lo stesso movimento locale, sebbene non importi corruzione, importa trasmutazione e materia «kata topon.» Convien dunque che qualche cosa ci sia di separato dalla materia. [...OMISSIS...] Da per tutto in queste dottrine s' incontrano perplessità e contraddizioni almeno apparenti. Da una parte i generi non sono elementi componenti gli enti, laddove la specie è uno dei due componenti integrali degli enti: di che parrebbe che la specie non potesse esistere separata e i generi sì. Dall' altra gl' intelligibili, che comprendono e i generi e l' ente e l' uno, non esistono separati, ma se non sono elementi, inesistono però inizialmente negli enti già composti de' due loro elementi, la materia e la specie o nelle specie stesse (2). E` dunque da considerarsi, che la questione che si fa: « se possano esistere separate le specie o i generi », riguarda la materia: cioè si domanda con essa « se possono esistere senza materia ». Ora una tale questione non può farsi che delle specie, poichè o queste possono sussistere senza materia, o no. Se non possono sussistere, molto meno i generi che delle specie si predicano, e così sono un loro elemento iniziale. Se sì, la questione è finita, perchè i generi sono già nelle specie. Onde invece di domandare: « se i generi possano esistere senza materia », converrebbe oggimai fare una questione al tutto diversa e domandare « se possano esistere divisi dalle specie »(1). Ammette dunque Aristotele o non ammette qualche natura separata dalla materia? E questa è specie o genere? - Che la ammetta, dopo quello che abbiamo detto, pare dimostrato, e noi non ne dubitiamo. Ma il difficile a determinare si è: che cosa sia questa natura immateriale. Per uscire da questa perplessità conviene rimovere altre ambiguità del linguaggio aristotelico, troppo povero per la potenza analitica d' una tal mente. Prima di tutto dunque si distinguano accuratamente due significati in cui sono presi i vocaboli specie e genere . Talora s' intende sotto il nome specie o genere la natura significata da queste parole: talora poi la proprietà che ha questa natura d' essere partecipata da più singolari, onde si chiama comune, o universale (2). Ora il proprio ed unico significato delle parole specie e genere , secondo l' uso moderno, è quello di significare non la natura semplicemente indicata con esse, ma la natura in quant' è comune o universale. Per esempio il vocabolo uomo significa: 1 la natura umana; 2 la suscettività che ha questa natura di trovarsi realizzata in molti individui. Ora solo in questo secondo significato da' moderni si dice specie . Ma gli antichi lo prendevano ora nel primo, ora nel secondo significato. Così animale significa: 1 o la natura animale; 2 o di più la suscettività che ha questa natura di essere in molte specie , e solo in questo secondo significato è propriamente genere secondo l' uso moderno, che gli antichi ancora non avevano determinato. Quando dunque Aristotele considera l' intelligibile come una natura , senz' altra relazione, allora non trova impossibile che esista da sè (cioè alcuni degl' intelligibili) senza materia; ma quando lo considera come atto ad essere realizzato in molti individui, dal che acquista la propria significazione di specie e di genere, allora lo trova impossibile. Da questi due aspetti diversi sotto cui Aristotele considera la cosa stessa, mi pare che derivi quella duplicità di dottrina, che fu già osservata da molti eruditi moderni in Aristotele. In fatti la difficoltà, principio delle altre, che trova Aristotele ad ammettere le idee di Platone, si riduce a questa: « « Tali idee sono comuni: ma tutto ciò che è comune è indeterminato: ora nulla d' indeterminato può esistere in sè: non possono dunque coteste idee che sono specie o generi e però indeterminati, esistere come enti da sè » » (1). Tentò dunque Aristotele di sostituire alle idee di Platone un' altra maniera d' intelligibili, che potessero sussistere da sè, senza quell' inconveniente. In che guisa? Conveniva trovare degli intelligibili determinati (2). E poichè quello che è indeterminato è la materia, gli parve che non ci fosse a ciò bisogno di materia, anzi, che questa fosse d' impedimento a rendere gl' intelligibili determinati. In fatti, le specie sono quelle che determinano la materia e che la fanno essere « « questo qualche cosa » » «tode ti». Ora fin a tanto che la specie informa la materia, ne risulta un composto determinato a cagione che tale è la limitazione d' ogni materia, che non può ricevere se non una certa maniera di atti, e con questi soli si determina. Ma non così quando la specie stessa si divide dalla materia: quella allora è indeterminata perchè, sufficiente a determinare una data materia, non è determinata ella medesima, sia perchè può esser partecipata da più materie, sia perchè può appartenere a più generi. Come si potrà dunque fare a spingere questa specie separata fino all' ultima sua determinazione? L' indeterminazione è una potenzialità. Converrà dunque spingerla al suo atto ma nell' ordine dell' intelligenza, non dovendosi più unire colla materia. Ora la mente spinge quella natura intellettiva, che è nella specie, a un atto intelligibile ulteriore, quando da molte specie ne cava de' generi, e da questi generi de' principŒ, e da tutti i generi insieme trae quell' intelligibile che è sopra tutti i generi, il quale è l' ente, e da questo poi toglie il principio supremo e universale di tutti i principŒ, che è quello di contraddizione. Ed ecco un principio semplicissimo che non ha più nulla d' indeterminato: ossia un primo intelligibile, l' essere da cui quel principio si prende. L' essere dunque è l' ultimo atto degl' intelligibili, atto puro, e quest' atto intende essenzialmente, secondo il principio che « « ogni intelligibile privo di materia, cioè di potenzialità, è di natura sua intelligente » » (1): e però sussiste ed è la mente prima ed essenziale d' Aristotele. Aristotele si propone dunque per l' esposizione di un tale sistema di seguire questo metodo: 1 di esporre i passi che fa l' intendimento umano per giungere colla riflessione agli ultimi principŒ, e questa è la parte storica del suo lavoro; 2 di dimostrare a quali condizioni, con quali mezzi l' intendimento può fare questo suo viaggio, e questa è la parte teoretica . La parte storica si trova specialmente nell' ultimo capo del libro secondo degli « Analitici posteriori », e n' abbiamo già recati i testi: la parte teoretica si trova principalmente nel terzo libro dell' Anima (capitoli quarto e quinto), di cui pure abbiamo fatta l' analisi. La storia del modo con cui l' anima intellettiva procede fino agli ultimi intelligibili, è questa: l' anima ha un' attività e un movimento intellettuale suo proprio: prima riceve la sensazione: questo è di tutti gli animali. Ma l' anima d' alcuni non va oltre: in altri la cosa sentita rimane [...OMISSIS...] : quest' uno che rimane nell' anima [...OMISSIS...] è una memoria , e dalla memoria di tali cose si fa la ragione di esse [...OMISSIS...] . Dalla memoria ripetuta della stessa cosa si genera l' esperienza , [...OMISSIS...] . Dall' esperienza poi, cioè da tutto ciò che è stato depositato nell' anima e che è l' universale, cioè dall' uno fuori dei molti, che in tutti i precedenti restati nell' anima giace uno e il medesimo, si fa il principio dell' arte e della scienza [...OMISSIS...] (1). Quest' è la storia del movimento del pensiero: veniamo alla teoria. Aristotele distingue primieramente la sensazione dall' ente a cui la sensazione si riferisce: poichè dice: « « si sente il singolare, ma la sensazione è dell' universale » » (2). Se dunque si sente il singolare, il senso non dà l' universale: ma è l' anima quella che in occasione del senso, con un' altra sua facoltà diversa da quella del senso, apprende l' universale, e riferisce la sensazione a un universale, onde in questo senso la sensazione è dell' universale, cioè l' anima intellettiva universalizza il singolare che è il solo dato dal senso. Ma come fa quest' operazione? Che cosa le bisogna per poterla fare? Certamente, risponde Aristotele « « un abito che abbia virtù di far conoscere » » [...OMISSIS...] , che il Bessarione traduce « notificans habitus », ma non abiti determinati, esclusi da lui poco appresso. Quest' abito ingenito, che ha virtù di far conoscere, e ciò che altrove Aristotele chiama lo scientifico dell' anima, [...OMISSIS...] , e che nella « Psicologia » dice « « come un abito a guisa di luce » » [...OMISSIS...] . E` dunque da tener fermo il principio aristotelico, che in ogni ordine di cose l' atto precede sempre alla potenza, e che questa non potrebbe mai uscire al suo atto, se non preesistesse un' altra cosa in atto, che operando in essa l' attuasse. Onde anche nell' ordine delle operazioni intellettive ci deve essere, secondo Aristotele, un atto primo d' intelletto, che tragga in atto ciò che è in potenza ad essere inteso. [...OMISSIS...] . Niuna similitudine più acconcia di questa: la luce è tutt' i colori de' corpi in potenza: ma i corpi sono la causa occasionale per la quale i colori della luce si manifestano in atto: e tuttavia è la luce quella che mette i colori in atto ricevutane l' occasione da' corpi (4). Infatti, Aristotele riconosce che nella stessa mente umana da una parte ci devono essere tutte le cognizioni in potenza, dall' altra ci dee essere un atto, che tragga all' atto quelle cognizioni in potenza all' occasione delle sensazioni. Noi abbiamo già detto e in parte provato, che Aristotele intende, per la mente insita nell' uomo per natura, l' essere in universale . Ma come questo può essere ad un tempo potenza ed atto? Veniamo a dichiararlo. Primieramente non si perda di vista che i concetti di potenza ed atto sono relativi; e che quello che è atto rispetto ad una data cosa in potenza, può esser potenza rispetto ad un atto inferiore. Così ogni intelligibile è atto rispetto al sensibile , secondo la maniera di parlare d' Aristotele, ed è potenza rispetto ad un atto ulteriore che è l' intellezione . Ora la mente innata d' Aristotele è composta d' intellezione e d' intelligibile: poichè queste due cose non ne fanno realmente che una (1) e questa una è la mente: ma tuttavia queste due cose sono realmente indivisibili l' una dall' altra, e secondo il concetto diverse. Perciò distinguendosi nella stessa mente due elementi da cui risulta, si può benissimo senza contraddizione trovare in essa qualche cosa che sia in potenza e qualche cosa che sia in atto. Ora secondo Aristotele l' intelligibile in rispetto all' intellezione è potenza, e questa è atto rispetto a quello. Ed è per questo appunto che, partendo dal principio che « l' atto dee sempre precedere la potenza », negò che le idee platoniche sussistessero per sè stesse, e vi sostituì delle intellezioni, onde dice: [...OMISSIS...] . La scienza dunque, le idee, ossia gl' intelligibili sono potenza relativamente al subietto attualmente intendente, e molto più all' intellezione attuale e presente (3). Essendo dunque composta la mente aristotelica d' intelligibile e d' intellezione, ed essendo quello potenza rispetto a questa, e questa atto rispetto a quello, ne verrà che l' intelligibile dato per natura sia la mente in potenza d' Aristotele, e l' intellezione o l' intendente sia la mente in atto. Poichè veramente Aristotele non fa di queste, due menti , come inesattamente fu detto, ma due differenze nella stessa mente, come espressamente egli dice, [...OMISSIS...] (1). Rimane dunque a vedere, essendoci una mente in atto e però un intelligibile in atto dato all' uomo per natura, col quale egli si forma tutti gli altri intelligibili, che cosa sia quest' intelligibile proprio della mente, e se lo ammettere che sia l' essere in universale concordi con tutte l' altre dottrine d' Aristotele, o colla massima parte di esse. Aristotele dice costantemente che l' oggetto della mente sono i principŒ, [...OMISSIS...] (2). Ora i principŒ sono anteriori ad ogni dimostrazione e ad ogni scienza dimostrativa (3), e si devono preconoscere acciocchè sia possibile il ragionamento. Ma sotto la denominazione di principŒ Aristotele intende due cose: 1 le percezioni de' singolari e idee specifiche che si cavano da quelle; 2 le ultime regole delle scienze e delle arti. Dice dunque che « la mente è degli estremi » [...OMISSIS...] per una parte e per l' altra (cioè tanto nel giudicare che nell' agire). [...OMISSIS...] . Distingue dunque una mente acquisita coll' uso, e una mente innata che è una natura. [...OMISSIS...] . La mente acquisita per natura, cioè per via della mente innata, sono dunque gli intelligibili acquisiti, i percepiti (singolari), le specie, i generi fino gli ultimi e i principŒ dell' arte e della scienza, che tutti si formano per quella induzione che descrive sulla fine degli « Analitici ». Ma qual è quella natura che è causa di tutto ciò? Dev' essere certamente « la mente in atto », perchè se non precede l' atto, secondo Aristotele, nulla si può ridurre dalla potenza all' atto; onde riconosce davanti a tutto « « un principio della scienza con cui si conoscono gli stessi termini primi ed indimostrabili » » (1), e a questo principio dà appunto il nome di mente, [...OMISSIS...] . Dovendo dunque l' intelligibile, che costituisce la mente in atto d' Aristotele, trovarsi nei principŒ , poichè questi sono l' oggetto della mente, e quella si chiama anche da lui come vedemmo « il principio de' principŒ »; è da sapersi che Aristotele, tra l' altre distinzioni che fa de' principŒ, fa pure questa, che li divide in due classi, chiamando quei della prima « «ex on,» ex quibus , » quei della seconda « «peri ho,» circa quod , » che noi potremmo chiamare principŒ formali e principŒ materiati . Ora questi secondi sono proprŒ «hai de peri ho idiai,» di ciascun genere, e perciò sono molti; i primi all' incontro, cioè i formali, sono comuni a tutti i generi «hai ex on koinai» (3). Ora tra tutti i principŒ comuni è dichiarato da Aristotele comunissimo e supremo il principio di contraddizione «to pan phanai, he apophanai» (4). Si confronti dunque che cosa dica Aristotele di questo principio, e che cosa dica della mente, e si vedrà che la mente innata e attuale si riduce all' intuizione di quel principio o de' suoi termini. Infatti Aristotele chiama la mente: « « principio della scienza » », e ancora « « principio de' principŒ » »: e alla stessa maniera chiama il principio di contraddizione. Aristotele pone la mente anteriore ad ogni altra cognizione e necessaria a formarsi quest' ultima; ed egualmente insegna che il principio di contraddizione è anteriore a tutto e che senz' esso non si dà cognizione possibile. [...OMISSIS...] E tosto dice che questo è il principio di contraddizione, che egli esprime con queste formole: [...OMISSIS...] . Di che conchiude, che « « questo è per natura il principio di tutti gli altri assiomi » », [...OMISSIS...] (3). Ora così appunto chiama la mente il principio di tutti i principŒ, [...OMISSIS...] (4). E anche intorno a questa dice egualmente che non è possibile alcun errore, e sempre è vera come la scienza che ne deriva, [...OMISSIS...] (5), il che non direbbe, se colla parola mente intendesse di parlare di una mera facoltà subiettiva, e non d' un oggetto inteso, perocchè a questo solo conviene l' essere vero e falso e all' intellezione che forma con esso una cosa. Siamo dunque arrivati a trovare il primo principio che costituisce la potenza conoscitiva in atto, secondo Aristotele. Ma dobbiamo ancora appurarlo: perocchè il principio di contraddizione, venendo espresso in una proposizione (1), ha qualche cosa di completo e quasi di artefatto e però non può ancora essere ingenito nell' anima in questa forma di proposizione; i termini della proposizione si conoscono come suoi elementi, si devono conoscere anteriormente alla proposizione (2). Ora quella che conosce i termini estremi è la mente, come abbiamo veduto (3). Secondo il nostro filosofo pertanto ogni genere è fondamento di principŒ diversi, e in ogni genere uno solo è il principio supremo (4). Ma sopra tutti i generi è l' essere puro, e questo è fondamento ai principŒ comunissimi e universalissimi, ossia gli assiomi: « « Poichè questi sono in tutti gli essenti, ma non in un singolar genere a parte dagli altri. E tutti ne usano perchè sono dell' ente come ente [...OMISSIS...] e ogni genere è ente » » (5). Ora tra questi principŒ il notissimo e certissimo e quello che deve avere ognuno, acciocchè possa conoscere qualunque cosa, è il principio di contraddizione (6). Questo dunque è un principio dell' ente, non è composto d' altri elementi, non ha altri termini che l' ente , o per dir meglio l' essere . Il che si vede pigliando la sua formola più semplice che è « « essere o non essere » », «einai he me einai» (7). Ora il negativo «me einai» si conosce, secondo Aristotele, pel positivo «einai,» e posteriormente a questo (.). Dunque il solo essere resta il primo e per sè conosciuto dalla mente, più noto e certo di tutte l' altre notizie, intorno al quale non si può commettere errore, e senza il quale non si può conoscere il principio di contraddizione, il quale è necessario che preceda ogni altra cognizione ottenuta per mezzo dell' induzione, e per ciò stesso la cognizione de' generi che Aristotele suol chiamare assolutamente gli universali . Acciocchè dunque ci sia nell' uomo la mente in atto, che tragga in atto gli universali che sono potenzialmente, secondo l' espressione aristotelica, ne' sensibili, è necessario che preceda nell' uomo « l' intellezione dell' essere »comunissimo a tutti i generi. Dal vedere adunque che l' essere non costituisce alcun genere, ma è in tutti, Aristotele si convinse che oltre la natura , divisa in enti particolari che si riducono in generi, doveva esistere qualche altra cosa al di là e superiore alla natura , e riprese quei naturalisti che tutto racchiudevano in questa: [...OMISSIS...] . C' è dunque indubitatamente qualche cosa per Aristotele di separato da ogni materia corporea e di superiore a tutta la natura e questo è l' ente puro, e questo non è l' ente indeterminato, il quale ha bisogno dell' essenza per esistere, ma l' ente che è ad un tempo la propria essenza (2). In un luogo della « Metafisica » reca una norma per rilevare ciò che c' è di separato realmente, e ciò che si separa solo di concetto; poichè dice: [...OMISSIS...] . I concetti non sono ad un tempo, cioè si pensano colla mente separati gli uni dagli altri: questo fa che ci sia distinzione di concetto, ma non è una distinzione reale, perchè l' un concetto viene dall' altro. Arreca in esempio le linee: di linee nulla si compone, non sono specie che informino qualche ente come sarebbe l' anima, nè sono materia come sarebbe il corpo. Sono dunque concetti che vengono da altri concetti, cioè dal concetto del corpo solido, [...OMISSIS...] , e tuttavia si pensano in separato, [...OMISSIS...] , e si pensano come elementi del corpo e però sono precedenti di concetto [...OMISSIS...] . Così l' uomo è bianco per apposizione della bianchezza, nè per questo la bianchezza ha un essere precedente, nè l' uomo ha un essere posteriore, poichè la bianchezza « « non può essere separata, ma è sempre insieme col composto » » (2). Distingue dunque Aristotele manifestamente due specie d' intelligibili , gli uni che si fanno «to logo,» separandoli appunto dalla materia, e questi sono puri concetti, o ragioni, o, come li chiama, « « concetti fattizŒ » », «plasmatias ho logos» (3); altri poi che possono essere separati, come essenze sussistenti e intelligibili per sè. I primi sono relativi ai corpi e ai sensibili e però non possono sussistere fuori di questi altro che come concetti o ragioni della mente (4); gli altri hanno un essere assoluto, e però separati da ogni altra cosa conservano quest' essere, e apparisce anzi più eccellente, onde eccedono e vincono, secondo l' espressione aristotelica difficile da rendersi nella nostra lingua «to einai hyperballei». Questa distinzione degl' intelligibili in due classi è tolta da Platone stesso, come abbiamo veduto. Ma Aristotele quantunque riconosca che quelli della prima classe uniti alla materia non siano punto intelligibili, ma così appartengano al senso, e diventino poi tali per opera dell' intendimento che li separa, e li considera separati, quasi fingendoli tali; tuttavia nega contro Platone, almeno inteso come l' intesero alcuni de' suoi discepoli, che esistano per sè ab aeterno. Ma riguardo ai secondi Aristotele ammette che esistano precedentemente e per sè, non però allo stato di pure idee, ma come intellezioni, ovvero enti intellettivi, e di questi si deve principalmente intendere quello che dice che [...OMISSIS...] . Ma tutti questi si riducono all' essere (riconosciuto da Aristotele pel primo universale) (2) e però dice che « « a quel modo che ciascuna cosa ha dell' essere, in quello stesso ha della verità » » (3). Dall' essere dunque, che è la verità, viene il lume all' intendimento (4), e per mezzo di questo, all' occasione delle sensazioni si vedono gli altri universali. Poichè non avendo l' anima nostra che l' intuizione dell' essere al tutto indeterminato « « la speculazione della verità per noi parte è difficile, parte facile » »: facile coglierne una parte avendone il lume per natura, difficile raggiungerla tutta essendo il lume naturale assai poco. La causa dunque di questa difficoltà, dice, non è nelle cose, ma in noi, [...OMISSIS...] . Quindi dobbiamo cavare le notizie universali coll' induzione, non perchè queste sieno ne' particolari sensibili, ma perchè, essendoci nell' anima l' essere, questi hanno nell' essere la loro ragione , e questa ragione è distinta dai sensibili stessi: così gl' intelligibili dei sensibili si distinguono da essi unicamente per la ragione , non perchè questa ragione costituisca altri sensibili ideali ed eterni, diversi dai sussistenti medesimi (6). Essendo dunque tali universali relativi ai sensibili particolari, benchè questi non li contengano, pure senza questi non si possono avere. [...OMISSIS...] . Dice che gli astratti non sono separati in quanto ciascuno è questo quale, [...OMISSIS...] il che è lo stesso che dire in quanto sono una determinata natura non in quanto sono universali, e la prova si è che niuno può dire in qual genere inesista un astratto, se non si riferisce al senso: per esempio niun può dire in qual genere di cose inesista il colore, se non si riferisce ai colori percepiti col senso [...OMISSIS...] . L' universale dunque come universale non si trae dal senso, e da' sensibili è realmente separato, ma la natura , che nell' universale s' intende, è ne' sensibili, e non da questi separata: distinzione che fecero anche gli scolastici distinguendo l' « intentio universalitatis » e la natura che soggiace a quell' intenzione di universalità (2). Ora onde nasce quest' universalità che non è nelle cose reali e sensibili? Ogni cosa, secondo Aristotele, procede da ciò che è primo nella serie e che ha la natura di cui si tratta più compiutamente, e quest' è causa degli altri, [...OMISSIS...] (3). Come dunque del vero è causa il verissimo [...OMISSIS...] , così dell' universale è causa l' universalissimo. Ora come il verissimo è l' essere, siccome vedemmo, così l' universalissimo è pure l' essere nella sua massima estensione. E` ben da considerarsi che Aristotele pone sempre i sensibili e gl' intelligibili come due nature separate e realmente distinte (4): che gl' intelligibili non si formano propriamente, ma solo si vedono, manifestandosi, [...OMISSIS...] (5) e che la mente non fa gl' intelligibili, ma anzi è mossa al suo atto, cioè all' intellezione, dall' intelligibile, [...OMISSIS...] (6): l' intelligibile dunque che move la mente al suo atto non è l' effetto di questo atto. Ma molti intelligibili si manifestano all' occasione delle sensazioni, benchè essi non sono sentiti. Ora le specie intelligibili de' sensibili non sono realmente separate, ma sono ne' sensibili in potenza. Se dunque quello che move la mente a contemplare gl' intelligibili in atto, non può essere alcun intelligibile in potenza, perchè fino a che è in potenza, non opera e non è ancora, e Aristotele insegna che solo ciò che è in atto trae in atto quello che non è tale: converrà dire che oltre gl' intelligibili in atto nella mente umana, che all' occasione delle sensazioni riduca in atto gl' intelligibili in potenza. E questo appunto risulta dai vari luoghi d' Aristotele che abbiamo allegati, e da quelli che allegheremo. E primieramente si consideri questo: [...OMISSIS...] : di maniera che tra i sensibili e gl' intelligibili non pone che una proporzione, e nulla di comune e di simile. Come dunque il sensibile agirà nella mente? Questa è la difficoltà che si fa lo stesso Aristotele: [...OMISSIS...] . Poichè se essa è intelligibile, patirà forse da se stessa, posto che l' intendere sia patire dall' intelligibile? (2). A queste difficoltà risponde: 1 Che la mente è essa stessa gl' intelligibili in potenza, ed essa è pure quella che li trae in atto, poichè collo stesso atto dell' intendere sono gl' intelligibili posti in atto «hoper symbainei» (l' intendere) «epi tu nu» (1). 2 L' ente in potenza e in atto è l' ente medesimo (2). Ma quando la mente è venuta all' atto dell' intendere, allora gl' intelligibili in atto non sono diversi da lei, ma sono ella stessa in atto, o certo il termine di quest' atto. [...OMISSIS...] . 3 Perciò la mente si divide così che prima che esca all' atto dell' intendere, ella è come una tavoletta in cui non c' è nulla di scritto in atto, ma ella stessa è quella che poi scrive su questa stessa tavoletta, cioè in sè, uscendo al suo atto. [...OMISSIS...] . La mente umana dunque parte è in potenza, parte in atto: in potenza è la tavoletta vuota, in atto è quella che scrive su questa tavoletta. Errarono dunque grandemente tutti quelli che intesero questo luogo d' Aristotele, come se venisse a dire che è il senso quello che scrive nella mente, quando chiaramente dice che è la sola mente quella che operando scrive in sè stessa gl' intelligibili. 4 E così la mente è intelligibile, come gl' intelligibili, [...OMISSIS...] , cioè è intelligibile pel suo atto, poichè l' atto suo è l' intelligibile. 5 Soggiunge Aristotele: [...OMISSIS...] , cioè la causa onde avviene che l' intelligenza non sia in tutte le cose (5). Risponde: [...OMISSIS...] . Ma come inesistono in potenza gl' intelligibili nelle cose materiali? - Si dicono in potenza, non perchè sieno tali nelle cose materiali, ma perchè queste si considerano nella loro relazione colla mente: considerate da questa intieramente divise, gl' intelligibili non sono in esse nè in potenza nè in atto. Ma in relazione colla mente, quegl' intelligibili si dicono essere nelle cose materiali, in potenza, poichè la mente intende quelle cose materiali spoglie della materie (1), e però la mente stessa è la loro potenza: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo si osservi, che viene supposta qui la distinzione delle due materie corporea e ideale. Poichè mentre altrove chiama materia « ciò che è potenza », qui dice la mente « potenza ma senza materia », il che viene a dire: senza materia corporea, ma tuttavia con materia ideale, ossia potenza degl' intelligibili, [...OMISSIS...] . 6 Ma perchè la mente è potenza di quegl' intelligibili che si riferiscono agli enti materiati? Non potrebbe essere potenza loro, se non fosse senza materia, [...OMISSIS...] , e perciò se non avesse qualche atto. Ora dice appunto Aristotele che « « in essa è l' intelligibile » », [...OMISSIS...] . Avendo dunque od essendo l' intelligibile in atto, ella ha la potenza di rendere intelligibili altre cose cioè le materiali, mettendo in atto quegl' intelligibili, che ad esse si riferiscono. Poichè è da considerare attentamente quello che avea detto prima, cioè che « « l' intelligibile è uno solo di specie » » [...OMISSIS...] . Quest' intelligibile uno di specie è quello che inesiste nella mente, e la costituisce in atto, e la rende atta [...OMISSIS...] a ridurre in atto gl' intelligibili relativi ai sensibili. Che cosa viene a dire che « l' intelligibile è uno di specie »? Quando più cose sono uno di specie, allora in ciascuna di esse conviene che ci sia la specie identica. Se dunque gl' intelligibili sono tutti un solo di specie, conviene, che la stessa specie intelligibile sia in ciascuno. C' è dunque un intelligibile che informa tutti gli altri: ora questo non può essere che quello che essendo comune a tutti è il più universale, e questo è indubitatamente « l' idea dell' essere ». Quest' idea dunque è la specie per sè intelligibile, la mente in atto, e quella che è in potenza tutti gli altri intelligibili: perchè la specie presa da sè è in potenza tutti gl' individui ch' ella poi informa. Così egli è ad un tempo atto e potenza; atto però, in quanto c' è l' intellezione che in quest' oggetto finisce; potenza, in quanto come oggetto comune e universale riceve tutte le determinazioni che lo rendono gli altri intelligibili, ond' è, come dice Aristotele, [...OMISSIS...] . Si conferma tutto questo da ciò che dice Aristotele sull' impossibilità, che gli elementi e le cause sieno una serie infinita, ma è uopo arrivare ad una prima materia e ad una prima specie (2) e, in ogni ordine di cose, ad una prima causa. Convien dunque che ci sia una prima specie che produca le altre; e questo è l' intelligibile comunissimo, uno di specie, ossia la Mente. Ma questa prima specie , che non può essere generata, non è come le idee di Platone, puri oggetti (secondo che ad Aristotele piace di rappresentarle), ma è un atto, una prima intellezione che ha per termine l' essere: anzi la mente stessa è chiamata termine da Aristotele, [...OMISSIS...] (1), il che conferma quello che dicevamo, che Aristotele usa mente in un senso oggettivo. Ma consideriamo bene come accada ad Aristotele, che nelle sue mani il primo intelligibile, la prima specie, l' essere, diventi mente in atto rispetto a sè, in potenza rispetto agli altri intelligibili. Per vederlo con chiarezza conviene che andiamo indietro, e che ci richiamiamo il principio della filosofia d' Aristotele in quanto ella si divide, o pretende dividersi da quella di Platone. Aristotele dunque parte da questo principio: « « Le sole sostanze sussistono per sè e separate realmente l' una dall' altra » ». Per conoscere se una cosa sussista in sè con indipendenza da ogni altra, conviene vedere se sia sostanza. Per vedere se sia sostanza conviene conoscere i caratteri proprŒ della sostanza. Questi caratteri sono i seguenti: 1 La sostanza (2) non si predica di alcun subietto, nè inesiste in alcun altro subietto: ma di essa si predicano l' altre cose, o in essa inesistono come in loro subietto (3). Di che segue che la sostanza; 2 E` sempre singolare , indivisibile, una di numero, [...OMISSIS...] . 3 Laonde la sostanza è sempre questo chè determinato [...OMISSIS...] (4). 4 Le sostanze hanno ancora questo carattere di non aver nulla a sè di contrario, [...OMISSIS...] . Ma avverte che questo carattere coll' esser comune alle ousie seconde, cioè ai generi e alle specie (1), è anche in altre cose come nel quanto. 5 Una sostanza non è più o meno sostanza d' un' altra. 6 La sostanza non è capace di più e meno, cioè quello che essa è non si può dire ora essere più, ora meno (2). 7 Il settimo carattere che assegna Aristotele alla sostanza, e che dice ad essa spettare soprammodo, si è ch' essa « « una e la medesima di numero sia suscettiva di ricevere in sè i contrarŒ » », [...OMISSIS...] (3). Ben si vede che Aristotele, coll' assegnare questi caratteri alla sostanza, limitava il suo pensiero a quelle sostanze, che sono in qualche modo mutabili, e suscettive d' accidenti. Ma quando egli ha bisogno di ricorrere alla prima causa motrice, ch' egli riconosce per sostanza prima, allora la rende immutabile, e non punto suscettiva d' accidenti contrarŒ, onde nega a quest' ultima il settimo carattere. Stabiliti dunque questi caratteri costitutivi della sostanza e posto per principio che non può esistere per sè, se non la sostanza (4), egli si fa a combattere le idee di Platone, in quanto essendo generi , e predicabili, e avendo contrarŒ, mancano dei caratteri della sostanza. Ma con questo non nega che esistano degl' intelligibili separati realmente, purchè abbiano le condizioni della sostanza, ed anzi li ammette. Trova impossibile ridurre la specie alla materia , chè materia e specie hanno tra loro non contrarietà ma opposizione come l' atto alla potenza, e però come a lui par necessario ammettere una materia prima ab aeterno (non ammettendo la creazione), così trova ugualmente necessario ammettere una prima specie , un primo intelligibile. Solamente egli riconosce che non può esistere la materia separata da qualunque specie, perchè rimarrebbe mera potenza senz' atto; ma la specie sì, perchè è atto, ed ammette da sè sola i caratteri della sostanza. Riconosce ancora che possono esistere cotesti caratteri della sostanza in una prima causa motrice, e in una prima causa finale (1). Se non che queste tre cause vanno poi a ridursi in una, perchè la prima causa finale dee essere un primo intelligibile, e però specie , e questa un primo appetibile e però fine , e questo, appunto perchè appetibile, movente, e quindi principio del movimento . E in generale stabilisce questo principio, che se « « alcuna delle cause non ha contrario, ella conosce se stessa, ed è in atto e separata » », cioè sostanza prima (2). Di qui dunque procede, che i generi, che si riducono alle dieci categorie, non possano esistere da sè soli separati dalle sostanze di cui si predicano, o che hanno in sè, o in cui sono, e per la stessa ragione assai meno l' uno , e quello che si converte coll' uno , cioè l' ente , perchè l' ente è più universale ancora e più comune de' generi, e si predica di tutto e in molte maniere (3). Ma l' intellezione all' opposto o la mente che ha l' ente per oggetto è singolare, e niente vieta che sia sostanza, come dicemmo. E se questa prima intellezione deve essere in potenza tutti gl' intelligibili e in atto niuno di essi, conviene che abbia unicamente l' essere per oggetto, poichè, secondo la dottrina d' Aristotele, l' essere è o in atto o in potenza. Come atto tutte le cose sono essere (4). Come potenza l' essere è in potenza tutte le cose. Aristotele dice, che gli universali, in quanto sono universali, sono la scienza in potenza, perchè l' atto compiuto della mente apprende l' oggetto determinato (5). Se dunque gli universali, come universali , non danno che una cognizione potenza, ne verrà, che la cognizione totalmente potenza sarà l' universalissimo , cioè l' essere: la potenza è materia, l' essere dunque sarà la materia della cognizione, la materia ideale (1): la potenza della cognizione passando all' atto diventa tutte le cognizioni, l' essere dunque è in potenza tutti gl' intelligibili: ma la mente in potenza d' Aristotele è appunto quella che non è nessuno degl' intelligibili, ma diventa tutti: la mente potenziale dunque d' Aristotele è l' essere ideale indeterminato, come la potenza in atto è l' intuizione continua di quest' essere; la potenza è il subietto, secondo Aristotele, onde il genere è il subietto delle specie, e così l' essere è il subietto di tutti gl' intelligibili, e questo subietto è ancora la mente in potenza; l' essere è il possibile e la mente d' Aristotele non è altro che il possibile [...OMISSIS...] ; la mente non ha passione alcuna, è immista e semplice, e così pure l' essere è una tavola in cui niente è ancora scritto, e così l' essere che non è ancora niente in atto, è il luogo di tutte le forme, e così l' essere è quello in cui sono poi tutti gl' intelligibili in atto, [...OMISSIS...] . [...OMISSIS...] . L' essere dunque in potenza, secondo Aristotele, è tutte le cose in potenza. Acciocchè dunque la mente sia tutte le cose in potenza, conviene che sia l' intuizione dell' essere, l' essere intuìto nella sua potenzialità. Ciò poi che è in potenza, da Aristotele, come vedemmo, è chiamato materia: l' essere dunque in quanto è intelligibile è la materia di tutti gl' intelligibili (3): ma materia degl' intelligibili è anche chiamata la mente [...OMISSIS...] : l' essere intuìto adunque nella sua potenzialità universale è la mente in potenza d' Aristotele e non può essere altro, perchè altro non sono le cose in potenza secondo la dottrina del filosofo di Stagira. Ora perchè l' uno e l' essere sono il medesimo, secondo Aristotele, e si predica l' uno come l' ente di tutte le cose (1): perciò quello che abbiamo detto dell' essere come oggetto essenziale dell' intuizione primitiva, possiamo confermare con altre dottrine aristoteliche intorno all' uno. Aristotele considera l' uno sotto due aspetti, in quant' è nelle cose e in sè stesso (2). Rispetto alle cose, queste o sono uno per accidente, o per sè. Lasciando noi da parte la considerazione delle cose che sono uno per accidente, considerazione puramente dialettica (e Aristotele suol sempre mescolare le considerazioni dialettiche colle ontologiche, onde riesce il suo discorso intricato e come un prunaio); vediamo che cosa dica dell' essere le cose uno per sè. Considera l' unità che viene alle cose dalla loro esistenza individuale, e quella che loro viene dalle specie e da' generi: e questa è quella che importa al nostro discorso, che dagli universali (i generi) dee sollevarsi all' universalissimo, all' essere, ossia all' uno stesso. Dice dunque che si dice qualche cosa essere una, quando « « il subietto sia indifferente di specie »(3) ». La materia, come vedemmo, è il subietto per Aristotele. Ma come egli ammette due materie, cioè la corporea, o più generalmente reale, e l' ideale, così ammette pure due subietti . Ma poichè non sempre distingue chiaramente questi due subietti, indi l' oscurità del parlare. Quando contrappone la materia alla specie , allora si dee intendere necessariamente d' un subietto corporeo o reale. Ma qui « il subietto indifferente di specie »è il reale o l' ideale? Il contesto sembra indicare che sia il reale, in quanto è suscettivo dell' una o dell' altra specie, e però a queste è indifferente. [...OMISSIS...] . Qui chiama apertamente subietto il genere, cioè l' universale, e lo dice materia [...OMISSIS...] . Il subietto dunque qui è la materia ideale, giacchè il genere è appunto per Aristotele la materia delle specie, [...OMISSIS...] (5). Il subietto ideale dunque è tanto più subietto, quant' è più universale, perchè quant' è più universale, è a maggior ragione materia ideale (1). Il subietto reale dunque e il subietto ideale hanno un' opposta natura: poichè quanto più la cosa pensata s' avvicina ad essere singolare , tanto più s' avvicina ad esser materia e subietto reale ; e quanto più si rende universale, tanto più diventa subietto ideale. Così il subietto reale non è propriamente che il singolare individuo; l' ultimo è quello che è massimamente subietto ideale e di conseguente l' universalissimo , cioè l' essere e l' uno (2). Veniamo all' uno in sè, cioè all' essenza dell' uno [...OMISSIS...] . L' uno nel suo essere, secondo Aristotele, è il mezzo del conoscere. Questa sentenza è notabilissima. [...OMISSIS...] . Se dunque c' è un uno, ossia un indivisibile in ciascun genere, che serva di misura per le cose che sono in ciascun genere, e questa prima misura è il principium quo della cognizione delle cose contenute in ciascun genere, non ci sarà un uno superiore che misura e con cui si conoscono i generi stessi? Aristotele lo ammette e lo chiama « « uno d' analogia » ». [...OMISSIS...] . Se dunque c' è un' unità superiore a quella de' generi, questo è un universale più ampio de' generi; ma sopra i generi non c' è di più universale che l' essere e l' uno, che è il medesimo. L' unità analogica dunque d' Aristotele è l' essere che raccoglie in sè i generi, ed è il fondamento delle proporzioni che le cose d' un genere hanno colle cose d' un altro genere: le proporzioni poi nascono da' numeri, de' quali l' uno è il principio [...OMISSIS...] (1). Riconosce dunque Aristotele quell' uno che è nell' universale, e che chiama «tohen kath' holu» (2). Ora tra gli universali universalissimo è l' essere, e l' essere è l' uno stesso; onde quest' è il medesimo che l' uno per essenza, [...OMISSIS...] che è principio del numero come numero [...OMISSIS...] (3); il numero poi è fondamento alla proporzione e analogia, onde il «tohen kata analogian» (4). [...OMISSIS...] Ecco dunque il principio con cui si conosce, l' uno: ma l' uno non differisce dall' ente; l' ente dunque è, secondo Aristotele, il principio con cui si conoscono tutte le cose. E infatti il conoscere, come pure il sentire, è descritto da Aristotele come un misurare. [...OMISSIS...] . Il che mirabilmente conviene all' essere indeterminato il quale sotto un aspetto è misura di tutte le cose, perchè con esso tutte si conoscono; sotto un altro è misurato dalle cose sensibili, perchè queste lo determinano e pongono in lui un quanto di sapere determinato. Onde dice Aristotele che nell' acquisto del sapere, « « ci accade come se un' altra cosa ci misurasse, e così conoscessimo quanto siamo grandi con questo che tante volte ci è stato applicato il cubito » » (7). Nel qual luogo Aristotele confonde il noi coll' essere : poichè dagli oggetti esterni non siamo misurati propriamente noi, ma l' essere che intuiamo: chè noi certo non siamo tanto grandi da poter essere misurati da tutti gli enti che percepiamo, ed avanzarne, ma l' essere universale, sì. Pure anche noi partecipiamo della grandezza della scienza che è in noi, e però in altro senso si può dire che questa ci misuri (1). Ma più esattamente parla Aristotele poco appresso: [...OMISSIS...] . Dice in qualche modo , perchè in un altro modo è il contrario, dovendosi anche qui ricorrere per ispiegare questi due modi, all' estensione e alla comprensione delle idee, al contenente ed al contenuto: il contenuto (gli oggetti reali o le determinazioni) è come una misura che s' applica al contenente, cioè all' essere, e lo misura; il contenente, cioè l' essere, è come una misura che s' applica al contenuto, cioè agli oggetti ed alle determinazioni, e li misura. Colla prima misura si rileva il quanto d' idealità è realizzato; colla seconda misura si rileva il quanto d' idealità non è ancora realizzato, ma rimane quello scibile che non è ancora scienza [...OMISSIS...] se non in potenza. L' essere dunque o l' uno è il principio con cui si conoscono tutte le cose quasi con una misura. E infatti la mente d' Aristotele con cui si conosce, è detta da lui uno e principio; quest' uno è il principio della dimostrazione e della scienza. [...OMISSIS...] . La mente dunque è quell' uno con cui si ha la dimostrazione e la scienza; ma quest' uno, come vedemmo, è il termine del principio di contraddizione, cioè l' essere: col qual essere l' anima afferma questo è, questo non è [...OMISSIS...] (4): l' essere dunque è l' uno nella scienza. E però la mente nel senso oggettivo è pure una: chè, come c' è un solo e indivisibile sensitivo nell' anima con cui ella sente più cose (1), così c' è pure un unico e indivisibile scientifico con cui sa più cose, e questo è l' essere. Poichè Aristotele ragiona sempre dell' intendimento in un modo analogo a quello del senso. Poniamo attenzione a ciò che egli dice circa quel principio col quale si sentono tutti i sensibili, potendo questo non poco giovarci a intendere quel principio col quale s' intendono tutti gli intelligibili. Si fa dunque la domanda Aristotele, se si sentano i diversi sensibili con qualche uno e indivisibile che sia nell' anima, di modo che, a ragion d' esempio, di quella parte dell' anima con cui sente il dolce, e di quella con cui sente il bianco, risulti nell' anima un uno con cui senta l' un e l' altro [...OMISSIS...] . C' è dunque secondo Aristotele un sensitivo nell' anima che è uno ed indivisibile, e questo in atto, «kat' energeian,» col quale si hanno sensazioni di tutti i generi: ma questo rimanendo nella radice uno, emette degli atti ulteriori pei quali si divide in atto e così diventa altro da quel di prima, senza che quell' uno di prima radicale cessi [...OMISSIS...] . Ora a questo modo stesso Aristotele concepisce la mente. Essa è una e indivisibile, e quest' è lo scientifico [...OMISSIS...] ed è indivisibile in atto; ma quando essa diventa tutti gl' intelligibili, allora ella si divide e diventa divisibile in atto. Ora quand' è una e indivisibile in atto, ella è tutti gl' intelligibili in potenza, e tutti gl' intelligibili in potenza non sono che l' intelligibile universalissimo, l' essere, come vedemmo: quando diventa quest' intelligibili ella si divide, conservando l' uno radicale, e diventa altra. Il primo scientifico adunque è in atto, il che equivale a dire, è intuizione in quanto è uno e indivisibile (mente in atto); ma è anche in potenza riguardo agli atti ulteriori, e in potenza di dividersi, diventando le intellezioni de' singoli intelligibili. Il che è più facile ad intendersi della mente che del senso, perchè in quella l' universale si distingue dal singolare, laddove in questo non c' è che il singolare. E perciò Aristotele stesso è obbligato di ricorrere all' universale natura, alla specie, al genere, e in generale alla ragione per ispiegare come un unico sensitivo possa sentire diverse sensazioni e di vario genere. Il che è degno di tutta l' attenzione. Prosegue dunque in questo modo: [...OMISSIS...] . Questa parola ragione , «logos,» ci richiama alla distinzione aristotelica tra le cose « « separate di ragione e le cose separate di sostanza o di grandezza »(2) ». Una cosa separata solamente di ragione , non vuol dire altro se non che la mente la considera divisa dal suo tutto reale. Questa ragione della cosa dunque è veramente separata nella mente, benchè non sia tale nella realità. La ragione dunque è nell' anima (3) ed è altra cosa dalla realità esterna, vi è generata dalla mente in atto, che ha « « i principŒ di tutte le intellezioni »(4) », principŒ che tutti si riducono, come vedemmo, a quello di contraddizione, e la scienza si compone di ragioni (1). Ma si osservi che per Aristotele il dire: « « separata di ragione » », e il dire: « « separata di essere, «to einai» » », è perfettamente sinonimo. Agli esempi recati di sopra si può aggiungere questo: [...OMISSIS...] ; il che è lo stesso di quello che dice in appresso dell' intelligibile e dell' intellezione (3). Vuol dire manifestamente che, nell' atto della sensazione e nell' atto dell' intellezione, il sensibile in quanto sensibile, e l' intelligibile in quanto intelligibile, è essenzialmente necessario al senziente e all' intelligente, sicchè l' atto di sentire mancherebbe d' una parte di sè se gli mancasse il sensibile, e l' atto dell' intendere se gli mancassero gl' intelligibili: sono dunque una cosa il senziente e il sensibile in atto, e l' intelligente e l' intelligibile in atto; ma differiscono di ragione : questa ragione è detta essere da Aristotele; l' essere dunque è universalmente l' oggetto intelligibile primo, costituente la ragione delle cose. Ma uno e il medesimo essere, come insegna lo stesso Aristotele, è potenza ed è atto, e ciò tanto nell' ordine sensibile, quanto nell' ordine intelligibile. L' essere potenza è chiamato materia da Aristotele, il quale però distingue la materia intelligibile dalla materia sensibile (4). Ora la mente, che diventa tutte le cose, è la materia intelligibile, e però è l' essere in potenza, ossia indeterminato [...OMISSIS...] (5). In due maniere dunque gl' intelligibili, secondo Aristotele, acquistano ordine ed unità: in una maniera subiettiva e in una maniera obiettiva. Subiettivamente, pel primo atto, ossia per la prima intellezione, che essendo una riduce molti in atto (all' occasione delle sensazioni), in un modo simile a quello che ha dichiarato parlando del senso. C' è dunque un' intellezione, che è attualmente uno «hen kat' energeian,» e che conservando la sua indivisibilità radicale, si divide poi secondo le ragioni delle cose, e con questi atti ulteriori diventa gl' intelligibili «polla kat' energeian», e ciò perchè la potenza e l' atto sono il medesimo ente (6). Onde quell' atto che è potenza relativamente agl' intelligibili generici e speciali conserva l' unità, mentre questi la dividono, quasi direi come rami d' uno stess' albero, o raggi che emanano da uno stesso punto luminoso. Sono anche uno obiettivamente, perchè l' essere in potenza essendo lo stesso che l' essere in atto, la mente in potenza che è, come dicevamo, l' essere in potenza, è potenzialmente tutti gli oggetti, cioè tutti gl' intelligibili generici e specifici. Che l' essere dunque sia il lume ossia l' obietto essenziale della mente, è manifesto. Il che si conferma ancora, come abbiamo già toccato, da quello che dice Aristotele, ente e non ente significare, nel più proprio modo, il vero ed il falso (1), che secondo questo filosofo altrove non risiede che nella mente (2). Ora gli enti o sono incomposti [...OMISSIS...] o composti [...OMISSIS...] . Rispetto ai primi, cioè a quelli che non si compongono dal nostro intendimento coll' attribuire un predicato ad un subietto « « il vero è il toccare e il dire »(3) ». Suppone che l' anima tocchi immediatamente questi intelligibili incomposti: con questo, che Aristotele dice tocco , e noi chiamiamo intuizione, l' anima non s' inganna mai: « « Poichè, soggiunge, non ha luogo l' ingannarsi circa la quiddità se non per accidente (4) e similmente circa le ousie incomposte » » (le specie e i generi), e ciò perchè tutte queste essenze sono essere , e l' essere nè si fa nè si corrompe: [...OMISSIS...] . Il che spiega S. Tommaso così: [...OMISSIS...] . Onde Aristotele conchiude che il vero relativamente ai semplici intelligibili non è altro che l' intenderli, [...OMISSIS...] : il falso o l' inganno non c' è, ma solo l' ignoranza. Quest' ignoranza tuttavia, avverte Aristotele, non è come la cecità, nella quale manca il sensitivo, perocchè resta sempre l' intellettivo [...OMISSIS...] , che è la potenza d' intendere con un atto primo (mente in potenza ed in atto) (3). L' essere dunque, semplicemente preso (4), non ha origine da cos' alcuna precedente, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e questo qualche cosa precedente non esiste fuori dell' essere. L' essere dunque dee esistere, e dee altresì esistere nell' anima, acciocchè questa intenda: l' anima, come neppure nessun' altra cosa, non lo produce, e dee essere in atto: è dunque quello che fa ad un tempo l' attualità della mente, e la sua potenzialità di conoscere i generi dell' essere. Veniamo agli enti composti dalla mente che a un subietto attribuisce un predicato. Dice che alcune cose sono sempre composte ed è impossibile il dividerle: altre sempre divise, ed è impossibile unirle: queste sono le cose necessarie. Altre talora sono unite, talora divise, e sono le contingenti. [...OMISSIS...] . Componendo, la mente fa uno del predicato e del subietto, [...OMISSIS...] (2). Anche le cose che sono in sè divisibili e molteplici, come lo spazio e il tempo, la mente le unifica, e in due modi, obbiettivamente per l' unità della specie colla quale le pensa, e subiettivamente per l' unità di sè stessa. Poichè, dice Aristotele « « non l' indivisibile secondo il quanto ella intende, ma l' indivisibile di specie in un tempo indivisibile e coll' indivisibile dell' anima » (3) ». Sul qual luogo si potrebbe così ragionare: L' anima unisce i più in uno, perchè ella intende l' indivisibile di specie. Ma ella unisce in uno tutte le cose. Convien dunque che intenda anche un indivisibile di specie che comprenda tutte le cose: ora questa specie che tutto rende indivisibile, non può essere altra che quella dell' essere. Dunque la potenza che ha l' anima di unire e dividere, per via di predicazione, nasce dall' intuizione che ha dell' essere. Colloca dunque Aristotele nell' anima qualche cosa di uno , tanto nell' ordine sensuale, quanto nell' ordine intellettuale: quest' uno che è nell' anima può esistere in più modi, e questi modi nell' ordine del senso sono i varŒ sensibili, nell' ordine dell' intendimento sono i varŒ intelligibili; e quest' uno è il mezzo unico con cui si sente, ovvero con cui si conosce, [...OMISSIS...] . Quest' uno poi che è nell' anima e che contiene tutti i sensibili, e così pure quest' altro uno che è nell' anima e che contiene tutti gl' intelligibili, li contiene non in atto, ma in potenza, e questa potenza, riferendola ai diversi intelligibili, come il punto del circolo ai diversi raggi, benchè sia uno di numero, tuttavia è moltiplice di ragione, ossia, come Aristotele s' esprime, d' essere, [...OMISSIS...] . Il centro dunque, ossia l' ultimo termine degl' intelligibili nell' anima, è tutti gl' intelligibili in potenza, ed è uno di numero, perchè in sè è una cosa sola, ed è uno d' analogia [...OMISSIS...] , perchè a lui si riferiscono gli intelligibili diversi (2). Ora l' analogia è fondata, come abbiam più sopra osservato, nel numero in sè considerato, e questo si riduce all' uno, e l' uno s' identifica coll' essere. Si conferma dunque quello che disopra abbiamo osservato, che l' uno per analogia, che non è altro che l' essere, è posto da Aristotele nell' anima come mente, sotto un aspetto in atto, sotto un altro in potenza. Tutti i sensibili dunque sono potenzialmente in un primo sensitivo dell' anima (sentimento fondamentale), tutti gli intelligibili sono in un primo intellettivo dell' anima pure potenzialmente (essere indeterminato). Così ricapitola Aristotele stesso la sua teoria: [...OMISSIS...] . Che cosa dunque è la mente Aristotelica? [...OMISSIS...] gli enti stessi intelligibili. Che cosa è la mente in potenza? gli enti intelligibili in potenza. Questi enti intelligibili in potenza sono uno, costituiscono una perfetta unità, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] . Che cosa sono gli enti in potenza ridotti ad unità? Certo non altro che « l' ente universale in potenza, ossia l' ente indeterminato ». Questo dunque costituisce la mente in potenza d' Aristotele in senso obiettivo (4). Per ciò stesso questa mente è dal nostro filosofo chiamata « « lo scientifico dell' anima » » «to epistemonikon». Anche questa parola ha un senso obiettivo; tant' è vero che essa esprime gli obietti del sapere in potenza, e ridotti ad uno, «to episteton». Ora che è quell' ente saputo che in potenza abbracci tutti gli enti saputi? Non altro certamente che l' essere possibile . Ma se la mente fosse solamente questa, sarebbe mera potenza, e la mera potenza non può sussistere separata, secondo Aristotele. E` dunque necessario, che la mente non sia solamente in potenza; ma dee aver altresì qualche atto. Quest' atto è l' intellezione : così è costituita la mente in senso subiettivo. L' intelligibile dunque e l' intellezione formano la mente aristotelica una di numero, ma composta di due elementi distinti di concetto: l' uno, cioè l' intellezione, la fa esser atto, col quale ella è capace di ridurre in atto tutti gli intelligibili determinati; l' altro la costituisce potenza capace di divenire ella stessa tutti questi intelligibili: poichè lo sciente è in atto, e la scienza relativamente è in potenza (1). Questa mente dunque è quel principio (2), che Aristotele riconosce necessario in ogni serie di cause, anche nelle specie (causa formale): conviene in ogni cosa fermarsi, «anagke stenai» (3): se non c' è un primo, non c' è il resto (4): senza di ciò si distrugge la possibilità dell' intendere (5): pei principŒ si conosce tutto il resto (6): chi sa il più generale, sa in potenza tutto (7). Da tutte queste considerazioni adunque possiamo, come ci sembra, senza temerità conchiudere: 1 Che tutti gli intelligibili hanno la loro unità in un primo intelligibile, che li accoglie tutti in sè, in potenza, e questo primo intelligibile, fondo e materia di tutti gli altri, è l' essere ideale indeterminato ; 2 Che la mente obiettiva è questo stesso essere o intelligibile primo, e però è ella stessa in potenza tutti gl' intelligibili; 3 Che la mente in senso subiettivo è una prima intellezione che ha per oggetto quell' essere ideale indeterminato, ed è la mente in atto, che fa tutti gli altri intelligibili, quando si distinguono nell' essere, quasi su tavola liscia, su cui si scrivono; 4 Che le determinazioni del primo intelligibile, il quale sembra moltiplicarsi secondo le varietà delle determinazioni stesse, vengono dal sentimento; 5 Che c' è nell' uomo il primo sentimento naturale e fondamentale, il quale è uno ed ha tutti i sentimenti speciali in potenza; 6 Che il principio senziente, e l' intelligente, cioè il principio dell' intellezione, s' identificano nell' uomo; 7 Che il primo sentimento dato all' uomo per natura termina nell' estensione, e specialmente, nell' estensione corporea, e che quest' estensione corporea mutando i suoi termini, la figura e il luogo, occasiona le specie sensibili , che sono appunto figure di essi diversamente tracciate nel sentimento primo che le abbraccia tutte come fondo e radice, ossia senso comune . . Che queste specie sensibili diventano altrettante determinazioni dell' essere ideale e indeterminato, e vedute così dal principio intelligente e mente subiettiva, danno luogo ad altrettante specie intelligibili . Tutti gli intelligibili dunque sono contenuti e unificati dal primo, l' essere. La loro moltiplicità poi non viene dall' intelligibile stesso, che è una specie sola; ma dalle relazioni diverse con un elemento straniero, cioè col sentimento. Ora il sentimento stesso è uno; ma si moltiplica anch' esso per un elemento straniero che è la materia corporea diffusa nell' estensione in cui termina: questo è dunque la prima causa della moltiplicità. Tutte le intellezioni del pari sono contenute e unificate dalla prima, cioè da quella che ha per termine il primo intelligibile. Siccome poi, a questo, come ad atto purissimo e perfetto, tende per istinto tutta la natura potenziale, così egli acquista la relazione di Causa finale e di Primo motore. Conchiude dunque, che il Primo motore è unico non solo di specie, ma anche di numero; che dalla sua unicità viene l' esser uno anche all' Universo, [...OMISSIS...] . Finalmente la mente è una tanto in senso obiettivo, perchè in questo senso è ella stessa il primo intelligibile, che contiene tutti gli altri, quanto in senso subiettivo, perchè in questo senso ella è la prima intellezione, e il principio di tutte l' altre. Quest' è dunque l' unità che Aristotele attribuisce al divino. Ma questo non toglie nè la generazione, nè la pluralità delle menti. In quanto alla generazione, la natura, certe nature, certi corpi tendono e pervengono a quel loro ultimo atto, a quell' ultima specie, che si chiama mente. Quest' ultima specie riesce così perfetta, che non ha più bisogno della potenza corporea che l' ha prodotta, ma essa stessa è in sè sostanza singolare, e però opera con qualche sua attività indipendentemente dal corpo, e, questo perendo, continua a sussistere. Ma perchè in un corpo si svolga questo novo atto e specie sostanziale, si esige che già ci sia prima in atto la mente nel genitore del nuovo essere intellettivo. E poichè l' attività della generazione viene dalla specie , convien dire che, secondo i principŒ aristotelici, la mente che esiste nel generatore, sia quella specie, quell' atto sostanziale, che nella generazione operando, susciti nel generato la mente preesistente in potenza ne' semi. Ma come avvenga questo mistero della generazione della mente, in niun luogo Aristotele lo spiega, nè di spiegarlo si propone. Dice bensì, come vedemmo, che sola la mente nella generazione umana viene dal di fuori, e in questa generazione fa intervenire gl' influssi degli astri, secondo le tradizionali camitiche superstizioni. Il quale influsso complica via più la questione, non potendosi determinare precisamente in che esso consista. Lasciando però da parte per un poco gli astri, ecco in che modo non dissonante da' principi aristotelici si potrebbe intendere, che la mente s' aggiungesse dal di fuori. Abbiamo veduto che Aristotele prende la mente in un senso ora subiettivo , ed ora obiettivo . Non fa dunque maraviglia che pronunci due sentenze opposte quando tratta della generazione della mente: poichè da una parte la fa venire mediante la generazione umana: [...OMISSIS...] . Dall' altra poi dice che la mente s' aggiunge dal di fuori. Le quali due sentenze si conciliano per la subordinazione delle cause. In fatti, domandare « se la mente venga all' uomo dal di fuori »è una questione diversa dall' altra « se l' uomo colla generazione la comunichi al corpo, che si genera uomo ». La prima è anteriore e riguarda tutti gli uomini, i generanti ed i generati. E infatti Aristotele stesso distingue queste due questioni, trattando nel primo libro « Della generazione degli animali », come per la congiunzione dei sessi nasca la generazione; nel seguente, poi proponendosi di dimostrare perchè così avvenga, e due sieno i sessi, e quali le cause ulteriori (2), così descrive in breve le ultime cause moventi e finali: [...OMISSIS...] . Spiega dunque Aristotele la generazione come un effetto di quella tendenza al Bene, al maggior bene possibile, che egli, come vedemmo, attribuisce a tutti gli enti della natura, i quali tutti tendono a diventare puro atto, pura intellezione; ma tutti non possono tanto, a cagione della materia o potenzialità diversa, che secondo Aristotele costituisce il subietto e il fondo di tutta la natura, e che è di diversi generi (4), diversità che desume dal grado di atto e di specie, maggiore o minore, a cui ogni materia può pervenire nel suo movimento ascendente. Continua dunque a spiegare gli effetti di questa causa della generazione così: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo, come in tant' altri, si scorge manifestamente che sotto il nome di divino non intende qualche cosa di singolare e di personale, ma ogni bene, relativo a ciascun ente, sia questo anche sensibile e generabile, e proporzionatamente si può dire lo stesso del vegetabile e del minerale. Ma riconosce nulladimeno che l' ultimo grado del bene a cui un ente possa pervenire, è la mente. Quando poi viene a descrivere come ella comparisce in atto nel bambino, sembra che distingua la facoltà soggettiva di conoscere dalla mente. E in generale stabilisce prima che il generante produce un suo simile. [...OMISSIS...] . L' anima intellettiva dunque si svolge dal seme; ma la mente? Questa la distingue, e dice che sola avviene dal di fuori e sola è divina, [...OMISSIS...] (4), dove chiaramente restringe il divino in senso proprio alla mente. Pare dunque che per mente intenda l' oggetto e per l' anima intellettiva il soggetto. [...OMISSIS...] . E qui si vede come riponga l' anima intellettiva tra quei principŒ che hanno bisogno d' organo corporale, consonando a quello che così spesso insegna, che non si può esercitare la facoltà di pensare senza fantasmi: onde par che inclini al sensismo, se non anche al materialismo. [...OMISSIS...] . La mente dunque non è computata da Aristotele tra le potenze soggettive dell' anima; è dunque l' oggetto del conoscere, l' intelligibile primo, l' essere indeterminato, come più sopra abbiamo dichiarato. Ma come avviene all' anima dal di fuori? Certamente come tutte le altre specie avvengono agli enti generabili, cioè mediante quell' appetito universale verso il Bene, quella tendenza d' uscire all' atto, che Aristotele pone in tutti, con questa differenza però, che mentre negli altri casi conseguono una specie, che è inseparabile da essi e così formano un composto indivisibile di materia e di forma; in questo conseguono una specie che mente si dice, che è separabile da essi essendo ente da sè, e anche unita ad essi, rimane immune da materia corporale, non è un elemento proprio e indivisibile di essi, ma un istrumento di cui essi fanno uso. A questo riesce indubitamente la teoria d' Aristotele. Ma perciò appunto, se Aristotele avesse posto ben mente alle conseguenze, si sarebbe accorto che la parola specie ha due significati diversissimi, e che è di tutt' altra natura la specie nel senso d' idea o lume della mente, e la specie nel senso, com' egli suol usarla, di atto sostanziale o di forma reale, benchè nè pure quest' ultima denominazione è propria; e che quindi avea ragione Platone distinguendo le idee, contenenti le essenze delle cose sensibili, dagli atti o forme di queste che non possono considerarsi che come imagini o imitazioni di quelle, e anche questo dietro l' analisi delle percezioni, che noi abbiamo di esse. Laonde quando dice, che « « l' arte è il principio e la specie di ciò che si fa, ma in un altro »(1) », gli rimaneva a cercare come la forma di una cosa reale, che è pure inseparabile dalla cosa reale, potesse essere in un altro e rimanere la medesima. Ma egli ci dice, come vedemmo, che è la stessa di specie e non di numero. Ma « la specie identica di specie »è una logomachia, ed è una contraddizione, poichè la specie identica di specie non è che la specie identica di numero, chè qualunque differenza avessero le specie tra loro costituirebbero un genere e non potrebbero più specie aver di comune la specie. D' altra parte la domanda è questa: « la specie idea, è identica coll' atto reale della cosa »? Il dire che è identica di specie suppone che quest' atto reale sia la stessa specie: suppone dunque quello stesso che si domanda. Quindi le stesse contraddizioni, che abbiamo già indicate nel nostro filosofo, ma confermiamole con un' altra. Prendiamo una specie reale, e questa sia l' anima. Egli vi dice che « « niuna anima può essere in un altro, se non in quello di cui ella è, nè ci può essere niuna parte » » di questo « « se non è partecipe dell' anima, se non equivocamente, come l' occhio d' un corpo morto »(2) ». La forma reale dell' anima non può essere se non in quel corpo che l' ha: ma la forma dell' arte è in un altro. Dunque la forma dell' arte ossia l' idea, e la forma della cosa reale, sono forme o specie dette così equivocamente. Non c' era dunque bisogno di censurare Platone perchè dicesse questo appunto, che l' essenza delle cose sensibili non si dice dell' idea, e anche delle cose reali, se non equivocamente (3), dovendo Aristotele stesso ritornare per un' altra via e senz' accorgersi a questo placito di Platone. Ma torniamo all' unità della mente. Come in ciascun essere, che la possiede, la mente sia una, com' ella sia una subiettivamente riducendosi in un atto d' intellezione, e come sia una anche obiettivamente, riducendosi in un solo primo intelligibile, fu detto di sopra. Ma rimane a domandare se sia una assolutamente, se ella sia un solo individuo reale. E che le menti umane sieno tante, quanti sono gli uomini, non pare a dubitarsi. Ma si può dubitare se quest' ultimo atto a cui tutti gli enti a ciò idonei tendono (che è il divino), sia uno di numero a tutti risplendente; e se si considera, come abbiamo osservato, che sembra al tutto ripugnante che l' ultimo atto di molte nature della stessa specie riesca ad essere identico di numero, parrà impossibile ad ammettersi, che un tale atto si riduca in fine ad essere uno di numero, e si dovrà dirlo uno di specie. Ma se gli atti ultimi (giacchè come atti ce li presenta Aristotele) di molti enti sono tanti di numero quanti gli enti, eppure della stessa specie ; oltre quegli atti distinti c' è dunque una specie comune , e questa una di numero. In tal caso si tornerebbe a distinguere, contro la sentenza d' Aristotele, la specie dall' atto impropriamente detto specie. Ma non potrebbe esserci una specie che, essendo una di numero, e avente una propria sussistenza fosse mente, e senza moltiplicarsi in sè stessa fosse presente in molti individui? Noi dimostreremo a suo luogo che questo non è impossibile; ma niuna traccia di ciò, almeno che sia chiara, in Aristotele. Sembra nondimeno indubitato che secondo Aristotele esista una Mente eterna, sussistente e di numero veramente unica: e si potrebbe dire che è la stessa specie sussistente. Ma come questo derivi dal ragionamento aristotelico è difficile a mostrarsi. Poichè l' argomento della necessità d' un Primo motore, al modo aristotelico, almeno se s' intende superficialmente, sembra condurre a un Primo motore uno di specie e non di numero. E veramente ogni cosa tende al Bene, ma questo Bene è diverso per ogni genere d' enti, e anche per ciascun individuo: trattasi dunque d' un bene indeterminato e moltiplice, anzi al sommo generico. E un bene generico non può sussistere da sè stesso, perchè non è un bene ancora in atto ma in potenza. Egli è vero che, al fine che un uomo sia generato, deve esistere un uomo in atto, perchè l' atto precede sempre la potenza, ma Aristotele ammette un circolo eterno e infinito di generazioni: questa causa dunque che è sempre esistita, secondo lui, basta a spiegare la generazione della mente umana, e non è necessario che il seme appetisca la Mente suprema, essendo sufficiente che appetisca, se così si vuol parlare, una mente uguale di specie a quella del suo generatore che è la sua causa motrice. Ma, come abbiamo detto, Aristotele s' accorge che questo stesso non basta, e riconosce il bisogno che lo stesso generatore e tutta la catena infinita de' generanti e de' generati sia spiegata, assegnandole una causa superiore: poichè la stessa anima umana non è intellettiva se non aspira e tende col suo appetito a una specie più sublime e del tutto incorporea, che dal corpo non può ricevere, e che non può essere nel corpo nè pure in potenza, perchè è propria natura ed essenza di quella non aver nè potere ricevere in sè potenza di sorta alcuna, e d' essere sempre assolutamente immutabile ed eterna. Poichè, come vedemmo, è immutabile principio d' Aristotele, che « ciò che è in potenza non può essere eterno », e che « le cose eterne sono antecedenti alle corruttibili ». Di che consegue, che « nè pure può essere eterno ciò che passa dalla potenza all' atto, chè talora sarebbe in potenza e talora in atto ». Quindi la mente non può essere in potenza nel seme, [...OMISSIS...] . Dunque l' appetito tendente alla specie è nel corpo e in tutti gli enti naturali, ma l' ultimo oggetto a cui tende quest' appetito, e che solo da alcuni enti viene raggiunto, cioè la mente, non è nel corpo, nè in niuno degli oggetti corruttibili nè in atto nè in potenza, ma è del tutto fuori dell' universa natura. Così riconobbe il bisogno d' una suprema Mente sempre in atto, pura d' ogni potenzialità, ultima specie, che alcune nature giungono a toccare e diventano, toccandola, intellettive; eccelso scopo della scienza per sè appetibile (1) e della vita contemplativa, l' ultima e la più nobile vita, l' ultimo e il più nobile atto dell' anima più nobile di tutte, che è l' anima intellettiva, a cui le stesse virtù morali e tutte l' altre cose, come mezzi al fine, sono ordinate (2), e per dir tutto, l' oggetto della beatitudine (3). Ora quest' ultimo oggetto è indubitatamente l' essere, ma l' essere vivente ed assoluto. Ma è difficile dire se, e quanto, il concetto d' Aristotele si avvicini al vero. Dice dunque, che « « le sostanze sono le prime degli enti e che se tutte fossero corruttibili, sarebbero corruttibili tutte le cose »(4) ». Ma questo è impossibile perchè il moto e il tempo furono sempre (5). Ma il moto e il tempo che ne consegue, addimandano un' operante cioè una sostanza in continuo eterno moto. Ma se c' è un eterno moto, dunque anche un eterno Motore, e questo immobile, per non perderci nel ricorso all' infinito (6). Ora non c' è che l' intelligibile che possa movere, restando immobile, poichè l' intelligibile è desiderabile o eligibile (1). Conviene dunque che ci sia una sostanza prima dell' intelligibile, e semplice e in atto immanente (2), e questa è il Bene ultimo e sommo. « « E` dunque, conchiude, di necessità ente: ed esser necessario è esser bene e così è principio »(3) ». Spiega quindi in che senso si prenda qui esser necessario , cioè nel senso, non di poter essere e non essere, ma d' esser assolutamente, semplicemente, [...OMISSIS...] . La Mente suprema dunque, secondo Aristotele, è l' essere necessario, quello che semplicemente è, e, come in appresso lo nomina, quello che massimamente è, [...OMISSIS...] (4). Il primo intelligibile dunque è l' essere necessario, ciò che semplicemente e massimamente è: quest' è intelligente se stesso ed è Dio; e mediante la partecipazione o intuizione d' un tale intelligibile si formano le altre menti, che perciò sono divine. Tutto ciò Aristotele dichiara così: dopo aver detto che dall' essere necessario e intelligibile primo dipende il cielo e la natura, continua così: [...OMISSIS...] . L' ottimo, secondo Aristotele, è l' atto della contemplazione: ora, dice che quest' atto in noi non dura se non piccol tempo, ma nel primo intelligibile sempre e immutabile: lo stesso atto è anche attuale diletto, e anche questo a noi è solo momentaneo. Dal qual luogo pare che una delle due: o l' atto nostro della contemplazione è lo stesso atto divino identico di numero, o è almeno uguale di specie. Ma se uguale di specie, c' è dunque una specie comune anteriore alla mente divina e alla nostra, il che ripugna ad altri principŒ d' Aristotele, come dicemmo. [...OMISSIS...] . Qui si noti come aduni la sensazione, al suo solito, coll' intellezione, quasi un primo ed imperfetto conoscere, o almeno come una prima attualità che conduce ad una maggiore, giacchè considera tutto sotto il concetto generico d' attualità, partendo dal principio « ciò che è maggiormente attuale è più perfetto e dilettevole », considerando l' intellezione dell' ottimo, come l' attualità massima. [...OMISSIS...] . Aveva detto prima, che l' ente necessario, assoluto e massimo è la prima sostanza, e il primo intelligibile: era passato a dire, che il tenore della sua vita è l' attuale eterna contemplazione, puro diletto, la quale non è a noi che per qualche istante. Questa contemplazione è l' intellezione ottima e massima, cioè avente per oggetto l' ottimo, e quello che è in massimo grado. Ora, come dall' intelligibile primo è passato all' intellezione? Questo egli spiega così: « « La mente intende sè stessa coll' assumere l' intelligibile »(2) ». Ma come entra qui la mente, prima non nominata? Egli la definisce così: « « La mente è il subietto suscettivo dell' intelligibile e dell' essenza » » [...OMISSIS...] . Ora questo non può essere, che l' Essere stesso necessario considerato subiettivamente. E in fatto dice, che « « la mente stessa si fa intelligibile col toccare e coll' intendere, di maniera che sia un medesimo la mente e l' intelligibile »(3) ». Dunque l' Essere necessario si può considerare sotto tre aspetti, o come subietto [...OMISSIS...] , e dicesi mente; o come atto, e dicesi intellezione, [...OMISSIS...] ; o come oggetto, e dicesi primo intelligibile o prima essenza, [...OMISSIS...] . Ma è sempre lo stesso Essere, e come mente « «opera avendo », [...OMISSIS...] », cioè non ha bisogno uscire di sè per cercare il suo termine, poichè egli stesso è il termine del suo atto. La quale triplice relazione dell' Essere, non malamente si chiamerebbe la trinità aristotelica . Continua dopo di ciò Aristotele: « « Laonde questo » » cioè quello che opera avendo « « sembra essere più di quello » » più del subietto suscettivo dell' intelligibile « « il che come qualità divina la mente possiede; e la contemplazione è il dilettosissimo e l' ottimo. Se dunque Iddio si trova sempre » » in quest' atto di contemplazione « « come noi qualche volta, è cosa ammiranda, e se più ancora, più ancora ammiranda. Ma così egli si sta. E anche la vita per fermo inesiste, chè l' atto della Mente è pur vita: quegli poi è atto. Atto per sè è la vita ottima ed eterna di lui. Onde diciamo, che Iddio è un vivente, [...OMISSIS...] (4) eterno, ottimo. Laonde e la vita, e il sempre continuo ed eterno in Dio inesiste. Poichè questo stesso è Dio »(5) ». Sono queste le più magnifiche parole, o certo tra le più magnifiche, che siano state pronunciate intorno a Dio da un filosofo gentile. Ma il nesso accennato in esse, tra la Mente divina e l' umana, è un punto oscuro in tanta luce. Talora dice chiaramente che la mente non è cosa umana, e non umano ma divino il diletto della contemplazione. [...OMISSIS...] . Dalle quali parole si raccoglie, che la mente è bensì nell' uomo, però non è l' uomo ma cosa divina. Pure tosto appresso dice che essa anzi è ciascuno di noi, secondo il principio dato altrove, che l' elemento più eccellente e dominante in un composto costituisce la forma e la sostanza del medesimo (2). E questo è forse l' unico, o certo uno de' rarissimi luoghi d' Aristotele, dove il filosofo accenni veramente alla persona umana, benchè gliene mancasse il vocabolo (3). [...OMISSIS...] Coi quali luoghi non si può ancora decidere se, nella sentenza d' Aristotele, la mente sia una per Iddio o per gli Dei e per gli uomini, o siano più menti di numero. Da una parte dice, che è cosa non umana, ma divina; dall' altra, essa costituisce l' uomo stesso, e ciò che d' eccellentissimo e di dominante in lui si trova. Cerchiamo dunque degli altri luoghi del nostro filosofo. [...OMISSIS...] . E si sforza di provare che agli Dei disconviene l' azione, e che non resta loro altro che la contemplazione. [...OMISSIS...] Ognuno sente come il linguaggio d' Aristotele, a questi passi stretti, vacilla e zoppica ora da una parte, ora dall' altra. La mente contemplatrice è di tutti gli Dei; ma, di nuovo, noi dimandiamo, è ella una di numero o di specie? Dipoi rispetto agli uomini, ci dice esser beatissimo quell' atto che è cognatissimo all' atto contemplativo di Dio, [...OMISSIS...] . Se è cognatissimo, sarà uguale di specie, ma diverso di numero. Ma no, perchè « « ogni vita beata è degli Dei » » [...OMISSIS...] . Dunque anche la vita beata che consiste nell' atto contemplativo dell' uomo, sarà degli Dei, identica di numero, ma esistente nell' uomo. Questo s' accorda con ciò che disse prima che una tal vita non è umana, ma divina, a cui sembrava alludere colle parole dette poco innanzi; che la vita della mente è separata dal rimanente, [...OMISSIS...] . Ma sente di non poter sostenere una tal sentenza; che gli rimane dunque? Di rattaccarsi a Platone, di ricorrere per rifugio alle sue espressioni: ed eccovi che v' introduce la partecipazione [...OMISSIS...] (3), questa parola solenne di Platone, che altrove diceva di non intendere (4), e finalmente ricadendo del tutto nella dottrina del suo maestro e usurpandone il linguaggio, vi parla della mente contemplatrice dell' uomo come di un simulacro della divina [...OMISSIS...] (5). Che se l' umana è simulacro , la divina dunque è esemplare : l' esemplare dunque è qualche cosa di più d' una poetica metafora, come lo chiamava altrove in tuon di beffa. Va più avanti, e vi dice degli altri animali che non hanno niuna comunione nel contemplare, [...OMISSIS...] (6). Riconosce dunque una specie comune negli atti contemplativi. Ma la specie comune è anteriore a quelli che ne partecipano, non essendo che un elemento di essi (1): ammette dunque una specie anteriore agli Dei ed agli uomini: quest' è un ammettere più di Platone stesso. Che se prendiamo la cosa dall' altro verso e consideriamo la mente come una sostanza separata e per sè sussistente che, essendo Dio, inesista negli dei e negli uomini, noi diamo di cozzo in un' altra sentenza d' Aristotele, cioè che una sostanza non possa essere composta da più sostanze in atto; sentenza della quale si serve per dimostrare, che le idee di Platone non possono essere sostanze, perchè in tal caso più sostanze in atto entrerebbero a comporre una sostanza sola (2). L' argomento si può rivolgere con più efficacia contro di lui, se pur vuole, che la sostanza divina entri in composizione col corpo e coll' anima dell' uomo, rimanendo sostanza in atto, essendo la vita della mente separata e da sè, come egli dice. Che un' idea , un oggetto, come vuole Platone, possa esser partecipata da più subietti in virtù della mente, questo s' intende. Ma sostituendo Aristotele l' atto contemplativo subiettivo e sostanziale all' idea , non s' intende più, come quest' atto possa essere comunicato a più subietti, senza che o ciascuno d' essi diventi due invece d' uno, o tutti i subietti diventino un subietto solo, ciò che si potrebbe chiamare un panteismo aristotelico (3). Nell' opera morale a Eudemo, che contiene la dottrina d' Aristotele, e in parte è tessuta di brani delle sue opere, s' incontra un luogo, che complica maggiormente la difficoltà, e che noi qui riferiremo, perchè, sia d' Aristotele stesso o d' un suo discepolo, dimostra uno sforzo di riparare a quella lacuna immensa che lascia la dottrina aristotelica. Avendo Aristotele tolto a Dio ogni azione sul mondo e lasciatogli solo l' essere appetibile, molti avvenimenti, come osservammo, rimanevano privi di causa sufficiente: l' appetito universale della natura non basta a spiegarli. Aristotele ricorse dunque al caso e alla fortuna, cioè, come egli stesso confessa, non a cause, ma a privazioni di cause. Nel luogo accennato si osserva appunto che a certi uomini accadono prosperi avvenimenti fuori dell' aspettazione e senz' averci pensato. Di più lo stesso pensare e lo stesso volere dipende come da un primo principio, che non è nè il pensare nè il volere dell' uomo. Poichè chi può aver mosso l' uomo a pensare e a consultare? un pensiero e una deliberazione anteriore? ma e a questa che cosa lo mosse? Conviene dunque dire, per non andare all' infinito, che il primo movimento del pensiero e del consiglio non venga all' uomo dal proprio pensiero o dal proprio consiglio, ma da una causa anteriore, che determina nell' uomo quella serie di pensieri e di consigli, dietro a' quali vennero i prosperi successi (1). Ora qual è dunque questa prima causa? [...OMISSIS...] Le quali parole tentano, come dicevamo, di empire una lacuna del sistema aristotelico, e sono una confessione del suo intrinseco difetto. Poichè in esse si abbandona lo stesso sistema, e si ricorre al divino entusiasmo di Platone come ad un puntello straniero. Infatti: 1 Aristotele aveva dichiarata divinissima la mente, e in questa racchiuso il divino: ma qui si ricorre ad un principio superiore alla stessa mente, [...OMISSIS...] . 2 Avea detto che Iddio non move che come primo intelligibile ed appetibile (2), ma qui move e determina lo stesso pensiero verso l' intelligibile, e però sembra un principio cieco, anteriore all' intelligibile stesso. Tuttavia quando dice che alcuni sono spinti ad operare rettamente «alogoi ontes,» si può intendere non privi dell' intuizione dell' intelligibile, ma privi del raziocinio; benchè la ragione , in altri luoghi d' Aristotele, apparisca come oggetto essenziale dell' intelligenza; ma i varŒ sensi della parola ragione possono forse conciliare l' apparente contraddizione. E se paragona tali uomini mossi dal divino entusiasmo a' ciechi (3), può intendersi della mancanza di consapevolezza, per la quale non si rendono conto della ragione da cui sono mossi. Interpretando dunque a questo modo il brano che esaminiamo, che cosa è il divino che move tutte cose in noi, come Dio nel mondo, [...OMISSIS...] ? E` un principio diverso dalla ragione, [...OMISSIS...] . E` migliore anche della scienza [...OMISSIS...] : vince anche la mente in eccellenza e la volontà, [...OMISSIS...] . E` Dio stesso, [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che la mente sia qui presa in senso subiettivo, e che nomini Dio lo stesso oggetto intelligibile. Così si può rendere coerente, in qualche modo, tutto questo luogo coll' altre dottrine aristoteliche. Di che risulta, che Aristotele pone Iddio nell' universo [...OMISSIS...] , e lo pone pure nell' anima intellettiva, come principio primo d' ogni suo movimento, [...OMISSIS...] . E questo conferma quello che abbiamo provato più sopra, essere Aristotele lontanissimo dal sistema di que' superficiali de' nostri tempi, che non ripongono nell' anima intellettiva niun oggetto insito, e da' sensisti, che la cognizione traggon da' sensi. Dal che è tanto lontano Aristotele, che anzi separa la natura del sensibile e quella dell' intelligibile d' uno spazio infinito, onde l' una non può passar mai ad esser l' altra. Poichè ripone la natura del sensibile nella sfera delle cose naturali, quella poi dell' intelligibile nella sfera delle divine ed immutabili. A queste poi assegna il principato, non solo nell' universo ma anche nell' uomo, e il fine stesso dell' uomo e della virtù. E l' uomo più che s' allontana dalle cose sensibili, più ottiene questo suo fine. Ritorna anche qui, quasi involontariamente e per la violenza che gli fa il vero, a Platone. [...OMISSIS...] . Ciò dunque a cui l' anima deve tendere è di sottrarsi alla sensazione, e affissarsi nel più alto oggetto della contemplazione, Iddio. Dalle quali cose tutte si può raccogliere, che circa la natura divina e l' origine della mente umana da questa, Aristotele parla oscuramente, e da sè stesso s' ingombra il cammino nel quale incèspica. Poichè volendo combattere il sistema di Platone, da una parte è costretto ad ammettere il divino ultimato, la specie ultimata, Dio stesso nella natura, il che conduce ad una sorte di panteismo (1); per la composizione poi della specie divina colla materia (2), da un' altra, venuto a certi passi, è ripulso da un tale ardito pensiero, e torna a confessare, che la mente umana e le specie ultimate della natura non sono più, come Platone diceva, che un cotal simulacro di Dio. Finalmente cade talora in un terzo sistema , ed è forse il più frequente, ma di cui non si rende conto, di considerare cioè Iddio come una natura comune e dispersa nella natura, di cui una cosa più o meno partecipi, il che conduce ad una specie comune , che sarebbe necessariamente un' idea di Platone, ma senza trovare più una sostanza o mente reale in cui risieda, perchè specie comune alla prima e all' altre menti e però anteriore a tutte, il che cozza con tutti que' principŒ, coi quali Aristotele prese a combattere le idee platoniche. Ma ciò che non abbandona mai Aristotele in tutti questi diversi sistemi, a cui, secondo il bisogno e di fuga, s' appiglia, sembra questo che in nessuna maniera si può spiegare l' umana intelligenza senza farla derivare da una qualunque comunicazione di Dio stesso (3). Come abbiamo già osservato, fortissimo è il raziocinio d' Aristotele quant' è alla forma, ma la sua dottrina rimane imperfetta quant' è alla materia, avendo egli accettato, senza sufficiente esame, taluni elementi con cui compone il suo sistema da due fonti irrazionali, cioè dal senso e dall' autorità superstiziosa del gentilesimo (1). Mirabile certo fu il lavoro che con materiali così imperfetti seppe comporne, quasi stupendo mosaico, il che soprammodo apparisce a chi considera, come egli dalle superstizioni tradizionali intorno agli astri pervenne a trarre un' ingegnosa dottrina per ispiegare, in qualche maniera, i moti della natura, e le generazioni e concezioni sublunari. Ma indubitatamente s' aiuta in questo lavoro non del tutto filosofico con un parlare traslato. A ragion d' esempio quando prova che il cielo è finito (2) e poi dice, che « « al di fuori del cielo non c' è, nè ci può essere, nè corpo, nè luogo, nè vacuo, nè tempo »(3) »; e che ivi è il luogo dove abita Iddio (4): in niuna maniera si può intendere il significato proprio, perchè se il cielo è finito, convien che al di là rimanga ancora dell' estensione o vacua o piena. Conviene dunque o riconoscere un somigliante discorso come una semplice ripetizione di volgari credenze, e così Aristotele lo presenta quando ce lo dichiara relativo alla fede umana, [...OMISSIS...] (5), o intenderlo in senso traslato, quasi voglia dire che Iddio non occupa spazio, e però è fuori di tutto l' universo materiale ed esteso, e così par che lo prenda lo stesso Aristotele quando ci fa sopra una teoria filosofica; e così lo spiega il suo commentatore Simplicio. Ma se questo Dio è veramente incorporeo, come poi trova necessario che a lui sia congiunto e acconciato un corpo immortale? (6) E se sta sopra il cielo, come costituisce poi le menti degli uomini e la specie pura a cui tende tutta la natura? Questo miscuglio di materialismo e di spiritualismo rimane in Aristotele come rottami di fabbriche diverse di cui si serve per costruire una fabbrica nova, rimane come un sincretismo, monumento della limitazione dei più forti intelletti umani. Considerata la dottrina dalla sola parte spirituale, ci si trova un' ingegnosa unità, ma ben tosto questa s' infrange irruendo in essa la parte materiale. Così gli esseri intellettivi hanno per oggetto loro o specie, in cui contemplano il Bene eterno, Iddio immobile, l' essere per sè; ed operano per questo fine. Laonde in quegli enti che non operassero per un fine, e questo immobile, non ci potrebbe essere la mente (1). Ma la mente è il luogo delle specie pure di materia, e le specie pure di materia sono immobili ed anteriori alle specie unite alla materia: poichè le specie sono la causa formale delle cose, causa incorruttibile ed eterna (2). Ora se tutte le cose dipendono dalle loro cause formali, e queste non ci sarebbero se non ci fossero le menti, consegue che tutte le cose ricevono continuamente l' essere e il vivere loro dalla prima ed eterna divina mente, verso cui tutte aspirano; non a dir vero come da un Dio creatore, ma come da un Dio che somministra a tutto le forme, e però condizione e termine di tutto. Onde dice che « « Iddio sembra essere un certo principio di tutte le cause; e un tale principio o solo l' ha Iddio, o principalmente » (3) ». E dice principalmente, perchè anche la mente nell' uomo è dichiarata da lui « « principio de' principŒ » » e « « luogo di tutte le forme » ». [...OMISSIS...] Infatti, dice, non ci può essere una serie di cause all' infinito, ma in ciascuno de' quattro generi convien fermarsi ad un principio, anche nell' ordine delle specie (5). Laonde se non c' è un primo non c' è niuna causa (1). Tra tutte le cause poi la prima è la finale: onde la nobilissima scienza, a cui l' altre tutte devon servire, è quella del fine e del bene [...OMISSIS...] , poichè tutte le cose sono in grazia di questo, [...OMISSIS...] (2). E` impossibile che ci sia una catena infinita di cause finali; poichè la causa finale è un termine, in grazia di cui sono tutte le altre cose: questo termine non si troverebbe mai, osserva Aristotele, se la serie fosse infinita, e quindi non ci sarebbe il Bene (3): non ci sarebbe la mente, poichè quei che l' hanno, operano per un fine (4), nè ci sarebbe l' intendere, poichè non si può intendere senza fermarsi in uno intelligibile, [...OMISSIS...] (5). Ma del pari non ci potrebbe esser nè pure la generazione, perchè anche la generazione tende ad un fine, ad una specie sostanziale, ed è media tra l' ente e il non ente: convien dunque che ci sia un primo sempiterno e incorruttibile da cui parta e a cui tenda incessantemente (6). Poichè la natura opera come l' arte mediante la specie insita in essa, e ciò che ha questa specie in potenza tende di pervenire all' atto come a suo fine (7). Così Aristotele facendo che anche gli animali e le stesse cose insensibili cerchino un atto finale, e il fine ultimo essendo l' ultima specie, Iddio, da Dio, a cui tendono (.), deriva tutta l' azione, la vita, la forma dalla natura. Ma come si derivi quest' azione non lo dice chiaramente. Al primo cielo, che contiene tutti gli altri, conviene certamente che dia un' anima dotata d' intelligenza e d' appetito (1), che sono le cause del moto locale secondo Aristotele (2). Ma come poi il cielo, contemplando il motore immobile ed appetendolo, si volga in giro, qui sta appunto il salto del sistema aristotelico, il punto dove si discontinua, non potendosi vedere che abbia a fare il moto circolare nello spazio colla contemplazione dell' eterno bello e dell' eterno buono: sono due parti eterogenee che non si continuano, nè accostate si rammarginano. Forse che essendo l' atto della mente eterna un continuo rivolgersi sopra sè stesso, [...OMISSIS...] (3), abbia Aristotele, a imitazione di Platone, voluto significare che l' anima del cielo, risolvendosi in una continua riflessione sopra di sè ad imitazione della prima mente rapisse in circolo il corpo celeste da essa informato, e col moto locale rappresentasse l' interno circolo del pensiero; e per questo pare che attribuisca al cielo il volgersi in giro ragionevolmente, [...OMISSIS...] (4). L' arabo commentatore e il primo suo traduttore Michele Scoto spiegarono il movimento de' cieli non per l' appetito di tutto il corpo celeste a cui nulla, come ad essere divino, potea mancare, ma per l' appetito delle sue parti (5), stranissimo pensiero, esprima o no la mente d' Aristotele. Trovato dunque un movimento perpetuo circolare e uniforme dell' ultimo cielo, Aristotele da questo deriva come da prima causa la conservazione delle cose naturali e l' uniforme esistenza: ma sotto il moto del primo cielo pone poi quelli delle altre sfere e degli astri; moti diversi e non uniformi, e a questi movimenti attribuisce la prima causa della generazione e della corruzione (1). Queste sfere e questi astri si movono come il primo cielo per la contemplazione e l' appetito del proprio Dio, motori immobili, menti eterne, benchè inferiori alla prima, senza potersi dire in che consista questa inferiorità di natura. E da un luogo del secondo libro « Della Generazione e della Corruzione » più chiaramente s' intende in che consista la censura che fa alle idee di Platone. Egli osserva che Platone pone due cause, le forme e i partecipanti , ma queste due sole, dice, non bastano a spiegare la generazione e la corruzione. Poichè se le forme da sè generassero, sarebbero cause necessarie, e perchè dunque non generano sempre, ma or sì ed ora no? (2). Ci vuole dunque per terza la causa del moto, che pretende essere stata omessa da Platone, sebbene a torto, come vedemmo (3). Non nega dunque le specie platoniche, ma le dichiara insufficienti a portare da sè l' effetto, e vuole che s' aggiunga la causa del moto (4). Ma qual è la prima causa del moto secondo Aristotele? L' intelligibile, il desiderabile: una prima specie e ad un tempo intellezione divina, che niente opera per sè; ma che, essendo appetita dal primo cielo, questo di conseguenza si muove in circolo. Nell' origine dunque del primo movimento Aristotele pone l' efficacia di movere in un' idea, e non introduce un terzo principio, ma alla stessa idea o specie prima dà ad un tempo la qualità di specie, di motore e di fine, unificando in essa le tre cause. Dal che non va certo lontano Platone, come vedemmo. Nè Platone certamente nega che il moto una volta generato si comunichi per contatto e per continuazione di parti. Ad ogni modo al pensiero d' Aristotele sembra questo, che le tre cause riunite originariamente in Dio si dividano discendendo alle cose mondiali. Laonde per ispiegare la generazione degli enti sublunari trova necessario non solo un motore immobile, ma anche un motore eternamente mosso, e questo duplice, l' uno di moto uniforme, come quello del primo cielo che conserva l' uniformità della natura, l' altro di moti varŒ come quelli dell' altre sfere e dei varŒ astri. E infatti nell' esempio che adduce per dimostrare che le cause delle cose generabili devono esser tre, queste cause sono già divise, traendo un tale esempio dalla medicina, dove dice che oltre la specie della sanità e oltre il partecipante che tien luogo di materia, c' è il medico che applica la specie al partecipante come causa motrice; e così, aggiunge, dicasi dell' altre cose che operano per una forza, cioè come cause efficienti (1). La quale osservazione niun meno di Platone negherebbe; quando questi fa Iddio non solo motore, ma anche creatore, e al modo appunto d' un sapientissimo artefice (Demiurgo). Del rimanente, questo resta di solido nella dottrina aristotelica circa le cause rimote della generazione: l' aver egli veduto che niente c' è nell' universo corporeo che stia in quiete, come ne' tempi moderni osservò il Leibnizio, ma tutto si move, e che senza questo perpetuo movimento non si potrebbero spiegare i fenomeni della natura. Chè per verità tutto s' adunerebbe in una massa inerte e morta. Nell' uomo, Aristotele attingendo al concetto che se n' erano formato i filosofi che lo precedettero, vide la riproduzione in piccolo dell' universo (2). Anzi sarebbe forse più esatto il dire, che concepirono l' universo sul disegno dell' uomo, anzichè l' uomo su quello dell' universo. Pose dunque anche nell' uomo (ed è evidentemente un' imitazione del « Timeo » di Platone, per quanto Aristotele voglia farci credere il contrario) un Movente immobile, e quest' è la Mente oggettiva; il Motore Mosso, e questo è l' Appetito; e finalmente la parte mossa e non motrice (3). Nell' uomo dunque ci sono tutti i motori, e comparativamente anche negli altri animali; benchè egli esiti nell' attribuir loro la parte divina (1). Infatti se la parte divina non è che la mente obiettiva, i bruti ne sono privi, ma se divina è la specie , tutte le cose ne sono partecipi, sebbene, essendo in esse la specie alla materia congiunta, riman cieca, intelligibile, ma non intelligenza: sistema pieno certamente di difficoltà, che non poteano del tutto sfuggire all' ingegno d' Aristotele, e però il suo frequente esitare, come dicevamo (2). A malgrado di questo il giro de' cieli è necessario, perchè gli animali dipendono dalle cose materiali e corporee, che sfuggono alla sua volontà e al suo appetito. E inoltre è necessario secondo Aristotele per ispiegare le generazioni spontanee e casuali, alle quali dà per cagioni il movimento del tempo , che dai giri celesti proviene, e il calore (3). Dal calore ancora fa dipendere l' assimilamento delle parti componenti il corpo umano, non però la specie , che appartiene al seme (4): e questo calore non è già quello del fuoco, ma è un calor vitale, che si svolge mediante il celere giro de' cieli e degli astri (5), giacchè questi veementissimi movimenti e soffregamenti (6) producendo calore e luce eccitano e danno un interior moto a tutta la natura (7): nè questo calore è guari diverso da quello spirito calido che è mezzano tra l' anima intellettiva ed il corpo e propria sede probabilmente dell' anima sensitiva e dell' appetito (.). Laonde alla posizione degli astri più o meno vicini alla terra nei loro corsi, attribuisce molta influenza sul riuscire o perfetta o imperfetta la generazione umana (9). Se ora raccogliamo tutte le cose esposte sin qui e cerchiamo di riunire i brani del sistema aristotelico sparso nelle diverse sue opere, possiamo conchiudere, che Aristotele non giunse a dare al suo sistema una perfetta unità e a ridurre l' universalità delle cose a un unico principio: ma che egli ammette una dualità primitiva ed eterna. I due principŒ eterni che costituiscono questa dualità sono la materia e la forma ; potenza l' una, l' altra atto. Alla forma si riduce la privazione. Alla potenza del suo ingegno è dovuto, se egli a malgrado de' due principŒ da lui ammessi come primordiali, seppe cansare il manicheismo (1), in cui urtarono alcuni neo7platonici, ingegni tanto inferiori allo Stagirita. Il suo errore si tempera anche con questo, che egli non fa uguali i due principŒ eterni da lui posti, ma riconosce che la materia dipende eternamente dalla forma, onde la materia senza di questa non è qualche cosa, di maniera che la forma è causa della materia, [...OMISSIS...] (2), l' atto è causa della potenza, sicchè infine tutto quello che è, è atto, [...OMISSIS...] (3). Il che è lo stesso che ammettere una specie di creazione eterna e continua. Non attribuendo dunque un essere suo proprio alla materia, rimane che l' ente sia specie o forma , e certamente forma universale. Di che deduce che l' ente, la natura dell' ente è eterna, non può nascere, e non può distruggersi, poichè per nascere o per distruggersi ci sarebbe bisogno di qualche altra causa e questa ancora sarebbe essere [...OMISSIS...] (4). Questa specie dunque, cioè l' essere, è necessaria. Ora da ciò che è necessario dipende tutto ciò che è contingente, onde è chiamato da Aristotele il principio dell' esistere di tutte le cose [...OMISSIS...] (1). Ancora, se l' essere stesso è necessario ed eterno, dunque è atto purissimo, poichè niente di ciò che è materiale e potenziale è eterno, ma corruttibile [...OMISSIS...] . E ciò perchè un subietto in potenza ammette de' contrarŒ cioè è suscettivo d' avere una specie o la sua contraria, d' aver un certo atto e di non averlo: ora ciò che può essere e non essere è corruttibile e non eterno (2). E in vero di contrario semplicemente all' essere non è che il nulla; non c' è dunque qualche cosa che sia contrario all' essere. Se dunque l' essere è necessario ed eterno e atto puro senza potenza, egli non ha bisogno per esistere d' alcuna materia o potenza: è dunque da sè puro e separato. E infatti Aristotele prova la necessità che ci sia un tale principio, di cui l' essenza stessa sia atto, [...OMISSIS...] (3). E atto appunto è l' essenza dell' essere. L' essere dunque, considerato in sè solo, è puro atto. Ma l' essere si mescola anche colla materia. Indi i diversi enti. E poichè si predica l' essere di tutti questi enti, sembra che l' essere sia un predicato universale: ond' anche l' essere e l' uno furono chiamati primi generi [...OMISSIS...] (4), anteriori e più universali delle categorie (5). Ma, considerato l' essere come genere e come universale, nega Aristotele che possa avere un' esistenza separata, chè niun universale, dice, può esistere separatamente (6). Come dunque avea detto prima l' essere non appartenere ai corruttibili, essere puro atto, principio all' essere di tutte le cose? Convien osservare che Aristotele non chiama genere l' ente, se non o come una denominazione che gli avevano data altri filosofi, dimostrando quali inconvenienti nascerebbero dal così chiamarlo, ovvero talora lo chiama forse genere in un senso differentissimo da quello nel quale dice genere le categorie, chè nel senso di queste nega che possa convenire all' essere l' appellazione di genere [...OMISSIS...] (1). La ragione che adduce per negare all' essere il nome di genere è notevolissima. Il genere è essenzialmente limitato e imperfetto, egli non entra nella definizione se non come materia (2), non contiene l' atto specifico se non in potenza, quindi non si può predicare della differenza (3): tutto ciò non è applicabile all' essere ; poi l' essere abbraccia tutto, tanto in potenza quanto in atto; si predica del genere, della specie, della differenza, dell' individuo (4), poichè tutte queste cose sono, l' essere è tutte ad un tempo. Non è dunque l' essere essenzialmente limitato e incompleto come il genere; che anzi la limitazione è per lui accidentale e non sua propria, che quant' è meno limitato, tant' è più veramente essere. Di qui accade che mentre il genere, se gli s' aggiunge qualche cosa d' ulteriore, cessa d' essere genere, l' essere all' incontro non cessa d' esser essere , ma raggiunge più pienamente con ciò la sua stessa essenza. Niuna maraviglia dunque, se la natura dell' essere da una parte si consideri puramente in sè, e in tanto si trovi principio di tutte le cose ed atto per sè essente; e dall' altra si trovi predicato universalissimo de' generi, delle specie e degli individui (secondo una maniera puramente dialettica di predicare), e che in questo secondo modo si neghi potere esistere separato, poichè in questo modo è divenuto essere limitato, quando per sè e come essere è illimitato. Dissi che l' essere si predica in una maniera puramente dialettica, perchè assolutamente non si predica; chè l' essere assolutamente preso come predicato involgerebbe contraddizione. In fatti di che si predicherebbe? Certo di sè stesso, perchè del nulla non si può predicare. Ora insegna Aristotele che la prima essenza (l' essenza singolare) non si predica del subietto nè è nel subietto [...OMISSIS...] (5), il che è quanto dire, che il subietto non si predica del subietto e non è nel subietto. Ma il subietto è doppio, secondo Aristotele, poichè subietto è la materia prima suscettiva d' ogni atto e de' contrarŒ, e quest' è l' essere indeterminato (6), l' essere in potenza, e è subietto anche l' essere determinato ed ultimato e quest' è l' essenza prima. Ora i veri predicabili dell' essenza sono le specie e i generi essenziali, ed indicano una qualità, un modo, una determinazione dell' essenza [...OMISSIS...] (7). La parola essenza dunque ( «usia» da «einai»), dico l' essenza sostanziale, è presa da Aristotele come l' ente, «to on», al modo di Platone, Nel settimo dei « Metafisici » lungamente si trattiene a provare, che l' ousia è la causa dell' essere delle cose, poichè «he usia arche kai aitia tis estin» (1) ed è causa «tu einai». Ma qui l' essere si considera in relazione cogli elementi materiali di cui la cosa si compone: questi elementi, come i materiali della casa, cessano d' aver un' esistenza propria e diventano la casa, a cagione della forma della casa. La forma dunque o essenza della casa è causa per la quale la casa è, sia nell' idea, sia nella realtà: la materia della casa è il subietto indeterminato che non è ancora qualche cosa: vi s' aggiunge un' essenza sostanziale o forma, per esempio quella della casa, o d' un letto, e allora quella è questo qualche cosa speciale. Così l' essenza sostanziale è la causa dell' essere delle cose. Ma trattasi qui sempre di cose finite e materiali. Ora l' essenza stessa si può concepire in due modi, in un modo indeterminato e così è l' essere puro indeterminato il quale non sussiste ancora se non soltanto nella mente (2); o dopo che gli furono attribuite tutte le sue determinazioni (predicabili dell' essere puro), e così è l' essere determinato che può sussistere in sè medesimo. Ma primieramente l' unione della qualità essenziale col subietto è doppia, cioè: 1 è tale in natura; 2 è pronunciata dall' intendimento. Se l' intendimento pronuncia l' unità qual è in natura, c' è il vero nell' intendimento, altramente il falso (3). Ora l' intendimento non può eseguire quest' atto di predicazione, se non avendo precedentemente fatti quest' altri atti: 1 concepito da una parte il subietto , l' essere indeterminato, dall' altra la qualità essenziale che si tratta di attribuirgli; 2 concepito il subietto vestito delle qualità essenziali. Quindi l' atto della predicazione suppone tre idee nella mente: 1 l' idea del subietto, essere in universale; 2 l' idea della qualità essenziale che lo determina; 3 l' idea del subietto determinato. Queste sono tre idee, e non c' entra ancor nulla della realità, che s' aggiunge coll' affermazione o assenso dell' animo (1). L' idea del subietto è l' idea dell' essere indeterminato. L' idea della qualità , divisa ancora dal subietto, è un puro predicabile, e fa ufficio di differenza tra l' essere indeterminato e primo subietto, e l' essere determinato. L' idea del subietto determinato , vestito della qualità essenziale, è l' idea completa , l' essere ideale determinato, dove già il subietto ed il predicato sono idealmente congiunti. Tutto questo è nel mondo ideale. Aristotele non fa espressamente tutte queste distinzioni, e sopra tutto non distingue la predicazione ideale dalla reale e affermativa. Sotto il nome di specie essenziale ( ousia categorica) egli intende talora la qualità dell' essenza , [...OMISSIS...] divisa e astratta dall' essenza; talora poi intende il tutto ideale cioè l' essenza vestita della qualità essenziale. Variando dunque di significato la parola specie (e proporzionatamente si dica il medesimo della parola genere ), si trovano nel nostro filosofo dottrine apparentemente contraddittorie (2). Ma rimane che l' essere (e quando si dice essere si dice atto, chè senza qualche atto non si può intendere l' essere in potenza) sia sempre attribuito da Aristotele alle specie che si riducono in generi, e che fuori di queste non si riconosca alcun essere, di che sembra a prima giunta, che non ammetta l' esistenza dell' essere separato e da sè esistente. Così chiama le categorie « generi dell' ente ». E dice che come dicendo un uomo non s' aggiunge nulla ad uomo , così l' essere non aggiunge nulla alla quiddità, o al quale, o al quanto, e che l' essere uno è il medesimo che l' essere quella cosa che si nomina, senza che col dirla una, le si aggiunga altro (1). L' essere dunque, secondo Aristotele, non aggiunge nulla alle categorie (potenza ed atto) (2) ma che le segue tutte ed è tutt' esse (3); l' essere dunque non è una natura che stia da sè, ma è sparso e diviso tra tutte le nature degli enti e si coagguaglia a tutte. A questa parte, che è chiara in Aristotele, si sono tenuti gli scoliasti e i commentatori. Ma tutto questo vale dell' essere considerato come predicabile. Aristotele lo considera anche come atto in se stesso determinato, ossia come specie. E quantunque dica che il solo composto di materia e di forma è assolutamente separabile «choriston haplos» (1), tuttavia qui parla degli elementi di questo composto, che non sono certamente separabili, cioè la materia, o la forma di questo composto. Pure soggiunge, che riguardo alle essenze, che sono secondo ragione, altre sono separabili, altre non sono (2), e sembra che parli di quella stessa separazione assoluta. D' altra parte dice che tutti gli enti che non hanno materia sono semplicemente enti determinati (3). Se sono dunque enti determinati [...OMISSIS...] , perchè non potranno sussistere? Aristotele insegna che la materia ha bisogno della forma per essere qualche cosa, ma in nessuna maniera insegna che la forma abbia bisogno della materia per essere qualche cosa: solamente osserva che la forma, acciocchè sussista separata, conviene che sia ultimata e non in potenza, come sono i generi e gli universali. Quello dunque che assolutamente nega Aristotele, si è solo che non può sussistere da sè l' ente indeterminato e però non può sussistere l' essere da sè come universale, come genere comune: non c' è, dice, l' uno o l' ente, nel quale siano gli enti determinati come in loro genere, di maniera che l' uno e l' ente come generi sieno le cause alle essenze determinate d' essere uno, o d' esser ente, [...OMISSIS...] . In questo sistema dunque non può sussistere da sè nessun ente, nessuna quiddità, nessuna specie che non sia pienamente determinata; se non è determinata può sussistere soltanto nella mente, separata dalla materia corporea; ma se la specie, l' essere, è pienamente determinata, ancorchè non abbia materia corporea, allora è un singolare e niente vieta che da sè sussista, e così sussiste secondo Aristotele la mente e Dio. [...OMISSIS...] . E che cos' è quest' ascendere di specie in specie fino all' ultima specie, se non andare da una specie a cui resta qualche materia e potenzialità, e non è ultimata, fino a trovare una specie che non abbia materia alcuna e sia puro atto? Poichè dice, che non c' è nulla d' eterno che sia in potenza o che abbia materia [...OMISSIS...] (1). Riconosce dunque che ci debbono essere specie sussistenti da sè ed eterne altrettanto che Platone; soltanto vuole che esse sieno ultimate, cioè venute all' ultimo loro atto, e quest' atto l' hanno quando sieno non solo intelligibili, ma intelligenti; poichè dice, che lo sciente è più in atto della scienza e il mosso del moto (2). Avendo dunque fatto consistere l' ultimazione della specie nell' essere questa non solo intelligibile ma intelligente, trasformandola così in una mente, Aristotele non si curò più di sapere, se l' oggetto di questa mente fosse determinato o indeterminato, e concedette che anche gl' indeterminati come i generi e gli universali fossero in questa mente così subiettivamente determinata, ed anzi fossero tutti questa mente medesima. Anzi domandando a se stesso quali intelligibili convenissero meglio alla mente suprema, trovò che gli universalissimi, cioè l' essere e l' uno , che chiamò «prota te physei» (3) e i principŒ , che sono lo stesso essere ed uno nelle loro applicazioni, ond' anco disse, che la mente era de' principŒ [...OMISSIS...] , e essa stessa principio del principio [...OMISSIS...] (4). Essendo dunque l' intelligibile intelligente, e il primo intelligibile essendo l' essere , questo è in senso obiettivo ad un tempo e subiettivo la mente d' Aristotele. Per la stessa ragione poi per cui Aristotele disse che la prima filosofia trattava dell' ente come ente, e di conseguente della mente e de' primi intelligibili, e de' principŒ di cui la mente è il primo; disse anche che trattava delle cause, poichè nella mente suprema finivano tutte le cause, essendo essa prima causa finale, e quindi prima causa motrice, e di conseguente causa delle specie, e di conseguente ancora causa della materia, la quale non è qualche cosa se non per la specie (5). Ma gioverà indicare altresì da che fosse indotto Aristotele a considerare l' ente puro come l' oggetto degnissimo della prima mente, formante con questa una medesima cosa. Dice dunque che l' ente e l' uno, che non è che un carattere dell' ente, si riputeranno meglio d' ogni altra natura contenere tutti gli enti [...OMISSIS...] , come quelli che sono per natura primi [...OMISSIS...] (1). Questa proprietà, di contenere il tutto, l' attribuisce appunto a Dio, che perciò colloca come in sua sede sopra l' ultimo cielo, rappresentandolo così come contenente (2). Ora l' essere ha appunto questa prerogativa, che in esso tutto si veda contenuto: e però tutte le specie sono in lui, ond' anco la mente è detta da Aristotele « il luogo delle specie ». Ma come l' ente contiene le specie? Aristotele, come abbiamo veduto, dà all' Ente, o mente suprema, la sola cognizione di se stesso, e sembra che gli tolga quella del mondo. Parmi dunque che il nostro filosofo faccia che la mente divina contenga tutte le specie, appunto come l' essere puro (determinato solo a se stesso, e attuato nel principio subiettivo dell' intellezione) contiene le specie di tutte le cose finite, come il circolo contiene tutte le figure poligone che possono essere in esso descritte. Le contiene perchè è maggiore di esse, ed ha in un modo eminente tutto ciò che è in esse; ma non le contiene colle loro determinazioni e co' loro limiti, che le impiccioliscono (3). Onde dunque, secondo Aristotele, l' origine delle specie finite? - Dalla tendenza, crediamo noi, che egli dà alla materia, o anzi alle diverse materie, di che il mondo si compone. Tendendo ciascuna all' atto ed alla propria perfezione (4), esse tendono di continuo ad assomigliarsi all' ultima e perfettissima essenza che ha l' atto completo. Ma non potendo raggiungerla, tutte vi si avvicinano in diversi modi e gradi, secondo il proprio nativo potere, nascente dalla specie che già hanno e che tende a riprodursi con eterno circolo. Rimanendo dunque le nature materiali in questo continuo conato a diversi punti della scala, senza arrivare nessuna di esse al sommo, accade che si vestano di specie varie, che non adeguan la prima, ma tengano tutte qualche cosa di essa. Così le specie limitate, che informano gli enti naturali e corruttibili ed anche gli incorruttibili come gli astri, in moto perpetuo, non nascono di nuovo, ma non fanno che riprodursi, perchè tutte le specie sostanziali sono ab aeterno in natura, non già separate ma unite colla materia (1). Ed ecco il perchè la mente umana non può trovare in se stessa queste specie, ma le abbisogni cavarle per via d' induzione dalla natura. La mente umana è la stessa mente divina (se identica di numero o solo di specie difficilmente si può definire) (2), e però in sè non ha che i primi intelligibili (1). Essendo essa congiunta ad un corpo sensibile, dal sentimento raccoglie le specie e i generi, valendosi di quel lume che la forma, cioè dell' essere, a cui si riducono appunto i due primi intelligibili l' ente e l' uno, e i principŒ in questi stessi contenuti. Si opporrà che in questo sistema l' uomo verrebbe a sapere più di Dio, perchè essendo Dio la mente separata e non avendo questa che i primi intelligibili, l' uomo all' incontro accogliendo anche le specie finite delle cose naturali, conosce queste oltre di quelli. A questa difficoltà, di cui abbiamo già toccato prima leggermente, dobbiamo far qui più compiuta risposta. Osserva Aristotele, che quel divino che è nell' uomo, è cosa più eccellente del composto, che si fa da esso e dall' altre parti inferiori dell' uomo, [...OMISSIS...] , e che di tanto altresì l' atto puro di questo divino, cioè della mente, si vantaggia dall' atto d' ogni altra virtù, [...OMISSIS...] (2). Ora l' uomo essendo composto e dovendo attendere a tant' altre operazioni, è distolto dalla continua contemplazione; all' incontro gli dei, cioè le menti separate, vi permangono sempre e così godono d' una perpetua e continua beatitudine (3). Iddio dunque è mente perfettamente teoretica ossia contemplativa, di cui l' uomo non gode che momentaneamente. Poichè la perfezione è riposta da Aristotele in due cose: 1 che subiettivamente altro non ci sia che atto di contemplazione; e 2 che oggettivamente sia l' ottimo , il quale ottimo è l' essere puro. Le notizie dunque delle cose inferiori non aggiungono, ma col loro miscuglio diminuiscono, secondo Aristotele, l' oggetto ottimo, che ogni cosa in sè contiene in un modo eminente; come le azioni diverse dall' atto contemplativo, se si mescolano a questo, ne deteriorano la natura. Poichè, come queste azioni, non avendo il fine in se stesse, non hanno valore che di mezzi conducenti alla contemplazione, ultimo fine di tutto ciò che esiste (1): così le notizie inferiori, riguardanti le cose limitate, non hanno altro pregio che quello di mezzo ad attuare la mente e far meglio conoscere l' ottimo intelligibile, che è bastante a se stesso, non ammettendo la felicità nulla d' imperfetto [...OMISSIS...] (2). Come dunque il mezzo è superfluo, quando c' è il fine; e le armature della fabbrica sono un ingombro quando la fabbrica è compiuta, e si rimovono; così la natura divina nella sua ultima perfezione, rimane scevra da ogni altra notizia, eccetto quella dell' ottimo, che, come si diceva, è l' essere puro, ossia di se stessa (3). Laonde quella mente che s' è fatta tutte le cose [...OMISSIS...] perisce, cioè periscono tutte le cognizioni tratte dalla natura per induzione (essendo ella stessa tutte queste cose [...OMISSIS...] ) (4) e senza di queste niente più intende [...OMISSIS...] (5), ma rimane la mente pura, eterna contemplatrice di se stessa, cioè dell' essere, principio e fine di tutto (1). Questa mente pura, che si dice una parte dell' anima umana, è di natura separata dal rimanente dell' anima (2), e viene dal di fuori (3); onde non pare che Aristotele conservasse all' anima dopo la morte dell' uomo la sua individualità, rimanendo solo la natura divina in essa inesistente (4). A questa risposta s' aggiunge, che, essendo la mente divina, e l' uomo, in quanto è mente, essendo Dio, come lo chiama Aristotele, questo Dio inesistente nell' uomo, anzi in tutti gli uomini, conosce necessariamente in questa sua forma umana anche tutto ciò che conoscono gli uomini, cioè le forme di tutte le cose, in quanto sono pure essenze, prive di materia, generi e specie. Onde, come Dio puro da ogni veste, non conosce che l' ottimo, ma come Dio nell' uomo conosce le essenze determinate, che sono e non sono (5), e però in qualche modo cessano col cessare del composto, rimanendo sempre in altri composti ed hanno una base eterna nell' essere puro ideale, in cui eminentemente si contengono, e che rimane immutabile oggetto della mente, non avendo l' essere contrarŒ di sorte, che fuori dell' essere non c' è nulla (6). Poichè sebbene Aristotele trovi necessario, che la natura divina esista anche allo stato di purità segregata da ogni materia, senza il qual ultimo atto non potrebbero essere gli altri atti, tuttavia egli fa che anche esista in istato di imperfezione, cioè legata colla materia, ossia colla potenzialità, e tendente di continuo a liberarsene, uscendo al suo atto purissimo: dove non s' intende più certamente che cosa pensar si debba, come osservammo, dell' individualità e della personalità di questa divina natura, salvo che chiaramente ammette una pluralità di dei, benchè altri abbiano tentato di difenderlo da un tale politeismo (1). Ma difficilmente, ammettendosi per legittimo il libro XI de' « Metafisici », si può dire che ivi non faccia che esporre l' altrui opinioni, quando egli pur dimostra la necessità, che ogni astro abbia una mente separata, ossia un Dio immoto intelligibile, appetendo il quale si mova colle sue sfere, nascendo indi la causa della generazione, senza di che questa rimarrebbe inesplicabile, salvo però che tutti cotesti Dei sono inferiori al supremo perchè appetiti da' singoli astri, quando il Dio sommo è l' appetito di tutta l' università delle cose (2). Aristotele dunque non solo vuole, che la natura divina «to agathon kai to ariston» esista nel Motore supremo, che paragona al duce: ma vuole che inesista ancora nell' universo e ne formi l' ordine e la connessione, [...OMISSIS...] , come d' un' armata. In quanto la detta natura è il duce, intanto è qualche cosa di separato e da sè, [...OMISSIS...] . Dice poi, che il ben essere dell' armata è nell' ordine, ma che il duce è più e meglio del suo ordine, [...OMISSIS...] , perchè il duce è il fine (1). Cerchiamo dunque di nuovo qual sia la relazione che pone Aristotele tra l' essere assoluto e separato, e gli altri enti composti di materia e di forma, e com' egli unisca il reale all' ideale; poichè sta qui tutta la spiegazione che dà Aristotele dell' esistenza e della natura del mondo, e della sua dipendenza dall' Essere supremo puro e separato. Stabilisce dunque, che l' essenza sostanziale non c' è se non in quegli enti che ammettono una definizione (2), e sono i composti di materia e di forma, di genere e di differenza, non potendosi definire la sola materia, chè non è un qualche cosa, nè la forma da sè, che è un semplice. Egli dice questo senza distinguere l' ente reale dall' ideale, il che prova che considera come identica e comune la forma ideale e la reale (3), salvo che quest' ultima è unita alla materia, e la prima n' è separata, esistente però nella mente, e non da sè. Dipoi dice, che il domandare: « « perchè questo sia qualche cosa » » [...OMISSIS...] , è sempre un domandare: « « perchè altro inesista in un altro » » [...OMISSIS...] (4). Così espone la ricerca della causa formale, che è la causa dell' essere delle cose, [...OMISSIS...] (5). Secondo lui dunque la materia è qualche cosa, perchè inesiste nella forma. Questa maniera di parlare ritorna spesso in Aristotele e sempre senza distinzione di ciò che è reale o ideale, di maniera che il genere, secondo lui, esiste nella specie, come pure la materia reale inesiste e sussiste nella specie (6). Ora la materia inesistendo nella specie riceve da questa insieme coll' esistenza l' unità , e un' unità essenziale, che determina la cosa ad essere quello che è, di maniera che le pietre e i mattoni, che sono gli elementi della casa, non sono più pietre e mattoni ma sono casa, quando hanno ricevuta questa specie o forma (1). Ma quest' unità e questa quiddità degli enti finiti è forse data loro dall' ultima specie cioè da Dio? Aristotele insegna espressamente di no, ma distinguendo la causa motrice dalla causa formale delle cose finite dice: 1 che ogni ente che vien generato o prodotto è generato o prodotto da un altro che ha già quella specie finita che comunica; 2 ma che l' ente generante o producente è mosso a generare e comunicare la propria forma dal Primo motore o piuttosto dai Primi motori (2). Così agli Dei attribuisce la causa del movimento come fine ultimo, ad assomigliarsi al quale tendono di continuo gli enti finiti, ma a questi stessi già vestiti di forma, ossia di atto, attribuisce la comunicazione della propria forma o specie a quelli che ancora non l' hanno e la possono da essi ricevere. Onde insegna costantemente che tutte le cose sono generate da altre aventi la stessa essenza specifica (3), sia che la cosa tutta intera abbia la stessa essenza, sia che l' identità d' essenza cominci da una parte della stessa (4). E quest' ente sinonimo che, avendo la specie, ne produce un altro colla stessa specie, può essere tanto nella mente, come accade nelle produzioni dell' arti, quanto nella natura, come accade nelle produzioni naturali (1). E qui c' è una prova decisiva di quello che dicevamo, che Aristotele fa la specie nella mente identica di natura alla specie che informa le cose reali, perchè dice le opere dell' arte formate dalla specie nella mente dell' artista allo stesso modo come le opere della natura dalla specie che è nel loro generante. Ed essendo identica questa specie, fa che come da questa nella natura vengono le cose generate, e nella mente le cose prodotte dall' artista, così da questa pure nella mente vengano i ragionamenti (2). Dalla stessa specie vengono queste tre cose; la teoria è comune, la specie la stessa: altrimenti il ragionamento aristotelico sarebbe un gioco di parole. La specie dunque contiene in sè i singoli enti, ed è la ragione del loro essere ossia sussistere e della loro unità (3), di maniera che niun ente della natura può esser generato e prodotto se non preesista la sua materia e la sua forma [...OMISSIS...] (4): gli elementi inesistenti appartengono alla materia, la specie poi non è un elemento, ma un principio, una causa dell' ente (5). Non è dunque il primo motore che dà la forma e l' unità alle singole cose, ma è la specie loro preesistente, [...OMISSIS...] . Come dunque dice che «to agathon kai ariston» oltre avere un' esistenza separata, è ancora la connessione [...OMISSIS...] del mondo? Conviene che il bene e l' ottimo, in quant' è connessione del mondo, sia qualche cosa che leghi e contenga tutte le singole forme, che sono diverse da esso: e a queste condizioni la detta connessione non può esser fatta che dall' essere puro, che non essendo le forme, contiene tuttavia tutte le forme. E infatti come la materia è nella specie (1), così le specie sono contenute nel genere, che costituisce l' unità e identità delle cose che differiscono d' essenza ossia di specie (2); i generi poi sono contenuti nell' essere, che si dice anche, insieme coll' uno, primo genere; poichè ogni differenza tra le cose deve fondarsi in una identità (1), e quest' è l' essere a tutte comune, e che tutte contiene. Se dunque le specie degli enti naturali sono eternamente in questi, e quelli che le hanno in atto perpetuamente colla generazione e produzione le suscitano in altri che non le hanno; e se non sono perciò, nè provengono dal primo Motore che è il Buono e l' Ottimo, il quale solamente cagiona il moto per l' efficienza del naturale appetito; e se tuttavia questo Buono e Ottimo costituisce la connessione di tutti gli enti naturali [...OMISSIS...] distribuiti come un' armata: che altro rimane a dire, se non che questo Buono e Ottimo sia l' essere puro , secondo il quale s' identificano tutte le cose, ed è il principio identico delle loro differenze (2)? In questo senso dunque il Dio d' Aristotele contiene le cose tutte, e però le colloca al di là dell' ultimo cielo, quasi una sostanza che fascia il mondo (3). E certamente niuna figura più adattata d' una sfera a indicare un contenente, che non si mescola punto colle cose contenute, poichè ciò che è nella sfera, non è la sfera, nè prodotto necessariamente dalla sfera, ma è soltanto contenuto in essa, e da essa, per così dire, informato dell' unità. Così dice l' essere «periechein ta onta panta» (4). E per questo appunto Aristotele fa una scienza unica e prima di tutti gli enti, trattando questa di un solo oggetto cioè dell' essere come essere (5), e la dice scienza universale, [...OMISSIS...] (6). E se l' essere produce la connessione dell' universo, sì perchè, in quant' è comune, è tutte le cose, e sì perchè, in quanto sussiste separato e da sè, costituisce l' appetibile a cui tutte le cose tendono: egli è manifesto che questo divino, questo Bene, si considera da Aristotele come scevro da ogni specie finita , e nel primo modo separato di concetto, [...OMISSIS...] , nel secondo separato anche di fatto, [...OMISSIS...] , da ogni materia. Infatti in questo secondo aspetto Aristotele non dà a Dio altro, che il concetto di fine , di estremo, di termine a cui tendono tutte le entità finite più o meno, senza raggiungerlo pienamente giammai (1). Ora il concetto di fine non inchiude la cosa che tende al fine, e questa cosa tendente al fine è la forma nella materia, o sia l' ente composto di materia e di forma. Onde siccome Aristotele dichiarò che Iddio come fine ultimo, a cui ogni natura finita tende, contiene tutto lo spazio che costituisce il Mondo, quasi d' intorno fasciandolo, così pure dichiarò che come fine ultimo contiene tutto il tempo, maggiore del tempo, ossia eterno (2). Poichè il tempo, o piuttosto la vita, tende, da parte sua, a perpetuarsi, e non ama cessare giammai: ma non potendo raggiungere l' eternità la imita come può mediante il continuo circolo delle generazioni (3). E infatti non si potrebbe spiegare l' indefinita lunghezza [...OMISSIS...] se non si suppone sottostare una durata eterna, e il concetto stesso di successione perisce senza quello di durata (4). Per questo dice Aristotele che l' essere e il vivere degli enti naturali pende da tali cose eterne (5). Allo stesso modo quello che può essere e non essere pende da ciò che necessariamente è (6), poichè ogni cosa tendendo a durare e ad accrescersi, aspira a rimovere la possibilità della sua distruzione, benchè mai non ci arrivi. L' essere separato dunque, il Dio d' Aristotele, non ha in sè le specie finite, ripugnanti alla sua perfezione, è del tutto uniforme, puro, semplicissimo; e perciò, il che conferma la nostra interpretazione, non eccita che un solo movimento uniforme e continuo, quello del primo cielo, e anche questo non l' eccita operando, ma l' azione sta tutta nelle nature finite, cioè nell' appetito del cielo supremo. Ma questo movimento (associato però al movimento obliquo e vario degli astri) produce diversi effetti per la diversità degli enti, e dell' appetito vario di questi. Onde nel libro « De Mundo », che espone la dottrina di Aristotele, si dice che da Dio vengono tutte le idee o forme delle cose [...OMISSIS...] in conseguenza del semplice movimento del corpo a lui più vicino, cioè del primo cielo (7). [...OMISSIS...] (1). Egli è dunque manifesto, che il Dio d' Aristotele differisce da quello di Platone in questo, che il platonico ha tutte le idee delle cose, e ha la potenza d' operare fuori di sè, creando ad esse, come ad un esemplare, e disponendo il mondo: laddove l' Aristotelico privo di questa potenza non produce il mondo alla guisa d' un artefice, e le specie stesse delle cose non sono in Dio, ma nè tampoco la causa efficiente o la forza, [...OMISSIS...] (1): quando le specie o forme delle cose mondiali sono e sono sempre state ab eterno nelle cose stesse: e il Dio Aristotelico non è che l' ottimo intelligibile, appetito da tutta la natura, che tende ad avvicinarsi alla sua attualità perfetta, appetito in primo luogo e in un modo immediato dal primo cielo, che rivolgendosi eternamente con un moto circolare ed uniforme impelle i corpi contigui, e di contiguo in contiguo il moto si propaga all' universo, ma ogni cosa lo riceve secondo la propria natura (2). Onde 1 c' è il primo appetibile, o causa finale, Iddio; 2 c' è la natura, materia e forma, sospesa al primo appetibile in virtù del proprio appetito; 3 c' è insita in questa natura, distinta in più enti tutti composti di materia e di forma, la forza [...OMISSIS...] , causa efficiente di tutte le trasmutazioni che è lo stesso appetito, il quale ora è annesso alla forma, come nelle produzioni per via di seme e nelle produzioni artistiche, ora è annesso alla materia come nelle produzioni «ex automatu» (1); 4 c' è il primo eccitamento di questa forza, che è il movimento del cielo supremo, dal quale cominciano tutte le altre quattro maniere di moti e di trasformazioni naturali, eccitamento e impulso che è ricevuto da ciascuno degli enti, secondo l' indole della sua natura e virtù [...OMISSIS...] , e che dà così a ciascuno la sua propria e conveniente facilità di moversi, [...OMISSIS...] . Ora, se il Dio aristotelico non ha in sè le forme finite degli enti naturali, e a queste non le comunica, ma esse già sono ab aeterno negli enti della natura e si trasmutano, ricevuto l' impulso e il moto da' cieli, e se tuttavia il Dio aristotelico è mente, è intelligibile primo, facilmente si raccoglie che cosa sia questo Dio. Poichè Aristotele stesso continuamente insegna che, rimosse le specie, quello che rimane non è altro che l' ente e l' uno che è l' indivisibile carattere dell' ente [...OMISSIS...] (2). E però Aristotele non riprende Platone per aver detto che l' ente e l' uno sia causa delle essenze e dell' essere di tutte le cose, ma per non avere spiegato come questa causazione si facesse, cioè per non aver conosciuto, com' egli crede, che l' ente e l' uno influiva come fine appetito da tutte le cose, in grazia del quale sono e operano (3). La forma dunque, che è il divino e il primo dei tre principŒ aristotelici, è una se si dice in un modo universale e per analogia, ma è moltiplice secondo gli enti diversi. Ora ogni forma è essere, [...OMISSIS...] ma la materia sola non è essere, chè riceve l' essere dalla forma. L' essere adunque è quello che costituisce la connessione, [...OMISSIS...] , dell' universo (4). L' essere è la forma delle forme. Ma l' essere (lo stesso dicasi dell' uno in quanto si converte coll' ente) si può considerare in tre modi: 1 In universale, come primo genere (5), e allora è indeterminato, e non essendo egli stesso finito e ultimato, non ha virtù di esistere separato e da sè, ma solo separato di concetto nella mente, e però non è propriamente essenza: così preso, è anzi la materia universale; 2 Come una natura esistente in tutte le cose singolari, singolare in ciascuna, benchè non sia niuna di esse (1); 3 Finalmente come la prima sostanza, a cui convenga la denominazione di «cinai ti» senza uscire da se stesso, poichè il «ti» che lo determina lo prende in se stesso, cioè è la purissima attualità (2). E veramente per Aristotele ciò a cui conviene, prima che ad ogni altra cosa, la parola di essere e d' ente è l' essenza sostanziale, chiamata da lui «proton on» (3) e per l' essenza sostanziale tutti gli accidenti partecipano dell' essere: essa dunque è propriamente l' essere determinato, com' anco l' uno stesso (4). Se poi si fa che l' essenza sostanziale sia l' atto purissimo, scevro da ogni potenzialità e limitazione, ella è Dio; e in questo senso si può dire che l' essere per Aristotele sia Dio. Posciachè dunque l' essenza o l' essere determinato (5) è ad un tempo e in primo luogo la prima sostanza separata, e così costituisce il punto a cui l' universo è sospeso, ed esso è ancora sparso nell' universo e diviso nelle essenze sostanziali finite, che partecipano della prima, formando nell' uno e nell' altro modo l' unità e la connessione, [...OMISSIS...] , dell' universo: perciò Aristotele ad una scienza sola commise di trattare dell' essere come essere, chiamandola ora teologia, ed ora filosofia prima. Poichè dice: 1 Che la filosofia tratta dell' ente come ente in universale, [...OMISSIS...] , e che l' ente non potrebbe essere oggetto d' una sola scienza, se l' ente si prendesse sotto diversi significati, formante più generi e non secondo qualche cosa di comune [...OMISSIS...] (1). 2 Che negli essenti c' è un principio, [...OMISSIS...] , intorno al quale non si può prendere abbaglio, ed è quello di contraddizione che si riduce all' ente (2). 3 Che ogni scienza ha per oggetto la quiddità , [...OMISSIS...] , e che usa di questo come principio della scienza [...OMISSIS...] (3), di che procede che la scienza dell' ente come ente ha per suo proprio oggetto la quiddità dell' ente. 4 Che le altre scienze trattano della quiddità in un genere parziale di entità (4), e trattano dell' ente unito alla sua materia, come il fisico, o dell' ente astratto da quel genere di materia (5): ma la filosofia tratta della quiddità dell' ente in sè non ristretto ad alcun genere parziale, e dell' ente non astratto, ma separabile realmente, e non di solo concetto, da ogni materia. 5 Quest' ente separato è dunque oggetto della stessa scienza che tratta dell' ente in universale, dell' ente come ente, [...OMISSIS...] . E tuttavia questa scienza che tratta del più onorabile degli enti, cioè di Dio, trattando dell' essere come essere, è universale. [...OMISSIS...] E` dunque manifesto che l' essere come essere ha un' esistenza separata da ogni altra cosa, [...OMISSIS...] e non solo di concetto, come gli oggetti matematici, ma di fatto; questo è Dio: è sostanza singolare, [...OMISSIS...] ; e l' onorabilissimo tra gli enti, [...OMISSIS...] , e però la prima o l' ultima delle scienze si chiama «theologike». Ma l' essere come essere, e però «to theion», inesiste anche in tutti gli enti della natura «en tois usin» come loro essenza e causa formale, o specie; epperò tutte le specie e le categorie, a cui come in classi si riducono, formano un solo genere supremo, e però un oggetto solo d' una sola scienza, [...OMISSIS...] : e questa scienza perciò, trattando di ciò che è universalissimo, è veramente universale, [...OMISSIS...] , perchè non solo tratta dell' essere in sè, ma ancora di ciò che si contiene nell' essere, [...OMISSIS...] (2), cioè di tutto ciò che è. Ma non esisterebbe questa scienza, se le essenze o specie delle cose non si potessero riferire all' essere come essere separato e per sè sussistente, che essendo uno costituisce il fondo di tutte, poichè non potendo le specie degli enti mondiali sussistere separate, rimarrebbero molti divisi in molti generi, e da sè non esisterebbero che gli enti naturali composti di materia e di forma, oggetto della fisica, [...OMISSIS...] . All' incontro esistendo l' ente come ente, come un' altra natura diversa, e questa sostanza separata dagli enti composti di materia e di forma, ci deve essere pure una scienza diversa dalla fisica, e questa deve essere anteriore alla fisica, e anteriormente universale, [...OMISSIS...] . Anteriore e più universale, perchè il principio è la causa di tutti gli enti naturali, chè essendo principio non può esser principio di se stesso ma di questi, [...OMISSIS...] . Poichè dell' essere si predicano due cose l' avere e il sussistere, [...OMISSIS...] : sussiste anche in sè, ma non si direbbe avere sè, ma avere qualche altra cosa, e quest' è la materia. Cercandosi dunque la causa perchè esista la materia, trovasi che questa causa è la specie o essenza specifica (1). Ora di questa essenza specifica, essendo semplice, non si può più cercare la causa allo stesso modo, cioè come si cerca la causa della materia, ma in altro (2). In qual modo? Certamente riferendo le essenze specifiche alla prima essenza, a cui tutta la materia tende per l' innato appetito e ne prende quella parte che può, e questa parte è il suo atto, la sua essenza specifica. Laonde quando si domanda « la causa dell' essere delle cose finite », l' essere qui è preso per sussistere , e il sussistere delle cose è in ciascuna di esse e non separabile. Ora questo sussistere delle cose sta nell' unione della materia colla forma, ma, poichè questa è quella che determina la cosa, è pur questa che la fa sussistere quella che è, e perciò, dice Aristotele, la forma o essenza è la causa dell' essere, cioè del sussistere delle cose (3), ed è principio non elemento di esse (4). Ma se si domanda poi « la causa per la quale la forma si sia unita alla materia », conviene ricorrere, come dicevamo, alla prima forma o essenza, cioè all' essere, come essere e separato, il quale come appetito dalla natura è causa motrice e finale. [...OMISSIS...] Il primo Motore dunque coll' essere appetito trae la materia al suo atto, cioè alla forma; e questa forma è puro essere separata dalla materia, onde dice [...OMISSIS...] (2). E prima avea detto: [...OMISSIS...] , cioè dagli elementi materiali. Poichè gli elementi materiali prima di essere uniti dalla specie o essenza specifica non hanno nome, nè sono qualche cosa [...OMISSIS...] : ma quando sono contenuti dalla specie, quest' uno che ne risulta riceve il nome della specie, per esempio casa , e così la specie casa è divenuta questa casa reale [...OMISSIS...] (5): non è che essa stessa sia stata con ciò generata, ma essa è stata causa per la quale gli elementi materiali divennero un chè determinato ricevente un nome, il nome della stessa specie: ond' essa è divenuta un altro, cioè la casa reale, composta. Laonde tosto appresso Aristotele si fa la questione « se dunque le essenze specifiche de' composti corruttibili preesistevano ad essi separate », e ancora nol decide; ma esclude dall' esistere, così separate e da sè, le specie artistiche, dicendo che fors' anco esse non sono essenze specifiche, nè alcun' altra cosa è essenza specifica, di quelle che non sussistono ne' composti naturali: chè taluno, dice, porrà la solesto si raccoglie come Aristotele faccia derivare le essenze specifiche limitate , cioè le essenze dei corruttibili, dall' Essere attualissimo, Iddio. 1 Esse non esistono che in natura, sono la stessa natura determinata delle cose corruttibili, [...OMISSIS...] , e perciò non esistono nell' Essere attualissimo se non in un modo eminente; 2 La natura è materia e forma, queste due cose costituiscono il medesimo ente, [...OMISSIS...] . 3 Ma la materia non potrebbe avere la forma se non tendesse ad attuarsi, cioè ad acquistare più che può di quell' attualità che nella sua massima e pienissima perfezione è appunto l' essere attualissimo: tende dunque a quest' essere, ma non può raggiungerlo pel difetto della materia: quest' essere dunque come causa dell' appetito di tutte le materie è la causa movente, che fa passare la materia alla forma, [...OMISSIS...] . Il difetto poi, ossia la limitazione de' diversi generi di materia, è la causa per la quale la essenza o forma , a cui ciascuna materia perviene, o sia limitata, più o meno avanzata, più o meno onorabile, e tenga più o meno dell' essere attualissimo senza raggiungerlo mai (1). Non essendovi dunque nell' essere attualissimo materia alcuna, non ci può essere questa causa di limitazione, e però non ci possono essere le forme o essenze specifiche così limitate, quali sono nella natura; ma egli è una sola essenza, l' essenza per sè, illimitata. 4 Essendoci poi stato ab aeterno quest' appetito nella natura, pure ab aeterno furono in essa tutte le forme o essenze delle cose corruttibili. Queste dunque non si generano, ma sono eterne tanto nell' essere attualissimo, prima e perfetta essenza, dove sono indistinte e in modo eminente, quanto negli enti naturali dove sono distinte. Ma gli enti naturali si generano, e quindi le essenze compariscono nei nuovi generati e diventano «tode»; diventano questi enti, che sono qualche cosa e hanno un nome appunto perchè hanno quelle specie. Così dalla tendenza della natura all' essere attualissimo Aristotele deriva ugualmente: 1 Le forme naturali e reali; 2 Le forme artistiche e ideali, delle quali parla in un modo vacillante, prendendole talora per vere specie operanti (1) talora poi negando che sieno essenze specifiche; 3 I principŒ del ragionamento e la serie delle conseguenze (entità ideali) che deriva da essi la mente (operazioni dialettiche) (2); e considerando queste tre maniere di cose sotto lo stesso aspetto, come derivate cioè dall' essere attualissimo mediante l' appetito naturale, egli mescola il discorso dell' una col discorso dell' altra, e cava indifferentemente gli esempŒ della sua teoria ora dall' ordine della generazione naturale, ora da quello delle produzioni artistiche, ora dalle logiche distinzioni ed astrazioni: il che cagiona una gran confusione e difficoltà di seguire il filosofo nostro, almen fino a tanto che non s' è conosciuto il suo principio e la sua maniera dialettica di riporre in una stessa classe le entità più disparate. Negando dunque a Platone che le essenze delle cose corruttibili sieno idee separate da queste, perchè pretende che in tal caso si raddoppierebbero inutilmente le essenze (3), e sostenendo che tali essenze sono soltanto nelle cose unite colla materia, e identiche nella mente separate da questa; egli tiene un medesimo discorso e fa una sola teoria delle essenze specifiche naturali, delle essenze artistiche, delle logiche, delle astratte di ogni maniera: tutte nascendo alla materia naturale, come atti di questa per la tendenza ch' ella ha ed ha sempre avuto di spingersi all' essere attualissimo, fine ultimo d' ogni movimento. Onde in generale l' atto, o specie de' corruttibili, per Aristotele è ciò che si predica d' una materia (1) e il predicato non esiste senza il subietto. Per vedere quante diversità di forme egli distingua ugualmente nell' ordine delle cose reali e delle ideali senza distinzione e tutte sommettendole alla stessa teoria, basta leggere il capitolo secondo nell' ottavo libro dei « Metafisici ». Nel capitolo seguente dice, che talora non si può distinguere se la parola ousia significa il composto di materia e di forma, o la sola forma, il solo atto. E arreca in esempŒ di composti la casa, la linea, l' animale, la sillaba, la soglia della porta; dove tanto la forma quanto la materia sono reali o ideali, o astratti e puramente dialettici, mescolando tutto insieme. La stessa confusione dunque nell' essere attualissimo, il quale ora comparisce come ideale, da cui la mente umana trae i suoi principŒ logici, e mediante questi tutte le sue idee; ora come reale, da cui l' artista ne trae le sue specie, la natura le sue forme. Apparisce però costantemente che le specie sono contenenti, e la materia è contenuta, onde il cercare la causa d' un ente composto di materia e di forma, cioè cercare la causa del suo essere (reale), è lo stesso che cercare ciò in cui è contenuta la sua materia: onde in questa ricerca ciò di cui si cerca la causa deve avere meno estensione di concetto della causa formale che si cerca, per esempio: « « la causa, perchè esiste un uomo, è una data specie d' animale »(2) », cercare perchè un uomo è un uomo, è cercar nulla, non cercandosi con ciò in che l' uomo sia contenuto. Di che viene che l' essere universalissimo (e lo stesso si dica dell' uno) contenga tutte le cose e sia la causa formale di tutte le forme, ma niuna di esse. Laonde dice Aristotele, che l' assegnare l' uno per causa formale dell' essere reale delle cose è vero, ma l' uno comune, non proprio delle singole specie e generi (1). L' essere attualissimo adunque è ideale e reale ad un tempo, di maniera che la cosa e la scienza è in esso il medesimo, entrambi in atto, [...OMISSIS...] (2). E già vedemmo come Aristotele anche nella mente pratica pose il reale che la rende operativa (3). Ma l' essere attualissimo non è mente pratica, ma solo mente teoretica, il che unisce ancor più, anzi identifica il pensato col pensante (4), la cosa coll' idea. Onde quest' è una delle principali censure che Aristotele fa a quelli che posero le idee come essenze eterne, che condussero la loro ricerca piuttosto logicamente che ontologicamente, e quindi si fermarono agli universali (5). L' essere dunque attualissimo, e però separato e da sè, è per Aristotele mente contemplatrice, contemplatrice di sè stessa, e di null' altro, cioè dell' essere, e così presa, e separata da ogni altra cosa, è quello che è: « « separata, dice, è solo ciò che è » » [...OMISSIS...] A quest' essere, puro atto, atto che sta nel puro contemplare l' essere senza differenze, tende incessantemente la natura potenziale, ossia la materia. Questa è atta ad arrivare col suo conato a gradi diversi: il primo è quello delle specie degli enti inanimati ; il secondo è quello delle specie di vegetabili , il cui complesso, e il cui nesso è la vita o anima vegetativa; il terzo è quello delle specie sensibili , il cui complesso e il cui nesso è la vita o anima sensitiva che costituisce l' animale; il quarto grado è quello delle specie intellettive , il cui complesso e il cui nesso è l' anima intellettiva. Ogni ente mondiale è costituito da una sola specie sostanziale che gli dà l' essere (1), e perciò non può esistere separata, determinandosi dalla materia o potenza che col suo appetito verso l' essere prende più o meno dell' atto, e così è piuttosto una specie che un' altra (2), [...OMISSIS...] . Aristotele dunque pone una vera identità tra la specie nella cosa e la specie nella mente, salvochè questa è considerata separatamente dalla materia. Quest' istinto della materia è non di meno cieco, poichè, sebbene tenda, come a suo fine, all' essenza suprema ed assoluta, tuttavia tende ad essa come all' atto , non come all' intelligibile . E però non ci sembra che abbia colto il vero sentimento del nostro filosofo lo Starckio quando suppose che in tutta la natura inesistesse la mente fattrice (4), o piuttosto, come la chiama Aristotele, il pensiero fattore, [...OMISSIS...] (1), e che questa mente sia quella che dà a tutte le cose della natura le loro forme. Che anzi, come abbiamo notato già prima, falsamente lo Starckio suppone che tutte queste forme sieno già precedentemente in Dio, quando è la sola potestà della materia che le determina, raggiungendo più o meno dell' essere. Poichè tutte sono essere [...OMISSIS...] , ma più e meno, secondo che l' atto loro è più avanzato ed ultimato, perchè aver più atto è, per Aristotele, aver più essere. E più atto conseguono dei vegetali gli animali e gl' intellettivi degli animali. Ma convien distinguere diverse maniere di atti. Concepita la materia prima senz' atto (per un' astrazione della mente, non perchè ella sia mai così esistita), essa tende all' atto, al suo più prossimo atto, che per Aristotele, come pure pe' suoi predecessori, è quello degli elementi materiali, per esempio del fuoco: le materie prime sono diverse, e quindi la diversità de' primi elementi. Ora questi sono in potenza alla composizione: componendosi in varie maniere diventano altri enti, che acquistano l' unità da un nuovo atto sostanziale, specie od essenza specifica: e gli elementi hanno ragione di materia. Questo stesso si rinnova co' nuovi enti, che pure, ogni qualvolta si rendono elementi d' altri enti, ricevono il concetto di materia (1), quantunque sieno atto rispetto agli elementi precedenti, o alla materia prima. Ora il movimento di qualunque specie, ma specialmente quello della materia che passa all' acquisto della sua forma, è una prima maniera di atto detto da Aristotele « atto dell' imperfetto » [...OMISSIS...] (2). Quando poi la materia è pervenuta all' acquisto della sua forma sostanziale, cessa il movimento, e questa forma sostanziale non più movimento, ma riposo, è una seconda maniera di atto: atto perfetto «he haplos energeia», ed è chiamato da Aristotele «entelecheia» (3) che vale perfezione (da «enteleches») e si potrebbe tradurre specie finiente o finita , rispondente al «to peras,» e al «to peperasmenon» di Platone e de' Pitagorici. Ma quando l' ente è costituito ed esistente per l' essenza o entelechía che lo fa esistere, ancora egli può uscire ad altri atti, senza perdere la sua costituzione e la sua identità. E questi sono un secondo genere d' atti perfetti, ossia d' atti del perfetto [...OMISSIS...] (4), e anche questi si chiamano «entelecheia» da Aristotele. Aristotele assegna espressamente questi due sensi alla parola entelechía , di maniera che fa maraviglia, come gli eruditi abbiano trovata tanta difficoltà ad assegnare il preciso valore di questa parola, e si sieno divisi in tante diverse opinioni (5). [...OMISSIS...] Di che si vede che Aristotele distingue l' entelechía prima, [...OMISSIS...] dall' entelechía seconda, cioè l' atto primo dell' ente ch' è l' essenza , e l' atto secondo che è la sua operazione. E chiama l' essenza specifica e sostanziale entelechía prima, perchè l' essenza è il fine (2) a cui tende la materia che acquista un' esistenza determinata, diventa un ente. Chiama poi entelechía seconda l' atto secondo o l' operazione dell' ente. Apparisce dunque che la parola entelechía abbraccia ogni atto fuorchè l' atto dell' imperfetto, e però la parola «energeia,» che s' applica a tutti gli atti anche a quello dell' imperfetto, ha un significato più esteso della parola «entelecheia». Nello stesso tempo la parola «energeia» esprimendo puramente l' atto, qualunque sia, senz' altro concetto aggiunto, s' adatta meglio al Primo motore della parola «entelecheia» che ha unito il concetto di quell' essenza che è il fine a cui tende ciò che è in potenza (3), [...OMISSIS...] (4). La natura dunque tende sempre più all' atto, e giunge più avanti, secondo i diversi generi di materia, e così acquista atti diversi, e ciò ab aeterno, perchè tutti gli atti specifici degli enti naturali sono eterni, e gli esistenti ne producono altri ed altri per generazione o per arte. Ma la pura mente non è cosa che si formi passando dalla potenza all' atto, perchè la sua natura è di essere atto puro, e però Aristotele la fa venire all' uomo dal di fuori, benchè non ne spieghi il modo. Poichè sebbene ammetta un Primo motore unico, tuttavia, come vedemmo, lo descrive come atto puro di contemplazione; e questo concetto non esclude l' esistenza di altri atti puri di contemplazione. Secondo che intese questa dottrina d' Aristotele l' arabo commentatore, ci sarebbe una mente sola di numero (1), comune a tutti gli uomini: il che avrebbe un significato, quando s' intendesse della mente in senso oggettivo, ma in senso subiettivo è impossibile. Laonde parmi probabile che Aristotele ammettesse appunto una mente sola di numero in senso obiettivo, e che questa fosse la primissima essenza presente a tutte le intelligenze; ma che ponesse poi molti questi subietti intelligenti, quanti sono gli Dei aristotelici e gli uomini, che ricevono e usano della mente, e che di questi subietti intellettivi si debbano intendere tutti quei luoghi aristotelici, ne' quali non parla della mente come prima ed assoluta essenza, ma come mente subiettiva. E nel vero il nostro filosofo chiama la mente in senso assoluto ed obiettivo essenza eterna ed immobile, e dice che è tale quand' è separata da ogni materia (2). Dice ancora che « « il bene si dice in tanti modi, in quanti l' ente » » e l' ente si dice in tutti i modi categorici, e così il bene. Onde venendo alla prima categoria, quella della sostanza, dice che il bene sostanza « « è la Mente e Dio » », [...OMISSIS...] (3), dove prende la Mente e Dio come sinonimi, indicanti ugualmente il bene sostanza: e, facendo che l' ente e il bene abbiano uguali predicati, è manifesto, che ne fa la cosa medesima, onde il bene è l' ente come appetibile, e questo in quant' è sostanza è Dio, e la Mente. L' essere dunque non già indeterminato, sotto il qual aspetto sarebbe materia (4), ma come sostanza prima è la Mente, o Dio. Questa certamente non ha soltanto un' esistenza obiettiva, ma verso di sè anche subiettiva: altramente non sarebbe «noesis,» e vivente «he gar nu energeia, zoe» (5). Pure verso di noi ella non ha che un' esistenza obiettiva; perchè è causa prima motrice e finale solo come intelligibile e bene desiderato (6), senz' alcuna sua operazione (7). Onde Averroes s' ingannò in questo che non distinse il rispetto obiettivo dal subiettivo della mente aristotelica, quello essendo comune a tutti gli uomini, questo diverso in Dio e diverso in ciascun uomo. E l' obiettività della mente fu anche cagione a Platone delle sue idee, di cui Aristotele ritenne il principio modificandolo. Ma ora dobbiamo vedere come in ciascun uomo nasca la mente subiettiva. Aristotele concepisce lo spirito umano secondo il principio di Platone (1), come un ente che riflette in sè il mondo, che ha però una perfetta correlazione col mondo stesso, cioè coi diversi generi di cose che lo compongono. Ma nell' assegnare questi generi di cose, nè l' uno nè l' altro filosofo si curò di distinguere in tali generi con diligenza quella parte che è produzione dello spirito stesso, a ragion d' esempio, i sensibili come sensibili, da quella che ha un' esistenza propria, indipendente dallo spirito umano. Distinse dunque Aristotele nello spirito umano la virtù sensitiva che risponde al genere de' sensibili, dalla virtù dotata di ragione che risponde al genere degl' intelligibili; che sono i due sommi generi in cui ripartì tutte le cose. Ora in questa virtù dell' anima, di cui è propria la ragione, distinse quella facoltà, che può errare, in due: estimazione ed opinione [...OMISSIS...] (2); e quella facoltà, che non può errare, in cinque: arte, scienza, prudenza, sapienza e mente, [...OMISSIS...] . Ma i quattro primi di questi abiti fanno uso della dimostrazione , e questa suppone avanti di sè de' principŒ : quegli abiti dunque non dànno i principŒ, perchè anzi li suppongono e partono da essi dimostrando: rimane dunque che la mente sia quella sola che contiene i principŒ (3). La mente dunque in senso subiettivo ha per oggetti i principŒ, non in forma di giudizŒ o di proposizioni, ma come vedemmo, nei primi loro termini che non ammettono definizione (1). Ora come dall' uomo si conoscono i principŒ, cioè i primi termini? Risponde: coll' induzione , [...OMISSIS...] . Ma vediamo le sue parole: [...OMISSIS...] . Che cosa dunque fa l' induzione aristotelica, che conduce lo spirito umano ai primi termini che sono l' essere, l' uno, il bene, tutti lo stesso sotto altri aspetti, [...OMISSIS...] ? Essa è una facoltà che ha l' anima umana di raccogliere le specie sparse nella natura (per mezzo de' sensibili, nel modo che abbiamo spiegato), le quali separate da ogni materia anche sensibile sono tutte per sè ente [...OMISSIS...] ; una facoltà di trovare in queste stesse specie ciò che v' è di più universale, i generi fino all' universalissimo, al genere sommo, all' ente: indi il principio della scienza [...OMISSIS...] , il quale è «peri to on» (3) onde conchiude [...OMISSIS...] (4). Se dunque la mente è de' primi , e questi sono conosciuti dall' uomo coll' induzione , è dunque da dire che la mente subiettiva sia nell' uomo non ingenita, ma acquisita, innalzandosi lo spirito umano coll' uso dell' induzione sino alla mente eterna ed obbiettiva? Ed è da intendersi così che la mente vien all' uomo dal di fuori? Di maniera che anche nell' uomo da principio non ci sia inserito dalla natura se non quella «dynamin kritiken» (5), che Aristotele dà a tutti gli animali, sebbene varia ne' diversi animali, e nell' uomo più eccellente che in tutti gli altri? - Confesso che se ne può dubitare ed io stesso sono stato su di ciò lungamente dubbioso; ma mi sono in fine risoluto a credere che Aristotele, non descrivendo nel secondo degli « Analitici posteriori » se non l' origine del principio della scienza, parla quivi della cognizione riflessa dei primi e non nega perciò l' intuizione immediata del primissimo; e di questa mia opinione il lettore ha già udite le ragioni. Piuttosto è da dirsi che Aristotele ammetta due specie d' induzione: l' una è quella che riguarda una collezione d' individui di cui dice «he gar epagoge dia panton» (1) e questa non dà nulla di assolutamente necessario e di universale, poichè è impossibile fare esperimento di tutti gl' individui possibili; l' altra è quella, che apprende l' universale, l' essenza necessaria. In fatti questa coglie «to kat' eidos adiaphoron» (2). Ora come potrebbe l' uomo sapere ciò che sia nelle cose indifferente secondo la specie , se non conoscesse immediatamente la specie? la quale per sè presa, cioè scevra di materia, è assolutamente universale, chiamata dallo stesso Aristotele «proton en te psyche katholu» (3). Oltre di che è costante principio d' Aristotele che l' atto sia anteriore alla potenza (4), onde lo spirito umano non potrebbe passare all' atto della scienza che appartiene all' ordine della riflessione, se non fosse già prima in un atto intellettivo, non avesse in sè attualmente un intelligibile. Poichè è per propria virtù che lo spirito s' innalza alla mente obbiettiva, giacchè l' Eterno motore, che è questa mente, nulla opera, ma solo si lascia vedere. Conviene dunque che ci sia in atto l' energia che lo veda, poichè la potenza non passa mai all' atto da se stessa, e al di fuori non ha stimolo sufficiente, chè le sensazioni sono intelligibili in potenza e non in atto. Onde Aristotele stesso pone questo principio assoluto, che la ragione deve preesistere, [...OMISSIS...] (5). Se non ci fosse dunque nell' uomo per natura una cognizione prima attuale, non potrebbe raccogliere dalle sensazioni le forme delle cose e da queste universalizzando pervenire ai primi, universalissimi. Ma quello che toglie ogni dubbio è l' avere lo stesso Aristotele applicato questo principio ontologico della necessità d' un atto anteriore allo spirito umano, e aver insegnato, che come in tutta la natura conveniva che precedesse l' atto, così del pari non potersi spiegare come lo spirito umano potesse ridurre in atto gl' intelligibili in potenza, cioè le specie sparse nella natura, s' egli stesso non avesse una mente in atto, e poichè la mente è de' primi, non avesse in atto il primo intelligibile (1). E in fatti l' uomo produce a sè l' intelligibile col toccare e coll' intendere, [...OMISSIS...] (2): ora come farà l' atto d' intendere senza alcun intelligibile? Di più, tutti gl' intelligibili sono nel primo, cioè nell' ente: come dunque potrebbe conoscere gl' intelligibili se non conosce l' ente che li contiene? Per questo dice, che il principio deve essere una intellezione [...OMISSIS...] (3). Senza l' intellezione non ci potrebbero essere che intelligibili in potenza. Se dunque non ci fosse nell' uomo un' intellezione in atto, mancherebbe il principio, e l' uomo non potrebbe toccare gl' intelligibili in potenza e così ridurli all' atto. Ma come può esserci la mente in atto? Dice Aristotele, che conviene che l' intelligibile in atto dia movimento alla mente [...OMISSIS...] (4). Niuna delle cose della natura intelligibile in atto: ma le cose naturali, cioè le loro forme, sono rese intelligibili in atto dall' uomo stesso. L' uomo dunque non può essere mosso all' atto primo del suo intendere da queste cose. Da che dunque? Da ciò che è intelligibile in atto, cioè dagli eterni motori: a questi appartengono i primi [...OMISSIS...] . Questi dunque, che si trovano per induzione, non sono dati allo spirito umano dall' induzione che parte da' sensibili, ma immediatamente dall' Essere e Mente assoluta: essi sono i più noti per natura, rispetto poi a noi sono resi più noti dall' induzione (5): sono quelli che, nello stesso tempo, rendono possibile l' induzione stessa. Aristotele inoltre pone nell' uomo la mente come un' essenza eterna separata da tutte l' altre facoltà (6). Ma non si dà un' essenza eterna che non sia in atto: la mente dunque anche nell' uomo deve essere in atto (7), ed è in atto se intende sempre «ta prota». Laonde anche nell' universo, oltre esserci gli atti che vengono dalla potenza, c' è l' atto puro, ed eternamente vi si conserva, e quest' è la mente umana. Questa mente, in quant' è obbiettiva, è il primo intelligibile, Iddio; in quant' è subiettiva, è l' anima umana che tocca quel primo intelligibile di continuo, onde la chiama «synechestate» (1). E però l' uomo, se vive conformato alla mente, dice Aristotele, che è più che uomo; vive d' una vita divina (2). Questa mente che l' uomo ha immediatamente dall' intuizione del Primo motore (3) appartiene a quella che Aristotele chiama mente contemplativa. Ma il pensiero contemplativo d' Aristotele «dianoia theoretike» si estende troppo più, perchè abbraccia ogni atto di contemplazione che abbia per oggetto i puri intelligibili e non solo «ta prota». La mente dunque nell' uomo in senso obiettivo è identica alla Mente suprema; ma n' è diversa in senso subiettivo, in quanto che il subietto è l' atto stesso d' ogni anima intuente la forma dell' Essere. Così si spiega come Aristotele chiami or divina, ora anche Dio la mente nell' uomo, la faccia eterna, e quella che contiene il tempo e tutta la vita temporanea, e la chiami il fine di questa, come pure quella che contiene lo spazio , e come, con una maniera figurata tolta da' Pitagorici, collochi queste menti al di fuori di tutto il mondo cioè dell' ultima sfera, oltre la quale nega che ci sia più nè luogo nè spazio: [...OMISSIS...] . E alludendo a questa voce che viene da «aei» sempre quasi voglia dire sempiternità , prosegue a dire Aristotele: [...OMISSIS...] L' incorporeo dunque, impassibile ed eterno, quello che, come dice in appresso, è tutto, primo, e sommo al sommo (1), e che è il divino [...OMISSIS...] , questo è il fine dell' Universo [...OMISSIS...] , cioè l' ultimo atto a cui tende tutto l' Universo, e questo gode dell' ottima vita [...OMISSIS...] , la quale è la contemplativa, atto purissimo, [...OMISSIS...] (2). Essendo dunque quest' ultimo atto intellettivo, fine dell' universo, la Mente, questa ha un' esistenza fuori dell' universo mobile , ma è legata coll' universo rimanendo immobile, poichè esiste in tutti gl' intelligenti e nell' anime umane. Così, sebbene l' immobile sia congiunto col mobile, e quello che continuamente perisce coll' incorruttibile, tuttavia questo costituisce un genere diverso da quello, e poichè ogni scienza ha per oggetto un genere, l' universo mobile sarà oggetto della fisica , e l' immobile d' una scienza anteriore chiamata prima filosofia , perchè tratta de' primi che tutti si trovano nell' ente come ente. Chiama poi questa divina natura non solo fine del mondo (3) [...OMISSIS...] e primo [...OMISSIS...] (perchè il fine è anteriore di concetto e di essenza alle cose che tendono al fine), e contenente tutto il tempo delle cose periture, [...OMISSIS...] (perchè non si può concepire il tempo che è il numero del movimento, [...OMISSIS...] (4), senza presupporre una durata immobile ed eterna (5), la quale è propria dell' essere come puro essere); ma la dice anche tutto , [...OMISSIS...] , dove si scopre il panteismo aristotelico. E questo la dice non più considerandola come fine universale, ma come fine particolare di ciascun ente, come specie, forma o essenza specifica. Poichè tutte le forme , come vedemmo, sono essere, e però eterne e divine; ma non allo stesso modo dell' essere primo , perchè sono l' essere limitato, onde alcune cose hanno più, altre meno di essere e di vita, e questo tanto di essere e di vita si dice che viene dall' Essere primo prendendosi l' essere in senso assoluto, come essere; giacchè da ciò che è primo ed eccellentissimo in ogni genere Aristotele fa venir quello che è meno eccellente in quel genere, considerando la natura nell' anteriore e nel posteriore come identica. Le forme tutte dunque o specie sono quelle che chiama «analloiota, apathe,» e altrove «hapla, asyntheta, ameres» (1), e che ripone tutte sopra il Cielo, dove i Pitagorici riponeano i numeri, per indicare che sono immuni dallo spazio e dal tempo. Non essendo dunque la materia un chè, se non per la causa formale, e però l' essere delle cose essendo la forma o essenza specifica, e i nomi che si danno alle cose indicando le forme specifiche (2), tutto ciò che è qualche cosa, e di cui si parla, è forma; e però la natura dell' essere è detta «pan». Così la natura divina è tutte le cose dell' universo (3), e non fa maraviglia d' incontrare presso Aristotele una pluralità di Dei, essendovi una pluralità di forme e quindi di enti, benchè l' Ente primo ed assoluto sia uno e tutto, e si possa quindi chiamare l' unitutto. Così parlando delle antiche favole, egli non le riprende per aver posta una moltitudine di Dei, ma solo per aver fatti gli Dei simili agli enti naturali composti di materia e di forma, il che, dice, ripugna alla divinità. [...OMISSIS...] : il che è, secondo lui, quella parte di verità, che ci rimase dalle antiche memorie perite negli sconvolgimenti in cui più volte le arti e la filosofia sono perite e rinate (1). Vedesi chiaramente che il punto oscuro della filosofia Aristotelica è questo appunto, come Iddio, cioè il Dio supremo, abbia una natura identica a quella della mente umana, e di tutte le forme degli enti mondiali; e quindi e le menti , e le forme sieno veramente divine. Questo fu cagione che Aristotele fosse sempre accusato dagli antichi o di politeismo o di contraddizione (2). Aristotele censura appunto Platone di questo, che avendo sostituito la parola partecipazione a quella d' imitazione usata da' Pitagorici, nè questi nè quegli cercarono poi come gli enti s' informassero per via d' imitazione o di partecipazione delle specie (3). E accusa oltracciò Platone di non aver fatto uso se non di due cause, la materiale e la formale, quanto a torto l' abbiamo veduto, e d' aver fatto dipendere dagli elementi delle idee, che sono elementi di tutte le cose, il bene o mal essere di ciascun ente (4), quasi che non avesse fatto venire alle cose tutte ogni bene dal Bene essenziale, in che ripose l' essenza di Dio. Poco appresso poi confessa che posero in qualche modo anche la causa finale delle azioni, delle trasmutazioni e de' movimenti, e restringe la sua censura a dire, che la causa finale da lor posta non era atta a spiegare l' esistenza stessa e la produzione delle cose, ma solo le accidentali loro mutazioni (5). - Come dunque pretende Aristotele d' aver completata questa dottrina della causa finale? - Coll' aver posto l' attività istintiva nella natura, che non ebbe cominciamento, e aver fatto che questa attività, tendendo al fine , cioè all' ultimo e perfetto atto, conseguisse gli atti primi propri di ciascun ente, i quali atti primi egli disse essere le essenze specifiche. Accusa dunque Platone d' aver posta una materia e una forma inattiva, le quali essendo prive d' ogni principio di movimento non possono spiegare come gli enti si formino, e formati si generino (1). E crede che nulla si spiegherebbe se non si collocasse il principio del moto nelle specie stesse (2) e nella materia tendente alla forma. Riconosce nondimeno, oltre questo principio del movimento che è nella natura, la necessità d' un' altra causa, che è la finale, che per sè stessa nulla opera, ma è intesa, e appetita, e questa è in questo modo la causa delle stesse essenze o specie, la prima di tutte le cause, la causa delle cause, distrutta la quale tutto è distrutto, [...OMISSIS...] (3). Ora che cos' è che distrutto che sia, non rimane più nulla del resto? Aristotele dice, che quest' è l' Ente, e l' Uno (4), e lo stesso dicasi del Bene che coll' ente si converte. Qui c' è dunque in altre parole la dottrina di Platone, che faceva l' uno causa delle idee , e le idee cause dei sensibili (5), salvochè Aristotele non vuole che esistano idee de' sensibili separate ed immobili, ma solo in essi come loro forme e così aventi in sè, insieme colla materia, il principio del movimento (onde fa operative le forme anche nella mente dell' artefice per essere coerente a se stesso nel porre le forme attive); e fuori de' sensibili non pone che l' atto puro a cui tende come a fine la materia prima e ab aeterno s' informa (6), e tende la materia informata, quando è mossa da altri enti naturali già informati ossia in atto, a generarsi in altre forme. Quest' atto puro dunque corrisponde all' Uno di Platone, ma egli è motore come desiderato, e non è già l' essere indeterminato, ma l' essere, essenza, determinato, onde lo dice anche « « causa (formale) di se stesso » », [...OMISSIS...] (1). Ma quante difficoltà non involge questa maniera aristotelica di spiegare la partecipazione dell' essere ossia delle forme? - L' abbiamo veduto: replichiamolo, e aggiungiamo ancora altre difficoltà. - Il fine è l' intelligibile e l' appetibile: ma come dare alla materia bruta senza senso e senza intelligenza un appetito verso l' intelligibile e l' appetibile? (2) Non basta il distinguere il bene apparente dal bene vero: perchè anche quel primo deve apparire per essere appetito, e non può apparire a chi non solo è privo dell' intelligenza, ma anche del senso (3). - Di poi come identificare le forme delle cose inanimate o delle sensibili colle idee? Ed è pur necessaria questa identificazione nel sistema aristotelico, nel quale tutte le forme sono eterne e divine, e basta che si dividano, anche questo non si sa come, dalla materia, affinchè sieno per se intelligibili. Su di che già vedemmo che lo stesso Aristotele vacilla, e talora chiama la forma reale « « lo schema dell' idea » » (1), così ponendo tra essa e l' idea una distinzione simile a quella di Platone. - Ancora : come la forma nella mente dell' artefice può operare e non essere un puro esemplare, come vuole Platone? Anche rispetto a questo placito, necessario al suo sistema, affine di rendere le forme operative, vedemmo Aristotele esitante, e talora ritrarne il piede, ora dare alla specie la mente (subiettiva) per spiegarne l' azione, ora aggiungervi la forza, [...OMISSIS...] , ora mettere in dubbio che tali specie sieno veramente essenze. - In quarto luogo , o le specie delle cose naturali sono identiche colla prima e suprema essenza, il Motore immobile, o sono di diversa natura. Se sono identiche, essendo tutte una specie sola senza differenze, perchè si suppone che sieno molte e varie? Se sono diverse, perchè non si assegnano le cause delle loro differenze? E poi, come in tal caso compariscono? come comparisce una nuova natura diversa da quella del Primo motore, che non può dividersi in parti nè versarsi nella natura perchè non ha parti nè attività alcuna? come col solo appetirsi una cosa, s' acquista in parte quella cosa? E` per una virtù imitativa o appetitiva? Questo non si spiega, e in ogni caso, per imitazione (giacchè si ritornerebbe all' imitazione de' Pitagorici) non si prende nulla di reale dalla cosa imitata, ma s' assomiglia a quella, in modo che ciò che ha l' una solo convenga nella specie o nell' idea medesima. La similitudine in fatti è fondata soltanto in un comune concetto ossia in un universale , e non nella trasfusione di qualche parte della natura reale d' una in altra cosa (2). Ma in tal caso eccoci tornati agli universali per ispiegare la partecipazione delle forme , cioè ritornati al sistema di Platone. Di più Aristotele riconosce che molte cose reali diverse di numero sono identiche di specie, e molte specie identiche di genere, e tutt' i generi identici in quanto all' essere. Che cosa moltiplica di numero gli enti della stessa specie? La materia, risponde Aristotele. Ottimamente. Ma la forma che è in ciascuno, cioè la loro specie sostanziale (per fermarci a questa), tostochè è nella mente separata dalla materia, è una sola. Se è una sola, come può conservare la sua identità, moltiplicandosi gli enti reali che ne partecipano, ed essendo in ciascuno di essi? Poichè Aristotele dice: [...OMISSIS...] . Se dunque riconosce che nel concetto sono i medesimi, è dunque distinta la specie nella mente, che è il concetto e che è uno e comune, dalle specie reali che sono più e proprie di ciascun ente. Ci hanno dunque due maniere di specie, e le specie reali o imiteranno o parteciperanno delle specie mentali: siamo dunque ricondotti di novo alle specie platoniche, di cui i sensibili non sono che imagini: e la specie nella mente dell' artefice non sarà operativa, ma direttiva, e all' artefice converrà dare una potenza di imitarla nella sua opera distinta dalla specie, nè si potrà dire, che la specie della sanità nella mente del medico sia la sanità nell' ammalato (2), tanto più che Aristotele stesso è obbligato a confessare che la specie nella mente dell' artefice nulla patisce: che se nulla patisce, dunque nulla opera, perchè chi passa ad operare, patisce. Sia pure che gli universali esistano solo nella mente, il che Platone non contende. Rimane solo a penetrare l' intima unione che ha la mente dotata degli universali colle cose reali, a intendere che queste senza di quella non sono quali a noi appariscono. Se appariscono c' è entrata già la mente: ed essi nella mente nostra si ultimano appunto colla partecipazione che quivi essi fanno degli universali. Il che tanto più sarebbe stato facile ad Aristotele di vedere, in quanto ch' egli ama considerare gli universali come predicabili (e il predicare è un' operazione della mente), e fa che l' essere e sapersi, e il nominarsi delle cose venga dalla predicazione delle specie (3). Ma il nodo più duro a sciogliere nella dottrina d' Aristotele è quello della mente stessa che contiene gli universali. Poichè questa stessa è ella una o più? E se una, è una di specie o anche di numero? E se è una mente sola di specie, ma molte di numero, anche le menti dunque hanno una specie comune , l' idea della mente, che dev' essere anteriore alla mente, perchè distrutta la mente non è distrutta con questo la sua specie e possibilità, ma sì viceversa. Ora, che la mente sia una per Aristotele, pare indubitato; se poi la faccia una di numero o di specie, noi cercheremo in appresso. Agli argomenti che abbiamo addotti per provare che Aristotele ammette una sola natura mentale, aggiungiamo i seguenti: 1 Aristotele dice, che senza ammettere una moltiplicità di materie, non si potrebbe spiegare la moltiplicità degli enti, perchè la mente è una, [...OMISSIS...] : onde se essendo unica la mente ci fosse stata una sola materia senza differenze intrinseche, da queste due cause non s' avrebbe potuto avere, che un ente solo (1). Il quale argomento non avrebbe valore se ci potessero essere più menti o di numero o di specie diverse. In fatti più menti diverse di numero colla stessa materia avrebbero cagionato almeno più individui: più menti diverse di specie anche diverse specie di enti. Attribuisce dunque puramente alla diversità delle materie, e quindi alla diversa forza e natura del loro appetito il giungere a forme diverse . Tutte queste dunque non possono essere che una limitata imitazione della prima ed unica mente, secondo la diversità delle materie aventi varie potenze e capacità di giungere all' atto. 2 Aristotele ammette tre sole sostanze: due sensibili, delle quali l' una, quella de' cieli, incorruttibile, l' altra, la terrestre, corruttibile, la terza è la sostanza immobile: le due prime sono l' oggetto della fisica perchè hanno movimento, l' ultima della filosofia prima, perchè immobile e non avente alcun principio comune colle due prime (2). A quest' ultima appartiene la mente. Non è dunque distinta di natura la mente suprema, e quella dell' altre intelligenze: egualmente si contano come la terza sostanza. Questo ben dimostra per lo meno che Aristotele era lontano dall' intendere quanto la natura divina si dipartisse dalla natura finita della mente umana, colla quale non può nè manco aver nulla di comune nè specie nè genere. Nello stesso tempo apparisce come questa comunità o identità di sostanza, ch' egli dà alla mente divina ed alle umane, riguardi la mente in senso obiettivo. Poichè a quella scienza che tratta della sostanza immobile, cioè della mente, altrove attribuisce per oggetto « l' ente come ente ». La mente dunque è l' ente, cioè l' oggetto primo del conoscere; e si divaria soltanto pe' diversi subietti, a cui è unita, come meglio diremo in appresso. 3 Finaente in atto non può esser che una di numero. Poichè questo è uno de' suoi più costanti principŒ che tutto ciò che è moltiplice di numero ed uno solo di specie ha materia, [...OMISSIS...] , col qual principio vuol anco provare che un solo è il Primo motore e un solo il cielo ch' ei move. Ora la mente in atto è priva al tutto di materia. C' è dunque una sola mente in atto? (1). Dal qual luogo si trae certamente questa conseguenza, che la mente è, e non può esser altro che una specie sussistente avente il finimento di sè in se medesima. Ma come si concilia l' esistenza di questo supremo Motore unico di numero, coi motori inferiori, che sono anch' essi menti pure intelligibili ed appetibili, che eccitano i movimenti diversi alle sfere ed agli astri? Si dovrà probabilmente dire, che sono altrettante specie diverse, ciascuna sussistente ed una di numero. Ma in tal caso non avranno comune il genere? Non si può evitare: ed egli pare che, secondo Aristotele, il convenire solamente nel genere non impedisca che la specie subordinata possa esser una di numero, ultimata e sussistente senza materia: poichè la specie, essendo atto, non ha materia. In questo caso la specie non determina e informa alcun subietto materiale, ma è ella stessa la propria forma ed essenza. Tale credo la sentenza d' Aristotele. Ma con ciò non si sfugge ancora la difficoltà. E nel vero ammesso un genere comune, non sarà questo anteriore alle menti, secondo il principio dello stesso Aristotele che [...OMISSIS...] ? (1). Aristotele dirà forse, se non nell' ipotesi che il comune sia separabile ed abbia un' esistenza da sè, non se esiste soltanto nella mente: e dico forse, perchè in certi luoghi par che ammetta quel principio del comune qualunque sia. In fatti, tutto ciò in cui si può osservare una natura comune e una natura propria, tolta quella, questa non si concepisce più, sia la natura comune separabile o no. Ma si ammetta l' eccezione, s' urta in un altro scoglio. Se più sono le menti, ciascuna è una specie, ed hanno un' idea generica comune, in tal caso dov' è quest' idea? Nelle menti stesse, perchè non esiste separata. Se nelle menti soltanto, dunque quest' idea si moltiplica come le menti, avendo ciascuna la propria. Se ciascuna mente vedesse la stessa idea, quest' idea unica dovrebbe esistere separata dalle menti molteplici, contro il supposto. Se molte idee generiche uguali sono nelle menti, queste stesse idee hanno tra di loro qualche cosa di comune. Se hanno qualche cosa di comune, ritorna lo stesso ragionamento, che ci conduce ad una serie d' idee all' infinito, cioè all' assurdo. Non c' è verso d' uscirne: a meno che non si faccia ritorno al sistema di Platone che fa le idee separate dalle menti umane e create, ma esistenti tutte nella mente del sommo Artefice. Ora Aristotele non ci può ritornare senza rinunzia al proprio sistema, anche per un' altra ragione. Secondo lui, è indegno di Dio, che questi conosca le cose umane: appartiene alla sua perfezione che il suo oggetto sia puramente l' ottimo, cioè se stesso. D' altra parte, non essendo da lui create l' altre cose esistenti, ma a lui coeterne, operanti col proprio impulso, benchè con questo tendenti a lui; egli non potrebbe avere le idee distinte delle cose che sono al tutto così fuori di lui. Vediamo nondimeno dove ci conduca questo strano e insufficiente, ma ingegnoso sistema. C' è una serie d' intelligibili tutti eterni: il primo di questa serie è Dio, gli altri sono sparsi per tutto l' universo e lo compongono. Il primo intelligibile separato e sussistente contiene gli altri non distinti, ma in un modo eminente: è l' essere, e nell' essere si contiene ogni cosa che è. Gli intelligibili che sono nell' universo lo costituiscono, perchè tali intelligibili sono le forme , senza le quali non sarebbe l' universo; chè le forme danno alla materia l' essere qualche cosa, e però sono cause del suo essere (1). Gl' intelligibili uniti alla materia non sono intelligibili per sè. La materia è potenza, l' intelligibile è atto. Ma fino a che la materia è potenza, l' intelligibile non è puro atto, e però non è intelligibile se non potenzialmente. L' atto puro è per sè intelligibile. Come tutti gli enti tendono all' atto, tutti tendono a divenire intelligibili per sè. Vi riescono quelli soli che arrivano col loro movimento ad uscire dalla loro potenzialità, il che è quanto dire riescono a spogliarsi totalmente della materia, e allora sono costituiti in atto puro, separato ed immobile. Quando l' intelligibile è divenuto in questo modo puro atto, allora non è solo intelligibile per sè, ma anche intelligente (2). La ragione poi per la quale non tutti gli enti arrivano a quest' atto puro è perchè la materia ossia la potenzialità prossima è diversa: il liquor seminale è la materia prossima che ha la virtù, ricevendo il movimento de' generanti, di pervenire a quell' atto che costituisce l' anima umana, di cui la parte più elevata è la mente. Ho detto che l' intelligibili sparsi nella natura, quando giungono a liberarsi dalla materia e divenire atto puro, diventano intelligibili in atto e intelligenze. Questa sentenza deve esser ricevuta entro certi confini. Aristotele riduce gl' intelligibili ossia le specie alle dieci categorie. Ma avverte, che la sola specie sostanziale può essere spinta ad un atto che si costituisca da sè, e che meriti il nome di entelechía, ossia specie che ha il proprio finimento in se medesima (3), quando le altre specie non sono che per la sostanza e però hanno un' esistenza accidentale che talora Aristotele paragona al non ente (4). Laonde le sole specie sostanziali sono eterne nella natura, e se una di esse non ci fosse stata ab aeterno, o si potesse distruggere, non potrebbe più essere rinnovata (5). All' incontro le specie accidentali non è necessario che sieno eterne in atto nel mondo, bastando che ci sieno in potenza, per esservi poi attuate dalla specie sostanziale in cui sono. Quindi ancora la specie sostanziale è il massimo intelligibile (6). Quando dunque una specie sostanziale perviene ad un atto puro in cui si libera dalla materia, allora diventa intelligibile e intelligenza, e questo accade nella generazione umana rispetto all' anima che è la specie del corpo, anzi solo rispetto a quella parte dell' anima che è del tutto pura da ogni contagione di materia, e quest' è la mente umana. Per arrivare a quest' atto ella deve spingersi fino all' intuizione dell' essere formato, che è la mente obiettiva. In fatti tutte le cose si conoscono coll' essere e col non essere (1); ma il non essere non è che la remozione dell' essere ed è a quello posteriore tanto in sè, quanto nella nostra cognizione. Ed essendo l' essere e il non essere i due termini del principio di cognizione, perciò nulla possiamo conoscere senza questo principio, da cui il vero ed il falso (2). Di questi primi termini dunque, secondo Aristotele, è la mente. La mente umana dunque è la più eccellente tra le specie sostanziali che quaggiù si trovino, la quale, uscendo dalla potenza all' atto, giunse fino a toccare il primo e supremo intelligibile, l' essere, giacchè la mente conosce toccando, [...OMISSIS...] (3). E però la mente è fine dell' universo, e termine dell' ente che la possiede (4). La mente obiettiva dunque viene all' uomo dal di fuori ed è comune a tutte le menti; la subiettiva poi è nella natura, e si svolge da una specie in potenza che perviene fino all' atto della pura intuizione. Ma questa è una specie sostanziale , in cui le specie accidentali inesistono. Queste non sono necessarie alla sussistenza di quella: ma solamente possono essere in quella. Gl' intelligibili, che la mente umana va acquistando sono appunto queste sue specie accidentali; e come la specie sostanziale ha tutte le accidentali in potenza, così pure la mente umana ha in potenza tutti gl' intelligibili sparsi nella natura, e però convenientemente ella si chiama, «topos eidon», e «eidos eidon» (5). Quindi la mente dà connessione e unità alla natura raccogliendo in sè in potenza e alcune volte in atto tutte le forme dalla natura, ond' è chiamata «aion syneches» e «taxis» (6), pensiero che Aristotele prese da Anassagora (7). Ma pretende Aristotele che Anassagora non conoscesse la mente se non come causa motrice, e d' aver egli perfezionata la teoria coll' averla conosciuta per causa finale, con che solo s' evita che la natura del mondo sia come una serie d' episodi staccati, come la fanno i sistemi precedenti, [...OMISSIS...] (1). Ed ora ci sembra di potere stabilire la principale differenza tra la mente suprema e l' altre menti. La mente in senso obiettivo è a tutte le menti identica e comune. Ma questa mente obiettiva è in se stessa anche subiettiva, di maniera che l' essere inteso, e l' essere intelligente è il medesimo: quest' è la mente suprema che in eterno contempla se stessa. All' incontro rispetto all' altre menti l' obbietto non è il medesimo che il subietto; ma il subietto è posto dalla natura dell' universo che passa dalla potenza a quell' ultimo atto, pel quale contempla la mente obiettiva. Questo mi sembra essere dichiarato da Aristotele stesso nel libro XII, 9 de' « Metafisici ». Lo scopo di questo capo è dimostrare che la dottrina d' Anassagora non è sufficiente, cioè non basta porre la mente, come faceva questo filosofo nella natura, qual causa del mondo e della sua connessione, [...OMISSIS...] , ma che conveniva oltracciò ammetterla separata e indipendente da tutta la natura, come causa finale , a cui tende incessantemente la stessa natura. « « Sembra, dice, che tra gli apparenti ci sia uno divinissimo » » (2): questo divinissimo degli apparenti è la mente d' Anassagora insita nella natura, benchè immista. Mostra dunque che qualunque mente si ponga nella natura, ella sarà imperfetta e insufficiente. Poichè si prenderanno per mente, o sia per divinissimo, le specie di cui ogni ente anche inanimato è fornito? In tal caso questo divinissimo sarà dormiente: non intenderà nulla; e allora come può essere cosa oltremodo eccellente? (3). Si prenderà per divinissimo la mente umana? In tal caso abbiamo una mente che intende, ma il cui oggetto essenziale non è identico con essa. Dunque ella sarà di sua natura in potenza, e passerà all' atto per la virtù del suo oggetto: dipende dunque da questo, e questo è ad essa superiore se le dà l' atto: essa non è ancor dunque l' essenza ottima (1). [...OMISSIS...] . Il che pure è detto contro Anassagora che unendo la mente a tutta la natura, faceva che conoscesse tutte le cose naturali (3) e anche il male. Dalle quali cose conchiude Aristotele che la Mente suprema e perfettissima deve: 1 esser sempre nell' atto della contemplazione; 2 quest' atto deve avere per oggetto l' ottimo; 3 quest' ottimo deve esser ella stessa. [...OMISSIS...] All' incontro la mente umana, che è l' ultimo atto, l' ultima specie sostanziale a cui può giungere la natura: 1 Nascendo per un passaggio di ciò che è in potenza a ciò che è in atto, non è ella stessa il proprio oggetto, l' oggetto [...OMISSIS...] , la mente obiettiva, e però questa le viene dal di fuori, come quella che essendo eternamente scevra di materia, non può venire dalla natura; 2 Quindi la mente subiettiva dell' uomo è unita a un altro più eccellente di sè, [...OMISSIS...] abitualmente, e però si chiama da Aristotele abito, [...OMISSIS...] (5), e quindi ha bisogno d' uscire all' atto della contemplazione, rispetto al quale è in potenza (6); 3 Quindi accade che per poco tempo (1), e con fatica (2) la mente subiettiva dell' uomo si mantenga nell' atto della contemplazione, laddove la mente perfetta contempla se stessa immobile tutta l' eternità, [...OMISSIS...] (3); 4 La mente umana uscita dalla natura come specie sostanziale pervenuta allo stato d' entelechia , non avrà per suo oggetto solamente l' ottimo, ma altre cose ancora che sono le specie della natura, le quali ella acquista coll' induzione, separandole dalla materia, che così diventano sue proprie specie accidentali, ond' ella è detta specie delle specie. E qui ha luogo la distinzione tra la mente fattrice , [...OMISSIS...] , e la mente fattibile , ossia in potenza ad esser fatta, [...OMISSIS...] , di cui parla Aristotele nel III, 5 dell' « Anima », e finalmente la mente passiva, [...OMISSIS...] , che non si deve confondere colle due prime, benchè la brevità, con cui ne parla Aristotele, non nominandola che una sola volta, abbia fatto credere universalmente ai commentatori, che la mente in potenza e la mente passiva sia la medesima. Ma se si distinguono, la dottrina acquista chiarezza. In fatti supponendo che l' anima umana in cui è la mente sia giunta all' intuizione dell' essere (Mente suprema, in senso obbiettivo); 1 Quest' intuizione o vista dell' essere è la mente attiva , perchè vedendo l' essere conviene che per la stessa ragione l' occhio dell' anima veda tutto ciò che le si presenta come essere. La mente subiettiva dunque dell' uomo è attiva alla foggia degli abiti. 2 L' essere stesso intuito, è quello che può essere variamente determinato e circoscritto, e quindi può divenire tutte l' altre specie, e questo è la mente in potenza . 3 Queste due menti esistono nell' uomo tostochè è costituito. Ma quando la mente in potenza, cioè l' essere , viene determinato mediante i sentimenti, e la mente in atto cioè la vista intellettiva e subiettiva dell' anima vede le specie ne' sensibili, allora ella acquista tali nuove specie, e queste costituiscono la mente passiva . Quindi la sola mente passiva perisce, secondo Aristotele, colla morte dell' uomo, e non si conserva la memoria delle specie acquistate, perchè queste si vedono nelle sensazioni e nelle immagini che sono sottratte all' anima insieme all' organo corporale di cui abbisognano (1). All' incontro non perisce nè la mente attiva, nè la mente in potenza, benchè rimangano senz' azione, e ciò perchè sono la stessa mente innata. E veramente, che quando Aristotele nomina come peritura [...OMISSIS...] , intenda le specie acquistate coll' uso dei sensi per induzione, vedesi chiaramente dall' unirla alla memoria , che suppone tali specie già acquistate. All' incontro che la mente tanto fattrice quanto fattibile ossia in potenza, si conservi separata dal corpo, si può provare così. Tutti i commentatori sono d' accordo nell' ammettere immortale la mente fattrice od agente: basta dunque per noi provare che sia immortale anche la mente fattibile, ossia in potenza. Questo poi si prova dalla qualità che attribuisce Aristotele d' impassibile , e però priva di memoria, [...OMISSIS...] , tanto alla mente fattrice, quanto alla mente in potenza. Ora nel III, 4 dell' «Anima » cerca come si produca il conoscere [...OMISSIS...] . Cercare come si produca il conoscere è lo stesso che cercare come si produca la mente passiva . Ma per dichiarare questo, conviene: 1 stabilire qual sia la mente anteriormente al conoscere; 2 qual sia la mente dopo acquistato il conoscere. La mente anteriormente al conoscere non è solamente la mente fattrice che fa il conoscere, ma anche la mente fattibile cioè in potenza a conoscere. Dice dunque che questa mente, che non ha ancora ricevuto le specie « deve essere impassibile, suscettiva delle specie, e che sia queste specie in potenza »(2). Qui parla chiaramente della mente ancora in potenza. E dice che questa è la mente d' Anassagora senza mistura di sorta, [...OMISSIS...] . Onde dice, che la sua natura è puramente il possibile (3), non avendo ancora niuna delle specie naturali in atto, ma solo il possibile, che è quanto dire l' essere possibile , che la rende capace di ricevere tali specie. Questa è quella mente, con cui l' anima pensa e percepisce, [...OMISSIS...] : onde evidentemerice e fattibile , e che è una stessa ed identica mente, anteriore all' acquisto delle specie naturali, che poi formano la mente passiva . Questa mente dunque fattrice e fattibile non si mescola al corpo, e però non ha bisogno del corpo per sussistere, e non è ancora le forme se non in potenza, [...OMISSIS...] , onde la chiama il luogo delle forme (1). E prova che questa mente in potenza è separata di natura dal corpo per la differenza che passa tra essa e il senso, il quale dipendendo dall' organo s' istupidisce se sente qualche cosa di troppo forte, la mente all' opposto s' avvalora col fortemente conoscere (2), perchè è ella stessa l' intelligibile in potenza, e diventa poi l' intelligibile in atto. Si fa ancora la domanda perchè la mente non pensi sempre, e l' attribuisce all' essere le specie unite colla materia, onde il pensiero intermittente, di cui parla Aristotele, è quello che si riferisce alle cose sensibili e materiali. Intorno a queste, dice, non pensa sempre perchè ell' ha bisogno di fare un' operazione per arrivare a pensare queste specie, ha bisogno di separare le specie dalla materia perchè la mente se le approprŒ (3). Ma per ciò che riguarda la mente stessa, ella si intende sempre e tuttavia alla condizione dell' altre cose: poichè tutte le cose s' intendono a condizione che siano senza materia, semplici, immiste. Ora la mente è tale per sè e, appunto perchè tale, rende anche l' altre cose scevre di materia e così intelligibili (4). Dunque ella si conosce sempre, e questa mente conosciuta è la mente in senso obiettivo, il possibile, [...OMISSIS...] . C' è dunque sempre un atto nella mente, ed è con quest' atto primo e sostanziale che fa tutto il resto, [...OMISSIS...] , ed è come abito a guisa del lume, [...OMISSIS...] . Poichè come il lume, essendo in atto, rende colori in atto i colori che sono in potenza (5), così la mente fa delle specie che sono ne' sensibili e nelle cose materiali. La mente in potenza dunque si riferisce a queste specie, ma ella in se stessa è in atto, e però rispetto a sè è mente teoretica o contemplativa, di cui si può dire che l' intelligente e l' inteso sia il medesimo, [...OMISSIS...] . E` dunque la stessa mente quella che è in atto e quella che è in potenza: poichè è in atto rispetto a se stessa ed è in potenza rispetto alle specie che sono unite colla materia negli enti naturali (1). Aristotele si fa delle obbiezioni, che servono non poco a render chiara la sua mente, alle quali dà certe risposte, di cui non fu bene intesa generalmente la forza. Avea detto, che la mente è semplice, impassibile, e non ha nulla di comune coll' altre cose, [...OMISSIS...] , secondo la sentenza d' Anassagora: come dunque ella intende, domanda, se pensare è un certo patire, chè, solamente in quanto c' è qualche cosa di comune in ambedue i termini, l' uno sembra agire e l' altro patire? (2). Oltre ciò, essendo l' intelligibile uno di specie, o che è ella stessa la mente questo intelligibile o che questo intelligibile è diverso da essa e si trova nelle cose naturali. Se è ella stessa l' intelligibile, convien dire, che quando intende l' altre cose, ella stessa sia nell' altre cose, il che è assurdo: se poi l' intelligibile è diverso da lei, in tal caso ella sarà mista e dovrà semplificarsi prima d' essere intelligibile (3). Risponde Aristotele a queste difficoltà, che l' intelligibile è nella mente stessa, [...OMISSIS...] , e che l' intelligibile, essendo al tutto privo di materia, non può rendere mista la mente; che si dice, che la mente intendendo patisce, unicamente perchè l' intelligibile è in essa in potenza, e quando esce all' atto è ella medesima (4). Onde tra ciò che sembra agire, cioè l' intelligibile, e ciò che sembra patire, cioè la mente, non solo c' è qualche cosa di comune, ma c' è identità, che è l' identica mente quella che è in potenza, e quella che poi è in atto. Non patisce dunque dalle cose esterne, ma da se stessa (dalla mente in senso obiettivo), se questo si vuol dir patire: e da questo non procede, che la mente subiettiva sia nelle cose esterne, poichè nelle cose c' è la materia, e però in esse l' intelligibile è solo in potenza. Se quest' intelligibile nelle cose è una specie sostanziale tale, che giunga a spogliarsi della potenza e divenire entelechia, come nella generazione umana, in tal caso egli diventa mente, e questa mente o entelechia è « « la potenza priva di materia di tutte l' altre specie che sono nelle cose » » [...OMISSIS...] (1). Dal qual luogo vedesi la connessione che pone Aristotele tra la mente umana, e le specie che sono negli enti composti di materia e di forma. Una di queste specie sostanziali diventa mente ed ha in potenza tutte le altre. All' occasione delle sensazioni, le altre specie che ha in se stessa in potenza, si attuano, e così s' arrichisce di cognizioni. Le specie dunque nelle cose sono identiche a quelle nella mente (2), e sono contenute nella mente come in una specie maggiore che è in atto, quasi accidenti della medesima, i quali possono essere in potenza e passare all' atto: « « l' intelligibile dunque propriamente è uno di specie » », [...OMISSIS...] , il che è quanto dire, è una specie sola, che abbraccia l' altre come sue attuazioni accidentali, e questo intelligibile unico è la mente, che «to auto esti to noun kai to noumenon». Così è perfettamente congiunta la mente colla natura delle cose mondiali: il che tuttavia non rimove le gravi difficoltà, che abbiamo già indicate. La mente dunque è di natura sua teoretica cioè contemplatrice; questa mente poi quando si considera in relazione all' altre specie che sono miste di materia e di forma, dicesi da una parte fattrice o agente in quanto ha virtù d' attuare in sè le specie naturali scevre di materia, all' occasione delle sensazioni, e dicesi mente in potenza , in quanto ha queste stesse specie in potenza; dicesi poi mente passiva , in quanto ha attuate già in sè queste specie e le conserva in atto, la qual conservazione dicesi memoria: e questa è quella che perisce, rimanendo la mente teoretica, e anche la fattrice e la fattibile, ma senza più operare, mancando le sensazioni, onde dice «kai aneu tutu uden noei». Questa mente passiva poi è atto, quando le cognizioni sono acquistate, ma quest' atto non è continuo, ma abituale, e però ritiene ancora della potenza; può però passare alla contemplazione per un certo tempo e in que' momenti ella stessa è mente contemplativa (3). La prima mente dunque, fondamento dell' altre, è contemplatrice o teoretica. Ma che cosa contempla? Aristotele risponde: il principio, senza il quale non si può conoscere nessun' altra cosa, e questo è l' essere. Questo dunque, e ciò che in lui si trova, «taa prota», è il più noto per natura, ma, dice, non il più noto rispetto a noi; con che non vuol negare, come abbiamo osservato, che si conosca da noi anteriormente a tutte l' altre cose, ma nol conosciamo da prima colla mente passiva e riflessa, e quindi quella cognizione immediata, priva di coscienza, non ci soddisfa, non pare cognizione nostra, e non è cognizione scientifica (1). Questo principio dunque di contemplazione che ha l' anima dell' eterna e prima essenza rispetto alle specie mondiali è l' attività conoscitiva, e così acquista la denominazione di mente fattrice, e poichè queste forme le ha in se stessa virtualmente comprese nel suo oggetto essenziale, acquista pure la denominazione di mente in potenza, o quando le ha già ottenute in atto, acquista finalmente quella di mente passiva o patetica. Tutto il sapere dell' uomo, quello che lo rende atto a far uso delle cose mondiali, ed a riflettere anche sopra se stesso, sta in quest' ultima, e però Aristotele s' applica a dichiarare la formazione della mente passiva, e di questa dice che nella vecchiezza perviene alla sua maturità (2). Osserva dunque che sebbene la mente sia la specie eccellentissima di tutte pervenuta a costituirsi come atto, entelechia, tuttavia ci sono delle altre specie sostanziali nella natura che arrivano ad attuarsi per via di generazione, il cui atto però non essendo ultimo, non hanno la natura di menti. Questi atti costituiscono una certa gerarchia di basso in altro, e i loro principŒ moventi sono quattro, [...OMISSIS...] (3), cioè il vegetativo o nutritivo (4), l' appetitivo (5), il sensitivo, il motivo di luogo. Le quali specie sostanziali sono così connesse tra loro, che sebbene possano attuarsi in diversi enti, tuttavia le susseguenti non possono trovarsi scompagnate dalle precedenti. Nell' uomo poi nel quale c' è la specie ultima cioè la mente, conviene che ci sieno pure quelle quattro specie anteriori e d' inferiore eccellenza, e nascendo la generazione dall' imperfetto al perfetto, dalla potenza all' atto, conviene altresì che ultima sia la mente a comparire in atto, e che questa anche possa sopravvivere alle altre: chè questa è il fine di quelle, e il fine altresì di tutta la natura (1): ma esistendo la mente nell' uomo, questa deve ridurre in se stessa in atto le specie della natura e così rendersi mente patetica. Per questo appunto accade, che tutte quelle quattro specie sostanziali, il vegetale, l' appetitivo, il sensitivo, il motivo di luogo, sieno parti della stessa anima di cui è la mente. La mente essendo nella stessa anima, e in senso subiettivo formando un chè uno col sensitivo, raccoglie da questo gli intelligibili, al sensitivo poi serve e la parte vegetale e l' appetitiva. Come poi la mente raccolga tali intelligibili per induzione, fu da noi veduto. La mente subiettiva dunque nell' uomo, essendo diversa da' suoi proprŒ intelligibili, ha bisogno d' acquistarseli, nel modo detto, laddove la mente suprema, essendo ella stessa come subietto il suo proprio intelligibile, non ha punto bisogno di ciò. E dico i suoi proprŒ intelligibili ; perchè la mente umana, uscita dalla natura, si tiene, fino che l' uomo vive, subiettivamente radicata nella natura per mezzo dell' altre parti dell' anima, e così è naturalmente ordinata a raccogliere tutte le specie naturali, che ha in sè e di cui è essa il contenente, cioè a dire ad attuarle in sè medesima. Iddio all' incontro è pienamente beato di se medesimo, e quest' unico intelligibile continuamente e perfettamente da lui contemplato è tanto eccellente che tutte le specie mondiali lo deteriorerebbero se vi si mescolassero, come mescolandosi l' imperfetto col perfetto questo si deteriora. Ma la mente umana, secondo Aristotele, non attinge il sommo intelligibile, se non con languidissimo sguardo. « « Poichè, dice, come gli occhi della nottola sono al lume del giorno, così la mente dell' anima nostra a quelle cose che per loro natura sono manifestissime fra tutte »(2) », e alla sua vita naturale ha bisogno di conoscere le specie della natura, e per questa via non solo acquistarsi le scienze naturali, ma ben anco rendere a se stessa più note quelle cose, che per natura sono manifestissime, ma a noi visibili appena: « « poichè l' apprendere ha luogo così in tutti, mediante le cose che sono meno note, a quelle che sono più note »(3) », e ciò per difetto del nostro occhio e non per difetto d' evidenza nelle cose (4). Quando poi Aristotele parla della mente data all' anima come strumento col quale possa formarsi la scienza, non può intendere che della mente insita nella costituzione dell' uomo; quando parla della mente pienamente generata soltanto nella vecchiaia, è evidente che egli intende della mente acquisita o patetica (1): onde conviene che quella si distingua da questa: della prima dice che è de' soli principŒ, che riduce egli stesso a un primo intelligibile, della seconda dice che è di tutti gl' intelligibili, [...OMISSIS...] la prima ha per oggetto «ta te physei phanerotata», la seconda «panta noei»: la prima è lo strumento dell' anima [...OMISSIS...] , la seconda è l' effetto prodotto dall' uso d' un tale strumento ed è ella stessa tutte le specie naturali in atto: la prima è la tavoletta su cui si scrive, la seconda è le cose scritte (2): anche la tavoletta è in atto come tavoletta, ma non è ancora le cose scritte, così la mente è la prima e l' ultima (3). Adunque tra il primo stato della mente, priva delle specie mondiali e fornita solo d' un primo atto che contiene in potenza tutti gli altri, e che perciò è «dynamei ta eide,» e l' ultimo stato in cui ha acquistate queste specie in atto, c' è la disciplina [...OMISSIS...] , che è come la generazione nelle cose naturali, media tra una entelechia e l' altra. L' atto poi con cui si fa questa disciplina è il pensiero, [...OMISSIS...] , che è pratico, o fattivo o teoretico (4). Il pensiero pratico è il principio delle azioni umane, e circa lui più abiti si distinguono ne' libri morali (5): al pensiero fattivo appartiene l' arte (6): l' uno e l' altro di questi pensieri non sono delle cose necessarie, ma delle contingenti (7); ma l' arte è sempre del vero, la pratica poi del bene e del male (.). Oltre l' arte, versa intorno al vero la prudenza e la sapienza (9), ma i due abiti che hanno per oggetto il vero necessario sono la scienza e la mente . Questa somministra a quella i principŒ; quella movendo da questi principŒ ragiona, cioè deduce le conseguenze, e dimostra, chè la scienza è una cognizione dimostrata (1), laddove la mente è una cognizione intuitiva de' principŒ. Questi principŒ si raccolgono coll' induzione (2), ma questi non si potrebbero raccogliere se non ci fosse prima il luogo dove raccoglierli [...OMISSIS...] , la tavoletta, [...OMISSIS...] , dove scriverli. Questo luogo è in atto come luogo, e questa tavoletta è in atto come tavoletta, e tale è la mente in atto, che Aristotele dice essere data all' uomo da Dio stesso, come uno strumento con cui procacciarsi coll' induzione e col raziocinio tutte le specie della natura (3). Questa raccolta delle specie naturali fatta dall' anima coll' organo della mente, per via dell' induzione e del raziocinio, dopo aver prodotte le scienze naturali, perviene alla filosofia prima, cioè alla dottrina de' principŒ: ritorna dunque ond' è cominciata, e poichè questi stessi principŒ si chiamano mente da Aristotele, perciò il principio e il fine dell' opera è la mente, ma il principio è la mente insita per natura nell' anima, e il fine è la stessa mente convalidata dal lungo esercizio (4). L' una e l' altra è de' principŒ; ma la prima è intuizione de' principŒ senza riflessione, la seconda de' principŒ conosciuti con riflessione e consapevolezza; la prima ha un solo principio in atto e gli altri in potenza, il più universale di tutti, l' essere; la seconda ha molti principŒ in atto, e non solo i primi, ma per principŒ Aristotele intende anche tutte le essenze specifiche prive di materia, che sono principŒ degli enti naturali composti di materia e di forma (5). Distingue dunque la mente in due, [...OMISSIS...] . Il qual luogo, non dee già intendersi che la mente sia lo stesso senso de' singolari, ma che sia un senso che raccoglie le specie ultime , che noi chiamiamo specie piene, o le specie astratte (non generi ancora) (2). Per riassumere adunque, gl' intelligibili sono sparsi nella natura mondiale, congiunti alla materia, cioè alla potenzialità, che è quanto dire non pervenuti all' ultimo atto, che da intelligibili in potenza li renderebbe intelligenze. Ma cotesti intelligibili sparsi nella natura sono limitati più o meno, e niuno di essi è intelligibile illimitatamente e pienamente. La natura dunque mancherebbe del suo comignolo e la serie degl' intelligibili mancherebbe del suo primo, se non ci fosse uno intelligibile in atto perfetto e illimitato senz' alcuna potenzialità di sorte. Questo intelligibile primo non può a meno d' esistere necessariamente, perchè ciò che è perfetto atto, è, per la stessa definizione, esistente, essendo il medesimo atto ed essere: ed esiste separato e da sè, appunto perchè non dipende da alcuna potenza e materia. Egli non è la natura, per la stessa definizione, essendo « « la natura ciò che ha potenza e movimento » ». Quest' intelligibile puro e perciò pura intelligenza è Dio, e non può avere altra natura ed essenza che quella dell' essere puro , poichè se qualche altra cosa gli s' aggiungesse sarebbe dipendente, e avrebbe potenzialità e materia o limitazione. Fino a che la natura non giunge a toccare questo puro intelligibile, niente in essa e è condizione dell' intelligenza, ossia della mente, d' essere un atto privo al tutto di materia (3), e quest' atto non essendo che Iddio, la natura deve pervenire a toccare Iddio, acciocchè s' approprŒ quell' atto purissimo e attualmente intelligibile , e così anch' essa diventi intelligenza, poichè coll' avere in sè ciò che è attualmente intelligibile non può a meno d' intendere. Essendo quest' intelligibile per sè l' essere , la mente è formata dall' essere. Ora quest' ultimo atto della natura c' è sempre stato (1), e per mezzo della generazione umana si perpetua. Ma l' anima umana non tocca quest' atto che imperfettamente, e non essendo ella stessa quest' intelligibile in atto, da lui dipende come da un principio maggiore, e si distingue colla sua subiettività dal suo obietto essenziale, che le serve di strumento agli altri suoi atti. Così Aristotele dice, che Iddio ci dà la mente (2). Infatti conoscendo l' essere si possono conoscere tutte l' altre cose in esso contenute, ma senza l' essere, niente si può conoscere, perchè tutto è essere. Laonde Aristotele fa dipendere le verità dalla prima, come gli esseri dal primo essere. [...OMISSIS...] E qui già si scorge meglio la conciliazione tra ciò che dice dell' universale e ciò che dice del singolare. Poichè dopo avere esaltato questo sopra di quello e aver detto che in questo solo si deve cercare l' atto compiuto, involgendo quello imperfezione e potenza, sembra che in alcuni luoghi cangi il discorso e magnifichi sopra tutto l' universale. La conciliazione è questa. Iddio primo principio è l' essere sussistente. Questo è subiettivamente singolare. Ma l' uomo lo tocca obiettivamente, come primo ed assoluto intelligibile e questo tocco forma la mente innata: il tocco però è debolissimo e dà una languidissima e abituale notizia dell' essere, non sufficiente all' uomo nella sua vita terrena. L' essere così conosciuto è la mente in senso obiettivo e lo strumento, ovvero organo dato all' uomo con cui conoscere l' altre cose (1). Con questo dunque l' uomo dee acquistarsi la scienza propria di lui, cioè dee raccogliere gl' intelligibili sparsi nella natura (2). I quali intelligibili separati dalla materia (3), sono gli universali; e senza questi non si dà scienza (4). Questi poi sono l' essere delle cose; «to ydati einai» è la pura specie sostanziale dell' acqua, «to megethei einai» è la specie pura della grandezza, e così via (5). Raccogliendo dunque le specie, raccoglie l' essere sparso nella natura. Ma come in molti enti reali inesiste una specie comune, così in molte specie inesiste un genere comune, e in tutti i generi poi trova comune l' essere stesso. L' essere dunque nella natura è comunissimo, se non che è più ristretto nelle specie, più esteso ne' generi, più comprensivo in quelle, meno comprensivo in questi. Ora Platone, come l' intende Aristotele, avea detto che quest' essere comunissimo esiste da sè separato dalla natura, e che gli enti della natura ne partecipano e così sono (6). Aristotele si oppone a questo, e dice che l' essere comunissimo non può esistere separato, e nè pure è un genere (7). Ma cangia piuttosto le parole che la cosa: poichè qual principio sostituisce? L' essere stesso, non più comunissimo, ma singolare e sussistente, al quale aspirando come a fine tutte le diverse materie della natura, giungono a parteciparne limitatamente qual più qual meno. C' è dunque l' Essere primo singolare, ma preso questo per obietto dalla mente umana ed applicato alla natura diventa comunissimo per la ragione che questa mente riporta e identifica con esso lui tutto l' essere limitato che è sparso nella natura, cioè le specie. Queste sono essere come quello, ma si distinguono per la loro limitazione: così suppone che ci sia in fondo a tutto un essere solo immateriale, il quale sia limitato e illimitato ad un tempo, ma in quant' è illimitato sia Dio, in quant' è limitato sia unito colla materia e sia natura (1), allo stesso modo come suppone che la specie nella materia e la specie separata sia una e la stessa, ma in quant' è nella materia non è intelligenza, in quant' è separata è Intelligenza o Mente. Se dunque si considera l' essere come attualissimo in se stesso, egli è singolare, prima causa finale fuori della natura; se si considera come meno attuato, è in tutti gli esseri della natura, e in essi è ancor singolare: ma raccolto l' essere che è ne' molteplici della natura dalla mente, è universale perchè ne' molti inesistente (2). Trovando dunque la mente l' Essere assoluto, questo in quant' è sussistente, è singolare fuori della natura, ma riportato da essa mente e riscontrato alla natura, come misura comune di tutte le cose, è comunissimo . E però l' uomo che trae la scienza dalla natura, nulla può sapere senza l' ente comunissimo, e la prima filosofia che tratta dell' essere come essere, il dee considerare ad un tempo, dice Aristotele, e come singolare e primo, e come comunissimo. Osserva dunque Aristotele che la parola ente ha un primo significato, dal quale tutti gli altri derivano, e al quale tutti si riferiscono, e che perciò la scienza che tratta dell' ente deve riportare tutto ciò che dice a questo primo significato, come a un solo principio (3). L' essere dunque si considera da Aristotele come una sola natura, [...OMISSIS...] . Qual è dunque il primo e proprio significato di ente? Quello di essenza sostanziale , risponde Aristotele, chè tutte l' altre entità espresse nell' altre categorie sono posteriori ad essa (4). Di questa dunque dee propriamente trattare quella scienza che ha per oggetto l' essere come essere, e anche d' ogni altra entità, ma ad essa riferendola (5). Se l' essere dunque in questo senso primo e proprio, cioè l' essenza sostanziale è l' oggetto precipuo della filosofia prima, si prende qui l' essere ancora come un genere , sia come il genere universalissimo, sia come il genere dell' essenza sostanziale (6), d' altra parte la scienza non può far di meno dell' universale, e la filosofia prima ha lo stesso oggetto della dialettica (1). Come dunque sembra negare che l' essere sia universale? (2). Conviene osservare come Aristotele concepisca l' universale; il concetto, che s' è formato dell' universale, è inerente alla espressione greca «kath' holu», che è come dire « ciò che si dice di tutto » onde è preso dalla predicazione e non dall' intuizione . Ora il medesimo essere non si predica di tutte le cose, e però «me tauto epi panton,» perchè l' essere d' una cosa non è il medesimo di quello dell' altra, ma varia secondo la specie. [...OMISSIS...] . Ciò che si predica di tali cose in un modo anteriore e posteriore (4), è il genere: il genere dunque non c' è propriamente fuori delle specie. Or come l' essere si predica in un modo anteriore della sostanza, e in un modo posteriore degli accidenti, non è dunque un genere comune a quella e a questi. Ma non si predicherà dunque in comune di tutte le sostanze, o anche di queste si predicherà in un modo anteriore e posteriore? Secondo Aristotele l' essere si predica in un modo anteriore della essenza attualissima, cioè di Dio, e in un modo posteriore dell' altre essenze naturali composte d' atto e di potenza: e perciò non c' è null' altro fuorchè Dio, e le sostanze naturali: non c' è un universale comune. Ma dopo di ciò torna la perplessità, [...OMISSIS...] . Ma egli stesso s' accorge che questo è un tornare agli universali; laonde soggiunge che: [...OMISSIS...] . Il fondo di questa questione « se i principŒ degli enti siano gli universali o i singolari »nasce da questo. Nelle idee c' è da notarsi l' estensione e la comprensione (2). Se si considerano le idee dalla parte dell' estensione, cioè dalla maggiore universalità, le più universali contengono le meno universali, e però quelle sono principŒ di queste. Se si considerano dalla parte della comprensione, ciò che è più comprensivo contiene quello che è meno comprensivo, e però i più comprensivi ossia meno universali sono i principŒ de' più universali (3). Quali dunque sono i principŒ degli enti, universali o singolari? (4). Tale in sostanza è la difficoltà che Aristotele chiama « « difficilissima di tutte e insieme necessarissima » » [...OMISSIS...] (5): egli la presenta sotto molti aspetti, e la fa comparire come questioni diverse (6); ma in nessun luogo ne dà una chiara e diretta soluzione: convien raccogliere a fatica quella sentenza ch' egli avrà probabilmente insegnata apertamente nella scuola. Noi non dubitiamo, che sia quella che abbiamo già data, e che ripeteremo in altre parole. Ci sono delle cose che si predicano d' altre, e queste devono avere un subietto di cui si predicano, e che egli stesso non si predica. Il subietto e il predicato sono relativi, e l' uno non istà senza l' altro, onde suppongono una composizione di materia, - subietto - e di forma - predicato - (1). Parliamo delle sole forme o essenze sostanziali, alle quali le accidentali si riducono (2). Le forme o essenze sostanziali, oltre essere nella natura, esistono anche separate nella mente. Le forme dunque si possono considerare sotto due rispetti: 1 in se stesse, pure da materia, e sotto questo aspetto ciascuna è perfettamente una ; e 2 o congiunte nella materia, nel quale aspetto una sola forma veste più materie, ed essa è da Aristotele rassomigliata al maschio che feconda più femine (3). Stabilisce dunque Aristotele l' unità dell' essenza sostanziale , giacchè essendo essa puro essere, e l' essere essendo indiviso dall' uno, anch' essa è una, e singolare in se stessa e pienamente determinata (specie piena?) (4). Ed è così che l' uomo intende, perchè c' è l' uno in più enti naturali (5), cioè la specie sostanziale che è una e singolare e che rimane nell' anima fornita di mente, in occasione della sensazione (6). Onde a questa specie attribuisce ad un tempo d' esser uno , e d' esser universale. [...OMISSIS...] Ma s' osservi attentamente, che Aristotele usa, senz' accorgersi, in due significati diversi «to katholu:» poichè talora lo considera manifestamente come un predicato , e allora dice, che non può esistere separatamente, perchè suppone un subietto; talora poi lo considera come quell' essenza sostanziale che, essendo una, è causa a più cose di essere, e di essere uno (1), e a questa concede l' esistere separata (2). In tal caso non è più il predicato d' un altro subietto, ma è l' essere della cosa stessa. Tutte le altre cose accidentali si predicano di questa specie sostanziale, e sotto questo aspetto, ella diventa subietto, ma ella stessa si predica della materia (3), e sotto questo aspetto ella stessa diventa predicato, e predicato universale, perchè si può predicare di più materie, rimanendo ella una ed identica. Ma la materia non esiste se non per lei e però non è un subietto indipendente da lei: ella dunque è antecedente al subietto materia, e in quant' è antecedente non è predicato, perchè il predicato è relativo e contemporaneo ed anzi posteriore al subietto (4). Sotto questi diversi aspetti, ne' quali si può riguardare la specie sostanziale, disputa lungamente e ritorna spesso Aristotele, opponendo ragioni a ragioni, e non venendo mai a una netta e del tutto esplicita conclusione. Del rimanente, la conclusione si è che Aristotele tiene costantemente divise le specie , sparse nella natura, dalla specie massima divisa da essa totalmente: eterne quelle e questa, ma quelle dipendenti da questa, perchè poste in atto dall' appetito insito nella materia o potenza, che costituisce la natura e s' avvicina a quella, ma imperfettamente (1). Essendo le specie che sono sparse nella natura determinate, distinte ab eterno, inconfusibili, esse formano come una serie, e non hanno altra unità se non quella del numero (2). Ora, come ciascun numero ha unità, perchè si concepisce come contenuto nell' uno; così le diverse specie della natura hanno unità, perchè contenute nella specie massima, cioè nell' essere, che è una. Infatti non esisterebbe un numero se non fosse concepito come uno, non fosse informato dall' unità: così le specie non avrebbero nè continuazione nè unità, se tutte non fossero contenute nell' essere. E poichè la mente in senso obiettivo è l' essere, perciò Aristotele or dice della mente suprema che forma la continuità e l' unità delle cose e de' tempi, ora lo stesso dice della mente nell' uomo (3). E quest' è la ragione, per la quale Aristotele ora parla d' un principio solo, e or tosto appresso converte il discorso di singolare in plurale parlando di più principŒ (4). La ragione si è che «he de noesis, ta noemata» l' intellezione, essendo una, è insieme obiettivamente molti intelligibili, come un numero è uno ed è insieme molte unità, [...OMISSIS...] e lo stesso che dell' intellezione, che è l' atto, è a dir della mente che è la potenza, [...OMISSIS...] . Se dunque considera l' essere come contenente, Aristotele parla d' un principio solo, se considera l' essere come contenuto, ne parla come fosse più principŒ. E` ancora l' uno formale de' Pitagorici e di Platone. Ancora i principŒ, dice, sono i medesimi secondo la loro ragione «he to ana logon». Questa ragione comune è la contenente, l' essere in cui tutti si risolvono. Di che procede che dove si trova l' uno, ivi si trovi il primo, e dove il primo ivi anche l' universale. Infatti ne' soli enti della natura non si trova il primo universale, [...OMISSIS...] (5). E veramente essendo gli enti in numero finito, il comune che è in essi, è comune bensì a quel numero di enti esistenti, ma non è universale , estendendosi questa parola a un numero infinito d' individui. Quindi a ragione Aristotele ne cerca il fondamento nell' Essere supremo. [...OMISSIS...] . Fa dipendere dunque l' esistenza dell' universale dall' esistenza del primo ente. Non basta dunque per Aristotele, acciocchè ci sia l' universale, che colla mente s' astraggano le specie dalla natura: questo fa anche il matematico; ma le entità che ne cava non sono separabili e indipendenti dalla materia, e però non danno il vero e puro universale, nè costituir possono una scienza universale (2). La scienza universale dee trattare « « dell' ente come ente, e della quiddità, e degli universali inesistenti nell' ente come ente » », [...OMISSIS...] (3). Secondo Aristotele adunque l' universale si riduce all' essere come essere, e l' essere come essere non esiste separato nella natura, ma esistono delle specie unite alla materia, le quali non sono universali, se non sono contenute nell' essere. Questo deve esister dunque come causa suprema separata dalla natura, e come cosa divina. E qui di novo si alterna in Aristotele il discorso in singolare e il discorso in plurale per la ragione detta. [...OMISSIS...] . Ma tra le cause eterne quella che è separata e di tutte le altre più divina è la finale (5), e la causa finale ultima e separata è il Bene, ossia il Dio supremo. La prima filosofia dunque, che è universale e tratta degli universali altrettanto che la dialettica (6), ma più profondamente, tratta specialmente di Dio e del Bene (7), e perciò si chiama teologia. Per trovare dunque il fondo della dottrina aristotelica, conviene investigare com' egli assegni alla filosofia prima, quale unico oggetto: 1 il trattare del supremo essere, certamente singolare, essendo attualissimo, senz' alcuna potenzialità, e quindi incapace di essere in modi diversi; 2 e il trattare dell' universale . Come Dio e l' universale sono unico oggetto? Ecco quello che Aristotele non dice che oscuramente, e dove sta pure il nodo della dottrina. Quante sono le essenze, dice, tante sono le parti della filosofia (1). L' essenza di cui tratta la filosofia prima, è l' immobile e separata dalla natura. Ma d' altra parte, l' oggetto di questa filosofia è l' essere come essere. Dunque l' essere come essere è quell' essenza immobile e perfetta a cui appartiene il nome di Dio. Ma anche le specie ossia i generi delle cose naturali sono essere, [...OMISSIS...] . La filosofia dunque tratta d' un' essenza che contiene le specie, come il circolo contiene il poligono, e però tratta anche delle specie e de' generi diversi, e de' contrarŒ e delle negazioni, non per parti, come fanno le scienze speciali, ma in quanto sono essere. [...OMISSIS...] La filosofia prima dunque è scienza universale, perchè tratta dell' essere non solo in quanto è essenza sussistente, ma in quanto è universale. Laonde riferendo le opinioni intorno a quella scienza a cui s' appartiene il nome di sapienza, le assegna questi caratteri: 1 che in essa si conoscano in qualche modo tutte le cose; 2 e le più difficili; 3 e le più certe; 4 e che con essa si possa conoscere ed assegnare le cause; 5 e che sia tale che si cerchi per sè stessa, cioè unicamente per saperla, e non per altro. Ora questi cinque caratteri si riscontrano nella scienza che tratta dell' universalissimo che è l' essere come essere. [...OMISSIS...] ; dove esclude manifestamente dalla scienza più sublime il conoscimento degli enti singolari, riponendola nel conoscimento di quell' universale che tutti li contiene. [...OMISSIS...] . E continua a provare che in quegli che sa l' universalissimo o gli universalissimi si riscontrano anche gli altri quattro caratteri del sapiente: [...OMISSIS...] . Si osservi su questo luogo importante, che dalla prima e suprema scienza vengono sempre esclusi i subietti, e certamente vuol dire la materia considerata come subietto degli enti naturali. Per aver questa scienza, non fa bisogno conoscere i singolari enti numericamente distinti in natura, [...OMISSIS...] . I subietti materiali non si conoscono per se stessi, ma quello che li fa conoscere è l' universale oggetto della prima scienza, [...OMISSIS...] . In fatti, esclusa la materia, non ci rimane che la specie pura, che è già un universale, in quanto essendo unica può unirsi a più materie, e così esser causa formale di più enti distinti numericamente. Ma questa scienza suprema non si ferma a questo primo universale, bensì va agli ultimi che sono l' ente e l' uno, ond' ha per oggetto, «ta malista katholu», e questi Aristotele li dice i più rimoti da' sensi, [...OMISSIS...] . Ora questi universalissimi e da' sensi remotissimi, che si riducono all' essere, sono ciò che è massimamente scibile, [...OMISSIS...] . Ora ciò che è massimamente scibile non riceve l' essere scibile da altri, ma è per sè scibile; e in ciascun genere, secondo Aristotele, ciò che è massimo è quello che dà agli altri della propria natura. Così ciò che è massimamente scibile, dà all' altre cose scibili l' essere scibili; ciò che è scibile per sè, dà all' altre cose scibili d' esser scibili per partecipazione. [...OMISSIS...] . L' universalissimo dunque, cioè quello che è massimamente scibile e remotissimo da' sensi, deve esser conosciuto dall' uomo prima, acciocchè questi possa poi raccogliere da' sensi la scienza sua propria per induzione, e quello perciò è la mente in atto, [...OMISSIS...] (1). Di poi l' universalissimo o gli universalissimi che sono ciò che è scibile al sommo grado, è anche quello che contiene « « i primi che cadano nel pensiero e le cause » », [...OMISSIS...] . Certamente conviene anche qui lasciar da parte la causa materiale, perchè non merita nè pure a vero dire la denominazione di causa, avendo ella stessa bisogno d' una causa per esistere, cioè della forma, e non essendo essere, ma solamente una cotal potenza all' essere. Riguardo all' altre tre, se la specie è la causa prima e immediata degli enti naturali (2), l' universalissimo sarà la causa ultima di quest' ordine, la specie di tutte le specie, il che ci ricaccia alla dottrina di Platone, che l' uno sia la forma o causa formale delle specie. Ma in quest' universalissimo la cui scienza è chiamata da Aristotele «theia ton epistemon» e «ton theion», e «theiotate kai timiotate», c' è anche il Bene, la causa finale, e propriamente tra le cause finali l' ultima, [...OMISSIS...] . Ora questa è anche l' ultima causa motrice, [...OMISSIS...] (3), e questa immobile, appunto perchè è l' intelligibile per sè, e appetibile perchè intelligibile, [...OMISSIS...] (4). Ora questa è l' una delle tre essenze sostanziali ammesse da Aristotele, l' essenza sostanziale immobile, [...OMISSIS...] (5). Se dunque tutto ciò è l' universale anzi l' universalissimo; convien dire, che Aristotele prenda indubitatamente in altro senso l' universale, quando dice che « « nessuno degli universali esiste separato dai singolari » » (6), e che gli universali non sono essenze sostanziali, e non indicano essere, ma semplicemente modo di essere (7). Parmi che i luoghi frequenti in cui s' esprime in questo modo, e rifiuta le idee separate di Platone, abbian fatto gabbo ai commentatori, e impedito che s' intendesse pienamente la sentenza aristotelica. E` dunque da osservare attentamente, che Aristotele prende qui l' universale in senso di qualità comune agli enti, e nega che ciò che è comune agli enti possa essere la loro essenza, e nega questo per la stessa ragione, anche de' comunissimi, l' ente e l' uno, [...OMISSIS...] . Non nega dunque che l' essenza, oltre che inesistere nell' ente (composto [...OMISSIS...] ) di cui ella è essenza, esista anche in sè stessa: anzi questa è la costante dottrina ch' egli professa: [...OMISSIS...] . E per essenze incomposte [...OMISSIS...] intende tutte le specie, separate che sieno dalla materia, le quali sono puro ente, ente determinato. Ma quest' esistenza separata che dà all' essenza, questo inesistere in sè stessa, intende che sia soltanto nella mente umana, e che una sola essenza esista al tutto separata e da sè, e questa, come dicevamo, è la stessa mente. Accorda dunque a Platone che la specie esista eternamente in atto, ma solo nell' ente di cui è specie unita colla materia, e nella mente umana come incomposta. Ma gli nega, che questa sia ù una, ed è quella che dà l' unità alla materia; considerata poi nelle cose in ciascuna di esse è unica di nuovo. Ma il pensiero, paragonando queste cose tra loro, trova il comune : quest' è una vista del pensiero, e non è cosa che appartenga nè all' essenza separata, nè all' essenza propria de' singoli enti dov' è unita con materie diverse. Nè si può dire tampoco che la specie separata, e la specie negli enti sia una specie comune (il che condurrebbe all' infinito), perchè la specie separata è anteriore, e la specie negli enti è posteriore, e tra l' anteriore e il posteriore non c' è il comune: questo non essendoci che tra gli uguali. E veramente egli stabilisce, che comune non si può dire, se non ciò che si trova simultaneamente ne' molti (1). Ma l' uno , a ragion d' esempio, si dice bensì dei molti, ma non simultaneamente (2), perchè si concepisce l' essenza dell' uno anteriormente ai molti, e dei molti si predica posteriormente: ora tra ciò che è anteriore e ciò che è posteriore non c' è il comune, secondo Aristotele (3). Conchiude dunque « « esser cosa evidente che niuno degli universali esiste separato fuori de' singolari » » (4), pigliando la parola « universale » per comune . Egli dichiara ancor meglio il suo pensiero con quello che dice immediatamente in appresso: [...OMISSIS...] . Ammette dunque che la specie abbia un' esistenza separata, come un' essenza determinata, ma ciò che trova a riprendere nel sistema platonico si è d' aver fatto che questa essenza, che in quanto è separata è un individuo, ella stessa si trovi in molti, quando solamente si trova in ciascuno. Che cosa dunque sostituisce per ispiegare la partecipazione della specie a molte materie? Sostituisce la priorità e la posteriorità, e abolisce il comune. Dice, che la specie ha un' esistenza anteriore e così è una e individua; ha un' esistenza posteriore e così è ancora una e individua in ciascuna materia che la riceve; che la specie non ha dunque un' esistenza comune , e che questo comune non è che una relazione che aggiunge il pensiero. Vuole dunque, che l' essenza sostanziale rimanga sempre singolare o che si consideri in se stessa (esistente nella mente), o che si consideri negli enti che ella informa: vuole di più che l' uno o l' altro modo di essere appartenga alla stessa singolare essenza (1), e riprende Platone, come se avesse detto, esserci per ogni ente della natura due essenze, l' una separata ed eterna, l' altra sensibile che esiste per partecipazione di quella prima, poichè « « un' essenza non può comporsi di più essenze » » (2). Riconosce non di meno con Platone stesso la necessità, che indipendentemente da ogni materia, e quindi fuori della natura, esistano delle essenze sostanziali. Ma riprende Platone per aver confuse queste essenze separate dalla natura con quelle che sono nella natura, ed eterne colla natura stessa (3). Platone non conobbe, viene a dire, quali sieno le essenze separate al tutto dalla natura, e non potendo dire quali sono, prese gli enti della natura, e aggiungendovi il vocabolo stesso , per esempio dicendo: « « l' uomo stesso, il cavallo stesso » » [...OMISSIS...] , pretese così d' aver trovato l' essenza eterna, separata dalla natura, dell' uomo e del cavallo (4). Aristotele si dà tutta la cura di distinguere interamente le specie che sono nella natura e da questa passano nella mente umana, dalle specie che stanno fuori della stessa natura, intorno alle quali vuole che si faccia un discorso a parte (1). Queste essenze dunque separate dalla natura sono quelle che dice lontanissime da' sensi, per sè stesse i primi e più intelligibili, nelle quali è immedesimata la scienza e la cosa. Esse non vengono in composizione con alcuna cosa della natura, non sono le specie degli enti naturali (2), sono perfettamente singolari, esistono in atto, e non avendo potenza non si possono concepire con modi diversi, non ammettono contrari. In se stesse considerate adunque nega che tali essenze sieno universali . I principŒ supremi del ragionamento appartengono a queste essenze. Tra le quali ce n' è una ultima perfettissima che è il principio immobile del moto, e la causa finale di tutte le cose naturali. Tutte le cose tendendo all' atto tendono all' ultimo atto, che è pure il fine, ottimo e remoto, del loro movimento. Da quest' unità di tendenza nascono le loro qualità comuni ; ma anteriormente a queste c' è la radice materiale delle cose propria di ciascuna, distinta e contrapposta al fine ultimo, e di questa radice materiale non c' è una ragione comune (3). La prima causa dunque non è propriamente l' essere comune ; ma questo deriva dalla prima causa; e in questo senso anche questa causa dicesi universale . Di che la prima filosofia, appunto perchè tratta del primo, dice Aristotele, è anche universale, [...OMISSIS...] . Fa dunque dipendere l' universale dal primo , e dice che questo è l' ente separato ed immobile, [...OMISSIS...] (6). Quest' è semplice, attualissimo, non ammette contrarŒ, perchè non ha potenza di sorte: questo non costituisce propriamente le specie degli enti naturali, ma bensì il loro comune principio, di cui dice: « « C' è negli esistenti un certo principio, circa il quale non si può mentire » » (1). Ma la parola ente , che talora si prende per essenza sostanziale , che sola è davvero ente, secondo Aristotele, si adopera anche come un predicato universale accomunato a tutte le categorie. Quando dunque Aristotele combatte que' filosofi, che usano dell' ente e dell' uno come generi (2), allora egli s' appiglia a questo secondo e più esteso significato, e mostra che l' ente e l' uno non possono esser generi , perchè si predicano delle stesse differenze (3). Dice ancora, che se l' ente e l' uno fossero essenze sostanziali, tutti gli enti sarebbero essenze sostanziali, e non ci sarebbero gli accidentali, raccolti nelle nove categorie susseguenti alla sostanza, laddove «hekaston de to genos on» (4). Ma quando per ente intende la sola essenza sostanziale, allora l' ammette separato, ed anche universale. E della scienza, che tratta di esso, cioè della prima filosofia dice: « « La scienza è da per tutto propriamente del primo , e da cui dipendono l' altre cose, e per cui si dicono » » (5). Poichè dunque la prima scienza è dell' ente come ente, deve trattare del primo ente. Che se questo è la « « sostanza, conviene per certo che il filosofo abbia i principŒ e le cause delle sostanze » » (6). Ora il principio e la causa, secondo Aristotele, deve poter avere un' esistenza separabile (1), e così tra le essenze sostanziali ce ne deve essere una prima che sia al maggior grado essenza sostanziale, alla quale le altre sieno posteriori, come la cosa di cui il principio è principio, al principio, e la scienza di quella deve essere anteriore alla scienza di quest' altre (2). Ma questa prima essenza sostanziale, priva d' ogni materia, è conseguentemente il primo intelligibile. E quantunque ogni specie sia anche numericamente una, tuttavia la sua unità dicesi specifica (3), e quest' unità della specie è l' uno primo causa o principio, pel quale le essenze sono uno, il che è pur la dottrina di Platone (4). La prima essenza sostanziale dunque, una di specie, è anche separabile. [...OMISSIS...] Quello che è puro ente è appunto una causa che ha questi caratteri, perchè egli è anteriore ai contrari, e però non può aver contrari in sè, se è puro ente, non essendovi nulla fuori dell' ente (6). La prima essenza sostanziale dunque, separata e principio e causa di tutte le altre essenze sostanziali, è il puro ente, eterno, incorruttibile. Ma l' ente essendo uno di specie ne viene che egli, oltre esistere numericamente uno e primo e senza contrarŒ in se stesso, possa anche, senza perdere l' unità di specie, esistere nella materia, secondo che questa ha virtù di riceverne: e così accade che sia principio delle essenze sostanziali nella natura, e che si divida in generi (7), benchè egli in sè, puro d' ogni materia, non sia genere. E però la prima scienza, dice, tratta anche de' generi dell' ente, con tutte le sue differenze e contrarietà, che li costituiscono, in quanto tutte queste cose si derivano e si riportano al primo ente (1). E però il filosofo tratta di tutte le cose in relazione all' ente come ente, tratta cioè dell' ente, e di tutte le sue passioni (2). Dopo aver dunque detto che la prima filosofia tratta della prima essenza sostanziale separata e però principio e causa che non ha nè può avere in sè contrarŒ; domanda come questa si può trovare da noi, per qual via si può arrivarci, considerando sì la natura, che la cognizione nostra propria che ci formiamo per via d' induzione. [...OMISSIS...] Dal qual luogo mi sembra poter raccogliere che il progresso della ragione umana, col qual giunge alla prima causa, sia questo, secondo Aristotele: la ragione raccogliendo per induzione il comune perviene al comunissimo : quest' è l' essere svestito delle differenze: da questo salendo ancora, intende la necessità che ci sia l' Essere separato al tutto, prima causa dell' essere nelle cose; e ciò perchè essendo l' essere comune ci vuole un' unica causa che spieghi questa comunanza od universalità: convenendo ricorrere al primo uno, per ispiegare l' uno ne' più. Di qui assegna per oggetto della prima filosofia non solo l' essere separato, ma l' essere comune: [...OMISSIS...] . E dopo aver detto che tutto ciò che si riferisce al genere medicativo o salutare spetta alla medicina, continua dicendo, che in egual modo ciò che si riduce all' ente come ente spetta alla prima filosofia. [...OMISSIS...] La ragione poi, per la quale Aristotele dice, che il pensiero umano concepisce che esista fuori de' singolari un principio unicamente, perchè trova che c' è qualche cosa d' universale che si predica di tutte le cose, si è primieramente quella di Platone, che l' universale non può essere ne' singolari, perchè eccede da ciascuno e da tutti. Di poi perchè nell' universale si rinviene il necessario . [...OMISSIS...] . E ciò perchè l' universale abbraccia in potenza tutti i contrarŒ: onde se una cosa è in qualunque sia modo, deve di necessità essere, acciocchè abbia quel modo (4). [...OMISSIS...] . E così la prima necessità è una causa che rende necessarie l' altre cose che non sono tali per sè. [...OMISSIS...] , Tali sono i primi, [...OMISSIS...] , cioè l' ente e l' uno universalissimi da cui viene la dimostrazione (6). Questi universalissimi dunque non possono essere altramente in più modi o diversamente da quel che sono (7): non hanno dunque in sè stessi potenza alcuna. Quando dunque in altri luoghi dice che l' universale è sempre potenza, l' intende in altro modo e non intende l' universale in sè: nè intende i primi universali: ma intende l' universale delle cose finite : i generi delle cose finite, e non l' ente e l' uno, benchè li chiami primi generi. Ma altrove nega che sieno generi, ed è quando pone la questione diversamente, benchè non si spieghi chiaro: dico quando intende di domandare: « se l' ente e l' uno sieno generi delle essenze naturali ». Alla questione così posta risponde di no: chè non sono divisibili in ispecie: stantechè il genere che si divide in ispecie non si predica delle loro differenze, e l' ente e l' uno si predicano delle differenze: ma si dividono bensì in generi, cioè nelle dieci categorie, o piuttosto l' ente e l' uno esistono ne' vari generi come di conseguenza, [...OMISSIS...] (1). Poichè Aristotele distingue l' essere per sè, e il sussistere dell' essere, e aver l' essere, [...OMISSIS...] , e questo non è senza materia, benchè l' essere per sè sia da ogni materia purissimo (2). Il primo necessario adunque giace nel semplice ed universalissimo: questi sono i primi che tutti si riducono ad un primissimo, l' essere , il quale è il primo tra le cose scibili e verissimo, da cui procede all' altre cose l' essere scibili e l' essere vere; e questo essendo separato da ogni materia è intelligibile e intellezione ad un tempo: atto purissimo, causa finale, verso a cui tutti gli enti mondiali sono portati per un loro proprio impeto, [...OMISSIS...] , in tutt' essi insito per natura (3): questo è l' Essere necessario, il principio da cui pende il cielo e la terra (4), Iddio. Questo è il principio di tutte le cause, [...OMISSIS...] (5), e unisce in sè tutti i caratteri del principio, essendo egli il primo , pel quale o sono, o si generano, o si conoscono le cose (6). In quanto sono, egli è la forma delle forme, perchè Mente, [...OMISSIS...] (1): in quanto si generano, egli è il principio immobile del moto, perchè atto purissimo: in quanto si conoscono, egli è il primo intelligibile, da cui i principŒ del ragionamento, e quindi stesso il principio dell' Arte: dall' essere poi intelligibile procede che sia anche la causa finale, il desiderato dalle intelligenze, l' ottimo, il fine dell' Universo. Dopo di ciò s' intende come, secondo la mente d' Aristotele, convenga rispondere alla difficoltà che egli fa incessantemente intorno al definire il proprio oggetto della prima filosofia. Questa, dice, deve trattare indubitatamente de' principŒ e delle cause. Ma questi principŒ sono essi singolari o universali? [...OMISSIS...] Ci ha dunque da amendue i lati difficoltà: ci ha difficoltà ugualmente a dire che i principŒ sieno singolari, come a dire che sieno universali. Aristotele scioglie questo nodo al modo che vedemmo: riconosce tutto ciò, che è privo di materia, come un' essenza o specie singolare ed una, e, se trattasi della specie prima, come esistente di necessità separata, [...OMISSIS...] , poichè il primo necessario semplicemente è, [...OMISSIS...] (3). Ma questo che in sè stesso è attualissimo e non ha modi nè possibilità di contrari; se si considera rispetto alla natura e nella natura, non è nessuno degli enti naturali, ma è tutti gli enti naturali in potenza. Poichè « « l' universale, dice, è un certo tutto; comprendendo l' universale i molti come parti »(4) »: e quindi la prima filosofia appunto perchè ha per oggetto il primo e il comunissimo, tratta di tutte le cose, [...OMISSIS...] . Il Primo dunque cioè l' essere attualissimo in sè, è anche comunissimo rispetto al mondo, e però è la potenzialità del mondo, che esiste per questo, che gli atti, a cui questa potenzialità trapassa naturalmente, sono variamente limitati e non sciolti al tutto dalla stessa potenzialità, onde le specie mondiali: per il che l' essere intransmutabile (e veramente anche nel mondo l' essere è incorruttibile, e intransmutabile), è detto da Aristotele «pan,» e questo è il divino del mondo, [...OMISSIS...] (1). Ma sebbene l' essere comunissimo sia la causa e il principio formalissimo di tutti gli enti naturali, non è la loro essenza sostanziale, o la loro quiddità, che in tal caso sarebbero tutti un ente solo, perchè l' essere comunissimo è un solo, nè è separabile dagli enti naturali, non potendo esistere separato come comune (2), ma soltanto come singolare. Lo stesso essere dunque, uno di specie (3) perchè specie, è considerato da Aristotele sotto due riguardi o come atto purissimo o come potenza. Come atto purissimo è il primo ente, Dio. Come potenza è l' essere comunissimo, non sostanza, e non separato dalla natura (4). Ora ciò che è in atto e ciò che è in potenza, dice Aristotele, appartiene allo stesso genere. Ogni scienza ha per suo oggetto un genere. La filosofia prima dunque ha per oggetto l' ente come ente, sia questo considerato in atto o in potenza. Tratta dunque di Dio e dell' essere comunissimo: e riducendosi all' essere come essere tutte le cause, c' è una scienza sola di tutte le cause non meno nell' ordine della mente, cioè nell' ordine logico, che nell' ordine fisico cioè nell' ordine della natura (1). Non ho fatto menzione fin qui del frammento che ci rimane della « Metafisica » di Teofrasto, coll' intenzione di darne qui in fine un breve sunto. Per quanto a noi pare, il discepolo non s' è scostato molto dal suo maestro, e ci sembra piuttosto un compendiatore e un interprete d' Aristotele, che un filosofo che abbia voluto stabilire un' altra dottrina. In questo prezioso frammento sono proposte le principali questioni, ed esposte le difficoltà per scioglierle: ma la soluzione di esse o manca, o è indicata appena in poche e non sempre chiare parole: nel che pure non va lontano dalla maniera nella quale sono scritti i « Metafisici » aristotelici. Comincia da quelli che al modo d' Aristotele chiama «ta prota». Dice che, secondo la sentenza d' alcuni, i primi non possono esser raggiunti da' sensi, sono intelligibili, diversi da ciò che è nella natura perchè immobili e immutabili. Laonde la teoria di questi è la più eccellente e maggiore. Ciò posto, espone per ordine le diverse questioni intorno ai primi , alle quali si riduce quella che Aristotele chiama prima filosofia. Ripassiamole brevemente. Comincia da questa questione: « Se gl' intelligibili abbiano un certo consenso e quasi una società colle cose della natura, o no ». Quest' è in fatti la questione di tutte principale e difficile, il poter conoscere ed assegnare il nesso tra il mondo e i primi , tra la natura reale e l' ideale: a questa principalmente si volse la greca filosofia: noi abbiamo veduto quanto Aristotele vi si travagliò. Da diversi luoghi dello Stagirita si raccoglie che tra i migliori filosofi, cioè tra quelli che ammettevano la mente, c' era dissensione circa la soluzione da darsi: due erano le sentenze principali, quella d' Anassagora e quella di Platone: e tra queste prendeva il suo posto Aristotele. Anassagora aveva unita la mente alla natura, Platone separò al tutto dalla natura le idee delle cose naturali, come essenze da sè esistenti. Aristotele concesse a Platone che ci sia una specie separata, la mente; negò che le specie intelligibili delle cose, benchè eterne e semplici, esistessero separate e da sè, ma solo unite perpetuamente colla materia e costituenti la natura. Del pari concesse ad Anassagora che la mente fosse nella natura, perchè c' erano le specie intelligibili, una delle quali si costituiva da sè, e diveniva mente umana; ma negò contro di lui che altra mente non esistesse, e pose la mente divina o più menti divine separate dalla natura e da ogni contagione con essa. Disse poi che il nesso tra questa mente separata e la natura consisteva nell' esser ella sostanza per priorità, e per posteriorità così chiamarsi la mente umana e tutte l' altre essenze sostanziali. Al che sembra conforme la risposta che soggiunge Teofrasto alla proposta questione: [...OMISSIS...] Ammessa dunque l' esistenza eterna de' primi intelligibili e la loro società colla natura, viene la seconda questione: « « Qual sia la natura di questi intelligibili » ». Fa qui menzione di due sentenze, l' una che ammette essere i detti intelligibili nelle sole entità matematiche, che sono punti, linee, figure, ecc.: l' altra essere il numero, che alcuni, dice, fecero « « il primo e al sommo principale » ». E trova l' una e l' altra insostenibile, perchè tali cose non presentano sufficiente cognazione co' sensibili, che valgano a darne spiegazione, non potendo somministrare a' sensibili nè la vita, nè il movimento. Di che conchiude che convien ricorrere « « a un' altra essenza antecedente e più prestante » » lasciando però in dubbio « « s' ella sia una di numero o di specie o di genere » », dove si vede la perpetua esitazione aristotelica, di cui abbiamo fatto menzione. Riconosce però che quella essenza, sebbene esistente in più subietti, deve esistere avanti tutto in un primo . Così pure Aristotele che pone il divino negli enti naturali, e in certe essenze o menti separate, ma primieramente nella Mente suprema principio del moto, principio unico di numero, ma specie egli stesso. Ecco come Teofrasto compendia questa dottrina: [...OMISSIS...] . E venendo a indicare la connessione di questo principio coi sensibili, la trova nell' essere esso causa di moto, ma causa immobile, onde esige un altro, che, desiderando quello, si mova il primo, e questo è il primo motore naturale - il primo Cielo. [...OMISSIS...] Qui propone diverse questioni sul natural desiderio che move da prima i cieli: e dice che il primo movimento è massimamente quello del pensiero, da cui l' appetito: domanda perchè solamente quelli che si movono in giro siano mossi da questo desiderio, e non le cose mobili che occupano la parte media del mondo. Domanda se questo avvenga per impotenza del primo, che non può trapassare, e dice che sarebbe assurdo: e pare lo attribuisca all' esser quel primo incomprensibile alle nature inferiori e non composto, quando queste sono composte; in una parola « « all' impotenza che hanno queste di ricever di più » ». Domanda in appresso se i principŒ sieno informi e indeterminati, ovvero già finiti e aventi la forma, come dice, si insegna nel « Timeo ». E inclinando a questa seconda sentenza soggiunge: « « Poichè l' ordine, e il finimento sono al sommo familiari alle cose eccellentissime » ». Ma oltre le sentenze di quelli che reputano tutti i principŒ essere formali, e di quelli che ammettono solamente principŒ materiali, Teofrasto accenna la terza di quelli che vogliono essercene degli uni e degli altri, e « « in amendue asseriscono consistere la perfezione, facendosi ogni sostanza dai contrari » ». Ma che ci sieno dei principŒ materiali pare non doversi ammettere; poichè se il cielo e l' altre cose sono determinate con ordine, ragione, forme, forze, e circuiti: come non ci sarà nulla di tutto ciò ne' principŒ? Conviene d' altra parte che ci sieno nella natura le specie, acciocchè si possano ridurre le cose naturali alla prima causa, in grazia di cui esse operano. Reca quindi la questione: « Se i principŒ sieno in moto o in quiete »: e mostra che colla quiete può stare un' azione immanente, e questa come cosa più onorabile appartiene a' principŒ, non il movimento che è de' sensibili: dice finalmente riferirsi da taluno il movimento « alla mente e a Dio »come primo motore. Cercando poi come si divida l' ente in materia e forma, dice, che questo accade per la natura dell' ente che è uno in potenza ed in atto, e di qui anche la ragione, perchè l' universo consti di contrari, e gli enti differiscano tra loro. Le differenze si riscontrano nello stesso sapere umano: gli universali, altri sono specie, altri generi. « « Ciò che diciamo propriamente appartenere alla scienza è d' intuire il medesimo ne' molti, o secondo un rispetto universale e comune, o secondo una qualche cosa singolare. - Il fine poi da entrambi questi rispetti. Ci sono anche alcune cose che sono fine degli universali: poichè qui sta la causa » ». E dice che il medesimo è medesimo o di essenza sostanziale, o di numero, o di specie, o di genere, o d' analogia: e questi sono altrettanti modi o generi di sapere, ciascuno de' quali ha qualche cosa di principale e di massimo : e questo c' è ne' primi , negli intelligibili , ne' mobili : da questo principio adunque in ciascun genere si dee discendere colla specolazione alle cose inferiori. Il che ben dimostra come il sistema aristotelico difficilmente possa ridursi all' unità di un solo principio: ond' anche gli scappano molte cose, che prive d' ogni ragione rimangono abbandonate al caso, a cui Teofrasto, fedele al suo maestro, ne lascia una gran parte. Confessa ingenuamente trovare cosa molto difficile il definire, che cosa sia lo stesso sapere: gli universali sembrano non bastare perchè si predicano in molti modi: i sensibili non costituiscono alcun sapere senza gli universali. Come e di quali cose investigare le cause tanto de' sensibili quanto degl' intelligibili, o conduce al dubbio o involge in un discorso assai oscuro. Certo tanto rispetto agli uni quanto rispetto agli altri nella ricerca delle cause non si può andare all' infinito: lo stesso sensibile e lo stesso intelligibile è come un principio: l' uno principio nostro, l' altro principio assolutamente, ovvero questo fine , quello a noi principio . Vuole dunque che per noi sia principio il sensibile, ma quello che è principio assolutamente e che è anche fine sia l' intelligibile. Pare dunque che queste due cose le divida assolutamente tra loro, assegni loro due principŒ irreducibili. Nello stesso tempo però riconosce che non possiamo partire da' sensibili per arrivare ai principŒ assoluti se non per mezzo della causa . Non è dunque da' soli sensi che noi caviamo la cognizione, ma dee precedere la cognizione della causa, e con questa, come mezzo del conoscere, possiamo da' sensibili ascendere ai primi : il che conferma quello che noi abbiamo osservato dell' induzione aristotelica, che suppone, acciocchè possa aver luogo, un intelligibile primo abitualmente esistente nell' anima. E` dunque notabile questo luogo di Teofrasto: [...OMISSIS...] . Ancora due altre sentenze di Aristotele si possono confermare con questo prezioso frammento del suo discepolo: l' una che le forme della natura non si potrebbero spiegare senza supporre l' esistenza di Dio, l' altra che esse vengono da Dio come desiderato, come fine a cui si slancia la natura, il quale slancio è appunto la forma di cui ciascun ente naturale si veste.

Epistolario ascetico Vol.I

631662
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Io le descrivo con questo ciò che Ella mi chiede circa questa santa quaresima, ciò che vorrei che facessimo in essa unitamente: pregare nel digiuno dalla santa Chiesa prescritto, pregare di consenso a tutti i Cristiani che pregano e digiunano in tutto il mondo, pregare senza limiti, e senza intermissione: pregare con semplicità e con abbandono: pregare senza individuare cosa alcuna, ma solo che sia santificato il nome del Padre, perchè accada tutto alla maggiore gloria della sua grazia; che avvenga il suo regno di cui Cristo è il Re, quel regno preordinato dalla costituzione del mondo, quella Chiesa che deve distendersi in tutte le genti, farsi serve tutte le cose; che sia fatta la sua volontà come ne' cieli, cioè ne' suoi santi, così sulla terra, cioè negli uomini ancora terreni, perchè in questi altresì si compia quella salute di cui Iddio si compiace. Godo moltissimo che si sia ascritto alla Congregazione di Maria presso cotesti Padri Gesuiti. Sarà essa questa nostra cara Madre che le suggerirà di più intorno a ciò che è da fare in questa santa quaresima: faccia ciò che essa le suggerirà: la supplichi che suggerisca anche a me ogni cosa, che voglio fare tutto ciò che essa mi suggerirà: se pur col suggerimento, mi intercederà anche la grazia di farlo. Io sono qui come, Le diceva, fino da martedì precedente alle Ceneri: di tutto sono contento fuorchè di me stesso. Ho un compagno meco, ma non ancora il Loewenbruck: questi mi scrisse bensì d' avere ultimati felicemente i suoi affari: e fra i tratti della divina Provvidenza trovo certamente questo, che egli abbia potuto finire bene le sue cose prima d' essere con me. Io lo attendo con ansietà, e spero che verrà presto: le sue lettere sono di una sincerità e di una umiltà incredibile, e mi danno tanto a sperare. Io ho estremo bisogno di lui, della sua attività, del suo zelo. Io sono inerte, indeciso nelle minime cose. Per questo non ho ancora rimesso mano alla fabbrica, ma aspetto per tutte queste cose il Francese. Non oso nè pure accettare de' compagni per ora, perchè non ci sarebbe chi tenesse bene la disciplina: io non sarei buono che di dare loro de' mali esempi per la mia poltronaggine e mollezza. Ma se viene il buon Francese ne accetterò: io pregherò tanto Iddio che mi conceda allora di scandalezzare il meno possibile, e di conservare presso i compagni in qualche modo, il buon nome. Senta, se il Signore vuole da noi questa unione, essa è preordinata da tutti i secoli. Preghiamo adunque null' altro, se non che ci santifichi secondo l' eterna sua preordinazione: così nella sua volontà ci adageremo interamente. Il suo cuore lo rivolga solo alla perfezione, e non determini nulla; la sola perfezione è il nostro desiderio, le forme sono indifferenti: il Signore la consolerà certamente. Io spero di venire, non però prima dell' autunno; allora solo potrò avere disposte qui le cose, per quello che mi pare ora. Allora solo potrò essere preparato a ciò che verrei a fare costà. Spero di venire, e spero di non venirci solo. Sa di chi voglio intendere? Glielo dirò: del nostro caro Mellerio. Non le posso dire la unanimità de' nostri cuori, e da poco in qua anche con Giulio suo: egli m' ha scritto pur ora una lettera che mi confonde. Oh che il Signore lo empia di sè! Egli è certo sulla strada della perfezione. Mellerio non sa niente di ciò che dissi di lui; sono io che presento ciò che sarà, se a Dio ne piace. Tante e poi tante cose ai suoi buoni figli, a cui voglio tanto bene, e sono tanto obbligato della consolazione che danno a Lei. Se vede il Cardinale Cappellari, gli baci le mani per me, e gli dica, se crede, dove io sono. Mi saluti tanto il Brunati. Mio caro amico, la abbraccio nel Signore. Noi siamo intesi: perseveriamo questa quaresima in memoria di quella fatta dal Signore, aspettando la sua parola e la sua venuta. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.2. La volontà del Signore è che ci perfezioniamo: il resto è indifferente. Attendiamo a questo e stiamo tranquilli. La voce di lui è soave, ed i suoi impulsi sono senza sforzo e senza ansietà. Nessuna cosa della terra ci trattenga dal dargli ascolto, perchè non perdiamo la vita nostra, volendola salvare. Perseveri pure a lavorare il campo, dove l' ha messo il Signore. Il suo cuore, spoglio da tutti gli umani affetti, sentirà bene l' ora di mutare lato nel campo stesso, quando il Signore la farà battere. Non dobbiamo fare nulla da noi stessi; ma, purificandoci, renderci atti perchè il Signore possa fare ciò che vuole con noi. Questo lo sappiamo di certo che il Signore lo vuole: perchè non vuole perderci, ma salvarci: il resto non lo sappiamo, fino che non ce lo dice. Viviamo adunque tranquilli e fermi, fino che egli non ci muova. Io sono qui fino dal principio della quaresima: la famigliuola è di quattro: ma non è ancora venuto l' amico, a cui Ella manda i saluti: lo aspetto però, sebbene delle dure prove, come sembra, gli fa sostenere il Signore. E` coi patimenti che egli ci prepara; ne sia ringraziato. Non ci rincresca d' essere generosi con tanta bontà. O potremo noi esserlo? A me pare una parola molto vana parlare di generosità con Dio; ma noi diciamo d' essere generosi, quando ci sembra evitare una viltà senza nome. [...OMISSIS...] 1.2. Giacchè non possiamo vederci, come facevamo a Milano, troviamoci almeno insieme qualche volta per lettera. Questo desiderio mi fa essere più sollecito questa volta a scrivervi, che non fu la prima, dandomene anco argomento alcune cose della carissima vostra. Io voglio certo, come voi dite, che siamo tutti parti d' una medesima madre, la carità: questo è stato sempre il mio vivo desiderio, come v' ho detto quando era con voi. « E` pure necessario, soggiungete, fissare la strada da percorrere, acciò chi domandasse: quid faciam ? abbia a vedere se in questa od in altra è chiamato ». Appunto, non per altro fine ho eletto questo ritiro, non per altro fine ho fatto su questo monte, dedicato alla passione del Redentore, la quaresima, se non per consultare il Signore, acciocchè egli manifesti la sua adorabile volontà. E certo Egli non ci lascia all' oscuro. Mio carissimo, vi dico il vero, io per me non ne dubito, e spero nella sua infinita misericordia che, facendo ciò che fo, io faccia ciò che egli vuole. Voi mi direte, che è questo? Egli è impossibile scriverlo, perchè se io dicessi in generale, che è unicamente di abbandonarsi alla divina Provvidenza, di vivere nella umiltà e nella pace, senza desideri, fuorchè della giustizia, senza inquietudine, ma costantemente e attivamente, sembrerebbe che non vi dicessi ancor niente. In quanto a quel che dite, che nelle opere di carità, quando vi sia luogo alla scelta è prudente che si elegga il più basso, io sono intieramente con voi, purchè vi sia luogo alla scelta, purchè il Signore non dimostri essere diversa la sua volontà, purchè non ci attacchiamo nè al basso nè all' alto, e non ci gloriamo nè pure d' essere bassi, purchè in fine veramente impariamo che nel mondo non c' è nè basso nè alto. Ciò che io sento per me, che vuole il Signore, si è che non cerchi nulla, e nulla, in quanto io possa, ricusi, offerendomi a lui intieramente, senza prevenire il suo divino volere, e mettergli quasi legge: a lui essere totalmente mancipato e schiavo. Oh me felice, se potessi infinitamente a questo suo volere unirmi! Io dunque, vi dico il vero: chi mi domandasse, se voglio fare i mestieri bassi della carità, non oserei di dire tosto di sì, se non gli aggiungessi anche: purchè io non li cerchi, ma la divina Provvidenza, colle circostanze esterne, me li offerisca. Chi mi domandasse poi, se io voglio ricusare i mestieri alti di carità, quando la divina Provvidenza, per le circostanze esterne, me li offerisse, io non oserei parimenti rispondere di sì: ma non vorrei nè pur quelli ricusare. Così la carità non solo, ma la carità nella volontà divina, è quella che io sommamente desidero, acciocchè non faccia il mio volere, col pretesto della carità, ma faccia quello di Dio che è carità. Ma io non posso, come diceva, in una lettera darvi una chiara idea di quanto io intendo; sebbene in questo poco, che ho detto, c' è tutto ciò che intendo. Nè per questo sarà meno vero che si ritengano, come voi dite, i lineamenti stessi delle Figlie della Carità: fatta però la differenza da donne ad uomini, e da uomini laici a sacerdoti. La carità che esercitano le donne è meno estesa necessariamente della carità che possono esercitare gli uomini; e la carità che esercitano gli uomini laici è meno estesa di quella che possono esercitare i sacerdoti. Gesù Cristo dimostra a tutti la sua volontà: ognuno l' adempia: la donna, l' uomo, il Sacerdote: ognuno ha la sua periferia; nessuno la restringa a se stesso, ma sia indifferente. Iddio poi la restringe a tutti; e non sieno più indifferenti quando Iddio ha loro parlato. Voi conchiudete adunque benissimo: « stiamo ai piedi del Crocifisso, e non permetterà inganno ». Ognuno nella pace, nel gaudio, e nelle opere buone aspettiamo il Signore, contenti e longanimi. Godo che proseguiate nella vostra conversazioncella: infiammatevi pure scambievolmente, specialmente nella divozione del Redentore e di Maria Addolorata. Continuiamo per quanto possiamo le nostre piccole pratiche. Non so se abbiate trascritto quel « Trasunto delle Massime », che vi avrà lasciato, credo, il Mezzanotte: se mai lo avete trascritto, rimandatemi, vi prego l' originale. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.2. Il vostro desiderio, di trovarvi nella chiesa in presenza del nostro Amore, è pur ragionevole, e a chi riprenderlo volesse, si potrebbe rispondere con Giobbe « L' orecchio è che le parole distingue, e le fauci che giudicano del sapore ». E` impossibile a chi è fornito di questi sensi non sentire le sensazioni loro proprie; e così a chi ha un senso interiore, un senso più raro e sublime, come è quello che hanno i cristiani, a cui è caro Gesù, egli è impossibile che non senta il suo allontanamento e la sua privazione. Egli è vero che co' piedi del cuore, anzichè con quelli del corpo, si va a trovare Gesù dovunque; ma il nostro Signore, che ci conosceva perchè ci aveva fatti, volle darci modo d' essere con lui non pur colla nostra parte invisibile, ma con questo visibile corpo medesimo; e tanto giudicò ciò conveniente, che volle avere anch' egli un corpo per avvicinarlo al nostro, e perchè il nostro morto si ravvivasse al contatto del suo vivo, e che non può più perdere la vita. Ed egli v' ha un senso che solo i cristiani posseggono, pel quale si percepisce questa nuova felicità, e avidamente s' attende quando è lontana: e questo è il senso, pel quale è impossibile a voi il non desiderare ora l' essere nella chiesa, avanti il tabernacolo del Signore, ed il fare seco i colloqui che facevate! Ma presto vi tornerete, se pur a quest' ora che scrivo non ci siate tornato già a rendere grazie e pregare per voi e per gli amici. State di buon animo, mio carissimo, e con ogni diligenza attendete a guarire. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.2. Voi avete detto una parola preziosa nella cara vostra, che l' umiltà modera ed avvalora i veri credenti : così è pure; beati quelli che il sentono! L' intima consapevolezza del nostro nulla ci fa sentire il bisogno dell' Onnipotente, e ci avvia sulla strada che ci conduce a lui, nostra fortezza e valore. Questa confidenza che sorge nel seno della umiltà è di un vigore infinito, ed è quella onde le cose più spregevoli della terra sono diventate le più possenti, quella onde gli umili sono esaltati al di sopra degli orgogliosi. Io vi conforto di leggere e rendervi famigliari le divine Scritture con quell' animo inclinato all' umiltà ed alla generosità cristiana che vi ha donato il Signore. Le Scritture sono una lezione continua d' umiltà: la insegnano in tutti i modi colle cose, collo stile, colle parole. S. Agostino accostandosi ad esse, tumido ancora dello spirito del secolo, le trovò basse e spregevoli. Io non sapeva, egli dice, che quelle Scritture prendono diverse figure, e che ai grandi si fanno piccole, e coi piccoli crescono insieme con essi ad immisurabile grandezza. [...OMISSIS...] 1.2. Adoriamo il Signore in tutte le sue vie. Riguardo a quello che dite che desiderereste d' essere qui subito dopo la solennità della Pentecoste, non so dirvi altro che quanto altre volte vi dissi. Io non posso chiamarvi, perchè ho bisogno io stesso di essere chiamato. Non sono chi chiama, ma chi è chiamato. Se voi siete chiamato insieme con me, venite. Quegli che chiama è quegli che garantisce i passi del chiamato che risponde alla chiamata. Se fossi io che chiamassi, dovrei garantirli io, e sarei un menzognero se lo promettessi. Se è Dio che chiama, debbe garantirli egli, ed è fedele e verace. Alla sua voce ubbidiamo e prestiamo fede alla sua misericordia. Circa quello che dite delle sostanze temporali e dei mezzi di sussistenza, non dubitate punto; ripeto lo stesso, abbandoniamoci alla Provvidenza. Se è poco quello che offerite a Dio, sarà sempre gradito, se sarà tutto ciò che avete! Era poco anche ciò che offerse la vedova, ma i suoi due minuti erano accetti, perchè era tutto ciò che aveva. San Pietro, lasciando le reti e la barca, lasciò poco, ma potè però confidare, perchè aveva lasciato tutto, e dire al Signore: reliquimus omnia . Pensiamo però che nel tutto c' entra non solo il presente, ma il futuro ancora, e tutto ciò che aver potessimo, non che ciò che abbiamo. Se questa è la vostra offerta, confidate nella Provvidenza. Del resto, di nuovo lo dico: imaginate d' essere al mondo voi solo e Dio; e deliberate in sua presenza: così non confiderete negli uomini e molto meno in me. Il consiglio che vi do è di essere perfetto; ma null' altro; perchè quello è di Gesù Cristo, ed il resto pure venir debbe dallo spirito di Gesù Cristo diffuso ne' nostri cuori, ne' quali chiama con fiducia: Padre nostro. Se lo spirito di Gesù vi mandasse, mi sarebbe caro di celebrare la Pentecoste insieme con voi, e con Francesco. Se deliberate, la deliberazione non sia perpetua ma a tempo, come a due o tre mesi in prova, o anche meno. Il Signore vi dirà se dovrete prolungare il tempo. Così direte anche la verità al sig. Rettore dicendo, che andate a fare un ritiramento spirituale e null' altro. Di ciò Iddio non si sdegnerà. Perchè la deliberazione che egli vuole da noi perpetua, irrevocabile ed infinita si è di volere essere perfetti, ma non altro. Del resto andiamo adagio; s' intende fino che non siamo ben certi della sua volontà: così viviamo alla giornata, ed insieme nella eternità: in questa, quanto al desiderio della perfezione; e alla giornata, quanto ai mezzi; essendo noi però indifferenti a tutti, e non rifiutandone nessuno, giacchè tutto è buono quanto viene da Dio: [...OMISSIS...] . Ora alcune parole al Bonetti. Non vi affannate per la mancanza di sussistenza: il Signore provvederà. Ciò che ho detto al Boselli, valga anche per voi: offerite tutto e basta. Conferite col vostro padre spirituale, e fate ciò che vi dirà. Se il signore vi manda qui, io vi abbraccio già da quest' ora col cuore. Teniamoci raccomandati tutti a Gesù Cristo nostro Redentore ed a Maria Addolorata, e con giovialità serviamo al Signore. Umiliamoci senza fine. Purifichiamoci. Siamo insaziabili della giustizia, e null' altro sia lo scopo de' nostri desiderii. Ah il Signore la metta in noi questa giustizia! ah ci faccia giusti! Egli solo il può; allora non saremo più confusi, [...OMISSIS...] Amiamoci: questa è l' insegna de' discepoli del Signore. Che dolce insegna! che divisa beata! Oh potessimo essere una sola cosa tutti con Gesù, in Dio Padre, pel santo Spirito! a cui gloria in tutti i secoli. Amen. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.2. Non è dubbio, che la maggior grazia, come voi dite, che il Signore ci possa fare, sia il farci patire qualche cosa per suo amore. Senza di questi patimenti, saremmo eternamente miseri, perchè attaccati a noi stessi ed alle cose terrene, cioè a miserie, ciechi negli occhi dello spirito, che non vedrebbero la vera felicità, e privi della vera vita interiore. Perciò, certo delle misericordie che il Signore mi fa, io debbo contare fra le somme, come voi dite, e veramente conto, quei malucci corporali, co' quali mi tiene accompagnato e svegliato, e rivela in parte me stesso a me stesso. La rivelazione compiuta non vi sarà che colla morte. Voi dite d' aver ricevuto grandi lezioni quest' anno da quel solo che vi ama, e che a duri colpi vi vuol perfetto. Io lo intendo dal vostro modo di parlare che mi riesce tanto prezioso! Quel riconoscere così intimamente il prezzo della vita perfetta, come dimostrate nella lettera vostra, quel riconoscere che essa è una grazia del Signore indicibile, una ricchezza inarrivabile, immensa, che non v' ha misura quaggiù proporzionata alla medesima, quell' averne una ardenza in voi stesso che va crescendo, anzichè sminuirsi, mi fa credere che il Signore vi destini nella sua misericordia a una vita di un servizio prestato a lui più intimo, più perfetto, più assoluto, che quello della vita secolaresca, come letterato forse unicamente o come bibliotecario. Io me ne congratulo con voi. Maria Ss., Sant' Ignazio, S. Luigi compiranno l' opera che sembrano aver in voi cominciata. Pregate dunque anche per me, per me povero peccatore. Io passerò da Brescia sulla fine di luglio per recarmi a bere le acque di Recoaro. Quanto mi sarebbe caro abbracciarvi in quel tempo! ma Dio sa se voi ci sarete! Addio mio carissimo. Non vi parlo degli studi perchè avremo tempo da ciò. Avrete avuti gli « Opuscoli ». [...OMISSIS...] 1.2. Il mio consiglio, relativamente alle cose contenute nella carta comunicatami, è il seguente: 1 Circa la convulsione da cui Ella si trova assalita del pianto e del riso ne' momenti di divozione e in altri, è cosa di poco momento, e da non farne caso nè occuparsi a ricercare se essa venga da Dio o dal demonio; il che è superfluo il sapere, purchè non lasciamo nascere cattive conseguenze. Il suo stato fisico un poco alterato, com' Ella confessa, basta a spiegare una tal cosa: quando i nostri nervi acquistano una mobilità più grande dell' ordinario sogliono produrre di somiglianti effetti; 2 In quanto alla inclinazione che accusa di prevenire il futuro, e dirlo agli altri, e poi se qualche cosa succede, pensare di averla predetta, come Ella stessa si esprime, è un difetto che fa bene a riconoscere, ed è buona la risoluzione presa di tacere quando si sente inclinata a dire ciò che succederà, anzi sarà meglio reprimere anche il pensiero del futuro, quando la conghiettura non sia fondata sopra ragioni solide ed esterne e non punto fantastiche e di sentimento; ed anche allora non lo faccia con troppa sicurezza, ma con timore di sbagliare nelle proprie conghietture, e senza mescolarvi il pensiero che sieno predizioni. In questa inclinazione di predire il futuro ci può essere un' insidia dell' inimico di gran conseguenza, qual' è quella di farla operare inconsideratamente e con precipizio, come riconoscerà che fu tentata più volte di fare, e che qualche volta anche cadde; come quando Ella si è messa in mente che fossero venute lettere da Milano sul conto suo, e avendo dato retta a un tal pensiero privo di solide ragioni, parlò della cosa con me in modo risentito, e prese anche la risoluzione da se stessa di recarsi ancora il giorno dietro a Milano; che furono due passi falsi, com' Ella, per la grazia del Signore, ha molto bene riconosciuto; 3 Per rispetto a quello che dice di essere oltremodo facile a correggere gli altri , conviene pure che riconosca che in ciò v' ha un difetto da emendare: specialmente se la correzione fosse solita di farla repentinamente e senza matura considerazione; e se fosse di cose in se stesse oneste, ma da Lei riguardate come imperfette, e di materie dubbie e che ammettessero una interpretazione buona: nel qual caso la carità vuole di attenersi a questa. E in generale il correggere gli altri, senza essere richiesto e senza che il porti la propria condizione, è sempre pericoloso, perchè suppone sempre d' avere fatto avanti un giudizio sul nostro prossimo; il che dobbiamo temere, essendo difficilissimo giudicare, e richiedendosi una gran scienza a ciò, nelle cose che non sieno patenti peccati, e potendo nascere da una occulta superbia. Per ciò cerchi di raffrenarsi; e quando Le sembra di vedere un grave peccato del prossimo, se non offende Lei direttamente, sarà meglio, se ha il modo, che faccia fare la correzione da' superiori: ma se il peccato non fosse grave, o fosse dubbio, o fosse una imperfezione, o nè pure una imperfezione certa, in simili casi, avendo l' opportunità di parlare col prossimo, in vece di fare la correzione, dimandi al medesimo di essere instruito per proprio vantaggio ed edificazione; per esempio dicendo: « caro fratello, mi è nato dubbio sulla tal cosa; vi prego, ditemi come la cosa sia »o in altro simile modo; 4 In quanto all' essere facile a ricevere nella fantasia l' idea di successi miracolosi, come la scoperta che accenna del crocifisso, è pur cosa nascente in gran parte dall' alterazione nervosa, e che bisogna considerare come illusione; 5 In tutte queste cose è facile di riconoscere un inganno dell' inimico ed è questo. Egli si sforza di stornare la sua mente dal pensare e ben conoscere i propri difetti, conducendola in vece a pensare a delle grazie soprannaturali, e straordinarie, acciocchè Ella in tal modo nel maggiore suo bisogno si addormenti sopra la cosa più importante, non giunga a conoscere se stessa, e ad emendarsi. Ma Ella stia pur fermo a non dare alcuna retta a simili pensieri, e non si lasci illudere, nè si lasci mettere in testa che facendo ciò si renda ingrato a Dio; mentre è anzi per Dio che fa ciò e per non essere svagato dall' opera della sua emendazione, e dal conformarsi alla sua santa legge. E si vede l' illusione anche dai falsi argomenti che Le vengono in capo, come quello di attribuire il maggiore concorso di popolo alla santa Messa, alla consolazione avuta del pianto: quasi che questo fosse qualche cosa di meritorio, mentre, quando anche fosse stato da Dio, egli non sarebbe stato che una grazia gratis data , la quale non è punto meritoria; e come Ella dice, ciò che è avvenuto dopo ben mostra che le conseguenze rispetto a Lei non furono buone, e perciò molto meno poteva meritare per gli altri, se non ha meritato per sè. Si arricordi in generale che il segno principale per conoscere se lo spirito è buono, è la maggiore conformità che succede in noi alla legge di Dio; alla quale solo dobbiamo attendere; e tutto ciò che ci aliena da essa o ce ne toglie il pensiero, è cattivo. La legge di Dio è il timone della nave. Supponiamo che questa fosse anche carica di gioie: se il piloto invece di guardare sempre al timone si occupa a contemplare le gioie, è ben prevedibile che la nave viene esposta a fare naufragio. Il nostro inimico ci empie talora la nave di gioie false, acciocchè noi siamo invaghiti a contemplarle, ed intanto abbandoniamo il timone; 6 Riguardo poi al pensiero di rinunciare alla cura delle anime , vi rinunzi pure; ma in questo senso, di ritenersene incapace, senza l' aiuto di Dio. Sia pur contento d' avere cura dell' anima propria, che basta, e non desideri nè voglia fare altro in quanto a sè. Non confonda però questo pensiero coll' avvilimento o col pensiero di non fare nulla per le anime anche se Dio volesse adoperarlo in ciò. L' avvilimento succederà, se crederà che rinunziare alla cura degli altri sia rinunziare a tutto: non è rinunziare a tutto il bene: si ritiene il principale affare qual è la cura di se stessi: se Iddio ci fa la grazia di mettere in salvo l' anima nostra e di purificarla da' suoi peccati, ci deve bastare; 7 Dirò ancora una cosa. Se Ella sentisse difficoltà a scacciare il pensiero dall' immaginazione delle cose soprannaturali che mi accenna e dalla sollecitudine di ricercare se sieno da un principio buono o cattivo; allora riconosca di nuovo in se stesso un difetto e se ne umilii. Nello stesso tempo diffidi ancor più di tutto, e rigetti tutto fuorchè il pensiero de' propri difetti e della legge di Dio: perchè se quelle cose venissero da un buon principio non resisterebbero, operando sforzatamente; giacchè come dice S. Paolo, gli spiriti buoni sono soggetti a noi, cioè alla nostra volontà ed alla ragione. Il Signore la benedica e la renda forte e capace di superare tutti i suoi nemici. [...OMISSIS...] 1.2. Facciamoci una massima, e spero che voi pure la troverete giusta, di non dire nulla di più che ciò che si vede nel momento presente, senza prometter nulla pel tempo futuro: e anche ciò che già esiste e che perciò possiamo dirlo, diciamolo con semplicità, voglio dire senza nessuna esagerazione, e piuttosto dicendo un poco di meno che un poco di più: acciocchè l' evidenza del fatto venga in conferma delle nostre parole, e non le snervi e indebolisca. In quanto al non assicurarci del futuro, siamo tanto miserabili, siamo tanto fallaci, che non possiamo comprometterci di noi stessi, e similmente nè pure degli altri. Non dico ciò, perchè non creda che anche voi la pensiate così; ma per istabilire dei principii di nostra condotta uniformi, e da tenersi da noi costantemente. Il non dover noi far promesse, nè parlare assicuratamente del tempo futuro è una regola di condotta che discende da tutto lo spirito che ci deve animare, spirito di tranquillità e di fermezza. Le ragioni che più intimamente dimostrano la necessità di questa regola sono le seguenti, che quando sieno a pieno penetrate sono potentissime, e possono mantenerci in una coerenza e stabilità di operare con noi stessi: 1 Il rispetto profondo da noi dovuto alla divina Provvidenza , i cui arcani non dobbiamo temerariamente indagare; ma adorare costantemente, contenti di conoscerne solo quella parte che Iddio ci viene successivamente manifestando, e del resto appagarci dell' oscurità in piena quiete; 2 La certezza della bontà di Dio , che sebbene operi in un modo recondito e spesso diverso al tutto da quello del nostro pensare, tuttavia qualunque cosa faccia, la fa sempre a nostro bene e maggior salute; 3 L' intima persuasione del nostro nulla , della nostra fallacia, mobilità ed incostanza naturale; per la quale abbiamo sempre ragione di operare la nostra salute in timore e tremore, non potendoci mai e poi mai assicurare di noi stessi fino che siamo a questo mondo; 4 La viva fede in Dio , cioè della sua grandezza, del sommo bene, del tutto ch' egli è per noi; giacchè se noi faremo tanta stima di Dio da giudicare che avendo lui solo, tutto abbiamo e nulla ci manca, e se crediamo di poter possedere Dio in tutti i luoghi, in tutte le circostanze della vita nostra, ne verrà indubitatamente che noi staremo anche sempre contenti in qualunque luogo e circostanza; e che riconosceremo ogni nostra inquietudine come una nostra imperfezione e mancanza di fede, e ricorreremo a Dio stesso per vincerla, e per ottener la grazia che egli illumini gli occhi del nostro cuore per vedere lui e conoscerlo, e per averlo a nostro unico tesoro, riputando nulla tutte le altre cose, e meno che sterco gli oggetti idonei a darci le soddisfazioni momentanee volute dalla nostra natura inferiore. Ah se il nostro tesoro fosse in Dio, in Dio solo sarebbe altresì il nostro cuore! ma noi siamo inclinati a mutare; perchè non vogliamo solo Dio, ma qualche altra cosa insieme con Dio, confondendo così senza accorgerci nel nostro amore la creatura col Creatore, per mancanza di uno spirituale discernimento e di una viva fede. Una adunque delle massime o regole fondamentali della nostra condotta sia questa « di contentarci sempre del nostro stato presente , come quello nel quale possiamo possedere il Signore, cioè il tutto nostro: e di non imbarazzarci punto del futuro , aspettandolo dal Signore senza farci sopra conti umani o provvedimenti, e perciò senza osare di parlare assicuratamente del medesimo ». Questa è una di quelle massime che hanno grande influenza: direi, che è una delle nostre massime di stato . L' operare in coerenza alla medesima richiede una continua meditazione: giacchè ciò succede di tutte le massime generali. Quanto le massime sono più generali tanto sono più semplici e facili a percepirsi; ma nella loro applicazione tanto sono più difficili, giacchè hanno una sfera maggiore, ed esigono una continua vigilanza di mente. Il tirarne le conseguenze pratiche è ciò che spiega la forza della massima, e la mostra in tutto il suo possente splendore. Voi mi farete un vero piacere se mi comunicherete i vostri riflessi sopra la medesima. Prima conseguenza della massima surriferita si è di corrispondere colla più diligente cura alle incombenze dello stato presente; stimandole anche quando sembrano piccole agli occhi della nostra umanità. Nulla è piccolo agli occhi della fede in ciò che si opera per Gesù Cristo Signor nostro: tutto è grande, giacchè in tutto c' è Gesù Cristo. E` la superbia umana quella che oscura il nostro vedere, e lo rende inetto a percepire nelle cose Gesù Cristo: quando G. C. nelle cose è reso invisibile ai nostri occhi, allora noi misuriamo la grandezza delle cose e delle azioni nostre da sè stesse, dal loro esterno apparato, dal loro numero, dalla loro pomposità, in somma da una falsa apparenza che non ci mostra nulla di realmente grande, perchè non c' è di realmente grande che il nostro Signore Gesù Cristo. Ciò posto, voi avete nel momento presente delle piccole occupazioni in apparenza, ma tali che la vostra fede le saprà stimare e conoscer grandi in realtà. Oltre il lavoro della casa, avete l' educazione del Molinari forse a quest' ora incominciata. Carlo pure un poco alla volta potrebbe riuscire un cherico dabbene, e un esemplare ministro del Signore: fate perciò di tutto per formare il suo spirito, riguardandolo come un' anima a voi affidata dal Signore, e trattandolo colla tenerezza di padre. Verso frate Pietro avrete pure occasione di esercitare quei tratti di carità, di cui l' età senile ha bisogno; e voi saprete gustare il piacere dell' alleviare altrui la noia della vecchiaia. Vi raccomando pure i vostri neofiti, e la giovane che istruite per ricongiungerla alla Santa Chiesa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.29 Ringrazio Iddio che, come vedo dalla cara vostra, le cose costì seguitano bene. Il Cardinale Morozzo, da me veduto ier l' altro, si mostrò contento delle cure che vi siete dato in diverse opere buone, e specialmente per le prigioniere di Pallanza. Mi disse d' avere veduto il luogo del Sacro Monte ristaurato e d' esserne restato al tutto pago, e poi mi rivolse queste parole: « E dunque pensa Ella di ritornare in Diocesi? » Io gli risposi che « questo era appunto il mio desiderio: »gli raccontai come il nostro piccolo affare era assai bene avviato, e come il Sommo Pontefice Leone l' intendeva benissimo, quando la divina Provvidenza il chiamò all' altra vita. Gli aggiunsi che io attendeva l' elezione del nuovo Sommo Pontefice per non moltiplicare i viaggi inutilmente e le spese, e che desiderava di sottomettere al medesimo (qualunque fosse quegli che ci donasse la Provvidenza) il nostro piccolo progetto: perchè il Capo della Chiesa giudicasse prima di tutto del medesimo, e noi nel suo giudizio avessimo una norma sicura del nostro operare in avvenire. Parve che egli ne restasse soddisfatto; e non sarebbe impossibile che alla carità sua piacesse di dire forse qualche parola a noi favorevole, e così sollecitasse l' esito del negozio. Lasciamo pure le cose tutte nelle mani del Signore e Redentore nostro Gesù, e di Maria Santissima sua madre, rimanendoci da parte nostra tranquilli e costanti , con una viva fede in lui, certi che egli disporrà ciò che è della sua maggiore gloria, e che non ci lascierà senza guida, perchè arriviamo sicuramente al nostro fine, la salute delle anime. Io non posso in tutto questo tempo applicare la Messa per altro fine che per noi, e pel nostro piccolo affare: acciocchè Iddio ci salvi nel modo migliore, e provveda alla Chiesa diletta sua sposa, acquistatasi col sangue suo. Vi prego di fare anche voi, come certamente farete, le più fervorose orazioni per lo stesso fine; e massimamente perchè io non metta ostacolo alle divine misericordie colla enormità dei miei peccati. Fate pur pregare i nostri tre cari fratelli nel Signore, Antonio, Carlo ed Isaia. Oh quanto godo di sentire che si perfezionano sempre più nella obbedienza e nell' amore alle abitudini sante di una vita regolare e divota! Chi sa che il Signore non li voglia tutti suoi nella Religione? Io vi prego e supplico di considerarli come vostre viscere, e di non risparmiare verso di loro alcuna delle sollecitudini della materna carità del nostro divin Maestro: perocchè in questo modo, se essi a suo tempo si consacreranno a Dio, li potrete considerare come vostri parti nel Signore! Vi assicuro, mio caro amico e fratello in Gesù carissimo, che io sospiro il momento di trovarmi unito a voi. Ma questo momento non lo vedo ancora così vicino. E giacchè noi vogliamo vivere veramente alla Providenza, guardando sempre in Dio che dispone tutte le cose per nostro bene e per quello della sua Chiesa, dobbiamo altresì sofferire con pazienza questa presente nostra separazione. Immaginiamoci, mio caro, che noi siamo presentemente i novizi , e Iddio è il nostro Maestro ; questi vuole assuefarci alla mortificazione, e vuole renderci atti a trovarci in tutti gli stati, in tutti gli uffici, ed in tutti i luoghi: per questo egli permette che noi siamo alquanto divisi. Corrispondiamo adunque alla disciplina del nostro maestro. Assuefacciamoci a tutto ciò a cui egli ci vuole assuefare; e, per non prendere un' impresa troppo ardua, seguiamo e non preveniamo questo maestro buono e caritativo, il quale ci prova, e purga, e mortifica un poco alla volta, e, se noi siamo deboli, ci soccorre colla sua mano, quando noi non operiamo di capo nostro, ma dietro la sua adorabile Provvidenza. Io per me vi assicuro che ho vergogna a parlarvi; perchè sento pur troppo di non fare nulla: ma tuttavia non posso a meno di esprimere con voi questi sentimenti; perchè non dubito che abbiate gusto a sentirli, e che ne sentiate la verità nel vostro cuore, per la grazia che vi dà il Signore. Certo, avanti che un uomo chiamato da Dio alla religione sia religioso, deve essere novizio , e starsene novizio qualche tempo. Certo, per voi almeno, questo è il tempo del noviziato. Io non ne ho fatto che un poco l' anno scorso, ma il Signore me lo farà finire quando a lui piacerà; per altro da patire e nel corpo, e nello spirito massimamente, non manca, nè può mancare: e ciò conto nelle più grandi misericordie del Signore. Da parte mia dunque vi dirò « perseverate e non uscite da voi stesso dal noviziato, ma sia Gesù colla divina Provvidenza che vi tragga o vi rimetta a suo beneplacito ». Alla fine che è questa vita tutta intera se non un noviziato pel paradiso? A proposito dei conti permettetemi, mio caro, un' osservazione che può essere falsa e può essere vera, e che io vi faccio per mostrarvi tutto il mio cuore aperto, e non tacervi nulla di ciò che vi devo per fraterna carità. Se la mia osservazione è vera, approfittatevene: se ella è falsa, non curatela punto come non ve l' avessi fatta. Mi sembrò adunque di osservare in tutti i conti preventivi dei quali vi ho richiesto, un certo timore di mettere una somma così forte, che mi potesse smarrire, e che, tratto da questo timore, voi m' abbiate fatti dei fa7bisogno sempre più scarsi d' assai di ciò che si richiedeva per l' affare di cui si trattava. Ora permettetemi che io vi dica che, se la somma è forte, io non me ne smarrisco, se ella è proporzionata alle mie forze, e che è necessario sempre che io la sappia tutta, per poter fare le mie ragioni, e disporre le cose in modo che io possa avere pronti i danari al tempo che bisognano. E` meglio adunque dire tutto ciò che realmente si crede necessario fino sul principio, conservando tutta l' indifferenza circa l' effetto che potrebbe produrre. Poichè in tal modo si pratica una schiettezza che è al tutto necessaria all' uomo cristiano: e dicendo in tal modo tutta intera la verità, si confida in Dio e non nell' uomo, e si viene in tal modo ad abbandonarsi alla divina Provvidenza. Possiamo noi ottenere una cosa santa con tutta la schiettezza? E` voluta da Dio: amiamo di ottenerla. Non possiamo noi ottenerla, se non con qualche detrazione alla verità? Non è voluta da Dio: dunque nè pur noi vogliamola. Il zelo adunque non ci renda mai meno sinceri e piani in tutte le nostre vie. Io sarei indegno di essere vostro compagno, mio caro, e voi dovreste rigettarmi da voi, se forse per amore del danaro mi ritirassi dal fare qualche cosa buona. Ma d' altronde sarei imprudente, se sedendo , come dice il Vangelo, non computassi sumptus qui necessarii sunt . Se però il mio dubbio non avesse fondamento; e voi aveste fatto i fa7bisogno più bassi per accidente o per isbaglio, io richiamo tutte queste parole, e vi prego di perdonarmele per quel vivo desiderio che ho, che camminiamo in piena luce e con un cuore solo davanti al Signore. Amatemi nel Signore, e compatitemi. State certo che io vi porto sempre nel cuore, e massimamente all' altare. Abbracciate nel Signore il Molinari, e gli altri due compagni altresì. Al sig. Canonico Capis fate i miei più affettuosi saluti, come pure al sig. Avvocato Chiossi, a Pietro, all' Arciprete, e a tutti quelli che di me cercassero. [...OMISSIS...] 1.29 Vi scrivo per notificarvi la mia presentazione al Papa Pio VIII che fu ieri a otto giorni. Mi presentò un Cardinale che ha della bontà per me. Io trovai il Papa benissimo e graziosissimo. Dopo avergli baciato il piede, egli mi parlò dei libri che gli presentai: mostrando già di conoscere certe cose da me scritte, e di averle lette. Mi ingiunse di continuare ad applicarmi nei lavori scientifici a cui sto attendendo, con delle parole così gentili, che ho vergogna a trascriverle. Dopo di tutto ciò egli uscì a parlarmi del nostro comune affare, di cui era stato prevenuto favorevolmente, massimamente dal Cardinale Morozzo. Egli mi disse così (vi trascrivo il suo sentimento, perchè ci serva di norma nella nostra futura condotta): « Se Ella pensa di cominciare con una piccola cosa e lasciar fare tutto il resto al Signore, noi approviamo , e siamo bene contenti che ella faccia. Ma se Ella credesse di cominciare con delle cose in grande, noi non crediamo che andrebbe bene. Non parliamo già come Vicari (indegni che siamo) di Gesù Cristo: ma anche solo considerando i tempi nostri e le circostanze in cui viviamo ». Qui cominciò a parlare d' una Congregazione che, fino a un certo tempo, aveva fatto di molto bene, perchè si era tenuta nel poco, e non aveva voluto dilatarsi in troppe cose; e che, dopo che aveva preso un altro andamento e si era voluta rallargare e fare assai, non ha più corrisposto all' aspettazione, come al principio. Il santo Padre si allungò molto nel mostrarmi la necessità di questa umiltà e prudenza, di questa necessità che v' ha in tali opere di cominciare sempre da una piccola cosa, e lasciare che il Signore dia quell' incremento, a tempo e luogo, che è del suo beneplacito, senza che noi ci proponiamo di fare molto, ma facendo unicamente quel pochetto che noi possiamo, vivendo con ciò contenti e perfettamente soddisfatti. Tutto il discorso che mi tenne il santo Padre fu un discorso pieno di spirito di Dio, di una saviezza che viene dall' alto, e di una unzione singolare. Egli mi ha estremamente consolato, perchè il Papa parlando esprimeva, senza saperlo, il mio proprio pensiero, quel pensiero che ho avuto sempre nel fondo del mio cuore, e che forma la base principale del nostro piano. Io gli risposi presso a poco così: « Santissimo Padre, io non so come sia stata rappresentata la cosa a Vostra Santità, ma La posso però assicurare di questo, che io non ho mai inteso di cominciare con cose grandi, ma con cose al tutto piccole: la mia non è una vocazione straordinaria, come sarebbe quella di S. Ignazio, ma ordinaria; l' unica ragione, per la quale ricorro a Vostra Santità, è per sapere ed assicurarmi bene, se io, camminando per la via per la quale sono, cammini diritto, o no; per potere o avanzarmi per la stessa via, o abbandonarla ». Egli tornò a dirmi « Ella è sulla buona strada; e continui pure pel suo cammino, purchè proceda in quel modo che le abbiamo detto, cioè cominciando tutto in piccolo, in piccolo: e lasciando fare al Signore, perchè, se l' opera sarà da Dio, non mancherà già egli di favorirla ». - Io qui gli domandai la benedizione per voi e per tutti quelli che abitano la casa di Domodossola, per altri amici e benefattori dell' opera; ed egli me la diede con tutta l' espansione e l' allegrezza, congedandomi in un modo pieno di apostolica carità. Ho voluto scrivervi tutto esattamente, perchè voi veggiate, che noi sappiamo adesso, dalla bocca stessa del Vicario di Gesù Cristo, qual norma noi dobbiamo tenere di nostra condotta; cioè noi sappiamo: 1 Che noi siamo sulla via retta e che facciamo la volontà di Dio, operando come operiamo e come ci siamo proposti per l' avvenire. 2 Che la nostra principale regola, indicataci da Dio stesso per mezzo del suo Vicario, si è quella che ci eravamo proposti, di mettere cioè sotto ai piedi ogni ambizione umana, ogni zelo disordinato, di non dare punto luogo all' immaginazione che ci può ingannare col proporci cose troppo grandi; ma di non volere altro che servire il Signore nel nostro piccolo, cioè con quei piccoli mezzi che egli ci ha dati, vivendo contenti nella oscurità: pensando bensì seriamente a santificare noi stessi, e apprezzando tutto ciò che è servizio di Dio, sia ristretto o ampio, sia ignorato o conosciuto dagli uomini. Costanza dunque, giacchè abbiamo l' approvazione del Capo visibile della Chiesa; e nello stesso tempo sodezza e gravità, giacchè lo stesso rappresentante di Dio sopra la terra ci ha avvertiti del pericolo, nel quale potremmo cadere, e della illusione dell' inimico, alla quale potremmo soggiacere, se ci lasciassimo indurre nella tentazione di volere da noi stessi estenderci a cose maggiori del nostro povero stato. Questa fu la conferenza che ebbi col Papa, e questo il profitto che noi dobbiamo cavarne. Dopo questa conferenza col Papa, che mi lasciò una grande allegrezza interiore e tranquillità, io dimandai al Cardinale, mio più confidente, che cosa avessi a fare; se doveva subito ritornarmi a Domo, o restarmi ancora qui. Egli mi rispose che era necessario che io mi trattenessi, che io facessi un compendio delle Costituzioni per presentarle poi alla Congregazione dei Vescovi e Regolari da esaminare, e, Dio volendo, anche da approvare. Io spero oltracciò che ci saranno accordate delle Indulgenze per la nostra chiesa di Domo, per noi, e anche per tutti quelli che contribuissero, o direttamente o indirettamente, all' aumento dell' opera pia. Io dunque mi tratterrò ancora qui; lavorerò intanto delle opere, che ci saranno utili per la riforma degli studi ecclesiastici. La composizione dei libri il Papa me l' ha ingiunta espressamente: facendomi intendere che quest' era la volontà di Dio, a mio riguardo, e aggiungendomi « si ricordi che Ella non deve diffondersi nelle opere della vita attiva, ma deve scrivere »; e confermando ciò con parole piene di carità e di forza. Il farò dunque, giacchè per ora tale è la volontà di Dio. Godo di sentire che vi piacque il pensier mio di ristringerci da principio nelle opere esterne agli Esercizi nei Seminari, e altre cose attinenti alla educazione del clero, secondo che ne saremo richiesti. Ho provveduto qualche libro utile a ciò, e nè provvederò degli altri. Facciamo sopra tutto orazione istantemente, e cerchiamo la santificazione delle anime nostre per modo, che in essa riponiamo ogni nostro desiderio, e che con quella sieno appagati tutti i nostri voti. E` la via questa della vera tranquillità e della vera fermezza in tutto ciò che si opera. Per carità raccomandate me particolarmente al Signore, perchè sono un miserabile in questo stesso che predico agli altri. Ma il Signore che mi ha dato il desiderio ardente di santificarmi, coronerà anche questo suo dono coll' effetto. Allora dirò con tutto il mio cuore: nunc dimittis . Salutate nel Signore il Molinari, che amo in Gesù, e gli altri due nostri fratelli. Dite mille cose per me al nostro ottimo Canonico Capis; dite che ho continua memoria di lui, e che sospiro il momento di rivederlo; ditegli che lo ringrazio della bontà che ha per voi e per gli altri compagni, e che preghi per me. A Dio. A Dio. Siamo nel Signore cor unum et anima una . [...OMISSIS...] 1.29 La vostra lettera, scritta in quel linguaggio che dovrebbe essere comune di tutti quelli che hanno ricevuto una medesima fede nel Signore e che è pur tanto di pochi a dì nostri, mi fu un regalo doppiamente prezioso, e perchè un monumento d' amicizia, e perchè un monumento di religione, dirò tutto in una parola, perchè un monumento di carità. Vi ringrazio pure delle nuove che mi date de' nostri amici carissimi nel Signore: è pur bello essere così rannodati nella unità. Io vedo la mano di Dio sopra N. N., e la traccia di una sua grande misericordia. Qual dubbio che questa temporanea tribolazione non gli sarà di grande aiuto e lume all' anima sua? Egli perderà in faccia agli uomini, forse; egli scapiterà secondo i poveri calcoli del mondo: ma sarà un guadagno appresso Iddio, il quale suole fare le ragioni bene in altro modo dall' uomo e dal mondo. Che sappiamo mai noi, che cosa sia bene e che cosa sia male? Noi non vediamo che apparenze. Quegli che vive in eterno, e agli occhi del quale non vale ad occultare nulla la notte più tenebrosa, è il solo che vede la realtà: lasciamo dunque fare a lui: noi viviamo tementi e tranquilli, umiliati e quieti, in orazione e in riposo di confidenza. Per quello che mi dite di Mellerio, certo il Signore ha voluto prendere, come noi diciamo, due colombi ad una fava, cioè fargli esercitare a lui la pazienza e la carità, mentre dava a N. N. una tiratina di orecchi; perchè si riscotesse meglio, se mai c' era pericolo che egli facesse un sonnellino. Ma lasciamo dei giudizi suoi, de' quali questo solo sappiamo che sono sempre misericordiosi. - Lessi l' opera del La Mennais; e troppo a ragione la censurate. Egli dà troppo ai liberali, perocchè egli viene a porre per motivo dell' obbedienza la ragionevolezza del comando: in tal caso è distrutta ogni ubbidienza al mondo. Non si deve cercare se il comando sia ragionevole; ma se sia ragionevole l' ubbidienza. Ciò che deve bastarci circa il comando è di sapere: 1 che egli procede d' un' autorità legittima; 2 che egli non impedisce l' ubbidienza d' un altro comando superiore; e nel dubbio dee presumersi in favore di chi comanda avendo la legittima autorità. Di vero in qualunque sistema il Papa non è mai infallibile nelle cose politiche. Onde dunque saprò io indubitatamente che il suo comando è conforme in queste cose alla ragione, condizione richiesta da La Mennais? Il La Mennais stesso sentì questa difficoltà. Ma come vi rispose egli? Nella prima lettera all' Arcivescovo di Parigi si contenta di così rispondere: « Se poi è irragionevole o falso il comando dell' autorità ecclesiastica, in tal caso l' autorità stessa è nulla, perchè l' autorità ecclesiastica ha questo di proprio di esistere fino che è conforme alla ragione ». Grazie moltissime! Voi vedete: siamo di ritorno al senso privato: e ad un tal senso privato, che quando bene gli pare, dichiara nulla l' autorità ecclesiastica. In tal caso è ubbidientissimo, come voi vedete: non è mica che egli non ubbidisca: ubbidisce sempre: si riserva alcuni casi nei quali dichiara che l' autorità che gli comanda non esiste. Non è questa una ubbidienza perfettissima? Tanto è vero che gli estremi si toccano, e che se voi vi movete in un circolo in direzione opposta di un altro che parte con voi dal punto stesso, brevemente vi scontrerete sulla via, e vi unirete così di nuovo. Per altro ne' vostri studii io molto mi conforto. So che il demonio mette il suo capo da per tutto. Ma basta rispondergli quello che rispose S. Gregorio alla tentazione che gli mosse il demonio, quando componeva la grande opera de' Morali . Vedendo, che gli riusciva un libro nobilissimo e meraviglioso, come è, e che la vanità il sollucherava, ed il demonio gli metteva in pensiero « brucia l' opera per vincere la vanità »; s' accorse che il consiglio della distruzione veniva da colui che odia e non vuole che disfare, e gli rispose, « per te non ho cominciato e per te non finirò », e così proseguì il suo lavoro, liberato dalla tentazione. Così dobbiamo fare noi: lavoriamo pure allegramente, ma per Iddio, per Iddio solo. La sua santa legge sia la lucerna de' nostri pensieri, le parole evangeliche il termine delle nostre speculazioni, Gesù Cristo finalmente il nostro maestro. Ah egli ha le parole della vita eterna! Ah! beati coloro che le meditano, che le hanno nel cuore e nella mente; e che non istudiano nè indagano cosa alcuna se non per riuscire a quelle, e per conformare le cognizioni loro a quelle, e come a certa norma paragonarle, e su quelle emendarle e rettificarle, e con quelle avvivarle. Tutto perchè Iddio sia glorificato in Gesù, nel quale vi desidero che siate conformato in tutto, nè ho altro più bel desiderio da fare a tutti quelli che amo in lui e per lui. [...OMISSIS...] 1.29 La proposta di Mons. Scavini non intendo veramente che cosa abbia in mira; e vi prego di informarmene accuratamente. Qual fine ha egli nel mandare questi giovani? quanto tempo conta di lasciarli? qual è il progetto suo circa il loro mantenimento finchè restano al monte? ecc.. Per altro in questa cosa dobbiamo contenerci come nell' altre, secondare la Provvidenza ed usare in ciò tutto quel lume di prudenza che Iddio ci comunica: « in lumine ambulare ». Io sentirò volentieri il vostro parere sopra ciò; e a quello mi accomoderò. Consultate il Signore, l' incarico che assumete, le forze vostre: e tutto preso in mira, decidete e comunicatemi il vostro sentimento. E` necessario che ciò facciate voi: poichè voi solo siete in caso di conoscere le vostre forze, e vedere se il peso è ad esse proporzionato. Io non vi dirò che una cosa sola: « che assumiate solamente quello che vedete di poter fare: e che poi gli impegni presi fino al più piccolo scrupolo gli eseguiate pienamente e costantemente ». Infatti prima di assumere un impegno bisogna considerarlo e pesarlo; assunto che sia, non si può lasciarlo o negligentarlo, ma a qualunque altra cosa eventuale preferirlo: la promessa è un laccio che ci facciamo noi stessi: non possiamo più scapparci, quand' egli è fatto. Così secondo le massime dell' onestà evangelica. Aspetto adunque di sentire la vostra decisione, lo scopo di questo affare, e il vostro piano di eseguirlo. - Veggo chiaramente che Iddio vuole che mi trattenga qui fino che il nostro affare almeno sia appianato. Intanto stampo un' opera, e sembra che Iddio voglia servirsi di quest' opera per qualche suo fine. Questo non ve lo dico per vanità, ma per incoraggiarvi e consolarvi nel Signore. Sarà infine quello che egli vorrà: e sia benedetto. Io vi dico sinceramente che spasimo di venire nel mio caro ritiro, unito a voi: vi assicuro che se ne sto lontano in questo bel tempo, è perchè ne vedo il bisogno, perchè credo che così sia la volontà divina: e voi stesso me n' avete consigliato saviamente. Lo stesso mi consigliano quelle persone che proteggono il nostro affare. Godo che facciate delle confessioni utili, e che di Francia abbiate buone nuove rispetto alla vostra persona. Per l' amicizia santa, che vuole che non vi taccia nulla, non vi posso tenere nascosto che qui a Roma ci sono molti Francesi; e fra gli altri de' missionari di Francia, i quali hanno parlato di voi poco favorevolmente. Ma non temete per questo: giacchè confidare si deve nel solo Iddio, e non negli uomini: questa per altro è una città dove si sa tutto. Per questo anche credo meglio che per ora non veniate a Roma: ma spero in Dio che venererete anche voi il Vicario di Gesù Cristo personalmente presente. A Dio, mio caro in Gesù. Gesù v' innamori sempre più della sua croce, che è il tesoro maggiore che abbiamo: umiliamo sotto di essa la nostra povera umanità. A Dio di nuovo. Spero che riceverete la mia confidenza come un tratto di quella amicizia che vi debbe il vostro affezionatissimo ROSMINI. [...OMISSIS...] 1.29 Mi parla spesso il buon Padulli della sua persona, delle tribolazioni colle quali il Signore la visita, e della pazienza ed ilarità, colla quale Ella le riceve e sopporta. Io non so dirle, se non che questo è un fabbricarsi tale corona, che io ben le invidio. La grazia del Signore fa pure le cose mirabili, se cangia in tanto bene ciò che è tanto ripugnante alla nostra natura, come è il patire. Come la parola di Gesù Cristo smentisce dunque e confonde il nostro senso, la nostra natura, e tutti gli elementi di questo secolo! Egli ha insegnato che, per trovare la felicità e la grandezza, dobbiamo appunto metterci per una strada che, secondo tutte le apparenze e secondo il giudizio stolto della carne e del sangue, non presenta che piccolezza ed infelicità. E Gesù ci ha persuasi di tutto il contrario, ci ha fatto credere che i nostri occhi, le nostre mani, i nostri orecchi, tutti i nostri sensi c' ingannino, quando ci depongono sul pregio delle cose, che ci inganni il nostro spirito, la nostra stessa natura! Un' altra natura, qualche cosa di sopra alla natura, misteriosa, occulta, ma che ci si rivelerà un giorno, è il ben nostro. La potenza di Gesù Cristo si pare appunto in farci credere a questo unico bene, che è finalmente il possesso di lui stesso, il Re della gloria. Noi avremo una gloria simile a lui, ma se saremo umiliati in modo simile a lui; noi saremo come lui felici e grandi, ma se porteremo la croce come lui. Quanto è sublime questa dottrina, e come si diparte da tutto ciò che poteva inventare la sapienza umana, dirò anche l' umana immaginazione! Indarno il mondo la rifiuta: perchè le tenebre non hanno mai compresa la luce. Noi compiacciamocene pure, con una tenera gratitudine verso chi ci ha recati gratuitamente in sì ammiranda chiarezza di verità: ed egli ci conservi in essa fino alla fine. Il Signore ci ha dato ancora tutti i mezzi perchè, se noi vogliamo, possiamo conservarci in essa, e mezzi sicuri. Qual più sicuro e consolante mezzo della protezione di Maria Vergine Santissima? Don Giovanni, il suo divoto, mi ordinò espressamente di nominarle Maria Santissima, scrivendole: e quanto mi è dolce il farlo! Non è questo caro nome di Maria un balsamo a tutte le nostre piaghe? Io vorrei ben sapere da Lei quante volte avrà sperimentato il conforto di questo nome, l' aiuto di questa madre di tutti quelli che a lei ricorrono: perocchè al solo pensare a questa genitrice di Dio e nostra, l' animo si tranquilla e la mente si rasserena, a parlarne si diffonde la letizia, e a invocarla si rintegra il coraggio anche ne' momenti di maggiore lassezza e battaglia, e si mettono in fuga i nemici dell' anima nostra; e chi in lei confida non può perire. Egli è per questo che Le parlo tanto più volontieri di questa Madre e Signora nostra, in quanto che io spero che Ella vorrà dire, anche per me, miserabile peccatore, un' Ave Maria , e mettermi con tutti gli altri gran peccatori sotto il di Lei manto; poichè non è nessuno che sotto quel manto tremare possa per quanto sia misero. Oh conforto ineffabile, quello di poter tutti avere il diritto di chiamare mamma, la Mamma di Dio! quella che ce lo diede Redentore, che ne ebbe cura, che lo seguì sulla croce! Ed è colassù, al piè della croce del Redentore spirante, che ebbe principio il nostro diritto di dire mamma a Maria, e che fu legalizzato, quasi direi, colle parole di Gesù, ecco la Madre tua . Sicchè nel mezzo ai dolori dell' Esemplare nostro, ed a quelli di Maria, nacque la nostra adozione! Si può egli trovare un pensiero più consolante, nel mezzo ai disgusti ed alle croci di questa misera vita, di quello che è il pensare, come la Maternità di Maria verso noi fu proclamata in mezzo alle pene? E` nelle pene nostre, infatti, che la tenerezza di questa amorosissima Mamma nostra trova un campo maggiore, ed è, quasi direi, nel suo regno. Ah stiamoci dunque attaccati a quest' affabile, a quest' amorosa consolatrice! Mettiamoci sempre nelle sue mani, e, in quelle abbandonati, più nulla temiamo; e felici quelli che il fanno davvero! Ella lo impetri ancora a me, che finisco domandandole mille scuse di tanta libertà che mi sono preso e dichiarandomele umil servo A. R.. [...OMISSIS...] 1.29 Ecco vi restituisco tre anime carissime che me abbandonano. Quanto ne sento la separazione! Era veramente tutto ciò che di più caro e di più dilettevole m' aveva qui. Spesso insieme, e sempre in questi ultimi mesi, eravamo divenuti un cuor solo ed una sola vita. E` solamente fuor dello spazio e del tempo che può trovarsi l' immobilità del diletto di amare, in quel punto che esclude ogni separazione, ogni divisione. Oh beata unità! eterna beatitudine! Don Giovanni vuole che vi scriva e vi scriva de' figliuoli suoi; ve ne faccia il carattere, ve ne esponga l' avviamento. Tutti e due hanno dato prove non dubbie di un bel cuore, e di una volontà del bene. Tutti e due li ho sentiti a protestare tante volte, che faranno di tutto per rendere consolato l' amoroso padre, per corrispondere alle sue sollecitudini ed alle sue assidue cure, delle quali apprezzano il valore, e non si sentono in caso di ringraziarne Iddio bastevolmente. Giovanetti così intelligenti e così decisi nel bene, offerti ogni dì a Gesù ed a Maria dal loro buon genitore, è impossibile che non sieno benedetti dal cielo, e che non riescano a quel termine di virtù pel quale tutti siamo nati. Nè nell' uno nè nell' altro ho notato la menoma ambizione, e il menomo sentimento di baldanza sopra gli altri uomini loro inferiori, rispetto al posto nella umana società. Tutti e due meritano di essere incoraggiati alla virtù, a cui sono rivolti, colla dolcezza e coll' affetto, mezzi a' quali sicuramente rispondono. Converrebbe fare loro sentire vie più profondamente l' importanza di un travaglio forte: e infondere nelle loro anime una forte volontà. E` questo il principio di ogni grande riuscimento. Il mondo ha dei motivi co' quali la infonde a' suoi seguaci che non abbiamo noi, l' orgoglio di soperchiare gli altri, l' avidità di guadagno, tutti in somma gli attaccamenti ai beni della terra. Noi per grandi motivi abbiamo l' amore della giustizia, di Dio, dei beni del cielo: più sublimi, più efficaci altresì, ove sieno fatti signori dell' uomo onnipotenti; ma non cadono sotto i sensi. Indi la difficoltà d' infonderli massimamente nella tenera età, tutta occupata e quasi istupidita dalla folla delle impressioni de' sensi. Intanto non conviene nulla ommettere per attemperare l' azione di queste, e dare luogo all' azione di que' motivi. La grazia viene in soccorso: ella fa sentire ciò che è insensibile ad un senso secreto dell' uomo: le cose dello spirito, allora che la grazia le infonde, acquistano dirò così un corpo spirituale per noi, e l' anima nostra le vede, le palpa, le amoreggia e si mesce con esse. Ah operi il Signore queste maraviglie di un universo che è tutto celato all' uomo carnale, con abbondanza! A Raffaello ancora darei a leggere le opere di S. Francesco di Sales, e vorrei come si suol dire, che ne rinsanguasse: a Matteo una scelta delle lettere di S. Girolamo, o qualche altro simile forte scrittore, sebbene di sapor aspro pel suo palato. Circa gli studi dissi già al padre suo, che quanto potrà farglieli fare regolari e compiti, tanto più gioverà. Ecco quanto io vi posso dire di questi due vostri nipoti, tanto a me cari e preziosi. Il padre suo sta trepidante sull' avvenire, perchè chi ama teme. Ma se v' ha ragione di temere sempre, ce n' hanno mille tante più da sperare. Amatemi come fate, salutate tutti quelli che di me si ricordassero; ed anche voi pregatemi dal Signore la grazia, che unica desidero, di servirlo. [...OMISSIS...] 1.29 Non camminiamo solamente puri davanti a Dio, ma anche chiari e difesi davanti agli uomini. Usiamo tutta la sincerità immaginabile, tutta la semplicità ed insieme tutta la prudenza. La semplicità farà sì che noi saremo abbandonati in Dio, e confidando in lui non temeremo mai d' essere pienamente veraci, si trattasse anche di cose che ci dovessero umiliare; accettiamo l' umiliazioni: Iddio accetterà la nostra mortificazione. Ma la prudenza esige che rendiamo sempre ragioni manifeste di tutto ciò che facciamo, acciocchè o gli uomini non ci scherniscano giustamente, o non ci rimproverino la nostra indiscrezione nel pretendere che essi credano alla cieca quanto loro diciamo, o ci accusino non pure di poca delicatezza, ma ancora di presunzione; quasi che ciò che noi diciamo fosse giustificato dall' autorità di noi che lo diciamo. Teniamo adunque sempre presente in questa avvertenza, come in tutti gli altri nostri passi, il divin nostro Maestro e Salvatore Gesù Cristo, il quale volle che le sue parole fossero provate e confirmate dai miracoli, e da tant' altre prove, e recò in testimonio il suo Padre celeste che colle profezie e coi portenti giustificava e confirmava quanto egli diceva. « Si non facio opera Patris mei, nolite credere ». Ed io ho pensato molte volte qual fosse la ragione, per la quale Maria santissima non raccontò a Giuseppe l' apparizione dell' Angelo, ed io credo che fosse perchè non poteva darne prova, ed era tanto umile che non esigeva che fosse creduto alla sua sola parola. Questa adunque sia il nostro modello e la nostra regola, mio caro. Non parliamo mai agli uomini, se non ciò che noi possiamo provare loro con delle prove manifeste, acciocchè non abbiano ragione di rimproverarci; tanto più che Gesù Cristo ha detto « cavete ab hominibus ». Perdonatemi, mio caro, anzi carissimo amico e fratello, se sono così lungo e così minuto in queste massime. Penso che se mai Iddio ne' suoi arcani impenetrabili avesse destinato, che ciò che noi facciamo portasse qualche consociazione di persone in un corpo per servire a' suoi fini; l' esito di tutto questo corpo dovrà dipendere dalle massime che si stabiliscono a principio. Dunque io giudico di somma importanza l' occuparci seriamente a conoscere e stabilire quelle massime che si debbono abbracciare giusta lo spirito di Dio. E trovo che una di queste massime nel trattare cogli uomini dee essere quella di usare loro un sommo rispetto ed una somma delicatezza, e non solo di trattare con essi colla schiettezza e semplicità evangelica, cioè non solo procedere con veracità in tutte la cose, ma ben ancora non avanzare cosa, senza che la proviamo. Mio caro, andiamo innanzi con purità di spirito e costanza, e riceviamo dalle mani del Signore le umiliazioni senza temerle; perocchè le umiliazioni sono quelle che ci aprono gli occhi dello spirito, eccitano la fede, promuovono la speranza, ed accendono in noi veramente l' amor di Dio, che è la sua grazia che si comunica agli umiliati. Sento che Molinari l' avremo presto Diacono: sia ringraziato il Signore. Qui mi si è presentato qualche soggetto; ma vi dirò tutto in voce. Dobbiamo avere pazienza e vivere in pace, meditando sulle anime nostre. Io voleva partire di qui già è molto. Vedo che fu assolutamente la divina Provvidenza quella che mi trattenne, e mi tratterrà qualche poco di tempo ancora, ma non molto. Sebbene io sia sempre al monte Calvario col mio pensiero e nella cara vostra conversazione, tuttavia di questo indugio ringrazio Iddio, come di tutte le cose. Le vie del Signore sono elevate, ed egli conduce da lontano i suoi disegni. Mio caro, pregate, come fate, per me. Io non celebro il santo Sacrificio che per voi, e per me indegnissimo peccatore, acciò Iddio ci salvi, e ci faccia esecutori fedeli della sua volontà che è la piena nostra santificazione. Le cose che ho qui stampate sono tutte rivolte ad un solo scopo, perchè un solo fine hanno tutti i miei pensieri e desiderii, la salute delle nostre anime. Addio; vivete nella pace del Signore. Egli vi empia di lume: e questo lume, lucerna a' nostri piedi, sia la sua legge. [...OMISSIS...] 1.30 Ciò che mi dite di sperimentare, o mio carissimo, dall' affetto e dall' attaccamento a ciò che avea di visibile la vostra figlia, è un argomento da conoscere sensibilmente qual sia la lusinga di questi nostri sensi che si apprendono istintivamente alle cose terrene senza guida di ragione, e da queste è poi difficile lo staccarli per ragione, la quale pare che non abbia, quasi direi, più diritto d' intervenire a disciogliere que' legami, che non è intervenuta a formare. Ed è per questo che io credo che S. Giovanni dicesse che tutto ciò che è nel mondo è pericoloso; anche perchè il solo uso, la sola consuetudine e famigliarità alle cose sensibili ci produce l' effetto di avvincolarci ad esse, anche senza che noi ce ne accorgiamo e senza che possiamo rimproverare a noi stessi nessuna azione particolare gravemente peccaminosa; e quindi diminuisce la libertà del nostro spirito, e lo spoglia dell' interezza della sua forza, colla quale egli dovrebbe tendere nel solo Dio e a Dio solo congiungersi. Ma tutta la debolezza che noi veniamo sperimentando, tutta quella infermità della carne che proviamo anche quando lo spirito è pronto, qual bello e verissimo argomento di umiltà non ci dev' essere! E quanto non è consolante per noi stessi il compenso della nostra umiliazione, per ottenere la quale Iddio permette la stessa nostra infermità! Poichè quando siamo umiliati, allora abbiamo resa giustizia a Dio e lode alla verità; e questo è lo stato dove la grazia non trova più impedimenti e viene infusa nell' umile a ribocco. Amico carissimo, dandomi voi presa colle vostre riflessioni di dir queste cose, me la date ancora di considerare in me stesso e l' infermità della carne e il debito della umiliazione; che mi aiuterete ad ottenermi altresì da Dio, come caldamente ven prego. Qui mi dà gran conforto il trovare una evidente e copiosa benedizione del Signore: l' affluenza a questa Chiesa è grande; la dottrina cristiana sì per gli adulti che pe' fanciulli è frequentata e sentita con avidità somma e con manifesto profitto; al confessionale non si può supplire; le comunioni sono molte, non solo i giorni festivi, ma anche i giorni feriali. Tutto merito principalmente di D. Giovambattista, il quale lavora tutto il giorno, e nè pure la notte talora ha riposo, come la notte passata che spese ad assistere un moribondo, dopo un giorno in cui non avea trovati che pochi momenti da pranzare e cenare fuori d' ora. La sua robustezza lo assiste, è vero, ma niente varrebbe senza la grazia del Signore, da cui viene la vera fortezza. A Dio. Tanti miei complimenti in casa Patrizi, ed alla vostra Mariannina. Salutate pure D. Luigi, se è costà arrivato. [...OMISSIS...] 1.30 Spero che l' aria di Napoli, i bagni e la distrazione gioveranno a sollevare lo spirito, non solo il corpo della vostra Mariannina, ed il vostro medesimo; giacchè dobbiamo aiutarci anche di questi mezzi esteriori per ottenere quello che la nostra infermità non ci concede di ottenere per puro sforzo di virtù. Conviene però nello stesso tempo suscitare in noi la fede, credendo fermamente che Gesù Cristo è onnipotente, e che dopo poco tempo (giacchè questa vita e il corso di questo mondo è breve) noi riaveremo per virtù della sua onnipotenza quello che abbiamo perduto, o piuttosto quello che si è nascosto ai nostri occhi. Ho perduto anch' io il padre e dei cari amici, ma immagino che stieno facendo un viaggio, dal quale aspetto che ritornino e che io li possa di nuovo riabbracciare. Gran conforto mi dà il pensare che verrà il giorno in cui li possederò vestiti delle stesse carni e delle stesse fattezze che avevano quando mi lasciarono, li vedrò e li toccherò e converserò con loro liberamente fino che a me piace, perchè essi saranno la mia delizia, senza che io li perda più mai. Tutta la rassegnazione adunque nella perdita de' nostri cari, per noi cristiani, se abbiamo fede, non si riduce se non ad un poco di aspettare fin che Dio voglia; ma noi non abbiamo, veramente parlando, perduto nulla, nulla è morto per noi: tutto vive, o al più dorme. Ma conviene, come dico, fare atti di viva fede, credendo che Dio è onnipotente, e che ci può pienamente consolare. [...OMISSIS...] 1.30 Vi ringrazio molto del giudizio vostro che mi comunicate sulle carte consegnatevi che racchiudono la descrizione della progettata istituzione. Voi avrete ben compreso da quelle, come l' effetto che porterebbe una simile istituzione, se a Dio piacesse che avesse luogo, sarebbe quello di mettere in comunicazione tutte le buone persone fra di loro, e, quasi direi, di organizzarle al bene, opponendole all' empietà che si unisce con tanto ardore, tutte in un sol corpo. Sembra che ciò sia reso necessario nei nostri tempi, giacchè anche i buoni debbono avere il loro diritto di difesa. Questo dico è l' effetto che ne verrebbe. Ma in quanto al piantare una istituzione che porterebbe questo effetto, io sono intimamente persuaso che non può essere opera di uomini, ma di Dio solo: e che quindi si dee in questo affare tener lontanissimo lo spirito d' intrapresa: spirito umano, e fallace, col quale certamente nulla mai si farà che sia veramente buono. Per questo tutto il nostro studio consiste nel non mettere ostacoli alla divina Bontà: è un affare negativo: e nel cooperare alle occasioni che la divina Provvidenza ci manda senza punto cercarle da noi stessi; questo avrete veduto che è una delle massime fondamentali esposte nelle carte che avete in mano. Ma si dee riflettere ancora un' altra cosa importante. L' organizzazione dei buoni l' ha piantata già Gesù Cristo nella sua Chiesa: non se ne può dunque creare un' altra: si dee attenersi strettamente all' organizzazione della Chiesa, che consiste nel Papa, Vescovi, Parrochi. Questi sono i centri, i due primi certo d' istituzione di Gesù Cristo, ed il terzo è posto dalla Chiesa, sulle traccie del suo Fondatore. Nulla dunque dee essere staccato da questi centri. Io son d' avviso che siamo venuti in tempi ne' quali nessuna istituzione può più sostenersi se non per la forza di questi centri inconcussi, su cui la Chiesa stessa è fondata. Esaminando voi la carta che avete in mano, vi accorgerete ch' essa non descrive se non un modo, onde si possa un poco alla volta rannodare, stringere, sottomettere tutte le buone istituzioni a quelle potestà costituite da Gesù Cristo, in un modo naturale però; sicchè tutto nella società dei cristiani vada a suo luogo. Considerate come gli ascritti ed i figlioli adottivi sono legati coi superiori della società, i coadiutori esterni secolari e laici sono pure avvincolati agli stessi superiori, i quali col tratto del tempo vanno a cangiarsi in altrettanti pastori della Chiesa, se Iddio a ciò li chiama. Ora egli è evidente che tutte le altre istituzioni, a qualunque buono scopo formate, potrebbero esser parti di questa natura di società, e quindi potrebbero esser tutte incorporate armoniosamente in un corpo, purchè però abbiano per fine la vera gloria di Dio e la carità. Meditando questi principii voi, signora Marchesa, colla vostra penetrazione potrete conoscere assai bene la natura di una società di cui non esiste che il piccolo seme, e potrete conoscere quanto questo seme potrebbe esser fecondo nelle mani di Dio. Vi prego però di non far uso di queste confidenze che con voi faccio, Marchesa, per l' alta stima che m' avete ispirato, se non colla massima circospezione. E` assai facile il non essere intesi, quando si parla di cose che sono ancora puramente possibili. Contentiamoci adunque di stare al fatto: io sono veramente contentissimo di questo mio eremitaggio, e nulla più cerco. Faccia poi il Signore, la cui grazia sola desidero. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.30 La cara vostra del 26 agosto mi ha dato molta afflizione secondo la carne, sentendovi ammalato: ma molta consolazione altresì secondo lo spirito, nel quale finalmente viviamo. Ringrazio di cuore Iddio sentendo che voi dichiarate di riconoscere come teneri segni dell' amore suo gli incomodi che manda al vostro corpo; ed egli è pur così, mio caro; sono pegni di un amor singolare, prezioso, sublime. Sebbene io sia pur troppo insofferente, tuttavia ogni qual volta mi rammento i miei abituali incomodi, li riconosco e li confesso per tali, e so di non poterne abbastanza ringraziare Iddio. Nessun miglior tempo per esercitare la pazienza e l' umiltà che quello, nel quale siamo infermi. Quale aiuto per essere compresi dell' altezza dei giudizi di Dio non è per noi il sentire la dissoluzione del corpo nostro, e quanto essa ci sia sempre imminente! e come possa riuscirci repentina! Cade ogni vana presunzione a questo pensiero, e la menzogna del nostro orgoglio fa luogo alla verità del nostro niente, e qualunque piccola confidenza in noi stessi ci muore in seno, dove sorge un abbandono ed una confidenza tenerissima in Dio solo. Sì, mio caro, così è. Per altro rendo grazie a Dio del sentirvi privo di febbre ora, essendo egli che mortifica e vivifica; e spero che vantaggerete nel corpo ogni dì. Ho gran desiderio poi che mi teniate informato accuratamente del vostro stato, e se non potete voi, pregate di ciò il caro Quin, a cui farete i miei più teneri saluti. La morte della Marchesa Patrizi me l' avea scritta già il Conte Mellerio da Albano. Anche qui c' è la mano di Dio, e noi adoriamola. Spero che de' passi da voi fatti per la partenza non ve ne verrà cosa alcuna di sinistro; perchè non ci poteva esser nulla di dispiacevole, come a me sembra, in una gita autunnale, anche venendo conosciuta: di questa veramente si trattava, come eravamo restati intesi, lasciando alla divina Provvidenza di fare il resto. Oh! quanto è dolce abbandonarsi nelle sue mani, senza curiosità sul futuro! Il vivere coll' incertezza del futuro, e colla quiete perfetta nelle mani di Dio, era il desiderio dei Santi, ed è una disposizione a Dio carissima. Questi sono i vostri sentimenti, come raccolgo dalla cara vostra; e non mi faccio maraviglia se in questa piena ed umile conformità al volere divino, voi troviate, come mi dite, una gran pace e la costanza nei buoni proponimenti. Mi è pure cosa assai dolce il sentire come voi siate nel perfetto equilibrio di volontà anche circa il presbiterato, e disposto a fare solo quello che il vostro confessore e gli altri Superiori vi ordineranno. Quanto dite poi del sentimento d' indegnità che provate nel vestire gli abiti diaconali, è lume di Dio, che vi fa vedere la verità; giacchè la sola corruzione nostra originale, l' ignoranza nostra, la presunzione innata e la concupiscenza ereditata ci mettono tanto in basso, e ci rendono così vili e spregevoli per noi stessi, che non si può esprimere nè concepirlo appieno; ed è la pura misericordia di Dio quella che gratuitamente ci ha infusa la grazia nel Battesimo ed ha vivificato il nostro spirito: sebbene la nostra carne sia ancora morta, e fruttificante sempre morte. Laonde quanto più ci abbassiamo, tanto più ci accostiamo alla verità. Intanto v' abbraccio con tutto il mio cuore nel Signor nostro, ed in Maria nostra tenera madre. Abbracciate pure per me il signor Quin. Abbiate cura della vostra salute, e rendetemene informato diligentemente. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.30 L' afflizione che voi dovete avere per la morte della povera Giovannina Patrizi, e che io divido con voi, mi stringe a scrivervi la presente per condolermi ad un tempo, e sfogarmi con un tanto amico. Non è solo la mancanza della Patrizi che mi accuora, ma il dolore che involontariamente ella produce morendo a' suoi più stretti congiunti, al nostro egregio Mellerio, ed a voi che vedete accresciuto dolore colà appunto, onde vi consigliavate di attignere la consolazione del primo dolore. Il Signore non senza misericordia fa tutto, perchè egli è ottimo; e fosse ancor più duro il caso, noi dobbiamo sempre vivere pronti e disposti di piegar il capo, e dire: sia benedetto il suo nome. Qual sicurtà possiamo mai avere in tutte le cose che ci circondano? Nissuna; e se noi ne poniamo alcuna in esse, operiamo da stolti; perchè non è motivo da dover credere stabile ciò che di sua natura è mutabile e transitorio, e che non dura alcun poco di tempo, che per puro accidente. Se noi giudichiamo così delle cose umane, com' elle meritano, noi ce le vedremo sottrarre anche tutte l' una dopo l' altra, e non ci maraviglieremo, non ci turberemo di soverchio dolore; giacchè vivremo apparecchiati a vederle sparire ogni dì, ringraziando Iddio ogni momento che non ci sono ancora sparite; giacchè è più maraviglia che esse persistano, che non sia ch' esse ci sfuggano, e svaniscano. Ho scritto anche al nostro Mellerio; ed attendo nuove di tutti voi con impazienza. M' imagino già il ristoro che saprete derivar alla tribolazione, in cui vi mette il Signore, dall' orazione fatta al piè della croce, in compagnia della nostra addolorata Madre, che tanto perdea più di noi, e che pure più di noi era nel suo dolore rassegnata e costante. Salutatemi la povera Mariannina con espansione. Spero di vedervi presto, cioè in su la fine di questo mese, se altro indugio non interviene. Abbracciate Mellerio e D. Giovanni. Voi siete tutti meco nelle mie indegne orazioni. Addio. [...OMISSIS...] 1.30 Vi ringrazio di avere consolata la mia carissima signora Madre, nell' averle detto la verità del mio stato e della mia posizione e abitazione. Aggiungete che sono ora in sul ripararmi anche più dal freddo secondo i vostri consigli: faccio chiuder le scale per modo, che andando in refettorio non si debba toccar l' aria del cielo sereno, ed in refettorio stesso colloco una buona stufa che può stare in prova colle tedesche. Insomma si va migliorando, almeno pel corpo; così fosse per l' anima, mio caro, che è poi l' unica cosa importante! Oh qui sta il tutto! La vera sapienza è in quel piccolo e semplice libro che si chiama Vangelo; là c' è tutta: e se non fosse temerità la mia, vorrei pure consigliarvi che di questo librettino voleste leggere non più che pochi versetti al giorno, ma pensando che vengono fuori dalla bocca di Dio, e che si debbono intendere con semplicità, e senza stiracchiature interessate: poco tempo ci vuole, ma in quel poco tempo s' odono le parole della vita. Io per me vi conforto a farlo quanto so e posso, e spero che ci saranno di consolazione al cuore che si riscalda con quelle parole, e si fa in noi ardente mentre si ascoltano. Questo consiglio mi cade dalla penna in contandovi dello star bene del mio corpo, cioè di questo corpo che per quanto stia bene, si va però tuttavia indubitatamente a perire fra poco tempo. Così è, e la verità è una sola, immutabile. Amen , perchè mi è caro che così sia, perchè amo la verità. Addio mio caro: non più, se non che v' abbraccio insieme con don Paolo strettamente. Al signor Arciprete i miei più affettuosi saluti. Continuatemi l' amore, di cui mi fido; voi pure fidatevi, che v' amo. [...OMISSIS...] 1.30 La cara vostra lettera de' 22 ottobre, giuntami alquanto tardi, mi ha consolato per le notizie che racchiude, nelle quali vedo la misericordia di Dio. Ciò che mi ha più di tutto consolato, si è la concordia che regna fra di voi, e la perfetta sommissione di don Giulio e dei giovani che mi accennate, ne' quali ponete molta speranza; giacchè questa perfetta unione e sottomissione al proprio superiore, non riguardando la persona ma ciò che rappresenta, dee esser proprio il gran mezzo d' ottenere la grazia e benedizione di nostro Signore Gesù Cristo, che è piaciuto al Padre per la sua ubbidienza. Anche qui le mie speranze si fondano nel sembrarmi che si vada guadagnando nella virtù dell' ubbidienza; qui, dico, dove la virtù dell' ubbidienza è più meritoria. Ah sì, è più meritoria perchè colui che hanno eletto per Superiore è l' infimo di tutti! l' hanno voluto eleggere a malgrado che egli prima volesse far noto ad uno di loro tutte le iniquità della sua vita, e dando a lui libertà di parlare cogli altri, perchè conoscendolo tanto indegno mutassero pensiero. Si fece anche un digiuno con orazioni per tre giorni pregando Iddio che rischiarasse le menti, ma fu tutt' uno. In fine accettò di esser capo provvisoriamente in fino a tanto che si potrà eleggere un capo stabile secondo le Costituzioni. Io ho vergogna a dirvi chi questi sia; ma la vostra carità sa bene già, con questo solo che ho detto, per chi pregare. Mi consolano pure le notizie che mi date del Collegio e delle opportune persone che avete trovate per attendervi, e spero un grande bene dalle Conferenze spirituali già incamminate. Le « Massime di Perfezione », che avete scelte per materia delle medesime, mi sembra che sieno fondamenti da gittarsi, e stimo che non sieno mai intese abbastanza, mai abbastanza discusse, meditate, sviscerate, ed in tutto osservate. Come vi sarete accorto, esse formano la base di tutte le Costituzioni. Noi abbiamo pure cominciato a farle argomento delle nostre Conferenze secondo un piano regolare. Fin qui per argomento delle Conferenze aveva dato quelle materie che mi sembravano più urgenti pel buon ordine e regolamento della Casa, come sarebbe: 1 dell' importanza che le ore della giornata siano bene distribuite e che sia mantenuto l' orario esattamente; 2 sul silenzio; 3 sull' impiego del tempo; 4 sul portare i difetti l' uno dell' altro; 5 sull' ubbidienza; 6 sull' abituale raccoglimento, ed altri simili oggetti. Ma ora si comincierà a parlare della perfezione, e a far sì che si convertano in succo e sangue le « Massime »: perchè il giorno d' Ognissanti fu considerato come il principio della Prima Prova , che si farà in tutto quello che sarà possibile a tenore di ciò che prescrivono le Costituzioni. Finite poi le « Massime », o si ripeteranno un' altra volta, o si prenderanno per argomento le Regole comuni , di cui vi manderò copia, coll' intenzione di ripetere le Conferenze sulle « Massime » in altro tempo: perchè tali Conferenze sopra oggetti di capitale importanza vanno di quando in quando ripetute. Avete fatto bene, mi sembra, a diminuire le fatiche del confessionale, giacchè troppo vi resta da fare nelle altre occupazioni che non potete al presente abbandonare. Per ciò che dite dello scoraggiamento che sentite nel vostro spirito, io credo che ciò sia voluto da Dio per farvi sperimentare l' umana miseria e farvi conoscere col fatto che avete bisogno di Lui, ch' è il solo fonte della forza, e per farvi incessantemente ricorrere ad un tal fonte e confidare in Lui solo. Se noi sentissimo molto coraggio e molta forza nel nostro spirito, forse ci dimenticheremmo di dimandare a Lui continuamente aiuto e sostegno; ma sentendoci venir meno, siamo ogni momento costretti a gridare: « Domine, salva nos, perimus »: ed al Signore sono accettevoli le grida della nostra umiltà e del sentimento della nostra impotenza. Che se poi ciò nasce dalla poca vivezza della nostra fede, anche allora l' esperienza che proviamo del nostro nulla può avere in compenso il merito di ottenerne maggior dose coll' orazione. In quanto all' altro impedimento che trovate in voi stesso nel peso del vostro corpo che desidera una nutrizione confacente, e cerca un riposo nel suo ben essere; io credo bensì che sia un giusto motivo da conoscere in noi stessi una disarmonia e deformità originaria, e per questo da piangere e da sclamare: « quis me liberabit de corpore mortis huius? » ma credo ancora che sia tale da non dovervene punto nè poco turbare. E a questo proposito mi sembrano buone queste due regole: 1 se siamo obbligati da' nostri doveri ad astinenze ed altre privazioni e mortificazioni corporali, badar bene di non darla vinta all' inclinazione del corpo, ma ad ogni costo far che vinca lo spirito; 2 se poi si tratta di astinenze e mortificazioni libere che imponiamo a noi stessi, allora farne quello che si può con libertà di coscienza, e quando si manca non turbarsene, o discoraggiarsene punto: ma in quella vece fare un atto di sincera umiltà dicendo a noi stessi: « qual maraviglia che non abbiam potuto mortificarci? maraviglia è che non abbiamo fatto di peggio »; e in quest' atto di sincera umiltà riconoscere la nostra estrema debolezza, che pur troppo ci fa venir meno anche nelle più piccole cose. Ciò ci servirà molto per allontanar da noi la tentazione di essere un qualche cosa nella via dello spirito, mentre pur nulla siamo. E questa regola di compensare con un atto di umiltà quell' atto di mortificazione che non siamo stati capaci di fare, mi disse una persona a cui l' ho insegnata, che la trovò efficacissima per acquistare la pace del cuore, giacchè prima di praticar questa regola s' inquietava e disanimava quando mancava a qualche mortificazione prefissasi; ma dopo nel riconoscimento della propria insufficenza si tolse a tranquillare. In quanto poi a quel continuo istinto di aspettare un riposo nel buono stato del nostro corpo, e nel provare il senso troppo vivo della prosperità e buona nutrizione del corpo, io confesso che è pure una gran pena per lo spirito, un gran timore, una gran croce; ed io la provo continuamente. Tuttavia è l' intenzione dello spirito quella che si dee tener desta e diretta continuamente a Dio, e come dicono i Santi Padri, è l' apice della mente. Ecco come dice il Libro dell' Imitazione: [...OMISSIS...] ; e questa è la via della santa libertà di spirito, coll' occhio dell' intenzione mirar in Dio solo, ed ivi finir con tutta la nostra libera volontà, e sopportar nel resto noi stessi e la nostra infermità. Certo non siamo capaci di grandi cose: persuasi di questo ci contenteremo di tutto, e ringrazieremo Iddio di non far peggio: altro non possiamo fare che riconoscer questo ed abbandonarci del resto in Dio. Amiamoci in lui; giacchè la carità è il contrassegno dei discepoli di Gesù Cristo: qui siamo un cuore e un' anima sola. Ci si è aggiunto da pochi giorni un altro compagno, di cui spero bene: fu la Provvidenza sola che ce lo mandò: riceviamo ciò che ci dà, rendendo grazie. Preghiamo unanimemente. Ogni sera nelle orazioni comuni qui preghiamo anche per voi. Abbracciatemi il nostro caro Giulio. Il caro don Giovanni vi fa tanti saluti nel Signore, come anche li fa a Giulio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.30 Voi mi chiamate Padre, e non sono che un figlio discolo: ommettete quella espressione che mi fa tanto arrossire e vergognare di me stesso, e chiamatemi fratello, se così vi piace, che me ne trovo io anche troppo onorato: ma via, per amore poi posso essere e vi sono fratello. Mi ha consolato moltissimo la vostra lettera, come pure ha consolato moltissimo il nostro caro fratello Don Giovanni, primieramente per ciò che dite della vostra persona. Ringrazio il Signore che vi accresca forza e che siate arrivato colla meditazione ai tre quarti d' ora. Questo mezzo della meditazione lo tengo molto importante: noi ne abbiamo un piccolo metodo in iscritto cavato massimamente da S. Ignazio: è buono che imparino tutti un buon metodo, e vorrei che questa fosse una delle prime vostre cure circa i vostri compagni di far sì che imparino bene il modo di meditare. Questo del meditare, quello di esaminare la coscienza e quello di pregare con intelligenza e attenzione, sono i tre principali istrumenti della vita spirituale. Mi ha pure consolato il pensiero che mi manifestate di far dare un piccolo passo innanzi all' unione questo santo giorno di Natale prossimo. - Ho poi qualche osservazione da farvi sul vostro progetto, ed aprirvi quale sarebbe la mia intenzione. Primieramente non vorrei che diceste: « Se il Signore aprirà il cuore del nostro Sovrano », ecc. poichè io stimerei meglio di non pensare a questa cosa: se l' opera è da Dio, avverrà tutto ciò che è necessario, perchè abbia il suo esito: abbandoniamoci più ciecamente alla Provvidenza: io stimo che dobbiamo fare tutto quel bene che possiamo al presente con ogni tranquillità e senza occuparci punto del futuro e dell' incerto: il che è sempre un fonte d' inquietudini, colle quali il nostro inimico vorrebbe sempre tenerci in moto la fantasia, e toglierci la pace del cuore. « Nolite cogitare in crastinum ». Direi dunque che con tutta semplicità faceste ai vostri compagni il discorso da voi ideato, soggiungendo unicamente di tenerci uniti nello spirito tutti e di dimandare maggiori grazie e misericordie, purificando incessantemente le nostre anime fino a quel tempo, se Iddio lo ha stabilito, nel quale si potranno regolare meglio le cose, e con maggiori vincoli anche esterni congiungerci. Intanto le nostre relazioni saranno nell' unità del fine e de' mezzi, nell' uguale abbandono alla Provvidenza, lasciandoci da essa muovere senza punto prevenirla, nella carità scambievole e nella frequente comunicazione epistolare, colla quale ci manifesteremo a vicenda tutto ciò che la misericordia divina dispone circa di noi, sia che siamo in un luogo o nell' altro. Vi dirò poi anche quale intenzione io avrei. Non è già necessario di avere una positiva approvazione dal Governo, come ho rilevato avendo consultato sopra di ció persone bene informate; ma basta che siamo in buona intelligenza col Vescovo, e mi sono state mostrate anche in fatto diverse Congregazioni in Italia esistenti, che non hanno mai dimandata approvazione politica, ma essendo ben vedute dal Vescovo anche il Governo n' è pienamente contento. Questa buona intelligenza poi col Vescovo è necessaria in ogni modo, qualunque cosa si abbia in animo di fare, ed io ho gran fiducia di ottenerla per alcuni buoni indizi che n' ho avuti. D' altro lato è meglio andare adagio, e fare in tal modo un piccolo passo alla volta, senza parlare menomamente di approvazioni formali, e senza presentarsi come veramente una società religiosa; giacchè la vera natura di questa società è quella di essere una società umile e privata, e l' unione consiste puramente nei vincoli spirituali, che riguardano la coscienza, sicchè il Superiore sia veramente un Padre e Direttore spirituale. Anche il carissimo nostro Don Giovanni è dello stesso avviso; e parmi che così ci uniformiamo meglio alla mente del Santo Padre Pio VIII di santa memoria, che m' ha raccomandato tanto di mantenere il proposito di seguire la Provvidenza e non prevenirla, facendo un piccol passo alla volta. Cercate dunque che i vostri compagni si uniscano pure, come avete proposto, in una piccola congregazione coll' intenzione di essere uniti di cuore con noi, e formare, se Dio vuole, una cosa sola, prescrivendo loro intanto di pregare per i loro confratelli che sono qui col corpo, ma insieme con loro collo spirito nel Signore (come noi tutti preghiamo per tutti voi altri anche in comune in ogni sera nelle orazioni domestiche) e di fare con semplicità i loro doveri e le opere buone incominciate, avendo un solo fine dinanzi agli occhi, Iddio in tutto e il nostro Signore Gesù Cristo, a cui solo onore e gloria ne' secoli de' secoli. Amen, amen . La Domenica seconda di Avvento abbiamo avuto la consolazione di ricevere nella nostra Chiesa un' altra abiura di una protestante con qualche solennità e molto concorso di popolo, che ne fu molto edificato. E` la settima abiura che riceviamo per delegazione del Cardinale: ringraziamone Iddio. Anche de' nostri cherici sono contento, e per misericordia divina parmi che ogni dì s' acquisti nelle virtù religiose: io solo me ne resto come uno scoglio resistente al mare delle divine misericordie. Ah per carità pregate per me in particolare! Saluti a Don Giulio in osculo sancto . Tutti qui vi salutano con effusione d' amore santo. Viva il nostro Signore Gesù Cristo e la sua santissima Madre Maria, viva, viva! [...OMISSIS...] 1.31 Mi sta altamente fitto nell' animo, che dove si mettesse fra gli Italiani vera concordia, stima reciproca, interesse de' scambievoli lavori, e di proposito prendessero a trattare le grandi questioni che interessano la Religione e l' umanità collettivamente, e quasi direi nazionalmente, si vedrebbe ben presto sorgere da tali discussioni una dottrina imponente e di una dignità forse nuova, d' un vantaggio all' umanità incalcolabile. Cotale stima ho io delle menti italiane! capaci per mio avviso di tutta la celerità e chiarezza francese, di tutta l' esattezza e solidità inglese, e di tutta la profondità tedesca; ma oltracciò dotate di una nobile pacatezza, tutta loro propria che conservano anche nel maggior fervore, giacchè la stessa fantasia degli Italiani è ordinata e lascia loro tempo di pervenire a tutta quella pienezza e perfezione nella risoluzione delle questioni, dove solo la verità riposa e la questione termina per cominciare la scienza. Non si faccia meraviglia di questa grande stima che ho io degli ingegni e degli animi de' miei connazionali, per non vedere que' frutti che io accenno; perciocchè troppe cause mettono fin' ora impedimento a quella unione che sola ingigantisce gli ingegni individuali, i quali finchè stanno isolati e solitari sono necessariamente fiacchi ed hanno una potenza chiusa e invisibile: « paulum distat inertiae celata virtus ». Ma ove gli animi di bell' ingegno, e sopra tutto di animo gentile e religioso, entrassero in questo pensiero di unirsi amicamente fra loro, cercando insieme quel bene, che pure cercano concordemente, ma separati e senza quasi saperlo; io vedrei in questa tendenza un seme di grandi beni, e un principio della realizzazione di quella speranza che porto nel mio seno, e ivi la alimento siccome la mia stessa vita. E quando considero che la Provvidenza ha collocato in questa nazione il magisterio supremo del Cristianesimo, non posso non credere che ad essa sieno servati i più grandi destini anche per quello che spetta alla diffusione delle umane dottrine; giacchè queste non possono crescere, per mio avviso, con istabilità e perfezione e con vera utilità del genere umano, se non dalla radice divina del Vangelo. Non è già ch' io ammetta miglioramenti successivi nell' essenza del Cristianesimo, come nè pur Ella li ammette: esso è la parola di Dio; ed è immutabile più dei cieli. Ma il Cristianesimo, e più propriamente il Cattolicismo, è per mio avviso idoneo a degli immensi sviluppamenti, che saranno cagione a lui di glorie sempre più belle, inaspettate, portentose. Su questo pensiero mi ha fermato non solo la meditazione più attenta della natura infinitamente feconda della parola evangelica, non solo gli effetti stupendamente benefici ch' ella ha prodotto al mondo in questi diciotto secoli che è annunziata, ma le stesse parole de' Profeti che predicono le sue grandezze ed i suoi trionfi, i quali non sono ancora alla lettera compiti. Questi sviluppamenti del Cattolicismo non consistono in sostanza che in altrettante applicazioni pratiche ai bisogni degli uomini, alle loro varie circostanze, e massime ai loro diversi avvincolamenti nelle varie società che fecero insieme e che faranno: il Cattolicismo porterà il lume da per tutto, da per tutto metterà l' ordine, la pace, l' amore; e tutti i beni che possono venire agli uomini dall' amore della pace. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Le rendo mille grazie della sua gentile lettera, che mi fa certa fede, non essere io punto dimenticato da Lei, anzi, ciò che io punto non merito, molto ben ricordato. Ma La ringrazio poi particolarmente per l' allegrezza che mostra nelle sue lettere e l' interesse che prende per questo piccolo Istituto, che, nato unicamente per opera della divina Provvidenza, viene soavemente da essa stessa consolidato ed ingrandito. Più cose Le avrei da scrivere, in cui questa operazione mirabile della mano di Dio si vede ogni giorno più manifesta; ma mi contento di pregarla a volerne ringraziare di cuore il Signore, come mi scrive che già fa, e a supplicarlo sempre maggiormente che, per sua divina misericordia, non ci lasci mettere piede in fallo, ma ci diriga tutti sicuramente « in viam salutis aeternae ». E` coll' orazione che si può far tutto, coll' orazione sola fatta in modo umile, confidente e perseverante , come dice sant' Alfonso. Felici gli uomini d' orazione! E tale è la professione che assume il sacerdote, il quale « constituitur in iis quae sunt ad Deum, ut offerat dona et sacrificia pro peccatis ». Ecco la professione propria sacerdotale, ecco tutta la vita del sacerdote. Lei beata, perchè, indossando questa sacra divisa, che tanto indegnamente io pure porto, entra in un ufficio così consolante, così sicuro, così nobile e sublime, come è quello di vivere in terra conversanti con Dio, e trattanti con lui delle nostre miserie e di quelle de' nostri fratelli, gli altri uomini! « Nostra autem conversatio in coelis est ». Non v' ha certamente cosa di mezzo; e guai a quel sacerdote che vuol transigere col mondo, coll' amor proprio, e co' capricci irrequieti e indefinibili della propria volontà! « Dominus pars haereditatis meae »: queste grandi parole che Ella pronunzierà solennemente, quando passerà sul suo capo la forbice del Vescovo, e ne taglierà tutte le superfluità, saranno la legge, e la legge accettata, elettasi, di tutta intera la sua vita. Guai a coloro che le pronunziano colle labbra, e col cuore intanto ritengono un' altra eredità! mentiscono « non hominibus, sed Deo ». Guai a tutti quelli altresì che si lasciano scandalizzare dalla mala consuetudine di quei primi, e si trascinano dietro il loro esempio! Grande pericolo, mio caro, è questo dell' esempio, giacchè pur troppo è frequente nel mondo. Ma chi si raccoglie a meditare la verità, chi ha il vantaggio di respirare l' aura pura d' una solitudine sacra a Dio, o chi non fa sua compagnia che pochissimi sacerdoti santi ed esemplari; questi solo potrà difendersi e munirsi contro quella mortifera indifferenza, freddezza e spensieratezza, colla quale si vedono molti ricevere l' imposizione delle mani, e, dopo ricevuta, viversi a loro grand' agio, come se non l' avessero ricevuta, o peggio ancora. Io sono entrato in questo discorso quasi senza avvedermene; ma osservo ch' Ella nella sua lettera ha l' umiltà di dimandarmi un parere su questa cosa e sul suo stato futuro; perciò non me ne pento. E giacchè Ella così vuole, Le aggiungerò liberamente, che, per la più vera amicizia che Le professo, La scongiuro a non fare a Dio il sacrificio di se stesso dimezzato, ma intero intero. E quindi di rimanersi in una perfetta indifferenza circa qualunque ufficio di carità che la divina Provvidenza Le presentasse di fare; perchè questa bella indifferenza, credola io la disposizione migliore per servire Iddio con sicurezza, secondo la sua santa volontà, e per mettersi al sicuro degli artifici della volontà nostra, che cerca sempre tradirci, proponendoci di seguire perpetuamente le nostre inclinazioni per piacere a noi stessi, ed anche i consigli vani del nostro amor proprio, di questo grande imbroglione che tutto il bene guasta e perturba. Oh se i sacerdoti, pensando di non servire a se stessi, ma a Dio solo, e per Dio al bene de' prossimi, fossero indifferenti a tutto il resto, come dovrebbero! comincierebbero allora appunto ad essere veri sacerdoti di Cristo. E queste legioni sacerdotali che vittorie non apporterebbero contro i nemici dell' uman genere! che beneficŒ immortali non farebbero alla umanità! che unione, che forza, che trionfi procaccerebbero alla Chiesa! che meriti, che grandezza di premi celesti a se stesse! Ecco il mio consiglio, carissimo e stimatissimo mio conte Giuliari; ecco tutto in poche ma cordiali parole: Ella non se n' avrà certamente a male, se ho riversato il mio cuore nel suo. Mi saluti tutti i carissimi amici nostri: in particolare Besi suo, e Gentili, a cui dica che aspetto lettera. Tornando dal Tirolo, mi sono trattenuto qualche giorno a Verona col suo Vescovo, e abbiamo parlato di Lei. Ai Gesuiti tante cose. [...OMISSIS...] 1.31 Le notizie che mi date colla vostra lettera, ricevuta oggi, della malattia del carissimo Matteo, potete ben pensare che trafitture sianmi state al cuore, e quanto io senta l' amarezza del caso, sì per l' amore che io porto a lui, sì per la tenera amicizia che vi è fra di noi. Io ho raccomandato tosto a Dio il caro infermo e voi stesso che, a ragione, siete immerso nel dolore, pregando per l' uno e per l' altro tutto quello, che per la vostra salute eterna è più confacevole, e, se ciò fosse, la sanità al primo e la serenità e la calma al secondo. I sentimenti di cui avete riempita la vostra lettera, mi mostrano quel combattimento che fa la nostra natura colla volontà superiore; ma tale però che non vedo restare incerta la battaglia, ma sì trionfare manifestamente la grazia di Dio. Tale è l' abbandono e rassegnazione nell' infinita bontà del nostro Signore, che dirigono e dominano le dolorose vostre espressioni. Ah sì, mio dolcissimo, il Signore vi dà una forte prova, mediante la quale v' acquistate una sublime corona! Diciamo pur adunque, cooperando alla grazia, nel mezzo della maggiore desolazione e strazio del nostro cuore « se mai è possibile, passi da noi il calice »: e soggiungiamo poi fedelmente « ma non si faccia la nostra volontà, ma la tua, o Padre ». Questo nome di Padre, contemplato con una fede viva, sia il balsamo delle nostre piaghe. Abbiamo un Padre amoroso nel nostro Dio! E` egli possibile che non ci ascolti? E` possibile che tutto ciò che ci dà non sia buono? Oh ripugni pure alla nostra inclinazione, ripugni alla natura: non cesserà per questo d' essere bene; sarà una medicina amara, ma salutare e necessaria negli occhi di Dio, alla nostra infermità. Viva fede! e saremo maggiori di noi stessi, checchè disponga il Signore. Mio caro D. Giovanni, tutto è di Dio, tutto sacrifichiamo a lui col cuore. Io spero che il Signore ci salverà il caro Matteo, lo donerà alle orazioni vostre e di tanti vostri buoni amici di costì. Ma, anche salvato, sia però il nostro cuore pronto ad ogni sacrificio: è il momento di mostrare che amiamo Iddio, e che il Paradiso lo contiamo per qualche cosa. Dimani molte persone divote faranno la via Crucis per voi e per Matteo. Noi tutti vi raccomanderemo particolarmente nella Santa Messa come pure tutta la famiglia vostra, che ben m' imagino quanto sarà costernata, particolarmente le figlie e il caro Raffaello. Sono interrotto e non posso scriver più altro. Finisco dunque. Datemi pronto ragguaglio del corso che prende la malattia e delle decisioni de' medici: io spero che il sangue lo salverà. Noi, vi ripeto, pregheremo e faremo pregare; voi mostratevi forte, abbandonatevi in Dio e non temete di nulla: egli vi sosterrà, e la Madonna Santissima. V' abbraccio nel Signore, fonte delle consolazioni. [...OMISSIS...] 1.31 Permettetemi, in primo luogo, per quella carità di Gesù Cristo che ci lega insieme, e che, ho grande fiducia nel Signore, non ci slegherà più mai per tutta l' eternità, che vi avverta che non ho potuto approvare il passo che voi avete fatto col Vescovo, senza darmene avviso. No, mio caro, non ci lasciamo trascinare mai dall' insofferenza d' aspettare, giacchè questo va direttamente contro lo spirito che abbiamo eletto e distruggerebbe fino dalla radice quell' Istituto, che la sola misericordia di Dio e l' opera della sua Provvidenza sembra che voglia produrre. Questa cosa mi sta sul cuore assai, e mi ha grandemente addolorato il passo fatto di proprio moto, che è un operare sempre estremamente pericoloso e contro le regole comuni. Io vi supplico dunque caldissimamente di non volere, di qui in avanti, far niente di simile; ma riposarvi nella divina Provvidenza, avendo gran fiducia in essa, e cercando di eseguire bene tutte le buone opere presenti, senza darvi sollecitudine dell' avvenire, commettendolo a Dio. E se vi viene in animo di fare qualche passo, prima comunicatemelo, perchè possiamo maturarlo bene insieme, per vedere se è veramente secondo lo spirito giusto di prudenza, che è lo spirito di Dio, e che le nostre Costituzioni prescrivono. Conviene bene imprimersi, che una sola cosa è necessaria: « porro unum est necessarium »; e questa è di salvare l' anima nostra e di possedere in noi Dio. Che cerchiamo di più? Se mai vorrà qualche cosa da noi Iddio, non ha egli modo di parlarci, egli che ha fatto a noi la lingua? o gli costa qualche cosa a farci sapere la sua volontà? o forse ci terrà occulto ciò che sarà bene? Ah! no, perchè è ottimo: e noi soli siamo mali. Ma egli è anche sapiente, ed egli solo conosce i tempi ed i momenti, « quae Pater posuit in sua potestate ». Abiti in noi la quiete nelle opere buone che facciamo, senza più; la quiete nel possesso del nostro Dio: la fede viva e la longanimità tanto lodata dalla Scrittura ne' patriarchi: e quel « sustine Dominum », che è così frequente ne' Salmi. Sì, sì, aspettiamo il Signore, egli verrà; non preveniamolo; chè sarebbe presunzione la nostra e imperdonabile stoltezza. Che sappiamo noi? Conosciamo noi ciò che sia bene, e ciò che sia male alla sua Chiesa? No certo: siamo poveri ignoranti. Che possiamo noi? Nulla, giacchè siamo nulla. Che pensieri adunque possiamo avere di fare qualche cosa? Non conviene a noi che di stare bassi e quieti, quieti nel nostro proprio nulla, per non irritare maggiormente il nostro Iddio; cercando anzi di placarlo colle nostre umili preghiere. E` Iddio solo che si può servire anche del nulla, se vuole, per fare qualche cosa, giacchè egli chiama « ea quae non sunt, tamquam ea quae sunt ». Per le viscere di Gesù Cristo vi prego adunque di meditare questa massima che è il fondamento di questa unione, che Iddio solo ha finora cominciata; e di raccomandarla anche agli altri, acciocchè possiamo frenare la fantasia vana che vuole sempre correre al futuro, e seguire in quella vece la maturità del giudizio, col quale solo cammineremo nella luce del Verbo . E` una pena certo raffrenare l' imaginazione che vuole correre nel futuro e nelle cose grandi, che vuol produrre in noi degli interminabili e fallaci desiderŒ. Ma è questo un inimico, a cui dobbiamo fare una implacabile guerra, giacchè, se l' avremo vinto appieno, avremo insieme vinto la superbia, la durezza del nostro cuore, e saremo chiamati « docibiles Dei ». Perciò tutte le Costituzioni nostre, se ben le avete intese, versano sopra di questo primo punto. Al presente adunque pensiamo, e nelle nostre piccole case stiamo contenti. Non pensiamo ad altre fondazioni per la Diocesi ed altrove, fino che la volontà di Dio non si manifesti da se stessa. Per quella di costì, giacchè il passo è fatto, lo considero anch' esso come un mezzo della Provvidenza, la quale si serve anche de' nostri falli a' suoi disegni. Questo è un gran punto sostanziale d' intendere, che, sebbene non si vuol limitarsi a niente, non si vuole però intraprendere niente di spontaneo moto, ma solo secondare, quando il Signore presenta l' opera da eseguire; e intanto viversi contento nel proprio ritiro. Le Costituzioni non sono che regole di prudenza pe' casi possibili: non conviene dunque pensare a tutto quello sviluppo, di cui parlano le costituzioni. Noi non ci dobbiamo pensare; è Iddio quello che, se vorrà, a tempo e luogo lo farà. Dobbiamo pensare a quelle cose ed opere singole che abbiamo alle mani: pensiamo dunque ora a queste due case che sono qui cominciate, e a quella di costì che dee cominciare, colle loro opere caritatevoli annesse: ma nulla di più. Bensì è necessario non lasciarsi limitare, nè mettere impedimenti: questo è un articolo essenziale, di cui mi riservo di parlarvi a voce. Noi non dobbiamo pensare ad approvazione governativa; siamo un corpo di Sacerdoti privati, che opera d' intelligenza co' Vescovi e superiori Ecclesiastici. Tutto ciò che potrebbe limitarci, ripugna alla nostra società: e dove non si può fare che ricevendo limitazioni ivi non è la volontà di Dio che noi facciamo nulla. Non dubitiamo punto: Gesù Cristo non ha limitata la sua Chiesa, ed è una empietà protestantica il dire che la Chiesa sia nello Stato. Stiamo con Gesù Cristo e con la sua Chiesa che si chiama cattolica , e non temiamo punto, nè sottoponiamoci alle arbitrarie limitazioni che si cerca pur troppo dagli uomini di mettere alla Chiesa che è essenzialmente cattolica . Il Vescovo nelle lettere che mi scrive, mi parla in questo senso, dicendomi che non intende limitare le mie mire alla diocesi, ma che è ben contento che il bene si diffonda alla Chiesa universale. Preghiamo tutti con un cuore solo: noi lo facciamo ogni giorno in comune e in privato. Io dico sempre Messa per l' anima mia e per quella di coloro che il Signore sembra associarmi. E` l' orazione che dee tutto maturare; ma l' orazione, intendendo bene, fatta per le anime nostre, non per altri fini: qui c' è tutto. Se attenderemo tutti alle anime nostre, non metteremo ostacoli ai disegni del Signore: non possiamo fare di più, giacchè non siamo buoni a nulla. Il Signore diffonde la sua bontà da per tutto, dove non trova ostacoli; noi non pensiamo dunque, che a rimuovere questi ostacoli e a conservare la pace. Certo, è quella sapienza che descrive S. Giacomo, e che accennate nella vostra cara, quella che ci conviene: « fructus autem iustitiae in pace seminatur ». Ah! sì, ditelo, anche a mio nome, al caro compagno, che raffreni il suo zelo, e che vada adagio adagio, con passi sicuri e sempre con consiglio e secondo l' ubbidienza , in ogni minima cosa. Non siamo solleciti. Abbandoniamo alla Provvidenza l' esito di quello che facciamo, giacchè ella sola può fare tutto, e noi niente. Non operiamo adunque con isforzo e travaglio, quasi che dai nostri sforzi e dai nostri stentati travagli dipendesse l' accrescimento del regno di Dio. E` Iddio solo che converte le anime, che sono tutte in sue mani. Con quanta soavità non operava lo stesso nostro Signor Gesù Cristo! niente di violento o di troppo calcato nelle sue parole. Spargeva il seme e lasciava che da sè mettesse, cioè mediante la sua secreta operazione. Così a tempo e luogo facciamo noi, e abbiamo molta fiducia nella operazione che fa Iddio nelle anime. Questi sono tutti i prinlipii della società nostra, che dee formarsi per se stessa, cioè non per la volontà dell' uomo, ma per quella di Dio che influisce nella natura stessa di tutte le cose, e perciò tocca da una estremità all' altra con forza e soavità: « et disponit omnia fortiter et suaviter ». Per lo stesso principio andiamo pur lenti ad ammettere compagni; siamo contenti di essere quei pochi che siamo, non pensando di più. Se Iddio ce ne manderà, ne riceveremo con allegrezza; ma non preveniamo noi i disegni di Dio, nè pure coi nostri desiderii. Di quelli che presentemente abitano questa casa, non c' è alcuno che non sia stato qui evidentemente mandato dalla Provvidenza. Mi riserbo a voce di contarvi i progressi che la divina Provvidenza fa fare ogni giorno soavemente all' Istituto. Noi siamo sempre contenti: la nostra società in qualunque stato si trovi è sempre compita e perfetta, nè desidera di più; tutti i desiderii devono concentrarsi nell' avanzare giornalmente nella virtù: pochi o molti che siamo, poco importa al nostro fine. Il fine della società è semplice, non è che il fine degli individui che la compongono: questo si può ottenere in ogni stato, in cui ella si trovi; dunque è sempre contenta e perfetta. Mio carissimo, questo è il gran travaglio, a cui si deve pensare sul principio, a formare i membri della società! Non importa quale sia il numero, ma la qualità. Al Noviziato conviene che presentemente diamo tutti i nostri pensieri, per procedere con vera maturità e sicurezza. V' abbraccio tenerissimamente nel Signore, in cui sommamente vi amo con tutti i nostri. [...OMISSIS...] 1.31 Miei Reverendi e carissimi sacerdoti nel Signor nostro Gesù Cristo, a cui solo sia onore e gloria, amen . Per quanto io sia misero e nullo nel regno di Dio, non ho potuto però a meno di giubilare interiormente leggendo la lettera che hanno avuto la bontà di scrivermi, e di ringraziare di cuore il Signore de' buoni sentimenti che loro ispira, sollecitandoli al desiderio della perfezione. Oh questa è una grande grazia che fa il Signore, mettere in cuore a' sacerdoti il conoscimento della infinita dignità sacerdotale, e il bisogno di corrispondere a quella dignità con altrettanta bontà di vita; e, se questo non può essere compiutamente, almeno con altrettanta umiltà! Un indegnissimo adunque qual io mi sono, che non dovrebbe aprir bocca, non può d' altra parte tacere, e gli incoraggia a farsi conto d' una tal grazia, che sarà certamente per loro seme di felicità eterna. Per essere aiutati nel coltivare questo desiderio santissimo, che dovrebbe nascere in tutti i nostri cuori colla sacra Ordinazione, non v' ha mezzo più efficace che l' unione fra sacerdoti e la mutua corrispondenza, tanto frequente ne' primi tempi della Chiesa e tanto stretta, quanto rilassata e rotta di poi per le passioni, e massime per l' egoismo, per l' interesse, per la freddezza, per l' ignoranza, e fin anche per la falsa prudenza di questo secolo, a cui noia infinitamente l' unità della Chiesa, giacchè nell' unità sta la sua forza. Quindi era certamente un pensiero santo e veramente conforme allo spirito della Chiesa, spirito della massima unità, quello del nostro Rev.mo Monsignor Vicario di unirli in una piccola società sotto la protezione dell' Apostolo S. Paolo; e per quanto essi me ne dicono nella loro lettera, e Molinari a voce, non mi sembra improbabile che questo pensiero sia venuto a Monsignor Scavini dal desiderio di fare qualche cosa di simile all' associazione di S. Paolo che c' è in Roma, approvata da' Sommi Pontefici, e che fa un gran bene. Laonde non so qual uomo probo e savio potesse vedere male simili società desiderate dalla Chiesa, promosse ed approvate da' Sommi Pontefici: sicchè è al tutto vero quello che essi scrivono, che è solo il nemico dell' uman genere, il quale si trasforma talora in angelo di luce, quello che odia queste sante congregazioni e muove terra e cielo per distruggerle, se gli riesce; e se non gli riesce, almeno per perseguitarle, inquietarle, e seminarvi mille zizzanie e divisioni. Il che sapendo, è da tenerci forti, e colla dovuta prudenza persistere costantemente nel divisamento e nella tendenza generale di unione e santa amicizia fra noi ecclesiastici. Per ciò io non posso che lodare molto il loro pensiero di essersi stretti fra loro, anche dopo la dissoluzione della Società di S. Paolo. Non so poi come possa essere loro venuto in mente di ricorrere a me, come fanno nella loro lettera; perchè io volessi servire loro di centro e di capo nella loro santa corrispondenza. Iddio sa chi io mi sono; un vero nulla, un peggiore del nulla, perchè il nulla non ha mai offeso il Signore, come l' ho offeso io, un ignorante che ha un po' d' impostura (per servirmi d' una frase di una santa persona mia conoscente), uno che ha un estremo bisogno di essere diretto e guidato a mano invece che di guidare e dirigere. A mal grado di tutto questo, e di quel più che taccio, perchè dalla loro bontà non sarei creduto, mi trovo impegnato nell' ufficio di superiore di questa piccola società del Calvario, nella quale non ci è nessuno a cui io sia degno di allacciare le scarpe. E giacchè tengo che sia Dio quello che mi ha fatto tale, mi confido in lui, che suole spesso servirsi delle cose più spregiate, e tiro innanzi; e veggo anche oggi giorno che Iddio vuole fare egli tutte le cose, essendoci io piuttosto per figura che per altro. Miei cari consacerdoti e fratelli nel Signor nostro Gesù, è mia massima di non « ricusarmi a nulla di tutto ciò che mi offre da fare la Provvidenza per gloria di Dio »: abbandonandomi così nella stessa divina Provvidenza. E fu questo il motivo che, dopo sottoposti i riflessi che credeva a' miei compagni, ho poi ceduto alla loro volontà prendendo la loro direzione e governo spirituale. Che posso dunque dir loro circa la proposta che essi mi fanno? Io non mi ricuserò neppure a loro, se persistono nel loro disegno; essi si dichiarano miei figliuoli in Gesù Cristo, ed io li abbraccierò per tali, se il Signore li conferma in questo volere. Ma, prima di fare ciò, io voglio che esaminiamo meglio la volontà di Dio, che è quella sola che noi desideriamo di fare. A tal fine adunque io li prego caldamente di occupare i tre ultimi giorni di carnevale in particolari orazioni rivolte a questo fine di conoscere in ciò la volontà divina, facendo anche in quei giorni qualche mortificazione di bocca: e il medesimo farò anch' io volentieri con Loewenbruck e con Molinari, che mi aiuteranno a impetrare da Dio il suo lume. Così uniti insieme di spirito, otterremo coll' unanime preghiera di operare giusta il voler divino. Dopo ciò adunque essi mi scriveranno se si sentono nella medesima determinazione e persuasione; e quando ciò fosse, io non mi ricuserò punto di assumere nel Signore la loro direzione, e considererò la loro unione come un' affigliazione alla piccola società del sacro Monte Calvario, che Iddio, come dicea, va benedicendo. In tal modo ci stringeremo tutti alla croce, ed avremo in questa il vero centro d' unione, la nostra àncora, il nostro libro, il nostro vessillo. Oh quanto è luogo proprio de' sacerdoti il Calvario! è qui l' altare, il sacrificio, la vittima, il pontefice. Dove tutto ciò si confermi nei loro cuori dalla voce dello Spirito, io comincierò ben volentieri a comunicare loro quelle regolette, che per ora credo a proposito di osservare, e indispensabili; le quali sul principio saranno ben poche e semplici; ma esigeranno altrettanta più cura ed esattezza nel mantenerle. Ciò che trovo per ora necessarissimo si è, che non comunichino al presente con nessuno dei loro compagni la cosa fin dopo l' orazione e la deliberazione matura; ed allora altresì è necessario che non comunichino la cosa a nessuno, senza prima averlo scritto a me. La sola persona a cui li prego di comunicare tutto è il nostro stesso Monsignor Scavini; giacchè vogliamo pendere intieramente dalla sua volontà: non gli scrivano però, ma aspettino di parlargli in voce, e gli mostrino tanto la lettera che essi hanno scritto a me, quanto questa mia risposta. Non aggiungo altro. Amiamoci nel Signore, a cui solo ogni onore e gloria. Non viviamo che per lui, non respiriamo che per lui: le altre cose non sono degne di un sacerdote nè di un cristiano: lui solo sappiamo, lui solo pensiamo, a lui solo aspiriamo, in lui moriamo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Vi assicuro che mi fu una notizia sopra modo dolorosissima il sentire che l' ubbidienza di D. G. sia molto imperfetta: perchè sperava anzi che si rendesse molto forte ed esemplare in questa virtù. Avrei volontà di scrivergli una lettera; ma prima desidero sentir da voi, se farò bene a farlo. Ditegli intanto da parte mia, che se vuol far la volontà di Dio, faccia l' ubbidienza, altrimenti non gli riuscirà bene nessuna cosa, e il suo merito andrà in fumo. Non è il far molto all' esterno che conta Iddio; ma l' aver un cuor umile, ubbidiente e diritto con Dio: « melior est obedientia quam victimae ». Vorrei che leggesse, che meditasse e che imparasse a memoria la lettera di S. Ignazio sull' ubbidienza; quella lettera dobbiamo imaginare che sia scritta a noi stessi. Se mai la nostra piccola unione potrà fare qualche cosa, sarà coll' ubbidienza. Con questa sola santificheremo noi stessi, che è il grande scopo ed unico della nostra piccola unione, perchè più della nostra santificazione non possiam desiderare. Circa il numero dei soggetti non ci pensate punto: voi altri tre siete abbastanza: il tutto sta a formarsi: non dubitate, Iddio aiuterà e ci condurrà con soavità dovunque vuole: abbandoniamoci solo a lui, e non abbiamo in vista altro fuorchè il piacergli e il riposar tranquilli in lui, contenti sempre dello stato presente senza voler di più, e riguardando sempre lo stato presente come opera finita. Ciò in cui dobbiamo essere incontentabili, e dobbiamo vederci andar ogni giorno avanti, è nell' amar Iddio, e nel camminare nella sua giustizia. Non è dunque nè pure il predicare, nè il fare grandi cose per gli altri ciò che veramente dobbiam amare; ma il purificare noi stessi, e l' osservare ogni dì più fedelmente la parola di Gesù Cristo, che è verità e vita delle anime nostre. Stiamo meditando questa parola ai piedi di Gesù con Maddalena. Se egli vorrà poi farci pur fare qualche cosa, lo farà bene: ma noi non lo desideriamo sollecitamente. Qui preghiamo ogni giorno per voi: fate così anche voi altri, miei dilettissimi nel Signore, per noi tutti. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Mi scusino, se non ho risposto prima d' ora alla loro fervorosa lettera, colla quale si mostrano costanti nel loro primo divisamento, dopo fatta l' orazione, e anche nel pensiero di volere la mia infinita nullità per loro padre spirituale. Le mie occupazioni mi hanno impedito, in questi giorni passati, di potere trattenermi con loro a mio agio, come desiderava di poter fare; quest' oggi spero che mi sarà conceduto. In primo luogo, io non mi rifiuto, nè pure ora, dopo essermi raccomandato al Signore, di assecondare i loro desiderii, che mi paiono santi e rivolti tutti alla gloria di Dio, coll' aiutare la direzione che mi propongono, e considerare le loro persone come una estensione di questa mia piccola carissima famigliuola del Calvario. « Quam bonum et quam incundum habitare fratres in unum! » dico io sempre; e questa unità, per la quale è così dolce trovarsi fratelli, non intendo che sia il luogo corporale, ma Iddio, che è come il nostro luogo spirituale, nel quale è pur dolce trovarsi e abitare insieme. Or io credo di non dover punto differire a comunicar loro qualche cosa di ciò che credo indispensabile per un buon effetto al loro santo desiderio. Vi ha una massima, su cui tutta si regge la piccola società del Calvario, e che n' è la pietra fondamentale; la quale massima fino che si conserverà, non potrà mai essere altro che benedetta la società e quelli che la osserveranno. Questa massima è semplice, umile e comune; ma tuttavia noi non abbiamo altro fondamento che questo, nè altro principio di condotta, di maniera tale che tutti gli altri nostri regolamenti, che sono al presente e che saranno introdotti nel futuro, non hanno altra origine nè capo, se non questa massima, verso alla quale sono ciò che le conseguenze verso il principio, da cui derivano. Or questa massima è la seguente: « di concentrarci in noi stessi seriamente, per fare unicamente conto della salute e perfezione propria », non riguardando tutto ciò che spetta al prossimo, se non come altrettanti mezzi di piacere a Dio, o sia di santificare noi stessi. Questa massima esclude il falso zelo, col quale l' uomo è più inclinato ad essere sollecito della salute del suo prossimo che di se stesso: frutto pur troppo di una secreta presunzione che rifugge dal considerare i propri difetti, e, quasi che le cose, per rispetto a sè, fossero tutte in buon ordine, l' uomo presume di poter essere necessario alla salute del prossimo suo. La quale maniera di operare è anche segno di scarsezza di fede nella bontà e provvidenza di Dio, quasi che Dio non pensasse e provvedesse da padre a tutti gli uomini e alle anime tutte, anche senza bisogno di noi, e senza l' opera nostra. Eh! chi conoscerà Dio e se stesso si riputerà inutile, e starà basso e tutto occupato di se medesimo, piangendo i propri peccati e travagliando giorno e notte a conoscersi, correggersi, ed emendarsi. Questa è la gran fatica che dobbiamo prendere a fare, miei carissimi fratelli, e la faremo di certo, se saremo veramente umili, e conosceremo che non conviene a noi altro stato e posto che quello dispregievole ed abietto di penitenti; nè avverrà mai, se saremo penetrati da queste grandi verità, che noi di proprio moto assumiamo qualche incarico, dignità, od altro, se non forzati dall' ubbidienza, o certo dal timore di non opporci forse alla divina volontà, e così di non contraddire a quel Dio, al cui possesso solo aspiriamo. Consideriamo seriamente, miei carissimi, che, se abbiamo ottenuto l' emendazione e purificazione delle anime nostre e quindi la giustizia in noi e il possesso del nostro Dio, noi abbiamo ottenuto tal cosa, che altro non ci resta più a desiderare; noi abbiamo ottenuto il tutto, siamo pieni, siamo beati. A che dunque altro pensare, se non a ciò che Gesù Cristo ci ha insegnato in quelle parole: « porro unum est necessarium »? Oh qui conviene che semplifichiamo, e sinceriamo la nostra mente e il nostro cuore, poichè qui sta tutta la semplicità della vita cristiana. Pur troppo la nostra mente, vivendo noi in questo secolo, s' empie d' una moltitudine d' idee false, sebbene apparentemente pie; pur troppo il nostro cuore si empie di una moltitudine di falsi ed inutili desiderii, sebbene apparentemente religiosi! No, no, cacciamo dalla nostra mente tutto quell' ingombro, cacciamo dal nostro cuore quelle vane frasche, induciamoci alla semplicità del pensare e del sentire evangelico. Uno sia l' oggetto della nostra mente, come pur quello del nostro cuore: la purità della coscienza, il gusto della parola di Gesù Cristo, il possesso di Dio. Oh quanto allora saremo sgravati ed alleggeriti del fardello molesto, onde ci carica e ci aggrava la secreta nostra presunzione e la scuola sempre gonfia di questo secolo! « Venite ad me omnes », diceva appunto per questo Gesù Cristo. In somma l' unico fine della nostra unione sia la salvezza e la perfezione di noi stessi: questo è l' unico fine della Società del Calvario; e dall' intendere bene questo semplicissimo fine e dal toglierlo a praticare, ne dipenderà tutto l' esito. Ora posto questo grande fondamento, colla semplicità e unicità del quale si caratterizza propriamente e contraddistingue questo Istituto, ecco che cosa io suggerisco loro per ora. Conviene che ciascuno si faccia un librettino col titolo di « Regulae », nel quale scrivano successivamente quelle regolette e que' mezzi che io un poco alla volta verrò loro indicando secondo l' opportunità ed il bisogno. Intanto questa sarebbe la prima: « Finis huius societatis est salus et perfectio propriarum animarum ». Le altre poi che al momento presente loro suggerisco, consistono tutte in alcuni esercizi religiosi, rivolti alla purificazione dell' anima, e che conviene intraprendere con coraggio, e mantenere con fedeltà. Questi sono in primo luogo, una meditazione la mattina (se è possibile questa dee essere fatta senza libro innanzi, preparandone la materia colla lezione, o in altro modo, la sera precedente), la quale converrebbe che durasse un' ora. Questa pratica è fondamentale, ed è quella che col suo peso tiene, per così dire, in equilibrio tutta la persona. In secondo luogo, due brevi esami di coscienza avanti pranzo e la sera. In terzo luogo gioverebbe che almeno una volta la settimana si unissero loro due in una conferenza spirituale sopra argomenti i più atti a compungere il cuore, purificare l' anima, mantenere il raccoglimento e procedere in tutte le cose con sacerdotale gravità e maturità. Questi tre esercizi per ora io credo opportuni per incominciare; e, se li trovano eseguibili, scrivano nel librettino quest' altra regoletta, che sarà la seconda, colla quale vengono prescritti i suddetti esercizi: [...OMISSIS...] . Io spero che prendendo a fare con fervore e soprattutto con fedeltà questi pochi esercizi, se ne troveranno in breve molto contenti e consolati; poichè è nella lunga e seria meditazione che s' impara a conoscere se stessi e Dio, ed a stimare l' unione nostra col sommo bene, nè far più conto alcuno di tutte l' altre cose. Io adunque attendo che mi informino dopo qualche tempo dell' esperienza che avranno fatto di questi esercizi, delle difficoltà e degl' impedimenti che ci troveranno: (e il demonio certo ne metterà in mezzo d' ogni sorte per iscoraggiarli, al suo solito); e finalmente tutto ciò che mi comunicheranno intorno alle loro carissime persone, il riceverò con grande mio piacere. Una cosa, che anche loro molto raccomando, è il leggere più volte e colla massima attenzione, quel libretto che essi conoscono, intitolato « Massime di perfezione »; il quale non può dare fuori il suo gusto, se non venendo molto molto masticato e ruminato. Finalmente siamo strettamente uniti tutti nell' amore di Gesù Cristo! L' amore, che ci avremo scambievolmente, sarà il segnale che saremo i suoi discepoli. Preghiamo senza intermissione; e nell' orazione troviamoci tutti uniti; e, massime all' altare, siamo un cuor solo ed un' anima sola, giacchè all' altare spezziamo un solo pane che ci nutre tutti e ci vivifica d' una stessa vita, e simboleggia la nostra ineffabile unità. Viva dunque Gesù, di cui siamo tralci; viva Maria nostra madre tenerissima e nostra speranza, che è il tralcio maggiore della vite! [...OMISSIS...] 1.31 Vi scrivo poche linee solamente, perchè mi stringe ora il tempo, avendo assunto di fare il quaresimale in questa città, ed alle prediche debbo prepararmi d' un giorno all' altro: pensate voi! Vi ringrazio intanto di tutto quello che avete fatto; i consigli di Monsignor di Cremona li seguiremo fedelmente. Vi torno a raccomandare che con altri punto non parliate, ma se avete qualche cosa da discutere intendetevela con lui solo per l' affare nostro. Mi è anche di somma consolazione il sentire, che vi sia penetrata bene quella nostra massima fondamentale, di non occuparci che dei nostri doveri presenti, troncando tutti i desideri nostri con un sol colpo e lasciando fare a Dio in tutte le cose. Eh se Iddio ci desse la grazia di essere suoi servi fedeli, di mantenere la sua santa parola in noi, non basterebbe? che più potremmo desiderare? così poco conto vogliamo fare della sua grazia? Lungi da noi il zelo disordinato ed inquieto, che viene dal falso spirito, e per la strada della fantasia entra a turbarci l' animo. Teniamo ben fermo, che vogliamo una cosa sola, salvare e perfezionare noi stessi: che quindi la nostra Società sia grande o piccola, è sempre perfetta, perchè può sempre ottenere il suo fine. Circa le conferenze ve le raccomando: e vorrei che si ravvolgessero massimamente sulla vita interiore e religiosa... Vi raccomando di raffrenare Don Giulio dove eccede, perchè è molto importante la prudenza e la semplicità. Calcategli ben in mente che Iddio non ha punto bisogno di noi miserabili per fare il bene, e che se noi saremo veramente umili e ci terremo buoni da nulla, come siamo, ci terremo assai indietro, e non assumeremo mai le cose di nostro moto, ma solo per ubbidienza; e anche allora tremando. Oh è pur fina la nostra presunzione! Ma sia Maria Santissima il nostro modello, e la maestra di quella vita occulta, che era meglio che la conversione del mondo intero. E` Iddio sopra di noi; è egli solo che può qualche cosa. E siamo noi tali che non troviamo da occuparci di noi stessi? non abbiamo più nulla a fare in casa propria? tutto vi è in ordine? [...OMISSIS...] Il libretto delle Massime conviene convertirlo in succo e sangue, non basta averlo letto qualche volta; ed io n' ho veduto degli ottimi effetti, non già alla prima lettura, ma dopo essere molto meditato. Egli serve ancora di testo per le nostre conferenze, e per ciascuna se ne dà una piccola particella, la quale è anche il soggetto della meditazione di quel giorno, nel quale si tiene la conferenza. Non dubitiamo punto; abbandoniamoci interamente nel Signore, mio carissimo. Pregate tutti per noi, noi qui preghiamo tutti per voi. E` nell' orazione che si fanno le cose. Addio. Le poche linee sono divenute molte senza accorgermi. Tenetemi informato di tutto, abbracciatemi i compagni, ed amatemi nel Signore, come io v' amo. Ciò che potreste inculcare a Don Giulio si è che attenda molto alla sua cattedra come all' affare principale. Questa è la volontà di Dio: altre cose può esser dubbio se sieno: attendendo bene allo studio della teologia, farà buon fondamento che gli sarà utile assai: non lasci passare il tempo. [...OMISSIS...] 1.31 Se il signor Prefetto non si unirà con noi non fa niente, mio caro: non siamo punto solleciti; n' avremo abbastanza se potremo migliorare le anime nostre. D' altro lato non vi fidate di nessuno, se non della Provvidenza di Dio. Non si può a principio dire chi entrerà o no. Talora quelli che parevano i meglio disposti, venendosi al punto, « respiciunt retro »; si trova all' incontro della generosità dove meno s' aspettava: « Spiritus ubi vult spirat ». Di noi stessi in somma siamo unicamente solleciti, e di conservare la pace interiore. Stiamo quieti pensando all' edificio interiore; e sia la nostra divisa quella dell' Ecclesiastico: « Humiliare Deo et expecta ». Godo che le Conferenze sieno riprese e che pur vadano bene. Ciò che molto giova si è il non passar leggermente sulle verità sante, che si prendono per soggetto delle medesime; ma calcarle molto molto nella mente, e cercar veramente l' edificazione e la compunzione. Il gran lavoro è la perpetua purificazione di noi stessi, la fame e la sete della giustizia. Null' altro amiamo che la giustizia: ecco il tutto; qui sta la semplicità della nostra vita. Vi prego di fare da parte mia ringraziamenti e complimenti a monsignor Sardagna, che ho veduto già preconizzato dal nostro Sommo Pontefice. Abbracciate teneramente don Giulio, e tutti gli altri a cui posso estendere questa affettuosa confidenza. 1.31 Ella mi fa cuore perchè io ponga mano alle teorie sociali. M' invita ad un arringo pieno di passioni, e dove la verità è come una pecora in mezzo ai lupi. Tuttavia, Le dirò sinceramente e senza affettazione, il mio cuore non sa temere nella causa della Verità, della Religione, dell' Umanità, che è pure una causa medesima; e all' amor dell' unico bene che io m' abbia, è ben poco qualunque sacrifizio; è il tesoro nel campo, pel quale si vende anche tutto il suo. Perciò le passioni ed i pregiudizi degli uomini non mi ritrarranno mai, coll' aiuto di Dio, dalla manifestazione di questi principii, che credo gli unici salutari per la Chiesa (che è la gran Società) e per gli uomini tutti. Meno mi affido delle mie proprie passioni e de' miei proprii pregiudizi. Perocchè finalmente debbo sospirare e dire: se questi sono i pregiudizi comuni, e chi mi scuopre quali siano i miei? Tuttavia l' intima persuasione è sempre rispettabile, e quella che produce nell' uomo la verità è tanto forte, che non l' agguaglia giammai la persuasione dell' errore: e tale è quella persuasione che si è creata in me, dopo lunga e paziente meditazione di quella Teoria filosofica , di cui non ho finora messo in pubblico che la radice. Io desidero che questa radice prenda; se prende, apparirà potente e in un modo inaspettato feconda. Ma perchè prenda ci vogliono delle menti forti, e degli animi nobili e nuovi. Egli è inevitabile uno studio grande e la più quieta meditazione. Questa, a dir vero, nuoce al pronto sviluppo del mio disegno, perchè il carattere del secolo è pur troppo l' impazienza e la fretta. Nulla di meno io non m' arretro, e spero. E` nell' ordine della divina Provvidenza che io pongo molta fiducia ed in que' semi indistruttibili che l' Evangelo ha seminati nell' umanità, e che in ogni secolo appunto mandano de' frutti nuovi d' una radice vecchia, de' fiori d' una bellezza incognita per addietro, e che conviene riconoscere come spuntati dalla parola di Cristo, e con amore cristiano coltivare. Guai, se, perchè il frutto ed il fiore è nuovo, per questo si disconosce figlio dell' antica e onnipotente pianta! Si fa contumelia a quella radice stessa divina; si fa onta a quel tesoro, dal quale il padre di famiglia profert nova et vetera . Ma si può essere tuttavia ingannati nel discernimento di fiore da fiore, e di frutto da frutto: e può cogliersi il frutto della scienza che porta la morte, credendosi di cogliere il frutto della vita! Per evitare un sì deplorabile errore non v' è altra via che l' umiltà e l' orazione, colla quale si consulta il Padre stesso della verità e della vita. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Mi duole di non avere trovato tempo fin ora da rispondere alla loro lettera, che mi è riuscita cara anche più delle altre, perchè piena di quel desiderio di arrivare ad una perfetta emendazione dei propri difetti, che Iddio suol sempre coronare coll' esito più felice. Sì al certo, miei cari fratelli, è impossibile che a lungo andare Iddio non conceda la grazia della emendazione dei nostri tanti difetti, della guarigione delle nostre tante infermità a chi la vuole questa grazia, a chi la domanda, a chi con vera semplicità cerca di conoscere se stesso, cerca di conoscere l' abisso della propria originale corruzione inviscerata pur troppo con noi, a chi la manifesta con candore, con pienezza, con costanza ai padri spirituali, per mezzo dei quali suole Iddio operare comunemente la purificazione delle anime. Siccome adunque i nostri nemici, e le nostre male inclinazioni, la nostra superbia, la nostra pigrizia, la nostra leggerezza non cessano di farci guerra e di tentare la nostra ruina; così anche noi non dobbiamo cessare mai di penetrare sempre più a fondo nella cognizione della nostra malizia e impotenza infinita, di confessarla, di domandarne aiuto, di umiliarci sotto tutte le creature, di rinnovare ogni giorno i nostri proponimenti con viva fede nella divina misericordia, e di acquistarci ciò che ci manca, sodezza, risoluzione, ordine fermo, interiore ed esteriore raccoglimento. Pur troppo il demonio si scatena più fiero allorquando noi facciamo la risoluzione di darci a Dio solo, a Dio interamente: lo dice la Santa Scrittura: [...OMISSIS...] Ma egli è certo ancora che col seguitare a combattere senza ristarcene mai, noi siamo sicuri della vittoria, che Iddio ci ha destinata. [...OMISSIS...] Oh è pur questa sicurezza nella misericordia di Dio di riuscire bene ne' nostri combattimenti colla sofferenza e con la perseveranza un dolce conforto, un incoraggiamento il più efficace! Gli sforzi, le fatiche, le pene nostre non sono mai perdute, nè pure allorquando ci sembra di non potere fare alcun passo innanzi, e di essere freddi e pesanti nella via del Signore, anche allorquando il Signore medesimo sembra sordo alle nostre querele, e pare che ci abbandoni, anche allorquando ci lascia cadere sventuratamente in peccato. Allora è il tempo più che altro mai di vivere di fede, allora è il tempo di ricorrere con più umiltà all' abbandono in Dio, che si compiace tanto dei peccatori che sperano da lui la salute e che contra la sua giustizia nella sua misericordia si rifuggono, cercando in lui protezione contro di lui. Ah sì, « humilia respicit »! e le nostre cadute non sono bene spesso permesse se non per deprimere la nostra superbia; giacchè fino che siamo superbi, egli non può esercitare quella misericordia che pure vuole con noi esercitare. Perciò non umiliandoci noi abbastanza, egli rompe la nostra presunzione stolta coll' abbandonarci a noi stessi, e mostrarci col fatto, che d' altro non siamo capaci se non di male. Copriamoci adunque di vergogna per la nostra tanta presunzione, di cui portiamo la radice nel peccato originale, e che sempre resta in noi; ed ogni cosa facciamo, tanto internamente quanto esternamente, che più ci abbassi e valga a procacciarci un disprezzo infinito di noi stessi. Perciò nel doppio esame di coscienza, che noi facciamo a mezzo giorno e la sera, esaminiamoci particolarmente sulla rettitudine d' intenzione nelle nostre operazioni. Spiamole per vedere se si mescolano nel nostro operare fini di amor proprio e di vanità; se cerchiamo l' approvazione degli uomini, e non ci contentiamo di quella di Dio; se lodiamo direttamente o indirettamente noi stessi nei nostri discorsi, se aspettiamo lode dagli altri. Guerra implacabile a questi vizi! Discendiamo alla pratica, ed ogni volta che ci troviamo colpevoli, consideriamo le cagioni che ci hanno condotti in queste miserie, le occasioni nelle quali siamo caduti, i compagni, la natura della conversazione forse troppo leggera ed oziosa, ecc.. Consideriamo ancora i mezzi necessari per correggerci di un tale difetto, le ammonizioni scambievoli, le aperizioni di coscienza frequenti, le domande a Dio particolari rivolte ad ottenere la grazia della vigilanza e forza nella tentazione, le umiliazioni esterne, le penitenze, i proponimenti ripetuti sovente, le proteste ed assicurazioni a Dio, riconoscendolo come unico nostro bene, unico amore, unica felicità, fuori di cui niente vogliamo, ecc.. Così partiremo dall' esame rinforzati, massimamente se metteremo poi di mezzo la nostra cara Madre Maria Santissima che tutto ci otterrà dal suo divin Figliuolo. Lo stesso facciamo anche nella meditazione, giacchè la guerra contro la superbia deve essere continuata e perpetua. E facendo così, non dubitiamo punto: il Signore ci renderà poverelli di cuore e semplici, scopo dei nostri voti. A questi progressi contribuirà il conservare il maggior possibile raccoglimento esterno, evitando il troppo parlare, il ridere e la disoccupazione, e custodendo in quella vece più che si possa il silenzio, un' amabile serietà, e un continuo lavoro alla presenza di Dio e con aspirazioni. Credo poi necessario prendere un solo libro per la materia della meditazione, il Da Ponte stampato dal Marietti a Torino. La conferenza gioverebbe che fosse stabilita in giorni fissi; facendo tutti e due la stessa meditazione, essa potrebbe servire anche per materia della conferenza, come si fa al Calvario. Mi riserbo ad aggiungere qualche altra regoletta da scrivere in sul libretto in un' altra mia. Intanto qui finisco. Supplico la loro bontà di orazioni per tutti noi: io celebro ogni giorno messa unicamente per me e per gli miei cari compagni. Li ringrazio della nota de' soggetti atti allo scopo. Qualcheduno di essi mi ha già scritto. Faccia il Signore, che pare voglia accrescere la nostra piccola società: egli sia lodato in eterno. Io me ne devo restare qui qualche poco per affari appunto della piccola società del Calvario. Mi possono scrivere qui direttamente dove le lettere mi vengono sicure. Io sono pur sempre al Calvario col cuore e in mezzo di loro. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Aveva già sentore dell' afflizione vostra, pel male ripetutosi ed incalzatosi del buon Matteo, e gran dolore aveva provato del dolor vostro e suo. Ora me lo confermate e con più vivi colori. Io non so se non ripetervi quello che vi sapete, e che è pure un sommo conforto a chi l' intende, che noi non siamo fatti per questo misero luogo, ma per un altro migliore: che poniamo in codesto altro luogo migliore tutti gli affetti nostri, perchè non saremo allora più turbati, nè ingannati nella nostra aspettazione. Ah! solo il cielo è il luogo nostro, il luogo sicuro, ove riporre ogni nostro tesoro: colassù il tesoro nostro non può perdersi nè logorarsi. Ogni cosa cara all' incontro, fin che l' avremo quaggiù in terra, ci sarà sempre cagione di affanno, perchè sempre in cimento di esserci tolta, e in una sicurezza che in ogni modo ci sarà tolta. Viviamo dunque coll' anima nostra nel cielo, in Dio: ecco l' unica via di giungere alla pace ed alla consolazione. Il cielo, il nostro Dio non ci sarà tolto giammai; e con questo solo avremo tutto, in questo troveremo tutto, anche ciò che avremo perduto. Così fece Gesù Cristo, nostro esemplare, così fecero i Santi: e coll' affetto del gaudio tollerarono e sostennero ogni temporale sciagura, e si poterono perfettamente conformare alla volontà del celeste Padre, anzi in essa giubilare. Io non vi dico altro, se non che tutte queste cose che già sapete, e che me pure confortano, riusciranno di tanto maggiore alleviamento al vostro dolore, quanto più, raccomandando voi e i vostri cari alla nostra cara madre Maria Santissima, ella vi otterrà il soccorso al di fuori, ed il conforto al di dentro. Consolatevi ancora nell' amicizia fraterna che dimostra il caro Raffaello, e nella bontà e pietà delle figlie che ben vi compensano con tanta loro virtù e col loro affetto... [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Ciò che mi scrivete della gragnuola mi ha passato il cuore. Non c' è che mirare alla mano in cui sta la verga per consolarci, e son ben certo, e il veggo già dalla vostra lettera, che dalla meditazione della bontà paterna di chi percuote voi sapete derivare consolazione e per voi stesso abbondante e per altrui. Ah mio caro è pure una grande stretta al cuore il vedere una famiglia così prostrata in un istante nelle fortune, e la famiglia propria o quella d' un caro amico! Ma via, anche in tanta desolazione la fede non vede che un decreto di bontà! viviamo dunque di fede; e quel Dio che umilia innalzerà, quel Dio che mortifica vivificherà. Io non mancherò di aggiungere le mie povere orazioni raccomandando voi e l' afflitta vostra famiglia al Signore che dà abbondanza, « et non improperat ». Nell' altra parte della vostra lettera voi dite di sentire degli stimoli di vocazione divina, ma mettete un ostacolo fra gli altri nel vostro stomaco debole, il che m' avete toccato più volte. Vi risponderò ora, che non c' è nessuna regola fra di noi che obblighi ad avere uno stomaco forte, che pur troppo e la fatica e l' età non risparmia nè privilegia la complessione di quelli che sono ascritti in questo piccolo Istituto, ma siamo soggetti alle stesse miserie degli altri; che non avendo l' Istituto per fine essenziale se non la propria santificazione, per sua natura riceve anche i vecchi, anche gli infermi (quando però i superiori per non impedire un maggiore bene non reputassero talora di non riceverli); che non ci sono regole fisse che determinino il cibo e le altre cose occorrenti, se non quella dei primitivi cristiani, che avendo messo tutto in comune, si distribuiva poi come si legge negli atti degli Apostoli « prout unicuique opus erat ». Una cosa vi è da osservarsi, che in quanto ai propri bisogni corporali, come pure nelle altre cose, nessuno è giudice in causa propria, nè pure il superiore, a cui viene assegnato chi pensa per lui; che tutto viene regolato e dispensato dall' ubbidienza; che quindi può avvenire talvolta che alcuno abbia da soffrire, ma chi non ha da soffrire a questo mondo? e questo caso deve ben essere raro in una società, in cui nulla è più raccomandato che la dolcezza verso gli altri (si chiama della carità) e il rigore per sè. Più frequente deve essere quel caso, nel quale uomini ferventi dimenticherebbero sè stessi, se il proprio superiore non provvedesse loro; ed è questa la principale ragione per la quale si attribuisce a tutti chi abbia cura della sua salute, e dei suoi bisogni. Finalmente è indispensabile, che chi si dà a Dio si abbandoni anche a Dio ed alla sua provvidenza, e si prepari un animo contento di ciò che è sufficiente: [...OMISSIS...] . Per altro tutto questo affare versatelo con Dio in una orazione umile e generosa, colla quale non dimandiate che la sua gloria e la vostra salute; ed egli vi esaudirà. Aggiungete in questa orazione anche il miserabilissimo vostro amico. [...OMISSIS...] 1.31 La lettera, che avete avuto la bontà di scrivermi nella festa della nostra Mamma assunta in cielo, mi apportò una grandissima consolazione spirituale, perchè mi ha dato notizie vostre che molto desiderava, nè sperava così presto d' avere, e molto più perchè la trovai piena di quei sentimenti, coi quali vivendo voi, non potrete, per la grazia di Dio, che menare una vita piena della pace del Signore e assicurare la vostra eterna salute. Oh sì che non vi è altro, mio caro signor Phillipps, che ci possa dar vera e soda e inesausta consolazione, se non il vivere distaccati dalle cose terrene, e coll' anima in cielo, aventi sempre la memoria di Dio e del nostro Signor Gesù Cristo, non meno che della sua amatissima Madre, nostra gloria e letizia. Io me ne congratulo con voi, io ne ringrazio il cielo, io vi scongiuro a perseverare su questa via sino alla fine, ed a mettere ad effetto, colla grazia del Signore e colle sue sante ispirazioni, tutti i vostri proponimenti pii e salutari. Vi ringrazio ancora della confidenza che mi usate aprendomi il vostro cuore, il più bel segno di cristiana amicizia che mi poteste dare, e raccontandomi il combattimento che sentite in voi stesso, necessario per vincere la miseria umana, e conseguire quella perfezione a cui vi sentite chiamato. Ah! mio caro sig. Phillipps, è questa pur troppo la condizione della nostra natura, guasta radicalmente: il germe della superbia, innato con noi, è pur troppo il più profondo dei nostri mali, è una fistola che incancrenisce irrimediabilmente, se il miracolo della grazia divina, cooperando gli sforzi della nostra volontà, non la sana in noi. Perciò io vi consiglio e conforto a cercare tutti i mezzi possibili per umiliarvi e acquistare il santo disprezzo di voi stesso, mettendovi l' ultimo fra tutte le creature, e colla carità la più effusa verso tutti gli uomini e massime i più poveri, bassi, abietti ed afflitti, rendendovi servo di tutti per Cristo: in essi onorando Cristo, e imitando Cristo che venne per servire e non per essere servito. Ed a voi è più necessario operare tutto ciò che fate, con questo sentimento, in quanto che, avendovi Iddio posto in alto grado nella società e dato dei beni temporali, più facilmente potete essere offuscato dalle vanità del mondo, e d' altro lato più facilmente servire Dio ne' vostri prossimi con grande merito vostro. Ed è questa umiliazione e carità e dolcezza che renderà efficace poi il vostro zelo per la salute delle anime, se Iddio, come credo, in ciò vi ha eletto, per la sua grande misericordia, suo strumento, e pel bene che ne ridonderà a cotesta vostra patria, tanto degna d' affetto, a cui non posso pensare, senza sentirmi intenerire e piangere il cuore, quando penso che ella era una volta l' Isola de' Santi, e che poi il demonio così la pervertì e travolse miserabilmente; nè avrebbe trovato come fare ciò, se non avesse trovato negli uomini già entrato miseramente l' attacco disordinato ai beni temporali, che è il principio d' ogni sciagura, e agli interessi di questa misera vita, e la superbia. E` dunque una grazia grande quello che Dio vi fa col darvi lume a conoscere la perfezione a cui vi chiama, e voglia di conseguirla: ed è un obbligo questo che dovete adempire. E per venire alla minima nostra società, non so se sappiate che appunto il fondamento di essa è la perfezione dell' anima propria; e che tutto il grande scopo di essa si è di aiutarci insieme a conseguire un tanto fine. Laonde per sua natura ammette in sè tutti quelli che desiderano ardentemente la perfezione; ancorchè la divina Provvidenza li voglia nel secolo, come voi, che sento dalla lettera vostra in trattato di presto sposarvi: nel che vi prego ogni benedizione, acciocchè la compagna che Dio vi destina, sia una cosa con voi nel Signore, e vi sia non solo di aiuto in questa vita, ma d' aiuto anche per l' altra. Dico che nella minima società nostra possono entrare anche persone che sono nel secolo (purchè non pensino co' principii del secolo), quando il vogliano; poichè ai Religiosi propriamente detti sono congiunti e affratellati di quelli che si dicono ascritti e che, vivendo nel secolo, hanno però tutta la congiunzione possibile di carità e partecipazione di opere buone coi nostri, anzi sono propriamente nostri; e unitamente nel loro stato travagliano tutti alle opere della gloria di Dio e della carità dei prossimi, quando e come la divina Provvidenza dimostra di volere. Il che vi dico per vostro lume, e fors' anco per vostra consolazione, muovendovi Iddio a prendere tanta parte alla minima nostra società; della quale pure è questo principio « di fare qualunque cosa che appartenga alla gloria di Dio e alla carità del prossimo, in qualunque paese, purchè sia dimandata, e di contentarsi poi di tutto ». Per il che circa i mezzi di sussistenza in Inghilterra, sa Iddio cosa ci vuole; non vi date punto alcuna pena, perocchè poco veramente ci basta, e se non ci fosse anche nulla affatto, desiderandolo il Vescovo, ci verremo nulla ostante: vivendo con quello che abbiamo del nostro, fino che ce n' è, e poi confidando nella Provvidenza: chè di fame nessuno è mai morto di quelli che travagliano per Iddio, avendo questo Signore de' granai in abbondanza da mantenere gli operai che egli solo chiama e conduce nel campo. Bensì infinitamente vi ringrazio del zelo che avete per una tale opera, che Iddio solo sa quali effetti produrrà per l' onore e gloria sua in Inghilterra, e delle parole che avete già fatte col vostro Prelato, e di quelle che volete fare col piissimo Conte Shrewsbury; nè dubito punto che la fondazione per l' opera vostra non debba avere luogo. Anzi perchè sappiate come stiano le cose fra noi, il caro Gentili è qui meco al Calvario, e ne ho qualche altro, che sto preparando, quando e come al Signore piacerà, per l' Inghilterra; giacchè non c' è, si può dire, cosa che mi stia più a cuore di questa. E voglio unirvi alla presente una lettera dello stesso Gentili, acciocchè sentiate anche i suoi sentimenti, e siate anche con essi maggiormente consolato. Iddio benedice manifestamente le cose nostre. Una nuova fondazione abbiamo ora fatta nella città dell' ultimo sacrosanto Concilio Ecumenico, che fu contro tutte le eresie moderne: e penso che non senza significato ci abbia la divina Provvidenza chiamati in Trento, dove fu il Vescovo che ci volle; e le cose procedono, per la sola grazia di Dio, assai bene. Avrei altre chiamate, ma non voglio troppo allargarmi, procedendo anche in ciò dietro i consigli, che ebbe la degnazione di darmi il nostro Santo Padre Gregorio XVI; al quale sta tanto bene, per la uguaglianza del nome col Magno che convertì l' Inghilterra alla fede, che egli ci mandi costà. In quanto a noi, spero che in men di due anni saremo preparati. Ora è tempo da pregare assai, e da disporci: voi dalla vostra parte, noi dalla nostra. Ma, come dico, soprattutto è da farci orazione molta. Oltre le private, facciamo anche noi nelle nostre case orazioni in comune per voi, mio caro, e per i santi vostri disegni e desiderii sull' Inghilterra, acciocchè Iddio il tutto benedica, secondo il suo divino beneplacito, nel quale riposiamoci pur tranquillamente: e dicendo per i vostri santi desiderii sull' Inghilterra, intendo in primo luogo per la salute di quelle anime che vi sono più care, cioè per la salute del padre vostro e della vostra famiglia. L' inquietudine d' Inghilterra e del mondo è certo a bene ed a trionfo della santa Chiesa; e anch' io, mio caro Phillipps, aspetto delle glorie nuove ed inaudite, che sono per venire alla Chiesa di Gesù Cristo, in adempimento di tutto ciò che profetarono « sancti qui a saeculo sunt », e che non è ancora pienamente compito. Tale e tanta debba essere la gloria di Gesù Cristo ancora in questo mondo, che ogni cogitazione umana e speranza dei buoni trapassi e vinca. Non ho però coraggio di applicare ancora i mille anni dell' Apocalisse, di cui voi mi parlate. Il Signore sa tutte le cose, egli conosce i tempi ed i momenti, « et abscondita », come disse Giobbe, « in lucem produxit ». Noi teniamoci al sodo della sua santa ed adorabile legge: qui abbiamo tutto: massimamente preghiamo. Nel santo sacrifizio che indegnamente celebro ogni mattina voi, mio caro Phillipps, siete ricordato, e il sacrificio stesso nol celebro, se non per questo, insieme cogli altri affari riguardanti la gloria di Dio e della minima società nostra. Di questa vi manderò poi, se mai voi vorreste mostrarla ad alcuno secondo la vostra prudenza, qualche piccola descrizione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.31 Giunto a Trento felicemente, dopo essermi trattenuto in patria qualche giorno, ho subito portati i suoi complimenti a sua Altezza Rev.ma e presentata la lettera che mi ha consegnata...... Ora mi permetta che io scriva quello che non ho potuto dire, per la ristrettezza del tempo che mi sono trattenuto in Verona, nell' ultimo mio passaggio, circa l' obbiezione delle troppe incombenze che si propone di assumere l' Istituto della Carità, come io il concepisco. Dissi già che questa obbiezione riposa sopra un falso supposto; ma non ho potuto rendere ragione di questa mia risposta. Il falso supposto è, che questo Istituto si proponga tutte le opere di carità indistintamente: ciò non è al tutto vero. Egli ha un' opera sola determinata che si propone, e, quanto a sè, non si propone null' altro, e quest' opera si è la santificazione dei membri, dei quali l' Istituto si compone. In questo punto differisce molto dall' Istituto dei Gesuiti, che si propone due scopi principali, la santificazione propria, ed ancora l' altrui. Il fine del nostro Istituto è più semplice, perchè non ha per iscopo principale ed ultimo se non la sola santificazione propria; e quindi egli è un Istituto radicalmente contemplativo, di vita quieta e privata, quale conviene al sacerdote semplice, o al laico che aspira alla perfezione evangelica. E` un errore, pur troppo diffuso a' nostri giorni, il credere che la professione del sacerdote importi di sua natura la cura d' anime, quando anzi è il solo Vescovo che, di sua natura, è Pastore, ed i Sacerdoti non hanno alcuna missione, se non quella di pregare e di sacrificare per sè e per il popolo, quando però il Vescovo non li chiami e non li mandi. Essendo dunque proprio del laico e del sacerdote semplice la vita umile, occulta e ubbidiente, e perciò l' orazione e lo studio; di questo genere di virtù e di vita si fece lo scopo vero d' un Istituto, cioè del nostro, che si compone di persone private, legate insieme per santificarsi mutuamente ne' doveri del proprio stato. Lo scegliere questo, piuttosto che un altro fine, non era nè pure in mio arbitrio, giacchè è il fine, da cui non si può prescindere, essendo stabilito non da me, ma da Dio: e l' aggiungere a questo l' impresa di qualche opera di carità esigerebbe una speciale missione, una speciale manifestazione della divina volontà, una ispirazione straordinaria, cose che sono bensì proprie de' santi, ma non di me miserabilissimo peccatore, e se anche ai peccatori Iddio manda di tali vocazioni straordinarie, a me però non le mandò punto. Egli è bensì vero che a Dio non si può legare le mani, e che anche quei laici e quei sacerdoti che pensano a se stessi, assumendo per divisa quello dell' Apostolo, attende tibi , possono essere da Dio chiamati all' esercizio di qualche opera di carità, e ciò, non solo in modo straordinario, ma anche per le vie ordinarie. Perchè essendo tutti gli uomini, in generale parlando, obbligati all' esercizio della carità del prossimo, e tanto più quelli che si propongono la perfezione, egli è manifesto che, ogniqualvolta il prossimo ci domanda d' aiuto, e noi possiamo aiutarlo, ci incombe l' obbligazione o almeno il consiglio di farlo. In tal modo anche i semplici cristiani sono tirati da una necessità morale ad esercitare delle opere di carità, in certi casi, e molto più i sacerdoti, e quelli che aspirano alla perfezione. Perocchè in questi casi, ricusandosi, non provvederebbero alla propria santificazione come desiderano, ed unicamente desiderano. All' incontro nessuno è obbligato, e, oso anche dire, nessuno è consigliato (senza una particolare vocazione) di andare a cercare le necessità del prossimo, perchè il prossimo, a cui dobbiamo accorrere, non è già rappresentato nel Vangelo in un infermo cercato, ma nel Samaritano trovato sulla strada. E Gesù Cristo stesso menò vita occulta per trent' anni, per darci una lezione contro il falso zelo; ed anche quando uscì nella vita pubblica, si restrinse alle cose della sua missione, e non cercò punto gli infermi per risanarli, ma gli venivano portati, e ci volle molta instanza dalla parte della Cananea per essere esaudita, dicendo egli: « Non sum missus nisi ad oves quae perierunt domus Israel (Mat. XV) ». Quando adunque c' è la petizione e l' istanza del prossimo, anche persone prive di generale missione sono certo obbligate o consigliate a prestarsi, ed in questi casi la volontà di Dio e la missione è quindi manifesta. Ora queste sono le opere di carità che assume di esercitare l' Istituto della Carità, perchè a queste non può ricusarsi, per la natura stessa del suo unico e semplicissimo fine. Ella qui soggiungerà che, appunto per questo che le opere di carità non sono determinate, si viene con ciò stesso ad assumerle tutte. Ma io rifletto che nessuno può mettere legge alla Provvidenza, alla quale sola spetta di determinare le opere di carità che ognuno di noi è chiamato ad esercitare; e che non è in nostro arbitrio di escludere un' opera buona, che in virtù delle circostanze noi siamo obbligati o consigliati di assumere; e che basta assumere queste opere di carità prudentemente . Questa è la condizione di tutti i cristiani e di tutti i Sacerdoti: e chi ci autorizza a restringere la legge di Dio, e limitare il Vangelo? La carità non è di sua natura universale? Posso io arbitrariamente prefiggermi di esercitare la carità solo per metà, in una specie di cose sì, e in un' altra specie no? Se fu la Provvidenza, quella che m' impegnò in qualche opera, certo sono dispensato di occuparmi in altra, dove non giungessero le mie forze; ma farmi da me stesso una legge di non estendermi fuori di certe opere determinate, questo non saprei come farlo, senza restringere la legge evangelica, cioè farmi un Vangelo mio proprio; molto meno saprei imporre una simile restrizione e limitazione ad altri. Ma con ciò si viene a condannare gli altri religiosi Istituti. - No, certamente: Dio me ne guardi; ma si viene bensì a dire che i santi Fondatori de' religiosi Istituti avevano dei lumi grandi soprannaturali, una missione straordinaria: e con questo intendo di fare il più grande elogio de' religiosi Istituti. E non dubito punto che quella santa dama, la Marchesa Canossa, non abbia una ispirazione straordinaria, se fonda i Figli della Carità in quel modo che li ha concepiti; perchè è somma la stima che ho per Lei, e ciò non mi maraviglierebbe punto: massime avendo avuto un simile straordinario impulso per la formazione delle Figlie della Carità , che è manifestamente opera di Dio. Ma la mia miserabilità è infinitamente lontana da queste cose: ed io non posso che trascinarmi per le vie le più ordinarie e comuni; e Dio sa con quanta imperfezione vada anche per queste vie; e se non fosse la bontà de' miei compagni, l' Istituto della Carità non procederebbe così facilmente tanto nella Diocesi di Novara, come in questa, anzi nè pure starebbe in piedi. La condizione dunque nostra, e quella dei laici e dei preti secolari, è la medesima; e la necessità che abbiamo, sì gli uni che gli altri, si è di assumere le opere di carità, offerte dalla divina Provvidenza, prudentemente . Ma nell' osservare questa prudenza, c' è però un vantaggio notabile nell' essere in congregazione sopra il non essere: perchè qui ognuno non giudica in causa propria, ma è diretto dal giudizio del superiore, e non riceve incarichi, se non dopo che il superiore ha giudicato che convenga riceverli per ubbidire a Dio, la cui volontà nelle circostanze esterne si manifesta. Un altro vantaggio notabile dell' essere uniti insieme, si è quello di potersi aiutare scambievolmente e prepararsi meglio a fare con generosità di cuore ciò che a Dio più piace, e non ciò che il proprio capriccio, o almeno l' inclinazione vorrebbe, sotto il pretesto di zelo. Un terzo vantaggio ancora si è quello che, volendolo Iddio, un corpo di persone può esercitare degli uffizi caritatevoli più estesi, che persone singole sparpagliate. E a questo proposito dell' esercitare la carità esternamente, mi ricordo che Ella mi disse, non sapersi persuadere, come si potrà regolare bene un corpo di persone, che vivono anche fuori delle case. Ma conviene considerare che il fondamento della società sono le case, e che quelli che stanno fuori, non sono che un sopra più, degli ausiliari comodi per certe opere, nelle quali, adoperando degli interni, si metterebbe forse a pericolo il loro spirito; sicchè la società potrebbe sussistere anche senza queste braccia esterne, ma l' avere qualche aiuto di più non sarà male. Tanto più che la carità vuole che, se qualche esterno desidera di partecipare de' beni della società, non lo si escluda, e l' escluderlo sarebbe uno di quei principii arbitrarii, ai quali io fo sempre guerra in tutte le cose. Sicchè gli esterni vengono come per una conseguenza dello spirito della società. La prego, Monsignore, di scusarmi se ho scritto così a lungo; e con la consueta venerazione implorando la pastorale sua benedizione, di cuore sincero mi onoro di essere... [...OMISSIS...] 1.31 Con questa mia non posso rispondere a tutti i punti della vostra lettera, come vorrei, per la scarsezza del tempo, e per altre cagioni: ma risponderò poi con comodo a tutto. Portate dunque pazienza per ora e ricevete quello che vi posso dare, che è forse il principale. Ricordatevi che la pazienza e il sapere aspettare è di sommo momento per noi; che io sono nemico della fretta, e che mi è carissima oltre modo, e vorrei da tutti i nostri praticata quella virtù che si chiama della longanimità , tanto nelle divine Scritture lodata. Ecco adunque le poche cose che ho da osservarvi per ora. Mi piace che si diano ai novizi delle meditazioni tutte al loro scopo, e son certo che ci guadagneremo. Quello che vi raccomando in visceribus Christi si è di non ostentare con essi la minima autorità, ma di trattarli con una dolcezza e carità senza fine, sopportando i loro difetti con vera longanimità e pazienza, non volendoli far correre più che non possano le loro forze; ma solamente conducendoli a mano d' un gradino all' altro per la scala delle virtù. Conoscendo noi stessi, avremo infinita benignità ed indulgenza verso gli altri. Qualunque guadagno si faccia, ringraziamone il Signore; perchè anche quello è dono suo, e non viene dall' uomo. Circa i difetti poi conviene bene spesso dissimularli, ove la correzione o la penitenza fosse superiore alle forze morali del novizio; verrà altro tempo più opportuno, ed allora si dee cogliere il destro della correzione. Sopra tutto rare volte avviene che la correzione, fatta sul punto del mancamento, giovi. Il più delle volte conviene lasciare tranquillare l' animo dello sviato, e nel momento di tranquillità e benevolenza, quando anche meno la si aspetta, fargli allora sentire la voce della ragione e della sincerissima carità, e « non dico tibi septies, sed septuagies septies » rimettere i mancamenti. Voi poi non inquietatevi punto, non tenete nè pure memoria, non che ruggine, per i falli dei novizi, acquistate dominio di voi medesimo, e non date segno che vi restiate offeso di niente, nè che riteniate animo menomamente indisposto verso di loro; altramente perdereste la loro confidenza e il loro amore, senza di che nulla vi gioverebbe ogni fatica. Considerate la descrizione che fanno le Costituzioni del maestro dei novizi, e come la prima qualità che si richiede in esso, sia questa: « Hic autem vir sit natura pacificus ». Debbo finire perchè viene gente. Vi abbraccio e benedico tenerissimamente nel Signore. Tenetevi alle istruzioni che ricevete e mantenete una perfetta unione in casa per la via della dolcezza, della carità e della umiltà e sottomissione al vostro superiore di costà, conversando con lui quanto il tempo più permetterà di stare insieme, chè sarà buono assai, che insieme conversiate il più che sia possibile. Addio dunque: aspetto notizie fedeli di tutto, e al tempo debito. [...OMISSIS...] 1.31 Perdonatemi, se vi ho afflitto coll' ultima mia lettera: mi è molto consolante di dovervi domandare perdono dell' afflizione datavi, in gran parte involontariamente. In fatti, se voi leggerete tranquillamente i rimproveri che in quella lettera vi faccio, troverete sempre usati i verbi e le particelle dubitative, temo, dubito, nel caso che siate reo , e simili modi: perciò erano rimproveri condizionati, i quali, mancando la condizione, cessano al tutto, e non dovete punto nè poco applicarveli. D' altro lato, mio caro, non crediate che io abbia fatto nessun giudizio sulla vostra condotta, ma solamente ho temuto ; e le apparenze mi davano da temere. Se dunque credete che io abbia fallato nell' esporvi anche i miei dubbi sulla vostra condotta, non solo io ve ne dimando umilmente perdono, ma anche mi sottometto ben di cuore a riceverne quella penitenza che voi stesso m' imporrete, e a darvi quella soddisfazione che più vi piacerà. Ciò premesso, vi prego di considerare che era ben penosa la mia posizione nel trovarmi da più di quindici giorni privo al tutto di lettere del Calvario, a malgrado che e voi e il Gentili aveste avuto obbligo di scrivermi, secondo l' istruzione datavi, e che io v' avessi scritto due volte in quel mezzo. Riflettete ancora che, se il dover partirvi dal Calvario era urgentissimo , come voi me lo descrivete, a segno che un sol giorno di ritardo poteva portare l' occupazione militare della casa, e quindi se voi dovevate partire senza dimora, potevate però fare che il Gentili mi scrivesse subito lui tutte le circostanze di questo affare, anche nella vostra assenza, senza aspettare di scrivermi voi da Torino, ad affare finito. Voi anche probabilmente voleste darmi la notizia del buon esito dell' affare, senza darmi la trista nuova del pericolo in cui era la casa. Ma io non voglio, mio caro, che con me usiate simiglianti riguardi e simiglianti delicatezze: amo bensì d' essere informato di tutto, passo passo, del bene e del male. Se poi io vi avrei consigliato ad andare a Torino, anche posta tutta l' urgenza che voi indicate, nol so, e quindi non posso approvarne ancora l' andata, perchè ne ignoro ancora i fini particolari. Ma forse anco io avrei preferito di espormi al pericolo dell' occupazione militare della casa, anzichè farmi innanzi fino a Torino e schivare l' occupazione per un privilegio odioso, e che è contrario, in generale parlando, allo spirito del nostro Istituto . Non so se voi sentiate la forza di questo riflesso, e desiderei sommamente che la sentiste. Per altro è necessario che mi diate de' lumi maggiori, e desidero positivamente che mi diciate i motivi che c' erano da temere una subita occupazione militare. Voi poi dite che non ci vedete questo male del sapere e dell' approvare che fa il Re la nostra unione del Calvario. Mio caro, se sia questo bene o male, lo sa solo Iddio. Ben vi dico, che la nostra unione, di sua natura è umile, privata ed occulta , e se cerca approvazione dai principi, senza necessità, essa ha tradito il suo spirito, che è spirito di confidenza nel solo Dio e nella ineffabile sua provvidenza. Sì, mio caro, noi dobbiamo avere anche in questo punto una maniera umile di procedere, cioè lasciar fare a Dio; fuggire il più che possiamo le relazioni coi grandi del secolo, eccetto allora che la necessità, cioè il dovere morale, esige che ci mettiamo con essi a contatto. Se dunque questa approvazione l' avessimo cercata, noi avremmo fatto un passo falso, e saremmo fuori di strada . In questo senso dovete intendere le mie parole. Perocchè, o voi convenite con me nel non cercare nè provocare in nessun modo, nè direttamente nè indirettamente, gli appoggi temporali, e nel volervi appoggiare semplicemente in Dio, col fare i propri doveri; e in tal caso quelle parole non sono dette per voi. Ovvero mantenete l' inclinazione e il pensiero di farvi avanti e tentare d' intromettervi presso i grandi per avere la loro protezione; e, in questo caso poi, potete correggere lo zelo falso, e perfezionarlo col divino aiuto; e non si ha per questo da dubitare della vocazione. Insomma, mio caro, prendete dolcemente, e intendete in sano modo le cose che io v' ho dette. E non mi conoscete ancora? E non sapete ch' io non voglio, se non il bene? Sì, per la divina misericordia, non cerco altro; intendete dunque bene ciò che vi dico: non per il male, ma per il bene; non per affliggervi o per iscoraggiarvi, ma per perfezionarvi sempre più e acciocchè possiate perfezionare anche gli altri, quelli che vi ha commessi il Signore, ed al quale certamente dovete rendere conto. [...OMISSIS...] Qui, per la misericordia di Dio, le cose vanno bene. I compagni mi sembra che crescano in virtù, ed anco in numero, giacchè ho diverse domande. Voglio mandarvi la nota di tutti, acciocchè se ne conoscano i nomi anche dai Confratelli del Sacro Monte. Abbracciatemi caramente il Molinari, e ditegli che gli raccomando di fare bene in tutto, come spero che farà. E qualche volta mi scriva non per complimento, ma per informarmi di sè e dello stato suo, parlandomi con apertura e candore. Amiamoci, mio caro, nel Signore. Abbraccio tutti i nostri; salutatemeli nominatamente . Ho in mente di scrivervi in un' altra lettera le mie ragioni per le quali temo che non sia stato secondo la prudenza l' andare a Torino, anche posta la grande urgenza da voi asserita. Ma prima aspetto la informazione sui motivi che c' erano da temere una così prossima occupazione militare della casa. Addio dunque intanto, preghiamo il Signore incessantemente. [...OMISSIS...] 1.32 Riputando cosa del mio dovere che Vostra Beatitudine sia di quando in quando informata de' progressi che al Signore piace di far fare all' Istituto della Carità , essendo Ella, sempre piena di benignità, che anche prima di sedere sulla cattedra di San Pietro si è degnata favorire il principio di questa umile opera, incoraggiandola e aiutandola con molte grazie, per sì fatta guisa che fin d' allora ho messo in Lei la mia confidenza e La ho considerata come il vero padre della Istituzione: ed essendo anche mio desiderio, a tenore dell' indole propria dell' Istituto, tutto ordinato in servizio della Santa Sede, di non procedere ad alcun passo notabile se non dopo d' avere implorata ed ottenuta l' apostolica benedizione; perciò io mi fo animo di venire ai santissimi piedi notificando a Vostra Beatitudine, che la divina misericordia si è degnata di estendere quest' anno prossimo passato l' Istituto della Carità anche nella diocesi di Trento, dove conta già, sebbene da così poco tempo introdotto, un ragguardevole numero di sacerdoti; e, la Dio mercè, tali che certamente è ancor più dalla loro qualità che dal loro numero che si può conoscere quanto voglia essere liberale l' Altissimo verso questo paese sito nei confini d' Italia. Il perchè, godendo anche tali soggetti della confidenza di questa Altezza Reverendissima, ad invito della quale ho intrapreso la fondazione, avviene che abbiano non poco da occuparsi in cose che riguardano la gloria di Dio e la carità del prossimo. Umilmente adunque prostrato ai piedi di Vostra Beatitudine imploro l' approvazione e la benedizione apostolica sulla nuova fondazione e sui singoli membri che la compongono. Perchè poi è pregevolissimo il tesoro delle sacre indulgenze, e giustamente ne sono avidi i cristiani fedeli, perciò consapevole della carità e liberalità apostolica di Vostra Santità, oso ancora supplicare alla medesima acciocchè volesse degnarsi di conferire qualche sacra indulgenza da lucrarsi da tutti i membri di questo Istituto, pel quale anche la santa memoria di Pio VIII si era degnata di offrirmene ov' io le avessi dimandate, il che ho differito di fare fin adesso anche per aspettare che l' Istituto prendesse qualche consistenza; e nominatamente supplico che tali indulgenze non solo sieno profittevoli a quelli che all' Istituto appartengono col legame de' quattro o de' tre voti, abitino questi ultimi in case raccolti, o fuori nel campo del Signore col titolo di Coadiutori esterni ; ma ben ancora a quel genere di persone che appartiene all' Istituto della Carità col titolo di Figliuoli adottivi , come altresì a quello che vi appartiene col titolo di Ascritti : l' uno e l' altro de' quali generi, sebbene liberi dai voti dell' Istituto, ricevono però dall' Istituto medesimo una particolare direzione o aiuto spirituale, e prestano la loro cooperazione nell' esercizio delle opere della carità; e finalmente anche a quelli che vengono ricevuti come Alunni in prova, acciocchè possano a suo tempo essere incorporati nella Società in quella classe di persone che meglio a ciascuno di loro si conviene. Finalmente riguardo alla mia particolare persona oso anche esporre umilmente alla Santità Vostra, che dopo l' ultimo mio ritorno da Roma, insistendo sull' indirizzo datomi dalla santa memoria di Pio VIII e da Vostra Beatitudine confermatomi, non mi sono tanto occupato nei particolari rami di carità, p. es., predicare e confessare (a meno che qualche caso particolare non mi sembrasse esigerlo, anche per esempio de' miei compagni); quanto nella direzione generale dell' Istituto, e nel ribattere gli errori correnti scrivendo de' libri, ne' quali cerco di non limitarmi alla sola confutazione, ma di estendermi a stabilire la vera dottrina, colla luce della quale le dottrine erronee cadono da sè stesse: uno dei quali libri ho anche pubblicato col titolo « Principii della Scienza morale » ed ho fatto umiliare a Vostra Santità per mano dell' Em. Card. Vicario, dove ho avuto anche per iscopo di distruggere il sistema degli Utilitari , cioè di quelli che vogliono dedurre i doveri morali dall' utilità, sistema che riprodotto in tante forme e introdotto oggidì per tutto sì negli affari pubblici che privati non cessa di produrre un infinito male alla religione non meno che alla società. E medesimamente sarebbe mio disegno di attaccare gli errori dominanti con una serie di scritti, che, se Vostra Santità approverà questa mia occupazione e Dio mi concederà vita e forze, non tarderò di venir successivamente pubblicando. 1.32 Dell' Istituto della Carità credo che voi dobbiate avere una piccola descrizione scritta: se non vi basta, ne aggiungo qui un' altra, breve sì ma che contien tutto. Qui la misericordia divina si degna di benedir molto l' Istituzione. Vi raccomando però di far un uso prudente delle notizie che avete dell' Istituto; cioè a dire non operate per fantasia, nè vi lasciate lusingare da speranze vane. Se vi vedete del solido, cioè se persone pie veramente desiderano l' Istituto, in questo caso confidate loro ciò che credete; altrimenti vi prego di tacerne e non parlarne oziosamente con nessuno. Il mondo è pur troppo sempre nemico di Cristo; onde non conviene inutilmente attizzarlo: « Cavete ab hominibus ». Santifichiamo sodamente noi stessi: ecco l' ogni bene, mio caro. Sono a parte con tutto il cuore delle vostre tribolazioni. [...OMISSIS...] Quest' Istituto è una pia Società composta di Sacerdoti e laici uniti insieme per cooperare alla propria, e, ordinatamente, anche all' altrui santificazione. L' indole propria dell' Istituto è quella di venire in aiuto de' Vescovi principalmente, in tutti i bisogni delle Diocesi e delle parrocchie. Per questo fine l' Istituto non esclude veruna occupazione, incombenza, o ramo pio; ma intraprende tutto ciò che i Vescovi principalmente desiderano o dimandano. S' intende però sempre fin dove arrivano le forze dell' Istituto stesso. L' Istituto quindi ha per fondamento quella massima di San Francesco di Sales « nulla cercare e nulla ricusare »: intesa in questo modo, che i membri di questo Istituto non hanno un particolare oggetto esterno in cui sia loro essenziale l' occuparsi, nè intraprendono cosa alcuna da sè stessi; ma, se vengono cercati o da' Superiori ecclesiastici, o anche da semplici fedeli, si prestano in tutto ciò che loro è possibile; per esempio in missioni, in cura d' anime, in iscuole, in collegi, in assistenza di spedali, di prigioni ecc. ecc. preferendo anche le opere più umili e le men curate dagli altri. Se poi non sono dimandati, essi non escono dalle funzioni della loro propria Chiesa, ma in essa confessano e predicano e mantengono vivo il culto di Dio: e in casa si occupano, oltre che negli esercizŒ pii, negli studŒ adattati alla loro professione. I membri di questa Società hanno de' voti semplici e perpetui, solvibili però a giudizio del Superiore. Alcuni membri poi a scelta del Superiore emettono anche il voto delle missioni del Sommo Pontefice. Ai membri stretti con voto si aggiungono alcuni pii fedeli che vengono aggregati senza voti, per pura divozione e ad intendimento di cooperare alle opere di carità che l' Istituto ha occasione di esercitare. I Superiori dell' Istituto sono: 1 un Superiore Generale, che risiede in quella casa dell' Istituto ch' egli medesimo si sceglie e che presentemente ritrovasi nella casa in Trento; 2 e dei Superiori locali costituiti dal Superiore Generale secondo i bisogni. Quando il Vescovo, il Parroco, o anche de' semplici fedeli bramano qualche servigio od opera di carità, essi si rivolgono ai Superiori dell' Istituto, e questi sono obbligati, avendo i soggetti opportuni per quell' opera, di servire ai medesimi assumendo quegli incarichi senza riflesso a vantaggi temporali od altra considerazione umana. In caso contrario però, cioè non avendo in pronto i soggetti adattati, od essendo questi precedentemente aggravati d' altre opere, hanno il diritto di non accettare l' opera della quale vengono dimandati. [...OMISSIS...] 1.32 Ho tardato alquanto a rispondere alla loro cara lettera per diverse occupazioni sopraggiuntemi. Intanto il caro Loewenbruck avrà recato loro i miei saluti, essendo stato qui a trovarmi; sebbene alla sfuggita. Ora finalmente eccomi a intertenermi almeno un poco co' miei Lissandrini e Teruggi. La relazione che mi danno di sè stessi mi fa fede del loro sincero desiderio di profittare nella virtù ogni giorno, e di pervenire alla perfezione in questa dolce via del servizio del Signore. La perseveranza nei loro tentativi, nei loro sforzi, nella loro rinnovazione dei santi proponimenti, ne' sospiri e ne' gemiti fatti innanzi al trono di Dio crocifisso, sarà indubitatamente coronata. Ah! non trascuriamo nissun mezzo, miei cari, per infrenare la nostra mobilità, e por ferma legge alla nostra naturale leggerezza! Oh quanto saremo consolati se piglieremo la cosa seriamente, se porremo delle leggi a noi stessi da non infrangerle sì agevolmente, legando con esse quasi con una catena di ferro la protervia della nostra carne e l' inconsideratezza del nostro spirito! Ciò che crederei molto contribuire a ciò sarebbe che avendo essi insieme una confidenza veramente fraterna ed intiera in Gesù Cristo, l' uno eleggesse l' altro in suo sopravegliatore, e si obbligassero insieme ad avvertirsi e tenersi fermi nelle regolette stabilite, confessando i proprii falli e pregando d' averne in cambio salutari penitenze. I proponimenti riguardanti la distribuzione delle ore ordinate alla esecuzione delle due regolette ricevute converrebbe fossero fatti insieme con qualche solennità, per esempio in un giorno di ritiro tutto consecrato a penetrarsi dell' importanza di operare virilmente nelle cose dello spirito. E con questi proponimenti converrebbe promettessero l' uno all' altro, non solo ciascuno a sè stesso, il mantenimento di alcune particolari regolette (quali essi stessi crederanno di formarsele e proporsele, secondo le loro circostanze): e nello stesso tempo l' uno assumesse incarico verso l' altro di non perdonare nessun difetto o mancanza contro alle dette regolette. Ma una cosa che crederei ancor più poter giovare all' acquisto di spirito ed al progresso nelle solide virtù sarebbe dare delle scappate, e passare qualche porzione dell' anno al sacro Monte Calvario, ed ivi farvi gli esercizi spirituali; giacchè oltre il sommo vantaggio che deriva all' anima da quel luogo solitario ed idoneo al contemplare, massime pei tanti oggetti intorno che rammentano i misteri della dolorosa passione dell' Uomo7Dio nostro Redentore; oltre la forza delle meditazioni stesse date in quell' ordine concatenato che S. Ignazio ha indicato tanto utile massime alla purificazione dell' anima; oltre tutto ciò ed altri vantaggi, io veggo che ce n' avrebbe in ciò uno singolarissimo, qual è quello di potere intendersi e legarsi meglio alla piccola società del Calvario, e stabilire que' nessi e quelle relazioni, dalle quali, introdotte che fossero fra noi, ne aspetterei una comunicazione non piccola di grazie celesti e un grande aiuto scambievole, sì per migliorare e confortare le anime nostre, come per esercitare, secondo l' ordine della divina Provvidenza, la carità verso il prossimo; questa virtù della carità, che forma il distintivo de' discepoli del Signore, e della quale si pregia di denominarsi il piccolo Istituto che nacque a piè della croce. Ed anzi parmi ormai tempo che alle due regolette che hanno scritto nel loro libriccino se n' aggiunga una terza cioè appunto quella degli Esercizi annuali da farsi al sacro Monte, di che ho fatto anche cenno al nostro amatissimo Mons. Vicario Scavini, e che potrebbe essere espressa così, se a loro pare: 3 « Omnes alieni domui societatis adscripti erunt, et in ea opportuno tempore exercitia spiritualia peragent annis singulis . » Questa terza regoletta l' aggiungano adunque alle due prime del libretto, se loro piace, e la comunichino altresì a Monsignore; e queste tre regolette, ben meditate e scritte nella mente, sieno il fondamento e il principio da cui deducano poi quelle altre regolette più particolari che diceva di sopra da imporre a sè stessi, e rendersi della loro esecuzione l' uno e l' altro scambievolmente responsabili. La misericordia divina benedirà, come spero grandemente, questi piccoli principii. Operiamo solo rettamente e generosamente, e ne' nostri mancamenti una profonda umiltà ci sorregga; non rifiniamo mai di confessare i nostri falli, e di umiliarcene in tutti i modi, e di essere sempre come poverelli che gemono e dimandano limosina. Ah! è un gran titolo a ricever pietà dal nostro buon Padre celeste l' esser poveri, e il dire di cuore: « inclina, Domine, aurem tuam et exaudi me, quoniam inops et pauper sum ego ». Anche per me innalzino la loro voce, il più povero di tutti, ROSMINI p.. [...OMISSIS...] 1.32 Vi ringrazio delle notizie mandatemi da Milano e da Arona. Quanto alle parole del Cardinale, non vi dieno alcuna noia. E` in Dio che noi confidiamo: si farebbe torto a sua divina Maestà diffidando: « brachium Domini non est abbreviatum ». Per altro se le parole degli uomini ci recano qualche perturbazione, entriamo in noi stessi, mio caro, e da un tale effetto riconosciamo che noi mettevamo la nostra fiducia negli uomini. Eh! chi è spoglio di ogni speranza e fiducia dalla parte degli uomini, chi non pensa a protezioni umane, ma vuole solo la protezione di Dio, non si turba punto per qual si voglia parola, che oda dagli uomini. D' altra parte ricorriamo sempre a quel dolcissimo principio, che ogni bene per noi è racchiuso nel fare la volontà di Dio, nel perfezionare e santificare noi stessi: e quanta tranquillità e costanza non acquisteremo! quale santissima indifferenza per tutto ciò che si compiacerà di fare avvenire la Provvidenza benignissima! Ah! faccia il Signore di noi e della società nostra tutto ciò che a lui piace; saremo egualmente contenti. Piace a lui che la nostra società si rimanga umile, oscura, piccolissima? Sia benedetto: agli occhi suoi, ve lo dico sinceramente, riesce più amabile, più ch' ella è piccola, appunto perchè ella ha meglio occasione d' essere anche più umile e non soggetta alle lodi degli uomini, che corrompono il nostro cuore. Piace a Dio che la nostra società sia contrastata, combattuta, perseguitata? Lo sia pure; solo non succeda per nostra viltà, per nostra leggerezza ed imprudenza, per nostra presunzione, in una parola per nostra colpa. Gli piace in quella vece che la nostra piccola unione prenda radice e s' ingrandisca? Sia benedetto egualmente. Questi, o mio caro, sieno i nostri sentimenti: e questi ci renderanno imperturbati, o certo forti contro le tentazioni che ci assalissero. Ricordatevi i proponimenti fatti in Trento, le promesse date, di cui il tremendo giudice certamente vi domanderà conto. D' altra parte l' abbondanza della misericordia divina trabocca sopra di noi in quanto ai favori esterni; vorrei dire altrettanto degli interni, se la mia imperfezione e miseria infinita non facesse continuamente guerra alla increata Bontà. Dite al Gentili che le cose per la missione inglese vanno bene; che tutto saprà a suo tempo; che ora non resta altro che fare orazione molta per quest' affare, e farne fare. Abbraccio teneramente tutti i miei carissimi fratelli. Preghino tutti fervorosamente per la salute delle anime nostre. Oh quanto sono pieno di miseria, mio caro! E pure confido nel Signore che esaudisce la voce dei miseri, questa voce che innalzo pure a lui dall' abisso delle mie malvagità. « De profundis clamavi! » Pregate dunque istantemente e tutti, pregate pel vostro in Cristo A. R.. P. S. . Non è ancora questa partita e ricevo la vostra de' 6 marzo dal Calvario. Due cose mi hanno molto consolato in essa: le buone nuove de' carissimi nostri confratelli, e le speranze che danno le giovani inviate a Portieux. Sia lodato Iddio mille volte. V' ho scritto già che vi do licenza di trattare l' affare delle Figlie della Provvidenza in Isvizzera: ma vi scongiuro di nuovo, prudenza nelle vostre parole e nei vostri fatti: diffidate di uno zelo impetuoso e subitaneo; siate calmo in tutte le vostre parole, e operazioni, e non prendete impegni , ma tenetevi alla larga colle promesse. Iddio farà tutto, se camminerete nella via retta. Altrimenti gran bei principŒ e tristi riuscimenti. Abbraccio tutti di cuore e vi benedico nel Signore. [...OMISSIS...] 1.32 La ringrazio di cuore della sua lettera piena di bontà e di carità. Faccia il Signore che la causa della virtù e della religione proceda innanzi; ed ho in seno una immobile speranza che procederà innanzi anche in mezzo ai rischi ed agli sforzi disperati dell' inimico dell' uman genere, perchè è finalmente la causa di Gesù Cristo, a cui è data ogni podestà in cielo ed in terra. Credo che molto debba aiutare questa causa ne' nostri tempi una sana filosofia, e che quelli che daranno opera a renderla non meno pura che evidente si acquisteranno molto merito per l' eternità, se il faranno sinceramente per amor di Dio. Vorrei vedere i Gesuiti entrati su questa strada: oh quanto n' aspetterei di bene! se non fanno i buoni, e quelli che se l' intendono con Dio, chi farà? Pare a molti un prendere la cosa da lontano a voler per questa via giovare gli uomini, ed amano più i mezzi più vicini e pratici. Ottimi sono questi, ma ciò non fa che non sia maggiore il bisogno di risanare le menti coll' infondere in esse idee giuste. Gli uomini conviene andare a prenderli lontani, perchè sono andati lontani. Non ci sarà nè chi sappia somministrare, nè chi sappia ricevere i mezzi migliori, fino che si seguita a empir le menti di torte idee e che hanno in seno il verme. L' umana debolezza d' altro lato ha bisogno anche degli amminicoli, massime oggidì. La religione, tanto guasta da una mala filosofia, riceverà solo da una filosofia buona quello splendore che penetra ovecchesia, e a cui nulla s' agguaglia: o, per dir meglio, gli uomini si metteranno in posto e in istato da contemplare tanta bellezza. Ah se io potessi trasfondere questo mio sentimento o anzi questo calcolo ne' Gesuiti! dico, questo mio calcolo: perchè non credo di parlare senza avere un po' meditato sui bisogni dell' umanità e sulla malattia da cui è travagliata: non parmi che sia un puro e vano sentimento che a creder così e a sperar tanto mi muova. Ho per certo che se fosse al mondo S. Ignazio m' intenderebbe: ma può dal cielo ottenere tutto il lume necessario a' suoi figliuoli. Ella mi farà sempre una grazia singolare se mi darà sue notizie, e de' suoi studi. Aspetto la preziosa grazia, che mi promette, di tenermi raccomandato nelle sue orazioni a Gesù, ed alla nostra carissima speranza Maria. Io, sebben così povero d' ogni bene, che ho vergogna fino di me medesimo a prometterglielo, pure non mancherò di farlo per lei; nè mi sconfido per questo mai di essere esaudito « quoniam inops et pauper sum ego ». La prego de' miei rispettosi saluti a' RR. PP. Rettore e Ministro, e a quegli altri suoi correligiosi che ho avuto il bene di conoscere quando fui a Novara. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.32 Non tardo un momento a rispondere alla cara vostra. Se ella mi ha afflitto per la compassione di quelli che patiranno dal sopravvenire della malattia che minaccia; di gran lunga più mi ha consolato ed empito di giubilo la manifestazione dell' unanime disposizione de' miei carissimi fratelli del Calvario nell' impiegare le loro forze e nell' esporre le loro vite in servire Gesù Cristo ne' suoi infermi. Oh bella occasione che vi manda l' amore del nostro Gesù! oh corona desiderabile che vi guadagnerete, se moriste in tale ufficio! oh consolanti parole quelle che udirete nel giorno estremo: « infirmus eram, et visitastis me »! Certo non vi può essere via più sicura e preziosa di questa per assicurarvi l' eterna vostra salute. Io, se mi sarà conceduto, verrò sicuramente ad aiutarvi, e dividere con voi, troppo avventurati, i travagli per Cristo. In quanto alla casa di cui sono livellario, io la metto in pienissima disposizione del pubblico per farvi lo Spedale ; e anzi lo scriverò io medesimo al caro Bianchi, nella lettera che qui unisco. Converrà però prendere le cose con fervore insieme e con prudenza, come vuole il nostro Maestro ed esemplare: cioè premunirsi di tutte le cautele tanto pel corpo , che per le anime nostre . Dico anche per le anime ; perchè in questi tempi di pubbliche malattie occorrono dei pericoli anche per l' anima più del solito, per la libertà maggiore del trattare, ed altre cagioni. Perciò in questo punto ci vorrà una somma vigilanza e provvidenza da parte dei Superiori. Voi pensateci; e mandatemi tutti i vostri riflessi, e un piano circa il modo di procedere de' nostri nel caso della malattia, dove tutto sia ben cautelato: ve ne incarico espressamente; questa è cosa vostra personale. Il Vice7superiore me ne farà uno anch' egli; ma non dovete comunicare insieme; ma ciascuno pensare da sè, scrivere e mandare. Io poi vi manderò, se ci sarà bisogno, un Regolamento definitivo per vostra buona regola. Addio, pregate istantemente e abbracciatemi tutti, facendo sapere a tutti la consolazione mia della loro generosa disposizione. Qui siamo tutti dello stesso cuore, e ci siamo offerti al Vescovo, prima d' ora. Anzi questo desiderio che facciate anche voi altri. Fate una bella lettera al Vescovo, offerendovi in essa a qualunque uso e luogo per tutta la Diocesi, in che egli vi vorrà adoperare in aiuto spirituale e corporale de' malati (non però in aiuto corporale di donne, chè questo lo escludo assolutamente), e dite in questa lettera che ciò ognuno fa per ispontaneo suo volere e maturo consiglio, fidando in Dio, ed avendone ricevuto il consenso e la permissione dal vostro Superiore. Poi sottoscrivetevi tutti cominciando dal Vice7superiore, e quindi voi, il Molinari e tutti gli altri, non esclusi i laici; sicchè tutti i nostri sieno anche in ciò un' anima sola ed un solo olocausto; non ne manchi uno solo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.32 Io temo che quelli ai quali Ella ha affidato l' esame delle Costituzioni, non ne abbiano bastevolmente penetrato lo spirito. Essi sembrano essere intimoriti dalle gravi obbligazioni di coscienza che impongono. Ma l' Altezza Vostra non ha che a rileggere il paragrafo 16., che è l' ultimo delle Costituzioni, per accertarsi che non v' è nessuna cosa nelle Costituzioni che obblighi sotto pena di peccato nè pur veniale, eccetto i voti e quelle cose che già sono obbligatorie per altre leggi. Con meno vincoli di coscienza di questi non si può erigere nessuna congregazione religiosa che abbia voti. Può essere che abbia fatto timore quel predicarsi e raccomandarsi da un capo all' altro delle Costituzioni una gran perfezione e una ubbidienza la più perfetta. Ma altro è quello che si propone come meta, altro è l' esigere che questa meta sia conseguita; oltracciò nello stesso tempo che si propone quella meta così alta, si prescrive ai Superiori ogni dolcezza, discrezione, non comandando se non quello che è proporzionato alle forze, in modo tale che ciò che i soggetti fanno, riesca sempre volontario. Questa autorità tutta spirituale e dolcissima de' Superiori, son per dire che sia propria dell' Istituto della Carità, e che l' autorità non sia se non puramente spirituale e persuasiva come quella di un padre spirituale e d' un maestro di spirito. Forse in nessun Istituto religioso l' autorità di comandare è proposta con tanta dolcezza, come nelle Costituzioni dell' Istituto della Carità. La cosa riesce in pratica mirabilissimamente; ed è una vera consolazione a vedere la letizia di tutti i miei compagni, nessuno eccettuato, che benedicono ogni giorno il cielo per la contentezza di cui godono. I Superiori ancora possono sciorre i membri da' voti; ed è loro prescritto di farlo ogni qual volta credessero che questi riuscissero de' vincoli troppo stretti e pericolosi, perchè il fine è la salute delle anime de' membri stessi. Voglia dunque Vostra Altezza assicurarsi intieramente su questo punto; voglia restituirmi il suo pieno compatimento e la prima sua cooperazione ed appoggio, e possa io sperare che Ella me lo presti di tutta sua persuasione. Io credo che l' opera sia adattata ai tempi, e che riuscirebbe sicuramente se Ella il vuole; non dico senza delle difficoltà, perchè di queste pur troppo se n' incontrano in ogni cosa, e dobbiamo anche noi aspettarne, ma dico senza difficoltà insuperabili, ecc.. 1.32 La venerata sua lettera degli . corrente mi ha prodotto incredibile consolazione per il pensiero che Le ha ispirato Maria santissima. Oh il bel pensiero, che fu questo! Lo eseguisca senza perdere tempo, ed Ella corrispondendo a questa inspirazione, s' acquista sicuramente un nuovo titolo alla protezione della Vergine, nostra carissima Madre, da cui dobbiamo aspettare ogni lume e conforto. Sì, la cara e benignissima nostra Madre Maria sarà quella che Le darà ogni consolazione al cuore, e quella tranquillità e pace di animo che è tanto necessaria, e che, sebbene indegnamente, Le prego ogni giorno. Abbandoniamoci alla divina Provvidenza e speriamo nella bontà di Gesù Cristo e nell' intercessione della sua santa Madre. Non siamo troppo solleciti, e non ci chiameremo pentiti di questa nostra confidenza e di questo nostro abbandono. E` vero che siamo tanto miserabili e che abbiamo tanti difetti! E chi non ne ha? Ma la grazia di Gesù Cristo può purificarci in un istante. E qual miglior mezzo di ottenere questa grazia, che è il solo vero bene di cui abbisogniamo, se non quello di fare opere della sua gloria, e farle unicamente per la sua gloria? Lungi da noi ogni altro pensiero: se noi penseremo solo al nostro Padre celeste, dimenticando noi stessi, egli allora penserà a noi; egli è il padrone del tutto, e nelle sue mani pende tutto ciò che abbiamo, e che siamo, i nostri averi, la nostra salute, la nostra vita e la nostra morte; egli mortifica e vivifica. In lui dunque solo confidiamo e pienamente riposiamo. Oh qual quiete dolce e piena di contento non dà il pensare che siamo nelle sue mani! E` impossibile, se abbiamo fede, che vogliamo turbarci: tutto succede secondo i consigli della Provvidenza, anche i nostri stessi falli. Siamo dunque contenti di tutto, e amiamola ogni dì più questa Provvidenza: seguiamola, ed essa ci scorgerà soavemente per la via della nostra eterna salute e della pace, « quae exsuperat omnem sensum ». Io qui sono consolato assai, perchè ho trovato le cose in ottimo stato. Sia lodato Iddio di tutto: egli sa solo tutte le cose. Finisco baciandole umilmente la mano, e implorando la pastorale sua benedizione sopra chi, col più alto rispetto, gratitudine e affezione sincera, si dice, ecc., A. R.. [...OMISSIS...] 1.32 Sieno grazie al nostro buon Dio, che, come sento dall' amico Mellerio, avete cominciato a fare la trottata; egli mi dice che non avete vinta ancora la tosse, che sola vi toglie dal dirvi pienamente rimesso in istato: ma spera ed io pure, che se n' andrà. Intanto questi son tutti sperimenti che ci fa prendere il Signore di noi stessi, acciocchè veggiamo nullità che noi siamo. E che varrebbe saperlo speculativamente, se non avessimo acquistata la scienza sperimentale ? Oh quanto è vana la scienza puramente ideale, se non abbiamo delle verità la prova reale! Quella scienza non penetra fin dentro al cuore, il quale praticamente resta incredulo, perchè è duro e tardo a credere, se non isperimenta. L' essere tentato dai mali, all' incontro, e quasi oppresso, abbassa l' altezza del nostro pensiero, e ci costringe quasi involontariamente a riconoscere ciò che siamo, senz' alcuna illusione. E il senso di tanta nostra miseria vien reso dalla grazia il veicolo che ci conduce alla cognizione di Dio. Poichè non trovando in noi altro che miseria, e non altro in questo mondo che tribolazione, il nostro cuore, che non può starsi senza un bene ed un amore, si rivolge finalmente a Dio, quasi per una felice necessità di cui si serve la grazia, ed in Dio intieramente s' abbandona; ed allora incomincia a riconoscerlo per il solo bene, e ad averlo per il solo suo amore, e sente, oh quanto! la verità di quelle parole di Cristo: « « Venite a me, o voi tutti che affaticate e siete aggravati, ed io vi ristorerò » ». E quanto bene, che prima gli era incognito, non trova allora il nostro cuore in Dio! E con quale affetto allora pronuncia quelle dolci parole: « Deus meus et omnia »! E gli pare d' essere troppo felice per quelle stesse infermità che tanto contrariano la natura, giacchè per mezzo loro, privato della lusinga de' beni naturali, sente che Dio solo basta a tutto e soprabbasta ad ogni suo desiderio. Oh preziosa semplicità dell' amor di Dio! O ricca nudità dell' anima, che, libera dall' ingombro delle dilettazioni terrene, si converte tutta al suo Creatore! Ella ha un tal valore questa conversione dell' anima desolata e nuda dei beni naturali al bene sommo ed essenziale, che Iddio n' ha fatto il fiore della sua provvidenza in sul genere umano, che per essa ci ha lasciato le infermità e la morte, che fa di essa le delizie de' suoi più cari e il lor patrimonio ricchissimo, e che al suo diletto Figliuol solo n' ha dato la pienezza, nelle angoscie inenarrabili della sua vita e della sua morte. Ah! noi pure avventurati, o mio Giulio, se il seguiremo dietro la sua voce: « « Chi vuol venire dopo di me, anneghi se stesso, e tolga la sua croce, e sì mi segua » ». Tale e tanto conforto il Signore ha aggiunto a' nostri mali! Il Signore, che a ciascun che soffre e che ama lui, dice: « Sono io stesso con lui nella tribolazione, e nel trarrò io fuori, e lo glorificherò », patisce egli stesso con noi, e quasi non fosse ciò abbastanza a renderci dolce ogni patire, ci aggiunge ancora che ce ne trarrà fuori, e ci glorificherà. E di che gloria! « Non sono condegne - dice l' Apostolo - le sofferenze di questo tempo verso alla gloria futura che si manifesterà in noi ». Quivi adunque, in questa gloria abitiamo, fin da ora, per la fede: chè la conversazione del cristiano dee pur essere in cielo, secondo l' Apostolo stesso. E se siamo in cielo collo spirito, colla mente e coll' affetto, che sarà per noi mai questo mondo corruttibile, sopra cui ci siamo immensamente innalzati? Allora sentiremo tutta la noia di quello che l' Apostolo chiama peregrinare dal Signore , e ci nascerà in cuore quella parola non intesa, se se non da chi gli è dato da Dio, « cupio dissolvi et esse cum Christo ». E se pur viveremo, ciò non ci sarà tollerabile per altro, se non per fare la volontà di quel Signore appunto a cui notte e giorno dall' esilio sospiriamo. [...OMISSIS...] 1.32 Sperava di potervi abbracciare personalmente nel Signore nei primi giorni del prossimo novembre; ma alcuni affari incamminati che riguardano la gloria di Dio e che esigono la mia presenza, acciocchè siano prontamente ultimati, com' è necessario, non me lo permettono, ma richieggono che mi trattenga ancora qualche poco in questo dolcissimo santuario della passione di Cristo, che fu la culla, come sapete, del minimo Istituto nel quale Dio solamente per sua misericordia ci ha insieme congregati e congiunti. Se non colla corporale presenza adunque, almeno però con questa lettera vengo in mezzo di voi, per effondere a voi tutto il mio cuore, e per dirvi con quanta pena io mi stia da voi diviso di corpo (chè di spirito nol sono mai), sollecito del progresso ne' santi vostri propositi. Non già che l' essere io vicino a voi possa arrecarvi qualche grazia, o che io possa molto colle mie parole aiutarvi e sostenervi nelle tentazioni, e spingervi avanti nella virtù: poichè anzi conosco d' essere inetto a tutto ciò, e di non poter nulla, se non forse nuocervi coll' esempio della mia debolezza e miseria. Ma l' amore tuttavia che vi porto in Gesù, nostro strettissimo vincolo, è quello che mi fa desiderare di avere tutti i miei cari compagni nel santo servizio, se fosse possibile, continuamente sotto gli occhi. Poichè l' amore è impaziente di sapere tanto il bene che il male delle persone amate, nè vuole aspettarne la relazione altrui, ma rilevarlo da se stesso e certificarsene cogli occhi propri: giacchè egli vuol godere del bene loro, e vuole esserne certo, e per essere certo di quanto bene abbiano le persone amate, vuol saperne anch' il male. Oltracciò, conoscendo io la vostra carità e umiltà e la vostra dedicazione al Signore, non mi fa meraviglia che vogliate cavar profitto alle anime vostre da tutto, e anche dalle stesse mie parole, ricevendo in buona parte e in edificazione dell' uomo interiore, quanto io vi fossi per ripetere degl' insegnamenti del Signore, sebbene io sia tanto indegno di proferirli. Ed è appunto per questa santa disposizione, che spero essere negli animi di tutti voi, che io voglio dirvi nella presente (ciò che farei a voce se potessi) quanto credo essere il più necessario e vantaggioso per le vostre anime, acciocchè consumino la santa vocazione, nella quale sono per la singolare benignità e carità di Cristo, e nella quale desidero che restino in eterno. Ognuno di voi pensi seriamente ad essere sincero con Dio, cioè a volere col fatto eseguire quanto propongono le regole della Società, nella quale è entrato; il che importa, che noi entrati in questa Società vogliamo sinceramente e pienamente consecrato a Dio solo tutti noi stessi, e tutte le cose che abbiamo al mondo , non avendo d' ora in avanti altro scopo ed affetto ultimo sopra la terra, se non quello di accrescere la gloria di Gesù Cristo e della sua Chiesa in tutti i modi possibili; pronti a qualunque cosa; e massimamente senza attacchi di carne e di sangue, che sono i più fatali di tutti per chi vuol darsi veramente e pienamente a Dio nella nostra società, la quale dee avere siccome scritte in fronte quelle divine parole di Gesù Cristo: [...OMISSIS...] . Ognuno di voi ami tenerissimamente tutti i suoi compagni nelle viscere di Gesù Cristo, senza eccezione alcuna, e sopporti con piena carità i loro difetti, condonandoli loro per amore di Cristo, soffrendoli anche con gusto per propria mortificazione, non pensandoci, e, se fosse possibile, non osservandoli; all' incontro osservando continuamente i difetti suoi proprii e avendone dispiacere, anche per quello che in conseguenza di essi fa sopportare agli altri suoi compagni di molestie e di pene. Ognuno consideri il bene e l' ordine di tutta la Casa come il bene proprio, e faccia tutto quello che può per ispargere nella famiglia sempre più la dolcezza di una tenera carità e l' unione più stretta de' cuori; ognuno cerchi di unire fratello con fratello, e i fratelli coi padri, cioè co' Superiori; e di rimuovere qualunque anche minima cagione che possa diminuire questa unità d' anima e di cuore che abbiamo in Cristo, a imitazione dei primi fedeli. Tutti quelli che cooperano alla perfetta consensione delle volontà e dei cuori sono in Cristo; ma quelli che non si guardano dall' essere cagione di dissapori e amarezze, e anche solamente di freddezze scambievoli, non operano in Cristo, ma piuttosto si fanno ministri dell' inimico di Cristo, e di tutti noi. Siamo tutti un corpo: ognuno è membro del proprio nostro corpo; dunque ognuno da parte sua studi di fare quello che può per la perfetta concordia e sanità delle membra. Specialmente poi ognuno desideri di vedere i propri compagni andare continuamente avanti nelle solide virtù, e a tal fine aiuti i Superiori informandoli di quanto possono credere che sia utile loro sapere per vantaggio de' singoli. Questa carità santa, e questo impegno che ognuno prenderà per il bene spirituale e l' ordine di tutta la Casa, ci mostrerà veri seguaci del nostro Maestro che ha detto: « Gli uomini conosceranno che voi sarete i miei discepoli, se voi vi amerete l' un l' altro ». Finalmente ciò che in singolar modo vi raccomando, si è di studiare di rendervi perfetti nella ubbidienza . Oh quanto è grande, quanto bella questa virtù! Ognuno cerchi di essere ben disposto verso il Superiore: chi è benignamente inclinato verso di lui riceve con gratitudine tutte le cure che il Superiore impiega per suo bene. Le correzioni, le penitenze, le mortificazioni sono de' grandi benefizi: attacchiamoci di cuore a quei Superiori che ce li danno. In tutte le cose dove non si scorge peccato, la voce del Superiore è la voce di Gesù Cristo, la volontà del Superiore è la volontà di Gesù Cristo: e però quello che ci comanda il Superiore eseguiamolo; quello che desidera il Superiore, desideriamolo; quello che egli vuole, vogliamolo. Così si ama Iddio, così si depone se stesso. Ah! miei cari fratelli, non abbiamo volontà propria: non conosciamo ripugnanze e propensioni, non abbiamo altre ripugnanze, che di quelle cose che ci sono da' Superiori vietate, nè altre propensioni, che di quelle cose che ci sono da' Superiori comandate. Vinciamo noi stessi: dobbiamo essere vittima con Cristo, e ciò che ci immola, come Isacco, dee essere il ferro dell' ubbidienza. Tanto mi preme questa virtù, perchè è il fonte di tutte le altre, massime nella società nostra; e perciò vi prego di legger tutti in comune e di meditare, per convertire in succo e sangue, la bellissima lettera di sant' Ignazio sull' ubbidienza; ella par fatta a posta per noi, per la nostra società. Voi vedrete in essa, come il gran fondamento di questa virtù sia la fede che vede nel Superiore la stessa persona di Gesù Cristo, e non considera punto le qualità umane. Con questo fondamento sarete ubbidienti sempre, ed a tutti i Superiori, qualunque sieno: e se i Superiori fossero per se stessi dispregevoli, voi allora appunto acquistereste un merito più grande, e sareste più sicuri di servire ed ubbidire a sua divina Maestà. Di queste massime desidero vedervi forniti, specialmente ogni qual volta mi accade di dover costituire fra di voi un nuovo Superiore, come ora; e perchè credo che lo siate, perciò spero che ne riceverete l' annunzio non solo con illimitata sommessione, ma ancora con amore e con vera spirituale allegrezza. Perocchè considerando che il nostro carissimo fratello e padre don Rigler, Superiore costì di tutti voi, è oltremodo aggravato dalle sante sue occupazioni che il rubano a voi quasi del continuo, e perciò non potete ricorrere a lui ne' vostri bisogni; ho veduto esser necessario di aggiungere a lui un Assistente che faccia le sue veci, e sia una gran parte almeno di tempo con voi, e possiate con lui conferire e ricevere conforto e direzione ogni volta che vi abbisogna. Al qual fine ho pregato caldamente il Signore che m' illumini, e fatto pregare per trovare quello che meglio convenga, considerate tutte le circostanze; e finalmente mi sono risoluto di dichiarare Assistente del Superiore di Trento il vostro e mio carissimo don Giulio Todeschi, colla fermissima fiducia che come egli vi sarà l' interprete fedele della volontà del Signore, così voi sarete quegli umili e docili soggetti che avidamente riceverete e fortemente eseguirete la medesima divina volontà che egli vi manifesterà. Non è bisogno che vi lodi questo nostro carissimo fratello, perchè voi lo conoscete, e col destinarlo a tale ufficio, mostro abbastanza la stima che ho di lui. Piuttosto vi scongiuro tutti nelle viscere di Gesù Cristo a sopportare i suoi difetti, se ne ha come uomo, giacchè qual uomo mai ne è esente? e a rammentarvi quello che ho detto innanzi, che i difetti del Superiore rendono infinitamente più meritoria e cara a Dio l' ubbidienza de' sudditi. Ma chi di voi sarà un vero ubbidiente e un vero discepolo di Cristo, assai più che i difetti, se ce ne ha, vedrà ed amerà le rare virtù di cui il nuovo vostro Padre va fornito, e con una carità che crescerà ogni giorno, unirà una devota riverenza verso di lui. Ah! vi supplico tutti, quanto so e posso, date nuove prove ogni giorno della vostra sincera umiltà e annegazione, e mostrate che nell' uomo, mediante la fede, mirate continuamente non l' uomo, ma Dio. Non aggiungo di più, e so che neppur di questo era mestieri; ma ho voluto dire tutto ciò, perchè siate sempre aiutati a rammentarvi ed avere vive nella mente quelle grandi verità che già sapete, le quali formano le basi della vita religiosa, e perchè conosciate la mia premura e il mio amore continuo che anche assente ho per voi. Ed abbracciandovi tutti al seno in Gesù Cristo nostro Capo e Maestro, nostra delizia, ogni cosa, mi raccomando alle vostre orazioni, e vi benedico. Il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo abiti nei vostri cuori perpetuamente. Così sia. [...OMISSIS...] 1.32 Le mando qui una carta intitolata « Regolamento dell' Istituto », nella quale c' è tutta la descrizione in breve dell' Istituto della Carità. La prego di farla copiare pulitamente, e di umiliarla, in mio nome, all' Em.mo cardinal Weld, che desidera avere notizia precisa e diretta di questo Istituto. La relazione che l' Istituto ha coi vescovi, di cui l' Em.mo desidera special contezza, la troverà chiaramente esposta al N. 15 del suddetto Regolamento. A mio parere la natura dell' Istituto è tale che non può mai venire in collisione coi vescovi, perchè egli non agisce che dietro le richieste principalmente de' vescovi, ed è soggetto a questi in quanto alle funzioni sacerdotali e alla cura d' anime; restando soggetto a' propri Superiori in quanto al governo interno dell' Istituto medesimo, al mantenimento delle Regole, alla distribuzione de' soggetti, e all' assumere o non assumere, ritenere o dimettere gli uffizi, che egli mai non cerca, ma solo assume dietro le dimande del prossimo. Dimanda ancora S. Em.za, come intendo dalla sua lettera, qual sarebbe il sistema e modo di agire che don Gentili e compagni si propongono di tenere in Inghilterra. Se alla Provvidenza piace che il Gentili si rechi in Inghilterra con de' nostri « egli si propone di tenere un modo di agire tutto uniforme al « Regolamento » annesso, un modo di operare cioè quieto e tranquillo, che da principio si restringerebbe a fare strettamente, nè più nè meno, i doveri propri dei cristiani e de' sacerdoti, e starebbe aspettando gli ordini del vescovo e le dimande del prossimo. A quelli e a queste egli intenderebbe di prestarsi con prontezza e indifferentemente in ogni genere di opere buone, fino che bastassero a lui ed a' compagni suoi le forze ». Questo sarebbe il procedere ch' egli terrebbe, e questo è il modo di procedere nostro: nulla facciamo di proprio moto, se non i doveri strettamente privati; mossi poi da' prelati principalmente, ci prestiamo a quelle prime opere, qualunque sieno, che ci vengono dimandate. Che « se si volesse dare al Gentili co' compagni il peso d' una parrocchia, anche questa l' accetterebbe, e l' amministrerebbe secondo le leggi canoniche ed i voleri del vescovo, senza eccezione o privilegio alcuno; se poi si volesse impiegarlo nella predicazione, egualmente; se nelle scuole, pur sarebbe pronto; se nelle opere di carità, come spedali de' poveri, ed altre simili cose, di gran cuore le accetterebbe. Insomma l' Istituto nostro vuole avere dei sacerdoti che, senza predilezione, non abbiano altro in mira se non di prestarsi con missione , cioè non di proprio moto, e di prestarsi a tutto, giacchè Iddio solo credono di servire egualmente in tutte le cose ». Se mai l' Em.mo Weld desidera sapere qualche altra cosa, ove si degni di farmela conoscere, mi onorerò di comunicare tutti gli schiarimenti desiderabili. Ora veniamo a noi, mio caro Quin. Ha fatto bene a non entrare Ella a parlar della natura della Società, e faccia così anche per l' avvenire, non comunicando a nessuno quello che ha, senza licenza espressa. Desidererei molto di averla con noi qualche tempo in questa sacra solitudine, dove il carissimo Gentili fa progressi grandi nelle virtù. Non dico che desidererei di averla come de' nostri: questa non può esser che l' opera di Dio: io non v' entro, e non desidero se non quello che Dio Le ispira nel cuore; sono però certo che il desiderio della perfezione non viene che da Dio, e perciò, sebbene io non La esorti punto a prendere il nostro Istituto, tuttavia La esorto quanto so e posso a seguire i consigli evangelici, perchè i consigli di Gesù Cristo sono ottimi, senza bisogno d' alcun esame, come insegna san Tommaso; e ogni cristiano per seguirli non ha bisogno di dimandare consiglio di direttori, ma solo di risolversi con generosità a darsi tutto e senza eccezione alcuna al suo Dio. Oh beati quelli che intendono la bellezza de' consigli dati agli uomini dal divino Maestro! Non c' è oro nè gemme che si possano mettere a confronto col prezzo di que' consigli. Perciò li segua animosamente, ma in quell' Istituto al quale la volontà di Dio piegherà il suo cuore. Ad ogni modo caro assai mi sarebbe il vederla, l' abbracciarla, e l' averla meco qualche tempo. La prego di tradurmi in buon inglese il « Regolamento » e di mandarmelo. 1.32 « La buona novella, dopo diciotto secoli, è nuova tuttavia per il mondo che l' ha sentita, senza comprenderla ». Dite bene, mio caro Tommaseo, è nuova per il mondo, « tenebrae eam non comprehenderunt », e sarà sempre; ma non pe' Santi che l' hanno sempre compresa in tutti i secoli. I figli di Dio sono stati sempre e sempre saranno, « et fulgebunt quasi stellae in perpetuas aeternitates ». Non è dato agli uomini di accrescere il numero di questi d' un solo, nè è in potere dell' uomo diminuirlo di un solo. Iddio gli ha contati, e nessuna creatura può alterarne il conto. L' uomo può essere superbo, ma non disperdere la superbia degli altri uomini: Iddio solo dall' alto sperde la superbia di tutti. Tutto ciò che sta nella perfezione dell' ordine morale, Iddio l' ha riserbato a se solo; e, se usa degli istrumenti umani come ministri di quest' ordine, egli li ha scelti « ab eterno. Ego elegi vos »; non fu scelto da loro: « non vos me elegistis »; sicchè l' uomo in quest' ordine soprannaturale di cose è sempre inutile per se stesso: « servi inutiles sumus »; e guai a chi si intrude! « non mittebam prophetas, et ipsi currebant ». Non ha l' uomo altra incombenza, che quella de' propri doveri morali, conformandosi a colui che disse: « « Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore » ». Ma chi segue il Vangelo, nella sua umiltà e mitezza è leale e generoso; non teme di annunziare tutta la verità che è il suo bene, e di confessare Cristo; e non sa fare nè per viltà, nè per ingannevole speranza di produrre un bene che Dio non vuole, alcuna transazione colle massime carnali e collo spirito omicida di questo mondo. Il Vangelo basta a se stesso. Dio è tutto, e il giusto nei beni eterni ha tutto il suo cuore: è da ciò appunto che scorre da se stessa la felicità anche temporale, come un fiume uscente da un mare; non dico ogni felicità che la nostra cupidigia desidera o s' immagina, ma quella felicità temperata che sa Dio più convenire a' suoi disegni di misericordia pei predestinati ai regni immortali. La sventura, la croce sarà sempre un dolce tesoro ai discepoli del Cristo, e non mancherà loro: nel tempo stesso che la loro carità universale è portentosa, non penserà che di alleggerire e sollevare la croce che pesa in sui fratelli. Non ha dunque bisogno la religione di essere giustificata con industrie umane; ma, osservata, si giustifica da se stessa: è il fatto quello che mostrar dee i buoni effetti temporali venienti spontanei dalla osservanza della legge: « Mirabile cosa, diceva pur bene quell' uomo di legge: la Religione cristiana, che non sembra avere altra cura che delle cose del Cielo, è quella che produce anche il bene di questa terra! »Sì, « pietas, ad omnia utilis »: ma pietà, e non cupidigia. Sì, la carità sia lo stimolo; un amore di Dio, un amore degli uomini per Iddio; tutto è possibile alla carità. In tal modo gli interessi umani non sono cercati direttamente; è il solo regno di Dio che hassi direttamente a cercare: « Cercate prima il regno di Dio, - il resto vien da sè, - e tutte queste cose vi saranno aggiunte », perchè sa il Padre celeste che n' avete bisogno. La Chiesa ne' suoi santi mostra una sapienza più alta ancora, una sapienza non intesa dal mondo, anzi chiamata stoltezza: ella fugge i beni materiali, ella vive d' astinenza, di mortificazione, di volontaria povertà, ed ha scritto sul suo petto: « beati pauperes ». A questi è venuto Cristo ad evangelizzare, a questi è venuto a comunicare i suoi tesori Colui che non aveva ove reclinare il capo. Ben è vero che dalla radice della povertà nasce un frutto contrario alla madre: le ricchezze corrono là, dove questa povertà si è mostrata: ecco come s' è arricchita la Chiesa: ecco l' unico mezzo onde la religione del Crocifisso può giungere a signoreggiare gl' interessi materiali. Ma, oh quanto il Consiglio di Dio è alto sopra i consigli degli uomini! Allora appunto che la Chiesa è carica delle spoglie d' Egitto come di altrettanti trofei, allora ch' ella pare divenuta l' arbitra delle sorti umane, allora solo ella è come impotente, ella è il Davidde oppresso sotto l' armatura di Saulle: quello è il tempo del suo decadimento. E l' Eterno che vigila a' suoi destini, dopo averla così umiliata, averle fatto conoscere ch' ella è composta di uomini soggetti alla tentazione, averle mostrato per un' amara esperienza che in lui solo ella è forte e può confidarsi, mosso a pietà di lei, concede alla ferocia del secolo di buttarsi sui beni temporali della Chiesa, e farne bottino; riducendola in tal modo a quella sua originaria semplicità che, amabile sopra ogni bellezza muliebre, trae di nuovo a sè tutto, per tutto nuovamente deporre al cenno non degli uomini, ma dello Sposo, quando le dica; « Sorgi, t' affretta, amica mia, colomba mia, e te ne vieni ». [...OMISSIS...] Le due Case vanno bene per la grazia di Dio: lo scopo loro è tutto morale religioso, non è uno scopo particolare, ma lo scopo comune a tutti gli uomini, il fare i proprii doveri, il mantenere la legge di Dio, e perciò può prender per motto; « in lege Domini voluntas eius »: nulla di più semplice, ed io credo altresì nulla di più dolce. Ciò dunque perchè si distinguono dagli altri cristiani, non è per lo scopo, ma per l' essersi alcuni associati per aiutarsi scambievolmente ad ottenere questo scopo. Nel libretto che ho stampato a Roma col titolo « Massime di perfezione », c' è tutto, eccetto l' ubbidienza, poichè non si parla in quel libro di Società. Addio, pregate per me. [...OMISSIS...] 1.33 L' indifferenza di S. Ignazio non riguarda il fine , ma i mezzi . Possiamo e dobbiamo sospirare incessantemente il fine, e dire col massimo affetto: « adveniat regnum tuum »; ma dobbiamo essere indifferenti su questi o su que' mezzi, pei quali la divina bontà ci voglia condurre al fine. Ciò che è degno di altamente meditarsi si è, che noi non conosciamo nè pure quali sieno i mezzi particolari che ci facciano ottenere il nostro fine. Siamo ignoranti, e perciò conviene rimetterci a chi ci vede, che è Dio, ricevendo tutto dalle mani di Dio con perfetta indifferenza. Tutto sta dunque in trovare i segni del divino volere. Senza questi, so io che lo studio, in ragion d' esempio, sia la strada della mia eterna salute? Quanti vi hanno trovato l' eterna dannazione! So io che la predicazione mi gioverà? Quanti, predicando agli altri si sono resi reprobi! Tutta la vita, la perfezione, la morale cristiana sta nel dare il giusto peso a questa parola Eternità . - Ma ella è futura. - Appunto per questo gli uomini, trattenuti dal glutine della vita presente, non danno la dovuta importanza all' eternità, e giudicano stolti quelli che gliela danno. La vita futura risponde a quella dimanda: da mihi punctum . E` il punto fuori del mondo, sul quale la religione punta la leva e muove il mondo stesso. O conviene rinunziare alla religione, o conviene ammettere che questo è vero. Se poi questo è vero, tutto è indifferente fuori che Dio, fuori che la parola di Dio, i segni della volontà di Dio, i mezzi conosciuti pe' segni della volontà di Dio; insomma Dio solo in tutte le cose: « et exaltabitur Dominus solus ». Un giorno non sarà più virtù amare la vita eterna, perchè sarà presente. Virtù è amarla ora, perchè è lontana. Oh non lascino gli uomini passare inutilmente questo tempo del merito e della virtù! Ecco il mio voto. 1.33 Mio soavissimo amico e fratello in Gesù Cristo nostro bene, Cercate di piantare in tutti un amore sviscerato per la verità e per ogni bene . Dominando in noi un grande e prevalente amore della verità , noi la cercheremo da per tutto, e ci chiameremo sempre felici quando potremo averla acquistata. Se mai noi la troveremo nelle parole di un nostro amico o fratello, ella riuscirà ancor più cara, e gli resteremo obbligati d' averla insegnata. Se dovremo deporre una nostra opinione per la verità, qual cosa più dolce di questo? Subito con un sentimento di bella umiltà diciamo: « io era in errore, ora ho conosciuto il vero: ne sia lode a Dio: lo sapeva già di essere ignorante ». Infatti noi dobbiamo sapere e tenercelo ben certo, che siamo ignorantissimi, anzi l' ignoranza stessa in persona. E l' ignoranza ricuserà d' imparare? oh questo poi no. Per tal fine non fuggiamo la disputa accademica : anzi, io vi do per consiglio di cercarla voi stesso, ma sempre con buon umore, con ilarità, umiltà e carità; oh quanto bel campo non troverete in essa da esercitare tutte queste virtù, da sempre più conoscere voi stesso, e da vincervi salutarmente! Sapete già la bella dottrina dello Scupoli: per andare avanti nella virtù, conviene sfidare a battaglia, cimentare i nostri vizi, fuori che in ciò che è contrario all' onestà. Di questo dunque vi consiglio. Parimenti posso dire dell' amore del bene . Se noi abbiamo un vero e compìto amore pel bene, noi ameremo sicuramente ogni bene dovunque lo troveremo, in ogni persona, in ogni circostanza, sotto qualunque forma. Ah! la nostra bella legge è legge d' amore: l' amore non odia nè invidia chicchessia; egli non vuole in ogni cosa che il bene. Così si forma un' anima dilatata, che corre nella via dei divini comandamenti. Per riuscire ad ottenere questo, spargiamo lagrime dinanzi a Dio giorno e notte; e i nostri sforzi saranno certo coronati. - Ora qui nella Chiesa capitolare si sta facendo il Giubileo: i predicatori sono don Giacomo e don Giovambattista. Don Luigi è impegnato pel prossimo quaresimale. Abbiamo dimande di missioni da tre luoghi. Domenica scorsa abbiamo ricevuta l' abiura di un nuovo calvinista; ed è il ventesimo che abbiamo la consolazione di riunire alla Chiesa cattolica dopo che siamo qui. Sia lodato il Signore. Insomma, affari non ne mancano: « rogate Dominum messis ». Le Figlie della Provvidenza prendono un buon avviamento per la misericordia divina. Da per tutto se ne vorrebbero: fin ora non ne abbiamo conceduto che a Torino; ma presto dovremo darne ad altri luoghi. Preghiamo tutti d' accordo il Signore per tanti bisogni che abbiamo. Se egli non ci assiste, che possiamo noi fare? Vi raccomando l' anima di un mio condiscepolo che amai tanto. [...OMISSIS...] 1.33 Ho ricevuto la lettera vostra e quella del conte Salvadori, colle quali mi parlate del tentativo che si sta facendo di erigere una casa di ricovero pei poveri nella mia patria; e mi chiedete di voler entrar anch' io in parte della spesa necessaria per quest' opera. In quanto a quest' ultimo punto, io non mi ricuso; e scrivo al conte Salvadori di dar per me quella somma maggiore ch' io posso. Dopo di ciò però permettetemi, mio caro D. Paolo, ch' io vi dica candidamente il mio sentimento, come si fa cogli amici, intorno al merito di questo progetto e di questo tentativo. Non voglio già far torto alle intenzioni; e sono persuaso che molti per puro zelo del bene e per un sentimento di vera carità si facciano promotori di quest' opera, e uno di questi siete voi, mio carissimo. Ma in quanto all' opera stessa, in quanto alla massima de' reclusori de' poveri, io ho variato di sentimento. Fu un tempo nel quale io accoglieva con entusiasmo tutti questi progetti e piani di pubblica beneficenza, e debbo forse rimproverarmi di aver guardato qualche volta con un occhio severo e disdegnoso quelle persone che si mostravano fredde a cooperarvi, o di contrario avviso. Ma ogni anno si fa qualche riflessione nuova, si aumentano le osservazioni, e si vanno verificando le cose, come sono in realtà, senza lasciarsi ingannare (o piuttosto disingannandosi) dalle apparenze, dalle promesse, e da quelle speranze senza limite, che una fantasia giornaliera e ancora verginale somministra incessantemente ad un cuore benevolo. Io vi dico la verità, non sono più amante de' reclusori de' poveri dopo averne veduti tanti, e dopo aver letto ciò che uomini savii hanno scritto sopra di essi, e più di tutto dopo aver meditato io stesso sull' intrinseca natura della cosa. Egli è bensì vero che v' ha una infinita differenza da reclusorio a reclusorio, il che nasce dalla diversità de' loro regolamenti e del primo loro impianto: ma appunto l' estrema difficoltà di dare un regolamento sapiente ad un tale istituto è uno degli scogli che s' incontrano, e che gli uomini superficiali non calcolano per nulla. Un altro timore mio si è che questi istituti, i quali, al modo che si concepiscono comunemente oggidì, appartengono ai protestanti, non sieno già effetti di una vera carità cristiana, ma piuttosto del sottile egoismo e della mollezza del secol nostro, il quale contraffà la stessa carità, e veste i vizi da virtù, facendo servire con una perpetua finzione e colla più indegna ipocrisia le cose tutte al proprio interesse. In vero nè Gesù Cristo, nè gli Apostoli ci hanno mai insegnato a non poter sopportare sotto gli occhi nostri i poverelli e ad allontanarne il loro aspetto da noi: Gesù Cristo e gli Apostoli non ci hanno mai insegnato ad essere tanto insofferenti che ci riesca di una noia insopportabile il sentirci a domandare un pezzo di pane, talora più colle lagrime che colle parole. Non è egli una gran durezza di cuore l' esserci cosa insopportabile che il sentimento della nostra compassione sia suscitato dalla vista delle miserie de' nostri simili? E` questo sentimento una cosa sì trista, che si convenga far di tutto perchè egli non sia in noi mai commosso, e da dover inventare un sistema per giungere a far sì che il pubblico non abbia mai bisogno di essere compassionevole? saremo più felici quando la nostra compassione non sarà mai più eccitata? la società si renderà migliore? Voi direte che non si fa per questo il reclusorio de' poveri; ma per impedire la mala vita di molti e l' ozio coperto sotto la professione di povertà. Mio caro D. Paolo, l' uomo nelle sue operazioni ha de' secreti che non vuol rivelare a tutti: il suo cuore talora non si rivela neanche a lui medesimo, se pur l' uomo non faccia una sottile disamina di sè stesso; perciò ben sovente le operazioni umane hanno un pretesto ed un motivo. Il pretesto si dice, ed il motivo si tace. Considerate con profonda attenzione ciò che ho detto e ne sentirete la verità: ma ch' io l' abbia detto nol dite a persona del mondo, perocchè gli uomini non la perdonano mai a chi rivela un loro secreto. [...OMISSIS...] 1.33 Ho letto le vostre lettere, ed ecco quanto il Signore mi suggerisce al cuore di dirvi. State certo che ogniqualvolta, venendoci proibite dai superiori le penitenze, noi sofferiamo una grande alterazione, un turbamento eccessivo, una grave malinconia, egli è segno che vi è dentro di noi un gravissimo difetto; che vi è un attacco pernicioso a quelle mortificazioni e penitenze che noi facevamo, sieno esse poche o molte, ciò non importa. Questa è dottrina sicura, mio caro, confermata da tutti i Santi. Noi dobbiamo fare le mortificazioni e le penitenze in modo da poterle lasciare al menomo cenno del Superiore o del Confessore, senza nessunissima difficoltà, anzi con allegrezza grande di cuore; perchè tutto ciò che vuole l' ubbidienza ci dee rallegrare sempre, qualunque cosa ella voglia, e senza pensare altro. Se l' ubbidienza non ci rallegra, ma ci rattrista, ma ci fa dare indietro, ma ci fa pensare all' una cosa e all' altra, e c' induce a biasimare nel nostro cuore il comando; la cosa è chiara, noi siamo ben lontani dalla perfezione, e colle penitenze che facevamo prima, c' ingannavamo miseramente, credendo d' andare avanti nella strada delle virtù: ma sotto la cenere ed il cilicio abitava pur troppo il serpente. Ringraziate dunque di tutto il vostro cuore la misericordia del Signore, che si è servito della voce del vostro Superiore per trarvi d' inganno e farvi vedere la verità coll' esperienza appunto che avete fatto di voi stesso, alla prova del dover lasciare le penitenze. Orsù rallegratevi dunque, e presentemente occupatevi a vincere in voi questo difetto ed a rendervi perfettamente indifferente a far penitenze ed a tralasciarle, sì che serviate il Signore con gran libertà di cuore, e confidando nella sua bontà e non nelle opere penitenziali per sè stesse. Tutti i pensieri che vi vengono contro questa dottrina, per quanto sembrino pii, non sono che sofismi, che vi fa il finissimo demonio per ingannarvi. Iddio vuole che confidiate in lui solo: e Iddio non vi mancherà se cercherete non le penitenze, ma l' ubbidienza: a quest' ultima troverete annessa un' abbondante grazia. Abbiamo dunque scoperto il nemico, la vittoria vostra sarà certa. Attendo vostre lettere per sentire che vi scuoterete d' attorno le tentazioni; e negando il vostro giudizio, correrete ilaremente per la via giusta che il Signore vi mostra per sua misericordia. Vi abbraccio teneramente. Salutatemi tutti i nostri cari; a molti de' quali debbo e desidero scrivere da molto tempo, massime al caro don Giacomo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Chiamandovi Iddio per la bocca de' vostri Superiori ad assumere (benchè per ora solo in prova) la Scuola elementare de' fanciulli del comune di Calice, voi ricevete con ciò una dolce e grave missione, della quale dovrete render conto ai Superiori vostri, e, ciò che è più, al tribunale del vostro Creatore, onde veracemente vi viene da esercitare tale ministerio di carità. E però l' amore, che vi porto vivissimo nel Signore, mi stringe a dovervi munire, in tale circostanza, della presente breve Istruzione, sulla quale dirigendo la vostra condotta, l' incarico datovi vi diverrà, come io spero, una via diritta pel Cielo. Primieramente vi raccomando di badare, che il nuovo ufficio non diminuisca punto in voi il raccoglimento religioso, l' esattezza nel mantenere le regole e la piena dipendenza e sommissione verso i vostri Superiori; ma che anzi queste virtù in voi s' accrescano, rendendovi per amore di Cristo via più simile a que' fanciulli, che or venite ad avere sempre sott' occhio, e ne' cui teneri cuori dovete coltivare le care virtù proprie dell' infanzia, quali sono la semplicità, la purità, la mansuetudine, la sincerità, la docilità e la dolcezza. Per conoscere quanto dovete amare in Gesù Cristo i fanciulli, che vi vengono consegnati, meditate spesso quanto stanno a cuore al divin Redentore, e quelle sue parole: « lasciate che i pargoletti vengano a me »; come pure quelle altre: « chi avrà scandalezzato uno solo di questi pargoletti, che credono in me, meglio sarebbe stato per lui che, sospesagli al collo una mola da mulino, fosse gittato nel profondo del mare ». Proponetevi di condurre i fanciulli come esseri ragionevoli e cristiani coi due mezzi della ragione e della fede ; chè altro non si dà, che meglio possa nell' uomo, di questi due mezzi. Perciò voi dovete arricchire l' animo de' giovanetti di motivi di operare sempre puri e nobili; giacchè questi soli sono ad un tempo ragionevoli ed evangelici; e le intenzioni torte e ignobili, che inavvedutamente si seminano ne' teneri fanciulli a ritroso della retta natura, recano in essi un guasto segreto e, quasi direi, una etisia morale fino nei primi loro anni infantili, e sono l' origine sconosciuta di quegli aperti vizi, che contaminano l' età matura e straziano la società. Ma sappiate tuttavia, che il giovanetto non viene corretto e abbonito, se non dalla interna operazione di Dio, che l' aiuta a custodire i divini comandamenti, come dice il salmo: « in che corregge il giovanetto la sua strada? nel custodire i tuoi comandamenti »; però dovete con ferventi preghi ottenere che Gesù, solo maestro degli uomini, accompagni e avvalori le vostre sollecitudini, mantenendo e sviluppando in essi la grazia del Battesimo. Per infondere poi ai giovanetti un abito di operare con ragionevolezza e secondo il lume divino, vi conviene quest' abito mostrarlo loro nel vostro proprio contegno. Tutto ciò che voi fate adunque sui loro occhi, e tutto il trattar vostro con essi sia pacato e pieno di lume; e cotesta chiarezza e pacatezza del vostro operare vi renderà più amabile a loro, che non farebbero delle carezze senza ragione. Vi raccomando adunque quella dolcezza non ricercata, che nasce spontanea da un operare nella tranquillità della luce interiore, dove non havvi mai indizio di passione, o d' ira, e che la divina Scrittura mette sempre in compagnia della sapienza, mentre alla stoltezza dà per carattere l' iracondia. « « L' iracondia, leggesi in Giobbe, veramente uccide lo stolto » (c. V) »; e ne' « Proverbi : « la verga della superbia è nella bocca dello stolto »(c. XIV) », e poco appresso si legge anche questa bella sentenza: « « quegli che è paziente governa assai cose colla prudenza; ma quegli che è impaziente fa apparir ben grande la sua stoltezza »(ivi) ». Le quali sentenze, ed altre tali delle Sacre Lettere vi forniscano spesso materia alle vostre meditazioni. Mantenete con religiosa puntualità le ore prescritte alla scuola e tutto ciò che viene ingiunto dai « Regolamenti » intorno alle Scuole elementari e dai « Capitoli » del comune di Calice. Tanto di quelli poi come di questi sarà vostra cura di procacciarvi due copie, e comunicarne una a chi tiene ufficio di Superiore nella Casa del Sacro Monte, che la riporrà negli archivi. Abbiate un vero zelo, acciocchè i giovanetti a voi affidati imparino a francamente leggere, scrivere e conteggiare, e gli altri oggetti, scopo della scuola. E a tal fine voi dovete por l' animo vostro a procacciarvi tutte le cognizioni a ciò opportune, le nozioni di una buona pedagogia, e la maniera pratica più confacevole a dare con perfezione l' istruzione, facendo conto dei libri che vi possono a ciò giovare. Finalmente considerate che voi riuscirete probabilmente, se così ne piace a Sua Divina Maestà, il primo maestro elementare approvato dall' Istituto della Carità; e che vi incombe perciò il dovere di rendervi forma e modello di quelli che Dio volesse mandare di poi. Farete, prima di cominciare il vostro ministero, quindici giorni di spirituali esercizi a fine d' impetrare la grazia che vi abbisogna, e di prepararvi allo stato chericale, a cui sarete ascritto ricevendo la chericale tonsura. E dopo che, assistito dal divino aiuto, avrete dati argomenti della vostra fedeltà e perizia in questo servizio del Signore, cioè come maestro in prova del comune di Calice, sarete al debito tempo, così piacendo al Signore, ordinato altresì Lettore della santa Chiesa, e dichiarato maestro approvato dell' Istituto della Carità. [...OMISSIS...] 1.33 Non avrete preso sicuramente a male il mio tardare a rispondervi, perchè la vostra carità sa bene che desidererei essere sempre pronto a rispondere e conversare co' miei cari compagni; ma che delle varie cagioni ed occupazioni talora me lo impediscono. Ora ritornato da un viaggetto che ho dovuto fare per negozii del nostro Istituto, sono con voi, mio carissimo. Sperava di vedervi ed abbracciarvi tutti quest' autunno; il Signore non volle ancora concedermi una tanta consolazione; spero tuttavia che me la concederà almeno all' aprirsi della nuova stagione. Per quanto allo stato dell' anima vostra che diligentemente mi descrivete, io spero bene, mio caro, nella misericordia di Dio. Io veggo che il Signore permette che l' inimico del bene vi dia una battaglia forte e penosa; ma non vi lasciate far paura, perchè confidando nella croce di Cristo, tutto sarà superato. Quello però che trovo il punto principale al quale dovete rivolgere le vostre armi, si è a conseguire la cara mansuetudine di Gesù Cristo. « « Imparate da me che sono umile e mansueto di cuore » »: oh quanto sono belle queste parole! esse racchiudono il carattere vero di Cristo e del Cristiano! Ritenete, mio caro, questo principio infallibile: ogni iracondia, ogni turbazione irosa, ogni malevolenza, ogni acrimonia viene dal diavolo. Con questo principio alla mano voi potrete subito discernere i diversi spiriti che si manifestano nel vostro interno. E` egli uno spirito di dolcezza, di pace, di cedevolezza, di amore? Dite tosto: questo è spirito di Dio, e io debbo secondarlo. E` all' incontro uno spirito di opposizione, di durezza, di tristezza, di censura, di odio? Dite tosto: questo è spirito del demonio che mi seduce, che mi violenta; io non voglio acconsentirvi, lo sofferirò come una tribolazione, ma io non lo seconderò, non opererò nulla dietro il suo incitamento. Oh voi felice, se diverrete appieno mansueto! e se ucciderete in voi ogni iracondia, anche quella che vi si presenta sotto l' abito di zelo, ma di zelo amaro e non conforme al vostro ufficio! Voi con questo studio della carissima virtù della mansuetudine acquisterete tutte le altre; l' ubbidienza, l' umiltà, la rassegnazione e la pazienza, come pure quella che S. Filippo Neri chiamava la mortificazione razionale , sono comprese nella mansuetudine. Questa vale più di tutte le austerità e penitenze esterne, le quali non valgono nulla, se non sono umiliate e sottomesse all' ubbidienza e alla direzione anche diversa ora d' un superiore, ora d' un altro; secondo che l' uno o l' altro regge la casa. In questa diversità di direzione, mio caro, consiste una bellissima occasione di vera virtù, e una prova a vedere se siamo sì o no veramente mortificati interiormente. Quell' uomo, il quale non sa cangiarsi con tutta facilità e senza nessuna resistenza, a tenore del cangiarsi de' superiori, non è sicuramente mortificato: e tutto ciò che fa, anche di più austero, non prova in lui punto una vera mortificazione, che dee sempre essere radicata nella docilità e pieghevolezza della volontà, e, in una parola, nell' annegazione di se stesso. Osservate, mio caro, che Gesù Cristo, dando il precetto di portare la sua croce, vi premise queste parole: « « Se alcuno vuole venire dietro a me, neghi se stesso » »: e ciò perchè nulla sarebbe il portare la croce, se prima non ci fosse l' annegazione di se stesso. Non ogni croce è la croce di Cristo; la croce di Cristo non è quella che diamo noi a noi stessi; ma quella che ci è data dall' ubbidienza, con negazione della nostra volontà e del nostro intelletto. Le penitenze esterne adunque, che sono come la croce, sono buone, se noi le prendiamo con avere premessa la negazione di noi stessi: altramente il volerle è un inganno dell' inimico. Tenetevi, o mio caro, a questi principii che sono gli infallibili del Signore. Varrà più per voi un solo atto di rinunzia al vostro giudizio e alla vostra volontà, che tutte le austerità che potreste pensare. Rendetevi adunque a queste indifferente, nè vi turbi l' esservi negate, o comandate, o permesse. Tutto sia lo stesso per voi. Nulla desiderate altro che la dolcezza, la pace, la ubbidienza e il negare voi stesso. E` meglio che conserviate nella pace della carità il vostro cuore, di quello che sia che convertiate il mondo. Mirate dunque sempre nell' esemplare nostro amabilissimo Gesù Cristo, e diventate così amabile e tranquillo come lui. [...OMISSIS...] 1.33 «Mio reverendo e caro consacerdote e compagno nel servizio del Signore. » Perdonate se ho tardato a rispondervi, e attribuitelo alle mie occupazioni che mi hanno fatto essere assente, come sono ancora, dalla casa di Trento. Ora sono con voi, la cui lettera mi fu carissima, per le notizie genuine che di voi stesso mi date. La ripugnanza e la noia che voi accusate, è il solito effetto, mio caro, che si manifesta in quelli che si danno alla vita ritirata e religiosa, ed è una delle più forti prove che dà il Signore, una delle più utili occasioni di vincere noi stessi e di acquistare un solido merito. Questa vittoria sulla noia e sul tedio per la ristrettezza della vita e della libertà, non ha niente che ecciti l' amor proprio e non è considerata dagli uomini: tanto più ella è da Dio! Io spero che voi ne riporterete colla vostra costanza, mediante la grazia del nostro Signore, un pieno trionfo; ed allora comincierete a gustare come cosa dolcissima anche ciò che a principio sembra insopportabile. Se voi, ammirando l' umiltà de' vostri compagni che dimandano con tanta frequenza pubblico perdono di alcune loro mancanze, non vi sentite per anco cuore di imitarli, ciò punto non vi turbi, perchè questa specie di ripugnanza la vincerete col tempo. Sopportate solamente voi stesso, e non esigete da voi di più di quello che potete: la grazia e la virtù viene a gradi: a quelli che ancor ci mancano, suppliamo coll' umiltà e col riconoscere candidamente che gli altri sono in quel dato rispetto più umili o più perfetti di noi. Per altro, senza inquietarci, prefiggiamoci di vincere ogni specie di ripugnanza, aspettando intanto il tempo che il Signore ce ne dia le forze, e dimandando queste forze con ferventi desiderii e preghiere. Così soavemente procederemo innanzi, senz' alcun turbamento. Per altro, circa il domandar perdono, egli non è necessario che la materia sia una colpa morale, dovendoci noi umiliare anche per le limitazioni della nostra natura, o per le mancanze della nostra vigilanza: ma è bensì sempre necessario che sia una imperfezione : perchè altrimenti, se non fossimo convinti che ciò di cui formiamo materia di pubblica accusa non fosse nè pure imperfezione alcuna, quell' atto dell' accusarci non sarebbe sincero : e niente si dee fare che non sia candido, sincero e proveniente dall' interna nostra convinzione. [...OMISSIS...] Desidero moltissimo di vedervi e di trattenermi con voi a lungo, mio carissimo; ma pare che il Signore non mi voglia dare questa consolazione per ora: al più lungo però spero d' essere al Calvario in primavera. A quando a quando scrivetemi, e contate d' avere in me un amico. Vorrei che mi traduceste in bella lingua francese il piccolo libretto delle « Massime di perfezione », che vorrei anco pubblicare. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Ricevo in questo momento la vostra dei 21 corrente la quale mi lascia ancora fra la speranza e il timore. Piacesse a Dio che egli vi avesse veramente illuminato a scorgere l' inganno orribile dell' inimico della vostra anima! Non m' inganno, no, a dire che il nesso dell' Istituto della Provvidenza e della Carità è unicamente progettato . Dovete adunque sapere che tutte quelle Costituzioni che furono scritte al Calvario sono tutte meramente progettate ; e non sono mai e poi mai definitivamente stabilite, se prima non sono provate dalla sperienza e quindi confirmate dalla Santa Sede. Tanto è poi vero che quelle regole sono unicamente progettate, che anzi possono essere cangiate da un giorno all' altro, purchè la ragione e l' esperienza il permetta. Oltre di ciò voi confondete più questioni in una, mio caro, perchè altro è dimandar « se il nesso dell' Istituto della Carità con quello della Provvidenza vada bene sì o no »; altro è il dimandare « se posto che il direttore dell' Istituto della Provvidenza sia un membro dell' Istituto della Carità, questi possa operare a proprio arbitrio contro il grado di autorità ricevuta dal superiore dell' Istituto della Carità a cui è soggetto ». La prima questione può essere controversa, ed io non l' ho mai definitivamente decisa. Ma la seconda non è punto controversa; e l' ubbidienza perfetta che esige l' Istituto della Carità, non ammette sicuramente che un soggetto di questo Istituto sia indipendente sotto nessun rispetto e in nessun genere di cose. Ciò sarebbe una mostruosità; si introdurrebbero subito mille scismi, l' Istituto diverrebbe un' idra con cento capi e non potrebbe sussistere. Io non dirò dunque che l' Istituto della Provvidenza debba aver per direttore sempre un membro dell' Istituto della Carità; ma dico bensì che ove l' Istituto della Carità concede che un suo membro però diriga ed anche fondi un Istituto qualunque, questo membro non viene menomamente esonerato dal peso dell' ubbidienza sotto nessun rapporto; e solo opera tutto ciò che fa in virtù d' ubbidienza e d' autorità non propria, ma ricevuta. Tale è il vero concetto della santa ubbidienza in ogni Istituto religioso; e chi si vuol sottrarre a questa sicurissima virtù dell' ubbidienza, si mette a pericolo di perdere la vocazione e la perde sicuramente, è ingannato dal demonio, e l' eterna sua salute è per lo meno incerta assai, perchè ricusa i mezzi sicuri datigli da Dio di salvarsi nella guida de' suoi superiori. Val più ubbidire, mio caro, che convertire il mondo. S. Francesco Saverio era pronto ad abbandonare i milioni d' uomini, che si convertivano alla sua voce, ad un solo cenno del suo superiore! La sua fantasia non lo illuse, nè lo trasse a dire: « Il mio superiore erra, o il mio superiore non sa, non vede il bene, e la maniera di ottenerlo », oppure: « io sono chiamato da Dio ad evangelizzare questi popoli: dunque abbandonerò il mio superiore e la religione per esser più libero e far tanto bene ». Povero lui, se avesse detto così! Con un simile discorso ogni religioso potrebbe sottrarsi all' ubbidienza, col pretesto di maggior libertà a fare il bene, ed uscire dal proprio Istituto. Inganno deplorabile! « Manete », dice S. Paolo, « in vocatione »: e non mutate col pretesto di maggior bene. Io veggo tutte le orribili conseguenze che si trarrebbe dietro la vostra defezione dall' Istituto della Carità per un pretesto simile, delle quali la minima di tutte sarebbe, che il mondo stesso scandalizzato vi abbandonerebbe, e voi vi trovereste alla fine privo di tutti quegli appoggi di cui ora vanamente vi lusingate. Di questo ho moral certezza, e ne ho prove positive e documenti nelle mani; ma questo, come dico, sarebbe ancora il minimo male; il più grande per me sarebbe quello di veder voi tirato in un abisso, e per riparare ad un errore commetterne cento, e dopo aver cominciato colle più belle speranze trovarvi infine colle mani ne' capelli e coll' aver fatti moltissimi mali nel mondo per aver voluto far troppi beni, non secondo Dio , cioè secondo le regole sicure de' santi. Per tutte queste ragioni e per molte altre voi vedete adunque la risposta ch' io son disposto a dare, alla vostra lettera del 21 corrente. Io non posso assolutamente concedervi nè pure ad tempus quella indipendenza che mi dimandate, perchè distruttiva dell' Istituto della Carità, e perchè sarei responsabile di tutti i passi precipitati e falsi che potreste commettere per fantasia riscaldata. Voi poi in fine alla lettera vostra mi fate un' alternativa, o « di ritirarvi dall' Istituto della Carità secondo la vostra lettera del 30 ottobre; o che io assuma i vostri impegni e che disaggravi voi dalla direzione dell' Istituto della Provvidenza, promettendomi che voi starete in quel minimo posto che giudicherò di assegnarvi al Calvario ». Io accetto questa seconda proposta, e vedrò in questa mia accettazione se il vostro parlare sia sincero. Voi nulla sfigurerete nè verso il Governo sardo, dicendo che il vostro superiore ha richiamato a sè il carico della direzione dell' Istituto della Provvidenza, volendo egli impiegar voi in altri affari, e che perciò se l' intendano con me. Dio mi aiuterà, lo spero, nè ricuserò mai di far manco conto del vostro consiglio e dell' opera vostra, che voi mi presterete senza pericolo alcuno dell' anima vostra nè dell' Istituto. E` l' unico partito che mi resta. Lasciarvi uscire dall' Istituto non mi patirebbe mai il cuore, e peccherei sicuramente contro la carità, cooperando all' opera manifestissima del demonio. Aspetto dunque nuova lettera e veramente consolante, nella quale mostriate di aver parlato da uomo sincero, e non facciate alcuna nuova difficoltà a questa vostra promessa, dalla quale tanto dipende sia riguardo all' anima vostra, sia riguardo ai due Istituti. Scrivetemi subito; e dietro alla lettera che mi consoli, mettetevi in viaggio voi stesso per venire a Rovereto, dove vi fermerete in casa mia, ed io ci verrò pure tosto; mi direte tutti i vostri impegni, concerteremo tutti i mezzi di soddisfare pienamente ai medesimi ed accorderemo insieme ogni cosa. Ho confidenza che da quell' epoca che ciò sarà fatto, comincierete ad essere un vero superiore dell' Istituto della Carità, e comincierà una nuova e veramente salutare carriera della vostra vita. Vi abbraccio intanto tenerissimamente, aspettando con impazienza che mi togliate giù questa pietra dal cuore. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Sabbato è giunto qui il caro vice7Superiore, ed io pure mi son qua recato tosto per conferire con lui. [...OMISSIS...] Appena mi vide si mise in ginocchio, e l' ho trovato intieramente rientrato in se stesso. Come vi aveva scritto io sperava che il Signore non avrebbe certamente abbandonato questo suo servo e zelante ministro. Dite dunque il Te Deum e fate fare continua orazione, acciocchè ogni cosa si componga alla gloria di Dio, e con istabilità di successo, come spero nel Signore; avendomi il Signore già anche prima confortato molto con questa tribolazione. Ho ricevuto la vostra dei 30 novembre. Avrei gustato meglio che non vi foste giustificato. Quando Maria SS. vide che S. Giuseppe doveva dubitare della sua fedeltà maritale si tacque, e lasciò a Dio la cura di sgombrare (se egli avesse creduto) ogni dubbio dall' animo del suo sposo. E non dee essere la Madre di Dio il nostro modello? Non l' abbiamo noi scelta perchè sia la causa esemplare della nostra Società? Perchè dunque imitarla sì poco nella rassegnazione, nell' abbandono di noi stessi in Dio? Quando poi volete anche scusarvi (il che non sarebbe secondo la perfezione), da qui in avanti non adoperate più queste espressioni di troppa sicurezza: « debbo disingannarla di un errore in cui so essere stato ecc.. Tanto Ella che Don Giovanni hanno creduto che io, ecc. »; ma dite più tosto: « forse Ella potrebbe aver creduto... Io temo non forse Ella, ecc. »: come vuole la modestia e la riserbatezza, non meno che il rispetto verso i propri Superiori. Aggiungete di più, che in materia di attacchi è sconveniente al tutto purgarsi con quella sicurezza che fate voi; perchè gli attacchi acciecano; ed ognuno dee dubitare di se stesso, e non assicurarsi. Quando anco voi foste purissimo d' ogni attacco, non dovreste mai dirlo, ma lasciare che lo dicano gli altri, e voi mantenervi nella santa umiltà interiore ed esteriore. Nè crediate che il sentire ripugnanza in qualche cosa sia certo segno di non avere attacchi a quella cosa; perocchè qui si tratta principalmente di attacchi spirituali, i quali consistono in una certa estimazione e persuasione di far bene in qualche impresa, con certa durezza di giudizio proprio; e simili attacchi possono stare insieme con repugnanze naturali; anzi queste ripugnanze possono illudere, ed essere appunto la materia della nostra ostinatezza di giudizio e del nostro attacco. Del non avere questi attacchi perciò non si dà altra prova, se non il trovarsi così liberi, che al solo conoscere la volontà del Superiore ed anco il suo desiderio, senza ragionare, senza dubitare, senza replicare, senza indugiare, tosto con grande allegrezza si lasci tutto per conformarsi al desiderio del Superiore. Vi scrivo queste cose, mio carissimo, per la certezza che ho che voi non cercate altro a tutto vostro potere, che di corrispondere alla santa vostra vocazione, rendendovi un vero membro dell' Istituto della Carità, come vien descritto nelle regole. Abbiamo coraggio nel Signore, che è con chi spera in Lui. Egli ci aiuterà indubitatamente. Vorrei fra le altre cose, che in tutti noi s' introducesse un sincerissimo desiderio ed amore della correzione. Oh che bel mezzo è questo per andare innanzi! [...OMISSIS...] Vi compassiono poi di cuore di ciò che mi dite circa le molteplici vostre occupazioni che vi tolgono il tempo di pensare a voi stesso e d' istruirvi. Ma, mio caro, portate ancora voi un po' di pazienza offerendo la vostra croce al Signore. Io penserò intanto qualche via di consolarvi; e alla più lunga spero di farlo quando verrò al Calvario all' aprirsi della stagione. Intanto armatevi di fortezza. Vi raccomando poi di essere dolce e benigno, [...OMISSIS...] Ditemi se vi siete emendato circa il difetto che v' ho notato di essere troppo lungo nelle divozioni.

Epistolario ascetico Vol.II

632286
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ella vede, che solamente in questa dottrina dell' umiltà cristiana e della fede si trova la soluzione alla difficoltà fortissima che Ella propone sulla pratica inarrivabile della perfezione; e che tal soluzione non venne mai prodotta in alcuna filosofia: nuova prova della divinità della cristiana dottrina! Questa dottrina sovrumana non ha timore di dire all' uomo: « Numquid homo, Dei comparatione iustificabitur? Septies cadit iustus - cum omnia haec feceritis, dicite: servi inutiles sumus », perocchè tosto dopo atterratolo, lo solleva e conforta dicendogli ancora: « Voluntas Dei sanctificatio vestra: omnia quaecumque petieritis a Patre (meo) in nomine meo, dabit vobis - confidite: ego vici mundum! » Che ci resta dunque a fare? Metter solo il collo sotto il soave giogo di Cristo, umiliare incessantemente la petulanza cieca della nostra natura sensitiva e l' orgoglio ancor più cieco del nostro ingegno. Come nell' ordine morale giace in noi stessi una infinita imperfezione (astraendo dalla grazia di Cristo); così nell' ordine intellettuale giace in noi stessi un' infinita ignoranza. La pienezza della virtù non è meno ardua, alle sole forze dell' uomo, della pienezza della verità. Onde noi riceveremo la salute malgrado delle nostre imperfezioni, indi riceveremo la vital luce della mente, il lumen vitae delle Scritture, malgrado della nostra ignoranza. Oh questa è luce solare e ardente, quando la luce del secolo non ha che dei raggi biancastri e freddi! Sono certo, mio caro marchese, che appigliandosi Ella alla grazia, Dio La porterà innanzi, il quale ha detto e Le dice: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Coll' occasione che vengono a voi alcuni altri fratelli, bramo scrivervi poche parole, per rammentarvi la vocazione vostra nella santità della carità. Io prego e supplico tutti voi nelle viscere di Gesù Crocifisso, che niuno voglia divergere nè a diritta nè a sinistra, ma che direttamente tenda a quello a che è chiamato, cioè a procacciare a sè medesimo la santità che non consiste in veruna opera d' ingegno, nè in alcuna prodezza o gloria umana, nè buon riuscimento delle imprese esteriori; ma bensì nel praticare quelle virtù che Gesù Cristo, Salvatore e forma delle anime nostre, ha mostrato in sè stesso, massime pendente dalla croce: le quali sono l' umiltà, la povertà, l' abnegazione e l' ubbidienza, la mortificazione e la pazienza, e la carità ardente che tutte le contiene e non si perde in sottigliezze, ma cammina con semplicità e non cerca le cose proprie, ma quelle di Dio e del prossimo. In questo sta tutto l' Istituto della Carità che voi avete abbracciato, e che dovete avere continuamente innanzi agli occhi affine di perseverare in esso fino alla morte, non con sola l' unione dei corpi, ma con quella degli spiriti, affine di non ingannare voi stessi, perdendo di vista l' unica vera idea e forma dell' Istituto, nato al Calvario e uscito dal Crocifisso: in quanto che da lui sono uscite le virtù, in cui l' Istituto mira come in suo fine, e perciò lo costituiscono. Voi, o miei dilettissimi fratelli, avete tanto maggior bisogno di tenere fisso il vostro cuore a questo fine, non facendo conto che della pratica delle virtù evangeliche, come del solo bene (giacchè il resto è vanità), in quanto che il servizio di Dio costà ha congiunte difficoltà non poche, distrazioni e pericoli: i quali tutti però voi superare potrete, cooperando fedelmente alla grazia che Iddio non vi nega, e così essi diverranno altrettanti mezzi del vostro perfezionamento e trofei della vostra gloria futura. E questa cooperazione alla grazia non può consistere in altro, che nello aver presente la vostra vocazione per dirigervi secondo quella, uniformandovi allo spirito e alla lettera delle Regole, che vi sono prescritte, con sommessione perfetta. Ognuno in prima si persuada di non fidarsi troppo del proprio sentimento e giudizio, e piuttosto creda fermamente che fra tutti i pericoli della vita religiosa il più insidioso è quello che consiste nell' uso esclusivo del proprio raziocinio; perocchè l' uomo, essendo un essere ragionevole, inclina a ragionare, senza troppo considerare che i suoi ragionamenti sono brevi, limitati e spesso fallaci, a differenza di quelli di Dio che abbracciano in un modo infallibile le cose tutte, le presenti e le future, che rimangono nascoste agli occhi nostri. Perciò ciascuno nella propria condotta, invece di seguire le regole e i risultamenti del suo proprio ragionare, prenda a sua guida la sola altissima e semplicissima regola della volontà divina, a imitazione di Cristo, il quale, dando ragione del suo operare, non diceva già che operava per questo o quel motivo, ma diceva sempre che operava per fare la volontà del suo Padre Celeste, e acciocchè si adempissero le Scritture che contenevano appunto ciò che il Padre aveva ab aeterno prestabilito. Laonde tutto lo studio nostro, o carissimi, consista in pervenire a conoscere la volontà divina, e non in ragionare e disputare fra noi stessi, se questa o quella sia cosa buona o migliore secondo il proprio vedere limitato ed umano. Siamo solleciti unicamente di cercare quali siano i segni della divina volontà per eseguirla fedelmente e semplicemente, con pace interiore e senza contraddizione del proprio intelletto. E se voi attentamente considererete, scorgerete di leggeri, che i segni della divina volontà sono segnatamente tre, ai quali noi la riconosceremo senza fallo, se di puro cuore la cercheremo. Il primo segno è la legge di Dio , da Gesù Cristo apertaci con pienezza e perfezione; la qual legge è chiamata perciò dai teologi volontà di segno ; e perciò è anche scritto: « Voluntas Dei sanctificatio vestra ». Se dunque la volontà di Dio è la nostra santificazione, noi possiamo essere certissimi di operare conformemente a quest' amabilissima e santissima volontà divina, quando incessantemente lavoriamo a purificarci dalle nostre imperfezioni, e ad acquistare tutte le virtù che formano la santità. E ogniqualvolta una turbazione di animo ci pone in uno stato di perplessità e di dubbiezza, ricordiamoci di preferire fra i due quel partito che in sè stesso è più favorevole alla nostra santità, quello che più contiene di virtù evangeliche, appigliandoci senz' altro dubbio nè esitazione a ciò che meglio esercita la nostra abnegazione, povertà, ubbidienza, carità e disprezzo di noi stessi e delle cose nostre; perocchè facendo così, noi siamo certi di non isbagliare e di operare secondo l' altissima ed eccellentissima regola del divino volere che pur vogliamo seguire, e per questo siamo nell' Istituto. Il secondo segno che ci fa conoscere quest' ottimo e desiderabilissimo volere di Dio, si è l' ubbidienza a' nostri Superiori. A tutti voi io dico questo, e in prima al Padre Rettore e al Padre Ministro che debbono precedere coll' esempio nell' ubbidire semplicemente a' propri Superiori, e di poi lo dico a tutti gli altri fratelli soggetti. Conviene riflettere che questa è la dottrina della Chiesa cattolica, la quale insegna ed ha sempre insegnato che l' ubbidienza perfetta a' propri Superiori è la via più sicura a conoscere il divino volere e a perfezionare e salvare sè stessi. Non insorga adunque la temerità e la baldanza del proprio ragionamento, perchè così facendo non insorgerebbe già contro l' uomo che comanda, ma contro Dio che manifesta il suo volere per mezzo di quell' uomo. Egli è vero, che si può trovare nel comando del Superiore sbaglio o difetto, secondo il corto vedere umano; ma vero sbaglio o difetto non può cadere nel volere di Dio, di cui quel comando è segno indubitabile. Di maniera che è da credersi che eseguendo quel comando, sebbene accompagnato da qualche errore secondo le viste umane, tuttavia non si farà che ottimamente secondo le viste divine, e che Dio vorrà servirsi di quello sbaglio od errore del Superiore ai suoi altissimi e sapientissimi fini, che noi per la nostra cortezza ed ignoranza non arriviamo a conoscere. Non si dà nessuna eccezione a questa regola, fuor solo quando nel comando del Superiore vi avesse peccato. Fuori di questo caso, taccia il nostro intelletto davanti a ciò che viene comandato, non giudichi, non censuri, non calcoli cosa (se non forse per rappresentarla sommessamente al Superiore); ma presti con viva fede e con certezza di ubbidire a Dio, una ubbidienza intera, pronta, semplice ed umile. Quando poi non si può conoscere il voler di Dio nè col primo nè col secondo di questi due segni, perchè non v' è un comando del Superiore che prescriva il da farsi, nè la legge di Dio o l' amore della santità lo determina, allora convien ricorrere alla terza regola, molto necessaria ai Superiori, ed anche ai soggetti, ogni qualvolta i Superiori rimettono al loro giudizio il modo di operare. Questo terzo segno del divino volere si è la voce della divina Providenza , che si fa sentire negli avvenimenti esterni e nel complesso delle loro circostanze. Conviene che questa voce sia da noi raccolta col lume tranquillo della propria ragione, soccorsa dal lume della fede, con una maniera di vedere al tutto logica, senza prevenzioni nè fantasie, o niente che abbia del superstizioso e dell' arbitrario. Fare tutto il bene, che la divina Provvidenza ci presenta nelle occasioni esterne da noi non cercate, farlo senza ingiusta predilezione, ma sempre col debito ordine: ecco ciò che in questo caso vuole Iddio certamente da noi. Iddio è l' essenza del bene; dunque egli vuole da noi tutto il bene possibile, ed è quello che, venendoci presentato a fare dalla sua Provvidenza, non è scelto a nostro, ma a suo arbitrio. Questo terzo segno è subordinato al secondo, come il secondo è subordinato al primo, cioè a dire se la legge di Dio ci obbliga ad una cosa, a quella dobbiamo attenerci; ma se non ci obbliga, dobbiamo attenerci all' ubbidienza. Se poi neppur questa determina il da farsi, allora dobbiamo studiarci di conoscere il voler di Dio per mezzo del lume di ragione e della grazia che il deve accompagnare, il quale per non fallire non deve prevenire, ma seguire la Provvidenza nei fatti esterni. Dal primo poi e dal secondo de' tre segni scaturisce la necessità che voi tutti avete, quando pur vi piaccia di attenervi strettamente alla volontà del vostro Dio, di meditare attentamente e amorosamente le regole dell' Istituto da voi abbracciato, come quelle che contengono in compendio e applicano la legge di grazia portataci da Gesù Cristo, e come quelle, a cui debbono prestare egualmente ubbidienza e i Superiori e i soggetti. Ognuno adunque cerchi di vivere confidato grandemente in Dio, unito strettamente col proprio Superiore, in cui ravvisi come in imagine Dio stesso, uniti ancora tutti fra di voi in congiuntissima carità, la quale non sia turbata mai da cosa alcuna, sopportando i difetti altrui nell' abbondanza dell' amore, onde ciascuno dee avere ricolmo il cuore, avendo gran premura non solo del profitto proprio, ma ben anco di quello di tutti gli altri fratelli che formano con lui una famiglia in Gesù Cristo, edificandoli col suo contegno e cooperando alla loro purificazione e perfezione, secondo lo spirito dell' Istituto e la volontà de' Superiori. E così facendo voi, l' umile vostro fratello che ha tanto di fidanza di scrivervi queste cose con ogni libertà nel Signore, spera di dover partecipare della pienezza de' vostri meriti e delle vostre preghiere che con un cuor puro e retto innalzerete senza posa al trono di Dio, nel quale egli assai vi ama e dal quale vi prega ogni benedizione e aumento di grazia, consolazione e fortezza nelle tribolazioni e corona di gloria immarcescibile. [...OMISSIS...] 1.37 Se nelle confessioni non troviamo materia grave, è misericordia del Signore nostro, e nel dobbiamo ringraziare; peraltro ciò non ci dee distorre dalla confessione, la quale è un atto di profonda umiltà e di compunzione di tutti i nostri peccati in generale, i quali si possono sempre detestare e sottomettere di nuovo alla sacramental confessione; tanto più che possiamo sempre temere per cagion d' essi, sebbene sottomessi già al giudizio del sacerdote, non sapendo con assoluta certezza se le disposizioni nostre erano del tutto quelle che si richieggono ad ottenere da Dio un pieno perdono. D' altro lato la confessione, e sopratutto poi la comunione, aumenta la grazia e le forze spirituali. In quanto ai peccati veniali, conviene che li combattiamo con tutta pace e senza pretensione di riuscirvi in breve tempo. Vi ha un mezzo generale e soavissimo di far ciò, ed è quello di accrescere in noi la carità coll' orazione e con atti frequenti di amor di Dio e del prossimo: in ragione che cresce in noi la carità, vanno cadendo i peccati veniali, quasi senza che ce ne accorgiamo, ed ogni attacco a noi stessi ed alle cose proprie. Questo è un mezzo eccellente specialmente per quelli che fossero inclinati ad assottigliare, ai quali il troppo pesare e scrutare le minime cose può cagionare turbazione e inquietezza. Quanto poi alle opere di sopraerogazione, non conviene mai cangiarsele in doveri; perchè sarebbe un rendersi grave da sè stessi il giogo del Signore. Anche qui conviene procedere per la via di quell' amore che dilata il cuore; ma perchè questo stesso potrebbe affannare l' animo, pensando che è troppo scarso il nostro amore verso il bene infinito che dobbiamo amare, perciò ci è uopo d' altro lato riflettere che questo amore soprannaturale è esso stesso un dono di Dio, dono che egli ci fa in certa misura; e però si contenta che l' amiamo con quella misura colla quale possiamo amarlo, e non pretende di più. Perciò Gesù Cristo, comandandoci l' amor di Dio non ci ordinò di amarlo infinitamente , com' ei si merita; ma ci ordinò di amarlo con tutto il cuore ecc., che è quanto dire con tutta la potenza che abbiamo di amare. Di più non chiede; e però convien fare quel che possiamo, e poi starci contenti riposando in Lui e sperando in Lui; ed egli farà di più in noi. E quanto al precetto dell' amor del prossimo, che ci comanda di amare gli altri come noi stessi, non parla di uguaglianza , ma di somiglianza ; e parla dell' amor volontario e non dell' istintivo; e queste considerazioni debbono quietare, se ci sembra di non amar gli altri quanto noi stessi, bastando che li amiamo come noi stessi. Buona cosa è tuttavia e che fa fare all' anima molti progressi, l' occuparsi in opere di carità e specialmente di carità spirituale, che è la più eccellente, e nel promuovere tutte le opere sante. Quanto a ciò che mi dice circa la differenza di specie fra l' anima di un buono e di un malvagio, non si potrebbe sostenere, perocchè la specie umana è costituita dall' aver per lume l' essere iniziale , e questo l' hanno tutti o lo amino o no. Si potrebbe dire bensì che fra un buono e un malvagio vi ha una differenza maggiore che non sia dalle stelle alla terra e più ancora, voglio dire una diversità maravigliosa, incredibile, che nel Vangelo viene espressa con quel chaos magnum che sta interposto fra Lazzaro ed Epulone. Se si tratta di bontà soprannaturale la distanza è infinita, ed è certo che la grazia opera un cangiamento sostanziale e non puramente accidentale, come insegna San Tommaso. Mi è stata carissima la sua lettera e l' altra che mi ha scritta, e la prego di continuarmi la sua cara benevolenza, e comandi a me come ad uno che la stima e l' ama... [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Sebbene risponda tardi alla vostra lettera, non dovete credere che ella mi sia riuscita meno grata, nè prenderete errore se attribuirete la lunga dilazione in farvi risposta alle troppe mie occupazioni... Quanto a ciò che nella vostra lettera mi dite intorno agli studii, non si richiedono molte parole, giacchè essendo questo tempo del vostro noviziato sacro all' esercizio della virtù e della santità più fervente, il resto non è che accessorio; e dal Padre Maestro saprete quello che vi convenga di fare. Sommamente importante all' incontro mi parrebbe lo scrivervi qualche cosa sul conto del dubbio venutovi in cuore circa l' ubbidienza cieca , se già questo vostro Maestro e amorosissimo superiore non mi avesse fatto intendere, esservisi questo dubbio dileguato dall' anima. Tuttavia un nonnulla voglio dirvi su ciò, mio caro Giacosa, e questo si è in prima che il conoscere intimamente l' eccellenza altissima dell' ubbidienza cieca prestata per amor di Gesù Cristo, ella è cosa al tutto divina , e quelli soli ciò intendono, a cui lo Spirito Santo comunica questa sapienza sopraumana. Laonde vorrei esortarvi a domandare questa soprannaturale illustrazione con intensissime preghiere, annientandovi davanti al trono della Maestà di Dio e chiedendogli con gran fervore di poter intendere le lezioni che ci ha dato Gesù Cristo suo Figlio dalla sanguinosa cattedra della Croce. Ci potrebbe anco condurre all' intelligenza e al possesso di questo tesoro dell' ubbidienza cieca, un amore intensissimo che noi avessimo verso il nostro Signor Gesù Cristo; perocchè questo infiammato amore ci porterebbe indubitatamente ad intendere gli ammirandi suoi esempi e le parole con cui ce l' ha insegnata: parole ed esempi non compresi se non da quelli che l' amano svisceratamente, e che all' opposto sono stati e saranno gentibus stultitia . Un' altra via da poter giungere a capire la preziosità di questa virtù dell' ubbidienza, per la quale l' uomo spirituale è sempre pronto anco a morire, è quella della fede fermissima e viva nel magistero della Santa Chiesa, come quella che è colonna e firmamento di verità, e nell' esempio dei Santi che furono dalla Chiesa canonizzati. Perocchè chi ha questa viva fede, ha lo spirito e le parole di sua madre la Chiesa, e senz' altro ragionare si persuaderà pienissimamente che il cieco ubbidire è un atto di virtù squisitissima e di sommo merito presso Dio. Veramente Chiesa Santa l' ha creduto ed insegnato in tutti i secoli ed in tutti i luoghi; ed ha coronati gli eroi di questa virtù. E parimenti quegli che crede che i Santi sieno i veri sapienti, non dubiterà che ciò che hanno fatto tutti essi, nessuno eccettuato, cioè l' ubbidire ciecamente, non sia ragionevole, e giusto, e santissimo; e se insorgeranno a costui dubbii nella mente, chiamerà sè stesso scioccherello e pazzo, e si atterrà immobilmente al lume de' Santi, i quali, atteso lo Spirito Santo che avevano in sè, intesero assai bene la forza di quelle parole dette da Cristo, « qui vos audit, me audit ». Le quali parole del divin Maestro sono per vero un inconcusso fondamento all' ubbidienza cieca, imperciocchè esse furono dette per gli Apostoli alla Chiesa, e la Chiesa parla ed opera pe' suoi ministri, e massime per li superiori delle sante Religioni e Congregazioni. Sicchè vi è tanta ragione di ubbidire ciecamente ai Superiori, quanto ragion vi è di credere ciecamente a Cristo. E come credendo ciecamente a Cristo, si rinunzia bensì a tutte le altre ragioni, ma per attaccarsi ad una ragione altissima, ed unica vera ragione; così ubbidendo ciecamente ai superiori, si rinunzia bensì, in un senso, alla propria ragione individuale e a tutti i suoi speciali ragionamenti, ma nello stesso tempo, in un altro senso, si ubbidisce alla stessa propria ragione; perocchè è la propria ragione di chi ubbidisce, illuminata dalla grazia di Dio, che persuade al vero ubbidiente essere cosa convenientissima che egli ubbidisca, senza cercare altre ragioni che la bellezza stessa dell' ubbidienza. Qui poi osservate, mio caro, l' errore che commettete, dicendo nella vostra lettera che due soli sono quelli che ci possono comandare, la ragione nostra ed il superiore esterno. Voi lasciate fuori il principale, che è Dio che parla per mezzo del superiore e vale molto più della nostra ragione individuale, la quale è soggetta ad ingannarsi, ed anzi inganna sempre ed indubitatamente ogni qualvolta non vuole ubbidire ciecamente alla volontà divina, che Dio manifesta per la bocca del suo ministro e del suo rappresentante sopra la terra che è il superiore religioso. Dico che s' inganna sempre la ragione nostra individuale , quando ci persuade di non ubbidire. Imperocchè quando è, di grazia, che noi veramente c' inganniamo? Quando invece di cercare ciò che è meglio pel nostro fine, cioè a dire per l' acquisto della virtù, della perfezione, dell' umiltà, dell' annegazione, della mortificazione, della penitenza, della imitazione in una parola di Gesù Cristo Crocifisso, noi ci fermiamo a delle considerazioni umane e di altro ordine interamente diverso da quello delle virtù evangeliche. A ragion d' esempio, quando quel celebre solitario, insigne maestro di perfezione, comandava al suo discepolo, che ogni giorno portasse certa quantità d' acqua per inaffiare una pianta disseccata da molto tempo, se quel discepolo avesse disubbidito col pretesto di seguire la propria ragione, egli si sarebbe ingannato e avrebbe operato al tutto contro ragione. Perocchè era bensì vero che l' inaffiare quella pianta, come gli veniva comandato, era inutile e irragionevole, quando si consideri solo il fine di farla rinverdire, ma se all' incontro si considera quell' altro fine molto più sublime, che consiste nell' atto di virtù, di umiltà, di annegazione, di mortificazione, e in una parola d' ubbidienza (perocchè tutte quelle cose sono contenute nella sola ubbidienza); allora si vede manifestissimamente che l' ubbidire a quell' irragionevole comando era cosa ragionevolissima, sapientissima, e santissima. E tanto è grato a Dio questo cieco ubbidire, che si degnò, non di rado, di manifestare la sua approvazione coi miracoli; come accadde nel fatto che vi accenno; perocchè quella pianta disseccata, narrano le storie, che a quell' atto di ubbidienza rinverdì e rifiorì. Ed ora chi non vede, che in ogni atto di ubbidienza, fatto per amor di Dio, al proprio superiore, vi è sempre rinchiuso l' abbassamento di se stesso, l' annegazione, l' umiltà, e l' amor di Dio, e che queste virtù vi sono tanto più belle e grandi, quanto la cosa comandata è più ripugnante e contraria al nostro senso proprio ed al nostro proprio giudizio? E se Gesù Cristo ci ha insegnato che la perfezione nostra sta in quell' annientamento che l' uomo fa di se stesso per amor suo, ed a sua imitazione, chi non vede che vi è sempre una ragione di ubbidire a qualsivoglia comando, e che questa ragione è l' ultima di tutte le ragioni a cui tutte le altre debbono cedere? Perocchè la ragione del rendere noi stessi perfetti, annientandoci per amor di Cristo, è tanto grande che non ve ne può essere un' altra più grande: è il sole della ragione che ecclissa tutte le stelle. Deh! qual ragione di operare vi può essere più grande di quella di ottenere il fine, per cui siamo creati, e di ottenerlo nel più perfetto modo insegnatoci da Cristo? L' ubbidienza che si dice cieca è dunque un' ubbidienza illuminatissima , e con essa si rinuncia a tutte le ragioni frivole e vane per solo attenersi all' unica ragione vera, solidissima e beatissima. Ma tutto questo discorso da chi può venire inteso, se non dall' amatore di Gesù Cristo? Da chi può essere gustato, se non dal semplice ed umile di cuore? A chi risplende tal lume se non al poverello di spirito e al fanciulletto che ha lo sguardo schietto e sincero? [...OMISSIS...] Conviene adunque, mio caro, acciocchè capisca in noi la cognizione di questi tesori della sapienza e della scienza di Dio, che prostrati bocconi per terra innanzi al trono della Maestà, domandiamo, come dicevo, al Padre che ci tragga a Cristo Signor nostro; perocchè indubitatamente è vero quanto pronunciò l' oracolo dell' infallibile verità: « Nemo potest ad me venire, nisi Pater traxerit eum ». Che se il Padre, udendo quel prego che gli innalzeremo dal profondo del cuore in nome del suo diletto Unigenito, ci aprirà gli occhi dell' anima e ci farà cadere le cateratte che le nostre passioni su vi coagularono; allora non solo vedremo l' intrinseco prezzo inapprezzabile dell' evangelica virtù della ubbidienza cieca, ma vedremo di più che, povero il nostro naviglio, se avesse per proprio conduttore noi stessi e la nostra propria ragione e volontà! Vedremo andarsene esso a caso qua e colà trabalzato da flutti in mare immenso, tempestoso e tenebroso, senza discernere mai a che direzione sia volta la miseranda nostra navigazione. Vedremo il lume della ragione nostra, rimastosi solo, non valerci più ad altro che a farci conoscere la condizione disperata in cui siamo gittati. Vedremo che la sola stella che ci possa scorgere a certo segno, non è la povera e inutile nostra ragione umana, ma la sola luminosissima, benignissima, e sicurissima volontà di Dio; e che il nocchiero che possa guidarci dietro a quest' astro di presagio lietissimo, è quel superiore appunto datoci dalla Provvidenza e dalla misericordia di Dio nella religione qualunque ei sia; perocchè qualunque ei sia (purchè non ci comandi il peccato), egli è sempre l' inviato da Dio, è sempre l' interprete dei divini disegni e il ministro delle divine misericordie. Vedremo tutto questo rispetto a noi; ma vedremo molto più se ci viene dato il lume dell' umile sapienza di Cristo, rispetto al bene che potrebbe per noi farsi ai prossimi nostri ed alla santa Chiesa. Perocchè Dio Padre di tutti gli uomini è quegli che pensa a tutti, e Gesù Cristo, Capo della Chiesa ricomperatasi a prezzo di sangue, è quegli che pensa alla sua Chiesa. E Iddio padre e Gesù Cristo suo figlio non elegge alle opere della sua gloria in beneficio del mondo e della sua Chiesa, se non di quelli che, conformati a Cristo, crocifiggono se medesimi, e muoiono a se stessi nella virtù della santa ubbidienza, annegazione, umiltà e amore della croce. Nè altri, ma anzi il solo seguace della santa ubbidienza evangelica è colui che veramente si offerisce a Cristo ed al Padre, e che il Padre e Cristo, secondo il loro beneplacito, elevano, come dicevo, a loro ministro e l' adoperano a tutte quelle cose grandi a cui l' hanno ab eterno predestinato. Stringiamoci adunque all' ubbidienza dei superiori, rinunciando una volta per sempre a noi medesimi, e otteniamoci una grazia sì squisita coll' assiduità di un' umile e non mai interrotta orazione. Questo, o mio caro, io mi aspetto da voi e da tutti cotesti nostri Novizi carissimi; aspetto che tutti usciate infiammati d' amore divino, e atti ad appiccarne l' incendio ai quattro angoli della terra; aspetto che usciate pieni della umile sapienza di Gesù Cristo, che è stoltezza ai vani ragionari del mondo, ubbidienti, docili, mansueti, illuminati, morti alla terra, vivi a Dio, gloriosi di non sapere altro se non Gesù Cristo, e questo crocifisso, da cui vi prego salute e benedizione ne' secoli. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Le dovea pervenire questa mia lettera sul cadere di agosto secondo il promesso, se alcuni accidenti, fra gli altri quelli del corpo sempre malazzato di chi la scrive, non lo avessero trattenuto finora. Essa è incaricata di farle di nuovo molti ringraziamenti del prezioso dono della magnifica « Introduzione » della sua « Storia Universale », letta da me e trovata quale mi aspettavo, e più ancora che io non mi sapessi aspettare ampia e ricca di cose, specchio di una gran mente e di un animo buono e gentile come dee esser quello dello storico. Questa lettura mi ha captivato alla dolce fatica di dover leggere tutta altresì la storia che segue, cosa che ripugnerebbe a queste mie presenti strettezze di tempo e di forze che mi divietano la lezione di tante altre opere egregie e mi prescrivono severamente di non isvolgere altri libri se non i soli necessariissimi alla giornata; pure egli mi è forza ubbidire alla prepotenza che mi usò la sua « Introduzione ». Ma pazienza se questa fosse la sola conseguenza dell' essermi io arreso al suo cortese invito! Ella non vuole da me udire prette lodi, ma mi dimanda un parere, delle osservazioni: come di quelle mi sarebbe facile il mandargliene molte e sincere, così mi pare oltremodo difficile il mandarle di queste, che siano ragionevoli e discrete ed utili; nè sarebbero tali se non fossero anche nuove. E come Le dirò io cosa che non Le sia forse stata detta da altri, se non anco prima pensata e discussa da Lei stessa? Che le cose belle e grandi non mancano di censori numerosissimi, nè saprei dire se la sua stessa grand' opera sia stata più onorata dal pubblico colle lodi o colle censure. Tuttavia forse dirò cosa non detta da altri se parlerò della religione, che come la più importante di tutte, così è quella di cui men parlano i letterati. Tutta da capo a fondo è religiosa la sua « Introduzione », e per entro ad essa lo scrittore non si vergogna mai di far pubblica e dignitosa professione di cristiano. Tanto più posso parlarle liberamente con sicurezza, che il mio parlare non Le torni molesto anzi gradito, paresse quanto si voglia di soverchio sottile e scrupoloso. Ciò dunque che mi cadde in animo di dirle si è, che talora le espressioni e le maniere, che vengono qua e colà usate nell' « Introduzione » parlando del cristianesimo, mi parvero risentirsi e quasi avvicinarsi a quelle che si trovano in molti scrittori moderni, massimamente francesi, i quali parlano umanamente della cristiana religione e, per così dire, la rifanno a lor modo: sogliono evitare tutto il soprannaturale, almen tacendolo, se non negandolo: niente di miracoli, niente di misteri, niente della grazia divina, che è propriamente la vita della fede nostra; confondono la vera rigenerazione dell' uomo, che viene operata da Cristo in un attimo nel battesimo, con ciò che essi chiamano impropriamente rigenerazione , intendendo con questa parola il successivo incivilimento nazionale o sociale che si opera col decorso de' secoli. Le darò un solo esempio di ciò che intendeva. Alla faccia 2. dell' « Introduzione » si dice molto nobilmente: « il cristianesimo elevò la storia e la rese universale, dacchè proclamando l' unità di Dio proclamò quella del genere umano, e insegnandoci ad invocare il Padre nostro , ci fè riconoscere tutti per fratelli ». Niente di più vero nella sostanza: tuttavia osserverei, che il cristianesimo non operò tanta maraviglia col proclamare solamente l' unità di Dio. Questa unità era stata proclamata anche in principio del mondo, e non valse a sostenerlo dalla corruzione: la stessa tradizione antichissima della unità di Dio si conservò fino presso gli Otaiti, adoratori del grande Spirito, e non impedì quelle popolazioni di scadere a stato selvaggio: questa unità fu proclamata dai più insigni savi delle Indie, di Grecia e di Roma: Maometto la proclamò, e quasi direbbesi, più di Cristo, giacchè negò la Trinità delle Persone; e questo dogma della unità tanto proclamato non elevò la storia, non fece nulla di quello che fece il cristianesimo. Il dogma proprio e fecondo della Religione del Salvatore del mondo si è quello della Trinità, e il conseguente della Incarnazione. Pure il proclamare questi dogmi sarebbe stato un profferire delle vane o pazze voci, se la onnipotenza della grazia non avesse acceso il lume della fede nelle anime de' battezzati: ecco lo stromento segreto, che mancò a Maometto, a Confucio, a Platone, a quanti vissero savi in sulla terra dichiarati da Cristo latrones ; ma che non mancò al Verbo incarnato. Questi solo ebbe virtù di mettere in sulle labbra degli uomini il Padre nostro , parola che non poteasi pronunziare senza la dottrina della Trinità, perocchè quella parola tutto racchiude in sè questo mistero, non potendo Dio ricevere nome di Padre se non ha un Dio per figlio. - Siccome in questi ed in altri simili luoghi la grazia avrebbe espressa tutta la verità del pensiero dello scrittore, così dove si legge che « « i poveri, deboli, mal conosciuti, calunniati, coll' autorità, l' istruzione, le ceremonie, l' esempio propagarono il regno di Dio »(facc. 46) » si sente che manca il mezzo principale onde il cristianesimo si propagò, cioè quello de' miracoli ; giacchè, come osservò S. Agostino, se questi fossero mancati, un miracolo massimo sarebbe stata questa sì rapida diffusione della cristiana verità. Mio carissimo signor Cesare, io credo ora di averle dato prova della stima che fo di Lei e dell' affetto sincerissimo che Le porto comunicandole queste poche osservazioni sul suo egregio lavoro. Ella ne faccia quel conto che il suo senno Le suggerirà. Io son certo che le cose da me dette non tolgono all' opera sua l' esser un gran monumento dell' italiana letteratura, ed oso anche dire fin qui l' unico nel suo genere. Ella mi conservi la sua preziosa amicizia, e mi saluti il veneratissimo nostro don Alessandro. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.39 Il mio sentimento è che facciate i voti, essendo io appieno convinto, che, facendoli, voi farete cosa grata a Dio. Con questa persuasione intima ho messo il vostro nome nel decreto che mando al vostro Superiore, il caro D. Luigi, e al quale viene stabilito quali siano quelli, che costì faranno i voti. La sottigliezza del vostro ingegno e sopratutto la vostra fantasia, ecco i vostri principali nemici, che voi stesso conoscete. Cercate di vincerli coll' orazione e con atti generosi di volontà ripetuti molte volte. Gli atti generosi della volontà e le proteste fatte a Dio di frequente e i gemiti cavati dal profondo del cuore hanno grande virtù di ottenerci la grazia e la fortezza di cui abbisogniamo continuamente in questa nostra peregrinazione. Non riprendo che si ragioni ; ma io dico che vi sono delle ragioni primarie e di assoluta verità, e delle ragioni secondarie , e che hanno una verità relativa solamente e parziale. Ora noi dobbiamo dirigerci in tutte le nostre opinioni ed azioni con quelle ragioni primarie che sono poche, semplici, sublimi, universali, madri di costanza e di pace; e non colle ragioni secondarie che appartengono ad una sfera di cose più bassa ed angusta, e non sogliono essere concludenti per la pratica, nè mai si esauriscono, perchè ripullulano infinite, e però mettono l' animo in una perpetua inquietudine e turbazione. Questa non è solamente dottrina logica, è dottrina sacra: Gesù Cristo ha insegnato a' suoi discepoli a far conto solamente delle ragioni grandi o primarie, di cui parlo: elle sono quelle che formano la semplicità, la costanza e la magnanimità della vita dei Santi. Ecco alcuna di queste ragioni che hanno potenza col loro peso di annientare innumerabili ragioni secondarie, minute e querule. Vi ha una Provvidenza amorosissima che tutto regola e dispone: dunque io debbo essere contento di tutto ciò che non dipende da me: debbo tenere per certo, che anche ciò che mi sembra storto è l' istromento migliore per la massima mia santificazione e beatitudine se io me ne approfitto. Essendo Iddio infinitamente buono, debbo confidare e buttarmi in Lui, anche quando io sono cattivo, debole, infermo: debbo sforzarmi, come posso (ma senza ansietà e turbazione), a vincere me stesso e far le cose perfette; e mi riesca o no di farlo debbo considerare che gli stessi miei sforzi, gli stessi miei desiderii sono un dono suo e un pegno che Egli mi vuol soccorrere: i desiderii santi costantemente ripetuti in un cuore non possono andare a male, e perciò nella Scrittura si esprime un uomo santo col dire semplicemente Vir desideriorum . Debbo sommessamente seguire l' autorità della Chiesa, de' Sommi Pontefici, e oltracciò il senso e, per così dire, l' istinto de' Santi. Il senso de' Santi e l' autorità della Chiesa mi dicono che l' ubbidienza ai superiori religiosi è una via sicura di salute e di perfezione. Io mi accorgo, che Iddio mi fa sentire profondamente al cuore questa verità. Che importa dunque che i miei Superiori fallino? Io sono sicuro. D' altra parte se fallano i miei Superiori, come uomini che sono, non falla Iddio che permette il loro fallo, e son certo che lo permette pel mio massimo bene. I Superiori non sono che istromenti nelle mani di Dio: quel comando dunque, che è sbagliato se lo considero con una ragione secondaria e di bassa sfera, non è dunque sbagliato se lo considero con una ragione primaria e sublime: la ragione primaria mette la tranquillità nel mio cuore; m' infonde l' affetto e il compatimento verso i miei Superiori; mi rende dolcissimo e sommamente meritorio l' ubbidire in questi casi appunto, nei quali le ragioni secondarie mi offuscano la mente, mi turbano ed amareggiano il cuore, mi rendono disamorevole verso i miei Superiori, ritroso ad ubbidire, vacillante nella stessa vocazione. Periscano adunque queste ragioni secondarie, si scaccino, come le nubi dinanzi al sole, si faccia sereno il cielo dell' animo nostro. Non conviene ragionare con esse, ma colla forza onnipotente delle ragioni primarie soffocarle appena nate, annientarle, prima che nascano, senza misericordia. Debbo fare grande stima di tutti i miei prossimi e specialmente de' miei confratelli e de' miei Superiori; debbo presumere e interpretar bene ogni cosa, facendo che tutto il mio ingegno sia a piena disposizione della mia carità. Per l' opposto debbo diffidare infinitamente di me stesso, di tutti i miei giudizii, e pospormi a tutti in ordine alla virtù. Se io fo un atto generoso e santo, sono certo che non me ne pentirò mai: sono certo, che gli effetti di quest' atto saranno buoni per me: e se io mi butto in Dio (per quanto miseramente posso) son certo, che Egli non mi lascerà cadere in terra, ma mi raccoglierà nel suo seno. Queste ed altrettali ragioni primarie e sublimi, e che formano la base del nostro Istituto, danno gran pace al cuore e fanno andare innanzi i deboli e gl' infermi e i peccatori. Io sono persuaso che nel fondo del vostro cuore prevalgono queste ragioni primarie; ma mi sembra che, sebben vittoriose, non abbiano ancora distrutte ed annientate le ragioni secondarie, e che vi sia una grande attività nel vostro ingegno e nella vostra immaginazione tendente a fabbricare incessantemente di queste ragioni di bassa sfera, le quali sono veramente inesauribili e rendono l' uomo loquace, involgendolo in disputazioni che non han fine alcuno, e molto meno danno edificazione. Io vi esorto a distruggerle al tutto, facendo che le ragioni primarie e divine sieno le dominatrici pacifiche e sole dell' animo vostro. In questo senso vi esorto a far guerra alla vostra propria ragione, sottomettendovi ciecamente all' autorità ed ubbidienza, fermo in quella parola della Scrittura: « Vir obediens loquetur victorias ». Così si debbono intendere i Santi e i maestri di spirito, quando ci esortano a rinunziare alla nostra ragione e giudizio proprio: sublime ed altissimo documento, sicuro fonte di santità! Qual cosa più bella che il navigare con sicurezza di giungere al porto, sebben s' ignori la strada che dovrem percorrere ed i cimenti che incontreremo per essa? O bella e santa Fede! a te, quantunque abbi le bende agli occhi, io mi attengo con tutto il cuore. [...OMISSIS...] In quanto al modo, col quale fu governato l' Istituto fin qui, credetemi, carissimo mio fratello, che ignorando voi le più minute circostanze, non potete portarne un giudizio sicuro. Io ho riandato molte volte ciò che si è fatto e credo che nel complesso si sia fatta la volontà di Dio: si sia fatto tutto quello che si è potuto e saputo, e che il resto l' abbia fatto mirabilmente Iddio. Quanto alle mortificazioni, voglio rettificare un vostro concetto. Voi dite che quando una cosa è stabilita come appartenente alla vita comune, non si può a meno di conformarsi alla generalità de' fratelli per non dare scandalo. Se si tratta semplicemente di mortificazioni, io non sono del vostro avviso. L' Istituto pregia sopratutto l' umiltà; e se un nostro compagno che non può fare la mortificazione, riceve quella specie di umiliazione, che gliene viene, da Dio e nel suo interno ne cava profitto, umiliandosi e riconoscendosi debole; egli pratica con ciò una virtù molto propria dell' Istituto. Ma gli altri ne prenderanno scandalo? Questo è quello che non deve essere: io bramo, e spero che si otterrà col tempo, che tutti i membri dell' Istituto aborriscano i giudizi sui propri fratelli e sappiano stimarli altamente ed amarli anche se non fanno le mortificazioni comuni, pensando che nelle anime loro possono trovarsi infiniti tesori di grazie anco senza di ciò, e attribuendo il non fare la mortificazione a cause oneste ed anco sante. Il pensare il contrario e il perdere la stima dei fratelli per così piccole cose, è una vera ignoranza: io voglio che tutti i nostri fratelli sieno in ciò istruiti bene, e bene avvezzi a conservare una gran carità in cuore. Stimo e bramo più questa disposizione della stessa uniformità della vita comune: sebbene anche questa uniformità la desideri, per quanto ella è possibile. Desidero tuttavia nel medesimo tempo, che tutti facciano grande stima della penitenza e antepongano all' altre quella della comunità; perchè questo è lo spirito della Chiesa, e di Gesù Cristo, e de' Santi suoi, e il voto dell' Istituto nostro. Quanto ad opinioni, l' Istituto dà piena libertà a' suoi membri, secondo quella regola bellissima di sant' Agostino, « in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas ». Circa all' opinioni politiche, io son certo che voi vi atterrete alle dottrine espresse dal Sommo Pontefice nelle Encicliche pubblicate a condanna delle opinioni dell' abate De La Mennais. Forse voi avrete anco letta la lettera, che io ho diretta a questo sacerdote e che fu tradotta anche in francese. L' attenersi alle dottrine dell' Enciclica è cosa necessaria, « in necessariis unitas ». Del resto voi siete libero: ed ho piacere che mi diciate non professar voi alcuna opinione, perchè la materia essendo difficilissima e delicatissima, sarebbe un esporsi a grave pericolo il prendere un' opinione, senza averne studiata la questione complicatissima, da tutti i lati. Bramerei, che leggeste la mia opera intitolata « La Società ed il suo fine », dove ho cercato di render chiare alcune idee importanti, che hanno uno stretto rapporto con quella questione. Ma questa lettera è già lunga, e il tempo assolutamente mi manca di dir di più. Credo d' aver sostanzialmente toccate le cose principali da voi scritte. Coraggio adunque, libertà di coscienza, risoluzione generosa, irrevocabile. Iddio vi venga incontro e vi abbracci. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 La lettera vostra del 3 mi ha cagionato una dolorosa sorpresa. Voi vi mostrate vacillante sul punto di abitare in Italia. Ma il disegnare da se stessi il luogo in cui si deve abitare, non è ella cosa direttamente contraria al voto dell' ubbidienza religiosa, e specialmente al voto proprio dell' Istituto nostro, che esige l' indifferenza ad ogni luogo , come espressamente dichiarano le regole? Avete ben letto il « Memoriale della prima prova », e tutte l' altre regole nostre, che espressamente dichiarano tali cose? Avvertite che il sacrificio, che noi dobbiamo fare al Signore e che gli abbiamo fatto co' sacri voti, dee essere simile a quello di Gesù Cristo in sulla croce, nostro maestro ed esemplare. Ha forse detto Gesù Cristo al suo celeste Padre: io non voglio stare nella Giudea, perchè provo delle tristezze, o perchè mi espongo al pericolo della morte? Per lo contrario « obedivit usque ad mortem ». E notate che i Ss. Padri, tra i quali S. Basilio e S. Tommaso, dichiarano che l' ubbidienza religiosa obbliga sino alla stessa morte. E non vale mica il dire, io non intendevo di prendermi queste obbligazioni quando feci il voto; perocchè, questa sarebbe una maniera assai facile di sottrarsi da un' obbligazione così sacra; massime dopo essere precedute tutte le istruzioni sulle regole nostre, che dichiarano la forza de' voti. Ah non vogliate, mio caro, essere così illiberale col Signore, e far dei passi che al punto della morte vi potrebbero levare la tranquillità della coscienza! Egli è vero che potrete forse trovare dei consiglieri ed anco de' teologi che favoriscono le vostre imperfezioni e passioni; ma poco giovano certi consigli, fondati sopra sottigliezze, dinanzi al tribunale di Dio. Permettetemi che vi parli con libertà. Voi non sarete mai quieto fino a tanto che il sacrificio che fate di voi stesso a Dio non sia intero e perfetto ; e non sarà mai intero e perfetto se non la rompete generosamente con tutti gli attacchi a voi stesso e alle cose di questo mondo, e non vi stringete a Dio solo. « Deus meus et omnia », dee essere la vostra divisa, e la divisa di tutti noi. Quando voi vi mettete nelle mani di Dio (e nelle sue mani vi siete messo coi sacri voti e colla professione del nostro Istituto), allora dovete stare costante e quieto in quelle mani, vivo e morto . Iddio non abbandona certamente chi si fida intieramente a lui, e da lui riceve per mezzo de' propri Superiori il bene ed il male. Questo abbandono nella divina Provvidenza è essenziale al nostro Istituto, e non si dà vero sacrificio, non si dà vera imitazione di Gesù Cristo, senza di questo. Chi ragiona diversamente, ragiona umanamente, e però s' inganna. Se Iddio vedrà che al maggior bene, non del vostro corpo, ma dell' anima vostra, giovi che meniate una vita mista, egli farà nascere tali circostanze, che condurrete una vita mista. Se Iddio vedrà il contrario, egli permetterà il contrario; permetterà che siate anco attaccato da' nervi, perchè finalmente « virtus in infirmitate perficitur »; e voi, se rimarrete costante nella vostra vocazione e nelle prove che vi darà il Signore (le quali non sono mai superiori alle forze, purchè si preghi), diverrete giusto e caro agli occhi di Dio, giacchè « vir obediens narrabit victorias ». La necessità dunque della vita mista il Signore la vede, e se ella è reale per l' anima, e non per il corpo, vi provvede sicuramente a favore di un servo che gli è fedele; ma non di un servo che gli è infedele. Avvi anche pericolo che in queste cose giochi in gran parte la fantasia, la quale spesso c' inganna, e a cui convien resistere valorosamente, opponendole lo scudo della fede. Ma la fantasia non opererebbe, se in noi non ci fosse l' attacco a noi stessi, ai paesi da cui noi proveniamo, ai conoscenti, al proprio benessere, e alle sostanze temporali. Rompiamo dunque con forza tutti questi attacchi, e la fantasia cesserà di operare. Potremo allora cantare: « Laqueus contritus est et nos liberati sumus ». Il demonio c' inganna coll' attrattiva di una vita apostolica; ma la vita apostolica può ella essere priva delle più solide virtù? Si dà egli vita apostolica senza ubbidienza e senza povertà? Gli apostoli erano mandati : ma come può esercitare l' apostolato un religioso che non riceve la missione de' suoi Superiori, e che dice: io voglio fare l' apostolo per impedire l' attacco de' miei nervi? come può esercitare l' apostolato chi non vuole lasciare le sue reti e la sua barca? S. Paolo tremava, non forse predicando agli altri si facesse reprobo egli stesso; il che dimostra che le fatiche apostoliche non si debbono assumere nè per inclinazione, nè per gusto o consolazioni che vi si trovino; ma perchè Iddio vuole, perchè Iddio manda. Se dunque i vostri Superiori vi mandano, fate bene ad ascoltarli, e ad andare, perchè « qui vos audit, me audit »: ma se volete andare da voi stesso, o cercate che altri vi mandino, dovrete renderne conto a Dio, e il giudizio che vi si farà dei falli che voi commetterete nell' apostolato sarà inesorabile: « ego non mittebam eos, et ipsi currebant ». Ah! temiamo pure nell' accingerci alla grand' opera di ammaestrare gli altri, come temeva e tremava s. Agostino e tutti i Santi; e desideriamo piuttosto di prepararci all' apostolato, che non sia di esercitare l' apostolato stesso; desideriamo piuttosto di convertire noi stessi, e così di prepararci a convertire gli altri, quando e come il Signore lo vorrà. Se avremo vinto noi stessi, debellate le tentazioni, sacrificati i nostri gusti, resi noi stessi perfetti nell' ubbidienza e nell' annegazione; allora saremo divenuti istrumenti idonei nelle mani di Dio, e potremo sperare che egli forse si serva di noi a fare qualche bene. Ma fino che siamo così imperfetti, pieni di volontà propria, di giudizi proprii, così mal mortificati, abbiamo troppa ragione di temere di noi stessi. Quegli solo sarà un vero apostolo, che a imitazione di Gesù Cristo sa aspettare la missione celeste per 30 anni nell' oscurità della vita occulta. Ecco la virtù che non falla, perchè non lusinga l' amor proprio: la virtù che noi sacerdoti dell' Istituto della Carità ci siamo proposto di esercitare. Coraggio adunque, mio caro fratello nel Signore! Vada tutto, vada la vita, vada la roba, vadano i gusti e tutti i nostri giudizi particolari; ma non vada la virtù vera, evangelica e veramente apostolica che forma l' essenza della nostra professione. Abbandoniamo ogni altro nostro pensiero e desiderio fuor di quello di divenire veri membri dell' Istituto della Carità . Quest' unico pensiero vi occupi più che non ha fatto per lo passato. Il membro dell' Istituto della Carità è contento in ogni luogo, in ogni grado, in ogni ufficio, perchè cerca Iddio solo. Egli si stacca da tutto. La nostra povertà deve essere piena, assoluta, simile a quella di Gesù Cristo sulla croce. Io non potrei mai permettere che nessuno dei nostri compagni amministrasse i suoi beni proprii, o che menomamente ne disponesse o che impedisse all' Istituto il disporne, giacchè peccherei io stesso mortalmente contro il voto e farei peccare i miei compagni condiscendendo alla loro imperfezione. E perciò vi prego e vi scongiuro, mio carissimo fratello in Cristo; e non bastando ciò, vi comando altresì in virtù di santa ubbidienza (notate bene) di consegnare fedelmente tutto ciò che avete in beni mobili e stabili a questo mondo nelle mani del vostro Superiore, in maniera che non vi resti più nè bene alcuno, nè disposizione, nè amministrazione di sorta alcuna; acciocchè siate sciolto intieramente da tali imbarazzi, e possiate servire il Signore in una vera e intera povertà, e si compia in voi la volontà divina. Spogliato interamente dei beni temporali, la virtù della grazia di Dio si aumenterà in voi; e così reso più forte, e da Dio illustrata la mente, non finirete di benedire il suo Nome per la grazia grande che vi ha fatto. Intanto vi raccomanderò indegnamente al Signore, e spero che nella prossima vostra lettera mi restituerete quella consolazione che mi ha fatto perdere la precedente, per la giusta sollecitudine che ho dell' anima vostra. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Non dubito che la bontà e misericordia del Signor nostro non voglia da voi una sempre maggior perfezione. Quel tenerissimo nostro amico e Sposo picchia incessantemente alla porta del nostro cuore; vi entra se noi gli apriamo, e vi entra per renderlo più bello e per fugarne tutte le tenebre. Oh! ma quanta è mai la nostra miseria! Impastati di fango vilissimo, e peggio ancora, di vilissima carne, non siamo buoni da altro che da oppilare gli spiragli della luce celeste, che da turare gli occhi dell' anima nostra, fatti pure per ricevere quella luce e vivificarsene, e ostruire gli orecchi acciocchè non sentano le divine parole! Quand' io considero da una parte l' insistenza di Dio per fare del bene a me, sua povera creatura, e dall' altra non dico la mancanza della corrispondenza da parte mia, ma gli ostacoli ch' io oppongo al mio infinito benefattore e la guerra che gli faccio, inorridisco; e se egli stesso non mi aiutasse ancora, chi mi terrebbe dal non avvilirmi e disperarmi? Coll' esperienza mia propria adunque misuro benissimo e comprendo come simiglianti sentimenti ed anche agitazioni e desolazioni possano entrare nell' anime altrui, possano entrare anco nella vostra. Ma che perciò? non ci sarà per noi, mio carissimo, anche una larga vena di consolazione? Ah sì, ed infinita! Io la trovo sempre in quelle parole: « Surgam et ibo ad patrem meum ». Oh dolce nome di Padre! Quanti mercenari « in domo patris mei abundant panibus; ego autem hic fame pereo! » Alla nostra casa adunque, alla casa del nostro Padre! e vi troveremo ogni cosa che ci bisogna: gli amplessi paterni ci aspettano. E` vero che se noi dovessimo sperare in noi stessi, la sarebbe finita; ma noi possiamo contare talmente sulla tenerezza del nostro Padre Iddio, che da lui stesso possiamo aspettare fin anco che ci muti il cuore, fin anco che produca egli in noi la corrispondenza nostra alla grazia sua, fin anco che ci comunichi egli stesso il coraggio e la fortezza che ci manca per fare quelle risoluzioni generose e grandi di cui abbisogniamo. Non n' abbiamo noi il desiderio? E bene, questo desiderio benchè sterile è la caparra che ci dà Iddio di voler fare con noi de' prodigi di misericordia; perocchè lo stesso desiderio del bene è suo dono. Dietro a questo desiderio mandiamo a Dio delle voci, delle suppliche, de' gemiti almeno; se non possiamo pregar molto, preghiamo poco, ma con frequenza ed ardore; preghiamo che ci accresca il dono di pregare: egli ci esaudirà, e dietro la preghiera verranno a noi tutte l' altre grazie che ci bisognano, e più ancora. Non meritando che di essere mercenari nella casa paterna, ci troveremo senza saper come ridivenuti figliuoli, e della bella stola vestiti e dell' anello prezioso fregiati. Oh insomma non può nulla mancare a chi desidera, a chi spera, a chi fa quello che può, ed aspetta dal suo ottimo Creatore e Padre quello che non può! Coraggio adunque, fiducia illimitata, tranquillità nello stesso dolore, nella stessa umiliazione! Mio caro, quanto bramerei di potervi recare qualche sollievo nella vostra afflizione, se io sapessi il modo! Chi sa, che forse non vi gioverebbe l' assentarvi per qualche tempo da Roma, e dalle vostre ordinarie occupazioni! Nel caso che ciò trovaste potervi giovare, venite da me, staremo insieme: o se le mie occupazioni non mi lasceranno molto tempo libero, voi avrete la compagnia di alcuno de' miei compagni. Il riposo, la novità della vita e degli oggetti che vi circonderebbero, potrebbero ristorarvi. Non vi prometto però delizie, ma povera vita. Se non poteste fare il viaggio per la spesa, ciò non vi trattenga; pagherò io per voi. In somma disponete di me, come si fa de' veri amici. Farò pregare, pregherò; voi pure pregate. Il nostro caro Signore e la dolce nostra Madre, stiamone certi, ci esaudiranno: ci faranno suoi , che è quello solo che noi vogliamo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Ho aggradito la vostra lettera colla quale mi date notizia di voi stessa. Il consiglio principale che vi do si è, che vi mettiate sempre avanti gli occhi la vita di Gesù Cristo vostro sposo per imitarla, e i suoi celesti insegnamenti; fra gli altri quei due tanto da lui raccomandati dell' abbandono di sè nella Provvidenza , e della carità del prossimo . Egli ha detto che gli uomini conosceranno quali sieno i suoi discepoli, dalla carità che eserciteranno fra di loro. Questa è la vera perfezione, la più alta perfezione religiosa che si possa concepire: e questa è quella a cui siete chiamata nell' Istituto della Provvidenza. Badate di acquistare idee diritte, e di non credere che la perfezione religiosa consista nella clausura, in certa regolarità di preghiere, e in cose somiglianti. No, mia figlia, non consiste in queste cose la vera perfezione, sebbene tali cose possono esser buone ed aiutare a conseguire la perfezione, se Iddio ce le concede. Eleggete dunque per vostro maestro nella via della perfezione il solo Gesù Cristo: vedete che egli nè i suoi apostoli, esempi della più alta perfezione, non vissero chiusi e addetti a certo fisso regolamento; ma andarono dovunque li chiamava la Provvidenza divina e la carità del prossimo . Iddio vi aiuterà da per tutto dove andrete per amor suo, e per far bene alle anime da lui redente. Ciò che ora dovete fare si è d' impegnarvi grandemente a divenir perfetta nello stato in cui vi trovate e in cui certamente vi ha posta il Signore, cacciando ogni altro pensiero, che non farebbe che nuocere al vostro profitto, e innamorandovi del vostro Istituto, tutto sacrificato alla Provvidenza ed alla carità. Le tentazioni vi saranno, e verranno anche più forti; ma non temete. Iddio sarà con voi, se da parte vostra non vi lasciate distrarre con pensieri alieni, coi quali il demonio suole disturbare le anime coll' apparenza del meglio. Fate per me una santa comunione, e ogni qualvolta abbiate bisogno di consiglio, scrivetemi pure liberamente. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Niente ritrovo in quanto Ella mi espone che mi faccia menomamente dubitare che l' ecclesiastico, che dirige l' anima sua, non sia degno della piena sua confidenza; e però sono intimamente persuaso che la più compita ubbidienza al medesimo sia la strada più sicura per Lei di piacere a Dio, come desidera, e di far progresso nelle virtù. La voce del suo Direttore deve essere per Lei la voce di Dio stesso, e perciò se il Direttore Le concede licenza di accostarsi all' altare per ricevere la SS. Comunione tre o più volte la settimana, e in quei giorni ch' Ella desidera, questo è anco il voler di Dio; ed Ella non ha da far altro che di riempirsi di riconoscenza verso la bontà del suo Creatore, che con tanta generosità d' amore la chiama a sè mediante la voce del suo ministro e La ammette al suo divino banchetto; non ha da far altro che di confondersi nel suo niente, nella sua indegnità, accostandosi in pari tempo alla sacra mensa confidente, lieta, umile, magnificando il Signore coi sensi di Maria Santissima, perchè egli si degnò di riguardare alla bassezza della sua serva. Non si tratta qui della questione se siamo degni o no di un tal favore; trattasi di sapere se Iddio ce lo vuol fare o no un favore sì segnalato, sebbene noi siamo e ce ne riconosciamo pienamente fuor di questione indegnissimi; trattasi di sapere se noi ci possiamo credere di quegli avventurati zoppi e storpi e guerci dell' Evangelio, che pur furono, nonchè invitati, quasi cacciati dentro a forza nella sala delle nozze di quel gran signore. E come possiamo noi saperlo? Ce lo fa sapere la voce di Dio che noi udiamo dalla bocca del suo Ministro che ha cura dell' anima nostra: entriamo dunque con fiducia e col cuore esultante, perchè il Signore che abbiamo offeso si degna di sopraffarci in tal modo e vincerci in bontà: pensiamo che egli è infinito, e non ce ne faremo più meraviglia. Ma io sono stata una gran peccatrice, Ella mi dice, e dov' è la penitenza? Il desiderio di soddisfare alla divina giustizia colle opere penitenziali è cosa giusta e santa, e certo un tal desiderio non si dee reprimere quando Iddio lo fa nascere nell' anima nostra: tuttavia questo desiderio, come tutti gli altri buoni desiderii, dee sottomettersi alla più grande delle virtù, all' ubbidienza, e da questa esser interamente diretto. Se il suo Direttore non crede di permetterle alcune mortificazioni e penitenze esteriori, ch' Ella stimerebbe troppo giuste e desidererebbe grandemente di fare; Ella riconosca anche in ciò l' amabile volontà di Dio, riconosca che Iddio stesso La dispensa per ora da tali penitenze, che si contenta del suo desiderio, e sopra tutto poi della ubbidienza ch' Ella esercita, non facendole. Egli è tanto grande il merito che ha presso Dio l' ubbidienza, che nella Scrittura stessa vien detto che questa piace più a lui delle vittime. Nell' ubbidienza adunque stanno per Lei racchiuse le penitenze, di cui si sente verso Dio debitrice. Ella le fa tutte ubbidendo. Ma questa stessa dichiarazione, che Le fa Dio, dee di nuovo confonderla ed umiliarla, essendo un nuovo tratto della benignità di Dio verso di Lei, non dee diminuir punto nel suo cuore il sentimento di tutto ciò che deve a Dio in conseguenza delle sue colpe; dee considerarsi come doppiamente debitrice e per le soddisfazioni delle quali Iddio La dispensa, e per la grazia della quale Iddio La ricolma. L' essere dispensata in tal modo da certe penitenze dee oltracciò impegnarla ad accendersi di maggior tenerezza verso il nostro Signor Gesù Cristo, riflettendo ch' Egli La dispensa così dal patire per aver patito Egli a sua vece; giacchè se Gesù Cristo non avesse sborsato per noi peccatori il prezzo del suo sangue, noi non potevamo essere dispensati dal dovuto pagamento. Ecco la ragione per la quale il suo Direttore, qual organo di Dio stesso, Le può impedire alcune penitenze senza scapito della soddisfazione dovuta: la penitenza fatta da Cristo per noi n' è la gran ragione: sopra questa ci possiamo riposare. Come Ella vede, io parlo di alcune penitenze, delle arbitrarie ch' Ella stessa s' imporrebbe: non resterà perciò priva di penitenze e ben meritorie. Molte ne farà ricevendo con gran pace e contento tutte quelle che impone Iddio alle anime mediante i varii accidenti della vita, praticando quelle che riguardano la mortificazione interiore, quelle che s' incontrano nello studio stesso di piacere a Dio solo, nella meditazione delle cose eterne, nell' orazione, nel combattimento contro tutti i propri nemici spirituali non meno piccoli che grandi. Ella dice che non fa profitto nella emendazione de' suoi difetti: questa è una nuova penitenza, il sopportare se stessa. Ne vuole ancora di più? Eccogliene. Faccia per quanto può una vita di carità; faccia il maggior bene ch' Ella possa a' suoi prossimi, e quando non può farlo coll' opera, lo faccia loro col desiderio, colla compassione, coll' intercessione verso gli uomini, colla preghiera verso Dio. Oh quanto bene c' è da fare a questo mondo, mia pregiatissima signora, purchè si voglia! E non dubito ch' Ella lo faccia, che lo farà; e la carità sua riuscirà tanto più graziosa agli occhi di Dio, quanto più Ella procurerà di dirigerla non solo al ben dei corpi, ma ciò che più monta, alla salute eterna dell' anime de' suoi prossimi. Serva Ella dunque il Signore, che la favorì e La favorisce, con ampiezza di cuore senz' angustie, nè timori: dei difetti nè rimarranno, ma non se ne sgomenti: questi li permette il Signore per tenerci umili: approfittiamocene per questo appunto, staccandoci sempre più da noi stessi e dal mondo. Io sono stato più lungo in questa mia di quello che avrei voluto: se troppo, me ne scusi. Ma sopra tutto preghi il Signore anch' Ella (come io farò pure indegnamente per Lei) per i molti miei bisogni d' ogni specie. Mi son servito, com' Ella vede, della licenza ch' Ella mi diede di risponderle nella lingua italiana, e ne ho certo una buonissima ragione, il non saperne altra: il che però non vuol dire che io sappia questa in cui scrivo. [...OMISSIS...] 1.41 La sua cara lettera è un pegno di vera cristiana amicizia: uno di quei pegni che non si dimenticano più. Io ne La ringrazio con tutto il cuore. L' opuscolo di cui Ella mi parla, come messo in giro anche costì, ma da Lei non veduto, neppur io potei averlo ancor nelle mani. Ne seppi l' esistenza solo pochi giorni fa: una persona lo portò all' Em.mo Card. Tadini Arcivescovo di Genova, il quale lo mostrò ad un mio amico. Questi n' andò in traccia per Genova a fine di rinvenirlo: tutti i librai lo conoscevano, tutti ne parlavano, niuno seppe dirgli dove fosse, d' onde lo si potesse avere. Ho ragione di credere che una copia ne sia stata recata altresì all' Arciv. di Torino, e ad altri Prelati e Magistrati. Tosto che mi verrà fatto di procacciarmelo potrò dirle qualche cosa del contenuto. Le posso però parlare fin d' ora del più importante. Il più importante è la mia fede, che, come sento si attacca. Io non pretendo già di essere infallibile; ma guai se la fede cristiana dovesse riposare sull' infallibilità dell' uomo! essa riposa tutta sull' autorità di Dio rivelante, il quale ci fa conoscere la verità col mezzo della S. Chiesa. Su quest' autorità la mia fede, come quella di ogni altro semplice fedele, è basata: ella è dunque indipendente tutta dal ragionamento, ed io non ho mai fatto dei miei ragionamenti (Dio me ne guardi!) il sostegno e l' appoggio della mia credenza, gli ho considerati sempre come cosa affatto da questa diversa. Quindi, come ho sempre tenuto per falso quel ragionamento che fosse anco menomamente opposto all' autorità della Chiesa; così, qualora mi fosse avvenuto di fare un ragionamento, che senz' accorgermene riuscisse opposto a quanto avesse deciso quest' infallibile autorità, ciò proverebbe bensì in me dell' ignoranza e della fallacità di giudizio, ma non per questo la mia fede ne soffrirebbe. Ora io non sono già nato per esser dotto o per acquistarmene la gloria presso gli uomini, nè mai a questa fama ho rivolte le povere mie fatiche; ma sono nato bensì per esser credente e fatto degno delle promesse di Cristo, qual figliuolo devoto della sua Chiesa. Da questo Ella conoscerà, che io non posso valutar molto quella qualsiasi riputazione di letterato che Ella mi dice avermi per l' addietro acquistata, e che l' esser io convinto d' ignoranza, non è quel che mi pesa. Il mio tesoro è la santa fede, e qui è anco il mio cuore. Laonde se avvenisse, poniamo il caso, che la S. Sede Apostolica mia maestra, e maestra di tutto il mondo, trovasse di che riprendere nelle cose mie, non sarebbemi certo difficile il fare qualsivoglia pubblica dichiarazione, che rendesse la mia intemerata credenza più luminosa; giacchè tutto ciò che io avessi detto contro questa credenza, l' avrei detto certamente contro il mio proprio sentimento, e ritrattandomi non farei che esprimere quel pensiero immutabile, che m' ebbi sempre permanente nel cuore, e solo correggerne l' espressione esterna, che mancherebbe a rendere con esattezza quell' intimo pensiero, voglio dire, la mia piena fede. Che anzi Le dirò di più; a chi mi ebbe mostrato qualche mio sbaglio io professai sempre gratitudine, come voleva il dovere, nè alcuna difficoltà sentii mai a correggerlo per amore di quella verità che sola voglio ed amo in tutte le cose mie; e se questo feci e fo nelle cose più indifferenti, come nol farei io in un punto sì capitale come è quello della mia religione, dove, oltre l' offendere la verità e nuocere all' anima mia, mi esporrei al pericolo di rendermi maestro di errore al mio prossimo? Che cosa ho io voluto mai altro nei poveri miei scritti, che giovare alle anime? Ed ora le pervertirò io stesso? e ad occhi aperti? Iddio nol permetterà mai; io n' ho tutta e in lui solo la fiducia, in lui che m' infuse la fede bambino, e mi diede una illimitata devozione alle decisioni della S. Sede Apostolica, in lui che spande nel mio cuore la gioia quando posso fare un atto di fede, e che mi farebbe desiderar quasi d' esser caduto in un involontario errore, purchè senz' altrui danno, per potergliene rendere una confessione più alta e solenne. - Ma questo involontario errore ci sarà egli dunque nelle vostre opere? Ella mi domanda. Le risponderò con S. Paolo: « nihil mihi conscius sum, sed non in hoc iustificatus sum ». Mi parla nella sua lettera di errori di Baio, di Quesnello, di Giansenio, di Calvino, di Lutero: il solo sentir questi nomi, mette, a dir vero, raccapriccio. Le detestabili dottrine di questi eresiarchi, eretici, o fautori d' eresia sono state condannate giustissimamente dalla Chiesa: io le ho sempre condannate e detestate insieme con essa; e com' è egli dunque possibile che io segua costoro? e voglia esser anch' io un tralcio reciso dalla vite, buono da gittarsi solo sul fuoco? Dio mio! l' udir questo è certo una grande umiliazione. Le Bolle de' Sommi Pontefici che condannarono il giansenismo in tutte le sue diverse gradazioni, sono certamente sotto i miei occhi; e pure io non veggo che un solo dei sentimenti espressi nelle mie opere, e nominatamente nel « Trattato della Coscienza », che come credo, si prende specialmente di mira, s' approssimi ai sentimenti condannati di que' novatori. Che anzi più volte, io citai le proposizioni condannate in essi, a fin di mostrare qual sia la strada perversa in cui quelli eransi incamminati, e qual sia per ciò la contraria che noi dobbiamo percorrere; più volte mi son dichiarato in modo da non lasciare intorno a ciò il minimo dubbio. Che dunque si pretende con tali accuse? qual progetto si cova nascosto? vuol Ella che Le dica in fine di più ancora? vuol Ella che le apra tutta l' intima mia persuasione? vuol che Le faccia conoscere quanto la mente mia chiaramente prevede dover avvenir da quest' aggressione alle spalle, che or mi si fa? M' ascolti benignamente, e non attribuisca a presunzione alcuna quanto la chiara consapevolezza e il testimonio interiore dell' animo mio depone in me stesso, ed a Lei ingenuamente confido. L' autore dell' opuscolo, che secretamente si sparge, sarà stato mosso da buon zelo per la purità della fede; egli è probabile assai, che siasi grandemente riscaldata la testa, e che mal pratico delle dottrine filosofiche e dello stile rigoroso, che io stimai bene d' adoperare nel « Trattato della Coscienza » come nelle altre mie opere per ridurre le questioni complicate ai loro semplici principŒ, abbia preso, come si suol dire, delle cantonate. Egli è facile, appigliandosi a qualche frase staccata, a qualche periodo mal inteso, farne uscire un senso a rovescio; come è facile comporre un centone di passi che dicano tutt' insieme precisamente l' opposto di ciò che volle dire l' autore; ed ognuno sa che collo stile stesso e colle frasi del Vangelo si può benissimo scriver la vita di Cagliostro. Ma che perciò? Certo che dee nascere necessariamente da una tal frode qualche sussurro per ogni canto, massime che vi sono anche assai di quelli a cui buccinano da sè gli orecchi. Questo dee portare di conseguente una costernazione nei buoni, un gaudio nei tristi, un cotal sospetto nella moltitudine che non può giudicare del merito dei partiti ardenti, uno scatenarsi delle passioni; ciò appunto che voleva « inimicus homo, qui superseminavit zizaniam ». Io ne addoloro pel ben comune: per veder quelli che doveano esser meco uniti, così dividersi. Ma in fine, non vive egli Iddio? non regna egli Cristo? non vede egli i cuori? non conosce egli i suoi servi? non dispone egli forse tutto per la sua gloria e pel bene della sua Chiesa? che c' è a temere? gli darò io cagione di dirmi: « modicae fidei, quare dubitasti? » No certo, colla sua grazia. E in terra non ha egli il suo Vicario? il Papa non è egli ispirato e condotto dallo Spirito Santo? i giudizi della S. Sede hanno forse niente di comune coi giudizi precipitosi e riscaldati di alcuni uomini forse zelanti, ma non sempre secundum scientiam? Ecco dunque ciò che avverrà. La S. Sede tutto esaminerà colla sua solita posatezza, imparzialità, prudenza e sapienza divina: ella andrà al fondo della cosa, e giudicherà con piena cognizion di causa. Il suo giudizio è stato sempre la mia regola, sarà tale ancora. Io amerò egualmente una regola sì cara, sì dolce, sì certa, sì sicura qualunque ella sia, qualunque cosa Ella prescriva. Ma che cosa in fine prescriverà? Eccole la persuasione mia fermissima. Non solo giudicherà pure e sane le mie dottrine, e il suo autorevole giudizio le renderà più utili ai miei prossimi pei quali io le scrissi, credendo di scrivere quello che il lume del Signore mi suggeriva; ma di più la S. Sede riconoscerà in esse degli argomenti validissimi, coi quali sterpare fino le radici degli errori di Giansenio, Baio, Quesnello ed altri sopra nominati, e in questa vista veramente furono da me scritte. Ma Ella ritenga sempre, che questa mia persuasione dettatami dalla coscienza insieme e dalla cognizione non leggera delle materie nei miei scritti trattate, non ha ancora da far niente colla mia fede: la quale è semplice e in altro non fondasi affatto che in Dio e nella santa sua Chiesa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Mi consola assai il sentire che Ella è risoluta di amare a qualunque sia prezzo la verità e di non tradirla giammai. Io sono persuaso che questa sia la più bella disposizione che Ella possa avere per ottenere da Dio i lumi e la fortezza di cui Ella abbisogna nelle circostanze in cui Ella si trova, e che nella sua lettera mi descrive. Non è certamente bisogno, che io osservi che i doveri nostri verso la verità sono molti, giacchè noi dobbiamo non solo amarne quella bellezza che dimostra al nostro intelletto ( « agnoscere veritatem »), ma ben anco realizzarne colla condotta nostra quella bontà che propone alla nostra volontà ( « facere veritatem »). Questo secondo dovere è più difficile assai del primo, ed è quello ad eseguire il quale specialmente noi abbiamo bisogno del divino aiuto, e, per averlo, di domandarlo incessantemente. [...OMISSIS...] come dice S. Giacomo. Perciò io credo che Ella si troverà ben contenta se in tutti i suoi viaggi, tenendo presente Iddio, lo invocherà senza posa, praticando i doveri imposti dalla santa Chiesa Cattolica, e facendo uso, con viva fede e nihil haesitans , de' Sacramenti della medesima. Le sarà altresì di grandissimo aiuto e difesa contro ai pericoli l' abituarsi a non pregiare le cose e le cognizioni stesse, se non in ordine alla verità ed alla giustizia, e perciò a Dio ed alla santa Chiesa Cattolica, a cui ha la grazia di appartenere. Con questa retta intenzione viaggiando, Ella non si contenterà meramente di acquistare cognizioni, ma di mano in mano rifletterà all' uso che potrà fare delle cognizioni che Le verranno acquistate, e stimerà più quelle che più Le possono servire un giorno a far valere la causa della religione, della giustizia e dell' umanità. Questo stesso riflesso gioverà assai a farle considerare come mere vanità molte cose di questo mondo, intorno alle quali gli uomini impazziscono; e La difenderà da molti pregiudizi ed opinioni false, di cui sogliono essere imbevute le società particolari, e i particolari. [...OMISSIS...] 1.41 La vostra cara lettera di ier l' altro mi è un nuovo caro pegno di quella vera cristiana amicizia che mi professate. Vi assicuro per altro, che nella « Risposta al finto Eusebio Cristiano » ho temperate secondo il vostro consiglio alcune espressioni che riescivano un po' pungenti; sebbene sento ora che vi sembra ancor troppo acerba. E tale sarebbe anche agli occhi miei, se io avessi così scritto, perchè il mio avversario fu il primo ad offendermi e ferirmi nella parte più delicata, qual' è l' integrità della fede , come vi credete che io abbia fatto. Ma io protesto che questa è per me una ragione che non val nulla; giacchè, per grazia di Dio, non mi curo nulla delle ingiurie personali, nè me ne sono mai curato. Laonde se non avessi temute le conseguenze funeste per le opere della gloria di Dio e per la dottrina vera del nostro Signore, state pur certo che non avrei risposto nè pure una parola ad Eusebio. No, ve lo ripeto, per ispirito di vendetta, grazie a Dio, non iscrivo, nè ho mai scritto. Perchè scrivo io dunque? Scrivo pel bene pubblico; e dal momento che io stimo che questo sia il mio dovere, reputo di scrivere in quel modo, nel quale si possa ottenere più facilmente, più speditamente e pienamente questo bene che ho in vista. Per ottenere questo bene non si deve mentire, che Iddio me ne guardi! ma della verità si deve dire quella parte che sembra necessaria ad ottenerlo in maggior abbondanza. Talora questa verità è una pillola amara, ma anco i rimedi che danno i medici sono amari; e se v' ha un modo di fare del bene al mio avversario, io credo che sia questo da me adoperato, e di cui nostro Signore e tutti i Santi ci hanno dato l' esempio. Fino che considererete la causa, di cui si tratta, come mia personale, mi condannerete, può essere, come mancante di mansuetudine; ma quando considererete la causa come di Dio, allora vedrete che talora è mansuetudine e vera carità anche il parlar forte, e che il nostro divino Maestro non era meno mansueto nè men umile allorquando diceva volpe ad Erode, o ipocrita e cieco al fariseo, di quel che sia quando pregava pei suoi crocifissori. Il bene che si deve avere per fine è sempre un solo, e questo è la carità anche verso gli avversari, anche verso i nemici; ma i mezzi di esercitare la carità sono molti, talora vi ha anche quello di dire cieco al cieco, e di dir volpe a chi è volpe; come è pur troppo il caso mio, per quanto mi pare. Io non ho avuto in vista altro che di scuotere gli avversari, perchè intendano che sono deliberato di resistere fortemente, e di discoprire tutte le loro trame che vanno ancor tessendo continuamente contro l' Istituto, e che io debbo dalle loro tenebre tirare in manifesta luce. Credo che io sono nelle presenti circostanze obbligato a fare fronte, anche pel loro stesso bene. So che non farò nulla, e che le persecuzioni subdole e artificiose non cesseranno: ma si persuaderanno almeno che troveranno ostacolo a farle riuscire. Siamo d' accordo in dover fare tutto ciò che è più conforme allo spirito del divin nostro Maestro: e chi può dubitarne? Tutto il resto è inganno e pazzia. Ma io non ho inteso di dipartirmene, e vorrei morire più tosto che farlo scientemente. Continuate a pregare il Signore, perchè m' illumini se sono in errore, e non permetta giammai che altro spirito mi diriga fuor che il suo, che solo desidero ed amo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Ier sera prima di notte siamo giunti felicemente in questo seminario, dove questi ottimi sacerdoti ci accolsero colla loro solita cordialità. Non è però solo il darvi notizia del nostro viaggio lo scopo di questa mia, ma ancora il fare qualche risposta alla carissima vostra del 1 corrente: giacchè non ve n' ho potuto parlare nel mio passaggio da Milano con quella comodità che sarebbe stata necessaria, e se nulla affatto vi replicassi, sembrerebbe che io non avessi aggradita l' amorevole vostra ammonizione, o non ne facessi quel conto, che pure ne fo. Vi parlerò dunque con tutta candidezza, come sono solito e come voi volete certamente che io faccia. E in primo luogo vi dirò, che il sentimento vostro esposto con tanta sicurezza, m' incute timore, e comincio a dubitare non forse io abbia ecceduto nell' uso di espressioni biasimanti ed umilianti col mio avversario; spero che il vostro avviso mi sarà utile per l' avvenire, se non mi può più essere utile nella causa presente. Sia pur dunque vero, che io abbia errato, e voi condannatemi pure; ch' è io non intendo difendermi, sapendo troppo bene di essere capace di qualsiasi male, se Iddio non mi sostiene. Ma io crederei di ostentare una falsa umiltà e di mancare alla veracità e insieme all' amicizia, se ingenuamente non aggiungessi, che le ragioni, che voi adducete nella cara vostra, non sono punto solide, come vi sembra; e ne converrete anche voi, se vi farete sopra le seguenti riflessioni. Voi dite che non potete concepire come le ingiurie scagliate contro il prossimo possano servire di gloria a Dio; e dite certamente benissimo. Nè pur io posso concepire una tal cosa; perchè le ingiurie sono peccati, e i peccati si oppongono direttamente alla gloria di Dio. Ma le parole biasimanti e umilianti, sono esse sempre ingiurie? No certamente. Ingiuria vuol dire ingiustizia, e perciò le parole e gli appellativi di biasimo non sono ingiurie, se esprimono il vero; non è ingiuria, per esempio, il dire ladro al ladro , e perciò Gesù Cristo non ha detto un' ingiuria, quando ha chiamati ladri i venditori nel tempio. Voi dite poscia, che il nostro divin Maestro poteva usare degli epiteti umilianti come ne usò, perchè era Dio, a cui solo conviene il mihi vindictam , e nol possiamo mai noi, perchè siamo uomini che non veggiamo l' interno dei cuori. Ma se attentamente considererete la cosa, vi accorgerete che non si può dire che nostro Signore nella sua prima venuta abbia mai operato per vendetta , la quale fu intieramente da lui riserbata per la seconda sua venuta. Egli ha adoperato sempre per carità e per dare a noi esempio di essa, e non ha mai offesa la mansuetudine, nè pure quando disse stolti, tardi di cuore, ciechi, ladri, volpe , e a tutta la generazione degli ebrei nequam , e a Pietro satanasso , e tali altri epiteti: i quali tutti sono stati detti senza ingiuria alcuna, senza vendetta, e senza abbandonare la sua divina mansuetudine, e per insegnarci che talora conviene essere acerbi nelle parole e duri per carità ; il che ha luogo quando si crede che questo sia il mezzo di essere utili al prossimo, pel quale si parla. Ma per esercitare questo atto di carità, bisogna certamente essere spogli di passione umana e d' illusione; perocchè le parole forti, biasimanti ed umilianti stanno benissimo colla carità e colla mansuetudine: ma non così la passione umana e l' illusione che questa produce. Voi poi recate l' esempio di san Paolo che maladetto benediceva. E qual dubbio che questo sia dovere dell' uomo di Dio e del discepolo del Signore? Ma non si può egli benedire chi maledice, e nello stesso tempo parlargli forte e con epiteti umilianti? La civiltà non istà nella materialità esterna delle parole, ma nello spirito con cui sono proferite. Sono certo che voi ben vi ricorderete che san Paolo ebbe più volte l' occasione d' imitare Gesù Cristo anche nel dire parole acerbe contro i suoi avversari, o, per dir meglio, contro gli avversari della gloria di Dio. Al mago Elima sapete che disse niente meno che, « o plene omni dolo et omni fallacia »; e non contento di questo lo chiamò figliuolo del diavolo (imitato poi da san Policarpo, che incontrando a Roma un eresiarca, lo onorò col titolo di « primogenitum diaboli »; e non contento ancora vi aggiunse « inimice omnis iustitiae »). Nè si può dire che san Paolo era peccabile, e che avrà peccato, perchè sarebbe un manifesto giudizio temerario, e smentito da Dio stesso, che confirmò la condotta di san Paolo in tale occasione con un miracolo «(Act. XIII). » Considerate ancor l' altro fatto di san Paolo narrato al cap. XXIII degli « Atti ». Avendo san Paolo detto ingenuamente d' essere proceduto con buona coscienza , Anania, giudicandolo temerariamente, gli fece dare uno schiaffo. Allora san Paolo non dubitò di chiamarlo muraglia imbiancata ; nè con questo si può dire, che si sia vendicato, o che abbia offesa la mansuetudine o peccato contro la carità; ma più tosto imitato il Signore in un atto di zelo e in dire una verità acerba, credendola opportuna all' effetto del bene. Egli è poi vero che sono più i tratti di dolcezza usati dai Santi, che di durezza; ma ciò non vuol dire altro se non che le occasioni in cui giova usare questi secondi sono più scarse, che le occasioni in cui giovi usare quei primi. E certo in tutte le cause personali che riguardano noi o le cose nostre, dee aver luogo la mansuetudine e la dolcezza; ma nella causa della giustizia, della virtù, della verità cattolica e del bene del prossimo, qualche volta può aver luogo la durezza; la quale non è una vera durezza, perchè non viene da un cuor duro, ma anzi da un cuor tenero e mansueto, checchè del resto ne giudichino gli uomini. I tratti adunque di apparente durezza che si scontrano nelle parole e negli scritti dei Santi, cominciando da san Giovambattista che chiamava gli Ebrei razza di vipere , non si possono così facilmente imputare all' essere stati essi peccabili; ma dobbiamo piuttosto attribuirli al loro zelo, e all' adempimento di quel precetto dello Spirito Santo: « responde stulto iuxta stultitiam suam, ne sibi sapiens videatur »; il qual precetto dee potersi qualche volta mettere in pratica, se pur noi non vogliamo dire, che lo Spirito Santo abbia parlato inutilmente. Tuttavia queste cose non mi giustificano, se ho ecceduto nel mio scritto; ed io vi ripeto che non voglio scusarmene; e che, se non provano le vostre ragioni, prova però a me moltissimo il sentimento, che in voi ha prodotto la lettura del mio opuscolo; sebbene potrebbe essere che questo sentimento nascesse in voi dal non conoscere a pieno lo stato delle cose e delle circostanze, e la natura del male, a cui si deve opporsi. Ad ogni modo, nel dubbio in cui mi avete messo, io approfitterò del vostro avviso in altre occasioni; e voi vogliatemi compatire, acciocchè giunga a quello che solo desidero, a conoscere senza inganno alcuno il nostro Signore e ad imitarlo con sincerità e pienezza. Pregate anche, acciocchè Iddio benedica questi santi esercizi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Statevi certo che io non ho rancore con nessuno, ma che credo fermamente che la Verità e la Religione nostra santissima sono una cosa sola; e che le frodi e gli artifizi, se si svelano, non è che un bene che si fa alla Religione. Il nostro Dio è Dio di verità, e il Maestro nostro è la verità in persona. Ma pur troppo al mondo si ama poco la verità, e perciò poco si ama Iddio; e si crede in quella vece di onorarlo, formando dei partiti, e mettendo le apparenze nel luogo della sostanza! No, no; se noi amiamo Dio, amiamolo semplicemente e senza umani partiti: il credere che questi sono utili alla Religione, è un deplorabile inganno che ha fatto molto male alla santa Chiesa. Io credo, che voi converrete meco; perchè son certo che siete di quegli adoratori che adorano Iddio in ispirito e verità. Abbracciovi nella vivissima speranza che riceverete nel loro vero senso anche queste mie schiette parole, e non vorrete interpretarle male. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Voi avete fatto un ragionamento assai storto, quando avete argomentato che il vice7rettore, che presentemente è superiore di cotesta casa, non avesse facoltà di mutare gli ordini del rettore assente. Tenendo egli il luogo di superiore nella casa, egli può cangiare a quel modo che Iddio gli ispira essere migliore; come un superiore può sempre cangiare i proprii ordini, tostochè lo crede necessario. E qualora anco fosse vero (il che non è) che il vice7rettore non potesse cangiare gli ordinamenti del rettore assente, sapevate voi forse se il cangiamento non fosse stato accordato prima col rettore stesso o con un superiore maggiore? E poi tocca forse al suddito di fare il processo a suoi proprii Superiori? Dov' è qui, mio caro Arnoldo, la vera ubbidienza, quell' altissima virtù che contiene la vera soprannaturale sapienza? Avreste forse fatto un somigliante temerario ragionamento, se il nuovo ordine dato dal nuovo superiore vi fosse andato pienamente a genio? Esaminatevi bene: e badate attentamente, se la mancanza di quell' aurea indifferenza e di quell' annegazione che debbono professare i discepoli di GESU` sia stata forse la cagione che vi ha inalberata la mente fino a giudicare della condotta di quello che dovete considerare come vostro giudice e come indicatore dolcissimo della volontà divina. Lo stesso vi debbo dire su tutto ciò che mi venite esponendo nella lettera vostra del risentimento che avete sofferto per non essere stato ascoltato, come voi volevate, e interrotto da cotesto vostro superiore. Non sapete voi adunque ancora, mio caro Arnoldo, a quale altezza di perfezione siate stato chiamato da Dio? Non sapete ancora quale sia la scuola del nostro Signor GESUÙ Cristo, in cui vi trovate? E non intendete voi il senso profondo di quelle parole, « qui vult venire post me, abneget semetipsum »? Ah! pregate, pregate il buon GESU` che vi dia l' interno conoscimento della sua profondissima dottrina, tutta d' annegazione, di umiltà e di preziosissimi patimenti: perocchè questa dottrina non la potrete certo intendere se leggeste migliaia di volumi, non apprendendosi essa che a' piedi del Crocifisso. Quello che mi fece meraviglia, leggendo le espressioni vivaci e i ragionamenti assai umani della vostra lettera, si è che non abbiate conosciuto ancora, che i Superiori sono obbligati di esercitare i soggetti nell' umiltà, nella mortificazione, nella pazienza e nell' annegazione di ogni proprio volere; e non siate giunto a capire qual tesoro infinito di vera sapienza si contenga in queste divine virtù. Qual dubbio, che se lo capiste, ne sareste innamorato, le cerchereste giorno e notte, accogliereste lietissimo le occasioni d' esercitarle, e lungi dal risentirvi, se un superiore carico d' affari non può udirvi così pacatamente come vorreste, anzi gli sareste gratissimo, lo ringraziereste, lo preghereste di non volervi risparmiare l' amor proprio, ma anzi in ogni modo di abbassarvi, e in esso mortificarvi! Oh felici contraddizioni e mortificazioni per un' anima che ama GESU` Cristo e sospira di rendersi a lui simile il più che mai possa! Oh felice voi, mio Arnoldo, se otterrete dal Signore la grazia di tali lumi! Credete voi, che un servo di Dio, un religioso a lui consacrato, il quale non sia capace di ricevere con pace e con allegrezza nè pure di essere interrotto nel suo parlare dal proprio superiore o di non essere ascoltato, potrà mai rendersi degno ministro delle opere divine? Che farete, se or siete tanto delicato, quando si trattasse di esporvi a tutti i sacrifici e gl' insulti presso le nazioni infedeli, se ci foste mandato ad annunziarvi il Vangelo? E forse che sognate di poter resistere ai gravi combattimenti lontani, quando non siete capace di tollerare una parola, un tratto ruvido al presente, e nè pure dai vostri stessi Superiori? Oh qual enorme presunzione, qual deplorabile cecità sarebbe questa! Per carità di voi stesso, riconoscete da questa infausta esperienza, come pur troppo dentro di voi stia ancor molto da riformare, stia ancor molto da deporre dell' uomo vecchio. Umiltà, umiltà: ecco la sapienza veramente sublime! abbassamento di sè: stima e rispetto a tutti: ubbidienza pronta, allegra, indifferente, universale: ecco lo studio principale che io aspetto da voi: ecco la vera scienza dell' Istituto a cui Iddio si è degnato di chiamarvi, Istituto che professa di non saper altro se non JESUM CHRISTUM , et HUNC CRUCIFIXUM . State certo che io non avrò altra allegrezza da voi che questa di vedervi simile a Cristo: ubbidiente « usque ad mortem, mortem autem crucis »: non esaminatore de' comandi de' Superiori, ma fedele esecutore, pronto ed allegro. Ad arrivare a questo, veggo io bene che vi bisogna altresì di mettere lo studio in secondo luogo nell' ordine de' vostri affetti: nel primo luogo dee stare quella virtù che abbraccia tutte le altre, e perciò tutto il bene morale, la perfetta e mortificata ubbidienza: questa dee avere il primo seggio nel vostro cuore, e dovete riputare di aver fatto un gran guadagno quando per essa avrete dovuto lasciar lo studio e ogni altra cosa. Ricordatevi del gran detto dell' illuminatissimo S. Francesco d' Assisi: « Tantum scimus, quantum operamur ». Non vi do penitenza, perchè le vostre lettere mi fanno temere che non siate compunto del fallo. [...OMISSIS...] 1.42 Sì, mio caro in Cristo figlio, accogliete il lume della grazia, il quale non parla al cuore dell' uomo che dell' inenarrabile bene che egli è l' umiliarsi incessantemente: nè l' umiliazione è vera se non si trasfonde nel fatto. In quale fatto? Nel fatto sublime della CIECA UBBIDIENZA. Questo non opera dentro di noi che la sola parola di vita di Cristo. Beati quelli a cui la parola: « qui vult venire post me, abneget semetipsum » ha penetrato le ossa e le midolla! Ecco quali ossa esulteranno: « exultabunt ossa humiliata . Io veggo dalla cara vostra, che mi ha rallegrato, come il Signore sta ad ostium et pulsat »: spero che gli abbiate aperto, che gli aprirete sempre. State certo, che se cercate la verità e la giustizia, come grandemente confido, voi troverete l' una e l' altra nell' umiliazione del vostro cuore; perocchè abitano qui, ed altrove non vi ha di esse che il simulacro. Nè solo per amore della verità e della giustizia usate di lasciar da parte i ragionamenti interni favorevoli alle inclinazioni naturali e opposti all' ubbidienza; ma di più all' ubbidienza di Dio e all' amore della penitenza e della mortificazione sacrificate tutte le ragioni e i diritti che vi paresse d' avere secondo natura, per purissimo amor di Dio e ardore di rassomigliare al vostro dolce Maestro e Salvatore. Gustai molto il sentire che mi promettete indifferenza a tutto, anco a non istudiare, se Iddio pe' Superiori così dispone di voi. La rettitudine e la perfezione vuole assolutamente che siate disposto a fare a Dio anche questo sacrificio. E tutto farete per la grazia che vi darà valore. Ma vi arricorda di rivolgere sempre le vostre orazioni a dimandare la giustizia e la grazia di vincere interamente voi stesso. Or poichè vi credo ben disposto, darovvi anco la penitenza da voi desiderata; e sarà che leggiate e meditiate altamente le prime quattro regole del capitolo X delle Comuni , che procuriate di gustarne la bellezza, di scrivervele nel cuore, di domandare a GESU` Cristo che egli stesso ve le scolpisca. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sento con mio sommo dispiacere che in cotesta Casa non ci sia quella perfettissima unione, che è il segnale dei veri discepoli di Gesù Cristo, e perciò dei veri membri dell' Istituto, che non si propone che il discepolato del Signor nostro. Nella vostra lettera vi accusate è vero di molti difetti in generale, e in ispecie interni , ma non ispecificate nessuno di questi; anzi mi assicurate di amare i vostri fratelli e di esser sollecito della loro e della vostra perfezione. Ma nello stesso tempo mi dite che A. vi fugge da un mese e mezzo, e dite che « se vi dicono i vostri difetti, è allorquando hanno qualche cosa contro di voi, e non altramente », mostrando così di giudicare delle loro intenzioni, quando l' umiltà è il precetto di nostro Signor Gesù Cristo, che dice: « nolite iudicare ». Ah, mio caro, pur troppo è da temere che nel vostro cuore non sia ancora entrata nè l' umiltà, nè l' annegazione, nè la carità del nostro Signor Gesù Cristo! Altro è credere di amare i propri fratelli, altro è amarli veramente. Chi non sa umiliarsi ed annegare sè stesso, non sa amare come vuole Gesù Cristo. Può ben avere un' amicizia, come detta il mondo; ma non avrà mai la carità di Gesù. La prima è capricciosa ed instabile; ma questa seconda è immutabile e sempre uguale, perchè fondata in Cristo che non si muta. « La carità »dice san Paolo « è paziente, benigna, non ha gare e non pensa il male, « omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet » ». Ma voi invece di sofferire e sostenere ogni cosa, vi risentite, vi mostrate offeso; e Dio non voglia che abbiate voi stesso forse dato, se non in tutto, almeno in parte cagione al dissapore nato tra fratelli, che debbono essere in Cristo una cosa sola; perchè, come vi ripeto, nella vostra lettera vi accusate in generale de' difetti, ma nulla dite della causa di un tanto male. Ah! temo pur troppo che non abbiate inteso la gran parola, che è il fondamento dell' Istituto, che « non v' ha altro bene che la giustizia e la perfezione, e che quest' unico bene, questo tesoro si ottiene coll' abbassare, annegare e crocifiggere incessantemente sè stessi. [...OMISSIS...] . Il mio dubbio nasce da questo: se aveste ben inteso una dottrina così profonda e contraria all' inclinazione della natura, insegnata al mondo dal solo Verbo Incarnato nostro unico Maestro di verità, qual mai dubbio che vi mostrereste tutto sollecito di abbassare e impiccolire voi stesso, di darvi sinceramente il torto in ogni cosa, di cercare ne' vostri falli l' origine di tutti i mali, e di pregare e gemere e sospirare a' piedi del crocifisso Gesù, perchè egli vinca in voi e squagli ogni durezza di amor proprio, di superbia, di orgoglio, di confidenza ed opinione di voi stesso: egli che, come dice la Scrittura, fa squagliare col suo fuoco celeste le montagne stesse? qual dubbio che sareste insaziabile di umiliazioni, e fin anco d' obbrobrii, e che vi mettereste in ogni cosa, coi fatti, dico, e non colle parole, l' ultimo de' vostri compagni, considerandovi come il rifiuto e la peste della Casa? [...OMISSIS...] Ecco adunque il rimedio, mio caro: umiliarsi, ma interamente e non per metà, ma con tutta l' anima, e non con uno sterile sentimento e con più sterili parole; e perchè questa piena umiliazione dell' uomo non è che l' opera della divina grazia e misericordia che illumina e vivifica, pregare e pregare incessantemente, e con atti i più grandi di umiltà. Non occupare mai il pensiero de' difetti o torti che gli altri possano avere in verso di noi; ma occuparci unicamente delle nostre colpe, iniquità, ingiustizie, nequizie, impertinenze, sciocchezze, ignoranze, balordaggini, presunzioni, temerità, debolezze e miserie senza limite e misura; e non esser mai contenti di temere e tremare per noi stessi, di compungerci, e di sospettare dei nostri stessi sentimenti, dei nostri pensieri, delle nostre parole ed azioni, anche quando ci sembra che nulla di male sia in esse: tenendo per fermo che noi siamo stolidi e ciechi e che non possiamo mai esser sicuri di nulla, e che Iddio solo è il nostro giudice, che col suo sguardo acutissimo vede tutto, e se il nostro cuore è retto o non è retto, vede le magagne, e Dio non voglia, anche le cancrene più nascoste e più puzzolenti. Mio caro, che dunque sia finito fra voi e per sempre ogni segno di dissidio da parte vostra . Se gli altri non fanno il loro dovere, non vi affannate: affannatevi solo grandemente se non lo fate voi: di questo piangete pure e pregate, e Iddio vi ascolterà. Prefiggetevi che la vostra conversazione sia uguale con tutti , come vuole la carità e le regole nostre, senza affezioni: che il vostro tratto sia amabile, grave, senz' affettazione e sempre uguale. Se gli altri non corrispondono, dissimulate e non pretendete corrispondenza; piuttosto prendete occasione di umiliarvi in voi stesso, come di una giustizia che vi si usa. Non pretendete che i compagni vi correggano, perchè questo è contrario alle Regole (Reg. Com. 24); quantunque se lo fanno, dobbiate essere loro grato; ma vi stia ben a cuore che i compagni comunichino i vostri difetti al Superiore (Reg. Com. 22); e quando di questo vi sentirete allegrezza e verso di loro gratitudine, allora sarà segno che cominciate ad amare la virtù sinceramente . L' anima vostra dee essere aperta a' Superiori, pel canale de' quali Iddio comunica le sue grazie, e la sua volontà; e beati quelli che conoscono il prezzo infinito di quelle due parole lasciateci da Gesù: « qui vos audit, me audit »! Quanto poi alla grazia che mi domandate di essere dispensato dall' ufficio di Prefetto io ne scriverò a cotesto vostro Superiore. Gesù Cristo vi faccia sentire la verità delle cose che vi scrivo, e vi muova il cuore a praticarle, e allora solo condurrete a felice termine la santa vostra vocazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Mi ha grandemente consolato il sentire che siete risoluto di proporvi, colla grazia divina, un' ubbidienza perfetta, cioè a dire un' ubbidienza che inchiuda l' intero sacrificio di sè fino alla morte. Oh qual compendio di tutte le virtù non è questa obbedienza, qual via di renderci simili a Cristo, « qui factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis », a una morte cioè obbrobriosa, come dovuta ad uno scellerato! Ma ho poi trovato anche nella cara vostra delle cose, che sono ben lontane dalla vera sapienza spirituale. Sul detto comune « niuno è buon giudice in causa propria », voi distinguete: chi giudica sè stesso per passione, non è buon giudice; ma giudicando senza passione, ciascuno è ottimo giudice di sè stesso. Questa distinzione pecca di circolo: perchè si dice che niuno è buon giudice in causa propria? Appunto perchè niuno può essere ben sicuro di giudicare senza passione, appunto perchè la passione si nasconde agli occhi di quello che più la ha, appunto perchè Iddio nega i lumi a quelli che vogliono giudicare di sè stessi contro il giudizio dei savi e de' Superiori, punendo così la loro presunzione. Ah mio caro! I Santi diffidavano sempre di sè stessi, e volevano sempre esser diretti dall' altrui autorità e dall' altrui giudizio; e statevi pur certo che l' occuparsi a giudicare ed a giustificare sè stesso è cosa che impedisce il profitto nella vita spirituale, toglie la pace, distrugge l' umiltà vera dell' anima e vi semina la superbia, diminuisce la stima e la carità verso gli altri, e rende impossibile quella cieca obbedienza che è un tesoro inapprezzabile, e che voi stesso desiderate tanto di conseguire. Oh bella diffidenza di sè stesso! questa dee essere tanto grande quanto la confidenza in Dio, cioè infinita: questa non inganna: questa non è la scienza dell' albero vietato, ma è il frutto dell' albero della vita. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Nel tempo stesso che ho inteso con vero piacere che Ella sia pienamente contenta della cura, a cui sottomise costì la figlia maggiore, mi recò gran pena il sentire dal venerato suo foglio, che Ella stessa soffre per la malattia manifestatalesi. Io la farò raccomandare al Signore da delle anime buone, come Ella desidera, ed io stesso indegnamente presenterò le mie povere preghiere al trono dell' Altissimo, acciocchè egli benedica la cura, Le dia fortezza e consolazione in sopportarla, e faccia il tutto ridondare in aumento di meriti per l' anima sua, acciocchè diventi più pura e più bella, con questa occasione di patire, agli occhi di Dio. Infatti quantunque l' umanità se ne risenta, tuttavia lo spirito ammaestrato dagli insegnamenti e dagli esempi di N. S. GESU` Cristo, e sopratutto illuminato dalla sua grazia, sa ben conoscere che nel patimento delle malattie si nasconde una preziosissima occasione di meritare e di renderci simili al Signor nostro, praticando le virtù soprannaturali da lui praticate; e le riceve quindi come grazie speciali e segni dell' amore che Dio ci porta, poichè, come dice la Sacra Scrittura: « Iddio castiga quelli che ama ». Questi so e vedo dalla sua lettera che sono i sentimenti da cui Ella è penetrata, e però non dee sgomentarsi, se sente la ripugnanza che la natura nostra ha al patire, come quella che sarebbe fatta da Dio per godere, non essendo lo stato di patimento che una irregolarità prodotta dal peccato. Basta che nel fondo dell' animo nostro portiamo la rassegnazione e l' uniformità al volere divino, e stimiamo le cose col lume verace della fede; il qual lume ci mostra, che là appunto sta nascosto il maggior bene, dove la carne nostra peccatrice esperimenta il maggior male; e ci fa rallegrare e gioire immensamente di quello, di cui piange la carne e mena alti lamenti. Basta adunque che rivolgiamo i nostri sforzi, non già ad estinguere in noi il rincrescimento naturale dei mali, ma a far sì che unitamente con esso vi sia in noi una gioia soprannaturale, superiore e vincitrice di quello. Perciò io non ho punto dubitato a dirle in sul principio di questa mia, che sento un sincero dolore della sua infermità, perchè questo dolore secondo la natura non è male, ed esige solo di esser sottomesso a quella più alta considerazione dello spirito, che fermamente crede all' amorosissima bontà di Dio, e la ravvisa questa bontà nello stesso dolore e nella stessa tribolazione temporale, che da essa ci viene. Onde posso anche aggiungere con uguale sincerità, che, unitamente al rincrescimento del suo male, lodo il Signore che l' ha permesso per tutto quel gran bene, che egli ha destinato di cavarne. Imperocchè qual dubbio, che l' effetto di questo suo male sarà una maggior purificazione dell' anima sua e un maggior distacco dalle cose di questa terra, un' unione maggiore con Dio e ardente desiderio delle cose del Cielo, un disinganno e accrescimento di luce spirituale, un fervore nuovo e brama vivissima di spendere il tempo che le rimane di vita nelle opere della gloria del Signore, in lodarlo, e amarlo, e servirlo nei suoi prossimi? Ella offerirà quello che dovrà soffrire in isconto dei suoi debiti, e questa oblazione volontaria sarà ricevuta con gradimento: Ella avrà dei momenti in cui sentirà profondamente il proprio nulla, e farà di quegli atti di umiltà che sono la maggior giustizia che la creatura possa rendere al Creatore: Ella nelle sue angustie sentirà intimamente il bisogno di Dio, e gli dirigerà quelle preghiere, che non sanno fare se non le anime strette da ogni parte dalla tribolazione, e che giungono al cuore dell' Eterno; Ella insomma avrà occasione di far mille atti d' amor divino, che son quelli che migliorano le anime ed assicuran loro l' eterna salvezza. Tutti questi beni, che mi rappresento come il fine che ebbe il Padre celeste nel sottometterla a questa prova, sono argomenti di santa speranza e letizia; ed io fin d' ora la divido con Lei. Del resto affine di poter esercitare questi atti più perfettamente, e con maggior facilità ottenere che lo spirito pronto prevalga sopra la carne inferma, la consiglio ad aver presente ora più che mai il ricordo di GESU` Cristo: « Non vogliate pensare al giorno di domani ». Procurar di allontanare il pensiero dell' avvenire ed i timori che l' accompagnano, è già questo un grand' atto di virtù e di abbandono nelle mani amorevoli del Signor nostro: è ciò che forma il camminare semplice davanti al Signore tanto lodato nelle divine Scritture. E perchè dipingerci innanzi alla mente quello che non sappiamo e che Iddio ha voluto celarci? e perchè accrescerci il male che abbiamo coll' immaginazione di mali temuti che non sono, e che forse non saranno giammai? Non è egli meglio lasciare la cura di noi intieramente a Dio, senza volerne saper cosa alcuna, e viverci tranquilli di giorno in giorno, e di ora in ora, persuasissimi che l' amor suo verso di noi vince l' amore di ogni madre più tenera? Questa tranquillità non c' impedisce d' altronde di rivolgerci a lui incessantemente colla più filial confidenza, dicendogli non solo i nostri bisogni, ma ancora i bisogni creati dalle nostre debolezze e dalle nostre ignoranze. Poichè egli non se ne adonta; ma ascolta anche questi e ci compassiona nella sua immensa tenerezza; e o ci fortifica, o a quei bisogni stessi immaginari maternamente sovviene. Nè pure c' inquieti la vista dei propri difetti. GESU` Cristo è morto per noi; ci ha conservata fin qui la vita, perchè abbiamo tempo di lavarci nel suo sangue: la penitenza nostra non importa che sia lunga, ma che sia cordiale: la migliore poi di tutte le penitenze è la pazienza nelle croci che egli ci manda, adattandole amorosamente alle nostre spalle, ed aiutandoci a portarle. Dunque larghezza di cuore, mia veneratissima signora contessa, e dolore sì dei peccati, ma dolor confidente, dolore che si perda e trasmuti in amore: i timori per altro, che talora inevitabilmente si suscitano nell' imaginazione, nè sono peccati, nè distruggono la rassegnazione: talora non sono che nuove pene da sopportarsi come tutte le altre con ispirituale pazienza. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La partenza vostra da Stresa ha lasciato, quasi direi, un vuoto nell' anima mia. L' uomo s' abitua alle cose dolci, ed io m' ero così abituato alla cara e pia vostra conversazione, benchè sì brevemente da me goduta, che ne ho sentito, ve n' assicuro, la mancanza. La consensione pienissima nei religiosi sentimenti è pur cosa soave e confortante, massime dopo che il Signore ha detto: [...OMISSIS...] . Io non cesso d' innalzare al nostro Padre quella stessa preghiera che gl' innalzate voi: « da quod iubes, et iube quod vis ». Oh volontà dolcissima del Signor nostro, nel cui solo compimento sta tutta la nostra beatitudine! Ella poi è tanto alta, di una sapienza e d' una bontà sì sproporzionata al vedere ed al sentir nostro, che non la possiamo nè raggiungere per acume d' intelletto, nè adempire per forza di volontà; sicchè non ci resta che di pregare colla faccia in terra che ella si manifesti a noi colla sua luce, e ci avvivi colla sua vita, e si compia in noi da sè medesima colla sua efficacia in noi trasfusa. Per questo dobbiamo essere in verità fanciulletti, come ci ha insegnato il Maestro nostro, e così entrare nel regno dei cieli, che è il regno degli umili che non hanno volontà propria, ma la cui volontà è quella di Dio. In questa nostra nullità possiamo bene sperare contra speranza; giacchè la grandezza di Dio si manifesta e spiega in quelli che sono nulla; e la volontà sua si rivela e compie in quelli che hanno perduta la volontà propria, perchè non saprebbero più cosa volere, se non lo stesso voler di Dio. Io certo quando mi sento più infermo nel corpo e nell' anima, allora Iddio mi dona maggior fiducia, veggendo io che egli ha qui un' occasione maggiore dove spiegare la magnificenza della sua carità. E parmi che allora appunto quando siamo e ci sentiamo più infermi, dobbiamo dimandar cose più grandi ancora, giacchè è infinito il Signore a cui le dimandiamo, e le nostre miserie non gli possono metter limite, ma anzi dilatano i limiti della sua gloria. Teniamoci adunque pur certi, mio caro signore, che seguitando noi a dire quel FIAT, FIAT VOLUNTAS TUA, col desiderio che egli disponga di noi senza limiti , e facendo che sulla bilancia della nostra stima non pesino che i motivi della maggior perfezione morale nostra propria (il solo bene assoluto per noi), avverrà che la volontà divina sarà fatta in noi in un modo ancor più grande di quello che noi possiamo concepire, o che osiamo espressamente sperare. La santità, il desiderio della santità , tutto verrà dietro a questo: i disegni di Dio si compiranno: la legge di Dio ha una virtù nascosa: nella sua massima semplicità è infinitamente feconda: la Provvidenza è tutta rivolta in servigio di quelli, che nella legge di Dio volunt nimis , e in essa (non nei proprii disegni) ripongono tutta la loro speranza. La Chiesa non ha da sperar altro che dalla santità , a cui serve tutto. La parte dell' uomo consiste nello studio di emendare sè stesso e di ottenere la giustizia e la santità: Iddio dopo di ciò fa il resto, elegge quelli che egli si degna d' impiegare a vantaggio della sua Chiesa, li manda, li dirige, li assiste. Beati allora cotesti che non vanno da sè stessi, ma sono mandati! Sta dunque il tutto nel fare la dovuta stima della propria perfezione, e quivi trovare ogni fiducia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La dolorosa nuova della perdita che abbiam fatto della sì buona, sì amabile, sì edificante contessa d' Auzer mi riuscì tanto più amara, quanto più improvvisa. Avevo bensì udito dal M. Gustavo, quando passò rapidamente di qui, che le era tornata la febbre, ma s' attribuiva a cagione affatto accidentale, e venivo già rassicurato che stava meglio. Ma il Signore aveva disposto altramente. Egli è buono anche quando ci castiga. Per altro parmi veramente di poter dire, che il padrone è venuto nel suo giardino e n' ha colto la frutta che n' ebbe trovata matura: egli ne volea imbandire la celeste sua mensa. Vero è che per noi che l' abbiamo conosciuta e l' abbiam trattata, e specialmente per le sue indivise sorelle, per tutti i suoi congiunti, a cui s' era resa tanto amabile, e da cui era tanto amata, egli è pur questo un acerbo distacco! Mia venerata signora, mi creda che nol capisco solo, ma l' esperimento nel fondo dell' anima. Nel tempo che io mi sono trattenuto in Torino, e fui gentilmente alloggiato in casa Cavour, io m' ebbi tante prove della bontà e purità di quell' anima, ne ricevetti tanto buono esempio, e mi trovai sì fattamente legato di stima ad essa per quella sua religiosa cordialità, per quel suo candore, per quell' avidità insaziabile di sentir parlare delle cose di Dio, per la rettitudine delle sue intenzioni, e in somma per la solida sua virtù; che l' annunzio che ella mi dà del gran passo che ha fatto la buona dama in lasciandoci quaggiù per sempre, mi trapassa il cuore, e mi fa troppo partecipare all' angoscia di lei, ed a quella della duchessa di Tonner e di tutta cotesta famiglia, di cui ella era divenuta per affetto sì cara parte. Se non che dando poi luogo alla riflessione, io ben mi accorgo che quegli stessi aurei pregi della defunta che ce la fanno tanto rincrescere e piangere, debbono esserci in pari tempo un gran lenimento al dolore e un' ampia fonte di spirituale consolazione. A quanti superstiti a cui muoiono i parenti, anche dopo esser giunti al colmo delle umane prosperità, manca poi questa solida ragione di conforto, senza la quale è ben piccola ogni altra! Ecco donde io credo che potremo, mia cara signora, attingere quella consolazione vera che Ella mi domanda nella sua lettera. Quanti motivi non abbiamo, per grazia di Dio, di credere che la sua amata sorella or si trovi in uno stato migliore di prima! Noi non la troviamo ora più in quella sua stanza, in quel suo letticciuolo, accanto al quale passavamo delle ore gradevoli: ma invece abbiamo motivo di contemplarla in Cielo. Sì, quella virtuosa ha già superato il gran passo, ha già compita questa faticosa navigazione piena di pericoli e ancor di naufragi, è pervenuta alla sponda, è entrata in porto. Ella ha portata seco la vera fede, di cui le aveva Iddio fatto dono conducendola alla Chiesa cattolica, caparra della sua predestinazione; ha portato seco una vita immacolata, è stata oltracciò lungamente provata e appurata nel crogiuolo delle tribolazioni. Quando l' oro è reso tutto puro e mondo dal fuoco, allora l' artefice lo riversa nello stampo e fonde una statua preziosa, ornamento al gabinetto del re. Così noi abbiamo troppo a sperare, che il Re celeste abbia già formato della nostra cara Contessa un bell' ornamento del suo Paradiso. Non lasciamoci ingannare dalla carne: il punto della morte è penoso, è vero; ma finalmente non è che un punto, e questo punto per la defunta è passato. Hanno pur troppo ragion di temere per dopo la morte coloro, che durante la vita non hanno amato il loro Creatore. Ma quelli che lo amarono, le anime buone e rette, come la nostra Contessa, quelle che visser di fede e di viva speranza nella divina misericordia, ah! per queste fortunate che è mai la morte? Un istante di merito, un sospiro prezioso; dopo il quale ogni patire è cessato per sempre, la salvezza è assicurata, il gaudio eterno incomincia, un gaudio perfetto, di cui non possiamo formarci un' idea adeguata, ma di cui però sappiamo che l' unire insieme colla nostra imaginazione tutti i piaceri e le soddisfazioni della vita presente, tutti gli onori e le grandezze, tutti i tesori, ogni cosa insomma desiderabile, non è ancora che formarcene in mente un' idea imperfettissima; vincendo la realtà di quello stato di gaudio quanti desiderii e quante brame sappia accendere in sè l' uman cuore. Allorquando adunque l' umanità nostra si sente oppressa nel suo dolore, concediamole pure il suo sfogo, mia veneratissima signora Marchesa; ma poscia ritiriamoci dentro noi stessi, e nell' anime nostre, dov' è stata infusa la fede col santo Battesimo, troveremo insieme con questo lume divino un grande sollievo, un immenso conforto. Oh come le cose cangian di aspetto al lume della fede! oh come questo lume di soprannatural verità tramuta i mali più intollerabili alla natura, in argomenti d' indicibil letizia! E nel vero, facciamo un po' tacere in noi questa cieca nostra natura, per contemplare in quella vece silenziosi al lume di santa fede, quale di presente dobbiamo noi sperare che sia la persona amata che piangiamo perduta. La vedremo noi forse pentita e dolente di aver abbandonata la terra? Anzi ella se ne chiama felicissima, benedice quel prezioso momento, nel quale lasciò questa valle di lacrime e ruppe quei ceppi della carne che le impedivano di goder pienamente il suo Dio, e nel quale uscì per sempre da ogni battaglia di spirito e da ogni sofferenza di corpo: ella ora guarda in giù ed ha compassione di noi, che ci vede ancor nell' esilio, e sorride alla nostra semplicità scorgendo che, compassionando lei felice, spargiamo lagrime amare e meniamo lamenti di tanto suo bene. Non rifiuta ella l' amor nostro, ma vorrebbe comunicarci un po' del suo; vorrebbe comunicarci di quel lume intellettivo, col quale ella apprezza tanto meglio di noi il vero valor delle cose: vorrebbe che noi potessimo uscir colla mente e col cuore dai limiti di questo mondo sensibile, e che sull' ali dello spirito salissimo sino a lei, infino alla sua gloria, infino al suo trionfo, e che colassù, invece di gemere oppressi dal dolore, godessimo insieme con lei del suo gaudio, del suo regno che è quello di Dio medesimo. Ecco quanto brama ora da noi la nostra buona dama, innalzata al grado di regina, e di regina celeste; perocchè tal grado sortono tutti in Paradiso gli eletti. Riprendiamo adunque salutarmente, mia venerata Marchesa, la nostra umana sensitività, dicendo a noi stessi: come sarebbe assai strano che una sorella piangesse l' altra sorella perchè la vede trascelta alle nozze di un re, così egli è assai più strano che noi piangiamo sull' avventurata sorte di un' anima che abbiamo ragione di credere eletta sposa di sua Divina Maestà. Egli è vero, che ci si farà innanzi eziandio il pensiero che, non ammettendosi nella reggia del Cielo niente che porti il minimo segno di terra, che serbi la minima macchia od adombramento, ed essendo pur tanto grande la umana infermità e fragilità, possiam dubitare che anco all' anime che ci paiono le più monde, uscite di questa vita rimanga tuttavia qualche imperfezioncella a rimondare nel purgatorio. La grande stima che noi portiamo ai cari defunti non ci renda adunque meno solleciti a suffragarne le anime con sagrifizi e preghiere, e da parte mia ho celebrato a tal fine questa mattina per la cara estinta, e le feci fare altri suffragi. Ma da una parte questi stessi suffragi che rilevano l' efficacia loro dal sangue di Cristo, il cui merito è infinito, debbono esserci nuovo motivo di consolazione, pensando che il buon Dio ci ha voluto dare anche questo soccorso, prova della tenerezza che egli ha per le sue inferme creature; dall' altra possiam riflettere che le anime sante del Purgatorio, benchè patiscano, patiscono però sì volentieri, che elle non vorrebbero mai accettare il partito di ritornare su questa terra, e sono veramente felici in isperanza, onorate dagli angeli perchè sante, piene di dignità perchè spose di Dio: la gloriosa loro destinazione è assicurata per sempre, non si tratta che d' un po' di ritardo posto al sospirato momento, in cui venga lo Sposo divino, e tutte belle e lucenti le introduca nel suo talamo, a' suoi amplessi. Entriamo adunque nei sentimenti di quella che noi amiamo e che a torto piangiamo; e ci si cangierà la scena; ci cadranno piuttosto lagrime di dolce letizia per la sua felicità che di dolore per la nostra solitudine. Sarà questa una prova che le daremo di vero amore, cioè d' un amore spirituale e sublime, e troppo a lei più caro di quello della natura; chè ella non desidera oggimai da noi, se non il nostro vero bene, e si rallegra solo in veggendoci fare atti di virtù, di rassegnazione, di fortezza, di uniformità perfetta al divino volere, di rendimento di grazie a Dio che in ogni cosa è buono egualmente, e che tutto dispone collo stesso amore infinito per noi. Che se noi oltracciò piglieremo questo avvenimento, sì grave al cuore di carne, come un' occasione dataci dal Signor nostro ed un avviso acciocchè ci disinganniamo vie più delle cose terrene, e ci innamoriamo delle celesti, ed a queste ci prepariamo; oh quanto renderemo contenta quella che ci ha preceduti nel gran viaggio! Ella altro non vuole da noi, altro non aspetta, altro non ci domanda: ed altro non domanda altresì per noi al celeste suo Sposo. Che se noi dopo di ciò, dopo tutti questi riflessi, sentiamo tuttavia quaggiù un vuoto difficile da riempirsi; se di quando in quando quasi senza accorgerci, cerchiamo col cuore e cogli occhi il noto volto, le care parole, la dolce consuetudine di Colei che ci fu tolta; se all' improvviso ella ci si affaccia alla mente come per dirci che non c' è più, che non la rivedremo mai più in questa vita; e se questo pensiero che ci restituisce di nuovo in vita Colei che è morta, per rapircerla subitamente, questa imaginazione che ci mette lì come ancora esistente e parlante quella con cui eravamo soliti di passare tante ore, per dissiparci un momento dopo crudelmente la cara illusione, se tutto questo ci stringe il cuore e ci manda agli occhi delle lagrime involontarie; e che per ciò? Non inquietiamoci punto; chè non sarà per questo meno perfetta la nostra rassegnazione, men piena la nostra conformità al divino volere. Fino che viviamo in terra, noi siamo pur troppo due esseri in uno: e questi due esseri, la carne e lo spirito, combattono insieme: ma la battaglia adduce la vittoria, e la vittoria reca alla corona. E` l' orazione, mia signora Marchesa, che ci conduce alla vittoria dello spirito; come è il tempo che medica le ferite profonde, di cui si risente la carne. Godo che il mio buon abate Molinari sia stato in Torino in questa occasione ed abbia potuto colle sue parole contribuire a consolare tante persone afflitte: egli ha un cuore dolcissimo ed è pieno di quella carità, che val meglio di ogni balsamo in tali occasioni. M' imagino anche il dolore del mio carissimo marchese Gustavo, rientrando massimamente in famiglia. Sono stato sfortunato quest' anno per non averlo potuto aver meco a Stresa qualche giorno, come avrei desiderato e m' avea fatto sperare. Ora dovendo io partire in sui primi di settembre per Bergamo, dove debbo dettare gli spirituali Esercizi a quel Clero; nè posso recarmi a Torino, nè posso sperare di rivederlo a Stresa quest' autunno; ben prevedendo che in ottobre egli farà la sua solita campagna. La prego, mia venerata signora Marchesa, di presentare i miei ossequi al signor Marchese, alla signora Marchesa madre, alla signora Duchessa ed ai suoi figliuoli; e di partecipar loro ad un tempo i sentimenti dell' umana mia condoglianza per la perdita fatta, e più ancora quelli della spirituale consolazione, co' quali ho procurato di attemperare, scrivendole la presente, il mio ad un tempo ed il suo dolore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ho ricevuto le vostre due lettere da Lione e da Londra, e ho ringraziato di cuore il Signore, e l' Angelo suo, che v' abbia sì felicemente condotto. Rispondo alla prima intorno a ciò che dite sulla facilità di ricevere all' Istituto. Vi posso assicurare che il desiderio di accrescere il numero dei nostri non mi muove a ricevere alcuno. Sono contentissimo del piccol numero che ci manda il Signore: vedo anche in questo la sua sapienza e bontà; l' adoro e ne giubilo. Vi spiegherò dunque le massime che io tengo in ciò, e che sono conformi a quelle delle nostre « Costituzioni ». Io distinguo fra il ricevere in Casa e il mandare avanti nei successivi gradi dell' Istituto quelli che abbiamo ricevuti. Quanto al ricevere semplicemente, ricevo tutti quelli che domandano e che mi lasciano qualche speranza di riuscimento. Questa speranza me la danno tutti quelli che nella prima prova dichiarano e promettono di intendere e praticare le cose contenute nelle « Massime » e nel « Memoriale della prima prova », senza ch' io abbia una ragione positiva da dover giudicare assai probabilmente il contrario. Le ragioni che mi muovono ad essere così facile nella prima ammissione sono le seguenti: 1 Temo assai di giudicare temerariamente de' miei fratelli, onde inclino sempre a presumere bene di essi, e, piuttosto di fare il contrario, mi espongo volontieri ad essere ingannato, a sostenere delle spese, a patire degli incomodi. Non mi sono mai pentito di aver operato così: questa condotta mi reca una gran pace e consolazione interiore: e il Signore non ha mai permesso che gl' inganni che mi sono stati fatti, avessero ree conseguenze. 2 Parmi questa una maniera di imitare la bontà di N. S. Gesù Cristo, il quale dice: « et venientem ad me non eiiciam foras »: parole che ci mettono davanti a questo proposito le Costituzioni, e che citano pure allo stesso proposito le più celebri regole de' santi Fondatori. E` vero, che molti vengono a noi coi piedi e non col cuore; ma non posso io giudicare che facciano così, fino che non ho delle prove positive. D' altra parte, io considero la venuta a noi d' un fedele di Cristo sotto due aspetti: come mandato acciocchè forse egli diventi un membro dell' Istituto, e come mandato acciocchè l' Istituto eserciti verso di lui la carità. Essendo tale lo spirito dell' Istituto ch' egli vuol accettare, purchè possa, tutte affatto le occasioni che gli presenta la Provvidenza d' esercitare la carità; anche questa, dico io, n' è una; accettiamo dunque questo fedele di Cristo, ed usiamogli intorno tutta la carità possibile del corpo e dell' anima. Il N. S. Gesù Cristo vedrà di buon occhio che noi facciamo così con colui; e l' Istituto non ne avrà da questo scapito, ma vantaggio di buone opere. Il fratello che venne a noi sentirà intanto la parola di Dio; e quand' anco egli non riesca nostro membro, egli porterà via quel seme che forse frutterà un giorno nel suo cuore. 3 Quanto l' Istituto è alieno dal cercar cosa alcuna di proprio moto, altrettanto egli si propone di esser attento e premuroso di non trascurar niente di quel bene che gli offre la divina bontà, andando incontro premurosamente alla Provvidenza divina, non risparmiandosi in nulla per secondarla. Or se io rimando un aspirante senza esser certo che gli manchi la vocazione, non m' espongo io a rifiutare forse un dono che mi voleva fare la divina bontà? Uno dei segni della Provvidenza è la domanda del prossimo. Dunque, se un mio fratello in Cristo mi domanda, e non ho ragioni positive in contrario, io debbo accoglierlo non solo, ma affaticarmi con pazienza e carità intorno a lui, e durar tanto in questa fatica fino che mi sono persuaso che egli non può riuscire membro dell' Istituto: allora solo io sono giustificato davanti a Dio, se lo licenzio; ed anzi debbo tosto licenziarlo. Ma se l' Istituto non fa tutto quello che può da parte sua con pazienza longanime per formare quell' aspirante, istruendolo, educandolo, provandolo, non deve sempre temere di essersi da sè stesso privato di un membro che Iddio gli volea forse dare, ma gliel volea dare a condizione che sel guadagnasse col merito delle fatiche, coll' orazione per lui fatta al trono della sua Maestà? Perocchè, stiamone certi, Iddio vuole, non che aspettiamo da lui le cose belle e fatte per intero, ma che ce le procacciamo coi nostri sudori, che egli è pronto a benedire, se li spandiamo con viva fiducia in lui solo. Niente, niente trascuriamo mai per indolenza da parte nostra: « particula boni doni non te praetereat », dice la sacra Scrittura. Queste massime vorrei io seguite con semplicità da ogni Superiore dell' Istituto che ha facoltà di accettare gli aspiranti: queste sono le massime delle Costituzioni. Resta a farne l' applicazione; e questa riesce diversa nelle circostanze diverse, restando le massime sempre le stesse. A ragione d' esempio egli è certo che un Superiore può avere maggior lume di Dio da conoscere prontamente chi è chiamato e chi non è; e in tal caso, avendo maggior lume, potrà anche non accettare o licenziare più prontamente gli aspiranti che giudica inetti. Ma i Superiori debbono diffidare in questo di sè stessi, non dando luogo a giudizi suggeriti dalla fantasia, che è la madre dei giudizi temerari; ed è più sicuro il procedere per via di ragioni intellettive e positive, ricorrendo anche al giudizio dei consultori, ai quali, appunto perchè ne sento il bisogno, io sempre, quando posso, ricorro. Un' altra varietà cade nell' applicazione delle dette massime, a cagione delle circostanze esterne. Se queste fanno sì che il ricevere gli aspiranti di riuscita dubbiosa sia di troppo gran peso e danno all' Istituto, come sarebbe in Inghilterra, dove mancano i mezzi di esercitare verso essi la carità temporale e spirituale, si deve certamente restringersi a ricevere i migliori e di vocazione più chiara. Aggiungasi ancora un' altra osservazione, che m' era scappata, su quello che voi dite intorno all' ingegno ed altre doti di cui bramereste forniti i nostri. Il vero scopo dell' Istituto, che non si deve mai perdere di vista, si è la santità. Tutto il resto dobbiamo riputarlo niente affatto; e dobbiamo avere speciale tenerezza per i nostri fratelli poveri, difettosi secondo la carne, e anche idioti. Vi assicuro che a me è tanto caro il più semplice e plebeo dei nostri fratelli, purchè sia buono e santo, quanto il più dotto, di nobil lignaggio ed avente splendide doti in faccia al mondo; ed anzi più quel primo, se ha più virtù, standomi in mente l' amore che portava Gesù Cristo ai poveri ed agli spregiati. Penso dunque che dobbiamo ricevere tutti gli uomini di buona volontà nell' Istituto. E` vero che quanto più i nostri compagni hanno ingegno ed altre doti anche esterne possono fare più del bene al prossimo, se sono buoni, e possano fare andar più avanti l' Istituto. Ma io mi contento che si faccia al prossimo tutto quel bene che si può, e che l' Istituto vada avanti come può. Accogliamo tutti i mezzi, tutte le doti, tutti i talenti che ci dà Iddio; non ne vogliamo di più, ma nello stesso tempo non ne rifiutiamo nessuno; e dopo raccolti questi talenti colla maggior cura perchè niuno ce ne cada di mano, traffichiamoli tutti colla maggior industria e fedeltà possibile. Tutti i talenti vengono buoni all' Istituto, anche i più piccoli e di minor conto, perchè l' Istituto non ricusa nessun' opera di carità. Chi non è buono da fare il predicatore, sarà buono da far l' infermiere; e chi non avrà destrezza di trattare un negozio o dottrina da comporre un libro, verrà utilissimo come maestro di scuola, foss' anco per insegnare l' abbiccì. Vengo ora al secondo punto, cioè alle massime che soglio tenere, quando si tratta di promuovere gli aspiranti a de' gradi ulteriori. Quanto mi sembra di dover facilitare in ricevere gli aspiranti, altrettanto stimo bene di essere rigoroso nel promoverli ai successivi gradi. Come non ricuso nessuno senza avere delle ragioni positive per rifiutarlo, così stimo essere assolutamente necessario di aver delle ragioni e prove positive che l' alunno abbia le qualità richieste al grado, prima di promuoverlo ad esso. Se l' alunno dà delle prove positive di non essere chiamato, non indugio un solo istante a licenziarlo, tosto che abbia potuto su quelle prove formare un giudizio prudente: se non mi dà prove positive nè per l' una parte nè per l' altra, porto pazienza, procurando che gli sia usata ogni carità d' istruzioni, d' eccitamenti, fino che possa aversi un ragionevole scioglimento della cosa. Abbiamo avuto persone in Casa per lungo tempo senza che neppure siano state ammesse al Noviziato. La trafila per cui devono passare i nostri è lunghissima, come sapete, vi ha tempo di conoscerli, e possono essere sempre licenziati. Così operando, parmi che non debbano seguire quelli sconci che voi temete; e quantunque s' abbiano degli incomodi e dei piccoli danni da questo procedere, conviene riflettere, che il volere evitare tutti gl' incomodi e i danni non è un buon principio, secondo la perfezione e semplicità evangelica; ma è un principio che ha dell' umano. Siamo pazienti e longanimi, e il nostro Signore ci proteggerà. Col dirvi questo, non intendo scusare tutto ciò che è stato fatto; ma unicamente esporvi le massime che generalmente parlando ho seguìto, e che potrò seguire più pienamente in progresso. Nei cominciamenti di un Istituto vi sono molte difficoltà che non si preveggono. Raccomandiamo adunque al Signore Iddio l' Istituto, e poi andiamo avanti semplicemente e con coraggio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sentendo i vostri sentimenti, quali me li esprimete nella lettera vostra, e la fiducia che Iddio v' ispira al cuore di dovervi consecrare tutta a lui solo in servigio de' prossimi, io non dubito punto che siate chiamata, come dite, all' Istituto della Provvidenza. Queste Suore fanno appunto quello che vi proponete far voi, una rinunzia totale al mondo e ad ogni sua lusinga, un sacrifizio totale di se stesse, per servire Gesù Cristo, sposo delle anime loro, ne' prossimi, attendendo specialmente all' eterna salute di questi. Un' umiltà profonda, un' annegazione continua, una perfetta ubbidienza, una carità ardente, uno studio d' imitare in tutte le cose il divino loro Maestro: ecco a che si riducono le loro regole. Nessun' opera di carità è aliena dal loro Istituto: quella poi a cui attendono con più cura presentemente, si è l' educazione delle fanciulle povere e ricche, per le città e per le ville, dove la divina Provvidenza le vuole. Esse si compiacciono del titolo di povere serve delle serve dei poveri . Professano la povertà per imitare anche in questo Gesù Cristo, fanno i tre voti, da prima ogni anno (dopo il noviziato) e poscia di tre in tre anni, finalmente anche perpetui, se i Superiori lo permettono. Se questa adunque è la via a cui vi sentite chiamata, fatevi coraggio; chè non manca il Signore di aiutar sempre le anime, che lo scelgono per unico loro bene, signore, maestro, esempio e sposo. A lui alzate le vostre voci, domandategli la grazia di poter consumare il vostro sacrificio a imitazione sua sulla croce santissima della religione, confittavi co' tre chiodi de' sacri voti; e poi lasciate fare a lui: vi esaudirà certamente, vi aprirà la via soavemente, sarete consolata: ma quando? Questo egli solo lo sa: a voi appartiene solo il desiderare, il pregare, il sospirare notte e giorno verso lui con rassegnazione e tranquillità. Egli vi ha dato un buon padre terreno, che può anche farvi da padre spirituale. Qual grazia non è già questa! Aprite tutto il cuore con vostro padre. Appena che gli avrete date prove della vostra solida virtù; appena che si sarà convinto che non è il vostro un fervore passeggiero, ma una vera vocazione divina; son persuaso, che non avrete più bisogno della mia mediazione: egli da se stesso vi condurrà a me, ed io vi riceverò fra le povere serve e felici spose del Signore. Rassegnazione adunque e preparazione al gran passo. Conviene prepararvisi con tutta la maturità, la considerazione, l' orazione, il santo affetto, la pratica d' ogni virtù. Io so che lo farete, e perciò non dubito punto del buon esito: MARIA Santissima, a cui sono tanto devote le Suore della Provvidenza, v' accoglierà nella sua famiglia: la farò pregare anche a questo fine. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Noi dobbiamo guardarci assai di non far torto a quell' infinita bontà e misericordia di Dio, che vince gli ostacoli stessi che noi poniamo coi nostri mancamenti e peccati alle copiose sue grazie; quando noi facciamo due cose, cioè SPERIAMO e PREGHIAMO. Ah dolcissima speranza del mio Signore che niuno confonde! oh preghiera potentissima! Io non vorrei che vi lasciaste dall' inimico rinserrare mai il cuore, quando Iddio anzi vuole che lo dilatiamo, perocchè « viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum ». DILATAZIONE adunque di CUORE: ecco ciò che sopra ogni altra cosa vi raccomando. Noi siam cattivi, ma Iddio è INFINITAMENTE buono. Oh quanto poco si pensa a questa parola INFINITAMENTE! Se ci si pensasse, non cadrebbero a terra tutti i nostri timori? non ci terremmo sicuri della vittoria sopra tutti i nostri nemici? non diremmo: « si exurgat adversum me praelium, in hoc ego sperabo »? Non ci lasciamo adunque ingannare dall' inimico che tende talora a spargere la tristezza nei nostri cuori, angustiandoli col pretesto talora di compungerci dei nostri peccati. No, la compunzione nostra sia sempre congiunta ad una INFINITA SPERANZA; perchè questa è ragionevole, e perchè Dio la gusta dalle sue creature. Guai a confidare in noi stessi! ma quanto al nostro Dio non ci stanchiamo di dire: « In te Domine speravi, non confundar in aeternum », e di ringraziarlo: « Quoniam tu Domine singulariter in spe constituisti me ». Chi spera è forte, chi spera può tutto; quest' è àncora immobile, quest' è arma invincibile. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ella m' onora colle sue domande più ch' io non merito. Non le direi certamente cosa ch' ella non sappia: e tuttavia per ubbidire a quanto m' ingiunge nella cara sua non tralascerò di accennarle, che a mio parere il maggior studio a cui dee applicarsi chi predica a' giovanetti, si è quello di far loro ben intendere la religione, che sol intesa è amabilissima per sè stessa. A tal uopo è più necessario che non si creda, che l' istruttore religioso studi assai prima di tutto per intenderla a fondo egli stesso: il che non è piccol affare trattandosi d' un sistema ampiissimo di dogmi misteriosi e di precetti sublimi. Forse quel volume che io ho stampato col titolo di « Catechetica », le potrà somministrare qualche concetto. Ma dovendo ella, come sento, spiegare il Vangelo, non potrà osservare un ordine di connessione nelle materie. In tal caso ogni ragionamento fa quasi un tutto da sè; e può egli solo esser chiarissimo e semplicissimo. La somma chiarezza e semplicità dello stile fa poi luogo all' affetto; e in niun esemplare si dee più guardare che nello stile del Vangelo. Poche idee alla volta, ma sublimi; pochi sentimenti, ma generosi. Oh quanto bene risponde a questi il cuore del giovanetto! Non ha bisogno che d' intendere la verità per amarla, che di vedere la virtù per eleggerla. Ma di solito la verità si copre di troppe vesti, e volendola troppo spiegare, s' oscura; la virtù poi si falsifica per troppe distinzioni umane, e la s' impiccolisce sperando così di renderla agevole. E pure l' animo innocente anela più tosto d' ergersi a volo, che di serpeggiare per terra. Se nel cuore d' un giovanetto si giunge a inserire un sentimento nobile ed elevato, la riuscita di lui può dirsi assicurata. E` dunque un errore quello di sdolcinare soverchiamente l' austerezza della virtù, e di abbassarne l' altezza: privata della sua eccellenza non più esige un santo entusiasmo; spoglia della sua maestà non riscuote più ammirazione, nè attira a sè l' uomo creato per l' infinito. Io vorrei che si parlasse ai giovanetti sempre in modo come si trattasse di farne degli eroi. Con questo pensiero non ha a far niente lo stile gonfio, ampolloso, concitato: anzi un tale stile produce l' effetto contrario. Il grande e lo squisito dee consistere nelle cose; del resto la dote precipua delle parole e mai studiata abbastanza, nel caso nostro è la chiarezza: chiarezza di elocuzione, chiarezza di pensieri, chiarezza d' ordine. Il conseguimento d' una dote che par sì facile costa sudori, meditazioni, prove e riprove, pertinacia di tentativi: è uopo che s' abbia in testa il tipo della perfezione, e nell' animo la volontà risoluta di conseguirla. Cose scritte per la gioventù ve ne sono tante, e molte di buone; io difficilmente potrei indicargliene di quelle ch' ella non conosca; e conoscerà senza dubbio anche il libricciuolo intitolato « La gioventù dabbene » stampato dal Pogliani in Milano. Vi ha in que' sei discorsetti un cotal principio di ciò che io voglio dire, ma ancor lontano dal perfetto. Del resto, come le dicevo, io non ho a dirle che quelle cose che ella già sa, e che d' altra parte non si possono restringere in breve lettera. Presenti, la prego, i miei cordiali saluti a' Padri Villoresi e Dalla Via, e i miei ossequi al M. R. P. rettore di cotesto collegio; e mi raccomandi al Signore. Godo di sentire, che i due valorosi giovani Dandolo e Gazzola approfittano, e benchè non li conosca, ho già cominciato ad amarli sulle sue parole. [...OMISSIS...]

Epistolario ascetico Vol.III

632687
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Lungi adunque il timore, la trepidazione, la riflessione soverchia su tali cose, gli esami di coscienza troppo minuziosi; e invece studio grande della libertà santa di spirito , e pensieri di cose allegre, come dell' infinita bontà di Dio e del paradiso che ci aspetta, moderata ricreazione e sollievo anche di corpo, abbandono di se stesso pienissimo nelle braccia della divina clemenza, e confidenziale trattenimento colla dolcissima Madre delle speranze Maria santissima. Deh non dubitiamo, caro Padre! Ringrazi di tutto Iddio che sta seco e la conduce per sicura via agli eterni suoi amplessi. Deh! si ricordi di quello che ha la temerità di scriverle queste cose, le quali dovrebbe impararle a tanta maggior ragione da Lei. Ma Ella lo volle, e però quello che sarebbe in se stesso temerità, me lo cangia in obbedienza. Le bacio la mano e La prego di benedirmi. [...OMISSIS...] 1.43 La venerata sua lettera del 21 luglio mi ha colmato ad un tempo di consolazione e di confusione. E come non sarei consolato, sentendovi dentro espresso il cuore di Lei, Monsignore, ardente di tanta carità pastorale? E come potrei non essere confuso, veggendomi trattato con sì esuberante gentilezza? Mi sembra veramente da tutto ciò che Ella mi dice, che il Signore l' abbia trascelta e mandata in cotesta Diocesi per de' gran fini, perchè vi faccia grandi opere di sua gloria. Già Ella tocca tutti i punti principali, che un Vescovo può prender di mira per operare la riforma e far fiorire la propria Diocesi: Seminario, istruzione ed educazione ecclesiastica, culto, confessionario, catechesi e istruzione popolare, riforma de' privati e pubblici costumi. Ella di più, conscia che un Vescovo è azione, non teme, ma spera che dopo gli osanna vengano i crucifige , sapendo che il discepolo allora è perfetto quando è simile al maestro; il che è quanto dire, che il Signore, insieme allo spirito di sapienza per concepire, Le ha infuso altresì quello, non meno necessario ad un Vescovo, di fortezza per eseguire. A tutta ragione Ella dà il primo luogo tra le sue cure a quella del Seminario e della formazione del suo clero: da questo, come da primo anello, dipende ogni cosa. Nel che parmi che il punto principalissimo a cui tendere, sia quello di formare un clero santo ; poichè, ottenuta la santità, vengono da sè quali conseguenze la prudenza e la scienza. A tal fine l' uso della meditazione giornaliera secondo un buon metodo, gli Esercizi spirituali , una disciplina rigorosa , che tenda a segregare i chierici dal mondo, conservarli nel raccoglimento e innamorarli della casa di Dio e del culto che vi si esercita, sono i mezzi adoperati dai santi vescovi, e giustamente presi da Lei in mira. La separazione de' chierici dai convittori secolari, come ottimamente Ella osserva, è indispensabile per poter dare ai primi un' educazione consentanea alla sublime lor vocazione. Eccellenti sono i due libri ascetici, ch' Ella accenna, come mi sembrano pure eccellenti le meditazioni del Da Ponte ridotte in compendio e stampate di recente in Lione in due volumi, il libro « Dello spirito e dei doveri degli ecclesiastici » del prevosto Riccardi, le compendiose operette del Tronson e dell' Arvisenet, il « Thesaurus Sacerdotum et clericorum », e somiglianti. Ma sopratutto sarà d' uopo provvedere il Seminario d' un eccellente Direttore spirituale, che alla santità e allo zelo congiunga una bella mente, per mezzo del quale anche i buoni libri ascetici si propagano e diventano fruttuosi: dovrebbe essere uomo di autorità, la prima persona dopo il Rettore, non molto vecchio, acciocchè sia attivo. Con lui dovrebbero trovarsi in piena armonia il rettore e i maestri. Parmi che a tali posti si dovrebbero eleggere le persone migliori, sostenendole poscia il Vescovo con certa onoranza e con stipendi i più abbondanti che per lui si possa; acciocchè i buoni ingegni, collocati da giovani nel Seminario in officio di maestri o d' altro, vi prendano affetto, amino d' invecchiarvi, formino insieme come una famiglia ecclesiastica e scientifica, come seppe fare appunto il B. Barbarigo nel suo celebre Seminario di Padova. Non mi sembra utile, generalmente, che dai posti del Seminario passino i sacerdoti alle parrocchie, ma piuttosto che dalle parrocchie i migliori passino ai posti del Seminario; e che sia poi provveduto bene per la loro vecchiaia, venendo, a ragion d' esempio, provveduti in età avanzata di buoni canonicati, o nominati consiglieri del Vescovo, se v' è il costume che il Vescovo si nomini dei consiglieri anche fuori del Capitolo. Infatti par sommamente utile che il Vescovo si prepari e tenga vicino a sè un consesso, piccolo o grande secondo la Diocesi, d' uomini dotti da consultare; e niun luogo dove vivere uniti è più acconcio dello stesso Seminario. Tutto ciò che tende a congiungere il clero col Vescovo e fra sè, giova insieme a dividerlo dal mondo, a renderlo più istruito colla comunicazione scambievole delle dottrine, e più uniforme nelle opinioni morali, e a conservare la disciplina e i buoni costumi; poichè i sacerdoti che trattano molto insieme, si custodiscono e aiutano scambievolmente; specialmente se i più specchiati e meritevoli sieno dal Vescovo onorati con imparziale giustizia, e per l' autorità loro conciliata opportunamente divengano altrettanti centri intorno a cui s' adunino gli altri. Dove si può far sì che i parrochi non istieno soli, ma abbiano de' cooperatori, e questi convivano nella casa parrocchiale, ella riesce sempre cosa utilissima. Le conferenze dei casi esattamente regolate, e il nominare de' Vicari foranei eccellenti, dando loro molta autorità, e ispirando al resto del clero rispetto per essi con una ben regolata subordinazione, sono del pari mezzi che influiscono a rendere il clero unito, forte, istruito. All' utile unione del clero conduce certamente tutto ciò che introduce in esso un ordine, una più distinta gerarchia, una stabile organizzazione in somma; la quale non si può ottenere, senza molta subordinazione e umiltà da una parte, e merito reale con autorità dall' altra. I sentimenti di umiltà e di subordinazione non possono infondersi che nel Seminario, quando il clero è ancor giovane, e facilmente si presta a riceverli, concependo allora assai facilmente rispetto e stima ai seniori. E benchè convenga conservare nel clero questa virtù della subordinazione e dell' umiltà, coll' esercitarlo in una continua dipendenza nelle cose giuste dal Vescovo, dai Vicari, dai parroci, dai seniori; tuttavia questa dipendenza divien facile solo allora quando le persone verso cui si dee praticare sono scelte d' un merito reale. Perciò Ella troverà, credo, importantissima cosa che il Prelato usi somma imparzialità nelle elezioni alle cariche, non eleggendo secondo altro principio che secondo quello del merito e delle prove avute della idoneità; evitando particolarmente di costituir parrochi i giovani sacerdoti appena usciti di Seminario, ma esercitandoli prima qualche tempo nella cura d' anime come cooperatori di valenti parrochi provetti, che li possano praticamente ammaestrare e dirigere. Usano anche in alcuni luoghi di conchiudere gli studi teologici del Seminario con una scienza che chiamano Pastorale , nella quale s' insegnano tutti i doveri dei parrochi, applicando all' officio parrocchiale le cognizioni teologiche precedentemente ricevute; il che mi pare utilissimo quando sia fatto a dovere. Di questa scienza un bel compendio è quello fatto dal P. Mauro Schenkl, di cui vennero fatte diverse edizioni in Germania, e che forse a Lei sarà noto. L' arte del catechizzare entra come una parte nella scienza pastorale. Ma è importante che fin da principio i chierici vi si esercitino e ne prendano amore: il che facilmente s' ottiene spiegando loro l' eccellenza di questo ministero, e dando loro delle guide che in esso li dirigano. Giova sopratutto un buon Catechismo diocesano, ed io provo co' fatti che l' esser disposto secondo l' ordine delle idee spiana incredibilmente la via a' catechizzati ed agli stessi catechizzatori. Stimo poi che non si possa mettere in buono stato l' insegnamento del Catechismo nelle parrocchie, senza introdurvi la congregazione della dottrina cristiana, adattando alle circostanze e modificando i noti regolamenti di san Carlo Borromeo, di cui vidi ottimi effetti nella mia parrocchia sopra più di mille fanciulli distribuiti in varie classi, che concorrevano all' istruzione. Nella Pastorale , come s' insegna ai chierici o ai giovani sacerdoti l' amministrazione di tutti i Sacramenti, così si dà loro la pratica del confessionale. Magnificar loro l' ufficio di confessore, l' immensa importanza di esso per la salute dell' anima, il merito di chi fedelmente l' amministra e l' aiuto che vi trova alla santificazione propria: renderne meno spinoso l' esercizio con idee chiare di principii, ed uso frequente di risolvere casi: dare i confessori più provetti e zelanti in esempio e guida a' più giovani: applicare lodi e premi a quelli che mostrano più zelo in tal ministero; sono altrettanti mezzi per metterlo in onore e farlo fiorire. Quanto alla riforma del popolo, Ella tocca il punto capitale de' matrimoni, che sono il principio e il fondamento delle famiglie, e non può esservi cura soverchia a fine di ottenere che si contraggano santamente. Se tutti i parrochi, avvisati appositamente dal Vescovo, insisteranno dal pulpito, dal confessionale, e ne' privati discorsi sulla santità di questo Sacramento; se ammaestreranno il popolo circa le disposizioni necessarie a riceverlo santamente; se faranno conoscere i beni provenienti alle famiglie da un matrimonio santo, e i mali e le sciagure di un matrimonio disonesto; se chiameranno su di ciò l' attenzione de' genitori, gravando la loro coscienza della libertà di conversare conceduta ai loro figliuoli con persone d' altro sesso; se prima d' ammettere al matrimonio esigeranno con rigore dai giovani che sappiano di catechismo, e che ricevano per tempo il sacramento della confessione: non v' ha dubbio che s' otterrà la riforma desiderata. Ma molto influirà alla riforma del popolo il cominciare da missioni generali fatte fare successivamente in tutte le parrocchie da eccellenti operai evangelici, istruiti prima dal Prelato de' punti principali, su' quali debbano insistere, e in cui la riforma è più necessaria. Dopo i quali, servirebbe assai opportunamente la visita del Supremo Pastore della Diocesi, che colla parola e colla grazia confirmasse l' opera incominciata dai Missionari, corroborasse i santi proponimenti de' convertiti, facesse man bassa delle cattive usanze invalse in quelle popolazioni, e introducesse da per tutto per l' opposto opportune cristiane consuetudini. Ma ben sento, Monsignore, che non posso apparire che temerario, discendendo con Lei a tante particolarità; e tuttavia giacchè m' è corsa la penna, non voglio cancellare lo scritto fin qui, ma La prego di perdonarmi tutto ciò che vi avesse di sconvenevole in questa mia prolissità, volendo del resto accettar tutto in buona parte, in quello spirito di carità, nel quale Ella colla veneratissima sua mi richiese di esprimerle i miei sentimenti sopra i toccati argomenti. Vengo ora al punto, onde avrei dovuto cominciare, come quello che mi recò l' onore di entrare con Lei in questa ben avventurata relazione, voglio dire alla Società nostra. Faccia il Signore che questa Società possa prestarle qualche aiuto alla grand' opera ch' Ella si propone di far vieppiù fiorire nella sua Diocesi, la pietà, la carità, la dottrina. Credo che a Lei sia noto, che l' Istituto della Carità si compone di due principali sezioni di membri, la prima delle quali costituisce un Ordine religioso legato con voti d' ubbidienza al Preposito Generale; la seconda comprende alcuni pii fedeli, ecclesiastici e secolari, i quali non hanno voto d' ubbidienza, ma solo vincoli di carità e obbligo di mantenere i regolamenti fino a tanto che piace loro di rimanere nell' ascrizione. Questa seconda sezione che si chiama la Società degli Ascritti , serve a propagar il bene anche là dove per impedimenti esterni non si può introdurre l' Istituto religioso. L' Ordinario suol esserne il Protettore ed il Presidente dell' Ascrizione. E qui debbo rendere a Monsignore i miei vivi ringraziamenti per essersi degnata di formar parte di essa e di incaricarsi benignamente della presidenza in coteste parti: come pure della notizia che mi dà delle ottime disposizioni del suo clero ad unirsi con un cuore solo con noi, disposizioni dovute certamente alla pietà del Pastore. La Società degli Ascritti convien considerarsi nel suo principio e nel suo progresso . Nel suo principio ella è una Società così larga e generale, che ogni pio cristiano vi può appartenere. Per lasciar aperto l' adito a tutti i buoni cristiani di unirsi in essa, fu necessario non mettervi vincoli od obbligazioni di coscienza; è dunque un' unione di spirito, una comunicazione di buone opere spontanee, una cristiana amicizia o fraternità. Ma questa unione generale non impedisce che i più ferventi membri di essa facciano di più, e anche si leghino a cose di maggior perfezione; chè anzi ciò si desidera e si riguarda come il natural suo progresso o sviluppo. Quindi la Società generale e comune, buona per sè stessa, ed utile perchè unisce i fedeli in Cristo ed accresce la carità, i meriti, le buone opere, divien poi anche quasi terreno su cui si possono fabbricare cose maggiori, diviene il germe di altre Società più strette e determinate, che si chiamano sodalizi . Uno di questi sodalizi è indicato e proposto dai regolamenti, ed è quello che diciamo dell' Oratorio ; ma gli altri non sono predeterminati: e la ragione si è, che essendo vari i bisogni dei fedeli e delle Diocesi, e vari gli spiriti, si vuole che i sodalizi vengano formandosi da sè stessi nei vari luoghi opportunamente adattati alle circostanze ed all' istinto dello Spirito Santo, che muove gli Ascritti piuttosto a queste che a quelle opere pie e caritatevoli. Tutto ciò rileverà, Monsignore, dalle brevi Regole di cui le trasmetto un centinaio di copie, e ch' Ella, bramandolo, potrà quandochessia far ristampare. Così il Prelato che presiede a tutta l' opera, può dirigere meglio l' Ascrizione a quegli scopi determinati ch' egli nella sua saviezza crede più necessari. Alla formazione di un sodalizio non si esige altro, se non che quegli Ascritti che vogliono unirsi a formarlo, estendano le loro proprie Costituzioni d' accordo col Prelato e, trasmesse al Preposito generale, questi con suo decreto erige il sodalizio su quelle stabilito. Ella vedrà da tutto ciò, Monsignore, che cosa si potrà fare in cotesta sua Diocesi. Cominciandosi dal poco, si potrà con piccoli passi ma sicuri giungere al molto. Io me Le offerisco tutto alla sua ubbidienza, e mi troverà sempre pronto a' suoi ordini. Vorrei bene essere così fortunato da poterle dar mano in provvedere il suo Seminario di Rettore, di maestri, di prefetti; ma, se non m' inganno, osterebbe il governo Granducale a mandar costà dei religiosi di un Istituto da esso governo non per anco riconosciuto. Ma è ben tempo che finisca questa lunghissima lettera. [...OMISSIS...] 1.44 Quella persona di cui ella mi scrive dee ben mettersi in guardia dagli inganni della propria fantasia , della quale il demonio si serve per insinuare in essa lo spirito di superbia. Conviene che si faccia una legge di troncare i pensieri inutili come sono quelli che riguardano il futuro: questi sono pensieri frivoli e grandemente dannosi: l' uomo dee unicamente occuparsi del presente, e specialmente del presente suo stato morale, per conoscere i propri difetti ed emendarsene: allora solo egli cammina per una via sicura dalle diaboliche illusioni. Di poi, io vorrei consigliare quella persona ad acquistare un gran dolore ed orrore de' proprii peccati. Un sol peccato, una sola offesa di Dio è materia sufficiente per piangere mille anni. E che dico io mille anni? anzi per bruciare in eterno. Se una persona acquista questa cognizione e quest' orrore dell' offesa di Dio, sarà ben premunita contro la superbia, perchè un peccato solo, se l' uomo ben ne conosce la deformità, basta ad umiliarlo sotto tutte le creature, e a non più riputarsi che un mostro, la feccia della natura, un istrumento degno solo del fuoco. Ma sopra tutto poi esorterei e pregherei fin colle lagrime agli occhi una tale persona a guardarsi con somma cautela da tutte le occasioni anche minime di offendere la santa purità. Che se combattendo valorosamente colla fuga delle occasioni e con tutti gli altri mezzi che insegnano i maestri di spirito giugnerà a purgare la sua vita dall' immondezza, essa otterrà ben anco da Dio la grazia della santa umiltà. Ad un fine sì grande e sì importante per l' eterna salute, ad un fine, per ottenere il quale è necessario di fare ogni più gran sacrificio e di dare anche la propria vita, io suggerirei alla indicata persona due mezzi principali. Il primo sarebbe di ritirarsi dal mondo per dieci o quindici giorni almeno, per fare i santi esercizi colla maggior esattezza sotto un direttore di vero spirito e di celeste sapienza fornito, a fine di imparare in essi a conoscere sè stessa e a detestare le proprie colpe, acquistandone la giusta idea che l' uomo attigne, quando vi pensa, in faccia all' eternità, e quindi per finire la vita passata con una confessione generale, dopo la quale venga il principio d' una vita al tutto nuova. Il secondo mezzo sarebbe di scegliere per confessore un uomo veramente santo, confessandosi a lui spesso, e deponendo nel suo seno ogni debolezza, tentazione, o colpa; eseguendo puntualmente tutti i suoi consigli. Gioverebbe che tanto il direttore degli esercizi, quanto il confessore fosse un sacerdote ben conoscente della vita interna. Molti altri mezzi ci somministra la bontà del nostro Signor GESU` Cristo per abbattere la nostra superbia e tutta la illusione e la prepotenza delle nostre passioni; e prima di tutto ORAZIONE. Oh quanto non è possente questo mezzo per ottenere la grazia e i lumi che ci bisognano, qualora lo pratichiamo assiduamente e con affetto sincero! Io consiglierei la nota persona a darsi all' orazione più ancora che allo studio , e all' orazione vocale più ancora che all' orazione mentale; perocchè essa deve temere grandemente i giuochi della fantasia, che facilmente nella mentale s' intromettono. Oltre di che l' orazione vocale è propria dei semplici e degli idioti; e la detta persona dee studiar di farsi in ogni cosa, il più che possa, semplice e fanciullo, se pur vuole conseguire l' umiltà e reprimere lo spirito sì facile ad intumidire. La consiglierei tuttavia ad usare anco di libri opportuni, cercando di gustarli con tutto l' affetto d' un animo che vuole umiliarsi; e specialmente di rendersi famigliari il libro dell' « Imitazione », quello del « Combattimento spirituale », le « Confessioni » e le « Meditazioni » di S. Agostino, e le opere di S. Francesco di Sales. Le Confessioni di S. Agostino potranno ben eccitarla alla contrizione de' suoi peccati, se le legge con disposizione conveniente al fine. Gioverebbe assai che una tal persona anteponesse queste lezioni spirituali agli altri studi speculativi, che facilmente esaltano la mente e inaridiscono il cuore e sono tanto meno importanti per l' uomo che lo studio della propria eterna salute. « Quid prodest homini ! » Aggiunga ancora a tutto ciò la persona di cui si tratta, una somma vigilanza sui propri interni sentimenti, per reprimere tutti quelli che sapessero di presunzione e di superbia, introducendo e suscitando spesso in sè stessa i sentimenti contrari di diffidenza, di umiltà, di disprezzo sincero di sè, procurando di formarsi l' intima persuasione di non essere buona a nulla, se non a far male, e volenterosamente collocandosi al di sotto di tutti gli altri uomini. - Ella mi domanda se gioverebbe, che la detta persona facesse degli atti esterni per umiliarsi: ed io le rispondo che gli atti esterni fatti con sincerità sono utilissimi all' uomo che vuole vincere la superbia, e gli hanno fatti tutti i santi. Ma essi debbono venire dal cuore, debbono essere un' espressione sincera de' sentimenti interni, o almeno di quelli che si vogliono professare ed acquistare. - Finalmente cerchi di provvedere la propria mente di tutte quelle tante ragioni che dimostrano quanto sia ragionevole e giusta l' umiltà, e come l' uomo non possa mai abbassarsi ed umiliarsi di soverchio, dopo l' esempio di GESU` Cristo che dal cielo s' abbassò fino alla croce dolorosissima ed infamissima agli occhi degli uomini: di quelle ragioni ancora che dimostrano quanto sia ingiusto, empio, vituperoso, dannoso ogni orgoglio alla polvere ed al fango di cui siamo composti, e quanto renda l' uomo ributtante agli occhi di Dio. Alla umiltà giova immensamente la pratica di quella carità che brama di fare tutto il bene possibile al prossimo, e onde l' uomo dimentica affatto sè stesso per cercare i vantaggi degli altri. I ministeri di carità più bassi, come il fare il catechismo a' fanciulli e alle persone rozze, sopportandole amorevolmente, giova molto ad ottenere l' umiltà. Ma sopra tutto confidenza in Dio ed in Maria Ss. pari alla diffidenza di se stesso. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Il desiderio della conversione alla fede dei vostri compatriotti, ed anzi di tutto il mondo, è buono, purchè non sia tale che vi distragga dalla santa ubbidienza, la quale è ancora migliore; purchè non vi tolga dall' animo lo stato dell' aurea indifferenza, che altro non cerca che ciò che piace a Dio, e nel modo che piace a Dio; purchè non vi cagioni turbamento e sottragga quelle forze che devono essere da voi consacrate a Dio e impiegate negli uffizi che egli presentemente vi diede, acciocchè adempiendoli con perfezione e con semplicità, troviate in essi la vostra eterna salute. Egli è buono il desiderio che i vostri compatriotti e tutto intiero il mondo si converta alla vera fede, quando è veramente simile a quello che nutriva Mosè per la liberazione del suo popolo, il quale pregava Iddio che mandasse Colui che doveva essere mandato: « Mitte, Domine, quem missurus es »; ma nella sua profonda umiltà non pensava a se stesso; anzi quando Iddio lo volle mandare ne fu sbigottito, e nella sincerità del suo cuore pregò Iddio di dispensarlo dall' ardua missione più e più volte, rappresentandogli ch' egli era un povero balbuziente. E` buona anche la domanda che mi fate di far pregare per la conversione della Svizzera, e in questo con gran piacere vi esaudisco. Oh pregare! sì, questo lo possiamo fare tutti, lo possiamo fare sempre, e con tutta libertà. Gesù Cristo ce l' ha insegnato: « Rogate Dominum messis, ut mittat operarios in messem suam ». Considerate bene, mio caro Arnoldo, queste parole, considerate chi le diceva. Non poteva Gesù Cristo da se stesso mandare quanti operai avesse voluto nel campo evangelico? Poteva, e pur non volle: volle invece che i suoi discepoli impetrassero i celesti mandati dal suo Padre celeste coll' orazione. Tanto gli stava a cuore imprimere nella mente de' suoi discepoli la necessità della missione divina per le imprese evangeliche! Egli stesso dichiarò replicatamente di non essere venuto spontaneamente, ma di essere stato mandato dal suo Padre celeste. Senza questa missione è vano sperare alcun frutto. Guai a colui che pretende mandare se stesso! lungi dall' ottenere la salvezza degli altri, opera la propria condanna, perchè rimane convinto che la sua missione non è simile a quella di Cristo, il quale non venne se non mandato. Anzi l' uomo di Dio non pensa nè pure che possa cadere sopra di lui la missione; e se mai Iddio gliela dà, trema da capo a piedi, pena a persuadersi che sia vero, ne vuole prove replicate; la sola voce de' suoi superiori gli fa deporre i dubbi: e solo quando si è così certificato di essere da Dio inviato, s' incoraggia nella fede della sua parola, e opera animosamente, benchè sempre con timore di se stesso. Or che vi dirò io, mio caro Arnoldo, quando voi mi pregate d' inviare operai alla conversione della Svizzera? Iddio sa quanto ardentemente anch' io desidero la conversione di tante anime ingannate; ma vi potrei forse dire altro, o vi potrei dire di meglio, di quello che disse Cristo agli Apostoli: Rogate , anzi io metterò il verbo in prima persona, « rogemus Dominum messis ut mittat operarios in messem suam »? Pretendete forse che io vi dica di più? pretendete che io sia di più di nostro Signore? « Non est discipulus supra Magistrum ». Tutto quello che vi dicessi di più, sarebbe temerità, arroganza, inganno deplorabile che farei a me stesso ed a voi. Che se il Padre celeste, esaudendo le vostre e le comuni orazioni, mi dirà come disse agli Apostoli: « Segregate mihi Paulum et Barnabam »; se mi farà conoscere che alcuni dei nostri cari fratelli sono da lui destinati a tant' opera; credete voi che io aspetterò le vostre preghiere e le vostre suppliche per ispedirli? No, mio caro Arnoldo, non tarderò un momento solo ad ubbidire ai divini comandi. Ma i tempi e i momenti sono nella potestà di Dio, e le vostre preghiere fatte a me non potrebbero accelerarli: Iddio suole mandare i banditori evangelici alle nazioni, quando egli vede che già sono mature a riceverli, come già disse nel Vangelo: « Levate oculos et videte regiones, quia albae sunt iam ad messem (Io. IV) ». Al tempo della maturanza venne Cristo. Al tempo della maturanza fu scoperta l' America. Ogni nazione entra nella Chiesa solo quando è venuta questa sua maturanza che l' infinita sapienza di Dio conosce, ma che è del tutto occulta agli uomini, perchè in quel tempo, e solo in quel tempo, le invia i suoi Apostoli con grazie efficaci di convertirla: l' una all' ora di terza, l' altra alla sesta, l' altra alla nona, e taluna all' undecima. Quale presunzione mostruosissima non sarebbe quella di un uomo che, nella sua totale ignoranza pretendendo scrutare i decreti di Dio, volesse stabilire i tempi e i momenti, in cui le nazioni sono mature alla messe! Vi ripeto adunque che, col rivolgere a me le vostre preghiere, non potete accelerare il giorno fortunato della ricolta; ma potrete, volgendovi con umiltà profondissima e colla pratica di tutte le virtù, specialmente dell' ubbidienza e dell' indifferenza, al celeste Padre. Io mi accorgo, caro fratello, dalla vostra lettera che non conoscete appieno, non avete meditato abbastanza quale e quanto divina sia l' opera della conversione delle anime. Voi dite che « se è volontà di Dio che s' aiuti il prossimo ne' bisogni temporali quando vengono a nostra cognizione, molto più è da dirsi ciò dei bisogni spirituali ». - E non v' accorgete che l' opera del soccorrere i bisogni temporali, e quella di predicare il Vangelo e convertire le nazioni, sono fra di loro di diversissima natura? La prima non ha bisogno di missione, la seconda sì. La prima noi l' adempiamo con ciò che abbiamo noi stessi, colle nostre forze naturali, coi nostri beni di fortuna, ecc.. Ma per adempiere la seconda l' uomo non trova nella sua natura alcun mezzo, perchè non è opera umana ma divina; non è mai l' uomo, ma Dio solo che converte le anime; e può l' uomo sbracciarsi quanto vuole, può predicare e sudare, ma non fa nulla, se Iddio non accompagna le parole dell' uomo col dono ineffabile ed al tutto gratuito della sua grazia: la quale egli non suole aggiungere alle imprese di que' temerarii che assumono da se stessi il ministero dell' evangelica predicazione e che con sacrilega ignoranza confidano di potere da se stessi colla propria scienza, colla propria eloquenza, col falso zelo da cui si sentono invasi, convertire il mondo. No, no, mio caro Arnoldo, non vi date a credere che il convertire un' anima sia tanto facile come il fare un' elemosina, come assistere un infermo, come consolare un afflitto: queste sante opere di misericordia le possono e le debbono fare tutti i cristiani: sono proporzionate alle forze di tutti quelli che hanno buona volontà. Non così il ministero apostolico, che viene detto dai Padri della Chiesa « angelicis humeris formidandum », anche quando è imposto sulle spalle da Dio medesimo. Come dunque non ne rimarrà oppresso e schiacciato colui, che osa mettervi sotto da se stesso l' omero mortale? Iddio non permetta che nessuno de' nostri cari fratelli e compagni sia tanto ignorante delle cose divine, o tanto orgoglioso da nutrire in capo sì imprudenti pensieri, sì colpevoli attentati. Ascoltatemi adunque, o mio carissimo figlio: pregate sempre il Signore della messe, che mandi i suoi operai sì nella Svizzera, che in tutto il mondo: del resto non date adito nel vostro cuore ad alcun desiderio che turbi il vostro riposo e la vostra tranquillità nel Signore: tagliate i pensieri del futuro: occupate tutto voi stesso nei santi ministeri che la Provvidenza vi ha messo in mano, nel cavare da essi il maggior merito possibile, adempiendoli colla maggior perfezione sì interna che esterna, sopportandone le pene e mortificazioni annesse, e cavandone il maggior gusto spirituale, lodando e ringraziando Iddio ogni giorno e di tutto, e nelle sue mani amorosissime abbandonando tutta la vostra sorte. Dite spesso: « in manibus tuis sortes meae »; e persuadetevi che egli vi ama più che voi amiate voi stesso, e che la sua soavissima Provvidenza dispone ogni avvenimento piccolo e grande per nostro bene: onde non ci è maggior gioia che il conoscerla, che l' amarla, che l' adorarla in tutto ciò che avviene, sia favorevole o contrario alle naturali inclinazioni. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Comincio dal farle le mie scuse, se ho tardato qualche giorno a rispondere alla gratissima sua degli 11 corrente, colpa la mia assenza da Stresa. Ottimamente Ella attribuisce il vacillare di tanta gioventù nella fede e nei costumi all' istruzione e all' educazione dimezzata comunemente in uso, più dimezzata ancora pei giovani destinati alla vita militare. Questo è male irreparabile, se non si rimuove la cagione, riformando l' educazione stessa; e lodevole cosa sarebbe, facendone sentire il difetto a S. Maestà, il religiosissimo nostro Sovrano. Or fino che non si potesse ottenere sì desiderabile mutamento, gioverebbe apporre al male qualche rimedio, confortando le menti e gli animi dei giovanetti, e provvedendoli di solidi principŒ coll' occasione appunto d' insegnare loro gli oggetti prescritti. Fra questi v' ha il Catechismo ; ebbene se ne stenda l' insegnamento in modo da fare loro conoscere prima di tutto la Religione nella sua pienezza, e a questa occasione si sventino le calunnie che le oppongono gli eretici e gli empi che non la conoscono. Questa maniera di apologia, condotta bene, può essere utilissima, come quella che non ammette risposta, trattandosi di verificare semplicemente il fatto, se la Chiesa cattolica e la sua dottrina sia quella che dicono gli eretici e gli empi, e su cui fondano le loro obbiezioni; e la confutazione di queste conduce meglio i giovanetti a penetrare al fondo, e financo a sentire la bellezza della Religione che professano. Non così approverei che nella scuola s' introducessero obbiezioni d' altro genere, che esigono sottile raziocinio e conoscenza delle cose umane, la quale i giovanetti non hanno. Ma quelli che fossero turbati da difficoltà di tale natura, si dovrebbero istruire a parte con somma diligenza e dolcezza. Niente vieta però che in occasione di dare l' istruzione religiosa, si vengano insinuando alcuni de' più necessari e principali principŒ d' una buona logica, quelli appunto che più sembrano opportuni a difesa della Fede, supplendo così alla mancanza della scuola di filosofia. E come questi principŒ di logica religiosa , dirò così, gioverebbero a formare le menti de' giovanetti, così non poco conferirebbe a formare il loro cuore il presentare loro quegli argomenti morali, che dimostrano la Religione nostra a un tempo che vera, bella altresì ed umana, ed utile fin anco alla vita presente. E qui l' insegnamento della storia greca, romana e patria, potrebbe maneggiarsi in modo che consuonasse all' insegnamento religioso e lo confermasse, se il professore di storia non dimenticasse mai di fare il confronto fra i vizi e le miserie delle società pagane, e la virtù e la grandezza delle società cristiane; se moralizzando con opportuni e brevi cenni, s' adoperasse ad imprimere nelle menti giovanili qual sia la vera misura, onde si dee giudicare le azioni degli uomini illustri, quanta vanità si nasconda spesso nelle clamorose loro virtù, e come la grandezza e la celebrità umana non sia che una deploranda illusione, e però non quella a cui il vero virtuoso, il vero grande debba rivolgere i suoi desiderŒ e i suoi sforzi. Anche le belle lettere possono non poco giovare a rendere sana la mente e religioso il cuore, se si fa ben conoscere come elle sono belle e lodevoli solo allora che servono a mettere il vizio in orrore agli uomini, in amore ogni vera virtù. Queste cose spianano la via e dispongono l' anima alla impressione che debbono poi farvi le massime eterne, e specialmente quella, come Ella ben dice, de' giudizi spaventevoli di Dio, e dell' inferno. E a ribadire queste in mente con frutto, gioverà assaissimo l' avere persone atte a dare gli esercizi spirituali con efficacia e degli ottimi confessori. I fatti e gli esempi hanno potere grandissimo sull' animo della gioventù; e poichè Ella brama che Le additi qualche autore che ne contenga, mi sembrano commendevoli le opere dell' abate Carron, che, se non erro, ha anche una raccolta di vite di virtuosi militari. Ella mi dimanda in fine della sua pregiatissima qualche cenno sul modo di educare la numerosa gioventù affidatale dalla Provvidenza, e benchè le angustie di una lettera non permettano di dire delle mille cose l' una, tuttavia per esserle ubbidiente Le dirò parermi ottimo mezzo di educare quello che alla dolcezza congiunge la fermezza e una somma ragionevolezza ; sicchè il giovane debba sempre, almeno nel suo interno, essere persuaso, che l' educatore ha ragione sempre in tutti i punti, ed egli ha sempre il torto: cosa difficile a conseguirsi, poichè richiede somma prudenza in ogni passo, e perfetta coerenza e uguaglianza in tutto ciò che si opera. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Rimanendomi un pocolino di tempo libero fra le occupazioni di questi santi esercizi, voglio scrivere a voi per certa cosa che mi diè noia nell' ultimo fascicolo dell' Amico Cattolico , a voi dico che ben so essere un devoto fervente della Madonna Santissima, che l' avete non solo per madre, come l' abbiamo tutti, ma quasi anche per compatriotta. Or come avete lasciato correre nel detto fascicolo, senza almen farne lamento, che Maria giunta a Betlemme fu sorpresa dai dolori del parto? Non vi offende, non vi strazia orribilmente gli orecchi una tale espressione? Ve ne può essere alcun' altra che sia cotanto, per dir poco, piarum aurium offensiva? La Madonna avere sofferto dolori nel parto del Salvatore? La Vergine che si fa madre di Dio, soggetta alle miserie penali delle altre madri? Or dove avete trovata che sia fatta per Maria la legge, che fu solo intimata ad Eva peccatrice, « in dolore paries »? Non vedete che questa legge incomincia: « multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos », e che perciò è legata, quasi direi, a quella cagione impura che fa moltiplicare alle altre donne le concezioni, cagione che non potè cadere in Colei che non fu sposa effettiva d' altri che di Dio, coniugio spirituale che nulla ha di carnale, nè madre d' altri che dell' Unigenito di Dio, maternità che non toglie punto la verginità? E non vedete che la medesima legge prosegue a dire: « et sub viri potestate eris, et ipse dominabitur tui (Gen, III, 16) », parole che esprimono di nuovo la cagione de' molteplici concepimenti delle altre donne? Ora Maria a qual mai uomo fu soggetta? Perocchè Giuseppe, giuridicamente suo sposo, la venerava, a non dubitarne, come la sua Signora, e non vedeva certo in essa la sua soggetta. A chi dunque fu soggetta veramente Maria, se non a Colui, di cui disse ella stessa: « Ecco l' ancella del Signore? »Onde se Giuseppe tenne in terra la dignità, se così si vuole, di capo di casa, egli non sostenea tanto ufficio se non considerandosi come un mero vicario o rappresentante dello Sposo celeste, a cui aveva ben di cuore la sua sposa ceduta e tutta sacrata. Tant' è lungi adunque che Maria Santissima possa aver provato alcun dolore in depor al mondo il Sole della giustizia, che anzi io tengo (e credo che voi pure lo terrete meco, perocchè io lo tengo con autorità venerande e con tutti i devoti della gran Vergine) che, allorquando fu compiuto il tempo in cui dovette nascere il Redentore, ella dovette essere sorpresa da gaudio indicibile, da gioie celesti, da rapimento ed estasi amorosa così sublime, che non può da uomo alcuno concepirsi, e che le diede un cotal saggio della superna felicità. No, mio caro, non è da lasciarsi passare una frase caduta, son certo, dalla penna dell' illustre scrittore per mera inavvertenza, ma che stride tuttavia e lacera gli orecchi cristiani; non è da lasciarsi passare, io dico, senza qualche emendazione, ed io prego voi di procurarla questa emendazione a vantaggio de' comuni lettori, ne prego voi per l' amore che voi portate a Maria. Io per me non solo veggo che la divina Scrittura favella sempre in modo da rimuovere da Maria ogni pensiero d' infermità materna, ma ce la mostra divenire madre senz' aiuto di altra persona, e tosto dopo messo al mondo il suo Portato, ella stessa, non usando già dell' opera di Giuseppe, involgerlo ne' poveri pannicelli e colle proprie mani nel presepio acconciarlo, siccome suol fare non già una persona addolorata e ammalata, ma sana e lesta. « Et peperit Filium suum primogenitum, et pannis eum involvit, et reclinavit eum in praesepio (Luc. II, 7) », volle fare tutto da sè. E pure qual dubbio, se avesse avuto bisogno in sì dolce ufficio di alcun aiuto, che Giuseppe non si sarebbe mosso a soccorrerla? Ma che? Non vedete voi in quella vece il buon Giuseppe, che in un angolo della grotticella si sta in silenzio adorando e contemplando il gran mistero, senza pur osare di fare un passo innanzi ed offerir l' opera sua alla sua dolce regina, la quale da sua parte non cede a nessuno de' mortali, non divide con nessuno le materne sollecitudini a cui ella sola, come sola genitrice in terra, ha tutto il diritto? E per darvi maggior prova di quel parlare vigilantissimo della divina Scrittura, tutto ad onor di MARIA, io vo' che facciate un' altra osservazione, e non è l' unica che potrei farvi. Vedete quel luogo dell' Esodo (Cap. XIII) dove Iddio promulga la legge dei primogeniti serbati al sacrificio, e prescrive che il primogenito dell' uomo si riscatti a prezzo. Or bene che ne dite di quella frase: « sanctifica mihi omne primogenitum quod aperit vulvam »? E perchè non si contenta la legge di dire « omne primogenitum », senz' altro aggiungere? Non era chiaro abbastanza? Voi mi direte forse, che la spiegazione che vi si aggiunge è tutta conforme all' indole delle lingue orientali. Ma posciachè le stesse lingue orientali furono ordinate dalla Provvidenza e scelte ad esprimere gli oracoli della divina rivelazione, io non mi trattengo dal dire, che quella frase orientale ed ebraica fu eletta non a caso da Dio, come acconcissima ad esprimere ciò appunto che Dio voleva, fu eletta cioè a limitare quella legge per modo, che ella avesse sì vigore per tutte le madri, venendone nel tempo stesso eccettuata la Madre di Dio, MARIA. E quale espressione potea essere più acconcia a questo intento del divin Legislatore? Senza bisogno di aggiungere alcuna speciale eccezione, nella stessa lettera della legge è già l' eccezione contenuta, con un laconismo veramente legislatorio. Voi potete riscontrare la stessa circospezione di parlare, dove s' intima la legge della purificazione (Levit. XII), le cui espressioni tutte sono tali, che dichiarano quella legge non essere fatta se non per le femmine ordinarie, non già per colei, che senza aver conosciuto mai uomo divenne Madre e restò vergine intemerata. Non dunque da dolori, ma da gaudii ineffabili fu accompagnato il parto della Vergine, di quella che fu sempre « hortus conclusus, fons signatus »: parole registrate nella sacra Scrittura in onore della pura Sposa del Re della celeste Gerusalemme, a cui le applica la Chiesa, di quella per la quale passò il Verbo incarnato siccome raggio solare per cristallo purissimo, come uscì dal sepolcro senza infrangerne punto i suggelli, come penetrò dove erano raccolti gli Apostoli « ianuis clausis »; di quella finalmente che ad altro dolore forse non fu soggetta mai, se non a quello atrocissimo e tutto spirituale, tutto volontario, che le trafisse l' animo come spada, quando compatì il Figlio in croce, e la passione del Figlio fu riflettuta e rinnovata nell' anima della Madre. Io spero, anzi sono certo, che all' illustre e pio autore dell' articolo, dove è scorsa la frase che a me e a voi pure, son certo, mal suona, non possono dispiacere queste mie osservazioni, nè il desiderio che vi manifesto che quella frase sia emendata. Il suo scritto, tacendo del merito dello stile e della erudizione, è pieno di affetto per MARIA, ed io credo che a lui stesso gradir dovrebbe l' udire cosa, da lui forse non saputa, che tanto torna ad onore di quella Eroina che egli descrive e quasi dipinge con sì bei colori di sua eloquenza e di sua divozione. D' altra parte il non essere egli ecclesiastico lo scusa appieno dell' inavvertenza che può benissimo scorrere dalla penna anche di noi ecclesiastici. Laonde, se a voi non gradisse di mandare qualche vostra noticella ai direttori del giornale, io non ho minima difficoltà di permettervi, che li preghiate d' inserire nel prossimo fascicolo la presente mia lettera. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Per esser breve, e soddisfare alle sue diverse interrogazioni, soggiungerò alle sue dimande la risposta: D. Qual autore reputa migliore per dare gli spirituali esercizi? R. S. Ignazio. Sulle tracce di S. Ignazio io misi insieme il libro intitolato: « Manuale dell' esercitatore », che ella potrà vedere nel volume pubblicato col titolo di « Ascetica ». D. Giovano gli esercizi una sola volta all' anno o più? R. In via ordinaria non più d' una volta all' anno; ma se si tratta d' un semplice ritiro di qualche giorno, può giovare assai replicando questo breve e pio ritiro. D. Qual regola particolare mi proporrebbe per mantenere la gioventù nella santa castità? R. Già le regole che danno i maestri di spirito sono eccellenti, nè di altre particolari ne avrei. Pure stimo che l' infondere un pensare elevato, nobile, spirituale, generoso, e insistere sulla purità d' intenzione in tutte le cose che si fanno, e sul buon uso del tempo, giovi più che non si creda all' intento. D. E` meglio reggere i giovani con mite governo o con severità? R. Il mite ragionevol governo, unito alla fermezza dee essere l' ordinario; il rigore dee usarsi come le medicine ne' casi rari e straordinari. D. Qual governo è preferibile nel reggere le comunità religiose, dove sia taluno poco inclinato alla pietà, all' ubbidienza, all' osservanza delle regole? R. E` preferibile quel governo che: 1 Convinca i sudditi che il superiore non opera che per puro amore del loro vero bene, senza alcun puntiglio, nè fine secondario, e con grande umiltà; 2 Che illumini i sudditi, predicando e inculcando assiduamente le verità evangeliche, e dando loro buon esempio; 3 Che dimostri nel superiore un giudizio sicuro e ben maturo, onde egli non parli che cose vere e ben fondate, non interpreti male i fatti, e molto meno le intenzioni, ecc. giovando più una correzione, quando non lascia luogo a scusa, che frequenti correzioni contro le quali il corretto possa concepire scuse plausibili; 4 Che sia fermo nel mantenere la disciplina, ma senza irritazione; e dove la disciplina è rilasciata, cominci ad essere inflessibile sopra alcuni punti essenziali, e di mano in mano diventi rigoroso sopra un numero maggiore di punti disciplinari; 5 Che sia coerente a sè stesso, sempre uguale, con un fine costante in tutte le disposizioni, non si contraddica mai, nè un giorno si mostri debole, dopo che nel precedente si è dimostrato forte; 6 Che sia vigilantissimo, sappia tutto senza mostrar curiosità, accompagni i suoi sudditi co' suoi sguardi in tutti i loro passi, non gli esponga a tentazioni sopra le loro forze, e rimuova da essi i pericoli di dissipazione; 7 Che sia concorde, cioè che i diversi Superiori maggiori o minori abbiano lo stesso spirito ed unità di governo, e l' uno sostenga l' autorità dell' altro nelle cose giuste; . Che sia penetrante, cioè atto ad intendere gli uomini ed i caratteri diversi, e ad ovviare i disordini nei loro principii, facendosi gran conto delle piccole cose, quando queste possono essere seme di maggiori; 9 Che a queste regole del governo ordinario, aggiunga delle scosse straordinarie quando v' è il bisogno; gli esercizi spirituali fatti con tutto il rigore delle regole di S. Ignazio, e dati da un sant' uomo che abbia la discrezione degli spiriti, possono rinnovare lo spirito in un religioso rilassato. D. A mantenere il buono spirito come si fa? R. Presenza continua di Dio, orazione assidua, purità d' intenzione in tutte le opere, occupazioni continue di carità, ecco dei mezzi sicuri da mantenere e crescere lo spirito. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Il P. Provinciale Pagani mi rimise da Roma la lettera che gli avete scritto in data del 23 settembre p. p., e con molta soddisfazione intesi i sentimenti in essa contenuti. Sopra tutto approvo la riflessione che voi fate sull' universalità della carità. Questa è la divisa di Cristo, de' suoi discepoli, della Chiesa, e perciò è anche quella dell' Istituto della Carità. Le nostre Costituzioni prescrivono di seguire in tutto la nostra santa Madre, la Chiesa Romana, anche negli esterni riti e cerimonie, perchè la santa Chiesa Romana ha missione da Cristo di regolare e fissare la disciplina della Chiesa universale; la quale non potrebbe essere universale se non avesse unità, di cui Roma è centro. Se si trattasse di sapere quali sono le più belle vesti e i più bei parati di Chiesa, si potrebbe sostenere che i gotici vincono tutti gli altri in maestà religiosa. Ella sarebbe una questione di gusto, e come i gusti sono diversi, così a certi uomini piacerebbe una forma, a certi altri un' altra, e la uniformità non si potrebbe giammai ottenere: i vestiti e i riti varierebbero in ogni chiesa di una nazione stessa e dello stesso tempo. Volendo seguire questo sistema, si finirebbe con introdurre i capricci della moda nella Chiesa di Dio. Dunque la scelta de' sacri parati non dee essere una questione di gusto, nè può decidersi da chicchessia. E` questione d' istituzione ecclesiastica: gli abiti sacri non possono essere variati, se non da quell' autorità che gli ha istituiti o approvati. Solo in tal modo si può ottenere l' uniformità degli abiti sacri e delle cerimonie, che è un' espressione visibile dell' universalità e dell' unità della Chiesa di Gesù Cristo. Dicendo a voi queste cose, non intendo già di comandarvi che vi opponiate con forza all' inclinazione che si manifesta in cotesto Distretto medio pe' paramenti sacri di stile gotico; rimetto la cosa alla vostra prudenza. Se tutti i nostri Superiori si terranno passivi ed indifferenti, la cosa non andrà molto avanti. Raccomando bensì di predicare opportunamente a tutti i nostri: 1 che la carità di Cristo è universale, ed esclude qualsivoglia egoismo, specialmente il nazionale; 2 che la Chiesa Cattolica è universale come la carità; 3 che la Chiesa universale è fondata nella unità della S. Sede Romana; 4 che gli uomini all' opposto tendono sempre a restringere l' universalità e a spezzare la unità; 5 che l' Istituto nostro, che trae il nome dalla carità di Cristo, dee opporsi alla tendenza degli uomini, e promuovere la causa dell' universalità e dell' unità della Chiesa, coll' universalità della carità. Questa dottrina dolcemente insinuata nelle menti produrrà i frutti desiderati a opportuna stagione. [...OMISSIS...] 1.44 Se ha qualche cosetta da sofferire per amor di Dio, va bene che se ne rallegri, pensando nello stesso tempo a tanti che sofferiranno più di lei. M' è parso sempre un buon pensiero quel di riflettere a chi patisce in ogni momento nelle diverse parti del mondo. Quanti lottano colle agonie della morte, anche violenta! quanti combattono colle più fiere tentazioni! quanti sono martoriati da pene interiori! Noi non conosciamo distintamente quelli che in tante diverse maniere sono angosciati, ma basta anche solo conoscere un po' in generale quanto passa continuamente in questa valle di lagrime, per poter raccogliere che il Signore tratta noi assai dolcemente al paragone, ed essergli grati anche di questo. Supponendo che ella brami che le dica alcuna cosa sui punti della relazione comunicatami, non dubito di farlo colla presente. Sul punto del chiamarsi vittima , Le ho già scritto; e da quello che le ho scritto Ella avrà già inferito, quanto sarei ora per dirle, cioè che io non consiglierei mai ad una società religiosa di pigliare il titolo di vittime del sacro cuore di Gesù , perchè troppo pomposo; giacchè non v' ha cosa nè più grande, nè più onorifica che di essere vittime dell' amor divino. La vittima dell' amor divino è più che santa, è giunta all' apice della perfezione, alla quale non si giugne propriamente che in cielo, dove quelli destinati da Dio ad essere sue vere vittime avranno compito il loro sacrifizio. Ora come nessuno quaggiù in terra può sapere di essere santo, senza un' espressa rivelazione, così molto meno niuno può sapere d' essere vittima, nè dee riputarsi tale, ma solo desiderare di essere. D' altro lato tutto ciò che appartiene alla santità si dee procurare di nasconderlo agli occhi degli uomini: onde come mai tutte le religiose d' una congregazione potrebbero da sè stesse pubblicare che sono vittime del santo amore, e pretendere che gli uomini le chiamino con un titolo così magnifico? Queste buone religiose, imponendo a se stesse una tale denominazione, si canonizzano da sè stesse, mentre per essere canonizzate converrebbe prima che morissero, e poi facessero di que' miracoli solenni e pubblici, sui quali solo la Chiesa istituisce il processo della canonizzazione. Di più, gli uomini non potrebbero in coscienza dare loro un tal titolo, senza esporsi a mentire; perocchè quantunque le religiose fossero persuase di meritare tanto onore, tuttavia, non consterebbe della verità della loro persuasione agli altri uomini, se pur loro non rivelasse Iddio espressamente che tutte quelle religiose sono destinate da lui vittime da immolarsi sull' altare dell' amor suo. Fino dunque che noi viviamo quaggiù in terra pensiamo pure ad amare Iddio, e a divenire vittime del suo amore, domandandone ed aspettandone da lui la grazia; ma non pensiamo a chiamarci con sì bel nome, e molto meno a volere essere così chiamati da tutto il mondo. Se ella si compiacerà di riflettere tranquillamente su tutto ciò, s' accorgerà facilmente che, quanto al titolo di Vittime del sacro cuore da darsi alla istituzione alla quale le parve essere chiamata, altro non può essere stato che un gioco della sua fantasia. Spero che ella abbraccierà questo mio ingenuo sentimento, e l' abbracciarlo le riuscirà di profitto. Non cesserà già per questo di fare il più gran bene ch' ella possa al prossimo, secondo le occasioni che le verranno offerte dalla divina Provvidenza, perchè non v' ha niente di più caro al nostro Signor Gesù Cristo che l' amare ed il fare del bene al prossimo, e specialmente alle anime: l' amor del prossimo è il più sicuro segno e il più bell' esercizio dell' amor di Dio. Dopo di ciò ella mi domanda consiglio intorno alle letture che mi sembrassero a lei più convenienti, e glielo darò in breve. Nessun autore di mistica, nè pure le opere tanto pregevoli di Santa Teresa. Tutto ciò che dicono gli autori, che trattano degli stati d' orazione e delle divine operazioni nell' interno dell' anima, può essere utilmente studiato dai direttori per altrui direzione; ma è di poco profitto, di grande imbarazzo, di difficile intelligenza, ed anche di pericolo alle anime che quelle dottrine vogliono applicare a sè stesse. Il mio e suo S. Francesco raccomandava oltremodo la semplicità in trattando con Dio e cogli uomini, e v' ha gran pericolo di perderla avvolgendosi nelle sottigliezze della mistica. Egli è assai meglio amare, contemplare, pregare il Signore col menomo possibile ritorno sopra di sè stessi, su ciò che avviene nell' anima nostra, o che fa l' anima nostra. Il nostro bene è fuori di noi, è Dio in sè stesso e nel prossimo. Giova dunque pensare a Dio e non a noi stessi; cercare lui specialmente ne' prossimi, e non assottigliarci per misurare i passi nostri, con cui l' andiamo cercando. Esclusi i mistici, a lei sono già noti i più sicuri ascetici e non dubito che ne sia riccamente fornita. Mi restringerò adunque a darle un sol consiglio, quello di leggere abitualmente il « Nuovo Testamento », specialmente le proprie parole di nostro Signor Gesù Cristo, che hanno una soavità e forza infinita, sono adattate ai dotti ed agli indotti, rendono un sapor celeste, prestano un alimento divino, sono della più esatta verità, senza che nessun pensiero umano vi si intrometta, e d' una inesauribile sapienza. Le proprie parole di Gesù Cristo , ecco il cibo a lei adattato, e adattato a noi tutti. Le altre parti del Nuovo Testamento, oltre i Vangeli, servono a intendere meglio le parole di Cristo. Potrebbe anco ricorrere ad alcuni libri dell' Antico Testamento e specialmente ai Salmi, ai libri Sapienziali, a Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, e al Deuteronomio, procurando di ridurre questi libri a Gesù Cristo ed al suo amore: perchè a Cristo veramente tutti si riferiscono: tutti ben intesi lo annunziano e lo celebrano venturo: e insomma alle parole di Cristo Gesù convien sempre ritornare col pensiero, e abitare e riposare in esse con tutta l' anima. In queste parole s' impara massimamente il precetto tutto proprio di Cristo, e nuovo nella sua bocca divina, quello dell' amor del prossimo. A questo gioverà infinitamente, per dirlo di nuovo, ch' ella diriga le principali sue cure e meditazioni. Spero ch' ella mi scuserà, se mi diffondo più del bisogno, e vorrà riconoscere anche in questo, che altro non mi muove che quella carità del Signor nostro in cui ritrovo contenuto ogni bene. Credo però d' avere ora soddisfatto alle sue domande. Resta ch' ella mi compatisca e mi continui quel soccorso d' orazioni, che considero come abbondantissimo conpenso a questa leggera e dolce fatica. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Presumendo il suo permesso, ho confidato a un mio compagno, il sacerdote Pagani, il progetto inviatomi della pia unione, e meco conviene nel riconoscere che l' atto, con cui un cristiano offerisce sè stesso, la propria vita, il proprio sangue a Dio, insieme col sangue e colla vita di Cristo, e coi patimenti di Maria, è il più bello ed eccellente che si possa fare; e però approva in sostanza, che si promuova questa divozione, eccitando i fedeli a praticarla. Ma perchè è molto ardua a farsi con sincerità (cosa importantissima se deve essere buona ed utile), perciò gli sembra da tenersi piuttosto fra pochi, che da propagarsi fra molti, con pericolo che diventi una comune e languida formalità, com' è accaduto ad altre divozioni per sè stesse ottime. Egli anche suggerisce che il titolo della pia unione sia più breve e più semplice; che l' offerta che si stabilisce venga recitata tre volte al giorno dagli ascritti, o almeno una, e che, lasciate le altre regole, all' offerta sussegua il modo di praticarla o, per dir meglio, i sentimenti e gli affetti da cui essa deve essere accompagnata quando si recita; acciocchè essa sia recitata bene, con sincerità d' affetto e cognizione di ciò che importa l' offerire sè stesso al Signore. Che se si volessero aggiungere delle piccole meditazioni o riflessioni sul sangue sparso da Gesù Cristo, sul Sacro Cuore, e sui patimenti di Maria, dove gli stessi sentimenti contenuti nell' offerta venissero più ampiamente esposti in forma di soliloquio, per chi ha comodità di usarne, anche questo potrebbe riuscir vantaggioso. Gesù la ricolmi dell' amor suo; e penso che ciò Le basti. Non cessi di pregare per me e pei sommi bisogni miei propri e di quelli che meco insieme servono il Signore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Restituisco i manoscritti favoritimi, pieni di fervorosi sentimenti, pei quali ho lodato il Signore da cui provengono. Avendomeli Essa mandati per ubbidire al suo Direttore, il quale pure mi prega di dire il mio parere sulle cose in essi contenute, riconoscendo prima di tutto la mia poca perizia, glielo esporrò con tutta la dovuta sincerità. In generale non dubito punto dire, che Ella si trova, per misericordia del Signore, in sulla buona via, per la quale non è a pensare altro se non che a tirare avanti con prudenza e semplicità. Non disapprovo adunque che continui a scrivere quanto passa nell' anima sua, per sua propria edificazione, e per informazione di quelli che la debbono guidare nel suo cammino. In particolare non feci che poche osservazioni e sono queste: La prima, che per altro calcolo poco o nulla, riguarda certe espressioni colle quali Ella sembra di credere che in certi stati, in cui Le avviene di trovarsi, le potenze del suo spirito sieno oziose: il che non è, mancando solo l' avvertenza delle loro operazioni, ed essendo l' oggetto, in cui sono occupate, generale, onde non ammette discorso e distinzioni. Ma, come dicevo, di questo non faccio caso, perchè ho veduto in altri passi che Ella viene poi a spiegarsi meglio, dicendo presso a poco altrettanto. La seconda è più importante, ed è, che mentre in descrivere certi sentimenti avuti si diffonde notabilmente, pare che mostri della ripugnanza ad esprimersi francamente ed interamente sopra certe altre cose più necessarie a sapersi per chi la deve guidare, e questi sono massimamente tutti quei luoghi, nei quali tocca, sembrarle che Iddio voglia da Lei qualche impresa misteriosa da compirsi fuori del suo Monastero. Fino a tanto che si tratta di opere buone, specialmente riguardanti la carità del prossimo, da farsi restando Ella nel luogo dove Iddio l' ha collocata, converrà esaminare le cose per minuto, ma poi non ci sarà forse difficoltà. Ma non così la penso, se si trattasse di dovere uscire dal luogo, in cui ora felicemente si trova: perocchè, già per questo solo, la cosa dovrebbe tenersi per sospetta, fino a tanto che Iddio non desse delle prove palmari della sua volontà, per esempio, che il Papa gliel' ordinasse; il che non è per ora verosimile. Su di questa materia dunque trovo necessario che Ella ponga ogni cura ad esprimere e manifestare distintamente ciò che passa nell' anima sua, essendo il punto più importante per chi la deve dirigere; a meno che Ella deponesse ogni pensiero di ciò, e la cosa finisse così. La terza osservazione si riferisce alla stessa materia, e mi si presenta forse dal mio non bene intendere il suo pensiero. Quando Ella parla delle vittime che vuole il Signore, parmi che Ella intenda di essere chiamata a fondare un monastero o una società di queste vittime. Ma converrebbe distinguere più cose. Egli è certo, che Iddio ha mandato il suo Verbo a incarnarsi ed immolarsi vittima pei nostri peccati. E` certo ancora, che la missione di Gesù Cristo è appunto questa di fare, che i suoi seguaci diventino simili a lui, vittime immolate sull' altare del divino amore. « « Io sono venuto a portare il fuoco in terra » », Egli disse, e il fuoco è quello che deve incenerire l' olocausto. « « Chi vuol venire dietro di me prenda la sua Croce » », e la croce è il supplicio dove Cristo è morto, e dove i suoi seguaci debbono pure morire. « « Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi » » e anche questo, perchè Gesù Cristo voleva dai suoi discepoli il sacrificio di se stessi. S. Paolo vuole, che i Cristiani sieno morti e sepolti con Cristo; e di sè dice, che era crocifisso al mondo, come il mondo a lui. Insomma le Scritture sono piene di questo sentimento, e Iddio ebbe sempre ed ha le sue vittime. Tali furono prima i Santi Martiri, e poi tutti i Santi Confessori, che morirono col cuore a se stessi, e non vissero e non operarono che per Cristo. Questa immolazione adunque di tutto l' uomo in onore del Creatore è il fine della missione di Gesù Cristo e della stessa creazione dell' universo. Felici quelle anime, che possono essere vere vittime bruciate dal fuoco di Cristo e condite del suo sale! Il predicare questa dottrina è cosa santissima, perchè è la dottrina stessa di tutto il Vangelo. Ma dopo di ciò, sarebbe un' altra ricerca da farsi quella « se si potesse fare una vera società di tali vittime ». Primieramente le vittime di Cristo ben sovente non sanno di essere tali: perchè chi può conoscere i secreti del proprio cuore, e sapere con sicurezza, che ci abbia nel fondo, dove non vede che l' occhio di Dio! Di poi, le vittime di Gesù Cristo non soffrirebbero di essere chiamate con questo nome, come appunto i celebri martiri di Lione non soffrivano d' essere chiamati martiri, benchè avessero sofferto moltissimo per Gesù Cristo, perchè dicevano: « non siamo ancor morti, il nostro martirio non è ancor consumato ». In terzo luogo, per formare una società di vittime, converrebbe conoscerle, ma Iddio solo conosce le sue vere vittime, e se l' uomo volesse giudicarle tali, prima di vederle coronate in cielo, andrebbe a rischio di raccogliere degli armenti, che, venuto il tempo dell' immolazione, gli sfuggirebbero dall' altare. In quarto luogo le società religiose hanno per iscopo di prendere gli uomini imperfetti e di aiutarli acciocchè, colla divina grazia, tendano alla perfezione; ma le vittime sono già perfette, non hanno bisogno di essere associate, e nè pure di conoscersi come tali. In quinto luogo, le vittime non si fanno tali se non con quell' ultimo atto di perfezione, col quale immolano se stesse; e quest' atto è l' opera di Dio; onde nessuno al mondo per quanto predicasse, eccitasse al bene o somministrasse i mezzi, che egli può al bene, potrebbe fare una vittima sola: e perciò una società, che s' incaricasse di formare delle vittime usurperebbe l' opera di Dio. Non è dunque possibile, a mio parere, istituire una società con questo titolo che agli uomini spirituali parrebbe ambizioso, ed al mondo, pur troppo, ridicolo. Che cosa adunque sarebbe possibile di fare? Quello stesso che hanno sempre fatto i santi fondatori delle religioni; unire delle persone che aspirano alla perfezione, e dare loro tutti i mezzi al perfezionarsi coll' orazione, colla mortificazione, colla povertà, colla solitudine ecc., eccitarli quanto è possibile al fervore, a non volere che il piacere di Dio, a cercare il più perfetto in ogni cosa, a caricarsi specialmente di tutte le opere di carità verso il prossimo, e dare il proprio sangue in aiuto dei loro prossimi: e in questi ministeri verso i prossimi è appunto dove possono trovare numerose occasioni di fare il sacrificio di se stessi, come l' ha fatto Gesù Cristo per nostro amore e per nostra salvezza, adempiendo così il precetto di Gesù Cristo di amarci scambievolmente, ed adempiendolo con perfezione, cioè spendendovi la vita stessa. E in questi esercizi della carità del prossimo è dove più sicuramente si esercita e spiega la carità verso Dio, non potendovi essere illusione di sorta nel fare ogni bene possibile ai nostri prossimi con fatica, umiliazione, e patimento nostro proprio: purchè sopra tutto anche in tali esercizi abbiamo la guida dell' ubbidienza, che è l' interprete fedele del divino volere. « « Se ci amiamo scambievolmente, dice S. Giovanni, Iddio si tiene in noi, e la carità di lui in noi è perfetta. Figliuolini miei, non amiamo colla parola o colla lingua: ma coll' opera e colla verità dei fatti » ». Or poi se fra queste persone, che si propongono di fare in tutto la volontà sua, e di spendersi a vantaggio dei prossimi, Iddio si sceglierà delle vittime, egli sia benedetto e lodato in eterno: questo è quello che bramiamo e che da lui dimandiamo. Colle orazioni nostre dimandiamo pure dal Signore, che egli mandi il fuoco celeste anche sopra tutto il mondo, e ne riceva l' olocausto in odore di soavità. Da parte nostra, dopo avere fatto quello che possiamo, in lui speriamo, che avrà pietà dei nostri peccati, e in lui riposiamo. Quanto a noi dunque, offriamo pure noi stessi al suo amore, senza crederci perciò già divenuti sue vittime; offriamocegli nel modo, che le scrivevo in sulla fine dell' anno scorso. Eccitiamo anche i prossimi a sì bella offerta, ma senza ingerire loro nell' animo il pensiero di essere divenuti vere vittime; perocchè è da lasciare tutto ciò al Signore; e più tosto procuriamo che tutti si credano ben lontani da tant' altezza. Facciamo, come S. Ignazio martire che solamente quando udì il ruggito dei leoni che doveano divorarlo, pieno d' allegrezza disse: « « Ora incomincio ad essere discepolo di Cristo » ». Eccole, Molto Reverenda Madre, le mie osservazioni. Ora vengo ad informarla dello stato del libretto progettato, che dee contenere gli esercizi per l' offerta di se stessi . Il tempo destinato a questo piccolo lavoro nel passato autunno, mi fu tutto rubato da minuti affari e convenienze a cui la carità non permetteva che mi sottraessi. Sono però desideroso, se a Dio piace, di applicarmi a così dolce fatica: ma quando il potrò? Dio solo lo sa; ma per qualche mese vedo la cosa impossibile. Ella preghi che il Signore, mi dia i lumi, gli affetti, le parole necessarie, acciocchè possa essere utile alle anime. [...OMISSIS...] 1.45 Partecipe delle gentilezze del Conte e più ancora della Contessa Masino, non posso a meno di venire a solvere un doloroso uffizio con Lei, ottima signora Contessa, un uffizio della più sincera condoglianza in questa nuova tribolazione che il Signore Le ha mandato, privandola della più intima persona di sua famiglia che sola Le rimaneva. Il Signore è certo egualmente buono, egualmente saggio anche in questi momenti che colla prova del dolore purifica le anime a lui care, come in altri momenti in cui le ricolma di prosperità e le incoraggia colle consolazioni al suo più fedele servizio. Io so, che Ella piena di Fede, e nutrita delle profonde verità della nostra Religione santissima, consolatrice di tutti i mali, non ha bisogno de' miei conforti, e che sa vincere il dolore della natura coll' altezza dell' animo rassegnato e costante. Anzi mi imagino che, avendo Ella conosciuto intimamente la bontà del cuore e le beneficenze del Conte Masino, a cui non mancarono, come mi fu scritto da Torino, nè pure nell' ultima malattia gli aiuti spirituali dei SS. Sacramenti, Ella raffrenerà la naturale afflizione colla ferma fiducia nella misericordia del Salvatore, che egli si trovi in un luogo assai migliore di questo misero mondo, che anche in mezzo alle illusioni che produce, pure si sente essere una terra d' esilio, un albergo di viaggiatori, o più tosto una mobile tenda nel deserto. E questi amari casi che ci fanno sentire vie più che questa non è la nostra patria, che non abbiamo quaggiù una città permanente, destano nelle anime buone come Lei, mia Signora Contessa, un indefinibile sentimento di speranza e un sospiro verso cose migliori e non periture, che ben dimostra quello che è stato detto ancora, che come in seno ai piaceri spunta la spina del dolore, così in seno ai dolori nasce pei veri Cristiani la rosa bella e fragrante della spirituale consolazione. E quel che è più, le disgrazie nostre temporali ci migliorano il cuore, ce lo fanno più umile, più dolce, più caritatevole, più distaccato ed anzi disgustato delle vanità. Onde il Signore che ama i suoi d' un amore perfetto, che ha per oggetto il loro miglioramento spirituale, permette che sieno così sbattuti, e si compiace di quel combattimento fra la natura e la grazia, in cui egli li vede valenti e trionfanti: ed anzi li fa tali egli stesso. Chi non ha più in terra le persone in cui riponeva i suoi legittimi affetti, questi ha più diritto di chiamare Iddio suo protettore, suo padre, suo sposo; chi è sciolto dai vincoli umani, benchè carissimi, questi ha acquistato una maggiore libertà di darsi a Dio e di consecrarsi a tutte le opere della carità e della pietà. Onde S. Paolo parlando della donna che non ha marito, dice che « pensa quelle cose che sono del Signore, ad essere santa di corpo e di spirito ». Certo che, essendo noi vestiti di corpo, quando ci viene rapita dai sensi nostri un' amata persona, non vedendola più, nè udendola parlare, nè potendo noi più parlare a Lei; ci sembra d' averla intieramente perduta. Ma quant' è più sublime il senso della Fede! Questa ci dice tutto il contrario, questa ci assicura che ciò che è perduto della cara persona è il meno, è un nulla in paragone di ciò che s' è conservato: la persona desiderata vive ancora, e non ha fatto che deporre la veste, una veste logora, sdruscita, già non più degna d' esser portata, e tuttavia questa veste non l' ha dismessa per sempre, ossia l' ha dismessa per cangiarla poscia in una nuova, magnifica, nuziale, che non prende più macchia, nè si lacera più, nè si corrode dalle tignuole, nè si consuma dal tempo, e che sempre nuova e bella rimane in eterno. Nè periscono gli affetti della persona resa invisibile ai nostri sguardi carnali, nè la memoria; ma ella pensa a noi ancora, e ci ama di più puro amore, ed è grata ai benefizi ricevuti nella pristina vita, ed è potente per rimeritarceli; perocchè ella sta vicina al trono della grazia e della misericordia. Ed è scambievole tuttavia il commercio degli affetti del cuore, perchè anche noi saliamo coll' ali del nostro spirito e della nostra fede fino a lei e, se ha bisogno ancora di noi, possiamo prestarle i più amorevoli e preziosi uffizi colle nostre orazioni ed opere buone; e, se non ne ha più bisogno, possiamo contemplarla colla speranza nostra nella sua altissima felicità e gloria, e compiacercene, ed esultarne nello spirito del Signore, e renderne a Dio misericordioso le grazie più vive. Ed anzi l' una e l' altra di queste due cose possiamo e dobbiamo fare ad un tempo, secondo la disposizione e l' invito del nostro cuore. Poichè anche quando le virtù conosciute delle persone passate di questa vita ci danno piena fiducia della loro salvezza, non possiamo però presumere che questa povera umanità sia comparita dinanzi all' Essere santissimo priva d' ogni legger mancamento da scontare e purgare; e però dobbiamo suffragarla, se mai di suffragi avesse bisogno. E quanto a me ben Le prometto, mia ottima Signora Contessa, che lo farò, e lo farò fare dai miei compagni, e da questi ottimi Novizii, e sopra tutto dalle nostre Suore della Providenza che tanto debbono a Lei, e che La venerano come madre. Che se il buon defunto non avesse bisogno di questi spirituali soccorsi, il Signore ne accetterà l' offerta a vantaggio della Signora Contessa, acciocchè sulla sua afflizione sparga la grazia, e, buona com' è, vie più la santifichi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Mi congratulo che Ella sia fatto Rettore di cotesto venerato Seminario, perchè questa è una buona occasione che la divina Provvidenza Le mette in mano di poter fare un gran bene alla Chiesa di G. C.. Ma non mi fa stupore l' intendere, che Ella si trovi in molte perplessità e dubbiezze circa la maniera di condurre un sì importante Istituto, in cui si formano ai più sacri ministeri i giovani leviti. E` già un bel lume che le dà il Signore quel di sentire le difficoltà dell' impresa e il bisogno urgentissimo ne' nostri tempi di riformare l' ecclesiastica educazione. Il clero oggidì, parlando in generale, è debole, pur troppo, prostrato e avvilito, rincontro a un secolo che tanto esige da lui: da sè stesso si è ridotto così malamente; ed una delle più grandi e delle più prossime cagioni fu il meschino disegno, le anguste proporzioni a cui si ridusse l' istituzione ne' Seminari. Vorrei poter versare nel suo seno tutto ciò che sento nel mio su questo argomento, se potesse capirsi in una lettera; e perciò attutendo quel sentimento ch' io provo di continuo, direi quasi, di sdegno, Le dirò in quella vece qualche parola almeno in generale, che risponda alla sua generale dimanda. La base immobile dell' educazione ecclesiastica è la SANTITA`. Ah quanto poco s' intende questo principio vitale e sostanziale! quanto facilmente ci si contenta ne' chierici d' una bontà mediocre, d' una vocazione ingombra e macchiata di fini umani, a cui l' acquisto d' un benefizio, d' un posto lucroso, d' uno stato onorevole secondo il mondo, agiato secondo il senso, è termine e scopo principale per non dir unico! Quanto poco si va al fondo per scrutinare la coscienza dei chierici; ond' entrano nel sacerdozio assai spesso schiavi di perverse abitudini, ignari del gravissimo incarico che egli è, con una maniera di pensare bassa, ignobile ed egoista, senza alcun amore agli studi, con amor grandissimo all' ozio, leggieri, mondani, senz' alcuna sodezza di vera virtù! Privi della coscienza della propria dignità, senza pur intendere la propria abbiezione, molti giovani sacerdoti, forse appena usciti da' Seminari, sottopongono le spalle a delicati offici di cura d' anime, delle quali non conoscono il prezzo, e perdendone molte perdon sè stessi. Di che io voglio raccogliere che la persona più di tutte importante in un Seminario è il Direttore spirituale, senza il quale è impossibile farne alcun bene; e vuol essere uomo di gran pietà e di molta testa altresì, giacchè le teste piccole guastano con ottimi fini. Soggiungerò a questa un' altra generale osservazione, ed è che il Rettore, per quantunque grand' uomo egli sia, non può cavare gran frutto dal suo governo senza che gli altri sacerdoti che lo coadiuvano sieno bene scelti, ciascuno a suo posto, e formino con essolui buona unione, per la quale il piano che viene abbracciato si possa eseguire con unità di pensiero e consenso di operazioni. Dopo la santità, radice e fonte d' ogni vero pregio ecclesiastico, viene la dottrina, la quale ne' Seminari si dà ai tempi nostri troppo mutilata, anzi pur come squarci di un cadavere. E mentre il sacerdote di questo tempo dovrebbe saper di tutto, neppure s' istituisce solidamente nella sacra teologia, dalla quale si troncano le più vitali questioni, credendole inutili alla pratica, quando esse anzi sono della pratica stessa la vita e la forza; e talora si assolvono i chierici dallo studio della dogmatica, senza dare pur loro altra morale, che quella de' soliti trattatisti, tutti volti a decidere ciò che è o che non è peccato in uso de' confessori, ma poveri di ciò che riguarda l' alta idea della virtù, e della vita virtuosa, e dell' evangelica perfezione. Onde gli studi, debbono essere, mio egregio signor Rettore, troppo più ampi che non si costuma ne' Seminari a' dì nostri; ed io credo che la sua penetrazione volesse forse alludere a questo difetto, quando mi accennava le sue perplessità ed i suoi timori. Ottimo è il pensiero che Le venne d' introdurre una Cattedra di scienza pastorale e di sacra eloquenza; ma queste scienze, e specialmente quella che insegna a praticare il pastoral ministero, dovrebbe formare il riassunto e quasi la corona di tutte l' altre; giacchè al pastore dell' anime viene il bisogno d' avere alla mano ed applicare ai casi tutte le cognizioni raccolte dallo studio delle varie scienze teologiche e delle ausiliarie. Per l' insegnamento di questa scienza gioverebbe trovare un uomo dotto in tutta la teologia, di gran pratica della cura dell' anime, fornito di naturale prudenza e di gran zelo; acciocchè potesse informare i suoi uditori. Ma non più, benchè l' argomento troppo più richiederebbe. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Nel giornale francese « L' ami de la Religion », 6 novembre 1.45, è riportata una lettera sulla conversione al cattolicismo del dottor Newman, e viene attribuita a V. S.. Io pensai che, se questa lettera è veramente sua, a Lei non dispiacerà che io soddisfi al bisogno del mio cuore che brama farle conoscere quanta consolazione in me e in molti de' miei amici ne abbia prodotto la lettura. La confidenza che Ella ripone nella preghiera, l' esclusione dell' eresia, come di un ostacolo dell' unione, il desiderio d' essere guidato dallo spirito di Dio nella verità, l' uniformità al divin volere, la speranza viva nella divina misericordia, e la sete della giustizia e della santità sono altrettanti doni del Signore, di cui la sua lettera contiene una non dubbia espressione. Voglia Ella dunque permettere, che un sacerdote cattolico del continente, che, nella carità del Signore, La considera come fratello, Le apra tutto intero il sentimento, che provò in leggendo quella sua lettera. Soprattutto il consolò l' intendere ch' Ella riconosce la potestà delle chiavi lasciata da GESU` Cristo alla sua Chiesa, e non potè a meno di dire seco stesso: « Sì, il buon Dio, che ha dati tanti lumi a quest' amico sincero della verità, gli farà anche conoscere, che la divisione dell' Inghilterra dalla Chiesa cattolica è avvenuta per un atto di questa potestà ». Quando io lessi nella medesima lettera, che ciò che tiene lontane dalla Chiesa cattolica le persone religiose d' Inghilterra, non sono le dottrine, ma alcune pratiche della Chiesa Romana, io ho concepito la più viva speranza, che Iddio, compiendo le sue misericordie, farà conoscere altresì a tali persone che la Chiesa Romana, che si professa nemica di ogni superstizione, non approva ciò che potrebbe esservi di men retto nelle pratiche di alcuni individui cattolici; e molte pratiche che in se stesse non sono cattive, salvo il dogma, non le impone come obbligatorie ai fedeli. Sì, tutti noi cattolici, da ogni parte del mondo, abbiamo ora rivolti gli occhi a cotesta illustre terra inglese, e facciamo incessanti e concordi preghiere, perchè il Signore voglia compire le sue misericordie sopra di quella, e speriamo, che quando il Signore, venuto il tempo, ci avrà esauditi, rinnestando questo tralcio separato nella vite del Supremo Padrone, la quale non può essere che unica, secondo le parole di Gesù Cristo; allora questo tralcio debba dare « fructum plurimum »: noi siamo persuasi, che Iddio prediliga cotest' Isola, e che il suo santo Spirito, spirito d' unione, operi in molte persone di buona fede, che pregano il Signore nella rettitudine del loro cuore, e che quest' operazione divina non potendo rimanere imperfetta, condurrà tali persone all' unità. Noi bramiamo che tutte queste persone possano prima di morire arrivare a quest' unità, verso cui sono mosse dal divino Spirito, senza però che il loro libero arbitrio rimanga legato. Specialmente noi lo bramiamo e lo speriamo per quelle che, riconoscendo già il potere delle chiavi, possono invocarlo e dimandare che loro sia aperto, se prima fu loro chiuso, e, riconoscendo il potere di legare e di sciogliere, possono dimandare d' essere slegati, se prima furono legati; il che appunto fece colui, nel quale V. R. nella sua lettera riconosce che operò lo spirito di verità. Questo spirito di Dio certamente lo illuminò a vedere che, se nella Chiesa non vi fosse un poter supremo delle chiavi, ma questo potere fosse dato a molti in egual grado o alle stesse condizioni; egli sarebbe esposto al disprezzo, e riuscirebbe incerto ed inutile, perchè mentre l' uno chiuderebbe, l' altro aprirebbe; mentre l' uno legherebbe, l' altro slegherebbe; si legherebbe e si slegherebbe a vicenda. Io confido nella retta intelligenza di V. R. e nel lume che Le dà e Le darà il Signore, che Ella riconoscerà come una verità di fatto, che quelli che rientrano nella Chiesa Romana, non solo riconoscono il potere delle Chiavi, ma il poter supremo delle Chiavi in S. Pietro e ne' suoi successori, avendo GESU` Cristo consegnate le chiavi nominatamente a quest' Apostolo, e impetrano che questo potere supremo delle chiavi apra loro la porta del regno de' cieli, che prima era loro chiusa. Questo è il fatto, tale è la loro credenza. Se questa loro credenza fosse falsa, sarebbe un' eresìa; ed Ella stessa riconosce che nella Chiesa Romana eresìe non ve ne sono. Se fosse un' eresìa, od anche semplicemente un errore professato da tutta la Chiesa Romana, come lo spirito del Signore avrebbe condotto nell' errore colui, di cui Ella parla nella sua lettera, ed altri, in cui Ella stessa riconosce l' operazione e la volontà di Dio? E se in tali persone la grazia del Signore, data probabilmente alle loro ed alle altrui preghiere, com' Ella giustamente osserva, produsse questo frutto; non è egli da credersi, che i bei semi che si sviluppano nel seno della Chiesa anglicana, siano appunto doni di Dio, che non abbandona le anime religiose di questa chiesa, per condurle soavemente allo stesso termine, cioè nell' unico ovile dell' unico Pastore? Che se non si può negare che la separazione dell' Inghilterra si operò per un atto della podestà delle chiavi, non si può nè pur negare che vi avesse una giusta ragione per un tal atto, cioè l' eresia che Ella, col lume datole dal Signore, riconosce esistere, più o meno, nel seno della chiesa anglicana. Non si può negare che l' eresia fu considerata sempre nella Chiesa per un giusto motivo di separarne le parti infette, privandole della comunione ecclesiastica, e che i fedeli, in un tal caso, si riconobbero sempre gravemente obbligati di tenersi uniti colla parte sana della Chiesa, dividendosi dall' altra; come pure è certo che la parte divisa dalla Chiesa non può esservi ricongiunta, se non per un altro atto della potestà delle chiavi che riapra loro la porta. Dio pur volesse che tutti i Vescovi separati che sono in Inghilterra, insieme colle loro diocesi, venissero all' unità! E parmi che il suo cuore, pieno di zelo per la gloria di Dio, miri a questo, ed aspetti questo, e lo solleciti colle sue preghiere. Se il Signore la esaudirà, noi ne benediremo tutti insieme con Lei il Signore in eterno! Ma se qualcheduno fosse chiamato dal Signore alla prima, alla terza, o alla sesta ora della giornata, io non vorrei che egli aspettasse a venire a lavorare nella vigna del Padrone per entrarvi insieme con quelli che fossero chiamati all' ora undecima. Quando il Signore chiama un popolo, suol nascere una specie di giudizio, una separazione fra quelli che egli assume e quelli che egli lascia: difficilmente rispondono tutti alla chiamata, « quidam credebant his, quae dicebantur, quidam vero non credebant »: i primi fanno la strada agli altri. Io credo che quelli che si unirono testè alla Chiesa cattolica, abbiano trovata la via più sicura e più breve di ristorare a nuova vita la chiesa anglicana. Le mie preghiere, o piuttosto quelle di noi tutti cattolici tendono a questo: ma noi preghiamo specialmente per colui, di cui il Signore si servì e si serve per purificare la chiesa anglicana dall' eresìa, per mezzo del quale ha fatto nascere in essa un movimento sì consolante: noi preghiamo caldamente, acciocchè il Signore si degni di fare divenire costui una di quelle pecore che affidò a Pietro, quando gli disse: « « Pasci le mie pecore » ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.46 Il P. Molinari mi avea pur troppo reso consapevole del pericoloso stato dell' ottima Signora Marchesa, sua madre, e preparato a sentire d' un giorno all' altro il doloroso annunzio, ch' ella ci ha abbandonati. Mi figuravo il dolore di tutta l' egregia famiglia, e particolarmente l' afflizione del mio carissimo amico Gustavo, di cui troppo conosco il tenero cuore. Ed ecco la sua lettera, che m' annunzia compiuta la trista aspettazione. Quell' ottima Signora adunque, delizia de' suoi congiunti, ornata di tanta carità, piena di tanta fede e ricca di tanta pietà, non è più visibile agli occhi nostri, non si trattiene più con noi in famigliari e virtuosi colloqui, non più appare qual centro, intorno a cui consorte, figliuoli ed amici si trovavano così volentieri uniti, e con sì virtuoso affetto! Ah diamo pure il suo tributo di lagrime alla natura che si risente della grave sua perdita; e poi diciamo col più famoso esemplare di religiosa fortezza che presentasse il tempo antico: « Dominus dedit, Dominus abstulit; sit nomen Domini benedictum! » Tale è certo l' esclamazione, che avrà già fatto più volte, con tutta la sincerità del religioso suo cuore, il mio carissimo marchese Gustavo, di cui ho prova nella stessa sua lettera: e quanta soavità di conforto non avrà già gustato! Quale salubrità di balsamo non è egli questo versato dalla fede nelle piaghe sanguinanti della natura! La volontà di Dio: che sublime parola! che luce per l' intelletto che conosce ed ama Dio! che bene ineffabile ed infinito che supplisce e compensa ogni altro bene! Oh volontà santissima, volontà sapientissima ed ottima, fuori della quale anzi non è più bene, ma sola illusione di bene, fiat, fiat! Oh adesione fortunatissima del nostro volere col volere sommamente buono, unicamente buono e perfetto dell' Onnipotente, adesione che trasforma in beni tutti i mali, in felici avventure tutte le umane calamità! Tali sono i sentimenti che io veggo in Lei, mio caro Marchese, e di cui io pure traggo come in questa, così in ogni altra sciagura temporale, indicibil sollievo, ineffabile consolazione. Ed ora specialmente mi è oltre misura caro il pensiero di avere questo conforto con Lei indiviso, al cui dolore partecipo. Ma dobbiamo ancora non poco rallegrarci considerando con che pietà la Signora Marchesa compì la sua carriera mortale, avendomi il P. Molinari raccontato con quale fortezza si faceva incontro al suo fine, con quanta sollecitudine dimandò e con quanta divozione ricevette i Sacramenti della Chiesa, e quanto rassegnata e sperante mutò questo albergo transitorio colla patria intrasmutabile. Onde se noi rimaniam privi per brev' ora di Lei, ella non rimane però priva nè di Dio, nè di noi, che in Dio ci rinviene e possiede. Che se qualche leggera macchia tenesse questa carissima anima, che fu viatrice per questo cammino del mondo, tutto fango e belletta, dove è sì difficile andare senza imbrattarsi ed è pure difficile nettarsene interamente, ancora lontana dalla visione della faccia del suo Creatore, a cui non può essere ammesso chi sia della luce men puro: il Signor nostro Gesù Cristo nella sua immensa bontà ci ha lasciati anche i mezzi efficaci per accelerare, coll' applicazione de' suoi meriti, la purificazione delle anime trapassate e renderle degne del suo cospetto. Ed anche questa istituzione divina e questa efficacia, che ci attesta la fede delle orazioni, e dei suffragi, e delle buone opere a vantaggio de' nostri cari defunti, è pur cosa preziosissima pei passati e consolantissima pei superstiti che possono accelerare il momento della beatitudine di quelle anime. Io unirò certamente le mie povere preci alle sue ed a quelle della famiglia, e anzi vengo pur ora (giacchè ho dovuto interrompere ier sera questa lettera) dall' aver celebrata la Santa Messa in suffragio dell' anima della Signora Marchesa, e così farò pur fare de' suffragi a' Sacerdoti miei ed alle nostre buone Suore della Provvidenza. Se si considera con viva fede che cosa sia la visione beatifica, oh quanta voglia viene d' invidiar santamente quelle anime, che già la godono! e quanto sdegno nasce contro la fiacca nostra natura che vorrebbe piangere di ciò che era pur necessario che avvenisse perchè fossero felici! Quanto stimolo altresì possiamo cavare da sì duri avvenimenti per istaccarci e liberarci vieppiù dalla servitù delle cose visibili ed unirci con Dio, considerando il tempo della vita presente come datoci dalla Provvidenza per fare il maggior bene possibile a' nostri prossimi e così ottenerci poi il riposo di un' eterna felicità! Le parole di S. Paolo: « dum tempus habemus operemur bonum », saranno forse corse al suo pensiero in questi momenti, come occorrono al mio. Mi imagino pur troppo quanto sentiranno vivamente la perdita fatta l' egregio Signor Marchese suo Padre, e l' ottima sua ava. La prego di presentar loro, come pure al Conte Camillo, le mie condoglianze più sincere. Potessi essere a Torino e dar loro qualche conforto! Ma sono anch' essi sì religiosi, che troveranno nella mano che flagella la mano altresì che copiosamente consola. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.46 Io spero che vedrò il sig. Newman, che Ella menziona nella venerata sua lettera, al ritorno di lui da Roma. Manzoni mi recò la lettera di Phillipps, che me lo raccomandava, qui a Stresa, e mi duole di non aver avuto occasione di prestargli qualche servizio da queste parti. Del resto ciò che Ella dice della sommissione di noi Fratelli della Carità all' Ordine gerarchico, ella è un punto capitale del nostro Istituto. Ho ben veduto che un Istituto generale non potrebbe esistere, se fosse, assolutamente parlando, soggetto alla giurisdizione dei Vescovi delle singole diocesi, ciascun de' quali pensa naturalmente pel suo gregge, e non allo stesso grado pel bene generale della Chiesa, che più importa, e che dee formar lo scopo di un tale Istituto; ho conosciuto che gli Ordinari delle diocesi non potrebbero reggere un Istituto colle stesse massime, collo stesso spirito, con perfetta concordia d' azione, e quel che è più, che, occupati nella cura esteriore delle anime, non avanza loro tempo (nella presente condizione di cose) per coltivare, quanto importa, la vita religiosa ed interna de' membri d' una tale società, che è pur la radice ed il fondamento delle virtù e delle opere esteriori. Ma d' altra parte, essendo essi i legittimi successori degli Apostoli, avendo la missione da GESU` Cristo, chi mai potrebbe, secondo una retta dottrina, voler operare qualche cosa nella Chiesa, senza la loro direzione, senza esser mandati da essi? Procurai dunque nell' Istituto della Carità di conciliare questa sommissione, obbedienza e religiosa servitù all' ordine gerarchico colla universalità dell' Istituto, colla indipendenza necessaria per poter esistere in un corpo ben unito, e perciò stesso forte, ordinato al di dentro e animato da un solo spirito, senza pericolo che ne venisse a patire la vita e la perfezione interiore. Ad ottenere tale doppio intento l' Istituto fu esentato dalla giurisdizione vescovile, acciocchè i propri Superiori potessero liberamente occuparsi a formare i loro soggetti alla santità; ma ebbe in pari tempo per sua regola e massima fondamentale di considerarsi come professore di vita ritirata e nascosta, aspettando dalla Provvidenza le occasioni di esercitare la carità, senza cercarle, e aspettando dai Prelati della Chiesa la missione necessaria per esercitare la cura delle anime e la predicazione apostolica; esercitando in tutto e per tutto questi ministeri secondo il voler dei Vescovi e prestandosi in ogni cosa di carità alle loro domande preferibilmente a quelle di qualsivoglia altra persona. E poichè, qualora i Parrochi e Vescovi fossero dell' Istituto stesso, cesserebbe ogni difficoltà; perciò fu pure stabilito come regola precipua, che qualora alcuno dell' Istituto fosse chiamato da Dio alla cura d' una parrocchia, egli fosse parroco e ad un tempo Superiore nato di tutto l' Istituto entro i confini della parrocchia, e così se fosse innalzato al vescovato, egli sarebbe Vescovo ad un tempo e Superiore nato di tutto l' Istituto entro i confini della diocesi. Ciò deve sempre aver luogo, verificandosi alcune condizioni stabilite dalle Costituzioni. Così l' Istituto è diviso per parrocchie, diocesi, provincie ecc., divisione rispondente a quella dell' Ordine gerarchico a cui deve servire. Venendo ora al discorso de' riti orientali, che è il principale oggetto della venerata sua lettera, niente affatto dubito di confidare alla sua prudenza ed amicizia la mia maniera di sentire; ed ecco qual' è. L' attaccamento dei varŒ popoli ai loro riti è così grande, e, se mi permette di dire, così cieco, che io credo che sarebbe impossibile di far rientrare nella Chiesa le nazioni scismatiche ed eretiche dell' Oriente, quando si pretendesse di farle nello stesso tempo cangiar di rito, inducendole al rito latino od altro; o almeno io giudico che per tali nazioni sarebbe uno sforzo assai più difficile mutar di rito, che mutar di fede. L' attenta osservazione del fatto lo prova a qualunque uomo che sappia osservare. Quindi la sapienza della Chiesa e della S. Sede raccomandò sempre a' Missionari che i riti orientali fossero rispettati: Ella conosce in particolare i Decreti di Benedetto XIV. Posto dunque questo sommo attaccamento alle antiche e venerabili liturgie de' popoli orientali, posto altresì l' efficacia del pubblico culto sul sentimento religioso, io credo, che una delle principali massime della Chiesa Cattolica nell' opera d' invitare a sè que' Cristiani che sono fuori del suo seno, debba essere e sia di mantenere o restituire a quei riti tutta la dignità che possono aver perduta agli occhi dell' Occidente, com' Ella dice egregiamente. Stimo del pari che sia un felicissimo pensiero quello che mi accenna, l' introdurre i diversi riti fra i membri delle Congregazioni cattoliche destinati a diventar Missionari e Pastori di quelle pecore sbrancate. Per riguardo all' Istituto della Carità basta il nome che porta a far risposta alla sua dimanda, basta il motto che lo caratterizza omnibus omnia . Ma acciocchè non nascesse confusione da tale provvedimento si dovrebbero istituire collegi di missionari, destinati a vantaggio di que' popoli che professano quei riti. E l' Istituto della Carità a ciò sarebbe disposto tanto più, che egli suole dividere i suoi membri in altrettanti collegi, quante sono le opere principali di Carità ch' egli esercita. Onde sarebbe cosa tutta conforme alla sua istituzione e al suo spirito che v' avesse, poniamo, un Collegio di Missionari pei Russi, uno pei Greci, uno per gli Armeni, e così discorrendo per le diverse chiese scismatiche di rito diverso. Vero è che nella regola nostra si dice che i membri dell' Istituto usano il rito romano; ma questo fu detto unicamente per escludere i diversi riti occidentali, che discordano dal romano, essendo troppo desiderabile che l' Occidente abbia un rito solo; ma non fu detto per escludere i riti orientali. Per altro, come Ella osserva, dovrebbe sempre intervenire in ciò la facoltà e l' approvazione della S. Sede Apostolica. Noi non cesseremo di pregare il Signore, che le eccellenti vedute di Lei e l' ardente suo zelo per l' avvenimento del suo regno apportino un frutto abbondantissimo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.47 Voi volete qualche indirizzo che vi scorga a ben giudicare delle cose presenti. Io non dubito che il movimento italiano sia ordinato da Dio a trionfo della sua Chiesa: ma anch' egli è un conflitto de' più opposti elementi, e la luce e le tenebre pugnano mescolati insieme, e pugnano a morte. Fra i campioni dell' inferno e quelli del cielo v' ha un partito mezzano simile a quello « degli Angeli che non furon ribelli, nè fur fedeli a Dio, ma per se foro (Dante) ». E benchè anche i primi sappiano qual sia l' arte dell' ipocrisia raffinata, tuttavia egli è men difficile guardarsi da essi che non sia giudicare rettamente di quelli che occupando il mezzo, partecipano dei due estremi. Per additarvene il carattere mi basta che voi consideriate quelle parole che Cesare Balbo pose in fronte al suo libro delle « Speranze »: «porro unum est necessarium ». A costoro l' un necessario non è più liberare l' anima dalla servitù del peccato, ma liberare l' Italia dalla servitù degli Austriaci. Dal qual principio logicamente procede che gli si può dare tutto, anche l' anima, per ottenere, quell' uno necessario; quindi agli occhi o almeno nella pratica di costoro, tutti i mezzi sono buoni per arrivare a quell' uno. Questo principio spiega maravigliosamente i loro costumi: bugie, calunnie, artifizi, sommovimento di passioni popolari, adulazioni, latrati, seminazioni di odŒ e di astŒ sopratutto nel clero, schiavitù della Chiesa, provocazioni alla violenza e alla guerra ecc.: tutto è buono, tutto è santo, tutto è perfettamente cristiano per ottenere il grand' uno necessario del loro nuovo cristianesimo, del loro nuovo evangelio. Da questo voi potete raccogliere che è una somma grazia che Iddio ci fece traendoci fuori dal caos di questo mondo e mettendoci in un cantuccio al sicuro da tanti inganni che avremmo potuto prendere, e da tante occasioni nelle quali avremmo potuto offenderlo. Per me ne giubilo, e non ho lingua da ringraziarnelo a sufficienza. Del rimanente ancora io vi ripeto essere io persuasissimo che tutto ciò che accade di bene e di male, mosso o permesso dall' altissima Provvidenza, tutto sarà in fine condotto ad uno dei più splendidi trionfi e delle più magnifiche glorie della sua Chiesa. Noi, e come cristiani e come italiani e come sacerdoti e come religiosi, potremo aiutare grandemente il felice esito del terribile dramma combattendo coll' orazione incessante, e con una diligenza, una carità vie maggiore nell' adempimento di tutti i nostri doveri. Per questa via le due parti, in cui non voi solo, mio dolcissimo, ma tutti siamo pur troppo divisi, diverranno un solo tutto; o almeno quella che è degna di vincere, vincerà e dominerà l' altra, che n' è indegna e che perirà come merita, lasciando che la prima s' integri e si compia in Dio suo principio, ove tutto ritrova, onde tutto ricupera. Nella separazione dal mondo, nella dolce pace della solitudine aspirando alla patria celeste, gioveremo alla patria terrena, perocchè i flagelli delle nazioni vengono dai peccati degli uomini; e dalla fede, dalla speranza, dall' amore, dalle sopraumane virtù vengono chiamate tutte le benedizioni sopra di esse. Ecco l' indirizzo che do a me stesso, e che do a voi, mio dolcissimo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.47 Rilevo dalla cara sua lettera che il Signore sapientissimo ed ottimo lavora dentro e fuori di Lei, e tutto dispone acciocchè Ella, distaccato da tutto l' universo, tutto a lui si consacri ed alla carità che è lui stesso. « Deus Charitas est . » A lui solo onore e gloria. Tanta grazia, che Iddio vuol fare a Lei, la desidero e prego a tutti, acciocchè sia fatta in terra la volontà del Creatore nostro com' ella è fatta nel cielo. Non badi alle parole ancorchè buone in se stesse, e di buoni, e fatte per bene, o sub specie boni , che la potessero raffreddare o disviare da quel santo proponimento in cui Ella ha posto la mira, e a cui non conduce, nè invita le anime giammai il nemico dell' anime. E se il movimento non può venire da di giù, dunque viene da di su; ne stia certo. Ella mi domanda alcune ragioni che persuadano come giovi sommettersi al giogo di una ubbidienza pienissima, qual si pratica nell' Istituto della carità, e vorrei scriverne un librettino, se avessi tempo, ma eccone alcune delle principali: 1 Il sentimento costante della Chiesa e specialmente di tutti i Santi schierati in ogni secolo, e per nominarne due soli, di san Basilio che raccolse le tradizioni orientali, e di san Benedetto che raccolse le tradizioni occidentali. 2 Le parole di Gesù Cristo: « qui vos audit, me audit »; le quali furono costantemente intese anche dell' ubbidienza religiosa « usque ad sanguinem », attesochè i Superiori degli Istituti approvati da' Sommi Pontefici ricevono dalla Chiesa l' autorità in quel modo che viene dichiarata nelle regole. 3 L' essere l' ubbidienza descritta la maggiore umiliazione ed annegazione dell' uomo, e però il contenere in sè l' adempimento compiuto delle parole di Gesù Cristo: « Qui vult venire post me, abneget semetipsum »; quindi ella ha un merito intrinseco, indipendente affatto dall' oggetto intorno a cui si esercita, o dall' essere prudente o non prudente il comando del superiore, purchè quanto viene comandato sia onesto; il vero bene sta nel prezzo morale dell' atto, non nella materia intorno a cui s' esercita; e la perfezione consiste nel cercare solo il vero bene, il valore morale. 4 L' umiltà , che è virtù evangelica intrinsecamente buona e perfetta, e che adduce un bassissimo concetto di se stessi e comparativamente un alto concetto di tutti gli altri, persuade il sottomettersi all' altrui parere, anche opposto al proprio, e quindi adduce all' ubbidienza , nella quale ci ha sempre un atto di umiltà, all' ubbidienza verso tutti, come dice san Francesco di Sales, molto più verso i superiori legittimi. 5 L' essere l' ubbidienza perfetta di molti ad un solo l' unico mezzo di esercitare la più estesa carità possibile a vantaggio del prossimo, e di compire le più grandi opere possibili per la gloria del Signore e della Chiesa; e ciò perchè un corpo, una società unita, diretta da una sola mente, è una macchina potentissima che ottiene assai più di quello che possano ottenere le forze sparpagliate dei singoli individui. Così un esercito regolare è immensamente più forte dei combattenti isolati senza direzione comune. Sarebbe un inganno manifesto quello dei soldati che volessero uscire dalle file o perchè non approvano le mosse ordinate dal condottiere, o perchè credessero di operare di più, liberi ed isolati: adoprerebbero forse di più, affaticherebbero forse di più, ma otterrebbero molto meno, ed anzi si farebbero ammazzare con poco frutto. Lo stesso è a dirsi dell' esercito del Signore. E` impossibile che individui divisi, per quantunque siano attivi, possano fare quello che possono fare società intere, rese forti dall' unione dell' ubbidienza. Conviene considerare che la perfezione consiste nel desiderio efficace di fare o di occasionare il maggior bene possibile a bene del prossimo e a gloria di Dio e della Chiesa. « Non si può dunque raggiungere la cima della perfezione se non unendosi in un corpo, associandosi in molti con perfetta ubbidienza, che è il vincolo dell' unità ». Tutto deve cedere a questo riflesso, se il desiderio del bene, di ogni bene, del bene maggiore possibile è veramente quello che vive e domina nelle anime nostre. Chi non adopera quel mezzo, che è l' unico ad ottenere di promuovere tutto il bene possibile, questi non è perfetto. Questa fortissima ed evidentissima ragione, che persuade la più piena ubbidienza, acquista un peso assai maggiore rispetto ad una società, che si prefigge appunto la carità nella sua immensa universalità, il precetto di Cristo senza limite alcuno. Il pensiero che il superiore potrebbe sbagliare nel comandare, non ha più forza alcuna contro quella grande ragione, perchè l' uno o l' altro sbaglio del superiore, d' uno o d' altro superiore, non toglie che, considerando la cosa in universale, la società a malgrado di tali sbagli accidentali, produca immensamente più bene che non gli individui separati, i quali sono pure anch' essi esposti qualche volta a prendere inganno, e tanto più quanto più sono liberi e abbandonati, e quanto sono meno umili. 6 Dimostrato che l' ubbidienza pienissima è intrinsecamente cosa santa e perfetta, e che racchiude in sommo grado le virtù evangeliche dell' umiltà, dell' annegazione, e della carità del prossimo, ne viene di conseguente che l' ubbidiente è preso sotto la protezione di Dio stesso, a cui intende ubbidire ed ubbidisce nel superiore, perocchè colui che fa tutto per Iddio, ha Dio che lo guida. « Justum deduxit Dominus per vias rectas ». Iddio dunque è quello in cui l' ubbidiente confida, e questa confidenza non può essere confusa, perchè Iddio « non confundit sperantes in se ». L' ubbidienza dunque da una parte è un atto di fede perfetta e di speranza in Dio, dall' altra ha seco la certezza che non può produrre all' obbediente se non il massimo bene, perchè tale è sempre lo scopo della direzione che presta Iddio a quelli che in lui s' abbandonano. Iddio conduce dunque l' uomo ubbidiente, ogni dì più, al vero suo bene, e per fare questo si può servire ugualmente d' ogni cosa, fin anco degli sbagli del superiore, i quali non sarebbero permessi se non fossero occasioni di bene all' ubbidiente preso in cura da Dio. Se dunque sbaglia talora il superiore, non isbaglia Iddio che lo permette, e lo permette sol quanto giova all' ubbidiente e non più: del resto Iddio illumina i superiori, dando loro tutta quella sapienza appunto, che è necessaria a conseguire il sommo bene degli ubbidienti, la somma loro santità a cui risponde una somma gloria. Per questo lo Spirito Santo dice in modo assoluto: « vir obediens cantabit victorias ». Eccole, mio carissimo in Cristo fratello già e compagno, alcune delle ragioni da lei dimandate. Nella lettera di S. Ignazio sull' ubbidienza, che la esorto a leggere, troverà altre belle cose. Da questo apparisce che l' ubbidienza, benchè pienissima, non è mai cieca: è cieca di ragioni umane, ma non è cieca di ragioni divine: si rinunzia per essa alle ragioni piccole e minute, ma non si rinunzia alle ragioni grandi, universali, soprannaturali: con essa si può talora fallire ad un fine mediato, ma non mai e poi mai al fine ultimo ed assoluto, all' unico nostro fine, a quello che è vero fine, e da cui tutti gli altri ricevere possono qualche valore. Dunque « exultemus in Domino » di avere trovato il tesoro nascosto nel campo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.4. Nelle più gravi sventure, da cui noi siamo colpiti, vi è la mano dell' amore infinito. « Deus charitas est . » Se a noi fossero palesi i misteri della sua misericordia che si nascondono talora fra i più giusti rigori, se fossero palesi e svelati come agli occhi dei comprensori celesti, l' anima nostra non potrebbe conoscere altri affetti che quelli della riconoscenza e del gaudio nelle prospere e nelle avverse cose egualmente. La santa fede supplisce alla nostra ignoranza dei grandi disegni dell' infinita bontà di Dio, ella basta a conservarci la pace del cuore nelle più gravi avversità, com' Ella esperimenta in questo momento; ma essendo la fede un lume infallibile sì, ma velato, se rassicura e conforta d' ineffabili speranze la parte nostra superiore, non impedisce sempre in noi che la nostra parte inferma senta potentemente la scossa della sciagura che ci priva delle cose più care. Così Iddio permise che fossimo ridotti per effetto del primo peccato, acciocchè il patire diventasse un merito, una purificazione, un sacrificio accetto al Signore unito a quello del suo diletto Unigenito che più di tutti ha patito, crocifisso di amore. Chi sa da quanti pericoli, da quante colpe, fu salvato il suo Augusto? Forse era questa l' unica via di condurre quell' anima al cielo, dove ora adora ed esalta la divina bontà, e reputa per la maggiore di tutte le sue fortune la ricevuta ferita e il breve patire, e prega pel suo tenero padre. Forse in una malattia non avrebbe ricevuto i Sacramenti colla stessa divozione e collo stesso fervore, lusingandosi di campare, e, se avesse avuto da rendere il conto di una vita più lunga, sarebbe forse stato còlto dalla diffidenza, o mancatogli quell' ardore che è proprio dell' età giovanile non ancora pervertita. Deh quanto mai non v' ha a temere e a tremare per la gioventù in questo secolo nequam! Quand' io considero i rischi d' un giovane in mezzo al mondo, reputo che Iddio debba fare un prodigio ogni volta che ne conduce uno sano e salvo all' eterna città dei santi. Tutto ciò che Iddio fa, lo fa per salvare le anime: questo è il fine della creazione: per questo fine è morto Gesù Cristo: i santissimi Sacramenti sono istituiti per questo ed hanno un' efficacia infinita, perchè hanno in sè la potenza di Gesù Cristo; egli ce li ha lasciati quand' è asceso al cielo, in suo luogo. L' opera di Dio non è mai priva del suo effetto: riposi dunque tranquillo nella grazia dei Sacramenti, munito dei quali il suo Augusto partì da noi. Suffraghiamo dunque colla più gran fiducia nella divina bontà il carissimo defunto, che fu sempre raccomandato al Signore anche prima della sua fine: celebrerò la S. Messa per l' anima sua, e raccomanderò a tutti i miei compagni di unire pure le loro preghiere al medesimo fine. Il dogma del Purgatorio è pure anch' esso un dogma consolatore! Quanti peccati che a giudizio degli uomini sembrerebbero mortali, agli occhi di Dio che considera le subbiettive disposizioni, riescono forse pure venialità, o per mancanza di piena cognizione, o per mancanza di deliberazione al male ch' essi contengono! Si conforti adunque, mio carissimo e veneratissimo Marchese: le orazioni non sono mancate in vita, non mancheranno in morte al suo Augusto: e l' orazione fatta per Gesù Cristo ottiene ogni cosa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.4. L' umanità mia soggiacque ad un gravissimo dolore leggendo nella cara vostra del 12, ieri pervenutami, che il nostro carissimo fratello Giov. Battista Boselli sta per abbandonare il consorzio di noi suoi compagni nel terreno pellegrinaggio. Egli ebbe ripieni i suoi giorni di buone opere: fu un di quelli che portò il calore ed il peso della giornata; e la sua dolcissima serenità in sul letto di morte, di cui voi mi parlate, come è pegno e preludio della prossima mercede che sta per isborsargli il Padron della vigna, così deve essere a noi d' ineffabile conforto e stimolo acutissimo per imitare i suoi esempi, la sua instancabile assiduità nel confessionale e in ogni altro penoso ufficio riguardante la salute delle anime, la sua pazienza conosciuta da pochi, ma ben nota a Dio, la rettitudine delle sue intenzioni, il fervore del suo zelo, la sua carità che il faceva tutto a tutti, la sua profonda umiltà e pieno distacco da ogni applauso degli uomini che temeva potergli diminuire la pienezza della mercede. Sì, io lo conobbi intimamente questo caro nostro fratello, che fu uno dei primi, di cui gustassi lo spirito: l' ho venerato profondamente, e molte e molte volte santamente invidiato. Quante volte non m' ebbe egli comunicato dei sentimenti celesti, e dei documenti preziosissimi! Quante volte non mi sono avveduto che nel suo spirito si diffondevano degli sprazzi di lume divino, lume intimo che forma il secreto dei santi! Ah sì, se egli se ne è andato, forse a quest' ora che scrivo, al possesso di quel Bene che ha sempre e solo amato, noi non dimentichiamo per questo di tenerlo vivo e presente agli occhi nostri, come un esempio di molte e rare virtù donatoci da Dio, perchè noi ne caviamo copioso profitto. Io intanto mi sono subito a Dio rivolto, sia per offerirgli il sacrifizio di questo caro compagno, sia per pregarlo che se qualche macchia dell' umana infermità lo rendesse tuttavia men degno del suo cospetto, purgata la macchia nel sangue di Cristo, e reso del tutto immacolato, volesse accoglierlo nel beato suo seno; sia finalmente perchè esaudisse l' orazione che nel suo seno il nostro felice compagno gli rivolgesse per noi che lasciò quaggiù pellegrini. Ma nel mentre che la virtù, la fortezza, la generosità del nostro compagno ci brilla dinanzi agli occhi più bella e più desiderata nel momento che ci vien tolta, dovremo noi forse, mio carissimo, pensare a gettare giù dalle spalle la soma che ci ha imposto il Signore, quasi sfiduciati per la mancanza dell' aiuto che ci prestava quell' operaio, che avendo finita la sua giornata entrò nel riposo e nel gaudio del Signore? Sono questi gli altissimi sentimenti della sublime vocazione a cui Iddio ci ha fatto la grazia di chiamarci? Pensa forse il soldato valoroso ad abbandonare il posto, dove il suo capitano lo ha messo in guardia? o non preferisce anzi di lasciarvi la vita più tosto che mancare al suo dovere? E` questo l' esempio che il divino nostro Capitano Gesù Cristo lasciò a coloro che si arrolarono al suo vessillo? E l' agricoltore, che semina il campo in un fondo, perde forse la speranza della raccolta al vedere che sopravviene il verno, e che si copre la terra di neve e di ghiaccio? o il vignaiuolo che pota la vite vuol forse raccogliere i grappoli maturi da oggi al domani, o anzi non aspetta con pazienza e fiducia che venga il sole a maturarli e colorirli, alla stagione ordinata dall' Autore della natura? Avremo noi meno longanimità, meno fede nella Provvidenza divina di quella che s' abbia il bifolco, o qualunque altro uomo industrioso e prudente del secolo, che ben conosce le cose tutte avere un periodo, ed il principio di un' opera od una intrapresa lucrosa esigere prima grandi spese e fatiche, e solo dopo gran tempo potersi adunare nello scrigno il guadagno? o saremo noi così indiscreti, così presuntuosi e temerari da pretendere da Dio favori e grazie, frutto di anime a lui guadagnate senza alcuna nostra grave fatica, senza sforzi, nè stenti, nè patimenti da parte nostra? Quando mai fece Dio tale cosa coi santi suoi? Non abbiamo noi forse lette le vite degli uomini apostolici, la loro costanza ne' travagli, la fiducia che non venne loro mai meno nella superna pietà, il sudore, il sangue, le ambascie, le malattie, i patimenti d' ogni maniera, coi quali essi ricomperarono insieme con Cristo le tante anime che hanno condotte a salvamento, arrivando S. Paolo a dire, che essi supplirono a ciò che mancava a' patimenti di Cristo? Ai quali non mancava certo niente in ragione di merito, essendo in essi il fondo di ogni merito, ma mancava in ragione di applicazione, volendo Gesù Cristo stesso in via ordinaria, per la sua infinita bontà e sapienza, che i Santi apostolici, unendo i loro patimenti a' suoi, ottengano che i suoi meriti vengano applicati a tante anime, che altramente andrebbero perdute, e che così partecipino anch' essi di ogni maniera di sua gloria, fatti quasi con esso lui corredentori del mondo. Beati quelli che intendono questa dottrina e se l' appropriano! Ingannati quelli che, invitati da Cristo alla vita apostolica o comecchessia chiamati legittimamente alla cura delle anime, cercano in un' altra dottrina la loro beatitudine! Vi debbono dunque, mio dolcissimo fratello, incoraggiare queste riflessioni fondate nella parola di Dio, a non lasciarvi venire meno l' animo, tenendovi fermo al luogo che vi è assortito, acciocchè non « excedas de loco tuo »; nè vi commuova punto il poco frutto, che sembravi fare tra questa popolazione, dovendo anzi per ciò stesso essere più cara al cuore del pastore partecipe di quella carità, di cui ardea colui che è il buon Pastore, e che cercò noi stessi prima di tutto come pecore sbrancate, e ci ridusse, senza badare a ciò che gli costavamo di affanni e di sangue, nel suo sicuro e dolcissimo ovile, nè contento di farci sue pecore, volle parteciparci il suo proprio pastoral ministero. Vi sovvenga di ciò che c' insegna la Scrittura divina, quando ci ammonisce che [...OMISSIS...] . Dalle quali parole s' inferisce che pel contrario riesce alla fine benedetta quella eredità che s' acquista con lunga aspettazione di stenti e fatiche. Vi sovvenga che non si edifica la casa se non colla sapienza, che non si consolida se non colla prudenza, non s' empisce di cose preziose se non colla dottrina, cioè colla pratica della dottrina che è la virtù, e che la stessa Scrittura ci avverte che l' uomo non è sapiente se non è forte, e non è dotto nel bene se non resiste con robustezza ed efficacia alle tentazioni; tutto ciò imparandosi colà dove si legge: [...OMISSIS...] E` dunque mio sentimento e mio volere (e questo equivale per voi altri a una manifesta dichiarazione della volontà divina) che rispetto a cotesta fondazione di Verona si mantenga quella massima delle nostre Costituzioni, che prescrive la costanza nelle opere intraprese, senza lasciarsi turbare dalle difficoltà che s' incontrano più o meno in tutti i principii, e che sono utili e necessarie nell' ordine della Provvidenza, acciocchè colla fiducia in Dio e colla lotta valorosamente sostenuta, meritiamo noi stessi dalla divina bontà la grazia del consolidamento dell' opera intrapresa. Conviene dunque, mio caro, rinforzarsi coll' orazione e con ogni maniera di spirituali esercizi, risuscitando nell' animo nostro abbattuto i sentimenti della fede, la quale se viene meno e vacilla, è indeclinabile il nostro affondare nell' onde. Conviene scuotersi ed operare più virilmente che pel passato, con maggior fervore e zelo, con maggiore efficacia ed energia, badando anche che una soverchia prudenza non leghi le forze, e non c' impedisca d' operare tutto il bene che possiamo, e per operarlo d' aprirci un campo più largo... Conviene dunque, mio carissimo, che voi subiate dolcemente ed alacremente la croce che vi vuole imporre quel Dio, il quale si giova delle cose più inferme all' opere sue, e al bisogno le soccorre d' ogni fortezza. Fatene la deliberazione fermissima, offerite pieno il vostro sacrificio, e non vi date altra cura che di consumarlo. Quello che è da fare con tutta sollecitudine, si è di fare approvare confessori il Mazzotti e l' Aimo. Qualora colla grazia di Dio, con uno zelo ardente, con pastorali esempi e documenti di sacra dottrina vi riesca nel corso di qualche anno di formare l' uno o l' altro di questi giovani sacerdoti, alle virtù, alla esperienza e alla prudenza del pastorale ministero: allora avrete in qualche modo il diritto di domandare, se il peso, che non avete ancora incominciato a portare, e che v' impaurisce all' imaginarlo, vi si rendesse per l' età più grave, d' essere esonerato sopra quello che sarà riuscito nella vostra scuola miglior discepolo. Ma rigettare ora un fardello, di cui vi aggrandite colla imaginazione il peso senz' averne sperimentate le dolcezze, è cosa che non conviene nè alla perfezione del vostro stato, nè all' imitazione di quell' esempio, a cui tutti i cristiani debbono conformarsi. Ed io menzionavo le dolcezze che non avete ancora sperimentate, perocchè la vita del buon pastore, piena certo di spine e di travagli, ha tuttavia le sue secrete dolcezze, le quali sono tali e tante per un' anima amante che vincono le amarezze, ed anzi rendono il pastore felice. Oltre di che, quale non è la gloria riserbata al pastore fedele! quanto diversa da quella dei cristiani comuni! quanto più splendida e più magnifica! altrettanto quanto è più sublime della comune la pastorale carità, che è tutta carità verso il nostro Signore Gesù Cristo. Ascoltate dunque, ed applicatelo a voi stesso, ciò che Cristo disse a Pietro: « Petre, amas me? si amas me, pasce oves meas ». A fine di giovare spiritualmente e corporalmente a cotesta parrocchia, trovo indispensabile che voi specialmente, dopo che sarete parroco, facciate bel bello relazioni colle migliori e più pie famiglie di Verona, le quali non mancano, e non mancherò di mandarvi io stesso delle commendatizie. Quindi potrete avere soccorsi a pro di cotesti poverelli, i quali dovete avere carissimi; e di mano in mano, s' intende col tempo, l' elemosine vi apriranno la strada a guarire le loro miserie e le loro infermità spirituali. Qui certo conviene che la carità del pastore sia ingegnosa ed anche ardita, non arrossendo di domandare. Vi esorto adunque a domandare l' elemosina ai più ricchi e più pii signori della città, sia quando si tratta di levare dal pericolo qualche zitella, sia per ogni altro grave bisogno, come la educazione di qualche fanciullo, o necessità somiglianti: con far questo vi introdurrete, vi farete conoscere, si saprà in Verona che a S. Zeno vi sono uomini zelanti per sovvenire alla poveraglia. Oggi 23, ho ricevuto anche l' altra vostra del 13 corrente, che non abbisogna d' altra risposta: ella bensì appagò il mio desiderio di sapere la malattia di cui è aggravato e che forse a quest' ora ci ha tolto il caro Boselli, benchè sulla natura di tal malattia mi si dia appena qualche cenno. Del resto, di nuovo coraggio nel Signore; non mancate all' espettazione che io e l' Istituto abbiamo posto in voi, e non mancherete, se vivrete di quella fede di cui vive il giusto, e che tanto ingrandisce i nostri cuori, perchè è la sostanza delle cose che abbiamo a sperare. [...OMISSIS...] 1.4. Non Le dirò quanto il tenore della venerata sua mi abbia fatto arrossire di me medesimo, ma ubbidirò senza proemio al suo desiderio, dicendole quale mi sembra dover essere la condotta di un Vescovo nelle presenti gravissime circostanze. L' incarico che un Vescovo ha ricevuto da Gesù Cristo di predicare il Vangelo e di condurre le anime degli uomini all' eterna salute è così sublime, santo e divino, che non v' ha cautela soverchia da adoperarsi, perchè nessun altro affare terreno ne impedisca od intralci e disturbi l' esercizio. Questo esercizio può essere intralciato sopratutto dalle umane opinioni in materia politica, le quali si dividono e contrariano secondo il vario sentire e pensare delle menti, e pur troppo ancora secondo le varie passioni da cui si lasciano agitare gli uomini e le cieche fazioni che ne derivano. Sopra di tutti questi interessi umani, di queste opinioni, passioni e partiti, che agitano e travagliano la società e l' umanità, si leva il Vangelo, e col Vangelo il Vescovo, che n' è il maestro istituito da Dio, e in questa regione celeste dell' Evangelio egli abita col suo spirito la città della pace imperturbata e felice: « Nostra autem conversatio in coelis est ». Parmi adunque che ogni Pastore della Chiesa cattolica adempia il suo ufficio e corrisponda all' altezza della sua missione divina, se, astenendosi dal prender parte in qualsivoglia politica controversia e dal dichiararsi per qualsivoglia fazione, si limiti a predicare a tutti egualmente e in modo generale la giustizia, la carità, l' umiltà, la mansuetudine, la dolcezza, e tutte le altre virtù evangeliche, riprovando i vizi contrari e difendendo acremente i diritti della Chiesa, dove venissero da qualsivoglia parte violati. Reputo che il Vescovo debba, sopratutto in questi tempi, spargere un olio balsamico di dolcezza nelle piaghe dell' umanità, debba guardarsi da ogni giudizio temerario, da ogni parola ingiuriosa a chicchessia, da ogni adulazione strappata dal timore, da ogni connivenza al male che gli fosse persuasa da speranza di giovare, conservando un contegno grave, riservato, fermo, con una conversazione verso tutti soave ed amorevole, ed insieme atta a far distinguere con una santa dottrina, ma senza alcuna veemenza, il bene dal male. Colla preghiera più assidua ed intensa, col promuovere più studiosamente il culto divino tra i fedeli e tutti gli esercizi di pietà, coll' eccitarli sopratutto ad una frequenza maggiore de' Sacramenti, commendandone l' eccellenza, e facendoli loro amministrare con abbondanza, potrà il Pastore attirare le benedizioni divine sopra il suo popolo, e preservarlo da molti mali richiamando molte menti traviate al retto sentire. E` dall' alto che ci dee venire l' aiuto, è il lume celeste che dee sgombrare le tenebre. Dopo averla ubbidita, debbo domandare scusa dell' ardimento d' averla ubbidita scrivendole cose nelle quali Ella a tutto buon diritto è mio maestro. [...OMISSIS...] 1.49 Una delle opere più vantaggiose, che conviene prefiggersi evangelizzando i popoli, si è di introdurre nelle famiglie e nelle popolazioni cristiane consuetudini le quali, quando si giunge a ben praticarle, propagano il bene di generazione in generazione, e diventano altrettante difese o ripari posti alla corruzione del mondo. Una di queste si è la pratica di recitare nelle famiglie giornalmente il santo Rosario; ed io bramerei che tutti i nostri missionari si prefiggessero d' inculcare costantemente questa pratica dappertutto ove vanno, e durante la missione trovassero tempo d' insegnare al popolo la maniera di recitarlo, spiegandogli anche il contenuto dell' orazione domenicale e dell' Avemmaria , non meno che l' ordine col quale il Rosario è disposto, del quale è parlato in quel discorsetto sul Rosario che si trova nella raccolta de' miei discorsi. Un' altra pratica da inculcarsi a tutti i cristiani che sanno leggere si è quella di andar sempre in Chiesa con un libro di divozione, col quale possano accompagnare le sacre funzioni. E` impossibile, in generale parlando, che il popolo stia raccolto nelle Chiese, e vi faccia veramente orazione, se non è provveduto dell' aiuto d' un simil libro. Mi è occorso più volte di vedere nella Chiesa una moltitudine di persone starvi coll' apparenza di statue o peggio, quasi non sapendo che fare o che pensare in quel luogo santo. Questo è troppo increscevole a vedersi fra i cattolici ed assai pernicioso alle anime, e in Inghilterra riesce di scandalo ai protestanti, i quali tutti vanno in Chiesa col loro libretto di preghiere. Io vorrei dunque che tutti i nostri missionari si prefiggessero d' accordo d' indurre i cristiani cattolici, a cui sono mandati a predicare, a provvedersi d' un simil libro, e a portarlo sempre seco e leggerlo in Chiesa. Ma perchè la cosa riesca, gioverà che tutti i missionari suggeriscano lo stesso libro, il quale potrebbe essere l' Eucologio stampato in Torino dai Fratelli delle Suole Cristiane. Converrebbe altresì, che i missionari ne facilitassero l' acquisto nei paesi ove vanno, portandone seco un buon numero di copie, o facendo che un libraio od altri ve ne porti, e che siano smerciati a buon prezzo, ma siano tuttavia legati in modo forte ed elegante. Leggete questa lettera a tutti i nostri missionari, ed esortateli tutti ad adoperarsi che queste due consuetudini s' introducano; e se prenderanno la cosa con calore, e sopratutto con uniformità e con costanza, riusciranno allo scopo. Coll' introduzione di queste consuetudini faranno un bene incalcolabile e duraturo, assai maggiore di quello che ottener potrebbero da molte prediche. Già è noto con quanto calore e zelo S. Domenico fece predicare il Rosario, e quanto bene abbiano fatto i Domenicani con questa divozione. Vorrei che tutti i nostri avvivassero in sè stessi lo spirito di San Domenico: così saranno benedetti dalla Madonna. Ma l' altra pratica, del libro di devozione da portarsi in Chiesa, non arrecherà meno di vantaggio alle anime, ed anzi ancor più. Se s' insegna a' cristiani a fare buona orazione, la causa è vinta. Il mondo va così male, perchè molti non fanno orazione, e molti altri la fanno malamente. Conviene cominciare dal poco per renderla facile, e il mezzo che conduce a ciò è appunto la pratica del libretto divoto che suggerisco. Voi tutti adunque, o fratelli carissimi, che siete sacrati alla grand' opera delle Missioni, accingetevi all' impresa di introdurre dappertutto queste due consuetudini; ma fatelo con perseveranza, senza la quale non può riuscire, e così avrete adempita la volontà del vostro Superiore, e in essa quella di Dio, da cui imploro sopra di voi ogni celeste benedizione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ho ricevuto le due lettere, del dì di Natale e pel primo dell' anno: e prima la ringrazio de' suoi buoni augurii che di tutto cuore Le ricambio; di poi La avverto che non mi appartiene ancora il titolo di Eminenza di cui mi onora, giacchè l' esule Pontefice ha sospeso per intanto la promozione degli stabiliti Cardinali, non pel motivo che addussero i giornali, ma per le dolorose circostanze in cui si trova al presente la Chiesa Romana. Venendo ora all' argomento della prima sua lettera, non parmi che Ella bene interpreti le parole di Nostro Signor Gesù Cristo. Egli disse beati i poveri di spirito, per encomiare e raccomandare il distacco di cuore da tutte le cose mondane; le quali si possono anche possedere e tuttavia esserne pienamente distaccati, usandone pienamente alla gloria di Dio. Così fecero gli Apostoli, ai cui piedi i fedeli della primitiva Chiesa ponevano il prezzo delle possessioni vendute; così fecero tanti Vescovi, che amministrarono le ricchezze della Chiesa a vantaggio de' prossimi senza restar macchiati dal loro contatto, e cavandone anzi grandissimo merito di carità per le sollecitudini spinose che sostenevano nella loro amministrazione; così fecero tanti monarchi che onoriamo sugli altari, un santo Stefano di Ungheria, un san Luigi di Francia ecc., i quali vissero tanto poveri di spirito quanto il minimo fraticello; così fecero tanti sommi Pontefici, che portarono il peso della temporale corona come fosse corona di spine unicamente pel ben della Chiesa, pei popoli loro affidati dalla divina Provvidenza. Il sommo Pontefice non considera mai sè stesso come possessore, ma semplicemente come amministratore e depositario degli Stati della Chiesa: è una sollecitudine di carità che gli è imposta, non un mondano dominio. Nè prova in contrario l' esempio o la parola di Cristo, a cui Ella si appella. Non l' esempio, perchè Cristo, sebbene re degli ebrei e del mondo, non volle assumere la corona temporale del popolo d' Israele; perchè questo non ne era degno, come assai ben mostrò quando invece di accettarlo per re lo confisse al patibolo, e Cristo voleva che il suo regno non gli venisse dalle mani de' perfidi che formavano il mondo, ma lo aspettava da Dio e dai Santi che operano per impulso di Dio: e qual dubbio che, se la nazione ebrea fosse stata fedele e santa, egli avrebbe accettato d' esercitare col mezzo di essa anche il temporale reggimento? Non la parola, la quale altro non significa, secondo la lettera e secondo l' interpretazione de' Padri, se non che il suo regno non era del mondo , cioè non proveniva dalle arti del mondo, dalla violenza, dall' astuzia, nè dagli uomini del mondo; ma bensì traeva l' origine dalla potestà di suo Padre, e dalla santità colla quale egli avrebbe tirato a sè tutte le cose: « omnia traham ad meipsum ». E in vero dalla santità da lui infusa nel mondo provennero poi tutte le largizioni dai fedeli fatte alla Chiesa, e i vari dominii che ella possedette o possiede, dei quali dominii uno è lo Stato ecclesiastico, forse il solo che ancor resta: giacchè come la santità è quella da cui vengono alla Chiesa i beni temporali ch' ella riceve, come dicemmo, unicamente in deposito e in amministrazione a comune vantaggio degli uomini, e massime de' poveri e de' sofferenti, così l' improbità è quella che spoglia la Chiesa di tali beni; e l' improbità se potesse, torrebbe non solo tali beni alla Chiesa, ma ancora l' esistenza e la vita, come già fece del suo Capo divino. D' altra parte non vi hanno regole di governare più giuste, più umane, più liberali, più fratellevoli di quelle che professa la Chiesa, la quale possiede la dottrina della carità. Si possono bensì mescolare nella pratica degli abusi e dei difetti umani, e contro questi è giusto che s' adoperi la censura; ma perchè il Governo ecclesiastico sia perfetto, basta che questi sieno rimossi: non conviene schiantare l' utile pianta, ma coltivarla a regola d' arte. [...OMISSIS...] 1.49 Quanto mi annunziate nella vostra lettera del 6 marzo mi caverebbe dagli occhi del cuore amarissime lagrime, se non assicuraste nella lettera stessa che Iddio vi ha preservato dalle cadute. Ma a buon conto apritevi con una apertissima e sincerissima confessione al P. Provinciale, giacchè questo è un mezzo utilissimo per rinforzarsi coll' aumento della grazia del Signore. Di poi è necessario che produciate in voi stesso una vera compunzione dei falli passati e risoluzioni più forti d' abborrimento al male per l' avvenire. Ma come si può avere la compunzione? Non si può avere se non si dà tutta la colpa a se stesso de' proprii peccati e della propria fragilità. Chi invece di far così, come fanno i veri penitenti, va cercando le proprie colpe nella condotta degli altri, e gli accusa ed incolpa anzichè incolpare e accusare unicamente se stesso, costui non acquisterà mai compunzione nè umiltà, nè distacco da se stesso, nè per conseguenza fortezza spirituale. Molto più se s' incolpano i Superiori a torto, il che è un atto di ingiustizia e di superbia; e finchè dura la superbia, come si può ottenere da Dio la grazia d' esser liberi da gravi tentazioni? I Superiori vi hanno trattato con tutta la carità, e questo lo so perchè il cuore non mente; essi hanno sopportato la vostra inquietudine e indocilità, ed i vostri lamenti, così contrarii alla vostra santa vocazione, in occasione che vi hanno rimosso dalla scuola: ora voi non ricordate più le molestie che voi avete loro arrecato colle vostre censure continue delle loro paterne disposizioni. I Superiori nondimeno hanno presunto bene di voi, giacchè sogliono sempre giudicare nel modo più favorevole de' proprii figliuoli, ed hanno supposto che foste interamente emendato, fondati anche sulle vostre promesse; e dopo aver lasciato trascorrere qualche tempo e datovi agio di esercitarvi in cose spirituali, hanno creduto di poter contentarvi rimettendovi in una scuola di fanciulli d' età maggiore: voi non avete fatto alcuna osservazione in contrario. Ora invece di umiliarvi profondamente davanti al Signore di una condotta così contraria alla perfezione religiosa, che cosa fate? andate col pensiero fuori di voi, e sospettate temerariamente che i Superiori non abbiano cura e sollecitudine della salvezza dell' anima vostra. Come può stare la compunzione, la penitenza, il raccoglimento, l' umile e fervorosa orazione in compagnia di sentimenti che vengono ispirati nel cuore dell' uomo dallo spirito della superbia? No, mio figlio, senza umiltà, senza profonda umiltà non si può conoscere se stesso, non si può avere quegli affetti di perfetta contrizione e di alto disprezzo di sè, che sogliono arrecare una grazia abbondante, colla quale l' uomo umiliato è preservato dai pericoli. A questo dunque tendete con tutto lo studio, ad acquistare un grande amore di Dio. Custodite con somma cautela i sensi: fate orazioni e mortificazioni: e sopratutto esercitate con perfezione l' ubbidienza e l' umile sommissione in tutti i vostri pensieri, parole ed atti. Del resto, certo che vi leverei anche subito dal posto ove siete, se temessi che non poteste tirare innanzi senza pericolo prossimo. Ma non conoscendo ben le cose, nè potendo in tanta distanza esaminare da vicino lo stato vostro, rimetto ogni disposizione a prendere al zelantissimo vostro P. Provinciale, a cui vi raccomando di aprir tutto voi stesso, e di ricorrere come allo stesso Dio, che prego di benedirvi, illuminarvi, santificarvi. [...OMISSIS...] 1.49 Figlio devoto ed ubbidiente alla Chiesa, che è la colonna ed il firmamento della verità, sommesso a tutte le sue decisioni, contro le quali non sorse mai un dubbio nell' animo mio, aderente coll' intime viscere alla dottrina celeste da essa insegnata, dove solo è la pace, il gaudio e la gloria della mente umana e la speranza dell' eterna felicità, io ho sottoposte le molte e molte volte con pubbliche e private dichiarazioni tutte le opere mie e tutte le mie opinioni a quella infallibile maestra e madre, nel grembo della quale per grazia di Dio sono nato e sono rinato alla grazia. Il tenore dell' ossequiatissimo foglio, di cui Vostra Beatitudine mi onorò in data 10 corrente, mi fa provare il bisogno di protestare di nuovo avanti di Lei il pienissimo mio attaccamento alle dottrine della Santa Romana Chiesa di cui sono figlio. Beatissimo Padre, io bramo modificare tutto ciò che ci fosse da modificare nelle mie opere, di correggere tutto ciò che ci fosse da correggere, di ritrattare tutto ciò che ci fosse da ritrattare. Ma il conoscere questo assai più che dalle mie proprie riflessioni, lo aspetto dalla sapienza dell' Eminentissimo Cardinale Mai, a cui ora intendo che Ella ha rimesso da esaminare nuovamente i miei scritti. Egli mi proporrà la dottrina della Chiesa, ed io la sottoscriverò ciecamente. Qualunque cosa nelle mie opere risulterà, dall' esame del Cardinale Mai, di contrario alle decisioni di santa Chiesa, io con giubilo la ritratterò e la condannerò. Io voglio appoggiarmi in tutto sull' autorità della Chiesa, e voglio che tutto il mondo sappia che a questa sola autorità io aderisco, che mi compiaccio delle verità da essa insegnatemi, che mi glorio di ritrattare gli errori in cui potessi essere incorso contro alle infallibili sue decisioni. Nello stesso tempo io desidero ardentemente, e, se oso supplicare Vostra Beatitudine di una grazia, La supplico che una tale definizione si solleciti per mia quiete e per edificazione del prossimo. [...OMISSIS...] 1.49 Ier sera mi fu recata la veneratissima sua scrittami per ordine di N. S. il Santo Padre, colla quale mi dichiarava, che la Santità Sua lascia a me la libertà di scegliere il luogo dove dovessi condurmi in queste circostanze. In conseguenza di che io mi dirigerò domani verso Capua per trattenermi qualche tempo, ed ivi in appresso prenderò consiglio dalle circostanze. Ella mi aggiunge un dolcissimo conforto dicendomi che il Santo Padre mi accompagnerà col suo affetto paterno, e che « pregherà costantemente il Signore, acciocchè mi conceda i lumi da poter conoscere tutto ciò che nelle opere da me scritte potesse dispiacere al divino dispensatore dei doni, la qual cognizione potrò avere volendo assoggettarmi al giudizio della Santa Sede ». Confido grandemente che qualora anche nelle mie opere io avessi inavvertentemente scritto cose erronee e perniciose, la misericordia di Dio Signore mi userà indulgenza, non avendo io mai cercato altro colle mie povere fatiche che la sua gloria, il bene della Chiesa e la salute delle anime; e questo stesso sentimento me l' ha infuso Egli per pura sua bontà. Qualunque decisione poi fosse per emanare dalla Santa Sede, io l' accoglierò con tutto l' animo mio e mi vi conformerò con gioia, non cercando io di sostenere le mie opinioni, ma le dottrine della Santa Chiesa Romana mia maestra, e questo pure lo spero dalla grazia di Gesù Cristo. La comunicazione che V. E. Rev.ma mi fa in iscritto e la benedizione che Sua Santità mi comparte espressa nella sua lettera mi avvisano di trattenermi dal venire in persona prima di partire a baciare il piede al Santo Padre, e fo volentieri questo sacrificio, raccomandandomi anche alle orazioni di Lei, che una volta si compiaceva chiamarmi suo fratello in Gesù Cristo, quale appunto da parte mia io Le sarò sempre e quale ho l' onore di dichiararmi umil.mo servo e fratello in Gesù Cristo. [...OMISSIS...] 1.49 Ricevo pur ora dalla mano del R. P. Boeri il veneratissimo suo foglio dato da Viterbo 12 agosto corrente, nel quale Ella mi significa che, essendosi radunata in Napoli per espresso comando di Sua Santità la Sacra Congregazione dell' Indice, di cui è Prefetto l' Eminentissimo signor Cardinale Brignole, questa fu di unanime consentimento, approvato poi dal Santo Padre, che si dovessero proibire le mie due operette aventi per titolo, l' una: « Delle cinque piaghe della Santa Chiesa », e l' altra: « La Costituzione secondo la giustizia sociale », ecc., e in pari tempo m' interpella sulla mia sommissione al relativo decreto, acciocchè possa esserne fatta menzione nel decreto medesimo. Coi sentimenti pertanto del figliuolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede, quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore, e me ne sono anche pubblicamente professato, io le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente, semplicemente, e in ogni miglior modo possibile, pregandola di assicurare di ciò il Santissimo Nostro Padre e la Sacra Congregazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ho ricevuto qui in Albano una lettera del caro Gilardi in data del 4 agosto, nella quale trovai copia di un' altra lettera che voi mi avete scritto in data del 7 luglio, dirigendola a Santa Lucia di Caserta, la quale debb' essere andata perduta. A questa prima di tutto rispondo pregandovi di non far cosa alcuna di ciò che mi esponete di aver deliberato coi vostri due Consultori in occasione della persecuzione mossa contro di me. Questa persecuzione conviene lasciare che si sfoghi, perchè è Dio che la vuole, cioè che la permette pe' suoi adorabili fini, ed io perciò ne sono contentissimo. Sono ormai certo che verrà proibito tanto il libro delle « Cinque piaghe » quanto quello della « Costituzione », senza che a me venga comunicato il motivo o la ragione della proibizione. Io mi sommetterò pienissimamente al decreto, come è cosa doverosa di farsi, e non ne domanderò la ragione, la quale già non mi sarebbe comunicata. Ho ragione di credere che quasi tutti i Cardinali e specialmente il Prefetto dell' Indice mi sieno contrari: prove di amicizia non ricevo che dal buon Cardinale Castracane e dal Cardinale Tosti, il quale ha la bontà di ospitarmi qui in Albano, ma nè l' uno nè l' altro di questi possono cosa alcuna nei momenti presenti. Sono momenti di turbazione e di passioni. Ottenuta la proibizione di quelle mie due operette, è ben naturale che non si possa parlar più di Cardinalato. Tuttavia, per le ragioni stesse che voi dite, io mi devo trattener qui fino che non mi sia noto espressamente il volere del Santo Padre, e vi sto tranquillissimo e contento. Il Padre Theiner fece stampare a Napoli un opuscolo contro il libro delle « Cinque piaghe », nel quale si dicono molti errori evidenti ed eresie. Io ne sto componendo una risposta, la quale mi sembra dover riuscire concludentissima; ma venendo proibito il mio libro, non conviene più che io la stampi, perchè sembrerebbe che volessi difendere una cosa proibita, e darei nuovo appiglio ai nemici. Le ragioni, per le quali io vi prego di non fare alcun fatto in questa bisogna, sono: 1 perchè essendo voi altri lontani, e non conoscendo le persone che attorniano il Pontefice, potreste fare dei passi assai falsi con pregiudizio dell' Istituto; 2 perchè sembrerebbe la cosa mossa da me, e la persecuzione, lungi dal cessare, si incalorirebbe vie più; 3 perchè non essendo io consapevole di aver fatto, detto o scritto cosa alcuna maliziosamente, conviene avere una viva fede in Dio, il quale dispone ogni cosa pel bene della sua Chiesa, e se sarà di sua volontà e di utilità alla Chiesa, farà indubitatamente tornare il sereno dopo la tempesta, e tanto più presto, quanto meno ci porremo dell' opera nostra e più della fede in lui; 4 perchè una persecuzione che non ha alcun solido fondamento, va a cessare da sè stessa solo tacendo e sopportando. Dirò come diceva San Francesco di Sales quando era messo in pericolo il suo onore: « Iddio sa di qual grado d' onore noi abbisogniamo per poterlo meglio servire; quel tanto d' onore che ci bisogna a un tal fine, Egli saprà mantenercelo, senza che noi ce ne prendiamo sollecitudine ». D' altra parte da tutti questi avvenimenti nascono molti beni; e fra gli altri io ne vedo uno, del quale sono a Dio gratissimo, e questo si è del tenermi più lontano dal mondo e da uno stato di cose così imbrogliate e difficili, in cui al presente si trova lo Stato Romano, dal quale non si vede alcuna uscita. Povero me, se dovessi o come Cardinale o con altro impiego prender parte agli affari di questo Governo! Io sarei intieramente sacrificato senza produrre alcun bene agli altri. Così lontani, come voi siete, non potete conoscere nè immaginare questo orribile caos. Iddio adunque per la sua singolare misericordia mi salva ora dal perdermi in un vortice divoratore. Ben intendo il trionfo che meneranno i nemici, le dicerie dei malevoli, l' alienazione da noi di molti deboli amici; ma noi dobbiamo sapere servire al Signore « per infamiam et per bonam famam ». E se possiamo sperare di avere Iddio con noi, « quis contra nos? Si consistant adversum me castra... in hoc ego sperabo ». Acciocchè poi voi vediate chiaramente tutto ciò che è avvenuto fin qui in questo affare, vi mando copia della relazione che ne ho data al nostro buon amico il Cardinale Castracane, raccomandandovi nello stesso tempo di usare il più gran secreto e una somma prudenza nel favellare. Questo è il tempo di tacere e di pregare. Il Papa non rientrerà nello Stato, a quanto si crede, prima del mese d' ottobre, e perciò non ispero ricever ordini prima di quel tempo. Attenetevi dunque ai miei consigli, e siate superiori a tutto ciò che dicono gli uomini, nei quali non dobbiamo confidare, e i quali non dobbiamo temere. Scrivetemi quanto prima d' aver ricevuto la presente. Dite al caro Gilardi, che per ora non si può più parlare della ristampa del libro delle « Piaghe ». Io vi ho sempre tutti nel cuore, e vi metto ogni dì sulla patena e nel calice di Cristo. Egli vi custodisca e benedica perchè possiate arrecare quel frutto plurimum che esige dalla vite che egli va potando. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ringraziamo il Signore, il quale ora permette che io sia preso assai di mira anche da persone, che moltissimo influiscono sul Pontefice. Si fa ogni sforzo perchè vengano messi all' Indice i due miei scritti delle Cinque piaghe , e la Costituzione ; e vi riusciranno per certo non avendo io alcuna via aperta a difendermi. Io mi sommetterò alla condanna con tutta la sincerità del cuore. So che non mi verranno comunicate le ragioni, e un Cardinale mi disse che errori non ve ne sono: saranno probabilmente proibite per l' inopportunità di quegli scritti e il pericolo d' abuso. Non ci affliggiamo punto di questo, mio caro, ma, come dicevo, ringraziamone il Signore, il quale vuole provarci, o permettere a Satana di cribrarci. Io mi fermerò in Albano, dove convivo coll' Em.mo Tosti in questo suo casino: il Cardinale mi usa ogni atto gentile. Quando rientrerà il Papa nei suoi Stati, e non sarà certo prima di ottobre, allora saprò forse qualche cosa delle sue disposizioni a mio riguardo. Qualora voi poteste senza inconveniente venire in Italia, io ve lo permetto: nè sarebbe da tardare per non incontrare la stagione troppo fredda al ritorno. Potreste forse sbarcare a Napoli, e di là recarvi qui meco, il che mi sarebbe di grande consolazione. Ma tutto si dovrebbe fare in modo che non ne soffrisse cotesta cara e importantissima Missione inglese per la vostra assenza. Voi coi vostri Consultori giudicherete. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Non ho fatto che puramente il mio dovere nel sottomettermi pienamente al decreto della sacra Congregazione che fu poi approvato dal Santo Padre. E perchè non intendo di scrivere la presente al Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, ma alla privata persona del Rev.mo Padre Buttaoni, a cui ho somma devozione e stima, aggiungerò che, per pura grazia di Dio, non ho mai avuta in vita mia alcuna tentazione in materia di fede, e non ho mai esitato un solo istante a condannare qualunque cosa la santa Sede fosse per condannare ne' miei scritti o altrove. Quando nel mese del prossimo passato settembre il Santo Padre si era degnato ordinarmi di scrivergli una lettera, nella quale dichiarassi o correggessi alcuni punti osservati nelle due note operette che mi avrebbe fatto indicare da Mons. Corboli, io per desiderio di uniformarmi colla più saggia esattezza alla mente del Sommo Pontefice, pregai lo stesso Mons. Corboli di estenderne la precisa minuta, e quindi copiata la sottoscrissi e la presentai al Santo Padre. Quando poi lo stesso Santo Padre mi disse che la facessi esprimendo più esplicitamente il punto che riguardava le vescovili elezioni, ubbidii subito come era debito, e mandai da Napoli a Gaeta quanto mi sembrava desiderare il Papa, di che egli non mi fece più alcun cenno. Avendomi in appresso il Santo Padre stesso scritto di aver deputato ad esaminare le mie opere il Cardinal Mai e ordinato di conferire con lui, ne lo ringraziai e mi recai tosto dal detto Cardinale per adempire tutto ciò che mi avesse indicato; ma ebbi per risposta dal Cardinale, che egli non avea voluto accettare un tale incarico, e che il Santo Padre ne lo avea dispensato. Così stavano le cose quando ricevetti qui in Albano il veneratissimo suo foglio del 12 corrente, riuscitomi del tutto improvviso. Ora Iddio è testimonio della mia sincera e costante disposizione di sottomettermi in tutto, e di ubbidire in tutto ai miei superiori. Perdoni, Rev.mo Padre, se La ho trattenuta con questa inutile lettera, a cui non s' incomodi a rispondere. La ho scritta pel dovere di renderle grazie de' benignissimi conforti che mi dà colla gentile sua del 20 pur ora ricevuta. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 « Sit nomen Domini benedictum », al quale è piaciuto che si proibissero i due libri delle « Cinque piaghe » e della « Costituzione ». La cosa mi venne assai improvvisa, perchè mi fu tenuta secretissima: si fece in un' adunanza della sacra Congregazione tenuta a Napoli straordinariamente, non col solito segretario, ma con altro a ciò delegato: con quei cardinali che ivi si trovavano, essendo alla presidenza Brignole, sempre avverso alle cose del nostro Istituto, e per consultore si adoperò Secchi7Murro: niuno che fosse a noi benevolo. Ringraziamone di nuovo Iddio: io mi sono sottomesso alla proibizione ciecamente, benchè mi sia tenuto segreto il motivo, il quale, a dir di taluni, fu più politico che religioso. - Mi ha dato non leggera consolazione spirituale l' intendere che vi siete adoperati nell' assistere i colerosi: faccia Iddio che siate i primi di tutti in tali opere di generoso zelo. Beati, se vi toccasse la grazia di esser vittima della carità! Ma anche il sacrificio che non si consuma materialmente, spiritualmente è perfetto: e Iddio che è spirito ve lo imputa a corona. - Vi raccomando di governare i fratelli nello spirito del Signore, secondo le norme e le regole dell' Istituto, con dolcissima carità e con fortezza costante. Non chi comincia, ma chi persevera sarà salvo. Abbraccio e benedico tutti cotesti miei carissimi in Cristo. Non pensate alla traslocazione del Cesana, ma a sopportarlo e renderlo migliore: fategli fare il cinto ed il tabarro di cui abbisogna, come vedrete dalla annessa lettera. La carità pazientissima usata da lui col caro Don Roberto, la cui anima godrà ora la vista di Dio, merita che noi pure siamo verso di lui in particolar modo caritatevoli, rendendogli il cambio de' suoi servigi. Addio, non vi prendete pena delle cose mie, perchè in qualunque modo vadano a sciogliersi, il Signore mi dona una pace perfetta, e spero nella sua misericordia che me ne continuerà il dono, com' io ne lo prego, e voi altri meco. [...OMISSIS...] 1.49 Gli amici che sempre eguali si dimostrano e non cangiano clima come le rondini, sono quel tesoro inapprezzabile di cui parlano le divine Lettere. Voi, mio soavissimo Paolo, siete uno di questi rarissimi, e la vostra cara lettera, nella quale il minor fregio è l' eleganza della latina favella, mi conferma quello che da lunghi anni conoscevo; perciò vi porto sempre, non dirò in oculis , ma nel cuore riconoscente. Tanto è poi vero quello che voi dite, che non si può rinvenire nulla di più dolce che il sapere con certezza di ragione e di fede, e il tener fermissimo, averci un Nume ottimo, sapientissimo, potentissimo, regolatore di tutte le umane cose, soccorritore di quelli che in lui confidano; che l' improvviso avvenimento testè accadutomi del vedere due mie opericciuole ascritte all' indice de' libri proibiti per nulla alterò la mia pace e la contentezza dell' animo mio, anzi espresse dal medesimo sentimenti sinceri di ringraziamento e di lode a quella Provvidenza divina, che disponendo ogni cosa coll' amore, anche questo per solo amore permise. Ma non crediate tuttavia che questa tranquillità sia cosa mia propria: perchè ben so che io sarei in balìa di ogni perturbazione e passione, se Colui che ascolta le umili nostre preghiere e conosce i bisogni della nostra infermità, non me ne avesse protetto misericordiosamente colla sua grazia, e in me sostituito al mio disordine umano il suo ordine divino. Laonde di questa stessa grazia del Signore nostro ho gran cagione d' umiliarmi e di essergli grato senza misura; di che conviene che i veri amici, come voi siete, mi aiutino a ringraziarlo anche di questo, il che io non so fare nè degnamente, nè bastantemente. E di vero quanto non sarebbe stato facile che io mi turbassi ad un annunzio così impreveduto, se non altro pel danno che ne potrebbe venire a' miei fratelli, che servono il Signore nell' Istituto della Carità, e pel dolore che ne proveranno? Ma in questo stesso mi confortano assai due pensieri: l' uno che so di certo che tutti si uniranno a me nella sottomissione e nella docilità, baciando anche la mano che ci percuote; l' altro che non si raffredderanno punto, nè diverranno perciò più lenti in quelle opere che prestano alla Chiesa ed alla carità de' prossimi con tante loro privazioni e fatiche. Quanto poi a quello che potranno soffrire dagli uomini, Iddio che li raccolse e che disse: « « Ove due o tre di voi si uniranno nel nome mio, io sarò nel mezzo di loro » », distenderà le sue ali, sotto le quali sicuri e fidenti troveranno ricovero. In quanto a me dirò sempre: « Tollite me et mittite in mare, et cessabit mare a vobis: scio enim ego quoniam propter me tempestas haec grandis venit super vos . » Sto anche pensando come possa recarmi quanto prima in mezzo di loro a consolarli: ma l' ingombro delle cose che ho a Roma, e di cui non so ancora come disporre, mi rallenta l' esecuzione di questo mio desiderio. Or basta: quando mi toccherà la buona ventura di riabbracciarvi, di più a voce. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Rispondo alle care vostre del 2 e 7 corrente, che non è d' affliggersi per la proibizione delle mie due operette; e ciò perchè non è da prendersi affanno che del peccato. Fu retta l' intenzione con cui furono scritte, la coscienza mi rende questo testimonio. Noi dobbiamo rimanere sinceramente sottomessi al decreto, e dobbiamo prendere anche questo avvenimento dalle mani dell' amorosissima Provvidenza che lo permise. Se fui obbligato ad accettare la porpora e a fare gravissime spese per provvedermi del corredo cardinalizio, se ne fu differito il conferimento per la fuga del Papa da Roma, se ora, come credo, il Papa non me la conferirà più; questo è affatto nulla, perchè non ci pregiudica, ed anzi ci può aiutare ad ottenere il nostro fine. Se questo è un disonore presso gli uomini, che giudicheranno esserci noi resi colpevoli di qualche grave mancanza, dobbiamo avere presente che noi dobbiamo essere ugualmente disposti a servire Gesù Cristo « sive per infamiam, sive per bonam famam ». Stiamo dunque tranquilli ed allegri, se possiamo essere umiliati e patire qualche cosa ad imitazione di GESU` Cristo. Quando il Papa mi annunziò il cardinalato, il nostro caro e santo fratello Gentili mi scriveva queste belle parole: Padre mio, si ricordi della porpora di cui coprirono le spalle di nostro Signor GESU` Cristo : egli parlava forse in ispirito quasi profetico. Spero che il nostro caro Istituto non soffrirà alcuna scossa da questo avvenimento; e se dovesse sofferirne, sarà per risorgere più bello e più glorioso nel Signore. Quanto a me, non vi prendete alcun pensiero umano. Non so ancora se e quanto mi fermerò qui: vorrei prima conoscere più esplicitamente la mente di Sua Santità. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Consideriamo, com' è dover nostro, le cose dall' alto. Una somma bontà e sapienza il tutto dispone per nostro bene e per la sua gloria. Quindi ho benedetto il Signore nella proibizione delle due mie operette, come in ogni altro evento più felice, e con tutta la sincerità e devozione del cuore mi sono sottomesso al decreto, senza conoscerne o ricercarne i motivi. Furono proibite: dunque c' erano ragioni di proibirle, altro a me non importa sapere. Sono bensì grato all' amicizia ch' Ella mi dimostra in questa occasione, di che mi è testimonio la sua letterina. Ho sentito con molto dispiacere, che cotesto ottimo Mons. Vescovo sia incomodato: prego Iddio che ce lo conservi. Spero che Ella qualche volta visiterà cotesti miei buoni fratelli di S. Zeno: li raccomando alla sua amicizia. Quest' anno non potrò vederli, come oltremodo bramerei; ma sia fatta anche in questo la volontà di Dio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando vi scrivevo che sarebbero state poste all' Indice le due note operette, io sapevo che il decreto era stato fatto il 30 maggio e confermato dal Papa il 6 giugno, perchè il Maestro del sacro Palazzo m' aveva scritto officialmente per domandarmi se io mi sottomettevo. Per quantunque improvviso mi sia riuscito un tal decreto (fattosi in Napoli in adunanza straordinaria, con segretario straordinario, essendo uno dei Consultori il P. Secchi7Murro), tuttavia non mi turbò, perchè raccomandandomi a Dio, non solo ebbi la grazia di sottomettermi senza difficoltà, ma anche con consolazione dell' animo mio, pensando che così ed io e l' Istituto sentiremo meglio di essere nelle mani paterne del Signore, e a quelle dolcemente ci abbandoneremo. Nessun motivo mi fu comunicato della proibizione, e proibendosi certi libri non solo per errori che contengano, ma ben anco per una prudente economia che intende sottrarre agli occhi del pubblico quelle dottrine di cui si potesse temere abuso, è verisimile che per quest' ultima causa si sia venuto alla accennata proibizione. D' altra parte non sarebbe la prima volta che con un nuovo esame si sieno tolti dall' Indice dei libri che vi erano stati inscritti, e fra gli altri, i libri che insegnavano il movimento della terra. Ma l' autorità ha parlato, e basta; noi tutti staremo sempre sottomessi ad ogni decisione. Conviene però che in pari tempo accresciamo la nostra fede, e confidati in Dio, stiamo fermi, come scoglio, nella fiducia della sua infinita bontà e provvidenza: sotto le sue ali poniamo noi e l' Istituto, lavoriamo allegramente, e senza avvilirci od abbatterci, per la sua gloria e pel bene de' nostri fratelli: e questa confidenza e santo coraggio domandiamolo a lui stesso caldamente, perocchè egli ce lo darà. [...OMISSIS...] Io mi sento a segno tale contento, che altrettanto non fui innanzi al decreto: la mia coscienza non mi rimprovera nulla: « Deus autem est qui iudicat ». Quando siamo umiliati, umiliamoci ancor più e saremo esaltati: la parola è di Gesù Cristo. Rinunzio alla consolazione di vedervi se la venuta vostra potrebbe pregiudicare cotest' opera santissima, che Iddio v' ha posto così manifestamente alle mani. Vi avrei detto molte cose, che non posso comunicare ad una lettera. La vostra supplica al Papa, benchè giunga tardi, farà buon effetto. Nei disegni di Dio sta qualche cosa di grande, di grande dico, anche agli occhi nostri, perocchè in sè stessi i suoi disegni sono sempre grandi, anzi infinitamente grandi. Circa il rimanente, vi risponderò dal Piemonte, dove conto ritornare, giacchè va da sè, io credo, che il Cardinalato, che il Papa mi obbligò di accettare (onde spesi da otto a nove mila scudi pel corredo), sia andato a finire nella proibizione dei due opuscoli; benchè questi fossero stampati e noti al Papa prima che mi ordinasse di prepararmi ad essere promosso alla porpora nel prossimo Concistoro, che doveva cadere nel passato dicembre. L' essere alleggerito del peso di questa dignità mi è caro, salvo il disonore che me ne viene presso gli uomini; ma anche questo lo sopporto pensando che uno molto maggiore tollerò Gesù Cristo, e che egli sa qual sia il grado d' onore che ci faccia bisogno per meglio servirlo in quelle cose nelle quali egli vuole essere da noi servito. Il nostro caro fratello D. Luigi fu profeta, quando, udita la promozione intimatami dal Papa, mi ammonì di ricordarmi di quel cencio di porpora di cui furono coperte le spalle di Gesù Cristo. Coraggio adunque! Io partirò pel Piemonte entro i prossimi quindici giorni, ma mi fermerò alcuni giorni a Firenze. Orazione, orazione, orazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando noi con retta coscienza cerchiamo di servire il Signore conviene riposarsi in lui, nè troppo rattristarci di ciò che avviene. Al Signore è piaciuto non solo che venissero poste all' Indice le due note operette, ma che questo affare mi si celasse con tanta secretezza, che allora solo il seppi quando vi scrissi, essendosi bensì fatto il decreto il giorno 30 di maggio e confermato dal Papa il giorno 6 giugno, ma non pubblicato se non sulla fine di luglio. Se avessi saputo prima che questo affare si trattava, non avrei mancato di avvisarvene. Ma come poteva formarne nè pure un prudente sospetto, se dai colloquii avuti col Santo Padre io dovevo anzi indurre tutt' altro? Già molto prima il Santo Padre m' avea detto che i miei avversari avenano la veduta corta d' una spanna. Io l' aveva veduto anche il 9 giugno e i giorni successivi cioè alcuni giorni dopo la conferma del decreto: m' avea trattato come il solito, m' avea parlato delle cose dello Stato, e solo nell' ultima udienza o nella penultima gli uscirono queste parole: « stanno esaminando le sue opere », il che io intesi di qualche esame privato, di cui mi sarebbe comunicato il risultato. In quella vece non si esaminavano, ma il decreto era già fatto, e confermato a voce da alcuni giorni. Lungi da me ogni maniera di cavillazione o di sottigliezza legale; ma ben vi dico, che se un uomo di legge volesse instruire su questo avvenimento un processo, avrebbe molti e validi indizi da far parere verosimile che il Papa non fu libero in tal negozio, che pronunciò contro il suo sentimento a me manifestato più volte, e che la conferma del decreto fu ottenuta orretiziamente e surretiziamente, e per una umana e diplomatica pressione. Ma come dicevo, tutte queste cose, e la mia causa stessa l' abbandono intieramente al Signore, da cui viene ogni cosa e per la causa del quale ho scritto quello che ho scritto: perchè la causa della Chiesa è la causa di Cristo. Le quali considerazioni fecero sì che, pel divino favore, la proibizione non mi abbia recato nè turbamento grave, nè grave dolore; e mi sia sottomesso con semplicità di cuore, senza fatica. Questa finalmente non importa una condanna delle dottrine; ma importa la proibizione fatta a' fedeli di leggere que' libri giudicati inopportuni e dannosi nelle presenti circostanze de' tempi. Così il Pontefice Alessandro II sottrasse agli occhi del pubblico il libro intitolato « Gomorrhianus » di S. Pier Damiani; e non è unico quell' esempio, senza intendere con ciò di paragonare me stesso con uomini così santi e dottissimi; e senza nè pure volere affermare nulla sulla dottrina dei due libri proibiti, sulla quale è certo che non ha parlato ancora la Chiesa. Io credo che se voi conosceste le circostanze in cui si trovava a Gaeta ed ora in Napoli il Santo Padre, vi farebbe assai meno maraviglia l' avvenuto. Persuadete dunque il caro Bertetti, che io nulla vi tenni nascosto di quello che seppi, non vi ho ingannati; ma bensì sono stato ingannato io, e tosto che rilevai la cosa, ve la scrissi con ogni schiettezza. A vostro conforto, voglio altresì aggiungere che l' effetto della proibizione e della mia sommissione, fu più favorevole a noi che contrario; tanto in Roma quanto in Piemonte e a Verona; eccetto nel partito de' nostri avversari. Non temiamo adunque come v' ho scritto nell' ultima mia, ma confidiamo grandemente in Dio, che caverà anche da questo, come da ogni cosa la sua gloria. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Vi sono oltremodo obbligato della cara vostra lettera, che dimostra ad un tempo ardente zelo per la causa di Cristo e della Chiesa, e molta amicizia per me. Ora lasciamo fare a Dio, mio carissimo, e noi non pensiamo che a fare il dover nostro; sforzandoci col divino aiuto di compiere ogni giustizia, secondo l' esempio datoci dal Signor Nostro Gesù Cristo. Questa giustizia voleva che io mi sottoponessi, con sincerità di cuore, al decreto dell' autorità competente, senza badare al modo straordinario col quale venne emanato e alle eccezioni alle quali potesse soggiacere, fra le quali una è il trovarsi in contraddizione colle private parole dettemi dal Sommo Pontefice. Deve essere nel grand' ordine della divina sapienza anche questo un mezzo necessario a fare andare avanti il regno di Dio e la gloria di Cristo: e noi, che altro non vogliamo, esultiamone. Nostro Signore, che non dà mai un peso a portare senza aggiungere forza a chi lo deve portare, ove umilmente gliela dimandi, mi ha conceduto in questa bisogna una pienissima pace ed anche letizia. Che vogliamo noi di più? Intanto uno de' beni che ne verranno, oltre quello della maggior nostra umiliazione e pratica uniformità al suo volere, sarà quello di poterci presto rivedere; perocchè conto di partir da Roma in pochi giorni e per la via di Firenze, Livorno e Genova, affine d' evitare i luoghi infetti di colera, restituirmi al nido di Stresa. Io non so più nulla dell' affare del Cardinalato, dopo esser partito da Gaeta, e dopo la proibizione; ma quello che io credo si è che non avrà luogo alcuna promozione alla porpora prima del ritorno del Santo Padre a Roma, dove è ancora incerto quando si potrà condurre, non prendendo un buon avviamento le cose pubbliche di questi Stati. Godo sentendo che siete stato incaricato dal Vescovo d' insegnare il metodo alle Monache della diocesi, e che lo stesso abbiate fatto colle nostre Suore: l' opera che avete alle mani è opera grande, opera di Dio, cui prego di cuore di volervi rendere un nuovo Calasanzio. Salutatemi in Domino tutti i nostri carissimi maestri, e confortateli ad intendere la dignità e la bellezza della loro santa missione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando noi non vogliamo altro che quello che vuole Iddio, godremo sempre la pace di Cristo che contiene ogni bene. L' improvvisa e inaspettata proibizione delle mie due operette non ha potuto togliermela; nè il modo segreto con cui fu condotta, nè i maneggi d' ogni specie che vi si mescolarono, impedirono che io mi sottomettessi con tutta la sincerità del cuore a ciò che stimò bene di pronunciare la competente autorità. Nondimeno mi conforta l' essere stato assicurato che la proibizione non fu fatta perchè si fosse trovata nelle dette mie operette alcuna proposizione degna di censura teologica, ma perchè si credettero inopportune alla condizione politica dei tempi, dispiacendo sopra tutto a qualche potenza temporale ciò che vi si trova scritto intorno alla maniera d' eleggere i Vescovi, quantunque scrivessi con sincera persuasione di dir cosa non meno utile alla Chiesa che agli Stati, cosa che influirebbe a mio vedere a temperare le esorbitanze de' popoli dando a questi una tendenza religiosa; i quali se non si avviano a pensare ed occuparsi delle cose religiose, rovescieranno la loro esorbitante attività sulla società civile, e ne turberanno tanto più l' ordine, quanto più saranno empi e indifferenti ai negozi religiosi. Comecchè sia, io mi sono ciecamente sottomesso a quel decreto, com' era mio debito. Godo assai de' buoni avanzamenti de' tuoi figliuoli, nei quali il Signore ti benedirà. A me non meno che a te dispiace che la nostra unione sia tolta, o almeno differita. Io credo che non ci saranno promozioni alla porpora prima che il Papa entri in Roma, il che non so davvero quando possa essere, lo stato delle cose pubbliche e delle opinioni rimanendo ancora tutt' altro che sicuro e consolante. Quando poi il Papa sarà tornato alla sua capitale non so quello che sarà di me. Perocchè quantunque a Gaeta stessa m' abbia assicurato che nella prossima promozione avrebbe compreso l' umile mia persona, tuttavia dopo la mia partenza di là venni a sapere ciò che si lavorava in Napoli, di cui fu effetto la congregazione straordinaria che proibì le mie operette: e questo può aver mutata la deliberazione del Papa, benchè nessuno avviso io ne avessi. In questa oscurità e contraddizione di avvenimenti, io penso di tornare per intanto a Stresa ed ivi aspettare l' esito definitivo che mi farà conoscere la volontà divina. Tu già sai che io nulla omisi per declinare l' onore e il peso del cardinalato, e che fui obbligato in coscienza a sottomettermi. Se dunque come tutte le cose sembrano tornare nello statu quo , anche io ritorno nello statu quo ; non è certamente questo che mi rincresca. 1.49 Non ho risposto prima alla dolcissima sua lettera piena de' sensi della più vera cristiana amicizia, ricevuta anche tardi, per diverse occupazioni che mi sottraevano il tempo destinato al carteggio cogli amici. Nel sottomettermi, come ho fatto con pienezza di cuore, al decreto emanato dalla autorità competente e riuscitomi del tutto improvviso ed inaspettato, non ho fatto che un semplice atto doveroso per ogni figliuolo della Chiesa, di cui io sono l' ultimo; nè per grazia di Dio un tale avvenimento mi diminuì punto nè poco la pace. Iddio mi è testimonio che quello che ho scritto, l' ho scritto pel bene della santa Chiesa e del prossimo, ma dichiarando in pari tempo che io non mi reputava il giudice di ciò che potesse convenire ai tempi ed alle circostanze, e quindi che io sottometteva ogni cosa al giudizio supremo della Chiesa stessa, che n' è il vero giudice. Ella ha trovato che fosse meglio sottrarre agli occhi de' fedeli que' miei suggerimenti o consigli; e così sia. Mi conforta che da più persone di merito fui assicurato, che niuna proposizione si riscontrò in quelle scritture degna di particolar censura teologica: onde inferisco che debbano probabilmente essere state proibite per timore dell' abuso, e perchè non rimanessero offesi alcuni Governi tenaci delle nomine vescovili; benchè io credessi in buona fede, che la libertà delle elezioni diventerebbe un vantaggio non meno della Chiesa che degli Stati, ai quali niente più nuoce dell' irreligione dei popoli, nè veggo come questa possa cessare se i popoli non abbiano Pastori di tutta loro confidenza, e i popoli stessi non prendano un vivo interessamento per tutte quelle cose che riguardano la religione e la Chiesa. Rivolta l' attenzione e il pensiero de' popoli alle cose religiose, non rovescierebbero la loro attività aumentata sulle cose politiche con sì gran danno dell' ordine pubblico, come pur troppo veggiamo avvenire e dolorosamente sperimentiamo. Molti già intendono la cosa così, ma non osano zittire, perchè il timore di far peggio comprime i buoni: ed anzi, venendo l' occasione di doversi manifestare, si mettono dalla parte contraria. Io però non veggo tutte le cose presenti della nostra religione santissima di color così fosco come la veggon taluni: ma confido vivamente che la divina Provvidenza vada preparando uno stato novello di cose, alla religione ed alla causa della Chiesa, utile e glorioso. Quanto poi s' attiene alla mia persona, nulla affatto ci penso, come nulla so di quanto sarà per disporre il sommo Pontefice, dopo tutti i precedenti. Intanto conto di restituirmi a Stresa fra i miei carissimi compagni che da tanto tempo non veggo, e m' accompagna la dolce speranza di poter ivi riabbracciare il mio carissimo amico Gustavo. Con sommo dolore debbo dire che qui le cose non procedono come si desidererebbe, nè lo spirito pubblico migliora, nè ancora si sa quando il Santo Padre potrà rientrare con fiducia nella sua capitale. Del pari mi danno gran dolore le cose pubbliche del Piemonte, mia seconda patria, e mi ha pur sommamente attristato vedendo i tentativi sacrileghi che si stanno ordendo per ispogliare la Chiesa delle sostanze temporali, e renderla schiava del Governo che le getti un tozzo di pane perchè viva. Chi avrebbe aspettato in un regno, poco fa così devoto alla Chiesa, macchinazioni così empie e così opposte ai principŒ più elementari del giusto e dell' onesto? E questa dev' essere la strada della libertà? Povera Italia! traditi Governi! Ho ricevuto a suo tempo la lettera scrittami prima in Albano, come pure ho consegnata l' acchiusa per l' Em.mo Tosti, a cui fu aggraditissima. Non è facile a dire quanto La ami e La stimi; egli ha dovuto tornare in Roma per alcuni giorni, dove lo rivedrò domani. Mi usò ogni immaginabile tratto d' amicizia pel lungo soggiorno che feci presso di lui. Mille ossequi a tutta la sua famiglia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Avrete ricevuto risposta alla vostra precedente lettera; ora aggiungo poche linee per rispondere all' ultima che mi avete scritta in data 17 p. p. settembre. L' abisso della divina sapienza e scienza di Dio merita un abisso di adorazione e di amore; e se la tardità e durezza del nostro cuore di carne non può toccare il fondo di questo abisso, dobbiamo almeno esercitare quegli atti di adorazione e di amore che possiamo maggiori, e il più che vi manca e che ci resta quasi in abito deve supplirsi colla conoscenza del difetto nostro e colla umiltà che ne consegue. Così avremo l' inalterabile pace di Cristo, che non il mondo, ma noi soli sentiamo. Questo principio verissimo ci dispensa altresì dal sottilizzare sull' autorità che ci parla e sugli atti suoi, e ci dispensa da una scienza travagliosa e pericolosa. Tanto più che della proibizione d' un libro non è conseguenza necessaria il contenere esso dottrine degne di censura, perocchè colla proibizione non altro fa la Chiesa che giudicarlo inopportuno a' fedeli, agli occhi dei quali il sottrae, come avvenne di un libro di S. Pier Damiani, e più recentemente dell' opera del P. Lacunza, del quale, parlando io una volta col Papa, mi assicurò egli stesso, che in quel libro non ci avevano dottrine condannabili, ma era stato proibito per una cotal prudenza ed economia della Chiesa. Conviene adunque che noi facciamo quello che è tante volte inculcato nelle divine Scritture colle frasi « expectare Dominum, sustinere Dominum », e ciò con viva sicurissima fede. Del rimanemente ringrazio di cuore il Signore che, mediante l' accidente intervenuto, egli siasi degnato di illuminarvi nella cognizione di voi stesso con aumento di umiltà (la più preziosa di tutte le virtù, perchè fondamento di tutte) e di saviezza. Domani parto per Roma, e di là m' incammino verso coteste anime a me carissime, e tutte colla mia nel Signore conglutinate. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Godo che la lettera del Cardinal Franzoni sia venuta a confortarvi in questa prova che v' ha mandato il Signore. Ma assai più ho goduto in vedere che la divina Provvidenza chiaramente si manifesta a favore del progetto, tanto da voi bramato, di erigere costì un Collegio di Missionarii per le Nazioni estere. Ora mi sembra cosa di somma importanza di cominciare dallo stabilire alcune massime fondamentali che servano di norma alla istituzione di detto Collegio. E prima di stabilirle, bramo di sentire tutti i vostri sentimenti e concetti, dandovi intanto su di ciò un cenno de' miei. Per quanto ho potuto osservare, parmi che nel preparare i Missionarii ad opera così sublime, si possano commettere due sbagli egualmente dannosi, i quali potrebbero isterilire le Missioni. Il primo si è di credere che Iddio doni la grazia dell' apostolato assai largamente, quand' ella anzi essendo di tutte sublimissima, non è data a tutti, ed esige la maggiore cooperazione da parte dei vocati, il cui numero potrà essere accresciuto soltanto per virtù d' orazioni, avendo detto Gesù Cristo: « « La messe è molta per certo, ma gli operai sono pochi: pregate dunque il Signore della messe che mandi operai nella messe sua » ». Sì certamente sono scarsi ed anzi scarsissimi gli uomini apostolici, i quali non possono essere tali, se non sono eminenti nell' orazione e nello zelo di annunziare la parola di Dio. « Nos vero orationi instantes erimus . » E questo ci dee fare conchiudere di non eleggere alle Missioni straniere, in cui si tratti di diffondere il Vangelo agli infedeli, se non quei pochi che sono di provata vocazione, e con zelo ardente a questa cooperano. L' altro errore si è di credere che per le Missioni agli infedeli faccia bisogno una grande scienza analitica, su quella forma nella quale s' instituiscono i Sacerdoti in Europa. Io credo che si dovrebbe studiare per trovare un modo d' instituire tali missionari all' apostolica, un modo che congiungesse insieme la pratica e la teoria, e che questa piuttosto venisse da quella, anzichè il contrario. Vorrei che si procurasse di accendere, o piuttosto nutrire in essi un ardentissimo zelo delle anime; e dico piuttosto nutrire, perchè lo zelo deve già prima ardere in essi, come un dono di Dio e segno della vocazione: le anime fredde e comode si dovrebbero escludere. Vorrei che fossero esercitati prima di tutto nel culto e nell' amministrazione de' Sacramenti, ne avessero il gusto, ne cavassero profitto cercando d' intenderne lo spirito e la lettera, e che dalla Liturgia si traesse, come da uno de' fonti, l' istruzione loro teologica. Vorrei che avessero un' altissima stima e devozione allo studio delle Sacre Scritture siccome ispirate da Dio, e sopra tutto del Vangelo, che n' avessero famigliare la lettura e la spirituale meditazione, ed indi come da un altro fonte si deducesse la loro istruzione teologica. Quando ci fosse tutto questo, ove avessero appreso un compendio contenente tutte le verità definite dalla Chiesa, un compendio di Morale, un altro di Diritto ecclesiastico per ciò che riguarda specialmente la gerarchia della Chiesa, potrebbero essere presso che formati, colla sola giunta di quelle notizie o cognizioni che richiedesse la missione particolare a cui si destinano. Io vorrei che, se Iddio ci dà la grazia di vedere istituito e consolidato questo collegio, gli alunni di esso si destinassero fino a principio tutti ad una Missione determinata, perchè conviene restringersi, e non sparpagliarsi, e perchè, se si prende in vista una sola Missione determinata, si può dirigere tutta l' istituzione a preparare missionari idonei alla medesima; laddove formare in un solo Collegio missionari per più Missioni, sembrami cosa impossibile. Mi pare che noi dobbiamo scegliere fra l' America inglese e le Indie pure inglesi. La Missione americana parrebbe più facile perchè s' avrebbe la lingua, e altro non si richiederebbe che imparare poi sopra il luogo, se non si può prima, le lingue dei selvaggi, nè v' ha quasi bisogno di filosofia. All' incontro se si preferisce l' India, io credo che noi dovremmo tentare una strada diversa da quella che s' è fatta finora, prefiggendoci d' andare ad assalire i bramini, al che fare si esige moltissimo studio delle loro filosofie, oltre alla lingua indiana e l' indiana antica, la sanscrita. Io credo che non si è fatto ancor molto in quel popolo, perchè essendo egli sommamente legato ai loro bramini, non si fa niente o poco rivolgendosi al popolo senza attaccare i bramini stessi, se non convertendoli, almeno confutando le loro dottrine, e facendo loro perdere quel credito di sapientissimi che si mantengono, e dimostrando che i missionari sanno anch' essi tutte le dottrine braminiche, e ne sanno di più, perchè le sanno confutare. Credo che senza questo le Indie non saranno conquistate alla fede, e questo è un lavoro duro e lento, al quale si esige anche molto ingegno, perchè quelle loro filosofie sono veramente maravigliose, e quasi l' estremo sforzo dell' errore. L' Inghilterra sarebbe un paese acconcissimo dove formare dei missionari ben addentro in tali dottrine, le quali sono state fatte conoscere all' Europa dagli Inglesi, specialmente dalla loro società di Calcutta; ma converrebbe mettere a suo tempo i nostri missionari, cioè quando sono più formati nello spirito, e in tal caso si dovrebbero anche formare, nella filosofia, e più avanti nella teologia, in relazione coi letterati e dotti in tali studi che debbono essere a Londra e in altre Università. Io bramerei che consideraste tutte queste mie riflessioni, e mi diceste, dopo invocato il lume divino, se vi paresse meglio assumere l' impresa di formare missionari per l' America, o per le Indie. [...OMISSIS...] 1.50 Voi mi proponete due sottilissime questioni, l' una fin dove, preparandosi a favellare al popolo, possa giungere la confidenza nel divino soccorso, senza che traligni in temerità o presunzione, l' altra come si compongano insieme la semplicità e la prudenza evangelica. Queste sono cose, o mio caro, che nessuno degli uomini può insegnare, e che Iddio ha riserbato a se stesso per insegnarle egli solo ai suoi servi. Ed egli le insegna un poco alla volta, perocchè questa scienza, o piuttosto questa sapienza è troppo grande per essere ricevuta tutta in un tratto da noi così poco preparati. Il perchè niuno ha finito d' apprenderla mai, e i santi v' impiegaron tutta la vita, e ne restava ancora. Conviene dunque dimandarla al Maestro, e non cessare mai di dimandarla con intensissime istanze, e con grida e gemiti, presentandogli l' anima aperta a ricevere tutto quello che egli ci mette, e gli orecchi del cuore aperti a non perdere sillaba della sua istruzione. Perocchè la dottrina celeste è così fatta, che quand' anche ci avesse un uomo che la sapesse e potesse ridurla ad una teoria umana ed esprimerla con parole, ancora avverrebbe che i suoi discepoli non la intenderebbero, se Iddio non aprisse loro l' intendimento alla sua luce, o la fraintenderebbero, se Iddio non dirigesse al vero la loro intenzione. Una cosa nondimeno io vi dirò sulle generali, e questa si è, quanto alla prima questione, che giova prepararsi, specialmente nel caso vostro, con tutta diligenza, nelle cose prima, e poi anche nelle parole, ma senza sollecitudine od inquietezza; nell' escludere questa consiste l' abbandono in Dio, e quest' abbandono esclude la sollecitudine sull' esito, non lo studio e la diligenza. Pensare all' oggetto e dimenticare il soggetto, cioè dimenticare affatto noi stessi, ma intendere con tutto l' impegno nell' oggetto, cioè nella dottrina che dobbiamo annunziare. Quanto alla lingua, di cui fa d' uopo vestirla, chi n' ha più bisogno e chi meno, e chi n' ha più bisogno dee più occuparsi: conviene che ognuno prenda regola in questo da quella misura di cognizione e di facilità che sa di avere. Credo che costì in Inghilterra vi abbia qualche copia di quell' eccellente libro che io raccomando ai nostri Predicatori, e che ha per titolo: « Guide de ceux qui annoncent la parole de Dieu (Chambéry, Puthod, 1.29) »: è una raccolta di precetti dei Santi intorno al vero modo di predicare, e vi troverete anche cose che fanno alla vostra domanda. Quegli poi è uomo semplice , il quale dice sempre la verità, e s' attiene ne' suoi pensieri, affetti ed operazioni, alla giustizia; quegli che non usa frodi per comparire più che egli non è, e che non fa uso di cavillose riflessioni per fare che la verità sia quello che a lui piace, ma accetta la verità qual' è, amandola come tale, senza intendimenti stranieri o fini secondarii: quegli è semplice che non si vergogna di confessare il Vangelo, anche in faccia agli uomini che non lo stimano se non come una debolezza o una fanciullaggine, e di confessarlo in tutte le sue parti e in tutte le occasioni, alla presenza di tutti, e senza fasto, ma unicamente perchè è vero: quegli è semplice che, piuttosto che fare un giudizio temerario, si lascia ingannare e pregiudicare dal prossimo, che prende tutto in buona parte, nè perde il sereno dell' animo suo per qualunque contegno gli altri tengano con esso lui. Questi è quello che è veramente semplice, che è un umile sincero, conoscendo schiettamente tutti i propri mali, e non ischivando altresì di riconoscere e confessare i beni che gli ha dati il Signore, con rendimenti di grazie e infinita gratitudine, non riputandoli a' suoi propri meriti, nè tampoco esagerandoli. Ma il prudente è quegli che sa tacere una parte della verità, la quale sarebbe inopportuna a manifestare, e che taciuta non guasta la parte di verità che dice, falsificandola: quegli che sa giungere ai fini buoni che si propone, scegliendo i mezzi più efficaci con solerzia ed energia di volere e di operazione: quegli che in qualunque affare sa prevedere tutti i casi possibili e le difficoltà che potrebbero incontrarsi, e sa per tempo evitarle: quegli che per tempo antivede ancora le difficoltà opposte o contrarie, cioè le difficoltà che nascono dallo stesso studio di evitare le difficoltà, e quindi sceglie la strada di mezzo che è quella che incontra difficoltà minori e minori pericoli: quegli che avendosi proposto qualche fine buono, ed anche nobile e grande, non lo perde più di vista giammai, e colla costanza del suo proposito giunge a superare tutti gli ostacoli, dirigendo a quel fine tutti i suoi atti, nè lasciandosi scappare occasione alcuna che a quello conduca: quegli che in ogni affare distingue nettamente ed afferra la sostanza, nè trattenendosi, nè lasciandosi impacciare dagli accidenti, trascurati i quali, più rapidamente giunge a cogliere il suo fine, e quindi bada che le sue forze non divergano e si sparpaglino in varie direzioni, ma tutte le tiene serrate e converse nel fine che si propone: quegli finalmente che, dopo aver fatto tutto ciò, spera il buon esito da Dio solo, e a lui lo domanda, e lo vuole se lo vuole Iddio, e non si raffredda, nè si cruccia, nè si pente, nè rallenta il suo bene operare, se non gli riesce, contento d' aver fatto tutto ciò che sta in lui, e sicuro che il fine ultimo non gli è mancato, perocchè questo fine ultimo all' uomo prudente del Vangelo non è più altro che la volontà e la maggior gloria di Dio. Voi vedete, mio caro, che questa semplicità non ha nulla che contraddica a questa prudenza, e questa prudenza nulla che contraddica a questa semplicità. La semplicità sta nell' amare e la prudenza nel pensare: l' amore è semplice, l' intelligenza prudente: l' amore prega, l' intelligenza vigila: « vigilate et orate », ecco la conciliazione della prudenza e della semplicità. L' amore è come la colomba che geme, l' intelligenza operativa è come il serpente che non cade mai in terra, nè mai urta, perchè va tastando col suo capo tutte le ineguaglianze del suo cammino. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ancor domani celebrerò la santa Messa in suffragio dell' anima di sua madre e la farò suffragare colle orazioni de' miei compagni. Le quali orazioni non sono utili soltanto ai defunti, ma di conforto anche ai sopravviventi; perocchè, in virtù di quel lume della fede che non inganna, noi sappiamo con una immobile persuasione che quelle care persone, le quali partendosi di questo mondo nella fede di Cristo ci si tolgono dagli occhi, non è vero che sieno morte, ma solo che vivono in un altro modo. E di più dobbiamo sperare, che questo nuovo modo di vita sia troppo migliore e più perfetto di quello che aveano prima: chè per verità il verme o la crisalide non muore quando diventa farfalla, ma riceve l' ultima forma dell' esser suo. E credo veramente che, se noi ci staccassimo col retto giudizio e coll' affetto da questa vita di senso e di carne, la quale è in fine un' incomoda e corruttibile prigione, e giungessimo a dimorare col vigore della nostra volontà in quell' altra forma di esistenza serena e spirituale, nella quale lo spirito entra tostochè è liberato dall' ingombro corporeo; proveremmo una letizia spirituale della morte nostra o de' nostri, la quale tempererebbe ed anzi vincerebbe la naturale tristezza che induce in noi l' animalità che si scioglie. Non che questa letizia possa venire all' uomo dalla condizione della sua natura, ma certo da quel Cristo Signore, nel quale siccome membra al capo siamo incorporati, e il quale vive di vita immortale e beatissima, e comunica alle sue membra della stessa vita quando ancora militano quaggiù, e più pienamente quando passano di quaggiù colà dov' egli si trova, e dove compensa abbondevolmente l' anime ignude di quello che collo spoglio de' sensi corporei hanno perduto. Ma veramente ardua cosa è mantenere lo spirito nostro così sollevato, e anzi ella è opera della grazia e della fede che in noi si aumenta coll' orazione. Onde io dicevo che questa non riesce di minor conforto e consolazione ai sopravviventi che di suffragio ai defunti. Voglia, mio carissimo amico, trovare alleggerimento al suo gravissimo dolore in queste belle e preziose verità, e non abbandonarsi di soverchio alla tristezza. So pur troppo quanto il Signore in questi due anni passati L' abbia voluto provare e purificare colla tribolazione, la quale è un segno indubitato dell' amor suo. E se la compagnia de' mali può attenuare, come si suol credere, il dolore ai compazienti, io bramerei ch' Ella potesse vedere nell' anima mia; poichè in allora chiaramente conoscerebbe che non Le mancano compagni nelle sofferenze e nelle tribolazioni, e forse Le parrebbero scarse le sue. Ma colui che castiga è quegli ancora che consola: riceviamo l' una e l' altra cosa dalle stesse mani amorose: al doppio regalo corrispondiamo con doppio amore, cioè coll' amore della rassegnazione e con quello della riconoscenza. Così perverremo, aiutandoci Iddio, ad una condizione di animo che gode mai sempre, come quello che sa derivare un cotal gaudio dallo stesso dolore: « Ut gaudium vestrum sit plenum . » Ma più lungamente e forse più soavemente ragioneremmo di tali cose se Ella fosse presente, e però Ella mantenga il promesso, venga a passare alcuni giorni nella solitudine di Stresa, dove filosofando insieme procureremo di darci l' un l' altro conforto. [...OMISSIS...] 1.50 Pervenne a' miei orecchi una cosa di voi, mio caro figlio, la quale mi ha molto amaricato, cioè che vi siete non poco rilassato nello spirito, e divenuto negligente nello studio dell' orazione. Se la cosa è così, conviene che abbiate grande timore e sospetto di voi medesimo, acciocchè Iddio non vi castighi. Perocchè Iddio ha usato con esso voi ogni liberalità, e oltre il farvi cristiano, vi ha eletto fra quelli che si debbono dedicare al suo più stretto servizio, e arrivare alla perfezione della vita; e vi ha raccolto dal mondo in una casa a lui consecrata, e quasi direbbesi nel suo stesso palagio, cioè nella religione. Ora se Iddio è liberale, egli è anche geloso, e pretende che quelli, a cui egli è andato incontro il primo, offerendo loro i più alti posti nel suo regno, riconoscano il valore e la preziosità di tale sua grazia, e non la prendano a festa, ma le corrispondano siccome è degno. Il che non fanno sicuramente quelli che sono pigri ed accidiosi, e hanno quasi noia e fastidio di trattare con esso lui nell' orazione, la cui conversazione non ha amarezza nè fastidio, ma ogni letizia ed ogni gaudio; e chi non la prova questa letizia e gaudio ineffabile nello stare in istretta conversazione con Dio nella orazione, è manifesto segno che ha l' animo rozzo e duro, quasi privo di senso spirituale, e senza lume a conoscere l' infinita grandezza e dolcezza e bontà di quel Dio a cui si sta presente, e a cui parla. Onde se costui vuole veramente il bene e il vero, nè ama ingannarsi da se stesso, deve provare grandissimo dolore e timore in conoscersi così freddo, insensato e stupido, e non dee aver quiete nè dì nè notte, fino che non ha trovato la compunzione, e ricuperato il gusto spirituale e il fervore della preghiera e di tutti gli esercizii di pietà. E lo troverà se vince se stesso, se vince la sua carnalità superba, colla mortificazione e colla umiltà prima di tutto, e poi col durarla imperterrito nella fatica del pregare; la quale fatica, se colla buona e forte volontà si sostiene e supera generosamente, cessa dopo qualche tempo d' essere fatica, e diventa soavissimo esercizio, a cui l' anima infervorata trae e anela, siccome l' affamato al cibo più ghiotto. Sollevatevi dunque, carissimo figlio, dalla bassezza della tiepidità in cui pare siate caduto, e staccandovi da voi stesso e da ogni pigrizia, siccome buon soldato, senza temere patimento di corpo, riprendete alacremente i santi esercizii della orazione, specialmente quelli che sono ordinati dalle nostre consuetudini, e più ancora, se potete spronare lo spirito vostro ad una maggiore generosità. Considerate che se noi non vogliamo ridurre veramente in pratica gli insegnamenti di Gesù Cristo, e tenere dietro da vicino a' suoi esempi, egli è vano e falso il chiamarci suoi discepoli, e la vita che abbiamo intrapresa non si sa dove se ne andrà a riuscire, ma non certo a buon punto. Se dunque non vogliamo faticare indarno ed esserci messi per questa via della religione senza pro, conviene che quelle parole: « sine intermissione orate », e quelle altre: « vigilate et orate », e ancora: « petite et accipietis », ci stieno presenti, e siano da noi adempite coll' opera, acciocchè diventino per noi un titolo alla mercede e alla gloria, e non anzi una legge che ci condanni: conviene altresì che portiamo di continuo dipinto innanzi agli occhi nostri Gesù Cristo, che pernotta in orazione o sul monte, o nell' orto con effusione di sangue, o sulla croce con un valido clamore, siccome nostro vivo modello, in cui ci sforziamo continuamente di trasformarci, facendo in lui e con lui quello che egli faceva e che fa tuttavia, « qui sedens ad dexteram Patris interpellat pro nobis ». Non inganniamoci, mio carissimo, chi non prega non può reggersi in piedi, nè stare con Dio: chi prega poco, fa poco bene; chi prega molto, ne fa assai, e noi ci siamo obbligati, mio caro, colla nostra professione di vita tutta ardente di carità, di farne assai; e però dobbiamo pregare molto e, se non lo facciamo da vero, veniamo meno al nostro dovere, falliamo al nostro fine, ci pasciamo di vento, non possiamo avere quella carità a cui ci obbligammo, a cui, in cui, e per cui debbono essere tutte le nostre operazioni. Voi direte che l' ufficio vostro di Maestro di belle lettere ha del profano e distoglie l' animo dalle cose di Dio. - Appunto per questo dovete più fortemente e più assiduamente pregare; il vostro officio è tale, che esige che voi otteniate da Dio, a forza di orazione, di renderlo innocuo all' anima vostra, e utile spiritualmente ai vostri prossimi; egli è necessario che colle più fervide e perseveranti istanze otteniate da Dio una sì gran misura di carità, che santifichi i vostri studii, e, quasi direi, da profani li faccia divenire santi e spirituali; il che avverrà se li professate con una profonda umiltà di cuore e disprezzo di voi medesimo, con una retta e pia intenzione di servire Iddio ne' prossimi, e con un' industria di giovare con essi anche spiritualmente, ed anzi prima di tutto spiritualmente, ai vostri discepoli, guidato da un vero e ardente zelo della salute delle loro anime, alle quali un maestro di scuola può sempre in molte maniere giovare, perocchè l' Istituto della carità non prende propriamente a insegnare se non per questo gran fine, in cui la carità di Gesù Cristo consiste. Onde il fermarsi coll' istruzione o coll' operazione nella letteratura, o nella grammatica, o nella filosofia, o in altra scienza profana, senza pervenire fino al Vangelo, in cui sta la salute, è somigliante a chi si trattenesse in sul viaggio a mezzo del cammino, senza pervenire allo scopo del viaggio stesso. Questo scopo (che finalmente è la patria celeste, a cui noi siamo avviati, e a cui dobbiamo trarre con ogni industria insieme con noi quanti più possiamo, tale essendo la professione della nostra vita e l' intento dell' Istituto della carità) non si può certamente ottenere senza la grazia di Dio, nè questa senza l' orazione, nè l' orazione si fa utilmente senza mortificazione, che dura e resiste alla ripugnanza e alla fatica che oppone la carne, e senza umiltà che abbassa lo spirito internamente ed esternamente altresì, sommettendo il collo in tutto e per tutto al giogo santissimo della religiosa disciplina ed obbedienza. Queste cose io vi metto sott' occhio, o carissimo, e quell' amore che vi porto in Cristo, com' è mio debito, farà che di qui avanti io tenga gli occhi aperti specialmente sopra di voi, per conoscere i vostri andamenti e il vostro profitto nella via dello spirito e nell' osservanza delle nostre sante regole. Che se mi dovessi accorgere che l' ufficio di maestro, che vi ho affidato, potesse menomamente nuocere a quello che più, ed anzi, che solo importa, voglio dire all' anima vostra, non tarderei di richiamarvi al Noviziato. Ma spero che voi compirete tutti i miei desiderŒ, svegliando voi stesso, e dandovi al servizio del Signore con nuova lena e vigore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Vi sono obbligato della parte che prendete alle mie tribolazioni, e dei conforti che con ciò mi porgete. Io posso dire veramente col Salmista: [...OMISSIS...] . E nulladimeno, a malgrado di tanti motivi di afflizione, di tante acque ingrossate che « intraverunt usque ad animam meam », procuro di tender l' udito a quella parola di vita che rianima i morti stessi: [...OMISSIS...] . Ci ascolterà, ci esaudirà, se lo pregheremo: perocchè questo, mio caro, egli è per verità, più che ogni altro, tempo di preghiere e di supplicazioni, e di umili confessioni al Signore dei nostri peccati; e dobbiamo perciò congiurarci insieme, direi, per fare alla lotta con Dio, siccome Giacobbe. Questo io mi aspetto da voi, carissimo D. Michele, che facciate qualche sforzo di bene per me in questi momenti, e suggeriate ai fratelli di farlo anch' essi. Viviamo di fede: [...OMISSIS...] . Sia in noi l' afflizione che salutarmente ci umilii, non l' avvilimento che ci sgagliardi, o l' indifferenza che ci insuperbisca: sia il rispetto e l' affetto filiale e l' obbedienza all' autorità che ci percuote e che castiga, secondo il divino beneplacito, le colpe di cui pur troppo siam gravi. [...OMISSIS...] 1.50 Ho inteso dalla vostra lettera, mio carissimo in Cristo figlio, le vostre tentazioni ed i vostri combattimenti, e sento tuttavia compassione del vostro stato. Ma il valoroso atleta di Cristo non si smarrisce alla moltitudine de' suoi nemici spirituali, perchè sa di poterne riportare compiuta vittoria, quando milita sotto le insegne del suo invincibile capitano Gesù Cristo, che colla sua preziosissima morte ha debellato il diavolo e tutti i suoi angeli, e a lui si stringe, e da lui domanda incessantemente aiuto e soccorso. Io v' insegnerò dunque ad uscire dai pericoli e dalle angustie in cui vi trovate, purchè mi diate ascolto e adoperiate i seguenti mezzi: 1 Ogni giorno fate almeno per tre volte una fervorosa protesta di odiare e aborrire qualunque peccato anche minimo, e di voler piuttosto morire, che accondiscendere ad alcuna tentazione: e procurate di rinforzare il decreto della vostra volontà di voler sempre il bene, il giusto, l' onesto, ciò che in una parola vuole Iddio santo per essenza, e ciò che piace agli occhi suoi. 2 Siate semplice e sincerissimo col vostro Superiore, e dite a lui candidamente tutte le vostre tentazioni, e tutti i pericoli che vi pare d' incontrare, e le debolezze, le cadute di cui vi rimorde la coscienza: e ricevete da lui con grande umiltà e gusto le correzioni, le mortificazioni, le penitenze, cercando sempre ciò che più serve ad umiliarvi ed a mortificarvi. 3 Domandate spesso e fervorosamente a Dio, a Gesù Cristo ed alla vostra amabilissima madre Maria, di cui spero che sarete figlio amoroso e devoto, e sempre più diverrete, la grazia: 1 di esser umile; 2 di esser casto e puro; 3 di amare il prossimo senza limitazione o parzialità di sorta, distruggendo in voi ogni sentimento d' invidia, di malignità, spirito di censura, disprezzo, ira, impazienza, intolleranza, vendetta. Convien che vi facciate forte a pregar molto e fervorosamente, e la vittoria è sicura. 4 Usate gran mortificazione de' vostri sensi, non guardando, o almeno non affisando mai le persone pericolose, non avvicinandovi mai ad esse per pura inclinazione, ma solamente quando lo vuole la necessità, o l' ordine, o il caso. 5 Cercate di far del bene a tutti senza distinzione, e quando sorge nell' animo vostro un pensiero di poca carità, o qualche immaginazione contraria all' angelica virtù, subito fate un atto contrario; e con forza e valore, invocando il nome di Cristo, di Maria, degli Angeli o de' Santi, datele addosso senza lasciarle tempo, acciocchè la vostra volontà si renda superiore ai nemici e non si lasci giammai dominare o indebolire. Mio caro, con questi pochi mezzi potete vincere, se volete; e certo lo vorrete. Adunque coraggio, all' armi! In breve tempo vi sentirete confermato più che mai nella vostra santa vocazione, e imparerete a conoscere qual tesoro preziosissimo vi abbia dato Iddio in essa: e quando avrete ben conosciuto questo, da quell' ora farete progressi grandi nella via dello spirito, verso a quella perfezione, a cui voi dovete con animo generoso, ma umile insieme, corrispondere. 1.50 Parmi di rilevare dalla vostra ultima letterina che non abbiate ben inteso lo spirito di quanto io vi ho scritto. Non trovate voi nella mia lettera suggeritivi de' mezzi opportuni per uscire dallo stato di tentazione in cui vi trovate? E` vero che io non v' ho detto di essere disposto a trasportarvi in un' altra Casa, perchè non l' ho creduto necessario; ma se sarà necessario, farò anche questo, farò tutto per vostro bene. Ma badate di non angustiarvi senza cagione, perchè non dovete già credere che le tentazioni, a cui si resiste, sieno peccati: fatevi coraggio, e da una parte combattete colle armi della fede, dall' altra non v' inducete a credere d' avere acconsentito e d' esser caduto, quando per grazia di Dio, non avete acconsentito e non siete caduto. Il sentire delle molestie venienti dai nemici infernali è una prova che permette il Signore, ma voi opponete la volontà ferma nel Signor vostro amabilissimo. E poi fate di tutto per poter conoscere ed amare questo Signore, e trovar piacere nella sua dolcissima conversazione: perocchè in questa maniera non vi riuscirà grave il pregarlo e il supplicarlo; ma troverete esser cosa allo spirito dolcissima, benchè penosa alla carne. Già sapete che i santi trovavano le loro delizie nell' orazione, la quale non si può sentire quanto sia dolce, se non si pratica. E se non vi sentite inclinato all' orazione, domandate anche questa grazia al Signore, che è la grazia delle grazie; e se vi sforzerete a dimandarla istantemente con tutto il cuore, ve l' accorderà e vi farete santo. Se non vi pare di aver approfittato del Noviziato, cominciate adesso; e se non vi riesce costì, scrivetemi, che, quantunque mi rincresca farvi interrompere gli studi, farò anche questo, vi richiamerò. Ma cacciate i pensieri contro la santa vocazione, in cui Iddio vi ha chiamato, e dove potete assicurare la vostra eterna salute; e per una leggerezza non inclinate mai l' animo a buttar via un così grande tesoro, chè ne lamentereste poi forse la perdita inconsiderata, tutta la vita, ed anche l' eternità. Orsù adunque, cominciate ad operar virilmente: Maria Santissima sia il vostro rifugio, stringetevi al suo patrocinio, ed abbiate viva fede nella sua pietosissima intercessione. Spero che dopo qualche tempo mi darete migliori nuove del vostro spirito, nuove liete e consolanti. Alleluia . [...OMISSIS...] 1.50 La lettura della cara vostra ha destato in me grandissima compassione del mio caro fratello, il quale però confido che dalla presente lotta uscirà vincitore, e ritrarrà grandissimo vantaggio. [...OMISSIS...] Nella prossima settimana, se il tempo me lo permette, io verrò a trovarvi, come tanto desidero e vi condurrò meco lasciando un altro a fare le vostre veci nella scuola per alcuni giorni, e spero che, variando un poco tenore di vita, vi refocillerete, coll' aiuto di Dio, il corpo e lo spirito. Del resto consideriamo che siamo posti in questa breve vita per fabbricarci una casa eterna, dove riposeremo dalle fatiche e dalle noie, nè ci sarà più cosa che ci arrechi tedio o fastidio. Col pensiero a questa grand' opera, a compir la quale Iddio ci ha posti quaggiù, quello che in sè stesso è molesto e alla nostra infermità pesante, ci parrà cosa preziosissima: il tesoro infinito del merito che è nascosto nel travaglio e nel patimento, stando sempre davanti agli occhi nostri, ci conforterà, e ci rallegrerà assai più che non faccia al cuore dell' avaro un monte tutto d' oro e di gemme che gli si offre a guadagno. Se guardiamo in giù o d' intorno, è vero pur troppo, siamo « lutea vasa portantes quae faciunt invicem angustias »; ma se all' incontro guardiamo in su, si dilatano subito immensamente gli spazi della carità. [...OMISSIS...] Se guardiamo a noi stessi, è giusto che ne prendiamo orrore; ma se guardiamo al nostro Creatore e Redentore Iddio, è impossibile (colla sua grazia) che non sentiamo fiducia e allegrezza infinita, e un bene che condisce ogni amarezza, e in cui si perde dolcemente il cuore che non può abbastanza ingrandirsi e vorrebbe rompere la propria limitazione. - Che se sorgono in noi delle antipatie alle cose e alle persone, reprimiamole, mio carissimo, per l' amore del nostro Dio; perchè esse sono un difetto, e ci rubano la dolcezza del cuore, e diminuiscono in noi la carità e le forze spirituali per progredire costanti nel cammino della virtù. Non così facilmente conosce l' uomo il male ed il danno delle antipatie, che si manifestano nell' animo suo; e però, senza accorgersi, egli non le combatte, ma piuttosto le lascia in pace, o pur anche le coltiva e le nutre con ragioni speciose e col pretesto del bene: perocchè sembra che nascano dal volere tutte le cose e le persone perfette su quell' ideale che ci sta nella mente, e questo sembra che sia un volere il bene, onde parendoci d' essere mossi da un nobile sentimento, non badiamo a quel vizio funesto che esse contengono: non badiamo che esse sono opposte alla sapienza, la quale ci dice di non doversi aspettare quaggiù la piena perfezione, sono opposte alla santissima umiltà come quelle che presumono troppo dell' uomo e di noi stessi, e sopra tutto sono opposte alla dolcissima carità, [...OMISSIS...] Conviene adunque queste antipatie, forse troppo neglette fin qui, in noi combatterle e distruggerle, e sostituire ad esse altrettante simpatie d' altissima carità, di quell' altissima carità che ha il punto della leva fuor di questo mondo, nell' astro del cielo eterno che è GESU` Cristo. - E GESU` Cristo stesso volle passare più di trent' anni in queste nostre angustie, ed ebbe anch' egli a desiderare la morte, quella morte però nella quale stava il volere del Padre, e potè dire anch' egli: « Baptismo habeo baptizari: et quomodo COARCTOR usque dum perficiatur »! Quanto le angustie di Cristo sono state maggiori delle nostre! Certo di tanto, di quanto egli era più grande di noi; e tuttavia ristretto e angustiato alla nostra misura, e fra uomini come noi imperfetti, che colle loro imperfezioni lo angustiavano e pressavano d' ogni parte, fu suo cibo il fare la volontà del Padre suo, e per fare questa volontà, li sopportò, visse con loro, e patì e morì per loro, anzi per noi tutti: perchè anche noi, noi stessi, l' abbiamo premuto, e angustiato, ed afflitto e, Dio non voglia, fin anco crocifisso. E` dunque giusto, equo e doveroso che anche noi sopportiamo in pace e in rassegnazione le nostre angustie, e in esse ci consoliamo al pensiero di rassomigliarlo da lontano e di compensarlo in qualche modo colla nostra pazienza; perchè egli si rallegra se ci vede portare con fortezza le nostre afflizioni, e si rallegra per l' amor che ci porta, cioè perchè vede che il nostro patire generoso ci ammigliora e ci perfeziona, giacchè la sola pazienza « opus perfectum habet », e arreca a noi stessi, se ci pensiamo al vero suo lume, l' indicibile contento d' essere così suoi imitatori. « Similes ei erimus » in cielo, quale inebriante speranza! Ma se non abbiamo un cuore di sasso, non ci deve essere men cara la speranza, ed anzi la certezza, di essere a lui simili in terra. Questa certezza ci abbellirà e spargerà di fiori e di viole, e di gigli, tutte le nostre occupazioni, le quali per se stesse ci fossero pure ingrate, ma specialmente quelle che noi facciamo per amor di Dio e per amor del prossimo; e così aggiungerà vita alla nostra vita, e come noi dell' Istituto ci proponiamo di fare tutto per questi amori, tutto altresì ci ritornerà abbellito, e infiorato, e illuminato dal brillantissimo lume della vera vita. Coraggio adunque, mio carissimo, all' opera, all' opera! vincendo noi stessi, vinceremo i nostri nemici che ci vogliono offuscare quel cielo sereno, sotto cui dobbiamo e possiamo vivere, in cui astro fulgidissimo è il sole della giustizia, che « exultavit ut gigas ad currendam viam ». La carità, la pazienza, il compatimento, la fede, ma sopra tutto l' orazione, una tenera e perseverante orazione, ci arrecherà quella luce di cui abbisognamo per intendere praticamente tutto quello che ho scritto in questa lettera, traendola dalle divine carte, e ci confermerà in quei santi propositi, a cui l' uomo non può venire meno se non si abbandona alle tenebre della carne, e del sangue, e del demonio. Perocchè queste sole sono quelle cose che distolgono l' uomo dalla virtù e dalla giustizia, non mai alcuna ragione, alcuna intelligenza, alcuna virtù. Spero nel Signore, che quando verrò costì, vedrò la vostra faccia serena e lieta: così spero nel Signore, così ne lo prego. Ci consoleremo a vicenda, abbiamo entrambi delle afflizioni, abbiamo entrambi delle consolazioni, accomuneremo insieme le une e le altre, e faremo, o piuttosto Iddio farà in modo che prevarranno le seconde alle prime. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ho sempre apprezzato altamente le scritture di V. S. chiarissima, e appena saputo che l' annunziato suo libro era uscito alla luce, avea data commissione che mi fosse provveduto. Ed ecco che ora lo ricevo, doppiamente caro, dalla sua gentilezza, accompagnato da una cortese lettera. E` appunto uno di que' libri, ove si tratta di quegli argomenti nei quali sono consegnati i semi, così scarsi tutt' altrove, delle speranze che ci rimangono. Gli educatori e le educatrici, che io in qualche modo dirigo, e che già si giovarono della « Guida dell' educatore », profitteranno anche del nuovo ordine e della nuova perfezione ch' Ella aggiunse alle dottrine pedagogiche, colla gratitudine dovuta a chi, con tanto senno, lucidezza ed amore, porge così utili documenti e validi conforti alla laboriosa e difficile vocazione. Io ne ringrazio V. S. anche a loro nome. Ma con questo solo non mi parrebbe di averle significata compiutamente la mia gratitudine e la stima grande che ho sempre avuta della sua persona: un segno più certo Le sia dunque il pensiero che oso soggiungerle. Io sono persuaso che l' uomo (e molto più la società) non possa raccogliere nè anco in questa vita tutto il bene che la Provvidenza ha disposto per lui, se non a condizione, che egli, come a termine fisso, volga tutta la sua attività a' suoi eterni destini. Non trovo un altro punto d' appoggio così fermo che mai non ceda, dove puntar la leva per movere, in qualunque circostanza, l' uomo alla virtù, se non quello che è fuori di questa terra, un bene eterno. E` un sentimento intimo al cristianesimo espresso in quelle parole del Salvatore: « « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno aggiunte » ». E mi sembra, che questo sia appunto quel più alto ordine di cose, ch' Ella m' accenna nella sua lettera « aver procurato d' insinuare negli animi senza che paia ». Rendendo piena giustizia alle sue intenzioni, mi si offriva qui all' animo spontanea la domanda; se non sarebbe naturale, non sarebbe almeno conveniente, che apparisse in tutta la luce, quel principio che dee pur reggere tutto l' uomo in ogni suo fatto, e al quale tutti gli altri principii vogliono essere subordinati, dal quale sono corroborati e santificati. Il rifiuto o l' indifferenza che ne mostra il mondo, potrebbe forse essere una ragione di più per insistervi. Ecco quanto affido alla sua saviezza ed alla sua benevolenza. Il grave argomento che Ella tratta sotto il titolo: « Ragionevolezza dell' uso delle punizioni »mi pare che dovrebbe ricevere delle importanti modificazioni, considerato in quell' ordine più sublime. Mi è non poco doluto che il mio celere passaggio da Firenze m' abbia privato del vantaggio di riveder Lei, e di conoscere di persona l' egregio Gino Capponi di cui ho tanta venerazione; e ben mi desidero, ma non ispero così presto, qualche altra fortunata occasione. [...OMISSIS...] 1.50 Duolmi di sentire dalla cara vostra del 26 corrente i difetti di alcuni nostri fratelli. Io voglio darvi alcune regole per arrivare a toglierli, se si può, e quando usati tutti i mezzi che sono in nostro potere, non si riesca, per licenziare dall' Istituto gli inosservanti. Le regole sono queste: 1 Il Superiore deve dimostrare una ferma volontà che tutte le regole sieno osservate. Se i fratelli sieno una volta ben persuasi che il Superiore vuole , state certo che non si prenderanno facilmente certe libertà; 2 Il Superiore deve dimostrare questa ferma volontà in un modo coerente, in maniera che da tutte le sue parole e da tutti i suoi atti chiaramente risulti, senza che sia mai trovato in contraddizione per ragione di parzialità o di fiacchezza; 3 Questa ferma volontà deve essere dimostrata con tutta la dolcezza, e l' amabilità di modi, e le dimostrazioni d' affetto; ma quella dolcezza deve cadere sul modo e non sulla cosa : deve stabilire la fermezza della volontà, non distruggerla; 4 Deve ancora questa fermezza essere dimostrata colle più chiare ed esplicite parole, senz' alcun timore o riserbatezza, cioè non conviene dire le cose a mezzo nè oscuramente, ma precise e bene determinate, e vale anche qui il proverbio: patti chiari e amicizia lunga ; 5 Il Superiore nel dimostrare questa fermezza di volontà in esigere l' osservanza e l' obbedienza, non deve escludere la discrezione , che consiste nel dispensare nei casi particolari da qualche regola, quando o il bisogno della salute, o altra buona ragione lo esiga; 6 Conviene che il Superiore parli aperto e senza riguardi, ma nello stesso tempo con mente fredda , protestando di non voler altro che il bene e l' emendazione; 7 Il Superiore non deve risparmiare le correzioni e le penitenze; ma deve prima ben accertarsi del fatto e prendere notizia delle circostanze. Deve ascoltare a testa fredda le giustificazioni, e se conoscesse d' aver preso uno sbaglio, deve tosto cedere, dando prove che lo moveva il solo zelo del bene e l' amore della giustizia. Deve anche distinguere i falli che traggono seco rilassatezza e conseguenze funeste, da altri falli accidentali e materiali, e rispetto ai primi deve essere inesorabile. Deve graduare la forza della riprensione e della penitenza, e, se non c' è emendazione, deve dichiarare al fratello francamente che va a scrivere al Provinciale e successivamente al Generale; i quali indubbiamente lo sosterranno a qualunque costo, anche a costo di licenziare il fratello dall' Istituto, se sarà necessario; . Se nelle correzioni il Superiore deve conservare al maggior segno la testa fredda, e dichiarare in un modo esplicito la sua volontà senza parole inutili che dicano di più di quello che esige il caso, le quali dimostrano qualche irritazione o riscaldo; in tutto il resto del tempo il Superiore deve dimostrare la più grande amabilità, famigliarità e umiltà, usando spesso qualche attenzione e graziosità a' suoi sudditi, specialmente a quelli che sono stati corretti, e si sono emendati, od hanno promesso emendazione. Già s' intende che questi atti gentili non debbono essere tali da rilasciare per nulla l' osservanza delle Regole, il che sarebbe contro il fine; 9 Finalmente il Superiore deve prestare aiuto e sostegno ai fratelli nell' esecuzione delle loro incombenze ed officii. Facciamoci dunque coraggio, o mio carissimo, e se siamo uomini, pensiamo che abbiamo vicino Iddio che aiuta sempre colla sua onnipotenza quelli che confidano in lui, e che operano per lui. 1.50 Quello che mi dite nella cara vostra è tutto vero. Un giovane che deve fare il Superiore ha pur troppo delle grandi difficoltà da superare, ed è solo con un grande aiuto ottenuto da Dio coll' orazione, con un' assidua vigilanza sopra se stesso, su tutti i suoi atti e su tutte le sue parole, ch' egli riuscirà in un tale e tanto ufficio. Nello stesso tempo questa prova gli riuscirà infinitamente utile per emendare e formare se stesso, se con grande spirito di Dio e con grande impegno la intraprende. I due perni del suo reggimento debbono essere: 1 disciplina ; 2 dolcezza. Disciplina , non lasciandosi per debolezza o per alcuna leggerezza rimuovere dal proposito di mantenere e far mantenere la perfetta osservanza in tutte le cose importanti, usando qualche volta nelle meno importanti la debita discrezione. Dolcezza , non potendo egli per la sua età far uso di molta autorità e rigore, e dovendo pure ottenere il fine assolutamente necessario della religiosa disciplina; la dolcezza, la persuasione, la ragionevolezza, l' affabilità de' modi, ma ferma ed irremovibile, è quell' arma a cui deve di continuo por mano, ed è un' arma così potente che può ottener con essa le più belle vittorie. Ma quando fosse necessario, avrà poi un' altra arma, quella di ricorrere ai Superiori maggiori, dando loro imparziali e chiarissime relazioni de' casi, ne' quali debbono intervenire per sostenerlo. Questo vi scrivo per incoraggiarvi, e perchè tali documenti vi saranno sempre utili. V' abbraccio intanto teneramente, e abbraccio con voi tutti cotesti carissimi, a cui prego dal Signore grazie e virtù da conoscere ed amare quanto sia bella e gradita a Dio l' opera della carità che esercitano. [...OMISSIS...] 1.50 Con una veneratissima sua lettera del 20 maggio p. p. Vostra Eminenza mi manifestava, come l' animo del Santo Padre non era punto cangiato in verso l' umile mia persona: « e come il desiderio di darmene una pubblica testimonianza si manteneva egualmente vivo: in prova di che per ben due volte Le aveva ordinato di scrivermi su questo proposito per manifestarmi questa sua disposizione, ed insieme farmi conoscere che manderebbe con tanto maggior compiacimento ad effetto le intenzioni già manifestate sulla mia persona, facendo io precedere qualche spiegazione declaratoria di quelle proposizioni, di cui hanno abusato gli avversari per sollevarmi contro la censura ». Grato a tali sentimenti dell' augusto Pontefice, nella mia risposta in data 30 maggio p. p. io esprimevo la profonda mia riconoscenza verso Sua Santità, e poi, rammentando i diversi atti co' quali avevo procurato di soddisfare al volere della Sua Santità medesima per quanto aveva potuto conoscerlo, dichiaravo di esser pronto a fare con egual docilità quanto per mezzo di Lei mi si richiedeva di nuovo: al qual fine pregavo Vostra Em.za d' indicarmi le proposizioni bisognose di quelle spiegazioni declaratorie che il Santo Padre desiderava. Non ricevendo pel corso di più mesi alcuna risposta, e dubitando che la mia lettera si fosse smarrita, ne ho replicata un' altra in data del 5 agosto p. p., raccomandandola a persona sicura; e in risposta a questa ieri ho ricevuta la veneratissima sua del 2. agosto, nella quale, senza far più menzione delle spiegazioni declaratorie, di cui già aveva espresso desiderio il Santo Padre, invece Ella mi dice che: « il desiderio esternatole da Sua Santità sarebbe, che io scrivessi un' operetta in opposizione a quella intitolata « Delle Cinque Piaghe » »: e di più mi aggiunge che: « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me ». Eminenza, io non posso che ripetere quello che più volte ho detto, cioè: Che la mia maggior gloria e felicità è sempre stata e sarà sempre, Iddio così aiutandomi, nell' essere figlio divoto e ubbidiente alla Chiesa Romana, madre e Maestra di tutte le Chiese; Che in ubbidienza alla detta Chiesa io sono pronto a fare qualunque dichiarazione, correzione o ritrattazione che mi fosse richiesta dal Santo Padre; Che per fare alcuna delle dette cose, io ho bisogno che mi venga indicato quali siano in particolare le proposizioni, che richiedono spiegazione, correzione o ritrattazione: senza di che mi riesce egualmente impossibile il fare un' operetta in opposizione al noto libro. Onde non mi resta che tornare a supplicare, perchè mi si comunichi quello che in particolare io debba emendare, correggere o ritrattare. In quanto poi a quello che Vostra Eminenza soggiunge che « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me », Eminentissimo Principe, io non ho mai scritto una linea, nè ho mai fatto un passo per appianarmi la via al Cardinalato. Io considero quest' onore come un peso spaventoso, non da desiderarsi ma da fuggirsi. Se l' avessi bramato assai probabilmente sarei già prima d' ora Cardinale: già fino dal 1.23 il Papa voleva nominarmi Uditore di Rota, e la persona che a nome del Papa me ne fece l' invito, mi assicurava che sarei stato ben presto Decano e poi Cardinale. Io non accettai nè questo invito nè altri posteriori. Fu la Santità di Pio IX che (essendo già pubblicate le due note operette) mosso dalla bontà del suo cuore, spontaneamente mi manifestò il suo fermo volere di elevarmi nel prossimo Concistoro ad una tal dignità. Io feci quello che potevo per declinare un tanto onore; ma obbligato ad accettarlo per ingiunzione di chi mi poteva comandare, io abbassai il capo e l' accettai. Non per lusinga della mia ambizione, come ora dicono i miei nemici, ma sulla parola del Papa io mi sottomisi alla gravissima spesa per fornirmi delle cose necessarie. Quelle carrozze ed altri oggetti, che ora sono in Roma, e che già mi rendono la favola del pubblico, non gli ho venduti sinora per rispetto alla parola del Sommo Pontefice. Ora però io mi sottometto con vero gaudio di spirito alla diversa disposizione che di me ha fatto la Provvidenza, e in breve darò gli ordini opportuni perchè sia venduta ogni cosa: non lasciando per questo di rimanere fermo e inalterabile il mio sincero attaccamento e la piena mia sommissione alla santa Sede Apostolica e al Sommo Pastore della Chiesa. Vostra Em.za in fine alla sua lettera mi domanda un esemplare di quello che ho scritto sulla legge Siccardi: mi duole di non poterla servire, perchè non ne ho. Ma sarà facile che costì Ella trovi il giornale di Torino intitolato l' « Armonia », dove furono appunto inseriti i quattro articoli che scrissi su quell' argomento. [...OMISSIS...] 1.50 M' accorgo dalla informazione che mi date del vostro interno, che il vostro adorabile Signore e carissimo sposo GESU` vi ha regalata assai in questi ultimi spirituali Esercizi, specialmente dandovi lume a conoscere voi stessa e quel segreto tarlo di vanità che, quuantunque non distruggesse intieramente il merito delle vostre buone azioni, tuttavia andava purtroppo corrodendole e rubacchiando una parte di quella mercede, che ad esse è promessa. Ora, per grazia di Dio, è scoperto, convien dunque impedirlo di rodere, e, appena si sente il picchiettare de' suoi denti, picchiare e scuotere; come appunto col tarlo materiale, che, se sta foracchiando un vecchio armadio o qualche altro arnese di legno, e se n' ode il tich, tich , col picchiar l' arnese o scuotendolo, la mala bestiola ristà dal suo tristo lavoro. Così devono fare i servi di Dio, perchè il pigliare il cattivello e ammazzarlo interamente pur troppo è cosa tanto difficile che par quasi un miracolo. Tuttavia se esso si fa continuamente tacere, senza lasciarlo in pace giammai, si muore poi da se stesso, quasi di morte naturale, e allora che felicità! Non regna più nell' anima che l' amor di Dio, vi regna libero e potente in ogni parte di essa, in ogni sua facoltà, in ogni sua azione, o patisca, od agisca. Voi felice, mia cara Bonaventura di GESU`, se arrivate a questo, ed anzi felice, perchè ci arriverete sicuramente, avendo con voi il vostro sposo sempre pronto ad aiutarvi, purchè in lui fedelmente ed intieramente confidiate, in lui, in lui solo. L' aver conosciuto dunque il difetto che si nascondeva nel secreto dell' animo è già una grazia grande. Ora poi vi lamentate che vi manchi un' altra conoscenza, cioè dite di non potere ancora abbastanza conoscere quel bene che è degno di tutto l' amore; ed avete ragione, avete ragione di dire che non lo conoscete abbastanza, perchè sapreste voi che cosa ne sarebbe se lo conosceste così, come voi vorreste e come egli è? Ne sarebbe quello che S. Agostino dice di se stesso, che egli sentiva talora un tale affetto, e in questo affetto divino un tal gaudio, che se fosse cresciuto più oltre, egli certo non saprebbe dire che cosa sarebbe stato, ma questo sapea dire che non sarebbe stata certo la vita presente. Capite che vuol dir questo? Se voi conosceste abbastanza quel bene, a cui aspira, ed a cui è consecrato tutto il vostro cuore, non sareste più qui, in una parola, sareste, senz' accorgervi, in paradiso. E` dunque giusto e ragionevole che voi accusiate la vostra ignoranza in questa parte, e che, conoscendo questa vostra ignoranza che si può dir sempre infinita, non lasciate nascervi più mai alcuna vanità dal saper voi molte altre cose, che non vi tolgono quella ignoranza grandissima del vostro bene, ne sapeste anche infinite: è giusto che vi lamentiate altresì di continuo col vostro sposo, che è la sapienza eterna, perchè non vi faccia conoscere un po' più, ed anzi molto più, di sè medesimo; perchè questi affettuosi lamenti sono a lui cari, ed egli non potrà resistervi, se li farete di continuo, ma cederà coll' accordarvi una comunicazione maggiore del suo essere amabilissimo. E poi questi lamenti che altro sono, a che altro tendono, se non a spingervi fuori delle angustie e della povertà di queste cose visibili e corruttibili? Sono in fine i desiderii della morte, famigliari a tutti i Santi, cominciando da S. Paolo che diceva: « desidero di esser disciolto e di trovarmi con Cristo », e venendo a tutti gli altri. Sapevano quel che desideravano. Ma io voglio che desideriate ancora più di meritare, che di godere, perchè anche Cristo, pregando il Padre pe' suoi discepoli, disse che egli non chiedeva, che fossero tolti dal mondo, ma solo preservati dal male; voglio che desideriate di servire a Cristo nei suoi pargoli più ancora che di goder Cristo, dicendo anche voi collo stesso Apostolo: « Io desidero di essere separato (dal godimento di Cristo) per la salvezza de' miei fratelli ». Tanto più che conoscerete maggiormente Cristo, quanto maggiormente vi affaticherete a pro di quelli pe' quali egli è morto in croce, perocchè niuna via più spedita di conoscerlo che quella di esercitare la sua carità: « Dio è carità, e chi rimane nella carità, in Dio rimane e Dio in lui ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Non vogliate attribuire la scarsezza delle mie lettere a poca carità che io abbia verso di voi, perchè il Signore sa che io vi porto nel cuore e vi offerisco a Lui ogni giorno sull' altare, ma sì attribuitelo alla scarsezza che ho di tempo, alla debolezza delle mie forze, ed al sapere che siete provvedute di un Superiore pieno di sollecitudine e di zelo per l' incremento vostro in Gesù Cristo. Non di meno, ora che ritorna a voi dal suo viaggio d' Italia questo vostro Superiore e mio fratello carissimo in Cristo, non posso a meno di accompagnarlo colla presente, sì per ringraziarvi dei doni che mi ha mandato la vostra carità, e che mi sono pegno della vostra filiale devozione, e sì per rispondere brevemente alle tre importanti questioni che mi proponete, e di cui mi domandate la soluzione. Poichè quantunque sappia che in tali argomenti potete sentire la voce di chi vi dirige immediatamente, voce piena di sapienza e di spirito di Dio, tuttavia penso che il sentire le stesse cose da me, come desiderate e chiedete, se non vi torna di maggiore istruzione, vi deve almeno tornare di consolazione e di conforto nel bene, per quell' affetto in Gesù Cristo, e quell' ubbidienza che mi prestate. La prima questione adunque da voi propostami è: Come si può usare lo spirito d' intelligenza senza mancare alla semplice e cieca ubbidienza? La quale questione, come le altre due che le vengono in appresso, dimostrano il vostro discernimento in Cristo, perchè manifestano il desiderio che avete di essere istruite nelle cose più perfette; chè appartiene alla perfezione il saper congiungere ed armonizzare nelle azioni giornaliere quelle virtù che sembrano a primo aspetto opposte, quasi che si escludessero reciprocamente. E in fatti, quantunque niuna virtù possa giammai riuscire veramente opposta ad un' altra virtù, come una verità ad un' altra verità, tuttavia l' arte di unire tra loro in amichevole società quelle virtù che presiedono a facoltà e passioni aventi una tendenza contraria, e che vanno sempre abbinate e possedute solo dall' uomo perfetto, è quella appunto a cui si deve applicare chi allo studio della perfezione si è consacrato. Nel che avviene come nella musica, che quantunque la voce del contralto, poniamo, paia oppostissima a quella del baritono e del basso, tuttavia il perito compositore di musica, trovati i loro accordi, ne fa riuscire un' unica ed aggradevole armonia. Venendo dunque alla questione, dico, che la semplice e cieca ubbidienza si può ben congiungere e compenetrare coll' esercizio dello spirito d' intelligenza, e ciò in diverse maniere. Prima maniera . Conviene considerare che lo spirito di intelligenza si esercita tanto più quanto più è alta ed universale la ragione secondo la quale noi dirigiamo le nostre operazioni; chè, operare con ispirito d' intelligenza non vuol dir altro se non operare con ragione, senza lasciarsi mai muovere o perturbare da passione alcuna. Ora la più alta e la più universale di tutte le ragioni d' operare è quella di far sempre in ogni cosa la volontà di Dio; su di che penso che abbiate veduto un mio ragionamento a stampa, e l' abbiate anche letto. Ma chi fa l' ubbidienza con semplicità e purità, egli è certo di fare la volontà di Dio, il quale ha detto di tutti i Superiori ecclesiastici: « Chi ascolta voi, ascolta me ». Questa è una ragione semplice, ma efficacissima e sublimissima, e contiene tanto bene in sè stessa, che quando ella c' è, rende superflua qualunque altra ragione inferiore; e perciò l' ubbidienza si dice cieca , non perchè sia senza lume, ma perchè ne ha tanto, che non ha più bisogno di prenderne d' altronde, come chi dicesse che sta senza lume colui, che non accende le candele perchè risplende il sole. Seconda maniera . Oltre di ciò colui che obbedisce ciecamente e semplicemente, può esercitare lo spirito d' intelligenza nel modo di eseguire quello che gli viene comandato. Possono essere due persone che eseguiscono il comando del Superiore, ma una di esse lo eseguisca senza giudizio, senz' attenzione, senza spirito, senza rifletter bene a ciò che gli è comandato, e alla vera intenzione di chi comanda, l' eseguisca, ma di mala grazia, senza persuasione, e quasi per dispetto; l' altra poi eseguisca la stessa cosa cercando prima di tutto di ben intendere la mente del Superiore, poi studiando il modo migliore di eseguirla facendo quello che fa con impegno, come se fosse un affar suo proprio, desiderando di riuscire, usando la debita circospezione, mettendovi il buon garbo, trovandovi la sua contentezza, certissima di piacere a Dio. Questa seconda ubbidisce con semplicità e ad un tempo con ispirito d' intelligenza. Non ubbidisce come una macchina che si fa muovere con qualche ingegno, ma come una persona viva e intelligente. E di vero non può il Superiore quando comanda, prescrivere tutte quelle cose che riguardano il modo d' ubbidire, ma dà il comando, poi lascia fare al suddito, e il suddito che ha più spirito d' intelligenza si conosce subito, osservando il modo che egli tiene nell' eseguire quanto gli è comandato. Terza maniera . Accade spesso che il comando stesso sia più o meno generale, e lasci molte cose al buon giudizio di chi lo riceve. In tal caso il suddito deve osservare qual sia la sfera che gli determina il comando del Superiore, e dentro quella sfera egli è obbligato dalla stessa ubbidienza ad operare da sè, non però a capriccio, ma col suo criterio, che è quanto dire con ispirito d' intelligenza. Se voi considerate, mie carissime figliuole, i vari membri di un Istituto religioso, vedrete che tutti operano per ubbidienza, se hanno spirito, foss' anche il Generale dell' Ordine, perchè anch' egli è soggetto almeno al Papa; ma tuttavia l' ubbidienza lascia un campo libero a chi più a chi meno, ai Superiori un campo maggiore, agli inferiori uno minore. Entro questo campo libero ciascuno può e deve mostrare il suo spirito d' intelligenza. Così nella vostra Casa, cominciate dalla Superiora centrale, e venite giù agli altri uffizi della Casa insino all' ultimo, vedrete che tutti questi uffizi essendo subordinati l' uno all' altro, e quindi diretti dall' ubbidienza, possono tuttavia e devono essere esercitati con ispirito di intelligenza, perchè ad ogni ufficiale è prescritto di usare lo spirito d' intelligenza entro la sfera del suo ufficio in quanto è lasciato libero alla sua discrezione. Prendete anco a considerare un ufficio di carità verso gli esterni, come sarebbe quello di maestra o d' infermiera. E` l' ubbidienza che impone quest' ufficio, epperò il merito dell' ubbidienza accompagna tutte le azioni; ma tuttavia quanto spirito di intelligenza non ci vuole ad adempirlo con perfezione? Prendete a considerare anche dei comandi particolari, troverete che la maggior parte di essi lascia qualche larghezza di libertà, dove può aver luogo lo spirito d' intelligenza. Sia comandato ad alcuna di voi di scrivere una lettera e ve ne sia anche tracciato l' argomento; non vi resta ancora molta intelligenza da esercitare nello studiare quella lettera con senno e con intelligenza? L' ubbidienza adunque non suol mai determinare tutti gli atti della persona, il che sarebbe impossibile, ma ne restano sempre molti liberi in cui l' intelligenza può e deve avervi un luogo grandissimo. Quarta maniera . Lo spirito d' intelligenza si può esercitare in altro modo, ed è col fare ai Superiori che comandano, delle rispettose osservazioni, qualora sembri che nel comando che danno vi sia qualche cosa da osservare. Ma per fare queste rispettose osservazioni con vero spirito di intelligenza, ci vogliono tre condizioni: la prima, che non procedano da alcuna passione d' amor proprio, ma dal puro zelo del bene e della gloria di Dio; la seconda, che non sieno fatte con leggerezza, dicendo ogni cosa che venga in capo o in bocca senza avervi riflesso od esaminato bene l' affare; la terza, che sieno fatte con ispirito di sommissione, di modo che se il Superiore persiste nel suo comando, il suddito non se l' abbia a male, ma eseguisca con eguale alacrità e contentezza il comando. Che se si trattasse di un negozio molto importante per la gloria di Dio, e sembrasse proprio che la cosa non andasse bene come la vorrebbe il Superiore, si può ricorrere ad un Superiore maggiore; chè, questo non è contrario alla semplicità dell' ubbidienza, ma si debbe fare anche questo colle dette tre condizioni. I Superiori hanno piacere di sentire tali ingenue osservazioni dei loro sudditi, purchè tutto si faccia con ispirito di carità e di umiltà. Che se poi dopo tutto ciò avviene che quello che si deve fare e si fa per ubbidienza, porti qualche inconveniente (che non sia però mai un peccato), chi ubbidisce non perde nulla, anzi vi guadagna, perchè quell' atto d' ubbidienza contiene una mortificazione delle più grate a Dio. Chi mortifica sè stesso per ubbidire, sia perchè nega la propria volontà, sia perchè sacrifica il suo amor proprio e sottomette la stessa sua ragione ad una ragione superiore, che è quella di Dio onde viene il comando, questi ha dato un gran passo avanti nella via della santità. E su questa quistione basti il detto fin qui. La seconda è: In qual modo si può praticamente unire lo spirito di contemplazione alla vita attiva nelle opere di carità ? L' unione della santa contemplazione coll' esercizio delle opere di carità è l' intento del nostro Istituto; epperò noi non dobbiamo essere appagati fino a che non abbiamo ottenuto da Dio il lume di congiungere in noi queste due cose. E dico che da Dio dobbiamo ottenere la virtù di annodare insieme in tutta la nostra vita la contemplazione e l' azione, perchè non c' è nessun maestro che ci possa insegnare una scienza così sublime, se non quel Gesù Cristo che in sè ne mostrò un perfettissimo esempio. Perocchè questa scienza non consiste in altro se non nell' unione intima con Gesù Cristo, in una unione la più attuata possibile. Ed Egli per sua misericordia ne ha già preparati i mezzi nella sua Chiesa, prima ancora che noi nascessimo o lo sapessimo desiderare. Quali adunque sono i mezzi per ottenere questa unione intima, e continuamente attuata con Gesù Cristo, che non ci distoglie dalle opere di esterna carità, ma che anzi vi ci sprona ed aiuta? Il primo di tutti i mezzi è l' intenzione pura e semplice di cercare Gesù Cristo solo in tutti i nostri pensieri, parole ed azioni. Questa rettitudine d' intenzione si offende di qualsiasi altro affetto che influisca nelle nostre azioni, e resta da esso poco o molto macchiata. Quindi l' intenzione di cercare in tutto il solo Gesù Cristo non è perfetta, se l' uomo non ha rinunciato intieramente all' amor proprio e ad ogni sensualità. Dissi però che quell' intenzione, che cerca in tutto Gesù Cristo solo, rimane offesa da ogni affetto che influisca nelle nostre azioni sieno interne o sieno esterne, perchè un affetto od una sensazione, che non avesse alcuna influenza sui nostri pensieri volontarii, nè sulle nostre parole, nè sulle nostre opere (nel qual caso quell' affetto o quella sensazione sarebbe interamente opposta alla nostra volontà) non diminuisce niente la purità della nostra intenzione, ma piuttosto la eserciterebbe ed acuirebbe secondo il detto di Dio a san Paolo: « che la virtù si perfeziona nella tribolazione ». Il secondo mezzo, che viene in soccorso del primo, consiste nell' eseguire tutti gli esercizii di pietà, e principalmente il ricevimento de' Ss. Sacramenti e l' assistenza al Santo Sacrificio, col maggior fervore, tenerezza, gratitudine, sincerità ed intelligenza possibile; giacchè in questi esercizii avviene la special comunicazione fra Gesù Cristo e l' anima divota. Il terzo mezzo si è quello di sforzarsi continuamente a tener vivo nel cuore l' amore di Gesù Cristo, portando sempre il divino Maestro quasi dipinto davanti agli occhi dell' anima nostra, udendo le sue parole quali sono scritte nel Vangelo, contemplando le azioni da lui fatte nel corso della sua vita mortale e nella sua preziosissima morte (cose tutte che devono essere familiari ad una persona spirituale), facendo delle applicazioni delle sue parole e de' suoi esempii a noi stessi e a tutto quello che abbiamo a operare, considerando altresì come opererebbe egli nel caso nostro, e come egli vorrebbe che noi operassimo, consultando nei casi dubbii con sincero desiderio di conoscere e di fare unicamente ciò che è più perfetto e che più gli piace, ed ascoltando con riverenza ed amore la sua voce, quando egli parla dentro di noi. Il quarto mezzo è di vedere Gesù Cristo nei prossimi coi quali parliamo o trattiamo, proponendoci nel nostro trattare o parlare coi prossimi, di esser loro utili in Gesù Cristo, e di cavare da loro anche edificazione per noi stessi. Se noi abbiamo un vivo zelo per la salute delle anime, noi faremo tutto il possibile per acquistarle ed avvicinarle a Gesù Cristo; epperò saremo nemici di tutte le parole inutili ed oziose, e parimenti delle superflue conversazioni e di ogni vana curiosità. Ma per fare che ogni nostra parola, ogni nostra operazione sia indirizzata a migliorare gli altri e noi stessi, e quindi a portar frutti di vita eterna, ci vogliono due cose: la prima e principale è, che la carità sia sempre quella che ci diriga, e poi che domandiamo a Gesù Cristo il lume della sua prudenza, il quale moltiplica i frutti della carità. Un' anima che si propone in tutto quello che fa o che dice, il bene delle anime, sì delle altrui che della propria, starà sempre raccolta anche in mezzo a molte opere esterne, perchè il suo spirito è sempre inteso alla carità, e chi pensa sempre alla carità di Gesù Cristo, e non ha altro in cuore, è sempre raccolto in Gesù Cristo ed in Dio, perchè la Scrittura dice: « Dio è la Carità ». Ma per acquistare quest' abito ed ottenere che questi quattro mezzi fruttino un raccoglimento costante dello spirito, anche in mezzo alle esterne occupazioni, è necessario di fare degli sforzi a principio e mortificarsi molto e risolutamente in tutto quello che distrae la mente e si oppone al detto stato di raccoglimento e di presenza di Dio, è necessario domandare istantissimamente a Gesù Cristo la grazia; e solo colla perseveranza in una intensa orazione si può stabilire l' animo e fargli acquistare quella condizione permanente di quiete in Dio, la quale, se la volontà da se stessa non si dà al male, non si perde più per nessuna azione esterna. Convien sapere che quella potenza, la quale propriamente comunica con Dio e con Dio si congiunge, è una potenza diversa dalle altre con cui si opera esternamente; e però quando l' uomo è venuto ad un certo stato di contemplazione e di unione, allora egli opera colle sole potenze che risguardano le azioni esterne, senza impedire alla potenza suprema la sua quiete e il suo riposo in Dio. Onde si legge di certe persone sante, che mentre sembravano tutte occupate al di fuori, esse conversavano internamente col loro Dio e Creatore; e questa conversazione non le impediva, anzi le aiutava a far meglio quello che facevano al di fuori, come viceversa, quello che facevano al di fuori non le frastornava da quella interna affettuosa comunicazione. Un così desiderabile stato si suole acquistare da quelle anime fedeli e costanti, che da principio soffrono molto mortificandosi e pregano con intensità ed assiduità. E questo stato le Suore della Provvidenza devono cercare di ottenerlo nel tempo del Noviziato, dove hanno tutto il campo, se vogliono, di stringere questo intimo e indissolubile nodo con Dio, Sposo delle anime loro, nodo che deve poi durare tutta la loro vita. E quelle che non hanno finito d' ottenerlo nel Noviziato, devono procurare di ottenerlo al più presto. Ma oramai passiamo alla 3 quistione. Questa era: Come si può unire perfetto zelo e desiderio ardente di perfezionare la carità col perfetto distacco dalla propria stima e desiderio sincero dei disprezzi ed obbrobrii? E` questa una questione non meno difficile delle due precedenti, non dico difficile a risolversi in parole, ma a risolversi col fatto. Ma che cosa è difficile a Gesù Cristo ed a quelli che in Gesù Cristo sperano e ne lo pregano?... Per rispondere adunque anche a quest' ultima vostra dimanda, dico che è necessario supporre che nella persona ci sia il fondamento di una solida umiltà, la quale consiste nel non attribuire a se stessi quello che appartiene al solo Dio, od agli altri uomini, di modo che umiltà non è altro che giustizia. In fatti è giusto che l' uomo si reputi un nulla, perchè è tale, e che reputi Dio essere tutto: è giusto che l' uomo sappia ancora che la gloria non appartiene al nulla, ma al tutto, epperciò non voglia alcuna gloria per sè, ma voglia bensì procacciare a Dio solo tutta la gloria possibile: è giusto che l' uomo che sa queste cose, senta un certo rammarico quando viene lodato dagli uomini, perchè il nulla non può desiderare di esser lodato senza usurpazione, e che senta un gran diletto per l' opposto quando vede che gli uomini glorificano Dio. Ma l' uomo non essendo solamente un nulla, ma qualche cosa di peggio, cioè un peccatore (non solo per i peccati che ha commessi, ma perchè ne potea e ne può commetter di continuo, se Iddio non ha di lui compassione), perciò è giusto altresì che egli desideri di esser disprezzato, e che egli goda quando viene maltrattato dagli uomini. Questi sentimenti devono essere inconcussi e profondamente scolpiti nell' animo di una persona religiosa. Ma ella dee sapere anche un' altra cosa. Quantunque l' uomo sia un nulla, e di più soggetto ad ogni peccato, tuttavia Gesù Cristo per sua gratuita misericordia lo ha redento, lo salva, e lo riveste di se stesso per siffatto modo che il cristiano ha intorno gli ornamenti di Gesù Cristo; e questi sono più o meno ricchi e preziosi, secondo l' abbondanza delle virtù, dei meriti e della grazia. Sarebbe una gran pazzia che l' uomo trovandosi ricco di siffatti ornamenti, ne insuperbisse; mentre anzi, se pensa che tutti questi tesori gli sono stati dati gratuitamente e contro ogni suo merito, egli dee confondersi e attribuire a Dio solo anche la gloria dei medesimi, senza usurparne per sè la più piccola parte. Ma come Iddio donò all' uomo questi tesori di virtù e di grazia per un suo preveniente e gratuito amore, così egli, gli partecipa ancora una parte della sua gloria. Ora di nuovo l' uomo deve considerare questa gloria che gli viene attribuita, come gloria non sua, ma di Gesù Cristo, che per sua misericordia l' ha voluta diffondere anche ai suoi credenti, e loro partecipare. Ciò posto, le regole da tenere per unire insieme il desiderio di condurre a perfezione le opere di carità e il distacco dalla propria stima, e di più il desiderio sincero del disprezzo (cosa preziosissima), sono le seguenti: Non dare (generalmente parlando) agli uomini alcuna occasione di disprezzarci, almeno con alcun proprio fallo; ma quando, a malgrado di ciò, ci viene il disprezzo, noi dobbiamo riceverlo con allegrezza, come cosa assai cara, e ringraziarne il Signore, senza temere che da ciò proceda danno alle opere di carità, perocchè se anche qualche danno ne procede, questo è voluto dal Signore, per i suoi fini, e allora non dobbiamo averne dispiacere, ma confidare nella Provvidenza che saprà ricavare da quel danno altri beni maggiori. Non far mai nulla per acquistare applauso dagli uomini, che è un fine ignobilissimo; ma quando tuttavia quest' applauso viene da sè, attribuirlo a Gesù Cristo, a cui solo appartiene, e per conto proprio averne paura come di un pericolo, e per cautelarsene fare nel proprio interno atti di umiltà e di disprezzo di se stessi, protestando di non volerlo ricevere come una parte della mercede. Dopo di ciò, se quell' applauso può riuscire di utilità alle opere di carità, si può anche averne piacere, purchè se ne abbia piacere per questo solo fine, e senza alcun riguardo a se stessi, badando bene che non nasca in noi alcun sentimento di vanità o di pretesa, anzi preparandosi ad essere, dopo ricevuto l' applauso, più umiliati di prima e persuasi di non essere per quell' applauso divenuti nulla più di quei miserabili che eravamo prima. Accorgendosi che la lode sia esagerata averne dispiacere, anche perchè è contraria alla verità e giustizia, ed attribuirla al buon cuore di chi la dà, che non bada alla misura. Per conoscere poi se siamo distaccati da noi stessi, dobbiamo esaminare se godiamo delle lodi date altrui, e specialmente voi dovete esaminarvi se godete delle lodi che vengono date alle sorelle; chè sarebbe un gran difetto l' averne anche un minimo dispiacere od invidia. Conviene che cogli altri, e specialmente colle sorelle siate generose, ne consideriate assai più le virtù che i vizii, e procuriate che conservino la stima con mezzi sempre giusti; e ognuna deve declinare le lodi date a sè, facendo in modo che cadano invece nelle sorelle, dovendo ciascuna amar di essere la prima nell' impegno e nella sollecitudine di mettersi l' ultima. E questo non è difficile a farsi quando una persona considera i proprii difetti e le altrui virtù, astenendosi dal considerare o dal giudicare gli altrui difetti, come quelli di cui non appartiene ad essa il giudicare, ma al solo Iddio; il che insegnò Gesù Cristo con quelle parole: « Non vogliate giudicare, e non sarete giudicati ». E in fatti, l' esporsi al pericolo di giudicare a torto sinistramente de' proprii fratelli, è lo stesso che far loro un' ingiuria: onde per non esporci a commettere contro di essi un' ingiustizia, non c' è altra via che astenerci da ogni giudizio definitivo ad altrui danno. Non parlare nè dir cose che cadano in propria lode, il che è riprovato anche dagli uomini. E quantunque non si debba neppure parlare, senza buoni motivi, in biasimo di se stessi, tuttavia si deve cercare di coprire le proprie virtù, per quanto si può, agli occhi altrui, e qualche volta si può anche parlare con disprezzo di se stessi, purchè ciò si faccia con sincerità. E` poi lodevole il farlo, mossi sempre da un sincero sentimento, quando si parla colle sorelle, o con persone famigliari e senza affettazione. [...OMISSIS...] 1.50 Ho ricevuto la gratissima sua del 20 settembre, ed oggi anche la seconda del 23 detto. Da quest' ultima mi accorgo che Ella non deve aver ricevuto una mia, data di Caserta 3 luglio 1.49, colla quale rispondevo alla sua 11 giugno, che mi partecipava la risoluzione da Lei presa nei santi Esercizi d' entrare nel minimo Istituto della Carità. Avendo io conservato copia di quella mia risposta, mi permetta che gliela trascriva. Non m' era mai venuto in pensiero, che questa mia lettera si fosse potuta smarrire, e però mi astenni dal farle parola di questo argomento, essendo mio costume di esortare bensì ad abbracciare lo stato religioso in generale quelli che ve li posso conoscer chiamati, ma non eccitandoli perciò a scegliere l' Istituto della Carità, bramando di accogliervi unicamente quelli che vi sono « missi a Deo , » non mai chiamati da me; che Dio me ne guardi. Tuttavia avendo Ella eletto questo minimo Istituto ne' santi Esercizi colla debita ponderazione, io non credo di doverle tacere (poichè me ne domanda espressamente) esser mia massima, che quando una volta si è presa, dopo consultato Iddio, una deliberazione in cosa per se stessa buona od attenente alla perfezione, convenga perseverare nella medesima, e non lasciarsene debolmente svolgere, se non fosse per ragioni gravissime ed evidenti. E reputo una sottile insidia dell' inimico, il fare che l' uomo vacilli in quella deliberazione, fosse anche sotto pretesto e colore di far meglio. Tale è la mia ferma opinione, non solo per ciò che riguarda la vocazione ad uno o ad un altro Istituto religioso, ma ben anche in altre materie. E credo che questo si potrebbe confermare colla dottrina e coll' esempio de' Santi, ed altresì coll' esperienza, la quale mostra sovente, che gli uomini che mutano leggermente, anche sotto specie di meglio, non raccolgono poi gran frutto. Circa quello che mi domanda, se nel nostro Noviziato ella potrebbe attendere per quattro o cinque mesi ad ultimare il compendio dell' Alasia, le rispondo che in ciò non si farebbe difficoltà. Perchè quantunque siano esclusi dal nostro Noviziato, ordinariamente parlando, gli studi severi, tuttavia per qualche grave cagione e quando si tratta di poco tempo, il Generale può dispensare. Eccole, mio carissimo signore, il mio sincero sentimento circa quanto mi domanda: mi sono raccomandato a Dio prima di darlo, ed ho consultato qualche persona rispettabile. Ma ella ne faccia quel conto che crede. Prego di cuore Iddio che La empisca di lumi e di benedizioni: mi tengo anzi certo che lo farà. 1.50 Aspettavo che mi deste qualche relazione della vostra nuova posizione e del nuovo vostro ufficio, secondo che eravamo stati intesi, quando ci siamo ultimamente veduti. Ora ricevo infatti la cara vostra del 1 dicembre, nella quale mi dite alcune cose dell' essere vostro e dell' andamento della scuola. E per rispetto agli Esercizi spirituali, non dubitavo della vostra diligenza, non essendomi venuta parola in contrario, e nondimeno ho inteso con piacere quello che me ne dite. Continuate, e sopratutto datevi all' esercizio della presenza di Dio e dell' orazione incessante che si fa col cuore, mantenendovi nello spirito d' orazione , che è veramente quello che alimenta il fuoco interiore e dà la vita all' anima. Procuriamo di convincerci sempre più dell' infinito bisogno che abbiamo della grazia divina che ci sostenti e preceda, e accompagni, e sussegua; poichè chi è altamente persuaso di ciò, non cessa di gridare a Dio dal profondo del cuore per ottenerla e averla sempre in ogni atto, in ogni istante della propria vita. Mi pare poi di rilevare da quello che mi dite in appresso, che voi facciate sì con tutto l' impegno e lo zelo la scuola, ma piuttosto per rassegnazione che per amore. E pure io vorrei che la faceste proprio per amore . V' assicuro che in questo sta l' eccellenza della virtù. Sforzatevi di pervenire a quest' alta disposizione d' animo, che l' amore sia proprio quello che faccia tutto in voi, e vi renda tutto soave e grato. A questo fortunatissimo stato giungerete certamente colla grazia divina: 1 Se concepirete colla mente l' eccellenza della carità del prossimo, a cui la divina bontà ci ha chiamati: nella quale carità consiste la sicura e vivente sapienza, « supereminentem scientiae caritatem , » come dice S. Paolo: onde ogni opera di carità ha per questo solo un infinito valore; 2 Se nella carità verso il prossimo avrete per oggetto continuamente presente il divin Redentore GESU`, il quale disse: « « Qualunque cosa avrete fatta a questi miei minimi, l' avrete fatta a me stesso ». » Quali parole per chi ha viva fede! quale incoraggiamento a qualunque sacrifizio! L' amore dunque di GESU` Cristo cresca ne' nostri cuori, e con esso crescerà l' uomo interiore, e si farà adulto e robusto. Mi è rincresciuto assai ciò che mi dite nell' ultima parte della vostra lettera, nella quale pare che crediate di essere trattato con diffidenza dal vostro Superiore. Mio caro Marco, io non so certamente come la cosa sia; ma non vorrei che fosse una vostra illusione o tentazione. Io so di certo che cotesto vostro Superiore vi ama, e potrebbe essere che egli vi tenesse d' occhio con ispecial cura. Ma che per questo? Interpretate bene, riputate all' affetto che ha per voi la sua sollecitudine. Badate che qui non ci sia nascosto dell' amor proprio, il quale noi dobbiamo scoprire e combattere, come nostro infaticabile nemico. Fondiamoci, mio carissimo Marco, nel vero e solido fondamento dell' UMILTA`, diamo addosso a noi stessi: e quante cose allora, che prima ci offendevano, ci sembreranno innocenti, o frivolezze, o fors' anche motivi di giubilo! Sopra questa cosa procurate di esaminarvi e di fortificarvi, e scrivetemene ancora: poichè atteso l' amor che vi porto, vorrei vedere la più perfetta concordia e carità fra voi e il vostro Superiore; la quale è tanto facile e tanto dolce, quando si abbassi ogni amor proprio e si facciano trionfare i bei sentimenti di umiltà e di mansuetudine. [...OMISSIS...] 1.50 Due sistemi sono stati sperimentati circa la relazione degli ordini religiosi coll' Episcopato: quello della dipendenza dagli Ordinarii, e quello di una moderata indipendenza dai medesimi, quale fu stabilito dal sacro Concilio di Trento. Fu provato che un ordine religioso universale è alla Chiesa utilissimo, assai più utile di molti ordini particolari; e in pari tempo, che quello non può fiorire, anzi nemmeno esistere, con un' assoluta dipendenza dai diocesani. All' incontro esso trae seco facilmente l' incomodo di essere dai diocesani veduto con gelosia, insorgendo anche talora collisioni coi medesimi. Questo incomodo manca nelle Congregazioni particolari e diocesane, ma in quella vece l' esperienza dimostra che queste sono deboli, poco utili alla Chiesa, di breve vita anche senza corrompersi, e causa sovente di scissure col resto del clero diocesano; ma quello che più di tutto importa, lontane dall' evangelica perfezione, la quale esige essenzialmente una carità universale, un distacco dalla patria, dalla famiglia, da tutte le cose proprie, e un campo vasto, anzi illimitato di azione quant' è illimitato l' amor di Dio per gli uomini e la sua Provvidenza, e l' indifferenza perfetta a tutto ciò, a cui può esser chiamato un uomo dalla medesima Provvidenza, senza distinzione di luogo o d' uffici, e senza limitazione di pericoli e di travagli per la divina gloria. Egli è adunque da preferirsi senza paragone un ordine universale, benchè involga qualche incomodo, a Congregazioni particolari che con incomodi maggiori arrecano tanto minori beni; e però è da preferirsi la moderata indipendenza dalla giurisdizione vescovile e la stretta unione e sommessione al Capo universale della Chiesa, condizione necessaria ad un ordine universale. E dico moderata indipendenza , perchè il Vescovo è anch' egli in alcuna parte, benchè non in tutto, legittimo superiore dei religiosi che sono nella sua Diocesi e che hanno il privilegio dell' esenzione, assegnandogli sopra di loro il Concilio di Trento, come dicevo, una parte di giurisdizione. Ma voi mi domandate: non si potrebbero vincere le difficoltà e gl' incomodi che trae seco un ordine universale nelle sue relazioni coi reverendissimi Vescovi? Vi rispondo che, avendo noi sommamente desiderato una tal cosa sino dalla prima formazione dell' Istituto, abbiamo studiato di avvicinarci a conseguirla il meglio che noi sapemmo colle norme fissate intorno a ciò nelle Costituzioni. Ma tali disposizioni, acciocchè riescano nella pratica efficaci, richieggono due condizioni che non si sono finora dappertutto verificate. La prima è, che le relazioni tra i Vescovi e l' Istituto avessero per base comune i grandi principii della carità di Cristo: e la seconda, che i Vescovi, informati ben addentro della natura dell' Istituto, fossero solleciti della sua conservazione, come ne sono gli stessi superiori, e non pensassero soltanto ad approfittarne, senza darsi cura di coltivarlo e mantenerlo in florido stato. Infatti se partiamo dai grandi principii della carità cristiana, questa non si restringe nei limiti di una Diocesi, e un seguace di Cristo, che ne sia animato, si compiacerà di un bene maggiore, anche col sacrificio di un minore. E quindi un Vescovo che non deve amare la sua Diocesi particolare più della Chiesa universale, non potrà vedere di mal occhio che qualche religioso abbandoni la sua Diocesi per arrecare un bene maggiore al regno di Dio sopra la terra. E a questo fine intenderà facilmente essere necessario il lasciar libera la disposizione dei loro soggetti ai Superiori generali dell' Istituto, come quelli che meglio vedono dove possono produrre un maggior frutto al padrone della vigna. E così fecero sempre i santi Vescovi, che talora si privarono di eccellenti soggetti a fine di procurare la salute a popoli lontani. E` dunque necessario che, come i Superiori dell' Istituto sono obbligati dalla loro professione di promuovere coll' attività dell' Istituto medesimo il massimo frutto di carità, come lo si propose Gesù Cristo nel governo della sua Chiesa: « ut fructum plurimum afferatis »; così si propongano lo stesso i Vescovi secondo lo spirito dell' episcopato: e in tal modo questi e i Superiori dell' Istituto abbiano un solo ed unico fine, non arbitrario, ma dallo spirito del Vangelo additato e determinato. E questo è già una prima base della concordia desiderata, sulla quale si può facilmente edificare domum pacis . L' altra base è, come dicevo, che i Vescovi investendosi del governo stesso dell' Istituto, come ne fossero Superiori, e bene intendendone la natura, non pretendano da lui di quelle cose che esso non può fare senza guasto della religiosa disciplina, senza dissipazione dello spirito dei suoi membri, senza disorganizzazione del suo ordine interno: nel qual modo soltanto ne possono trarre un grande e permanente profitto. Perocchè se abbiamo una macchina congegnata artificiosamente, vano sarebbe sperare che essa produca a lungo l' effetto pel quale è inventata e fabbricata, qualora non si badasse punto a conservarla in buono stato; ma o adoperandola soverchiamente, o ad altro uso da quello per cui è fatta, si logorasse in breve tempo, disordinasse od infrangesse. E per conservarsi in suo buono stato, senza di che non può giovare, è necessario, che i Prelati abbiano la ragionevolezza di ascoltare intorno a ciò i Superiori, che sono quelli che conoscono davvicino le forze e l' abilità dei loro soggetti, e le forze e l' abilità delle singole Case e Famiglie religiose: come fanno i padroni di un gregge, che per la cura del medesimo ascoltano i pastori e i mandriani, e come fanno i possessori di case e di campi, che ascoltano gli architetti ed i fattori circa il modo di amministrarli, e s' attengono ai loro consigli, riuscendo questa deferenza a loro vantaggio. Questa massima adunque ragionevole di dover adoperare il corpo religioso colla debita discrezione e deferenza al giudizio de' Superiori, acciocchè egli si conservi nello spirito della perfezione e nella sua propria naturale organizzazione, è un' altra base su cui edificasi l' armonia desiderata fra esso corpo ed i reverendissimi Prelati della Diocesi a cui serve. Quando si convenga in questi principii e si verifichino queste due condizioni preliminari, le disposizioni, stabilite dalle regole nostre e dalle nostre Costituzioni, compiranno la detta armonia, ed oso dire altresì, che la renderanno perfetta ed inalterabile. Perocchè appunto col fine di facilitare ed ottenere questo desiderabilissimo intento viene da noi stabilito quanto segue: Che quando si è presa un' opera di carità, piccola o grande, difficile o facile, leggera o faticosa, non si abbandoni più per nessuna ragione umana, e si procuri di adempierla, accrescerla e perfezionarla in tutti i possibili modi. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dell' Istituto nelle loro Diocesi, e della sollecitudine dei Superiori di applicare i soggetti più idonei che si possono avere all' esecuzione delle opere assunte; Che i soggetti applicati ad un' opera di carità non si rimuovano da quella leggermente, cioè senza che lo richieda il bene spirituale degli stessi soggetti o quello delle stesse opere intraprese. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dei soggetti, non già di una stabilità illimitata e incondizionata, la quale sarebbe irragionevole e contraria alle due massime fondamentali di sopra stabilite, ma di una stabilità ragionevole, quale sola si può e si deve da essi desiderare; Che a tutte le opere di carità si preferiscano quelle desiderate dai Vescovi. Questa costituzione mette l' Istituto alla disposizione dei reverendissimi Vescovi, giacchè per essa l' Istituto si obbliga di fare tutto quel bene che essi bramano da lui, dentro i limiti delle sue forze e della sua possibilità; ed anche qui non si potebbe ragionevolmente desiderare di più; Che quando i Vescovi si degnano di affidare all' Istituto delle opere appartenenti alla gloria di Dio ed al bene della Chiesa e dei prossimi, l' Istituto le adempia in quei modi che bramano i Vescovi stessi; ed in questo egli riceve ben volentieri da essi i regolamenti e i metodi che volessero comunicargli; nè si ricusa di entrare anche con esso loro in positive convenzioni. Voglia, a ragion d' esempio, il Vescovo affidare all' Istituto il suo seminario; i membri dell' Istituto che ne assumono la direzione, si obbligano di governare il seminario in tutto e per tutto come piace a lui, e in questo gli sono pienamente soggetti. Lo stesso si dica delle altre opere che il Prelato della Diocesi volesse affidare all' Istituto: questo non userebbe, se non quella parte di libertà che il Vescovo stesso gli accordasse; neppure in questo io vedo come ragionevolmente si possa bramare di più. Considerate bene queste quattro costituzioni, sarà facile di cavare una conseguenza inaspettata ma pure verissima, e questa si è che il Vescovo può esercitare sopra l' Istituto una maggiore autorità, e ricevere maggiori servigi che non da sacerdoti secolari suoi diocesani. Vero è che i sacerdoti secolari della Diocesi hanno promesso ubbidienza al Vescovo; ma conviene vedere la cosa in pratica non in teoria, conviene vederla nel fatto e non in astratto diritto. I reverendissimi Vescovi non possono già in fatto dimandare tutto quel che vogliono ai loro sacerdoti diocesani; ma debbono usare con essi molti riguardi, e gli usano infatti, evitando le resistenze che prevedono di ritrovare. Queste resistenze procedono da una virtù imperfetta; ora dall' interesse temporale; ora dall' attacco alla famiglia, alla patria o al luogo in cui tali sacerdoti si trovano; ora dall' ambizione e da certi diritti di onore, nei quali venendo offesi si irritano, insorgono, resistono; ora da pretensioni acquistate per meriti e per dottrina; ora finalmente da inclinazioni o avversioni naturali a questo o a quell' altro ufficio. I membri dell' Istituto della Carità promettono al Signore nella loro stessa professione di essere indifferenti ad ogni opera buona, che loro venga ingiunta da esercitare; hanno per voto rinunziato ad ogni interesse temporale, ad ogni onore, alla patria, ai parenti; professano di amar l' umiltà senza mercede di onor temporale, e la carità illimitata. Non v' ha dunque cosa alcuna che non si possa loro liberamente comandare, salvo solo quelle limitazioni che trae seco l' infermità umana, la quale rimane sempre in ogni caso. E` dunque molto più ampia e più libera la sfera, in cui può spiegarsi l' autorità e la volontà del Vescovo, trattandosi dei membri dell' Istituto, che non sia dei suoi proprii sacerdoti diocesani. Che se egli è legato a doversela su di ciò intendere coi Superiori dell' Istituto, questo non pregiudica, anzi giova molto al bene da ottenersi; avendo egli, se così gli piace, negli stessi Superiori dell' Istituto altrettanti fedeli che lo aiutano a dirigere con più ordine e sicurezza il corpo dei sacerdoti soggetti, e gli danno una guarentigia maggiore di buon riuscimento. Vi abbia dunque carità e ragionevolezza, e vi avrà perfetta armonia; non vi avrà no, assoluto dominio dalla parte del Vescovo, ma non è questo che fa il bene nella Chiesa, dicendo l' Apostolo: « neque ut dominantes in cleris »; vi avrà da parte dei reverendissimi Vescovi una dominazione di carità, che nel fatto è la più potente per fare il bene, e vi avrà dalla parte dell' Istituto la più umile e perfetta sommissione, e quella servitù di Cristo, che non è disgiunta dalla libertà pure di Cristo. Se i reverendissimi Vescovi entrassero in questo spirito, ed io spero che presto o tardi sarà, dall' Istituto trarrebbero tutto quel maggior servizio che in Cristo possono desiderare. Tanto più che l' Istituto nel suo contegno esteriore non si distingue dal clero secolare, e brama di affratellarsi con questo e giovare e servire a questo, tirandolo, per quanto gli concederà il Signore, a quei sentimenti di perfezione che vengono insegnati dal Vangelo, e che l' Istituto si è proposto di praticare; senza inclinare egli stesso a quei sentimenti che fossero meno perfetti in alcuni sacerdoti secolari. [...OMISSIS...] 1.51 Ho letto io stesso con tenerezza la sua lettera. Ella si conforti pure nella misericordia di Dio, la quale è infinita. Questa parola infinita ci deve aprire il cuore ad ogni speranza. Ella e il suo figlio defunto discendono da santi genitori, e la stirpe de' santi non suol mai essere abbandonata dal Signore: il Signore può aver dato a quel suo figlio un ultimo sentimento, un solo atto della volontà, di quelli che salvano l' uomo. Forse ha disposto che questo tratto di misericordia rimanesse secreto, perchè questo mistero giovasse ad un tempo e a salvare quell' anima e a santificare Lei e tutta la sua famiglia. Le vie del Signore sono ammirabili e superiori al pensar nostro: dobbiamo adorarne la Maestà, e non dimenticarci ad un tempo degl' infiniti tesori della sua bontà. A questo riflesso costante aggiungiamo le preghiere (anch' io ne farò e farò fare): quelle che facciam al presente, stavano davanti alla mente divina prima che morisse suo figlio, e da tutta l' eternità le ascoltava. Ricordiamoci che non c' è nulla di più caro al Signore che una grande confidenza in lui. Questa confidenza è sempre coronata, ed è il miglior modo di onorare il Signore; poichè non gli si può dare più bella gloria, che quella di esaltare la sua bontà. Gusta ancora che noi ci accostiamo a lui coll' intermezzo di Maria santissima, a cui Ella è figlio divoto: che dubitar dunque con tale interceditrice? Rimuova il pensiero, per quanto mai può, dal figlio, abbandonandosi nelle mani di Dio e in quelle della Vergine: e in questo abbandono si conforti e incoraggi. Abbiamo bisogno di coraggio e di confidenza per andar avanti in questo misero mondo, e Iddio volle farne della speranza una virtù divina. Abbiamo bisogno altresì della tranquillità e della pace del cuore; e nella speranza cristiana questa pure si trova, perchè è qualche cosa di più di speranza. Gesù Cristo ci ha portato la sua pace, riposiamo in lui. La ringrazio di tutto ciò che mi scrive nella sua lettera, e prego Gesù Cristo stesso a ricompensarla. Colla sua saviezza, colla rettitudine delle sue intenzioni potrà giovare a queste difficili condizioni di cose pubbliche; ma in ogni caso, ancorchè gli sforzi de' buoni non riescano a bene, essi hanno fatto il loro dovere e n' hanno il merito, e di questo devon esser contenti, perchè è un bene impareggiabile. [...OMISSIS...] 1.51 La lettera che le Reverenze Vostre, tutte unanimi, si degnarono d' indirizzarmi, mi fece gustare, in leggendola, di quella dolcezza e giocondità di cui parla il Profeta Reale in quelle parole del Salmo: [...OMISSIS...] Se i conforti e le caritatevoli espressioni d' un amico in Cristo sono sempre soavissime e salutari, quanto più non riescono tali quelle che non vengono da un amico solo, ma da molti Padri e fratelli, uniti fra loro coi più sacri vincoli, e formanti una sola famiglia di servi del Signore, i quali concordissimi con un solo cuore, con una sola voce che risuona celeste sapienza, c' incoraggiano nelle avversità e ci si dimostrano quasi nostri compagni in essa, e, deplorandola come propria, vi arrecano quei documenti di consolazione celeste di cui fanno uso ancor prima con sè stessi per attenuare il partecipato dolore? Laonde come le Vostre Reverenze, animate da quella carità che arde così bella nel serafico Ordine, quasi trasformate in me, si risentono alle ingiurie, che a me va facendo il soverchio zelo di alcuni; così io mi sento mosso dalla riconoscenza e dalla carità reciproca, quasi trasformato in esse, essere divenuto del loro numero. Questa è quell' unione in Cristo che avvicina i lontani e che li fa abitare insieme collo spirito siccome fratelli. Perocchè non è tanto la convivenza de' corpi che celebrava il Salmista nelle citate parole, quanto quella degli spiriti: per questa è che noi siamo fratelli e che abitiamo insieme, e il luogo dove abitiamo è Cristo. Accettino dunque le Reverenze Vostre i miei sincerissimi e cordialissimi ringraziamenti dei sentimenti ed affetti che mi manifestano, e, quasi osava dire, le mie congratulazioni, perchè non solo esse alimentano, ne' loro animi, ma ben anco appalesano, e appalesandolo comunicano altrui quel fuoco di santa carità, che edifica col suo splendore e che solo è potente di unire in un solo corpo, pieno di onestà e di bellezza, i religiosi, quantunque in varii Ordini distribuiti, di cui è ricca la Chiesa, e tutti i servi di Dio; e non solo in un solo corpo, ma in un solo cuore e in un' anima sola. Perocchè tale deve essere l' esercito del Signore, e così si rende formidabile ai nemici di lui ed invincibile. E le Vostre Reverenze poi dicono nella loro venerata lettera una verità che io riconosco per esperienza, cioè che la presente tribolazione non manca punto del suo compenso. Primieramente il mio dolore si tempera quando penso che coloro che mi vanno assalendo, sebbene con modi poco decenti, sono mossi in qualche guisa dallo zelo per la purità della fede, cosa così preziosa che va a tutte le altre anteposta. Di poi considero che tali cose sono permesse da quell' Eterno nostro Signore e Creatore, senza il cui volere niente si fa, nè in cielo, nè in terra, e ogni cosa permette con altissimo consiglio, e da ogni cosa anche rea, sa cavare con infallibile effetto un bene maggiore; onde anche questo solo pensiero basta a dare all' animo nostro pienissima tranquillità e dirò anche consolazione in ogni avvenimento, benchè nell' apparenza sinistro. Nè manca il Padre comune di dare colla tentazione il provento, e di aggiungere forze a sostenerla, purchè in lui si confidi e lui si preghi. E quanto a me, non mi sarebbe facile l' enumerare quanti furono i vantaggi e i compensi oggimai raccolti, datami l' occasione dagli avversari. Perocchè quanti amici in Cristo mi si sono manifestati in questa occasione che non sapeva pur d' avere! quanti a me sconosciuti, anche persone ragguardevolissime, presero a petto la mia causa! e gli amici che già possedevo quanto più intimamente si strinsero a me e mi diedero prove d' un affetto cristiano maggior dell' usato! Non conto fra questi vantaggi le lodi pur troppo sempre pericolose al nostro amor proprio, colle quali in voce e in stampa molti cercarono di ristorarmi del biasimo degli avversari; ma conto fra i vantaggi più preziosi e più cari le tante orazioni che per me s' inalzarono al Signore da un gran numero di fedeli, studiosi e seguaci della caritatevole verità e della vera carità. E la lettera delle Reverenze vostre è di tutto ciò un nobilissimo documento. Che poi da tutti questi avvenimenti permessi dal Signore e intessuti di qualche amarezza e di molta dolcezza tragga profitto il mio povero spirito per servire il Signore con maggior fedeltà e maggiore alacrità e coraggio, il quale non si nutrisce che nelle lotte; questo è quello che ardentemente desidero; questo è quello che aspetto e spero dalle orazioni dei buoni e delle Reverenze Vostre particolarmente. E quando, ritornando sopra me stesso, mi sento quasi indifferente a questo che avviene intorno di me, e vedo gli amici tanto più amareggiati di me stesso, dubito quasi di cavare poco profitto da queste avversità, parendo che molto non giovi al profitto dello spirito quel dolore che così poco si sente. Ad ogni modo però confido che il Signore nella sua misericordia riguarderà piuttosto al mio desiderio di approfittare della tribolazione, desiderio che a lui solo debbo, piuttosto che al grado del patimento. [...OMISSIS...] 1.51 « Militia est vita hominis , » e chi nol sa? e chi non l' esperimenta? e a quale di noi manca il combattimento, la prova, l' arduo cimento? Quegli che ci ha assegnato il posto nell' esercito è un capitano che contrabbilancia alle forze nostre l' impeto del nemico; che ci somministra le armi; e quali armi? Le armi della fede. E a qual fucina temprate? A quella del divino amore. Non meritiamo dunque il rimprovero: « modicae fidei, quare dubitasti? » Anzi imbracciato lo scudo della fede, contro cui tutte le saette si spuntano, consoliamoci in quelle parole: « qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit », e in quell' altre: « in patientia vestra possidebitis animas vestras ». Acciocchè poi non ci venga meno la fede, preghiamo senza intermissione: preghiamo fino che otteniamo: « Omnis qui petit, accipit; et qui quaerit, invenit; et pulsanti aperietur ». Nell' orazione troviamo la forza, la consolazione, la tranquillità, il rimedio alle malattie dell' anima, il sollievo a quelle del corpo. Certo in quanto a queste ultime gran conforto possiamo avere anche dal pensiero che dobbiamo colla penitenza scontare le offese che abbiamo fatte a Dio; e anche da quell' altro che « levius fit patientia quidquid corrigere est nefas ». Del rimanente a me passò per la mente che vi potesse recare qualche sollievo il fare qualche passeggiata fino a stancarvi un po'; e però vi proporrei di venire a Stresa, ma prendendo il cammino inverso, cioè per la valle Vigezzo, la Canobbina, facendo un devoto pellegrinaggio a Nostra Mamma di Re, dividendo il cammino a marcie discrete: e quando poi foste qui, dove c' è tutta la comodità, vi consiglierei a fare alcuni bagni, e da tutta questa cura mi riprometto buon effetto. Coraggio dunque, concertate ogni cosa con cotesto Superiore, poi all' opera, dandomi avviso del risoluto. 1.51 Il sentire dalla vostra dell' 11 agosto che voi col dilettissimo Furlong occupate tutto il vostro tempo a vantaggio di cotesto popolo sedente nelle tenebre e nell' ombra della morte, mi produce una somma consolazione, considerando specialmente che la fatica che fa colui che è mandato dal Signore nel curare e pascere le anime, è il maggiore segno che possiamo dare a Dio della nostra carità; onde Cristo dopo aver domandato a Pietro se lo amasse, gli soggiunse per tre volte « « pasci il mio gregge » »; donandogli questo quasi in pegno dell' amor suo. Vero è che anche tutti gli altri uffici di carità imposti dall' ubbidienza ai membri dell' Istituto della Carità hanno lo stesso merito, perchè hanno lo stesso fine, e però si può dire che tutti esercitino la cura delle anime, perchè le loro fatiche tendono finalmente alla salvezza delle anime. Questo sublimissimo intento è l' effetto che deve produrre tutto il Corpo nostro, e però a questo effetto concorrono tutte le diverse membra, di cui il Corpo si compone, e i loro diversi uffizi. Onde avviene che tutti quelli che ben intendono questa gran verità, sono facilmente contenti di ogni uffizio, esercitandolo, qualunque sia, coll' intenzione di cooperare al bene morale e spirituale; è sempre la carità quella che vi si nasconde, come preziosa margarita: questa sola è amata da tutti, e da tutti quelli che l' amano, trovata. E ciò non ostante, coloro a cui Iddio ha dato la missione di lavorare immediatamente alla salute dell' anime e di predicare la divina parola, devono avere una speciale gratitudine alla divina bontà che a tanto li elesse; e sono simili a coloro che, lavorando nel fuoco, non possono a meno di riscaldarsi. E non solo bramo che voi e cotesti miei carissimi fratelli vi riscaldiate nell' impegno in cui siete di dover riscaldare gli altri, ma che v' incendiate altresì d' amor di Dio e del prossimo. A questo dunque attendete; e a tal fine mantenete pura l' anima vostra da ogni contagione di questo secolo, vivendo della vita nascosta in Gesù Cristo; la quale ha per intento di spogliarci d' ogni qualunque attacco alle cose sensibili per attaccarci totalmente alle invisibili. Da per tutto la cattolica fede trova contrasti, ma da per tutto ancora trova trionfi: « oportet ut veniant scandala . » Voi ne avete tanti sott' occhio in cotest' Isola, ma noi certo non ne difettiamo. Che anzi reputo in qualche modo migliore la condizione vostra che la nostra, mentre appresso di voi si edifica, sebben combattendo, e presso di noi si distrugge quello che è edificato e si combatte perchè non sia distrutto. Abbracciate tutti nella carità di Cristo i cinque compagni che vi mando, sui quali ho concepito grandi speranze. Diverranno operai zelantissimi per la divina gloria: che Iddio li difenda dal maligno. [...OMISSIS...] 1.51 Anch' io ho conosciuto che, come voi dite nella carta che m' avete scritto, il vostro difetto è la timidezza; e questa, parte v' impedisce il ragionamento rendendovi esitante, e parte v' impedisce l' operazione trattenendovi dal farla subito, intera e colla dovuta franchezza. Conviene che vi prefiggiate di vincere questo difetto e di rendervi per l' opposto santamente coraggioso. I mezzi di vincere o piuttosto di deporre la timidezza soverchia sono i seguenti: Il primo mezzo è non aver paura della timidezza medesima: perchè questa paura accresce assaissimo la timidezza stessa. Convien dunque non pensare alla propria timidezza e non rivolgere soverchiamente la propria riflessione sopra sè stesso quando si delibera o si opera, ma porre la semplice attenzione sul partito da prendersi e le ragioni solide pro o contra, e dopo averlo preso pensare all' operazione che s' ha da fare, e non ad altro. Il secondo mezzo è di raccogliersi qualche volta e considerare che il timore che sopravviene è irragionevole, e poi disprezzarlo; e anche avendone il sentimento, operare come se non ci fosse, nè ragionare più con esso, come si fa colle tentazioni. Il terzo mezzo è ragionare molto cogli uomini e specialmente con uomini grandi sotto ogni rispetto, e imitare i loro modi e la loro buona franchezza: ancora mettersi dentro nei negozii, avendo grand' impegno di ben condurli: e però non esser parco di parole in conversazione (purchè i discorsi sien buoni ed importanti), e sostenere anche delle questioni o scientifiche o d' altro genere, spiegandovi forza e impegno, senza asprezza, già s' intende. Chi ha grand' impegno di condur bene un affare, per la gloria di Dio, questi si dimentica del timore, e fa il fatto suo. Quarto mezzo . Conviene badare di non voler essere troppo perfetto, cioè falsamente perfetto, dandosi un soverchio fastidio di tutte le piccole ragioncelle, che vengono per la mente, e fermando il passo ad ogni lontano pericolo d' inconvenienti minimi; il che non facevano già i santi, nè farà mai cose grandi per la gloria del Signore colui che si obbligasse a questo; ma andrà sempre impacciato e dibattendosi tra le tele di ragno; non acquisterà mai la perfezione, che domanda un cuore largo, delicato solo quando si trattasse d' offesa contro i precetti o i comandamenti del Signore. Quinto mezzo . Una delle più potenti maniere di prendere coraggio è quella di persuadersi che la buona riuscita delle opere nostre non dipende da noi, ma da Dio, e quindi d' acquistare una grande, infinita confidenza in Dio, che opera in noi, quando noi operiamo per ubbidienza o per carità; ed allora egli cava la sua gloria anche dalla nostra debolezza, da' nostri errori, dalle nostre stesse mancanze. Sesto mezzo . Come conviene evitare l' asprezza, e ciò che veramente offende la carità, così conviene evitare la falsa mansuetudine , che è quella che non vuol mai venire a battaglia con nessuno, e vuole evitare tutti gli urti; quando all' incontro senza sostener battaglie e far testa al male, specialmente uno che dovesse essere Superiore, non riuscirà mai a procacciar molto gl' interessi della divina gloria e migliorar sè e gli altri. All' incontro l' uomo che per amor di Dio ha fatte delle battaglie, non può mancare d' acquistar ben presto il coraggio e il polso forte che gli è necessario. Settimo mezzo . Non credere che il sentimento del timore che coglie improvviso, debba subito scomparire, e non avvilirsi se ritorna dopo i più bei proponimenti e la speranza d' averlo vinto del tutto: perchè quel sentimento non si può scacciare se non con lungo tempo, ma si può operare come se non ci fosse, senza lasciarlo influire nelle nostre azioni, nelle quali dobbiamo dirigerci colla ragione e col calcolo, e non con altro. Questo deve cautelarci contro l' avvilimento, che potrebbe sopravvenire, quando si vedesse ritornare quel senso di timore che si credeva vinto; o si pretendesse di far più di quel che si può in un momento. Ottavo mezzo . L' orazione, e specialmente l' uso dei salmi, che ispirano tanti affetti di fiducia e d' aspettazione di cose grandi dalla bontà divina che ci ha in cura. - Con questi mezzi e colla costante volontà di proceder avanti con buon ordine, ci riuscirete. [...OMISSIS...] 1.51 Avreste fatto bene ad avvisarmi prima d' ora delle tentazioni e delle battaglie che vi dà il nemico dell' anima vostra. Iddio ne ha preavvertiti tutti quelli che egli chiama al suo più stretto servizio con queste parole: « Fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia et timore, et praepara animam tuam ad tentationem (Eccli., II, 1), » dove ci comanda di stare nella giustizia e nel timore dell' umiltà, e di apparecchiarci , certo colla buona volontà e coll' orazione. Nello stesso tempo ci ha confortati e assicurati, se noi così facciamo, del suo aiuto, ed anzi si trova scritto: « Beatus vir, qui suffert tentationem: quoniam cum probatus fuerit, accipiet coronam vitae, quam repromisit Deus diligentibus se (Iac. I, 12) ». Indarno taluno vorrebbe darsi alla sequela più intima di GESU` Cristo, pretendendo di non dover essere tentato e provato in varie guise; ma colui che fu chiamato a questa felice sequela è obbligato a respingere tali tentazioni colle dette armi della fede, dell' umiltà e dell' orazione; e quando lo fa, è beato , come Dio stesso ha detto per la bocca di san Giacomo, perchè diventa un servo di Dio provato . All' incontro, chi non lo fa, mette in grave pericolo l' anima propria, tanto se, cedendo alla tentazione, cade in peccato, quanto se, col pretesto di non poter resistere alla tentazione, pretesto ingiurioso a Dio, abbandona lo stato di perfezione; giacchè questo abbandono fatto con tanta viltà è una gravissima ingiuria a Dio vocante, della quale Dio solo è giudice e punitore. Ora voi, mio carissimo figlio, siete stato chiamato e già entrato ne' debiti modi nello stato della perfezione, e vi siete obbligato in esso in perpetuo e irrevocabilmente, da parte vostra , col vincolo sacro dei voti perpetui, dai quali non v' è più lecito di sciogliervi. Nè vi verrebbe a salvezza dell' anima l' esser dimesso dall' Istituto; chè i Superiori non possono dimettere alcuno se non allorquando la sua condotta lo rendesse dannoso al corpo de' suoi fratelli; onde questa stessa dimissione ricade a colpa di colui che viene dimesso, e con essa non si migliora già la sua condizione davanti a Dio, qualunque cosa appaia davanti agli occhi degli uomini. Io giudico dunque che voi non solo siete obbligato gravemente a respingere il pensiero di abbandonare l' Istituto, nel quale Iddio, per sua misericordia, v' ha fatto la grazia d' entrare; ma di più siete obbligato di mantenere la sacra promessa, che avete fatta a Dio medesimo in presenza della corte celeste, e a compiere la beata oblazione di tutto voi stesso, vivendo e morendo santamente in questo Istituto. Dovete dunque riconoscere nei pensieri che vi vengono la voce del maligno serpente, che v' insidia l' eterna salute, e vuol perdere l' anima vostra; e dovete respingere questa voce seduttrice, non essendo già connivente coi detti pensieri, nè coltivandoli, nè fiaccamente contenendovi quando vi assalgono; ma subito dovete discacciarli, e rivolgere il pensiero a cose più degne, e aprirlo ai dettami dello Spirito Santo, spirito di purità e di santità, castigando anche voi stesso, e stringendovi a Dio colle più fervorose orazioni, fino che sia passata e pienamente vinta l' infernal tentazione. Sotto specie di bene questa v' inganna facendovi credere che vi sarebbe più facile salvarvi in un altro stato: quasicchè per chi ha fede in Dio e conosce chi è Dio, l' abbandonare il posto, nel quale egli ci ha messi, non sia un buttarci all' inferno. Anche lo spaventarvi della perfezione che propose Gesù Cristo ai suoi eletti, e che tale quale l' ha egli insegnata, è proposta nell' Istituto, è un diabolico artificio che si fonda nella mancanza di fede; onde avviene che si crede poco all' efficacia degli aiuti che ci dà lo stesso GESU` Cristo che ci ha data la legge di perfezione, e si ha la stoltezza riprovevole di non volerli adoperare, e nello stesso tempo par che si creda che quella perfezione si consegua colle forze umane, delle quali, sentendosi poi deboli, si dispera. Ma chi ha fede e piena confidenza in Dio, ancorchè si senta debole, è fortissimo, ed il suo coraggio va crescendo ogni giorno di mano in mano che Iddio gli si rivela, e gli fa conoscere e sentire la sua potenza e misericordia. Lungi dunque da noi tanta bassezza, miseria e perversità da prender consiglio da quello che ben conosciamo, se pur non vogliamo ingannarci, essere lo spirito delle tenebre e della menzogna, e però essere il nemico più arrabbiato della perfezione evangelica; onde co' suoi mortiferi argomenti vorrebbe condurci al termine da essere scacciati dal paradiso della virtù evangelica, cioè dalla Religione. Al fine di vincerlo e svergognarlo, facendolo dare indietro, ecco le armi: Non ascoltare i suoi seducenti discorsi; e però ribattere subito , al primo sentore, tutti i pensieri i quali tendessero a farci perdere l' amore e la stima della nostra santa vocazione e dello spirito di consacrazione in questo Istituto; rinnovando spesso al Signore di voler vivere e morire in esso, con azioni molte di grazia a lui, che per pura misericordia vi ci ha condotto. Dar opera diligente ad arricchire la mente di santi pensieri, l' anima di santi affetti e la volontà di frequenti propositi di avanzare in ogni maniera di virtù, ma sopra tutto nell' umiltà , nella sofferenza e nella carità . Dedicarsi all' orazione come alla prima e alla più importante nostra occupazione, e fare tutto quello che si può da noi, per riscaldare in essa il nostro cuore e acquistare un gran zelo della maggior gloria di Dio, e di poter farlo conoscere agli uomini; sopratutto è necessario l' abito di frequenti e quasi continue giaculatorie. Amare gli uffici umili , come cosa grata al Signore, e riprendere in noi ogni movimento di superbia, di vanagloria e simile, dandosi alla perfetta ubbidienza , e godendo di questa come di cosa che piace a Dio e che ci ottiene indubitatamente le grazie più preziose per l' anima, facendo di conseguente grande stima di un' osservanza la più esatta che sia possibile. Evitare ogni parola oziosa coi compagni, e in quella vece servirsi della lingua per edificarli e santificarli, giacchè la santità che noi procacciamo in questo modo ad essi ritorna sopra di noi; e cooperare in ogni modo al progresso spirituale de' proprii compagni. Non avvilirsi mai, anche se ci occorresse di cadere, o di non fare quel profitto che speravamo; perchè la nostra emendazione viene a gradi per lo più, qualora Iddio non faccia qualche cosa di straordinario. Ecco dunque quello che dovete fare, mio carissimo fratello: spero che lo farete, e sarete consolato, ed io godrò della vostra consolazione. 1.51 L' incomodo d' un occhio che m' impedisce di leggere e di scrivere, unito alle occupazioni, fu cagione, che io differissi finora a riscontrare la pregiatissima sua lettera, e mi obbliga al presente di usare della mano di una fidata persona per istendere la presente. Del resto quest' incomodo non è gran cosa, ma una piccola croce che mi dà il Signore troppo inferiore a' miei meriti. Comprendo a pieno, mia pregiatissima Signora Baronessa, tutto ciò che deve soffrire il suo spirito allo spettacolo delle cose di questo mondo: nello stesso tempo conosco quanto sia immobile, inalterabile, infinito quel bene che si trova nella nostra Religione santissima, e come questo bene ci compensi di tutti gl' incomodi e le noie e i travagli, che ci vengono dalle cose terrene e corruttibili di cui siamo composti e in mezzo alle quali viviamo, e come noi stessi possiamo e dobbiamo partecipare dell' immutabilità di quel bene. Poichè anche l' anima nostra acquista una certa sostanza ed immutabilità, e quindi una pace stabile, quando si congiunge alle cose immutabili. Iddio sia il luogo della nostra perpetua abitazione; così tutte le cose che cangiano, rimarranno al di sotto del luogo dell' anima nostra. Io so, mia veneratissima Signora, che questi sono i suoi conforti, come sono i miei. Da molto tempo non ho da Roma nuova alcuna, spero nondimeno che lo stato delle cose pubbliche colà si vada migliorando. 1.51 Ecco finalmente la lettera che m' aspettava dal mio caro Setti. La lessi con vera consolazione: specialmente mi consolò il vedere, che la prova che aveste a sostenere, v' abbia persuaso che chi confida nel Signore non perisce in eterno. Conviene abbandonarsi a lui e temere sempre di noi stessi, ma senza alcuna sorte d' avvilimento: non assicurarsi mai di noi, di Dio sempre, in qualunque condizione ci ritroviamo. D' altra parte è necessario, mio caro, di conservare l' interiore tranquillo e non permettere che vi nasca tumulto, nè pur quando un certo tumulto d' affetti sembra buono e a buon fine diretto; perchè un certo confuso tumulto è spesso un' esaltazione dell' immaginativa sommossa dal demonio che si trasforma in angelo di luce e rende l' uomo inquieto, fisso ne' suoi pensieri, indocile, ostinato, angustiato, esclusivo, e di somiglianti cose ripieno, che sono grandissimi difetti ed impedimenti al compimento dell' opera della nostra salute e perfezione secondo la volontà di Dio. Godo dunque che amiate cotesta solitudine, dove avete trovato il riposo dell' anima, ma in modo però d' essere sempre pronto ad abbandonarla, quando l' ubbidienza ve lo imponesse. A questa condizione l' amore che avete ad essa è buono, utile e a Dio gradito. Ma senza questa condizione sarebbe un' illusione e per certo un inganno dell' inimico che è sottilissimo, prendereste il male per bene, e quella che è vostra propria, per cosa di Dio. Quando amaste cotesto luogo e cotesta vita, che ci fate, con attacco impeditivo dell' ubbidienza, benchè apparentemente per un fine e un intento buono e santo, quell' attacco vi pregiudicherebbe alla vera perfezione dello spirito. E sapete che cosa ne potrebbe avvenire? Che quello che ora appare un così forte attacco , dopo qualche tempo potrebbe non essere più nè pure un affetto , e convertirsi in avversione: nè è già la prima volta, che quelli che dicevano di volere per puro amor di Dio un certo genere di vita che credevano indispensabile per salvarsi l' anima, poi si cangiassero, prendendo sentimenti del tutto opposti, e per la stessa ragione del salvarsi l' anima ne volessero un altro tutto diverso e con un' uguale ostinazione. Onde mettiamo per inconcusso fondamento il principio che non falla e che non inganna di sicuro, quello della semplice ubbidienza. E non è già necessario di occupare la nostra mente di pensieri sull' avvenire, e di domandare a sè stessi che sarebbe di noi in questa o quella ipotesi; chè non ci sono pensieri più vani di questi, nè più atti a turbare la pace interiore e scompigliare l' immaginazione. All' incontro la bella semplicità che s' abbandona a Dio senza pensare all' indomani, ma che adempie alacremente tutti i doveri dell' oggi, ecco la maniera d' andare avanti in « pulchritudine pacis . » Pregate dunque, servite la Chiesa e la casa, edificate il prossimo, acquistate collo studio assiduo e ordinato le cognizioni necessarie per rendervi atto a esercitare i ministeri della predicazione e della confessione, abbiate un grande zelo delle anime del prossimo e un grande amore di fargli del bene in ogni modo, conservate un umore ugualmente lieto ed affabile con quelli con cui trattate, e del resto non pensate più avanti: Iddio ci pensa. Scrivetemi poi a quando a quando, se le cose vi continuano bene, come grandemente spero e prego.

Introduzione al Vangelo secondo Giovanni

635946
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Laonde apparisce oggimai in che e quanto differisca la filosofia naturale dalla scienza de' santi che san Bernardo espresse compendiosamente scrivendo: « Haec mea sublimior interim philosophia scire Jesum, et hunc crucifixum (2) ». Vi ha dunque una scienza naturale, e una scienza o piuttosto sapienza soprannaturale. Quale è il principio dell' una, quale dell' altra? Cioè quale è quel primo lume onde deriva all' uomo la prima? e quale è quel primo lume onde deriva all' uomo la seconda? Il principio della scienza naturale è l' idea, ossia l' essere ideale; il principio della scienza soprannaturale è il Verbo, cioè l' essere reale per sè manifesto. Le divine scritture, che contengono la scienza soprannaturale nella sua esterna espressione, c' insegnano appunto qual sia il principio di essa, giacchè dicono: « Fons sapientiae Verbum Dei in excelsis (1) ». Nel qual luogo le parole in excelsis, che si tradurrebbero « nei luoghi eccelsi », indicano appunto l' ordine soprannaturale del sapere, giacchè ottimamente ciò che è al dissopra della natura si colloca metaforicamente nei luoghi eccelsi, come ciò che spetta alla natura si colloca sulla terra . E di qui si vede, quanto era conveniente che l' evangelista incominciasse ad annunziare il Verbo salendo al principio di tutta quella sapienza che fu data agli uomini da Gesù Cristo, e così ponesse la prima pietra dell' edifizio teologico, il Primo teologico. Il che serve bensì a rispondere alla domanda che si fa il Crisostomo perchè l' Evangelista cominciasse piuttosto dal Verbo che dal Padre, quantunque il Padre sia il principio del Verbo. Perocchè si risponde che altro è l' ordine della processione delle persone fra loro, altro è l' ordine con cui si manifestano nella mente umana. In questo il primo che si rende manifesto è il Verbo, il quale è l' Essere per sè manifesto, ed è pel Verbo che si conosce il Padre. Onde Cristo disse: « « Padre, io ho manifestato il nome tuo agli uomini che tu mi hai dati »(2) ». E quantunque il Padre tragga gli uomini al Figlio (3), tuttavia questo traimento è nell' ordine dell' azione e non in quello della cognizione, e però resta nascosto agli uomini fino a che non hanno conosciuto il Figlio che lo manifesta. Così parimenti, quantunque sia lo Spirito Santo quello che mandato dal Padre mostra all' anime e quasi forma in esse il Verbo, tuttavia anche quest' operazione dello Spirito Santo rimane occulta, nell' ordine delle azioni e non delle cognizioni, fino a che gli uomini, avendo conosciuto il Verbo, non vengono per questo a conoscerla. Laonde degli stessi Ebrei prima di Cristo dice S. Tommaso d' Aquino che non conoscevano il Padre « in ratione Patris, sed ut Deus (1) », appunto perchè « Filius ignorabatur (2) ». E questa ignoranza, che avevano gli Ebrei del Verbo, della quale parla S. Tommaso, non conviene già intendersi d' una ignoranza totale, ma del mancar loro la cognizione positiva e personale del Verbo, la quale non s' ha se non per quella percezione che fu data agli uomini quando il Verbo personalmente prese carne umana. Perocchè egli è indubitato che gli Ebrei avevano: 1 la cognizione razionale del Verbo divino, che, come dicevamo, è negativa ed ideale; e a noi sembra assai probabile che la scuola Italica e Platonica avessero dallo stesso fonte tratte le loro dottrine filosofiche intorno al Verbo, e che i nuovi Platonici le avessero prese massimamente dalle scuole ebree esistenti in Alessandria prima di Cristo, dove fra gli altri filosofi ebrei fioriva Aristobolo. 2 Che la cognizione che ebbero gli Ebrei del Verbo, era anche più che filosofica, benchè non giugnesse alla percezione del Verbo; e ciò perchè non mancava presso l' Ebraica Chiesa la grazia Deiforme, che dava una cotal percezione della Divina sussistenza; il che si può argomentare da questo principio che la grazia è sempre corrispondente alle parole rivelate che la esprimono sensibilmente; onde, essendo rivelata la unità di Dio ed i suoi attributi, conveniva che quest' oggetto di quella antica rivelazione fosse avvivato dalla percezione spirituale, acciocchè dèsse un effetto soprannaturale all' anime e interpretasse la lettera collo spirito. Ora da questa percezione incoata di Dio doveva venirne un riflesso spirituale e divino anche alla cognizione razionale e naturale del Verbo di Dio. A questo si aggiunge che l' antica Chiesa ebbe rivelazione di molte verità dogmatiche e morali, e ciò col ministero degli Angeli (3), che le somministravano ai santi uomini e a' più eminenti eletti da Dio acciocchè le comunicassero agli altri. Onde « « Abramo desiderò di vedere il giorno di Cristo, lo vide e n' esultò »(4) », e così è da dirsi degli altri a cui altre cose furon mostrate. Le quali non si riducevano certamente a cognizioni meramente naturali di ragione, o storico7naturali, ma dovevano essere accompagnate dalla grazia e dal lume interiore che convien sempre ridursi a una percezione intellettiva di quelle verità stesse che sensibilmente eran segnate. Ma il Verbo a cui ministravano gli Angeli, non era tuttavia quello che parlava agli uomini, nè loro si mostrava personalmente parlante; e però non avean gli uomini la percezione personale del Verbo rivelante, ma solo alcuni doni e lumi di lui come Verbo rivelato. Il che insegna chiaramente S. Paolo agli Ebrei nelle prime parole della sua meravigliosa lettera a loro diretta, che ancor si conserva: « Multifariam multisque modis olim Deus loquens Patribus in Prophetis, novissime diebus istis locutus est nobis in Filio (1) ». Tuttavia era anche allora Iddio che parlava , sebbene per mezzo degli Angeli che rivelavano ai Profeti le verità che questi comunicavano agli altri uomini. Per ciò le verità rivelate si chiamano anch' esse parola di Dio . E sebbene quelle verità sieno molte, tuttavia non si dicono parole di Dio , ma sì bene in singolare parola di Dio . E ciò assai acconciamente, perocchè la parola di Dio è una, è uno il suo Verbo, nè propriamente Iddio dice altra parola che il suo Verbo. Conviene adunque dichiarare come le molte verità, rivelate nell' antica e nella nuova legge, si riducano tutte al Verbo divino, sieno appartenenze di Lui, e quindi contengano qualche rivelazione soprannaturale del Verbo medesimo; sebbene con esse il Verbo divino non siasi ancora manifestato agli uomini personalmente. E` dunque a considerare che la grazia , la quale consiste in un' azione deiforme che Iddio immediatamente esercita nelle anime umane, è divisibile. S. Paolo parla spesso della divisione delle grazie, e in un luogo dice: « Divisiones gratiarum sunt, idem autem Spiritus (2) ». In un altro poi: « Unicuique autem nostrum data est gratia secundum mensuram donationis Christi (3) ». Tutte le speciali verità rivelate sono adunque doni di Cristo, ma non sono ancora Cristo manifestato espressamente agli uomini, non sono il Verbo comunicante loro personalmente se stesso. Il che è da vedere diligentemente come sia. La differenza, fra le speciali verità rivelate co' morali effetti che ne conseguono e il Verbo sta in due cose: 1 Che in quelle verità non giace la comunicazione della persona stessa del Verbo, ma solo de' suoi doni. 2 Che appunto per ciò quelle verità sono molte, laddove il Verbo, al quale però si riducono, è uno. Noi dobbiamo svolgere l' una e l' altra di queste differenze, e, svolgendo la seconda, vedere come la moltiplicità delle verità e delle grazie si riducano nulladimeno all' unità del Verbo. Le speciali verità rivelate si presentano all' uomo unicamente nella forma oggettiva. Ora, quantunque il Verbo sia l' essere per sè manifesto, e quindi medesimo per sè oggetto, tuttavia, essendo egli in pari modo la sussistenza divina, non può non essere soggetto e persona, di maniera che egli è un soggetto per sè oggetto. Ma nelle speciali verità rivelate, appunto perchè esse non si rappresentano che come oggetto, rimane nascosta la soggettività, e quindi la personalità del Verbo. Laonde nell' antica rivelazione il Verbo non si comunicò personalmente agli uomini. Ma, quando egli prese carne umana ed ammaestrò gli uomini, ed alle sue parole esteriori rispose la grazia interiore che diede agli uomini la percezione del Verbo parlante e operante, la quale perciò si può chiamare Verbiforme; allora gli uomini appresero la stessa persona del Verbo vestita dell' umanità che ne comunicava gli influssi. Che cosa sono adunque le verità speciali dell' antica e nuova rivelazione, e le grazie speciali che le accompagnano? - Certo sono doni del Verbo, non ancora il Verbo stesso. Ma di più sono appartenenze del Verbo, le quali in lui non sono nè divise fra loro, nè divise dalla personalità, ma sono divise nell' uomo a cui vengono comunicate, e in questo stato di divisione non mantengono più l' identità col Verbo, di maniera che si possano dire la Parola sussistente di Dio, ma però dalla loro origine tengono de' caratteri divini, come sarebbero l' immutabilità, l' eternità, una certa virtuale totalità, ecc., i quali bastano perchè si riconoscano quali appartenenze del Verbo divino, e in lui si rifondano, e quindi si chiamino altresì parola di Dio . Nel che però è da osservarsi che v' hanno delle appartenenze del Verbo naturali , e delle appartenenze del Verbo soprannaturali , onde convien vederne la differenza. La differenza fra il lume naturale e il lume soprannaturale fu da noi collocata in questo che il lume naturale è semplicemente ideale , laddove il lume soprannaturale è anche reale , perocchè in questo vi ha un' azione della sussistenza divina nell' anima umana: di maniera che l' atto che fa l' anima nel ricevere il lume naturale dicesi intuizione, laddove l' atto che fa l' anima nel ricevere il lume soprannaturale merita il nome di percezione . Il lume naturale è l' essere ideale per sè oggetto, e quindi questa si può chiamare un' appartenenza ideale del Verbo divino; laddove il lume soprannaturale, che accompagna le verità rivelate a cui prestiam fede, è l' essere reale, ossia la divina sussistenza, e quindi questa si dee chiamare un' appartenenza reale dello stesso Verbo . Rimane a spiegare come le speciali verità rivelate sieno molte, laddove la parola di Dio, il Verbo è uno. A tale intento egli è uopo osservare come tutte le verità naturali, tutte le idee si riducono ad una, cioè all' idea dell' essere ; così somigliantemente tutte le verità soprannaturali si riducono ad una, cioè alla Verità sussistente, all' Essere reale soggetto per sè oggetto, che è il Verbo. Ora come, essendo una l' idea , questa poi si trasmuta in molte che chiamiamo più propriamente concetti? Questo accade per tre cagioni: 1 per la moltiplicità delle sostanze create, ognuna delle quali, attesa la loro limitazione, è esclusivamente in se stessa fuori di tutte le altre. Onde avviene che, quando applichiamo l' essere ideale a conoscere l' una di esse, con questo non conosciamo punto l' altra, ma abbiamo una notizia esclusiva affatto separata dalla notizia di tutte l' altre cose. 2 Da questa moltiplicità di sostanze finite nasce una moltiplicità di rapporti pure esclusivi, e limitato ciascuno a se stesso: onde di nuovo procede una moltiplicità di notizie mediante altrettante applicazioni dell' essere a più sostanze che si raffrontano per rilevarne le varie relazioni. 3 La terza ragione deriva dalla moltiplicità che si trova in ciascuna sostanza creata, niuna delle quali è perfettamente semplice, notandovisi accidenti, passioni, ed azioni, cangiamento di modi, divisioni di spazio, successioni di tempo, ecc.. A ciascuna delle quali cose, che ha natura esclusiva e sua propria, applicandosi tuttavia l' essere ideale, se n' hanno altrettante notizie e concetti. Fra le limitazioni delle sostanze create la più notabile è quella per la quale la loro sussistenza non è contenuta nella loro essenza; onde è uopo che la sussistenza, che esiste esclusivamente, sia conosciuta dallo spirito umano con un atto diverso da quello con cui egli conosce la loro essenza. Ed è oltracciò da osservare, che lo stesso spirito intelligente dell' uomo è anch' egli una sostanza limitata, in modo che ha bisogno di varii istrumenti ed atti successivi a trovare la materia delle sue cognizioni, non essendogli dato per natura che la realtà dell' animalità propria. Ora ogni singolare notizia è fondamento ad un diverso affetto dello spirito conforme o difforme dalla legge della moralità: quindi la pluralità delle virtù e de' vizii e i molteplici accidenti dello stato morale dell' uomo, benchè ogni pregio morale riducasi finalmente ad una sola essenza morale, che è l' amore dato all' essere. Ora, se noi passiamo a considerare la moltiplicità nell' ordine soprannaturale, si riconoscerà agevolmente ch' ella dipende appunto dalla moltiplicità dichiarata fin qui dell' ordine naturale dell' intelligenza e della moralità: perocchè la grazia non muta la natura, ma non fa che perfezionarla e sublimarla. L' uomo, le cognizioni dell' uomo, le virtù ed i vizii di cui è suscettibile, essendo così molteplici come gli abbiamo veduti; ne doveva provenire, che egualmente molteplici fossero i rapporti di Dio con lui, molteplici i mezzi che adoperasse Iddio per condurlo a sè, dove giace la sua perfezione e la sua beatitudine; che la rivelazione di Dio si frangesse, per così dire, in molte verità speciali, e che vi avessero divisioni di grazie e di doni, e tuttavia era uno il Cristo che compartiva i suoi doni, uno lo Spirito che compartiva le sue grazie. [...OMISSIS...] . Ma noi dobbiamo vedere come tutte le verità speciali si riducano ad unità, cioè ad un solo oggetto, come questo sia un' appartenenza del Verbo, e come, ove ei si riveli, quest' oggetto, in quanto è soggetto ossia persona, allora sia egli il Verbo a noi comunicato. Dobbiamo vedere il medesimo delle grazie a noi comunicate, come si rifondano e riducano in una grazia sola, appartenenza del Santo Spirito, che è incontanente lo stesso Santo Spirito quando in quella grazia egli ci si rivela come persona. Tutte le verità speciali che abbiamo dalla divina rivelazione si riducono a verità che dichiarano la natura divina, che cosa abbia fatto Iddio e conseguentemente quali doveri noi abbiamo verso Dio, in una parola riguardano il credere e l' operare. Ora le verità che regolano le operazioni, si riducono alle verità imposte a credere, perchè l' operazione morale non è altro che una ricognizione della verità appresa dall' intelletto, ricognizione che produce gli affetti e le azioni ben ordinate che ammigliorano e perfezionano moralmente l' uomo. Le verità teoretiche poi, che riguardano la natura e le azioni esterne di Dio, si riducono alla natura divina, perocchè Iddio non agisce se non con quell' atto stesso con cui esiste, e propriamente si riducono alla cognizione del Verbo divino, perchè, come abbiamo veduto innanzi, la creazione e l' altre operazioni esterne sono fatte pel Verbo, e in Dio non sono distinte da quell' atto che costituisce il Verbo divino. E a questa unità ridusse lo stesso Gesù tutto il suo Vangelo quando disse: « Haec est autem vita aeterna, ut cognoscant te solum Deum verum et quem misisti Jesum Christum (1) ». Il Padre poi non si conosce che pel Figlio e nel Figlio, e però tutta la cognizione e la verità soprannaturale si trova racchiusa e contenuta nella cognizione del Verbo, il quale è chiamato Verità e il fonte della sapienza nel cui spirito « desiderant Angeli prospicere ». Tutte le verità rivelate adunque si riducono al Verbo come in loro principio nel quale sono eminentemente contenute, e propriamente altro non sono che tante parziali applicazioni alle cose create della prima cognizione soprannaturale che è questa del Verbo. Ma il conoscere che tali verità speciali sono contenute nella sola cognizione del Verbo divino, questo ha due gradi. Perocchè: 1 O si conosce ciò unicamente perchè di fatto tali verità ci servono a conoscere qualche cosa della natura divina e delle sue azioni nel mondo, senza però che percepiamo il Verbo personalmente manifestante tali verità; il che dà luogo ad una cognizione diretta comune dei fedeli della Chiesa di Dio, e ad una cognizione riflessa e scientifica propria dei maestri che alle rivelate verità applicano il ragionamento: tutto questo l' ebbero anche gli Ebrei. 2 Ovvero si conosce che tutte le speciali verità di cui parliamo sono contenute nel Verbo, e nello stesso tempo si percepisce il Verbo personalmente nell' atto di manifestarcele, non già solo ai nostri orecchi carnali che non basterebbe, ma agli orecchi del nostro cuore; e questo è proprio solo de' cristiani, e dicesi acconciamente vedere le verità soprannaturali nel Verbo . Il qual grado di cognizione dà tuttavia luogo ai due modi sopraindicati: il diretto, che si fonda nella percezione del Verbo che ai cristiani tutti è data nel battesimo; e il riflesso e teologico, che è proprio di quelli che sopra tal cognizione diretta riflettono e ne traggono la scienza formulata: la quale, o si occupa soltanto del Verbo come oggetto, e dicesi semplicemente Teologia; o anche del Verbo che agisce nell' anime come soggetto e persona per sè oggetto, e suol dirsi Teologia mistica . Ma è mestieri chiarir meglio la cognizione soprannaturale data agli uomini prima della venuta in terra del Signor nostro Gesù Cristo. Ella si riduceva ai seguenti capi: 1 Le verità speciali rivelate; 2 Quel tanto che ciascuna verità fa conoscere della natura divina, nel che ricevevano unità, riducendosi tutte a gradi ed aspetti diversi della cognizione della stessa cosa; 3 Atteso la grazia divisa secondo le verità speciali, questa natura divina, che davasi a percepire come per sè manifesta, oggetto reale per sè manifesto, era il Verbo, ma soltanto oggettivamente appreso, non il Verbo come soggetto e persona; e quindi, propriamente parlando, era la divina sussistenza per sè manifesta, ma non operante, e dicente « « Io e il Padre siamo una cosa » », in quanto si distingue la manifestazione dall' operazione . 4 Vi aveva altresì la promessa della venuta al mondo del Verbo qual soggetto e persona, il che non importa una comunicazione interna di questa personalità, bastando la fede in quella misteriosa promessa. Onde la persona del Verbo promesso era indicata coi nomi di Dio, Dio con noi, Padre del secolo futuro, Principe della pace, ecc.; e come tale Abramo (1) ne può aver veduto la gloria ( diem ), e Davide può aver conosciuto che sarebbe suo Signore (2), benchè suo discendente, senza che perciò ne avesse la percezione stessa personale . Di maniera che la cognizione del Verbo come persona data agli antichi non era positiva e percettiva; ma negativa, razionale, simbolica, misteriosa, oggetto di fede assai più che non sia presentemente ai cristiani, i quali ne hanno una iniziale percezione; e la lor fede si riferisce soltanto alla percezione completa e svelata che costituisce la celeste beatitudine. 5 Finalmente vi era la riflessione e meditazione filosofica, che, ritornando sopra questi dati rivelati esteriormente ed internamente, riducevano in teoria scientifica le credenze; onde nacque quella Teologia Ebraica, ond' io credo non poco deducesse il Platonismo, e specialmente la Scuola Alessandrina. Le quali cognizioni dell' antica Chiesa intorno al Verbo divino rendono plausibile ragione come la denominazione di Verbo applicata a Dio fosse già in uso prima di Cristo. La perifrasi caldaica di Onkelos (targum Onkelos), che probabilmente è anteriore a Cristo, dove nel testo ebraico si legge [...OMISSIS...] Jeova, vi aggiunge frequentemente [...OMISSIS...] « mimra, cioè Verbo (3) ». Si spiega ancora perchè S. Paolo, commentando quelle parole « Juxta te est sermo valde in ore tuo et in corde tuo (2) » e le precedenti, le interpreti di Cristo. Ecco il luogo di Mosè: « « Questo comandamento, che io oggi t' impongo, non è sopra di te, nè posto in lontananza, nè situato in cielo, sicchè tu possa dire: Chi di noi può salire al cielo e indi tradurlo a noi perchè l' udiamo e l' adempiamo? Nè sta via oltre il mare, sicchè tu possa coglier cagione di dire: Chi di noi potrà passare il mare e fin di là portarcelo perchè possiamo udire e fare quello che ci è prescritto? Ma egli è un sermone molto vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore perchè tu il possa compire » ». Ora S. Paolo, illuminato dallo spirito di Gesù Cristo già venuto, ci fa sapere che pei cristiani quel luogo di Mosè acquistò nuova luce appunto dalla venuta di Cristo, dovendosi con questo nuovo lume interpretare. Onde insegna che in quel luogo mosaico si parla della giustizia che nasce a noi redenti dalla fede nella misericordia e redenzione di Cristo: giustizia che invano spereremmo dalle nostre opere non avvalorate dai meriti di Gesù Cristo. Laonde così lo dichiara l' Apostolo: « « Or poi della giustizia che vien dalla fede dice così: « Non vorrai dire in cuor tuo: Chi ascenderà in cielo? » » cioè per trarne Cristo (che ti possa salvare dai tuoi peccati e così darti la giustizia che è dalla fede in lui). « « O chi discenderà nell' abisso? cioè per risuscitarne Cristo » » (da cui è la salute). « « Ma che cosa dice la Scrittura?: Vicina è la parola nella tua bocca; quest' è la parola della fede che noi predichiamo »(1) ». Con che l' Apostolo viene a dire che quel Cristo Salvatore degli uomini per la fede, ne' meriti del quale vengono rimessi i peccati di cui sono macchiate le loro opere, non è lontano, anzi egli viene comunicato mediante la predicazione apostolica e la fede che a questa si presta (per la qual fede alla predicazione, e pel battesimo che in conseguenza di tal fede si riceve dalla Chiesa, viene data all' uomo la percezione del Verbo umanato che forma la salute delle anime); viene dato all' anima pel carattere indelebile e per la grazia, in virtù di cui sta eziandio sulla bocca dei Cristiani che pronunciano al di fuori ciò che sentono al di dentro. Di che si vede che quello, che era sermo, praeceptum, mandatum, ecc. per gli Ebrei, pei Cristiani è il Verbo, o Cristo; perocchè, se per quelli tali voci significavano una dottrina rivelata da Dio oggettivamente considerata, per questi, cioè per noi, significa lo stesso Cristo rivelante soggetto e persona, nella cognizione del quale tutta quella dottrina abbondantemente si comprende; onde quella dottrina stessa oggettiva diventa ai Cristiani un soggetto ossia una persona divina per sè oggetto, per sè manifesto come tale, manifestantesi come persona. Laonde quando il salmo dice: « Constitue, Domine, legislatorem super eos (2) », dove la voce ebraica [...OMISSIS...] moreh significa doctorem, prega che venga quel dottore appunto, la cognizione e percezione del quale contiene tutta la dottrina stessa, poichè egli, in quanto è per sè noto, è per sè dottrina. Laonde que' Padri della Chiesa che in luogo di Verbum tradussero ed usarono la parola sermo (1) non furono universalmente seguiti. Poichè, quantunque la parola sermo non fosse disacconcia ad esprimere il Verbo interno del Padre (salvo che il sermone suppone pluralità di voci o di concetti, onde anche per questa ragione la parola Verbum, come toccammo, meglio indica l' unità del Verbo di Dio), tuttavia ella non era acconcia ad esprimere la personale manifestazione del Verbo agli uomini, nella quale il Verbo non è solamente la dottrina, ossia il sermone parlato, ma è di più e nello stesso tempo il dottore parlante. E come tale ci venne dato in Cristo, come tale ci è annunziato in questi luoghi dell' Evangelio: « Unigenitus qui est in sinu Patris, ipse enarravit (2) », e: « Tres sunt qui testimonium dant in Coelo » (cioè nell' interiore dell' anime) « Pater et Verbum et Spiritus Sanctus (3) ». E dove G. C. vien chiamato « testis fidelis (4) », o anche assolutamente « Fidelis et Verax », a cui si soggiunge: « et vocatur nomen ejus Verbum Dei (5) ». Le quali maniere non esprimono solamente la dottrina rivelata oggetto della mente, ma il Verbo di Dio che è ad un tempo dottrina per sè manifesta e persona. Laonde si vede quanto differiva la dottrina dell' antica Chiesa da quella della nuova, la quale è acconciamente ricapitolata da S. Paolo in quelle parole: « Non enim judicavi me scire aliquid inter vos nisi Jesum Christum et hunc crucifixum (6) ». Quello che era nell' antica Chiesa mera dottrina, divenne nella nuova anche persona per sè nota, e da questa nuova luce ricevono le antiche carte nuova interpretazione, l' interpretazione accennata da Cristo stesso quando disse ai peregrini di Emmaus: « O stulti et tardi corde ad credendum in omnibus quae locuti sunt prophetae!... Et incipiens a Moyse et omnibus Prophetis interpretabatur illis in omnibus scripturis quae de ipso erant (7) ». E ancora: « Scrutamini scripturas, quia vos putatis in ipsis vitam aeternam habere, et illae sunt quae testimonium perhibent de me (1) ». E fu soltanto dopo la gloriosa sua risurrezione che a' suoi discepoli diede il conoscimento delle antiche scritture: « Tunc aperuit illis sensum ut intelligerent scripturas (2) »; perocchè solo allora ebbero creduto a pieno in Cristo glorificato, compiendosi colla sua risurrezione le profezie. Passando ora dall' ordine intellettuale all' ordine morale, si vedrà agevolmente che vi si possono applicare le stesse dottrine. L' ordine morale ha da una parte la legge, dall' altra l' adesione che dà l' uomo alla legge. Noi abbiamo già indicate le cagioni perchè vi abbia moltiplicità di leggi, e tuttavia tutte le leggi morali non sono prive di unità, perocchè le leggi speciali si riducono ad una legge prima semplice ed una, la quale dice: Riconosci l' essere. Come uno è l' essere, una è l' idea dell' essere, così una è l' esigenza che manifesta l' essere di venire amato come quello che è per sè amabile all' essere intelligente. E se uno è l' oggetto amabile, l' essere; una la necessità morale di amarlo: unico è quindi il dovere morale, unico il pregio morale dell' ente intellettivo, il quale consiste nel suo amore illimitato all' essere. Qui finisce ogni virtù; tale è la parte formale di ogni atto virtuoso. Ma l' amore all' essere, rimanendo sempre ordinato, cioè compartito in ragione della quantità di essere, può riuscire d' una fisonomia e d' un atteggiamento diverso, secondo le potenze che concorrono nell' uomo a ridurlo in atto, secondo la perfezione e la varia indole ed efficacia di queste potenze, secondo le occasioni d' esercitare quell' atto di amore verso l' essere molteplice e limitato, e verso l' Essere infinito, secondo la cognizione diversa dell' essere; e quindi anco secondo che un tale amore viene attuato in un modo o in un altro, e una parte venendo attuato, l' altre parti rimangono tuttavia in un atto primo virtuale: quindi le diverse virtù, gli speciali atti virtuosi, i diversi stati morali dell' uomo. Supponendo che l' uomo conosca l' Essere supremo, Iddio, l' unità morale spicca maggiormente, perocchè le azioni umane acquistano un fine solo, e tutto l' amore all' essere finito dee rifondersi almeno virtualmente nell' amore dell' essere assoluto, fonte e causa di ogni essere. Allora quando quest' ordine dell' amore si attua in modo che l' uomo riferisca esplicitamente a Dio tutte le sue azioni, allora tutta la virtù sua diviene amore di Dio: questo è il formale della virtù; la virtù è divenuta religione, santità; è una, perchè è uno ne' diversi atti umani l' amore, è uno l' oggetto dell' amore. Ma se Iddio non si conosce che naturalmente, e però negativamente, oltrecchè questa santità naturale riesce difficilissima, ella rimane virtù ancor nei limiti della natura. Quando si aggiunge la cognizione soprannaturale di Dio, cioè l' infusione della grazia, che è una cotale percezione della divina realità, allora tutto l' ordine morale si sublima, e diviene soprannaturale, perchè l' amore morale acquista per oggetto l' Essere assoluto positivamente conosciuto, sentito, percepito. La qual comunicazione immediata di Dio all' anima suol avvenire con qualche manifestazione esterna di Dio, con qualche rivelazione, segno, ossia sacramento. Allorchè poi il Verbo prese carne, allora si manifestò esternamente colla natura umana da lui vestita, e a questa comunicazione esterna corrispose la percezione interna e graziosa della persona divina del Verbo, la quale è il principio ed il fondamento della virtù cristiana, la perfezione cristiana della virtù soprannaturale. Ogni grazia viene infusa per operazione del Santo Spirito, ma, come dicevamo, questo non manifesta se stesso quando infonde i doni (1), e nè pure quando imprime il Verbo come persona nell' anime. Ma di poi il Verbo, che già insiede nell' anime, comunica a queste palesemente il suo Spirito, prima in forma di doni sensibili ed apparenti, e poscia anche quale persona (2), siccome avvenne il di della Pentecoste, e tuttodì avviene per mezzo del sacramento della Confermazione. Il sentimento personale dello Spirito Santo è tale che per esso si sente, non solo l' ispirazione al bene, ma lo stesso ispirante; sicchè non si dubita che l' ispirazione venga dall' infinito essere, che si riconosce appunto come persona divina, perchè si sente per sè agente, per sè amabile, per sè amore, per sè virtù. Ma la riflessione dell' intelletto difficilmente arriva a cogliere tale distinzione e formularla, e pochi conseguentemente si formano di ciò qualche distinta coscienza atta ad essere espressa in parole. Questi pertanto sono i gradi specifici della virtù soprannaturale e naturale, la quale però riducesi sempre ad una medesima essenza compresa in una sola e semplice idea. Noi abbiamo detto che l' Evangelista Giovanni, incominciando dal Verbo divino il suo Vangelo, mosse dallo stabilire così il principio ed il fonte della sapienza soprannaturale che nel suo libro prendeva ad esporre. Fra i quattro stemmi di Cristo (1), l' aquila è simbolo della sua divinità, e però s' applica all' Evangelista che lo illustrò più degli altri. Perocchè nessun altro evangelista nominò Cristo colla denominazione di Verbo, nessun altro entrò sì addentro nel mistero dell' incarnazione. Conveniva che prima fosse annunziata l' umanità di Cristo, il che fece principalmente S. Matteo; poi, che fosse annunziato il regno da lui fondato, a che mira S. Marco; quindi l' eterno e regale suo sacerdozio, a che intende S. Luca; acciocchè finalmente quasi per questi gradi ascendesse l' umana mente a contemplare in Cristo lo stesso Verbo del Padre, il quale annunzio fu riserbato specialmente all' ultimo degli Evangelisti, al diletto discepolo. Si deve aggiungere che dal Verbo viene anche la formazione della ragione umana, benchè con questo solo a lei non si manifesti, comunicando ad essa soltanto l' idea dell' essere, principio e mezzo universale del sapere. Onde esso Verbo è il principio remoto anche della scienza naturale. Ma, oltrecchè il Verbo di Dio forma remotamente le intelligenze, quand' egli poi si manifesta o come oggetto divino rivelato, od anche come persona, muove colla sua efficacia noi stessi, se non gli contrariamo, ad arrenderci ai dettami della ragione, ed allontana da noi, come ebbe osservato Origene, tutto ciò che è alla ragione contrario (2). Perocchè nè egli è freddo ed inefficace a muoverci come la nuda idea, nè egli ci muove parzialmente verso qualche essere finito a pregiudizio di qualche altro; ma ci muove ad aderire all' Essere assoluto, e di conseguente a tutto l' essere, secondo la debita proporzione: perocchè il Verbo è appunto l' essere assoluto, la pienezza dell' essere oggetto per sè noto e persona: onde il nostro spirito affissantesi e aderente a tutto l' essere, a ciò che è solo essere, diventa imparziale verso tutte le partecipazioni dell' essere, quali sono gli esseri finiti. Ma la comunicazione del Verbo che si dà a noi a percepire si fa col mezzo di qualche segno sensibile, come i segni che si dicono sacramenti; e prima di questi coll' umanità sensibile di Gesù Cristo, che può dirsi il primo, il massimo sacramento, il fonte di tutti gli altri sacramenti da lui instituiti; ed altresì coi segni delle parole di cui si tesse l' evangelica predicazione. Onde, quando S. Paolo chiama la parola di Dio « gladium spiritus (1) », intendeva la predicazione animata dall' interna comunicazione del Verbo potente a operare sull' anime nel tempo stesso che la parola esterna de' suoi predicatori ferisce i sensi. Un' altra ragione più prossima, per la quale S. Giovanni cominciò il suo Vangelo dall' annunziare il Verbo di Dio, si è perchè egli toglieva a scrivere la vita di Cristo, di cui conveniva innanzi tutto esprimere l' eterna generazione volendo dimostrare l' origine della persona di cui parlava. Cominciando dall' annunziare il divin Verbo, egli veniva a indicare l' unità dell' opera del mondo, perocchè dimostrava colui che è autore ad un tempo della creazione e della redenzione, venendo questa seconda ad essere la continuazione e il perfezionamento d' un solo primitivo disegno. La qual ragione acconciamente è toccata da S. Ireneo che dice: [...OMISSIS...] . Tolta dunque l' occasione dagli eretici Cerinto ed Ebione, che negavano Cristo essere esistito prima di Maria, e munendo in pari tempo la Chiesa contro le eresie successive (3), supplendo in pari tempo alle lacune lasciate dagli evangelisti precedenti, egli tolse a scrivere il suo meraviglioso Evangelio inaugurandolo con un principio così sublime col quale « erexit se non solum super terram et super omnem ambitum a‰ris et coeli, sed super omnem etiam exercitum Angelorum, omnemque constitutionem invisibilium potestatum, et pervenit ad eum per quem facta sunt omnia (4) ». Dopo aver detto che avanti a tutte le creature, ab eterno era un assoluto Verbo, un Verbo necessario che non poteva non essere, perocchè egli era l' Essere per sè noto; passa ad insegnare dove era, e risponde: appo Dio. Questa progressione di concetti è perfettamente logica, dovendosi partire da ciò che è per sè manifesto, e venir poscia al manifestato; partire dal lume e venire all' illuminato. E` per il Verbo che si rivela il Padre agli uomini, come abbiamo veduto: il Verbo è per sè luce che illumina ogni uomo. Quest' è dunque l' ordine nel quale procedono le intelligenze, e nel quale dee procedere chi le ammaestra. Non vale il dire che nell' ordine della generazione il Padre precede il Verbo, perocchè qui non siamo nell' ordine della generazione, ma in quello dell' intelligenza e dell' ammaestramento: i due ordini procedono in senso contrario. Vero è ancora, che, tostochè si conosce il Verbo, si conosce il Padre di maniera che la cognizione del secondo non precede di tempo la cognizione del primo, secondo quelle parole di Cristo: « « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio »(1) ». Ma ciò non toglie la precedenza logica, secondo la quale antecede la cognizione personale del Verbo alla cognizione personale del Padre. La filosofia naturale è obbligata a seguire lo stesso metodo. Ella muove dall' idea dell' essere, come dalla prima cosa che conosce: l' essere ideale è per sè noto, è pura luce, non può essere negato da alcuno, siccome quello che è necessario. Convien dunque ammettersi questo, e quindi passare alla relazione ch' egli dimostra coll' ente realissimo ed assoluto. Quantunque l' essere ideale proceda dall' assoluto, e non possa essere senza di lui; tuttavia l' esistenza dell' assoluto si conosce per mezzo di lui, giacchè prima si trova la necessità d' ammettere assolutamente l' essere ideale, poi si vede che questo non potrebbe essere senza l' assoluto, quindi la mente si sente obbligata ad ammettere l' assoluto. Annunziare adunque il Verbo prima di tutto, e poi discorrere da questo al Padre, è l' ordine logico, pel quale deve procedere la scienza cristiana. E S. Giovanni ci conduce tosto al Padre dicendo: « « e il Verbo era appo Dio » ». Iddio qui significa il Padre (1), e con queste parole dimostra la distinzione della persona del Verbo dalla persona del Padre. Si domanderà perchè qui Iddio significhi la persona del Padre. - Rispondiamo osservando primieramente con S. Tommaso d' Aquino (2) la differenza fra il significato della parola Dio , e della parola Deità . Questa seconda indica la divinità in astratto, e però vale a significare solamente la natura divina; laddove la parola Dio significa la divinità nel supposito, concretamente, e però ella vale a significare anche la persona: come, a ragion d' esempio, la parola uomo significa una persona umana, quando la parola umanità significa soltanto l' umana natura. Quindi i teologi ammisero per buona questa frase Deus generat Deum, perchè viene a significare che una persona divina genera un' altra persona divina, ma non ammettono quest' altra « la deità genera la deità », perocchè così dicendo si verrebbe a significare che la natura divina genera un' altra natura divina, e così si moltiplicherebbero le nature. Ma dopo ciò, sebbene la parola Dio s' adoperi convenientemente a significare il supposito, ossia la persona divina; tuttavia con essa non si determina piuttosto una persona che un' altra, e perciò rimane a cercare come nel luogo di S. Giovanni, « « E il Verbo era appo Dio » », la parola Dio indichi il Padre. Or questo si rileva dal contesto, giacchè non può significare il Figliuolo che è lo stesso Verbo, nè tampoco lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figliuolo; onde si direbbe piuttosto che egli fosse appresso il Padre e il Figliuolo che viceversa, come meglio dichiareremo parlando della forza significativa della particella appresso . Finalmente è da osservarsi che la parola Dio si suol applicare in primo luogo al Padre come quello che è il principio fontale dell' altre due persone, a cui comunica la stessa sua propria natura divina numericamente identica. Perocchè il Padre è la sussistenza divina, l' Essere sussistente, che con un atto suo proprio si rende per sè manifesto ed amato, il che è la processione delle due altre persone; e la parola Dio indica appunto la sussistenza dell' essere assoluto senza determinare in esso di più. Onde conviene a quella persona che è prima di tutto la sussistenza e non l' ha ricevuta, perocchè questo averla ricevuta non è espresso nella parola Dio . Onde, quando la parola Dio si vuole assumere ad indicare il Figliuolo o il Santo Spirito, è necessario che il contesto lo dichiari, aggiungendovi la relazione che costituisce le persone procedute; non così quando si vuole indicare il Padre. E S. Giovanni, dicendo che « « il Verbo era appo Dio » », parlava più in conformità delle antiche scritture, le quali nominano spesso il « Verbo di Dio »; laddove non nominano « il Verbo del Padre ». Oltredichè, dicendo che « « il Verbo era appo Dio » », si veniva a rendere la ragione del perchè Iddio generante si chiamasse Padre, chiamandosi Padre appunto per questo che egli ha appo sè il Verbo generandolo; laddove se avesse detto che il Verbo era appo il Padre, avrebbe supposto che i lettori avessero già conosciuto chi era il Padre, il quale volevasi anzi dall' Evangelista far conoscere per mezzo del Verbo, e della relazione che il Verbo aveva colla divina sussistenza che lo generava. La parola era indica l' eternità del Verbo appo il Padre; perocchè come, dicendo che « « in principio era il Verbo » », aveva significato che il Verbo era eterno; così egualmente dicendo che era appo il Padre significa che dall' eternità risiedeva appresso Dio suo Padre (1). Onde viene a dire del Verbo quello che le antiche carte dissero della sapienza che al Verbo si riduce: « omnis sapientia a Domino Deo est, et cum illo fuit semper et est ante aevum (2) »: dove, non contento il sacro scrittore d' aver detto « fuit semper », quasi si potesse intendere durante la durazione del mondo, il corso del tempo , aggiunge per dimostrarne l' eternità « est ante aevum », è avanti il tempo, usando il verbo E` in presente, per escludere ogni successione e modificazione, e significare senza alcun equivoco l' eternità. E siccome il Verbo era assoluto Verbo ed avente una esistenza necessaria, così doveva essere colla stessa necessità appresso il Padre pure necessario, di maniera che la necessità del Verbo dimostra, secondo il processo della nostra intelligenza, la necessità di Dio Padre presso cui fosse. Volendo ora noi venir dichiarando il valore del vocabolo appo , usato dall' Evangelista, conviene che osserviamo prima di tutto come le cose divine, che hanno natura diversa dalle create, non si possono insegnare agli uomini che usando vocaboli istituiti a significare cose create, e però inadeguate a rendere i divini concetti; il perchè, applicati a questi, vengono a prendere nuova significazione, e a formare tali proposizioni, che, applicate alle umane cose, riuscirebbero assurde. Qui dice S. Giovanni che il Verbo era appo Dio. Ora nessuna delle cose create, propriamente parlando, può essere per se stessa appo Dio, come quelle che hanno un' infinita distanza dall' eccellenza e dalla natura del Creatore. Dunque ciò che di natura sua è appo Dio deve avere la natura divina, dee esser Dio; giacchè fra l' infinito e il finito non v' ha mezzo alcuno, e il finito è distante infinitamente dall' infinito: l' infinito poi è Dio stesso. Avendo dunque detto che il Verbo era appo Dio, ci ebbe posto in mano il principio da cui cavare la conseguenza che dunque il Verbo era Dio, conseguenza che cava l' Evangelista incontanente appresso. La qual conseguenza, che distrugge le sottigliezze degli Ariani, fluisce tanto più spontanea che l' Evangelista dice che il Verbo era appo Dio in principio, il che, come vedemmo, viene a dire da tutta l' eternità, nella quale non potevano essere le creature; e cioè necessariamente, perchè trattasi di un Verbo assoluto, e perciò necessario, perciò eterno, il quale non può star solo, ma richiede per una relazione necessaria Colui che lo pronuncia. Oltracciò la parola appresso nella sua prima istituzione significa vicinanza di luogo, dalla quale fu poscia trasportata a indicare vicinanza o relazione intima di natura. A quelli dunque che non sapendo concepire le cose senza collocarle in qualche luogo (1) domandassero: se il Verbo era già prima che fosse creato il mondo, dove stava egli? L' Evangelista risponde che era appo Dio, e con ciò insegna ch' egli era semplice, e che non aveva bisogno di essere in un luogo, essendo appo Dio. Una simile difficoltà si fanno gli uomini quando cominciano ad applicarsi alla filosofia, e vien loro detto che antecedentemente a tutte le cognizioni vi ha l' essere ideale, lume della mente. Perocchè tosto domandano: dove è dunque quest' essere ideale? e conviene rispondere che è in se stesso, il che non è agevole il far loro ammettere per l' imaginazione che giuoca in essi, e che dimanda che venga collocato in qualche luogo, sembrando loro che non si possa senza questo concepire. Or quattro maniere si adoperano nelle divine scritture per esprimere la connessione di Cristo col Padre. Si dice che « « il Verbo è appo Dio » »; che è « « nel Padre »(2) »; che è « « nel seno del Padre »(3) »; che « « siede alla destra del Padre »(4) ». Perocchè, non potendo il linguaggio umano esprimere con una sola espressione questa connessione, egli è uopo adoperarne molte, acciocchè una supplisca in qualche modo al difetto dell' altra. Conviene adunque vedere il valore di ciascuna di queste espressioni, e come l' una emendi e completi l' altra. Ora, quanto a quest' ultima espressione, ella appartiene all' umanità di Cristo innalzata sopra tutte le creature per l' unione ipostatica col Verbo, e collocata vicino al trono di Dio. Ciò si scorge nel Salmo CIX, che comincia: « « Il Signore disse al mio Signore: siedi alla mia destra » »: dove il Signore, cioè Dio, parla al figliuolo di Davidde, come sappiamo dal Vangelo (1), cioè a Cristo, come uomo, a cui pure disse: « « Tu sei sacerdote in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco » », e l' essere Sacerdote appartiene a Cristo come uomo, come pure l' essere Re, benchè la grandezza di questo sacerdozio e di questo reame nasca da quella dignità infinita che acquistò la sacratissima umanità dalla sua congiunzione personale collo stesso Verbo. Rimane dunque a cercare il valore delle altre tre espressioni, che al Verbo divino appartengono. Ora nessuna di esse, presa in separato, sarebbe stata per sè idonea ad esprimere convenientemente la congiunzione del Verbo con Dio che lo pronuncia. Perocchè la parola appo , applicata alle cose umane, suol significare la vicinanza di due cose o persone distinte sostanzialmente fra loro, non avendovi nelle cose create alcun esempio in cui cada l' identità di sostanza con diversità di persona. D' altra parte nelle cose divine non può darsi moltiplicità di sostanze e di sussistenze, perchè Iddio non può essere che uno. La particella in nelle cose create suol significare la congiunzione di un accidente colla sua sostanza, onde si dice che « il colore è nel corpo », e non presso, appo il corpo; laddove si dice che « un uomo è appo un altro uomo », e non in un altro uomo. Nelle cose create la parola in non trova come possa essere adoperata altrimenti, perocchè non si verifica mai il caso in tutta la natura che una persona sia in un' altra persona senza confondersi con essa, e pur avendo identità di sostanza. Questa specie d' inesistenza non si avvera nel creato, e però la parola in applicata a Dio non può esprimere una congiunzione accidentale, come accade quando si applica ai corpi. L' espressione che « « l' Unigenito è nel seno del Padre » » non si può intendere in senso proprio, perocchè il Padre non ha seno; ma nello stesso tempo rappresenta più acconciamente delle due prime l' inesistenza di due persone, colla similitudine della madre che ha nel proprio seno il figliuolo da lei concepito, e col concetto di generazione che racchiude. Conviene dunque che queste tre espressioni, applicate all' unione del Verbo con Dio che lo pronuncia, si correggano e si completino l' una coll' altra, in modo che si escluda da ciascuna di esse quello che non può convenire alla divinità, e così si venga per esse ad intendere quanto di questa si debba pensare. Ora le due prime che usano le particelle appo ed in si correggono e perfezionano prese insieme; perocchè l' appo dimostra che tra il Verbo e Dio che lo pronuncia non si dee mettere una unione simile a quella dell' accidente colla sostanza quale viene espressa dalla particella in applicata alle cose corporee; e l' in dimostra che nè pur si dee ammettere una vicinanza di due sostanze o nature separate come suole esprimere la particella appo applicata alle finite sostanze. Ritenendosi adunque l' unità di sostanza, che viene significata in quella congiunzione che si esprime colla particella in , e ritenendosi la moltiplicità delle persone che viene espressa in quella congiunzione che si addita colla particella appo , noi, mediante l' uso di tali particelle, intendiamo che in Dio aver vi dee unità di sussistenza, e ad un tempo pluralità di persone, e che tale è l' unione del Verbo con Dio che lo pronuncia a sè consustanziale e ad un tempo personalmente distinto. Ma se la particella in indica meglio l' inesistenza d' una persona nell' altra che non sia la particella appo, tuttavia quella prima non fa conoscere la qualità di congiunzione che hanno le due persone fra loro, potendosi dire ugualmente che « il Padre è nel Figliuolo »e che « il Figliuolo è nel Padre ». Al che soccorre la parola appo . Perocchè questa parola, come hanno osservato gli antichi Padri (1), e come osservò in appresso S. Tommaso, « significat auctoritatem in obliquo »; perocchè non si direbbe propriamente che il re sta presso il soldato, ma che il soldato sta presso il re, e così non si direbbe che il Padre abita presso il Figliuolo, ma il Figliuolo abita presso il Padre, di maniera che la persona presso cui un' altra abita si suppone la principale e autoritativa in qualche modo rispetto alla seconda. Ora, quantunque fra le divine persone vi abbia una perfetta uguaglianza di dignità, tuttavia vi ha una relazione d' origine per la quale il Padre genera il Figliuolo, onde acconciamente si dice che il Figliuolo è appresso il Padre che lo genera, laddove non vi avrebbe ugual proprietà dicendo che il Padre è appo il Figliuolo, la quale espressione non si trova nelle divine Scritture. Ma se la particella apud applicata alle cose create viene a significare una maggioranza, una principalità, un' autorità o priorità della persona, appo cui si dice stare un' altra; conviene vedere quale tra questi significati si debba attribuirle applicata alle persone divine. Ora noi sappiamo da altri luoghi delle scritture, che queste sono eguali in tutto, eccetto nella causalità. « Ego et Pater unum sumus (1) » disse Cristo: quindi la particella apud nelle cose divine non può significare altro che quella relazione, per la quale il Padre genera il Figlio, ossia la proprietà di generante nel Padre, e di generato nel Figlio. A determinare questo significato della parola apud giova appunto l' altro luogo parallelo che dice: « Unigenitus, qui est in sinu Patris, ipse enarravit (2) », dove è significata la relazione tra il Padre e il Figlio, cioè la generazione. Sono significate altresì alcune differenze fra la generazione, qual è nelle cose finite, e la generazione del Verbo. Primieramente, dicendosi che l' Unigenito è nel seno del Padre, scorgesi che egli non si distacca dal Padre, ma che rimane continuamente in esso. In secondo luogo scorgesi nella parola est l' eternità della generazione, non potendo nella Divinità avvenire nulla di nuovo, e però non potendosi dire quello che avviene in essa, perchè nulla avviene, ma solamente quello che è. In terzo luogo si rileva da una tal espressione che la generazione del Verbo non è un' operazione che incomincia e che ha mezzo e fine come l' umana, ma è sempre in atto compiuto immanente, onde si dice ad un tempo che il Verbo sempre si concepisce e che sempre è concepito. Mediante questo luogo adunque s' intende che l' espressione, « et Verbum erat apud Deum », non indica altra autorità nel Padre se non la proprietà che egli ha di essere il principio generante, onde qualche Padre della Chiesa lo chiamò autore del Verbo. Ma all' Evangelista era opportuna questa espressione eziandio per significare con essa altre verità. Perocchè, volendo passare a dire dell' opere del Verbo, e come egli fosse l' autore del mondo e si fosse poi personalmente manifestato nella redenzione da lui operata del mondo medesimo, era conveniente che prima dicesse ove e come era il Verbo prima che operasse e che si manifestasse agli uomini. Onde, salendo l' Evangelista colla sua mente al di là di tutte le opere esteriori del Verbo, prima di dire che cosa abbia fatto e come si sia manifestato agli uomini, dichiara che cosa era da tutta l' eternità: era appresso Iddio che lo pronunciava eternamente, era Verbo di Dio indiviso da Dio. Quivi stava nell' eternità nascosto alle creature che ancora non esistevano. Il qual senso è dichiarato da S. Giovanni medesimo, dicendo egli in altro luogo: « Annuntiamus vobis vitam aeternam, quae erat apud patrem, et apparuit nobis (1) »: dove contrappone alla manifestazione del Verbo il suo stato nascosto nel seno del Padre suo (2). S. Gregorio Magno, che riconosce questa significazione delle parole dell' Evangelista, non dubita di intendere nello stesso modo quelle parole di Elifaz nel libro di Giobbe: « Ad me dictum est verbum absconditum (3) », e sarebbe veramente rimasta nascosta a quell' amico di Giobbe la parola, in quanto che non ebbe conosciuto il personaggio che gli parlava in quella notturna visione: « Stetit quidam cujus non agnoscebam vultum (4) »; onde la persona parlante gli rimase sconosciuta, e la parola dettagli non era appieno conosciuta, rimanendo occulta la parola parlante; col veder la quale avrebbe subitamente conosciuto che l' uomo non si poteva giustificare in comparazione di Dio (5), perchè avrebbe veduto la purezza, la santità, la perfezione di Dio stesso. In queste parole il Verbo è il soggetto, e Dio è il predicato, come si scorge dal testo (1), in modo che la costruzione naturale è questa: « « E il Verbo era Dio »(2) ». Il Verbo dunque, che era ab eterno, ed era appresso Dio, non poteva essere che Dio egli stesso. Non trattasi adunque d' un verbo transeunte, ma d' un Verbo permanente, necessario, che non può cessare d' esser Verbo; non trattasi d' un verbo accidentale, ma sussistente per sè, il quale, essendo appo Dio, doveva conseguentemente essere una persona divina. Abbiamo già osservato che la parola Dio esprime un supposito, una persona, non l' idea astratta o essenza divina, come la parola Deità . Quindi dicendosi « E il Verbo era Dio », si viene a dire « E il Verbo era persona divina ». Ma era stato detto altresì che « il Verbo era appo Dio », dunque una persona divina era appo una persona divina: forza è dunque il dire che queste persone divine, l' una delle quali sta appo l' altra, sieno due, perocchè non si direbbe mai che la medesima stèsse appo se medesima, nè ci sarebbe bisogno alcuno di dirlo. Che se entrambi sono Dio, dunque hanno la stessa natura divina, perocchè la natura divina non può essere che una, non può essere che un solo Dio. Perocchè la Parola divina, quantunque indichi la deità nel supposito, tuttavia indica la deità, la natura divina; dunque, benchè il pronunciante il Verbo sia Dio, e il Verbo pronunciato sia Dio, tuttavia non ne viene che sieno due Dii, ma un solo Dio essente in due persone. Ora, posciachè nelle cose create non v' ha alcun esempio di più persone nell' identica natura, egli è uopo dimostrare che ciò non involge contraddizione. A tal fine convien ricorrere alla definizione della persona, la quale è questa: « Un essere intelligente in quanto ha un principio supremo ed incomunicabile si dice persona ». Posta questa definizione, chiaramente si deduce che l' ente può essere il medesimo, e tuttavia avere più principii supremi ed incomunicabili, cioè inconfusibili, nel qual caso l' identico ente sussisterebbe in più persone. Ora Iddio pronunciante il Verbo ed il Verbo pronunciato sono principii supremi ed incomunicabili, cioè inconfusibili fra loro: quindi sono due persone essenti nello stesso ente, nella stessa natura. Ma il Verbo è appresso a chi lo pronuncia: Iddio dunque che pronuncia il Verbo è una persona che ha una priorità causale ossia d' origine, in quanto è quella che pronuncia il Verbo eternamente eguale a se stesso. Nelle parole « E il Verbo era Dio » [...OMISSIS...] S. Giovanni non pone l' articolo alla voce Dio perchè è costruito come predicato, e quanto si costruisce come predicato non si usa di anteporre l' articolo. Usata la parola Dio come predicato, ella dà alla clausola questa sentenza: « E il Verbo aveva la natura divina », cioè la persona del Verbo aveva la stessa natura divina che aveva quella che lo pronunciava. Questo basta a rifiutare le sottigliezze vane degli Ariani, che dall' omissione dell' articolo alla voce «Theos» volevano inferire che il Verbo non era detto Dio nello stesso senso di Dio Padre (1). Si potrebbe forse aggiungere che l' omissione dell' articolo nel luogo di S. Giovanni è anche opportuna perchè non si confondesse la persona del Verbo colla persona del Padre. Perocchè avendo detto che « il Verbo era appresso Dio », [...OMISSIS...] con che voleva dire che era presso la persona del Padre, se avesse poi detto che il Verbo era Dio coll' articolo «o Theos»; sarebbe sembrato ch' egli fosse la stessa persona del Padre, cui nominò prima appunto Dio coll' articolo «ton Theon». In queste tre clausole adunque S. Giovanni disse che il Verbo era ed era ab eterno; dopo disse dove era, cioè appresso il Padre; finalmente disse più esplicitamente che cosa era, cioè Dio. Qui Origene domanda perchè dicesse che cosa era il Verbo, dopo aver detto quando era e dove era: e risponde che, essendo il Verbo per origine presso Dio, conveniva prima dimostrare che egli era nel Padre o presso il Padre, anzichè dire che il Verbo era Dio. A cui noi soggiungeremo cosa, che o sarà uno svolgimento della ragione arrecata da questo Padre della Chiesa, o sarà una ragione novella: il che lasciamo definire ai lettori. E` dunque da considerare che la parola Dio non basta a definire il Verbo: perocchè quella parola, eziandio che esprima la natura divina sussistente, epperò qual supposito o persona; tuttavia non determina più una persona che l' altra, epperò conviene a tutte tre le persone ugualmente. La terza clausola adunque di S. Giovanni non dichiara pienamente che cosa sia la persona del Verbo, ma dichiara solamente che cosa sia la sua natura. Ora che cosa sia la persona del Verbo è dichiarato già fino dal cominciamento colla sola parola Verbo, dicendo: « « In principio era il Verbo » », dimostrando che il Verbo come persona è l' Iddio per sè noto, il principio della dottrina teologale cristiana, la Verità sussistente; che perciò non ammette definizione, non potendosi intendere nè spiegare con parole esteriori, ma solamente coll' interiore lume della fede, col quale egli si manifesta immediatamente, che poi esprimono con parole esteriori; e con queste venendo annunziato agli uomini, questi assentendo per la grazia che gli illumina ad intenderle, sono trasportati in una condizione soprannaturale in virtù della stessa fede. L' Evangelista adunque annunziò prima di tutto la persona del Verbo, come il primo noto nella dottrina cristiana; e poi più esplicitamente ne espresse la natura dicendo che egli era Dio. Le tre clausole fin qui riferite dell' Evangelista, secondo l' osservazione dell' Aquinate, ribattono tre specie d' errori (1). La prima clausola: « « Nel principio era il Verbo » », mostrandone l' eternità, ribatte l' errore di Ebione e di Cerinto, i quali volevano che Gesù Cristo non fosse preesistente alla Vergine, dalla quale avesse preso l' essere e il cominciamento della durata, considerandolo essi come un puro uomo che avesse poi meritata colle sue sante azioni la divinità. A' quali eretici si fecero seguaci Fotino e Paolo di Samosata. La seconda clausola: « « E il Verbo era appo Dio » », stabilendo la distinzione delle persone del Verbo e di Dio che lo pronunzia, ribatte l' errore di Sabellio, il quale ammetteva che Iddio, che aveva preso carne dalla Vergine, non avesse avuto da questa principio e fosse eterno, ma diceva che fosse lo stesso il Padre ed il Figliuolo, e che non era altra la persona del Padre, che ab eterno era, dalla persona del Figliuolo che s' era incarnato. La terza clausola: « « E il Verbo era Dio » », ribatte l' errore di Eunomio, il quale insegnava che il Figliuolo fosse al tutto dissimile dal Padre, quando invece, secondo l' Evangelista, egli era Dio come il Padre. Queste tre clausole onde incomincia S. Giovanni dimostrano l' altezza di questo Evangelista sopra gli altri che lo hanno preceduto. Perocchè, come S. Matteo «(cap. I) » narra l' umana generazione di Cristo, così S. Giovanni narra come il Verbo fosse già nel principio, cioè da tutta l' eternità; come S. Luca narra subito la manifestazione di Cristo ai Pastori ed ai Magi (cap. II), così S. Giovanni narra com' egli stèsse ab eterno appo Dio nascosto alle creature; come S. Marco lo descrive annunziante agli uomini l' Evangelio del Regno di Cristo, così S. Giovanni nella terza clausola annunzia che Cristo era Dio egli stesso. Colle tre comme precedenti S. Giovanni ebbe data la dottrina del Verbo eterno: qui comincia quella delle opere sue. Ma prima riepiloga la dottrina data del Verbo essente nel seno di Dio che lo pronuncia, per continuarsi a ragionare come esce alle opere sue ed alla sua manifestazione. Questo epilogo è da lui fatto dicendo: « « Questo (cioè il Verbo) era nel principio appo Dio » ». Così dichiara Origene questo versetto con l' approvazione dell' Angelico, di cui riferiremo qui le parole: « « Origene poi, molto bellamente esponendo questa medesima clausola, dice: non esser ella qualche cosa di nuovo diversa dalle tre prime, ma essere un cotale epilogo delle premesse. Poichè, dopo avere l' Evangelista insinuata la verità dell' esser del Figliuolo, dovendo passare ad insinuare la sua virtù, raccoglie sommariamente epilogando nella quarta clausola ciò che aveva già detto nelle tre prime. E innanzi tratto, dicendo questo, intende la terza clausola; dicendo era nel principio, raccoglie la prima; soggiungendo poi era appo Dio, raccoglie la seconda: onde così tu non intenda un altro Verbo esser quello che era nel principio, ed un altro quello che era Dio; ma questo stesso Verbo che era Dio, era nel principio appo Dio »(2) ». Laonde, oltre che questa clausola riepiloga le tre prime e rannoda il discorso con quello che deve venire appresso delle opere esteriori del Verbo, giova altresì a indicare l' identità del Verbo che era in principio, e che era appo Dio, e che era Dio. Il perchè S. Cirillo (3) trova appunto opportuno questo riepilogo che fa l' Evangelista delle cose dette intorno al Verbo a tagliare le vane sottigliezze degli Eunomiani, e di alcuni Ariani, i quali dicevano altro essere il Verbo che era in principio appresso Dio, ed altro quello pel quale furono create le cose. Perocchè, lasciate le sole prime tre clausole, si poteva fisicare mettendo in dubbio se si parlasse d' un Verbo solo o di più, e a quale di questi spettasse la creazione del mondo. S. Giovanni Crisostomo trova utile il riepilogo che fa l' Evangelista delle tre prime clausole nella quarta, perocchè con questa è tolto ogni dubbio che il Verbo, che era appo il Padre, fosse appo il Padre in principio, cioè ab eterno (1). Teofilatto osserva oltracciò che, dicendo che « « il Verbo era in principio appo Dio » », viene l' Evangelista a dimostrare la perpetua concordia e consenso di volontà fra il Verbo e Dio che lo pronuncia, dal quale non è mai diviso (2). Qui contrappone adunque l' Evangelista il Verbo, che era presso Dio fin dal principio, alle creature che furono fatte per esso, e quindi insegna, come osservò Leonzio, che il Verbo non è creatura, non è una delle cose che furono fatte, ma quello pel quale furono fatte tutte quelle che furono fatte (1). Queste ultime parole del versetto di S. Giovanni, « « e senz' esso nè pur una fu fatta di quelle che furono fatte » », tagliano affatto una delle solite vane sottilità degli Ariani, i quali dicevano che tutte le cose furono fatte pel Verbo, eccetto il Verbo stesso che fu fatto dal Padre. Poichè, se si ripone il Verbo fra le cose fatte, non sarebbe più vero quello che dice l' Evangelista che nè pur una delle cose fatte fu fatta senza il Verbo (1). Oltrediciò, se il Verbo era già in principio appresso il Padre, dunque non fu fatto, perocchè quello che è non ha bisogno di esser fatto. Queste medesime parole abbattono altresì l' errore di Origine che disse lo Spirito Santo essere stato fatto dal Verbo, pel quale furon fatte tutte le cose; errore che fu in appresso de' Macedoniani che professavano lo Spirito Santo essere una creatura, e che S. Giovanni Crisostomo e Teofilatto riconoscono posare sulla mala intelligenza di quelle parole: « omnia per ipsum facta sunt », separandole da quelle altre che le limitano, « et sine ipso factum est nihil quod factum est ». Onde S. Gregorio Nazianzeno dice che questi eretici dovevano prima provare che lo Spirito Santo fosse tra le cose fatte, il che non provano, e solo di poi avrebbero potuto inferirne che egli dovesse esser fatto nel Verbo. L' Evangelista, prima di passare alla creazione del mondo, dicendo che tutte le cose che furon fatte, furon fatte pel Verbo, volle ripetere che il Verbo era in principio appo Dio, quasi esordio alla dottrina della creazione, acciocchè dicendo poi: « « Tutte le cose furon fatte per esso » » non s' intendesse che furon fatte per esso quasi per un istrumento distaccato da Dio Padre creatore. L' essere il Verbo nel principio appo Dio Padre mostra la consustanzialità col Padre quindi mostra che egli doveva avere un' operazione creativa identica a quella del Padre. Con che son rase le cavillazioni degli Ariani e di altri eretici (1). Si dimanderà: Perchè adunque l' Evangelista preferì dire, che « tutte le cose furon fatte per esso », al dire esso fece tutte le cose? Quale è qui il proprio significato della parola per? In prima è da considerare che, se l' Evangelista avesse detto egli fece tutte le cose , avrebbe certamente parlato con proprietà, come parlò con tutta verità e proprietà il salmista dicendo: « Initio tu, Domine, terram fundasti et opera manuum tuarum sunt coeli (2) », che S. Paolo interpreta di Cristo (3); ma sarebbe parso che il solo Verbo avesse creato il mondo senza la compagnia del Padre: onde anche soggiunse « et sine ipso factum est nihil quod factum est », dove la parola sine , o extra com' altri interpretano, dimostra che non fu solo a creare, ma col Padre, « apud Deum », come hanno osservato i Padri (4). Vero è che la particella per, «dia», non sempre s' adopera a significare compagnia di cause, ma semplicemente causa, come in questo luogo dell' Apostolo dove parla del Padre: « Fidelis Deus per quem vocati estis in societatem filii ejus (1) ». E per ciò appunto, giusta l' esposizione di Sant' Ilario, l' Evangelista aggiunse, « et sine ipso factum est nihil quod factum est », a dichiarar meglio che il Verbo operava in compagnia del Padre, o, come anco aveva detto, « « appo il Padre » ». E tanto più riesce opportuna questa spiegazione che aggiunse l' Evangelista, inquantochè il « factum est », essendo in forma intransitiva, non indicava altra causa; laddove, qualora il per viene soggiunto ad un verbo costrutto attivamente, non lascia dubbio sull' indicare compagnia di causa, come in quel luogo dell' Apostolo « per quem fecit et saecula (2) ». Dove apparisce che Dio Padre fece i secoli pel Figliuolo. E quantunque tutto ciò dimostri l' opportunità di quell' aggiunta: « et sine ipso factum est nihil quod factum est »; contuttociò non è men vero quello che fu osservato da altri, essere consuetudine degli Ebrei, si può dire degli Orientali, quello che dicono in modo affermativo, dirlo di nuovo in modo negativo, come fa Isaia dove dice: « Omnia quae in domo mea sunt viderunt: non fuit res quam non ostenderim eis (3) »; e come fa pure Geremia dicendo: « Omne verbum, quodcumque responderit mihi, indicabo vobis, nec celabo vos quidquam (4) »; ma ciò non toglie che l' aggiunta in forma negativa, oltre il dare una maggior forza di asseveranza al discorso e recidere ogni cavillo sul significato di ciò che viene detto, non possa contenere qualche nuovo sentimento, non possa aggiungere di quei concetti accessorii ed obliqui che sempre si accompagnano al principale in ogni discorso e in ogni proposizione, spesso anche nelle singole parole. Onde l' osservazione di S. Ilario su questo luogo dell' Evangelista rimane egualmente solida. Dicevamo dunque che la parola per nel luogo di S. Giovanni: « omnia per ipsum facta sunt », ha valore di significare compagnia di causa, quasi venga a dire: « Tutte le cose sono state fatte dal Padre pel Verbo », ma questa compagnia di causa, indicata anche da Cristo in quelle parole: « « Pater usque modo operatur et ego operor »(5) », dee intendersi non già come nelle cose umane dove le cause diverse, i diversi operanti hanno diverse operazioni; ma dee intendersi in un modo tutto divino, per modo che una ed identica sia l' operazione del Padre e del Verbo, come una ed identica ne è la natura. Anche qui, rispetto alla particella per, è da richiamarsi l' imperfezione che ha il linguaggio umano, istituito a significare le cose create, insufficiente ad esprimere adeguatamente le increate e divine che non hanno esempio in quelle, onde conviene dare ai vocaboli, con cui si esprimono le divine, un valore novello. La particella per adunque fu istituita a significare o piuttosto indicare il mezzo ad un fine. Ora, posciachè il mezzo alla esecuzione d' un fine può variare di natura e di modo, quindi quella particella riceve più significati. Il primo mezzo, affinchè una cosa sia, è la causa efficiente della medesima, e questa talora si esprime con quella particella. Ma in tal caso, la causa efficiente essendo quella che opera, quella particella non si costruisce con un verbo attivo, perchè in un verbo così costruito l' operante è già espresso nel nominativo, e non c' è più bisogno di esprimersi colla particella per; ma il verbo si costruisce in un modo intransitivo nel quale non essendo espresso l' operante si soggiunge poi mediante la particella per, o da, o alcun' altra. In questo senso si può dire egualmente: « Iddio fece il mondo », ovvero « il mondo fu fatto da Dio o per Dio », cioè per mezzo di Dio causa efficiente del medesimo. In questo senso la particella per conviene egualmente a tutte tre le persone, potendosi dire: « il mondo fu fatto pel Verbo », egualmente che pel Padre, o per lo Spirito Santo. Nella maniera del pensare umano si distingue anche nelle cose create sovente la forma dalla materia di cui sono composte, e della forma si fa un elemento a parte astraendolo da' suppositi in cui si trova e considerandoli come causa immediata del medesimo supposito. Quindi il concetto tanto usato dagli antichi di causa formale . Acciocchè sia naturale un dato supposito nelle cose corporee è necessario che abbia la sua forma, quindi si considera questo come un mezzo alla sussistenza di lui, e anche questa maniera di causa astratta si esprime usando la particella per co' verbi intransitivi. Lo stesso convien dirsi della causa materiale che si divide colla mente dai suppositi che risultano da materia e da forma: e, quantunque la materia sia un loro elemento e non una loro causa, tuttavia si riguarda come un mezzo o condizione necessaria alla loro sussistenza. Si esprime quindi anche questa causa materiale mediante la parola per co' verbi intransitivi o passivi. Quindi si dice egualmente questa statua sussiste per la sua forma, ovvero sussiste per la sua materia. Ora in questi due ultimi significati la parola per non si può applicare ad esprimere la creazione fatta da Dio, perchè Iddio non è nè la forma, nè la materia dell' universo. Nelle cose create oltracciò vi ha una subordinazione di cause. Ora le cause seconde, fra le quali si annoverano le istrumentali, sono pure mezzi all' ottenimento dell' effetto o del fine. Ma, perciocchè queste suppongono la causa prima che è il principale agente, perciò non solo queste possono significarsi colla particella per col verbo intransitivo o passivo, ma ben anco col verbo attivo; nel qual caso il nominativo che regge la costruzione esprime la causa principale, e la parola per esprime la causa subordinata ed istrumentale . Così si dice che « il falegname opera per l' ascia o per la pialla, lo scultore per lo scalpello, ecc. ». E se si vuol costruire passivamente, in tal caso l' agente principale si mette nel genitivo che esprime la causa della causa, come a ragion d' esempio: « Questo scanno fu fatto per l' ascia e la sega del falegname; questa statua fu scolpita per lo scalpello del tale autore », di maniera che le due cause subordinate nell' uno e nell' altro modo vengono egualmente espresse. Non si può dare in alcun modo questo valore alla particella per nel luogo di S. Giovanni ove dice del Verbo « « tutte le cose furon fatte per esso » », perchè il Verbo non è una causa subordinata al Padre, ma ad esso uguale; e perchè le cause subordinate hanno diversa natura e diversa operazione, laddove il Verbo ha con Dio che lo pronuncia una sola natura ed una sola operazione, benchè sieno due persone, dicendo S. Giovanni che il Verbo, pel quale sono state fatte tutte le cose, è « « appo Dio » », cioè consustanziale al Padre, come vedemmo. Nelle cose create ancora si distingue il subbietto sostanziale dalle sue potenze e virtù, e queste si considerano come mezzi alle sue operazioni e agli effetti ch' egli produce: onde si dice, a ragion d' es., che « per la mente l' uomo pensa », ovvero che « per la mente o per la scienza sua l' uomo compone un libro ». Ma in Dio non v' ha distinzione alcuna reale fra le potenze e virtù e l' essenza, non essendovi che la semplicissima essenza che è Dio, e che opera tuttociò che fa Iddio. Onde non può dirsi in questo senso « che Iddio fa tutto pel suo Verbo », intendendo che il Verbo sia una parte, o una potenza, o una virtù speciale di Dio; quand' anzi egli è Dio stesso, tutto quant' è nella divina essenza, la quale opera. Il dire poi che Iddio opera per la sua propria essenza non è un parlare molto proprio, sembrando dal costrutto che Iddio operante sia qualche cosa di diverso dalla sua essenza, ma non contiene errore quando si intenda dire con quella maniera che Iddio « opera per se stesso ». E quando si dice che Dio opera per la sua sapienza o per la sua virtù, devesi intendere egualmente che Dio opera per la sua essenza, ossia per se stesso, perchè la sapienza e la virtù di Dio è la stessa sua essenza, senza alcuna reale distinzione. Tuttavia se si considerano i vestigi della sapienza e della virtù di Dio nelle sue opere esteriori, cioè nelle cose finite da lui create, vedesi che, appunto perchè queste sono finite, non possono aver esaurita la sua sapienza e la sua virtù. Quindi l' uomo argomenta col suo pensare imperfetto e al tutto inadeguato, che Iddio nel produrre dal nulla il mondo abbia adoperato una parte della sua sapienza e della sua virtù, e distingue questa parte della sapienza e della virtù creatrice dalla totale sapienza e virtù di Dio; mediante la qual distinzione crede di parlare esattamente dicendo che Iddio creò il mondo per la sua sapienza e per la sua virtù, distinguendo questa sapienza e virtù parziale e quantitativa dalla totale ed infinita sapienza e virtù di Dio che è la sua essenza. Ma questo è un pensare imperfetto, come dicevo, è un parlare inesatto; è un pensare che dimostra la limitazione della mente umana. Perocchè la distinzione che questa mente pone fra quella parte di sapienza e di virtù divina che il Creatore adoperò nella fabbrica mondiale dalla sua essenziale sapienza e virtù, non ha luogo se non relativamente al pensare dell' uomo, nè è una parte di questa che è indivisibile, ma è tutta questa. Onde più esattamente si deve dire che Iddio creando il mondo adoperò tutta la sua sapienza e virtù, ma non totalmente, appunto perchè le creature essendo finite non ammettevano in sè la comunicazione totale di essa. Altro è dunque la sapienza e virtù adoperata nell' azione di Dio creante, e questa è l' essenza di Dio semplice ed indivisibile, altra è la sapienza comunicata alle creature, e questa è una sapienza sotto diversi aspetti, limitata, distinta dall' essenza divina soltanto relativamente alle creature che la concepiscono e la considerano astrattamente, ma tale però che in Dio si rifonde nella stessa sapienza divina; nella quale, quello che è per noi raggio, trovasi esser sole infinito senza potersi in questo sole distinguere realmente il raggio da esso medesimo sole o luce illimitata. Ma la sapienza essenziale di Dio non è il Verbo divino; ella è un attributo che conviene egualmente a tutte e tre le divine persone, le quali hanno una stessa ed identica natura ed essenza. Laonde quando, dicendosi « che Iddio creò il mondo pel suo Verbo », s' intende dire che creò il mondo per la sua sapienza essenziale, allora non si parla in senso proprio, ma in senso, come dicono i teologi, appropriato, in quanto che la sapienza si suole attribuire al Verbo, perchè il Verbo procede per via d' intelletto e quindi vi ha una cotale affinità tra la sapienza ed il Verbo. Onde S. Tommaso così s' esprime: « « Dicimus Christum Dei virtutem et Dei sapientiam: ideo appropriate dicimus quod Pater omnia operatur per Filium, id est per sapientiam suam. Et ideo dicit Augustinus quod hoc quod dicitur: « Ex quo omnia »appropriatur Patri, « per quem omnia »Filio, « in quo omnia »Spiritui Sancto (1) ». Ma vi ha un significato di queste parole: « « Tutte le cose sono fatte per esso » » che non è appropriato, ma proprio: e questo dobbiamo ora noi cercare. Noi abbiamo detto che il Verbo divino è la sussistenza dell' essere nota per se stesso: esso è oggetto, ma non oggetto ideale come sono le essenze delle cose finite, ma oggetto sussistente, e quindi ancora oggetto che è ad un tempo soggetto ossia persona nella sua stessa oggettività in quanto si sente e vive come oggetto e oggetto vivente. Quindi sotto due aspetti noi possiamo considerarlo: 1 come oggetto per essenza, che è quanto dire come luce; 2 e come sussistenza personale. Questi due aspetti non si debbono prendere così, quasi che vogliamo porre una distinzione reale nel Verbo, la quale non vi è, ma unicamente come due riguardi della mente nostra, fondati in una doppia relazione che hanno le creature con esso lui. Perocchè nelle creature si distingue l' oggetto, che è l' essenza, dalla sussistenza che è la realità delle medesime. In quanto dunque viene dal Verbo l' essenza delle cose, in tanto si considera il Verbo come oggetto o luce primitiva; in quanto poi viene dal Verbo come da causa la sussistenza delle cose, in tanto lo si considera come sussistenza operativa e producente. Se dunque si considera il Verbo come sussistenza e quindi anco come virtù creatrice, egli ha la stessa sussistenza di numero e quindi l' identica virtù creatrice del Padre che gliela comunica. Avendo dunque l' essere dal Padre, e di conseguenza avendo dal Padre l' esser causa delle cose, si può dire ch' egli è costituito causa delle cose pel Padre, cioè per cagione del Padre che gli dà tutto l' essere medesimo di esso Padre. Ma se il Verbo si considera come oggetto, cioè come l' essere luce, l' essere per sè noto, in tale aspetto dicesi con tutta proprietà che il Padre fa tutte le cose pel suo Verbo, come insegnano i dottori Agostino e Tommaso, il quale ultimo dice: « « Ora se si considerano rettamente le predette parole, Omnia per ipsum facta sunt, appare ad evidenza che l' Evangelista ha parlato in un modo al sommo proprio ( propriissime fuisse locutum ). Poichè chi fa qualche cosa, egli è uopo che prima la concepisca nella sua sapienza, che è la forma e la ragione della cosa da farsi, come la forma preconcepita nella mente dell' artefice è la ragione dell' arca che sta per fare. Così adunque Iddio non fa nulla se non pel concetto del suo intelletto, che è il Verbo di Dio e il Figlio di Dio; e perciò egli è impossibile che faccia qualche cosa eccetto che pel Figlio. Onde S. Agostino (1) dice che il Verbo è l' arte piena di tutte le ragioni viventi, e così apparisce che tutte le cose che il Padre fa le fa per esso »(2) ». Sotto questo particolare aspetto di essere il Verbo l' oggetto per sè, lo considerarono quelli autori i quali trassero la ragione del perchè egli si chiami «logos», dall' essere egli la notizia del Padre, o dal contenere la definizione, la ragione, il concetto, l' essenza ideale di tutte le cose, «to eautu logo», cioè, definitione sua omnia complecti, come fra gli altri si esprime Vittorino ne' libri contro Ario. E questo è il solo aspetto sotto cui seppero considerarlo in qualche modo i Platonici, fra' quali Filone, che di conseguente lo fa minore del Padre e lo chiama sempre «logos», non mai «uios». Perocchè questi filosofi ignorarono sempre la personalità del Verbo. I due aspetti, sotto cui noi diciamo doversi il Verbo considerare, rendono appunto ragione della doppia appellazione che gli viene applicata nelle Scritture, cioè di «logos» ragione, e «uios» figliuolo: giacchè quella esprime l' oggettività, questa la personalità del Verbo, e questa doppia appellazione è di conseguente una prova della verità di ciò che diciamo. Così si conciliano le diverse opinioni dei Padri, alcuni de' quali, come S. Cirillo (3) ed Eusebio (4), dicono il Verbo essere stato conosciuto da' Platonici, laddove altri lo negano, come S. Girolamo che scrive del Verbo appunto: « Hoc doctus Plato nescivit, hoc Demosthenes eloquens ignoravit (5) ». I platonici l' hanno in qualche modo conosciuto come oggetto , l' hanno ignorato come persona; hanno conosciuto che non si poteva spiegare la cognizione senza supporre che vi avesse un primo oggetto, un noto per se stesso, una luce in cui tutte le cose si vedessero; ma hanno ignorato che questo primo oggetto, termine d' ogni conoscimento, avesse un' esistenza personale, e perciò fosse Dio. Il che non si può dire un conoscere il Verbo, semplicemente parlando, e però la sentenza di S. Girolamo: « Hoc doctus Plato nescivit, hoc Demosthenes eloquens ignoravit », è assolutamente vera. Tanto più che il Verbo platonico, l' oggetto essenziale da loro ammesso, era un esemplare del mondo, ma non giunsero neppure a conoscerlo come Iddio per sè cognito: dalla qual parte altresì difetta la dottrina platonica. All' incontro S. Paolo espresse magnificamente i due aspetti in cui conviene riguardarsi il Verbo in quelle parole: « cum sit splendor gloriae et figura substantiae ejus (1) », nelle quali il splendor gloriae si riferisce alla proprietà di oggetto, e il figura substantiae alla sussistenza personale. E dice splendor gloriae , perchè Iddio è tutto glorioso e magnifico a se stesso ed a quelli che lo conoscono, onde basta che sia conosciuto per esser glorificato (quando la libera volontà non si opponga negandogli questa gloria che nel suo concetto risplende), e quindi Gesù Cristo disse: « Haec est vita aeterna ut cognoscant te solum Deum verum, et quem misisti Jesum Christum (2) », nè altro volle Gesù Cristo se non far conoscere il Padre, perchè conoscerlo veramente è un glorificarlo. Dice poi « figura substantiae ejus », invece di dire semplicemente substantia ejus, perchè la sostanza, o come dice il greco «ypostasis» sussistenza, è comune a tutte e tre le persone, ma nel Verbo è la sostanza nella figura, la sussistenza personale nell' oggetto, il che è proprio del Verbo, perocchè la parola figura, in greco carattere, [...OMISSIS...] , esprime la conoscibilità della cosa, ciò che fa conoscere la cosa. Laonde, quantunque lo splendore della gloria si riferisca più alla proprietà di essere oggetto , e il carattere della sussistenza divina si riferisca più alla proprietà di essere una sussistente persona; tuttavia l' espressione dell' Apostolo mantiene queste due cose indivise, indivise essendo nel Verbo, e solo così indivise danno la vera notizia del Verbo stesso. Nè manca alcunchè all' espressione dell' Apostolo, quantunque non vi si esprima che il Verbo è anche l' esemplare del mondo, perchè questo è già contenuto nella sua proprietà primordiale di essere la sussistenza divina in forma di oggetto. Nè l' espressione « figura substantiae ejus » è da credersi che escluda la sostanza, quasichè altro sia la figura ed altra la sostanza. Perocchè è da riflettersi: 1 Che della sostanza divina non v' ha rappresentazione adeguata fuori di lei; 2 Che, anche in generale parlando, le sostanze non hanno figura o tipo diverso da se stesse, qualora per sostanza s' intenda la sussistenza che è ciò che v' ha di proprio nelle cose reali, onde conviene che se la prima sostanza ha figura, cioè espressione, conoscibilità, questa sia ella medesima, non entrando la sussistenza in alcuna idea che sia pura idea; 3 Che finalmente l' espressione greca che dice il « carattere della sussistenza » toglie ogni equivoco, perocchè il carattere di una cosa è nella cosa stessa, ed alla cosa appartiene, onde il carattere pure della sussistenza divina è nella sussistenza divina, e a questa appartiene. E poichè la sussistenza divina è semplicissima ed è tutto Dio, perciò il suo carattere non può esser altro che lei stessa, in quanto essa è per sè intelligibile, per sè intesa. Non basta adunque a dichiarare come il Padre operi la creazione del mondo pel Verbo il considerar questo come oggetto ed esemplare. Perocchè, quantunque sia vero che l' artefice, per esempio lo scultore, faccia la statua pel concetto che ne ha nella mente, tuttavia non si può già dire che il concetto stesso sia artefice e facitore della statua; conciossiachè il concetto è una semplice regola secondo la quale opera lo scultore, è puramente un' idea, è oggetto, ma non soggetto o persona sussistente ed operante egli stesso. All' incontro il Verbo, oltre essere per sè oggetto, e quindi contenere anche l' idea del mondo, oltre essere idea dell' essere assoluto, è anche sussistenza, soggetto persona operante, perchè ha la stessa natura del Padre. Se dunque si considera che il Verbo è la sussistenza divina per sè conosciuta, e conosciuta pienamente, perciò conosciuta in sè e in tutti i modi nei quali può essere imitata dall' essere finito, perchè l' essere racchiude questo nel suo concetto di poter sussistere in un modo assoluto ed infinito e in un modo relativo e finito, allora s' intende che il Padre opera tutto quello che opera al di fuori pel Verbo, non solo perchè in questo vede le essenze delle cose finite, ma ben anco perchè queste essenze hanno virtù di essere realizzate come quelle che esistono nella sussistenza divina, senza distinzione da questa, purchè solo si aggiunga la volontà della stessa sussistenza comune alle tre persone augustissime. Ed essendo l' essere per sè amabile, anche in quanto sussiste limitatamente, per l' analogia che ha coll' essere sussistente illimitatamente, perciò questa volontà non può mancare per tutto l' essere limitato possibile, possibile dico non fisicamente, ma logicamente e moralmente. E dicevamo che l' essere conosciuto in modo limitato ha bisogno della volontà divina per essere realizzato a cagione che egli non è necessario ma contingente, cioè egli non ha la ragione della sua realizzazione nel proprio concetto, ossia nella propria essenza. Di che la ragione del suo realizzamento non può trovarsi che nella libera volontà del Creatore. Il Padre dunque crea l' essere finito, cioè il fa sussistere amandolo, che è quanto dire volendolo (1), e non lo ama se non dove lo conosce, e lo conosce dove è conoscibile cioè nel Verbo, e perciò lo crea pel Verbo. Ma perocchè il Verbo è la stessa sussistenza divina per sè nota e che ha in sè le cose finite per sè note, perciò questa sussistenza del pari ama in sè, e vuole le cose collo stesso amore e volontà del Padre. E poichè lo Spirito Santo ha del pari la stessa identica sussistenza, in quanto è per sè amata (ed è per sè amata in quanto è per sè nota), quindi anche lo Spirito Santo crea colla stessa volontà creante delle due prime persone. Ma perchè si dice piuttosto, che il Padre crea pel suo Verbo, anzichè crea per lo Spirito Santo? Per una ragione analoga a quella per la quale si dice che lo statuario fa la statua pel suo concetto e non pel suo amore. In fatti l' amore muove lo statuario a fare la statua, ma il mezzo col quale la fa è il concetto della sua mente, che dirige le sue mani nel martellare il sasso e trarne l' opera da lui concepita. In un modo analogo, come dicevo, il Padre, mosso certamente dall' amore essenziale, vede nel suo concetto, cioè nel suo Verbo, l' essere finito e vedendolo lo crea. Ma questo concetto del Padre non è, come quello dello statuario, una pura idea, senza realità corrispondente, ma è un concetto sussistente della sussistenza divina identica a quella del Padre; onde la sussistenza divina creante crea le cose guardandole nell' oggetto, ossia nel Verbo, che è la stessa sussistenza nella forma oggettiva. Onde si può dire che la stessa sussistenza divina comune a tutte e tre le divine persone sia quella che crea pel Verbo, che è ella stessa per sè nota. Una qualche analogia di questo fatto della creazione, l' uomo lo ha nella sua immaginazione intellettiva. Quando immagina un oggetto corporeo, questo oggetto esiste solo relativamente all' uomo che lo immagina. Supponiamo ora che quest' oggetto sussistesse anche relativamente a se stesso: in tal caso quest' oggetto sarebbe creato. Ora tale è la potenza della volontà divina, che, quand' ella vuole che sussista un ente finito e relativo, lo immagina, dirò così, sussistente, e questa divina immaginazione fa sì che l' oggetto esista non solo relativamente a Dio che lo immagina, ma ben anco relativamente a se stesso e ad altri esseri, e così sia creato. In fatto, se l' immaginazione, per usare questo termine analogo, non può rappresentare un oggetto che a se stessa, ella è imperfetta; non fa pienamente ciò che vorrebbe fare, perchè l' oggetto reale, acciocchè sia veramente tale, dee sussistere a se stesso e agli altri enti a cui ha per sua natura rapporto. Ma in Dio non può esservi imperfezione, e ciò che vuole immaginare dee per conseguente essere pienamente vero, dee essere l' oggetto che vuole immaginare. Ma non sarebbe la verità, l' oggetto non sarebbe vero oggetto reale e sussistente, se non sussistesse a se stesso e agli altri enti a' quali per sua essenza è legato. Dunque Iddio conviene che abbia questa potenza d' immaginazione, che quando si rappresenta un oggetto, questo veramente sussista a se stesso e agli altri; e questo è creare. Creare dunque è far sì che un oggetto veduto nella sua essenza ed immaginato (l' immaginazione intellettiva è quella potenza che si sforza di vedere un' essenza nella sua realizzazione) esista come soggetto (o come esistente nei soggetti che lo possono percepire), esista relativamente a sè (o a quei soggetti personali che lo possono percepire), perocchè senza di questo l' oggetto non sarebbe realizzato, e quindi l' immaginazione errerebbe, difetterebbe nel rappresentarselo tale; nè in Dio può esistere errore, essendo essenzialmente verità e realità, nè può cadere difetto di potenza e di operazione. Dunque, volendo egli rappresentarsi un oggetto come realizzato, quest' oggetto dee esistere come soggetto e persona, o se non è intellettivo dee esistere relativamente alle persone che, secondo la propria natura, hanno virtù di percepirlo, ovvero sia di sentirne l' efficacia sostanziale, il che è appunto creare. Supponendo adunque che in Dio vi abbia una perfetta facoltà di immaginare le cose, ossia di rappresentarsele realizzate, egli è giuoco forza ammettere in lui la facoltà o potenza di creare. Ma la realità d' un ente non si vede che nell' essenza, che è l' oggettività della cosa, e l' essenza è contenuta nel Verbo che è l' essere come oggetto: dunque la creazione si doveva fare pel Verbo e nel Verbo (1). E quindi S. Paolo chiama Cristo « Dei virtutem et Dei sapientiam (2) ». Nelle quali due parole sono indicate le due proprietà da noi distinte nel Verbo divino. Poichè in quanto egli è sussistenza, lo chiama Dei virtutem, in quanto egli è oggetto, lo chiama Dei sapientiam . Dove è da notarsi che la parola sapienza riceve due significati, come pure la parola scienza . Perocchè que' vocaboli si prendono talora in un senso soggettivo, indicandosi l' abito della scienza e della sapienza, il possesso soggettivo della notizia; e talora si prendono in un senso oggettivo per l' oggetto stesso della scienza, per la notizia posseduta. Ora se si prende la sapienza in un senso soggettivo, ella è comune a tutte e tre le persone e s' attribuisce al Verbo soltanto in un senso appropriato . Ma se ella si prende in un senso oggettivo, ella è propria del Verbo, o piuttosto è il Verbo stesso, e in questo proprio significato il Verbo è chiamato nelle divine scritture la Sapienza. Simigliantemente la virtù o potenza divina presa in senso soggettivo è comune a tutte e tre le divine persone. Ma, se si considera che la potenza divina, colla quale Iddio crea, è la facoltà divina di rappresentarsi l' essenza delle cose finite realizzata, la quale essenza è nel Verbo; anche essa facoltà, come soggettiva che è, è ancora comune alle tre persone divine, ma poichè l' essenza, e in questa la sua realizzazione, giace nel Verbo, si dice che il Verbo è la virtù di Dio, perchè in esso e per esso Iddio crea, ossia vede le cose sussistere. Convien rammentarsi, ciò che abbiamo osservato, la parola ebraica verbo, parola , [...OMISSIS...] usarsi dagli Ebrei a significare la realità, che anche chiamano la verità delle cose. Quindi ogni parola di Dio, ogni suo verbo dee essere pienamente vero, e però la cosa da Dio pronunciata dee essere reale, quando la pronuncia come reale, altramente non sarebbe vera. Indi è che quando Iddio pronuncia la propria sussistenza, pronuncia un oggetto reale; per questo pronunciamento la sussistenza divina è divenuta oggetto, e quest' oggetto non sarebbe appieno vero se non fosse soggetto reale anzi persona. Egli dunque pronuncia il suo Verbo, il quale è la stessa sussistenza divina divenuta oggetto (se così lice esprimersi) pel pronunciamento di Dio che in quanto pronuncia si chiama Padre. Non è dunque questo un pronunciamento sterile come quello dell' uomo, il quale afferma le cose che sono quando le percepisce; ma non può farne di nuove, e, se pronuncia come sussistente cosa che non è, pronuncia il falso, perchè pronunciandola, la cosa non si fa sussistere. Il che insegna S. Agostino con quelle parole: « Proinde, tanquam se ipsum dicens, Pater genuit Verbum sibi aequale per omnia » (anche nell' essere una persona). « Non enim se ipsum integre, perfecteque dixisset, si aliquid minus, aut amplius esset in ejus Verbo quam in se ipso (1) ». Ed indi il S. Dottore passa ad esporre la differenza fra il verbo umano e deficiente, e il divino perfetto e compiuto. La ragione di questa differenza fra il pronunciare dell' uomo e il pronunciare di Dio, fra il verbo dell' uomo e il Verbo di Dio, consiste in questo, che l' uomo è una partecipazione limitata di essere relativo, che colla sua azione non può uscire dai limiti e dalla relatività dell' essere; all' incontro Iddio è l' essere per se stesso, assoluto, infinito, onde l' azione sua termina sempre all' essere, non è limitato all' essere relativo o ad una porzione di essere, perchè ha tutto l' essere in se stesso; e però qualunque essere pronunci, qualunque porzione di essere, la trova in se stesso, senza uscire da sè, la rende sussistente, perchè non può mancargli l' essere che pronuncia avendo tutto l' essere in tutti i suoi possibili modi, alcuni de' quali possono mancare solamente se egli non gli pronuncia; come accade degli esseri relativi non pronunciati, non creati da Dio, i quali però tutti giacciono indistinti e senza l' individualità che gli fa essere a se stessi (il che è un essere fuori di Dio) nell' abisso dell' essere stesso. Se noi consideriamo che l' essere divino è vivente e d' ogni parte infinito, noi agevolmente intenderemo che se gli potesse mancare una cosa sola di quelle che ama, egli cesserebbe d' esser tale, avrebbe una limitazione. Or l' essere ama l' essere, e però l' essere amato non può mancare. L' Essere ama se stesso, e però vuole se stesso: ma non potrebbe amarsi se non fosse a sè cognito, ama dunque se stesso cognito. Se stesso cognito ha un' anteriorità logica a se stesso amato: quindi il Verbo ha un' anteriorità di origine (non già di tempo o di natura) allo Spirito Santo. L' essere divino è per sè cognito perchè è per sè pronunciato ossia generato come oggetto per sè cognito, e come tale soggetto, persona. Ma nell' essere divino per sè cognito, cioè nel Verbo, sono cogniti anche tutte le limitazioni possibili dell' essere, tutti i modi limitati di essere, compresi nel concetto di essere. Ora, posciachè l' essere cognito è per sè amato, quindi sono per sè amati anche tutti i possibili enti finiti. Ma poichè la loro sussistenza, come limitata che è, si esclude reciprocamente; quindi, sebbene ciascuno si possa realizzare, tuttavia non tutti insieme. L' ordine dell' essere è anch' esso essere, perocchè quest' ordine appartiene all' essenza dell' essere nella sua forma ideale (1); il bene morale dell' essere è anch' esso essere appartenente alla sua essenza nella forma morale. Dato dunque che Iddio ami e voglia l' essere finito, consegue che egli lo voglia nella sua maggior quantità. Ma questa esige che si calcoli anche l' ordine, cioè la connessione dell' essere finito, e il bene suo morale ed eudemonologico, che è la forma perfettiva dell' essere, alla quale è ordinato l' essere fisico, e l' ordine o la connessione di lui. Dato dunque che Iddio amando tutto l' essere, ami l' essere finito, egli non poteva moralmente parlando volere se non la maggior somma di bene eudemonologico7morale nella minima quantità di essere finito fisico, connesso fra sè nel miglior modo per l' ottenimento di tale scopo, e questo è il mondo creato. Amando dunque Iddio l' essere finito così concepito ed ordinato, che nell' essere per sè noto è per sè noto anch' egli; non poteva essere che per ciò stesso non avesse il suo realizzamento. Così la facoltà di creare l' essere finito si prova necessaria alla perfezione dell' essere infinito, perchè senz' esso non sarebbe d' ogni parte infinito, perchè amerebbe una cosa che gli mancherebbe. Quest' atto di volontà creatrice corrisponde agli atti della ragione pratica, i quali consistono nell' adesione della propria energia all' ente conosciuto. E` un atto dunque di ragione, ma non di una ragione semplicemente speculativa, ma di una ragione piena alla quale il soggetto unisce e quasi porta se stesso nell' oggetto conosciuto per realizzarlo. E` un atto completo d' intendimento dove la volontà è identificata coll' intelletto, mentre l' atto della ragione speculativa è un atto iniziale, ricevente anzichè dante, che termina nell' ideale anzichè nel reale. Iddio adunque crea con un atto d' intendimento perfetto e pratico, ossia operativo, che ha in sè quello che corrisponde nell' uomo alla volontà. Crea insomma colla sua parola, col suo Verbo. Ma una delle differenze massime fra la generazione del Verbo e la creazione si è questa, che genera il Verbo e poi lo ama, non già che vi sia un prima e un poi di tempo nella divinità, ma solo un ordine logico di relazioni. Poichè essendo il Verbo l' essere per sè noto, quindi posto dal Padre per sè oggetto, l' essere non può essere amato prima d' essere oggetto conosciuto. E però quantunque sia vero quello che dicono alcuni teologi che il Padre genera il Verbo liberamente, cioè senza essere a ciò mosso o costretto da cosa alcuna straniera, tuttavia non lo genera volontariamente, ma necessariamente, perchè tale è la natura divina, senza aver precedentemente un fine che il muova all' atto della generazione. All' incontro nel Verbo generato, e quindi sussistente come persona, Iddio vede l' essenza dell' essere finito, ed amandola e volendola lo pronunzia sussistente, e così lo crea guardando nel Verbo. Onde le creature si producono da Dio con un atto posteriore d' origine alla generazione ed alla spirazione per cui è lo Spirito Santo, e posteriore all' amor divino, quindi per un atto di libera volontà . Iddio dunque crea le cose pronunciandole nel suo Verbo dove le conosce, e quest' atto onde pronuncia le cose non è di tempo posteriore al Verbo, perchè in Dio non vi è tempo, ma tutto si fa ivi nell' eternità dell' essere divino, e tutto è fatto. Laonde è vero ciò che dice S. Anselmo, che con uno stesso pronunciamento Iddio dice se stesso e le cose esteriori. Ma conviene però intendersi, che rispetto all' origine il pronunciamento delle cose esteriori è posteriore logicamente alla costituzione, se così lice esprimersi, delle tre persone, e che questo pronunciamento è fatto dalla natura divina comune a tutte e tre le persone, non dal solo Padre, benchè l' oggetto di questo pronunciamento sia nel Verbo, in cui le cose sono per sè note, e quindi nel Verbo e pel Verbo sono fatte. Il Verbo dunque crea perchè ha la natura divina, è Dio; la natura divina sussistente in tre persone crea pel Verbo, perocchè crea per l' essere conosciuto, giacchè non potrebbe creare se non avesse presente l' oggetto, l' essenza che dee creare; crea nel Verbo giacchè pronunciando ciò che è per essenza in quest' oggetto, che è il Verbo, le cose acquistano realità, sussistenza relativa a se stesse. Quindi nelle divine scritture è frequente il dirsi che le cose sono state fatte non solo pel Verbo ma ben anco nel Verbo. San Paolo lo chiama primogenito di ogni creatura, « quoniam in ipso condita sunt universa in coelis et in terra, visibilia et invisibilia (1) ». E lo chiama primogenito, non perchè le creature sieno anch' esse generate in senso proprio della parola, ma per la povertà della lingua greca che dice egualmente generato e fatto, onde anche il primo libro del Pentateuco, in cui si narra la creazione del mondo, si intitola in greco: « Della generazione », [...OMISSIS...] . Un' altra ragione può addursi della denominazione di primogenito data a Gesù Cristo da S. Paolo, ed è che la generazione, o si considera nel suo principio, o nel suo termine. La generazione divina nel suo principio, cioè nell' operazione stessa, è, come abbiamo veduto, un pronunciamento; ora, rispetto al principio, con un pronunciamento di Dio come intelligenza, fu egualmente generato il Verbo, e furono creati gli enti finiti. Onde la generazione e la creazione sono simili nel loro principio, cioè nel modo onde avvennero. Rispetto poi al termine, la generazione importa che il generato riceva la stessa natura del generante, onde si chiama Figliuolo, ed è in questo che si distingue il generare, che è un comunicare la propria natura, dal creare che è produrre dal nulla cosa d' altra natura. Una terza ragione ancora si può aggiungere se le parole di S. Paolo s' intendono di Cristo, cioè non del solo Verbo ma del Verbo incarnato, dell' umanità assunta dal Verbo. In questo senso Cristo è il primogenito nell' ordine non delle cose naturali, ma delle soprannaturali, perchè è il fine dell' universo, e il fine è il primo nella mente dell' operante, perchè è il primo dei predestinati, e il principio della predestinazione, e perchè anche gli altri uomini sono generati soprannaturalmente da Dio, venendo adottati in figliuoli, perchè loro si comunica Cristo e vive in essi Cristo e il suo spirito. Nel Verbo divino adunque sono radicate e fondate universa in coelis et in terra, perchè nel Verbo come in oggetto sussistente termina l' atto interno della creazione, pel qual atto le cose esistono anche come soggetto e persona relativa a se stessa, o come ciò che cade in tale persona relativa la quale costituisce l' esistenza esterna e loro propria delle creature. E così anche S. Paolo disse che « omnia per ipsum et in ipso creata sunt, et ipse est ante omnes, et omnia in ipso constant (1) ». E anche dice di Cristo medesimo: « portansque omnia verbo virtutis suae (2) », appunto perchè, essendo in lui create e radicate le cose, conseguentemente le porta, cioè le conserva nell' essere loro; ed aggiunge che le porta colla parola della sua virtù, per indicare che anch' egli il Verbo è creatore, e non è solamente quello nel quale le cose sono fatte, ma quello altresì che le fa unitamente al Padre ed allo Spirito Santo. Laonde, essendo le cose create nel Verbo, si avvera appieno quello che in altra circostanza dice S. Paolo di Dio, che « in ipso vivimus, et movemur et sumus (3) », nel qual luogo si dice che noi stessi viviamo, noi stessi ci moviamo, noi stessi siamo, con che viene indicata l' esistenza a noi relativa e dirò così esterna, ma nello stesso tempo dice che viviamo, ci moviamo e siamo in Dio, perchè nel Verbo siamo creati, benchè di questa connessione nostra col Verbo noi non siamo consapevoli e però non formi parte dell' esistenza nostra propria finita. Noi siamo dunque relativamente a noi stessi ed alla nostra consapevolezza fuori del Verbo, relativamente poi a Dio ed alla sua azione creante nel Verbo. E poichè noi esprime una relazione soggettiva a noi stessi, assolutamente parlando è vero che noi siamo fuori del Verbo; ma se il noi esprimente il soggetto nostro si prende oggettivamente, in tal caso è vero che noi soggetto, come oggetto reale, siamo nel Verbo. Noi dunque in senso composto siamo fuori del Verbo, in senso diviso siamo nel Verbo. E quindi in questo senso il Verbo è quella materia invisa da cui dice il libro della Sapienza che furono create le cose tutte dell' universo: [...OMISSIS...] ; in questo senso il Verbo è quello in cui sono contenute quelle cose invisibili, da cui, secondo S. Paolo gran dottore anche nell' Ebraismo, furono cavate le visibili: [...OMISSIS...] . Nel Verbo adunque, che è l' oggetto sussistente, furono fatte le cose come oggetti sussistenti, non solo ideali. Ma perciocchè queste cose relativamente a sè hanno una soggettività, perciò nella loro esistenza propria, che è quella di esistere come soggetti, o nei soggetti, esse stanno fuori del Verbo, e non sono il Verbo, e non si mescolano punto col Verbo, il quale è assolutamente. Onde S. Giovanni nell' Apocalisse, per indicare questa doppia esistenza delle cose contingenti, adopera due parole: una erant, la quale si riferisce alla loro sussistenza nel Verbo, dove Dio vedendole e volendole le fece essere; l' altra creata sunt, la quale si riferisce alla sussisistenza loro propria e soggettiva fuori al tutto del Verbo (3). Che la creazione dell' Universo sia stata fatta nel Verbo è una verità che fu annunziata in un modo iniziale e negativo fino al cominciamento della rivelazione. Il Verbo, secondo l' interpretazione di molti Padri, fu annunciato come principio delle cose già nelle prime parole del Genesi: « « Nel principio creò Iddio il cielo e la terra » ». E veramente Gesù Cristo disse espressamente d' esser egli il principio, giacchè domandandogli gli Ebrei: « « Tu chi sei? » », egli rispose: « « Il principio che anco parlo a voi »(1) ». Il che è ripetuto da S. Giovanni nell' Apocalisse dove chiama Gesù Cristo: « testis fidelis et verus qui est principium creaturae Dei (2) » nel qual luogo il testis fidelis et verus si riferisce più al Verbo come oggetto, cioè come quello che fa conoscere, e il principium creaturae Dei, più al Verbo come sussistente ed efficace operatore. Se non che le due proprietà non sono divise ma unite, giacchè dicendosi testis fidelis et verus non si rappresenta il Verbo solamente come oggetto per sè noto, e lume in astratto, ma come oggetto personale ed illuminatore, con che viene indicato l' esser egli oggetto persona, e dicendosi principium creaturae Dei non si esprime solo un' attività operante, perciocchè il Verbo è principio delle creature tanto come oggetto, quanto come sussistenza, onde quell' appellazione esprime una sussistenza7oggetto. La sentenza del Genesi consuona con quella del Salmo: « Tu in principio Domine, terram fundasti (3) », e da Origene è commentata in questo modo: « Quod est omnium principium, nisi Dominus noster et Salvator omnium Christus Jesus primogenitus omnis creaturae? In hoc ergo principio suo, hoc est in Verbo suo, Deus coelum et terram fecit (4) ». S. Basilio pure interpreta allo stesso modo la parola del Genesi, e chiama il Verbo « artifex (5) ». Medesimamente S. Ambrogio: « In hoc ergo principio, id est in Christo, fecit Deus coelum et terram (6) ». A cui consente S. Agostino: « In hoc principio, Deus, fecisti coelum et terram, in Verbo tuo, in Filio tuo, in virtute tua, in sapientia tua, in veritate tua (7) ». E lo stesso S. Girolamo, nel libro delle tradizioni ebraiche sul Genesi, scrive: « In capite libri scriptum est de me, id est in principio Geneseos (.) ». S. Tommaso d' Aquino ragiona sottilmente di tutti i significati che può ricevere la parola principio . Perocchè questa parola, di natura sua, ha una significazione indeterminata e generica, la quale dal contesto si determina variamente. « « Poichè, importando la parola principio un cert' ordine ad altre cose, egli è uopo che si rinvenga un principio in tutte quelle cose, nelle quali vi è un ordine »(4) ». Quindi vi è un principio della quantità, come il principio de' numeri, il principio dell' estensione, il principio del tempo, ecc.: vi è un principio nella scienza e nelle discipline, vi ha un principio nella produzione e durazione delle cose contingenti. Conviene adunque vedere come al Verbo convenga l' appellazione di principio . A lui conviene quest' appellazione nel modo più assoluto, tanto nell' ordine ideale quanto nell' ordine reale, tanto nell' ordine della scienza quanto in quello della produzione e della durazione delle cose create. Nell' ordine della scienza gli conviene nel modo più assoluto, perchè egli è l' essere per sè noto e conseguentemente l' intelligibilità stessa. Quindi egli è principio oggettivo del sapere a tutte le intelligenze. E relativamente all' uomo ed alla scienza umana egli è principio oggettivo della scienza umana sia naturale, sia soprannaturale. Della scienza umana naturale egli è il principio remoto ed occulto, perocchè il principio oggettivo della scienza naturale è l' idea dell' essere, la quale, come pura idea che ella è, non è il Verbo, come dichiareremo meglio più sotto, e però viene dal Verbo mostrata alle menti, senza però ch' egli ancora mostri loro se stesso. Nell' ordine poi della scienza soprannaturale, questa ha due quasi parti o modi: poichè ella, o è interna, infusa per grazia mediante una comunicazione immediata del Verbo o de' suoi doni; o è esterna, rivelata, insegnata colle parole e segni esteriori, e questa propriamente è l' espressione e l' analisi della prima. Rispetto adunque alla scienza soprannaturale interna il Verbo è il principio prossimo, come nel tempo di grazia, nel quale si comunica personalmente, o nel tempo antico della legge naturale e scritta, nel quale si comunicava co' suoi doni, non ancora personalmente. Rispetto poi alla scienza rivelata ed analizzata più o meno, secondo che vi s' aggiunge o no il lavoro degli scienziati, anche qui si dee distinguere la scienza dell' antico testamento da quella del nuovo: ed è da dire che rispetto alla scienza dell' antico testamento il Verbo è principio, ma remoto, onde l' imperfezione di quella; rispetto poi alla scienza perfetta del nuovo testamento il Verbo è principio immediato. E parlando di questa S. Tommaso distingue due maniere di principii: il principio della scienza cristiana considerata in se stessa, e il principio relativamente al modo nel quale l' apprendono gli uomini. E tanto l' uno che l' altro principio è Cristo, ma in modo diverso: « secundum naturam quidem », dice il Santo Dottore, « in disciplina Christiana, initium et principium sapientiae nostrae est Christus, in quantum est sapientia et Verbum Dei, id est secundum divinitatem. Quoad nos vero, principium est ipse Christus, in quantum Verbum caro factum est, id est secundum ejus incarnationem (1) ». Venendo ora all' ordine della realità, cioè della produzione e della durata delle cose create, S. Tommaso insegna che il Verbo è principio delle cose in due modi, cioè perchè ne contiene la ragione, ossia l' essenza ideale, e perchè effettivamente egli le fa essere sussistenti, « principium est creaturarum (persona Filii) secundum rationem virtutis activae, et per modum sapientiae quae est ratio eorum quae fiunt (2) ». E questi sono appunto i due aspetti, sotto cui noi abbiamo detto doversi considerare il Verbo, come oggetto , e come sussistente persona . I quali due aspetti sono anche indicati in quelle parole che Cristo disse definendo se stesso: « Principium, qui et loquor vobis (3) ». Quasi dicesse io, persona, sono il principio pel quale e nel quale furono fatte tutte le cose, e sono anche il principio della scienza, la quale ora io parlando comunico a voi. Ma io dicevo che l' aver Mosè annunziato il Verbo semplicemente come principio non è ancora un annunziarlo espressamente come persona, appunto perchè la parola principio ha un significato generico e indeterminato, e non tutti i principii sono persone. Il concetto di principio è uno degli elementi che si contengono nell' idea dell' essere, i quali noi anco chiamiamo idee elementari, e l' idea non è ancora il Verbo, benchè possa essere la base di una scienza negativa ed iniziale del Verbo stesso. Medesimamente nelle antiche scritture si legge che Iddio fece ogni cosa « « nella sapienza »(4) », e che « in sermone ejus composita sunt omnia (5) », il che significa certamente che tutte le cose furono fatte nel Verbo. Ma v' è indicato il Verbo con vocaboli generali ed astratti come sono quelli di sapienza e di sermone, i quali non esprimono ancora la personalità del Verbo, perchè si possa indurnela per illazione, quando pur la mente umana abbia tanta saldezza di logico ragionare. Nelle antiche carte non è solo accennato che ogni cosa fu fatta nel Verbo, ma altresì pel Verbo. Già Mosè, lo storico della Creazione, fa che Iddio ordini il cielo e la terra colla sua parola: « « Disse Iddio: sia fatta la luce, e la luce fu fatta »(1) », e così parimenti in tutte l' opere delle sei giornate. Al che alludendo il salmista dice: « Verbo Domini coeli firmati sunt et spiritu oris ejus omnis virtus eorum. Quoniam ipse dixit et facta sunt, ipse mandavit et creata sunt (2) ». Il Crisostomo osserva che S. Giovanni disse più con una sola parola, « omnia per ipsum facta sunt », che non dicesse Mosè con molte (3); perchè Mosè non fece menzione che delle cose sensibili, laddove S. Giovanni abbracciò tutte non meno le sensibili che le insensibili. Il che è vero pigliandosi il racconto di Mosè secondo quello che suonano a noi le sue parole materialmente prese. Ma egli sembra indubitato che presso gli Ebrei la parola cieli significasse anche le cose spirituali di cui i cieli materiali erano l' emblema, il simbolo. Onde le Scritture attribuiscono i cieli a Dio, la terra agli uomini (4), distinguendo gli Ebrei tre cieli: l' uno quel degli uccelli, l' altro quel delle nubi, il terzo quel degli spiriti, e di questo erano come simbolo i precedenti cieli visibili. Onde S. Paolo disse che fu rapito al terzo cielo, che è l' ordine delle cose spirituali ed insensibili (5), dove udì parole arcane che non può l' uomo esprimere, mancando il linguaggio; e S. Pietro, parlando dell' eredità di Cristo, dopo aver detto che è « « conservata ne' cieli » », spiega tosto il suo detto, interpretando la parola cieli coll' altra che soggiunge « in vobis », cioè nelle anime nostre (6); ed innumerabili luoghi della Scrittura provano il medesimo. Laonde, quando Mosè disse: « « Nel principio Iddio creò i cieli [...OMISSIS...] e la terra » », venne a dire universalmente: Iddio creò le cose spirituali e le corporee, ovvero: Iddio creò le cose che appartengono al cielo, l' universo angelico, e quelle che appartengono alla terra, l' universo umano, tutte così abbracciandole; e indi lasciando i cieli angelici, s' estende a narrare come fu ordinata la terra, cioè l' universo dell' uomo, dove compariscono di nuovo i cieli visibili come parte dell' universo della terra, cioè dell' uomo. Mosè dunque prima narrò la creazione in generale in quelle parole: « « Nel principio Iddio creò il cielo e la terra » », dove non si fa altra distinzione che quella delle sostanze puramente spirituali, e delle sostanze materiali o materiate; poichè in vero queste non potevano esistere confuse nè pure nella prima creazione informe, come quelle che sono separate d' essenza; di poi narra la seconda creazione, cioè l' ordinamento dell' universo sensibile ed umano. - Ma qui si presenta alla mente una questione. Alla prima creazione delle sostanze non assegna tempo: cominciarono tutte ad essere in un istante, a cui si riferisce il detto della Scrittura: « Qui vivit in aeternum creavit omnia simul (1) »; alla seconda assegna sei distinte epoche. Della prima dice che le sostanze spirituali, e materiali furono create nel principio, cioè nel Verbo ; la seconda espone come fatta mediante la parola, pel Verbo di Dio. La questione dunque che si offerisce al pensiero si è: « perchè la produzione delle sostanze si dica fatta nel Verbo, il loro ordinamento pel Verbo ». Tutto nelle carte ispirate è degno di essere perscrutato, perchè niente è senza cagione. Onde dunque una tale proprietà e distinzione di parlare? Il Verbo, abbiamo detto, ha due proprietà indivisibili: d' essere oggetto7persona, e d' essere persona7oggetto. Come persona, è operante, in quanto è soggetto sussistente, colla stessa sussistenza divina comune alle tre persone; come oggetto, è per sè intelligibile, e l' intelligibilità contiene la ragione e la forma ideale delle cose. Ora nelle cose contingenti la sussistenza è fuori dell' idea, ossia fuori della loro essenza ideale: perciò l' essenza delle cose nell' idea non contiene la sussistenza. La sussistenza dunque delle cose contingenti non può passare dal non essere all' essere se non per un' azione creante, per la volontà creante, senza che l' idea ancora le prescriva la forma, o l' ordine che dee avere. All' incontro, quando si tratta di determinare la forma e l' ordine della sussistenza, allora conviene ricorrere all' idea che la contiene come la parte oggettivamente conoscibile della cosa, noi diremo brevemente come intuibile. Egli è vero che non può stare la sussistenza limitata senza una determinazione, una forma, un ordine; ma ciò non toglie che le due cose non si possano distinguere col pensiero astraente, come due aspetti della stessa cosa. E le distinse Cirillo Alessandrino, che rispondendo agli Ariani, i quali dicevano che il Verbo avesse imparato l' arte di creare dal Padre, fra le altre cose disse che il creare non è proprio dell' arte, ma della potenza. Perocchè l' arte s' adopera nell' ordinare e conformare la materia preesistente, ma il creare propriamente è un fare che la stessa materia esista (1). Ora l' arte appartiene all' intelletto in quanto ne contiene le regole, i tipi; laddove la potenza appartiene alla sussistenza. Nondimeno altro è il mutare la forma e l' ordine che già deve avere una materia preesistente, e questo non appartiene al creare; altro è il dare quelle prime forme e quel qualunque ordine alla sostanza, senza il quale nessuna materia, nessuna sostanza potrebbe esistere, e questo appartiene alla creazione, perchè si tratta di quelle forme che vengono concreate colla materia o colla sostanza delle cose; e di queste parla Mosè. Se dunque la mera sussistenza non ha idea, non è determinata da alcuna essenza ideale, da alcun oggetto intuibile, ma dal solo sentimento, procede di conseguente ch' ella non viene prodotta sul tipo di alcuna idea, non ha tipo; non è dunque per l' idea che esiste, ma è prodotta immediatamente dall' agente. All' incontro ogni altra qualità, eccetto la sussistenza, ogni ordine, determinazione od ordine della sussistenza, ha un modo ideale di essere, è nell' idea compresa; quindi l' artefice ricorre all' idea per formarla, e così si dice che la forma per «l' idea (2) ». La sussistenza adunque, ogni sussistenza si riduce al Verbo come a principio, in quanto il Verbo è sussistente, persona sussistente ed operante; all' incontro ogni forma delle cose risplendente nell' idea si riduce al Verbo come a principio in quanto il Verbo è oggetto, cioè per sè noto, per sè intuibile. Iddio dunque creò la sussistenza delle cose contingenti nel Verbo immediatamente, come sussistente; creò poi la forma e l' ordine della sussistenza pel Verbo, come oggetto, che racchiude ogni regola, ogni tipo, ogni forma, ogni ordine, sul quale come sopra esemplare le sussistenze possano venire ordinate. Onde apparisce che quando si tratta d' esprimere la creazione formata è maggior proprietà di parlare il dire che fu fatta pel Verbo, come lo scultore fa la statua pel suo concetto. Onde sembra potersi concludere che dicendosi le cose tutte fatte pel Verbo, si viene a dire di più che dicendosi fatte nel Verbo, perocchè quest' ultima maniera potrebbe restringersi a significare la creazione informe e sostanziale, laddove la prima dice la creazione formata e compiuta, come quando si legge: « qui fecisti omnia verbo tuo, et sapientia tua constituisti hominem (3) », ovvero quando il Salmista dice: « Verbo Domini coeli firmati sunt et spiritu oris ejus omnis virtus eorum. Ipse dixit et facta sunt; ipse mandavit et creata sunt (4) », dove si parla di tutta la creazione, tanto della parte materiale e sostanziale, quanto della parte formale e accidentale, perocchè questa non sta senza quella, di cui è il compimento. E però quantunque S. Giovanni, dicendo: « « Omnia per ipsum facta sunt » », venga ad abbracciare ogni cosa creata ed ogni modo e forma della medesima, tuttavia Origene, o un altro autore, osserva che non istette a ciò contento, ma che nelle parole che soggiunse: « « e senza di lui non fu fatta nè pure una cosa » », secondo la forza della parola greca «choris autu», ci venne a dire altresì che tutte le cose sono fatte nel Verbo. La quale interpretazione essendo lodata da S. Tommaso, qui la recherò colle stesse parole dell' Angelico: [...OMISSIS...] . Laonde S. Giovanni colle parole che dichiariamo espone ad un tempo che tutte le cose sono fatte e conservate pel Verbo e nel Verbo. Il Verbo adunque concorre alla creazione in due modi: concorre a produrre la materia e in generale la sussistenza delle cose, come potenza ossia come sussistenza divina; e concorre a produrre la forma, e in generale l' ordinamento delle cose come arte, cioè come oggetto che fa conoscere l' ordine dell' essere, ossia l' essere nel suo intrinseco ordine. In quanto vi concorre come sussistenza divina, egli non è un agente minore del Padre, come deliravano gli Ariani (1), ma uguale al Padre, come quello che ha l' identica sussistenza, e però l' identica virtù del Padre. Perocchè, dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Nè può addursi in contrario la decisione del Concilio di Sirmio, il quale, interpretando quelle parole: « Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram (3) », le intende come dette dal Padre al Figliuolo, e que' Padri dissero di conseguente che nella creazione delle cose « « Filium obsecutum fuisse Patri »(4) », e colpiscono d' anatema chi dicesse altramente. Perocchè era lontanissimo dalla mente di quel Concilio il sottoporre al Padre il Figlio o farlo di lui inferiore: chè anzi la decisione era pronunciata contro gli Ariani. E nel vero quel luogo del Genesi è atto a confutare gli Ariani, al quale intento l' adoperò Cirillo d' Alessandria, osservando che le parole: « « Facciamo l' uomo » » non sono d' un superiore che comanda, ma d' un uguale che parla ad un uguale. Perocchè, se avesse parlato comandando, avrebbe detto « Fate », e non « « Facciamo »(5) ». Oltredichè quelle parole si possono altresì interpretare di tutte e tre le divine persone, che a una sola voce, prendendo il consiglio di far l' uomo, dicono: « « Facciamo l' uomo » », dove non v' ha distinzione dall' una all' altra nell' opera che stanno per intraprendere, giacchè tutte e tre si eccitano a far l' uomo: nol fa una sola, il fanno tutte e tre; non vi coopera più l' una che l' altra, tutte egualmente: « « facciamo l' uomo » »; il fanno ad una sola immagine e similitudine, « ad similitudinem nostram », indicando così che una è la natura di tutte e tre, se tutt' e tre danno una sola immagine e similitudine. In qual senso adunque si debbano intendere le parole del citato Concilio, che dicono il Figliuolo nella creazione avere assecondato il Padre? Non altro se non avere avuto dal Padre colla natura la virtù creatrice, e però creare colla natura e colla virtù ricevuta dal Padre, e identica a quella del Padre. Onde, secondo alcuni scrittori (1), si può concepire una cotale officiosità fra le divine persone, che non le rende punto l' una all' altra inferiore, e che si riducono alle stesse relazioni per le quali sono persone distinte. Così il Figliuolo conosce d' aver ricevuto dal Padre ogni cosa, e lo Spirito Santo dal Padre e dal Figliuolo. Il Padre conosce d' aver dato ogni cosa al Figliuolo ed allo Spirito Santo pel Figliuolo, ed ama se stesso nelle altre persone. Ora il riconoscere d' avere ogni cosa dal Padre è nel Figliuolo un cotal atto di giustizia e di gratitudine (se così si può dire); e il riconoscere d' avere ogni cosa dal Padre e dal Figliuolo è un cotal atto di gratitudine nello Spirito Santo. Ma più veramente e più propriamente si dee dire, che tali offici scambievoli fra le divine persone si contengono nello stesso Spirito Santo, che è la sussistenza divina per sè amata; e quindi altro non vi è nella Triade eccetto le persone; benchè niente vieti che come nel Verbo, secondo la limitata nostra intelligenza, distinguiamo più proprietà, che però altro in sè non sono che la stessa semplicissima persona del Figliuolo; così nello Spirito Santo distinguiamo più uffici morali, non distinti realmente fra loro, anzi costituenti la sola semplicissima persona dello Spirito Santo in un modo superiore alla nostra intelligenza. Ma dobbiamo altresì considerare il secondo modo nel quale il Verbo concorre alla creazione, cioè dobbiamo considerare il Verbo, secondo l' espressione di S. Agostino, come Arte, e noi diremo come oggetto assoluto ed infinito. A questo modo si riferiscono le parole di S. Tommaso di sopra da noi riferite, e che qui porremo di nuovo sotto gli occhi del lettore. « « Ora se si considerano rettamente » », dice l' Angelico nel suo commentario, « « le parole predette: Tutte le cose sono fatte per esso , apparisce con evidenza che l' Evangelista favellò propriissimamente. Perocchè chi fa qualche cosa, conviene che prima la concepisca nella sua sapienza che è la forma e la ragione della cosa che si fa, siccome la forma nella mente dell' artefice è la ragione dell' arca che sta per fare. Così adunque Iddio non fa nulla se non pel concetto del suo intelletto, il qual concetto è la sapienza concepita ab eterno, cioè il Verbo di Dio, e il Figliuolo di Dio; e però è impossibile che egli faccia qualche cosa se non pel Figlio. Il perchè S. Agostino (1) dice che il Verbo è l' Arte piena di tutte le ragioni viventi, e così apparisce che tutte le cose che fa il Padre, le fa per esso » ». Ora, le ragioni, le forme, i concetti delle cose non racchiudono, come tali, la sussistenza delle cose contingenti, e però essi non somministrano la sussistenza delle cose da crearsi, ma ne determinano le forme, i limiti, l' ordine, e tutto ciò che cade nelle cose, eccetto la materia e sussistenza. Quindi questo modo di creare riguarda la creazione formale ed ordinativa, alla quale il Verbo presta l' esemplare al Padre. Conviene ben ritenere che queste due maniere di creazione, che troviamo distinte nella narrazione mosaica, non sono separate nel fatto, perocchè, come abbiamo detto, la sussistenza delle cose contingenti non può attuarsi senza qualche forma, senza limite ed ordine: onde l' atto della creazione è un solo. Ma ciò non toglie che la mente nostra distingua con verità in essa due effetti contemporanei e legati indivisibilmente insieme: quello della sussistenza, e materia; e quello della sua forma. Ora rispetto alla forma il Padre ed il suo Verbo con egual virtù creano, ma non in egual modo (e lo stesso diremo in appresso del Santo Spirito): perocchè essendo detto con proprietà, secondo l' Angelico, che il Verbo è il concetto e l' arte, il Verbo somministra l' esemplare, e il Padre crea, guardando in questo esemplare. Nello stesso tempo è da dire, che inabitando e circuminsedendo il Verbo nel Padre, il Padre ha in sè il Verbo, cioè la sussistenza per sè nota, e però il Padre niente mutua dal Verbo in modo che non l' abbia in se medesimo; e però ha in se medesimo anche l' esemplare delle cose medesime, perchè ha in sè il Verbo, giacchè le persone sono indivisibili, benchè, come persone, realmente distinte; di maniera che è un solo Dio sussistente in tre persone, e se non sussistesse in tre persone non sarebbe Dio. Onde, se il Padre, il Verbo, e lo Spirito Santo si separassero al tutto fra loro, cesserebbero d' essere Dio, non essendovi un Dio Padre separato da un Dio Verbo, nè un Dio Verbo separato da un Dio Spirito Santo, nel qual caso sarebbero tre Iddii, il che è assurdo. Nella creazione adunque della materia o della sussistenza tutte e tre le persone concorrono con una identica virtù e nello stesso modo: perchè questa creazione è dovuta alla sussistenza o natura divina comune a tutte e tre le persone, e perciò si attribuisce al Padre come quello che è sussistenza divina in quanto la comunica al Figliuolo, unitamente col quale la comunica allo Spirito Santo. Nella creazione poi della forma, tutte e tre concorrono con una uguale virtù a realizzarla, ma non nello stesso modo a determinarla, perchè è il Verbo quello che ne contiene il concetto, l' esemplare. Finalmente nel fine, nella perfezione soprannaturale dell' universo, che è la santità, tutte e tre le persone concorrono con una eguale virtù, ma non nello stesso modo, perocchè lo Spirito Santo, che è l' essere per sè amato, comunica l' amore soprannaturale agli uomini. Quindi si manifesta la ragione perchè nell' Universo creato e nelle sue vicissitudini si scorga non solo la onnipotenza di un Dio uno, ma ben anco i vestigi di un Dio uno e trino, un ectipon dell' augustissima Trinità. Ma giova che noi torniamo su quello che abbiamo detto della doppia esistenza delle cose: nel Verbo divino, in cui esistono oggettivamente; e in se stesse, a cui esistono soggettivamente. Questa doppia esistenza spiega come l' atto creativo sia eterno e ab eterno fecondo, e come nello stesso tempo le cose esistano nel tempo. Le cose create esistono nel Verbo fino dall' eternità, nella quale è emesso l' atto creativo; ma esistono nel tempo in se stesse fuori del Verbo. Perocchè il tempo è una relazione subbiettiva delle cose fra loro, e però egli è concreato alle cose, e nel Verbo non cade che come oggetto, non come al tempo soggiacesse lo stesso soggetto Verbo. Dell' eternità dell' atto creativo S. Agostino scrive [...OMISSIS...] . E il venerabile Beda, il quale legge, Quod factum est in ipso vita erat, intendendo quell' in ipso per in ipso Verbo, reca la stessa dottrina in queste parole: [...OMISSIS...] . E qui si vede altresì come a Dio sono presenti tutti i tempi e tutte le cose, « et vocat ea quae non sunt tanquam ea quae sunt (3) »: poichè nel Verbo divino sono ab eterno tutte le cose che egli crea, eziandio che non sieno ancora a se stesse; sono nel loro fondamento che è il Verbo, secondo l' espressione di S. Agostino: qui s' intende come abbia luogo senza alcuna ripugnanza la previsione e la predestinazione divina. Dopo avere parlato della creazione in generale e aver detto che tutte le cose furono fatte pel Verbo e niente fuori del Verbo, l' Evangelista discende a parlare in ispecie degli uomini, per salute dei quali egli scrive l' Evangelio, e a dimostrare che cosa il Verbo ebbe fatto per essi, o piuttosto che cosa è il Verbo per essi. Dichiara adunque colle indicate parole qual sia l' intima costituzione della creatura intelligente umana fatta pel Verbo. E comincia a farci considerare che « « nel Verbo vi è vita » », che non si tratta d' un verbo morto, ma di un Dio vivo, anzi di un Dio7vita, e che egli è « « luce » », non trattandosi d' una vita puramente sensibile, ma d' una vita intellettiva: e finalmente dice, che la vita che è nel Verbo è luce agli uomini, dimostrando così come gli uomini sono costituiti esseri intelligenti pel Verbo. Le due parole vita e luce si riferiscono appunto a que' due aspetti sotto i quali noi abbiamo detto doversi considerare il Verbo divino. Perocchè la vita si riferisce al Verbo in quanto è sussistenza, e la luce si riferisce al Verbo in quanto è oggetto, termine dell' intelletto vivente. Ma, nello stesso tempo che S. Giovanni accenna questi due aspetti del Verbo divino, mostra altresì la loro indivisibilità, perocchè dice che la stessa vita del Verbo è la luce degli uomini, nè potrebbe esser luce agli uomini se non fosse per sè luce; solo essendo luce per sè ed a sè, egli poteva esser luce agli altri, e non solo agli uomini, ma ben anco a tutte le intelligenze create; benchè l' Evangelista non faccia menzione che degli uomini, come di quelli a cui il suo Vangelo era ordinato. E qui deve osservarsi che nella generazione del Verbo la vita e la luce tengono un altro ordine da quello che hanno nella creazione e formazione dell' uomo. Perocchè la generazione si fa per un pronunciamento intellettivo del Padre, col quale il Padre pronuncia la propria sussistenza, e così questa diviene oggetto ossia luce. Ma questo pronunciamento essendo pienissimo e completissimo, ha virtù di fare che l' oggetto pronunciato sussista come soggetto ossia persona, e l' oggetto vivente e sussistente è appunto il Verbo: di che il detto pronunciamento si chiama generazione, perchè fa sussistere una persona che ha la stessa sussistenza della pronunciante e generante. Laonde nell' eterna generazione vi ha quest' ordine logico, secondo il nostro modo di vedere, che prima e immediatamente sia l' oggetto ossia la luce, poi quell' oggetto ossia luce sussista come vita, cioè come persona per sè vivente. All' incontro nella creazione e formazione dell' uomo, questo riceve prima (sempre parlandosi d' ordine logico e non cronologico) la vita, e poi l' oggetto ossia la luce che lo renda intelligente, « quia lux non nisi viventi attribui potest », come dice l' Angelico (1). L' oggetto adunque vivente è la persona del Verbo. Dove è da considerare che la parola vita esprime quell' atto in un modo oggettivo, laddove se l' Evangelista avesse detto semplicemente il Verbo vivente, avrebbe espresso il vivere in un modo solamente soggettivo. Il Verbo dunque ha vita, prendendo questa parola come oggetto, come essenza, come essenza vivente; di maniera che il soggetto vivente è l' oggetto vita, o l' essenza vita in lui dimorante; o anche, viceversa, la vita come essenza, come oggetto, è soggetto vivente. Se l' oggetto fosse rimasto solo oggetto, egli non sarebbe stato più che un' idea; ma ricevendo la vita, la stessa vita essenziale a Dio, divenne persona, la persona del Verbo. Quindi egli stesso dichiarò il modo della propria generazione eterna quando disse: « « Siccome il Padre ha vita in se stesso, così diede anche al Figliuolo avere vita in se stesso »(1) ». E dice « in se stesso »pronome personale, quasi venga a dire nella propria persona, indicando così che la persona non è divisa dalla vita, ma questa vita è nella persona stessa. Ma perchè l' Evangelista dice, che « « nel Verbo era vita » », e non dice piuttosto, che il Verbo stesso era vita? Conviene ben considerare, che la parola vita esprime un modo di essere astrattamente, secondo il nostro parlare umano, da cui viene il significato di quella parola, di maniera che la parola vita non indica per sè alcun soggetto, alcuna persona. Ritenendo adunque la proprietà del parlare, non si poteva dire che la vita fosse la persona, ma si doveva dire che la persona avesse la vita in se stessa, o che la vita fosse nella persona. In fatti la vita esprime una proprietà comune di tutti i soggetti, i quali tutti appunto perchè soggetti hanno vita; ma per sè la parola vita non esprime più un soggetto che l' altro, anzi nessun soggetto, come dicevamo, ma una proprietà o condizione del soggetto. Non già che nel Verbo vi abbia distinzione reale fra la sua vita e la sua persona, ma noi siamo obbligati a porre una distinzione di concetto fra queste due cose, atteso l' imperfezione del nostro parlare astratto, nel quale la mente divide delle cose che sono in natura unite. Nè vale il dire che Cristo disse anco: « « io sono la via, la verità e la vita »(2) »; perocchè in questo luogo non dice di essere la vita in se stesso, ma relativamente agli uomini, pei quali è anche la via di pervenire al loro beato fine, contenendo in sè tutta la legge morale, che è appunto la via che conduce alla beatitudine. Il che si vede dal contesto, perocchè risponde a Tommaso, che gli avea dimandato: « « Signore, non sappiamo dove tu vai; e come possiamo sapere la via? » », e dopo aver detto: « « Io sono la via, e la verità e la vita » », soggiunge: « « Niuno viene al Padre se non per me »(3) ». E nel testo greco in queste parole vi ha l' articolo premesso alla parola vita «e zoe», laddove nelle parole di S. Giovanni: « « in esso era vita » » manca l' articolo «en auto zoe»; il che indica che nel primo luogo si parla d' una vita determinata, cioè di quella degli uomini, laddove in questo si dice semplicemente che il Verbo non è per avventura cosa morta, ma avente la vita. E non dicendosi che « nel Verbo era la vita »ma che « « nel Verbo era vita » », non v' ha pericolo che s' intenda forse ch' egli solo il Verbo possieda la vita, e non il Padre o lo Spirito Santo. Perocchè, dicendosi che nel Verbo era vita, niente impedisce che sia vita anche nell' altre due persone, onde l' omissione dell' articolo sembra meglio indicare la comunione della vita, che hanno le tre persone augustissime. E così ogni qual volta le Scritture parlano della vita che il Verbo ha in se stesso, e non rispetto a noi, omettono l' articolo, come nel testo citato di sopra [...OMISSIS...] ; e quando parlano della vita rispetto a noi, lo pongono, come: « « Io sono la risurrezione e la vita »(2) ». Dicendo dunque l' Evangelista che nel Verbo era vita, viene a dire che il Verbo di Dio non è, come il verbo dell' uomo, sterile e non sussistente in se stesso, un atto, un accidente dell' uomo stesso; ma che il Verbo stesso aveva in sè vita, ossia viva sussistenza. Di che poi avveniva ch' egli, avendo in sè vita, potesse comunicare della sua vita anche a noi. Ma prima di passare a vedere come il Verbo sia vita a noi, conviene che meditiamo più addentro, come in lui sia vita. Che cosa è la vita? - La vita è il sentimento: dove non vi ha sentimento di sorte alcuna non vi ha vita. Pure, quando il sentimento è prodotto, anche l' incessante produzione del sentimento si chiama vita, e allora si distingue la vita dal sentimento; ma anco presa la vita in questa significazione, il significato d' una tale parola ha una relazione essenziale col sentimento, sicchè può dirsi che il sentimento sia la vita in atto, e la sua produzione la vita in potenza. Laonde abusivamente si dice che le piante vivono, qualora non si voglia attribuir loro qualche sentimento. Ma gli uomini, non solendo attribuire alle piante sentimento, attribuiscono loro nondimeno la vita per un' analogia con ciò che osservano avvenire negli animali, ne' quali la vegetazione è riproduttiva del sentimento, e però dicesi vita. Ora nelle piante vi ha pure vegetazione, e per questo si suol dire che vivano, benchè quella vegetazione, nella opinione comune, non produca nelle piante alcun sentimento. Ma fra ciò che sente e ciò che non sente vi ha differenza specifica, e però la parola vita applicata alle piante ha un significato specificamente diverso dalla parola vita applicata agli animali; quella della pura vegetazione, che non va a finire in alcun sentimento; è vita in senso analogico e traslato, non è vita in senso proprio, non è vera vita. La vita dunque in senso proprio e completo è il sentimento. Ora è da osservare che la vita, cioè il sentimento, viene all' uomo dal di fuori, e non la ha in se stesso. E di vero la vita animale è suscitata dal termine corporeo: l' anima non è che il principio senziente; se non avesse il termine sentito, ella nè sentirebbe, nè sarebbe principio d' alcun sentimento, nè per conseguente sarebbe. Dunque l' uomo non ha la vita in se stesso. Anche nell' ordine intellettuale vi ha un sentimento, e però una vita. Ma se si considera l' uomo come essere intellettivo, e come egli è costruito tale, primieramente si scuopre ch' egli non potrebbe ricevere l' intelligenza se non avesse prima la vita animale, quia lux nonnisi viventi attribui potest; in secondo luogo anche l' intelligenza egli la riceve dal di fuori, cioè dall' essere ideale, che gli sta presente come oggetto che lo informa, e così lo rende intelligente. Onde l' uomo, la persona umana, non ha neppur la vita intellettiva in se stessa, ma le viene comunicata da qualche cosa che non è lei, e che a lei manifestandosi si costituisce sua forma. Non è così del Verbo divino, dice S. Giovanni, perocchè « « in esso medesimo è vita » ». Poichè « « siccome il Padre ha in se stesso vita, così egli diede anche al Figliuolo avere vita in se stesso » ». Nella persona del Verbo dunque è vita, è sentimento: non si può distinguere in tal persona il principio dal termine della vita: questo termine non vien dato al principio vivente dal di fuori, non è cosa di natura diversa e straniera al principio vivente; ma la vita, il sentimento è nello stesso principio vivente. Consegue da questo che alla persona del Verbo la vita è essenziale, come a quella del Padre e dello Spirito Santo. Di che si scorge che una tal persona è immortale ed eterna, perchè niente può sottrarle la vita e così distruggerla. All' uomo può esser sottratto il termine del sentimento animale, e così può perdere la vita; all' anima separata può esser sottratto l' essere ideale, suo oggetto informante, da quella stessa potenza che glielo dà, e così verrebbe annichilata, perchè non esisterebbe più un principio intelligente. Ma se l' anima non avesse bisogno della materia e dell' idea dell' essere per vivere della sua doppia vita sensibile e intelligibile, essa non potrebbe nè morire, nè essere annichilata, perchè sarebbe assoluta signora della sua propria vita. Ora S. Giovanni ci dice, che questo appunto accade del Verbo, dicendoci che in esso stesso è vita, e che perciò non ha una vita mutuale, o dipendente da qualche cosa di straniero a se stesso. La vita dunque è nella stessa persona del Verbo, non le viene data da un termine d' altra natura di essa, e però ad essa straniera come nell' uomo, in cui per conseguente la persona è distinta realmente dalla natura. Da ciò consegue che la vita del Verbo dee essere una vita illimitata altresì, infinita, pienissima. Perocchè in tutti quei soggetti ai quali viene costituita da termini di natura distinta da essi, e sono tutti affatto i soggetti creati, onde accade che la vita sia limitata? La limitazione della loro vita viene dalla limitazione del loro termine vitale, il quale non dipende da essi, ma essi lo ricevono quale loro vien dato. Ma nella persona divina questo termine non è fuori di lei, non è d' una natura da lei distinta o separata, non vi ha una potenza straniera che glielo dia, e in dandoglielo possa limitarlo: non vi ha dunque alcuna cagione di limitazione, come nelle persone, o più generalmente ne' soggetti creati. Nel Verbo dunque vi ha vita senza possibilità di limitazione, vita pura, quindi vita infinita senza gradazione, tutto ciò che può esprimere la parola vita, l' essenza della vita realizzata ed ultimata. Lo stesso si raccoglie quando si considera quello che di sopra ha detto l' Evangelista che « « il Verbo era Dio » »: se dunque egli è Dio, deve avere una vita infinita: se è Dio, e la vita è nel Verbo, conviene che la vita del Verbo sia in Dio, e perocchè in Dio non v' ha nulla di finito, conviene che la vita non sia finita; perciocchè in Dio non v' ha nulla che non sia Dio, conviene che la vita stessa del Verbo sia Dio, sia la divina natura e sussistenza. Questa natura dunque, questa sussistenza divina è vita, è sentimento: infinito sentimento, che accoglie tuttociò a cui può estendersi il significato di questa parola. E che la vita, che è nel Verbo, sia la stessa sussistenza divina che il Padre comunica al Figliuolo in generandolo, scorgesi in quelle parole: « « Siccome il Padre ha vita in se stesso, così diede anche al Figliuolo avere vita in se stesso » ». Parlasi dunque d' una vita comune al Padre ed al Figliuolo, o piuttosto parlasi di vita puramente. Ora vita esprime un' unica essenza: l' essenza è unica e non più, benchè molti possano essere i soggetti che variamente partecipano della realizzazione d' un' essenza. Se dunque la vita, come essenza (qual viene espressa nell' idea della vita), è semplice ed una, e se in Dio l' essenza stessa è realizzata: dunque convien dire che la vita che è nel Figliuolo non possa essere altra se non quella stessa numericamente che è nel Padre, la quale è la stessa sussistenza o natura divina. Ma, come dicevamo innanzi, le specie della vita che si ravvisano nelle creature sono diverse, e ciascuna ha i suoi gradi. Se dunque consideriamo la vita nell' uomo, preso semplicemente nell' ordine naturale, noi troviamo in lui tre specie di vita. Perocchè troviamo primieramente la vita animale, che consiste nel sentimento animale, che dà vita al principio senziente. Questa vita è unicamente soggettiva, perocchè non ha alcun oggetto nel quale si compiaccia, giacchè l' oggetto è il termine del solo intendimento. In secondo luogo vi ha la vita intellettiva o razionale, che consiste nel sentimento intellettivo che nasce al contemplare la verità e la bellezza, o si rinviene nella ricerca e nel possesso della scienza. Questa è vita oggettiva, perchè si compiace dell' oggetto conosciuto; e questa vita nella presente condizione s' innesta sulla prima, giacchè nell' uomo logicamente precede l' animalità, che lo costituisce soggetto, all' intellettualità che lo costituisce persona. Finalmente vi ha la vita morale, la quale consiste nel sentimento morale, cioè nella copia di que' diletti che produce all' uomo la virtù da lui praticata. Ora non potendo noi ragionare di Dio se non secondo l' analogia di ciò che osserviamo in noi, opere sue, dove ha certamente impressi i vestigi di se stesso, dobbiamo anche in Dio riconoscere qualche cosa di analogo alla triplice vita che noi sperimentiamo nella nostra natura. E però anche in Dio dobbiamo riconoscere qualche cosa d' analogo al puro sentimento soggettivo, anteriore logicamente all' oggetto, benchè senz' alcun termine materiale; questo lo chiameremo sentimento semplice perchè non ha oggetto nè termine: qualche cosa d' analogo al sentimento oggettivo che nasce alla contemplazione o veduta dell' oggetto: qualche cosa di analogo al sentimento morale che sorge dalla perfetta consensione del soggetto, come volontà, all' oggetto totale, cioè all' essere completo conosciuto. Ora è da vedersi ciò che in questa triplice vita divina è proprio della divina natura, e però identico a ciascuna delle tre divine persone; come tuttavia per appropriazione si attribuisca piuttosto una che l' altra di queste vite a ciascuna delle divine persone; e finalmente se v' ha qualche cosa di proprio alle singole persone. Il principio senziente ed il sentimento esprimono concetti diversi. Ora egli è fuori di dubbio che appartiene all' essenza divina il triplice sentimento e la triplice vita, di cui abbiam favellato. Per appropriazione poi il sentimento semplice, ossia la vita reale, si può attribuire al Padre; il sentimento intellettivo, ossia la vita intellettiva, al Figliuolo; e il sentimento morale, ossia la vita morale, allo Spirito Santo: e ciò perchè ciascuna persona concorre in una sua propria maniera a porre in atto tali maniere di vita e di sentimento. Perocchè conviene ben considerare che l' essenza divina non è realmente distinta da ciascuna persona, di maniera che ella non sarebbe se non fossero le persone; e non è che nelle persone, e in tutte tre simultaneamente e identica, di guisa che sarebbe assurdo il concepirla in uno o in due, e non nell' altra o nell' altre. Onde, quantunque si dica che le persone concorrono a costituire sotto un qualche rispetto l' essenza vivente, non si vuol con ciò dire che l' essenza dipenda dalle persone, nè le persone dall' essenza, non potendo cadere in Dio dipendenza alcuna; ma solo una priorità e una posteriorità logica, secondo il nostro modo limitato di pensare. Dobbiamo dunque vedere come ciascuna persona divina concorra per sua parte a costituire una delle tre vite da noi distinte nell' Essere divino, e questo concorso è appunto ciò che è proprio e non appropriato alle singole persone. Il sentimento semplice primieramente, ossia la vita reale, si concepisce da noi anteriormente ad ogni oggetto e ad ogni atto intellettivo, e perciò si concepisce anteriormente in ordine logico alla generazione del Verbo, si concepisce come proprio dell' essenza, astrazione fatta dalle persone. Ma questa essenza reale e vivente di semplice sentimento è comunicata ad un' altra persona, cioè al Verbo: e quindi le due persone del Padre e del Figliuolo. Il Padre è l' essenza vivente, in quanto pronunciando se stessa rendesi oggetto, ed oggetto sussistente e personale; e il Figliuolo è l' oggetto stesso, la stessa sussistenza, divenuta oggetto e persona ad un tratto. Supponendo ora quest' oggetto7persona, forz' è che nella stessa essenza divina, e quindi tanto nel Padre quanto nel Figliuolo, esista il sentimento intellettuale cioè un' infinita compiacenza della verità essenziale, e della bellezza essenziale, e della sapienza: perocchè l' oggetto7essere è verità essenziale, e l' ordine intrinseco di questo oggetto7essere è la bellezza essenziale, e la notizia di quest' oggetto è la sapienza essenziale. Dunque, dato quest' oggetto, cioè generato qual persona dal Padre, conviene che tutte e due le persone godano di quest' oggetto e si compiacciano in Lui, il che costituisce l' infinito sentimento intellettuale; e che questo sentimento identico, in quanto appartiene al Padre abbia il suo oggetto nel Figliuolo, e in quanto appartiene alla persona del Figliuolo abbia il suo oggetto in se stesso; di maniera che questo sentimento è appropriato al Figliuolo, perchè è proprio del Figliuolo il somministrarne l' oggetto od il termine il quale è egli medesimo. Il sentimento intellettivo è una contemplazione gaudiosa della verità, della bellezza, della sapienza, e suppone un oggetto; onde si dice sentimento oggettivo. Nell' uomo vi ha una contemplazione puramente teorica, perchè la verità, la bellezza, la sapienza si manifestano a lui come oggetti puri, cioè idealmente. Ma l' oggetto del sentimento intellettuale divino non è puro oggetto, è nello stesso tempo personal sussistenza. Quindi in Dio non si può dare un sentimento puramente teoretico, ma dee essere anche pratico, cioè di volontaria adesione, e compiacente affetto nella persona che è in pari tempo essenzialmente oggetto. Questa sussistenza, come è per sè intelligibile ond' è anco oggetto inteso e persona, così è per sè amabile nella sua intelligibilità, onde è anco per sè amata. Il Padre che pronuncia il Verbo, cioè la sussistenza, e così la genera oggetto7persona, la ama altresì come essenzialmente amabile e così è essenzialmente amata; e questa sussistenza, in quanto è essenzialmente amata, è spirata persona, la qual si dice lo Spirito Santo. Onde l' oggetto7persona, in quant' è amata, colla spirazione del Padre è un' altra persona che sente se stessa nella forma di amata. Così il Padre spira lo Spirito Santo pel Verbo, perocchè nel Verbo ama la sussistenza, dove termina l' atto conoscitivo e generativo; perocchè la sussistenza divina non potrebbe essere amata se il Padre non l' amasse, nè il Padre potrebbe amarla se non la conoscesse e pronunciasse come oggetto7persona Verbo. Ma lo Spirito Santo procede non solo dal Padre pel Verbo, ma anco dal Padre e dal Verbo con una sola spirazione; perocchè è la sussistenza divina comune al Padre ed al Verbo, ed essente nell' uno e nell' altro, che amando se stessa, si rende amata persona. L' amare dunque la sussistenza divina è comune a tutte e tre le divine persone che identica la posseggono, e questa è la santità propria dell' essenza divina e il sentimento morale comune a ciascuna persona. Ma alla persona dello Spirito Santo logicamente precede quell' amare del Padre e del Verbo la sussistenza divina conosciuta; pel quale amore, la sussistenza amata è costituita persona che come tale ama dello stesso amore, perchè gli è comunicata la sussistenza divina intelligente ed amante. E quest' amore efficace pienamente è la spirazione unica comune al Padre ed al Figliuolo, il cui termine è la sussistenza amata come tale, sussistente qual persona. Onde l' amore si appropria allo Spirito Santo, perchè è il termine sussistente soggettivamente di un tale amore, cioè la sussistenza divina per sè nota e per sè amata in conseguenza dell' amore della sussistenza stessa essente identica nel Padre e nel Figliuolo e costituente queste due persone: l' essere dunque sussistenza divina amata è proprio della terza persona, cioè dello Spirito Santo, il quale perciò è anche il termine del sentimento ossia della vita morale di Dio, benchè questo sentimento e questa vita appartenga all' essenza divina, e perciò sia identicamente comune a tutte e tre le divine persone. Dopo aver noi veduto, per quanto ci è dato, quale sia la vita che è nel Verbo, domandiamoci perchè S. Giovanni sia passato a dire che nel Verbo era vita: come ciò si rannodi alla serie della sua narrazione. Questa sentenza si rannoda colle precedenti e colle susseguenti. Colle precedenti, perocchè avendo in esse annunziato il Verbo, cioè la parola di Dio, volle far conoscere l' Evangelista che questa parola non è, come le parole dell' uomo, senza vita propria, ma che è una parola vivente e sussistente, come abbiamo già notato. Si rannoda colle susseguenti, colle quali espone la creazione, l' istituzione e la salute eterna dell' uomo operate dal Verbo: onde stabilisce il fondamento che « « nel Verbo era vita » », perocchè dalla vita essente nel Verbo quelle tre opere si derivano e si compiscono. Nella causa doveva esser prima quello di cui poi partecipa l' effetto, e questo rimane spiegato quando è posta una causa ad esso corrispondente, avente in sè quanto si richiede a produrlo. L' effetto, cioè l' uomo, come essere vivente, razionale, abbellito di grazia, e in fine beatificato, ha la sua spiegazione compiuta nella vita che è nel Verbo, dalla partecipazione della quale, secondo diversi gradi, procedono all' uomo tutte quelle prerogative e tutti que' beni. Ma convien distinguere accuratamente questi gradi di partecipazione della vita del Verbo. Il Crisostomo, Cirillo Alessandrino, Teofilatto ed Eutimio (1) stimano che S. Giovanni dica nel Verbo è vita, per dimostrare che il Verbo conserva e governa le cose, non pure le crea, intendendo per vita quel vigore che il Verbo imprime in tutte le cose, e col quale le conserva e governa. Il dire che nel Verbo era vita esprime, secondo il Crisostomo, che il Verbo non solo potè creare, ma ben anco in lui rimane sempre una vita, quindi una causalità indeficiente, un flusso perpetuo delle cose senza alcun dispendio o diminuzione in lui stesso, nel quale la vita non cessa mai. E poichè la vita che è nel Verbo è pienissima, non solo reale, ma intellettuale e morale altresì; perciò l' Evangelista, secondo il Crisostomo, dicendo che nel Verbo è vita, viene a dire che egli non fa e produce le cose per una cieca necessità di natura, ma per volontà ed intelletto, onde anche sapientemente e santamente le governa. E` però da osservare che quanto a quel vigore onde si conserva in essere la materia non si può chiamar vita, o partecipazione di vita, perocchè la materia, come tale, è priva di vita, perchè è priva d' ogni sentimento. L' esistenza della materia, come suggerisce la filosofia, non è soggettiva, perocchè ella non è principio nè senziente nè intelligente: non è oggettiva, perocchè essa non è oggetto per sè sola e s' intende soltanto nell' oggetto o idea che vi aggiunge la mente. E` puramente un' esistenza terminativa , cioè la sua essenza è di essere termine d' un soggetto sensitivo. Nella materia non si scorge che la mera sussistenza senza relazione a se stessa, ma ad altro, cioè al soggetto sensitivo di cui ella è termine. Laonde S. Tommaso dice: « « Si conserva nelle parole premesse un ordine conveniente. Perocchè nell' ordine naturale delle cose, prima si trova l' essere (la mera sussistenza), e questo da prima insinuò l' Evangelista dicendo: « Nel principio era il Verbo », poi si trova il vivere, e questo è cio che segue: « In esso era vita », in terzo luogo si trova l' intendere, e di conseguente aggiunse questo: « E la vita era la luce degli uomini »(1) ». Così l' Evangelista addita che nel Verbo, fonte delle creature, si trovano causalmente ed eminentemente tutti i gradi di essere che si ravvisano nelle creature effetto di quella causa. I Manichei leggendo questo luogo con un' altra interpunzione da noi rifiutata, cioè: quod factum est in ipso (Verbo), vita erat, ne abusarono per sostenere i loro errori. Questi sono due: Il primo teologico, quello de' due principii, perchè dicevano che non tutte le cose erano fatte pel Verbo, ma quelle che erano fatte pel Verbo (riputando essi un sinonimo perfetto il dire fatte pel Verbo o nel Verbo) erano viventi, spiegando il soprallegato testo così: « era vita, cioè era vivente ciò che era stato fatto nel Verbo », dicendo poi che il niente era l' altra cosa, l' altro principio fatto, ma non dal Verbo, dicendo S. Giovanni che « « il niente era stato fatto senza il Verbo » et sine ipso factum est nihil (2) ». Il secondo filosofico, perocchè questi eretici dicevano che anche le pietre e i minerali tutti erano vita e però vivevano. A' quali due errori se n' aggiunge un terzo, che i Manichei, confondendo la vita sensibile colla vita intellettiva, attribuivano quest' ultima a tutti i viventi. Ora, che il luogo di S. Giovanni, nè pure letto come facevano tali eretici, suffragasse punto nè poco alla loro empia dottrina, apparisce da questo che, giusta il testo interpuntato a lor modo, le cose fatte nel Verbo non sarebbero solamente viventi, ma sarebbero vita, cioè assai più di quel che essi pretendono. Le cose partecipi della vita hanno una vita limitata, secondochè più o meno ne partecipano; ma la vita in se stessa non esprime alcun limite, di che consegue che l' esser vita a Dio solo appartiene, il quale non ha alcun limite nel suo vivere, e non partecipa già della vita, ma è vita egli stesso essenzialmente senza specie, gradi e confini: è la vita sussistente. Se dunque ciò che è creato fosse vita, sarebbe Dio; nè si scorgerebbero i diversi gradi della vita, come si scorgono ne' vari esseri di cui il mondo si compone. Ciò che è creato oltracciò non potrebbe soggiacere alla morte, perchè, essendo la vita, questa non può mai cessare di esser vita e passare ad uno stato di morte, perchè morte e vita si escludono a vicenda. Solamente quello che vien fatto partecipe della vita, ma che non è vita egli stesso, può venirne anco spogliato e morire. E` dunque impossibile che l' Evangelista abbia detto che ciò che è fatto pel Verbo fosse vita, e però niun vantaggio possono cavare i Manichei a favore de' loro errori da questo luogo di S. Giovanni, alla lor foggia interpuntato. Rifacendoci or noi a considerare il vigore che S. Giovanni Crisostomo attribuisce a tutte le cose, pel quale egli in certa maniera le considera come viventi, non però al modo de' Manichei, dobbiamo osservare che la materia, avendo natura e condizione di termine, e come tale essendo cosa inerte, conviene spiegare quell' attività che nondimeno in essa si manifesta. Primieramente ciò che esiste come termine suppone un principio, al quale sia termine e nel quale esista. Il qual principio non può esser altro che sensitivo, perocchè ciò che non sente, non può aver natura di principio, ma sol di termine. Non par dunque alieno dalla dottrina filosofica e teologica il supporre che Iddio ad ogni atomo di materia abbia congiunto un principio sensitivo, di diversa e contraria natura dalla stessa materia, pe' quali principii la materia sussista come termine, e dai quali riceva l' azione ed il movimento che in essa si scorge. Il che è mirabilmente accomodato a spiegare i fatti della natura. Non proverrebbe da questo che gli atomi nella materia fossero animali, giacchè l' animale suppone composizione ed organismo; ma solo che fossero animati. Nè sarebbero perciò intelligenti, perocchè i principii loro non più potrebbero essere che principii sensitivi, il cui sentire limitatissimo non avrebbe altro termine che quello dell' atomo stesso, non quale apparisce al di fuori a' nostri organi sensorii, ma qual sarebbe rispetto ai suoi principii medesimi. Nella qual sentenza, a cui suffragano i progressi delle scienze naturali e delle filosofiche, e che ottimamente si accomoda alla spiegazione dei fenomeni, la sentenza del Crisostomo, che vede nella vita che è nel Verbo quel vigore onde si conservan le cose, verrebbe nobilitata e resa più grave. Perocchè quel Verbo creatore, che in se stesso ha vita, creando le cose avrebbe come ritratto da sè il vigor vitale, e l' effetto meglio risponderebbe alla natura della sua cagione. La vita sensitiva è il sentimento semplice e cieco, perchè non illuminato dalla vista di alcun oggetto. Quindi, ove noi dall' effetto saliamo ad una causa corrispondente, non è necessario che nella causa creatrice di lei ravvisiamo la forma oggettiva. Considerando noi dunque, secondo il nostro modo d' intendere, l' essenza divina con un concetto anteriore logicamente a quello delle persone, la vita sensitiva si attribuisce da noi, come a causa, alla divina essenza, senza considerazione delle persone, e per approssimazione al Padre, nel quale l' essenza divina sussiste come nel principio fontale della Triade Augustissima. Ma se noi veniamo alla vita umana, cioè alla vita razionale, questa suppone una causa che sia oggetto, e però non si può concepire se non aggiungendovi la considerazione del Verbo che è per sè oggetto. E questo viene a dire l' Evangelista colle parole che seguono alle dichiarate sin qui: « « E la vita era la luce degli uomini » », cioè l' oggetto che informa ed illumina il loro spirito e così li rende intelligenti. Se il Sacro Scrittore non avesse avuto per iscopo d' insegnare la creazione ed istituzione degli uomini, egli non avrebbe detto che « « nel Verbo era vita » », poichè avrebbe in tal caso potuto dire egualmente che « era vita nel Padre e nello Spirito Santo », nei quali sussiste l' identica vita che nel Verbo. Ma perchè dunque preferì di dire che « nel Verbo era vita »? Perchè il suo intendimento era di favellare della vita in significato oggettivo, la quale, essendo per sè oggetto, fosse luce alle umane intelligenze, e così dichiarare come vengono costituite le menti umane. Ora la forma oggettiva della vita è propria del Verbo, perchè il Verbo è appunto l' essere come oggetto; benchè la sapienza e l' intelligenza soggettiva, che risulta dall' atto intellettivo che ha nell' oggetto il suo termine, sia comune ed identica in tutte egualmente le tre divine persone, come propria dell' essenza, considerata questa posteriormente alla processione delle persone. Laonde, se si considera lo spirito intelligente come effetto, e da questo si vuol salire a formarsi il concetto della causa, conviene pervenire non più alla semplice essenza di un Dio creatore, ma all' essenza considerata posteriormente (in ordine logico) al Verbo generato; che, essendo per sè oggetto, può solo divenir luce degli spiriti creati, e questi pure possono partecipare dell' essere in forma oggettiva, divenendo così intelligenti. Laonde il termine dell' umana intelligenza, che è l' essere ideale per sè oggetto, è un' appartenenza del Verbo divino, benchè non si possa dire lo stesso Verbo a cagione che l' essere a noi si manifesta come puro oggetto, e non come oggetto persona, quindi come oggetto ideale non sussistente e reale. A questa dottrina, che, relativamente all' uomo e non in sè, distingue le appartenenze del Verbo dal Verbo stesso, fu fatta quest' obbiezione: L' oggetto informante lo spirito umano, che dicesi appartenenza del Verbo, o è creato o increato: se increato, dunque è il Verbo stesso; se creato, egli non può essere un' appartenenza del Verbo, perchè tutto ciò che appartiene al Verbo è increato, non è fatto ma è eterno. Alla quale obbiezione risponde S. Tommaso d' Aquino colla seguente dottrina: « Conviene avvertire che qualche cosa si dice del Figliuolo di Dio secondo sè, come quando lo si dice Dio onnipotente e simiglianti cose. Qualche cosa poi si dice di lui rispettivamente a noi, come quando lo si dice Salvatore e Redentore. Qualche cosa ancora si dice di lui nell' uno e nell' altro modo, come quando lo si dice sapienza e giustificazione. Ora in tutte quelle cose che si dicono del Figliuolo assolutamente e secondo sè, non si dice che egli sia fatto: così non dicesi che il Figliuolo sia fatto Dio o sia fatto onnipotente. Ma in quelle che si dicono di lui per comparazione a noi, ovvero nell' uno e nell' altro modo, si può aggiungervi l' esser fatto, come secondo quel luogo a' Corinti (1): [...OMISSIS...] . Onde, sebbene sia stata sempre in esso la sapienza e la giustizia, tuttavia si può dire, ch' egli di nuovo è stato fatto a noi giustizia e sapienza. Secondo questo adunque Origene esponendo dice, che, quantunque in se stesso sia vita, tuttavia è stato fatto a noi vita, perchè egli ci vivificò giusta quello ai Romani: « Siccome tutti muojono in Adamo, così parimente in Cristo tutti saranno vivificati »(2). E però dice, che il Verbo che è fatto a noi vita, in se stesso era vita, acciocchè un tempo divenisse a noi vita, il perchè tosto soggiunge: « « E la vita era la luce degli uomini »(3) ». Ora posciachè le appartenenze del Verbo, siccome sarebbe la verità che naturalmente a noi risplende, l' essere ideale, sono rispetto a noi tali, quindi si può dire che sieno fatte, o create, o forse meglio concreate con noi, sebbene nel Verbo considerate e quindi rifuse nel Verbo stesso senza distinzione, non sieno fatte, nè create, nè concreate; ma eternamente sussistenti, perchè sono il Verbo stesso, ed hanno perduta la loro condizione di appartenenze del Verbo, dal Verbo distinte; non essendo tali che rispetto a noi. Ma noi dobbiamo vedere come la vita che era nel Verbo sia la luce degli uomini. Primieramente si consideri come la vita nel Verbo abbia forma di oggetto, giacchè il Verbo stesso è l' essere assoluto nella forma di oggetto7persona. Dalla forma di oggetto che prende la vita (e l' essenza di Dio tutta è vita non essendovi nulla in esso di morte, nulla che abbia il concetto di nuda sussistenza, o di puro termine, qual noi concepiamo essere la materia) comunicata dal Padre al Verbo, risulta la vita intellettiva comune e identica in tutt' e tre le divine persone. Di più l' essenza vitale di Dio, oggetto per sè noto, per sè inteso, è anche per sè amata, e quindi la vita per sè intesa, per sè amata, è sollevata dalla spirazione unica del Padre e del Figliuolo ad una esistenza personale, cioè è in pari tempo la persona del Santo Spirito, onde è la vita, il sentimento, il gaudio morale puro identico in tutte e tre le persone augustissime. Quindi la vita, che è nel Verbo una e semplicissima, tuttavia secondo il nostro modo di concepire è triplice: di semplice sentimento, che s' appropria al Padre che la comunica, con tutto il resto; la vita intellettiva, che s' appropria al Figliuolo non perchè ella non sia dell' essenza divina, ma perchè ha per condizione l' oggetto e la forma oggettiva dell' essere che è propria del Figliuolo o Verbo; la vita morale che è pure dell' essenza divina, ma per appropriazione attribuita allo Spirito Santo, perchè ella ha per condizione l' oggetto per sè amato, e la forma dell' amabilità dell' essere è propria dello Spirito Santo. Ora, ciò presupposto, come avviene che la vita che è nel Verbo sia la luce degli uomini? Ella non potrebbe esser luce se non fosse oggetto dello spirito umano, che informandolo lo rende intelligente. Ma quest' oggetto non è mero oggetto perocchè è vita7oggetto, e di più è oggetto vitale e sussistente per sè amabile e per sè amato. Da questo procede: 1 Che nelle parole di S. Giovanni « « e la vita era la luce degli uomini » » non trattasi più di narrare la creazione d' un mero essere sensitivo, come poteva essere la statua che il Genesi racconta fatta da Dio di terra; la statua, dico primachè Iddio v' ispirasse in faccia lo spiracolo della vita (giacchè, se si suppongono gli atomi materiali animati, come abbiam detto, quella statua poteva essere un essere sensibile, e, dividendosi l' uomo nelle Scritture sempre in due parti, e non in tre, chiamata l' una carne vivente perchè concupisce contro lo spirito, l' altra spirito; ella quella statua poteva essere la carne vivente); ma trattasi di spiegare come l' uomo venne costituito nell' ordine degli enti intellettuali e morali. 2 Che la creazione dell' essere meramente sensitivo non esige che la vita del Verbo si comunichi come luce, ma basta che venga comunicata una vita semplice dall' essenza di Dio creatrice, senza che la mente nostra in tal causa vegga la special forma dell' essere oggettivo, ossia dell' essere come Verbo. Onde S. Giovanni dice che « « la vita era luce degli uomini » », e non degli animali, delle piante o de' minerali [...OMISSIS...] 3 Ma la luce che viene dal Verbo non è mero oggetto perchè è vita7luce, e la vita è sentimento e quindi realità, non è dunque una mera idea. Non è dunque la nuda idea dell' essere quella vita, di cui parla S. Giovanni, che è la luce degli uomini. Che anzi quella vita, che è luce nel Verbo, non è solamente vita, sentimento, non è solamente luce7oggetto, onde la vita intellettuale, ma di più è vita7luce per sè amata nello Spirito Santo, onde viene la vita morale. Dunque S. Giovanni parla in questo luogo d' una luce compiuta, che santifica l' uomo e gli dà la sua ultima soprannatural perfezione. Quindi Gesù Cristo disse: « « Io sono la luce del mondo: colui che mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà il lume della vita »(2) ». E, dicendo: « « il lume della vita » », non solo unisce alla vita il lume, ma ben anco fa derivar questo dalla vita, giacchè la vita posta in genitivo, secondo il favellare orientale, indica « causato dalla vita », e propriamente « figliuolo della vita », ovvero avente la natura di vita: onde tali parole di Cristo rispondono a capello a quelle di S. Giovanni, che « « la vita era la luce degli uomini » ». Si chiama ancora da S. Giovanni Gesù Cristo « « il Verbo della vita » » in queste parole: « « Quello che fu dal cominciamento, quello che noi udimmo, che noi vedemmo cogli occhi nostri, che percepimmo e le nostre mani hanno contrettato del Verbo della vita »; (e la vita si è manifestata, e la vedemmo, e l' attestiamo ed annunciamo a voi questa vita eterna che era appresso il Padre e apparì a noi), «quello che vedemmo ed udimmo, l' annunciamo a voi »(1) ». Dove è da notare che l' espressione, « « Verbo della vita » » [...OMISSIS...] viene ad unire il lume alla vita, perocchè la parola verbo indica oggetto pronunciato, e l' oggetto, se è per sè oggetto, è luce della mente, onde significa un verbo che ha in sè vita, che ha natura di vita. E` anche da osservarsi in queste parole colle quali S. Giovanni commenta ciò che si legge nel suo Evangelio che abbiamo alle mani, che vi si dice che la vita era appresso il Padre, il che risponde alle parole: « Et Verbum erat apud Deum »; e dimostra la serie che tiene la narrazione dell' Evangelista a principio del suo Vangelo, cioè volendo egli annunziare che il Verbo della vita si è manifestato agli uomini, incomincia dal dire che era ab eterno appresso il Padre occulto agli uomini e che a questi si è manifestato nel tempo, quello stesso che stava prima del tempo appresso Dio; ed anche allora era essenzialmente vita ed eterna vita, ma non ancora vita a noi. Ma rimane fermo quello che dicevamo, che, rispettivamente alla nostra maniera d' intendere e di favellare, noi concepiamo che Iddio dev' essere in se stesso essenzialmente vita, anche prescindendo dalla considerazione e dalla cognizione del Verbo, onde si chiama continuamente nelle Scritture « « Iddio vivo »(2) », in contrapposizione degli Iddii morti e materiali degli idolatri; e S. Pietro usa la frase: « per Verbum Dei vivi (3) », attribuendo la vita a Dio, cioè al Padre onde il Verbo procede e onde riceve la divina natura; e il Salmista dice: « « Deus vitae meae »(4) »; e nel Deuteronomio dice Mosè al popolo che « Iddio è la sua vita (5) ». Ma quando si tratta della vita7luce degli uomini, allora non si può più intendere senza considerare Iddio come oggetto sussistente e vitale, e quindi è già un' iniziata cognizione del Verbo. E quantunque nella comunicazione a noi di questa vita7luce concorrano tutte e tre le persone divine, onde S. Paolo dice: « « colui che fu fatto da Dio a noi sapienza »(6) », attribuendo al Padre la missione del Figliuolo, perchè dal Padre viene generato e quindi anco mandato; tuttavia il termine di questa illuminazione vitale degli uomini è il Verbo, il quale è pure il termine dell' Incarnazione, benchè il principio di questa appartenga a tutta la Triade augustissima, ma del Padre sia propria in quanto è generatore. Il Verbo poi, a noi comunicatosi, emette e diffonde in noi, purchè non trovi in noi stessi ostacolo di peccato che lo impedisca, i doni dello Spirito Santo e lo stesso Spirito Santo che dal Padre e dal Figliuolo procede: con che si compie la nostra vita soprannaturale. Le quali cose premesse, sembra apparir più chiaro come queste parole di S. Giovanni, generali come sono, e tali in cui si parla degli uomini senza distinzioni, siano vòlte a dichiarare in che consiste qualsivoglia luce intellettiva dell' umana creatura. Qualunque raggio d' una tal luce, l' Evangelista c' insegna venire dal Verbo, perocchè questo è assolutamente detto esser la luce degli uomini. Non è egualmente detto in modo assoluto ed universale che il Verbo sia la vita degli uomini; perocchè non ogni vita è intellettiva, ma v' ha una vita animale, nella cui causa non è a noi necessario vedere l' oggetto7luce che si comunica, bastando che concepiamo una causa vivente qual' è l' essenza divina comune a tutte e tre le persone. Nulladimeno la vita animale non è la vita propria della creatura umana, essendo essa comune alle bestie; ma la vita propria dell' uomo è la vita intellettuale, la quale non si può spiegare senza supporre che innanzi allo spirito umano stia l' essere nella forma di oggetto, e però senza ricorrere ad una causa che sia ella stessa oggetto, e che all' uomo, come tale, si manifesti. Quindi dice S. Giovanni che la vita era la luce degli uomini. Or se si trattasse dell' essere meramente ideale, questo sarebbe luce, ma non sarebbe vita; perchè la semplice idea dell' essere non dà un sentimento reale, ma una pura intuizione. Qui non vi ha dunque quella « vita che è luce degli uomini ». Di che si deduce che, essendo « la vita che è nel Verbo la luce degli uomini », conveniva che questa fosse data nella prima istituzione del genere umano. Laonde, quando il Genesi narra: « « Il Signore Iddio formò adunque l' uomo del limo della terra, ed inspirò nella faccia di lui lo spiracolo della vita, e l' uomo fu fatto in anima vivente (1) » », conviene intendere per questo spiracolo della vita quella vita che è la luce e che è nel Verbo. E però è da dire, che il primo uomo fu costituito non già nel solo ordine naturale, al quale nulla più si esige che l' essere come oggetto ideale dato da intuire allo spirito; ma ben anco che fu costituito nell' ordine soprannaturale, al che si esige che l' essere come oggetto, dato ad intuire all' uomo come oggetto, sia reale, e quindi abbia in sè vita: onde al primo uomo fu fatta una cotale comunicazione dello stesso Verbo di Dio. E questo dichiara meglio in che modo l' uomo fu creato a imagine e similitudine di Dio secondo quelle parole: « « Facciamo l' uomo ad imagine e similitudine nostra, e presieda ai pesci del mare, e ai volatili del cielo, e alle bestie, e a tutta la terra, e ad ogni rettile che si muove sulla terra (2) » ». La quale imagine e similitudine di Dio, a cui fu fatto l' uomo, si vede primieramente in questo, che anche nell' uomo si riscontrano le tre forme dell' essere analoghe a quelle che in Dio costituiscono le tre divine persone: cioè la forma soggettiva, la forma oggettiva nell' essere che gli è dato ad intuire, e la forma morale nell' inclinazione e armonia di sè soggetto all' essere oggetto manifestato; e quindi anco le tre vite, reale, intellettuale, e morale che le due prime congiunge e nel cui abbracciamento affettuoso consiste. Ma la forma oggettiva dell' essere non è data all' uomo in modo da costituire una parte dell' uomo stesso, perchè l' uomo è puramente soggetto, e non può diventar oggetto, che sarebbe un diventare Iddio. E poichè l' oggetto essere è l' immagine dell' essere secondo il parlare delle Scritture, quindi i Padri osservano che l' uomo non si dice già l' uomo fatto imagine di Dio, ma fatto ad imagine, il che avviene perchè l' imagine di Dio è l' oggetto che egli intuisce secondo la sua primitiva istituzione (3). Quello che è propriamente chiamato imagine di Dio nelle scritture sante è il Verbo. Di Cristo dice S. Paolo: « qui est imago Dei (4) »; e altrove: « qui est imago Dei invisibilis (5) », dove quell' attributo d' invisibile, dato a Dio, indica chiaramente che Iddio si conosce pel Verbo, nel quale egli ha la forma di oggetto e però di lume, e appo Iddio invisibile stava il Verbo prima che si rivelasse. Perocchè, come dice S. Paolo stesso, « omne quod manifestatur lumen est (1) »; non potendovi essere altro che si manifesti se non il lume, il quale è visibile per se stesso, e l' altre cose per lui che le illumina. E posciachè quello che si conosce delle cose è la forma (2), chiamata anche figura [...OMISSIS...] che risponde all' idea, e non la materia o la mera sussistenza; perciò S. Paolo chiama Cristo figura, ossia, in greco, carattere : « qui cum sit splendor gloriae et figura substantiae ejus (3) ». Al che si riferisce altresì quello che già nelle antiche carte fu scritto della Sapienza, che « « ella è un vapore della virtù di Dio e una cotale emanazione sincera della chiarezza di Dio onnipotente; onde niente di macchiato incorre in essa, poichè è candore della luce eterna e specchio senza macchia della maestà di Dio e imagine della bontà di Lui (4) » ». Nel qual luogo sembra favellarsi della sapienza di Dio in quanto viene comunicata agli uomini: onde la sapienza oggettiva di Dio, che riducesi al Verbo, chiamasi « virtù di Dio », e la comunicazione di essa agli uomini « un vapore di tale virtù », la sapienza chiamasi « chiarezza di Dio onnipotente », e la comunicazione di essa « una cotal emanazione sincera »; la sapienza chiamasi « luce eterna », e la comunicazione « candore di quella »; la sapienza « maestà di Dio », la stessa maestà in quanto è comunicata « specchio senza macchia »; e finalmente la sapienza, in quanto ha in se stessa l' amabilità, che si riduce allo Spirito Santo, chiamasi « bontà di Lui », e la stessa bontà comunicata dal Verbo « imagine di essa bontà ». Ed ogni qual volta nelle divine scritture si nomina il volto o la faccia di Dio, queste metafore esprimono la conoscibilità di Dio; perocchè dal volto, o faccia, si conoscono gli uomini; e quindi tali espressioni nominano il Dio oggetto, il Dio conoscibile, il quale noi sappiamo essere il Verbo: onde molti Padri ottimamente interpretano quelle maniere di dire del divin Verbo, il quale è luce, o vita lucente per se stessa. L' uomo adunque fu istituito ad imagine di Dio, cioè colla percezione del divin Verbo, in quella maniera che spiegheremo in appresso, e quindi fu collocato in uno stato soprannaturale, dotato della divina grazia. E quantunque dalla parte dell' uomo non vi avesse alcun diritto a questo stato soprannaturale, nè la grazia costituisca un elemento di sua natura, nè tampoco un elemento di sua natura intelligente fosse una tale congiunzione di lui col Verbo, non appartenendo alla costituzione della natura umana se non la intuizione dell' essere ideale, senza la quale non potea essere intelligente, e però nè tampoco uomo; tuttavia dalla parte di Dio era convenientissimo, e di una necessità morale, che l' uomo uscente dalle divine mani fosse sublimato a tanta altezza, perocchè il Verbo era la luce degli uomini; e dando loro questa luce, si dava loro la vita altresì, perchè « nel Verbo era vita, e la vita era la luce degli uomini »: l' effetto così corrispondeva pienamente alla condizione della causa. L' Ecclesiastico così narra la istituzione de' primi uomini: « « Iddio creò l' uomo di terra e lo fece secondo la sua imagine. E ancora fece che si convertisse a quella, e secondo questa lo vestì di virtù. Gli diede copia di giorni e tempo, e gli diede il dominio di quelle cose che sono sopra la terra. Pose sopra ogni carne il timore di lui, e quasi signoreggiò le bestie ed i volatili. Creò da esso un ajuto simile a lui: diede loro consiglio e lingua, e occhi, ed orecchi, e cuore da pensare: e gli empì della disciplina dell' intendimento (1) » ». Le quali parole ben dimostrano che Adamo ed Eva furono dotati di doni soprannaturali, e di quello che è per natura sua soprannaturale, cioè della grazia, di modo che non l' idea mera dell' essere fu loro comunicata, ma altresì una incipiente visione del Verbo, nel quale è quella vita che è luce degli uomini. Ma qui si offerisce alla mente la questione: Se i primi uomini usciti recentemente dalla mano del loro fattore avessero impresso nelle loro anime il carattere, onde, non trovando ostacolo, provenisse la grazia e la loro santificazione. La qual questione si dee distinguere dall' altra: Se, avendo essi il carattere nell' animo loro, questo fosse uguale a quello che si riceve ora dagli uomini nel lavacro battesimale istituito da Gesù Cristo, o in che differisse. Lasciando per intanto questa seconda questione, parmi poter sciogliere la prima affermativamente: e ciò perchè il carattere, preso generalmente, essendo la manifestazione abituale del Verbo allo spirito umano, non poteva mancare a quelli che erano creature intelligenti di quel Verbo nel quale era la vita luce degli uomini. Ma, come vedremo poi in appresso quando tratteremo la seconda delle due questioni proposteci, questo carattere in Adamo ed Eva era potenziale, e però non indelebile; quando nel Cristiano è del tutto attuale ed indelebile; e forse per questo non si dice espressamente nelle Scritture che i primi Padri del genere umano avessero il carattere, riserbandosi questa parola a significare propriamente il carattere del Cristiano. E tuttavia questo luogo di S. Giovanni sembra acconcio a provare che si può in qualche modo attribuire un carattere divino ai primi uomini. I primi uomini avevano abitualmente la luce soprannaturale, e questa luce non è una mera idea, ma è vita, vita che sta nel Verbo. Dunque era loro data una cotal percezione del Verbo, nel che sta il carattere di cui parliamo. La stessa parola di carattere è propria del Verbo, che S. Paolo chiama «karakter tes ypostaseos autu» (1), da cui crediamo esser provenuta la denominazione di carattere, a quel primo effetto del battesimo che consiste in una cotal impressione del Verbo nelle umane menti. Il che riceve conferma dall' addotto passo dell' Ecclesiastico, dove sembra distinguersi con precisione ed esattezza il carattere impresso nell' intelligenza del primo uomo, dalla grazia santificatrice della sua volontà. Perocchè il primo è significato in quelle parole: « « che fece l' uomo secondo la sua imagine » », la quale imagine di Dio, come vedemmo, non è altro che il Verbo: [...OMISSIS...] la seconda, cioè la grazia abituale e santificante, è significata in quel che soggiunge, che, dopo averlo fatto secondo l' imagine sua, fece che a questa egli si rivolgesse e convertisse: « et iterum convertit illum in ipsam »; la qual conversione di Adamo all' imagine non pare potersi intendere altramente che della soave inclinazione della sua volontà ad amare e ad aderire all' imagine di Dio, secondo la quale era fatto, cioè al Verbo divino lucente nella sua intelligenza, al che fare non trovava ancora alcun ostacolo di peccato. Nè egli sembra che il « convertit illum in ipsam » si possa intendere della conversione a Dio di Adamo peccatore, perchè il sacro scrittore aggiunge in appresso la formazione di Eva: onde nel luogo da noi citato parla di Adamo, se non andiamo ingannati, in quel tempo in cui non aveva ancora peccato nè ricevuto da Dio l' ajuto che poi gli fece della sua compagna. Il che è confermato dalle parole, che seguono a quelle: « et iterum convertit illum in ipsam », le quali sono: « et secundum se vestivit illum virtute », accomodatissime a significare la grazia abituale. Nè l' essere stato vestito di virtù appartiene ad Adamo dopo il peccato, ma alla prima sua istituzione. Egli sembra che per questo appunto l' Apostolo chiami rinnovazione dell' uomo quella fatta da Cristo, il quale venne a togliere il peccato introdotto da Adamo nel mondo, e a restituire alla sua prima origine l' opera di Dio, benchè, in ciò facendo, l' abbia elevato ad una dignità e santità vie maggiore: « « Ora rinnovatevi nello spirito della mente vostra, dice S. Paolo a que' di Efeso, e vestite l' uomo nuovo che fu creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità »(1) ». E a' Cristiani di Colossi dice: « « Spogliandovi l' uomo vecchio cogli atti suoi, e vestendovi il nuovo, quello che si rinnova nel conoscimento secondo l' imagine di lui che lo creò »(2) ». Vero è che questi luoghi si potrebbero intendere unicamente dell' uomo nuovo formato da Cristo, che fu una cotal creazione, senza ricorrere all' esempio di Adamo; ma tuttavia la parola « qui creatus est » sembra fare allusione alla creazione di Adamo stesso. Oltre di ciò, dicendosi « « l' uomo nuovo rinnovato nel conoscimento » [...OMISSIS...] «secondo l' imagine di lui che lo creò » », viene ad alludere manifestamente alla prima creazione dell' uomo, che dal Genesi è detto « « fatto ad imagine di Dio » ». Di più in questo luogo dell' Apostolo non si dice solamente « « l' uomo nuovo » », ma, secondo il testo originale, si aggiunge « « rinnovato nel conoscimento » », onde non si parla unicamente di una cosa nuova, ma di una vecchia ripristinata nella sua condizione primitiva di conoscimento. Il quale conoscimento secondo l' imagine di lui che lo creò, viene a significare « il conoscimento secondo il Verbo », giacchè l' imagine di Dio è il Verbo, e quindi viene a significare il carattere impresso nell' anima, che è pure il Verbo chiamato da S. Paolo « « carattere della sussistenza di Dio » ». Alla predetta sentenza potrebbe fare qualche difficoltà il luogo dove l' Apostolo scrive: « « Si semina un corpo animale, sorgerà un corpo spirituale. Se vi ha un corpo animale, vi ha del pari un corpo spirituale, siccome è scritto: Il primo uomo Adamo fu fatto in anima vivente (1), il novissimo Adamo in ispirito vivificante. Ma non è prima quello che è spirituale, sì quello che è animale; di poi quello che è spirituale. Il primo uomo dalla terra, terreno; il secondo uomo dal cielo, celeste. Quale il terreno, tali anche i terreni; e quale il celeste, tali anche i celesti. Laonde, siccome abbiamo portato l' imagine del terreno, portiamo anche l' imagine del celeste. E questo dico, o fratelli, perchè la carne e il sangue non possono possedere il regno di Dio, nè la corruzione possederà l' incorruzione (2) » ». Se questo luogo si potesse intendere di Adamo peccatore, la difficoltà sarebbe superata. Ma fanno ostacolo a ciò le citate parole del Genesi: « Et factus est homo in animam viventem », le quali dal sacro storico sono dette di Adamo quando fu creato innocente, di conseguente prima d' aver peccato. Convien dunque dire che l' intendimento dell' Apostolo qui sia quello di magnificare i doni e le grazie conferite all' umanità da Cristo sopra quelli che ebbe ricevuto Adamo quando fu creato. E questa sopraeccellenza dell' uomo in Cristo rinnovato sopra l' uomo da Dio creato, risulta dal contesto di tutto il luogo dell' Apostolo, e particolarmente da quelle parole: « Primus homo de terra terrenus, secundus homo de coelo coelestis ». Questo secondo uomo venuto dal cielo, e non cavato dalla terra, è il nostro Signor Gesù Cristo, come risulta chiaramente dal testo greco, che, invece di dire: « dal cielo celeste », dice: « « Signore dal cielo », [...OMISSIS...] . Onde viene a dire che il primo Adamo fu semplice uomo, ma il secondo Adamo fu Dio, fu il Verbo divino, proveniente non dalla terra, ma dal cielo sede di Dio; fu il Signore, [...OMISSIS...] , di tutte le cose ed anco dell' antico Adamo. Laonde il primo uomo trasse l' origine dalla terra corruttibile, benchè poi Iddio lo vivificasse col suo spiro e così lo rendesse anima vivente, partecipe della vita, non solo animale e intellettiva, ma di quella vera vita che era nel Verbo. Ma se quel primo uomo era anima vivente, non era però spirito vivificante, siccome è il Verbo divino; il quale non solo ha la vita, ma è vita egli stesso (1), e quindi la può dare, ed è quello che la dà agli altri, onde da S. Pietro è chiamato « « autore della vita »(2) », che equivale allo « « spirito vivificante » » di S. Paolo. Qa quello che è la vita non può mai mancare la vita; ma quello, che è solamente vivente, può morire, può perderla, com' è avvenuto ad Adamo: e perciò non era per se stesso incorruttibile ed immortale, come non era impeccabile. Era di natura sua corruttibile perchè formato di terra, la quale poteva sciogliersi in polvere, come la polvere che era stata raccolta a forma di uomo. Era peccabile perchè non era la stessa vita morale, ma questa vita l' aveva ricevuta da quello che era la vita; ed era stato collocato nel suo libero arbitrio di conservarla, o di fare miseramente getto di essa. [...OMISSIS...] . Così l' Ecclesiastico. Il nuovo uomo all' incontro è impeccabile perchè è Dio, è comprensore ad un tempo e viatore, è confermato in grazia come quello che è l' autore della grazia (4) e fu unto dal Padre (come uomo) e mandato nel mondo (come Dio) (5). Adamo non poteva dar la grazia a' suoi discendenti, ma il nuovo Adamo dà loro la grazia. Adamo non poteva dar loro l' immortalità, ma Cristo la dà loro: nell' uno e nell' altro senso egli è spirito vivificatore. Quindi anche la differenza fra la grazia data da Dio ad Adamo, e la grazia che è in Cristo e che Cristo comunica a' suoi seguaci. S. Agostino dice che la grazia data ad Adamo era un ajuto senza il quale l' uomo non poteva operare il bene soprannaturale, ma la grazia di Cristo, e comunicata al Cristiano da Cristo per mezzo del suo spirito, è un ajuto, col quale si opera il bene soprannaturale (6). Era l' uomo che operava in Adamo, non però senza la grazia: e la grazia di Cristo è Cristo stesso (7) che opera nel cristiano tutto il bene soprannaturale che fa il cristiano, non però senza il cristiano. [...OMISSIS...] , dice S. Paolo, [...OMISSIS...] . Non già che l' uomo non possa resistere alla grazia; l' uomo può volere il male. Ma quando il cristiano opera il bene, allora è Cristo, allora è la grazia di Cristo che opera in lui e con esso lui. Laonde quando S. Paolo esorta que' d' Efeso e que' di Colossi a vestire l' uomo nuovo, e spogliare il vecchio, allora per quest' uomo nuovo s' intende Cristo, e quelle parole equivalgono a quest' altre: « Induimini Dominum Jesum Christum (2) ». Il che viene ad indicare una cotale congiunzione fisica del Cristiano non solo col Verbo, ma col Verbo incarnato, il N. S. Gesù Cristo; connessione insegnata da Cristo stesso quando disse che egli era la vite e i suoi discepoli erano i tralci che dalla vite suggevano l' umore vitale di cui si nutrivano e vivevano (3). E` la vite il principale agente di tutte le operazioni del tralcio, benchè queste sieno operazioni del tralcio, senza il quale esse non sarebbero: onde chi opera nel cristiano le operazioni della vita soprannaturale è Cristo col cristiano, la vite col tralcio, non ego sed gratia Dei mecum . In Adamo innocente era l' uomo che operava colla grazia di Dio; nel cristiano è la grazia di Dio coll' uomo: in Adamo era l' uomo, ma senza la grazia non poteva nulla, auxilium sine quo; nel cristiano è la grazia di Dio, ma questa senza l' uomo nulla farebbe, auxilium quo . Lo stesso insegna l' Apostolo quando paragona la Chiesa di Gesù Cristo al corpo umano (4). Di questo mistico corpo Cristo è il capo, i fedeli sono le membra. La vita e le operazioni vengono dal capo unito alle membra, e quantunque le membra ricevano tutto dal capo, tuttavia anch' esse operano unite con lui. Ma rimane sempre che Cristo sia il capo onde ogni bene e ogni vita deriva. Con un' altra similitudine ancora si chiarisce quell' intimo nesso che ha Cristo con quelli che in lui sono incorporati. Tutti insieme formano un solo edifizio, una sola casa, ma Cristo è il fondamento che la sostiene (5). Questi diversi paragoni spiegano quella intima segreta unione che congiunge Cristo qual nuovo Adamo con quelli ch' egli genera spiritualmente alla vita eterna che è in lui. Ma prima di perscrutare più addentro cotesta unione, noi dobbiamo dimostrare alcune altre differenze che conseguono al principio da noi posto della differenza prima fra lo stato soprannaturale di Adamo e quello dell' uomo rigenerato in Cristo e da Cristo. Primieramente l' uomo incorporato a Cristo sente che non è egli che opera il bene, ma Cristo con lui, « non ego sed gratia Dei mecum, » e ciò pel merito della passione sofferta da questa grazia di Dio, « ut gratia Dei pro omnibus gustaret mortem (1) ». Essendo dunque Cristo che opera tutto il bene soprannaturale nel corpo de' fedeli di cui è capo, il fedele sente profondamente la verità che Cristo stesso gl' insegnò dicendo: « Sine me nihil potestis facere (2) », e sente nello stesso tempo che tenendosi in Cristo egli può tutto: « omnia possum in eo qui me confortat (3) ». « « Io sono la vite, voi i tralci: quello che si tiene in me, ed io in lui, questi porta molto frutto. Poichè senza di me non potete far nulla. Se alcuno non rimane in me, sarà gettato fuori siccome un tralcio, e si seccherà, e lo metteranno nel fuoco ed arderà. Se vi rimarrete in me, e le mie parole rimarranno in voi, qualunque cosa vorrete la dimanderete e vi avverrà. In questo è chiarificato il Padre, che voi apportiate il massimo frutto, e diveniate miei discepoli »(4) ». Dalle quali parole si ricava: 1 Che senza Cristo l' uomo non può far nulla. 2 Che tenendosi in Cristo l' uomo può portare molto frutto, anzi il massimo frutto e divenire discepolo di Cristo, parola altissima che dice tutto: può portare tutto il frutto che vuole, perocchè qualunque cosa voglia, egli anche la domandi, essendo l' orazione il segno della vera volontà cristiana, e domandata gli avviene. Ma non tutti quelli che si tengono in Cristo vogliono le stesse cose, e quindi non tutti acquistano lo stesso grado di santità, perocchè non a tutti è dato di ugualmente volerle e di dimandarle. Ma tutt' insieme il Corpo mistico di Gesù Cristo porta tuttavia il massimo frutto, secondo il calcolo infallibile del celeste agricoltore, e ciascuno porta il massimo frutto comparativamente al grado di volontà che gli è data, perchè tutta quella volontà che egli ha soprannaturalmente viene a pieno trasfusa nell' orazione ed adempita da Cristo, il quale è « « verità »(5) », cioè reale compimento dell' idea. E tuttavia niuno è forzato a tenersi in Cristo, e nè pure necessitato, qualora non sia confermato in grazia; onde Cristo dice a' suoi discepoli: « « Tenetevi in me, ed io in voi »(1) », a ciò esortandoli, perocchè la libertà di fare il male non è tolta agli uomini. Onde gli uomini possono col loro libero arbitrio staccarsi da Cristo, e non riceverne più la benefica e vitale influenza; e possono non distaccarsi da lui, e allora, rimanendo in lui, possono fare tutto il bene che vogliono e che domandano, perchè Gesù Cristo è quegli che lo vuole e lo domanda in essi e con essi. Onde da S. Giovanni questa unione si chiama anche società: [...OMISSIS...] . Da' quali due principii, che l' uomo non fa nulla di bene soprannaturale per sè, ma che tutto il bene lo fa Cristo in lui e con lui, e che Cristo con esso lui può fare tutto ed egli in Cristo apportare il più abbondevole frutto, procedono due sentimenti nel Cristiano: quello del proprio nulla e quello della propria grandezza dignità e potenza. Il sentimento del proprio nulla è luce a lui, perchè gli dà la consapevolezza della propria impotenza e nullità ad ogni bene, e della potenza di Cristo che in lui fa tutto e può tutto. Questo sentimento e questa luce di Cristo che ne rifulge, è l' origine, la prima la sommaria causa dell' umiltà cristiana, fondamento e condizione della virtù de' seguaci e discepoli del Salvatore. Come alla presenza d' un leone, un cagnolino chiuso con esso lui trema sentendo la nullità delle sue forze verso a quelle del generoso re della foresta; così ed assai più, ma in senso tutto diverso, il vero discepolo si sta annullato in se stesso e quasi tremante pel sentimento di Cristo, di quel Leone di Giuda che è in lui, con cui abita in un modo più vicino e più stretto che non il cagnuolo nella gabbia del leone, di quel possente che è in lui e con lui fa tutto il bene, quand' egli nulla può senza di lui, ed anzi non ha che la potenza del male: onde santamente e giustissimamente non pur non si pregia, ma odia e dispregia se stesso. E come il Leone potentissimo di Giuda divora, per così dire, nel cuore dell' uomo l' uomo stesso, facendo che s' annichili nell' umiltà: così in pari tempo usa di tutta la sua potenza, non al male, ma al bene, non alla morte, ma alla vita di quello entro cui vive ed opera; ma dandogli la propria vita immortale invece della sua mortale. Onde l' umiltà dell' uomo incorporato all' Uomo7Dio non è unita col timore riverenziale del suo redentore e vivificatore che in lui abita e con quel sentimento di timore che nasce sempre in presenza d' una immensa potenza anche benefica; ma bensì è unita con gran timor di se stesso di non istaccarsi forse dalla sua vita, cioè dallo stesso Signor nostro Gesù Cristo coll' arbitrio che gli rimane di operare il male. Quindi è che negli uomini santi, durante specialmente la visitazione superna e la comunicazione di lumi e di grazie gratofacienti, ne' quali momenti il sentimento della presenza di Cristo è più vivace, non si manifesta la tentazione di vanagloria e di superbia, quando anzi sono occupati e compresi da un sentimento indicibile di umiltà e si senton sospinti incredibilmente a glorificare Iddio: il che attestano essi medesimi, come si può vedere, fra gli altri scritti dei santi, nelle opere di S. Teresa di Gesù. Ora questo sentimento immenso d' umiltà, che è uno de' caratteri più meravigliosi della virtù cristiana, non era come in noi nel primo uomo Adamo, benchè fornito del carattere e della grazia; perocchè il carattere e la grazia in lui era d' altra natura lungamente diversa da quella che ha il carattere e la grazia di Cristo. Era l' uomo che operava in Adamo, benchè non senza la grazia. Adamo viveva d' una vita sua propria, naturale, benchè sublimata da doni soprannaturali. La sua natura era piena e perfetta, e n' aveva tutto il sentimento, n' aveva la gioia e la forza. Il cristiano non ha altra vita con cui opera e di cui fa stima che la vita di Cristo. La sua vita naturale nulla la stima, e non aspetta da lei quelle operazioni vitali colle quali ottenere il compiuto suo bene. Adamo era creato per godere della felicità naturale, entro i limiti della giustizia, e per passare poi gradatamente ad una felicità soprannaturale, che sarebbe stato un compimento di quella prima, e ciò di mano in mano ch' egli si fosse avanzato nella virtù e nel conoscimento ed amore di Dio, alla cui contemplazione poteva attendere se avesse voluto, e più o meno com' egli avesse voluto. La scelta lasciata al suo libero arbitrio era nell' occuparsi più o meno al godimento onesto de' doni naturali, ovvero più o meno alla contemplazione ed all' affetto delle cose celesti. La grazia gli era pronta se avesse voluto servirsene, la grazia accompagnava le sue azioni anche naturali mantenendone specialmente la rettitudine ne' rapporti con Dio: ma in quanto all' oggetto stesso diretto de' suoi affetti, rimaneva in suo arbitrio lo scegliere Iddio, o la natura retta ed onesta. Onde il carattere era in lui piuttosto potenziale, che attuale: il Verbo gli stava presente e Adamo potea rivolgersi al Verbo, piuttostochè fosse impresso nell' anima sua e la dominasse come principio operativo. Con che si incomincia a dare qualche soluzione alla questione propostaci innanzi (Lez. LIV, p. 139): qual differenza vi avesse fra il carattere indelebile de' primi uomini, e il carattere indelebile del Cristiano. E veramente leggiamo nel Genesi, dove descrive l' istituzione del primo uomo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole da una parte è detto che l' uomo fu fatto ad imagine di Dio, dall' altra non gli è assegnato altro che il dominio sulla natura, il nutrimento della natura, l' occupazione intorno la natura, e un limite posto con un precetto divino alle cose di cui doveva l' uomo cibarsi. Convien dunque riflettere che le operazioni dell' uomo possono essere ornate di due specie di moralità, sia naturale, sia soprannaturale: la moralità di forma, e la moralità d' oggetto. La moralità di forma è quella che rende l' azione buona ed ordinata, quantunque l' azione abbia per oggetto cosa materiale e non morale, come il mangiare e il moltiplicarsi (coll' accennarsi nel Genesi di queste due cose solamente, si volle dimostrare il modo come Iddio istituendo l' uomo provvide alla conservazione dell' individuo, e anche della stirpe sopra la terra): la moralità d' oggetto, all' incontro, è quando l' uomo si occupa direttamente d' un oggetto per sè morale, come di Dio, e della virtù prendendola per fine. Ora questa seconda specie di moralità era quella a cui Adamo doveva innalzarsi in appresso col suo libero arbitrio, ma non era quella in cui venne da Dio costituito. Perocchè Iddio nell' istituire l' uomo nulla fece di ciò che l' uomo potesse fare da se stesso: volle, secondo l' economia della divina sapienza, che l' uomo stesso divenisse l' autore della sua perfezione morale, e quindi lo costituì nell' infimo grado della moralità soprannaturale, quasi seme onde poi dovesse svolgersi la gran pianta. Tuttavia gli accennò il fine delle sue operazioni nella narrazione della creazione, che è da credersi comunicata ad Adamo in quelle parole « et requievit die septimo ab universo opere quod patrarat. Et benedixit diei septimo, et sanctificavit illum, quia in ipso cessaverat ab omni opere suo, quod creavit Deus ut faceret (1) ». La quale benedizione data al giorno settimo, chiamato la requie del Signore, e la santificazione del detto giorno, era o un precetto, o certo un invito a' primi padri di consacrare questo tempo al riposo dalle occupazioni terrene e alla contemplazione delle celesti e divine, ed accennava la requie perpetua e beata a cui eran chiamati dopo compito lo stadio delle occupazioni terrene. Una adunque delle principali differenze fra la condizione in cui da Dio fu posto Adamo, e la condizione del Cristiano, si è che in quello dominava ed operava la natura umana perfetta e felice in tutto il suo vigore, accompagnata però da quella grazia, colla quale, se avesse l' uomo voluto, poteva e non abusare de' doni naturali ubbidendo Dio, ed altresì sollevarsi a contemplare ed amare direttamente Iddio come supremo ed infinito oggetto di beatitudine; nel Cristiano all' incontro la natura umana sua propria non ha alcun valore, alcuna virtù, in ordine alla vita eterna: ei non è chiamato a nulla se non alla distruzione ed alla morte; ma in quella vece chi opera in lui è la natura umana di Cristo, natura perfetta, trionfatrice della morte. Perocchè, in un modo ineffabile e misterioso di cui ci verrà forse altrove occasion di parlare, l' umanità gloriosa di Cristo è in una comunicazione reale ed unione permanente con tutti quelli che hanno ricevuto il battesimo e gli altri sacramenti, onde vivono della vita di Cristo; e da questa vita procedono i loro atti e tutto il bene soprannaturale che fanno, sia di forma, sia d' oggetto, nè altro prezzano che questo bene. L' uomo cristiano adunque che si tiene in Cristo, sentendo che un altro e potentissimo opera in lui e con lui, ha una certa consapevolezza d' essere escluso ed annullato nelle operazioni della vita eterna: annullato cioè in questo senso ch' egli non è più il principio supremo onde partano le dette operazioni, ma partono da un altro principio verso al quale egli tiene ragione quasi di attivo istrumento. Quindi il fondamento profondo della cristiana umiltà. Ma a questo si aggiunge, quasi a rinforzo dell' umiltà stessa, che la vita naturale del figliuolo di Adamo peccatore è inferma, mortale, precaria, e di più ha qualche cosa di ripugnante a dilatarsi nell' infinito, e ad abdicare se stessa per lasciare il governo dell' uomo e il principio dell' attività alla vita di Cristo. Quindi la lotta fra la carne e lo spirito, e le grida del principio soprannaturale del Cristiano contro la propria animalità: « « Me uomo infelice! Chi mi libererà dal corpo di questa morte » », e soggiunge: « « La grazia di Gesù Cristo Signor nostro (1) » ». Perocchè la grazia è appunto quel principio supremo che s' aggiunge all' uomo, e questo principio è Cristo stesso che diviene così primo operatore delle azioni dell' uomo che non gli si oppone: onde l' uomo dominato da questo principio è divenuto uomo nuovo . Questo è il mistero della vita cristiana dichiarato ai Romani specialmente dall' apostolo Paolo, la qual vita non apparteneva nè punto nè poco ad Adamo ed Eva. Questi erano creati innocenti: peccarono essi stessi e la loro discendenza divenne serva del peccato. Ecco la base della grandezza cristiana: l' annullamento dell' uomo morale avvenuto pel peccato, l' essersi reso l' uomo inetto al fine per cui fu creato. Da questo principio muove S. Paolo nella sua meravigliosa lettera ai Romani: [...OMISSIS...] . Dice gli uomini in quello nel quale peccarono volendo dire gli uomini in quanto erano in Adamo, perocchè in Adamo era la natura umana che dovea poscia rifondersi in altri individui. Onde quella che peccò fu la natura umana in Adamo; per la qual cosa il peccato originale ne' posteri dicesi « peccato della natura », e gl' individui o suppositi diconsi aver peccato in quanto ricever dovettero la natura peccatrice. La natura poi si fa peccatrice perchè la natura umana non è solamente fisica, nè solamente intellettuale, ma ella è altresì essenzialmente morale, come quella che è fornita di volontà; e la volontà come natura morale può rendersi difettosa per un agente disordinato che la disordina, quale nel caso nostro è il corpo, la cui concupiscenza non è più in balìa totalmente della ragione libera, ma opera senza di questa in parte, e a dispetto di questa, in quanto che la volontà rimane a lei aderente e con esso lei legata in modo da esser sottratta alla dominazione dell' uomo, o per dir meglio alla libertà determinantesi pel bene; la qual forza della libertà, o è così fiacca che non sorge a combattere la volontà lusingata dalla concupiscenza, o, se sorge scossa dalla bellezza della virtù che gli dimostra innanzi l' intelletto, non ha polso da eseguire. Il che è quello che dice S. Paolo in persona propria parlando dell' uomo peccatore: [...OMISSIS...] . Di che induce l' esistenza in tutti gli uomini del peccato originale, come principio d' operare il male che prevale [...OMISSIS...] . La legge del peccato risiede dunque, secondo l' Apostolo, nelle membra del figliuolo di Adamo, e questa legge è la concupiscenza che, non vinta dalla grazia di Cristo, cattiva l' uomo, lo spoglia della sua libertà al bene perfetto: e questo debilitamento o spogliamento della libertà del bene, onde la volontà aderisce alla concupiscenza, è quello che chiamasi peccato originale nei posteri; peccato abituale, principio operativo del disordine, il quale però non ha la nozione di colpa, come insegna l' Angelico, perchè è nell' uomo che viene ingenerato alla vita, senza che sia in potestà dell' uomo stesso l' evitarlo. Non è già che l' Apostolo non conceda al libero arbitrio del figliuolo di Adamo il fare anche qualche bene naturale. Il concede [...OMISSIS...] . Ma primieramente l' Apostolo accusa i gentili di non aver fatto nè pur quel poco di ben naturale che avrebbero potuto fare con quelle forze morali che lor rimanevano, e perciò gli chiama inescusabili. E rispetto a questo gli accusa per due capi. Dice in primo luogo che col lume della ragione conoscevano Iddio, e colla loro volontà non lo riconobbero, anzi si sforzarono d' imbrattare e sfigurare il concetto di Dio che era in essi: [...OMISSIS...] . Egli è certo che se i gentili avessero conservato netto quel concetto della divinità che dava loro la ragione contemplatrice dell' universo, e ad essa fossero ricorsi per ajuto, ella avrebbe loro sovvenuto nella sua essenziale misericordia. Ma non avendo voluto far questo, s' aggravò d' assai la loro condizione morale. E prima di tutto s' oscurò il loro cuore insipiente, perchè datosi liberamente ad un male che potevano evitare: il quale così oscurato li precipitò nell' idolatria: [...OMISSIS...] . Così non ebbero il soccorso da Dio, onde solo potevano averlo, e Iddio li abbandonò al loro reprobo senso, il quale, già originalmente viziato, divenne per la volontaria corruzione viziato ancor di più e privo dell' unico faro che potevano avere, se avessero voluto, nel loro naturale intendimento, un concetto puro e sincero di Dio. Quindi le passioni ignominiose che descrive l' Apostolo (3). Dice in secondo luogo San Paolo che sono inescusabili perchè essendo tanto deboli e miseri, in vece d' umiliarsi riconoscendo il proprio stato, anzi s' insuperbivano, e i superbi si chiudono ogni adito alla divina misericordia. Già la superbia stessa delle loro immaginazioni era stata la causa dell' idolatria. Perocchè: « dicentes se esse sapientes, stulti facti sunt (4) ». Or questa stessa superbia soprastante, anzi crescente al colmo nel fondo della corruzione, faceva sì che, nel mentre essi erano tanto rei, pigliassero tuttavia l' aria di dottori e di giudici co' loro simili, co' quali giudizi condannavano se stessi: [...OMISSIS...] . Nel qual errore di condannare superbamente i proprii simili erano incorsi principalmente gli Ebrei, i quali condannavano fieramente i Gentili e vantavan se stessi d' avere la legge di Mosè che non osservavano. Di che raccoglie S. Paolo che tutti e Gentili e Giudei erano colpevoli, cioè non solamente erano macchiati originalmente del peccato ereditato dal primo padre, ma ben anco da' peccati loro proprii, e da quello principalmente, che più impediva che Iddio li soccorresse, della superbia, disconoscendo essi l' impotenza in cui erano di operare il bene, o gloriandosi e giudicando gli altri, invece di umiliare e giudicare secondo la verità se stessi: [...OMISSIS...] . Ma lasciando da parte i peccati attuali e liberi, osserva S. Paolo che quantunque colle forze morali, che rimanevano all' uomo, questi avrebbe potuto fare qualche bene secondo natural legge, tuttavia ciò non bastava a salvarlo perchè « bonum ex integra causa, malum ex quolibet defectu . » Tale è l' ordine morale, che egli è uno, semplice, tutto intero, e mancandone solo una parte viene distrutto. [...OMISSIS...] . Ora a questo è impotente per sè l' uomo concepito in peccato, e perciò l' uomo non può operare la propria salute che è il bene morale completo: non la potè il gentile perchè non seppe osservare compiutamente la legge naturale, non la potè l' ebreo perchè non seppe osservare compiutamente la legge mosaica: [...OMISSIS...] . Il figliuolo adunque di Adamo è nullo nell' ordine morale, perchè non può colle sue sole forze ottenere il verace bene morale nè nell' ordine naturale, e molto meno nel soprannaturale. Il sentimento, la ricognizione pienissima di questa verità è la seconda ragione che noi vogliamo esporre dell' umiltà cristiana. Questo sentimento non poteva essere in Adamo, appunto perchè, come dicevamo, aveva la natura intellettiva perfetta coll' integrità del suo libero arbitrio, vestito altresì della grazia che lo trasportava nell' ordine soprannaturale: onde in lui era il sentimento vivissimo delle proprie forze colle quali operava il bene. Certamente Adamo ancora aveva cagione di professare l' umiltà, come l' ha ogni creatura, anche il più sublime degli angeli: ma quella era un' umiltà lungamente diversa dalla cristiana, consistendo unicamente nel riconoscere i limiti della propria natura, e la intera dipendenza di questa natura sua dall' Essere Supremo, onde aveva tutto ricevuto, onde tutto riceveva di continuo colla conservazione, e d' onde doveva aspettare il rallargamento dei proprii limiti, a cui l' idea illimitata dell' Essere che gli splendeva innanzi lo chiamava, e Iddio gliene aveva dato l' arra ed il mezzo nella grazia conferitagli. Adamo riconobbe bensì i proprii limiti, ma non la compiuta sua dipendenza da Dio, e cercò altrove di completarsi ed estendere se medesimo, dando orecchio alla seduzione diabolica, che gli persuase poter diventare un Dio mangiando del frutto vietato. Invece adunque di ricorrere a Dio pel proprio ingrandimento e completamento, cercò questo nella creatura alla quale diede pazzamente una virtù misteriosa e divina di trasformare gli uomini in altrettante divinità. Fu probabilmente ingannato dalla grandezza della natura angelica che gli si diede a conoscere; della qual grandezza angelica non abbracciando colla limitazione umana i determinati confini, la credè onnipotente ed infinita: e a questa natura angelica egli credette probabilmente d' incorporarsi mangiando quel frutto dal demonio posseduto ed investito. Così, nel congiungersi al demonio per mezzo del cibo, aspirò alla somma grandezza fisica ed intellettuale, e dimenticò la grandezza morale a cui non si volse come ad oggetto; la qual grandezza morale e completa, che trae seco le due prime, gli era offerta nel congiungimento di lui con Dio, che avrebbe dovuto perfezionare coll' ubbidienza alla sua volontà e quindi coll' umiliarsi. Credette di arrivare alla dilatazione dei proprii confini senza por mente all' elemento morale, dove la vera grandezza consiste; e quindi senza bisogno d' umiliarsi e di dipendere dal suo creatore: il che secondava il sentimento delle proprie forze, quale la natura piena e perfetta a lui infondeva. Fin qui noi abbiam favellato del primo dei due sentimenti che abbiamo detto esser proprii del Cristiano, cioè dell' uomo incorporato in Cristo: abbiamo favellato del sentimento del proprio nulla onde s' origina l' umiltà cristiana; ed abbiamo veduto come un tale sentimento non poteva essere in Adamo innocente. Dobbiamo ora considerare il secondo sentimento, prodotto nel Cristiano dalla presenza in lui di Cristo, ed è quello della magnanimità . Come l' uomo cristiano sente di non poter nulla da sè solo, di avere una natura guasta che ricalcitra al bene morale perfetto, e che concupisce contro lo spirito; così sente ancora di possedere un nuovo principio di vita spirituale, il quale è lo stesso Signor nostro Gesù Cristo con esso lui meravigliosamente congiunto. L' uomo primitivo, Adamo, dotato di una natura umana perfetta, doveva ascendere dalla perfezione fisica alla intellettuale, e dalla perfezione intellettuale alla morale. La natura fisica come pure l' intellettuale era retta in lui, e la sua volontà era fornita di un dono di grazia col quale poteva innalzarsi alla percezione sempre maggiore di Dio per mezzo della fedele ubbidienza che avesse prestato alla sua volontà manifestatagli in un precetto positivo. Egli indugiò sulla via prescrittagli, e invece di percorrere indivisamente i tre gradi dell' azione animale, intellettuale e morale, si arrestò a' due primi, non fece il terzo dell' ubbidienza al creatore, si fermò a voler solo la propria grandezza fisica ed intellettuale, e per ottenerla, senza la suggezione alla legge morale, tentò di unirsi cogli angeli prevaricatori mangiando il frutto vietato di cui essi erano probabilmente in possesso. Tutt' altra è la via del Cristiano. Questa non incomincia dalla perfezione fisica o intellettuale, ma dalla morale. Quelle due prime non contano più nulla perchè guaste irreparabilmente. Ma ricuperata soprannaturalmente una nuova vita morale, questa è quella che risuscita, riconquista e restituisce all' uomo le due prime. Questa vita morale viene ricuperata dall' uomo colla sua congiunzione a Gesù Cristo, che è il pane disceso dal Cielo: e in questa vita morale e soprannaturale di Gesù Cristo, partecipata dall' uomo, consiste la nuova dignità dell' uomo, la sua grandezza, la sua potenza, e il sentimento che noi dicevamo della magnanimità cristiana. Il primo effetto di questa nuova vita che riceve l' uomo venendo incorporato a Cristo, si è il sentimento della potenza morale, col quale egli disprezza la vita precedente, fisica e intellettuale, e così si sente superiore alla morte. Questa superiorità alla morte veniva espressa da S. Paolo [...OMISSIS...] . Il disprezzo della vita fisica e di tutte le cose umane veniva espresso dall' Apostolo medesimo in quest' altre parole a que' di Filippi: [...OMISSIS...] . Il disprezzo della vita intellettuale nuda separata dalla morale, fu pure espresso da S. Paolo così a que' di Corinto: [...OMISSIS...] . Il secondo sentimento che si racchiude nella magnanimità del Cristiano è quello della ricchezza e della padronanza che il Cristiano sente d' aver ricevuto su tutte le cose della natura, perchè possiede Cristo che è il Signore della natura. A questo sentimento si riferisce primieramente il poter de' miracoli promesso alla fede di cui Cristo disse: [...OMISSIS...] . Ed ancora: [...OMISSIS...] . E di nuovo: [...OMISSIS...] . Ed anche: [...OMISSIS...] . Alla preghiera fedele è promesso tutto, senza ostacolo che possano fare le leggi della natura. Avviene però che il fedele rare volte cerca miracoli per sè, e quasi sempre li desidera perchè i popoli conoscano per essi la verità evangelica: egli che già crede non ne ha bisogno, e pel rimanente si contenta dell' ordinaria provvidenza di Dio, nelle cui mani sta; il suo unico desiderio è di possedere la santità, alla quale ottenere non fanno mestieri miracoli esterni. Onde, non desiderandoli, nè volendoli, nè pure può aver quella fede di ottenerli che li produce. Quindi i miracoli succedevano più frequenti al principio quando si dovea propagare il Vangelo, ed ancora accadono quando sembrano necessarii agli uomini apostolici per diffondere alle nazioni infedeli l' evangelica verità. Del rimanente può anche accadere che si desiderino i miracoli per aumento della pietà o per la glorificazione dei santi; e se sorge nel cristiano questo desiderio, e la fede con esso, e quindi dimanda il miracolo, questo avviene indubitamente, siccome avviene ancora ove il santo desiderio insorga nell' animo per qualsiasi altro onesto motivo, e quel desiderio sia semplice e produca una volontà assoluta d' ottenere il miracolo, una volontà santa che si trasfonda in orazione senza esitazione di sorta. Questa volontà santa, semplice ed assoluta di volere quella cosa miracolosa e di dimandarla conseguentemente senza esitazione, se non nasce per una speciale ispirazione di Dio o non vi abbiano i motivi addotti della propagazione del Vangelo o della glorificazione dei santi, suol trovarsi più facilmente nei santi uomini idioti che non sia ne' gran letterati, benchè santi anche questi, a cagione che questi ultimi, avendo più lumi intorno l' ordinaria Provvidenza, più in questa si confidano, e tanto di questa si assicurano e ne aspettano con pazienza lo svolgimento, che non vedono alcun assoluto bisogno di volere e di dimandare il miracolo, onde non ne hanno una volontà assoluta e non lo dimandano semplicemente e senza condizione a Dio. Nè perciò questi si tengono meno ricchi e padroni degli avvenimenti de' primi. Tutti gli uomini santi sentono di possedere in Cristo il tutto, e con esso tutte le cose di cui egli è Signore, onde S. Paolo: « Si Deus pro nobis, quis contra nos? » [...OMISSIS...] . Di che di nuovo l' Apostolo: « Habeo autem omnia et abundo (2)... » Laonde tutte le cose dell' universo avvengono dirette dalla Provvidenza al bene e al perfezionamento dei Santi: [...OMISSIS...] , dei quali ha detto Cristo non perirà un capello (4). Ma nel medesimo tempo l' uomo santo intende che il possesso ch' egli ha di tutte le cose, lo ha in Cristo e per Cristo che è in lui, onde si considera come un figlio di famiglia che è bensì padrone, ma subordinatamente al Padre che è il vero padrone, sentimento espresso dall' Apostolo in quelle parole ai Corintii: [...OMISSIS...] . E ancora i santi incorporati a Cristo si chiamano suoi coeredi , perchè, essendo Cristo l' erede, come quello che morì in forma dell' uomo vecchio e risorse uomo nuovo, ereditando tutto ciò che all' uomo vecchio apparteneva ed anzi tutte le cose, egli, formante un corpo solo coi fedeli sue membra, chiamò queste stesse a parte della regale e magnifica sua eredità. Il terzo sentimento della magnanimità cristiana si è il disprezzo delle ricchezze e di tutte le cose del mondo; perocchè l' uomo incorporato a Cristo e santo, non cura di possedere a titolo umano e con brighe e sollecitudini temporali poche cose ed incerte, quando sa di possederle tutte in Cristo, e d' averle pronte, senza darsene briga o fastidio, ogni qual volta gli bisognano al proprio fine soprannaturale che solo apprezza come vero bene. Di che egli sente la beatitudine della povertà proclamata da Cristo, alla quale fu promesso il regno de' Cieli (1); sente ancora quell' altra voce di Cristo: « Nolite ergo solliciti esse dicentes: quid manducabimus, aut quid bibemus, aut quo operiemur? haec enim omnia gentes inquirunt. Scit enim Pater vester, quia his omnibus indigetis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justitiam ejus et haec omnia adjicentur vobis (2) ». Per le quali cose l' Apostolo descrive il ministro di Cristo con queste parole: « Sicut egentes, multos autem locupletantes: tanquam nihil habentes, omnia autem possidentes (3) ». A cui s' aggiungono le ricchezze non corrotte e non corruttibili promesse al Cristiano dalla voce di Cristo in un altro tempo, di cui potrà goderne senza timore e senza diminuzione di santità: [...OMISSIS...] Il quarto sentimento della magnanimità cristiana è la quiete nella condizione e nell' esercizio de' doveri del proprio stato, quando Iddio non muova e chiami all' opere straordinarie; e per l' opposto è l' intraprendenza e il coraggio perseverante nell' affrontare e condurre a termine le opere straordinarie a cui Iddio dà la mossa, e che mostra di volere. La quiete nasce nell' uomo incorporato a Cristo, rispetto ai beni umani ed al miglioramento di sua condizione, perchè sentendo di posseder Cristo è soddisfatto come del possesso del tutto. [...OMISSIS...] . Onde quelli che hanno in sè il sentimento di Cristo, non possono essere inquieti e solleciti per ottenere umani avanzamenti e ricchezze, ma vivono nel loro stato tranquilli. Ma nè pure il cristiano esce dalla sua quiete per intraprendere di proprio moto e senza conoscer prima la volontà di Dio opere straordinarie, benchè in se stesse sante e rivolte a glorificare Iddio. E ciò pel sentimento di umiltà, pel quale sa di essere un nulla e di nulla per se stesso capace. Di poi perchè non ignora che Gesù Cristo, che è in lui e il qual solo può fare in lui e con lui le cose grandi per la divina gloria, se le volesse, gliene darebbe l' impulso e gli manifesterebbe, cogli avvenimenti diretti dalla sua Provvidenza e in altri modi altresì, il suo volere. In terzo luogo perchè l' uomo non può sapere se un' opera anche buona in se stessa entri nel gran piano di Dio, e quindi sia un vero bene nel tutto, e quindi ancora Iddio la voglia far riuscire. [...OMISSIS...] . In quarto luogo perchè sa che tutte le cose, in qualunque modo egli operi, sono dirette dal Padre alla massima glorificazione del Figlio, ed anzi sono tutte date in mano del Figlio: onde questo effetto ch' egli tanto desiderava già viene ottenuto, o con lui se vuole Iddio, o senza di lui se non vuole. Ma quando lo spirito di Cristo, che è in lui, lo muove, quando la volontà di Dio si manifesta, quando si presenta quella necessità morale, di cui diceva S. Paolo: [...OMISSIS...] (4), allora l' intraprendenza, il coraggio, la perseveranza del Cristiano per la salvezza delle anime e per l' opera più stupenda di carità non ha limiti. Già egli mandato da Dio sente la sua immensa potenza in quel Cristo nel quale opera: egli superiore alla morte e a tutti i beni del mondo che disprezza, sapendo d' aver tutto ciò in sue mani, dice coll' Apostolo: « Omnia possum in eo qui me confortat (1) »: le difficoltà, le angustie, le infermità lo avvigoriscono: [...OMISSIS...] . Nè lo arretra o sgomenta il sentimento della propria debolezza, perchè confida in Cristo e non in se stesso, perchè sa e sente quello che dice l' Apostolo: « quae stulta sunt mundi elegit Deus, ut confundat sapientes: et infirma mundi elegit Deus ut confundat fortia: et ignobilia mundi et contemptibilia elegit Deus et ea quae non sunt, ut ea quae sunt destrueret: ut non glorietur omnis caro in conspectu ejus (3) ». E l' uomo incorporato a Cristo ripone veramente se stesso fra le cose che non sono, [...OMISSIS...] perchè egli non vive più della vita propria, cioè non conta più questa vita e non vuole operare secondo essa, ma vive in lui l' uomo nuovo Gesù Cristo, pel quale solo e col quale, siccome sua nuova vita, vuole operare e sa di potere. Laonde in questo sentimento del proprio nulla, viene esclusa la falsa umiltà, ed ha luogo la ricognizione de' doni di Cristo, e quella cotal maniera di gloria di cui l' Apostolo dice: « Qui autem gloriatur in Domino glorietur (4) ». Il che ha più significati: perocchè vuol dire di gloriarsi in quel Signore che fa tutto il bene in noi, attribuendone a lui solo la gloria di cui egli ci fa partecipi (5); vuol dire di gloriarsi non della nostra nullità o nelle cose vane e riprovevoli, ma di riporre la nostra gloria nell' essere uniti a Dio (6); vuol dire ancora di aspettare che quel Signore Gesù Cristo che è in noi già glorificato dal suo Padre celeste comunichi a noi egli stesso della sua gloria, senza che ce la prendiamo noi stessi, che non siamo conoscitori nè giudici del merito, nè nostro, nè altrui (7). Ora nè pure la magnanimità cristiana, sentimento nobilissimo da più sentimenti risultante, poteva essere nel primo uomo, perchè egli non era annientato per lasciare in sè luogo a Cristo; ma Adamo viveva della vita sua propria, benchè la sua mente avesse la percezione del Verbo, e secondo quella vita umana e limitata operava, e poteva, se avesse voluto, e onestamente operare, e sempre più spingersi a partecipare della vita intellettiva e della grazia del Verbo. Dalla congiunzione fisica7intellettuale7morale dell' uomo con Cristo, per la quale Cristo diviene il capo, i fedeli le membra che dal capo ricevon la vita e l' operazione, di maniera che Cristo è il principale operante nel Cristiano che non pone ostacolo cooperando alla mozione del capo, si viene ad intendere il valore di alcune formole solenni usate nelle divine Scritture e risonanti di continuo in bocca de' primitivi cristiani. Una di queste formole è quella « in Cristo »: [...OMISSIS...] Essere in Cristo Gesù è quanto dire essere inseriti in lui come il tralcio nella vite, e dice: ex ipso cioè ex Deo, perchè questa incorporazione è opera della santissima Trinità e s' attribuisce al Padre, dal quale procede il Verbo e con esso Verbo tutto ciò che al Verbo s' unisce e forma un corpo con lui, quasichè i fedeli stessi, divenuti una cosa col Figliuolo, e così divenuti Figliuoli anch' essi, procedessero essi pure dal Padre. « In Christo Jesu per Evangelium ego vos genui (2) ». Generare in Cristo è lo stesso che incorporare, inserire in Cristo. E si dice generare, perchè Cristo divenendo il principio supremo dell' operare, ossia suscitando per la sua congiunzione coll' uomo una nuova attività nell' uomo, superiore a tutte le altre ed atta a dominarle, l' uomo diviene con ciò una nuova persona, giacchè la base della personalità consiste nel principio intelligente supremo dell' operare. Onde S. Paolo considera l' uomo in Cristo come creato di nuovo, un uomo nuovo (3), una nuova creatura, che sola ha prezzo, nulla valendo tutto il resto [...OMISSIS...] . E poichè, rinnovata la personalità, creato un principio supremo e dominatore nell' uomo santo, ed incorruttibile, egli è come seme da cui dee rinnovarsi l' intera natura umana e tutto ciò che è fatto per essa, giacchè, ottenuto il fine, non possono, secondo la divina sapienza, mancare i mezzi, e il principale dee tirare a sè l' accessorio; quindi nel rinnovamento della parte superiore dell' uomo vede l' Apostolo giustamente la rinnovazione di tutto il mondo umano e la restaurazione di tutte le cose: [...OMISSIS...] , ed è quello che avevano già predetto gli antichi profeti (2). Il che fu l' eterno gran disegno di Dio, pel quale anche permise la caduta del primo uomo: « ut notum faceret nobis sacramentum voluntatis suae, secundum beneplacitum ejus quod proposuit in eo, in dispensatione plenitudinis temporum instaurare omnia in Christo, quae in coelis et quae in terra sunt, in ipso (3) ». Dove per quelle cose che sono ne' cieli s' intendono le spirituali, l' intelligenza e tutto ciò che è e si fa in essa, ossia la volontà intelligente, la quale va di cielo in cielo, di virtù in virtù, di perfezione in perfezione fino che, toltale intorno la benda corporea e tutte le macchie, perviene al cospetto di Dio nel Cielo de' Cieli. Per le cose poi che sono in terra deve intendersi il corpo umano, l' animalità e tutte le cose esterne che alla vita animale si riferiscono, le quali pure a suo tempo saranno restaurate, e già incominciano ad essere per la Provvidenza che le guida e rivolge a favore di quelli che amano Dio. E dice in ipso , perchè in Cristo sono tutte incorporate e formanti con esso lui un solo corpo, di cui egli è il capo e lo spirito vivificante; perocchè con Cristo non è solo incorporata l' anima, ma essendo Cristo non solo Dio, ma ancora uomo, e l' umanità di Cristo essendo composta necessariamente d' anima e di corpo, egli è di conseguente rettore, capo e vita non meno delle anime che de' corpi degli uomini, in un modo nel presente, in un altro più perfetto nel futuro, quando anco i corpi saranno intieramente rinnovati e perfezionati. Laonde S. Paolo anche nel tempo presente chiama i corpi de' Cristiani membra di Cristo [...OMISSIS...] . E non già che il corpo nella presente condizione sia pienamente riformato e fatto anch' egli degno della vita di Cristo; ma per la sua congiunzione collo spirito incorporato in Cristo, e per l' influenza dell' umanità di Cristo, come vedremo in appresso, acquista una cotale santificazione, e partecipa in qualche modo della stessa vita spirituale. Il che è quello che vuol dire S. Paolo conchiudendo: « Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est », non apprezzandosi il corpo come corpo, ma come partecipe d' una cotale spiritualizzazione, onde impedisce meno allo spirito di santificarsi, e alla santificazione di lui coopera. Rimanendo però nel corpo, fino che sta nella vita presente, qualche cosa di restìo e di materiale, onde anche soffre quanto più lo spirito a Dio si congiunga; conviene che a suo tempo venga distrutto e rinnovato colla risurrezione, al che si riferisce S. Paolo [...OMISSIS...] . Innumerabili sono le maniere di dire nelle quali ricorre nel favellare degli apostoli e de' loro discepoli l' espressione in Cristo, perocchè tutto ciò che è o che fa l' uomo cristiano, è in Cristo, lo fa in Cristo. [...OMISSIS...] ; e così di ogni altra cosa che avviene all' uomo soprannaturale, o che egli patisce, o che egli fa. Basta aprire le scritture degli Apostoli per abbattersi in questa fecondissima espressione in Christo, che egualmente ricorre ne' primi scrittori della Chiesa, nelle lapidi mortuarie cristiane, negli altari e nelle Chiese, in tutti i monumenti della cristiana tradizione. In questa solenne parola in Christo si contiene compendiato tutto il Cristianesimo, perchè esprime la reale mistica unione dell' uomo con Cristo, nella quale unione e incorporazione consiste il Cristianesimo in atto. Questa unione e incorporazione è il principio della pietà e scienza cristiana, perocchè il Cristianesimo, prima è pietà appartenente all' ordine attivo morale, e poscia è scienza appartenente all' ordine astratto intellettuale. Dal sentimento di questa incorporazione procede tutta la dottrina morale ed ascetica dell' uomo cristiano: questo sentimento è luce che lo illumina, perocchè è il sentimento di Cristo. L' unione e l' incorporazione reale dell' uomo con Cristo ha due parti. L' una e la prima e fondamentale è l' opera di Dio solo, è il fondamento della seconda; quella che si chiama anche la generazione spirituale, la nascita dell' uomo nuovo: è il congiungimento stabile che Cristo fa dell' uomo a sè; onde la nuova creatura. La seconda parte, propagazione ed effetto della prima, non è fatta dal solo Cristo, ma da Cristo coll' uomo, a cui s' è congiunto. L' uomo, acciocchè abbia luogo questa seconda parte della sua incorporazione a Cristo, acciocchè questa incorporazione abbracci totalmente l' uomo, dee non porre ostacolo all' operazione di Cristo e lasciarsi muovere spontaneamente secondandone gli istinti. La prima di queste due parti è l' impressione del carattere, di quel carattere che, secondo l' Apostolo, è il carattere della sussistenza di Dio; cioè del Verbo incarnato. La seconda è la diffusione nell' uomo della grazia abituale e santificante che viene dal carattere, cioè dal Verbo di Dio incarnato che emette il suo spirito nell' uomo che non resiste e lascia muovere la propria spontaneità da esso spirito. Dicevamo che l' impressione del carattere è fatta dal solo Cristo: questo si verifica a pieno nel bambino che non può opporre alcun ostacolo. Nell' adulto però, che è in condizione di operare colla sua volontà, quando viene battezzato (giacchè col battesimo, come noi diremo in appresso, s' imprime primieramente il detto carattere), si esige che almeno abbia l' intenzione di ricevere il battesimo di Cristo, o il battesimo datogli dalla Chiesa di Cristo: perocchè se egli o avesse intenzione semplicemente di subire quella funzione materialmente o la subisse con animo del tutto avverso a ricevere esso battesimo, non volendo anzi al tutto riceverlo, l' effetto dell' impressione del carattere non seguirebbe. Conviene adunque pel primo effetto, che nell' uomo non vi abbia la volontà avversa a riceverlo: e pel secondo, che vi abbia la volontà credente e docile al sentimento di Cristo, qualora questa vi possa essere; e se non vi può essere alcun atto di volontà, come nel bambino, conviene che vi abbia la volontà in potenza che riceve l' abito della fede e l' inclinazione ad essa senza ostacolo. Perocchè Cristo, che incorpora a sè il bambino, piega a sè abitualmente la volontà del medesimo, la quale si lascia piegare a quello che la tira, senza possibile resistenza. Laonde il carattere s' imprime nell' essenza dell' anima in quanto è intelligente, affettando la natura umana; la grazia poi informa la volontà dell' uomo, cioè l' essenza dell' anima in quanto è volitiva: e così tutto l' uomo rimane a Cristo congiunto, il che San Paolo chiama: « « vestire Cristo (1) » ». Ora da questa meravigliosa congiunzione dell' uomo con Cristo gli Apostoli e i loro successori derivarono, come dicevamo, tutti i precetti della morale e della perfezione cristiana quasi da un principio che nel loro seno tutti li racchiude, ed indi trassero argomento a tutte le loro esortazioni colle quali stimolavano i fedeli alla virtù cooperando a quel fondamento che già era in loro collocato della spirituale loro salvazione. E da prima da questa dottrina procedeva che la vita puramente naturale dell' uomo, cioè l' uomo vecchio, corrotto dal peccato naturale, non aveva più alcun valore, e però era condannato alla morte, e doveasi considerare come morto; laddove la vita novella, la vita di Cristo comunicata all' uomo era quella in cui doveva porsi ogni speranza, contenendo il seme dell' immortalità ed essendo veramente per sè immortale ed eterna. Onde S. Paolo diceva ai Romani [...OMISSIS...] . Sotto la parola carne e la parola corpo s' intende la vita naturale, adamitica, guasta dal peccato, onde nulla si può sperare perchè dannata alla morte, quando il bene e la salute dell' uomo sta nell' immortalità. Onde anche Cristo aveva detto: « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam (3) ». E l' Apostolo: « Ergo, fratres, debitores sumus non carni, ut secundum carnem vivamus. Si enim secundum carnem vixeritis, moriemini: si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis. Quicumque enim spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (4) ». Laonde queste due maniere esse in carne (1) ed esse in spiritu significano e contrappongono l' una all' altra le due vite: la vita naturale, mortale, corruttibile e corrotta ricevuta da Adamo per via di naturale generazione; e la vita di Cristo a noi comunicata per la generazione soprannaturale. Alle quali due maniere rispondono quest' altre: ambulare secundum carnem, cioè vivere secondo i desiderii della vita naturale e infetta dal peccato; e ambulare spiritu, cioè vivere secondo gli istinti della vita nuova di Cristo incorruttibile a noi comunicata. « Nihil ergo nunc damnationis est iis qui sunt in Christo Jesu, qui non secundum carnem ambulant (2) »: dove il qui sunt in Christo Jesu indica la prima fondamentale incorporazione con Cristo, e il qui non secundum carnem ambulant indica la cooperazione di colui che opera secondo gli istinti della nuova vita ricevuta dalla congiunzione con Cristo. Nulladimeno, quantunque chi vive della vita di Cristo non si considera più come fosse in carne, perchè rinunziò a questa vita carnale; tuttavia, fino che l' uomo vive, cammina in qualche modo nella carne, perchè questa non è tolta effettivamente del tutto, e combatte contro lo spirito. Onde S. Paolo dice di sè: « In carne enim ambulantes, non secundum carnem militamus », e ne rende la ragione dicendo: « Nam arma militiae nostrae non carnalia sunt, sed potentia Deo ad destructionem munitionum, consilia destruentes (3) »: nel qual luogo « il camminare nella carne »significa la condizione dell' uomo cristiano in questo mondo ancora impacciato colla vita animale corrotta, la quale sta sempre sull' assalire lo spirito, ma questo la combatte, non già contrapponendo alla carne armi carnali, ma spirituali, cioè tolte dalla vita di Cristo di cui egli partecipa, e di cui solo tien conto, come sua propria vita. La frase poi esse in spiritu, per opposto di esse in carne, significa appunto la perfetta incorporazione con Cristo, che si compie, come abbiamo detto, colla volontà consenziente e cooperante alla operazione di Cristo, nel che sta l' effetto della grazia. Perocchè lo spirito di cui si parla è lo spirito di Cristo, onde soggiunge: « Si quis autem spiritum Christi non habet, hic non est ejus (4) », e si chiama anche « « lo spirito della vita di Cristo ». Lex enim spiritus vitae in Christo Jesu liberavit me a lege peccati et mortis (5) », perocchè questo « spirito della vita », onde l' uomo viene avvivato quando è incorporato a Cristo anche colla sua volontà, è santo ed immortale. Ma conviene, perchè vi abbia questa vita nell' uomo, che Cristo stesso sia in noi spiritualmente, cioè che egli diffonda lo Spirito Santo che da lui e dal Padre procede nell' anima nostra: altrimenti non percipiamo Cristo secondo lo Spirito, ma solo secondo la carne. Il che dice S. Paolo così [...OMISSIS...] : il che è quanto dire, che solo col ricevimento della grazia di Cristo, e non per la sola impressione del carattere, e molto meno per una cognizione esterna priva della fede o della carità, si conosce Cristo spiritualmente, cioè partecipando del suo « spirito di vita », ma solo si conosce secondo la carne, la quale è morta e non dà la vita. E S. Paolo ripone appunto in questo la figliuolanza di Dio, non nella sola impressione del carattere battesimale, ma nella grazia che a lui consegue, se non trova ostacolo, in modo che l' uomo si lasci muovere dalla grazia, che è quanto dire dallo spirito di Cristo, e secondo questo operi: « quicumque enim spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (2) ». Ora da questa doppia vita che è nell' uomo viatore, cioè la vita adamitica, e la vita di Cristo in cui siamo incorporati, vengono primieramente due parti della Cristiana sapienza: l' una speculativa ed è la dottrina intorno la lotta mortale fra quelle due vite, fra que' due uomini, il vecchio ripudiato, ed il nuovo, e intorno la storia di questa lotta è gran parte della teologia: l' altra morale ed ascetica e contiene i precetti del combattimento spirituale. La lotta fra la vita adamitica chiamata carne e la vita di Cristo in noi chiamata spirito è descritta di frequente nelle divine scritture. Dice S. Paolo: « Caro enim concupiscit adversus spiritum: spiritus autem adversus carnem: haec enim sibi invicem adversantur: ut non quaecumque vultis illa faciatis (3) ». Le quali ultime parole indicano la libertà di fare senza ostacolo il bene limitato dagli istinti della vita adamitica guasta in noi dal peccato. Questi istinti sono così enumerati dall' Apostolo: « Manifesta sunt autem opera carnis: quae sunt fornicatio, immunditia, impudicitia, luxuria, idolorum servitus, veneficia, inimicitiae, contentiones, aemulationes, irae, rixae, dissensiones, sectae, invidiae, homicidia, ebrietates, commessationes, et his similia: quae praedico vobis, sicut praedixi, quoniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequentur ». All' incontro lo stesso Apostolo enumera i frutti dello spirito di Cristo in questo modo: « Fructus autem spiritus est: caritas, gaudium, pax, patientia, benignitas, bonitas, longanimitas, mansuetudo, fides, modestia, continentia, castitas (1). » Ma l' Apostolo c' insegna altresì che la vita naturale ed adamitica dell' uomo non sarebbe così corrotta e non lotterebbe di tanta forza contro lo spirito di Cristo, qualora non intervenissero le potenze malefiche degli Angeli delle tenebre, le quali sono entrate nella natura umana e nel mondo materiale quando i primi parenti mangiarono il frutto vietato, dove, come crediamo, il demonio si accoglieva: « Induite vos armaturam Dei », dice a que' di Efeso, « adversus insidias Diaboli. Quoniam non est vobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates, adversus mundi rectores tenebrarum harum, contra spiritualia nequitiae in coelestibus (2) ». E dice in coelestibus per significare la parte superiore dell' uomo, cioè la volontà, col solo consentimento della quale si compie il peccato formale, cui tende produrre in noi il demonio. E chiama i demoni principi e podestà, e rettori del mondo di queste tenebre, perocchè il demonio divenne principe di questo secolo da lui conquistato colla seduzione de' primi parenti: onde la vita adamitica, appunto perchè infestata dal demonio, è abbandonata a lui, che era omicida fino dal cominciamento (3), essendo il suo costante intendimento quello di estinguere l' uomo. Ma l' uomo nuovo Cristo, immune al tutto dal peccato, non potè venire menomamente in balìa del demonio, e quindi ottenne una vita immortale, colla comunicazione della quale agli altri uomini crea in essi un' umanità nuova, una vita nuova non soggetta alla morte, e però eterna: « Renati », dice S. Pietro, « non ex semine corruptibili sed incorruptibili per Verbum Dei vivi et permanentis in aeternum; quia omnis caro ut foenum, et omnis gloria ejus tamquam flos foeni: exaruit foenum et flos ejus decidit. Verbum autem Domini manet in aeternum (4) ». Lo stesso S. Pietro poi raccomanda a' primi cristiani di osservare la sobrietà e la vigilanza, colle quali virtù si tiene in suggezione la carne, e ne dà per ragione: « quia adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens circuit, quaerens quem devoret (5) », dimostrando così essere gli angeli ribelli quelli che rendono insolente la carne, e tentano di dare all' uomo il tracollo acciocchè consenta ai desiderii ed istinti della carne. E Cristo stesso insegna che il diavolo porta via il buon grano seminato dal celeste agricoltore e caduto in sulla via: la qual via rappresenta il cuore di colui che ascolta predicare la parola del regno e non la intende (1), e che lo stesso inimico dell' uman genere soprasemina le zizzanie nello stesso campo dove il padrone aveva seminato il buon grano (2). E lo stesso Cristo disse agli Ebrei: « Vos ex parte diabolo estis (3) » per indicare la loro consumata malizia comunicata loro dal diavolo, il quale, come voleva estinguer l' uomo, così voleva uccider Cristo; nel qual pensiero erano pur venuti gli Ebrei; e per indicare l' ultimo grado di malizia del discepolo traditore, gli dà il titolo stesso di diavolo: « ex vobis unus diabolus est (4) », quasi indicando l' individua unione che il diavolo aveva stretto coll' Iscariotta, nel quale e col quale operava, quasi direi a quel modo stesso come Cristo fa nell' uomo santo già in lui innestato. Perocchè il demonio possiede più o meno dell' uomo adamitico, e solo Gesù Cristo per se stesso è inaccessibile al demonio, onde potè dire: « Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam (5) ». Maria SS fu certamente immune da ogni invasione del diavolo per grazia singolare ricevuta dal Figliuolo di cui ella era Madre. Ma, universalmente parlando, ne' Santi stessi, ne' quali non vi ha nulla di dannazione, vi ha qualche porzione della loro parte inferiore molestata e in qualche modo posseduta dal demonio: onde la lotta che accresce il loro merito, le venialità, e il bisogno della purificazione col fuoco e colla morte. Fin a tanto però che il demonio non possiede la parte superiore dell' uomo, la volontà suprema, l' uomo è imperfetto, ma salvo tuttavia per Cristo, e non sarà in lui distrutto dal fuoco se non quello che avrà edificato di combustibile sopra il fondamento di Cristo che è in lui: [...OMISSIS...] . Posta questa lotta accanita fra l' uomo adamitico e l' uomo nuovo, cioè Cristo, nel cristiano, deriva la dottrina, come dicevamo, del combattimento spirituale. Questo combattimento ha due parti: l' una tende a rinforzare l' uomo nuovo, farlo crescere sempre più robusto e sicuro; l' altra tende a debilitare il nemico, cioè l' uomo adamitico, togliendogli la baldanza di nuocere. Ora S. Paolo enumera specialmente le armi che valgono per ottenere il primo effetto in queste parole: [...OMISSIS...] . Sono dunque queste armi, enumerate da san Paolo, e da lui chiamate anche « armi della luce »(2). 1 La castità espressa coll' espressione de' lombi succinti, che S. Pietro unisce alla sobrietà dicendo « Propter quod succincti lumbos mentis vestrae, sobrii perfecte sperate in eam quae offertur vobis gratiam, in revelationem Jesu Christi (3) »: e dice i lombi della mente, perchè la castità risiede principalmente in una mente pura, serena, ed aliena da ogni cosa carnale, il quale stato della mente, a cui ottenere assai conferisce la sobrietà, facilita oltremodo all' uomo l' innalzarsi alle speranze di quella grazia gloriosa che è offerta all' uomo, quando Gesù Cristo si manifesterà a lui nel punto della sua morte e nella fine dei secoli. E l' Apostolo aggiunge « succincti lumbos vestros in veritate », volendo significare come non basti una castità apparente, un esterno decoro, ma una vera castità che rifugge da ogni immondezza, non solo negli occhi degli uomini, ma in quelli di Dio e della propria coscienza. 2 La giustizia che quasi lorica cuopra tutto il corpo dell' uomo, quella rettitudine d' animo che è sempre disposto a dare a tutti il suo, nè fa mai a nessuno alcun torto. 3 L' affetto e la buona disposizione all' evangelio della pace, al che richiede l' Apostolo che l' uomo abbia i piedi calzati, come colui che dee viaggiare, cioè sia pronto a far viaggio per cagione dell' Evangelio o debba egli esulare per la persecuzione, o sia chiamato ad annunziare il Vangelo ad altre genti, ovvero venga da Dio chiamato all' altra vita, dove l' Evangelio della pace si compie nella magione del Dio della pace. E dicendo l' Evangelio della pace, dopo avere raccomandato la giustizia, viene ad inculcare la mansuetudine e la pace con tutti. 4 La fede, colla quale siccome con un saldo scudo si può spuntare tutte le saette delle fallacie e false argomentazioni de' falsi sapienti del mondo, e degli eretici, suscitate nelle loro menti e suggerite dall' iniquo, cioè dal demonio. E chiama queste saette di fuoco, per la loro sottigliezza e nequitosità, e per rammentare la perdizione a cui sono destinate nel fuoco eterno della malizia onde provengono. 5 La speranza che chiama galea di salute, ossia del salutare [...OMISSIS...] che è Gesù Cristo, perocchè la speranza è appoggiata alle promesse di Cristo. E che la galea, ossia l' elmo del salutare, sia la speranza, rilevasi da un altro luogo dell' Apostolo ove dice: [...OMISSIS...] . Ora l' elmo è un' arma difensiva che protegge la testa, perchè la speranza procede dalla mente, dove sta la fede in Cristo, ne' suoi meriti, e nelle sue promesse. 6 La cognizione e lo studio della parola di Dio, giacchè l' uomo cristiano nella virtù di questa parola fondata nell' infallibile e fedele autorità di Dio stesso trova tali ammaestramenti e tali sentenze con cui repellere tutti i sofismi e le tentazioni dell' inimico; di che abbiamo l' esempio di Cristo che alla trina tentazione diabolica oppose altrettanti detti delle divine scritture. 7 L' orazione e l' ossecrazione continua [...OMISSIS...] fatta collo spirito e non colle sole labbra [...OMISSIS...] e con ogni istanza [...OMISSIS...] . Questa assidua orazione dee farsi per sè e per tutti i santi, cioè per tutti i fedeli che costituiscono insieme un solo corpo di cui è capo Gesù Cristo, e particolarmente per i ministri evangelici, acciocchè Iddio conceda loro il dono della parola, e la fiducia di predicare liberamente l' evangelica verità e di aprirne agli uomini il mistero. . A cui s' aggiunge, qual conseguenza necessaria, la vigilanza cristiana nello spirito d' orazione, per la quale l' uomo sta continuamente svegliato a ricevere le divine comunicazioni ed attento sopra se stesso e su tutte le sue operazioni per evitare ogni offesa di Dio, ed ogni mal passo. « Igitur non dormiamus », dice in altro luogo l' Apostolo, « sicut et caeteri, sed vigilemus, et sobrii simus (1) », giacchè la mancanza di sobrietà impedisce non meno la vigilanza che l' orazione. L' orazione e la vigilanza furono congiunte insieme anche da Cristo quando disse: « Vigilate et orate ut non intretis in tentationem (2) ». L' uomo è composto d' una parte intellettiva e d' una parte animale che presta all' intendimento i segni delle cose reali col mezzo de' quali egli le pensa. L' unione individua di queste due parti costituisce la razionalità in cui risiede la natura umana. Ma nella parte intellettiva e dotata di attività, onde prende il nome di volontà, risiede la persona umana in quanto la volontà è un principio attivo supremo. Salvata la persona, è salvato l' uomo; perita la persona, è perito l' uomo. Laonde il demonio tende a pervertire la persona, e Cristo all' opposto a salvarla. Cristo la salva congiungendo alla persona, cioè alla parte suprema dell' umana natura, se stesso, dandole della propria vita. Il demonio cerca per opposto sedurla operando nell' animalità, e col gioco de' fantasmi traendola a pensare al male e allettandola a volerlo. Quindi due nemici dell' uomo: 1 il demonio co' sofismi che induce nel pensiero umano, togliendo i fantasmi che potrebbero indurre a pensare rettamente, e quindi a pensare la verità, il bene, e sommovendo de' fantasmi che, pel loro disordine, stravolgono e ottenebrano la mente umana e la fanno pensare malamente e conchiudere alla falsità ed al male; 2 l' animalità che incita l' uomo, non senza opera del demonio, ai diletti sensibili, distogliendolo dai diletti spirituali. Il primo di questi due nemici si combatte principalmente col rinforzare l' uomo nuovo mediante gli otto mezzi suggeriti dall' Apostolo e di sopra enumerati. Laonde S. Paolo li propone come armi acconcie a combattere le potestà malefiche, dopo aver detto che la nostra lotta, anzichè contro la carne e il sangue, è « contra spiritualia nequitiae in coelestibus (1) ». Il secondo nemico, cioè la carne, si combatte coll' estenuare di forze l' uomo vecchio. Perocchè, quantunque il demonio cerchi di stimolarlo e dargli una forza prevalente, tuttavia egli non può tutto in quest' opera, e l' uomo può mortificando la carne rendere inutili gli sforzi dell' inimico per rinforzarla, il qual nemico d' altra parte viene ad essere diminuito di potestà e di forze mediante gli otto mezzi enumerati. La seconda parte adunque del combattimento spirituale consiste nel scemare forze all' uomo vecchio in quanto contraddice e molesta l' uomo nuovo; e l' uomo vecchio chiamasi carne, non perchè la sola carne formi l' uomo, o perchè si debba intender per esso la sola vita animale, ma perchè nell' ordine naturale tutto l' uomo vive della vita animale, giacchè la sola animalità gli somministra il sentimento soggettivo, nel quale sta la vita, il quale sentimento soggettivo, radicalmente animale, si fa razionale per l' intuizione dell' essere, col quale ragiona sulle cose sensibili od astratte e quelle razionalmente appetisce. L' uomo nuovo all' incontro ha un nuovo sentimento soggettivo, come diremo in appresso, nel quale sta la sua vita, e quel sentimento è una partecipazione della vita di Cristo. Quindi adunque procede tutta la dottrina della mortificazione della carne, e della penitenza cristiana, la quale conviene ora che noi dichiariamo. Conviene dunque considerare che l' uomo col peccato si era reso inutile al gran fine pel quale Iddio l' aveva creato, che era quello d' unirsi a lui e così partecipare della sua santità e della sua beatitudine; e, reso inutile, l' uomo doveva morire, perocchè non è secondo la divina sapienza e perfezione che sussista una cosa senza fine. Per questo già all' intimazione del precetto dato ad Adamo vi era annessa la comminazione della morte [...OMISSIS...] . Della morte poi dell' uomo fu occasione il diavolo, il quale aveva tolto a correre una sfida con Dio. Perocchè Iddio, per mettere alla prova la soggezione e fede degli Angeli, aveva creato l' uomo così mortale e fragile, com' egli è di sua natura, e aveva promesso di renderlo immortale santificandolo e fin anco divinizzandolo (coll' unirlo ipostaticamente al suo Verbo), e così renderlo oggetto d' adorazione agli angeli stessi, che per natura sono tanto più eccellenti dell' uomo. Alla qual parola di Dio credettero gli angeli buoni, e furono confermati in grazia. Ma i prevaricatori, superbi della loro eccellenza di natura, non credettero al misterio della divina parola, e parve loro un intollerabile abbassamento il pensiero di dover adorare una creatura tanto ad essi inferiore. Che anzi si lusingarono di poter distruggere un essere così fragile, come vedevano esser l' uomo. Quindi impossessatisi d' un frutto pensarono che entrerebbero nell' uomo, quand' egli, spiccatolo dall' albero, ne mangiasse; giacchè il cibo convertendosi nel corpo animato dell' uomo, essi potevano entrare a man salva nell' animalità, ossia nella vita soggettiva di questo essere, e farne quel governo che si proponevano. Il che diede occasione a Dio di avvertir l' uomo del pericolo, dandogli il precetto di non mangiare di quel frutto, coll' avviso che se ne avessero mangiato, sarebbero morti: il quale precetto amorevole dalla parte di Dio era d' altra parte opportuno per dar all' uomo occasione di sollevarsi al Creatore prestandogli fede ed obbedienza: il che era un vantaggio che Iddio traeva dalla malizia degli angeli ribelli. Questi dunque, posti all' impresa d' indur l' uomo a mangiare di quel frutto, trovarono dapprima l' opposizione del divino comando, ma ingannarono ben presto la donna promettendole, se n' avesse mangiato, di divinizzare lei e suo marito; il che era una pungentissima tentazione all' uomo, che sentiva tutta la potenza della vita e il voto della natura intelligente d' innalzarsi fino ad una infinita e divina eccellenza. La donna, compresa da una parte della grandezza della natura angelica che le parlava, la quale è da credere ch' ella abbia conosciuta smisuratamente maggiore della propria, cioè dell' umana, e tale da non potersi dall' uomo misurare, quindi indefinitamente grande (1); dall' altra, sollucherata dalla grandezza della promessa e dalla pienezza di cui godeva della vita umana, tenendosi sicura soverchiamente del futuro, riuscendole anche molesta la mortificazione e l' umiliazione dell' ubbidienza, e allettata dal senso che le mostrava il frutto oltremodo bello ed appetibile, e dalla curiosità di farne la prova, falsamente conchiuse esser cosa migliore il divenire pari a Dio per grandezza naturale, cioè fisica, e intellettuale, come le prometteva di presente l' angelo, secondando alla propria inclinazione naturale, che non sia, opponendosi a questa, acquistare la perfezione morale coll' ubbidienza al divino comandamento intimatole in passato, la quale la obbligava ad una costante sudditanza a Dio medesimo. Vinta da questo falso consiglio, credette al seduttore, e negò fede all' eterna verità, e così cadde ella prima e poscia il marito nella colpa, e col frutto mangiato si unì colla grandezza diabolica da cui s' era data a sperare sì gran fortuna. Così da una parte l' uomo naturale si rese inutile al fine della creazione, onde Iddio non aveva più cagione di difenderlo dalla morte; e dall' altra era entrato il demonio a guastare e disordinare l' umana natura, che rimase in tal guisa, e per giustizia divina, e per fragilità umana, e per istrazio diabolico, soggetta alla morte. L' uomo naturale adunque fu reso inutile: condannato alla morte, posseduto dal diavolo, che altro non fa che vie più disordinarlo e guastarlo, e condurlo più prontamente alla morte e al peccato che è lo stimolo (1). Se così fossero restate le cose l' umanità sarebbe rimasta distrutta, e il demonio avrebbe vinta la sfida col Creatore. Ma il Creatore non poteva perdere, e questa momentanea vittoria del demonio era l' occazione, la via, il mezzo col quale il Creatore medesimo voleva dar compimento al suo misericordioso disegno. Egli spiegò dunque il mistero della sua eterna volontà cogli avvenimenti. Preservò dal peccato originale una donzella eletta da tutta la stirpe d' Adamo, nella quale nulla potesse il demonio: alla quale preservazione dall' infezione originale bastava che rimanesse incorrotto un menomo seme nell' uomo, trascurato forse dal demonio stesso, dal quale seme incorrotto passato di generazione in generazione uscisse a suo tempo la Vergine che doveva schiacciare il capo al serpente (2). In questa Vergine s' incarnò per opera di Spirito Santo il Verbo, e così l' uomo che ne nacque fu non solo uomo ma Dio ad un tempo. Quest' uomo aveva la natura umana perfetta, incontaminata, del tutto innocente: a lui non era dovuta la morte. Gli altri uomini morendo pagavano la pena del peccato; per essa erano disfatti da uomini perdendo la vita soggettiva; nè dalla morte v' aveva possibile ritorno. L' Uomo7Dio nacque passibile e mortale, come gli altri figliuoli di Adamo, quantunque, essendo Dio, se avesse voluto avrebbesi potuto rendere immortale e impassibile, e sottrarsi in qualsivoglia guisa alla morte ed alle sofferenze. Ora il far questo era un atto di gran virtù, perchè era un rinunziare generosamente al proprio; era un atto di virtù, perchè in tale stato d' Uomo7Dio aveva occasione di esercitare con maggior ampiezza tutte le virtù verso Dio e verso gli uomini; era un atto di umiltà e di soggezione a Dio, onde solo egli aspettava ogni esaltamento ed ogni gloria; ed era un atto d' amore verso gli uomini, di cui voleva partecipare la somiglianza e tutti i mali, eccetto il peccato, e così poter con esso loro più comodamente trattare, e istruirli sull' abisso in cui erano caduti e sulla necessità di convertirsi a Dio colla parola e coll' esempio. Ora, se questo era moralmente eccellente, era mestieri che l' Uomo7Dio, che doveva in sè accogliere tutta la grandezza morale che è la vera e compiuta grandezza, ciò che non aveva inteso l' uomo primitivo, pigliasse questa via sublime: e così fece. Ma il Padre, oltracciò, abbandonò quest' agnello innocente alla rabbia de' lupi. Gli uomini rei e schiavi del demonio non poterono sostenere la vista del giusto nel mezzo di essi. Essi dunque dissero e fecero quello che si trovava già scritto molti secoli prima nelle Scritture, le quali dovevano compirsi (1), e Iddio ve l' aveva fatto scrivere acciocchè apparisse che era il suo eterno decreto. Dissero: [...OMISSIS...] . Tutto ciò alla lettera gli uomini compirono col solo Giusto, il S. N. Gesù Cristo: « fecerunt quae manus tua et consilium tuum decreverunt fieri (3) ». Gesù Cristo espresse alla stessa guisa del libro della Sapienza il fatto dell' odio gratuito, con cui il perseguitarono gli uomini: odio tutto proprio di Cristo solo, perchè solo aveva la pienezza della giustizia, della santità e della divinità. Ai suoi parenti, che lo esortavano a recarsi nella Giudea per farsi conoscere, rispose: « Non potest mundus odisse vos: me autem odit: quia ego testimonium perhibeo de illo, quod opera ejus mala sunt (4) ». E altrove [...OMISSIS...] . Conviene anche osservarsi, che mentre Cristo diceva a' suoi parenti, quando ancora non credevano in lui: [...OMISSIS...] dice all' incontro ai suoi discepoli che già credevano e quindi erano incorporati con lui: [...OMISSIS...] . E più altre volte predice ai suoi seguaci che saranno trattati come lui, perchè « non est discipulus supra magistrum (6) », che anzi l' Apostolo pronuncia in generale che «omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem patientur (7) ». Questa è la lotta fra l' uomo vecchio e il nuovo: quella lotta medesima che si manifesta nell' uomo rigenerato fra lui e quel rimasuglio d' uomo vecchio che ci rimane, fra lo spirito e la carne. Solamente che l' uomo nuovo, che vive della vita di Cristo ed opera secondo gli istinti di questa vita, non ha più in se stesso per avversario un altro uomo, ma solamente delle forze nemiche quali sono la concupiscenza e il demonio che più o meno vi si può maneggiare. All' incontro nella lotta fra Cristo e il mondo, cioè gli uomini malvagi, e lo stesso si dica della lotta fra i cristiani che sono in Cristo e i malvagi che li perseguitano, il combattimento non è della persona umana e delle forze nemiche, che appartengono alla natura dell' uomo ma non sono costituite in persona, ma bensì fra persone e persone, fra uomo ed uomo. La causa nulladimeno e la natura del combattimento è la medesima: salvo che nel primo caso tale combattimento è un fenomeno che si manifesta entro un individuo; nel secondo è un fenomeno che si manifesta in più individui, gli uni persecutori o insidiatori, gli altri perseguitati o insidiati. Esigendo dunque la perfezione della virtù, nel che consiste la grandezza morale, che l' uomo sia inteso unicamente a fare la volontà di Dio, e che dimentichi se stesso, cioè gli interessi proprii soggettivi, per non vivere che a seconda dell' oggetto; e quindi esigendo di aspettare ogni protezione, difesa, laude e gloria da Dio medesimo, che provvede magnificamente a' suoi servitori; esigendo finalmente che tutto ciò che appartiene al bene eudemonologico si brami e si aspetti come un effetto che fiorisce dal bene morale, di cui, secondo l' ordine ontologico, deve essere una cotale appendice e finimento, e non da se stesso senza la sua connessione naturale del bene morale: era mestieri che Cristo, destinato ad essere tipo e il realizzamento d' ogni perfezione, non provvedesse al proprio esaltamento, non usasse della divinità che possedeva a rendersi impassibile e glorioso, o a sottrarsi in altro modo dalle condizioni penali degli altri uomini, e quindi nè pure a togliersi dalla persecuzione che gli sarebbe fatta a cagione della sua giustizia odiata dal mondo maligno, che non riconosceva altra grandezza umana se non la fisica e l' intellettuale, ma che anzi sopportasse per la giustizia l' estremo dei patimenti e la morte. Il Padre celeste, per la ragione appunto che amava il Verbo incarnato d' un amore eterno ed infinito, doveva volere questa grandezza e perfezione morale di Cristo, in cui l' umanità doveva essere recata all' estrema altezza della eccellenza, la quale nel bene morale primieramente consiste. Questa dunque fu l' opera commessa dal Padre al Figliuolo mandato da lui nel mondo; questa volontà del Padre fu l' unica e costante regola della condotta di Cristo: [...OMISSIS...] . L' opera del Padre era l' uomo: quest' opera doveva essere condotta alla perfezione dal Figliuolo vestito dell' umana natura. « Non quaero voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me (1) »: cioè, io non cerco la mia volontà umana, soggettiva, non vo dietro all' istinto limitato dell' umanità; ma cerco la volontà perfettissima ed infinita di Dio Padre da cui procedo, e da cui sono mandato al mondo. Or questa volontà del Padre era ella una volontà positiva ed arbitraria? Voleva così il Padre perchè così era bene, ovvero era bene perchè così voleva il Padre? E se il Padre voleva così perchè era bene, qual è la ragione onde Cristo disse sempre esser venuto a far la volontà del Padre, in luogo di dire esser venuto a fare ciò che in se stesso era il bene perfetto, giacchè in tal caso l' esser bene ciò che faceva sarebbe stato una ragione del suo operare anteriore a quella della volontà del Padre, giacchè l' esser bene sarebbe stato la ragione dello stesso volere del Padre? Se poi la volontà del Padre era unicamente positiva ed arbitraria, non sarebbe ella stata una volontà senza ragione? e una volontà crudele, come quella che sommetteva il Figliuolo a tanto patimento senza una necessità? Per rispondere a questa difficoltà conviene prima di tutto riflettere, che non vi ha nulla di anteriore alla divinissima Trinità: non vi ha Dio, perchè Iddio è la Trinità; non vi ha l' essere, perchè l' essere è Dio; non vi ha l' ordine dell' essere, perchè appunto non vi ha l' essere, e l' ordine intrinseco e fondamentale dell' essere consiste nelle relazioni personali che costituiscono l' augustissima Triade; non vi ha dunque nè pure la forma morale dell' essere, perchè non vi ha l' ordine dell' essere di cui la forma morale è parte completiva. Ora questa forma morale è prima di tutto, nella sua assoluta ed originale perfezione, come persona, la persona dello Spirito Santo. Ora la persona dello Spirito Santo, che è l' essere oggettivo amato per se stesso, procede dal Padre per mezzo del Figliuolo per modum voluntatis, come dicono i Teologi, giacchè amare e volere suonano lo stesso, onde l' essere oggetto persona, amato ossia voluto per se stesso dalla sussistenza, cioè dal Padre, è lo Spirito Santo dove risiede l' assoluto bene morale, l' assoluta e personale santità. Vi ha dunque una volontà personale del Padre che è la spirazione che mette in atto lo Spirito Santo, nel quale la moralità essenziale come in proprio fonte si raccoglie. Non è anteriore adunque a questa volontà alcun bene morale, ma il bene morale originariamente da essa procede e si costituisce, ed è ad essa contemporaneo, ma secondo l' ordine logico posteriore. Convien dunque dire che la volontà del Padre, di cui parliamo, sia la ragione prima anteriore ad ogni moralità; ma, lungi da essere irragionevole ed arbitraria, è anzi quella che costituisce ogni ragione morale, ed è necessaria, come è necessaria nell' essere divino la spirazione del Santo Spirito che compisce e perfeziona la divinità sussistente in tre forme persone. A questa volontà per tanto si riferiva Gesù Cristo quando diceva di cercare non la volontà propria, ma la volontà di colui che lo ha mandato, di colui da cui egli stesso generato ab eterno aveva ricevuto di spirare, con una sola spirazione, lo Spirito Santo; di volere l' essere per sè voluto, per sè amato. Quest' essere adunque, in quanto è infinitamente amato, è l' oggetto della volontà del Padre e del Figliuolo, e la norma dell' operare di Cristo, il quale perciò doveva dare le massime ed esterne prove dell' amore verso l' essere stesso, sia in Dio dov' è assolutamente e per essenza, sia negli uomini dov' è contingente, relativo e partecipato. E quindi tale volontà del Padre, avendo una necessità morale, è chiamata da Cristo anche precetto, o mandato, e s' estende a tutte le azioni e passioni di quello che doveva esser tipo agli uomini di ogni perfezione: [...OMISSIS...] . E dice che questo mandato del Padre è la vita eterna, a cui riscontro sta la vita temporale; perocchè quel mandato essendo essenzialmente morale, contenente cioè la spirazione dello Spirito Santo che è il bene morale sussistente personalmente, esso dee contenere necessariamente la vita morale, la quale di natura sua è eterna. Con che in pari tempo dimostra, quanto il mandato del Padre valga più della vita temporale, la quale è passeggiera e momentanea, per modo che nulla si debba riputare il getto di questa pel guadagno di quella. Per adempire dunque questo mandato, e mostrare il suo amore al Padre (e nell' amore, come dicevamo, sta la forma morale dell' essere), Cristo non prezzò punto la temporale sua vita, e si soppose a quella passione che doveva essere l' estremo della morale eccellenza: [...OMISSIS...] . Il che è quanto dire che non moriva per necessità di giustizia, giacchè il demonio, che in lui non possedeva cosa alcuna, non aveva alcun diritto di conquista sopra di lui, e però non poteva dargli morte come agli altri uomini. Ma che egli nulladimeno moriva non costretto, ma per ispontaneo amore al Padre: il quale amore tuttavia era una necessità morale, e però un mandato del Padre, che, volendo in lui l' eccellenza morale, voleva l' amore e la prova suprema dell' amore, lo spontaneo sacrificio della vita. Onde la morte di Cristo fu al tutto spontanea ed effetto d' amore: ma, perchè questa spontaneità d' amore era la suprema eccellenza della virtù del Padre voluta nel suo Figliuolo umanato, perciò era ad un tempo stesso un mandato o precetto del Padre suo. Le quali due qualità, in apparenza opposte ma veramente armoniche, della morte di Cristo, cioè l' essere essa effetto di spontaneo amore e nello stesso tempo mandato del Padre che voleva questo amore nel Figliuolo, sono congiunte da Cristo anche in queste altre sue parole: « Propterea me diligit Pater, quia ego pono animam meam ut iterum sumam eam. Nemo tollit eam a me: sed ego pono eam a meipso; et potestatem habeo ponendi eam, et potestatem habeo iterum sumendi eam. Hoc mandatum accepi a Patre meo (1) ». E che il sacrificio dipendesse dalla sua libera volontà era stato già predetto anche da Isaia che aveva scritto di lui: [...OMISSIS...] . Ora, nelle citate parole di Cristo trovasi la conferma di quanto abbiamo detto: « Per questo, dice, mi ama il Padre, perchè io depongo l' anima mia per riprenderla ». Ora l' amore, che il Padre ha al suo Verbo come essenzialmente amabile ed amato, è la spirazione dello Spirito Santo; il Verbo, in quanto è oggetto amato, e non in quanto è Verbo cioè oggetto sussistente per sè cognito, è la persona dello Spirito Santo, la quale amabilità amata è l' essenza morale. Convien adunque che anche il Verbo incarnato, l' Uomo7Dio, fosse amato dal Padre, in quanto attuava la massima virtù morale, il massimo amore, di cui il sacrificio della vita temporale è il massimo atto, la massima prova: di maniera che il mandato dato a Cristo dal Padre è un atto di massimo amore del Padre verso il Figlio, è l' amore stesso del Padre e del Figliuolo formante la norma che doveva seguire l' umanità assunta dal Figliuolo. Ed ancora è da osservarsi, che non è solo volontà e mandato del Padre che il Figliuolo deponga spontaneamente la sua vita temporale acciocchè così eserciti la perfezione della virtù morale, ma è volontà del Padre altresì che poi la riprenda, e non più temporale, ma impassibile, gloriosa, resa vita eterna; e quindi il Figliuolo, a capello in accordo col Padre, non la dimette per dimetterla, ma per riassumerla dimessa; e in questo ancora è amato dal Padre, e in questo ancora ama il Padre: « Per questo mi ama il Padre, perchè io depongo l' anima mia per assumerla di nuovo. Nessuno me la toglie; ma io la pongo da me stesso, ed ho la potestà di riassumerla. Questo comandamento ho io ricevuto dal Padre ». Onde il comandamento del Padre si estende, non meno che alla morte, altresì alla risurrezione del Figliuolo: il male ed il bene per amore egualmente; e l' amore del Padre che vuole, è l' amore del Figliuolo che eseguisce; tutto il comandamento non è che amore: il bene eudemonologico qui tiene la naturale sua relazione col bene morale; non precede quello, è una sequela, un' appendice, un compimento di questo. Fra le ragioni, per le quali il Padre permise che il suo Figliuolo incarnato incontrasse la morte, si può annoverare anche quella, acciocchè apparisse manifesto dove tendesse l' uomo guasto dal peccato adamitico e in possesso del Demonio; a che conduceva lo sviluppo di un tal germe funesto; qual frutto era proprio di un tal albero. La profonda nequizia di un tal germe, la malizia diabolica che in esso operava, non sarebbe apparita intieramente agli occhi degli uomini; sarebbe stata nascosta, e quindi giudicata troppo più benignamente del merito, se non fosse pervenuta a commettere, in cospetto di tutte le nazioni, il deicidio. Laonde Simeone aveva predetto a Maria: « Ecce positus est hic in ruinam et in resurrectionem multorum in Isra‰l, et in signum cui contradicetur, et tuam ipsius animam pertransibit gladius, ut revelentur ex multis cordibus cogitationes (1) ». E forse, quando la turba rispondeva a Gesù Cristo che aveva detto perchè mi volete uccidere?, che nessuno lo voleva uccidere, ella non sapeva ancora il reo disegno de' principali della Sinagoga, e tuttavia Gesù Cristo rimprovera alla turba stessa che volesse ammazzarlo (2), per indicare che, quantunque la turba a cui favellava non avesse forse attuata una tale intenzione, tuttavia la portava virtualmente in se stessa nel peccato di cui era infetta. Non avendo adunque Cristo difeso se stesso, e il Padre suo avendolo abbandonato nelle mani degli uomini peccatori (3), egli fu crocifisso in odio della verità e della giustizia che predicava e che mostrava luminosissima e perfetta in se medesimo: il che rese Cristo il primo dei martiri e de' penitenti. Or, prima di avanzarci nel nostro ragionamento, consideriamo chi era Gesù Cristo. Egli era prima di tutto Dio, era il Verbo che costituiva la sua personalità; ma era ad un tempo uomo. E qual uomo era? In quanto era uomo senza peccato, egli era l' uomo innocente, il nuovo Adamo. Ma in quanto egli aveva voluto ricever la carne proveniente da Adamo, la carne passibile e mortale soggetta a tutte le infermità e dolori provenienti dal peccato, di cui egli non partecipava, egli era il Figliuolo dell' uomo . Con questa umile denominazione amò Gesù Cristo di chiamarsi (1); Figliuolo dell' uomo significava qualche cosa di più basso ed umile di uomo . Perocchè la denominazione uomo non involgeva il concetto di uomo decaduto dal primitivo suo stato, di uomo destinato alla morte; ma l' altra di Figliuolo dell' uomo indicava lo stato di decadimento, indicava il figliuolo del peccatore, indicava colui che soggiaceva alla pena del peccato. In questa condizione di uomo passibile e mortale, onde alcuni Padri si esprimono dicendo che aveva assunta la carne del peccato, egli poteva esercitare la massima virtù, rendersi l' esempio perfettissimo degli uomini, e morire calunniato e perseguitato per la giustizia, il che è appunto il maggiore esercizio e segno della morale perfezione. E tuttociò egli, ed il Padre suo, permise appunto che avvenisse. Ora, qual fu l' eterno disegno, l' ineffabile mistero che si racchiudeva in questa permissione? Ecco quanto conseguì dal fatto della morte di Cristo. La morte di tutti gli altri uomini era pura giustizia: pagato questo debito non avanzava loro nulla che potesse restituirli in vita, erano morti per sempre. Ma la morte di Cristo non era atto di giustizia, perchè non era giusto che l' innocente, il Santo, l' Uomo Dio patisse e morisse. Quest' uomo, e ad un tempo Dio, s' era abbandonato sino alla fine nelle mani del Padre suo; e per quella illimitata confidenza non aveva sottratto se stesso, come poteva, dai dolori; non aveva voluto dar nulla a se stesso, avea voluto tutto aspettare, tutto ricever dal Padre, perocchè questo era conforme alla norma della virtù, secondo la quale « « è migliore il dare che il ricevere »(2) ». Cristo non aveva mai pensato che a dare a Dio e agli uomini, in che consiste la generosità, una generosità illimitata ed eroica. Ma il Padre per un istante lo abbandonò, non lo protesse contro i suoi persecutori, lo lasciò spirare in sulla croce. E se mandò l' angelo a refocillarlo nell' orto, fu unicamente acciocchè non morisse nella tristezza e nell' agonia in cui era caduto, dando un ristoro fisico alla sua umanità languente acciocchè fosse riserbata al sacrificio della croce. Onde Cristo morì da parte sua due volte: sofferendo prima il supplizio del senso interno, cioè dell' imaginazione nel Getsemani; e poscia soffrendo il supplizio del senso esterno sul Calvario. Sicchè l' umanità in Cristo sofferì tutto ciò che poteva sofferire sino alla morte dell' una e dell' altra parte di cui risulta la facoltà sensitiva dell' uomo, cioè da parte della fantasia e da quella dell' esterno sensorio. Tutto questo senza che lo meritasse, perchè del tutto innocente, meritando anzi il contrario perchè pieno d' ogni santità. Ma il Padre è l' essenziale giustizia, e come giusto l' aveva invocato il Figliuolo quando aveva detto: « « Padre giusto, il mondo non ti conobbe, ma io ti ho conosciuto: e questi conobbero che tu mi hai mandato. E feci lor noto il tuo nome, e noto lo farò, acciocchè la dilezione colla quale tu hai amato me sia in essi, ed io sia in essi »(1). » Era dunque necessario che il Padre, come giusto, compensasse il Figliuolo di quanto aveva così ingiustamente tollerato e patito quasi fosse stato il massimo peccatore. I meriti del Figliuolo avevano d' altra parte un valore infinito, perchè unito ipostaticamente colla divinità in modo che si poteva dir veramente, per la comunicazione degli idiomi, che Dio stesso aveva patito ed era morto. Conveniva dunque, ad aggiustare queste partite della divina giustizia sbilanciate, 1 che l' umanità di Cristo, restituita alla vita non più mortale, fosse assunta agli onori divini, collocata nel più alto seggio alla destra del Padre; 2 che tutti i desiderii dell' umanità fossero appieno appagati, e posciachè fra questi ci aveva quella di dominare i suoi nemici, di esser fatta signora del mondo, anche questo doveva essere appagato. Queste due cose erano state predette e promesse al Figliuolo nelle antiche Scritture, e particolarmente nel Salmo che narra queste promesse così: « « Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra fino a tanto che io ponga i tuoi nemici sgabello a' tuoi piedi. Il Signore emetterà da Sionne la verga della tua virtù: signoreggia nel mezzo de' tuoi nemici. Teco è il principio nel dì della tua virtù fra gli splendori della santità: ho generato te dall' utero prima del lucifero. Giurò il Signore e non si pentirà: Tu sei Sacerdote in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco. Il Signore è alla tua destra: Egli stritolerà i regi nel giorno dell' ira sua: farà giudizio tra le nazioni: empierà di rovine ogni cosa: farà battere in sul terreno il capo di molti. Egli s' abbevererà al torrente della strada: perciò alzerà il capo »(2). » In questo magnifico e sublimissimo Salmo il Padre dice al Figliuolo che ha consumato il suo sacrificio, e che s' è abbeverato al torrente della tribolazione e della povertà: « Sorgi e siedi alla mia destra ». Ecco la prima parte della mercede dovuta al Figliuolo: l' assunzione all' immortalità ed alla gloria divina della sua divina umanità. E di questa parte Cristo aveva detto: « Ego te clarificavi super terram: opus consummavi quod dedisti mihi ut faciam: et nunc clarifica me tu Pater apud temetipsum claritate quam habui priusquam mundus esset apud te (1). » Le quali parole rammentano quelle di S. Giovanni: « In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum; » e vengono a dire: Io prima d' esser manifestato agli uomini, anzi prima che fossero gli uomini e il mondo, cioè ab eterno, ero Dio: io fui generato prima dell' astro della luce fra gli splendori della santità, come dice il citato Salmo, della tua stessa sostanza, ex utero . Ora tu dunque decora anche la mia umanità di questa stessa gloria divina ed infinita, che come Dio non ho mai perduta, siccome tu già prima della costituzione del mondo hai predestinato nel tuo altissimo e sapientissimo consiglio facendomi sedere glorioso appresso di te, cioè alla tua destra. Dove scorgesi che l' espressione adoperata da S. Giovanni al cominciamento del suo Vangelo, apud Deum, conviene, benchè in diverso significato, non meno alla divinità che all' umanità di Gesù Cristo, in quanto questa è indivisa dalla divina persona. Questa comincia nel tempo a fruire di tal gloria per una cotale partecipazione, quando il Verbo la fruì ab eterno ed essenzialmente. L' altra parte del compenso e della mercede dovuta a Cristo si è l' accontentamento di ogni naturale desiderio della sua umanità rispetto agli uomini co' quali ha comune la natura umana. Il desiderio naturale dell' uomo è quello di essere il signore e dominatore del mondo, e di aver tanta potenza da poter sottomettere pienamente a sè i suoi nemici. Il qual desiderio è malvagio qualora non sia sottomesso alla giustizia e si voglia soddisfare indebitamente e senza un legittimo titolo, come avviene; ma in se stesso è fondato nella natura, e però non punto nè poco riprovevole: quand' anzi è tale che innalza e nobilita l' umana natura. Quindi nel citato Salmo Iddio dà a Cristo in piena balìa il mondo: gli promette di porre i suoi nemici a sgabello de' suoi piedi, lo esorta a signoreggiare nel mezzo di essi: la verga, cioè la potenza di Dio, uscirà da Sionne che rappresenta la giustizia, il bene morale, facendo che dalla virtù morale proceda la forza; e dice che nel giorno del suo trionfo sarà seco il principio, cioè Dio Padre, che è essenzialmente il principato, non solo il principe. Ma in qual maniera l' Uomo7Dio si prevale di tanta potenza accordatagli, di quella potestà di cui Cristo stesso aveva detto « dedisti ei potestatem omnis carnis (1), » e ancora dopo la resurrezione: « data est mihi omnis potestas in coelo et in terra (2)? » Amando Cristo come uomo la natura umana che egli possedeva, doveva amarla anche in tutti i suoi simili. Quindi, secondando il suo naturale affetto, doveva, colla risurrezione di tutti gli uomini, restituire tutta la natura umana distrutta colla morte. In tal modo egli vinceva il demonio, disciogliendo il maligno disegno di perdere questa fragile e mortale natura, che pure Iddio come opera sua voleva conservata. Aboliva anche il peccato originale, in quanto esso consiste e procede dalla corruzione della carne, dando ai risorti, quanto a sè, qualora non abbiano peccati attuali, un corpo perfetto. Onde l' Apostolo: « Nunc autem Christus resurrexit a mortuis primitiae dormientium: quoniam quidem per hominem mors et per hominem resurrectio mortuorum. Et sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur (3). » E altrove dice che « purgationem peccatorum faciens, sedet ad dexteram majestatis in excelsis (4), » attribuendo alla gloria di Cristo che siede in cielo, e di là può render partecipi gli uomini della sua gloria, la purgazione dei peccati. Ma non bastava a Cristo il restituire al genere umano, già divenuto preda della morte, la vita sua propria: l' affetto, di cui ardeva verso Dio e verso i suoi simili, troppo più richiedeva. E` proprio della natura umana l' amicizia; niuna cosa più desidera l' uomo non corrotto quanto l' unione col suo simile: ciascun uomo sente di non essere tutta la natura umana, e che una parte di questa è in altri individui: a lui sembra dunque di completare in se medesimo la umana natura, qualora può congiungersi il più strettamente che egli possa con altri individui della natura stessa, e divenir quasi una sola cosa con essi. Ma i vincoli, coi quali gl' individui umani possono stringersi ed adunarsi insieme, sono limitati dalle condizioni della stessa natura. Uno, e forse il più intimo di questi vincoli, è il coniugale che dell' uomo e della donna fa una sola carne, in cui vivono due anime concordi. Questa imagine viene adoperata nelle Scritture per indicare la stabile, perpetua e reale unione di Cristo co' suoi santi in Cielo. Cristo, quale Sposo, celebra colà eterne nozze colla Sposa sua la Chiesa in istato di termine, che è la società dei predestinati già comprensori. Giovanni nell' Apocalisse descrive la visione avuta di questa Sposa dell' Agnello nell' atto ch' ella scendeva da Dio di Cielo in terra: [...OMISSIS...] Nel Cantico de' Cantici si cantano i casti amori, divini preludii in terra dello stabile indissolubile matrimonio la cui consumazione è la stessa beata eternità: quivi non cade infedeltà di sorta o raffreddamento d' affetto. Or, come il coniugio è tolto a simbolo delle nozze di Cristo e della Chiesa, così viceversa quest' unione mistica, essendo perfettissima e santissima, diviene l' esemplare del coniugio dell' uomo e della donna cristiana, partecipando Cristo ai suoi seguaci che si uniscono in matrimonio di quella grazia e santità spirituale che annoda lui ineffabilmente colla Chiesa beata. Laonde S. Paolo dice: [...OMISSIS...] Laonde Cristo in compenso, e mercè de' suoi meriti e ineffabili patimenti senza alcuna sua colpa sostenuti, potè dal genere umano cavarsi la Chiesa, cioè unire e incorporare a sè quel numero di uomini che a lui piace, e fra questi eleggere quelli che partecipino della sua gloria. « Ascendisti in altum, » avea detto il Salmista, « cepisti captivitatem; accepisti dona in hominibus (2). » Il qual luogo, commentato da S. Paolo, dice: « Unicuique autem nostrum data est gratia secundum mensuram donationis Christi. Propter quod dicit: Ascendens in altum captivam duxit captivitatem: dedit dona hominibus. Quod autem ascendit, quid est nisi quia et descendit primum in inferiores partes terrae? Qui descendit, ipse est et qui ascendit super omnes coelos ut impleret omnia (4). » Così Cristo in conseguenza della gloria ottenuta co' suoi patimenti e della signoria del genere umano, atteso l' amor suo verso di Dio suo Padre e verso gli uomini consorti della natura da lui assunta, divenne loro redentore dalla morte e dal peccato originale, loro maestro e salvatore da tutte le colpe attuali, e loro glorificatore. Quindi ebbe la dignità di mediatore e di sacerdote, non solo quella di Re, come soggiunge il Salmo sopra citato: « Juravit Dominus et non poenitebit eum: Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech (1). » La dottrina del sacerdozio di Cristo è profondamente esposta nella lettera di S. Paolo agli Ebrei. In essa dimostra l' Apostolo come questa dignità di Pontefice se l' acquistò Cristo e meritò col suo essere passibile e mortale, e la esercitò co' suoi patimenti coi quali fece il sacrificio di se stesso. [...OMISSIS...] Il che viene a dire che avendo Cristo patito ed essendo stato tentato, quando la giustizia divina non avea cosa da punire in esso, conveniva che la giustizia stessa, che non concede che l' innocente soffra alcuna pena, dèsse a Cristo un ristoro e compenso del patimento sofferto e non meritato; e questo fu il lasciargli podestà non solo di risorgere egli stesso impassibile ed immortale, ma di poter anco venire in ajuto de' suoi fratelli nei loro patimenti e nelle loro tentazioni. Dice ancora « Non enim habemus pontificem, qui non possit compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia pro similitudine absque peccato (3). » Dove è da considerare, esser così fatta l' umana natura, che dall' esperienza del patimento ella ritenga una positiva cognizione di esso, la quale, per la legge della simpatia che è fra individui aventi una stessa natura, rende lei compassionevole e pietosa: e la natura umana in Cristo volle subire le leggi, fra le quali anche questa, alle quali essa natura soggiace. E quantunque ogni cosa meritassero i suoi patimenti, a compensazione de' quali ogni suo desiderio doveva venire soddisfatto dal Padre; tuttavia, perchè doveva esercitare in ogni cosa la massima generosità ed essere a noi compiuto modello, volle avere la gloria e la vita dovutagli piuttosto come impetrata con umili preghiere, che per giustizia meritata: o certo nell' uno e nell' altro modo. Di che di nuovo S. Paolo: « Et quidem cum esset Filius Dei didicit ex iis quae passus est obedientiam: et consummatus factus est omnibus obtemperantibus sibi causa salutis aeternae, appellatus a Deo pontifex juxta ordinem Melchisedech (4). » Il sacrificio adunque di Cristo ebbe virtù di rimettere i peccati degli uomini, perocchè, come dice S. Paolo: « Eum, qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit » (soffrì d' esser trattato come un peccatore), « ut nos efficeremur justitia Dei in ipso (1); » ed essendo egli risorto dopo aver patito, ed entrato in cielo, ivi egli esercita un perpetuo sacerdozio, e può riconciliare e far partecipi della stessa gloria quanti uomini a lui piace. Perocchè, come dice di nuovo S. Paolo, egli è fatto sacerdote « « non secundum legem mandati carnalis, sed secundum virtutem vitae insolubilis »(2), » e soggiunge: « « Et alii quidem plures facti sunt sacerdotes, idcirco quod morte prohiberentur permanere: hic autem, eo quod maneat in aeternum, sempiternum habet sacerdotium. Unde et salvare in perpetuum potest accedentes per semetipsum ad Deum, semper vivens ad interpellandum pro nobis »(3) » Laonde il solo sacrificio della morte di Cristo, dalla quale risorse glorioso, fu accettevole ed efficace per sempre a rimettere i peccati e salvare gli uomini. [...OMISSIS...] Imperocchè è da considerarsi che i sacerdoti della nuova legge, sebbene molti, tutti partecipano dell' unico sacerdozio di Cristo, e non offrono se non la medesima oblazione, cioè il corpo ed il sangue di Cristo. Nel che ancora apparisce l' unità che tutti formano con Cristo, perocchè è sempre Cristo quello che in essi opera quando sacrificano, per modo che un solo Cristo in tutti essi è il vero sacrificatore e la vera vittima sacrificata. Il perchè niuno può essere sacerdote della nuova legge se non è battezzato, attesochè solo pel battesimo s' incorpora l' uomo con Cristo, e Cristo è nell' uomo. La morte dunque di tutto il genere umano satisfaceva alla divina giustizia, ma non salvava l' uomo, anzi lo distruggeva; e l' anima separata dal corpo rimaneva sempre sotto la medesima giusta dannazione. Ma la morte di Cristo, sostenuta da lui senza averla meritata, non era una soddisfazione che dovesse dar Cristo per i proprii peccati; ma era un credito ch' egli acquistava verso la divina giustizia, un credito infinito, col quale, dopo pagato il debito dell' uman genere, rimaneva ancora tanto avere, da poter regalarne gli uomini d' ineffabili doni e di prezzo infinito. La morte di Cristo adunque salvò il mondo perchè meritò la risurrezione di Cristo, glorioso Signore onnipotente, Re ad un tempo e Pontefice, secondo il giuramento interposto dall' eterno suo Padre. Quindi è che le sacre carte attribuiscono sempre la salvezza del mondo alla risurrezione di nostro Signor Gesù Cristo, che, come aveva detto il Salmo, ascendendo nell' alto menò captiva la captività, cioè tolse al demonio il dominio sopra gli uomini e li fece captivi a se stesso, ed ottenne copia di doni da distribuire agli uomini stessi da lui liberati per giusta conquista. Laonde Cristo stesso avea detto agli Apostoli che tornava loro conto ch' egli se ne andasse di questo mondo al Padre « Quia vado parare vobis locum. Et si abiero et praeparavero vobis locum, iterum venio et accipiam vos ad me ipsum, ut ubi sum ego et vos sitis (1). » Conveniva che Cristo fosse glorificato, acciocchè egli potesse far partecipi della sua gloria i suoi discepoli. Il ritorno di cui parla Cristo, nel quale viene a prendergli, a riceverli a sè, a collocarli là appunto dov' egli è (non dice dove sarà, perchè Cristo fu sempre appresso Dio, non solo come Verbo, ma ben anco, in un altro senso, come uomo godendo della visione beatifica, benchè questa non espandesse i suoi effetti gloriosi fuori della mente del Salvatore), questo ritorno è appunto la comunicazione della gloria da lui ottenuta, e si riferisce principalmente alla seconda venuta del Salvatore, quand' egli risusciterà i giusti, che in lui credono, e li ammanterà della sua propria gloria. Perocchè, dicendo iterum venio et accipiam vos, parla all' uomo intero e non alla sola anima. Tuttavia un altro ritorno di Cristo è anche quello che avviene alla morte del giusto che in lui crede, quando accoglie a sè l' anima sua, e le dà della sua vita ammettendola alla visione di Dio. Un terzo ritorno di Cristo è l' effusione dello Spirito Santo, il quale segna Cristo nelle anime in cui viene, e dà loro la caparra dell' immortalità e della risurrezione; e di questo ritorno parla Cristo poco appresso dicendo [...OMISSIS...] Dice che pregherà il Padre, mostrando che come uomo egli impetra per gli altri uomini il dono dello Spirito Santo, di cui siamo per conseguente obbligati all' umanità di Gesù Cristo, che dopo aver meritato di essere esaudito in ogni suo desiderio, pregò mosso dalla sua carità per noi, e il priego che manifestava il suo desiderio non poteva andare inesaudito. Dice che non li lascierà orfani, cioè senza Padre, perchè egli, che è il Figliuolo entrato già in essi e ad essi congiunto come il capo alle membra, sarà illustrato dalla luce del suo Spirito, e avranno coscienza di possederlo, e così di essere veramente figliuoli di Dio partecipando della Figliuolanza del Verbo incarnato a cui sono indivisamente uniti. Di che S. Paolo attribuisce al Santo Spirito la consapevolezza che noi abbiamo d' esser divenuti figliuoli di Dio: [...OMISSIS...] dice, [...OMISSIS...] Dice finalmente che i suoi discepoli al lume dello Spirito Santo lo vedranno anche quand' egli sarà partito dal mondo, quia ego vivo et vos vivetis, cioè perchè essi partecipano della stessa vita di Cristo; e il veder Cristo è un atto di questa vita. Dice del pari che conosceranno il Santo Spirito, perchè apud vos manebit et in vobis erit: giacchè lo Spirito Santo non si può conoscere se non per lo Spirito Santo, onde il mondo non lo vede e non lo conosce, perchè nol può ricevere, atteso l' ostacolo del peccato. Ripete ancora che torna conto a' suoi discepoli che egli se ne vada, perchè, venendo egli glorificato, manderà lo Spirito Santo caparra della loro gloria futura: [...OMISSIS...] Per le quali cose S. Paolo attribuisce alla risurrezione di Cristo la nostra giustificazione; giacchè, se questa fu meritata dalla Passione di Cristo, fu però attuata e compiuta mediante la risurrezione; per la quale Cristo acquistò la signoria sopra di noi, e potè fare di noi secondo l' amoroso suo cuore: « qui traditus est » (così l' Apostolo) « propter delicta nostra, et resurrexit propter justificationem nostram (4); » giacchè, se non fosse risorto Cristo, egli non poteva comunicarci di quella sua vita gloriosa, e quindi noi non saremmo risorti, ma rimasti sotto la condannazione del peccato. Medesimamente S. Pietro attribuisce alla risurrezione di Cristo la nostra rigenerazione: [...OMISSIS...] E deduce dalla risurrezione medesima di Gesù Cristo, la virtù che ha il battesimo di porre in noi il germe della vita che aspettiamo gloriosa: [...OMISSIS...] La qual dottrina consuona mirabilmente con quella di S. Paolo, che a' Colossesi scriveva: [...OMISSIS...] Imperocchè non bastava che si distruggesse il vecchio uomo adamitico, se non si faceva vivere l' uomo nuovo: il che Cristo fece comunicando all' uomo della sua vita nuova ricevuta nella risurrezione. Perocchè l' uomo incorporato a Cristo, e divenuto un membro di quello stesso corpo di cui Cristo è il capo, dovea partecipare di tutte le vicende del capo, e con lui morire, e con lui risorgere. Laonde L' Apostolo non dubitava dire: « « Si autem Christus non resurrexit, inanis est ergo praedicatio nostra, inanis est et fides vestra: invenimur autem et falsi testes Dei, quoniam testimonium diximus adversus Deum quod suscitaverit Christum, quem non suscitavit si mortui non resurgunt. Nam si mortui non resurgunt, neque Christus resurrexit. Quod si Christus non resurrexit, vana est fides vestra, adhuc enim estis in peccatis vestris. Ergo et qui dormierunt in Christo perierunt. Si in hac vita tantum in Christo sperantes sumus, miserabiliores sumus omnibus hominibus »(1). » Nel quale luogo S. Paolo argomenta la risurrezione dei morti dalla risurrezione di Cristo; perocchè gli uomini non avrebbero potuto risuscitare, se Cristo risorto non avesse acquistato la potestà di fare altresì risorgere quelli che partecipavano con esso lui della stessa natura umana. Ma particolarmente dalla resurrezione gloriosa di Cristo argomenta la risurrezione gloriosa di quelli che morirono in Cristo, cioè incorporati a Cristo, e che perciò con Cristo formano una sola cosa, un solo corpo, che dee esser tutto avvivato della stessa vita, o tutto giacere nello stesso stato di morte: onde, posta la risurrezione del capo, è giocoforza porre altresì la risurrezione delle membra. Di più dice senza questa risurrezione rimane lo stato di peccato, adhuc enim estis in peccatis vestris, e perciò è vana la predicazione dell' Evangelio, cioè della buona novella, e vana è pure la fede che ad esso si presta; perocchè, giacendo gli uomini prostrati dalla morte, non può dirsi rimesso il peccato a quelli, in cui ne dura la pena. Finalmente fa intendere che senza la risurrezione non v' ha più speranza nella vita futura, e quindi i Cristiani sarebbero i più miseri fra gli uomini, posciachè dovrebbero sperare unicamente nella presente, a' cui diletti hanno rinunziato, ed è da loro considerata piuttosto come morte che come vita. La qual dottrina consuona a capello con quella che è costante in tutti i libri dell' Antico Testamento, dove la speranza della vita futura trovasi sempre fondata nella fede della risurrezione, e non in altro. Laonde il libro della Sapienza, parlando de' giusti defunti, non commenda il loro stato pel presente godimento a cui fossero ammessi, ma per la speranza, perchè « spes illorum immortalitate plena est (2), » e perchè a suo tempo Iddio perdona ad essi, « et in tempore erit respectus illorum (3), » e l' incontaminato « habebit fructum in respectione animarum sanctarum (4), » cioè nella risurrezione. E il fanciullo maccabeo, che veniva tormentato, nella risurrezione pone ogni sua speranza, dicendo che: « Rex mundi defunctos nos pro suis legibus in aeternae vitae resurrectione suscitabit (5). » E ancor più efficace è quel luogo ove parlandosi della colletta di dodicimila dramme d' argento fatta da Giuda Maccabeo ed offerta in Gerusalemme, acciocchè vi si offerisse un sacrificio pe' morti in battaglia, a cui erano stati trovati sotto le tuniche doni degl' Idoli, il sacro storico dice in modo assoluto, che se non vi avesse la risurrezione sembrerebbe inutile il pregare pei morti per la remissione de' loro peccati. E le parole son queste: [...OMISSIS...] La qual dottrina offerisce a noi cristiani una difficoltà che dobbiamo sciogliere accuratamente. Tutta la nostra felicità, la nostra speranza di felicità, si fa per essa dipendere dalla risurrezione: la remissione stessa dei peccati, o la giustificazione si afferma dipendere dalla risurrezione medesima. Ora noi sappiamo per fede che l' anima separata dal corpo, se non ha macchia di peccato, viene ammessa alla visione di Dio, e che se essa porta seco delle macchie leggere viene addetta al fuoco che la purga e rimonda, e, tosto che è resa netta e pura del tutto, la visione beatifica le è conceduta prima della risurrezione dei corpi. Come dunque può dirsi col citato libro de' Maccabei, che sembrerebbe superfluo e vano pregare pei morti ut a peccatis solvantur, quando non dovessero risorgere, mentre pure giova intercedere per le anime purganti acciocchè cessi presto il tormento, e passino presto a godere Iddio? E come, ancor più, può egli sembrare al vero conforme quello che dice l' Apostolo, che, se non vi avesse la resurrezione de' nostri corpi, noi cristiani saremmo i più miserabili degli uomini, quando pure le nostre anime, anche prima della risurrezione, possono fruire del beato consorzio di Dio? Affine di risolvere queste apparenti difficoltà conviene por mente a due cose: 1 Quale sarebbe lo stato dell' anima separata dal corpo ed abbandonata intieramente a se stessa; a ciò che ella ha per natura sua, senz' altra aggiunta o azione esteriore: 2 Che cosa s' intende per la risurrezione, opera del nostro Gesù Cristo, che cosa s' intenda particolarmente pei giusti che risorgono. Quanto alla prima questione è da rispondere che l' anima umana, privata che sia del corpo, ove non le venga alcuna giunta dal di fuori, non venga fatta in lei alcuna azione da qualche agente a lei straniero, l' anima umana separata, da sè sola, primieramente non ha più alcuna sensazione, nè fantasma, nè può fare alcun atto sensitivo, al che si richiede l' organo corporeo; e di conseguente non può più raziocinare nè pensare a cose reali, nè ad astratti che hanno sempre bisogno di qualche segno sensibile per esser pensati. Ella dunque non ritiene se non l' intuizione immota dell' essere indeterminato, e gli abiti contratti nella vita precedente che la individuano, i quali abiti non passano giammai all' atto, perchè nulla vi ha che li tragga a questo. Laonde l' anima, senza alcun termine reale, non avrebbe alcun sentimento, in quanto questo si definisce per la forma reale dell' essere; e però sarebbe senza alcuna vita, eccetto il semplice atto intellettivo dell' intuizione che non si direbbe propriamente vita: l' anima così esisterebbe, ma non vivrebbe. Nel quale stato non essendo a lei possibile alcuna riflessione su di se stessa, nè alcuna coscienza, la sua condizione si potrebbe rassomigliare ad uno stato di perpetue tenebre, e di sempiterno sonno: onde i negri tartari (1) ed i luoghi bui (2) de' poeti, e il loro ferreo ed eterno sonno. Questa fu una delle cause per le quali alcuni filosofi, che non ricevettero il lume della rivelazione, e forse fra questi Aristotele, almeno secondo l' interpretazione di Pomponaccio e d' altri negarono l' immortalità dell' anima: e il loro errore fu di crederla annullata o disciolta, non distinguendo fra vita ed esistenza, e non conoscendo quell' atto intuitivo dell' essere, e quel deposito di abiti rimanenti nell' anima dalla precedente sua unione col corpo, che dà a lei un' esistenza intellettiva ed una individualità, sebbene non una vera vita nel senso che noi crediamo proprio di questa parola. Nello stesso errore era caduta, presso gli Ebrei, la setta dei Sadducei. Questi credevano che l' anima non soprastesse alla sua separazione dal corpo, o piuttosto la negavano (3); e ciò qual conseguenza dell' altro loro errore pel quale negavano la risurrezione. Ora Gesù Cristo, togliendo a confutare il loro errore, non toglie a stabilire la tesi generale che l' anima separata dal corpo viva; ma si limita a parlare degli uomini santi, e dice di questi che nella risurrezione vivranno per non più morire. Perocchè, avendo i Sadducei proposta la difficoltà di chi sarebbe nella resurrezione la donna che avesse avuto per mariti successivamente sette fratelli, Cristo risponde loro: « Filii hujus saeculi nubunt et traduntur ad nuptias: illi vero qui digni habebuntur saeculo illo, et resurrectione ex mortuis, neque nubent neque ducent uxores: neque enim ultra mori poterunt: aequales enim angelis sunt, et filii sunt Dei, cum sint filii resurrectionis (4): » e nulla disse dell' anima per sè sola considerata, nè tampoco de' reprobi che pure risorgeranno, ma « non in resurrectione vitae, sì in resurrectione judicii (5). » Ora dalle citate parole di Cristo si può raccogliere due cose: la prima, che la resurrezione è quella che dà ai giusti l' immortalità; la seconda è, che per la risurrezione i giusti sono figliuoli di Dio, tolti per conseguente da ogni pena o sequela del peccato, fatti simili agli angeli santi, spiritualizzati senza il legame o l' impaccio di un corpo materiale. Ma dopo di ciò Cristo continua provando a' Sadducei la verità della risurrezione de' giusti in questo modo: « Quia vero resurgant mortui, et Moyses ostendit secus rubum (1), sicut dicit Dominum Deum Abraham, et Deum Isaac, et Deum Jacob: Deus autem non est mortuorum sed vivorum: omnes enim vivunt ei (2). » Le quali parole confermano mirabilmente quello che dicevamo. Perocchè Cristo argomenta così: « Mosè disse che il Signore è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Ora, se questi Patriarchi fossero morti, non si direbbe che il Signore fosse il loro Dio, perocchè il Signore è Dio de' vivi e non dei morti. Dunque questi Patriarchi sono viventi. Ma non potrebbero dirsi viventi, se un giorno non dovessero risorgere. Dunque convien dirsi che i morti risorgono ». Questo ragionamento fa dipendere la vita di que' Patriarchi dalla loro futura resurrezione. Perchè sono vivi? perchè risorgeranno. Dunque non sarebbero vivi se non dovessero risorgere. Dunque l' anima separata se non fosse destinata a risorgere, se non avesse in sè una ragione o un germe della sua futura palingenesi, troverebbesi in una condizione e stato di morte. Soggiunge però che a Dio tutti vivono, omnes enim vivunt ei, per indicare che Iddio ha virtù di far tornare a vita tutti quelli che egli vuole. Il che sembra accennare alla risurrezione universale sì dei buoni che de' cattivi; ma, dicendo che « tutti vivono a Dio »; parla d' una vita relativa a Dio, non d' una vita relativa a se stessi, non d' una vita soggettiva; e con ciò dimostra, che tutte le anime continuano ad esistere anche separate dal corpo, e però tutte possono essere ravvivate da Dio, in relazione al quale perciò vivono (3). Veniamo alla seconda questione: che cosa s' intenda per la resurrezione che opera nostro Signor Gesù cristo ne' giusti. Secondo la maniera di favellare delle divine scritture, sotto la parola risurrezione non s' intende solamente l' ultima palingenesi, quando gli uomini ricupereranno un corpo proprio, e i giusti un corpo proprio e glorioso che non più deporranno: si intende il nuovo uomo, s' intende Cristo che è nell' uomo e la cui vita è eterna. Coll' incorporazione dell' uomo in Cristo comincia nell' uomo la vita eterna: la vita adamitica e corruttibile perisce, ma sotto di questa ve ne sta un' altra nascosta come sotto la morta spoglia del serpente sta una pelle nuova e viva che si discuopre colla deposizione di quella. Laonde Cristo disse: « « Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, benchè egli sia morto, vivrà; e ognuno che vive e crede in me, non morrà in eterno »(1). » Ora Cristo in altro luogo dice de' suoi discepoli parlando al Padre: « Ego in eis et tu in me (2). » Se dunque Cristo è la vita, e se egli è nei suoi discepoli, egli è conseguente che a questi non può mai venir meno la vita se non si tolgono dall' unione con Cristo: deve rimanere in essi una vita eterna, una vita che di sua natura non può perire. Onde Cristo assolutamente dice che « ogni vivente e credente in lui, non morirà in eterno ». Ma Cristo non è solo la vita, ma anche la resurrezione. Qui evidentemente il discorso si riferisce a due forme o maniere di vita; altramente chi ha la vita non avrebbe bisogno di risorgere. Altra è dunque la vita propria degli umani individui, la qual consiste nell' unione vitale dei proprii loro corpi colle loro anime; ed altra la vita che comunica loro Cristo, quando ad esso incorporati ne partecipano la grazia. Rispetto a questa maniera di vita, Cristo dice se stesso di esser la vita; rispetto alla prima, dice di esser la risurrezione . Quegli stesso che è la vita permanente negli uomini santi della nuova legge, è anche la loro risurrezione. Quella vita non può venir meno giammai, perchè « Christus resurgens ex mortuis jam non moritur, mors illi ultra non dominabitur (3). » Ma pure Cristo una volta morì; ed allora sono forse morti gli Apostoli e discepoli suoi ne' quali egli era? Sì, quel Cristo che era in essi morì: nel triduo della morte di Cristo, Cristo morì ne' suoi discepoli: i discepoli di Gesù Cristo in quel tempo ebbero in se stessi Gesù Cristo morto: nella stessa eucaristia che avevano ricevuto la vigilia della morte di Cristo, se si conservò in essi, vi aveva Cristo morto, il corpo separato dall' anima. Ma primieramente si consideri che la divinità non abbandonò giammai nè il corpo nè l' anima di Cristo, e che perciò la persona di Cristo non fu soggetta alla morte, perchè quella persona era il Verbo. Cristo dunque, sebben morto come uomo, era vivo come Dio ed aveva la podestà di riassumere la sua vita umana come aveva avuto la podestà di deporla. Cristo come Dio conservava il suo corpo immune dalla corruzione, lo conservava in suo potere, nè perciò permetteva che di lui si vestissero altri animali, come accade de' cadaveri degli altri uomini, ne' quali si generano i vermi ed altri minimi esseri viventi, quand' anzi può credersi che il divin corpo non avesse ricevuto nella Passione alcuna di quelle disorganizzazioni che impediscono assolutamente di vivere, eccetto l' emissione del preziosissimo Sangue. Di poi non sarebbe alieno dal credersi, che, quantunque Gesù Cristo avesse cessato di vivere della vita naturale dell' uomo, tuttavia vivesse l' anima sua della vita eucaristica, della qual misteriosa vita forse altrove ci accadrà di parlare più estesamente. Ma lasciando per un momento da parte questa misteriosa vita, conviene tuttavia distinguersi anche in Cristo primieramente due vite: la vita divina che aveva come Dio, la quale non gli potè giammai venir meno, perchè Iddio non muore; e la vita umana che consisteva nella unione dell' anima sua sacratissima col suo divinissimo corpo. Ora, quantunque Cristo nel triduo della sua morte si trovasse ne' discepoli suoi morto della vita umana, tuttavia viveva in essi colla divina, la quale è la prima causa della risurrezione che Cristo stesso attribuiva alla virtù di Dio, quando a' Sadducei diceva « Erratis nescientes scripturas, neque virtutem Dei (1), » e quando chiamava « figliuoli di Dio »i « figliuoli della resurrezione »(2). Ora la virtù, cioè l' onnipotenza di Dio, poteva certamente dare un termine reale alle anime separate, in qualunque maniera egli si compiacesse di farlo, il quale tenesse luogo del corpo, e così poteva farle vivere di vita soggettiva, benchè non della naturale. Imperocchè la vita dell' anima, generalmente considerata, altro non richiede se non un termine reale così ad essa congiunto, che con esso lei formi un unico soggetto, il quale possa, aggiungendosi le condizioni opportune, fare le operazioni vitali del sentire e del pensare su cosa reale. Ma questo termine reale può esser vario: onde le varie maniere di vita, e l' onnipotenza di Dio, come dicevamo, anche ad un' anima separata dal proprio corpo naturale può aggiungere un' altra realità, che tenga per essa luogo del proprio corpo. Il qual termine noi stimiamo sia, come toccammo, l' essere sacramentale di Cristo, giusta quelle parole: « « il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo »(3), » cioè la mia carne, sotto forma di pane, di alimento, terrà luogo, farà le veci della vita del mondo. Si distinguano adunque oggimai quattro maniere di vita in Cristo e nei discepoli di Cristo: 1 La vita naturale, cioè l' unione del corpo umano naturale in un individuo soggetto; 2 La vita divina, misteriosa, eucaristica, che rimase nel triduo della morte di Cristo; 3 La vita spirituale di Cristo ancor viatore, qual ebbe prima della sua morte, la qual consisteva in una santificazione e divinizzazione di Cristo come uomo naturalmente vivente, cioè in una santificazione e divinizzazione della sua anima e del suo corpo uniti insieme individuamente, dal che proveniva la potenza che aveva di trasfigurarsi, come fece sul Tabor, e di glorificarsi quando avesse voluto, benchè volle piuttosto contenere questi effetti della sua divinità lasciando che il suo corpo e l' anima sua potessero patire, come abbiamo detto, e dividersi per morte; il che non toglieva che la vita immortale e gloriosa di Cristo non fosse in lui viatore, ma nascosta, quasi in germe, che a suo tempo sarebbesi sviluppata e manifestata, il che fu nella resurrezione; e 4 Finalmente la vita gloriosa dopo la resurrezione, e dopo l' ascensione al Cielo (due gradi della stessa vita), la quale è la stessa vita precedente attuata nella pienezza del suo vigore e dei suoi meravigliosi effetti. La prima di queste quattro maniere di vita era destinata alla morte in Cristo e ne' suoi discepoli: ne' suoi discepoli come conseguenza penale del peccato adamitico, pel quale la vita naturale degli uomini era divenuta corruttibile, ricalcitrante allo Spirito Santo, e preda del demonio: in Cristo, perchè Cristo per la sua magnanimità, come abbiamo detto, volle prendere su di sè la pena del peccato senz' alcun peccato, e così riuscire quel tipo perfettissimo di virtù morale, che il suo eterno Padre voleva che fosse ed apparisse in questo mondo. La seconda vita non venne mai meno in Cristo, nè pure nel tempo della sua morte e durante la dimora del suo corpo sacratissimo nel sepolcro. Che durante questo tempo Cristo e i suoi discepoli in lui incorporati vivessero della vita eucaristica sembra indicarsi da queste parole di Gesù Cristo «: Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (1). » Il cibo adunque che Gesù Cristo non avea dato fino allora, ma che prometteva di dare, dice esser tale che non muore, non vien meno perchè permane nella vita eterna, e questo è il cibo eucaristico. E soggiunge questa ragione: « Hunc enim Pater signavit Deus (2) »: quasi voglia far intendere che quel Figliuolo dell' uomo, che Iddio segnò come sua proprietà anche morto quant' è alla vita naturale, non può non avere qualche altra maniera di vita, in modo che la vita soggettiva in lui duri eterna, e la possa comunicare a' suoi, dandosi loro sotto forma di cibo. Poco appresso soggiunge: « Non Moyses dedit vobis panem de coelo, sed Pater meus dat vobis panem de coelo verum. Panis enim Dei est, qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1). » Questo pane del Cielo è Gesù Cristo stesso, ma non nella sua vita naturale, ma nella sua vita eucaristica. I SS. PP., che interpretarono questo capo VI dell' Evangelista Giovanni, hanno inteso costantemente dell' essere eucaristico o sacramentale di Cristo, ciò che ivi si legge del pane celeste. Questo pane si dice dato dal Cielo, perchè Cristo, nella forma di cibo o di pane, non è più nel suo essere naturale umano, non è nella vita adamitica, ma in un modo miracoloso, soprannaturale; ha un altro essere, un' altra vita nascosta e al tutto misteriosa: e questa vita è per comunicarsi al mondo, dat vitam mundo: dà al mondo, che ha perduto la vita in Adamo, una vita di forma del tutto nuova; la quale rimane anche quando il mondo è morto della sua vita naturale, di quella vita che gli venia dalla terra e non dal cielo, che gli veniva dalla carne e dal sangue e non da Dio: « qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt (2). » Questa vita poi, che viene comunicata meravigliosamente agli uomini, ha condizione di cibo, perchè sia così ristorato l' antico modo col quale gli uomini si dovevano rendere immortali, cioè col mangiare del frutto dell' albero della vita: modo stabilito da Dio a principio e reso inutile dall' insidia del demonio. Ora, dovendo il demonio esser vinto e confuso in tutti i suoi tranelli, dispose l' Eterno di dare al mondo riconquistato un altro albero della vita, assai migliore del primo, e questo fu Gesù Cristo; e il cibo eucaristico, la vita di Cristo nascosta in esso, è il frutto di quest' albero. Il qual cibo noi possiamo acconciamente chiamarlo frutto, perchè fu impetrato da Cristo appresso il Padre e meritato colla sua passione e morte, di cui per questo pure è la vivente memoria, perchè egli dura e vive anche quando Cristo è morto nella sua umana natura. Alla qual vita nascosta ed eucaristica, che non vien meno, consuonano quelle parole dell' Apostolo « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua reverentia (3). » Ora dalla morte naturale Cristo non fu immune, non fu esaudito; e, quantunque ne sia poscia stato campato colla resurrezione, tuttavia questo non toglie che l' abbia sostenuta. Ma, se poniamo che Cristo, anche morto, vivesse d' un' altra vita occulta, e fuori dell' ordine naturale, qual è l' eucaristica; in tal caso egli fu esaudito, perchè non fu mai senza qualche maniera di vita. E` anche da osservarsi che questa maniera occulta di vita comunicandosi agli altri per modo di cibo, suppone che essi già vivano: ed è per ciò che l' eucaristia non si può ricevere se non da quelli che sono nati nelle acque battesimali. Dice Gesù Cristo di nuovo agli Ebrei « Ego sum panis vitae: qui venit ad me non esuriet: et qui credit in me non sitiet unquam (1) » Ed alla Samaritana avea detto il somigliante dell' acqua che ha pur forma di cibo: « « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: Da mihi bibere; tu forsitan petisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam »(2). » E ancora: « « Omnis qui bibit ex aqua hac, sitiet iterum; qui autem biberit ex aqua, quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum: sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam »(3). » Quest' acqua è il premio della fede, onde dice: « qui credit in me non sitiet unquam; » e mescolata nel calice col vino si transustanzia anch' essa nel sangue di Cristo. L' acqua mescolata col vino non diviene una sola sostanza con lui, non si combina con esso lui chimicamente; e pure secondo i teologi nel calice insieme col vino diviene sangue di Cristo. Ed anche il pane eucaristico è farina impastata coll' acqua, come osserva S. Cipriano, di cui Innocenzo III cita questo testo: [...OMISSIS...] La fede è il principio della salute: essa dà il diritto al battesimo e agli altri sacramenti. Se questi non si possono ricevere, la fede, che ne produce il desiderio, salva l' uomo, dandogli il diritto di ricevere dopo morte quella vita da Cristo, che in terra non ha potuto ricevere da' sacramenti desiderati. Il sangue di Cristo si dee dunque ricevere misto coll' acqua viva della fede, come la farina pure divenuta pane per l' acqua. Per questo si suol dire giustamente che l' acqua nel calice rappresenta il popolo che si unisce strettamente e s' incorpora a Cristo, il che avviene per la fede viva di esso popolo: l' acqua rappresenta dunque il popolo credente, rappresenta l' atto o l' abito della fede, col quale il popolo aderisce a Gesù Cristo e si fa uno in se stesso. Ma della fede e delle altre virtù teologali, che uniscono a Cristo dando il diritto all' unione corporale con lui, parleremo in appresso. Cristo disse alla Samaritana: « Si scires donum Dei, » il che sembra alludere al mistero eucaristico, giacchè la stessa parola eucarestia, secondo l' interpretazione di valenti grecisti, significa buon dono, eccellente, ottimo dono, da «eu», bene, e da «charizomai», largior, dono (1); onde «charisterion», donum, e dono è chiamata l' Eucaristia dai più antichi Padri (2). Vero è che dono è anche la parola significativa dello Spirito Santo, ma questo suppone prima Cristo dal quale procede; e nell' Eucaristia, che è Cristo coll' essere e colla vita di cibo, si diffonde lo Spirito Santo, essendo quello il mistero dell' amore di Gesù Cristo. Il che è confermato dal contesto. Perocchè dicendo: « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: da mihi bibere; tu forsitan petiisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam, » quasi voglia dire: « tu stessa domanderesti il dono dell' acqua viva, se conoscessi qual dono sia questo, e chi sia colui che a te domanda dell' acqua materiale: il quale è tale che potrebbe ben darti dell' acqua molto migliore a te ». Laonde il dono si riferisce all' acqua, e l' acqua, simbolo della fede, si riferisce all' eucaristico soprasostanziale alimento. Tornando dunque alle citate parole di Cristo [...OMISSIS...] esse si possono parafrasare in questo modo: « Chi verrà a me con disposizione di credere alle mie parole, non avrà più fame, perchè io lo accoglierò e gli darò finalmente me stesso a suo nutrimento, per guisa che egli vivrà della mia vita, di quella vita che io ho sotto forma di pane; e chi già crede in me, non avrà più sete, perchè io gli darò me stesso a sua bevanda per guisa ch' egli pure vivrà di quella vita che io ho sotto la forma di vino e di acqua col vino mista ». Accenna due semi della salute dell' uomo: le disposizioni alla fede, e la fede già ottenuta. Promette che l' uno e l' altro seme frutterà e recherà l' uomo alla vita eterna, perchè Cristo gli si darà in alimento, e sotto questa forma gliela comunicherà. Dice, che colui che mangierà o berrà questo nutrimento divino, non avrà più fame d' alcun altro cibo, nè sete d' alcun' altra bevanda; ma non avrà tuttavia sazietà dello stesso cibo, come si rileva dalle parole della stessa Sapienza che sembrano contrarie alle riferite di Cristo, e non sono: « qui edunt me adhuc esurient, et qui bibunt me adhuc sitient (1), » perocchè queste parlano della fame e sete della sapienza che non s' estingue, e quelle della fame e sete che s' estingue in quelli che sono satollati della sapienza e della vita di Cristo. E Cristo stesso dichiarò la cosa: quando, dopo aver detto alla Samaritana che chi berrà dell' acqua ch' egli darà non avrà più sete in eterno, soggiunge di ciò questa ragione: « sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam . » Non è dunque a intendersi che non avrà più sete, quasi non voglia più bere di quest' acqua; ma non avrà più sete per penuria di essa acqua; non vi avrà più pericolo che quest' acqua gli possa mancare, onde debba sofferire una sete molesta perchè non soddisfatta del bramato umore: chè l' acqua, cioè la fede, che io gli darò, diverrà in lui stesso una fonte copiosa e perenne di acqua viva, a cui continuamente si abbevererà, e quest' acqua salirà fino alla vita eterna, giacchè dalla fede germinano le altre grazie, e la vita che comunicano e conservano i sacramenti, fra i quali in modo più che mai pieno l' eucaristico. Continuandoci ora a considerare il discorso di Gesù Cristo, che avevamo allegato, dopo aver detto: « Ego sum panis vitae, » poco appresso soggiunge: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die. Haec est autem voluntas Patris mei, qui misit me, ut omnis qui videt Filium et credit in eum, habeat vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (2). » Questi due periodi cominciano egualmente: « Questa è la volontà del Padre che mi ha mandato », ma non è da credersi che ripetano la stessa cosa. Anzi essi manifestano le due maniere onde Cristo dà la vita agli uomini, delle quali abbiamo sopra toccato. Perocchè: A tutti gli uomini Cristo nell' ultimo giorno restituirà la vita naturale che aveano perduta per insidia del demonio col peccato del primo uomo; A quelli che sono predestinati alla eterna salute darà la vita eterna, e li risusciterà nell' ultimo giorno. Di vero egli dice, che tale è la volontà del Padre che lo ha mandato, che egli non perda nulla di ciò che gli ha dato. Ora, che cosa il Padre diede al Figliuolo? Lo dice altrove in quelle parole: « dedisti ei potestatem omnis carnis (3). » Ogni carne dunque è in potere del Figlio, il quale però integra ogni carne nell' ultimo giorno colla resurrezione. Egli non dice che ogni cosa che gli diede il Padre sarà da lui resuscitata nel giorno estremo. Parlando di ciò ch' egli resuscita nel giorno estremo, usa il genere neutro omne quod dedit mihi; ma parlando di quelli che hanno la vita eterna , usa del genere maschile omnis qui videt Filium et credit in eum . Il genere neutro si conviene alla natura, il genere maschile alla persona: il primo conviene alla carne, il secondo allo spirito. Cristo colla resurrezione ultima de' buoni e de' tristi reintegra tutta la natura umana, restituisce la vita a tutta la carne: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Cristo, colla comunicazione della vita misteriosa che sta nella percezione e incorporazione di lui, salva le persone che gli sono state date dal Padre, e a queste, oltre l' aspettazione della resurrezione futura colla quale ricuperano quella vita che consiste nell' unione delle loro anime col loro corpo naturale, hanno oltracciò un' altra vita misteriosa, che noi crediamo consistere nella percezione di Cristo vivente sotto forma di cibo o di pane: [...OMISSIS...] Vedere il Figlio è percepirlo, averne la percezione, il che si consegue quando viene impresso nell' anima il carattere indelebile; credere nel Figlio è dare l' assenso volontario; e, se la fede è viva, è altresì un dare la ricognizione pratica e l' adesione al Figlio percepito. Questi, dice Cristo, ha la vita eterna . Ma se ha la vita eterna, qual bisogno avrà egli di essere resuscitato nell' ultimo giorno? Acciocchè alcuno possa esser resuscitato, conviene che sia morto: ma chi ha la vita eterna non è morto. Conviene dunque dire che l' uomo possa esser morto secondo una vita, cioè secondo la vita naturale, e possa tuttavia vivere d' un' altra vita migliore ed eterna, la quale egli ha qualora veda il Figliuolo di Dio e creda in Lui. Attesa questa vita eterna di cui l' anima è dotata per la grazia di Cristo, nel quale ella è incorporata, non s' avvera giammai dell' anime cristiane l' ipotesi, che noi facevamo più sopra, di un' anima cioè separata dal corpo, che non ritiene altro se non la sua propria natura, la quale, abbiam detto, esisterebbe sì ed avrebbe l' intuizione dell' essere e certi abiti conservati dalla sua precedente unione col corpo; ma non però avrebbe vita, in quanto la vita esprime « il sentimento d' una realità »; e però sarebbe del tutto priva d' ogni altra attività, di ogni altro atto, e molto più d' ogni consapevolezza. L' anima cristiana all' incontro, anche separata dal corpo, non riman sola, perchè è unita con Cristo; non riman senza vita, perchè ha la vita eterna: il cui termine reale era probabilmente nel triduo della morte di Cristo il suo corpo e il suo sangue sotto la forma di cibo e di bevanda; e, dopo risorto, è non solo il corpo di Cristo secondo l' essere sacramentale, ma ben anco secondo l' essere suo naturale glorioso. Ma nella vita presente l' uomo è incorporato a Cristo secondo la vita misteriosa e sacramentale solamente, perchè l' essere naturale e glorioso di Cristo gli rimane al tutto nascosto, acciocchè sia oggetto della fede, e s' avveri il detto del Signor nostro «: Beati qui non viderunt et crediderunt (1), » e l' uomo s' abbia quella beatitudine che altramente non avrebbe. Tutto in beneficio dell' uomo, anche la limitazione de' doni. Perocchè il non vedere Iddio e tuttavia credere alle sue parole con efficacia di opere, dà maggiore onore a Dio che credendo dopo aver veduto. Quell' atto contiene una intiera fiducia in Dio rivelante, un intero abbandono a lui come verità, ed è un atto di mente più ferma e libera e dominatrice dei sensi e delle loro apparenze che sogliono attirare e legare l' assenso dell' uomo. Onde nella fede v' ha un prezzo e una dignità morale maggiore che non sia nella semplice visione, e tutto l' intento divino è di condurre l' uomo alla maggiore perfezione dell' essere. Questa è la fede di quelli che sono già incorporati in Cristo: la fede dopo la percezione occulta di Cristo, colla quale si percepisce Cristo, nel suo essere sacramentale di cibo; la fede di cui disse Cristo «: Ut omnis qui videt Filium et credit in eum habeat vitam aeternam (2). » Prima dice videt filium, e poscia dice et credit in eum, perocchè a quella visione del Figlio soprastà la fede . Non è una visione che tolga la fede, quand' anzi le dà il fondamento, giacchè la fede è « « la sussistenza delle cose da sperarsi, l' argomento delle non vedute »(3); » definizione che conviene sommamente alla fede dell' uomo già incorporato con Cristo, nel quale Cristo percepito occultamente, e non nel suo corpo naturale nè glorioso, è la sussistenza delle cose da sperarsi, cioè della manifestazione di Cristo nel suo esser glorioso, ed è l' argomento inconcusso di questo esser glorioso di Cristo che nella vita presente non apparisce. Cristo disse ancora nella stessa conferenza cogli Ebrei: « « Nemo potest venire ad me, nisi Pater, qui misit me, traxerit eum: et ego resuscitabo eum in novissimo die. Est scriptum in Prophetis et erunt omnes docibiles Dei (1). Omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me. Non quia Patrem vidit quisquam, nisi is, qui est a Deo, hic vidit Patrem. Amen, amen dico vobis: qui credit in me habet vitam aeternam »(2). » Nelle quali parole Cristo descrive tutto il progresso pel quale l' uomo perviene a quella fede in lui, onde ha la vita eterna. Prima l' accenna in generale dicendo, che « niuno può venire a lui se il Padre che ha mandato Cristo non tragga l' uomo a Cristo »; e promette « che se il Padre lo trae, in qualunque modo lo tragga, Egli lo risusciterà nell' ultimo giorno ». Questo trarre a Cristo può anche in qualche modo intendersi di tutte le cose, come Cristo altrove disse «: Et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum (3); » e in questo senso si possono interpretare le parole che seguono [...OMISSIS...] della universale resurrezione, allo stesso modo come abbiamo spiegato l' altre parole precedenti « ut omne quod dedit mihi non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Ma l' espressione del « trarre del Padre »abbraccia di più; come generalissima abbraccia ogni maniera di traimento, e specialmente di quelli che sono tratti a Cristo, acciocchè non siano solamente in potestà di Cristo, ma sieno salvati da Cristo, rispetto a' quali la promessa di Cristo « ed io lo risusciterò nell' ultimo giorno »dee intendersi della resurrezione beatifica e gloriosa. Se il Padre trae in questo significato a Cristo, la persona che è tratta non è ancora venuta a Cristo, non ancora incorporata con esso lui: ma è nondimeno in sulla via a questo felice termine. Il traimento adunque del Padre a Cristo comprende quelle grazie e quei doni che costituiscono la disposizione dell' uomo a credere in Cristo, e che perciò precedono la fede compiuta attuale ed abituale. Queste disposizioni non sono propriamente la rettitudine naturale del pensare e dell' operare, la naturale scienza, la naturale onestà. Questa non può essere che una cotale disposizione iniziale e remota, che sarà nondimeno anche questa valutata « in die cum judicabit Deus occulta hominum, secundum Evangelium meum per Jesum Christum (4). » E tuttavia anche questa si attribuisce convenientemente al Padre, a cui s' attribuisce la creazione; e conviene poi al Padre in proprio, in quanto il Padre genera il Figliuolo, e di conseguente tutte le appartenenze del Verbo, fra le quali è il lume della ragione umana, cioè l' essere ideale: si attribuisce al Padre altresì la conservazione e la provvidenza delle cose, onde viene a tutte le cose e nominatamente all' uomo il vigore pel quale durano in essere ed operano, ed ancora la ragione per la quale certi uomini sembrano incontrare nella vita minori tentazioni al mal fare. Ma le immediate ed efficaci disposizioni al ricevimento di Cristo e del suo Vangelo, pei Gentili erano le antichissime tradizioni orali, provenienti dalle primitive rivelazioni fatte da Dio ad Adamo, ed ai successivi Patriarchi prima che l' uman genere si separasse in nazioni, e per gli Ebrei erano le rivelazioni speciali e tradizioni orali e scritte consegnate alla famiglia d' Israele. Mediante queste rivelazioni e tradizioni divine, tanto i Gentili quanto gli Ebrei potevano avere qualche notizia del futuro Redentore del mondo, su cui si fondasse la fede in esso. E al Padre s' attribuiscono queste verità rivelate, perchè, essendo esse, come abbiamo detto (Lezione L, facc. 130), appartenenze soprannaturali del Verbo, benchè non ancora il Verbo stesso, a questo si riducevano, e il Padre che genera il Verbo e lo manda al mondo produceva con ciò stesso tuttociò che al Verbo appartenesse: onde Cristo non si contentò di dire: « Nemo potest venire ad me nisi Pater traxerit eum; » ma disse: « Pater qui misit me » quasi dica: Colui che a me è Padre ab eterno, e che agli uomini mi manda e mi comunica nel tempo. Dice nelle parole appresso che nessuno degli uomini vide il Padre, « nisi is qui est a Deo » perchè il Padre non è conoscibile e percettibile se non pel Figlio e nel Figlio, il quale n' è il Verbo che tutto lo comprende, e quindi n' è l' intelligibilità. Ma tuttavia dice che, se il Padre non si può vedere dagli uomini, tuttavia da essi si può udire, onde il profeta Isaia dice che « saranno tutti docibili », ossia atti ad essere ammaestrati da esso Dio Padre. Ora questi ammaestramenti dal Padre dati agli uomini che ancora non conoscono Cristo, dati specialmente avanti la venuta di Cristo, sono appunto quelle rivelazioni e istruzioni soprannaturali di cui abbiamo parlato, e che abbiam detto non essere ancora il Verbo, ma essere tuttavia appartenenze del Verbo. Ora queste, ricevute docilmente, umilmente, fedelmente dagli uomini, sono le disposizioni prossime ed efficaci che poscia li fa ricevere Cristo e credere in lui. Onde Cristo promette, con infinita bontà, che: « omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me . » Non basta che gli uomini odano dal Padre quello che loro insegna, quello che loro insegnò colle primitive rivelazioni, quello che insegnò agli Ebrei colle rivelazioni speciali fatte alla casa di Giacobbe; conviene ancora che imparino quanto il Padre insegna, acciocchè vengano a Cristo: cioè conviene che aggiungano la loro cooperazione, l' adesione della loro libera volontà, [...OMISSIS...] In tal caso vengano a Cristo. Il venire a Cristo sembra che sia una disposizione ancora precedente alla fede, precedente al credere in Cristo. Quando l' uomo udì dal Padre, quando l' uomo imparò ciò che il Padre gli favellò, allora egli va a Cristo, cioè nasce in lui il desiderio che sia completata quella scienza che gli ha insegnato il Padre, ed opera in conformità di quel desiderio, cercando quel completamento che ancora non ha, ancora non conosce, il quale completamento è Cristo. Postochè Cristo gli si annunzia; allora egli crede in Cristo, ed opera in conformità di quella fede. Giunto a questo punto la sua salute eterna è assicurata, promettendolo Cristo: « Amen, amen dico vobis, qui credit in me habet vitam aeternam . » Ma chi ha la vita eterna crede in Cristo, cioè continua a credere, e crede con maggior luce, cioè colla luce della vita eterna che oggimai egli possiede. Ora Cristo passa ad insegnare come questa vita eterna si formi nell' uomo, dicendo: [...OMISSIS...] Aveva detto che chi crede in lui ha la vita eterna, e poi dice di essere egli stesso pane di vita, di cui quegli che avrà mangiato, vivrà in eterno. Se la Fede basta per avere la vita eterna, come poi mette per condizione all' uomo per vivere eternamente, ch' egli mangi del pane della vita? E se questo pane della vita è il pane eucaristico, se è la carne di Cristo, come espressamente spiega lo stesso Cristo, « et panis quem ego dabo caro mea est; » sarà egli vero che colui che ha la fede e non ha ricevuto l' eucaristico pane non abbia la vita eterna? Questo sarebbe opposto a quanto aveva detto, perocchè Cristo aveva detto assolutamente e senza altre condizioni: « qui credit in me habet vitam aeternam . » E` dunque da dirsi che questa fede in Cristo trae seco per natural conseguenza il desiderio del battesimo e degli altri sacramenti, il qual desiderio, quando non può essere soddisfatto, basta all' uomo per l' eterna salute. Ma in tal caso, in qual modo Cristo dice assolutamente poco appresso: Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' uomo e non berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi: [...OMISSIS...] Queste parole sono assolute ed universali. Qui sembra occultarsi un grande mistero. E quantunque questo mistero rimarrà sempre in parte occulto, tuttavia sembra che Gesù Cristo medesimo ce l' abbia in parte svelato. Gesù Cristo ci dice che egli si comunica agli uomini in forma di cibo: che questo cibo è la sua carne: che questa carne sotto forma di pane e di bevanda dà la vita: che se non si ciba questo pane e questa bevanda non si può avere la vita in se stessi: e che il pane che egli darà è la sua carne per la vita del mondo, [...OMISSIS...] ovvero, come dice il testo greco « « è la mia carne che io darò per la vita del mondo » », [...OMISSIS...] quasi dicendo: quella stessa carne, che io darò a morte acciocchè il mondo viva, è il pane della vita; cioè quel pane che darà al mondo una nuova vita immortale ed eterna. Vi ha dunque una carne che Cristo abbandona alla morte; ma questa carne stessa, destinata alla morte, sarà il pane della vita eterna, cioè avrà una maniera di vita che non può venir meno; e questa darà la vita agli uomini, anche quando questi avranno perduta la loro vita naturale, la vita del mondo. Io darò dunque a morte la mia carne, ma nello stesso tempo darò un' altra vita, perocchè questa mia carne rimarrà sempre un pane vivo, un pane che dà la vita. Questo pane adunque dee dare la vita anche a quegli uomini che sono morti secondo la vita naturale ed adamitica. Il che importa che ci abbia un' azione, un effetto dell' eucaristia al di là di questa nostra vita naturale, sicchè le anime nostre anche separate vivano di quella vita che dà la carne di Cristo sotto forma di pane della vita, in un modo del tutto occulto e misterioso. E veramente Gesù Cristo disse agli apostoli, dopo istituito il sacramento eucaristico, ch' egli avrebbe bevuto un vino nuovo insieme con essi, quando fosse entrato nel suo regno: [...OMISSIS...] Il vino eucaristico che Cristo dichiara che avrebbe bevuto nel regno del Padre suo, lo dice « vino nuovo »perchè il suo corpo sarebbe stato glorioso: dice che lo avrebbe bevuto « con esso loro », per indicare la partecipazione ad essi della sua vita eucaristica: il vino eucaristico suppone anche il pane, come il sangue suppone il corpo; ma Cristo si limita ad accennare quell' umore che dà la vita al corpo naturale, giacchè era scritto: [...OMISSIS...] E poco prima aveva detto: [...OMISSIS...] Questo sangue, che è destinato da Dio pro piaculo animae, non è il sangue d' alcun animale, il quale non poteva che raffigurarlo; nè è il sangue dell' uomo corrotto: ma il sangue del Figliuolo dell' uomo che è insieme Figliuolo di Dio, Gesù Cristo Signor Nostro. Non si potea cibare qualunque altro sangue, perchè era sangue morto, e traendolo dal vivente, gli dava morte; ma Gesù Cristo irritò anche questa prescrizione legale compiendola, dando all' uomo il suo preziosissimo sangue in forma di vino, sangue vivo e vivificante, vero piaculum delle anime, sangue del nuovo ed eterno testamento. Oltre di ciò, parlando Cristo a' suoi discepoli, preferisce di parlar loro del sangue suo, che avrebbe bevuto nuovo nel suo regno sotto forma di vino, perchè l' assunzione del sangue era riserbata specialmente ai perfetti, ed ai sacerdoti, a' quali poi riserbolla la Chiesa diminuito il primo fervore dei fedeli, come quello che contiene in modo speciale le grazie più perfette, qual è l' allegrezza nel fare il bene significata dalla specie del vino che « laetificat cor hominis (3), » e la grazia della fortezza e del martirio significata nel sangue che Cristo il primo dovea spargere. Onde quelle parole erano conforto ad un tempo e robustezza aggiunta a' dolenti discepoli che doveano quanto prima vedere il loro Signore e Maestro barbaramente crocefisso. L' essere adunque eucaristico di Cristo, che vive in forma di pane e di vino, opera al di là di questa vita, e dà all' anima separata, come all' anima unita al corpo, una vita misteriosa in Cristo che non può venir meno giammai, perchè di sua natura è eterna. [...OMISSIS...] Questo pane è sempre vivo: « Ego sum panis vivus; » questo pane è vivo in modo che dà altrui la vita: « Ego sum panis vitae . » Cristo può esser dunque morto della sua vita naturale, ma non della sua vita eucaristica. Questo pane vivo è disceso dal cielo: « Ego sum panis vivus qui de coelo descendi » e perciò appunto non muore, perchè non è nato della terra: il cielo è il luogo della vita e non della morte: ciò che è dal cielo non soggiace alle leggi della terra, e perciò non muore, perocchè nè la terra nè le forze della terra, nè quelle dell' inferno non hanno potestà sulle cose del cielo: il corpo naturale di Cristo era venuto dalla terra perchè composto del sangue della Vergine, e però fu potuto abbandonare alla morte: ma il corpo eucaristico ha un essere soprannaturale, che viene unicamente dal Cielo, e però è vivente e vivificante: niuno lo può distruggere. Una dottrina così recondita e meravigliosa faceva stupire gli Ebrei che non la intendevano, e ne mormoravano dicendo: « Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? (1). » E tuttavia Cristo non ritratta o spiega in senso traslato quanto aveva detto, ma lo conferma e rinforza dicendo e ripetendo: [...OMISSIS...] Nelle quali parole Cristo mette per condizione ad avere in se stessi la vita il mangiare la carne sua e bere il suo sangue: « Nisi manducaveritis carnem Filii hominis et biberitis ejus sanguinem non habebitis vitam in vobis . » Le parole sono chiare ed assolute, a tal che, prima che fosse deciso dalla Chiesa l' assunzione dell' Eucaristia non essere di necessità di mezzo alla salute (3), v' ebbero alcuni, come S. Agostino (4) e Innocenzo I (5), che ritennero non bastare all' eterna salute de' bambini ricevere il battesimo, se ancora non fosse data loro l' eucaristia. Ma ora è definito il contrario dall' infallibile autorità della Chiesa; e pure quelle parole di Cristo son così assolute ed universali, come quelle che inculcano la necessità del battesimo: [...OMISSIS...] Se dunque chi non mangia la carne del Figliuolo dell' uomo e bee il suo sangue non ha la vita in se stesso, e tuttavia chi muore col battesimo d' acqua, o di sangue, o di desiderio è certo che acquista la vita eterna, convien dire che quella comestione della carne e del sangue di Cristo, che non fece nella vita presente, gli verrà somministrata nella futura al punto della sua morte, e così avrà la vita in se stesso: giacchè, come abbiamo veduto, l' eucaristia ha degli effetti anche al di là di questa vita, e Cristo stesso disse che entrato nel suo regno glorioso egli l' avrebbe presa insieme co' suoi discepoli. In questo modo anche a' santi dell' antico testamento, quando Cristo discese al limbo, potè Cristo comunicare se stesso sotto la forma di pane e di vino, e così ravvivarli da quello stato di tenebre e di sonno in cui si trovavano; e, mettendoli a parte della propria vita eucaristica, renderli atti alla visione di Dio; la fede loro era per essi il titolo, con cui sono morti, di un diritto ad rem, che fu poscia effettuato da Cristo, quando diede loro il possesso delle cose in cui speravano, onde il loro divenne un diritto in re . Il medesimo dicasi di tutti que' Gentili che ebbero la fede nel futuro Salvatore del mondo, e che vissero senza peccato mortale, o pentiti n' ottennero il perdono. Lo stesso di que' Cristiani che muojono, benchè battezzati e mondi dal peccato attuale, senza aver ricevuto nella vita presente l' eucaristia, come accade a molti bambini, e come accadde a colui, a cui disse Cristo in Croce: « Hodie mecum eris in Paradiso (1). » La qual dottrina viene confermata dal sacrificio della messa. Perocchè in questo, dopo avvenuta la transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue del Redentore, si prega che questo venga portato dall' angelo « in sublime altare tuum, in conspectu divinae majestatis tuae, » e che quanti partecipiamo di questo altare, « omni dono coelesti et gratia repleamur : » il che è la società e comunicazione nostra co' santi che sono in Cielo. Laonde Innocenzo III nella sua opera sulla liturgia, venuto a questo passo che incomincia: « Jube haec perferri, » appone al capitolo questo titolo «: De profunda quorumdam intelligentia verborum; » ed appresso scrive così «: Tantae sunt profunditatis haec verba ut intellectus humanus vix ea sufficiat pertractare . » Vede in quelle parole il mistero, e non osa quasi per riverenza svelarlo; non osa per la profondità sua investigarlo: perocchè veramente ella è questa una delle più arcane dottrine della cattolica Chiesa. Che se noi osiamo favellarne, è solo per la persuasione in cui siamo che così voglia Iddio in questo tempo. Quel sommo Pontefice nondimeno lo accenna colle parole di C. Gregorio Magno, di cui allega due testi, continuandosi in questo modo: [...OMISSIS...] (1). Dopo recati tali testimonii, Innocenzo III passa a spiegare quelle parole in un senso meno profondo, attestando però di nuovo l' alto mistero che esse nascondono con dire: [...OMISSIS...] Ma poscia, venendo a parlare di quell' altare sublime in cui il sacerdote prega che sia portata dall' Angelo l' eucaristia, dice: « Multiplex autem altare legitur in scripturis superius et inferius, interius et exterius » e si fa ad enumerare questi diversi altari superiori e celesti, ed inferiori e terreni, e fra questi dice che altare superiore è anche la Chiesa trionfante, altare poi inferiore la Chiesa militante [...OMISSIS...] Ed acconciamente pel sublime altare, di cui è fatta menzione nelle citate parole che pronuncia il sacerdote nella messa poco dopo la consacrazione, si può intendere la Chiesa trionfante, la quale è fatta partecipe degli stessi divini misteri, di cui si rende partecipe il credente viatore su questa terra, vivendo e l' una e l' altra dello stesso cibo, fruendo della medesima vita di Gesù Cristo. Qual ineffabile consorzio! Qual intima unione del Cielo colla terra! qual divino legame fra le cose visibili ed invisibili! Qual ammirando commercio fra la vita presente e la futura! Quale unità di tutto il Corpo di Cristo, la quale discende da questo corpo glorioso e si comunica non meno alle membra già partecipi della sua gloria che alle membra che ancor vivono di fede sperando! Ora nella Santa Messa, dopo che il sacerdote pregò Iddio perchè comandi che l' Angelo porti il pane e il vino della vita, che sta in sull' altare terreno, anche sull' altare celeste, cioè che la porti a' celesti comprensori, egli prega per le anime dei defunti non ancora pervenute allo stato di termine e che debbono purificarsi dalle leggiere macchie che da questa recaron seco nell' altra vita. Perocchè, se questo cibo vitale venga dato a quelle anime fedeli, esse saranno tantosto liberate dalla loro oscura prigione, ottenendo quella vita di Cristo colla quale nell' altra vita si è atti a vedere la faccia di Dio: giacchè questo cibo rimette i peccati leggieri, e monda le anime intieramente, « tamquam antidotum quo liberemur a culpis quotidianis, » come disse il Sacrosanto Concilio di Trento (1). Alla commemorazione poi delle anime purganti, segue l' orazione che incomincia: Nobis quoque peccatoribus, colla quale il sacerdote prega per sè, per gli assistenti, e per tutti i fedeli che costituiscono la Chiesa militante su questa terra, e dimanda che mediante il cibo eucaristico possiamo tutti aver qualche parte coi santi martiri ed altri comprensori celesti, in modo che, dopo esser vissuti quaggiù della vita nascosta di Cristo, possiamo in cielo godere della vita palese e a pieno manifesta. Così le tre parti in cui la Chiesa è divisa, cioè la trionfante, la purgante e la militante, conviene che vivano della stessa vita di Cristo, benchè in gradi e modi diversi, e che abbiano uno stesso mezzo con cui partecipare di questa vita. Conviene riflettere che il concetto del sacrificio fu sempre eguale dal principio del mondo, nè fu solo conservato presso gli Ebrei, ma presso tutte le genti. Questo concetto non involgeva solo l' immolazione della vittima alla divinità, ma ben anco acchiudeva la persuasione che della vittima immolata si cibassero, parte la divinità stessa, parte gli uomini che facevano il sacrificio. Si concepiva così che un solo cibo diventasse comune a Dio, od agli Dei, ed agli uomini, e per tal modo gli uomini partecipassero della stessa vita di Dio o degli Iddii. E Iddio presso il suo popolo mandava sovente il fuoco dal cielo ad assumere la vittima quasi egli stesso se ne nutrisse. [...OMISSIS...] si legge ne' libri de' Maccabei, [...OMISSIS...] Questo concetto costantissimo presso tutte le nazioni, non fu effettuato in antico se non simbolicamente; ma Cristo compiè il simbolo, e adempì la verità di quel concetto profetico. Se dunque era nell' antica tradizione, e nell' istinto della natura umana, che una vittima dovesse esser cibo comune a Dio ed agli uomini, era convenevole che Iddio divenuto uomo e glorificato partecipasse d' un alimento sacro di cui potessero altresì partecipare gli uomini, e questo alimento fu il pane ed il vino divenuti sua carne e suo sangue. E se Cristo glorioso ne partecipa, conveniva che tutta l' umanità gloriosa, che forma un solo corpo con esso lui, pure ne partecipasse: questo dunque è il cibo soprasostanziale di tutti i santi che ammantano Cristo, e compiscono il suo corpo santissimo. Quando parla Gesù Cristo del cibo eucaristico chiama se stesso « Figliuolo dell' uomo »: [...OMISSIS...] Abbiamo detto che questa era la denominazione più umile che poteva dare a se stesso. Ma egli era venuto a prendere la difesa dei figliuoli dell' uomo contro il demonio, a prendere la forma così bassa ed umile di figliuolo dell' uomo (espressione che allude alla generazione, nella quale il demonio aveva posto il guasto della natura umana e per la quale il peccato si propagava di padre in figlio, benchè Gesù Cristo, non concepito per umana generazione ma per opera dello Spirito Santo, ne andasse del tutto immune, come ne andava pure immune per essere in pari tempo Dio) per rinnovare e rialzare dal suo avvilimento lo stesso figliuolo dell' uomo, il quale in lui sussisteva perfetto e sublimato: perfezione e sublimità che voleva pure comunicare agli altri figliuoli degli uomini a cui s' era fatto fratello secondo la carne, a cui voleva pure esser fratello secondo la divinità. Quindi, in onta al demonio, egli esalta e magnifica quel figliuolo dell' uomo, che l' inimico aveva tanto umiliato e distrutto, e però egli dice: « Ut autem sciatis quia Filius hominis habet potestatem in terra dimittendi peccata (1); » dice ancora: « Dominus est Filius hominis etiam sabbati (2); » dice: « Mittet Filius hominis angelos suos et colligent de regno ejus omnia scandala (3); » dice: « Filius enim hominis venturus est in gloria Patris cum angelis suis, et tunc reddet unicuique secundum opera ejus (4): » e tante altre cose dice in onore della umana natura che il Demonio aveva tanto abbassata, ed egli era venuto ad innalzare. Ed è da considerarsi che egli non esaltava solo questa natura in un solo individuo di lei, cioè in se stesso, ma la voleva esaltata in molti individui che rappresentassero tutte le forme o specie di onore e di gloria di cui ella fosse suscettibile (1), giacchè invitava tutti gli uomini a partecipare di que' pregi, ed onori, e glorie che in lui primo dovevano essere, fino a dire: « Amen dico vobis, quod vos, qui secuti estis me, in regeneratione, cum sederit Filius hominis in sede majestatis suae, sedebitis et vos super sedes duodecim judicantes duodecim tribus Israel (2). » Ora, nello stesso modo parlando del cibo eucaristico, invece di dire: « Se non mangerete la mia carne, »ovvero: « se non mangerete la carne del Figliuol di Dio », dice: « Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' Uomo », quasi volendo dire: Il figliuol dell' uomo fu corrotto dal peccato per insidia del diavolo: ora, a scorno del medesimo corruttore ed insidiatore, il figliuolo dell' uomo troverà il rimedio da riparare a' suoi danni in se stesso, non avrà bisogno d' uscire da sè per rinvenirlo. Il che tutto dimostra un ineffabile amore per l' umana natura, di cui Iddio si rende il campione prendendone la difesa: dimostra una delicatezza che provvede all' onore di questa natura tanto vessata dal suo perpetuo inimico, e quella cotal riverenza verso essa, di cui favella il Libro della Sapienza, ove dice: « Tu autem, dominator virtutis, cum tranquillitate judicas, et cum magna reverentia disponis nos (3). » E tuttavia la vita eucaristica è soprannaturale e divina. Il che Gesù Cristo fa intendere con quelle parole: « Sicut misit me vivens Pater et ego vivo propter Patrem, et qui manducat me et ipse vivet propter me . » Il Padre dà la missione al Verbo d' incarnarsi, in generandolo, ed il Verbo incarnato vive, tutto Dio e uomo, della vita del Padre: perocchè, come Verbo ha comune col Padre la vita, e come uomo partecipa, per l' unione ipostatica, di quella vita. Questa non è la vita naturale, ma la vita divina partecipata, la vita essenziale di cui dice S. Giovanni: « « In ipso vita erat ». » Questa vita è la sussistenza vivente nel Padre, conosciuta per essenza nel Figliuolo, amata per essenza nello Spirito Santo. Questa vita della persona divina di Cristo reggeva come principio supremo la sua natura umana, e nascondeva questa natura umana vivente della vita divina e da questa governata sotto la forma di cibo per potersi così comunicare agli altri uomini. Perocchè l' uomo non acquista il termine reale del suo sentimento, per il quale egli vive, se non per generazione e per nutrizione: in questi due modi il suo spirito si unisce alla corporea sostanza come a termine del suo sentire. Ora, essendosi guastato il primo modo, con cui si doveva propagare la vita naturale, per opera del demonio; restava intatto il secondo, giacchè l' albero della vita non fu potuto profanare nè dal demonio nè dall' uomo. Al frutto dunque dell' albero della vita, che nella prima istituzione doveva aggiungere all' uomo colla nutrizione un termine corporeo che lo avrebbe reso immortale, Iddio sostituì un altro cibo tolto dall' uomo stesso, cioè la carne ed il sangue di Gesù Cristo. E questa vita, misteriosa ed occulta, è quella vita colla quale il Padre provvide al Verbo incarnato, quando si consigliò di abbandonarlo rispetto alla vita naturale, nelle mani de' suoi crocifissori; quella colla quale il Padre esaudì il Figlio secondo le parole dell' Apostolo: « « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua reverentia »(1); » il qual clamore, le quali lagrime non potevano non essere pienamente esaudite; quella vita di cui rese grazie Cristo quando istituì il Santissimo Sacramento: « Dominus Jesus, in qua nocte tradebatur, accepit panem, et gratias agens fregit (2). » Essendo dunque questa vita divina, e per sè indipendente dalla carne e dal sangue ma per divino consiglio all' umanità di Cristo comunicata, Cristo dice, quasi a conclusione del suo insegnamento sull' eucaristico cibo: « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam; verba, quae ego locutus sum vobis, spiritus et vita sunt (3), » volendo dimostrare due cose: che la vita, che sta nella sua carne e nel suo sangue, è vita divina; e che questa non si può ricevere se non per opera dello Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo: onde quelli che ricevono l' Eucaristia col peccato nell' anima, non ricevono, non possono ricevere quella vita. Laonde S. Agostino, spiegando le parole di Cristo, dice che non muore colui che riceve nell' eucaristico cibo [...OMISSIS...] E ancora dice: [...OMISSIS...] Laonde Cristo, che promette che non morranno quelli che mangeranno la sua carne e il suo sangue ma avranno in sè l' eterna vita, fa intendere chiaramente che egli parla di una manducazione colla quale l' uomo riceva rem sacramenti, e non solamente il sacramentum . Questo non è quel mangiare di cui parla Cristo; perchè « « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam ». » Onde di nuovo S. Agostino, parlando di questo Sacramento [...OMISSIS...] Per mangiare adunque veramente il corpo e il sangue di Cristo, nel senso che intende Cristo colla voce mangiare, conviene esser membro del corpo di Cristo, e membro vivente. Non basta aver ricevuto il carattere indelebile nel sacramento del battesimo, o anche negli altri sacramenti che lo conferiscono, cioè nella Confermazione e nell' Ordine sacro; conviene ancora aver la grazia che ci rende membro vivo di quel corpo. Perocchè Cristo disse: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem, in me manet et ego in illo . » Ora, se ivi è l' obice del peccato, questo, che di natura sua avverrebbe per la forza del Sacramento, non può avvenire, perchè « quae conventio Christi ad Belial? (4). » Onde Cristo in quelle parole esprime l' effetto della Santissima Eucaristia, quale essa per sua virtù arreca, prescindendo dall' accidentale impedimento che pone l' uomo. Il perchè S. Agostino dice che nelle citate parole di Cristo il Signore espone « quid sit manducare corpus ejus, et sanguinem ejus bibere . » E soggiunge: [...OMISSIS...] (5). Le quali parole del Santo Dottore vanno intese con buon senno. Perocchè anche chi ha ricevuto il battesimo colla grazia che di natura sua conferisce, questi è già membro vivente del corpo di Cristo, e però egli è in Cristo e Cristo in lui. Ma la Santissima Eucaristia conserva questa unione e mutua inabitazione come fa il cibo che conserva la vita in chi già l' ha: il che viene espresso da quella parola di Cristo manet ( in me manet et ego in illo ), che significa permanenza e continuazione. Di più, il cibo ristora ciò che il corpo vivente va perdendo ogni giorno; e questo fa pure l' Eucaristia togliendo i peccati veniali, in cui quotidianamente l' uomo incappa, rimettendo in lui e rifondendo nuova vita. In terzo luogo il cibo rende l' uomo adulto, e così fa l' Eucaristia dell' uomo nuovo e spirituale, facendo in lui crescere Cristo. In quarto luogo il pane rinforza, e il vino eccita e rallegra; e questi pure sono effetti dell' Eucaristia; la quale dà all' uomo la pienezza della vita, del sentimento, e dell' attività della vita, perchè pone nell' uomo Cristo corporalmente, lo pone tutto, il corpo, il sangue, l' anima e la divinità; laddove il battesimo congiunge l' uomo al corpo vivente di Cristo, ma non pone nell' uomo tutto lo stesso Cristo. In secondo luogo non è da credere che senza la reale manducazione del pane e del vino consacrato l' uomo possa per altra via venire in possesso di tutte queste grazie, e possa aver Cristo corporalmente in se stesso: ma egli può nondimeno salvarsi, perocchè il desiderio di pascersi del corpo e del sangue sacratissimo, e l' essere in istato di grazia, quantunque non glie ne dieno il possesso, e, per così dire, il diritto in re , tuttavia glie ne danno il diritto ad rem , il quale dopo la sua morte lo mette alla partecipazione reale del pane e del vino celeste. Ed ora noi possiamo più precisamente rispondere alla questione: « Che cosa s' intenda nelle divine scritture per risurrezione ». La qual parola riceve più significati dalle diverse maniere di vita a cui si riferisce. Perocchè noi abbiamo distinte in Cristo quattro maniere di vita di cui partecipa il Cristiano, a ciascuna delle quali si riferisce una maniera di risurrezione. E le vite da noi distinte furono: 1 la vita naturale che consiste nell' unione dell' anima col corpo; 2 la vita eucaristica; 3 la vita spirituale di Cristo viatore, che consiste per Cristo nell' unione teandrica dell' uomo con Dio, e pel Cristiano nella partecipazione della grazia di Cristo, per la quale l' uomo non solo percepisce il Verbo ma vi acconsente e vi aderisce colla sua volontà, ancora vivente della vita naturale; 4 la vita gloriosa cominciata per Cristo dopo la sua risurrezione e completata dopo la sua ascensione al Cielo, e che comincierà pel cristiano dopo la resurrezione del suo corpo. La terza e la quarta di queste vite, sono una sublimazione soprannaturale della prima, o, per dir meglio, hanno la prima per loro base e quasi subietto: la seconda, cioè l' eucaristica, è una vita miracolosa e misteriosa. Ciò premesso, per risurrezione nelle divine scritture s' intende: Talora quello che accade per la fede e pel battesimo che restituisce all' uomo la terza delle vite enumerate, cioè la vita della grazia. L' uomo, che nasce dal mal seme di Adamo, nasce corrotto, peccatore; e però si dice morto, cioè privo della vita spirituale. Egli ha bensì la vita naturale, ma soggetta irreparabilmente alla morte, di cui porta i germi in se stesso, e quindi egli non ha che una vita inutile al conseguimento del suo fine che è l' immortalità. Perduta la vita naturale, egli si rimarrebbe morto per sempre: l' anima sua cadrebbe in quello stato di tenebre e d' inazione che abbiamo descritto. L' uomo, che si fa Cristiano ricevendo il Vangelo, depone ogni sua confidenza nella sua vita naturale e corrotta, e si tiene rispetto a questa per morto, ponendo tutto il suo bene e il suo affetto nella nuova vita che egli acquista incorporandosi a Cristo, e vivendo della vita di Cristo. Questo è quello che insegna S. Paolo in quelle parole: [...OMISSIS...] L' immersione nelle acque battesimali rappresenta, secondo l' Apostolo, la morte dell' uomo naturale7corrotto, la morte del peccato. Perocchè Gesù Cristo colla morte del suo corpo naturale7innocente acquistò, come abbiamo veduto, il diritto di giustificare gli altri uomini, pei peccati dei quali la divina giustizia rimaneva soprabbondantemente soddisfatta; acquista il diritto di unirli a sè, com' egli tanto bramava a cagione della generosa sua carità, e quindi di fare che l' uomo morto alla vita soprannaturale risorgesse a questa vita formando un solo corpo con esso lui: e questo risorgimento è simboleggiato dall' uscita dell' acqua, in cui l' uomo era stato immerso quasi in sepolcro. Di che l' Apostolo deduce che l' uomo dee fare gli atti propri della vita nuova, non più dell' antica già deposta, [...OMISSIS...] E fa intendere che in questa vita spirituale noi abbiamo la caparra della futura resurrezione de' nostri corpi: perocchè Cristo, che è in noi, è risorto; onde anche noi risorgeremo alla vita naturale sublimata alla gloria quando deporremo la presente nostra vita naturale7corrotta, che noi dobbiamo già riguardare come morta e vivere come già fossimo risorti anche corporalmente: [...OMISSIS...] E come Cristo morì una volta della morte naturale, e oggimai più non muore; così noi morti al peccato viviamo di vita perenne: [...OMISSIS...] Anche l' Apostolo S. Pietro attribuisce il morir nostro al peccato alla morte di Cristo, e il nostro risorgimento alla vita della grazia ce lo rappresenta come un effetto della risurrezione del Signor nostro, colla quale gli fu dato il diritto di distribuire agli uomini la vita spirituale, germe della futura risurrezione de' loro corpo. E paragona il battesimo alle acque del diluvio, quando nell' arca « « pauci, idest octo animae, salvae factae sunt per aquam » ». E soggiunge: « « Quod et vos nunc similis formae salvos facit baptisma: non carnis depositio sordium, sed conscientiae bonae interrogatio in Deum per resurrectionem Jesu Christi, qui est in dextera Dei, deglutiens mortem ut vitae aeternae haeredes efficeremur, profectus in coelum, subjectis sibi angelis, et potestatibus, et virtutibus »(1). » La differenza fra la vita spirituale e la vita che il cristiano viatore riceve dalla percezione della santissima Eucaristia sta primieramente in questo, che nel battesimo egli acquista la percezione iniziale del Verbo, che lo segna col carattere indelebile, onde fluisce la grazia dello Spirito Santo se non trova ostacoli; e questa maniera di vita gli è comunicata dall' umanità di Cristo per un segreto contatto del suo corpo vivente e glorioso colle acque nell' atto che il battezzatore proferisce le parole, forma del Sacramento. Perocchè, come diremo in appresso, il corpo di Gesù Cristo emana una virtù vitale col solo suo contatto, e questo basta per legare a sè ed incorporare con una comunicazione di vita gli uomini. Laddove nell' Eucaristia l' uomo, incorporato già e vivente di Cristo, non gode del solo contatto invisibile e misterioso del corpo di Cristo, che comunica all' acqua quella virtù vivificatrice onde l' uomo vive di Cristo; ma l' uomo riceve in se stesso tutto l' Autor della grazia, il suo corpo e il suo sangue, e con essi insieme la sua anima e la sua divinità, in forma di alimento. E come l' alimento diviene nostro sangue e nostra carne, così avviene del corpo e del sangue di Cristo sotto gli accidenti del pane e del vino, sicchè un medesimo termine di sentimento e di vita corporea abbiamo noi ed ha Cristo; onde, come da fonte di ogni vita e di ogni grazia, ogni vita ed ogni grazia possiamo derivare. La seconda differenza si è che quell' uomo, che si nutre di questo cibo divino e lo fa suo alimento, non è l' uomo vecchio, ma l' uomo nuovo: è quest' uomo nuovo che, contenendo la virtù della vita di Cristo a sè comunicata colla fede e col battesimo, può mediante questa virtù alimentarsi di Cristo, cioè rendere termine del proprio principio vitale la carne ed il sangue di Cristo. Perocchè, come nella nutrizione comune se non vi avesse nell' anima, cioè nel principio senziente, nel principio soggettivo, la virtù nutritiva, non potrebbe rendere il cibo, preso per bocca, sua propria carne viva, e suo proprio vivo sangue, e non si direbbe che fosse un vero mangiare, un vero alimentarsi, come non è mangiare, non è alimentarsi quello d' una macchina inanimata (per esempio delle macine del mulino) che prende e stritola e fa passare da sè delle sostanze che rispetto agli animali si dicono alimentari; così del pari nella nutrizione eucaristica, se chi la prende non ha già la vita di Cristo, o per non essere battezzato o per essere attualmente morto alla grazia a cagione di peccati attuali, egli può premer bensì col dente le specie eucaristiche, secondo la frase di S. Agostino; riceve bensì il corpo e il sangue reale di Cristo dentro se stesso sotto il velame delle specie; il pane ed il vino consecrato passa per il suo corpo come per una macchina; riceve gli effetti fisici delle specie, ma non si nutre di quello che sta sotto le specie, non si nutre, non si alimenta, non s' impingua dello stesso corpo e dello stesso sangue di Cristo, e però propriamente il suo non è un mangiare la carne e bere il sangue del Salvatore. E però Gesù Cristo adopera queste parole di mangiare e di bere solo per indicare la manducazione e la bibita che fanno del Sacramento augustissimo le anime giuste, che se ne rincarnano e rinsanguinano veramente. Onde dice « Panis enim Dei est qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1), » e ancora: « Si quis manducaverit ex hoc pane vivet in aeternum (1). » Onde colui che non vive della vita eterna, egli è segno che non ha mangiato questo pane, benchè l' abbia materialmente ricevuto nella sua bocca, e fatto passare pe' suoi visceri. Dice ancora, per dimostrare la cooperazione dell' uomo alla nutrizione eucaristica, « Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (2). » All' incontro il battesimo non suppone la vita, ma dà la vita a chi non l' ha ancora: perocchè il ricevere la vita non è un' opera del principio vitale, com' è la nutrizione, ma quella viene all' animale e all' uomo dal di fuori per una operazione anteriore al nuovo vivente ch' ella produce. Quindi se del battesimo è proprio ufficio il dare la vita di Cristo all' uomo che non l' ha ancora, onde si chiama generazione o nascita spirituale; egli è proprio effetto dell' eucaristia il conservarla, come faceva il frutto dell' albero della vita, e l' accrescerla, rendendo l' uomo bambino adulto e gagliardo, onde si paragona alla nutrizione o alimentazione. Quindi, il ricevimento dell' eucaristia non si dice un risorgere. Ma nondimeno la vita eucaristica ha il suo proprio risorgimento, e questo avviene quando l' uomo muore. Perocchè l' anima separata dall' uomo che muore riceve dalla vita eucaristica quella unione perenne con Cristo glorioso di cui disse Cristo: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem in me manet et ego in illo (3); » e la quale, alla morte, presta « quel lume di gloria », di cui parlano i teologi, che rende l' anima atta a vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo e quindi a fruire della eterna beatitudine. Questo è quello che promette Cristo in quelle parole: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem habet vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (4). » Egli ha la vita eterna, e tuttavia si promette che sarà resuscitato. Che bisogno di essere resuscitato ha colui che già vive, ed eternamente vive, perchè ha mangiato la carne e bevuto il sangue di Cristo? Egli vive, ma in questo secolo vive d' una vita nascosta, la quale si manifesta luminosissima solo alla morte, quando è tolto dagli occhi dell' anima il velame della carne corrotta, velame significato nel velo dell' antico tempio che impediva ai fedeli la vista e l' ingresso del Sancta Sanctorum . Onde, quando morì Gesù Cristo, questo velo fu scisso, perchè, entrato una volta in esso Sancta Sanctorum il nuovo ed eterno Pontefice secondo l' ordine di Melchisedecco, potevano e dovevano necessariamente entrarvi tutti coloro che con esso formavano una cosa, secondo il suo benigno decreto: [...OMISSIS...] Ora quell' anime, benchè separate dal corpo, le quali sono una cosa nel Figliuolo e nel Padre [...OMISSIS...] ; quelle in cui è il Figliuolo [...OMISSIS...] ; quelle che Gesù Cristo vuole che sieno là appunto dov' egli si trova al cospetto della nuda e svelata faccia di Dio [...OMISSIS...] , quelle che debbono vedere la gloria di Cristo [...OMISSIS...] , certo debbono altresì vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo, partecipando della vita gloriosa di Cristo. Il passaggio da questa vita alla futura è dunque per costoro una vera risurrezione, e però s' adempie nel Nuovo Testamento, colla morte di Cristo, quanto egli aveva detto a Marta: « Ego sum resurrectio et vita; qui credit in me etiam si mortuus fuerit vivet (2). » Cristo disse di chi mangierà il suo corpo e berrà il suo sangue ch' egli lo risusciterà nell' ultimo giorno [...OMISSIS...] Ora vi hanno due giorni ultimi: l' ultimo giorno dell' uomo, e l' ultimo giorno del mondo. Cristo gli abbraccia entrambi col suo detto, e quindi egli accenna a due resurrezioni come effetto del cibo eucaristico: a quella che avverrà all' uomo fedele, tosto che sarà spirato e avrà deposto il peso della sua carne mortale; e a quella che avverrà nella fine dei secoli quando gli sarà restituita una carne gloriosa. Gesù Cristo ne' passi più sopra allegati tutto attribuisce alla fede. Egli prega per quelli che credituri sunt, vuole che questi sieno là dove è egli medesimo. Egli dice [...OMISSIS...] Attribuisce dunque alla fede, di cui egli è autore e consumatore (4), non a qualunque fede, quello stesso che attribuisce altrove alla manducazione ed alla bibita della sua carne e del suo sangue; e tuttavia dice che senza di questa non si può aver la vita in se stessi: [...OMISSIS...] Conviene dunque dire che chi ha la fede in Gesù Cristo mangi la sua carne e beva il suo sangue: perocchè senza di questo non possono aver la vita in se stessi; quando pure è certo, per testimonianza di Cristo, che « omnis qui videt Filium et credit in eum habet vitam aeternam . » Ma non tutti quelli che ebbero la fede in Cristo mangiarono, durante la lor vita mortale, del Figliuolo dell' uomo, nè bevvero il suo sangue: non la mangiarono tutti que' credenti che morirono prima dell' istituzione del Santissimo Sacramento dell' altare; molti, anche dopo questa istituzione, morirono nella fede di Cristo senza poterla ricevere. Convien dunque dire, che essi mangino la carne del Figliuolo di Dio e bevano il suo sangue dopo morti, e per esso risuscitino alla vita eterna. Gesù Cristo adunque parla prima della Fede, e poi del cibo eucaristico, per comprendere nel suo discorso anche tutti i santi dell' antico testamento, e tutti i credenti sparsi per le nazioni in tutti i tempi. Perocchè tutti questi si salvarono per la fede in Cristo venturo, o in Cristo già venuto. Onde l' Apostolo: « Fide intelligimus aptata esse saecula Verbo Dei, ut ex invisibilibus visibilia fierent (6): » cioè, acciocchè le cose invisibili, che sono l' oggetto della fede, la mercede promessa e la gloria futura, si avverassero, si adempissero e divenissero visibili, non più oggetto di fede, ma di visione e di esperienza. Di che soggiunge: [...OMISSIS...] Laonde troppa ragione aveano gli antichi santi di riporre la loro fiducia e speranza, non nella immortalità naturale dell' anima separata che non avrebbe potuto dare a se stessa nè luce nè azione, ma bensì nella risurrezione che avrebbe loro dato Iddio per Gesù Cristo, cioè nella restituzione di una vita ed attività soggettiva, in un termine nuovo del loro principio sensitivo e soggettivo, giacchè senza un termine reale non si dà, propriamente parlando, una vita attuale. In questa risurrezione delle loro anime li fa sperare S. Paolo, e non in altro. [...OMISSIS...] E pur que' santi dell' antico testamento dovevano rimanere colle loro anime separate lungamente nello stato di tenebre e d' inazione, cioè fino al tempo in cui Gesù Cristo avesse istituito il mistero della risurrezione, cioè il sacramento del suo corpo e del suo sangue, ed egli fosse entrato nel suo regno, perocchè dovevano essere perfezionati alla vita insieme con noi, dice l' Apostolo. [...OMISSIS...] « Deo pro nobis melius aliquid providente , » dice l' Apostolo; perocchè noi, che Iddio predestinò a vivere nel tempo della grazia del Salvatore, quando usciamo dalla vita presente senza macchia di peccato, siamo tantosto resuscitati alla vita eucaristica e gloriosa, e per questa vita vediamo Iddio; nè l' anime nostre separate hanno ad aspettare, come quelle degli antichi giusti, ad essere ammesse alla gloria. Oltre di ciò noi, oltre altri vantaggi sopra gli antichi, ancora in questa vita mangiamo il corpo e beviamo il sangue del Signore, e così abbiamo in noi quell' eterna vita, che alla morte nostra si rivela con luce fulgidissima, e che veniva simboleggiata da quelle faci che Gedeone aveva fatte nascondere ai trecento dentro a vasi di creta, rotti i quali esse apparirono (5). Quindi la Chiesa cattolica dà il nome di Viatico alla santissima Eucaristia che ricevono i moribondi, ed essi, quando il possano, ne tiene obbligati, acciocchè morendo abbiano quella vita eterna in se stessi, che è il germe della subitanea resurrezione delle loro anime, tostochè sono divise da' corpi. Il che dimostra che non convien troppo scrupoleggiare nel concedere la ripetizione del Viatico all' infermo che sopravvive qualche tempo, dopo averlo ricevuto la prima volta. E questa è altresì, oltre l' altre, una ragione che persuade a' Cristiani la frequente comunione che li tiene di continuo preparati alla venuta dello sposo, come le vergini prudenti (1), facendogli avere continuamente in sè quella vita che si manifesta nell' ora della loro morte. Il sacrosanto Concilio di Trento parla espressamente del convito celeste dell' anime separate, il quale viene pure espresso negli antichi monumenti cristiani, per indicare la beatitudine che gode l' anima in cielo; e sembra che il citato Concilio si giovi di questa ragione appunto per raccomandare a' fedeli la venerazione e l' uso della santissima eucaristia, o almeno che vi faccia allusione. Perocchè egli s' esprime così: [...OMISSIS...] Sulle quali notabilissime parole del sacrosanto Concilio egli è uopo che noi facciamo alcune riflessioni. Egli adopera la parola mangiare, tanto riferendola all' assunzione del corpo di Cristo in questo mondo, quanto riferendola a ciò che si farà in cielo dall' anime separate da' corpi: egli ammette adunque una manducazione del corpo di Cristo nell' altra vita che darà la beatitudine. Egli dice che le anime nostre, passate da questa vita senza macchia o purificate nel fuoco, saranno ammesse a cibare lo stesso pane degli angeli, che relativamente mangiano i viatori in terra . Cristo adunque nella vita futura si unirà alle anime in modo simile a quello col quale il cibo si assimila ed unisce di presente all' anime nostre divenendo nostra carne e nostro sangue. Non dice il Concilio semplicemente che nel celeste regno saremo uniti a Cristo, goderemo di Cristo, ma dice che lo mangeremo, e lo mangeremo siccome pane, cioè al modo del cibo, e che sarà lo stesso pane eucaristico che ora mangiamo in terra, [...OMISSIS...] Che anzi l' essere questo pane chiamato celeste nelle Scritture, del quale io intendo quel luogo di S. Paolo « Gustaverunt etiam donum coeleste (1) » e in figura, della manna è detto « Januas coeli aperuit, et pluit illis manna ad manducandum, et panem coeli dedit eis: panem angelorum manducavit homo (2) » nel libro poi della Sapienza, tutto applicabile più veramente all' Eucaristia che alla manna, si legge: [...OMISSIS...] e ne' tanti altri luoghi delle divine Scritture l' Eucaristia figurata nella manna è chiamata pane del cielo (4). Convien dunque dire che nel cielo si mangi questo cibo divino. E Cristo lo dice ancora più chiaramente parlando di que' servi fedeli che saranno trovati vigilanti alla venuta del loro Signore, per la quale s' intende da' Padri la morte: « Beati servi illi, quos cum venerit Dominus invenerit vigilantes. Amen dico vobis quod praecinget se, et faciet illos discumbere, et transiens ministrabit illis (5). » Questo è il convito che si fa ai Cristiani, che muojono giustificati, in cielo subito dopo la loro morte, e all' anime che escono pure d' ogni macchia dal fuoco del purgatorio. Cristo è quello che ministra alla mensa, come fece in terra co' suoi discepoli, ed è il cibo stesso ch' egli amministra. Ma perchè dice ministrerà il Signore a que' servi fedeli in passando? Questa misteriosa parola indica la risurrezione di cui parliamo, che avviene all' anima mondata subito dopo aver deposta la soma terrena, perchè Cristo nell' Eucaristia dall' essere suo nascosto, sub sacris velaminibus, come dice il Concilio di Trento, si apre e manifesta ed è mangiato absque ullo velamine . Al qual passaggio di Cristo, qual cibo, da uno stato nascosto ad uno stato palese risponde quella risurrezione dell' anima di cui dice Cristo che passa dalla morte alla vita [...OMISSIS...] E le due risurrezioni, cioè questa e la finale, sono distintamente annunziate da Cristo in questo luogo; perocchè, dopo aver detto che chi crede al Padre che lo ha mandato ha l' eterna vita e passa dalla morte alla vita, tosto aggiunge dell' altra resurrezione finale: « Amen, amen dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mortui audient vocem Filii Dei: et qui audierint vivent (2). » E dice che già allora i morti udivano la voce del Figliuolo di Dio, et nunc est, benchè non dica che già allora risorgessero, ma che viveranno, et qui audierint vivent; perocchè a' santi defunti venne comunicata gradatamente la salute e la grazia di Cristo per que' gradi stessi pe' quali venivano comunicate agli uomini viventi in terra ne' giorni della vita terrena del Salvatore: onde alla predicazione di Cristo la luce uscente dalla sua parola dee essere splenduta altresì a quelli che erano al limbo. La parola transiens s' avvera ancora in un altro modo. Cristo nell' eucaristia passa pe' nostri corpi, come passa il cibo; e un simigliante passaggio, benchè continuo, è credibile che avvenga rispetto all' anime separate venendo in tal modo esse continuamente refocillate da nuovo cibo divino. Onde la parola pasqua, che viene a dire passaggio per indicare il passaggio dell' Angelo, che non sommise alla morte, ma lasciò in vita tutti quelli che avevano tinti gli stipiti delle loro abitazioni col sangue dell' agnello. Allo stesso modo, essendo tutti gli uomini condannati alla morte, l' Angelo della morte non può nulla su quelli che sono vitalmente incorporati a Cristo, perchè ognuno che crede, benchè muoja della morte naturale, pure non muore assolutamente parlando, ma transit a morte in vitam . Così la pasqua degli Ebrei è un segno parlante dell' Eucaristia. Ma qui si presenta una difficoltà sulla denominazione di pane degli Angeli data al cibo eucaristico. Gli Angeli non mangiano, non si nutrono di cibo come gli uomini. Come dunque si può dire che Cristo, la carne ed il sangue di Cristo, si renda cibo de' puri spiriti? E` vero che gli Angeli sono spiriti puri, ma essi hanno nulladimeno una relazione e un' azione sui corpi. Come i corpi sono il termine attivo della vita animale, di maniera che il principio sensitivo riceve da essi un' azione, per la quale egli ha il suo atto di sentire e di essere; così i medesimi corpi sono un termine passivo degli Angeli, di maniera che dagli Angeli essi corpi ricevono quell' attività per la quale possono agire nel principio della vita sensitiva corporea. Quindi gli Angeli possono benissimo esser congiunti al loro modo al corpo eucaristico di Cristo, ad un modo che non è certamente il mangiare dell' uomo, ma che, corrispondendo esattamente ed analogicamente al mangiare e all' alimentarsi dell' uomo, può colla stessa parola denominarsi, non avendo l' uomo altre parole, per significare quanto appartiene alle sostanze pure che non cadono sotto la sua esperienza, se non le analogiche che la propria esperienza gli somministra. Perocchè questa espressione cibo degli Angeli dee avere una verità, e non essere una pura imaginazione degli Ebrei, che, vedendo cadere la manna dal cielo, la dissero cibo degli Angeli che stanno in cielo, e un' imaginazione sarebbe per la manna, ma non pel vero pane celeste che da un altro cielo spirituale discese, e per ragione del quale Iddio permise che così gli Ebrei concepisser la manna, e questo si conservasse scritto ne' libri divini. Può ancora considerarsi che la parola Angelo, che significa mandato, non accenna alla natura ma all' ufficio, onde Angelo è detto nella divina scrittura S. Giovanni Battista, Angeli i Vescovi delle Chiese (1), Angelo del testamento Gesù Cristo medesimo in questo luogo di Malachia: « Ecce ego mitto angelum meum, et praeparabit viam ante faciem meam. Et statim veniet ad templum suum Dominator, quem vos quaeritis, et Angelus Testamenti, quem vos vultis (2). » Il qual Profeta dice pure del Sacerdote: « Labia enim Sacerdotis custodient scientiam, et legem requirent ex ore ejus, quia Angelus Domini exercituum est (3). » Ora il pane ed il vino eucaristico è soprattutto il cibo del Sacerdote, a cui dalla Chiesa venne riserbato in proprio il calice, specialmente essendo profetato dell' eucaristico cibo in questo modo: « Quid enim bonum ejus est, et quid pulchrum ejus, nisi frumentum electorum et vinum germinans virgines? (4). » Qui si farà da alcuno questa difficoltà. Ond' è che la Chiesa cattolica raccomanda sì caldamente di ricevere nell' ore estreme il Corpo di Cristo? Questo vien dato dopo la morte a tutti i giusti, in quella maniera misteriosa ed ineffabile che l' umana lingua non può a pieno spiegare, eziandio che non lo ricevessero prima di morire. La risposta si contiene nella stessa denominazione di Viatico che la Chiesa dà all' eucaristico nutrimento preso dagli infermi vicini a morte. E il Tridentino sopracitato lo dichiara assai nettamente con quelle parole: « et is vere eis sit animae vita ed perpetua sanitas mentis, cujus vigore confortati ex hujus miserae peregrinationis itinere ad coelestem patriam pervenire valeant . » Il passo di questa all' altra vita, che l' uomo fa colla morte, quant' è pericoloso, altrettanto è rilevantissimo, perchè da quello dipende l' eterna condizione dell' anima, onde niun mezzo si dee dell' uomo trascurare per averne ajuto e conforto. E di tutti validissimo è l' ajuto e il conforto del cibo eucaristico, del quale fu simbolo il pane e l' acqua recato dall' angelo al profeta Elia fuggente da Acabbo, di cui è scritto [...OMISSIS...] E veramente l' uomo non ha altra fortezza nè altra vera vita che quella che gli viene da Cristo, dall' essere incorporato a Cristo, dal vivere della vita di Cristo, dall' aver Cristo in se stesso. E la vita di Cristo, di cui l' uomo partecipa cibandone il corpo sacratissimo, è tanto potente che rimonda l' uomo da' peccati veniali e dagli stessi mortali, quando egli ne sia pentito, e non avendone coscienza, o non potendoli sottomettere al potere delle Chiavi, ne vada ancor debitore; perchè quella vita repelle e caccia da sè ogni impedimento, a meno che non osti la mala disposizione della volontà dell' uomo, per la quale disposizione malvagia l' uomo riceve il cibo divino senza riceverne tuttavia la vita. Si ponga oltracciò l' attenzione del pensiero in quelle parole del Tridentino « ut is vere eis sit animae vita . » E` chiamato vita non del corpo, ma dell' anima; avendo anche l' anima quella specie di morte naturale di cui abbiamo parlato, oltre la morte del peccato. Sicchè gli antichi giusti che non ebbero il vantaggio della Eucaristia, sostennero quello stato simigliante ad una morte dell' anima, nel quale, come abbiamo detto, si trovavano nel limbo in aspettazione di Cristo che li facesse risorgere. Ma anco fra i Cristiani, che muojono giustificati, si può credere che v' abbia una differenza secondo che muojono con aver ricevuto il Viatico o senza averlo ricevuto, non solo pel grado maggiore di santità e di unione col fonte della santità di cui quelli si vantaggiano, ma altresì rispetto alla condizione della loro morte. E per dare maggior luce a questo concetto, distinguiamo tre casi: 1 quelli che muojono col solo desiderio del battesimo senza averlo ricevuto realmente; 2 quelli che muojono giustificati dopo ricevuto il battesimo senza aver tuttavia ricevuto il Viatico; 3 quelli che muojono giustificati dopo aver ricevuto il Viatico. Egli è certo e ben definito che tutti e tre si salvano. Tuttavia i primi, che hanno un diritto alla vita, hanno la vita di diritto ma non ancora di fatto, e però passano in certo modo per quello stato di morte naturale dell' anima, dal quale incontamente vengono resuscitati da Colui che disse: « Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me eziandio che sia morto vivrà », e questi sono simili agli antichi giusti, colla sola differenza che gli antichi giusti rimasero lungamente in quello stato, laddove essi non fan che passarci istantaneamente. I secondi, che muojono rinati dall' acqua e dallo Spirito Santo, hanno di diritto e di fatto la vita dell' anima, ma non partecipano che inizialmente alla vita di Cristo, benchè rechino seco il diritto di entrare in possesso pienissimo di quella vita. Laonde, deposto che abbiano il corpo, essi non passano neppure per un istante per quello stato di morte naturale dell' anima, ma passano per quello stato di vita iniziale qual è quella che hanno ricevuto nel battesimo e che portano seco, dal quale Cristo immantinente sollevandoli dà loro la vita piena. I terzi, finalmente, avendo ricevuto Cristo effettivamente prima di morire, non soffrono che la morte del corpo, e nell' altra vita si trovano già con quella pienezza di vita che altro non esige se non d' illuminarsi e di manifestarsi, senza che l' anima loro passi per alcun grado inferiore. Rimane ora a dichiarare come, laddove gli uomini viatori cibano il corpo ed il sangue di Cristo che rimane loro occulto e velato, i comprensori celesti si nutrano dello stesso divino alimento senza che alcun velo ne contenda loro la vista [...OMISSIS...] Gesù Cristo, deposta la vita mortale e seppellito il divino suo corpo, poscia risorto, coll' ascensione al cielo si tolse agli occhi degli uomini. L' uomo, incorporato in Cristo, partecipa di tutte le vicissitudini di Cristo, e quindi è morto e seppellito e risorto e salito al cielo in ispirito con Cristo, come membro di Cristo. Il che egli fa colla vita interiore e novella da lui acquistata, venendogli impedito dal farlo compiutamente e corporalmente dall' ostacolo dell' uomo vecchio fino a tanto ch' egli vive ancora della vita adamitica e non ha deposto il corpo mortale; non ha ricuperato il nuovo e glorioso coll' ultima risurrezione: onde al presente dee fare tutte queste cose mediante la fede di cui vive (1), per la quale egli le fa senza averne la piena consapevolezza, e la chiara visione. Quindi la vita dei Cristiani che è in Cristo viene chiamata da S. Paolo vita nascosta . La qual vita si manifesterà, s' animerà di un vivissimo sentimento, brillerà d' una luce ineffabile, primieramente alla morte del corpo, quando avviene la prima resurrezione, che è quella dell' anima; poscia alla ricuperazione del corpo nostro proprio glorioso nella fine dei secoli, che sarà la seconda resurrezione. « Igitur, » così il Vaso d' elezione, « si consurrexistis cum Christo, quae sursum sunt quaerite, ubi Christus est in dextera Dei sedens: quae sursum sunt sapite, non quae super terram. Mortui enim estis, et vita vestra est abscondita cum Christo in Deo. Cum Christus apparuerit, vita vestra; tunc et vos apparebitis cum ipso in gloria (2). » Il che viene a dir così: Cristo il quale si tiene in voi è la vostra vita. Ma Cristo è nascosto presentemente all' esperienza de' vostri sensi, perchè questi sensi guasti e materiali non sono degni nè atti di vederlo o percepirlo, perchè non sono degni nè atti di vedere Iddio in cui è Cristo, nè è degna o atta di vederlo quella vita, quell' anima che dee presiedere a tali sensi: quindi Cristo, nostra vera vita, è nascosto al presente in Dio, alla cui destra egli siede. Tuttavia voi vivete, benchè non abbiate la consapevolezza di tutti i tesori che in quella vita, quasi involuti a forma di germe, sono nascosti e che debbono poi apparire in voi d' improvviso, quando vi apparirà in tutto il suo splendore. Dunque avete bisogno di credere tutto ciò, di credere alla vostra vita, di aspettarne la sfolgorante manifestazione: dovete altresì condurvi consentaneamente alla vostra vita immortale ed eterna: dovete rinunziare coll' affetto della volontà e colla stima alla vostra vita naturale e corrotta destinata alla morte, quasi morti con Cristo ed in Cristo, e non cercare, non assaporare se non le cose celesti, cioè a dire Cristo che siede alla destra del Padre in cielo e le cose tutte di Cristo, aspettando la meravigliosa manifestazione di Cristo in voi che vi è promessa. Onde in altro luogo dice [...OMISSIS...] E altrove l' Apostolo vuole che abbiamo fiducia nell' ingresso al Sancta Sanctorum, che è la parte più santa del tempio antico simboleggiante il cielo, dove Iddio e Cristo a noi si svela e la nostra vita occulta si manifesta: ingresso che ci fu aperto col sangue di Cristo, e del quale la carne mortale di Cristo era come il velo pendente che ne toglieva la vista; deposta la qual carne, quel velo è tolto, e noi possiamo entrare, purchè deponiamo anche noi la nostra carne, come ha fatto Cristo, la cui carne era innocente e solo per sua volontà ebbe condizione mortale e passibile, per aver voluto assomigliarsi a noi, la cui carne materiale, non solo mortale ma corrotta, è veramente un velo che impedisce l' ingresso e la vista del luogo santissimo: [...OMISSIS...] Cristo adunque incominciò egli a battere questa via nuova e vivente (perchè anche mentre siamo in sulla via viviamo ), che conduce nel più segreto ed augusto luogo del Santuario, per la quale c' invita ed esorta l' Apostolo di metterci. Di questa « vita nascosta con Cristo in Dio », di cui in questa terrena peregrinazione vive il cristiano, accenna ancora S. Pietro quando favella di quell' eredità preziosissima che si conserva nei cieli pe' fedeli, e che sta pronta per rivelarsi e manifestarsi luminosamente quando finirà la vita di ciascuno, e più pienamente ancora quando finirà il mondo: [...OMISSIS...] pel quale ultimo tempo s' intende non meno quello che è ultimo a ciascun uomo, che è il giorno della morte, quanto quello che è ultimo al mondo, che è quello della finale risurrezione. Vi ha dunque l' eredità immarcescibile conservata in cielo per noi [...OMISSIS...] , colassù palese, a noi ora nascosta: la quale eredità è Cristo, rispetto ai viatori invisibile, rispetto ai comprensori visibile e fulgente; sicchè, quando a noi pure apparirà tale, saremo manifestamente in Cielo. Ora, prima che noi entriamo ad investigare in che consistano i veli che di presente ci avvolgono il cibo eucaristico, e qual cangiamento nasce in noi alla remozione di tali veli; prima che ci facciamo a cercare quanto di questo sublime argomento sia dato a noi di conoscere, è prezzo dell' opera che noi tocchiamo quello che ci insegnano le divine lettere sul progressivo incremento della vita divina ed eterna degli uomini. Perocchè noi abbiamo veduto che anche quelli, che precedettero Cristo, vissero « sub testamento aeternae vitae (1), » anche dopo deposta la soma mortale; onde l' Iddio dei Patriarchi è Iddio de' viventi e non de' morti. Giova dunque dichiarare, quanto a noi è dato, la gradazione di queste vite. S. Paolo insegna che tutti i viatori vivono di fede, e la fede non è delle cose apparenti, ma di quelle che non cadono sotto il nostro sentimento. Ma la fede non è già pura tenebra, ma ella ha ancora della luce, la quale si fa piena allorchè nell' altra vita, cessando interamente la fede, sottentra la piena e lucidissima visione. Fino che questo non avvenga, gli uomini sulla terra possono avere ed ebbero una fede mescolata di maggiore o minor lume di sentimento divino, vi ha fede e cognizione insieme; cose che assai spesso S. Paolo congiunge; per esempio scrivendo a Tito si dice nel saluto apostolico di Cristo, « secundum fidem electorum Dei, et agnitionem veritatis, quae secundum pietatem est (2). » Per il che lo stesso S. Paolo distingue quasi più maniere di fede là dove dice: « ex fide in fidem (3). » « La giustizia di Dio, dice, si rivela nell' Evangelio di Cristo di fede in fede », quasi l' uomo passi per esso da una fede all' altra, da una fede di minor luce ad una fede di luce maggiore. Così il giusto gentile e il giusto giudeo, aderendo alla predicazione del cristianesimo, passarono d' una fede più oscura ad un' altra fede più lucente, perocchè nè anche il gentile poteva esser giusto senza credere. Laonde, non solo rispetto a' gentili, ma ben anco rispetto agli ebrei, la nostra fede è chiamata luce, chiarezza, gloria da S. Paolo, il quale anzi non dubita di scrivere così: « Nos vero omnes, revelata facie gloriam Domini speculantes, in eandem imaginem transformamur a claritate in claritatem tamquam a Domini spiritu (1) » nel qual luogo Giovanni Diodati traduce il vocabolo speculantes [...OMISSIS...] « contemplando come in uno specchio », che risponde ottimamente a quello: « videmus nunc per speculum (2). » E questa eccellenza, questa maggior luce della fede cristiana, sopra quella di coloro che erano avanti Cristo, consiste principalmente in questo: che nell' antico tempo, Cristo non essendo ancor venuto al mondo, non poteva operare colla sua umanità divina sulla nostra umanità e comunicarci, coll' unione fisica, benchè invisibile ed ineffabile, di lui a noi, parte di quella vita di cui gode egli stesso, e così ravvivare la nostra vita soggettiva. La qual comunicazione della vita umana divinizzata in Cristo mancava pure ad Adamo nello stato dell' innocenza; quindi un' altra differenza del carattere di Adamo, se così vogliamo chiamarlo, dal carattere dei Cristiani; perocchè quello non era che oggettivo, cioè la percezione iniziale del Verbo divino, ma questo, oltr' essere oggettivo, è anche soggettivo, perché è la percezione di Cristo oggetto come Verbo, soggetto come uomo . Vero è che il Verbo è l' oggetto ad un tempo persona, e anco la persona del Verbo può esser data all' uomo da percepire, ma soltanto alla mente, e però solo in modo oggettivo. Può bensì il Verbo assumere a sè la natura umana in un individuo, ma questa è l' incarnazione, nella quale la persona stessa del composto è la persona divina; com' è avvenuto in Cristo, nel quale il soggetto umano non è persona, giacchè la persona è il supremo principio operativo d' un individuo, e il supremo principio operativo in Cristo fu il Verbo. La persona divina adunque del Verbo, come a me pare, non può comunicarsi in modo soggettivo ad un individuo dell' umana natura se non incarnandosi in esso. All' incontro l' umanità di Cristo, per la virtù divina di cui è informata, poteva operare fisicamente e in modo soggettivo sull' umanità nostra, come un amico agisce sull' amico, e uno sposo sulla sposa; e la vita di Cristo come uomo assunto dalla divinità poteva operare sulla vita nostra soggettiva, e aggiungerle del suo vigore e della sua propria vitalità; perchè la vita si comunica, come si vede nella generazione, nella nutrizione, e meno palesemente in altri fenomeni ancora, specialmente in quelli dell' amore. Ora dal Verbo oggettivamente percepito può promanare in qualche modo lo Spirito: ma l' effetto di questo spirito sembra dover essere limitato a rendere il bene amabile all' intelletto; non a rinforzare e muovere immediatamente le facoltà inferiori operative soggettive. Laddove, per la congiunzione di Cristo a noi, per l' unione a noi del Verbo incarnato, cioè non meno del Verbo che dell' umana natura assunta dal Verbo, tutte le nostre potenze sono ad un tempo sollevate, corroborate, divinizzate, non solo le oggettive, ma le soggettive ancora. Il che è una notabilissima differenza fra la grazia di Adamo innocente e quella del Cristiano, cioè dell' uomo rinato in Cristo. E di questa vita soggettiva, a noi comunicata dalla vita umana7divina di Cristo, sono quelle parole di S. Paolo « in eamdem imaginem transformamur: » perocchè, come altrove dice: « Vivo autem, jam non ego, vivit vero in me Christus (1). » Altrove: « Mihi vivere Christus est (2). » Ed agli Ebrei: « Participes enim Christi effecti sumus: si tamen initium substantiae ejus usque ad finem firmum retineamus (3): » dove, quantunque il greco non dica substantiae ejus, ma solamente substantiae [...OMISSIS...] , tuttavia ottimamente la Volgata traduce substantiae ejus, apparendo, che si parla dall' Apostolo della sussistenza o sostanza di Cristo in noi, dalle prime parole del versetto: « participes enim Christi effecti sumus . » Per la partecipazione adunque della vita umana7divina di Cristo noi ci trasformiamo nella stessa imagine di Cristo, ci trasformiamo in qualche modo in Cristo, diveniamo in un certo senso altrettanti Cristi viventi in lui, tale essendo la forza di quella parola imagine , come abbiamo notato più sopra, ponendosi l' imagine per la stessa cosa incipiente, siccome in quel luogo: « Umbram enim habens lex futurorum bonorum, non ipsam imaginem rerum (4), » cioè non ipsa bona quasi in embrione, sentendo noi quello che sente Cristo, piacendoci quello che piace a Cristo, dispiacendoci quello che a Cristo dispiace, volendo quello che vuole Cristo diventiamo amabili al Padre che ama in noi le stesse cose che sono in Cristo e sono in noi, ama Cristo in noi. Onde il Salvatore disse de' suoi discepoli, promettendo loro la venuta personale del suo Spirito: « Venit hora, cum jam non in proverbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiabo vobis. In illo die in nomine meo petetis. Et non dico vobis quia ego rogabo Patrem de vobis. Ipse enim Pater amat vos, quia vos me amastis, et credidistis quia ego a Deo exivi (5). » Queste dolcissime e benignissime parole disse Cristo a' suoi discepoli. Nelle quali è da osservare: 1 Che quel dire, ch' egli parlerà apertamente e palesemente del Padre, dimostra quanto sia illuminata la fede de' Cristiani per la partecipazione della vita soggettiva di Cristo sopra la fede degli antichi, e risponde a quella di S. Paolo: « in eamdem imaginem transformamur a claritate in claritatem, » o, come dice il testo greco: «apo doxes eis doxan». Questa chiarezza non è propria della fede degli Ebrei, ma solo de' Cristiani; perchè gli Ebrei avevano la notizia di Cristo che doveva venire al mondo, ma non potevano avere il sentimento di Cristo, perchè, non essendo ancora venuta al mondo la sua reale umanità, non poteva questa agire sull' umanità loro, come agisce realmente benchè misteriosamente sull' umanità nostra. Onde S. Paolo altrove dice, che Cristo venendo al mondo « illuminò la vita »: [...OMISSIS...] Quasi voglia dire: Vi era una vita anche avanti Cristo (sebbene anch' essa per Cristo), ma questa vita era oscura e non illuminata perchè non era soggettiva, ma soltanto oggettiva, per modo che il soggetto debole ed esile non poteva fare gli atti vitali di sentimento, cavandoli dall' oggetto, che non gli poteva dare l' immortalità soggettiva. Ma Cristo, per mezzo dell' Evangelio, cioè della fede e de' sacramenti, diede all' anima, cioè al soggetto, di quel sentimento immortale ch' egli aveva nella sua umanità congiunta ipostaticamente al Verbo, e così distrusse la morte, cioè quello stato dell' anima separata che rimane senza sentimento operativo perchè priva di un termine reale che formando con essa un solo soggetto la renda atta all' azione, benchè non si rimanga priva d' intellezione anche con un oggetto reale (il Verbo), e però di vita oggettiva; quindi distrusse la morte anche rispetto alla vita naturale, facendo che all' anima sia un tempo restituito un corpo glorioso colla risurrezione della carne. Vero è che agli Ebrei furono preannunziate molte cose di Cristo, e la fede che davano ad esse era soprannaturale. Era soprannaturale perchè queste cose stesse le percepivano oggettivamente in quell' esistenza oggettiva che hanno le cose nel Verbo per una interiore comunicazione del Verbo più o meno chiara, ma sempre mista di molta oscurità. Onde, quando venne Cristo al mondo si adempì la profezia: « Eructabo abscondita a constitutione mundi (1), » e Cristo potè dire: « Mandatum novum do vobis, ut diligatis invicem sicut dilexi vos, ut et vos diligatis invicem (2), » e potè rassomigliarsi al Padre di famiglia che « profert de thesauro suo nova et vetera (3). » Se le verità fossero state annunziate agli Ebrei solamente in parole esterne senza che queste fossero accompagnate da alcun lume interiore di fede, la loro condizione non si sarebbe potuta dire soprannaturale, benchè quella rivelazione fosse scaturita da una fonte soprannaturale; ma il lume interiore, donato in varii gradi a que' fedeli, faceva sì, come dicevamo, che percepissero nel Verbo quelle verità che venivano loro annunziate di fuori colle parole. 2 Ma, quantunque gli Ebrei vivessero per questa loro fede, tuttavia quella fede non dava loro la vita soggettiva, non li trasformava, come dice S. Paolo, nella stessa imagine di Cristo, non li toglieva dalla morte e dalla corruzione di sè come umani soggetti; onde coll' aver illuminata la vita, secondo San Paolo, Cristo distrusse la morte e la corruzione, [...OMISSIS...] E come potrebbe venir meno la vita soggettiva a quelli che sono amati dal Padre dello stesso amore del quale ama il suo Figliuolo diletto in cui si compiace, [...OMISSIS...] e le preghiere de' quali, fatte in nome di Cristo, sono accette ed esaudite: [...OMISSIS...] Le preghiere e i sacrificii degli antichi santi, ancor che fatte in nome di Cristo, non potevano salvarli dalla morte soggettiva, e dalla condanna al limbo: conveniva prima, che risorgessero e fossero edotti da quella cotal prigione, e perciò, che venisse Cristo e pregasse per essi, e fosse esaudito secondo il mandato che aveva ricevuto: [...OMISSIS...] Il perchè S. Paolo chiama la stessa legge antica, quantunque santa in se stessa: « ministratio mortis, ministratio damnationis (5), » perchè l' uomo non era avvalorato soggettivamente ad adempirla, e non adempita comminava la morte, nè l' uomo di conseguente si poteva salvare per l' adempimento perfetto di quella legge, ma per la fede in Colui che toglieva e cancellava i loro peccati, i cui meriti per la fede si sarebbero loro applicati. Quindi gli antichi fedeli vivevano di una vita oggettiva, ed avevano una certa speranza della vita soggettiva; ma non ancora la stessa vita soggettiva di Cristo. La qual vita de' santi Cristiani, chiamata bene spesso l' uomo nuovo, l' uomo interiore, viene altresì rassomigliata da S. Paolo ad un vestimento, e la mancanza di questa vita alla nudità della persona: similitudine acconcissima rispetto all' anima separata dal corpo, la quale priva di questo suo termine naturale rimane nuda, se non gli è dato da Dio soprannaturalmente qualch' altro termine reale (il quale secondo noi è l' essere eucaristico di Gesù Cristo), ed è trovata vestita se seco adduce questo termine ineffabile e misterioso, pel quale le è comunicata della vita di Cristo. Medesimamente questo termine reale della nostra vita interiore e spirituale è rassomigliato ad una casa, la quale rimane anche quando la casa temporanea del nostro corpo si discioglie: [...OMISSIS...] 3 Conviene in terzo luogo notare che le recate parole di Cristo si riferiscono allo Spirito Santo, il quale è quello che rende propriamente gli uomini, che colle loro volontà non si oppongono e potendo cooperano, figliuoli di Dio, onde passano, come dice S. Paolo, « a claritate in claritatem tamquam a Domini Spiritu: » il che si può intendere, tanto dell' ascendere di virtù in virtù, di perfezione in perfezione, di eccellenza ad eccellenza durante la presente vita, quanto del passaggio dalla chiarezza o gloria interna, che ha il giusto cristiano in questa vita, a quella chiarezza e gloria sfolgorante e completa che avrà nell' altra. 4 E poichè lo Spirito Santo è l' amore divino essenziale, e quindi diffonde in noi la carità, che riforma e santifica la nostra volontà, secondo quello: « Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis (2), » e ancora: « Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro, quod sumus filii Dei (3); » perciò Gesù Cristo dice che il Padre ama noi, perchè noi amiamo lui, [...OMISSIS...] giacchè non vi ha la vita soggettiva di cui parliamo dove non vi ha carità, almeno abituale, non avendovi ivi lo Spirito Santo che è quello che congiunge Cristo alle anime nostre nel modo della vita soggettiva. La carità poi (che è assai più d' un semplice affetto naturale ed accidentale, come lo Spirito Santo è assai più che semplicemente l' amore accidentale, essendo sussistente persona divina) ha per oggetto Cristo umanato, quale ci è proposto dalla fede; onde il Signore soggiunge al « quia me amastis, » quest' altra parola: « et credidistis quia ego a Deo exivi . » Nel qual vocabolo, exivi, non è solamente indicata la processione del Verbo dal Padre, ma ben anco la sua missione visibile nel mondo e la sua incarnazione, come dichiarano le parole che vengono appresso: « exivi a Patre et veni in mundum (1), » che rispondono a quelle di Giovanni: « Et Verbum erat apud Deum . » L' Evangelio adunque, cioè non la lettera ma lo spirito, aggiunse una gran luce alla fede antica, ed illuminò la vita spirituale e la scienza: « Quoniam Deus, qui dixit de tenebris lucem splendescere, ipse illuxit in cordibus nostris, ad illuminationem scientiae claritatis Dei in facie Christi Jesu (2). » E dice in facie Christi Jesu, perchè lo Spirito Santo che illumina l' anima, ha quest' effetto suo proprio di fare intendere, e sentire, e quindi amare Gesù Cristo, come abbiam detto, Dio e uomo, uscito dal Padre, mandato nel mondo dal Padre. Ora tutta questa chiarezza e luce ineffabile della vita cristiana è nondimeno velata in paragone di quella che rifulgerà alle anime nostre, quando sarà squarciato il velo de' nostri corpi: [...OMISSIS...] dice S. Paolo, [...OMISSIS...] Laonde nell' antico testamento vi era la fede, ma vi era un' altra fede da rivelarsi, la quale, appunto perchè doveva rivelarsi, aveva più di chiarezza; al presente poi la nuova fede è rivelata, e non rimane a rivelarsi altra fede, ma solo la gloria. Della fede, che era da rivelarsi e che si rivelò col Vangelo, dice S. Paolo: « Prius autem quam veniret fides, sub lege custodiebamur conclusi in eam fidem quae revelanda erat (4). » E nello stesso senso lo stesso Apostolo dice, che si rivelò in lui Cristo: [...OMISSIS...] Della gloria poi, e non più della fede che al presente resta a rivelarsi, dice S. Pietro: « qui et ejus, quae in futuro revelanda est, gloriae communicator (1). » E l' Apostolo de' Gentili afferma che la sua predicazione ha per oggetto « il mistero di Cristo », perocchè nella dottrina di Cristo rimane sempre una parte misteriosa a noi che siamo nella presente vita: [...OMISSIS...] dice a que' di Colosse, [...OMISSIS...] e tuttavia soggiunge « ut manifestem illud ita ut oportet me loqui (2) » perocchè questo mistero si può annunciare, credere e in parte anche manifestare, secondo quel modo di conoscimento che a noi è dato finchè siamo circondati dal corpo corruttibile; onde anche prima l' avea chiamato « mysterium quod absconditum fuit a saeculis et generationibus, nunc autem manifestatum est sanctis ejus, quibus voluit Deus notas facere divitias gloriae sacramenti hujus in gentibus, quod est Christus, in vobis spes gloriae, quem nos annuntiamus (3). » Nel qual luogo dicendosi che il mistero di Cristo fu manifestato ai Santi, e non dicendosi a tutti quelli cui fu predicato, ben s' intende che l' Apostolo parla d' una cognizione e manifestazione soprannaturale, per la quale i Santi dentro illustrati dal lume della fede intendono e penetrano nel recondito di tale mistero, quando quelli che non credono, nulla più ne capiscono che la lettera, la quale non è cognizione vera del mistero stesso, nè soprannaturale. Il che spiega l' Apostolo più ampiamente nella sua prima ai Corinti, dove, dopo aver detto che la sapienza di Dio nel misterio è nascosta e nessuno de' principali uomini del mondo la conobbe, soggiunge: « « Nobis autem revelavit Deus per Spiritum suum. Spiritus enim omnia scrutatur, etiam profunda Dei. Quis enim hominum scit quae sunt hominis, nisi spiritus hominis qui in ipso est? ita et quae Dei sunt, nemo cognovit nisi Spiritus Dei. Nos autem non spiritum hujus mundi accepimus, sed Spiritum qui ex Deo est, ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis. - Animalis autem homo non percipit ea quae sunt Spiritus Dei: stultitia enim est illi, et non potest intelligere: quia spiritualiter examinatur. Spiritualis autem judicat omnia: et ipse a nemine judicatur »(4). » Dalle quali parole raccogliamo che la cognizione che ha il cristiano in questo mondo comprende il tutto; comprende tutto ciò che conoscerà con maggior luce all' altro mondo, perchè ha lo Spirito di Dio, che omnia scrutatur, etiam profunda Dei, di maniera che il cangiamento che succederà sarà una vera rivelazione, secondo l' etimologia della parola, un vedere le cose stesse che conosce, adesso sotto un velo, allora senza velo, giusta le parole citate dal Concilio, « eumdem panem Angelorum, quem modo sub sacris velaminibus edunt, absque ullo velamine manducaturi . » Quindi, per indicare quel passaggio dalla condizione presente del Cristiano alla futura, talora si nomina una rivelazione di Gesù Cristo. Parlando della seconda venuta di Cristo, dice il Vangelo: « qua die Filius hominis revelabitur (1). » E prima aveva detto dello stato presente del fedele, che ha in sè Cristo in un modo velato: « Non venit regnum Dei cum observatione, neque dicent: Ecce hic, aut ecce illic. Ecce enim regnum Dei intra vos est (2), » e quindi trapassa a favellare come questo regno di Dio, che viene senza attrarre l' osservazione degli uomini, si manifesti rifulgente alla gran venuta del Figliuolo dell' uomo. Medesimamente l' Apostolo promette requie a que' di Tessalonica, che avevano patito pel regno di Dio, « in revelatione Domini Jesu de coelo cum angelis virtutis ejus (3). » La ragione poi, perchè nelle divine scritture si parla più frequentemente e si promette la rivelazione di Cristo alla fine dei secoli, anzichè quella che avviene alla morte di ciascun fedele, mi sembra poter essere che quella è più solenne e compiuta per la risurrezione dei corpi, e doveva forse essere più inculcata come più maravigliosa: oltre di che, se quella gloria privata, dirò così, che ciascuno de' giusti Cristiani riceverà dopo morte, interessa il particolare; quell' ultima è cosa appartenente a tutta la Congregazione de' fedeli, a tutto il corpo della Chiesa. Talora poi il passaggio dalla condizione nostra presente alla gloria futura si appella « rivelazione nostra propria, rivelazione dei figliuoli di Dio, rivelazione della gloria in noi », come in questo luogo [...OMISSIS...] Le quali ultime parole, adoptionem filiorum Dei expectantes, redemptionem corporis nostri , ci avvisano che anche in questo luogo S. Paolo parla dell' ultimo compimento della gloria nostra, che sarà quando risorgeremo gloriosi, e non di quella gloria, quasi direi provvisoria, sebbene beatificante, che avranno le anime nostre separate dal corpo. Ed è da osservarsi che si chiama libertà, tanto quella che ora godiamo in Cristo: [...OMISSIS...] quanto quella che acquisteremo colla gloria finale: [...OMISSIS...] perchè ora la nostra libertà, perfetta quanto allo spirito, è nulladimeno unita ad una certa servitù quanto al corpo corruttibile. Similmente noi siamo già stati adottati figliuoli di Dio quanto allo spirito; [...OMISSIS...] ma, quanto al corpo aspettiamo tuttavia adoptionem filiorum Dei . Secondo la stessa maniera di parlare, nel giorno del Signore si riveleranno le opere nostre quali sieno alla prova del fuoco: [...OMISSIS...] Tutto è adunque nel Cristiano: tutto nella fede e nella cognizione spirituale di colui che è in Cristo secondo lo spirito della santità; ma tutto vi è velato, e in un modo sentimentale a cui non giunge o debolmente giunge la riflessione generatrice della coscienza. Quando poi deporremo il corpo, e più compiutamente quando riavremo un corpo glorioso, tutto sarà a noi svelato, manifesto, fulgente di gloria. Venendo ora alla vita eucaristica, quaggiù velata, colassù in Cielo palese, dico primieramente che i veli che ci nascondono al presente il corpo e il sangue glorioso di Cristo sono gli accidenti del pane e del vino, che soli cadono sotto i nostri sensi esteriori. Ora è da considerarsi che il pane e il vino consecrato (che non è più nè pane nè vino) fa cogli accidenti che conserva, ne' nostri organi sensorii e nell' interno del nostro corpo, gli stessi effetti fisici come non fosse consecrato, cioè come fosse ancora vero pane e vero vino. Ora, questi effetti fisici non sono gli effetti eucaristici. Il corpo adunque ed il sangue di Cristo si sta cotalmente nascosto sotto gli accidenti del pane e del vino, che naturalmente e per la fisica legge de' corpi non produce nessun effetto sul corpo nostro. Quando viveva Gesù Cristo in terra, il suo corpo passibile e mortale era sensibile ed operante ne' corpi degli altri uomini secondo le ordinarie leggi fisiche che presiedono alla mutua azione dei corpi fra loro: ma non così il corpo eucaristico di Gesù Cristo, nel quale tali leggi sono tutte sospese dall' onnipotenza divina, e però non è visibile, nè tangibile, nè odorabile, ecc.. Quindi procede che gli effetti eucaristici dipendono unicamente dalla volontà e podestà dello stesso nostro Signor Gesù Cristo, secondo quelle leggi che governano l' ordine morale. Di che avviene che quelli che non sono battezzati, e quindi incorporati a Cristo, non ne ricevono alcun effetto (se non gli effetti fisici degli accidenti); e lo stesso si dica di quelli che assumono il Santissimo Sacramento colla coscienza o colla volontà di peccato mortale (oltre il sacrilegio che commettono), perocchè « quicumque manducaverit panem hunc vel biberit calicem Domini indigne, reus erit corporis et sanguinis Domini ) (1). » Consegue ancora che gli effetti eucaristici vengano da Cristo prodotti ne' fedeli, che ricevono il suo corpo santissimo, secondo il tenore della loro disposizione; e però quelli che sono meglio disposti, e più e meglio cooperano cogli atti della loro volontà, ne ricevano in maggior copia, e in minore gli altri. I quali effetti sono primieramente operazione dello Spirito di Cristo che diffonde la carità nelle anime: ed è per ciò che Cristo disse, parlando dell' Eucaristia: « Spiritus est qui vivificat: caro non prodest quidquam: verba quae ego locutus sum vobis spiritus et vita sunt (2). » Ma egli conviene che noi esponiamo, per quanto ci è dato, in che modo Cristo col suo Spirito produca in colui che riceve il suo corpo ed il suo sangue cotesti maravigliosi effetti. E` dunque da considerare primieramente, che il supremo principio operatore in Cristo è il Verbo, il quale perciò non è soltanto persona divina, ma persona di Cristo, cioè persona divina incarnata; giacchè la persona d' un individuo intelligente è quel supremo principio operativo che è in esso. Ora, come la persona divina del Verbo unì a sè la natura umana? Certa cosa è che il Verbo per questa unione non sofferì passione, nè cangiamento alcuno, non essendone suscettibile, come quello che è immutabile, ed in cui non cadono accidenti di sorta. Ma è da riflettere, qual preliminare della dottrina che dobbiamo esporre, che le cose tutte esistono nel Verbo non solo idealmente, ma anche realmente, come abbiamo detto, in un modo oggettivo; e in questo modo oggettivo, come tutte l' altre cose, così esisteva nel Verbo anche l' umanità di Cristo. Ma qui non ci ha ancora l' incarnazione, non ci ha l' unione ipostatica: altramente il Verbo sarebbe stato congiunto con tutte le creature ipostaticamente, il che è assurdo. L' esistenza oggettiva è sempre divina; le cose create non hanno che un' esistenza soggettiva, o un' esistenza che alla soggettiva si riferisce (esistenza extrasoggettiva). Quindi le cose nella loro esistenza oggettiva, appartenenze del Verbo, non sono le cose quali esistono puramente a se stesse, dal che viene che sieno creature reali. L' esistenza oggettiva delle creature è reale pel Verbo (assolutamente reale), ma non è nelle creature stesse, la cui esistenza propria è soltanto soggettiva, di maniera che quella potrebbe essere nel Verbo (ed è il Verbo stesso) senza che queste ancor fossero. Laonde le creature per la sola esistenza oggettiva non sono a se stesse; e, quando esse sono (soggettivamente), allora esse non apprendono necessariamente il Verbo, sebbene il Verbo le abbia in sè oggettivamente, e l' esistenza oggettiva e soggettiva sieno due modi dello stesso ente. Acciocchè dunque il Verbo assuma a sè e si congiunga una creatura intellettiva in quanto questa è a se stessa, non basta ch' egli l' abbia oggettivamente, sebbene realmente, in sè; ma è necessario ch' egli si congiunga soggettivamente a quella creatura, o per dir meglio congiunga quella creatura soggettivamente a sè. Così fece incarnandosi, cioè congiungendo a sè la natura umana in individuo ipostaticamente. La mutazione, come dicevamo, non avvenne in lui, ma nella natura umana assunta, la quale trovò d' esser mossa e governata, come da suo proprio principio supremo, dalla persona del Verbo. La comunicazione di Dio soggettiva all' umanità è operazione dello Spirito Santo: quindi il Verbo s' incarnò per opera di esso Spirito: [...OMISSIS...] E Cristo chiama se stesso: « quem Pater sanctificavit et misit in mundum (2), » facendo precedere, non quanto al tempo ma quanto al concetto, la santificazione alla missione nel mondo, quasi venendo a dire santificò l' umanità di Cristo in modo che nello stesso tempo mandò in essa il Verbo, il quale a sè ipostaticamente unita l' assunse. Onde l' Apostolo chiama Cristo, « qui praedestinatus est Filius Dei in virtute secundum spiritum sanctificationis (1). » E la stessa parola Cristo significa l' unto del Signore, così venendo chiamato Colui che era stato mandato coll' unzione dello Spirito Santo, come avevano già preannunziato i Profeti: [...OMISSIS...] dice il Redentore in Isaia: [...OMISSIS...] E il Salmo: [...OMISSIS...] E all' udire il racconto che Pietro e Giovanni fecero del processo loro intentato dalla Sinagoga dopo la guarigione dello storpio alla porta del tempio di Gerusalemme, i primi discepoli dissero: « Convenerunt enim vere in civitate ista, adversus sanctum puerum tuum Jesum quem unxisti, Herodes et Pontius Pilatus cum gentibus et populis Isra‰l (4). » E S. Pietro alla famiglia del Centurione dice di Gesù: « Vos scitis - quomodo unxit eum Deus Spiritu Sancto et virtute (5). » Ora è da considerarsi che è proprio dello Spirito Santo l' agire in modo soggettivo, perocchè egli s' unisce come principio attivo alla volontà umana, e questa con esso lui unita s' innalza a riconoscere praticamente l' essere, e massimamente l' Essere assoluto, nel che sta la santificazione dell' uomo. Ora parmi che sia da credere che nell' umanità di Cristo la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito Santo ad aderire all' Essere oggettivo, cioè al Verbo, che ella cedette intieramente a lui il governo dell' uomo, e il Verbo personalmente ne prese il regime così incarnandosi, rimanendo la volontà umana e l' altre potenze subordinate alla volontà in potere del Verbo, che, come primo principio di quest' essere Teandrico, ogni cosa faceva, o si faceva dalle altre potenze col suo consenso. Onde la volontà umana cessò di essere personale nell' uomo, e da persona che è negli altri uomini rimase in Cristo natura. Dove è da osservarsi che tutte queste operazioni dello Spirito Santo quasi preambole all' incarnazione, e della stessa incarnazione o unione ipostatica, non furono già successive, ma contemporanee, compiute in un istante, nell' istante dell' incarnazione medesima. Il Verbo poi, incarnato così per opera dello Spirito Santo, estese la sua unione a tutte le potenze ed alla carne stessa, onde potè dire S. Giovanni che « « il Verbo si fece carne » »; come pure mandò lo Spirito Santo in esse e negli altri uomini, prima i doni e poscia la medesima persona che loro suggerisse praticamente quant' egli loro diceva quasi teoricamente. E la missione dello Spirito Santo santificatrice dell' umanità di Cristo è sempre procedente dal Verbo, sia quella che si concepisce logicamente preambola all' incarnazione medesima, sia quella che si concepisce logicamente posteriore a questa, venendo la prima dal Verbo separato, la seconda (identica alla prima) dal Verbo medesimo unito. E in un modo somigliante avviene la rigenerazione spirituale dell' uomo, salvo che l' operazione preambola dello Spirito Santo può precedere anche di tempo alla stessa rigenerazione, come accade negli adulti. Questi sono quei doni e quelle grazie, di cui parla il sacrosanto Concilio di Trento come dispositive alla giustificazione, nelle quali in prima la vocazione divina si contiene. [...OMISSIS...] Di poi viene la fede, di cui così lo stesso ecumenico e sacrosanto Concilio: [...OMISSIS...] Queste operazioni che lo Spirito Santo fa nell' adulto per disporlo alla giustificazione battesimale, le fa pure nel bambino, quanto alla sostanza, ma in altro modo occulto, per mozioni abituali della sua volontà e contemporaneamente alla giustificazione; di maniera che nello stesso istante che riceve questa pel battesimo riceve quelle grazie altresì. Nel battesimo poi, nel quale si compie la giustificazione, il Verbo si unisce come oggetto reale alla mente del battezzato, e, dove la volontà di questo non pone ostacolo ma è disposta a riconoscerlo, continua e compie la missione in essa dello Spirito Santo, colla quale egli viene santificato, adottato figliuolo di Dio, e coerede di Cristo. Onde il più volte citato Concilio dichiara che la giustificazione, che pel battesimo si conseguisce, « non est sola peccatorum remissio, sed et sanctificatio et renovatio interioris hominis per voluntariam susceptionem gratiae et donorum (2), » e l' unica causa formale della giustificazione [...OMISSIS...] Ma in quest' opera dello Spirito Santo il Verbo divino viene impresso nelle menti, come dicevamo, qual oggetto, non già qual soggetto; e però non è un' incarnazione, ma soltanto una congiunzione reale delle persone umane col Verbo incarnato, le quali persone sono come membra di quel corpo mistico di cui il Verbo è capo. Nulladimeno, atteso che questo capo, cioè il Verbo incarnato, influisce nelle membra la virtù dello Spirito Santo, prima di tutto la volontà di esse membra, dove risiede la loro personalità, è santificata, cioè tratta a riconoscere praticamente quel Verbo che percepisce; e perciocchè così acquista una nuova attività soprannaturale che non aveva prima, perciò la persona dicesi rinnovata, formatosi un uomo nuovo, nel che consiste la spirituale rigenerazione: « Voluntarie enim genuit nos, » dice S. Giacomo, « verbo veritatis ut simus initium aliquod creaturae ejus (1): renati, » continua S. Pietro, « non ex semine corruptibili, sed incorruptibili, per Verbum Dei vivi et permanentis in aeternum (2). » Or, come abbiamo detto già innanzi, crediamo assai probabile che la virtù vitale di Cristo si comunichi all' acqua battesimale per un segreto contatto del suo corpo glorioso, in virtù e nel momento nel quale sono pronunciate le parole, forma del Sacramento; e che l' acqua, toccando il corpo di lui che si battezza pella fede sua propria o in quella della Chiesa, comunichi la predetta virtù di Cristo, la quale passando dal corpo all' anima ed allo spirito, rinnova finalmente la superiore parte dell' uomo, imprimendo nella sua mente il Verbo. Ma nell' eucaristico Sacramento il pane ed il vino non è solamente toccato dal corpo di Cristo, ma assunto e transustanziato nella sua carne e nel suo sangue glorioso. Onde ricevendo questo Sacramento l' uomo non riceve soltanto l' influenza della virtù di Cristo, come nel battesimo, dove l' acqua rimane acqua, benchè diventi il veicolo della virtù di Cristo, e tocca il corpo momentaneamente e spontaneamente; ma si ricevono le stesse carni viventi e gloriose, e il sangue di Cristo dentro di noi (e per concomitanza altresì l' anima e la divinità), le quali restano dentro di noi qualche tempo, benchè non tocchino il corpo nostro, il quale è toccato solo dagli accidenti del pane e del vino. I quali accidenti operano tuttociò che operano il pane ed il vino non consacrati, venendo digeriti ed assimilati, e così passando in nostra nutrizione. Ma imperocchè sotto questi accidenti vi è il vero corpo e il vero sangue di Cristo, questo produce i suoi effetti spirituali nell' anima e nello spirito dell' uomo battezzato e ben disposto. Perocchè, se gli accidenti del pane e del vino sono a un contatto reale colle nostre carni, il corpo ed il sangue di Cristo, nascosto sotto quegli accidenti, trovasi a un contatto spirituale e corporeamente insensibile; e come la carne nostra è viva, e viva è pure la carne gloriosa di Cristo, per questo contatto spirituale si comunica della vita di Cristo alla nostra vita, in quella misura ch' egli vuole e secondo le disposizioni che in noi trova. Il battesimo fa due cose nell' uomo: 1 imprime il carattere indelebile; 2 conferisce la grazia santificante. Pel carattere indelebile l' uomo è posto in comunicazione col Verbo per mezzo della sua intelligenza essenziale; per la grazia l' uomo è posto in comunicazione collo Spirito Santo per mezzo della sua volontà essenziale. Essendo aperta, mediante il battesimo, questa comunicazione dell' uomo col Verbo e collo Spirito Santo, ricevendo gli altri Sacramenti, e soprattutto quello della SS. Eucaristia, egli riceve dal corpo e dal sangue del Signore gl' influssi dello Spirito Santo che è carità, « Deus Charitas est (1), » e indi anche se li deriva. In qual maniera questi effetti avvengano egli è cosa segreta: tuttavia non crediamo aliena dalla dottrina cattolica, che sola è verità, la seguente conghiettura. La carne ed il sangue di Cristo, in cui si è convertita la sostanza del pane e del vino, è termine del principio senziente di Cristo. Ora, questa carne e questo sangue, nel modo che è nell' Eucaristia, può divenir termine altresì del principio senziente dell' uomo che lo riceve. La sostanza del pane e del vino ha cessato intieramente d' essere sostanza del pane e del vino, ed è divenuta vera carne e vero sangue di Cristo, quando Cristo la rese termine del suo principio senziente, e così la avvivò della sua vita, a quel modo come accade nella nutrizione, che il pane che si mangia e il vino che si beve, quand' è, nella sua parte nutritiva, assimilato alla nostra carne e al nostro sangue, egli è veramente transustanziato, e non è più, come prima, pane o vino, ma è veramente nostra carne e nostro sangue, perchè è divenuto termine del nostro principio sensitivo. Concependo in questa maniera la transustanziazione, noi possiamo più facilmente ravvisare e determinare qual sia il Corpo di Cristo eucaristico. Perocchè, quantunque Cristo abbia un solo Corpo, al presente glorioso, tuttavia, avvenuta la transustanziazione, si può intendere che al Corpo glorioso si sia aggiunto qualche parte in esso incorporata, ed indivisa e del pari gloriosa. E questa parte aggiunta, cioè la sostanza del pane e del vino transustanziata, che forma una cosa sola col Corpo di Cristo glorioso, come una porzione della nostra carne e del nostro sangue forma una cosa sola col nostro proprio corpo, si può intendere che sia quella che diventa termine comune al principio senziente di quell' uomo che in grazia di Dio riceve il cibo eucaristico. Ma qui prima di proceder oltre dobbiamo sciogliere alcune obbiezioni. La prima, che secondo una tale dichiarazione non ci avrebbe nell' Eucaristia tutto il Corpo di Cristo. A cui si risponde che appunto perchè il Corpo di Cristo è unico ed indiviso, egli è necessario dove si trova una parte si trovi tutto; ma che la distinzione della parte dal tutto non si fa che rispetto alla operazione spirituale ed interna nell' uomo che riceve bensì tutto quel Corpo, ma non tutto quel Corpo diviene termine del suo principio senziente, ma unicamente quella parte che risponde a quel tanto che v' aveva di sostanza di pane e di sostanza di vino nella transustanziazione. Ancora ne verrebbe che in virtù delle parole divine questa sostanza del pane e del vino si transustanziasse in carne e sangue del Salvatore; ma il rimanente del corpo e del sangue vi rimanesse unito per concomitanza, il che non par contrario alla dottrina cattolica, secondo la quale è bensì di fede che tutta la sostanza del pane e del vino si transustanzia, ma non che si transustanzia in tutto il Corpo e in tutto il Sangue glorioso di Cristo, secondo le parole del sacrosanto Concilio che definì: [...OMISSIS...] dove dicesi: [...OMISSIS...] ma non dicesi: « In totam substantiam corporis et sanguinis Christi ». Un' altra obbiezione si cava dalla Psicologia. In questa fu da noi detto che se due principii senzienti avessero lo stesso termine, essi s' immedesimerebbero e ne diverrebbe un solo. Ora, sarebbe un assurdo, contrario alla fede ortodossa, il dire che il principio senziente di Cristo e quello del fedele che si comunica in grazia diventi un solo principio. A cui si risponde, che l' immedesimazione de' principii non ha luogo se non quando il termine corporeo sia totalmente identico. Ma nel caso nostro la cosa non va così; perocchè il principio sensitivo del fedele che si comunica in grazia non ha di comune col principio sensitivo animatore di Cristo tutto il corpo di Cristo, ma solo quella parte che risponde alla sostanza del pane e del vino transustanziata; e neppur tutta questa, ma una parte di questa, corrispondente a quegli accidenti del pane e del vino che passano nella nutrizione del fedele, e non a quella parte di essi che corrompendosi, senza passare in nutrizione, cessano dall' essere velo al corpo e sangue di Cristo, e tornata la sostanza materiale passa questa dal corpo del fedele per altra via. Quella parte di carne e di sangue di Cristo, che rispondeva prima della transustanziazione alla sostanza del pane e del vino, contiene propriamente, se vere sono le conghietture sopra esposte, quella vita eucaristica, che non cessò mai in Cristo neppure nel tempo della sua morte avvenuta nel suo corpo naturale, come abbiamo di sopra accennato, e per cui fu esaudito, come dice S. Paolo, quando pregò d' essere campato dalla morte: onde l' Eucaristia si chiama pane vivo, e non fu giammai pane morto come fu morto il suo corpo naturale. E il pane ed il sangue eucaristico, che è detto « novi et aeterni testamenti (1), » è l' oggetto di un sacerdozio, che da S. Paolo si asserisce fatto « secondo la virtù di una vita insolubile »: [...OMISSIS...] Ora, se la vita eucaristica di Cristo, oggetto del sacerdozio, si fosse sciolta anche per poco tempo, non sembra che si potesse chiamar più vita insolubile . Sebbene adunque questa denominazione d' insolubile convenga ottimamente alla vita gloriosa acquistata da Cristo dopo la risurrezione, tuttavia più pienamente luce la verità di quella parola, interpretandola dell' insolubilità della vita eucaristica, perocchè Cristo esercitò il suo sacerdozio prima della sua morte nell' ultima cena, ed era costituito sacerdote secondo l' ordine di Melchisedecco, che offerì pane e vino già prima della sua risurrezione gloriosa, e però fin d' allora era costituito tale « secondo la virtù della vita insolubile ». Onde a tutta ragione S. Ignazio martire, discepolo degli apostoli, chiama l' Eucaristia « pharmacum immortalitatis (3), » e il Santo Concilio di Trento lo dice « « un ineffabile e al tutto divino beneficio quo mortis ejus victoria et triumphus repraesentatur »(4). » Continuandoci dunque al discorso precedente, se egli è vero che il principio senziente di quelli che ricevono tutto Cristo nella Santissima Eucaristia riceva per termine quella porzione del corpo e del sangue di Cristo che risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione, s' intende come questo Sacramento sia dai Padri e dai Concilii chiamato « Signum unitatis (5), » e certo non un segno inefficace ma un segno efficace, cioè operatore dell' unità ch' egli segna, come sono segni efficaci tutti i Sacramenti di Cristo; cioè operatori nell' uomo di quel che segnano. La quale unità è doppia, cioè de' fedeli con Cristo e de' fedeli fra loro. L' unità di chi riceve il corpo di Cristo con Cristo diviene somma ed al tutto ineffabile. Perocchè, quantunque non s' identifichi Cristo con lui, come abbiamo detto, tuttavia una porzione della vita sensitiva di Cristo s' identifica in certo modo con una porzione della vita del fedele che riceve Cristo, perocchè queste due vite hanno una porzione del loro termine corporale identica: Cristo ed il fedele sentono come porzione del proprio corpo lo stesso corpo eucaristico. Questo sentimento non accade in quelli che non hanno ricevuto il battesimo, i quali non sentono che gli accidenti del pane e del vino, rimanendo in essi il corpo e il sangue di Cristo inefficaci, cioè non comunicando Cristo loro quel termine corporeo, in quanto è termine della vita di esso Cristo, e perciò non avvenendo la comunicazione delle due vite, la parziale identificazione dei due sentimenti. E ciò perchè lo spirito di questi non ha ricevuto la virtù che li rende atti a comunicare collo Spirito di Cristo, perchè non sono congiunti a quel Verbo che produce nei battezzati tale virtù soprannaturale, che giunge a percepire quell' umanità di Cristo che sta sotto gli accidenti. Perocchè l' uomo da sè solo non potrebbe mai comunicare colla carne e col sangue vivente di Cristo, che sta nascosta sotto il velo degli accidenti del pane e del vino, soli accessibili naturalmente al senso dell' uomo; ma l' uomo battezzato è già congiunto con Cristo, e Cristo in lui e con lui comunica necessariamente colla propria carne e col proprio sangue, e così l' uomo insieme con Cristo. Ora, la vita sensitiva di Cristo è intimamente e individualmente congiunta colla sua vita intellettiva, e la persona del Verbo è congiunta con entrambi in modo, che l' umanità intera di Cristo appartiene in proprio alla persona del Verbo, e non ha altra persona se non questa che tutta la regga e governi, qual principio supremo dell' unico Cristo. Quindi l' uomo che partecipa nel modo detto della vita sensitiva di Cristo, partecipa nello stesso tempo della virtù e della divinità di tutto Cristo, il quale nei giusti emette il suo Spirito di Carità, onde tal Sacramento è chiamato giustamente il Sacramento dell' amore, « vinculum charitatis (1). » E come l' amore ha più gradi, ma il massimo è quello per il quale gli amanti s' uniscono sostanzialmente in quella più stretta guisa che la natura loro concede, e godono l' un dell' altro in questa unione, quasi con un indiviso sentimento; così egli è manifesto, che essendo sostanziale e reale l' unione del fedele con Cristo mediante l' Eucaristia, fino ad avere in parte uno stesso termine della vita, che è la massima unione che si possa concepire secondo la natura umana e la condizione della vita presente; quindi questo Sacramento, com' è il massimo pegno dell' amore di Cristo verso gli uomini, così contiene il più intimo atto d' amore fra l' uomo giusto e Cristo. E quell' amore non è puramente ideale e spirituale, ma reale, sostanziale, soprannaturale e vitalmente corporeo. Dove cade in acconcio di commemorare il canone del Sacro Concilio di Trento, che dice: « Si quis dixerit Christum, in Eucharistia exhibitum, spiritualiter tantum manducari, et non etiam sacramentaliter ac realiter, anathema sit (1). » E` dunque da distinguere fra non battezzati, i quali non ricevono, assumendo l' Eucaristia, nè il Sacramento, nè la cosa del Sacramento, dai battezzati, i quali ricevono il Sacramento, e, se sono in grazia di Dio, anche la cosa del Sacramento . I primi non comunicano che cogli accidenti secondo le leggi fisiche e naturali, ma i secondi comunicano con Cristo: ma in diverso modo quelli che sono in grazia, e quelli che sono in disgrazia di Dio. I battezzati, che non sono in grazia, hanno il Verbo nella loro mente, la quale appartiene alla loro persona umana, ma non la costituisce; e però dall' avere l' impressione del Verbo non sono santificati, perchè il Verbo che è in essi non manda lo Spirito Santo, ossia la grazia di questo, nella lor volontà, che costituisce la loro persona. Laonde il Verbo impresso nella loro mente si completa, quasi direi, colla carne e col sangue che essi ricevono quasi in essi incarnandosi; ma tutto ciò nell' ordine della mente e del sentimento in cui non giace la santificazione. Perocchè è da osservare che quantunque l' acqua battesimale operi gli effetti soprannaturali per virtù del contatto segreto dell' umanità di Cristo, tuttavia nel battesimo non viene comunicata all' uomo la stessa umanità di Cristo, la stessa carne, o lo stesso sangue vivente, ma solo la virtù che esce dal corpo del Salvatore, la qual virtù è atta a comunicare la percezione del Verbo, onde Cristo ebbe a dire a S. Filippo: « Philippe, qui videt me » (cioè la mia umanità in modo soprannaturale) « videt et Patrem (2), » cioè « vede me come Verbo, e in me conosce il Padre mio di cui sono l' imagine ». Laonde colla Eucaristia si completa nell' uomo la comunicazione di Cristo incominciata nel battesimo, aggiungendosi la carne ed il sangue, cioè l' umanità di Cristo al Verbo che risplendeva nella mente, e tutto ciò, se l' uomo ha una volontà peccatrice, non a sua salute, ma a sua condanna. Questo è il primo effetto della SS. Eucaristia. Ma se l' uomo battezzato è in grazia, il Verbo emette in lui lo Spirito Santo, col quale santifica la sua volontà, dove giace la personalità dell' uomo, e quindi rimane santificata la persona dell' uomo. Allora poi che quest' uomo, ricevendo l' Eucaristia, riceve l' umanità vivente di Cristo, e si completa in lui il Verbo incarnato, questo Verbo incarnato emette lo Spirito Santo nell' uomo, non solo come luce, immediata operazione del Verbo, ma ben anco, per mezzo del suo corpo santissimo, come luce e sentimento e gaudio corporale. Quindi lo Spirito Santo emana alla santificazione dell' uomo da tutto Cristo, sempre venendo mandato dal Verbo. Ma se il Verbo prima non illustrava col divino Spirito se non la suprema parte della volontà dell' uomo, cioè la facoltà del riconoscimento pratico e l' intelligenza ad esso ubbidiente; di poi la volontà umana ed inferiore di Cristo comunica lo Spirito Santo anche alla volontà inferiore dell' uomo e la corrobora a sottomettersi alla volontà superiore, e il sentimento ed istinto sensitivo di Cristo comunica dello Spirito Santo al sentimento ed istinto animale dell' uomo e lo tempera dal male e lo governa al bene, e le carni e il sangue di Cristo comunicano pure del Santo Spirito alle stesse carni ed allo stesso sangue dell' uomo, e rendono l' uomo casto, sicchè tutte le parti di Cristo operano in tutte le parti dell' uomo, e s' avvera da parte di Cristo quant' egli disse nella orazione al Padre che pronunciò prima di patire: « Pater, venit hora, clarifica Filium tuum, ut Filius tuus clarificet te, sicut dedisti ei potestatem omnis carnis, ut omne quod dedisti ei det eis vitam aeternam (1). » E da parte del fedele allora si possono dire appieno verificarsi le parole dell' Apostolo ai Filippesi: « Et pax Dei quae exsuperat omnem sensum custodiat corda vestra et intelligentias vestras in Christo Jesu (2), » e quelle: « Hoc enim sentite in vobis, quod et in Christo Jesu (3); » onde dal sentimento di Cristo a noi comunicato s' apprende la sua umiltà, che non possono insegnare le parole degli uomini, seguitando a dire S. Paolo: « qui, cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo; sed semetipsum exinanivit formam servi accipiens in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo (4), » perocchè veramente effetti speciali dell' Eucaristia, in chi degnamente la riceve, sono la castità e l' umiltà. E perciocchè lo Spirito Santo si comunica alla volontà dell' uomo, e sono a questa soggiogate l' altre potenze inferiori; perciò fra la volontà, costituita in istato soprannaturale di grazia, e lo Spirito Santo è aperta una comunicazione, per la quale l' uomo, cogli atti della sua volontà stessa, può derivare maggiore o minor copia del Santo Spirito, di che la quantità di grazia, che i giusti ricevono, come dagli altri sacramenti, così ancora da questo della SS. Eucaristia, è varia secondo la loro disposizione e cooperazione. Onde della stessa giustificazione che si riceve nel battesimo, « quod est sacramentum fidei sine qua nulli unquam contigit justificatio, » il Tridentino dice che l' unica causa formale è la giustizia di Dio, « qua nos justos facit - justitiam in nobis recipientes, unusquisque suam secundum mensuram, quam Spiritus Sanctus partitur singulis, prout vult, et secundum propriam cujusque dispositionem et cooperationem (1). » E posciachè, consacrato il pane ed il vino, anche prima dell' uso, dimora sempre sotto quegli accidenti tutto intero Cristo; quindi da lui possono derivare i fedeli, anche senza riceverlo realmente, delle grazie spirituali (emettendo egli in essi i doni del Santo Spirito) col solo adorarlo di presenza, e col desiderio e col voto di riceverlo sacramentalmente: il qual modo di partecipare si chiama comunione spirituale. Laonde il Tridentino dice dell' uso che fanno i fedeli dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] Rimane perciò fermo che nella comunione spirituale non si riceve il corpo di Cristo nè realmente, nè sacramentalmente; ma che se ne derivano le grazie dello spirito, se ne raccoglie frutto, se ne esperimenta l' utilità. Ancora un' altra differenza fra la comunione sacramentale e la spirituale è questa: che nella prima Cristo stesso opera ne' giusti che l' hanno ricevuto l' emissione dei doni del suo Spirito ex opere operato, e così il primo va incontro all' anima colla divina sua operazione, la quale ne sentirebbe l' effetto quand' anche l' uomo non fosse in grado, per malattia o per sopore, di fare alcun atto d' affetto volontario, dopo aver ricevuto il corpo di Cristo; laddove nella comunione spirituale è l' anima che cogli atti della sua volontà deriva a sè le grazie del sacramentato Signore. E qui si osservi che, quantunque il corpo che noi abbiamo ricevuto da Adamo sia guasto e destinato alla morte, e buono solo a farne un sacrifizio al Signore, secondo l' Apostolo: [...OMISSIS...] tuttavia quell' ostia stessa, cioè il corpo dei cristiani, si dice « ostia vivente, e santa, e a Dio piacente », perchè dai sacramenti di Cristo anche il corpo riceve un' influenza santificatrice, ma specialmente dal sacramento eucaristico nel quale lo stesso corpo glorioso del Signore s' inserisce in parte nel corpo nostro e vi mette un elemento d' immortalità. Il perchè l' Apostolo chiama non solo i nostri spiriti, ma ben anco i nostri corpi membra di Cristo e templi dello Spirito Santo: onde deduce qual insulto si faccia a Cristo colla fornicazione violando le sue membra e il suo tempio: [...OMISSIS...] Di che conchiude: « Glorificate et portate Deum in corpore vestro (5). » Laonde S. Pietro chiama il suo proprio corpo « « un tabernacolo » (6), » dimostrando così, ch' esso era una custodia del Verbo e dello Spirito. E S. Paolo dalla stessa dottrina trae più altri precetti morali (giacchè, come abbiam detto, il principio di tutta la morale cristiana è l' inabitazione di noi in Cristo e di Cristo in noi). E primieramente insegna ai cristiani di non contrarre matrimonio cogli infedeli pel rispetto che debbono avere a' proprii corpi santificati dalla dimora in essi di Cristo: [...OMISSIS...] Dallo stesso principio deduce l' amore e il rispetto che i mariti debbono avere alle loro mogli: [...OMISSIS...] Deduce ancora l' obligazione che i Cristiani si astengano dal partecipare alle vittime immolate agli idoli. Perocchè dice: [...OMISSIS...] Ma, quantunque il corpo de' Cristiani guasto dalle conseguenze del peccato d' origine riceva qualche influenza dalla grazia di Cristo, e coll' eucaristia riceva altresì qualche parte che in lui s' inserisce del corpo di Cristo; tuttavia il corpo animale è destinato a perire, perchè non può essere senza di ciò intieramente rigenerato: e però quell' elemento occulto di vita che quaggiù riceve da' Sacramenti, ma soprattutto dal Sacramento Eucaristico, è oggetto di fede, anzichè di piena e manifesta esperienza, e un saggio e un pegno della futura risurrezione; onde dice S. Paolo: « Quod autem nunc vivo in carne, in fide vivo Filii Dei, qui dilexit me et tradidit semetipsum pro me (3). » Ora il pane eucaristico non è solamente un vincolo d' unione del fedele con Cristo, ma ben anco de' fedeli fra loro. E come l' unione del fedele comunicante con Cristo ha due modi, l' uno de' quali si fa immediatamente per Cristo, l' altro per lo Spirito Santo che diffonde nell' anime la carità che da Cristo procede; così parimenti una duplice unione de' fedeli fra loro trovano i fedeli che ricevono degnamente Gesù Cristo nella SS. Eucaristia. L' unione del fedele comunicante con Cristo che si fa immediatamente per Cristo è fondata in due ragioni. La prima, che tutti ricevono lo stesso Cristo tutto intero. La seconda, che ciascheduno converte in termine della propria vita quella quantità della carne e del sangue di Cristo che risponde alla quantità della sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione. L' unione del fedele comunicante con Cristo, che si fa per mezzo dello Spirito Santo, nasce dall' emissione dello Spirito e de' suoi doni che fa Cristo al fedele in quella misura che Cristo vuole e in proporzione della disposizione e della cooperazione dello stesso fedele. Queste due maniere d' unione che si formano o si perfezionano col ricevimento del Sacramento eucaristico sono indicate da S. Paolo in quelle parole: « Unum corpus et unus spiritus, sicut vocati estis in una spe vocationis vestrae (1). » Col sacramento della fede, cioè col battesimo, gli uomini incominciano ad essere membra del corpo mistico di Cristo; ma coll' eucaristia si connettono vieppiù col corpo di Cristo perchè una porzione di questo corpo, indivisa dal tutto, s' inserisce in essi quasi porzione di loro proprio corpo, e così vi ha una continuazione più piena di essi con Cristo. Ma l' essere essi divenuti corpo di Cristo non giova alla loro salute, anzi grandemente loro pregiudica, se, trovandosi essi in istato di peccatori con volontà avversa a Cristo, non ricevono l' unione dello spirito. Che se la volontà non pone ostacolo, in tal caso lo Spirito di Cristo in essi si diffonde, ed allora giova loro senza fine l' essere un corpo con Cristo, col quale diventano in pari tempo, per così dire, uno spirito. Per ciò adunque che riguarda l' Eucaristia, l' unione che forma di essi un corpo solo con Cristo (il qual corpo, sebbene reale, si dice mistico, che vuol dire occulto, perchè in questa vita non si vede ed è oggetto di fede) nasce dal divenire propria carne e proprio sangue del fedele quella porzione della carne e del sangue di Cristo che risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della consacrazione. E questo si fa in modo occulto, perchè il fedele non s' accorge che in lui rimanga una parte della carne e del sangue di Cristo, rimanendo questo velato sotto gli altrui accidenti, come rimane velato tutto il corpo reale di Cristo indiviso da quella piccola parte. Sicchè il corpo di Cristo rispetto al fedele non opera che spiritualmente, perocchè Cristo tutto intero nel suo corpo o condanna il fedele se in consapevole peccato, ovvero lo santifica comunicandogli lo spirito di santità. Ma ciò non toglie che rispetto a Cristo, questi non sia inserito nel fedele in parte col suo proprio corpo reale nel modo di essere eucaristico: e che un giorno, cioè dopo la vita presente, non si manifesti. Cristo adunque da parte sua tiene tutti i fedeli che si comunicano uniti al proprio corpo reale, quasi con altrettante funicelle, colle diverse porzioni del pane eucaristico che loro divide. Onde questa parola di dividere o frangere il pane sì di spesso ripetuta nelle scritture parlanti di questo sublime mistero. [...OMISSIS...] E nella moltiplicazione dei pani, in figura del sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] E del pari nella seconda moltiplicazione dei pani: [...OMISSIS...] E la medesima espressione scrupolosamente inseriscono nella loro narrazione S. Marco (6) e S. Luca (7). Anche negli Atti Apostolici, facendosi uso della stessa parola solenne, vi si dice: « fragentes circa domos panem (.), » luogo che i sacri interpreti intesero dell' Eucaristia. Nella Liturgia Ambrosiana in quell' atto che il sacerdote spezza l' ostia dice: frangitur corpus Christi: la quale espressione, acciocchè non contenga errore, deve intendersi come la dichiarò il Sassi nella sua Dissertazione. Il corpo di Cristo adunque non può dividersi, ma niente vieta che una parte del corpo di Cristo nel suo essere eucaristico sia legata più strettamente delle altre col corpo del fedele che si comunica; e questa parte, che più strettamente si lega col corpo di un fedele, sia diversa da quella parte con cui più strettamente si lega il corpo di un altro fedele; e queste diverse parti, ciascuna delle quali è destinata alla nutrizione spirituale di un fedele rimanendo indivisa dall' intero corpo di Cristo, sieno corrispondenti a quella quantità della sostanza del pane che vi avea in ciascuna ostia prima della consacrazione: le quali parti si raffigurano in que' grani di frumento sparsi dal seminatore e cadenti altri sulla pubblica via, altri sulla pietra, altri fra le spine, ed altri finalmente sul buon terreno (1), giacchè Cristo altrove si chiama appunto grano di frumento (2). Tutti adunque i fedeli mediante l' Eucaristia s' attengono al corpo di Cristo e formano un sol corpo mistico e tuttavia reale con esso lui. Quindi sono altresì uniti strettamente fra sè, come le membra d' un solo corpo, che quantunque distinte non sono divise: [...OMISSIS...] Laonde, giusta l' esposta sentenza, la diversità delle membra del corpo mistico di Cristo troverebbe altresì un fondamento nella diversità di quella porzione eucaristica che ricevono, e che in ciascuno frutta diversamente secondo il terreno o secondo la qualità della pianta in cui viene innestata. L' unione poi dei fedeli fra loro, l' unione, dirò così, misticamente corporea, risulta dal partecipare tutti come cibo e nutrizione di una parte appartenente allo stesso corpo, e dal ricevere colla detta parte l' intero e identico corpo di Cristo in se medesimi, il quale non può separarsi da quella parte che ciascuno in modo più speciale si appropria. Ma soltanto l' unione che nasce dallo Spirito Santo è quella che unisce non la sola natura dell' uomo con Cristo, la quale s' unisce per la sopradescritta unione corporale, ma lo stesso uomo, la stessa persona dell' uomo: e che unisce in un solo spirito tutte le persone dei fedeli fra loro, perocchè dice San Paolo: « qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (4). » Questa unione spirituale che procede dalla corporale, come lo Spirito di Cristo procede da Cristo, fu quella che Gesù Cristo domandò al Padre nella sublime orazione che fece nel cenacolo: [...OMISSIS...] Cristo dunque, l' identico Cristo è ugualmente tutto in tutti, e tutte le parti di Cristo comunicano della loro virtù a tutte le parti dell' uomo, di che fu figura la maniera usata da Eliseo a risuscitare il figlio della Sunamitide. Perocchè narra la Scrittura: [...OMISSIS...] Essendo dunque il medesimo Cristo in tutti, tutti hanno, per lo Spirito Santo che in essi si diffonde, e sanno d' avere un solo ed identico bene infinito, tutti una sola vita immortale, quella che partecipano da questo bene che possedono cioè da Cristo, tutti un solo amore, una sola volontà. Onde de' primi fedeli si legge: « Multitudinis autem credentium erat cor unum et anima una (3). » Di che proveniva che, come avevano in comune Cristo che era l' unico loro bene, così volessero avere in comune anche l' altre cose che non reputavano beni se non in ordine a Cristo: [...OMISSIS...] E descrivendo questa unanimità e comunità di beni si fa dagli Atti Apostolici speciale menzione dell' Eucaristia, che n' era il fonte e la più efficace cagione, perchè si dice [...OMISSIS...] L' esemplare di questa unione che Cristo desiderava nei suoi fedeli era l' unione ch' egli aveva col Padre suo: ut sint unum sicut et nos . Il Verbo divino col suo Padre è unito colla natura che è identica nell' uno e nell' altro, ma è distinto quanto alla personalità. Così ne' fedeli deve restar distinta la personalità di ciascuno, ma debbono comunicare fra loro nella natura. Gli uomini, prescindendo dalla grazia, convengono nella medesima specifica natura, quindi la loro medesimezza appartiene al solo ordine ideale ed oggettivo, ond' essi, avendo il modo di essere soggettivo, non conseguono da questo di essere veramente unificati nè quanto alla persona, nè quanto alla natura. Ma il Verbo divino è oggetto non solo ideale, ma reale; onde il suo operare (in quanto trapassa l' ordine della natura e tende a perfezionarla compiendo le sue lacune e limitazioni senza distruggerla), è sempre perfetto e compiuto, e però vòlto a realizzare l' oggetto anche rispetto alle nature soggettive. E perocchè in tutti gli enti il principio ritrae la determinazione e l' attività sua dal termine immanente con cui è legato per sintesi ontologica, e il termine del principio intellettivo è l' oggetto; perciò il Verbo manifestandosi alle intelligenze le unifica anche realmente: perocchè, in quanto hanno per termine lo stesso Verbo, il principio intelligente che le costituisce soggettivamente viene determinato ed attuato nello stesso modo, e s' identifica non totalmente, ma in quanto ha quell' oggetto reale comune. In quanto poi il Verbo si manifesta diversamente e con diversi gradi di luce alle intelligenze finite, in tanto esse si distinguono fra loro. E nel battesimo già si dà questa segreta comunicazione del Verbo, e questa parziale identificazione, della quale S. Paolo scrive: « Unus Dominus, una fides, unum baptisma (1). » Ma Cristo non era solo Dio, ma anche uomo, in modo però che la personalità di quest' uomo risiedeva nel Verbo di Dio, onde il Verbo di Dio come persona reggeva l' umanità quasi potenza inferiore. Quindi anche l' umanità riceveva dal Verbo il divino istinto di unificare realmente gli uomini, ne' quali amava la similitudine della natura; e questo l' ottenne coll' istituzione del Sacramento eucaristico, nel quale tutti gli uomini acquistano per termine della loro vita sensitiva una porzione del corpo di Cristo indivisa dall' intero corpo, e quindi anche il principio sensitivo, base della natura umana, ha una identificazione parziale di natura, rimanendo distinte le persone. Onde aveva ben ragione Isaia di cantare predicendo le opere del Salvatore: « « Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris, et dicetis in die illa: Confitemini Domino et invocate nomen ejus: notas facite in populis adinventiones ejus. - Exulta et lauda habitatio Sion: quia magnus in medio tui Sanctus Isra‰l »(2). » Dall' essere Cristo connesso coll' uomo, e l' uomo inserito in Cristo come tralcio nella vite ne' modi sopraddetti, ne viene che l' uomo sia connesso altresì coll' eterno Padre, nel seno del quale è il Figliuolo, e che è pure nel Figliuolo. [...OMISSIS...] Quindi la società dell' uomo con Cristo ordinata dal Padre, di cui dice l' Apostolo: « Fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem Filii ejus Jesu Christi Domini nostri (3), » è società ad un tempo col Padre stesso, come insegna S. Giovanni: [...OMISSIS...] E si osservi quanto qui è proprio il vocabolo di società, la quale esige che più persone abbiano un bene posto in comune. Ora i fedeli con Dio e fra sè hanno in comune, e in comune godono il loro bene che è appunto Cristo, e il suo Corpo santissimo, ed il suo Spirito. E venendo a parlare dello Spirito che emette Cristo in quelli ne' quali egli dimora, primieramente diremo che questo è Spirito di vita soggettiva . Perocchè nell' essere senziente ed intelligente, considerando com' egli è ontologicamente costruito, si distinguono due estremi, il principio ed il termine . E benchè il principio (che è propriamente il soggetto) non sia senza il termine, tuttavia, posto ch' egli esista, ha un' attività sua propria colla quale può più o meno aderire al termine. Il che si scorge massimamente nelle creature intelligenti e libere, di cui l' atto soggettivo, che può essere di maggiore o minore intensità, è l' adesione dell' amore. Laonde, quantunque non si può dare l' atto soggettivo dell' amore se manchi l' oggetto cui amare, secondo l' adagio voluntas non fertur in ignotum; tuttavia, quando vi ha l' oggetto, questo può essere più o meno amato dal soggetto. Nell' ordine della vita soprannaturale, di cui parliamo, l' oggetto immediato è sempre Cristo. Ora l' atto soggettivo, col quale si ama Cristo conosciuto, è mosso dallo Spirito Santo. Questo Spirito è mandato dall' oggetto stesso, cioè da Cristo. Cristo adunque è l' autore immediato della vita oggettiva, fonte della soggettiva. Della vita oggettiva disse Cristo: « Haec est autem vita aeterna: ut cognoscant te, solum Deum verum, et quem misisti Jesum Christum (1), » e questa vita si dice oggettiva, non perchè non sia anch' essa un atto del soggetto (nel qual senso ogni vita è soggettiva), ma perchè è determinata necessariamente dalla sola percezione immanente e primitiva dell' oggetto, ove non vi ponga ostacolo la volontà che può rifiutarla, il quale oggetto Cristo ha lo Spirito Santo in se medesimo. Della vita soggettiva, opera speciale dello Spirito Santo, Cristo disse: « Et notum feci eis nomen tuum, et notum faciam » (mandando il Santo Spirito personalmente); « ut dilectio, qua dilexisti me, in ipsis sit, et ego in ipsis (2). » Nell' una e nell' altra vita opera lo Spirito Santo, che perciò si chiama « Spiritus vitae (3), » in quanto entrambe sono soggettive, atto del soggetto; ma nella prima lo Spirito opera inizialmente e quasi potenzialmente (con che vogliam dire che al sentimento dell' uomo lo Spirito non si manifesta come persona, ma in forma di doni semplicemente, e non distinto da Cristo). L' effetto dello Spirito Santo è di aggiungere forza all' attività soggettiva soprannaturale in modo che conosca più vivamente e perfettamente Cristo e le sue parole, e più grandemente ed efficacemente lo ami. Il Verbo si rimane distinto dal soggetto uomo in cui dimora per quella differenza che v' ha fra l' oggetto e il soggetto, la quale è categorica; lo Spirito Santo si rimane distinto solo come il creante e il creato, il movente e il mosso. Il soggetto mosso, nel nostro caso, sente la mozione, sente che vi ha in sè quello che non era prima, sente la carità, possiede le azioni sante; ma non iscorge per questo alcun oggetto nuovo, perchè lo Spirito non ha la forma oggettiva propria del Verbo. Onde Cristo disse: « Spiritus ubi vult spirat, et vocem ejus audis, sed nescis unde veniat aut quo vadat: sic est omnis qui natus est ex spiritu (4). » E S. Paolo distingue la mente dell' uomo, la quale ha l' oggetto per forma, dallo spirito che è a foggia d' istinto senza oggetto nuovo e suo proprio, onde dice: [...OMISSIS...] Ed altrove dice che lo Spirito prega nell' uomo, e dimanda quel che deve dimandare, quando l' uomo stesso non sa che cosa debba dimandare siccome si conviene (1). Lo Spirito si unisce dunque, e in certa maniera si mescola col soggetto che egli santifica, operando in lui in modo che il soggetto è insieme quello che opera. Onde Cristo attribuisce allo Spirito l' uomo nuovo, l' uomo nato alla santità; il qual uomo perciò si dice divenuto uno spirito con Dio: [...OMISSIS...] E S. Paolo: « Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (3). » Onde lo stesso Apostolo dice, che lo Spirito in noi prega quando noi preghiamo: [...OMISSIS...] Ma, oltrechè lo Spirito viene dato « secundum mensuram donationis Christi (5), » come s' esprimono le Scritture, rimane sempre distinta la consapevolezza divina dello Spirito, dalla consapevolezza umana dell' uomo, nel quale lo Spirito si manifesta. E così pure si distingue la giustizia di Dio, « qua ipse justus est », dalla giustizia di Dio « qua nos justos facit (6); » perocchè, benchè sia una la giustizia e la santità ed identica, tuttavia sono diversi i soggetti che la partecipano o la possiedono, e n' hanno il sentimento o la consapevolezza. Come adunque Cristo unifica la natura umana, così il suo Santo Spirito unifica le persone umane nella più intima società ..........

Psicologia Vol.III

643996
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E` dunque ufficio della filosofia, e propriamente della dialettica, il distinguere l' ente mentale , opera della mente, dall' ente vero ed oggettivo, od oggettivabile; e non ragionare di quello come se fosse questo; nel che solo sta l' errore. Nel quale errore è cosa a cader facilissima. Perocchè la mente non solo cangia le sue negazioni in enti positivi, a cagione dei vocaboli o segni a cui ella affigge i suoi concetti, i quali sono atti positivi; ma talora fa anche il contrario, vestendo di una forma negativa il positivo. Di più, il positivo ed il negativo lo tramuta a suo piacere mediante la forma di cui lo veste, e ciò che essendo negativo fu da lei reso per via della forma positivo, torna a vestirlo di forma negativa, e poi lo riveste di altra forma positiva, e così fa un composto di concetti mentali, l' uno involuto nell' altro, mediante quante forme le piace di mettergli attorno. Il qual fatto si vede manifestamente nell' algebra, dove si pone qualunque segno si voglia, o negativo o positivo, a qualunque quantità, o positiva o negativa; e però si nega la negazione, e ancora si nega la negazione negata e così via; perocchè io posso scrivere una quantità positiva con due segni negativi..., e posso scrivere quantità negativa con un segno positivo..., e posso dare a qualunque quantità tutti i segni che voglio, senza che cessi mai di essere positiva o negativa, com' ella era al principio. Lo stesso accade nel linguaggio. Se io dico: « a Dio non manca cosa alcuna », dò forma d' una doppia negazione alla più grande delle affermazioni, perocchè quella proposizione equivale a quest' altra di forma positiva: « Iddio ha tutto ». Ora, questo deve essere il primo ufficio del dialettico, volendo arrivare al fine di una disputa: prendere la proposizione di cui si disputa, e trarle d' attorno, l' una dopo l' altra, tutte le camicie che le ha indossato la mente coll' opera principalmente del linguaggio; e ridottala nuda, come ella è in sè stessa, osservare se la forma sua primitiva è una negazione o un' affermazione. Perocchè così il ragionamento è semplificato, e si spaccia prestamente dai sofismi, a cui dànno luogo quegli inviluppi lavorati dall' operazione soggettiva dell' umano intendimento. Si consegue altresì, con un tale processo, che apparisca assai chiaro se ciò che si predica di una cosa sia un accidente della cosa stessa o una mera relazione colla mente. Quando, a ragion d' esempio, Platone ed Aristotele riprendevano Parmenide di contraddizione per aver detto uno l' ente, e non di meno averlo detto eterno , e così posta nell' ente la pluralità della sostanza, «ten usian», e dell' accidente, «symbebekos» (1), l' italiano filosofo avrebbe potuto replicare così: « E` vero che, predicando l' eternità del mio ente, la forma del discorso divide in esso due cose: l' essere ente e l' essere eterno; ma questa divisione sta solo nella forma del concepire soggettivo e di esprimere la cosa; poichè l' eternità non è che una relazione esterna che concepisce la mente, è una negazione del tempo o della cessazione; onde non pone nulla nell' ente oggettivo più che l' ente stesso; anzi il vero valore di quel predicato è questo, che per esso s' impedisce di trovarsi nell' ente il molteplice, si riduce ad una negazione della molteplicità e dell' accidente ». Tale è dunque l' opera a cui deve applicarsi il dialettico: distinguere le forme diverse colle quali la mente vestì e rivestì, e soprarivestì un concetto o una sentenza, rimettendola nello stato suo primitivo e semplice. I diversi sensorii dell' uomo spezzano l' ente: questa è propriamente analisi cosmologica, cioè somministrata al principio razionale dal suo termine (il mondo). L' analisi comincia ad essere psicologica, quando il principio razionale divide ciò che non è diviso nel senso, e dai sentimenti passivi ed attivi (bisogni sensibili). All' analisi cosmologica risponde una sintesi pure cosmologica, e consiste nell' unire, che fa il principio razionale, le diverse rappresentazioni sensibili, che i suoi vari sensorii gli dànno del medesimo ente, accorgendosi che trattasi di un ente solo, variamente rappresentato nei vari effetti prodotti dalla sua azione in vari sensorii. Questa sintesi è da noi ancora detta cosmologica, perchè è il mondo, termine del sentimento, che somministra il legame a tutte le varie sensazioni e percezioni di un corpo; e questo legame è l' identità dello spazio occupato dal corpo agente in modi sì vari (1), sicchè le varie sensazioni sono diverse pel loro diverso tocco, non pel diverso spazio che occupano; le varie parti dello spazio isolatamente prese sono indiscernibili dall' uomo, perchè una parte dello spazio è come l' altra, quando non se ne possano distinguere i confini e la situazione nello spazio totale. Ora, niun sensorio distingue la situazione e i confini del proprio spazio, perocchè, come dicemmo, i confini dello spazio di un sensorio non sono sensibili allo stesso sensorio; onde il principio razionale non riceve da un sensorio solo il modo di conoscere la situazione, ovvero i confini dello spazio totale di quel sensorio. Ciascun sensorio non somministra al principio razionale se non la situazione e le parti relative alla totalità dello spazio suo proprio, non la situazione e i confini di questa totalità. E poichè la situazione, i confini di tali parti, la proporzionale loro distribuzione nei vari sensorii è identica, perciò lo spazio altresì sembra identico, come abbiamo veduto dello spazio che occupano le sensazioni del tatto e quelle della vista, due sensi che presentano lo spazio più accuratamente disegnato internamente in varie parti. Di qui, dunque, accade che l' uomo non moltiplichi i corpi secondo i suoi sensorii, ma solo le loro rappresentazioni, e tutte queste le riferisca ad un ente solo, che dice tattile, colorito, gustoso, sonoro, ecc.: questa è sintesi cosmologica . Dal qual fatto ebbe origine la distinzione fra la sostanza e gli accidenti; perocchè quell' ente unico, a cui riferisce tutti gli effetti che riceve nei suoi sensorii, l' uomo lo chiama sostanza; e questi effetti glieli attribuisce come suoi accidenti, e ciò perchè, essendo essi per l' uomo rappresentativi di lui, l' uomo non disgiunge la rappresentazione dal rappresentato, essendo quella che gli fa conoscere questo, e questo svanendogli innanzi, se lo vuole al tutto svestire di quella. Vero è che gli effetti, che un corpo produce nei sensorii, sono diversificati dalla varietà dei sensorii; ond' è che al corpo agente appartiene un' azione sola nel principio sensitivo, ed un' altra nel termine di lui, che è il corpo animato, e non più; anzi queste stesse diversificano forse unicamente per la natura diversa del principio sensitivo e del suo termine, in cui accade l' operazione. Spiegata così l' origine del concetto di sostanza , è spiegata altresì quella di specie, sia piena , sia astratta . La specie piena è la specie o concetto dell' ente vestito di tutti i suoi accidenti; la specie astratta è la specie dell' ente spogliato dei suoi accidenti, lasciatogli solamente quel vincolo, quell' unità, a cui tutti gli accidenti rappresentativi si riferivano. Noi abbiamo detto che la specie astratta è quel concetto che ci fa conoscere « « l' atto pel quale l' ente sussiste »(1) »; ma non abbiamo determinato quale sia quest' atto; ora possiamo farlo. Noi conosciamo positivamente gli enti per gli effetti che le loro azioni producono nei nostri sensorii, e più generalmente nel nostro sentimento. Ora il sentimento stesso somministra talora un fondamento, pel quale il principio razionale si accorge che un gruppo di effetti si debbono attribuire ad un ente solo, come accade nel concetto dei corpi che si forma, perchè il sentimento dà la percezione di una forza che si espande in uno spazio solo, benchè in quel medesimo spazio si abbiano sensazioni di diverso tocco (2); onde si conchiude che è una forza sola, un agente solo che produce quei molteplici effetti. Quindi quella forza, quell' agente unico diventa la specie astratta; e l' astrarla è l' opera del principio razionale, perocchè i sensorii non dànno che quella forza o agente, vestito ora di certi suoi effetti, ora di certi altri; ma sempre di questi vestito. Che se noi esperimentiamo un altro gruppo di effetti che non hanno lo stesso legame, la cui unità non è data nel sentimento, come, poniamo, seguitando coll' esempio dei corpi, se non si riferiscono allo stesso identico spazio, noi formiamo tosto di cotesto secondo gruppo un altro ente, e ne abbiamo un' altra specie. Così si origina per noi la moltiplicità degli enti . Ma il gruppo degli effetti sensibili può differire solo quanto alla realità. In tal caso, essendo nel resto simili, essi si conoscono per la stessa idea o specie. Quindi avviene che la loro moltiplicità sia moltiplicità d' individui e non moltiplicità di specie, nè diversità di specie astratta, nè diversità di specie piena; perocchè anche alla specie piena possono corrispondere più individui nell' ordine della realità, e in ciascuno di essi essere la sostanza e gli accidenti, giacchè la diversa realità moltiplica sì quella che questi. Quando, dunque, noi dicevamo che le specie astratte si dividono secondo l' atto diverso dell' essere, intendevamo secondo l' atto dell' essere ideale, e non secondo l' atto dell' essere reale. Perocchè la diversità degli atti dell' essere reale moltiplica solamente gli individui reali. A questi poi risponde una specie sola astratta; onde nell' ordine dell' idealità l' atto dell' essere rimane uno e identico, e però una sola è la specie astratta, una sola la sostanza ideale di più individui eguali. Noi abbiamo detto che la specie astratta rimane la stessa, quando i diversi gruppi di effetti sensibili, che ci fanno conoscere l' ente, non differiscono che per la loro diversa realità. Ora, parrebbe a questo contrario il vedere che nei diversi gruppi di effetti sensibili, rispondenti alla stessa specie, si dà qualche varietà, oltre la realità diversa, senza che perciò si muti la specie astratta: così una pera può variare di grandezza, di colore, ecc., dalle altre pere e da sè stessa considerata in tempi diversi, e tuttavia tutte si conoscono colla stessa specie astratta di pera. Al che si risponde che il gruppo degli effetti sensibili rappresentanti un solo ente deve prendersi nella sua totalità, e però se la stessa pera ha diversi aspetti percepita in diversi tempi, questi aspetti od effetti sensibili, benchè successivi, appartengono allo stesso gruppo; e così dicasi delle varietà, che si trovano nelle varie pere individuali. Quale è dunque il principio che moltiplica gli individui? - La loro diversa realità . Quale è il principio che moltiplica gli enti? - Come l' ente finito è costituito da quell' unità che giace nel gruppo dei suoi effetti sensibili, per la quale unità questi sono appunto così aggruppati che si dimostrano tutti effetti di uno stesso agente, la quale unità rispetto al corpo trovasi nell' identità di spazio, rispetto all' anima nell' identità di sentimento, ecc.; così la moltiplicità degli enti è data nel sentimento che si ha dei medesimi, quando in questo sentimento si sente un principio o cagione unica di certo numero di effetti sensibili, e si sente che a quel principio o cagione non si possono in nessuna maniera attribuire altri effetti sensibili, spettanti ad altro principio o cagione unica, che pur si sente. Noi chiameremo fondamento sensibile dell' ente questo principio o cagione di un dato gruppo di effetti, e diremo che gli enti si moltiplicano come si moltiplicano i loro fondamenti sensibili. Quale è il principio che moltiplica le specie piene? - Nelle specie manca la realità dell' ente, e però manca quella moltiplicità che nasce dalla diversa realità. Il diverso fondamento realmente sensibile moltiplica gli enti; ma se questa moltiplicazione è per via di realità, in tal caso a più fondamenti sensibili, diversi per la sola loro realità diversa, corrisponde una specie sola. Ora i fondamenti sensibili sono dati dal sentimento vestiti del gruppo dei loro effetti; e ai sentimenti sensibili così vestiti risponde la specie piena. Accade però che tutti gli effetti sensibili, che si attribuiscono allo stesso fondamento, non possono essere contemporanei, l' uno escludendo l' altro; per esempio, se un corpo è rosso, non può essere giallo; la specie piena poi, fa conoscere allo spirito nostro il fondamento sensibile vestito di tutti i suoi effetti sensibili, contemporanei o compossibili; ed è perciò che le specie piene si moltiplicano, perchè lo stesso fondamento sensibile si veste di vari effetti sensibili. Quale è il principio che moltiplica le specie astratte? - Le specie astratte fanno conoscere il solo fondamento sensibile dell' ente; ond' esse sono diverse, quando fanno conoscere fondamenti che sono diversi, prescindendosi dalla loro realità, come pure dal considerare gli effetti accidentali sensibili. La diversità dunque delle specie procede dalla relazione ontologica, che ha l' essere reale coll' ideale; i quali due modi di essere hanno tale relazione fra loro, che non è determinata da altro principio superiore se non dall' ordine intrinseco dello stesso essere. Noi abbiamo posto a principio della moltiplicazione degli enti il loro diverso fondamento realmente sensibile; ma lo spirito umano colla sua facoltà del fingere suppone di tali fondamenti anche quando non sono, e così crea a sè stesso gli esseri mentali, le diverse maniere dei quali appartiene al dialettico il classificare diligentissimamente. Talora lo spirito fa ciò col prendere qualche accidente, qualche effetto sensibile, e considerarlo come fosse il fondamento sensibile di un ente; il che gli è facile a fare, specialmente quando gli effetti sensibili sono così ordinati fra loro che l' uno è condizione precedente dell' altro. Poniamo che cangi in un ente il colore, che è un mero effetto sensibile; in tal caso egli predicherà del colore la grandezza, la forma, il movimento, ecc., considerando il colore come un ente, subbietto di tutte queste qualità. In simil guisa egli cangia in ente ogni astratto, le sue specie possono moltiplicarsi senza che si moltiplichi l' ente a cui si riferiscono, in virtù del potere che ha di restringere lo sguardo della sua mente e di concentrare la sua attenzione. Ma una delle creazioni o finzioni della mente umana più degne di riscuotere l' attenzione del filosofo perchè così spontanea all' umana natura, così necessaria, e però comune al genere umano, si è il concetto di materia. A questa, termine del principio sensitivo, è così essenziale la relazione con questo, che, privatane, non si può più concepire tale qual' è; pure lo spirito la disunisce, e così disunita la considera arbitrariamente come un ente per sè. Ora la materia disgiunta dal sentimento non ha più concetto di ente, ma di un rudimento di ente, di ente in via, senz' avere ancor tocco il suo essere compiuto. Si può adunque domandare se questo concetto di materia sia una specie piena o una specie astratta, o che sia. Ed è evidente che non può essere una specie piena, perchè si prescinde dai suoi effetti sensibili; neppure una specie astratta, che si riferisce anch' essa ad un fondamento sensibile. Non si può adunque classificare un tale concetto se non nella classe dei generi (ideali), i quali sono idee che non rappresentano l' ente, ma qualche cosa dell' ente. Onde la parola materia non significa alcuna specie di enti, ma ciò di cui molte specie di enti si compongono, ed ella ha due aspetti: 1 o si considera la materia, di cui gli enti corporei sono composti, in relazione alla forma, e in tale aspetto ella è cosa al tutto passiva o ricettiva della forma, e pel sintesismo non è senza questa; 2 o la si considera in relazione al concetto nostro, in quell' atto nel quale questo concetto si forma, e in tal caso ella significa ciò che con altro vocabolo noi abbiamo chiamato il sensifero . Che se noi ora vogliamo definire il sensifero, ossia la materia sotto questo aspetto, secondo la dottrina precedente circa l' origine della moltiplicità degli enti, diremo così: al fondamento sensibile risponde nell' ordine ideale la specie astratta, e quando a più fondamenti sensibili rispondono più specie astratte, allora si dice che quei fondamenti sensibili differiscono fra loro di specie e non d' individuo meramente. Ora, se io prendo più fondamenti sensibili di diversa specie, e ne formo un astratto prescindendo dalle loro differenze specifiche, io ho formato il genere di quei fondamenti; e questo genere è appunto il concetto della materia sensifera. Di che si scorge che il concetto della materia è generico (ideale). Ma poichè il fondamento sensibile generico, dal quale per astrazione è stata tolta la specie determinata dal gruppo degli effetti sensibili, è un fondamento sensibile informe, indi apparisce: Che la specie astratta fa conoscere la forma degli enti (1), pigliando la parola forma nel senso antico per ciò che fa essere l' ente quello che è. Che il concetto di materia esclude quello di forma, e però di specie. Ma qui nasce la questione se nella specie astratta o nella specie piena sia compreso l' individuo. Noi abbiamo di sopra dedotto la moltiplicità degli individui dalla realità. Ma altro è che nella specie non si comprenda la moltiplicità degli individui (individui reali), ed altro è che non si comprenda l' individuo (individuo specifico). Diciamo adunque che nella specie, o piena od astratta, non si contiene la moltiplicità degli individui; sicchè colui che avesse sola la specie nella sua mente, non potrebbe mai conoscere il numero degli individui reali di quella specie (almeno parlando delle specie degli esseri contingenti a noi conosciuti), ma nello stesso tempo diciamo che nella specie si contiene l' individuo specifico , cioè ogni specie fa conoscere l' ente individuo, la cui realizzazione può ripetersi più volte senza cangiamento alcuno nella specie. Infatti la forma degli enti, la loro forma compiuta, altro non è che la loro individualità quale nella specie si conosce, e però si dice individualità specifica . Quindi la distinzione fra il concetto di natura e il concetto d' individuo : quella ha due sensi, indicando tanto l' ente informe, per esempio la materia, quanto l' ente formato, e in questo secondo caso risponde alla specie astratta, esprime l' individuo come si trova in questa, non la moltiplicità degli individui reali; onde si applica a ciascun individuo, non a tutti. Così si dirà « la natura umana sussiste in più individui », il che non vuol già dire che sia divisa in più individui, ma che in ciascuno sussiste tutta la natura umana, e chi dicesse che la natura umana è divisa in più individui, parlerebbe impropriamente. La forma degli enti adunque costituisce la loro individualità specifica, ossia ideale; e se si scompone l' individuo, per astrazione in tal caso si distingue la natura e l' individualità, prendendo la natura come l' ente informe, e l' individualità come la sua forma, il suo compimento, l' atto ultimo che lo perfeziona e specifica (1). Le nature dunque, che non hanno individualità, sono informi, non sono enti compiuti; l' individualità è dunque un carattere essenziale dell' ente. Laonde la materia è un ente informe, e in questo senso non7ente; onde se si interpreta il placito di quegli antichi che dicevano prodursi le cose dal non7ente [...OMISSIS...] , come detto delle cose materiali e della causa materiale, non è senza verità. Ma questo ente informe, che non è compiuto ente, si può informare ed individualizzare? La scuola di Aristotele ha detto di sì, ed anzi tutta la dottrina delle forme aristoteliche è tratta dalle forme, di cui si considerò vestita la materia. E sia pure; non vogliamo opporci a questa dottrina, ma vogliamo spiegarla in modo ragionevole. Vogliamo cercare che cosa vi sia di cognizione soggettiva in queste forme concepite dalla mente umana, cioè che cosa vi ponga il soggetto stesso razionale quando ne acquista i concetti, e che cosa vi sia in esse di cognizione assoluta . Riprendiamo il concetto esposto della materia: la materia si concepisce come il « concetto generico dei vari fondamenti sensibili ». Dunque la materia non si conosce che da ciò che ci ha dato il senso, su cui fece il suo lavoro l' astrazione della mente. Ma tutto ciò che presenta il senso alla mente è il termine di lui, e trattandosi, come nel caso nostro, del senso animale, questo presenta alla mente una forza (sensifera) che si spande nell' estensione. L' estensione poi, ora la presenta non figurata, com' è nel sentimento fondamentale e nei sensorii speciali, presa nella sua totalità; ora la presenta figurata, come sono le parti dell' estensione presentata da certi sensorii, dal tatto, dalla vista, ecc.. Nessuno dice che l' estensione non figurata, presentata dal sentimento fondamentale o dai sensorii speciali, sia individuata; tale estensione somministra solo il concetto della natura o dello spazio indefinito . Ma le parti figurate dal termine dei sensorii, queste si dicono individuate, ed è ad esse che dobbiamo il concetto dei corpi speciali. Noi abbiamo veduto infatti che i corpi speciali si unificano mediante il loro fondamento sensibile, che è una parte determinata dello spazio, nel quale si hanno certe sensazioni, che per l' unità appunto di quello spazio diventano a noi rappresentatrici dello stesso corpo, dello stesso spazio. Dicemmo ancora che i fondamenti sensibili vestiti dei loro gruppi di sensazioni sono più, quando la specie astratta con cui si conoscono è una sola; nel qual caso la loro moltiplicazione si fa nell' ordine della realità e non in quello dell' idealità. Così gli individui della specie umana sono molti, e l' uomo7concetto è uno solo; quegli individui si conoscono esser più, non pel concetto di uomo che è uno solo, ma pei diversi fondamenti sensibili reali, i quali sono più; è adunque coll' aiuto del senso (potenza che comunica coll' essere reale) che si conosce la loro pluralità. Trattandosi ora di enti materiali, la loro sussistenza, ossia realità, è materiale. In ogni fondamento sensibile si percepisce adunque una materia (forza diffusa nell' estensione), ed è il gruppo delle sensazioni che la veste, che a noi la determina, e ci fa conoscere ch' ella è una e non un' altra. Ma questo gruppo di sensazioni per opera dell' astrazione si può sciogliere, separarne alcune, ritenerne presenti allo spirito alcune altre. Ora in ognuno di questi gruppi di sensazioni vi è: 1 forza sensifera, 2 estensione figurata, 3 sensazioni di diverso tocco o dello stesso tocco, ma di diversa qualità. Noi possiamo dividere, colla virtù dell' astrazione, questi tre elementi costituenti un corpo in tutte le guise, e formarci così tanti concetti generici ideali. Infatti: Noi possiamo restringere la nostra attenzione alla sola forza sensifera, e in tal caso abbiamo il concetto della materia informe . Possiamo restringere la nostra attenzione all' estensione, e abbiamo il concetto dei corpi matematici . Possiamo restringere la nostra attenzione alle sensazioni di tocco diverso o ad un genere di esse, e abbiamo il concetto dell' accidente o di un genere di accidenti. Possiamo restringere la nostra attenzione a due di quegli elementi, alla forza ed all' estensione, ed abbiamo il concetto di corpo (in genere). Possiamo restringere la nostra attenzione all' estensione figurata, al tocco delle sensazioni, e abbiamo il concetto di accidenti figurati, ossia limitati da una certa estensione. Finalmente possiamo restringere la nostra attenzione alla forza e alle sensazioni di diversa qualità, riferibili ad un altro fondamento sensibile, e abbiamo il concetto delle diverse guise di materia, per esempio, acqua, aria, fuoco, legno, ecc.. Tutti questi concetti sono generici e non specifici; e perciò non fanno conoscere l' individuo, perocchè niuno di essi fa conoscere la forma compiuta. Il primo esclude qualunque forma, gli altri pongono delle forme imperfette, che sono parti della forma. Dove si vede che vi sono dei generi che fanno conoscere la materia, altri una parte della forma, ma non raggiungono perciò l' individuo. Ora, posciachè da una parte il concetto di materia esclude l' individuo, e perciò non ha limite (giacchè è la forma quella che limita le cose limitabili); e d' altra parte la sussistenza delle cose materiali è materiale, quindi s' intende come la materia (secondo il concetto esposto) non si possa moltiplicare, ma bensì dividere in parti, rimanendo sotto tutte le forme lo stesso concetto di materia, perocchè se si moltiplicasse, non sarebbe più materia, ricevendo limitazioni. Quindi la moltiplicazione degli individui viene dalla forma, in quanto questa li fa sussistenti; viene dalla realità della forma, e non dalla materia, come credevano gli antichi (1). Ciò che si dice della materia del tutto informe, si deve dire altresì dei generi di materia, che è il sesto dei concetti sopra enumerati; perocchè non è che l' acqua in più gocce si moltiplichi, essendo in ciascuna tutta la sostanza dell' acqua espressa colla parola acqua; ma bensì si divide in parti, giacchè quella parte d' acqua che è in una goccia, non è nell' altra. Onde avviene della materia, o del tutto uniforme o formata solo genericamente, il contrario di quello che avviene dell' anima, che si può moltiplicare e non dividere . La forma dunque dei corpi, la forma compiuta a cui risponde la specie, è formata da tutto il gruppo di quelle sensazioni rappresentative, che si riferiscono allo stesso fondamento sensibile, e però allo stesso ente; e questa forma individua il corpo. Ma questa individuazione è ella perfetta? V' è in un corpo un assoluto individuo? O pensiamo noi l' individuo nel corpo con una cognizione soggettiva, per quella legge ontologica che ci obbliga a dare a tutte le cose che noi pensiamo la forma di ente, e perciò l' individualità, senza la quale non può esser l' ente? Ecco la questione che ci proponevamo. Noi l' abbiamo toccata altrove, e abbiamo detto che i corpi prendono la loro vera individualità dallo spirito a cui sono termine, ma non l' hanno in sè stessi, perchè per sè stessi, divisi dallo spirito, non sono enti compiuti, e meritano quindi l' appellazione di non enti; appellazione che li distingue tuttavia dal nulla (1). Non sussistono così staccati dal loro principio, e però sono qualche cosa dell' ente, che risponde ad un concetto astratto della mente; quando adunque si considerano i corpi come individui, ciò fa lo spirito per la legge della sintesi soggettiva . Dei corpi poi, uniti allo spirito, si può parlare in due modi: o secondo quello che noi li conosciamo per l' esperienza dei sensi, ed è questa la cognizione a cui rispondono tutti i vocaboli inventati ad esprimere le cose corporee; o secondo alcuni ragionamenti, che per lo meno hanno valore congetturale, nei quali si considerano come effetti d' un agente semplice straniero all' uomo, che dicesi principio corporeo; e sotto questo aspetto non vi è linguaggio da applicar loro con proprietà. Ad ogni modo, se è vero che questo principio corporeo agisce nel nostro spirito, e produce in esso l' effetto del fondamento sensibile e delle sensazioni di cui si veste, i corpi ricevono un' altra individualità, mutuata da questa loro causa prossima; e ciò che si potrebbe dire di questa specie d' individualità è al tutto simile a ciò che si può dire di quella individualità, che essi hanno come termini del nostro spirito. Parliamo dunque di quest' ultima. Una tale individualità, che attribuiamo ai corpi, è di due maniere, perocchè: 1 o si considerano gli elementi corporei, che noi supponiamo estesi e continui; 2 ovvero i corpi composti da questi elementi. Gli elementi corporei non hanno altra individualità che quella che viene loro: 1 dalla continuità dell' esteso che occupano; 2 dalla diversità sensibile dell' esteso da loro occupato. Ora l' individualità, che ha per fondamento il continuo, non è vera individualità, perchè non dà all' ente propria unità, giacchè anche nel continuo qualunque spazio assegnabile, essendo fuori degli altri spazi, non forma con essi un solo e medesimo essere. Quindi apparisce che il continuo non ha quella qualunque unità, che può avere solo dal principio senziente a cui è tutto presente, e che d' altra parte così appunto lo costituisce. E` dunque una sintesi soggettiva del principio razionale l' attribuire agli elementi quella individualità, che è propria solo del principio senziente . Quanto poi ai corpi composti, o sono inorganici od organati. Gli inorganici sono ancor meno degli elementi suscettibili di unità e d' individualità; ma il principio razionale gliela attribuisce, per la stessa legge ontologica secondo cui deve operare per poter pensare le cose, e per la legge psicologica della sintesi soggettiva. A tale uopo nondimeno egli è aiutato dalla composizione delle forze attrattive, che appartiene alla costituzione del mondo esterno, per la quale ogni corpo, avendo un centro di gravità, pare che abbia un' unica forza, che lo determina in una direzione o posizione. Ma poichè la sola forza o causa di moto non costituisce l' ente ed è un' astrazione, perciò quell' individualità, che si può dare ad un corpo per la concentrazione delle sue forze, non è più che un' individualità astratta e non specifica. Si troverà un miglior fondamento all' individualità dei corpi nella loro organizzazione? Rispondiamo che, o questa organizzazione si considera come effetto di forze brute, insensitive, ed in tal caso la sua unità è ancora un' astrazione; l' individualità che ne risulta è individualità astratta, e attribuita dal principio razionale al corpo nel concepirlo per la legge della sintesi soggettiva. Se poi si pone che l' organizzazione sia formata e dominata da un principio sensitivo, in tal caso si trova in questo principio sensitivo, nella sua perfetta unità e semplicità il vero fondamento dell' individuo; ma l' individuo allora non è più il corpo, ma è il composto di principio (senziente) e di termine (sentito); perocchè questo composto è veramente uno ed indivisibile. Dalle cose dette si deduce una regola per conoscere quale sia l' idea specifica, poichè risulta che è quella idea, la quale fa conoscere un ente, e un ente individuato. Acciocchè poi faccia conoscere un ente, è necessario che faccia conoscere il fondamento sensibile dell' ente, o qualche cosa che faccia l' ufficio di quello, l' ufficio di soggetto, di causa prossima, in una parola di punto d' unione di quel gruppo di qualità che lo determinano; le quali o vestono l' ente, e se ne ha l' idea specifica piena, o si astraggono ritenendo la sola relazione che ha il fondamento dell' ente con esse, e se ne ha l' idea specifica astratta. Noi abbiamo poi descritta un' altra sintesi, che fa il principio razionale guidato da quei diversi sentimenti del principio senziente, in cui si rifondono e risolvono più sensazioni diverse, rappresentanti diversi enti; per esempio, varie sensazioni recano all' animo il sentimento della gioia o della tristezza, ecc., i quali sentimenti divengono quasi il nastro, che lega insieme nel pensiero le azioni di enti diversissimi, ed è un altro fonte dei generi che si compone lo spirito umano. Ancora, lo spirito umano quando è pervenuto al suo operare libero, fa sintesi di ogni maniera, legando insieme arbitrariamente qualsivoglia complesso di cose, e considerandolo come unità; il che gli giova mirabilmente ad abbreviare i suoi ragionamenti, come si vede nell' algebra, per esempio nel calcolo delle funzioni analitiche, dove una funzione di una o più lettere rappresenta sotto l' aspetto di una cosa sola tutte le infinite maniere, onde quella lettera e quelle lettere possono essere legate seco stesse o con altre quantità; e le lettere medesime sono già una sintesi arbitraria di quante unità si voglia, e connesse insieme come si voglia, secondo il bisogno del calcolo. A fare le quali sintesi, secondo l' arbitrio, il principio razionale fa uso dei segni; giacchè uno di essi può rappresentare molte e varie cose, secondo ciò che l' uomo stesso ha stabilito e seco medesimo convenuto. Quindi le idee complesse, una sola delle quali può far conoscere qualsivoglia gruppo di altre idee; l' ultima delle quali è l' idea del tutto . Ma l' idea del tutto non è arbitraria, ma ha il suo fondamento in parte nell' unità dell' essere universale, fuori del quale non è cosa alcuna, come osservava Parmenide (1). Non si può dire che egualmente si fondi nell' organismo dell' universo, perocchè l' uomo potrebbe pensare al tutto, anche se l' universo non fosse organato od assembrato, com' è, quasi in un solo grande essere. D' altra parte l' universo propriamente non è il tutto assoluto, ma solo il tutto relativo . Le idee dunque degli enti, siano specifiche sieno generiche, si vanno formando dall' uomo secondo quel modo limitato, nel quale egli con essi comunica pel sentimento; e in questo lavoro l' uomo è limitato da certe leggi, parte cosmologiche, venienti a lui dal termine del suo sentimento, parte psicologiche, venienti dall' anima che si lascia volgere, secondo la sua natura, a rispondere a quei termini che gli sono presentati. I termini poi del sentimento non porgono al senso gli enti, ma dei segni che li rappresentano al principio razionale, cioè delle azioni ed effetti, che ricevono l' indole e il carattere loro dalla natura dello stesso recipiente, cioè dall' anima, che ne è la vera causa efficiente, quando gli agenti da lei diversi non sono che cause eccitatrici . Non è dunque l' uomo col sentimento naturale in comunicazione diretta cogli enti in sè, coi quali non comunica che per via d' intelletto. Dovendo dunque l' intendimento conoscere gli enti (poichè l' ente è l' oggetto suo proprio) dai segni loro rappresentativi, egli non può andar più là nella cognizione di essi di quello che tali segni lo possono menare; è dunque limitato nel suo conoscere a cagione della materia limitata che gli è data, su cui esercitare le operazioni razionali. Il che però non toglie che egli non possa acquistare molte cognizioni intorno agli enti di un' assoluta verità (1). Di qui si vede quanto vana sia quella filosofia che asserisce (dico asserisce, perchè non adduce prova alcuna di sue sentenze) che « l' ordine della cognizione dell' uomo risponde accuratamente all' ordine degli enti »; il che è nulla meno che trasformare l' uomo in Dio. Noi non ci indugeremo a confutare un paradosso contraddetto da tutte le più sane scuole filosofiche. Passeremo piuttosto a indicare la legge dell' analogia soggettiva . La quale è una nuova limitazione, che si aggiunge all' umano conoscimento. Perocchè, se la stessa cognizione di quelle cose, di cui l' uomo ha la percezione sensibile, tiene tanto di limitato e di soggettivo, quanto sarà più accorciato il passo all' intendimento, quand' egli toglie ad argomentare e ragionare di ciò, di cui nulla gli accenna il sentimento, niuna percezione gliene porge? L' analogia ha luogo, appunto, circa quegli enti coi quali il sentimento non comunica immediatamente, e dei quali perciò l' uomo non riceve azione, modificazione, effetto alcuno. Di tali enti che cosa può l' uomo conoscere? Noi dividemmo tutte le cognizioni umane in due grandi classi, che chiamammo di intuizione e di predicazione . Quanto all' intuizione pura e sola, ella non ci fa conoscere che l' essere in universale. La predicazione poi suol cominciare dalla percezione sensibile dell' ente sussistente. Avendo questa, noi conosciamo la sua forma nella specie, cioè nell' essere universale limitato dall' effetto sensibile che a lui si rapporta, e la sua sussistenza nell' affermazione . In appresso analizziamo la forma e la materia, ne conosciamo gli astratti e le parti. Appresso ancora sintesizziamo; e in fine, confrontando più esseri, ne rileviamo le relazioni di vario genere. Ora, se non ci è data la percezione, ci manca il fondamento di tutto questo lavoro. Che cosa può tener luogo di questo fondamento? Dei vocaboli o altri segni, che non hanno alcuna virtù rappresentativa dell' ente di cui si tratta; delle relazioni ontologiche degli enti percepiti coll' ente non percepito, la cui notizia s' indaga. Ora questi enti, che non cadono nella percezione umana, sono di due maniere: 1 altri non cadono nella percezione umana per accidente, come se un uomo fosse tenuto all' oscuro tutta la vita sua, sicchè non avesse mai veduto luce e colori, ovvero fosse nato cieco; 2 altri non cadono nella percezione umana, perchè alieni e lontani dagli umani sensorii o dall' umano sentimento naturale, quali sono gli spiriti puri. Rispetto alla prima classe di questi oggetti, non hanno luogo le relazioni ontologiche se non mediante i vocaboli, perchè essendo essi esseri contingenti, che l' intuito dell' essere in universale e necessario non può rivelare, non rimane altro mezzo di cognizione che i segni non rappresentativi . Tali sono i vocaboli, di cui si compone il discorso di colui che ragiona di colori ad un cieco, i quali non rappresentano a lui i colori per modo veruno. Che cosa dunque dicono al suo intendimento? Quello solamente a lui fanno intendere dei colori che questi hanno di comune coi suoni, e con altri sentimenti o enti sensibili dal cieco percepiti. Ma questo elemento comune è così poco che non costituisce una similitudine, ma una analogia . Che cosa è dunque l' analogia? che sfera di cognizione comprende? - L' analogia non è fondata nel sentimento, ma nella proporzione . Infatti fra gli enti specificamente diversi vi sono sovente proporzioni eguali; il grande, il piccolo, il semplice, il molteplice, e la maggiore o minore moltiplicità o numerosità, ecc., costituiscono delle proprietà che riguardano gli enti, non in quanto sono percepiti e sentiti, ma in quanto sono enti o di un dato genere di enti, per esempio, del genere dei contingenti; e questi caratteri, o note generiche ed ontologiche, non stabiliscono una similitudine fra gli enti, ma appunto quello che si dice analogia . I segni adunque non7rappresentativi danno di tali enti una cognizione analogica, per la quale l' uomo contemporaneamente acquista la cognizione della sussistenza di essi; non acquista la cognizione della loro forma positiva, ma in luogo di questa, di alcune determinazioni, sufficienti per non confondere l' ente con altri, che si possono dire una forma analogica vicaria della positiva. Il somigliante dicasi degli angeli, che sono pure esseri contingenti; se non che di questi, essendo enti completi e non accidenti come i colori, si possono raccogliere altresì gli effetti; ma non gli effetti immediati e rappresentativi, come sono quelli che fanno sentire l' immediata azione dell' ente nel sentimento, la quale azione a noi lo rappresenta; ma gli effetti mediati ed esterni, dai quali argomentiamo la sussistenza, e alcune doti o potenze. Ora poi tali effetti si sogliono riferire a potenze simili a quelle di cui abbiamo positiva cognizione, salvo a concepirle di maggior efficacia, se gli effetti, non differendo di specie, differiscono di ampiezza da quelli che osserviamo avvenire nella natura. Non potremmo però assicurarci dell' esattezza di questa similitudine, giacchè noi sappiamo che talora vi sono di quelle cause, dette dagli antichi equivoche, le quali non serbano coll' effetto somiglianza se non virtuale ed eminente. In tal caso il concetto di tali cause o potenze non potrebbe essere, per noi, se non analogo alle cause o potenze conosciute positivamente. Ma per ciò che riguarda la cognizione dell' essere assoluto ed infinito, cioè di Dio, essa ci può venir da tre fonti: Dalla rivelazione; e questa, ove prescindiamo dall' interno lume di grazia, non ci dà che una cognizione analoga, perchè il mezzo onde ci viene comunicata è quello dei vocaboli, cioè di segni non7rappresentativi. Dagli effetti, cioè dalla creazione, ecc.; e questi ancora non ci danno che una cognizione analoga, non vedendo noi il modo dell' operare, e solo sapendo per argomentazione ontologica che qui la causa è equivoca al suo effetto, e sopra eminente. Dal ragionamento ontologico; e questo ci dà ancora delle cognizioni analogiche di Dio; ma nel tempo stesso che ci dimostra che tali cognizioni sono meramente analogiche, e però del tutto insufficienti a farci conoscere l' Essere supremo positivamente, ci dimostra di più che, come degli enti da noi conosciuti la cognizione positiva che possiamo avere è quella per la quale: 1 conosciamo l' essenza per via di specie; 2 e conosciamo la sussistenza per via di sentimento e di affermazione; Iddio all' opposto non è conoscibile positivamente nè nell' uno, nè nell' altro modo in separato; ma vi deve essere un terzo modo di visione o apprensione intellettiva, della quale non ci è dato esempio in natura, il quale è di sì fatta indole che nell' idea stessa percepiamo la sussistenza. E` dunque da distinguersi due operazioni, che fa la nostra mente rispetto all' Essere supremo; il formarsene una cognizione analogica, e il conoscere che ella è inadeguata e imperfetta; il che è il più alto e vero conoscimento che si possa avere di Dio naturalmente. Ma dichiariamo meglio questa cognizione analogica . Primieramente è da stabilire che Iddio non è intuìto dall' uomo per natura. Chi dice altramente, cade in un errore opposto alla rivelazione, la quale dice di Dio, « quem nullus hominum vidit, sed nec videre potest (1), » ed alla scienza teologica, che insegna noi non sapere di Dio ciò che egli è, ma solo che egli è, e quindi neppure sapere che egli è senza indurlo per dimostrazione (2); opposto altresì al comune senso e alla filosofia, la quale trova bensì necessario a spiegare le cognizioni umane che l' uomo conosca che « cosa sia essere », e però che abbia l' intùito dell' « essere », ma non più, non l' intùito del Primo Essere. Onde il sommo filosofo e teologo d' Italia scrive; [...OMISSIS...] , e riconosce che la virtù o potenza intellettiva non sarebbe, se non avesse in sè una cotal similitudine di Dio (4), che non è Dio, ma bensì l' essere in universale, che acconciamente si può dire simile a Dio, non come due enti reali sono simili, ma come sono simili l' ente reale e la sua essenza ideale che lo fa conoscere; perocchè la realizzazione dell' essenza può dirsi simile alla sua essenza, ma più propriamente direbbesi che l' essenza ideale è la similitudine dell' ente realizzato, onde per quella e in quella questo si conosce (5). Escluso adunque l' errore che l' oggetto dell' intùito naturale sia Dio, rimane a vedere quali possono essere le cognizioni, che noi ci procacciamo naturalmente di questo essere superiore alla natura. L' essere in universale, in quanto è intuìto dall' anima, niente ci fa conoscere di reale, di maniera che con esso solo neppure sapremmo che una realità esistesse. Di più, essendo egli lume semplicissimo ed uniforme, niente in lui si distingue, neppure le idee elementari; giacchè tutte affatto le idee, eccetto quella dell' essere, si riducono sempre a rapporti che le cose reali hanno coll' essere ideale, e a rapporti di rapporti, e ad astratti di tali rapporti, trovati per via di sguardi diversi dello spirito. Conseguentemente anche i primi principŒ del ragionamento, che sono idee applicate, non sono dall' uomo posseduti per natura, ma formati col riferire gli enti reali all' essere in universale. Quindi è che le somme idee ed i sommi principŒ stessi tengono di quella limitazione che hanno gli enti reali, onde sono originariamente cavati pel lavoro del nostro spirito; e gli enti reali sono quelli che noi percepiamo col sentimento, e prima di tutto gli enti corporei. Il solo essere in universale non ha limitazione alcuna, ed è quello che dà all' uomo la facoltà di conoscere le limitazioni delle sue stesse idee, e di non cadere nell' errore di credere illimitato ed assoluto quel sapere che è limitato e relativo; il che assicura all' uomo il possesso della verità. Pigliamo ad esempio alcune delle idee più generali, che si convertono poscia in principŒ direttivi del ragionamento. Essenza e sussistenza . - Le cose tutte che cadono nella nostra percezione, essendo contingenti, non hanno la loro sussistenza nella loro essenza, e perciò si possono pensare e tuttavia non sussistere. Quindi accade che ogniqualvolta noi pensiamo l' essenza, ne pronunciamo il vocabolo, non intendiamo d' inchiudervi la sussistenza, ma poniamo quella senza di questa. Noi non abbiamo altro concetto dell' essenza di una cosa che questo, e però non abbiamo altro linguaggio. Quando adunque pensiamo a Dio, che non cade nella nostra percezione, noi gli applichiamo il concetto così limitato dell' essenza, ed il concetto pure così limitato della sussistenza, e ragioniamo di lui secondo l' analogia di tali entità conosciute. Non avendo dunque un vocabolo che esprima l' identità dell' essenza e della sussistenza, il quale solo sarebbe proprio ad esprimere l' Ente supremo, noi siamo costretti ad applicargliene due imperfetti, ed in tal caso dobbiamo parlare dell' essenza divina e della sussistenza divina in separato, come fossero due cose; nè possiamo attribuire senza errore all' essenza divina quello che spetta alla sussistenza, nè viceversa, benchè in Dio siano una cosa sola. Quindi, osservano sapientemente i teologi, si può bensì dire con verità che « Iddio (sussistenza, sussistente persona) genera Dio (un' altra sussistente persona) », ma non che « la deità (l' essenza) genera la deità (un' altra essenza) ». Questo secondo detto verrebbe a porre più Dei, laddove il primo non pone che più persone, perchè la parola sostantiva Dio, presa per sussistenza, riceve il valore di persona. Vero è che poscia il ragionamento ontologico (quello che si fa raffrontando all' ente in universale i ragionamenti da noi fatti coll' aiuto delle idee derivate) corregge il nostro limitato pensare, e dimostra imperfetto il nostro linguaggio; ma esso non ha niente a sostituire; ci protegge dunque dall' errore, ma non ci somministra perciò altre idee ed altri vocaboli accomodati alla divinità, coi quali potessimo ragionare di essa accuratamente; onde noi rimaniamo sempre nella necessità di prendere questa via tortuosa: 1 di ragionare di Dio colle idee imperfette ed analogiche cavate dalle contingenti nature, le sole che abbiamo; 2 di riconoscere poscia che questo nostro discorso è imperfetto, limitato, inadeguato, senza poterlo tuttavia mutare in un altro perfetto, illimitato, adeguato al grande argomento (1). Essenza generica, essenza specifica astratta, essenza specifica piena (formata, individuata). - In Dio non cadono queste distinzioni, ma le idee colle quali noi ragioniamo (e non ne abbiamo altre) appartengono sempre all' uno od all' altro di quei tre modi. I vocaboli pure con cui ragioniamo, segnano quei tre modi di idee. Dunque, anche ragionando di Dio non possiamo a meno che usare di tali vocaboli e di tali idee, al tutto inadeguate e discordi dall' essere divino. Sapienza, bontà, potenza, ecc., sono idee generiche esprimenti le perfezioni astratte degli enti; deità è idea specifica astratta; Dio come nome comune è essenza specifica, piena, individuata; preso come nome proprio è sussistente persona. Ora con queste idee l' uomo ragiona dell' Essere supremo, e applica a lui i vocaboli che le esprimono. Ma in Dio propriamente non vi è nè alcuna essenza generica, nè essenza specifica o astratta o piena; egli è un essere sussistente, semplicissimo, senza divisione di sorte. Questa divisione nondimeno ve la poniamo noi, applicando a lui quelle idee cavate dalla percezione degli enti contingenti, nei quali cadono tali distinzioni reali, che quelle idee distinte e separate l' una dall' altra fanno conoscere. Non avendo noi quaggiù altro mezzo di conoscere che l' uso di quelle idee, siamo costretti di tentare con esse di conoscere anche Dio, e in parte lo veniamo a conoscere veramente; perchè sopraggiunge il ragionamento ontologico, il quale ci dice: 1 che ciascuna di quelle perfezioni che sono separate fuori di Dio, in Dio sono lo stesso Dio (1); 2 che la deità, che noi concepiamo come una forma astratta, in Dio è lo stesso Dio sussistente (2); 3 che finalmente Dio, che suol prendersi da noi per un nome comune, onde viene applicato dagli uomini a più esseri benchè falsamente, non esprime una specie, ma sì bene un vero essere sussistente. Ma il ragionamento che ci dice che così deve essere rispetto all' Essere supremo, non ci spiega però come ciò sia, vale a dire non ci mostra nessuna perfezione sussistente, nessuna specie astratta sussistente, nessuna specie piena sussistente; onde ci dice quello che Iddio non è (non essendo nulla di diviso in genere, specie e sussistenza), ma non ci dice già quello che è: « una sussistenza, che nella sua semplicità racchiude ciò che ha la specie ed il genere »; non ci mostra, non ci fa percepire, pensare una tale sussistenza, più che la definizione del colore lo faccia pensare al cieco; ci mostra i termini, ma non il loro nesso, nel quale consiste l' essere divino. Questi sono principŒ comuni presso i teologi ed i filosofi più famosi; e come sono immutabili, così provano che è contrario alla fede cattolica, non meno che al filosofico ragionamento quel sistema, il quale insegna: Che l' ordine delle nostre concezioni è perfettamente eguale all' ordine delle cose; il che non si avvera per le cose divine, e per tutte quelle di cui non abbiamo percezione. Che Iddio sia l' oggetto del naturale intùito della mente umana, nel qual caso la mente umana potrebbe avere concezioni adeguate all' Essere supremo. Questi due principŒ sono due errori gravissimi in sè, gravissimi nelle loro conseguenze, l' una delle quali è il panteismo. Concludiamo: Intorno a Dio ed alle cose che non cadono nella nostra percezione noi siamo obbligati, per legge soggettiva del principio nostro razionale, a ragionare secondo l' analogia delle cose da noi percepite. Questo ragionare ci conduce ad una scienza negativa e limitata, ma verace, non falsa. Per arrivare a questa scienza, l' unica che di tali cose possiamo avere, dobbiamo pigliare le nostre idee, mezzo del nostro conoscere, tali quali sono, senza confonderle od alterarle ad arbitrio; così pure dobbiamo usare i vocaboli in corso per quel che suonano, secondo l' importante documento delle scuole che: [...OMISSIS...] . Finalmente il ragionamento ontologico è quello che ci avvisa della limitazione e imperfezione di quella nostra scienza, e così ci protegge dall' errore; perocchè non erra colui che, avendo una cognizione limitata e imperfetta, sa ch' ella è tale, e non la piglia per cognizione positiva e perfetta. Ed è solo questo che riesce perfettamente conforme alla verità assoluta, sicchè l' ordine degli enti risponde a ciò che quest' ultimo ragionamento pone nella mente nostra; ma egli è poco, abbastanza tuttavia, di nuovo lo dirò, per evitare l' errore, abbastanza perchè possiamo usare delle altre cognizioni nostre imperfette a nostro prò, senza alcuno inganno. Come noi abbiamo ridotte le leggi cosmologiche, cioè quelle che impone la natura e l' ordine del mondo al principio razionale, a due, cioè a quella della mozione e a quella dell' armonia, così parimente possiamo ridurre a due le leggi psicologiche corrispondenti alle medesime. Perocchè noi dicemmo che nell' operare del principio razionale parte influisce il termine eccitatore, parte la propria attività del principio eccitato. Onde in quanto questo principio, ricevuta la mozione, vi aggiunge del suo, egli opera secondo la legge della spontaneità; in quanto, ricevuti gli elementi armonici dal mondo, egli contribuisce di nuovo qualche cosa del suo vigore a rendere il proprio operare armonico e a goderne, in tanto manifesta una legge di armonia in sè medesimo, che compie ed informa l' armonia del mondo; e questa nominiamo psichica affine di distinguerla da quella quasi materia armonica, che riceve dal diverso da sè. Della legge adunque della spontaneità dovendo noi ragionare, non ci fermeremo a descriverne la natura, il che facemmo altrove (1); bensì toccheremo di quei caratteri ed accidenti più speciali e più sfuggenti all' osservazione, che ella manifesta negli atti suoi. Dei quali accidenti i più importanti a considerarsi sono questi due, che la spontaneità opera talora nell' uomo in occulto, cioè senza che egli ne abbia consapevolezza, e che il termine della sua attenzione razionale è quel solo di cui l' uomo s' interessi, e di cui facilmente si renda consapevole. Con questo ragionamento noi completeremo ciò che abbiamo detto innanzi della coscienza. Ivi vedemmo che il solo essere ideale, intuìto dalla mente, non dà all' uomo coscienza di sè, e che alla formazione di lei si esige uno stimolo o termine reale (1). Questa è la prima condizione, ma non è sola. Ne abbiamo aggiunta un' altra, avvertendo che alla formazione di lei è uopo che il principio umano attiri l' attenzione razionale su di sè, per qualche bisogno che ne esperimenti, il quale bisogno è « l' istinto di compire un' azione incominciata ». Nè si può dire che l' uomo dovrebbe tosto essere mosso a formarsi la coscienza di sè medesimo, perchè gli è cosa piacevole; giacchè la privazione di un piacere naturale non è ancora un bisogno, nè il piacere diviene bisogno fino a tanto che non se ne ha esperienza. Continuando, noi dunque osserveremo: Che la coscienza non appartiene alla scienza d' intuizione , ma a quella di predicazione . Che l' attività razionale ha due gradi; pel primo l' uomo gode della verità (quando è privo di coscienza), pel secondo l' uomo gode del possesso della verità (quando ha la coscienza di possederla). Quello che si dice del godere si deve dire del sapere; pel primo grado l' uomo conosce la verità, pel secondo l' uomo conosce di conoscere la verità (ne ha la coscienza); quel che si dice della verità si deve dire altresì di ogni bene e di ogni male: pel primo gode il bene e soffre il male, pel secondo gode del godimento del proprio bene, soffre della sofferenza del proprio male. Questi due gradi costituiscono due stati diversissimi dell' uomo, e non poco difficili a distinguersi; il filosofo è l' uomo della riflessione e della coscienza, onde facilmente si ferma a questa, e disconosce ciò che è nel sentimento anteriore e che non passa nella sua coscienza. Consegue che nell' uomo vi sono due principŒ di azione; coll' uno di essi egli tende ad unirsi al suo termine e a godere di lui; coll' altro tende a conoscere ed a godere dell' unione col suo termine, ossia ad avere la coscienza del suo proprio godimento. Il primo di questi due principŒ di azione e gradi di attività costituisce la vita diretta dell' uomo; il secondo costituisce la vita di riflessione . L' uomo che vive la vita di riflessione, costituito nel secondo grado di attività, operante col secondo dei suoi principŒ attivi, è immedesimato con questo principio, perocchè « l' uomo è attualmente il principio che opera ». Quando opera col primo principio, l' uomo è attualmente il principio diretto; quando opera col secondo principio, l' uomo è attualmente il principio riflesso; perchè l' uomo operante è sempre il principio (1). Se dunque l' uomo nelle operazioni della vita di riflessione è il principio riflesso, qual meraviglia che l' uomo neghi il suo stato anteriore, e creda che tutto ciò che è in lui sia fornito di coscienza? Certo il principio riflesso non può sapere quello stato dell' uomo su cui non cadde riflessione; nega dunque quanto non entra nella sua sfera, quanto non è riflesso. E` l' uomo, in quanto è principio riflesso, che parla di un linguaggio compiuto, è quest' uomo che tratta coi suoi simili; la vita sociale è, nella massima sua parte, vita di riflessione. Di qui apparisce che, tolta dal mondo questa maniera di vita, gli uomini rimarrebbero dissociati, l' umano commercio sarebbe impossibile; quindi l' eccellenza di questa vita sopra la vita diretta . E pure non si deve già credere che il bene della vita riflessa sia più eccellente del bene della vita diretta. Il bene della vita diretta è bene fondamentale, è il bene stesso; la vita riflessa non è che un altro modo di godere di quel bene, che la vita diretta somministra. La vita riflessa dunque è più elevata, più luminosa, più attraente; ma non più nobile, non più preziosa della vita primitiva e diretta. D' altra parte non si deve credere che la vita riflessa si estenda sempre, o a tutti i beni (dei mali dicasi lo stesso, in senso contrario) della vita diretta. Mentre l' uomo vive della vita riflessa e sociale, egli fa moltissime azioni appartenenti unicamente alla vita diretta, di cui egli non è conscio, di cui non parla; esse incominciano in lui, e si svolgono e si compiono in un profondo silenzio; eppure sono d' immensa importanza alla sussistenza e felicità umana. Operano dunque i due principŒ attivi in presenza l' uno dell' altro, ora l' uomo è l' uno, ora l' uomo è l' altro; ma il primo opera quasi direi taciturno e nell' ombra, il secondo è loquace e si diporta per un campo aperto e luminoso. Colla quale dottrina, e con essa sola, si spiegano molti fatti umani; uno di questi è il piacere del sonno. E` indubitato che l' uomo, dopo essere stato lungamente in veglia o stancatosi con fatiche, sente il bisogno del sonno e prova un diletto grandissimo nell' abbandonarvisi. Ho trovato degli uomini che anteponevano il piacere di un placido sonno alle più vive gioie della vita. Ora che cosa è il sonno se non una funzione animale, in cui l' uomo perde la consapevolezza di sè medesimo, almeno in gran parte, e l' operare con libera riflessione? Eppure l' uomo trova diletto e nel passaggio dalla veglia al sonno, nel quale passaggio va perdendo la coscienza, e nel sonno stesso, durante il quale la coscienza è perduta. Perocchè non si può certo dire che il diletto del sonno consista nel prevedere il vantaggio che dal sonno si trarrà, quando anzi il piacere del sonno consiste nel perdere ogni previsione, la quale finchè dura nell' animo, l' uomo non dorme. Nè si può dire che il diletto si provi al sentirsi, dopo riscossi dal sonno, rifocillate le forze animali; perocchè il dilettevole stato, che segue al sonno, è un piacere appartenente alla veglia, e non è il piacere del sonno che già è passato. Quando dunque l' uomo appetisce di perdere la coscienza di sè stesso, passando dallo stato di veglia a quello di sonno, allora il piacere della vita diretta prevale al piacere della vita di riflessione, e l' uomo desidera che cessi per alcun tempo questa seconda vita per godere più pienamente della prima. Sicchè vi è un cotale equilibrio fra le due vite, un bilanciarsi del piacere e del bisogno dell' una col piacere e col bisogno dell' altra; ed ora prevale quello dell' una nell' uomo, ora quello dell' altra; di che avviene che le due vite si alternino incessantemente, che si alterni incessantemente la veglia ed il sonno. E qui viene spontanea la domanda: qual uomo è che appetisce il passaggio dalla veglia al sonno e lo stato stesso di sonno? è quell' uomo che consiste attualmente nel principio riflesso, o quell' uomo che consiste attualmente nel principio diretto? - Per accorgersi che l' uomo appetente il sonno è il principio diretto e non il riflesso, basta fare un esperimento. Nell' atto di addormentarsi l' uomo pensi a ciò che sta per avvenire in sè, pensi alla cessazione del suo pensiero riflesso, alla cessazione di quello stesso pensiero con cui sta osservando con quali passi il sonno s' inoltri; egli ne sentirà un cotal senso d' orrore. Io ho fatto più volte questa prova, e parevami sempre di paventare l' avvicinarsi del sonno come l' avvicinarsi di una specie di morte. Questo orrore era il principio riflesso che lo sentiva, prevedendo l' annientamento della sua attività; il piacere adunque del sonno non appartiene al principio riflesso, ma al principio diretto: quello ne ha ribrezzo, questo ne gode. Il che prova che l' uomo, che vive la vita riflessa, non esce perciò interamente dalla diretta; ma gode parte dell' una, parte dell' altra, benchè ne goda con attualità diverse, l' una incognita all' altra. La vita diretta e la vita di riflessione sono due attualità, che si svolgono dall' essenza dell' anima razionale; esse appartengono all' ordine degli atti secondi, non costituiscono l' atto primo, l' essenza, la virtù radicale dell' anima. Ora l' anima, essendo un ente limitato, ha una virtù radicale limitata, limitata dico, non perchè, accrescendosi i suoi termini, ella non possa crescere indefinitamente, poichè quanto a questo, che è la sua ricettività, è illimitata; ma limitata quanto al grado d' intensità, col quale ella può aderire e stringersi ai termini che le sono dati. Quindi la sua virtù, esaurendosi in una attualità, si diminuisce ad un' altra. E così potrebbe l' attività radicale dell' anima essere totalmente esaurita nell' attualità della vita diretta da riuscire nulla alla vita di riflessione; nel qual caso cesserebbe la coscienza, appunto perchè cesserebbe l' atto della riflessione. Che anzi non solo la riflessione può rimanere impedita e soppressa dall' attualità sopragrande della vita diretta, ma ben anche per un solo atto di questa vita; il che espresse Dante in quei versi: [...OMISSIS...] . E il filosofo poeta osserva che non pure nell' atto stesso, quando l' attività dell' anima è assorbita in qualche suo termine, cessa la possibilità della riflessione e della coscienza; ma anche, passato quell' assorbimento, non ne rimane memoria, perocchè la memoria attuale è un atto di riflessione sul passato; e però se nell' attualità dell' atto non vi fu riflessione, neppure passato l' atto, vi può più essere, se non forse oscura pei vestigi di quell' atto rimasti nell' anima abitualmente; onde dice: [...OMISSIS...] . Ma nella vita presente la virtù radicale e totale dell' anima, limitata com' è, quando si esaurisce in un' attualità, ivi non resta esaurita se non per breve tempo; onde stanca dell' intensità di questo suo atto, che pur le è sommamente piacevole, ritorna spontanea, aiutata però dagli stimoli corporei, alla vita di riflessione; quindi anche in questo fatto vi è una cotale alternativa fra la vita diretta e la riflessa. Di più, quella virtù radicale non si esaurisce talora in un atto solo, ma in due, in tre, in più, in un complesso di atti. Ora gli atti in cui si esaurisce, sieno molti o pochi, quando quella virtù è esaurita, già più non gliene resta da impiegare in atti di nuova riflessione; e così accade che la riflessione si rimanga limitata entro una certa sfera, lasciata libera dall' attualità della vita diretta. E qui di nuovo ci piace osservare che, essendo la spontanea azione dell' anima più che altro quella che dirige la proporzione fra il dominio della vita diretta nell' uomo e il dominio della vita di riflessione, forza è ammettere che l' uomo goda sì dell' una che dell' altra, come dicevamo innanzi, e che egli preferisca talora il diletto che trova nella diretta a quello che trova nella vita di riflessione, bramando che sia soppressa questa per dar luogo a quella; perocchè la spontaneità segue sempre il maggior diletto. L' esempio, che noi abbiamo dato a provar ciò, fu quello dell' appetito del sonno, fenomeno che appartiene alla vita animale e alla percezione razionale fondamentale; ma chi non vede che potremmo addurre egualmente degli esempi tratti dall' attività puramente razionale? E chi non conosce il fatto dell' estasi? Chi non sa che questo grado d' intensa contemplazione e d' amore compiuto è ciò che vi può essere di più dilettevole per l' uomo, essendo anzi l' estasi il grado eccedente della dilettazione? Eppure l' estasi arreca necessariamente la soppressione degli atti riflessi e della coscienza. E tuttavia l' uomo non può anelare a cosa di maggiore sua soddisfazione che a cotal sonno dell' intelletto e dello spirito assorto nell' oggetto dell' estatica contemplazione, e così rapito a sè stesso, quasi in una piena oblivione, in una cotal deliziosissima morte di vita vitale pienissima. Tanto è vero che i diletti della vita di riflessione non sono i massimi, e che l' uomo nella vita presente può godere assai più del bene7oggetto che della consapevolezza di tal godimento; può anteporre di godere maggior copia di quello anche col sacrificio dell' averne coscienza. Finalmente è da osservare che l' adulto, che non può vivere interamente d' una vita diretta, siccome accade al bambino non ancora venuto all' uso della riflessione, neppure può vivere esclusivamente della vita di riflessione per molto tempo, nè tampoco per breve. Questo s' intenderà, qualora si consideri che l' atto della riflessione dicesi riflesso per rispetto al suo oggetto; vale a dire l' atto è riflesso, se il suo oggetto è cosa già innanzi pensata e non puramente sentita; quindi riflesso non si dice rispetto a sè stesso, quasi sia tale rispetto a sè. L' atto riflesso non è oggetto di sè, ma si esige un altro atto di riflessione superiore, acciocchè egli divenga oggetto. Ora, posciachè la serie delle riflessioni non può essere che limitata, quindi accade che l' ultima riflessione non ha una riflessione sopra di sè che la conosca; e così restasi incognita, senza coscienza, e però appartenente alla vita diretta. Onde nella sola riflessione non può mai esaurirsi l' attualità della vita umana; ma conviene che rimanga qualche cosa nell' uomo, su cui l' uomo non ha riflettuto, perciò incognita all' uomo stesso. Ora è da osservare questo fatto importantissimo alla spiegazione dei fenomeni della vita di riflessione, che questa facoltà non suole fermarsi che all' ultimo anello di una operazione razionale qualsiasi, nel quale termina l' attenzione, s' accumula questa virtù psicologica come nel fine che cerca e brama di conseguire. Di qui accade che gli anelli precedenti, sui quali l' operazione della mente trascorre leggermente senza fermarsi, non attirano, nè fermano l' attenzione riflessa; e così rimangono occulti all' uomo stesso che li fa, e per rendersene conto gli è mestieri di adoperarvi l' attenzione libera, colla quale bramando conoscere come proceda l' operazione dello spirito in tutti i suoi passi, egli fa che tutti divengano termini finali di lei. L' uomo volgare e comune, all' opposto, va innanzi come il viaggiatore, che tutto occupato del luogo dove deve pervenire, non bada alla strada che percorre. Il quale fatto spiega primieramente il ragionamento occulto, che spesso fa la mente umana tra sè, senza saperlo. E così i volgari pervengono a conclusioni finissime e che suppongono un lungo ragionamento, il quale essi fanno certamente e con prestezza somma, ma di cui non saprebbero rendere conto alcuno nè a sè stessi, nè ad altri, anzi non sanno di farlo, non ne hanno la minima consapevolezza. Tutta l' attenzione loro riposa nella conclusione, di cui solo lor cale, e chi volesse farli tornare sui loro passi intellettuali, essi l' avrebbero siccome uno scherzo, una scempiaggine, riderebbero di loro che si perdono in tali oziose ricerche. Può dirsi di più con tutta verità che se si considerano con attenzione filosofica i discorsi famigliari e sociali dei volgari, essi non esprimono forse la millesima, per non dire la milionesima parte di ciò che passa loro contemporaneamente per mente; perocchè tutto ciò che dicono gli uomini fra loro sono conclusioni pensate, ed ogni vocabolo esprime un pensiero, che costò molti pensieri precedenti coi quali ad esso pervennero, e pur tali di cui non tengono nè attenzione, nè memoria. Quante volte un vetturale, appena vi vede, offrendosi a servirvi dell' opera sua, vi dà dell' eccellenza o del monsignore, benchè non vi abbia mai conosciuto! Eppure quel titolo di eccellenza o di monsignore uscitogli così pronto sulle labbra, nella mente sua fu indubitatamente il risultato di questo lungo raziocinio percorso in un attimo, ed alla insaputa di lui che lo fece, e cioè: Dimostrandosi stima agli uomini e facendo lor credere di riputarli un gran che, si rendono benevoli. Resi benevoli, facilmente s' acconciano a servirsi dell' opera nostra. Se costui si serve dell' opera mia, io guadagno la mia giornata, che è quello che mi bisogna. Il titolo di eccellenza o di monsignore, che lusinga l' amor proprio, è un mezzo di mostrargli stima ed accaparrarmi la benevolenza. Dunque questo titolo mi è buon mezzo al guadagno che intendo fare. Dunque io l' adopererò con costui, che mi si fa innanzi la prima volta, sia poi egli qual voglia essere, che a me non cale. Conviene nondimeno osservare che il raziocinio, col quale gli uomini nel vivere comune e sociale ratto pervengono a quelle conclusioni, che loro importa conoscere e comunicare ai loro simili, non procede sempre nella loro mente così disteso che mantenga tutte le proposizioni o gli anelli mediati distinti fra loro; anzi la mente trova delle scorciatoie e dei compendi suoi propri, come appunto fa l' aritmetico, che per venire a capo di un' operazione inventa regole compendiose, che con un solo o con pochi passi lo conducono a trovare ciò che vuole, dove altrimenti non perverrebbe che con lungo viaggio. Nei villani, che conteggiano in sulle dita, più volte si osserva l' uso di questo ingegno. La qual maniera compendiosa di ragionare si può chiamare raziocinio sintetico; ed è un modo usato tutto dì dagli uomini nelle cose della vita. Noi toccammo altrove di quelle regole medie, che sogliono condurre i giudizi ordinari degli uomini (1). Ora queste sono appunto quelle che accorciano i raziocini e li rendono più pronti; perocchè, formate coteste regole, l' uomo le applica siccome verità già trovate e stabilite una volta per sempre, senza più darsi pensiero di loro dimostrazione, senza tornare più addietro a quella serie di raziocini che gliele ha prodotte; la funzione della fede subentra alla funzione del raziocinio. Rechiamo qualche esempio volgare. Gli stimatori della foglia dei gelsi, con un' occhiata all' albero, tosto vi dicono quanti sacchi o pesi esso ne porti; e non errano, o di una differenza minima. Come ciò? come rilevare così prontamente e sicuramente la quantità di quella foglia ad occhio, senza bilancia? Certo, se essi pigliassero a loro regola l' unità, non ne verrebbero a capo sì presto, ancorchè nella loro mente fosse ben impresso il volume, che risponde ad una unità di peso o di sacco di foglia. Non prendono dunque l' unità a regola, ma nella loro mente hanno segnati altri volumi; per esempio, essi hanno segnato qual sia il volume rispondente a dieci, a venti, a cinquanta, a cento pesi o sacchi, ecc.; onde essi applicano prontamente all' albero quella fra tali misure fantastiche che gli conviene, e trovano, coll' una o coll' altra, l' equazione che loro abbisogna, così determinandone la quantità. Lo stesso accade ad ognuno che faccia professione di misurare coll' occhio le quantità: l' architetto potrà misurare collo sguardo quanti piedi tragga la facciata d' una casa, senza sbagliar forse d' uno; il misuratore di vino saprà dire quante staia contenga una botte al primo vederla, e così di ogni altra cosa. Ma è certo, tuttavia, che questi uomini abili a misurare coll' occhio le quantità delle cose, non saprebbero spiegare a sè stessi il fatto, nè dire come fanno a venirne a capo, di quali regole o misure si giovano, perchè tutte quelle diverse misure che tengono improntate nella loro immaginazione non sono quello che cercano; sono mezzi al fine, e questo solo è l' ultimo anello in cui la loro attenzione finisce e riposa, e vuol sapere con riflessione e coscienza; del resto non cura. Per altro è da osservarsi che quelle regole medie che compendiano i ragionamenti, se non si ricevono per altrui autorità, debbono cavarsi dall' esperienza o da altri raziocini precedenti. Ed è appunto la maggiore o minore attitudine a formarsi molte di queste regole medie, pronte ai bisogni e sicure, quella che fa sì che alcuni uomini si dimostrino più sagaci, ed altri meno. E qui conviene osservare come bene spesso accada che quegli uomini, che meglio sembrano ragionare in teoria, non sempre nella pratica della vita sanno trovare gli espedienti più opportuni al fine, e il loro consiglio, che è pure ragionatissimo, riesce a male in opera; laddove altri, che non sanno a pezza rendere così chiare ragioni, siccome i primi, di loro sentenze, colgono così aggiustato che pare abbiano un cotal senso apposito, nel quale immediatamente scorgano quel che si convenga meglio di fare nelle circostanze. Il medico dotto non è sempre il più felice curatore degli ammalati; l' avvocato eloquente e sottile perde non di rado la causa del suo cliente, trattata con tutto lo sfoggio della scienza; lo stesso teologo, che consumò la sua vita nell' insegnamento della morale, vien meno alcuna volta alla cura delle malattie spirituali delle anime. Quanti, che sembravano eccellenti teorici in economia, gettarono il loro avere in imprudenti speculazioni, quando altri che parevano nei loro parlari e modi cortissimi d' intelligenza, accumularono ingenti ricchezze! Ma il senso squisito della prudenza, di cui parliamo, si dimostra poi ammirabile in alcuni nei quali meno si crederebbe, trattandosi di faccende, negozi, governi sociali. Il carattere del pensiero degli uomini teoretici e splendidi ragionatori è quello di procedere per raziocinio analitico; il carattere del pensiero degli uomini prudenti e sagaci operatori è quello di procedere per raziocinio sintetico . Il raziocinio analitico ha questo di proprio: si studia di non omettere nulla, vuole aver coscienza di ogni passo del suo ragionare, vuole persuadersi che niuna parte dell' oggetto, che prende ad analizzare, è omessa. Ma per la conclusione di un negozio, per la scelta di un consiglio, per l' invenzione di un espediente, molte di queste parti, che egli considera ed analizza attentamente, sono del tutto inutili, sono fuori del caso, perchè ciò che si cerca non è il sapere di quali parti sia composto un oggetto che si presenta alla mente, ma di sapere che cosa si debba fare hic et nunc . Quindi l' analitico ragionatore si perde e travia sovente in cose aliene dal vero scopo; e questa moltiplicità di cose che volge nella mente lo aggrava, e gli rende più difficile la soluzione del problema; arrischia ancora di omettere, nella farragine delle cose che egli considera, alcune di quelle circostanze date dal fatto, che sono necessarie ad averne una utile conclusione. Per tutte queste cause gl' incontra di riuscire ad un risultamento, o imperfetto o insufficiente al bisogno, peccante di difetto o di superfluo, benchè sappia rendere uno splendido conto di tutta la serie dei suoi pensieri. All' incontro l' uomo prudente va per via più compendiosa al suo intento, per quella del raziocinio sintetico; egli non raffronta parte con parte, ma piuttosto misura e paragona il tutto col tutto. Sta appunto qui l' artificio secreto della sua prudenza: di separare quel tutto, su cui poi si deve decidere, da ogni altra cosa impertinente, e a quel tutto così bene separato e distinto applicare quella regola media che ben gli si acconcia, nè più nè meno. Laonde la prudenza e la sagacità operativa, di cui parliamo, consiste in due abilità: 1 in quella di formarsi molte di quelle regole medie, le quali si possono applicare alla contingenza della vita e dei governi; 2 in quella di rilevare a colpo d' occhio intellettivo il nodo dell' affare, il gruppo preciso delle contingenti circostanze. Perocchè, conosciuto questo gruppo di circostanze annodate insieme, gli è poi facile trovare nell' arsenale, dirò così, della sua mente sperimentata e sagace, quella formola appunto, quella regola che le misura immediatamente, e ne somministra il retto giudizio e la prudente deliberazione a pigliarsi. Per questo nei vecchi, nei quali pare meno vigoroso il raziocinio analitico, da essi trascurato siccome meno utile o necessario, e compendiato mano mano in regole sintetiche, la prudenza suole sempre, supposte le altre cose eguali, apparire maggiore che nei giovani. Ebbero più tempo di raccogliere dall' esperienza regole medie, e di addestrare la loro attenzione a prendere colla mente il tutto della questione, separando circostanze accessorie ed inutili che talora la infrascano; il qual tutto essi possono facilmente sottomettere alle regole che gli convengono. Così rimane sempre vero che nelle menti dei prudenti e dei pratici moltissimo si fa con raziocinio occulto ed abbreviato, di cui essi non hanno coscienza; onde si suol dire comunemente che essi piuttosto con un senso pratico che colla mente deliberano: chè il raziocinio sintetico assomiglia veramente al senso, per la prontezza, la sicurezza dell' operare, e l' oscurità della via che tiene per riuscire alle sue ultime conclusioni. Dalla legge poi, che « la riflessione cade sull' ultimo anello dell' operazione razionale e non sui precedenti », seguita un' altra conseguenza, ed è che « i principŒ, che suscitano e dirigono le nostre operazioni razionali, rimangono occulti a noi stessi, se non li rendiamo liberamente termini della nostra attenzione ». Perocchè è chiaro che quei principŒ di loro natura non sono l' ultimo anello della catena dell' operazione razionale, quando anzi ne sono il primo. Quindi l' uomo per conoscere sè stesso ha bisogno di ritornare liberamente sopra di sè, ed indagare i segreti del proprio cuore: lavoro ben sovente difficilissimo, ed a compirsi quasi impossibile; onde il gran pregio della sentenza antica: « « conosci te stesso » ». I primi principŒ dell' umano operare sono l' istinto animale, in quanto egli giace nella percezione fondamentale, e l' essere in universale intuìto. L' istinto animale è principio movente, l' idea dell' essere è norma direttiva . L' uomo nello stato suo ordinario opera secondo questi principŒ, senza badare ad essi, nè sapere ond' è mosso o diretto; il che non gli cale, calendogli solo di ottenere lo scopo di sua operazione. Ma l' istinto animale si sviluppa vestendo gli abiti di diverse passioni, e così quasi moltiplicandosi. Il principio razionale, in quanto lo percepisce, l' accompagna in tutto il suo sviluppo. Lo stesso principio però con un altro suo atto, riferendo ogni cosa all' essere, trova ciò che l' essere stesso, quale suprema norma del bene e del male, disapprova, o permette, od approva, o comanda in tali operazioni. Indi il bivio. Il principio razionale si attiene allora a quanto l' essere prescrive, o s' abbandona all' istinto ciecamente o coll' istinto congiura; indi i vizi. Non basta. Il principio razionale classifica in generi i mali ed i beni; si forma così delle regole medie, ciascuna delle quali gli dimostra, gli fa conoscere immediatamente una classe intera di beni o di mali. Egli sceglie fra i generi di bene e i generi di male; e tale scelta importa l' abbracciare che egli fa « alcune di quelle regole medie »come direttive del suo operare, rigettando le altre. Questa scelta fra le regole medie, discernitrice dei beni e dei mali, quando è fatta, è il fondamento dei desideri e delle avversioni generali consentite dall' uomo. Perocchè, come l' uomo nella sua mente ha delle regole generali, così nel suo cuore ha dei desideri generali e delle avversioni generali; coi primi appetisce abitualmente e con suo consenso una classe intera di beni, o da lui riputati tali; colle seconde rifiuta abitualmente e con suo consenso una classe intera di mali, o da lui riputati tali. Così l' animo suo si trova abitualmente determinato verso certe cose in generale, e contro certe altre cose pure in generale, benchè queste determinazioni possano essere ad ogni momento mutate dall' intervento della sua libertà. Tali abiti consentiti, finchè durano nell' uomo, costituiscono altrettanti secreti principŒ di azione, secondo i quali l' uomo posto nelle circostanze si determina prontamente all' atto, quasi con una deliberazione già fatta innanzi (1). Dico che questi principŒ dell' operare umano, questi desideri generali consentiti (e ve ne hanno anche di non consentiti, che più propriamente si direbbero inclinazioni native od acquisite, e ve ne hanno di consentiti imperfettamente con diversi gradi e modi di consenso, e con diverse condizioni tacite) rimangono segreti all' uomo, fino a tanto che l' uomo non li fa oggetto di sue ricerche, e da anelli primi o di mezzo dell' operazione razionale li fa diventare anelli ultimi, sui quali l' attenzione riposi, e gliene sorga la coscienza. Si deve notare altresì che secondo la qualità di questi principŒ e regole abituali, prescelte secretamente a direzione delle proprie operazioni, variano i caratteri morali degli uomini, questi caratteri così diversi, la cui origine profonda è così difficile da investigare al filosofo. Vi sono dunque nell' uomo due maniere di cognizioni : l' una occulta a lui stesso, l' altra palese, luminosa, riflessa . La prima ordinariamente non interessa l' uomo, non gli cale di averne coscienza, ne usa come di mezzo, nè vi si ferma. E` un fatto importantissimo anche questo, che illumina il modo come in un essere essenzialmente ragionevole, quale è l' uomo, possa cadere l' errore; e come possa cadere in lui, essenzialmente morale, il vizio (2). Poichè quel fatto dimostra che dipende da lui stesso il dare interesse ed attenzione a certe cognizioni, e renderle a sè chiare e luminose; come da lui pure dipende il lasciare certe altre sue cognizioni nell' ombra, in una condizione inferiore a quelle che egli si elegge a fine, in cui perciò riposa la sua attività. Qualora dunque si supponga, a ragion d' esempio, che l' uomo, che commette errore, sia quel principio che vive della vita riflessa; qual meraviglia che egli s' inganni o che operi perversamente, se quelle notizie che potrebbero guarentirlo dall' errore, quelle regole che potrebbero proteggerlo dal vizio, non sono addotte alla luce della vita riflessa, ma lasciate quasi sepolte nella silenziosa notte della vita diretta? qual meraviglia che il principio riflesso erri e travii, se per questo principio non esiste altra cognizione che quella che gli è occasione di errore, e favorisce il vizio? E qui mi conviene far menzione d' un fatto che ho più volte sperimentato in me stesso, e che altri avranno pure sperimentato, se si sono abituati a considerare ciò che passa nel loro spirito. Questo è quel lento lavoro che fa la mente da sè stessa, pel quale le notizie e dottrine depositate nel tesoro della memoria, senza che noi vi badiamo, vanno bel bello disponendosi col tempo ed ordinandosi quasi ai loro luoghi. Quante volte non è avvenuto a quelli che si danno agli studi e specialmente alle speculazioni filosofiche, di meditare assai intorno a qualche argomento, e poi ristarsene affaticati e non soddisfatti dell' esito della meditazione? Ed ecco passato uno o più giorni, senza avere più dato a quella materia deliberata attenzione, la mente si è tutta bene aggiustata da sè stessa, e le idee appariscono ordinate sì fattamente che, svanite le difficoltà, la soluzione dei proposti problemi si fa incontro tutta spontanea e luminosa! E` vero che questo deve poter avvenire in parte anche perchè quando si medita, l' immaginazione opera e si stanca, e confonde la purità del ragionare coll' intramettere importuni e instabili fantasmi; onde, sopravvenuta la quiete, rimane netto il lavoro della severa ragione. A questo si deve attribuire anche il fatto della memoria, che una cosa studiata la sera prima di coricarsi e non appresa, si trova fresca la mattina nella mente; calmata e confortata l' immaginazione col sonno, ella rese fedele le impressioni stampatevi la sera innanzi, quando non era atta a servire la reminiscenza per stanchezza o turbamento. Del resto suole essere buona regola insegnata dai prudenti il lasciare che stanzino e maturino qualche tempo in mente le deliberazioni, le quali si vanno da sè migliorando, senza espressamente pensarci; onde il partito che si prese un tratto, anche dopo qualche tempo che non ci si pensa, riesce migliore, ha più probabilità di riuscire, non solo perchè di nuovo si esamina, ma ben anche perchè da sè si matura; operazione occulta della vita intellettiva diretta, priva di coscienza. Del rimanente, acciocchè questo lavoro continui, è uopo che vi sia la molla segreta del movimento nell' impegno e nel desiderio abituale di trovare il vero cercato, sia nello studioso che si propose la soluzione di qualche questione, sia nel prudente a cui sta abitualmente a cuore l' affare di cui delibera. Un altro lavoro mentale si opera nella mente senza riflessione, nè coscienza; il quale in parte si confonde col primo. Vi sono certi concetti, certi pensieri che per così dire si attraggono, manifestano affinità tra loro, si associano variamente (1). Ora questa affinità e questa associazione si viene compiendo nell' intendimento dell' uomo a sua insaputa; ed ecco per quali modi. Primieramente, il pensare umano trova un legame che naturalmente lo riduce ad unità nell' idea dell' essere, principio supremo di tutte le cognizioni. Questo essere sopreminente è il rettore occulto dell' umana mente, la quale essendo sempre a lui rivolta, in lui per una cotale operazione abituale vede molte convenienze fra cose conosciute, senza badarci o badandoci leggerissimamente. Questo lavoro adunque è un ritorno continuo che fa il pensiero dalla moltiplicità all' unità dell' essere. Di poi è da considerarsi che i pensieri diversi della mente umana producono nell' uomo, che è per essenza sentimento, un effetto sensibile. Ora avviene che pensieri per sè stessi diversi talora muovano un sensibile effetto, uno speciale sentimento della stessa natura; e poichè i sentimenti facilmente diventano principŒ istintivi di operazione, però quei sentimenti identici o simili dispongono l' uomo egualmente verso quella maniera di pensieri che ne sono le cause. Questo fatto viene poi aiutato dall' essersi già nell' uomo formati quegli affetti e desideri generali, che descrivemmo più sopra; i quali assomigliano ad altrettante corde musicali, che rispondono ugual tono, sia che le tocchi e pizzichi una penna di corvo o una zeppa di acciaio, od altro checchè possa essere. Dietro la guida dunque di tali affetti eccitati da diversi concetti o pensieri, l' attenzione della mente e l' attività pensante si dirige spontaneamente, e lavora sovente all' insaputa dell' uomo, che su questo fatto, che in sè si compie, non punto riflette. Gli affetti generali nell' animo umano adoperano adunque a lor prò e dirigono i pensieri, associandoli in gruppi, e chiamandoli anche da tempi lontani; onde l' uomo verrà oggi ad un pensiero o ad una determinazione, che ha stretta affinità con un pensiero o con una deliberazione di un anno fa, di cui non conservava più ricordanza; eppure quel pensiero, avuto e dimenticato da tanto tempo, è cagione del pensiero presente; perchè egli lasciò l' animo così disposto ed affezionato da dover essere proclive al pensiero presente, a cui venne tostochè gliene fu data una minima occasione. Ma quello che è più notabile si è che questi affetti abituali e generali, che si appoggiano alle regole medie di cui abbiamo detto, talora crescono da sè stessi, siccome germe che si muove sotterra, ad alto grado d' intensità, e si rinforza graduatamente la persuasione che hanno per loro base; e tuttavia restano occulti nell' animo, se l' attenzione riflessa non è punta da qualche stimolo che la rivolga ad essi; nel qual caso talora scoppiano luminosi e fin anche fragorosi; e questa è forse la cagione segreta del subito manifestarsi degli eroi, posti in circostanze consonanti colla loro disposizione interna ed occulta (1); è anche la cagione delle più tempestose rivoluzioni politiche. Il che spiega molti altri fatti dell' umanità. Perchè un poeta o uno scrittore leva grido straordinario in un tempo, in una nazione, se non perchè egli si fa interprete fedele ed ingegnoso di quei sentimenti e di quelle grandi persuasioni, che ognuno aveva in sè stesso senza saperlo, senza averne mai trovata l' espressione, perchè non vi aveva mai piegata sopra la riflessione? Onde al comparire di colui che sa eloquentemente condurre l' attenzione e la riflessione di tutti su quelle persuasioni secrete, ma potenti; che sa inventare formole acconce a dar loro un' esistenza riflessa e splendida, a farle valere per cose nobili e belle; tutti giubilano e applaudono quasi a tesoro scoperto, che possedevano essi stessi ignorandolo, e ne sono grati al genio di quel primo, che seppe dire ciò che tutti avrebbero voluto dire, se avessero saputo, e gli acconsentono e gli aderiscono. E perchè si manifesta un così subito furore nelle sedizioni, in una plebe che pareva il dì innanzi riposata e tranquilla? Era tranquilla in apparenza, perchè non sapeva gli affetti che premeva in sè medesima; era tranquilla, perchè viveva d' una vita di riflessione, e il fermento della passione covava all' incontro nel profondo della vita diretta, non si era ancora travasato nella riflessa; era tranquillo l' uomo operante come principio riflesso, perchè l' uomo come principio diretto, il quale era ardente, non è quello che si manifesta al di fuori, ma quello che prepara la mina al di dentro. Vero è che nelle sedizioni, a trasnaturare gli uomini, giova anche un altro principio: il sentire ognuno la forza di tutti, il credersi potente ciascuno della forza della massa di cui è parte, il vigore che cresce alle persuasioni dall' unanimità d' una moltitudine adunata; il che tutto insieme produce entusiasmo, orgoglio, eccitamento alla prepotenza ed all' abuso della forza. Ma questa sola causa non basterebbe, se non ci fossero negli animi delle interne ed occulte disposizioni uniformi, preparate di lunga mano innanzi, delle opinioni, delle affezioni generali, che in tutti armoneggiano e cospirano a produrre quello scoppio, che per la sua subitezza e grandiosità rapisce a sè la ragione e la conturba, e così si volge facilmente in vertigine, in furore crudele. Se questa circostanza manca, la sedizione non ha luogo, il popolo si disperde prima di adunarsi, o dopo essersi adunato per curiosità. Quanto poi alle rivoluzioni nazionali, la sola ragione della loro riuscita è la disposizione segreta delle menti e degli animi delle masse; la quale se vi è, al primo inalberarsi d' una bandiera si rivela il pensiero di tutti. E come niuna rivoluzione ottiene lo scopo per cui è mossa, senza tale disposizione secreta precedentemente accumulata negli animi, così tutte le rivoluzioni, che a nulla riuscirono a malgrado del valore anche eroico e del sacrifizio più magnanimo di alcuni individui, fallirono unicamente perchè nella vita diretta del popolo, quasi arsenale della forza, la riflessione eccitata non trovò le armi sufficienti a farle riuscire. La legge psicologica che l' attenzione si ferma solamente all' ultimo anello dell' operazione razionale, e che la riflessione non cade se non dove si ferma l' attenzione (benchè non sempre neppur colà), e la coscienza non si acquista di quelle cose dove non cade la riflessione, è oltremodo preziosa a spiegare ancora innumerevoli altri fenomeni misteriosi dello spirito umano. Un esempio importante è quello a cui si lega in parte la celebre controversia del culto delle immagini. E` un fatto non dubbio per ogni buon osservatore che, qualora l' uomo faccia uso di un' immagine, il suo pensiero non si ferma mai all' immagine, ma va all' ente dall' immagine rappresentato. L' immagine non gli serve che di aiuto alla fantasia e di direzione al pensiero, perchè egli se ne possa andare diritto nell' oggetto assente e fissarsi in quello, a cagione della legge cosmologica della mozione che dice: « Il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita l' attenzione e la conduce agli atti del conoscere soggettivo ». E veramente chi dirà mai che un' amante, una vergine fidanzata, che si piace cotanto riguardando il ritratto del suo diletto e gli imprime mille baci, abbia lo stesso ritratto per oggetto dell' amor suo, e non piuttosto che intenda ella di rivolgere quegli atti affettuosi alla persona, che il ritratto al vivo le rappresenta? Chi dirà ch' ella sia innamorata di quel pezzo di carta o di tela inanimata, di quel freddo marmo o di quel bronzo, che ricorda le care sembianze? Se fosse così, se il ritratto fosse il vero oggetto dei suoi affetti, a lei basterebbe la presenza del ritratto, non le riuscirebbe noiosa l' assenza dell' amata persona, non l' aspetterebbe con ansia così penosa ed inquieta da contare i lunghi istanti della dolorosa privazione, non la richiamerebbe da lontano paese con tanti sospiri, con tante lagrime; ella nel ritratto avrebbe il suo bene, non vorrebbe di più. Ancora, se il ritratto è l' oggetto dell' amor suo, in tal caso, avendo ella molti ritratti della stessa persona, avrebbe molti oggetti del suo amore. Ma se voi ne la chiedete di ciò, ella se ne adonterebbe, protestandovi che l' oggetto del suo amore è unico, e le parrebbe di essere infedele amica, se lo dividesse con più. E pure accordate che ella disfoga il suo cuore, ora con un ritratto, ora con un altro. Com' è dunque che ella protesta di non avere che un unico amante, e dell' essere unico più se ne piace? Non è chiaro come il sole, che ella non si ferma alle immagini che sono più, ma al vero oggetto da tutte raffigurato? Aggiungete che i diversi ritratti non rassomiglieranno tutti egualmente al suo giovine sposo, e l' uno non rappresenterà che il suo volto, un altro la persona intera; eppure ciascuno di essi suscita a lei nel cuore gli atti del medesimo amore. Anzi questi si accendono in lei non pure alla presenza di un ritratto, ma ancor di una lettera, che bacia egualmente e la si stringe egualmente al seno, di un regaluccio, di un segno qualsiasi di lui, o tale che le rappresenti il solo oggetto degli ardenti suoi voti. E che il ritratto sia mal dipinto e deforme talora non bada, perocchè ad essa basta se con esso può rammentarsi l' oggetto, in cui spera trovare la sua futura felicità. Il che tutto dimostra che sarebbe una pazzia il credere che nel ritratto o nel segno finisse e riposasse il pensiero dell' amorosa fanciulla; che anzi egli ha un termine solo al di là del ritratto, termine che è l' ultimo anello dell' operazione razionale, in cui riposa l' attenzione e la riflessione di lei, laddove il ritratto non è che l' anello di mezzo, su cui il pensiero passa rapidamente senza fermarsi. Conviene nondimeno far qui un' osservazione. Il principio razionale nelle diverse percezioni non fa che svolgere, specificare, attuare la percezione fondamentale . Questa, e di conseguente tutte le percezioni acquistate, hanno un sensibile7corporeo e un intellettivo, dei quali il principio razionale, uniente l' animalità e l' intelletto, fa un termine solo, che è il termine della percezione. Indi, allorquando non si percepisce l' oggetto per sè, ma per via d' immagine e di segno vicario, allora per la stessa legge della percezione il principio razionale suol comporre il termine della percezione: 1 del segno vicario7sensibile invece che dell' azione7sensibile dell' ente; 2 dell' elemento intellettivo; e così individua in qualche modo il segno sensibile coll' ente stesso, che è nel concetto intellettivo. Di che nasce che sebbene l' oggetto intellettivo sia il vero e reale oggetto, tuttavia a lui viene associato intimamente il segno per guisa che egli pare formare una cosa sola con esso; ond' è nel segno che l' intelletto lo vede e lo contempla, in un modo del tutto simile a quello in cui vede l' ente nelle sensazioni. Perocchè, quantunque le sensazioni non siano l' ente pensato dall' intendimento, tuttavia nell' atto della percezione esse sono quelle che vestono l' ente e lo determinano; e cosa simigliante avviene, quando si percepisce un uomo o altro ente per via d' immagine. E però non può farci più meraviglia, conoscendo bene questa teoria, se le nazioni anteriori a Cristo o non illuminate da Cristo, in cui la forza dell' intelletto era debole, potentissima l' immaginazione e la sensualità, e lo sviluppo intellettivo delle quali non s' allontanava molto dalla percezione, accoppiando e confondendo il segno colla cosa segnata, cadessero nell' idolatria; non già adorando le pietre, i sassi e le varie immagini degli animali come tali, ma ad esse congiungendo individuamente certe virtù superiori e divine, che erano il vero oggetto intellettivo a cui si riferiva il loro culto; trasnaturando quindi appresso in altrettante divinità gli esseri naturali ed artificiali, ossia deificando la creatura. Perocchè, se essi non avessero aggiunto col loro pensiero qualche cosa di divino alle statue o ad altri enti materiali, non li avrebbero mai adorati. L' antica idolatria, dunque, consisteva non già nell' adorare unicamente il segno o l' immagine (il che è impossibile all' uomo per la ragione detta, che egli non può fermare l' attenzione in ciò che è anello di mezzo di sua operazione razionale, quale è per sè l' immagine e il segno), ma nel convertire coll' immaginazione ciò che è segno ed immagine in oggetto, associando e individuando colle materiali forme l' oggetto divino per un errore del pensiero; e così adorando quelle nella persuasione che fossero questo o la parte visibile di questo. E a facilitare e compire questo errore degli antichi popoli si aggiungeva il vedere la materia dell' universo piena di forze, le quali non potendo essere lei stessa perchè inerte, dovevano supporre che fossero virtù occulte oltremodo potenti; raziocinio non sbagliato, col quale noi trovammo la necessità di un principio corporeo, benchè gli antichi errassero nel deificarlo. Di qui l' adorazione dei genii, degli angeli, che è quello che dice anche la divina Scrittura, « omnes Dii gentium daemonia ». La Mennais pretendeva a torto di dimostrare che i gentili non fossero veri idolatri, perchè riferivano alla virtù e potenza divina il loro culto, e non lo finivano nelle immagini dei loro idoli. Oltre di che è da distinguersi fra quell' immagine o quel segno, che è destinato a chiamare la nostra attenzione su un oggetto assente, ma sensibile, da noi altre volte percepito, come è il caso della vergine fidanzata, che vagheggia il futuro suo sposo nel ritratto che ella tiene innanzi agli occhi; e quell' immagine o segno, che è destinato a chiamare la nostra attenzione in un oggetto invisibile e spirituale, come sarebbe la divinità. Nel primo caso non vi è alcuna cagione di confondere il segno colla cosa segnata, perchè la cosa segnata, sensibile anch' essa e immediatamente conosciuta, si può immaginarla qual' è in sè stessa, e ben accorgersi quanto ella sia dal segno diversa. E quand' anche non si avesse percepita la cosa identica, ma altri individui della sua specie, sarebbe da dire il medesimo. Così niuno confonderà il ritratto di un uomo coll' uomo, benchè quest' uomo non l' abbia veduto giammai. Ma trattandosi di esseri invisibili, quando un segno sensibile conduce ad essi il nostro pensiero, noi vorremmo pure fissarli in sè; e per fissarli avremmo bisogno di trovare in essi qualche cosa di sensibile per la legge della mozione di sovra esposta, che « il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita e trattiene la sua attenzione ». Non potendo adunque (se non con estrema difficoltà e in virtù del libero pensare) affissare l' attenzione nell' invisibile senza dargli qualche sensibile vestimento, accade che l' uomo rozzo attribuisca a lui la forma che vede nel segno, e così il simulacro dell' idolo diviene facilmente la forma attribuita al Dio adorato. Ma quelle nazioni, che ai simulacri degli Dei concedevano forme umane, caddero insieme coll' idolatria nell' antropomorfismo . E considerando che negli antichi popoli l' intendimento operava spontaneo, ed il pensiero libero o non era per ancora sviluppato o assai poco, chiara apparisce la ragione perchè Iddio divietasse agli Ebrei il figurare la divinità con pitture e con statue; nello stato di quelle menti ancora fanciulle dovendo essere facilissimo, per non dire inevitabile, lo sdrucciolare ai due errori, di cui abbiamo indicata la naturale origine, dell' idolatria e dell' antropomorfismo. All' incontro, che il libero pensare possa evitare cotali errori ovvero riconoscerli per errori, il che è tutt' uno, lo dimostra questo fatto: che allorquando in quel memorabile secolo VI avanti Cristo cominciò l' ingegno italiano a filosofare, una delle prime verità, che gli si pararono innanzi, si fu la falsità delle forme umane e dei costumi umani dalle plebi attribuite agli Dei. E questo fu il pensiero di Pitagora e di Senofane (1); del quale ultimo sono a noi pervenuti questi versi: [...OMISSIS...] . L' ordine è posto dalla divina sapienza nel mondo. Ma quell' ordine non è nel mondo e pel mondo isolato dallo spirito; anzi è ordine nello spirito e per lo spirito, nel quale il mondo esteriore riceve quel compimento sostanziale, pel quale da non ente diviene ente. L' ordine adunque nel mondo isolato dallo spirito non è ancora ordine, ma è iniziamento all' ordine, che si trova poi nel mondo esistente nello spirito. Laonde alla legge cosmologica dell' armonia deve seguire la legge psicologica che la compisce; sono due parti della stessa legge, due relazioni reali in cui lo stesso oggetto si considera (2). E fu per questa connessione appartenente al sintesismo della natura che noi, parlando della legge cosmologica dell' armonia, dovemmo entrare in parte nella trattazione del quesito: « che cosa contribuisca l' anima del suo a mettere in essere l' armonia »; ma colà ci limitammo a parlare dell' anima sensitiva, come quella che riguardata in relazione al principio razionale appartiene al mondo, cioè al termine di esso principio razionale, chè il sentimento animale ed il sentito è veramente termine naturale all' umana intelligenza. Ora noi dobbiamo dunque continuarci a vedere che cosa ponga l' anima, in quanto è razionale, nella costituzione dell' armonia; il che compirà in qualche modo la questione propostaci. Senonchè non potremo trattare dell' armonia razionale, senza intramettere altre cose intorno all' armonia animale che vi si mescolano, argomento sempre nuovo d' inesausta ricchezza. E` un fatto che tutto tende ad operare regolarmente, e che il principio razionale si compiace della regolarità. Onde questa legge? Onde questa tendenza? La regolarità può considerarsi nell' operazione che si eseguisce (regolarità soggettiva), e nell' oggetto che si contempla (regolarità oggettiva). Onde nasce la regolarità soggettiva, la tendenza e il piacere di operare con regolarità? Questo piacere e questa tendenza è comune al principio sensitivo ed al principio razionale, anzi è legge generalissima di tutti gli agenti che passano dalla potenza all' atto, e che quindi hanno degli atti transeunti in sè stessi. Quale ne è dunque l' origine? da quali cause procede? Le cause, per le quali ogni agente si piace della regolarità nelle sue operazioni, sono tre, che insieme concorrono a produrre tale effetto: L' ordine naturale col quale ogni agente è costituito. La legge che determina il modo dell' operare spontaneo. L' unità dell' agente. Consideriamo ciascuna a parte. Qualsivoglia ente semplice ha un ordine intrinseco, senza il quale non sarebbe ente. Di più, ogni agente della natura composto di più elementi, dalla sapienza del Creatore è compaginato ed organato con ordine ammirando. Ora, posciachè l' ordine è nella natura dell' agente, esso deve pur essere altresì nelle potenze e negli atti di lui; l' operare adunque di ogni agente conviene che sia naturalmente ordinato. Quindi si deve trarne il concetto della regolarità naturale dell' operare degli enti; cioè quando si propone la questione: « in che consista la regolarità del loro operare », non si può già loro imporre una regolarità arbitraria; ma è mestieri desumere la regolarità loro conveniente dall' ordine in cui l' agente è, secondo natura, costituito. Di che quella regolarità apparente, che la mano dispotica del giardiniere a forza di tagli e di ferite crudeli pone nelle piante dei giardini alla francese, quando egli dà loro forma di piramidi, di colonne, di vasi, di statue, ecc., non è punto regolarità, anzi ella è uno scempio e una distruzione barbarica della loro naturale e verace regolarità. E quel che si dice delle piante si può dire egualmente dell' educazione degli uomini, perocchè anche gli uomini hanno la loro naturale regolarità, la quale si deve proteggere e sviluppare dalla savia educazione e dal buon governo, e non imporne loro una capricciosa, che è come dire, uno snaturarli. Il perchè la regolarità naturale non è di un' unica forma per tutti gli enti: essa varia in ciascuno, siccome varia la loro natura. La spontaneità nell' operare degli enti ha questa legge, che, ricevuto l' impulso, ella lo asseconda e continua il movimento nella via medesima segnata dall' impulso (1). Questa costanza di direzione è naturalmente fonte di regolarità, essendo ella cagione perchè i movimenti non deviino nè a destra, nè a sinistra. Indi è che, se durante il movimento spontaneo avviato ad una direzione un altro impulso è applicato, il quale costringa la spontaneità a interrompere il corso volgendolo altrove, l' agente prova molestia, perchè gli viene impedita di compire quella operazione a cui spontaneamente era già volto. Per la ragione dei contrari, riesce piacevole che le operazioni spontanee non sieno turbate e rotte a mezzo; giace adunque un piacere in quella regolarità di movimento, che stà nella continuazione di lei fino all' ultimo suo naturale riposo. La ragione ond' è che la spontaneità da sè stessa non cangia corso, fu da noi collocata in questo, che la legge d' inerzia si mescola con essa; e l' inerzia consiste nella tendenza al riposo, il contrario della fatica, alla quiete, il contrario del moto. Perocchè niun agente si muove se non affine di pervenire ad uno stato in cui quieto riposi. Per la stessa ragione egli non sorge giammai dal suo riposo se non iscosso da un impulso straniero che lo leva al moto, nel quale, quasi entrato a forza, si continua per trovare in fine un migliore stato di quiete, o certo una condizione di attività uniforme od immanente. Indi la spontaneità non incomincia il movimento, ma lo continua; alla quale legge non ubbidisce solamente l' animalità, ma ogni agente anche razionale, salva la libertà dell' arbitrio. E da essa dipende quella altresì dell' abitudine, che consiste nella maggior facilità che l' agente sensitivo o razionale trova in ripetere le operazioni altre volte compiute che non sia a farne di nuove. Le operazioni da lui fatte non sono cessate del tutto in lui; vi lasciarono qualche traccia, la quale è via segnata all' operazione che si ripete, onde l' istinto di pigliare la via più agevole, trovandone una ben tracciata, non assume la fatica di aprirsene un' altra tutta di nuovo o cercarla quasi a tentone. Che anzi l' operazione intera che apparentemente cessò, rimane leggermente attuata nel principio operante; rimane un disegno di lei, che ha la virtualità dell' operazione; e ad ogni nuovo leggero impulso si cangia in atto. Onde l' operare per abitudine è come un continuare l' operazione precedente, cessata soltanto in parte. Quindi regolarità puramente spontanea e regolarità di abitudine . Ma la spiegazione dell' abitudine non si ha tuttavia piena, se non si ricorre all' unità del soggetto operante. E` in questa unità che si deve collocare l' attenzione più squisita della mente. Noi già vedemmo che mediante questa unità si spiegano ottimamente quei fatti dello spirito, che Aristotele attribuì ad un preteso senso comune. Componendosi l' animalità di un termine esteso e molteplice e di un principio semplice, nel principio semplice giace l' esteso e il molteplice, e ne riceve unità. Ora il principio, essendo presente a tutte ugualmente le parti assegnabili nel continuo suo termine, può operare secondo le leggi della propria spontaneità in tutte o in molte ad un tempo, e produrvi più movimenti contemporanei. I quali movimenti debbono perciò ricevere un doppio ordine, l' uno dall' organizzazione che hanno le parti del termine esteso, l' altro dall' unità del principio che le muove e dalle leggi della spontaneità di lui, il quale, appunto perchè unico, mantiene la stessa legge in tutte quelle parti di esso continuo che egli abbraccia nella sua azione. Posciachè, dunque, sono regolarmente disposte le parti del corpo animale, e posciachè è unico il principio che le muove, debbono necessariamente aversene dei movimenti regolari. Ma non basta; vi è qualche altra cosa che conferisce alla detta regolarità; vi è la legge dell' immaginazione mirabilmente ordinata dal Creatore. Qual' è questa legge? - Eccola: « Nel cervello viene segnato in piccolo il mondo, a quella guisa che il mondo viene pure segnato nel sensorio ottico dalle impressioni luminose; e il mondo segnato nel cervello (sensorio dell' immaginazione) ha una sì fatta corrispondenza col corpo umano che quei vestigi del mondo, che stanno nelle minime areole del cervello, i quali soggettivamente considerati sono le immagini, riescono principŒ e sedi di movimenti opportuni, per sì fatta guisa che il principio sensitivo non ha d' altro bisogno a produrre i movimenti da esso appetiti che di operare in quelle minime parti estreme del cervello, donde i movimenti si propagano alle membra del corpo ». A dir vero non avviene a lui questo propriamente allo stesso modo come accade al pianista che suona, toccando i soli tasti dello strumento, oppure come al capitano di vascello che, seduto nel suo stanzino, con girare un piccolo ordigno muove e governa a sua volontà l' immenso timone della nave; no, queste similitudini che in qualche modo si approssimano, non quadrano intieramente. Perocchè il movimento che produce il sonatore immediatamente nei tasti, e quello che produce il capitano nel giuoco del timone, si propagano alle corde dello strumento ed al timone con una comunicazione di moto al tutto meccanica; laddove il principio sensitivo dall' immagine a lui presente piglia solamente eccitamento e indirizzo a fare quell' atto, che muove addirittura immediatamente le membra del corpo, tutto sensibile al bisogno del suo appetito. A ragion d' esempio, l' animale affamato prova dell' inquietudine, che è principio di movimento verso la soddisfazione dell' appetito. Ma se gli ritorna nella immaginazione quel luogo dove egli ha già sbramata altra volta la fame, e il cibo ivi trovato; l' immagine complessa dello stato suo in quel luogo, e della soddisfazione godutavi, e della strada che vi conduce, quell' immagine, che è un' associazione di più immagini fuse in una sola, in un solo sentimento, è sufficiente a suscitare in lui una quantità di forza motrice, e a determinare accuratamente quella direzione di moto, che lo porta con celerità sul luogo reale rispondente al luogo immaginario, per la corrispondenza delle immagini colle entità reali, cause delle sensazioni. E ciò perchè si tratta di confrontare sensibilmente la sensazione avuta all' immagine, fra le quali cose vi è proporzione. E vi è proporzione, perchè lo spazio, ossia l' estensione illimitata, è presente al sentimento animale e in esso ha esistenza, come abbiamo detto; e i confini, che affigurano il detto spazio, sono egualmente segnati dalla sensazione esterna e dall' immagine, due modi dello stesso sentire. I movimenti dunque del dimenar delle gambe che portano su quel luogo, dove egli si è sbramato altra volta, sono sentimenti attivi che egli fa per condurre la soddisfazione, che ha in immagine, a perfezionarsi colla sensazione : è un passaggio dallo stato di immagine (non soddisfacente), allo stato di sensazione (soddisfacente); ed i moti impressi alle gambe sono una serie di sentimenti attivi che legano quei due stati, cioè di sentimenti che partono dallo stato di soddisfazione immaginata per riuscire allo stato di soddisfazione sentita e pienamente goduta. E quella serie di sentimenti attivi e di movimenti conseguenti, essi stessi sono tracciati nel sensorio, e dietro tali traccie riprodotti. In caso contrario, cioè se non fossero stati prima sperimentati, essi possono nascere siccome altrettanti tentativi in cui vuole svolgersi lo stato molesto dell' inquietudine, fuggendo il quale, l' animale giunge, quasi a tastone, a sgombrarlo da sè e trovare la bramata soddisfazione (1). E qui si consideri che quello che noi abbiamo detto del cervello, che è unicamente « il sensorio dell' immaginazione », non del pensiero, si deve dire di ogni altro sensorio, che abbia ritentiva; perocchè i sentimenti animali non consistono puramente in immagini, ma sono molti e variatissimi (2). Noi però, affine di semplificare il discorso, non parleremo che dei movimenti che incominciano e si dirigono per via d' immagini. Dalla descrizione adunque che abbiamo fatto della maniera, secondo la quale si muove l' animale a recarsi nel luogo dove altre volte satollò il ventre, si può raccogliere: Che l' immaginazione o la ritentiva dello stato soddisfacente, che manca all' animale, è il principio del suo movimento. Che quel movimento è volto a cercare di conseguire lo stato soddisfacente immaginato, cioè di passare dallo stato di soddisfazione immaginata allo stato di soddisfazione sentita e goduta. Che questi due stati sono divisi da una serie più o meno lunga di altri stati, pei quali l' animale deve passare affine di giungere dove appetisce di giungere, allo stato di soddisfazione sentita . Che egli mosso a fare questo passaggio, tenta di percorrere la serie degli stati pei quali, passando dallo stato di soddisfazione immaginata, si conduce finalmente allo stato di soddisfazione sentita . Che gli stati intermedŒ sono quei successivi, in cui l' animale si trova durante i movimenti che egli fa per giungere a soddisfarsi, i movimenti, poniamo, coi quali si pone in via per giungere al luogo del cibo. Che se la serie degli stati intermedi non fu da lui sperimentata, nè per conseguenza segnata nel sensorio encefalico, egli è costretto a cercarla con diversi tentativi, come fa il lupo che, dopo essere qua e là vagato, finalmente si volge a quella direzione dove sente venirgli odore di ovile. Che la serie di quegli stati essendo disposta con successione, la successione stessa, che non sembra atta ad essere segnata nel cervello come successione, rimane però nella virtù del principio sensitivo per la unità e identicità di questo principio, per la quale egli sta presente alla moltiplicità della serie successiva, come è presente alla moltiplicità delle parti assegnabili nell' esteso; e per la legge dell' abitudine egli ha poi virtù di rifare la scala della successione, e ciò con un atto solo principale, estendendo la sua semplice attività di un tratto alla successione intera; al che è da credere che l' aiuti altresì la docilità dell' organismo, nel quale certi movimenti possono essere così congegnati che debbano quasi necessariamente ad altri succedere, e certo deve appunto così accadere in chi sogna di correre o di volare. Ritengasi dunque la distinzione di queste tre parti della catena di operazioni, per la quale procede l' istinto animale: 1 lo stato da cui l' animale parte, che è stato di soddisfazione immaginata, presentita, aspettata; 2 lo stato a cui perviene coi suoi movimenti e sforzi, che è stato di soddisfazione sentita, compiuta, esaurita; 3 gli stati intermedi pei quali l' animale passa affine di trasferirsi dal primo stato al secondo, che sono stati d' inquietudine, di sforzo, di movimento. Ora gli stati intermedi, pei quali l' animale passa affine di compire la soddisfazione iniziata nella fantasia o in generale nel sensorio interno, possono essere più e meno, secondo che lo stato da cui parte è più lontano o più vicino allo stato a cui tende di pervenire. Poniamo il caso che di questi stati intermedi non ce ne fosse nessuno. Allora lo stato di soddisfazione compiuta o accresciuta susseguirebbe prossimo allo stato di soddisfazione immaginata. E questo è appunto quello che avviene nell' animale, quando egli tende ad accrescere una soddisfazione o piacere sensibile, col solo attuare maggiormente i sensorii, per sentire con più di vivezza e di diletto ciò che incomincia leggermente a sentire. Anche rispetto a questo fatto del passaggio immediato da uno stato di soddisfazione incoata ad uno stato di soddisfazione compiuta, noi dobbiamo generalizzare quello che abbiamo detto dell' immaginazione ad ogni specie di sentimenti interni. L' immaginazione non è che una maniera di sentire, è sentire nel cervello, dove si riproducono principalmente le sensazioni ottiche, le quali hanno forma d' immagine; ma molti altri sensorii vi sono; ed ogni sentimento animale, a qualunque sensorio appartenga, è fonte d' istinto. Quindi l' animale, per ogni sensazione dilettevole solamente incoata ch' egli prova, si sforza di compirla quanto può, facendola crescere a quel grado massimo di intensità, oltre il quale la fatica, che deve fare in ciò, limita il suo conato. Qui ritorna ancora la virtù formatrice, per la quale gli elementi vivi si compongono in semi e in animali; e i semi si svolgono pure in animali; e gli animali crescono, si sviluppano, si perfezionano, decadono, muoiono. Ora, posciachè in ogni aggregato messo insieme dalla virtù formatrice vi è un principio unico di azione, e vi è pure una unione ordinata di sentimenti disposti in un termine esteso, s' intenderà facilmente che la virtù formatrice si può considerare sotto due aspetti: 1 da parte del principio unico, in cui sta l' efficienza di lei; 2 da parte del termine sentito con sensazioni connesse armonicamente, in cui sta la norma dirigente il principio nell' operare. Questo termine, considerato come istinto sensuale, si può acconciamente raffigurare siccome quasi uno stampo vivo, operante da sè, ed a questo conviene riserbare la denominazione di forza plastica . Se poi negli animali più perfetti che hanno cervello, questo sensorio dell' immaginazione contribuisca a dare certa conformazione, certi accidenti, certe disposizioni al feto, questa è questione superiore alle nostre cognizioni. Ma crediamo poter dire: 1 che alla formazione e disposizione del feto non contribuisce la sola immaginazione della madre, ma tutto il sentimento materno, e il sentimento annesso agli elementi di cui il feto si compone, e al feto stesso già composto; 2 che l' immaginazione, essendo una parte del sentimento materno, non è inverosimile che possa avere una qualche, più o meno mediata, influenza sul feto, avendola certamente su tutto l' essere animale della madre, che rimane modificata dalle passioni, a cui l' immaginazione dà principio e fomento (1). Ma per compiere questo discorso rimane a ricercare quale sia il principio che muove l' immaginazione. - Perocchè è da considerare che ogni immagine è composta di più parti, di contorni a rette, a curve, di colori con gradazione di tinte, e fino di movimenti diversi che fa l' immagine, come se ella rappresentasse un cavallo che corre; ora quelle parti, quelle tinte, quei movimenti hanno convenienza fra loro, non sono posti a caso; quale è dunque l' egregio pittore che abbia saputo suscitare nel sensorio encefalico tanti minutissimi movimenti, con tanta proporzione fra loro da rendere l' immagine perfetta, neppure uno di più, non uno di meno, che avrebbe guasto ogni cosa? Se ben si considera, questa è un' opera stupenda della natura, perocchè il sensorio per sè stesso è atto a rendere non solo quelle immagini intere, ma le loro parti o anche dei colori che nulla rappresentano. Quale è dunque il principio unico, che lo determina a quel complesso di sensazioni che rendono l' immagine così intera e bellissima, e ciò non già componendola successivamente, non aggiungendo tinta a tinta, e quasi pennellata a pennellata come fa il pittore, ma ponendola in atto, senza pentimenti, a prima giunta, e tutta in un solo istante? Come appunto fa la natura a colorire i fiori e gli insetti, i cui armonici colori sono posti tutti simultaneamente, e la vaga pittura apparisce tutta formata ed intera, senza che una foglia o un' ala rimanga indietro in quel lavoro meno dipinta della foglia o dell' ala sua pari. Per spiegare questo fatto dell' ordine e della regolarità perfetta dell' immagine, che comparisce intera d' un tratto solo, noi ricorriamo a tre principŒ: 1 al principio che l' operatore, la causa efficiente, è semplice, e questo è il principio sensitivo (benchè vi possano concorrere più cause eccitanti), il quale è presente nello stesso tempo a tutta la sensazione primitiva, cui l' immagine riproduce; 2 al principio dell' abitudine, che rende l' atto fatto altre volte più facile a fare, perchè rimangono gli iniziamenti dell' atto primitivo, cioè della sensazione benchè cessata, onde l' anima si determina all' atto altrove sperimentato; 3 ma posciachè le immagini che si hanno nel sogno, o anche in veglia, non sono la riproduzione esatta delle sensazioni avute, perciò è da ricorrersi a un terzo principio; e questo si è che « l' animale fa sempre quello che gli è più facile e più piacevole », e ciò avuto riguardo a tutte le condizioni nelle quali si trova il suo principio sensitivo ed istintivo. Ora, quando il principio sensitivo semplice ed uno si muove a produrre in sè stesso delle immagini, a questo è mosso da una moltitudine di stimoli interni, che sono principalmente gli umori del corpo umano, i quali col muoversi regolarmente o irregolarmente eccitano ai suoi atti il sensorio interno della immaginazione e il principio unico, da cui viene l' azione vitale del sensorio. Questo principio, adunque, si lascia suscitare all' azione dalla concorrenza di quella moltitudine di stimoli, e la sua spontaneità si determina a quella maniera di azione complessa, che fra tutte gli è più facile e più piacevole. Egli non resiste all' eccitamento di alcuno stimolo se non indottovi dall' urgenza di uno stimolo maggiore. Nello stesso tempo la sua unicità e semplicità, aiutata anche dall' abitudine, gli rende necessario e spontaneo il porre un ordine fra tutte le minime immagini o parti d' immagini, che vengono provocate dagli stimoli nel suo sensorio, sì perchè non potrebbe con un atto solo tutte contemporaneamente produrle, se egli non le sintesizzasse ed ordinasse ad unità, e però gli riuscirebbe molestissimo lasciarle sbandate a caso, o sopprimerle col resistere agli stimoli che le eccitano; e sì perchè è a lui più piacevole e dilettevole l' unione armonica di esse. Ma questa unione armonica egli la trova subito, giacchè è determinata dalla sua stessa natura, cioè dalla legge del più facile e del più piacevole. Egli pone dunque della sua attività reggitrice ed ordinatrice in questo fatto, e così ottiene una scena d' immagini, benchè in parte diversificate dalle sensazioni altra volta sperimentate, pure bene ordinate, poniamo, a foggia di storia, e legate insieme. L' attività dominatrice del principio sensitivo sulle immagini che stanno per eccitarsi, qui ha dunque una parte grandissima. L' atto dunque, col quale l' immagine si ripristina, è un atto solo, benchè si estenda a molti movimenti contemporanei nelle varie fibre del cervello che debbono riprodurre l' immagine, e ciò perchè l' anima sensitiva con un atto solo può operare più effetti, a cui ella è contemporaneamente presente nella sua semplicità; sicchè ogni gruppo di effetti diversi è un atto solo diverso. Ella si determina poi a riprodurre più facilmente, almeno in parte, le immagini di cui ebbe le sensazioni, da questo, che la spontaneità ubbidisce all' abitudine, che è quasi una continuazione e un ravvigorimento dell' atto precedente non in tutto cessato. Vi è dunque nell' animale un principio unico, rettore di tutte le sue operazioni istintive, ed è « la tendenza di pervenire a quello stato di soddisfazione che in lui si trova incoato »; il qual principio deve dare una singolare regolarità al suo operare, e contrastare a tutto ciò che è irregolare, cioè opposto a quella regolarità, che consegue alla sua natura molteplice nell' unità. Ora, se si rinviene tanta regolarità nelle operazioni dell' animale, non minore certo ella deve essere in quelle del principio razionale. Ma posciachè il termine del principio razionale è l' oggetto, perciò dobbiamo qui venire a trattare della regolarità oggettiva. Perchè dunque piace alla mente di contemplare ciò che ella trova regolarmente disposto? Se si considera che molte cose disposte con certa regolarità sono più facili a concepirsi ed abbracciarsi col pensiero, e che il più facile è preferito, sempre per la legge di spontaneità che presiede ad ogni agente, si troverà in ciò una prima ragione, che dimostra dover tornare gradito a chi contempla più cose, che esse sieno regolarmente disposte. E veramente essere disposte regolarmente vuol dire essere disposte con ordine, e questo vuol dire essere disposte secondo un' unica regola, nella quale subito si vede dalla mente quale sia, quale debba essere tutta quella disposizione. A ragion d' esempio, poniamo dinanzi allo sguardo della nostra mente una serie di numeri disposti in proporzione aritmetica o in proporzione geometrica; colui che sa il primo numero di questa serie e sa la differenza del primo al secondo, o il quoto del primo diviso pel secondo, non ha bisogno d' altro a conoscere quale sarà la distribuzione di tutti i numeri successivi, e con notizie cotanto semplici egli può descrivere da sè stesso quelle serie, quantunque lunghe si vogliano. Nella regola dunque della distribuzione, che nell' esempio addotto sarebbe la differenza per la serie aritmetica e il quoto per la geometrica, in quell' ultima e semplicissima regola l' intelligenza abbraccia compendiata tutta la moltitudine delle cose, in quanto sono così regolarmente disposte, ed anzi quanta moltitudine le piace d' immaginare egualmente disposta. Quelli che hanno qualche nozione di matematica, conoscono assai bene come le curve si segnano mediante equazioni algebriche, le quali altro non fanno che presentare la regola, secondo la quale sono disposti tutti i punti assegnabili in una curva, cioè con quale ordine quei punti sono determinati ai loro luoghi l' uno relativamente all' altro. E` vero che l' equazione algebrica non presenta all' immaginazione la forma della curva, ma ne dà la chiave all' intelligenza, insegna all' intelligenza a descriverla quando vuole, sia sulla carta, sia nella propria immaginazione; e questa cognizione così abbreviata, semplificata, è sommamente dilettevole alla mente, che arriva con ciò a possedere e sapere assai più di quanto potrebbe ritrarre dalla percezione dei sensi, sempre limitata a un numero di individui. Quindi colla regola intellettiva si conoscono le pluralità delle cose in ispecie, e non in individuo, cognizione che abbraccia immensamente più. La quale è una seconda ragione per cui l' intelligenza ama la regolarità nell' oggetto molteplice contemplato; l' ama non solo perchè coll' intervento di essa pensa la molteplicità in modo più facile, ma ben anche perchè pensa di più, ed oltracciò la pensa in modo da potere riprodurre ella stessa, quanto più le piace, di quelle molteplicità. Vero è che anche una molteplicità irregolare può essere dalla mente cangiata in una specie, contemplandola slegata dalla percezione sensibile; ma questo riesce oltremodo faticoso, massime se la molteplicità irregolare sia numerosa. Oltracciò quella moltiplicità non può essere accresciuta dalla mente se non ha una regola secondo cui accrescerla, come accade nelle serie, ond' ella si rimane sempre limitata. E qui si disvela una terza ragione per la quale al principio razionale è dilettevole la regolarità, ed è che ella lo rende atto ad operare. Allorquando egli è in possesso della regola, che ordina e dispone in un dato modo la molteplicità delle cose, questa regola gli diviene principio e norma di operazione, sì rispetto al ragionare che ad ogni altra maniera di operare . Si ritorni all' immortale invenzione di Cartesio, che ridusse le curve a forme algebriche. L' avere una curva in una formola algebrica altro non è, come vedemmo, che l' avere espressa la regola, secondo la quale sono distribuiti i punti assegnabili in essa. Ora, chi non sa quanto il possesso di queste formule aiutò la scienza a determinare cotante e bellissime proprietà delle curve, che altrimenti sarebbero restate incognite? E come si determinarono queste proprietà dai matematici se non fondando appunto i loro ragionamenti sopra la regola, secondo cui trovarono essere disposti i punti assegnabili nelle varie curve, ed espressero tali disposizioni in formule od equazioni? L' aver conosciuta quella formula che esprime quale sia la regolarità delle curve, fu amplissimo fonte di nuove cognizioni alla mente; il conoscere adunque la regola, secondo la quale è formata la regolarità di una molteplicità di cose, è principio fecondissimo di sempre nuove cognizioni, che stanno tutte virtualmente accolte in quel principio. E si noti che queste cognizioni, che si vanno discoprendo quando si ragiona partendo dalla notizia di quella regola che ordina i rapporti di più cose, non sono solamente diletto alla mente, ma danno applicazioni pratiche; e lo sanno bene coloro, che conoscono quanto la meccanica e l' idrodinamica si sieno vantaggiate in ragione che si scopersero le regole, che esprimono in compendio la regolarità delle diverse linee rette e curve, e dei loro varii sistemi. Onde l' uomo deve amare la regolarità delle cose anche per questo, che nella regolarità, trovatane la regola, egli ha un principio: 1 che gli apre grandissimo campo a procacciarsi nuove cognizioni; 2 gli aggiunge nuove ed incredibili potenze di operare nel mondo esteriore. Si deve anche aggiungere per una quarta e più sottile ragione, che la regolarità delle cose, contemplate dalla mente e raccolte in breve regola, aiuta l' uomo a ordinare anche sè stesso, e quindi a migliorarsi moralmente, amando egli di riprodurre in sè l' ordine che è avvezzo a contemplare colla mente. Il che egli deve fare anche istintivamente, conciossiacchè il principio razionale non manca del suo istinto; e l' ordine delle cognizioni, che sono nella mente umana, è principio istintivo di operazione bene ordinata. Ma la quinta ragione dell' inclinazione del principio razionale alla regolarità è quella che spiega e compie tutte le precedenti; ella viene dal principio di cognizione che « l' oggetto del pensiero è l' ente ». Ora l' ente è uno per sua essenza; onde l' intelligenza s' innalza tanto più alla contemplazione dell' ente, quanto più le riesce di scorgere l' unità nella molteplicità delle cose. Perocchè, che è mai l' unità delle cose molteplici? E` un considerarle nell' essere universale, e a lui riportarle come al loro supremo contenente; onde, essendo bene dell' intelligenza il proprio suo termine, ella aspira a vedere tutte le cose nell' essere universale, dove si trovano unificate. Quindi è principalmente che ella ama assai più una cognizione per principŒ che per conseguenze, perchè i principŒ non solo spaziano infinitamente più alla distesa che non molte e molte conseguenze da loro dedotte, e però hanno più di luce, ma ben anche dentro ai principŒ le conseguenze risplendono unificate. E il conoscere le cose molteplici in quella regola che dà loro una distribuzione regolare, è già conoscerle per principŒ. Vero è che la cognizione delle cose per principŒ, presa da sè sola, è una cotale cognizione iniziale e virtuale; sotto il quale aspetto il conoscere per principŒ è minore cognizione che non sia il conoscere per conseguenze. E come le conseguenze conosciute senza i principŒ non dànno altro che una cognizione percettiva, imperfettissima, perchè oltremodo limitata in quanto all' estensione del lume; così la cognizione dei puri principŒ, senza la distinzione delle conseguenze, è una cognizione astratta, anch' essa imperfetta, non quanto all' estensione del lume, che è infinita, ma quanto alla intensità e per la mancanza di comunicazione colla realtà. Ma quando si conoscono ad un tempo i principŒ e le conseguenze, quando si conoscono queste in quelli, siccome accade nel caso addotto di una moltitudine di cose, nella quale si scorge la regola secondo cui sono distribuite e disposte, allora si ha la cognizione perfetta, che soddisfa a pieno l' intelligenza, e scorge ed aumenta senza fine l' umana attività. Tali sono le ragioni per le quali il principio razionale ama di contemplare le cose regolarmente disposte. Ma ora questa regolarità può essere sommamente variata, può variare all' infinito la regola che la determina; e il classificare coteste diverse regole, dimostrandone le proprietà, sarebbe opera immensa, da tentarsi da colui che volesse comporre un trattato di Callologia . Noi ci contenteremo di distinguerle in due grandi generi: Il genere di quelle regole che distribuiscono gli enti in un ordine esteriore, secondo il luogo (simmetria) ed il numero (proporzione). - Coordinazione . Il genere di quelle regole che distribuiscono gli enti secondo la convenienza fra l' interiore e l' esteriore, il principio ed il termine (organismo), il fine ed il mezzo, i principŒ e le conseguenze, la causa e l' effetto, ecc. - Subordinazione . Il primo genere di regolarità è più facile a conoscersi, perchè apparisce anche nelle cose percepite coi nostri sensi. Il secondo è più difficile; e a cagione di questa maggiore difficoltà appare sovente che non vi sia regolarità colà, dove non si vede il primo genere di essa; eppure ella vi è, anzi più nobile ed eccellente. Ed è per questo difetto che il giardiniere, che dà ad un albero la forma di una croce contro la sua natura, crede di renderlo regolare, perchè lo costringe a ricevere una regolarità di primo genere; quando infatti egli distrugge la regolarità propria della natura di quell' albero, che era regolarità di secondo genere, da quel rozzo giardiniere e dal suo signore ignorata. Ma posciachè giova non poco distinguere accuratamente quale specie e natura di armonia sia quella di che il principio sensitivo è atto a godere, e quale sia quella di cui gode il solo principio razionale, soffermiamoci a considerare un poco una sentenza di Leibnizio, il quale definiva la musica « « una aritmetica dell' anima » ». L' anima sensitiva gode ella veramente dei numeri e delle loro proporzioni? Gode della simmetria delle parti? Gode finalmente dei movimenti proporzionali? Questa questione ha bisogno di più distinzioni e riflessioni. Primieramente è certo che tutto ciò di che gode il principio sensitivo, è soggettivo : sono modificazioni di lui. All' incontro, il principio intellettivo e razionale gode dell' oggetto, gode di ciò che conosce essere nell' oggetto e non essere in sè stesso, gode di un bene che considera fuori di sè ed a sè non riferisce. Tuttavia anche il principio sensitivo ha un termine esteso e molteplice, dove cade simmetria, numero di movimenti, proporzione di numero e proporzione di tempo fra i movimenti. Gode egli di tutte queste cose? Da quel che è detto rimane escluso il godimento oggettivo di queste diverse maniere di ordini, il quale godimento appartiene al solo principio intellettivo e razionale. Che cosa vuol dire rimanere escluso il godimento oggettivo? Vuol dire che non può godere di quella simmetria e di quella proporzione, considerate come qualche cosa di buono e di bello in sè stesse, indipendentemente dal soggetto. Il principio razionale, che considera la simmetria e la proporzione oggettivamente come un bene indipendente da sè, la stima e loda, anche se per accidente gli fosse nocevole; la stima e loda per l' unica ragione dell' eccellenza che egli vede avere in sè medesima; se gli effetti saranno a lui dolorosi, egli porterà di questi un giudizio contrario, li giudicherà mali (e in questi effetti vi è già un disordine); ma al lato di questo giudizio sugli effetti rimarrà intatto il giudizio precedente sulla causa, cioè sulla simmetria e sulla proporzione. Il bello e il buono, che ammira in essa, è immutabile ed eterno come l' essere. Nulla di ciò può fare il principio sensitivo: non può conoscere, nè di conseguente apprezzare la simmetria e la proporzione in sè stessa, ma solamente può sentirne gli effetti e godere di questi, se per lui buoni. Gli effetti della simmetria e della proporzione, che si trova nel termine del sentimento, non sono la stessa simmetria, la stessa proporzione; benchè l' effetto (il sentimento avutone) sia analogo e corrispondente ad essa, e, se si vuole, abbia anche la simmetria e la proporzione in sè stesso. Dunque il principio sensitivo non gode della simmetria e della proporzione, come tali. Ma se il godimento sensibile ha pur esso simmetria e proporzione, dunque gode di queste. No, perocchè quando si gode di una cosa, altro è la cosa di cui si gode, altro è lo stesso godimento. Dire che il godimento gode di sè stesso non è che una logomachia, un rendere doppio quello che è semplice; il godimento non gode di sè, ma l' uomo per esso semplicemente gode. Se dunque nello stesso godimento, contemplato dalla mente, si rileva qualche ordine simile a quello della simmetria e della proporzione, non si dirà perciò che il principio sensitivo goda di queste disposizioni; ma piuttosto che il godimento è una cotal simmetria e proporzione vivente e godente. Perocchè non quelle cose, che hanno simmetria e proporzione, godono di quest' ordine che hanno in sè stesse; ma ne gode colui che, contemplandole, ve lo scorge. Onde se il principio razionale trova simmetria e proporzione nell' intima costituzione del godimento animale, è il principio razionale che gode di quest' ordine, che ha quel godimento; ma il godimento è solo un fatto semplicissimo ignaro di sè, della propria natura. Onde il godimento, costituito dalla simmetria e dalla proporzione del suo termine, è ancora un effetto e non un godimento di queste armoniche disposizioni. Sono dunque questioni assai disparate: Se il principio sensitivo goda della simmetria e della proporzione. Se il principio sensitivo goda per l' effetto che in lui produce la simmetria e la proporzione, che giace nel suo termine. Alla prima si deve rispondere negativamente; e si conferma questa risposta osservando che se il principio sensitivo fosse atto a godere della simmetria e della proporzione, egli dovrebbe godere di ogni simmetria e di ogni proporzione che fosse nel termine suo, come appunto fa il principio razionale, che contempla tali ordini nell' oggetto; laddove è di fatto che il principio sensitivo, che gode in conseguenza di certe simmetrie e di certe proporzioni che prende il suo termine, non gode di altre disposizioni simmetriche o proporzioni, che non gli recano l' effetto piacevole a cui egli tende; non è dunque dell' essenza, della ragione della simmetria, di cui gode, ma dell' effetto che questa talora produce, talora non produce in lui. Ora, l' aver confuse queste due questioni distintissime fu cagione che alcuni uomini di gran mente, fra i quali Platone e Leibnizio, dessero all' anima sensitiva un cotal ragionare occulto e misterioso, la rendessero calcolatrice, perita di aritmetica squisita e di sublime geometria; errori sublimi, a dir il vero, in cui soltanto così rari ingegni potevano cadere, siccome quelli che soli erano arrivati a scorgere le simmetrie e le proporzioni insite al termine sentito; nè tuttavia pervennero a distinguere da esse con pari felicità il sentimento piacevole che ne è l' effetto. Onde attribuirono al sentimento che egli godesse della causa che lo costituisce, quando anzi nè tampoco la conosce; e gode nel termine simmetrico e proporzionale, ma non della simmetria e proporzione di lui. La quale illusione è pure agevole a prendersi dai grandi ingegni, poichè pare che l' anima sensitiva faccia le stesse operazioni che fa l' aritmetico, quando veramente non ne fa nulla. Vogliamo noi che l' anima sensitiva sembri che tiri la somma di due quantità? Immaginiamoci di trascorrere uno stagno in una barchetta, mentre un' altra barchetta ci passa al fianco in direzione contraria. L' occhio nostro, che riguarda la barchetta passante accanto alla nostra, sembra sommare insieme accuratissimamente le celerità delle due barche, perocchè il moto apparente di quella barchetta è d' una celerità precisamente pari alla somma delle due celerità dell' una e dell' altra barchetta. Vogliamo che l' anima sensitiva paia compire una sottrazione? Facciamo che mentre noi trascorriamo quello stagno con lenta barchetta, ce ne passi una appresso nella stessa direzione, con celerità due o tre volte maggiore della nostra; che cosa vedrà l' occhio nostro guardandola? Egli la vedrà andare con una celerità, che sarà precisamente la differenza fra la celerità di quella barca e la celerità della nostra; coglie l' occhio questa differenza con tanta precisione che con più non può qualsivoglia calcolatore. Vogliamo che l' anima sensitiva paia operare una moltiplica, una divisione, e per essere più brevi, vogliamo un fatto nel quale paia che ella faccia tutte e due queste operazioni insieme, e istituisca altresì per venirne a capo una vera proporzione geometrica? Immaginiamo che dalla nostra barchetta, la quale se ne va per lo mezzo dello stagno in linea retta, il nostro sguardo contempli due gioghi di monte, l' uno più lontano al di là dell' altro; con quale celerità di movimento vede egli muoversi quei due gioghi, l' uno incontro all' altro avvicinandosi o l' uno in direzione opposta all' altro allontanandosi? A saperlo dire ci vuole il calcolo, conviene rilevare la distanza dei due gioghi e la distanza del più vicino alla barchetta. Solo il calcolatore vi saprà dire, dunque, che il movimento apparente dei due gioghi risulterà da una equazione esprimente una proporzione geometrica. Ma l' occhio ha bello e sciolto il problema immediatamente, senza prender misure; egli vede appunto il movimento relativo dei due gioghi andare di quella celerità, nè più nè meno, che trova il calcolatore; e con questa differenza che il risultato del geometra può errare, e il risultato veduto dall' occhio in natura non sbaglia giammai. Che è dunque a dirsi? Forse che il senso calcola veramente? Che egli calcola una celerità con sicurezza maggiore che non sa fare la mente dei geometri? Pazza cosa il pensarlo; sarebbe un trasformare il senso in una mente assai più perspicace della mente stessa. E` dunque a dirsi che non è il senso che trova quei risultati, ma la natura che li produce e glieli somministra prodotti; perocchè la natura è così ordinata, come dicevamo, benchè ella non senta, nè conosca il proprio ordine; il moto, che si dà a vedere all' occhio, segue le sue proprie leggi, e gli si dà a vedere secondo che queste leggi prescrivono. Qual meraviglia dunque che il senso abbia per termini suoi tali quantità così disposte, così proporzionate, e che il geometra, volendone conoscere la disposizione e l' ordine, abbisogni di ricorrere a calcoli anche complicatissimi? Ora, se vi è ordine nella materia e nei suoi movimenti, è chiaro che vi deve essere ordine altresì negli organi sensori, che sono di materia composti. E se è cosa certa che il principio sensitivo tende ad avere per suo termine un determinato organismo, ed un organismo gli è più conveniente di un altro, perchè gli è occasione di spiegare maggiore attività sensitiva; qual meraviglia che il principio sensitivo stesso tenda ad avere nei suoi organi sensori certi movimenti anzichè altri, e regolati con certe proporzioni di ampiezza e di tempi? Si consideri altresì che la direzione e la comunicazione del moto riceve forma dalla configurazione e composizione del corpo stesso; per esempio, un corpo di una figura, ricevendo un impulso al moto, fa movimenti diversi secondo che varia il punto e la direzione in cui gli è applicata la forza motrice; e questa stessa forza applicata ad un corpo di altra figura dà un' altra guisa di moto. Avendo adunque gli organi sensori anch' essi una certa configurazione regolare, conveniente al principio sensitivo, i movimenti dei medesimi, se convenienti, debbono partecipare della stessa regolarità, e quindi avere un certo ordine. Ancora, è naturale che uno degli elementi di questo ordine sia la proporzione dei tempi, nei quali vengono fatti i diversi moti, che in essi s' imprimono. Perocchè la comunicazione del moto ubbidisce alla legge del tempo; e lo stesso movimento impresso a due corpi, l' uno dei quali è doppio di massa dell' altro, impiega doppio tempo a percorrere tutto il corpo e comunicarsi a tutte le sue molecole; ond' ecco una proporzione di tempo corrispondente alla proporzione della massa. Se la densità del corpo è eguale ed è doppio il volume, la comunicazione del moto di molecola in molecola andrà in ragione dei volumi. Quello che si dice della comunicazione semplice del moto per via d' impulso, si deve dire egualmente o in modo simile del moto per via di affinità o di attrazione, per via di onde o di vibrazioni, del moto semplice e composto, risultante da una sola forza o da più forze, ecc.. Ora, ammessa la legge che « al principio sensitivo piace di compire i suoi atti, e di non essere guastato nel mezzo di essi, e fatto voltare ad incominciar nuovi atti », è chiaro che i movimenti, che egli cercherà nel suo termine, dovranno avere fra loro una proporzione di tempo, non vorranno riuscire raddossati, intralciati e confusi, ma distinti e ordinati, affinchè colle loro more regolate lascino tempo al principio sensitivo di compiere le sue operazioni, e di spiegare tutte le attualità da lui mosse senza frastornarnelo. Il principio sensitivo non ama dunque questo ordine per sè, ma per avere agio a spiegare l' attività che egli vuol sempre ultimare e svolgere a pieno; gli duole se, intoppandosi, gli rimane impedita. E perchè nella produzione delle sensazioni, per esempio delle ottiche ed acustiche, ad un dato numero e metro di vibrazioni risponde una sensazione semplicissima, poniamo del bianco o del rosso, dell' alamire o del fefautte? Non è questo prova evidente che nel sentimento non entra il numero delle vibrazioni e le loro proporzioni, ma che egli nasce come un effetto unico di questi molteplici movimenti extrasoggettivi? Si dirà: la luce maggiore rende l' occhio insensibile alla luce minore; di due camere egualmente rosse, la prima in cui s' entra sembra più rossa della seconda (1); il passaggio repentino da un grandissimo grado di calore a un grado assai minore dà una sensazione di freddo, e in generale dove vi è maggior passaggio nello stesso tempuscolo fra uno stato ad un altro di eccitamento, si ha più vivezza di sensazione. Pare adunque che la sensazione non si produca in ragione dell' assoluta azione dello stimolo esterno, ma della proporzione fra i varii stimoli che si succedono. - Si risponde che ciò non prova che il sensorio senta la proporzione degli stimoli, ma bensì che l' effetto di questa proporzione in certe circostanze è la sensazione più o meno vivace, appunto perchè il sensorio a compire i suoi atti ha bisogno di essere stimolato non a caso, ma con ordine e proporzione; ond' è che i movimenti troppo violenti e improporzionati possono produrre un sentimento minore, o anche nullo, verso movimenti più leggeri e convenientemente proporzionati. Il solo principio razionale, adunque, è quello che gode della regolarità simmetrica, proporzionale, e in una parola dell' ordine, che è cosa essenzialmente oggettiva; perchè egli solo è quello che ritrova e contempla più o meno distintamente la regola unica e semplice, che determina la regolarità. Il che trae nuova conferma da un' altra osservazione. Una data moltitudine di cose può essere considerata dall' intelligenza con diversi sguardi, e quindi ella può presentare regolarità diverse, simmetrie diverse, senza che la distribuzione reale di quelle cose cangi punto. Se regolarità diverse esistono in una stessa distribuzione di cose, dunque la detta regolarità viene costituita dai diversi sguardi della mente, e non è propria delle cose materialmente prese, nè del senso di esse. E che cosa poi sono questi diversi sguardi della mente? Onde avviene che le cose si trovano distribuite regolarmente in diversi modi? Certamente da questo, che la mente vede che quella distribuzione stessa di cose poteva essere così determinata da regole diverse; sicchè la mente, applicando diverse regole, quasi per altrettante vie, perviene a distribuire quelle cose nello stessissimo ordine. Illustriamo la cosa con un esempio tolto dallo scacchiere. Ognuno sa che lo scacchiere è una superficie quadrata, divisa in sessantaquattro quadrati minori. La distribuzione di questi quadrati è unica e semplicissima. Ma lo sguardo della mente può considerarli in varie maniere collocati ed uniti fra loro, e l' aspetto che essi presentano mirati in un modo è diversissimo dall' aspetto che presentano mirati in un altro modo. Se io considero quei quadrati come uniti insieme pei loro lati, mi esce un disegno diverso da quello che mi esce riguardandoli come uniti pei loro angoli. Io posso anche di alcuni di essi formarmi una figura, la quale, ripetendosi continuamente, mi esaurisca tutto lo scacchiere; ed ho così un disegno nuovo. Pigliamo i movimenti dei diversi pezzi del gioco degli scacchi, e per non essere soverchiamente lunghi, limitiamoci a tre: alla torre, al fante e al cavallo. Il movimento della torre va da un capo all' altro dello scacchiere, percorrendo la fila dei quadrati in quella direzione nella quale sono uniti dai loro lati. Ebbene, se io prendo l' intera fila degli otto quadrati, io posso definire lo scacchiere con questa regola: « lo scacchiere risulta da otto file di quadrati eguali uniti pei loro lati »; ecco una regola che mi determina una distribuzione simmetrica. Prendo i fanti, i quali percorrono le file dei quadrati diagonalmente, nella quale posizione si toccano negli angoli. Queste file di quadrati, toccantisi agli angoli, mi danno di nuovo tutto il medesimo scacchiere, che posso definire: « un quadrato composto di sedici file di scacchi quadrati, uniti diagonalmente ai loro angoli ». E se coll' occhio fisso queste sedici file da cui lo scacchiere risulta, mi pare un disegno totalmente diverso dal primo. Veniamo al passo del cavallo, che percorre sempre tre scacchi, uno dei quali in direzione obliqua. Io posso fissare coll' occhio la figura che risulta da questi tre scacchi, e poi considerare questi tre scacchi ripetuti in modo che mi empiano tutto lo scacchiere, che posso definire: « un quadrato diviso in vent' una figura, ciascuna delle quali ha la forma di due scacchi quadrati diritti ed uno obliquo, più uno scacco quadrato »; e considerando lo scacchiere come un aggregato di tali figure, egli mi sembra di tutt' altro disegno da quello che mi pareva prima. Ecco come lo stesso scacchiere reale, secondo le relazioni diverse delle sue figure, secondo i diversi sguardi della mente, diventi un piano avente diverse simmetrie, appunto perchè quei diversi sguardi della mente vengono a significare diverse regole che usa la mente, quali principŒ determinanti la simmetria, per concepirla nella sua ragione, nella sua regola, com' è consentaneo all' intelligenza. E questo ben dimostra che la regolarità contemplata dalla mente è posta dallo stesso vedere della mente, benchè la mente non potrebbe porla, se nella molteplicità, che forma l' oggetto di sua contemplazione, non ci fossero certe relazioni e corrispondenze coll' ideale, dove stanno le regole delle cose; onde anche qui ricomparisce il sintesismo fra il reale e l' ideale. A questo ancora è da attribuirsi il vedere che i bruti non danno alcun segno di gustare il bello, e neppur l' armonia musicale, benchè si risentano a certa melodia, come accade in alcuni serpenti, i quali non guastano il bello, ma il piacevole sensibile . La molteplicità è contemporanea o successiva . Quindi l' armonia, che in essa si può ravvisare, è pure contemporanea per l' ordine che hanno più cose presenti, come la simmetria di cui abbiamo parlato, l' ordine che hanno le parti al tutto, le sensazioni armoniche, ecc.; ovvero è successiva per l' ordine e la convenienza, che hanno i termini precedenti di una serie di fatti coi susseguenti. Di questa armonia successiva abbiamo già toccato, parlando dell' anima sensitiva e recandone in esempio i colori ed i suoni immaginari, che si succedono spontanei nel sensorio ottico ed acustico; consideriamola ora nello stesso principio razionale, che è tutto l' uomo. Al principio razionale piace l' ordine, dovunque lo contempli, per le cinque ragioni indicate. Il principio razionale può considerare quest' ordine tanto in cosa diversa da sè, quanto nel proprio sentimento. L' ordine, che l' uomo contempla nel proprio sentimento, è ciò che costituisce il bello estetico . Il proprio sentimento è ordinato, quando è piacevole. Quindi il bello estetico è bello e ad un tempo sensibilmente piacevole, laddove il bello, considerato nelle cose fuori del sentimento proprio, è bello senza essere piacevole sensibilmente, senza essere estetico. Il che non s' intenda così, quasi che la vista del bello non piaccia; ma si vuol dire che il piacere del puro bello è tutto intellettivo, onde è propriamente la contemplazione di lui che è piacevole anzichè l' oggetto della contemplazione, il bello stesso. All' incontro, se si parla dell' ordine nel proprio sentimento, oltre il piacere intellettivo della contemplazione vi è di più quel piacere che costituisce la natura del contemplato, perocchè ciò che si contempla è il sentimento piacevole . In questo caso il piacere stesso è la regola per conoscere se il sentimento è bene ordinato; dico il piacere vero, naturale, prevalente. Ora, non avendo gli scrittori intorno al bello fatto queste distinzioni fra il bello in generale e il bello estetico, e fra il bello piacevole e il semplicemente piacevole; hanno quasi sempre confuso il piacevole col bello, e racchiusa negli angusti limiti dell' Estetica la vastissima scienza della Callologia . Ora si rammenti che ogni sensorio animale è così ordinato (parte a cagione delle leggi della materia, di cui è composto, e delle leggi della comunicazione del moto, parte a cagione dell' organismo, parte a cagione delle relazioni della materia e dell' organizzazione coll' attività del principio senziente) che, stimolato che sia, egli è tantosto determinato e mosso ad una data serie di movimenti successivi, e non ad altri; onde se un' altra serie interrompesse quella prima e la perturbasse, riuscirebbe cosa sconveniente alla natura sensitiva, e spiacevole. Di che la spontaneità del principio senziente, tendente sempre allo stato e all' atto di maggior piacere, aiuta e promove la prima serie dei movimenti, e ripugna ad assecondare la seconda serie. Così, se la corda di violino è vellicata, dà delle oscillazioni isocrone, le quali scemano di estensione e di celerità in una proporzione costante. Se dunque quella corda fosse animata, ella stessa fosse un organo sensorio, inclinerebbe a compire tutte quelle sue oscillazioni fino a trovare il riposo, e ripugnerebbe a quelle forze che volessero interrompergliele o alterargliene l' isocronismo, che è l' operare a lei più facile e naturale (1). Ora conviene considerare che, quantunque nell' animale vi sia un solo principio senziente che lo costituisce, tuttavia sono molti i sensorii, e che nell' uomo, il più perfetto fra gli animali, sono moltissimi, altrettanti quanti i suoi organi e apparati sensitivi, altrettanti quante le specie delle sue sensazioni. Ciascuno poi di tali sensorii ha una serie di movimenti successivi a lui connaturale e piacevole, cioè ha una serie di sensazioni, per le quali passa la sensazione prima innanzi di estinguersi interamente. Di più, se gli stimoli esteriori corrispondono a un tale oscillare dell' organo sensorio, sicchè lo aiutino a percorrere quella serie di sensazioni ordinata con fisso metro e a renderle vive, quegli stimoli sono piacevoli, altrimenti sono molesti, fastidiosi, e anche più o men dolorosi. Fra le altre circostanze, le quali entrano a determinare la naturale successione delle sensazioni proprie di un organo sensorio, vi è altresì la noia e la stanchezza, che nasce allorquando le sensazioni non hanno interposte quelle pause, quel riposo dell' organo, che lo rifocilla e rimette in vigore; il qual bisogno di riposo dipende dalla legge stessa che prescrive il metro, determinando le more fra le sensazioni, la durata di queste, l' intensità, ecc.. Ma se i sensorii sono molti, ed ognuno ha il suo proprio metro nella serie delle sensazioni che egli ama, come non accade che i diversi sensorii non vengano in collisione fra loro, quando operano contemporaneamente? - Conviene presupporre, certamente, che l' autore sapientissimo della natura umana li abbia prima di tutto armonizzati insieme per un ammirabile organismo. Oltre di ciò, sopra di tutti ed alla loro testa, per così dire, sta l' unico principio sensitivo, che tutti li domina e accorda insieme, il cui gusto prevalente si è quello che determina il vero piacere che gode l' uomo. Di qui anche l' operare contemporaneo e successivo dei varŒ sensorii riceve una regola suprema, che determina loro il tempo dell' operare, le pause, le proporzioni, le intensità, ecc.. Finalmente nell' uomo, oltre il sentimento animale, vi è il sentimento intellettivo e il sentimento morale; due sentimenti assai elevati, i quali pure hanno una loro naturale armonia nelle loro operazioni e nei loro piaceri. E come il sentimento intellettivo coll' armonia sua propria, che deve prevalere perchè d' un ordine più sublime, modifica nell' uomo l' armonia animale e la raggiunge a sè; così il sentimento morale coll' armonia sua propria modifica e tempera l' armonia animale intellettiva, e la raggiunge e fa servire a sè, riuscendone di tutte insieme una sola armonia, con una sola altissima unità. Laonde nell' uomo sono preordinate e prestabilite le seguenti armonie, che si fondono in una sola: L' armonia degli atti naturalmente successivi dei singoli sensorii. L' armonia dei sensorii fra loro, armonizzati dall' unità del principio sensitivo, onde l' armonia animale. L' armonia animale signoreggiata e informata dal principio intellettivo, onde l' armonia animale7intellettiva. L' armonia animale7intellettiva signoreggiata, informata e compiuta dal principio morale; che è veramente l' armonia intera dell' uomo, armonia umana. Tutto questo complesso di attività armoniche hanno predeterminata dalla natura certa successione di atti fra loro variamente disposti. L' uomo ha l' istinto a questa successione; questo istinto veramente umano non opera sempre con pieno vigore per suo proprio difetto, o per debolezza e vizio dell' uomo; ed allora nascono delle disarmonie nell' uomo. Ma queste disarmonie, che accusano debolezza e vizio nel grande istinto umano, non dimostrano però che egli cessi del tutto dall' operare; egli opera; operano con lui gli istinti armonici parziali; e questo complesso di attività è quello che determina le successive disposizioni, le propensioni e le avversioni, che prende l' uomo nel corso di sua esistenza sopra la terra, che prendono le nazioni nella vita loro ed i secoli nel loro continuo rivolgersi. Dei quali principŒ facciamo qualche applicazione alla spiegazione dei fenomeni. Onde le continue mutazioni della moda? sono esse forse l' effetto del mero arbitrio e del capriccio dei vani, o del calcolo degli speculatori? - Così si crede volgarmente; si attribuisce all' accidente quello la cui causa rimane nascosta, perchè troppo profonda, troppo difficile a rinvenire. Ma se si considera attentamente questo fatto singolare, che si manifesta più o meno nelle nazioni pervenute a certo grado di politezza, si rileverà facilmente essere impossibile che il mero arbitrio di alcuni, che incominciano l' introduzione di una nuova foggia d' abbigliamento e d' ornamento, si faccia ubbidire con tanta docilità alla nazione intera per forma che pare unanime, e senza contrasto verso quella trascinata; e molto meno il gusto di tutti si può conformare e rimutare ogni dì in servigio degli speculatori, i quali non formano il gusto universale, ma speculano anzi sopra di esso. D' altra parte, se si domanda alle persone che diconsi di buon tuono , d' entrambi i sessi, esse vi assicurano che le mode nuove sono proprio le più belle, e che la foggia per qualche tempo usata, prima bellissima, già dispiace poco dopo, annoia, sembra proprio una goffaggine, in modo che è impossibile non credere che ad ogni venire dell' ultima moda non provino veramente un sentimento aggradevole, e non sembri loro in verità sgarbata la precedente. La spiegazione che noi diamo di questo fenomeno frivolo in apparenza, degnissimo in realtà dell' attenzione filosofica, il quale si manifesta più vivamente e più precocemente nelle capitali, per fermo non lo giustifica da quella leggerezza, che egli accusa nei seguaci di una Dea sì volubile ed inesorabile. Anzi convien supporre prima di tutto che là dove incomincia la moda a stabilire il suo regno, siasi sviluppato ed attuato il senso di quel complesso di piaceri sensuali, che la stessa moda sempre variati presenta; complesso risultante da infiniti elementi sottilissimi, quasi essenze eteree, che formano, come direbbe Dante, un incognito indistinto; il qual senso dorme profondamente nella società rozza, o troppo giovane ancora e severa. Dato dunque che questo senso e conseguente istinto siasi desto, attuato, raffinato, non dubitiamo affermare che esso nell' invenzione delle mode che crea ogni giorno, e ogni giorno distrugge, venga determinato dalla legge dell' armonia di successione, per la quale quell' istinto, risultante da innumerabili sentimenti ed istinti speciali, esige propriamente quelle date nuove forme per averne diletto, e non altre; di modo che una legge così ammirabile diriga segretamente la durata più o meno lunga delle usanze e la qualità di esse, e contenga la naturale ragione del perchè dopo un taglio d' abito, a ragion d' esempio, segua quell' altro a preferenza, dopo un colore quell' altro, dopo una forma di addobbamento quell' altra, ecc.; e del perchè piaccia la usanza che succede, e non più quella che prima piaceva. Onde il piacere che si ha di una moda od usanza, non si vuole già attribuire alla forma e qualità di lei isolatamente presa, ma al posto conveniente che ella occupa in tutta la successione dei sentimenti. Di che può essere argomento altresì il vedere che la stessa usanza, che pare sì bella ai nazionali durante il breve tempo del suo imperio, riesca talvolta sgraziatissima a quel forestiero, che di lontana parte giungendo, non ebbe a sofferire l' influenza di tutta la ruota delle usanze, che precedentemente si andò rivolgendo. Una segreta legge, adunque, determina il corso delle usanze e dei frivoli costumi con una cotale fatalità; un' armonia prestabilita dalla natura del sentimento l' una appresso l' altra le produce tutte; e dove questo senso è più delicato e più vivo, come nelle capitali, ivi più prontamente ed esattamente pronuncia ciò che gli conviene, e il pronunciato viene accolto dal pubblico siccome una cotale interpretazione del gusto comune, che rimane così soddisfatto, trovando in esso quello che indistintamente appetiva, senza sapere ben dargli figura ed esistenza. Certo che l' accoglimento, che con ogni docilità si fa universalmente alla nuova foggia, risulta da innumerabili piccoli sentimenti, come dicevamo, appartenenti ai sensorii diversi, a facoltà diverse, ciascuna delle quali ha una successione di atti che preferisce ad ogni altra, perchè ogni facoltà è un sensorio e, come tale considerata, subisce la stessa legge. Il che spiega medesimamente come presso varie nazioni varii il corso delle fogge e delle maniere socievoli; perocchè le circostanze diverse dispongono diversamente il senso della moda, e lo determinano ad un altro corso, fatale egualmente. Ma vi è di più, vi è cosa che ingrandisce il nostro discorso; poichè, qualora bene si consideri, si troverà che la legge di successione armonica, di cui parliamo, ha un dominio estesissimo oltre ogni credere anche in altre cose, a tale che influisce immensamente a determinare le varie consuetudini dei popoli, il corso delle loro opinioni, e fin' anche la serie degli storici eventi. Il gusto delle arti belle e della letteratura mantiene pur esso la legge di armonica successione; perfino le idee perdono ed acquistano del loro splendore in diversi tempi, con leggi segrete, ma impreteribili; e sarebbe stato impossibile, anche per questa cagione, che ai Romani del tempo di Orazio e di Ovidio fosse piaciuto praticare la dura virtù dei Cincinnati, dei Curii e dei Fabrizii; quelli erano divenuti incapaci di averne il sentimento già rimutato, benchè ne restasse loro l' ammirazione altissima nella mente, la quale non si rimuta, perchè contempla l' immutabile vero e l' immutabile bello, che non ha successione, come l' ha il piacevole sensibile. Ed ancora molti altri fatti a questa medesima legge soggiacciono. Perchè a questo o quel tempo si manifestano di repente certi gusti universali in un modo irresistibile? perchè certe opinioni, certe maniere di operare caratteristiche? - Se alla legge, che guida segretamente tutto l' uomo, dell' armonia di successione si aggiunge quella della spontaneità della vita diretta, quel fenomeno rimarrà pienamente spiegato: il salto apparente scomparirà, perocchè quel salto non è che la manifestazione improvvisa, nella riflessione e nella coscienza, del lavoro che si operava prima dentro agli uomini, senza riflessione e senza coscienza. - A noi basta avere accennato questo argomento, vasto campo alla meditazione. I filosofi che verranno dopo di noi, ed avranno più di noi agio e valore, potranno forse utilmente coltivarlo. I cenni che abbiamo dati nel libro precedente, intorno alle leggi dalle quali è guidato il principio razionale nel suo operare, potrebbero bastare all' intento, col quale abbiamo preso a scrivere quest' opera. Ma la parte animale, di cui l' umana intelligenza è circondata, quasi fasce che tutta l' avvolgono e la restringono, ond' essa, libera per propria essenza (chè ogni intelletto risiede nell' infinito), meraviglia di sè, vedendosi circoscritta e rattenuta nel proprio volo da un materiale e bruto elemento, questa parte animale, dico, è così misteriosa, così profonda ad investigare, così molteplice, anzi inesausta, che non possiamo a meno di tornarci sopra qui in sulla fine, studiandoci di aggiungere qualche chiarezza maggiore, se ci vien fatto, e qualche nuovo svolgimento delle cose dette di lei; senza di che non parrebbe forse al lettore di avere ancor in mano nè tampoco i primi fili della grande accia. E poichè l' animalità, come ogni altro ente finito, ha due parti, la passiva, cioè formata di sentimenti, e l' attiva formata di istinti (1), noi lasciando quella da parte, di cui abbiamo sufficientemente ragionato, ci continuiamo nel discorso di questa, tracciando più alla distesa le leggi, che presiedono all' attività istintiva dell' animale. Questa attività fu da noi partita in due grandi istinti, che abbiamo denominati istinto vitale ed istinto sensuale (2); investighiamo adunque, più accuratamente che per noi si possa, la legge dell' uno e dell' altro istinto, e i modi di operazione che conseguono all' efficacia di quelle leggi. L' ente è il contrario del nulla; perciò il concetto di ente involge il concetto di un atto, e l' atto con cui un ente è, è il contrario dell' atto con cui un ente si annulla. Se dunque un ente è, conviene supporre che egli abbia un atto che lo pone, ripugnante all' annullamento; questa è la virtù che ha l' ente di conservarsi. Il primo atto, con cui l' ente è posto, ripugnante necessariamente alla distruzione, ha per termine la forma dell' ente stesso. Perchè poi un atto finisca in una forma, un altro atto in un' altra forma (onde la diversità degli enti), la filosofia non può trovarne ragione altrove che nell' atto libero del Creatore. Che se l' atto col quale l' ente è posto, è quello con cui è posta la propria forma dell' ente, conseguita che la tendenza di questo atto debba essere volta a porre la forma dell' ente nel modo il più perfetto; poichè quanto più incompletamente fosse posta la forma, tanto meno l' ente esisterebbe e più egli si approssimerebbe al nulla, dal quale l' atto, come dicevamo, necessariamente ripugna. Dunque la ragione, per la quale l' atto non pone la forma dell' ente compiutamente, non può venire dallo stesso atto col quale sussiste, ma unicamente da qualche causa straniera al medesimo, che lo impedisce di conseguire semplicemente e compiutamente la sua forma, a cui tende. Applichiamo questi principŒ ontologici e cosmologici all' ente animale. L' atto, con cui l' ente animale è posto, pel quale è posta la sua forma, è quello che abbiamo chiamato istinto vitale ; la forma poi dell' animale è il sentimento fondamentale, determinazione e compimento di quell' atto medesimo. Dunque vi sarà la seguente legge: Legge dell' istinto vitale « L' istinto vitale tende a porre in essere il maggior possibile sentimento fondamentale ». Non si deve già credere che quell' istinto , a cui noi attribuiamo la produzione del sentimento fondamentale, esista prima di averlo prodotto. No, se non vi fosse sentimento, non vi sarebbe attività vitale. Ma dato un sentimento fondamentale, nel seno di questo si distingue coll' opera della mente quella attività che lo pone e mette in essere, dal sentimento posto, quasi due elementi, l' uno attivo e l' altro passivo, che costituiscono un medesimo e indivisibile sentimento; e questa è distinzione reale. Quindi le funzioni dell' istinto vitale sono necessariamente le seguenti: - I Funzione . - Quella di conservare il sentimento fondamentale producendolo di continuo - Funzione animatrice e conservatrice . - L' animale, mediante questa funzione, che è quella per la quale è, resiste alla distruzione, ripugna a disciogliersi, è in un continuo conato di mantenersi. Ciò che si oppone a questo conato, senza al tutto vincerlo, fa nascere una modificazione ingrata nel sentimento, che si chiama dolore . II Funzione . - Quella di attivare il sentimento fondamentale in modo che esso abbia la maggior possibile estensione continua. - Funzione diffonditrice o aggregatrice , la quale si manifesta colla nutrizione, ecc.. - III Funzione . - Quella di assettare e comporre il sentimento fondamentale in modo che abbia il maggior grado d' intensità, ossia di eccitamento stabile - Funzione eccitatrice e accumulatrice del sentimento. IV Funzione . - Quella che nasce in conseguenza delle tre prime, cioè di agire sul termine corporeo, e quindi di dare alla materia l' organizzazione animale - Funzione organizzatrice . Nasce questa funzione in conseguenza delle tre prime; poichè essendo il corpo, come abbiamo veduto, il termine del sentimento animale, se questo sentimento colla sua naturale attività tende a conservarsi, a dilatarsi, a rendersi più intenso, conseguentemente agisce sul corpo extrasoggettivo, e produce nella materia di questo degli intestini e spesso impercepibili movimenti, che lo disciolgono e lo ricompongono, recandone gli elementi e le molecole in questi spazi che il sentimento vuole occupare pel suo istinto, che è quello di divenire maggiore, di porsi in uno stato il più pieno e completo. Ora la funzione organizzatrice, non essendo che le stesse tre funzioni primitive in quanto si considerano rispetto agli effetti che esse producono nel corpo e nella materia del corpo, consegue necessariamente che la funzione organizzatrice si debba distinguere in tre momenti, che sono: Primo momento della funzione organizzatrice . - Quello che consiste in un' azione, che l' istinto vitale esercita sul corpo suo termine, colla quale lo costituisce costantemente termine del sentimento fondamentale, e però lo ritiene acciocchè non si divida dal sentimento - Resistenza alla morte, rattenenza (1). Secondo momento della funzione organizzatrice . - Quello che consiste nel rapire entro l' ambito del proprio sentimento le particelle straniere (2), a tal fine riducendole, assimilandole al resto del corpo, atteggiandole e componendole fra loro come debbono essere all' uopo - Assimilazione e riproducibilità delle parti viventi (3). Terzo momento della funzione organizzatrice . - Quello che consiste nella spontaneità motrice7vitale , cioè in quella virtù per la quale il sentimento fondamentale, tendendo a conservare l' eccitazione e ad essere via più eccitato per salire al suo massimo grado d' intensità, aiuta e continua i movimenti eccitati nel suo termine dagli stimoli esteriori, acciocchè, perpetuandosi o aumentandosi il moto, si perpetui o si aumenti l' eccitazione a sè conveniente. La prima funzione, che pone e riproduce di continuo il sentimento fondamentale, non ha tanto di forza da poter ritenere il corpo che è suo termine, ed impedire che su di lui non operi un principio estraneo, che tende a sottrarlo alla sua attività. Questa inefficacia della prima funzione animatrice e conservatrice è degna di osservazione. Ella presta il fondamento alla distinzione da noi fatta tra corpo e materia . Chiamammo corpo e materia un medesimo ente; ma lo chiamammo corpo, in quanto esso è dominato dal sentimento che lo rende suo termine; e lo chiamammo materia, in quanto egli si sottrae all' efficacia del sentimento e si lascia muovere da forze straniere, raccolte da noi sotto il nome generale di sensifero . Ove non è punto assurdo il concepire diversi gradi nella potenza colla quale il principio senziente, come istinto vitale, domina sul suo termine, il massimo dei quali gradi sarebbe quello per cui egli disponesse del corpo, sottraendolo all' azione di tutte le altre forze sensifere, o rendendo nulla una tale azione. E qui avverta il lettore che noi non intendiamo di entrare nella questione delle cause, per le quali viene limitato il dominio del principio vitale sul proprio termine, o la potenza che ha di ampliare il proprio termine; cioè non intendiamo affermare che la virtù del principio vitale sia per sè stessa limitata, ovvero che questa virtù sia piuttosto per sè illimitata e indefinita, ma riceva poscia una limitazione dalle condizioni a cui è legata, le quali le impediscano di spiegarsi quanto essa potrebbe, sicchè da queste e non da sè direttamente dipenda il suo svolgersi e dispiegarsi più o meno, e così il manifestare un maggiore o minore imperio sul termine. Della quale questione abbiamo toccato altrove. La funzione diffonditrice e la funzione eccitatrice possono venire in collisione, qualora il sentimento non si possa diffondere se non a spese dell' accumulamento e dell' eccitamento. In tal caso l' una coll' altra s' impediscono; ma quantunque sia difficile lo stabilire le leggi precise che presiedono ad una tale collisione, tuttavia pare che si ravvisino ben chiare queste due: I - Essendo il massimo eccitamento naturale del sentimento il migliore stato, lo stato naturale di un sentimento fondamentale, perciò in ragione dell' attività della funzione eccitatrice cresce anche l' attività della funzione diffonditrice; e viceversa, diminuisce. II - Se la funzione eccitatrice è debole o i diversi eccitamenti stabili non armonizzano più fra loro, l' uno non influendo più utilmente sull' altro, allora la funzione diffonditrice o non è abbastanza subordinata alla funzione eccitatrice, o non è da questa armonicamente diretta. Quindi vi è sconcerto nell' animale e tendenza a dividersi una parte del continuo sentito dal suo tutto. Quanto ai due ultimi momenti della funzione organizzatrice, il terzo serve al secondo, perchè, fra gli altri effetti che produce, mantiene le particelle così sollevate che non possano indurire, e per tal guisa ottiene che se ne acceleri il vortice che trita, assimila ed espelle, favorendo l' assorbimento e producendo le secrezioni e le escrezioni (1). E quando dico che mantiene le particelle sollevate, non intendo già che le divida per modo che ne tolga il contatto; ma intendo che diminuisce e tempera la gravitazione delle une sopra le altre, e le volge ed atteggia in modo che il contatto si faccia in meno punti di esse, il che influisce a rotondarle; intendo pure che tiene aperti convenientemente i pori e i meati, ecc.. L' istinto sensuale non è che un' azione continuata dell' istinto vitale, e propriamente della terza funzione di questo, che chiamammo eccitatrice . Il primo principio motore è il medesimo, è l' atto che pone la forma dell' animale; ma il principio motore prossimo nell' istinto sensuale è il sentimento già posto in essere, dal quale nasce nuova attività. L' istinto sensuale, adunque, si può definire « quel movimento dell' istinto vitale che lo porta a far sì che, prodotto un sentimento, questo divenga il più intenso e completo possibile mediante eccitamenti opportuni ». Ma posciachè questi eccitamenti possono essere stabili, cioè ripetuti continuamente mediante una legge fissa (come accade nel sentimento fondamentale di eccitamento), e possono essere passeggieri ed accidentali, che modificano per breve tempo il sentimento fondamentale; perciò a quella funzione, che tende a conservare o riprodurre l' eccitamento stabile, si lascia il nome d' istinto vitale, e si denomina istinto sensuale quella funzione, che tende a procacciare al sentimento stabile degli eccitamenti passeggieri e parziali, onde nascono le sensioni e le passioni. La quale distinzione riesce comoda alla scienza ed è importante; poichè l' eccitamento stabile è quello che caratterizza, come dicevamo, il sentimento fondamentale, e però entra siccome elemento a costituire la base della classificazione filosofica degli animali, cessando la determinata forma dell' animale al cessare dello stabile e caratteristico suo eccitamento. Premesse le quali osservazioni, diciamo che la legge dell' istinto sensuale è la seguente: Legge dell' istinto sensuale « L' istinto sensuale tende a far sì che le sensazioni parziali e passeggiere, le quali si suscitano nel sentimento fondamentale, in quanto sono piacevoli, divengano massime mediante stimoli ed eccitamenti passeggieri ». Di conseguente nell' istinto sensuale si distinguono le seguenti funzioni: I Funzione . - Quella della spontaneità sensuale, per la quale ogniqualvolta uno stimolo esteriore viene applicato ad un animale in modo da eccitare il sentimento ad un suo atto secondo più perfetto, cioè alla sensazione piacevole, il principio sensitivo asseconda quello stimolo colla sua attività spontanea, e si accresce e prolunga l' effetto della gradevole sensazione (attività dell' anima concorrente in tutte le sensazioni). II Funzione . - Quella della propensione sensuale, per la quale il principio sensitivo si attua e dispone ai suoi atti secondi gradevoli, mediante la forza sintetica animale (1), che, data un' eccitazione (sensazione gradevole), lo inclina verso un' altra, presentita da lui quale completamento della prima. III Funzione . - Quella dell' avversione sensuale, che è il movimento contrario della propensione, e nasce mediante la forza sintetica7animale, che, data una propulsione (sensazione sgradevole), disagia il principio sensitivo e gli dà un' attitudine ritrosa al completamento presentito della detta propulsione. IV Funzione . - Quella della contro7spontaneità sensuale, mediante la quale ogniqualvolta uno stimolo esteriore viene applicato all' animale in modo da propulsare il sentimento, che è quanto dire da produrre una sensazione dolorosa, il principio sensuale lotta contro la forza dello stimolo, cercando di ritenere in tutta la sua pienezza il sentimento fondamentale, con esso insieme le particelle a cui aderisce, e che si vogliono o dividere da lui o sconcertare. V Funzione . - Quella della spontaneità7motrice sensuale, che è conseguenza delle quattro prime. Perocchè ai quattro indicati atteggiamenti e movimenti del sentimento corrisponde un' azione nel corpo animato e nella materia del medesimo, secondo il principio posto, che « a tutte le modificazioni del sentimento rispondono dei fenomeni extrasoggettivi ». E però quest' ultima funzione, considerata nei suoi effetti, ha sei momenti, i quali sono: Primo momento della spontaneità motrice sensuale . - Esso si manifesta negli atteggiamenti, movimenti (piccoli e grandi), che si producono nel corpo animale extrasoggettivo da tutta quella passione complessiva, che si può unire sotto il nome di mobilità concupiscibile . Secondo momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che il corpo extrasoggettivo dell' animale riceve dall' attività che egli pone nelle sue attuali sensazioni e passioni piacevoli, la quale attività si potrebbe chiamare mobilità voluttuosa . Terzo momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e impedimenti di moti, che il corpo extrasoggettivo dell' animale riceve da quella passione complessiva che resiste ad un eccitamento spiacevole, nè si lascia agevolmente muovere, e che si può unire sotto il nome di mobilità ritrosa . Quarto momento . - Esso si manifesta negli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che si producono nel corpo animale extrasoggettivo da quella passione complessiva che, presentendo lo spiacevole esito di una specie di movimenti, si sforza di determinare movimenti contrarii, e che si può chiamare mobilità avversiva . Quinto momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che il corpo extrasoggettivo dell' animale riceve dallo sforzo, che fa il principio sensitivo di mantenersi nella sua intensità e nel suo movimento contro le forze esteriori contrarie che glielo impediscono, il quale sforzo si potrebbe chiamare mobilità irosa . Sesto momento . - Esso si manifesta in quegli atteggiamenti e movimenti (piccoli e grandi), che il corpo extrasoggettivo animale riceve dalla mobilità simpatica, che è quella che ubbidisce all' immaginazione ed al pensiero, onde all' immaginazione di cose tristi nascono nel corpo movimenti deprimenti le forze, e il contrario all' immaginazione di cose liete. E questo è uno dei fonti, da cui procedono le forze perturbatrici della natura (1). Tutti questi sei momenti riguardano effetti, che si manifestano all' osservazione esterna ed extrasoggettiva in conseguenza del sentimento che diversamente si atteggia, e che si considera come la causa soggettiva di essi. E queste sei classi di effetti si riducono sempre a movimenti, giacchè i movimenti sono i fenomeni extrasoggettivi, corrispondenti nell' animale ad altrettanti sentimenti, che sono i fenomeni soggettivi a quelli paralleli. Ora, raccogliendo tutte le funzioni ed operazioni dei due istinti, gioverà porle qui sott' occhio dei lettori nella qui unita tavola. L' istinto sensuale, non cercando altro effetto colla sua attività che quello di godere l' eccitazione passeggera del sentimento, esso, mediante l' ultima sua funzione della spontaneità motrice7sensuale, produce sovente tali movimenti nel corpo e nella materia di esso che si oppongono a quelli che tende a produrvi la funzione organizzatrice dell' istinto vitale . Di che la spontaneità motrice7sensuale diviene bene spesso un principio disorganizzatore, che lotta coll' organizzatore. Quindi si scorge un altro fonte delle forze perturbatrici della natura animale (1). La quale perturbazione non di meno si renderebbe impossibile, qualora il corpo fosse pienamente dominato dall' istinto vitale; il che abbiamo detto non involgere contraddizione; e qui aggiungiamo che un tale dominio appartiene all' ideale della vita animale, cioè sarebbe il maximum della vita. Che se l' istinto vitale ricevesse di più un tal vigore da ritenere a sè le molecole corporee, senza che da niuna causa le potessero essere sottratte, o se fosse almeno così protetto che di fatto niuna forza straniera gliele sottraesse, non si potrebbe più dar lotta fra l' istinto vitale ed il sensuale; ed ancora ne seguirebbe l' immortalità. Ora poi giova qui volgere uno sguardo ai concetti di Brown. Quale relazione ha l' eccitabilità browniana colle diverse attività da noi attribuite alla vita? - Allorquando si considera che Brown trasse il concetto dell' eccitabilità dagli effetti che gli stimoli producono sul corpo vivente, effetti che sono agli occhi suoi il senso, il moto muscolare, l' attività pensante e gli affetti dell' animo, deve fare la più grande meraviglia com' egli abbia potuto sostenere che la proprietà dell' eccitabilità sia una ed indivisibile in tutta la macchina animale, sicchè ella non possa diversificare che di quantità nelle diverse parti di lei. Non è a pieno dimostrato che gli stimoli non mettono in essere il fenomeno della sensazione (stando alla coscienza, solo testimonio autorevole di questo fatto) in tutte le parti del corpo nostro vivente? E quanto al pensiero, non è assurdo l' attribuirlo ad un organo, ad una macchina vivente qualsiasi? Si confondono adunque insieme dal medico scozzese tre distintissime classi di effetti: 1 il movimento, fenomeno extra7soggettivo, che si manifesta non pure nei muscoli, ma in ciascuno dei quattro tessuti, nel cellulare come nel vascolare, nel muscolare come nel nerveo; 2 il sentimento animale, fenomeno soggettivo, che non si riconosce per niuna osservazione extra7soggettiva, ma per la sola deposizione della coscienza; 3 il pensiero, fenomeno soggettivo7oggettivo, che si toglie del pari affatto all' osservazione extra7soggettiva, e che si rivela per sè stesso immediatamente ponendo la coscienza. Quanto agli affetti, questi sono una sequela, parte del sentimento animale e parte del pensiero; sicchè vanno suddivisi e collocati nelle due ultime classi. Come dunque raccogliere in una sola proprietà effetti di essenza così disparata, e anzi aventi fra loro la più grande opposizione? Se dunque si vuole intendere per eccitabilità una proprietà unica, di cui gode più o meno ogni parte del corpo vivente, conviene restringerne il significato, riducendo una tale eccitabilità alla proprietà, che ha il corpo animale di muoversi con un dato moto suo proprio sotto gli stimoli; alla quale proprietà si potrebbe dare il nome di contra7distensione . Quanto poi alla sensione, si dovrebbe riconoscere come effetto meramente concomitante al movimento contrattile7distensivo, effetto che non segue sempre quel movimento, ma solo quando si produce in un certo modo e in certe determinate parti del corpo animale, che perciò si dicono sensitive. Finalmente il pensiero, lungi dall' appartenere a qualche parte del corpo, è anzi un fatto, che a niun organo corporale aderisce, e solo che si consideri, vedesi al tutto immune da corporea concrezione, e meno ancora simile al movimento di quello che sia il peso al colore. Che se il pensiero si suscita in occasione che il movimento contrattile7distensivo, prodotto non in tutte, ma in certe determinate parti del corpo, e non in tutti i modi, ma in certi determinati, pone in essere la sensione; non è per questo che esso sia qualche cosa di simile o di analogo alla controdistensione. Esso non è neppure a questa concomitante; è bensì di solito concomitante alla sensione, e ciò perchè questa presta la materia del pensare ed eccita l' anima sensitiva, che è anche ad un tempo razionale, a fare le operazioni sue proprie in quella maniera che altrove abbiamo spiegato (1). Rimane dunque che la eccitabilità browniana non possa essere altro che la proprietà della contro7distensione, giacchè in questo solo caso ella è una proprietà omogenea, ed eguale di specie per tutte egualmente le parti del corpo animato (1). Ora, determinato così il senso ragionevole della eccitabilità, che noi d' ora in avanti chiameremo extra7soggettiva per distinguerla dall' eccitabilità del sentimento, potremo rispondere alla domanda che ci facevamo: « quale relazione abbia l' eccitabilità browniana, ossia extrasoggettiva, colle diverse attività da noi attribuite al principio vitale ». E primieramente è chiaro: 1 che l' eccitabilità extra7soggettiva non abbraccia tutte le proprietà e attività del corpo vivente; 2 che ella si deve riscontrare entro la sfera di quelle due funzioni, che abbiamo denominate funzione organizzatrice e funzione della spontaneità motrice sensuale; 3 che in queste due funzioni si contiene tuttavia più che nella sola eccitabilità extra7soggettiva. E veramente, nella funzione organizzatrice cadono tre momenti, a cui demmo i nomi di rattenenza, riproducibilità e spontaneità motrice vitale . Ora la rattenenza è cosa al tutto diversa dalla eccitabilità, poichè quella non si riferisce agli stimoli esterni siccome questa, non essendo che lo sforzo che fa il principio vitale di conservare lo stato di vita alle molecole, che si trovano già vive, rattenendole acciocchè non escano dalla sfera della sua azione. La riproducibilità esige bensì della materia stimolante che deve venire assimilata al corpo vivente, ma l' effetto della forza riproduttiva non è solamente il movimento contrattile7distensivo, nel che solo consiste l' eccitabilità extrasoggettiva, ma è di più l' assimilazione della materia stimolante, la quale, cessando di essere stimolo, si cangia in parte del corpo vivente (2), e così diviene ella stessa eccitabile. Rimane la spontaneità motrice vitale . Questa ha bisogno certamente di stimoli continui, ma essa non produce solamente la controdistensione, ma produce di più la diminuzione della reciproca coerenza delle molecole e degli elementi di cui il corpo vivo si contesse, affine di facilitare quegli interiori movimenti che innalzano il grado del sentimento. Sicchè la spontaneità7motrice vitale cagiona un doppio effetto: 1 fa perdere alle molecole e agli elementi che le compongono, quella reciproca coerenza che avrebbero, se le attrazioni fisiche e affinità chimiche potessero operare liberamente, e impedisce ben anche, io credo, che vengano fra loro a troppi punti di contatto; tutto ciò, quanto è necessario a facilitare i movimenti eccitatori del sentimento fondamentale; questo effetto è al tutto diverso dall' eccitamento extrasoggettivo; 2 asseconda, aumenta e cresce i movimenti eccitatori del sentimento. Questo secondo effetto è solo quello che appartiene all' eccitamento extrasoggettivo, ma con una limitazione, che noi esporremo più sotto. Veniamo ora ai momenti dell' altra funzione, da noi chiamata spontaneità motrice sensuale . Ne distinguemmo sei, denominandoli: mobilità concupiscibile, voluttuosa, ritrosa, avversiva, irosa e simpatica . Ora tutte queste specie di movimenti animali noi crediamo che si possano probabilmente ridurre, quanto alla loro forma, alla contro7distensione, e che perciò possano riferirsi in qualche modo alla eccitabilità di Brown; ma anche qui con una limitazione. Questa limitazione è simile a quella che testè indicavamo, parlando del secondo effetto della spontaneità motrice vitale; e dobbiamo esporla. Quando si ammette la sola eccitabilità extrasoggettiva per unica proprietà del corpo vivente, deve seguirne che il suo effetto, cioè l' eccitamento, sia in ragione degli stimoli primitivi, a tal che cessando questi, cessi anche quello. Quindi non ha più luogo la spontaneità motrice, divisa da noi nei due rami di vitale e di sensuale, cioè a dire non ha più luogo quell' aumento e continuazione di moto, che persevera nel corpo vivo anche cessando gli stimoli primitivi. Ma se all' opposto si ammette che la sensitività è una potenza che produce effetti extra7soggettivi, essenzialmente distinta dall' eccitabilità e a questa precedente, allora s' intende come, cessati gli stimoli esteriori, possano continuare i movimenti nel corpo umano e succedersi con leggi determinate; avendosi un principio a cui attribuirsi convenientemente tali movimenti spontanei. Ora sono pur questi innegabili; e i medici italiani, che hanno meditato sulla teoria browniana e sperato di perfezionarla, li hanno riconosciuti quando hanno dato il nome di diatesi a quella condizione morbosa che non si tiene in proporzione degli stimoli esterni, e che indipendentemente da essi percorre certo stadio con successivi processi morbosi. Se dunque si considera la spontaneità motrice, tanto vitale che sensuale, come potenze che dagli stimoli esterni vengono suscitate e poste in un certo grado di orgasmo, si può acconciamente, sotto questo aspetto, attribuir loro la proprietà browniana dell' eccitabilità extrasoggettiva. Ma se si considera, poi, che la loro attività così suscitata si mantiene qualche tempo da sè stessa, rimossi gli stimoli primitivi, e si spiega in reciproche azioni, che vanno producendo una serie di stati ed affezioni del corpo umano, nella quale il precedente stato è cagione del susseguente; in tal caso nella spontaneità motrice si deve riconoscere un' attività maggiore e grandemente diversa dall' eccitabilità extrasoggettiva. Se si considera, di più, che la spontaneità motrice vitale differisce di grado nei diversi organi del corpo umano, e che la spontaneità motrice sensuale è anch' essa variamente distribuita e, come a noi sembra probabile, non conserva l' unità del suo principio, come diremo in appresso; ci si renderà chiaro il fatto delle località morbose, illustrato dal Professor Fanzago e da altri illustri medici, il quale non può spiegarsi colla sola eccitabilità universale di Brown; come pure riceveranno luce le malattie chiamate dai medici irritative . Dalle quali cose tutte apparisce che il sentimento non deve già considerarsi quale semplice effetto dell' eccitabilità e degli stimoli, come lo considerò Brown; anzi deve in lui riporsi la vera causa della stessa eccitabilità extra7soggettiva, che agli occhi nostri non può essere altro che un effetto, prodotto nel corpo, dell' attività annessa al sentimento. La serie adunque delle cause e degli effetti in tutti i fenomeni animali, divisi in due grandi classi, soggettivi ed extrasoggettivi, va disposta in quest' ordine: I - Sentimento fondamentale (soggettivo), avente la tensione o il conato che abbiamo altra volta descritto. II - Movimento (extra7soggettivo) delle parti sensibili del corpo umano, eccitate dagli stimoli esterni convenienti, e nel modo conveniente acciocchè nasca l' eccitazione del sentimento fondamentale. III - Sensioni (soggettive), ossia modificazioni del sentimento fondamentale, suscitate in esso dalla eccitazione. IV - Conati e movimenti conseguenti alle sensioni (extra7soggettivi), da noi raccolti sotto le due attività denominate funzione organizzatrice e spontaneità motrice7sensuale . Dalle quali serie apparisce che i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi si alternano; e che tutta l' attività muove dal principio soggettivo, che produce fenomeni soggettivi, a cui succede una classe di fenomeni extra7soggettivi; ed a questa un' altra classe di fenomeni soggettivi; ed a questa un' altra di fenomeni extra7soggettivi, ecc.. Secondo la nostra teoria dell' istinto animale vi sono dunque quasi due sfere di fenomeni: la sfera dei fenomeni soggettivi e la sfera dei fenomeni extra7soggettivi; in altre parole, la sfera dei sentimenti e la sfera dei movimenti esterni. La prima sfera provoca la seconda; i movimenti vengono prodotti dai sentimenti; nei sentimenti sta la causa, tutta soggettiva, nei movimenti sta l' effetto, tutto extra7soggettivo (1). Il corpo è una sostanza, ma in quanto è termine del principio sensitivo, in tanto è occasione dei fenomeni soggettivi, cioè dei sentimenti. In quanto poi è sensifero, cioè forza straniera immutante il termine del sentimento, in tanto è occasione dei fenomeni extra7soggettivi, cioè dei movimenti e loro conati. Essendo dunque una la sostanza del corpo, non vi è ripugnanza a concepire che l' anima, che ha efficacia sul corpo soggettivo in quanto è termine del suo sentimento, produca per un conseguente necessario nel corpo i fenomeni extra7soggettivi; perchè il corpo soggettivo ed extra7soggettivo è il medesimo, quanto alla sostanza. Così l' influsso dell' anima sul corpo, la virtù che ha uno spirito semplice di mettere in movimento un corpo, perde molto del mistero in che si avvolgeva. Poichè non si può trovare alcuna difficoltà nel concetto di un' anima, che sia attiva nel proprio sentimento e che non esce da questo; chè il sentimento è cosa incorporea e semplice anch' esso. Ora, noi non diamo all' anima altra virtù che quella che si spiega entro i limiti del proprio sentimento; la quale virtù non gliela possiamo negare, poichè la continua esperienza ci attesta che l' anima colla propria energia modifica il proprio sentimento. E questo sentimento noi l' abbiamo sottomesso all' analisi, ed abbiamo trovato che è il talamo, in cui si congiunge l' esteso col semplice. Ma di più abbiamo scoperto che questo esteso, che costituisce il termine necessario del sentimento, è egli stesso una sostanza, la quale non ha soltanto la condizione di termine del sentimento, ma è operativa al suo modo anche fuori del sentimento, dove comparisce siccome forza straniera al sentimento e immutante il termine di lui, onde acquista le due appellazioni di materia e di corpo. Di che appare oggimai la cagione manifesta perchè ai fenomeni soggettivi rispondano altrettanti fenomeni extra7soggettivi, e viceversa; e quindi perchè l' anima senza uscire dal proprio sentimento, operando unicamente sopra il termine di esso, possa determinare un corpo a cangiar di luogo, e in una parola a muoversi. Ed è da notarsi che questa maniera colla quale l' anima muove il corpo, è una maniera di suscitare il movimento interamente diversa dall' impulso e da ogni altra comunicazione meccanica del moto; e la diversità è immensa, si potrebbe dire, infinita; perocchè, per restringere il discorso nostro, vi sono almeno queste due differenze: I - Che la comunicazione meccanica è limitata a comunicare quella quantità di moto che già esiste, e non più; laddove l' anima produce, e per così dire crea il moto, nè si può assegnarvi una quantità, essendo il moto altrettanto, quanta è l' attività dell' anima sul proprio sentimento, che può essere ad ogni istante accresciuta o diminuita. II - Che la comunicazione meccanica è limitata a comunicare il moto successivamente, trapassando questa da una molecola all' altra di un corpo che viene impulso o attirato, con diversità di tempo, e quindi con oscillamento delle parti, rottura talora della coesione fra esse, cessazione della continuità di comunicazione, quando per esempio la coesione è poca, come nei fluidi, o viene tolta dalla violenza che strazia il corpo, ecc.; laddove l' impressione del moto veniente dall' anima, in quanto si restringe all' esteso, termine del sentimento, è simultanea in tutto quell' esteso in cui ella intende operare; quindi le parti di questo esteso non ne vengono punto disgregate e sconnesse, e possono essere mosse come all' anima piace, ed egualmente se trattasi di fluido o di solido (forme extra7soggettive del termine), e di più senza che si possa segnare un preciso limite alla quantità del moto che si sta imprimendo. Le quali cose chi considera attentamente, s' accorgerà che l' aver trovato questa maniera tutta diversa dalla meccanica, colla quale l' anima suscita e crea il moto nel termine del proprio sentimento, e quindi altresì nel corpo extra7soggettivo, è oltremodo preziosa alla spiegazione dei fenomeni. Poichè qualunque altra maniera conosciuta fin qui di comunicare il movimento, è al tutto insufficiente a spiegare in che modo l' anima, per istinto o per volontà, possa muovere le membra del proprio corpo. Si considerino i pesi che porta un facchino, o gli sforzi che fa un atleta; come i muscoli vengono potentemente contratti o distesi da rendere obbedienti le ossa, e coll' aiuto di queste premere, spingere, stringere, attirare, lanciare, vincere insomma enormi resistenze? La volontà, dicono i fisiologi, inizia i suoi movimenti nel cervello; ma può essere forse il cervello, sostanza così molle, un punto fermo da appoggiare, direi quasi, la leva, un punto di resistenza onde originare meccanicamente quella superba potenza che si manifesta nelle gambe e nelle braccia, ecc.? Se l' anima imprime il movimento alla sostanza encefalica, e se è questa la quantità di movimento che deve venirsi comunicando pei nervi ai muscoli, pei muscoli alle giunture, successivamente, come accade nella comunicazione del moto meccanico; si avrà mai l' effetto desiderato? Nella sostanza molle del cervello non può eccitarsi che una minima quantità di moto, meccanicamente incomunicabile alle parti più resistenti, e il fenomeno da spiegare ci presenta in quella vece una quantità di moto ragguardevolissima. Se quella minima quantità di moto, che si suppone nella sostanza tenerissima del cervello, fosse quella stessa di cui partecipano i nervi ed i muscoli che sostengono grandi fatiche, quella piccola quantità si sarebbe dovuta accrescere per via; ma in qualunque comunicazione meccanica, all' incontro, ella si sarebbe dovuta anzi diminuire per le resistenze e spegnere del tutto. Non vi è dunque speranza di spiegare colle leggi meccaniche quel movimento, che l' anima imprime alle membra del corpo. Cessa all' incontro ogni difficoltà, abbracciando la espressa teoria. Poichè in questa l' anima esercita quell' efficacia, che ella possiede, nell' esteso che è termine del suo sentimento, e ciò simultaneamente, in tutte le parti di lui in che ella agisce, e questa azione più o meno efficace senza determinata misura; e la modificazione prodotta non ha bisogno che sia tutta nella stessa direzione, o in linea retta, ecc.; ma può avere quella forma, e per così dire quello stampo che all' anima piace, e variare a talento; onde nell' ordine extra7soggettivo possono comparire tutti quei movimenti molteplici, vari, potenti, circolari, ecc., che fanno bisogno, e che si manifestano in fatto quando l' uomo muove il proprio corpo a suoi diversi intendimenti, come attesta la comune esperienza. Si ricorse alle forze attrattive, alla elettricità, al magnetismo, ecc.. Ma i movimenti istintivi o volontari delle varie membra del corpo non obbediscono punto alle leggi secondo le quali si muovono questi agenti abbandonati a sè stessi. Che se si vuole che tali agenti sieno in potere dell' anima che li renda suoi ministri, non ripugna a pensare che anche di questi l' anima si possa in parte servire; ma primieramente non di questi soli. E in ogni caso le difficoltà così si moltiplicherebbero invece che diminuirsi, rimanendo le due questioni: 1 come l' anima possa far sentire il suo potere motore e dominatore a questi agenti; 2 come questi agenti possano comunicare alle membra il potere dell' anima, che può volere e disvolere, e imperare da un momento all' altro i moti più complicati e più contrari. Per non dire che nella prima di queste due questioni converrebbe ancora ricorrere all' efficacia, che ha l' anima entro la sfera dell' ordine soggettivo, dalla quale non esce. Ora i fenomeni elettrici, magnetici, ecc., appartengono unicamente all' ordine extra7soggettivo. La questione adunque si rimarrebbe quella di prima, nè riceverebbe soluzione se non ricorrendo alla teoria da noi proposta. Le leggi dell' attività animale manifestano i loro effetti in certi corpi, i quali si dicono viventi. Quei corpi, che non presentano i fenomeni prodotti dall' attività animale, si suppongono inanimati e si dicono materia bruta. La materia bruta manifesta anch' essa certe leggi nel suo operare. E queste leggi, e i fenomeni nei quali esse appariscono, danno un' apparente opposizione coi fenomeni, che presenta l' operare dell' animalità; le forze, di cui si mostra dotato il corpo vivo, e quelle della materia bruta sembrano bene spesso lottare fra loro. L' opposizione fra le leggi dell' attività animale e quelle dell' attività materiale è ella vera o solo apparente? esiste realmente una lotta? trattasi di una lotta tra forze di diverso genere o dello stesso? - Non possiamo trapassare queste questioni importantissime, senza proporre almeno delle congetture. Incominciamo dalla legge dell' inerzia. Riflettiamo in prima che tutti gli esseri contingenti, e non la sola materia, ubbidiscono ad una legge d' inerzia; ma la loro inerzia differisce di grado. Questa inerzia universale si fonda nella potenzialità che hanno tutti gli esseri finiti, nessuno dei quali è atto puro, proprietà del solo essere necessario. Poichè, essendo gli enti finiti altrettante potenze, essi non hanno in sè la ragione piena dei loro atti secondi, e però non possono passare dalla potenza all' atto, se non dati certi stimoli, certe condizioni (1). Ora vediamo come nasca la lotta apparente pei gradi di maggiore inerzia, che ha la forza bruta a confronto del corpo animato. Il corpo bruto non passa dalla quiete al moto, se non gli viene applicata una forza a lui straniera, la quale invadendolo e non più abbandonandolo, lo fa continuare a muoversi nella stessa direzione, fino a tanto che una forza contraria pure straniera non distrugga l' effetto della prima. Ma l' attività animale fa qualche cosa di più relativamente al moto che produce nei corpi, come si può rilevare considerando le due sue funzioni, chiamate da noi organizzatrice e della spontaneità motrice sensuale . Infatti un corpo bruto, ove sia mosso, continua a muoversi in linea retta; all' incontro la funzione organizzatrice, tendente a mettere in essere il sentimento fondamentale nel suo maggior grado possibile d' intensità, tende a dare alle particelle corporee quegli atteggiamenti e quegli intimi movimenti, che rispondono allo stato migliore di detto sentimento; i quali non possono essere in linea retta, perchè le dette particelle si disgregherebbero disciogliendosi lo stesso sentimento. Quindi l' apparente lotta tra la forza d' inerzia della materia bruta e l' attività vitale, per le direzioni contrarie che prescrivono ai movimenti dei corpi (2). Il somigliante conviene dire della spontaneità sensuale, che è quella funzione per la quale il principio senziente seconda colla sua attività tutti quei movimenti, che gli procurano una sensazione gradevole. Poichè in questo fatto è sempre bisogno che gli stimoli stranieri incomincino il movimento nelle fibre destinate alle sensazioni, e solo allora l' istinto sensuale vi pone la sua attività, secondando quel movimento e facendolo continuare alquanto più che non farebbe, se fosse mosso solamente dalle forze della materia bruta. Ed in ciò si scorge di nuovo una cotale opposizione e lotta fra i movimenti che fa il corpo, ubbidendo alle forze materiali, e i movimenti che riceve dalla spontaneità motrice sensuale, la quale tende a rendere più viva e prolungata la gradevole sensazione, e ad accrescere tutti i movimenti a questo effetto confacenti, elidendo i contrari. Sotto la parola attrazione comprendo sì l' attrazione astronomica che la coesione e l' affinità chimica. Io suppongo che la legge, che fa crescere l' attrazione in ragione diretta della massa e indiretta del quadrato delle distanze, abbia pieno vigore anche nell' attrazione molecolare ed elementare (1). Suppongo che i risultati contrari che alle minime distanze sembrano aversi, dipendano dall' imperfezione del calcolo, nascenti da questo che, trattandosi di corpi collocati a immense distanze come sono gli astri, si può senza errore notabile supporre che tutte le particelle, di cui sono composti, sieno attratte egualmente; e su questo postulato si calcola il centro di gravità dell' astro, quantunque le particelle di cui l' astro si compone, sieno nel fatto più o meno attratte secondo la loro collocazione, riuscendo alcune più vicine al corpo attraente, altre più lontane. Ora la differenza, come dicemmo, è trascurabile in corpi così lontani (2). Ma ella non è già più trascurabile, quando si tratta di minime distanze, nelle quali la differenza di distanza, anche menomissima, basta a crescere immensamente l' attrazione. Poichè se le due particelle fossero al contatto (1), e ciascuna, poniamo di forma sferica, avesse il diametro di un millesimo di milionesimo di linea, le faccie che si toccano delle due particelle dovrebbero essere attirate immensamente più che non i dossi opposti delle medesime particelle, sicchè i centri di gravità non si potrebbero collocare nel centro delle sfere, ma assai più vicini fra loro. Intanto è certo che fra i movimenti animali e quelli dell' attrazione vi è un' apparente lotta. Ecco dei fatti: La lotta apparente, che deve sostenere l' istinto vitale, è dunque di due maniere, l' una colla legge d' inerzia della materia, l' altra colla legge di attrazione. La legge d' inerzia costituisce l' ordine meccanico, la legge di attrazione l' ordine fisico e chimico . Nell' ordine meccanico il contrasto e l' opposizione fra la materia e le forze vitali giace in questo, che le particelle componenti il corpo animale, le quali, quando ubbidissero alle sole leggi meccaniche, dovrebbero tenere una certa via di moto e in fine, attesi gli urti che incontrano, acquetarsi; invece sotto l' influenza dell' attività vitale tengono una via di moto diversa, e il moto stesso si continua. Nell' ordine fisico e chimico il contrasto giace in questo, che, mentre le particelle se ubbidissero alle sole attrazioni e affinità fisiche e chimiche dovrebbero rinserrarsi strettamente fra loro e produrre certe composizioni e dissoluzioni, come avviene nei cadaveri; influite dalle attività vitali, rimangono impedite queste composizioni e dissoluzioni, conservandosi in quella vece e risarcendosi il misto dei tessuti organici. Ora, a fine di procedere con passo sicuro, è uopo che mettiamo bene in chiaro lo stato della questione: « se la lotta apparente fra il principio vitale e le forze straniere ammetta conciliazione »; al qual fine dobbiamo spiegare di quale conciliazione si parli. Perocchè questa parola riceve diversi significati: si può intendere di una conciliazione di fatto, di una armonia prestabilita dalla mano del Creatore, e si può intendere di una conciliazione teoretica, quale sarebbe se si provasse che non esistono due principŒ lottanti, ma un solo principio operante, il quale solo a cagione di alcune circostanze accidentali produca, agendo tuttavia colla stessa legge, effetti apparentemente diversi ed anche realmente opposti così da tendere a distruggersi reciprocamente. La conciliazione intesa nel primo significato è manifestamente possibile; ma ella non è conciliazione appartenente alla natura stessa delle cose; suppone anzi l' esistenza nella natura di più forze operanti con leggi diverse, e però sempre atte a venire fra loro in collisione; se non che assistite di continuo da un terzo agente, da un mediatore che le governa, le infrena ed accorda, non possono mai venire a darsi alcuna battaglia, per puro accidente che da loro non dipende. La possibilità di questo armonico concerto non può essere argomento di disputa, nè tampoco è la questione che agitano i filosofi della natura. La questione, su cui questi disputano, riguarda dunque la conciliazione presa nel secondo significato. Non trattasi di sapere se di fatto vi sia pace fra le forze della natura; che anzi non si nega, nè può negarsi che si manifesti un continuo contrasto; ma si vuole investigare se questo contrasto accada per esservi nella natura più agenti specificamente diversi, i quali, ubbidendo a leggi diverse, sieno atti a battagliare fra di loro; oppure se si possano spiegare i contrari effetti, riducendoli tutti ad un principio unico operante con un' unica legge, ma variamente determinato da circostanze straniere, che gli fanno mutar corso e parere contrario a sè medesimo. Questo è lo stato della questione, in cui noi dobbiamo ora metterci. I filosofi della natura, che ne hanno trattato, non conobbero la essenziale differenza tra le due lotte che abbiamo descritte; essi affrontarono la questione tutta intiera senza prima sottometterla all' analisi e però pronunciarono sentenze assolute, o negando la possibilità della conciliazione o affermandola. Noi crediamo che anche qui la verità stia nel mezzo, cioè che una parte di quella lotta rimanga inconciliabile, un' altra conciliabile; la lotta che ha il principio vitale colle forze meccaniche non ammette la cercata conciliazione, quella all' incontro che egli ha colle forze attrattive non punto l' esclude. Gli antichi non hanno mai dubitato della realità della lotta, che apparisce fra lo spirito e la materia, nè mai cadde loro in pensiero che gli effetti, che manifestamente si contrariano, potessero ridursi alla stessa causa. Questa è la sentenza, che prima si presenta allo spirito. L' osservazione infatti presenta tre classi di fenomeni sommamente distinti fra loro e di opposti caratteri forniti: 1 la classe dei fenomeni puramente materiali e meccanici; 2 quella dei fenomeni fisici, chimici, e in una parola fenomeni di attrazione; 3 quella dei fenomeni animali. Quindi il comune discorso degli uomini deduceva che alle tre classi così ben distinte di effetti dovessero corrispondere altrettante cause o forze di distinta natura, che ne spiegassero l' esistenza, cioè forze meccaniche, attrattive ed animali, ciascuna operante con legge diversa; di che la possibilità inevitabile della lotta. Il ragionamento dei precedenti si erigeva sull' osservazione; ad alcuni moderni pareva ripugnante che nella natura vi fosse una lotta reale e necessaria, e si lasciarono altresì invaghire dalla bellezza ed eleganza, che loro pareva dovesse avere una spiegazione dei fenomeni naturali semplicissima, in cui tutti si riducessero ad unità, ad una sola causa. Questa vaghezza tutta ideale travolse non pochi nel materialismo, lusingandosi, vanamente a dir vero, di poter trovare nelle sole forze meccaniche la causa di tutti affatto i fenomeni, non eccettuati quelli del sentimento e del pensiero. Altri tentarono altre vie per arrivare allo stesso intento, ma sempre in sulle ali dell' immaginazione. Laonde quanti fin qui desiderarono di trovare che la lotta del principio vitale colla natura fosse soltanto apparente, quasi un solo e identico agente che rappresentasse più personaggi ad un tempo, ebbero la sventura di uscire affatto dal sano metodo filosofico, e però non poterono mettere un passo innanzi sicuro. La media sentenza da noi accennata, che ci pare vera, discende quale naturale corollario dalle cose ragionate più sopra intorno all' inerzia della materia. Ivi noi vedemmo che tutti gli effetti meccanici della comunicazione e conservazione del moto non possono appartenere alla materia, ma sì a quel principio occulto che la mette in essere, e che abbiamo chiamato principio corporeo . Vedemmo, ancora, che tutti gli effetti attribuiti all' attrazione non possono appartenere neppur essi alla materia in cui appariscono, ma bensì al principio sensitivo con essa congiunto. Quindi stabilimmo che tutti i movimenti, a cui la materia soggiace, si debbono ridurre a due cause spirituali, cioè al principio corporeo ed al principio sensitivo . Se dunque vi sono due cause di moto specificamente diverse, le quali, perchè sono due, ubbidiscono a leggi diverse, è dunque vano il tentativo di levare ogni possibilità di lotta nella natura, e di richiamare tutti i movimenti ad una sola legge e la loro origine ad una sola causa. Ma posciachè i movimenti, in quanto ubbidiscono alle leggi meccaniche, debbono attribuirsi al principio corporeo, e in quanto ubbidiscono alle leggi attrattive, debbono attribuirsi al principio sensitivo; perciò è giocoforza conchiudere che la lotta fra l' istinto vitale colle forze meccaniche è reale, e non può torsene via la possibilità; all' incontro la lotta del medesimo istinto colle forze attrattive è apparente, cioè sono effetti dello stesso principio reciprocamente contrari a cagione delle diverse porzioni di materia che investe e delle diverse condizioni in cui esso si trova, il quale, seguendo una sola legge, produce tuttavia gli uni e gli altri. Le ragioni, che ci condussero ad ammettere l' animazione dei primi elementi della materia, furono già da noi esposte. Ora a noi pare che questa sola causa sia a pieno sufficiente a spiegare tutti i fenomeni delle diverse attrazioni. Una delle maggiori difficoltà, che può rendere questa opinione inverosimile a una gran parte degli uomini, si è il non vedersi a primo aspetto ragione, perchè, se gli elementi sono animati, non ne segua la conseguenza che ogni corpo porga i fenomeni propri degli animali. Ma chi si farà a considerare la legge secondo cui opera l' istinto vitale, scorgerà facilmente che, anche posta l' animazione degli elementi, l' apparizione di fenomeni animali è al tutto impossibile, se non è data al corpo una congrua organizzazione. E nel vero è chiaro che l' aumento di moto, che noi abbiamo attribuito alla spontaneità motrice sì vitale che sensuale, e che è uno dei principali fenomeni animali, non potrebbe mai aver luogo in un corpo inorganico. Perocchè questa spontaneità ha bisogno di continui stimoli, i quali non possono aversi costanti se non in una macchina così artificiosamente congegnata che lo stesso movimento riproduca sempre nuovi stimoli, cagione di nuovo moto. Per spiegare questo pensiero io ricorrerò ai corpi animali più perfetti, nei quali è assai più facile l' osservare quel moto perpetuo di cui parliamo, in cui gli stimoli generano moto, e il moto genera nuovi stimoli, e così via. Rammentiamo la connessione ed azione reciproca dei tre visceri principali della macchina umana, il polmone, il cuore e il cervello. I movimenti di ciascuno sono o producono altrettanti stimoli ed eccitamenti agli altri due. Il polmone pei suoi movimenti, ricevendo una porzione d' aria vitale coll' inspirazione e mandandone fuori una di acido carbonico coll' espirazione, colorisce il sangue in rosso, che è il principale stimolo del cuore e del cervello, al quale è spinto dai movimenti del cuore. I movimenti del cuore adunque sono quelli che, spingendo il sangue rosso al cervello ed ai nervi, li scuote e li eccita. Annerandosi poi questo sangue di nuovo nel suo corso, e dal ventricolo destro del cuore essendo rimesso nelle arterie e vene del polmone, viene rifornita a questo organo sempre nuova materia atta alla sua operazione, che è quella di produrre l' ossigenazione di esso sangue nero. Finalmente, i movimenti del cervello ed il suo eccitamento sono la cagione dei movimenti meccanici del polmone stesso, i quali cessando, cesserebbe quella sua operazione chimica che, arrossando il sangue, lo rende stimolo ed eccitatore potentissimo del cuore, del cervello e di tutti i nervi. I tre principali visceri, adunque, sono collegati così mirabilmente tra loro che i movimenti di ciascheduno contribuiscono ai movimenti degli altri due, di maniera che il movimento non comincia propriamente in nessuno, giacchè il polmone non si muove senza che il cervello lo muova, nè il cervello può muoversi senza che sia eccitato e stimolato dal sangue rosso, nè il sangue rosso può eccitare il cervello se il cuore non ve lo spinge; nè il cuore può spingervelo senza riceverlo già arrossato dal polmone e mosso per guisa (1) da dover essere stimolo al cuore stesso, e produrvi la contradistensione necessaria a sospingere il sangue per mezzo delle arterie al cervello (2). Laonde niuno dei tre movimenti può cominciare da sè solo; nuova prova che l' animale non si forma a parte a parte, ma che ne è dato in natura, o certo che se ne forma lo stampo con un' unica azione di un unico principio, che in uno esteso molteplice termina la sua operazione; nuova prova altresì che la natura soggiace dappertutto alla legge ontologica del sintesismo. L' organizzazione, adunque, è necessaria acciocchè si manifestino i fenomeni animali condizionati all' eccitamento continuo, il quale esige che « continuamente sieno applicati nuovi stimoli alle parti, che debbono conservarsi in moto ». L' esempio dato (e la fisiologia n' è piena) prova ad evidenza che solo una data organizzazione rende possibile il rinnovamento continuo degli stimoli, che applicati agli organi sensitivi vi producano i movimenti idonei a mettere eccitazione nel sentimento, onde sorgono le sensioni ed i movimenti spontanei. E si noti che il fatto, che descriviamo, non è solamente moto meccanico, ma è moto meccanico eccitato da azioni chimiche e fisiche, e soprattutto dalla spontaneità motrice del sentimento. Poichè, ond' è mai che il cervello produca gli alterni movimenti del polmone? Non già dalla semplice impulsione meccanica del sangue, che inaffia il cervello, nè dall' azione chimica, che può esercitare su di esso il sangue rosso; tutto ciò potrebbe avvenire in un cadavere, senza che per questo il polmone si restringesse e si dilatasse; è dunque dalla vita; cioè il sentimento interno che si atteggia ed assetta spontaneamente in ogni istante a quella guisa che gli è meno scomodo e più comodo, è appunto lui che, coll' atteggiarsi ed assettarsi così, determina gli alterni movimenti dell' organo della respirazione. Infatti non respirando, il vivente si sente male, il suo sentimento soffre; cerca dunque di evitare questo disagio, e a tal fine promuove i movimenti che lo sollevano da quella molestia, rimettendolo nello stato naturale a lui gradevole. Questa legge dell' istinto sensuale, che « il sentimento si assetta da sè stesso nel meno disaggradevole o più gradevol modo che egli possa », spiega tutti i moti involontari dell' animale, tutti quei moti che, secondo la maniera di parlare di Bichat, appartengono alla vita organica. Da un altro esempio caviamo nuovo lume, cioè dai movimenti reciproci del polmone e del diaframma. Ecco qua come ciascuno di questi due organi ha la sua posizione naturale, secondo le leggi del meccanismo col quale sono fabbricati; ma queste posizioni in cui si rimarrebbero, se le sole leggi meccaniche determinassero la loro giacitura, divengono scomode al sentimento; quindi l' attività di questo, tendente a comporsi ed ammodarsi nella guisa meno ingrata e più grata che gli riesca, rimuove alternativamente l' uno e l' altro organo dalla sua posizione, i quali così diventano reciprocamente motori l' uno dell' altro; e la massima parte del tempo si stanno fuori del posto, che le forze meccaniche loro assegnerebbero, per tenere il posto, che loro assegna il bisogno del sentimento; il quale posto è mutabile ad ogni piccolo tempo, ragione dell' incessante cangiamento di luogo a cui dolcemente si trovano stimolati. Rimossa adunque la difficoltà, che nasce dall' assenza dei fenomeni animali nei corpi inorganici, dimostrato che questi non possono apparire, appunto perchè a quei corpi manca l' organizzazione opportuna, non rimane più tale ostacolo ad ammettersi la sentenza dell' animazione dei primi elementi. D' altra parte quell' animazione è la maniera di tutte più semplice a spiegare quanti sono i fenomeni attrattivi, come quella sola che porge una causa di moto conosciuta e non chimerica, come sarebbero tutte quelle che si volessero ipoteticamente supporre. E non solo il principio vitale è certa cagione di moto, come ce ne assicurano l' esperienza e la coscienza, ma egli è indubitatamente cagione anche di moto attrattivo, come apparisce dalle diverse funzioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, da noi enumerate. Solamente che, dove manca l' organizzazione, egli non può produrre movimenti continui nè complicati; onde ivi si deve tutto ridurre a semplici attrazioni in linea retta, essendo impossibili i moti circolari ed altri che risultano da una composizione di moti semplici innumerevoli, esigenti stimoli ripetuti per continua riproduzione. Quindi ancora si scorge come gli effetti, che il principio vitale produce nei corpi inorganici, e quelli che produce nei corpi opportunamente organati, debbano essere assai diversi e sembrare diretti da altra legge, e però dipendere da un' altra causa, benchè non sia. Nè tuttavia questo sarebbe sufficiente a spiegare come possano venire fra essi in collisione. Ora questo rimane spiegato, tostochè si considera la dottrina dell' individuazione del sentimento. Perocchè noi vedemmo: I - che se un continuo sentito si parte in più continui, si moltiplicano i principŒ sensitivi, nei quali stanno le attività animali; II - e così pure questi principŒ sensitivi si individuano secondo i centri di maggiore eccitamento. Il principio sensitivo, adunque, non è più uno solo, ma ne compariscono più, ciascuno con istinto vitale suo proprio, ciascuno dotato di attività distinta, qual maggiore, qual minore. I principŒ sensitivi adunque, che sono annessi alla materia inorganica, non sono gli stessi di quelli annessi ad un organismo; nè hanno le stesse attività, nè sono atti a produrre gli stessi effetti. Costituito poi un principio sensitivo colla sua individuazione, egli non opera che per sè, non tende che a conquistare, ad aumentare il suo dominio approfittandosi di ogni occasione, e in questo dominio vuol essere solo; indi la lotta. Questa si agita fra diversi principŒ sensitivi variamente individuati. Laonde questa lotta non si combatte solo fra le forze animali e le attrattive, ma ben anche fra le forze di un animale e quelle di un altro, come si vede non solo nel fatto di quei viventi, che s' introducono negli altrui corpi, e li ammalano o anche uccidono ma altresì nel fatto palese della guerra, che tutti gli esseri della natura irrazionale si fanno, implacabile, mortale. Ma se questa teoria è vera, il principio vitale d' un organismo dovrebbe riuscire più potente delle forze puramente attrattive (fisiche e chimiche), i cui principŒ vitali avrebbero un dominio meno esteso, e con nullo o minore eccitamento. E l' esperienza che dimostra così appunto accadere, diviene una novella prova della indicata teoria. Infatti, in ogni animale le forze sue proprie, cioè quelle che vengono riconosciute da tutti per forze animali, sono le dominatrici, anzi nel dominio che esercitano sulle forze chimiche e fisiche vinte da quelle, elise, modificate, fatte servire, consiste propriamente il loro carattere essenziale, nè l' animale può vivere se non a questa condizione. Infatti, cessata l' azione della vita animale, appariscono nei cadaveri incontanente le dissoluzioni e composizioni chimiche. Dunque le molecole, di cui consta il corpo vivo, giacciono in situazione e condizione diversa, hanno movimenti diversi da quelli che avrebbero, se alle sole leggi chimiche ubbidissero. Le forze della vita, dunque, contrastano alle forze chimiche e ne impediscono l' effetto; dal qual fatto Brown induceva la vita consistere in uno stato forzato e violento, senza accorgersi che le forze chimiche sono fuori della vita dell' animale dominatore, e che l' attività vitale, che ne impedisce l' effetto extrasoggettivo, lungi d' essere forzata nella sua azione, ha in questa azione medesima il suo stato naturale e spontaneo; che quindi lo stato forzato è soltanto lo stato morboso o disagiato di essa vita, nel quale essa non giunge a dominare compiutamente i fenomeni chimici. Questo dominio, adunque, è lo stato naturale e normale della vita animale, e solo quando questo dominio è impedito, comincia alla vita uno stato forzato non naturale. Ora, come avviene che la forza vitale impedisca l' effetto delle forze chimiche, e faccia che gli elementi della materia ubbidiscano ad altre leggi? - Sempre mediante le due funzioni da noi distinte come cause dei fenomeni extrasoggettivi, la funzione organizzatrice e la funzione della spontaneità motrice sensuale. Nella prima si notarono tre momenti, quello della rattenenza, per la quale la funzione organizzatrice tiene le molecole viventi nella sfera della vita; quello dell' assimilazione, per la quale essa compone dai primi elementi le molecole in quella forma, mistura e situazione reciproca, che debbono avere per vivere della vita dell' individuo dominante; quello della spontaneità motrice7vitale, per la quale agevola il movimento intestino delle molecole e degli organi stessi, che esse compongono. Il primo di questi tre momenti della funzione organizzatrice non produce movimento, ma si sforza d' impedirlo: è quel conato dell' istinto vitale che tende ad impedire i movimenti degli elementi, delle molecole e degli organi contrari alla vita. Il secondo ed il terzo momento producono quei moti che desidera e che appetisce l' istinto; ma il primo che abbiamo chiamato assimilazione, è la causa dei movimenti, che vengono prodotti in elementi non ancora animati della vita individua dell' animale operante, e tendono a scomporre e comporre, configurare, scegliere, mescere e combinare, acciocchè si formino le molecole atte a vivere della vita del tutto, e a questo nei loro propri luoghi s' innestino; il secondo poi è la causa dei movimenti vitali delle molecole già vive, ossia del misto vivente, le quali vengono mosse, acciocchè il sentimento fondamentale in esse si perpetui, e nel tutto rimanga eccitato a quel modo come egli appetisce di essere. Ora, se si pone attenzione a questi due momenti della funzione organizzatrice, s' intenderà agevolmente che, ammesso il principio che « il sentimento si atteggia a quel modo che gli dice bene, e questo atteggiarsi del sentimento trae seco i descritti movimenti extrasoggettivi perchè il sentimento è inerente agli elementi, e quindi le mutazioni sue portano dei moti corrispondenti in questi, che sono suo termine necessario », gli effetti delle forze chimiche debbono rimanere sospesi ed apparire effetti da quelli diversi. Per semplificare il discorso restringiamoci a considerare la spontaneità motrice vitale, che è quella funzione per la quale l' istinto vitale tende a mantenere o produrre un incessante movimento intestino, necessaria condizione del sentimento eccitato fondamentale. E` chiaro che se le molecole debbono tenersi in un movimento intestino, se l' attività del sentimento deve concorrere a facilitare e aiutare un tale movimento, questa dovrà esercitare una tale azione sulle molecole, che procuri loro tale una reciproca posizione che esse si tocchino nel minor numero di punti; giacchè solo in questa maniera si facilita ed aiuta quel movimento, pel quale le une si soffregano contro le altre, senza attaccarvisi immobilmente. Il che spiega in modo facile perchè le molecole componenti l' animale presentino piuttosto forma globolosa che l' angolata. Avendo così meno punti di contatto fra loro godono di una maggiore mobilità, e possono strisciare l' una sull' altra del continuo, toccandosi in qualunque parte senza nè staccarsi, nè indurare; quindi i globoli, che si osservano col microscopio nei vari liquidi animali e specialmente nel sangue. La formazione di queste molecole sferiche si deve attribuire principalmente a quel momento della funzione organizzatrice, che abbiamo chiamata assimilazione . L' istinto vitale raccozza gli elementi in quelle piccole sfere, appunto perchè il sentimento ama quella forma e la aiuta, poichè con essa sola consegue l' eccitamento che lo perfeziona (1). E non è difficile tampoco intendere per qual meccanismo quelle molecole si ritondino. Supposto che la tendenza, che ha il sentimento fondamentale ad essere eccitato, aiuti e faciliti i movimenti delle molecole organiche di prima formazione, l' una al contatto dell' altra, acciocchè nasca il soffregamento in tutte le direzioni, ne deve nascere il moto rotatorio, pel quale si smussano gli angoli, e si vanno le molecole conseguentemente ritondando. Il che mi pare così probabile da poter anzi vedere nella stessa forma sferica delle molecole la prova dei movimenti intestini, coi quali l' una molecola si strofina in sull' altre da tutte le parti (2). La forma rotonda delle molecole rende altresì facile spiegazione del come si vada organizzando il sistema vascolare; giacchè è indubitato, dopo le osservazioni di tanti insigni fisiologi, che i vasi si originano dagli spazietti vuoti, che lasciano tra loro le molecole. Ora, data la rotondità delle molecole, è chiaro che esse lasciano, quando si trovano al contatto, un interstizio maggiore fra loro che non farebbero molecole di altra forma, non potendosi quelle piccole sfere toccare che in un solo punto. Se si suppongono adunque altre molecole sferiche di una piccolezza assai minore, le quali, trascorrendo fra i detti interstizi, li sforzino e li rallarghino nello stesso tempo che molte di esse, trattenute negli spazi maggiori, si consolidano e rendono il canale più regolare e seguìto; sarà facile cosa l' intendere la formazione, come dicevamo, degli innumerevoli vasi, che percorrono il corpo animale, o piuttosto lo tessono e formano. E` ancora manifesto come le piccole sfere, aggruppate insieme, lascino maggior comodità ad altre particelle d' intromettersi fra loro staccandole alquanto, come deve avvenire quando una particella straniera viene assimilata e il sentimento si accomuna. Le particelle del corpo animale tendono a conservare il contatto fra loro, per quel momento della funzione organizzatrice che abbiamo chiamato rattenenza . Ma la straniera, che si mette in mezzo per forza, vincendo la loro rattenenza, riceve in virtù di questa stessa rattenenza la continuità del sentimento, e divenuta media fra esse (quando sia minima ed omogenea come deve essere) non produce già l' effetto che i sentimenti delle molecole divise a forza rimangano discontinui; anzi ella stessa col suo sentimento piacevolmente li continua. Ora poi, che in ogni parte dell' animale avvengano intestini movimenti è pure un fatto, nell' ammettere il quale sono d' accordo tutti i fisiologi. Il Cuvier descrive la vita come un vortice continuo, che rapisce nel suo movimento sempre nuove particelle, ed altre ne espelle. Le forze vitali, adunque, sono più potenti di quelle che si dicono fisiche e chimiche; sono nate a dominar queste. E così deve essere, se è vero che le forze vitali sono quelle di un sentimento individuato in un organismo opportuno, quando le fisiche e le chimiche sono le forze istintive di sentimenti privi di organismo, ed annessi ad atomi o molecole non formanti fra loro unità. Il sentimento e l' istinto conseguente deve certo riuscire meno vigoroso in questi corpi non ancora organati che in quelli bene organati. Ma qui si presenta la questione: « come si può determinare la quantità di forza di un istinto animale ». La quale questione ne abbraccia più altre. Cominciamo intanto a restringerla al sentimento fondamentale di eccitamento. Noi domandiamo perchè in una data organizzazione l' eccitamento mantenga naturalmente certa misura e quantità massima. Non abbiamo noi detto sembrare inesauribile l' attività dell' atto vivificatore? (1). Qual' è dunque la legge, che limita la quantità dell' eccitamento nel sentimento fondamentale di un dato animale, e la determina? A ragione d' esempio, se la reciproca azione del polmone, del cuore e del cervello procede dall' attività animale, perchè questa azione non è maggiore? Perchè la circolazione non si fa più celeremente? Il sentimento fondamentale risulta dall' esteso sentito e dall' eccitamento. Vediamo come sorga l' eccitamento. Il sentimento diffuso nell' estensione è opera dell' istinto vitale. Ma l' eccitamento suppone un primo stimolo dato dalla natura. Applicato all' organizzazione opportuna, quello stimolo vi suscita sensazione, la quale è ancora opera dell' istinto vitale, poichè non è che modificazione del sentimento da lui prodotto (2). Questa prima sensazione muove l' istinto sensuale, il quale continua il movimento incoato dallo stimolo sensifero, e volgendosi in circolo quel movimento, perpetua l' eccitazione del sentimento fondamentale. La questione, adunque, si riduce a sapere perchè l' istinto sensuale operi con un certo grado di attività, che limita e determina la quantità dell' eccitamento proprio del sentimento fondamentale di un dato vivente. Ora, la legge che determina il grado di attività dell' istinto sensuale (3), applicata alla nostra questione, riceve la forma seguente: « L' istinto sensuale opera con una quantità di azione proporzionata al sentimento onde muove, e continuata fino che ella riesce piacevole ». Dalla qual legge deriva: Che l' attività dell' istinto sensuale è limitata dalla quantità del sentimento, e però dello stimolo primitivo, che ha suscitato il sentimento. Dal piacere che l' animale trova nell' azione dell' istinto. Ma che cosa determina il piacere, che l' animale trova nell' azione dell' istinto? Non altro che l' organizzazione più o meno mobile, più o meno atta a riprodurre stimoli novelli e sensazioni novelle, che rimettono l' istinto sensuale in attività. L' istinto sensuale non può muovere che il corpo vivo, cioè l' organismo vivente; questa è sua limitazione assoluta. Se l' istinto sensuale trova resistenza nel corpo, egli cesserà di operare, tostochè la fatica diventa a lui più molesta che il piacere annesso alla sua azione. E l' esperienza dimostra che egli trova sempre qualche resistenza, benchè scelga i moti più facili. Quindi, acciocchè la sua azione non cessi, è d' uopo che prima ch' egli finisca di operare, prima che finisca di essere piacevole, egli medesimo col suo operare metta in essere altri stimoli, che rigenerino la sua propria attività. Se gli stimoli riprodotti sono meno efficaci dei precedenti, l' attività del principio sensuale va decrescendo; e se questo decrescere è continuo, egli perviene alla piena quiete, con che cessa spontaneamente la vita dell' animale. Che se per difetto di organizzazione e per alterazione del misto organico nasce il fenomeno del dolore appartenente all' istinto vitale, in tal caso l' istinto sensuale dal dolore riceve una nuova attività, diretta in senso contrario, tendente cioè non più a continuare e crescere il piacere, ma a scemare o a togliere il dolore. E questa attività segue le stesse leggi dell' attività prodotta dal piacere, e però ella è tanta, quanto è il dolore, e quanta deve essere acciocchè con essa il dolore non si accresca, ma scemi. Che se i movimenti prodotti da lei non scemassero più il dolore, ma l' accrescessero, da quell' istante l' attività sensuale cesserebbe, e succederebbe la quiete che al dolore si abbandona; l' animale cade allora nello spossamento, nell' abbattimento; le forze medicinali della natura si tacciono, lasciano il corso alle forze perturbatrici, che giungono facilmente a distruggere l' organismo e cagionare la morte. Esposte così le leggi dell' animalità, noi dobbiamo dimostrare: 1 che esse sono necessarie alla spiegazione dei fenomeni animali; 2 che esse sono a ciò sufficienti. Incominciamo dalla proposizione fondamentale dell' esposta teoria, la quale si è che « i fenomeni animali non possono ricevere spiegazione, se non a condizione che si trovi un unico principio dal quale dipendano, e questo principio sia sensitivo ». Diciamo che, quand' anche si riuscisse a spiegare i fenomeni singolarmente presi ricorrendo a principŒ diversi, con ciò rimarrebbe sempre inesplicato il loro complesso armonico, la loro mirabile unità, che non può trovare ragione sufficiente se non in un principio unico, e questo altresì sensitivo. Deve qui dunque chiamare la nostra attenzione quel consenso ammirabile fra i diversi organi viventi, che fu proclamato così solennemente dalla più remota antichità. Ella è celeberrima la sentenza di Ippocrate: [...OMISSIS...] che viene a dire: « un unico concorso, un' unica cospirazione, consenzienti tutte le cose ». Non si è ommesso certamente di tentare tutte le vie per dare una spiegazione di un fatto così solenne. Si è ricorso al mirabile congegnamento della macchina dell' animale, alla origine comune di certe parti del corpo, alla vicinanza di altre (1), alla comunicazione dei vasi, alla continuazione delle fibre e delle membrane, ecc. (2). E certo non si può dubitare essere necessario che il corpo vivente sia conformato col più mirabile meccanismo, acciocchè i fenomeni della simpatia fra le varie membra possano aver luogo. Noi parlammo già innanzi del bisogno dell' organizzazione in generale, acciocchè i fenomeni della vita si manifestino. Ma dopo di questo, nel solo meccanismo non si potè mai trovare in alcun modo una piena e sufficiente cagione della detta simpatia, perocchè in niun meccanismo vi è l' unità della causa, che si richiede a produrla. Se si trattasse unicamente di spiegare l' armonia dei movimenti extra7soggettivi, che si rispondono nelle diverse parti di cui si compone la macchina del corpo animale, potrebbe forse parere che non si richiedesse nulla di più a venirne a capo, fuorchè il supporre un cotal divino meccanismo ingegnosissimo. Ma la simpatia e consonanza, che si manifesta nel corpo umano, non è solamente extra7soggettiva; ella è ancora principalmente soggettiva nel sentimento, anzi è sempre (chi ben considera) una corrispondenza di moti esterni e di sentimenti, cioè di fenomeni extra7soggettivi e di fenomeni soggettivi, comunicazione avente tali leggi che dimostrano un principio unico, privo di parti e sensitivo. Veramente io stimo di più che, quand' anche si considerassero i soli movimenti armonici, che avvengono contemporaneamente nei diversi organi della macchina del corpo animale, giammai non si potrebbero spiegare colle sole leggi meccaniche della comunicazione del moto; le quali non producono che movimenti successivi, quando le affezioni del corpo umano sono bene spesso permanenti e contemporanee, ed armoniche; quelli muovono gli organi della macchina, non li modificano, non li perfezionano, non li formano, come pur accade dei movimenti animali, che influiscono sulla macchina stessa in modo che il conformarla piuttosto in un modo che in un altro è il loro proprio effetto. Di più, nei moti della macchina umana, come osservò il Cheyne, vi è continua perdita di forza per la confricazione e per l' attrito delle parti, onde è bisogno che un principio inesausto di forza, estraneo al meccanismo, continuamente supplisca a quella deficienza (3). Finalmente non si può dissimulare l' efficacia della dimostrazione di Clark sull' impossibilità di avere un moto continuo con forze puramente meccaniche; la quale dimostrazione si appoggia a questa tesi, che « «un tal moto continuo supporrebbe un peso più grave di sè stesso, o una forza elastica più elastica di sè stessa » », il che è contraddizione; donde Guglielmo di Porterfield conchiude che i continui movimenti dell' animale suppongono un principio al tutto ipermeccanico (1). Rimane dunque sempre a ricercare quale sia quell' unica forza che, applicata al corpo organizzato, vi produca quei tanti così complicati, così incessanti fenomeni della simpatia e sinergia fra tutte le parti del corpo medesimo. Anche i medici moderni già vanno accorgendosi e confessando che conviene ricorrere ad un principio unico per spiegare quel fatto stupendo. [...OMISSIS...] . Quanto poi agli antichi, non pregiudicati dalle asserzioni materialistiche e gratuite di alcuni sofisti che ad una forza primitiva e unica, diversa affatto da ogni altra, si dovesse ricorrere affine di spiegare le operazioni del corpo animale, l' ebbero sempre scorto i filosofi ed i medici più insigni. Il padre della medicina ricorre ad una forza originaria data a principio, per spiegare come le diverse parti del corpo si alimentino, e la chiama « «ex arches dynamis», facultas quae ab initio adest (1), » e soggiunge che « il principio di tutte le cose è uno, e il fine di tutte le cose è uno, e il fine è il medesimo che il principio »(2). Ma il concetto che di questa forza si vennero facendo nei diversi tempi gli studiosi della natura, riuscì bene spesso imperfetto. Si vide che ella non cadeva sotto i sensi, e che tampoco non cadevano sotto i sensi i primi movimenti da lei prodotti, i quali iniziavano i moti sensibili (3); ma ciò che non si vide forse mai chiaramente e pienamente si fu come il movimento ed il sentimento sono fenomeni essenzialmente diversi (4) ed opposti fra loro, e quello che è più, non essere già il movimento il primo e il sentimento il secondo, quasi che questo sia generato da quello; ma esser vero anzi tutto l' opposto, precedere cioè il sentimento, e questo avere attività di produrre il movimento animale (1), che si presenta nel corpo all' osservazione extra7soggettiva. E veramente è un fatto innegabile, deposto dalla nostra coscienza, che noi possiamo muovere il corpo nostro; e quando dico noi, dico un sentimento sostanziale, come fu dichiarato; è un fatto innegabile che non sorge in noi un nuovo sentimento, senza che succedano nel corpo nuovi movimenti corrispondenti, come vedesi nelle passioni: a ragion d' esempio, la passione della paura determina il sangue a ricorrere dall' estremità al cuore, ecc.. Che dunque i sentimenti, gli istinti conseguenti, e le emozioni che appartengono anch' esse ai sentimenti razionali, producano dei movimenti nel corpo umano è un fatto certo; questo ha, quando si muove il ragionamento da fatti certi, una solida base e consistenza. All' incontro i filosofi, lasciando da parte un punto così luminoso e innegabile, accertatoci dalla coscienza, si occuparono per lo più del solo fenomeno della sensazione accidentale e transitiva. Ed avendo osservato che questa non viene mai promossa se non a condizione di un movimento impresso nelle fibre nervose, conchiusero precipitosamente che quel movimento delle fibre sia il primo fenomeno, a cui il sentimento, come effetto a causa, sussegue. Non riflettono costoro che la fibra non darebbe la sensazione, se essa stessa prima non avesse il senso, sicchè quei movimenti in una fibra morta e insensitiva nulla producono; nè considerano la natura della sensazione, che non può essere altro che modificazione ed eccitazione di un sentimento precedente. Insomma non giungono ad afferrare la grande verità di un sentimento fondamentale, avente a termine un esteso corporeo, e necessitato a modificarsi ed eccitarsi mediante i movimenti in questo suo termine provocati; di che la vera causa efficiente della sensazione non sono i movimenti, ma sì quel sentimento precedente, che si modifica ad un tempo stesso che il suo corpo extra7soggettivo è mosso, perchè a questo corpo aderente, e, per meglio dire, perchè il corpo continuo nel sentimento stesso sussiste. Un' altra cagione dell' illusione, a cui soggiacquero i filosofi in così importante argomento, fu questa. Vi sono dei corpi extra7soggettivi nei movimenti dei quali niuna sensazione ci si presenta, chè nè la nostra coscienza ce l' attesta, nè l' analogia la congettura, non potendosi osservare in quei corpi movimenti extra7soggettivi simili a quelli che nel nostro corpo sappiamo per interna consapevolezza essere effetti del sentimento. Quindi conchiudono che niun sentimento in essi esiste, e che i movimenti apparenti vengono da un quid incognito, da una forza insensata. S' immaginò dunque, che esista una forza bruta, cioè una causa di meri movimenti locali, senza che ella sia congiunta ad un sentimento, o ad un sentimento si riferisca. Non si esaminò punto se questa ipotesi involga qualche cosa di strano ed anzi di assurdo, quasicchè potesse esservi un ente con esistenza meramente relativa ad un altro che lo osserva, non congiunto ad alcun principio interno . Si mediti pure quanto si voglia per trovare che cosa propriamente sia un principio interno, non si troverà mai altro che possa essere così chiamato in senso vero e rigoroso se non soggetto sensitivo o risultativo . Perocchè, quantunque noi possiamo considerare un corpo dentro ad un altro, e però un corpo contenuto, che chiamiamo interno relativamente a quello che lo contiene, che chiamiamo esterno; tuttavia dello stesso corpo contenuto altra nozione non possiamo avere che di un ente esterno, cioè cadente sotto l' osservazione extra7soggettiva. Tutte le notizie sperimentali, che abbiamo dei corpi, accuratamente considerate si riducono a notizie di superficie, perocchè il dividere un corpo non è altro che discoprire nuove superfici; sempre però superfici, sicchè non si è mai trovato nulla in un corpo di veramente interno; questo interno non fu mai veduto; solo l' immaginazione umana suppose qualche substratum, che si deruba continuamente ai sensi e si nasconde più addentro, qualche cosa che è per sè interno nei corpi. Ma data anche la possibilità di questo quid interno, che formi l' essenza dei corpi e che si chiamò forza bruta , esso, quando si consideri diviso da ogni altro principio (dal principio corporeo) (1) e per sè essente, non sarà mai altro che una mera ipotesi, un ente affermato gratuitamente, non più. Non è dunque provata l' esistenza di mere forze motrici; e perciò quando tali entità astratte, simili alle qualità occulte dei Peripatetici, si assumono per ispiegare i movimenti del corpo animale, altro non si fa che ricorrere ad una causa per lo meno incerta ed affatto ignota; che non rende punto impossibile la sentenza contraria, la quale asserisce che un principio sensitivo e vivente sia cagione anche di quei movimenti che noi vediamo nascere in corpi, nei quali i fenomeni analoghi a quelli del sentimento nostro non ci si manifestano. La differenza fra queste due sentenze sta qui, che noi sappiamo di certo esistere nel sentimento un' attività locomotiva; e però in questa sentenza si ricorre, per spiegare i fenomeni, ad una causa, di cui è provata l' esistenza, là dove per nessun argomento si può provare che esista veramente una causa atta a produrre il movimento locale, e priva al tutto di ogni sentimento, e che sia da sè sola un ente. Questa ipotesi è dunque viziata da molte parti, e se non altro in questo, che manca della principale condizione di cui un' ipotesi deve essere fornita, cioè che « sia provata l' esistenza della causa, che si assume ipoteticamente a spiegare una data classe di fatti ». A malgrado di tutto ciò, si scorge nella Fisiologia un progresso evidente verso la verità; ed è già un buon passo l' essersi accorti i fisiologi che a spiegare i fenomeni animali, e massimamente quelli delle simpatie, conviene ricorrere ad un principio unico . Il che ora anche in Francia si confessa. L' errore di Bichat, che distingueva la vita animale e la vita organica (1), dando a ciascuna le due proprietà della sensitività e della contrattilità, e quindi distinguendo simpatie di sensibilità e di contrattilità animale e simpatie di sensibilità e di contrattilità organica, si riconosce nella sua stessa patria; si confessa che egli divideva con abuso di astrazione quello che nella natura è uno e semplice. [...OMISSIS...] (2). Si va dunque finalmente d' accordo, tanto in Italia quanto in Francia, nel riconoscere un principio unico, a cui si riferiscano i fenomeni animali e nominatamente le simpatie. Nondimeno ancora non si vide, diremo di nuovo, la fondamentale classificazione dei fenomeni animali in extrasoggettivi e soggettivi . Movendo noi dunque da una causa, di cui è provata l' esistenza ed altresì la sufficienza a produrre il moto, cioè da un principio sensitivo, prendiamo ad applicarla alla spiegazione del complesso armonico dei fenomeni animali; e se ella sola si parrà sufficiente anche a questo, non sarà egli inutile immaginarne qualche altra occulta? E quanto più, se la causa occulta che si propone rimane inetta a spiegare i fenomeni, quando la causa certa e palese risulta a ciò pienamente idonea? Cominciamo dunque dal fenomeno delle simpatie, e prima di tutto determiniamo in quale ampio significato ci sembra di dovere noi prendere questa parola. I fisiologi moderni negano il nome di simpatia ad un' affezione, che si suscita in una parte del corpo umano, in conseguenza di un' irritazione o affezione di un altro organo, qualora fra i due organi vi sia un legame conosciuto. Il signor Roux, della scuola di Bichat, sostiene che un fenomeno non è simpatico, se non quando esso non si può spiegare mediante l' uno dei tre eccitatori delle proprietà vitali, il cervello che trasmette l' eccitamento pei nervi, l' azione dei corpi esterni e le sostanze liquide proprie del corpo animale. Ma la definizione della simpatia, ristretta in tali confini, soggiace a due incomodi: I - Ella è una definizione, che piuttosto si fonda nella ignoranza che nella natura della cosa; e però quello che di presente si chiama simpatia, cesserebbe di essere tale, tostochè i progressi della scienza facessero conoscere fra gli organi simpatici delle comunicazioni sino ad ora sconosciute. II - E` anche una definizione, che riposa sopra un supposto erroneo, qual' è quello che ci siano tali comunicazioni materiali fra gli organi che bastino esse sole a spiegare le affezioni, che si comunicano anche nell' ordine del sentimento; quando niuna comunicazione materiale, niuna continuità o contiguità di parti, niun movimento di fibre, niuna diramazione di vasi può produrre effetti sensibili, ma soli movimenti, ove non si supponga un sentimento precedente e un principio senziente, diverso affatto dall' esteso corporeo. Di più, nello stesso ordine dei movimenti la sola comunicazione materiale degli organi non somministra spiegazione di certi movimenti, che eccedono la quantità delle forze materiali e che si sottraggono alle leggi del moto suscitato; ond' è giocoforza ricorrere ad un principio di moto diverso da quello delle dette forze materiali; ed un tale principio o è l' attività stessa del sentimento, come noi crediamo, ovvero è un ente supposto gratuitamente dalla fantasia, la quale dà corpo ad una astrazione, come vogliono gli avversari, ma sempre alieno dalla comunicazione materiale fra le parti della macchina umana (1). Noi dunque preferiamo di prendere la parola simpatia nel più esteso significato, per indicare « il consenso vitale, che hanno fra loro le diverse parti di un corpo vivente »; ed alla simpatia presa in questo largo significato noi vogliamo ora applicare la teoria del principio sensitivo siccome causa del moto, da noi precedentemente esposta, cioè vogliamo dimostrare che solo con questa causa si possono spiegare i fenomeni della simpatia, i quali non sono nè meccanici, nè fisici, nè chimici, ma propriamente vitali e animali; benchè presuppongano e preesigano un meccanismo, una organizzazione, delle comunicazioni di filamenti, delle contiguità e continuità, dei tessuti, dei vasi, ecc. per loro condizione preparatoria, acciocchè si possano manifestare ed essere. Nell' uomo oltre il principio sensitivo vi è l' intellettivo, che influisce sul sensitivo, lo domina, lo muove all' azione, lo trattiene dall' operare e ne modifica l' azione senza che per tutto ciò ne cangi la natura, ovvero distrugga le leggi del sentimento animale. Il principio intellettivo poi non opera cosa alcuna nel corpo umano se non col mezzo del principio sensitivo. Di questo solo dunque vogliamo noi parlare, lasciando affatto da parte l' attività intellettuale. E vogliamo prima anche osservare essere un metodo erroneo quello che ragiona delle operazioni animali, in modo da supporre che il principio sensitivo operi con un fine conosciuto . Non si può disconoscere che gli animisti abbiano abusato delle cause finali, pretendendo che il principio operatore dei fenomeni animali conoscesse il fine, pel quale egli operava. Questo errore conseguitava all' altro, che confondeva il principio intellettivo col sensitivo; e racchiudeva di più un terzo errore. Poichè la stessa attività del principio intellettivo nell' uomo non sempre opera per un fine conosciuto e distinto dall' opera stessa, anzi molte volte opera anch' egli come sia un istinto, per una legge di natura, per quella legge che presiede al nesso dinamico, che passa fra il principio intellettivo ed il corpo. L' osservammo già: una notizia funesta improvvisa cagiona degli sconcerti nell' animalità; il principio intellettivo, che accolse quella notizia, non vuole punto quegli sconcerti, nè nessun fine lo muove a produrli; eppure li produce involontariamente, cioè per necessità di natura. Il principio intellettivo, adunque, influisce sul corpo con un fine, solo allorquando il movimento che vi produce è un oggetto della sua attenzione e da lui voluto, ed allora il fine non riguarda necessariamente il buono stato del corpo, anzi sovente tutt' altro; siccome accade nei suicidi, o in quelli che mortificano il corpo per averlo ubbidiente agli intendimenti più elevati della morale virtù. Molto meno il principio dell' attività animale può operare con un fine da lui conosciuto (benchè le sue operazioni sieno ordinate ed ottengano un fine inteso dal Creatore); egli opera con leggi spontanee, necessarie, non libere, le quali tutte dipendono da questa formula: « Il sentimento tende a conservarsi e ad accrescersi »; cioè egli si atteggia e si pone in quel modo che gli è più piacevole, il quale gli è più naturale, perchè nell' atto di sentire consiste la sua natura, ed evita quel modo che gli è doloroso, cioè contrario al suo atto naturale. Avendo noi riposta l' essenza dell' animale nel sentimento (1), forza è che noi non riconosciamo altro carattere certo e proprio dei moti animali se non questo « che si abbia prova d' un qualche sentimento concomitante il moto ». Non basta adunque per noi un organismo, cioè una macchina ingegnosamente congegnata, nè dei movimenti organici per ammettere l' esistenza della vita, ossia del principio vitale, se quei movimenti organici non sieno tali che suppongono l' esistenza di qualche sentimento. Qualora dunque si applichino degli agenti materiali ad un corpo animale, il movimento, che vi producono, comincia ad essere azione animale, solo allorquando incomincia la sensazione; sicchè quantunque prima della sensazione vi avessero stimoli e movimenti, tuttavia questi non apparterrebbero all' animale fino che l' animale non cominciasse a far uso dell' attività sua propria; la quale è l' attività di sentire. Chè di tutti i movimenti veramente animali il principio sta nel solo sentimento. Ad illustrare il qual principio ci valgono le due proposizioni seguenti. Talora il sentimento, dal quale parte l' azione o la passione animale, è una sensazione esterna. - Se si punge o batte una bestia, essa fugge. L' attività, che spiega nel suo moto, incomincia evidentemente dalla sensazione del dolore. Questa sensazione del dolore, associata coll' immaginazione di uno stato libero dal dolore e dei movimenti che a tale stato conducono, sono i tre elementi che la forza unitiva congiunge in uno, e determinano l' azione di quel moto. Questa fuga è un atto dell' istinto sensuale (1), appartenente alla mobilità avversiva . E` da notarsi che ogniqualvolta l' azione o funzione animale non viene determinata da una sola sensazione, ma da un associamento di più sensazioni, di immaginazioni, ecc., l' istinto simula la volontà; perchè i movimenti, che ne conseguono, non sono esattamente proporzionati alle singole sensazioni, ma all' impressione totale; e quindi essi sembrano avere dell' arbitrario, benchè non sia così. La sensazione del dolore determina l' animale non solo ai movimenti grandi come sono gli accennati, ma ben anche ai movimenti minimi, come sono quelli con cui si operano le secrezioni. - I dolori, che provano i bambini nel travaglio della dentizione, cagionano loro rilascimento di corpo, vomiti, tossi, ecc.; qui il principio animale addolorato produce manifestamente quei piccoli moti intestini, che danno luogo a così fatti fenomeni. Talora il sentimento, dal quale incomincia l' azione o la passione animale, è una sensazione delle pareti interne del corpo animale. - Il titillamento dell' ugula produce il vomito. Questa sensazione non si associa con alcuna immaginazione, ma, continuandosi il movimento che in essa s' inizia per la spontaneità animale , rovescia lo stomaco. In queste maniere di movimenti il carattere istintivo è più evidente, per la ragione detta che il movimento non è eccitato che dalla sola sensazione iniziante un moto, che spontaneamente si continua e si complica. Lo stesso si può dire del titillamento delle nari, a cui sussegue lo starnuto, movimento ancora più complicato; lo stesso del sentimento della nausea, pel quale gli emetici mettono in movimento i nervi e i muscoli dello stomaco; lo stesso delle fecce e dei drastici, che irritano gli intestini e provocano l' evacuazione. In tutti questi casi è evidente che il sentimento molesto, che si manifesta nelle pareti interiori del corpo, è il principio dell' attività animale; questa si suscita ed agisce fortemente, perchè prova una molestia; il principio sensitivo si ribella alla molestia che prova, trae in azione più organi per liberarsene; l' istinto sensuale anche qui opera colla sua mobilità avversiva, sottraendosi alla sensazione dolorosa, e rendendosi più che può da essa indipendente. E da tali suoi sforzi consegue un effetto, che è certamente dovuto al sapientissimo congegnamento della macchina animale, fatta dal Creatore, cioè l' espulsione del corpo estraneo o dello stimolo che cagiona quella molestia. Perocchè, si noti bene, ciò a cui tende il principio sensitivo è unicamente di liberarsi dalla molestia che egli prova; la sua azione e il termine della medesima non eccede l' ordine soggettivo; al quale tengono dietro i movimenti relativi nel corpo animato. Ora l' espulsione del corpo estraneo conseguita siccome una conseguenza fisica di tali sforzi, senza che a ciò, propriamente parlando, egli intenda (1). E questa osservazione è molto importante, come si vedrà nella spiegazione di altri fenomeni. Talora il sentimento, col quale incomincia la funzione animale, appartiene all' immaginazione. - Alla presenza d' un cibo appetitoso è provocata una secrezione abbondante di saliva; qui è l' immaginazione del sapore, che muove quell' attività istintiva, perocchè in tutte le sensazioni l' anima concorre colla sua attività (1). In questo fatto si vede che il principio sensitivo, determinato dall' immaginazione che è un senso interno, opera sul sistema ganglionare, il quale presiede ai fenomeni secretori, esalanti e infiammatorii. E` l' istinto sensuale, che opera colla sua mobilità concupiscibile . La secrezione della saliva, in conseguenza della vista di un cibo appetitoso, è un chiarissimo esempio dei minimi movimenti, che il principio sensitivo è atto a produrre mediante la mobilità concupiscibile . Innumerabili sono gli esempi simili, che provano questo potere del sentimento sui minimi movimenti del corpo, che io chiamerei assai volentieri collo Stahl movimenti tonici . La vista di una cosa schifa provoca il vomito nelle persone delicate, come sono le donne specialmente in certi momenti, e toglie loro l' appetito. E` avvenuto che la sola vista d' un medicamento già preso più volte, e con danno della salute, abbia incontanente recato dolori al ventre, e, quasi l' ammalato l' avesse già preso, prodottegli scariche abbondanti (2). Ecco l' immaginazione, che muove simpaticamente il ventricolo e gli intestini (mobilità simpatica ritrosa). Ma lo stesso principio, lo stesso istinto sensuale, principalmente per la mobilità concupiscibile, è quello che muove l' animale affamato a fare tutti i movimenti necessari per procacciarsi il cibo, e in generale per soddisfare a tutti i bisogni che si fanno sentire nell' animalità, compreso quello della propagazione. E` sempre un atteggiarsi, è un muoversi in conseguenza del sentimento, di una molestia o di un incipiente piacere, che vuol essere perfezionato, sia che a tal fine coi movimenti esterni egli ne cerchi i mezzi (mobilità concupiscibile), sia che, trovato il fonte stesso del piacere, colla sua attività lo perfezioni e vi s' immerga fino a sentirsene pienamente soddisfatto (mobilità voluttuosa). Siccome i movimenti piccoli, secretori, tonici, dimostrano il potere del principio sensitivo sul sistema nervoso ganglionare, così i movimenti grandi dimostrano il potere del principio sensitivo, che opera sul sistema nervoso cerebro7spinale. Conviene ciò nulla ostante avvertire che non manca mai intieramente l' azione del sistema cerebro7spinale, anche quando il principio sensitivo opera movendo il sistema ganglionare. Fin qui abbiamo veduto il potere motore del principio sensitivo, supponendo che questo potere operi in conseguenza di sentimenti figurati, quali sono le sensazioni esterne e le immagini. Abbiamo veduto anche in parte il suo potere motore operante in conseguenza di sentimenti poco o nulla figurati, come sono le sensazioni provocate nelle superfici delle pareti interne del corpo, o in conseguenza d' immaginazioni associate ai sentimenti esteriori. I sentimenti non figurati, privi di un confine preciso e di un' apparente località rispettiva, sfuggono più facilmente all' osservazione ed alla coscienza; e quando il principio sensitivo si muove suscitato da essi, pare che il suo movimento sia estraneo al sentimento; il che tuttavia, se si osserva bene, non è certamente. Continuiamoci adunque a recare altri fatti, che richiamino l' attenzione sull' attività che ha il sentimento di trarre dietro a sè movimenti piccoli e grandi, e conseguentemente variatissime modificazioni nel corpo animale. Talora quel sentimento, col quale cominciano i movimenti e le funzioni del corpo, consiste in certe sensioni d' interna molestia, che si diffonde a gran parte o a tutto il corpo animale; alle quali sensioni diffuse l' animale colla sua attività sensuale tenta sostituire sensioni egualmente diffuse, ma grate, mediante i movimenti e le funzioni che vengono da lui esercitate. - L' animale è indotto a respirare, per la molestia che proverebbe non respirando, e pel piacere che prova nella respirazione. Questa funzione importantissima della vita animale ha una principalissima influenza nel mantenere l' eccitamento continuo del sentimento fondamentale. Qui l' istinto vitale colla sua funzione eccitatrice è manifestamente la prima causa dei movimenti del polmone, del cuore e di tutti gli organi piccoli e grandi, che concorrono alla circolazione. L' operazione del parto è l' effetto della molestia che prova il feto già maturo nelle angustie dell' alvo materno, e della molestia che prova la madre stessa dagli sforzi di quello, e che contribuiscono a mandarlo in luce (1). Tutte le funzioni vitali sono determinate dal dolore e dal piacere, cioè dalla necessità di fare quelle operazioni per evitare la molestia che ne risentirebbe la natura non facendole; e pel piacere della vita che sente facendole. Che cosa è, a cagion d' esempio, il motivo che induce l' animale a mangiare se non la molestia della fame, che tende a rimuovere da sè, e il diletto che prova nutrendosi? Il quale diletto non si ferma al solo gusto, ma più ancora soddisfa al senso alimentare (1). Lo stesso si dirà della funzione generativa e di ogni altra del corpo umano. Conviene ricorrere al senso per spiegare le funzioni animali, e quindi al principio sensitivo . E` ben da osservarsi che ogni funzione del corpo animale suppone: 1 un principio sensitivo, che la muova e diriga; 2 e questo principio, semplice. E` un' illusione assai comune il credere che allorquando si veggono avvenire alcune azioni complicate nell' animale, cospiranti ad un effetto utile allo stesso animale, sieno sufficientemente spiegate pur coll' applicarvi il nome di funzione . Una parola di più o di meno non fa la scienza. Se dunque noi consideriamo senza prevenzioni una funzione animale qualsiasi, noi dovremo ravvisare in essa una manifestissima prova dell' unità e della semplicità di un principio sensitivo, che ne è la causa e il regolatore. E di vero, tutte le funzioni animali si riducono in due classi: I - Quelle che hanno per iscopo ed effetto il sentimento fondamentale, le quali appartengono all' istinto vitale. II - Quelle che danno per iscopo ed effetto la sensione attuale, le quali appartengono all' istinto sensuale . Il sentimento fondamentale risulta dai due elementi, del continuo sentito e dell' eccitamento circolare perpetuo. Quindi le funzioni dell' istinto vitale si possono partire così: Classi di funzioni dell' istinto vitale I Classe - Funzioni che hanno per loro termine e scopo il continuo, cioè: 1) tendenti a far sì che il continuo sentito non si diminuisca; 2) tendenti a fare che il continuo sentito si accresca. II Classe - Funzioni che hanno per loro scopo l' eccitamento, tendenti a fare: 1) che l' eccitamento non si diminuisca; 2) che l' eccitamento si accresca; 3) che l' eccitamento non si perturbi e si disordini; 4) che l' eccitamento perturbato e disordinato si riordini. Enumerare le classi delle funzioni dell' istinto sensuale, secondo i loro prossimi effetti e scopi, ci condurrebbe troppo a lungo, perchè dovremmo classificare tutte le maniere di sensioni speciali, di cui è suscettivo il sentimento, e descrivere le azioni istintive che ne conseguono, alle quali dovremmo assegnare quattro o più intenti, cioè: 1 conservare viva la sensione; 2 accrescerla; 3 lottare contro le forze perturbanti l' eccitamento; 4 diminuire il dolore che viene da quella lotta; 5 lottare contro le difficoltà, che a tutti questi intenti si oppongono (mediante l' avversione irosa). E dopo di ciò dovremmo aggiungere la funzione tendente ad armonizzare insieme le sensioni, cavandone uno stato di soddisfazione e di quiete, rimovendo lo stato non soddisfacente ed inquieto. Il qual cenno tuttavia ci sembra sufficiente a dimostrare che ogni funzione ha per suo intento un sentimento da conservare o da migliorare, e che quindi la sua causa non può essere che una attività sensitiva. La natura poi di ognuna di codeste funzioni richiede la semplicità di questa causa. Perocchè ogni funzione è composta di più movimenti simultanei e successivi, tutti cospiranti ad ottenere uno scopo unico; se la causa che li produce tutti non fosse unica e perfettamente semplice, essi non potrebbero essere condotti all' unità, a cui pure sono sempre volti, senza eccezione di sorte. Si aggiunge che la funzione, benchè così molteplice nelle parti corporee che vi s' impiegano, nei movimenti diversi che ciascuna di esse fa, nei momenti in cui li fa, tuttavia si compie per modo che si sente in essa un atto solo; l' animale, in quanto al suo sentimento, non intende fare che una sola cosa, una sola azione, sente di operare con un' attività sola, non ha bisogno per eseguirla che di un solo atto imperativo. Questo, che è ciò che viene attestato all' uomo dalla sua consapevolezza, è anche ciò che esprime il linguaggio, perocchè alla nutrizione, alla respirazione, alla generazione si dà un solo vocabolo; e fa bisogno di riflessioni faticose e proprie solo della scienza, per giungere a spezzare e ad analizzare tali funzioni, distinguendone le parti e gli atti singoli, che entrano a formarle. Il comune degli uomini non le conosce che nel loro tutto, nella loro unità; con questa unità cadono nella sua coscienza; laboriosamente e per isforzo di osservazioni e di meditazioni egli le conosce poi in quelle parti, che sono parti unicamente perchè egli le distingue e così le crea, ma che non esistono separate in natura, non esistono nel sentimento e nell' attività istintiva. Ogni funzione animale, adunque, è una compiuta dimostrazione della semplicità dell' anima sensitiva. Che se si rifletta, di più, che l' animale non opera mai in altro modo che per via di funzioni, cioè di tali gruppi di atti e di movimenti che tendono ad un solo scopo (1), si dovrà conchiudere a ragione che tutto ciò che fa l' animale, niente eccettuato, prova la semplicità del suo principio. Che, dunque, nel sentimento sia contenuta un' attività istintiva locomotrice è un fatto indubitabile; ed è da simili fatti bene accertati che si deve muovere alla spiegazione dei fenomeni. E` del pari certo che questa attività motrice, nascosta nel sentimento, è valevole a spiegare tutti i movimenti animali, tutte le funzioni del corpo umano; e quindi l' introdurre un' altra causa è superfluità, è arbitrio, ed ella poi non sarebbe mai altro che un quid incognito: la quale maniera di procedere è contraria ai più solenni principŒ logici e cosmologici, quali sono quelli della ragione sufficiente e della parsimonia della natura . Taluno opporrà che non sempre, non in ogni azione della sua animalità l' uomo ha coscienza che un sentimento ne sia il principio. A cui noi facciamo due risposte. La prima, che in uno stesso corpo animale possono esservi più sentimenti sensitivi parziali, e quindi più principŒ sensitivi, i quali non sieno che debolmente connessi col principio sensitivo supremo, che è quello che costituisce propriamente l' animale. Ora, non essendo tali principii parziali in istretta connessione col principio supremo, e poco da questo dominati e governati, rimangono poco sensibili all' animale tutte le sensioni, che a quei principŒ speciali immediatamente appartengono; e quindi sembra che anche i diversi sistemi ed organi principali del corpo umano godano d' una vita speciale loro propria, non però così speciale che sia intieramente separata e divisa dalla vita e dal sentimento universale. Quanto meno poi tali sensioni sono subordinate a quel principio senziente, che costituisce l' individuo animale, tanto più si sottraggono alla coscienza intellettiva. La seconda risposta si è che l' obbiezione si fonda in gran parte sopra una falsa supposizione. Di vero, molti confondono la coscienza col sentimento, riguardano quella come un elemento di questo. A costoro è necessario usare tanta meditazione, quanta loro basti a convincersi che coscienza e sentimento sono cose diversissime, la prima appartenente all' ordine intellettivo, e il secondo all' ordine animale. Ora, chi sa bene separare l' elemento intellettivo, onde viene la coscienza, dal sentimento animale, tosto si persuade che possono essere in noi dei sentimenti di cui non siamo conscii, ed anzi che ve ne sono di questi senza numero, cioè tutti quelli a cui non riflettiamo, da cui non è attirata la nostra attenzione intellettiva. Vedrà ben anche che a noi non è egualmente facile di renderci conscii di ogni nostro sentimento, ma di alcuni ci possiamo formare la coscienza senza difficoltà, altri con somma difficoltà possiamo trovarli in noi stessi, dopo averli lungamente cercati nella più profonda quiete del meditare. E tuttavia di quelli stessi, di cui possiamo avere coscienza, non l' abbiamo se non a condizione di formarcela; benchè ci paia di averla abitualmente per la grande prontezza con cui noi ce la formiamo. E non ce la formiamo senza avere una ragione che a ciò ci muove. Per esempio, se trovandoci noi a stretto colloquio con taluno, interrompendo il discorso gli domandiamo subitamente se egli ha coscienza d' aver sulla mano una mosca, egli dirà di sì, ma non perchè l' avesse prima della nostra domanda, quando stava assorto a parlare d' altro, ma perchè mosso dalla nostra interrogazione diede all' istante stesso la sua attenzione all' animaluccio, che gli correva sulla mano. Bastò dunque che noi riscotessimo la sua attenzione, bastò che egli volesse, e la coscienza fu. L' uomo non riflette come questa sua coscienza incominci, e crede di averla sempre avuta, non di aversela pur allora formata. Ora è facile acquistare la coscienza dei sentimenti nuovi, attuali e vivaci; all' incontro è difficile acquistarla dei sentimenti vecchi, abituali e tenui. Eppure dei piccolissimi sentimenti, numerosissimi ed effusi, hanno virtù di trarre in azione i più grandi muscoli. E che cosa è la noia, a ragion d' esempio, se non una fusione di molti piccolissimi sentimenti, di ciascuno dei quali non abbiamo per lo più coscienza? Eppure non è ella che provoca lo sbadiglio, funzione dove tanti muscoli sono tratti in moto, e principalmente il diaframma? Che cosa è il solletico se non anch' esso una funzione di minimi sentimenti, quanti sono i minimi filamenti nervosi pressochè infiniti, che terminano nella cute, di ciascun dei quali non abbiamo coscienza, e però non sapremmo distinguere l' uno dall' altro? E tuttavia quali terribili effetti non produce il solletico, la cui irritazione muove i muscoli dello stomaco al vomito, agisce sul cervello e cagiona movimenti convulsivi, giunge al cuore e lo paralizza, onde la sincope e fin anche la morte? Quante volte non accade che siamo senza coscienza dello stato della nostra pelle rilasciata e traspirante, e rimaniamo pure senza coscienza dell' impressione dell' aria, che la raffredda e costipa, a cui conseguita poscia un turbamento universale dell' economia del corpo, ne rimangono affette specialmente le membrane mucose, e succede l' infiammazione della pleura, o del polmone, o dello stomaco, o degli intestini, o della vescica? Quelle prime sensazioni cutanee sono sfuggite alla nostra coscienza, perchè erano piccolissime, benchè molte ed estese, e noi non vi demmo attenzione. Eppure da quelle sensazioni si deve ripetere gli effetti morbosi, che ne sono conseguitati (1). Nei morbi, dove non si manifestano dolori acuti, si suol credere che non vi siano sensazioni dolorose, perchè si restringe questa espressione a significare sensazioni locali e vive. L' ammalato stesso, se s' interroga, dice di non sentire alcun dolore. Ma il vero si è che non vi è malattia di sorta, senza che l' ammalato soffra dei sentimenti molesti, ne abbia o non ne abbia coscienza. Se un ammalato avesse tutti i sentimenti perfettamente eguali a quelli di un sano, non sarebbe ammalato; un certo malessere, una certa svogliatezza, una inappetenza, un indebolimento muscolare, calore, freddo e infinite altre sensazioni diffuse, universali, risultanti da un infinito numero di piccole sensazioni minori, provano che l' affezione della sensitività non manca mai in nessuna malattia. Quindi se si considera l' attività sensitiva come causa delle simpatie patologiche, si ricorre ad una causa la cui esistenza è dimostrata, e non già ad un essere supposto meramente dall' immaginazione, come è la vitalità di alcuni scrittori, che, senza essere ella stessa sentimento, si suppone causa ad un tempo del sentimento e del movimento. Tutti i fenomeni delle simpatie morbose confermano che queste si debbono attribuire al principio sensitivo, come a loro vera causa. Broussais, e i suoi discepoli Caignon e Guémont, che hanno esteso in parte le sue lezioni sulle infiammazioni, stabiliscono: Che le simpatie morbose si manifestano con maggior forza e prontezza negli individui più sensitivi, e meno negli apatici. E` chiaro per questo stesso che le persone dotate di grande sensitività soggiacciono più facilmente all' ipocondria. Che le funzioni animali si alterano maggiormente, se gli organi affetti sono dotati di più nervi, e però più sensitivi. Che qualora l' irritazione o l' infiammazione si rende dolorosa, le simpatie spiegano maggiore attività. Tutto ciò prova che le alterazioni morbose simpatiche procedono in giusto rapporto coll' affezione del principio sensitivo, e che perciò questa ne è la vera causa. Se i medici non sono ancora pervenuti a cogliere una tale dottrina, essi nondimeno sono già sulla via di pervenirvi, e ogni giorno vi si avvicinano. Barthez considera le simpatie come effetti del principio vitale nei diversi organi del corpo vivente; e lo deduce appunto dal vedere che esse si manifestano in organi anche lontani, senza che possano essere spiegate per una comunicazione meccanica fra essi, la quale non esiste, nè possano essere attribuite al caso come quelle che seguono leggi fisse. Non mancava dunque a Barthez che un passo; gli mancava solo di trovare che il principio vitale è di natura essenzialmente sensitivo, e che la sua energia motrice non è cosa diversa dalla sensitività, non è che una continuazione dell' energia sentimentale. I medici posteriori si sono messi quasi d' accordo nel considerare il sistema nervoso come l' istrumento generale di tutte le simpatie fisiologiche e patologiche, naturali e artificiali, che si manifestano nel corpo vivente. Brachet nella sua bella opera premiata, Sulle funzioni del sistema nervoso ganglionare (1.26), rispondendo a quelli che vorrebbero attribuire le simpatie al sistema cellulare, perchè sparso in tutto il corpo, dice: [...OMISSIS...] . Quindi egli divide le simpatie in cerebrali, ganglionari e miste . E qui osserverò essere un errore il credere che il sistema ganglionare sia scevro al tutto di sentimento, quando egli è anzi propriamente l' organo delle passioni. Noi abbiamo distinto i sentimenti in figurati e non figurati; queste due classi rispondono ai due sistemi nervosi: il cerebrale è l' organo dei sentimenti figurati, e il ganglionare quello dei sentimenti non figurati; il sentimento non manca mai. Di più, il sistema ganglionare comunica col sistema cerebro7spinale; le due serie di ganglii laterali alla colonna vertebrale comunicano spesso e direttamente coi nervi cerebrali e rachidei; ed i ganglii centrali anastomizzano con un paio di nervi cerebrali, cioè col nervo pneumogastrico, e sono poi in continua comunicazione coi ganglii laterali, per mezzo dei quali comunicano di nuovo col sistema cerebrale. Quindi il sistema cerebro7spinale non si può credere mai interamente straniero alle impressioni ricevute dal sistema ganglionare. E così forse non esiste una sensitività veramente ganglionare; onde la classificazione delle simpatie, fatta da Brachet, si dovrebbe probabilmente restringere a due soli membri, cioè alle simpatie cerebrali e miste, suddividendo poi questa seconda classe (2). A conferma delle quali osservazioni sull' intervento del sistema cerebrale in tutte le simpatie, giova l' opinione di Barbier e di altri fisiologisti sulla maniera di operare dei rimedi. Essi sostengono che è sempre nell' apparato cerebrale che si deve cercare il secreto della trasmissione della potenza medicatrice, di cui sono dotate varie sostanze, massime parlando di quelle che, non operando coll' intermezzo della circolazione, manifestano più prontamente le simpatie, agendo immediatamente sull' organo gastrico (1). Ritenuto dunque che nella serie dei fenomeni animali che si succedono nelle simpatie, primo di tutti e causa degli altri è il sentimento, molti fatti ricevono spiegazione convenientissima; e questa è ella stessa una riprova della nostra proposizione. Cominciamo dalle simpatie, che si manifestano fra gli organi locati simmetricamente alle due metà verticali del corpo umano, come gli occhi, gli orecchi, le nari, le mani, le reni, ecc.. E` notorio che le affezioni dell' uno di questi organi si accomunano all' altro; per esempio, se l' uno dei nervi ottici è affetto, l' altro contrae sovente la stessa affezione; la storia dell' amaurosi ed altre specie di cecità lo comprovano. L' osservazione, che noi vogliamo fatta su di ciò, è la seguente: Quantunque ciascuno degli organi dei sensi simmetrici, stimolato separatamente in modo conveniente, rechi all' anima la sensazione, l' anima tuttavia non ammette che una sensazione sola, quando sono stimolati tutti e due contemporaneamente. Questo fatto ci fornì una prova della semplicità dell' anima (2) e della sua distinzione da ogni organo corporale, sicchè la molteplicità degli organi, collocati in diverse parti dello spazio, non produce molteplicità in lei, perchè è immune dallo spazio; in altre parole, la diversità delle sensazioni nell' anima non è fondata nella diversità degli spazi occupati dagli organi sensorii, ma solo in differenze sensili, ossia appartenenti all' essenza delle sensazioni stesse, le quali non hanno a far nulla colle differenze degli spazi. Ora, se è vero che l' attività motrice animale sia inerente al sentimento, come noi sosteniamo, dove vi è una sola sensazione, ivi dovrà esservi una sola attività motrice. E questo accade appunto nel caso nostro. Come i due occhi non danno ordinariamente all' anima che una sola sensazione visiva, così l' anima agisce su entrambi questi organi con un atto solo, e vi produce i medesimi effetti. Per questo i movimenti degli occhi sono naturalmente associati, il che si può chiamare una simpatia fisiologica; per questo ancora l' affezione morbosa di un occhio bene spesso è risentita dall' altro, il che si può chiamare una simpatia patologica . Un discorso simile può applicarsi a tutte le parti doppie e simmetriche del corpo umano (1); le quali divengono altrettante prove della semplicità del principio sensitivo. Si opporrà che se la cosa fosse così, le simpatie morbose fra gli organi simmetrici del corpo umano non dovrebbero mancar mai, e pure talora non si avverano. Rispondo, venir meno la forza di questa obbiezione, tostochè si consideri che gli organi simmetrici non danno all' anima nè sempre, nè necessariamente, una sola sensazione; si avvera solo allorquando le azioni sensibili degli organi simmetrici sieno perfettamente eguali, a tal che esse non differiscano se non per lo spazio diverso in cui sono collocati gli organi, pei quali spazi diversi avviene che le azioni sieno due di numero, benchè identiche di forma. In questo solo caso il sentimento, che ne prova l' anima, è unico, a cagione che la differenza degli spazi occupati dai sensorii non si riporta all' anima, ma solo lo spazio delle singolari sensazioni; e questa unicità è fondata nella natura del principio sensitivo, e non in qualche abitudine da lui acquisita. Ma si avvera sempre la condizione che l' azione sensibile dei due organi sia identica di forma, e non differisca che di numero? No certamente. Ora, da che dipende che ciò avvenga più o meno spesso? Dall' anima stessa in grandissima parte, la quale tende ad avere un sentimento solo dai due organi, chè due sentimenti la confonderebbero nel suo operare, operando essa alla guida dei sentimenti. Per questo ella muove gli occhi di perfetto accordo, giacchè se ella volgesse l' uno da una parte e l' altro dall' altra in modo da vedere doppi gli oggetti, gliene sorgerebbe una molesta contraddizione e lotta colle sensazioni del tatto, il quale le porge oggetti semplici, e così nè saprebbe più a cui credere, nè saprebbe come muovere le sue membra in relazione cogli oggetti esterni, dei quali ella abbisogna. Giovandole dunque sommamente pei bisogni e necessità della vita che i sensorii doppi operino con tale uniformità da suscitare in essa un' unica sensazione, ella colla spontaneità sua li dirige a tale intento, e la sua attività motrice dei medesimi acquista tale un' abitudine di così adoperarli che la loro azione uniforme sembra poi naturale anzichè abituale . Infatti può ben venire all' uomo il capriccio di fare il contrario, può sforzarsi per voglia di esperimento a vincere l' abitudine ed anche riuscire a divergere le pupille, ma questo non accade mai nelle bestie, chè il principio sensitivo non ammette tali capricci e fa sempre ciò che gli conviene. L' azione dunque simultanea e uniforme degli organi simmetrici è dovuta all' abitudine; ma è dovuto alla natura che, data questa azione simultanea e simmetrica, sorga nell' anima un unico sentimento. Se dunque la simpatia degli organi simmetrici conviene riferirla all' abito, che ha contratto il principio sensitivo di dirigere in questo modo la propria sensitività ed attività conseguente, non fa più meraviglia che ella ammetta alcuna eccezione; il che s' intende maggiormente, ove si rifletta che l' abito stesso non agisce se non avverate certe condizioni, date certe opportunità. L' abito suol essere una facoltà di operare così precisa e determinata che la minima differenza nelle circostanze arresta la sua operazione, come si scorge nell' abito della memoria, il quale aiuta l' uomo a recitare un discorso, ed una sola parola sbagliata o intramessa è bastevole a fargliene perdere il filo. La legge della simpatia fra gli organi simmetrici, nascente dall' unicità del sentimento che essi producono, e dalla unicità dell' attività sensitiva che da quel sentimento procede, si estende a molte altre classi di simpatie, che da quella legge ricevono luminosa spiegazione. Primieramente rimangono spiegate le simpatie tra quegli organi, che hanno somiglianza di struttura. Infatti, conosciuta la legge accennata, che « se l' affezione sensibile dei due organi è eguale perfettamente di forma, il sentimento che corrisponde ad essa affezione è unico, perchè la differenza di spazio e di località degli organi stessi non è riportata nel sentimento, e perciò le affezioni degli organi eguali in esso sentimento si compenetrano e si unificano », conosciuta questa legge, si hanno tosto due altre leggi conseguenti a lei, ed importantissime, le quali sono: Che prima della sensazione essendovi sempre il sentimento fondamentale, ogniqualvolta vi saranno due o più organi sensibili di costruzione perfettamente eguale, il sentimento fondamentale rispondente ai medesimi non sarà doppio o molteplice, ma unico, come se non esistesse che un organo solo sensibile; ora, dire sentimento fondamentale unico è quanto dire istinto, ossia attività fondamentale unica. Che se in due o più organi di struttura eguale si eccita un' affezione disuguale, a queste affezioni disuguali risponderanno altrettante sensioni o modificazioni del sentimento fondamentale; ma se all' incontro l' affezione negli organi di struttura eguale è anch' essa eguale, sarà unica la sensione corrispondente, si avrà un' unica modificazione del sentimento fondamentale. Ora, questa eguaglianza di affezione sensibile si avvera spesso negli organi di struttura uniforme. I fisiologi e i patologi osservano che le simpatie fra gli organi uniformi non si manifestano se non a condizione che le prime loro affezioni, le affezioni dalle quali la simpatia viene suscitata, sieno eguali. [...OMISSIS...] . E reca in prova il metodo di cura che usava Lieberkünn a sanare il polmone dell' idrope, il quale determinava, per mezzo dei pediluvii, l' acqua infiltrata nelle cellule del polmone a recarsi nelle estremità inferiori, e guariva poi l' edema delle gambe facendo uso di rimedi fortificanti. Continuiamoci alla spiegazione di altri fenomeni. Se un tessuto è perfettamente eguale, deve rispondere ad esso un sentimento fondamentale unico, e ad un unico sentimento una unica azione animale. Dunque l' atto dell' istinto vitale, che agisce in tutta l' estensione di un tessuto eguale, sarà il medesimo. Quindi fra i tessuti eguali del corpo umano dovranno manifestarsi necessariamente simpatie, giacchè l' affezione, che si produce in una parte di tale tessuto, modifica quella attività unica che dà la vita a tutto intero il tessuto, abbracci questo un solo luogo del corpo umano o si ripeta in molti. Ed ecco spiegata quella legge patologica, che fu reputata una delle più belle scoperte di Broussais, la quale si è che « quando una irritazione dura lungamente in un organo, i tessuti analoghi a quello dell' organo sofferente si vanno poco a poco disponendo a contrarre le stesse affezioni ». Così accade che le infiammazioni croniche della pleura si propaghino facilmente al peritoneo; quelle della membrana mucosa dello stomaco e degli intestini si propaghino alla membrana che veste l' interno dell' apparato polmonare; l' affezione di una parte del sistema fibroso nel reumatismo e nella gotta sia seguita dall' infiammazione successiva di tutte le altre; le infiammazioni dei ganglii linfatici di una parte del corpo si comunichino spesso a tutto il loro sistema. E qui si consideri la differenza che vi è tra due tessuti eguali e due organi eguali, ma di varie parti e di vari tessuti composti, come sarebbero i due occhi. Questi organi complicati ed artificiosi ammettono più varietà d' affezioni; i tessuti eguali ne ammettono meno; quindi di lor natura i due tessuti più facilmente si trovano all' unissono che non i due organi. E poichè ogni affezione sensibile diversa suscita una diversa attività del principio sensitivo, quindi il sentimento fondamentale di due organi, che riceve modificazioni più varie, agisce anche più variamente che non faccia il sentimento fondamentale di tessuti eguali. Ancora, acciocchè vi sia simpatia fra due organi si richiede che la loro affezione primitiva sia eguale, condizione che nei tessuti si avvera più facilmente, essendovi meno cagioni che rendano disuguali le affezioni loro primitive, onde infine emana ogni attività. Insomma, qualora il sentimento fondamentale, comune ai due organi o ai tessuti eguali, viene modificato in quelle parti appunto rispetto alle quali egli è unico, la simpatia incontanente si manifesta. Applichiamo la stessa dottrina alle funzioni. Che cosa è che muove l' animale ad esercitare una funzione, a cui concorrono, simultaneamente o successivamente, molti organi e molti movimenti diversi? Un unico sentimento. Dall' unità del sentimento nasce l' unità della funzione; l' unità del sentimento è quella che fa giocare più organi armoniosamente, a tal che i loro movimenti cospirino a produrre ciò che il sentimento animale ricerca, la sua conservazione e la sua perfezione. Qual altro sentimento se non quello della molestia e dell' affanno che si prova alla mancanza del respiro, e del piacere annesso alla respirazione, fa sì che l' animale respiri? e che per ottenere questo unico effetto egli tragga in movimento, con somma armonia e con metro opportuno, non solo l' apparato polmonare, ma il cervello ed il cuore? Onde mai l' animale è mosso ad adoperare sì opportunamente tutte le parti alla lor volta dell' apparato digestivo, con tutti i vasi inservienti alla nutrizione, se non dal sentimento incomodo della fame e dal sentimento piacevole dell' alimento? (1). L' unicità dello scopo dirige in tutte le funzioni più complicate del corpo umano i molteplici movimenti delle molteplici parti, che concorrono ad eseguirle, e questo unico scopo è tutto sentimentale; è sempre un sentimento agente quel che fa tutto. Ora, dove vi è un sentimento unico, vi è anche un' unica azione, benchè in diverse parti si manifesti. Non è dunque meraviglia se fra queste diverse parti si scorgano simpatie non meno fisiologiche che patologiche; giacchè se l' azione unica viene modificata ed affetta, forza è che se ne veggano ad un tempo gli effetti in tutte quelle parti in cui ella si espande; benchè queste diverse parti la ricevano diversamente, sia perchè diversamente viene loro impressa, come esige l' armonia delle loro operazioni, sia perchè esse sono diversamente costrutte e diversamente disposte. E quest' ultima osservazione è importante, perchè conduce a stabilire potersi manifestare in diversi organi affezioni diverse, che meritano tuttavia l' appellazione di simpatiche, appunto perchè procedenti da una medesima azione del principio sensitivo. Ma oltre queste simpatie, che si presentano ad osservare nei vari organi concorrenti ad una stessa funzione, ve ne sono delle altre fra più funzioni eguali, cioè a dire fra organi destinati a funzioni numericamente diverse, ma della stessa natura. Così Barthez osserva che gli organi dotati della facoltà di operare secrezioni di umori analoghi mostrano avere fra sè una speciale simpatia: tali sarebbero l' utero, le glandule mammillari, la laringe, ecc.. Certo, a spiegare il perchè, eccitata un' infiammazione in un organo, ne succeda un' altra in un organo lontano senza lesione delle parti intermedie, non può bastare la comunicazione dei vasi sanguigni, giacchè in tal caso l' infiammazione dovrebbe propagarsi, senza interruzione, lungo i vasi. E` dunque mestieri ricorrere alle leggi dell' unico principio vitale7sensitivo, che dirige tutta l' economia, e però molto opportuna cade la legge, di cui parliamo, che « dove la funzione di due organi è simile in modo da risponderne nell' anima un medesimo sentimento, anche l' attività dell' anima si manifesta eguale in due o più luoghi ». E` da considerarsi accuratissimamente che ogni funzione, come dicevamo di sopra, si esercita per un' attività dell' anima, messa in un unico sentimento di molestia e di piacere. Dunque se le due funzioni, che in parti diverse si compiono, sono eguali di natura e solo differiscono per lo spazio diverso in cui si esercitano, il sentimento, ond' esse partono, dovrà essere unico, postochè l' osservazione dimostra che nel sentimento animale non si riportano le differenze di mero spazio che abbiano gli organi, le funzioni ed affezioni, ma si riportano solo le differenze che rendono diverse di natura le funzioni e le affezioni. Esponemmo la lotta fra l' istinto vitale e la materia bruta; vi è lotta anche fra l' istinto vitale e l' istinto sensuale? L' affermarlo parrebbe consentaneo all' aver noi dedotte le forze medicatrici della natura dall' istinto vitale, e le forze perturbatrici dall' istinto sensuale (1). E che vi sia apparenza di lotta l' osservazione l' attesta senza alcuno equivoco. Ma questa lotta è ella forse non più che apparente? Come fu tentata la conciliazione fra le forze brute e l' istinto vitale, non si potrebbe forse tentare anche quella dei due istinti? Se pare strano che nella natura si dia una lotta radicale, non vi è qualche cosa di più strano ancora nel concetto di due istinti esistenti nello stesso animale, che combattono insieme, di due istinti che non son altro se non attività del medesimo principio semplicissimo? Questa questione riesce a quella degli errori della natura , dei quali lo Stahl scrisse una celebre dissertazione, intendendo la parola natura nel senso d' Ippocrate, sulle vestigia del quale Galeno la definì [...OMISSIS...] (2) [...OMISSIS...] la quale definizione, nella sostanza, è la definizione della parola nel senso proprio e comune, che il popolo le attribuisce. Ora, il parlare di questa questione importante cade opportuno in questo luogo, dove trattiamo delle simpatie da spiegarsi colla semplicità del principio sensitivo e colle leggi naturali del suo operare. E` dunque vero che la natura erri, e che da questi errori nascano i morbi del corpo umano? E se vogliamo così esprimerci, gli errori della natura saranno spiegati col solo attribuirli, come facevano gli animisti, alla precipitazione dell' anima esacerbata, alla diffidenza dell' anima atterrita, alla incostanza dell' anima da patemi agitata? (1). Rimarrebbe in tal caso a spiegarsi questa stessa precipitazione, diffidenza ed incostanza, poichè tali difetti non possono costituire la natura di nessuna cosa; eppure le operazioni dell' anima sono determinate dalla sua natura. Noi diremo piuttosto che la natura opera secondo leggi infallibili e necessarie, che ella non aberra giammai da esse, che quelli che noi chiamiamo difetti o errori della natura non sono tali in sè, ma secondo certe relazioni da noi contemplate, che ci generano le opinioni; e che insomma l' operare della natura è il medesimo, sì quando noi giudichiamo che ella operi rettamente, e sì quando, in virtù delle nostre opinioni, noi le attribuiamo degli errori. Investighiamo, dunque, la ragione degli errori apparenti della natura animale e della lotta, pure apparente, che talvolta insorge fra due istinti, il vitale ed il sensuale. Da ciò che diremo apparirà che l' istinto vitale, fonte delle leggi medicatrici della natura, è talora limitato nella sua tendenza benefica dalle forze brute; e che l' istinto sensuale all' incontro perturba e disordina direttamente la natura animale, senza aberrare tuttavia punto nè poco dalle sue leggi. Nella distinzione tra i fenomeni soggettivi e gli extra7soggettivi si trova onde spiegare in qual modo l' istinto sensuale disordini la natura animale, senza aberrare dalle proprie leggi, che egualmente mantiene in ogni sua operazione. Abbiamo veduto che quelle due serie parallele di fenomeni non hanno somiglianza fra loro. Quindi l' uomo non potrebbe col suo pensiero dedurre a priori gli uni dagli altri; l' anima poi non è che sentimento, e niente cade nella sua coscienza, che prima non cada nel suo sentimento. Dato dunque che l' anima, esperta di un fenomeno soggettivo, non avesse avuto mai esperienza del fenomeno extra7soggettivo corrispondente, ella ignorerebbe affatto questo secondo, nè potrebbe conoscerlo per quantunque riflettesse sul primo, anzi non potrebbe neppure sospettarne l' esistenza. Conséguita che la cognizione, che noi abbiamo del rapporto che hanno fra loro le due serie di fenomeni indicate, si acquista colla sola esperienza; e che se noi al presente dal fenomeno soggettivo possiamo passare col pensiero al fenomeno extrasoggettivo, è perchè l' esperienza ci ha mostrato tante volte quella coesistenza. Ammaestrati così, noi giudichiamo dell' esistenza del fenomeno extra7soggettivo da quella del soggettivo con somma prontezza, per l' abitudine di formare tali giudizi. Il che si renderà più chiaro da un esempio. E` cosa notoria che colui, al quale fu amputata una gamba, soffre dei dolori al luogo della gamba che non ha più. S' inganna riferendo questi dolori a quel luogo; ma onde gli viene così erroneo giudizio? Certo dalla prontezza colla quale la mente dal fenomeno soggettivo del dolore argomenta abitualmente al fenomeno extra7soggettivo della località della gamba. Che se egli non avesse mai precedentemente veduta, nè toccata la sua gamba, nè mossa, non avrebbe saputo di avere la gamba; nè n' avrebbe conosciuta la forma esterna, nè la località in relazione alle altre parti del corpo, benchè ne avrebbe avuto il sentimento fondamentale, scevro delle forme relative allo spazio misurato, che si estende oltre il suo corpo. Questa località, che involge relazione collo spazio esterno misurato, gli si rese nota coll' esperienza esterna od extrasoggettiva, esperienza totalmente diversa e dissomigliante da quella soggettiva del dolore, che egli è consapevole di patire. Ma cadendogli da una parte sotto gli occhi e sotto il tatto la sua gamba, che così divenne a lui fenomeno extrasoggettivo, e d' altra parte sentendo il dolore, fenomeno soggettivo, egli potè più volte nella sua vita confrontare insieme questi due fenomeni e riconoscere che il dolore soggettivo cadeva in quella località extra7soggettiva; la quale osservazione non avrebbe potuto mai fare, se in tutto il corso di sua vita non avesse avuto che un solo dei due fenomeni, cioè o il solo dolore o la sola percezione extrasoggettiva della gamba. Avendo dunque avuto i due fenomeni, e conosciuto che l' uno rispondeva alla località dell' altro, egli ne formò un giudizio abituale e si persuase che l' uno non potesse star senza l' altro; quindi, anche dopo amputata la gamba, riferisce il dolore a quella località extrasoggettiva, che rimane nella sua immaginazione. Il fenomeno extrasoggettivo adunque, che accompagna il fenomeno soggettivo, non è compreso nel primo, nè è della natura del primo, ne è un effetto adeguato al primo. Ora, quale è l' azione propria dell' istinto sensuale? Questa azione sta racchiusa nel solo fenomeno soggettivo. L' abbiamo detto, l' attività del sentimento consiste unicamente nel potere di atteggiarsi e di adagiarsi nel modo a sè più naturale; e, consistendo la sua natura nel piacere, il modo a sè più naturale è il modo più piacevole, più comodo, più facile, men faticoso, men doloroso, tutti epiteti che vengono sempre a dire un modo che più tien del piacevole. Ciò posto, l' istinto sensuale non intende a produrre fenomeni extrasoggettivi, che sono fuori della sua sfera; ma pure questi seguono quelli come una necessaria appendice. Quale dunque è il legame dei fenomeni extrasoggettivi coi soggettivi rispetto al buono stato dell' animale? I fenomeni extra7soggettivi hanno un tal legame e corrispondenza coi fenomeni soggettivi che di via ordinaria, quando succedono a questi, giovano al buono stato dell' animale e contribuiscono a conservarlo e migliorarlo. Ma una così felice corrispondenza patisce eccezioni procedenti da certi limiti della natura animale; quindi più volte accade che i fenomeni extrasoggettivi, conseguenti ai soggettivi, riescano all' animale pregiudicevoli più o meno, ed anche mortali. L' istinto sensuale adunque non erra mai, se si considera la sua azione quale è entro la propria sfera; mantiene sempre la sua propria legge di dare al sentimento l' atteggiamento e l' azione più piacevole fra tutte che gli sono possibili, cioè che il sentimento stesso può avere (1). Ma egli non può impedire che ne succedano poi i fenomeni extrasoggettivi corrispondenti a quella sua azione, sieno essi utili o sieno dannosi; poichè tali effetti non entrano nella sua sfera d' azione. Quindi è che, allorquando il sentimento viene eccitato da qualche stimolo piacevole o doloroso, l' istinto sensuale che tosto si muove (benchè si muova sempre colla stessa legge), determini dei movimenti talora utili all' animalità, talora dannosi. Quando tali movimenti sono utili, si suol dire che la natura opera con sapienza; quando sono disutili, si suol dire che ella prende errore. A ragion d' esempio, una onesta e moderata gioia conferisce alla buona salute, aumenta le forze dell' istinto vitale, aiuta l' energia delle funzioni; una gioia eccessiva cagiona l' apoplessia, come anni sono avvenne nella mia patria, che quando fu vinto il partito di rifondere le campane di San Marco, un cittadino zelantissimo ne morì apopletico del contento (1). L' istinto sensuale diede morte all' onest' uomo; il sentimento gaudioso, acceso nella sua parte razionale, fu stimolo al suo sentimento ed all' istinto che ne procedette, il quale occasionò con veemenza tali movimenti nella macchina extrasoggettiva da accelerare il corso del sangue, spingendolo fino a schizzare dai vasi e diffondersi così in qualche parte del cervello (2). L' istinto sensuale non intende a questo effetto, che a lui è straniero; ed avvenne pel nesso sostanziale, che il moto extrasoggettivo tiene col sentimento soggettivo. L' anima umana non è ella fatta per la felicità? Non è ella fatta per la gioia? Quanto si aumenta il grado del suo godimento, non pare che altrettanto si accresca la perfezione del suo stato? Come dunque può darsi un grado di gioia e perciò di perfezione, che il corpo animale non possa sopportare, e a cui consegua la distruzione dell' uomo? Non si oppone un tale disordine al concetto della natura umana perfetta? O conviene dire che il corpo non è proporzionato alle funzioni naturali dell' anima, non è strumento a lei conveniente, quando le impedisce l' altezza e la vivezza del suo godimento; ovvero è da concedere che vi è un difetto nell' anima stessa, troppo precipitosa e veemente nell' operare, sicchè per cupidità di smoderato godere uccida quel composto di cui ella è la parte principale. Nell' uno e nell' altro caso si scorge che la natura umana è al presente difettosa; nè così potrebbe mai essere stata creata da Dio, le cui opere sono perfette. Insomma qui vi è una delle molte prove dell' originale decadimento, che non privò soltanto l' uomo della grazia divina, ma nella stessa natura mise quel disordine, che per tutto si manifesta (3). Rimettiamoci sul nostro cammino. Se qualche piccolo corpo eterogeneo entra nella trachea, è incontanente provocata la tosse. Lo scopo della natura è manifesto; ella vuol cacciarne quel corpicciolo eterogeneo e nocivo. Ma si distingua lo scopo della natura, quale opera della sapienza creatrice, dallo scopo dell' istinto sensuale, che mette in movimento i muscoli e così produce quella espirazione violenta, sonora, frequente, che si chiama tosse. La sapienza del Creatore ha certo precedentemente accordata l' azione dell' istinto sensuale coi movimenti muscolari, che servono ad esportare i corpicciuoli, che invadono il canale della trachea ed il polmone. Ma l' istinto sensuale non ha un tale scopo, che è fuori della sua azione; egli opera unicamente per liberarsi dalla molestia sensibile, per sottrarsi alla sensazione incomoda, per ammodarsi, come dicevamo, a suo agio. L' effetto del cacciamento del corpo eterogeneo viene di conseguente, e solo per la circostanza che l' organismo determina questo effetto. Quindi la tosse nasce anche senza la presenza del corpo, o dopo che il corpo è rimosso o quando non si può rimuovere. Di vero, data qualsiasi irritazione alla trachea, dato un umore corrodente che si porti su lei o sul polmone, o dato che s' infiammi quella membrana, la tosse ha luogo egualmente senza la presenza di alcun corpo straniero. E in tali casi, lungi che la tosse giovi allo scopo di espellere la causa dell' incomoda sensazione, ella anzi l' accresce, producendo alla parte irritata maggior concorso di umori e di sangue, aumentando talvolta l' infiammazione fino alla rottura dei vasi ed alla tisi. Direbbesi un errore della natura; ma l' istinto sensuale non ha fatto che ubbidire alla sua immutabile legge, per la quale in conseguenza dello stimolo tenta di operare nel modo a lui più confacente. Medesimamente, se la trachea è tocca da un corpo che si ritira subito, la tosse avviene, benchè non vi sia più la presenza del corpo. L' istinto dunque, che produce la tosse, non tende propriamente all' effetto extra7soggettivo di cacciare il corpo; ma il corpo ne è cacciato, se egli vi è tale da poter essere cacciato, come un effetto conseguente all' operare dell' istinto. Certi odori disgustosi producono il vomito (1); lo stesso può fare un sapore; lo stesso il titillamento dell' ugola. Distinguasi anche qui l' opera dell' istinto sensuale dall' effetto conseguente al rovesciamento del ventricolo. Questo effetto è certo preordinato dalla sapienza del Creatore, ed è principalmente quello di liberare il ventricolo dalle materie indigeste e nocive, che l' aggravano. Fu quella sapienza che collocò l' organo dell' odorato e del gusto, i nervi ed i muscoli opportuni in tali situazioni e connessioni reciproche che ne dovesse avvenire che, ogniqualvolta lo stomaco è aggravato, agendo l' istinto sensuale, venissero i muscoli dell' addome ed il diaframma a contraddistendersi, obbligando le savorre a riascendere nell' esofago, nella faringe e nella bocca. Ma i detti odori e sapori nauseosi, e il detto solleticamento dell' ugola rovesciano egualmente lo stomaco, quando è vuoto; non ha bisogno nessuno di vomitare, e il vomito gli nuoce. Sembra allora di nuovo che la natura s' inganni; ma il fatto si è che tutti questi effetti avvengono, per così dire, all' insaputa dell' istinto sensuale, il quale, racchiuso nella sfera soggettiva sentimentale, vi mantiene le sue leggi, e quei movimenti e fenomeni extra7soggettivi sono un conseguente del suo operare, a cui l' istinto non perviene. Ora consideriamo in che precisamente consista il preteso errore della natura. Se qualche umore irrita il polmone, i bronchi, o la trachea, da nascerne la tosse, l' errore non istà nel supporre la presenza d' un corpo estraneo, ma nell' operare in modo come se questo potesse esserne cacciato colla violenza di quella espirazione; poichè in qualsivoglia irritazione, infiammazione o sensazione molesta vi è sempre veramente un corpo inopportuno, fuor di luogo (1), il quale agisce nel nostro sentimento, vi è una forza extrasoggettiva inesistente nel sentimento soggettivo. Ma quella forza straniera venuta nel nostro sentimento non è tutto il corpo esterno, tutta intera l' attualità di lui, ma una porzione. Se questa porzione di forza, entrata nel nostro sentimento soggettivo, è a lui molesta, nasce il dolore e lo sforzo di espellerla. Quindi lo sforzo dell' istinto sensuale tende veramente a cacciare la forza estranea, entrata inopportunamente nella sfera del sentimento, non tende a cacciare il corpo estraneo, che è troppo più. In questo senso si può dire che l' istinto sensuale reagisce contro una forza extra7soggettiva. Tuttavia i movimenti che egli produce, e che sono i mezzi disposti dalla natura acciocchè egli possa liberarsi dal nemico, non sono nella sua sfera, e però non possono essere da lui misurati, nè egli può presentirne l' utilità o il danno, che possono arrecare all' organizzazione. Che se dai movimenti grandi e muscolari, occasionati dall' istinto sensuale, noi vogliamo passare ai movimenti piccoli e tonici, specialmente dei vasi, intenderemo come il detto istinto ora li provochi con utilità, ora con danno. Che la natura tenda a liberarsi dai mali con dei movimenti opportuni fu osservato in tutti i tempi, e lo stesso Ippocrate scriveva: [...OMISSIS...] ; e Galeno con una frase fors' anche troppo estesa aggiunge che [...OMISSIS...] ; e ancora che [...OMISSIS...] . Questo dominio del principio animale a beneficio dell' animalità fu detto dallo Stahl «autokratia» naturae; sulla quale scrisse una dissertazione, che si può anche oggidì leggere e con sommo frutto meditare. Ma per ridurre questa sublime sentenza entro i suoi giusti limiti, non conviene dimenticare quei mali che l' azione del principio sensuale, benchè in sè stesso tendente sempre al bene e obbediente alle sue leggi, trae dietro di sè indirettamente. Le cose da osservarsi in questo fatto sono innumerevoli, eccedono il nostro sapere; e gli stessi medici più celebrati sembrano ancor lontani dall' avere adeguata colle loro, per altro commendabilissime ricerche, l' immensa natura. Restringendo dunque noi il discorso a poco, moveremo da un punto di fatto certo, e sarà quello che abbiamo toccato di sopra, che qualora in una parte del corpo sia data un' irritazione molesta, l' istinto sensuale si pone in movimento, si dimena, per così dire, e si dibatte. L' irritazione, secondo noi, è sempre accompagnata da sentimenti più o meno vivi, più o meno distinti, quantunque non sia egualmente facile acquistare la coscienza di tutti, perchè o tenui o indistinti, o sì eccessivi che tolgono l' attenzione della mente. Tali sentimenti sono locali, e noi ne vedremo poco appresso la ragione. Ci basta qui avvertire che questa località, secondo l' intenzione della natura creatrice, era necessaria a dirigere la virtù istintiva dell' animale tendente a propulsare l' irritazione. Che se talora avviene che l' irritazione di una parte sviluppi un dolore più intenso in un' altra, e la maggiore attività dell' istinto si diriga forse verso la parte addolorata, quasi illudendosi; è da vedere anche qui se questo sia un vero errore, a cui soggiace l' istinto sensuale, o se l' azione sua, benchè diretta al luogo del dolore simpatico, ivi non finisca, ma si rifletta alla vera sede della primitiva irritazione. Il che potranno decidere i medici osservatori. Intanto facciamoci gran caso di questo fatto innegabile, che l' istinto sensuale dirige, generalmente parlando, la sua forza insorta al luogo irritato, sollecito di cacciar via lo stimolo irritante. Ma quale è la forma, che prende questa azione propulsatrice? Una tal forma dipende tutta dall' organizzazione, cioè dagli organi che l' istinto deve mettere in movimento per propellere lo stimolo e liberarsi dall' incomoda irritazione. Infatti, se egli non avesse organi, mancherebbero i subbietti del movimento. Avendo egli organi, è chiaro che il movimento riceve qualità e forma da questi. Se l' organo è continuo, si continuerà il moto; se è contiguo, parteciperà di qualche scotimento. Un moto comunicato ad un corpo rotondo è diverso da quello comunicato ad un corpo prolungato. Ma ciò non basta. E` la mistura dell' organo, è la sua mobilità vitale che modifica principalmente i movimenti intestini in esso espressi. Finalmente le forze meccaniche, fisiche e chimiche, in quanto mantengono qualche azione indipendente dal sentimento dell' animale, possono opporre resistenza al pieno effetto dell' istinto. Vi sarà dunque differenza fra i movimenti dei nervi secondochè i loro fascicoli saranno più o meno voluminosi, le fibre più o meno sottili, forniti o privi di gangli, annodati in plessi o disgiunti; e parimenti secondochè comunicheranno ad un numero minore o maggiore di muscoli a muscoli di grandi dimensioni ovvero a fibre muscolari assai minute, ecc.. A ragion d' esempio, se l' irritazione è negli intestini, l' azione dell' istinto sensuale trae seco l' effetto del movimento peristaltico, volto a liberarsi dalle feccie irritanti, e a tal uopo chiama in aiuto lo stesso diaframma, muscolo grande e forte, i cui movimenti sono necessari a vincere la resistenza dello sfintere. All' incontro, l' irritazione sia quella prodotta da un freddo sulla cute. L' istinto sensuale suscita tosto dei movimenti diretti a cacciare lo stimolo. Ma la cute e le membrane sottocutanee non hanno grandi muscoli da mettere in movimento, e però i movimenti prodotti dalla sua azione sono molti e minimi, e hanno sede principalmente nei minimi vasi, da cui la cute e le parti adiacenti sono per ogni verso, a guisa di minutissima rete, percorse. E` manifesto che l' istinto sensuale esercita in tal caso la sua facoltà motrice per mezzo del sistema gangliare, dal quale dipende l' organo cutaneo. In tutte queste azioni dell' istinto sensuale egli non ha mai altro scopo prossimo che di liberarsi dall' irritazione, in quanto ella si trova nel sentimento; ma a questi suoi sforzi tien dietro un altro effetto, legato ad essi dalla sapienza creatrice; effetto fuori del sentimento e dell' istinto, a cui l' istinto non tende, perchè non lo sente, e questo è il movimento considerato nelle sue condizioni extra7soggettive, il quale ha un fine benefico nella mente creatrice, quello di respingere i corpi stranieri, che guastano l' organizzazione. Ora questo benefico effetto non sempre si ottiene per varie cagioni, indipendenti dalle leggi dell' istinto sensuale, che pur sono sempre fedelmente osservate. E questo è ciò che si chiama poi errore della natura medica. Che dunque l' intenzione della sapienza creatrice, nel legare i detti movimenti extra7soggettivi all' attività dell' istinto sensuale, sia benefica, sia quella di dare al corpo animale un modo di respingere da sè gli agenti nocevoli, si raccoglie anche da ciò, che non solo i grandi movimenti muscolari che producono la tosse, il vomito, ecc., tendono a cacciare la causa dell' irritazione, ma anche i movimenti minimi tendono al fine stesso col promuovere le escrezioni. Nel qual fatto è pure ammirabile la sapienza della natura nell' aver fabbricati i vasi di una sostanza forte ad un tempo e sommamente elastica. Poichè da questa mirabile elasticità in prima dipende la direzione più o meno accelerata degli umori; chè, giusta le leggi idrodinamiche, ivi si deve accelerare il corso del fluido dove il canale si restringe, e rallentare ove si dilata, acciocchè per ogni sezione nello stesso tempo passi la stessa quantità di fluido; e per le stesse leggi è altresì manifesto che, qualora un vaso si può nelle diverse sue parti variamente restringere ed allargare, può essere ad un tempo determinata la direzione del fluido. Ora è indubitato che l' istinto sensuale ha questo dominio sui vasi, come si scorge dall' afflusso degli umori ad una parte ferita, e dall' effetto delle passioni, che accelerano o ritardano il corso del sangue, lo restringono verso il cuore, e lo dilatano fino a inturgidirne i vasi capillari della superficie. Ed è questo potere appunto dell' istinto sensuale che lo rende la causa di tutte le escrezioni, come pure delle secrezioni, sia il corpo in istato di sanità o in quello di malattia. L' importanza di questa riflessione diviene somma, se si considera che tutte le malattie che ammettono guarigione, guariscono, io mi credo, con opportune escrezioni. Non voglio già dire che le escrezioni sieno la prima causa della guarigione; ella sia pure nei solidi, l' irritazione di questi sia pure la prima causa dei malori; ciò non ostante parmi che non esprima tutta la verità neppure quello che si dice da alcuni ai dì nostri, essere le escrezioni opportune meramente l' effetto della guarigione. Perocchè è certo che fino a tanto che tali escrezioni salutifere non sono compite, il buono stato della salute non è per anco restituito; la guarigione ancora non esiste, e però non possono esistere gli effetti, se pur non si voglia sostenere che gli effetti precedano la causa. Gli stessi autori perspicacissimi della moderna dottrina medica, ai quali pare aver riconosciuto nei solidi la prima causa delle malattie, non hanno però negato che, qualora i solidi irritati ricevano analoghi movimenti (i quali noi facciamo dipendere dall' istinto sensuale), gli umori alterano il loro corso, modificano la loro crasi, diventano irritanti essi stessi, e sono bene spesso cagioni della diatesi flogistica. Infatti quando i medici moderni, che hanno ridotto il maggior numero delle malattie all' infiammazione, ricorrono sì sovente all' emissione del sangue, che cosa fanno essi se non appigliarsi come a mezzo di guarigione ad una escrezione, dirò così artificiale? (2). Certo, essi non medicano con ciò direttamente il solido, ma scemano l' umore che considerano come irritante, come la principale causa, se non la prima, come la causa della diatesi se non dell' originale eccitamento. Si può dunque dire, in generale, che l' istinto sensuale eccitato da una irritazione locale produca un movimento vascolare extra7soggettivo, il cui effetto benefico è quello di rimuovere mediante le escrezioni la causa della medesima irritazione, e perciò che generalmente le malattie colle escrezioni guariscono. E` singolare a vedere come, quando un sistema è invalso per opera di grandi uomini, subito una frotta di uomini minori, per timore vanitoso di parere arretrati, lo spingono all' esagerazione, sbandeggiando fino i vocaboli più innocenti usati dai precedenti maestri. Così oggidì si sentono con uno sdegno ridicolo rifiutare da molti le voci di emuntorii e colatoi del corpo umano, divenute indegnissime di essere proferite per l' abbominevole macchia ricevuta dalle bocche degli umoristi, i quali non le hanno per avventura inventate, ma frequentemente adoperate. E la natura seguita tuttavia, anche in presenza degli sdegnosi e schifiltosi scrittori, ad avere i suoi emuntorii ed i suoi colatoi, nè le mancheranno giammai fino a tanto che il corpo umano si abbia la cute, le reni, gli intestini, le nari, il polmone, e tutti insomma gli organi escretorii che ai secretorii rispondono; dei quali gli uni e gli altri son tanti che non vi è parte del corpo umano, che non ne sia provveduta. Con questi emuntorii e colatoi, che noi non arrossiamo punto a nominare così, ella conserva il suo buono stato. Perocchè, essendo l' animale « un sentimento fondamentale eccitato », e il sentimento fondamentale eccitato producendo mediante il continuo eccitamento innumerevoli movimenti, spostamenti, sospingimenti di parti nella macchina organata, forza è che molte di queste parti, ridotte a stato di liquido più o meno sottile, si separino da essa, lascino di vivere della sua vita, acquistino una condizione straniera ed irritativa; e quindi debbano essere cacciate via, acciocchè non l' offendano. Ma se il corpo continuamente perdesse delle sue parti senza acquistarne, si ridurrebbe al niente, e prima ancora ad uno stato d' inettitudine alla vita animale. Quindi il bisogno di reintegrare le sue perdite, sia colle molecole che egli trae dal fluido atmosferico, sia con quelle che trae dagli alimenti; molecole, che egli poi lavora, compone, segrega, assimila ed organizza secondo il bisogno. Ora, fino a tanto che il corpo è sano e l' istinto vitale non ha ricevuto di quelle irritazioni, che sono atte a debilitarlo o a vincerlo, l' istinto sensuale, autore dell' eccitamento fondamentale, genera nella macchina i movimenti normali, nei quali le secrezioni e le escrezioni si compiono in un modo normale. Non così quando l' irritazione è nocevole, onde hanno luogo i processi morbosi . Ma il difficile sta nel discernere quando e perchè l' irritazione sia tanto nocevole che determini l' istinto sensuale ad occasionare quella serie di movimenti, che processo morboso si chiama. Ora, posciachè l' irritazione dell' istinto sensuale, secondo noi, non è infine che un sentimento doloroso, e il sentimento è l' opera dell' istinto vitale, è necessario nelle leggi di questo istinto, nei suoi fatti generali e costanti, di spingere la nostra inquisizione. L' istinto vitale anima il corpo; animarlo e renderlo sentito è per noi il medesimo. Ma il sentimento prodotto dall' istinto vitale è perfetto o imperfetto. E` perfetto, quando l' istinto vitale non ha a sostenere lotta faticosa con forze straniere. E` imperfetto, quando egli ha a sostenere una faticosa lotta con quelle. Dico una lotta faticosa, perocchè si devono distinguere due maniere di lotta, l' una non richiedente alcuna fatica spiacevole, sicchè appena si può chiamare lotta; l' altra richiedente una fatica spiacevole, ossia dolorosa. Quando la macchina è perfettamente organata, il principio che l' anima, lungi dal provare alcun travaglio nell' operare l' animazione anzi gode, poichè niun ente fa fatica ad essere. Onde se si vuol pure applicare il vocabolo di lotta a ciò che nasce nella effettuazione della vita, conviene dichiararne il senso, che allora non è altro che quello di dominio, che esercita il principio vitale sulla sostanza che egli fa sua, rendendola termine del suo sentimento; questa sostanza (ed è la corporea) riceve il dominio e rimane modificata, l' anima gode della sua dominazione, ed è il piacere della vita. Solo è da notarsi che tale perfezione di vita, oltre alla perfetta organizzazione del corpo, involge la necessità di opportuni stimoli esteriori, l' aria, la luce, ecc.; e che un corpo in istato di perfetta organizzazione e tale che non metta impedimento alcuno alla vita, e abbia il consenso di tutti gli stimoli esterni a lui confacenti, non si trova forse mai nella condizione presente del genere umano, benchè si possa concepire. Che se, oltre concepire questo stato perfetto del corpo in un dato istante, noi vogliamo ancora concepirne la durata, dovremmo supporre: 1 che niuna potenza straniera alteri la perfetta organizzazione; 2 che sieno somministrati al corpo di continuo quegli stimoli opportuni al perfetto corso delle funzioni animali. Senza continuità di parti non esiste l' unità del sentito, e questa unità è data dal di fuori; e senza moto intestino perpetuo la vita non si manifesta con effetti extra7soggettivi; e questo moto continuo è pure condizionato all' organizzazione data da causa straniera, e senza l' armonia di tali movimenti dominati da un centro di sentimento, non può individuarsi l' animale; e questa centralità di sentimento, e quindi di movimento, dipende di nuovo in gran parte dall' organizzazione. Ma supposti questi dati esterni, i movimenti extra7soggettivi dipendono pure dall' attività soggettiva. Qual' è dunque la legge di questa e la cagione del suo operare? Il sentimento tende ad estendersi, ad eccitarsi e ad individualizzarsi . Certo, se egli non fosse con tutte le sue condizioni, non potrebbe nè porsi, nè eccitarsi, nè individualizzarsi. Ma egli è dato e posto in natura dal Creatore. Dato dunque un sentimento esteso, eccitato ed individualizzato, l' attività sua si spiega incessantemente nel conservare queste tre sue prerogative e nell' accrescerle; nel conservare il sentito in tutta la sua estensione e nel dilatarla; nel conservare l' eccitamento e aumentarlo in proporzione dello stimolo; nel conservare altresì l' armonia e l' unità del sentimento, in ragione dell' armonia e dell' unità degli stimoli. Vediamo quale parte abbia in ciò l' istinto vitale, e quale l' istinto sensuale. L' istinto vitale produce il sentimento fondamentale, quando trova il corpo acconciamente organizzato, e le parti di lui rende sentite. Queste parti debbono essere molecole organizzate con attitudine a ricevere la vita propria dell' animale. Se una forza straniera tende a sottrarre e discontinuare le parti sentite, l' istinto vitale fa loro forza per ritenerle; e se altre molecole opportunamente organate vengono accostate e continuate alle sentite, egli fa forza per invaderle e rapirle nello stesso sentimento; e questi e simiglianti sono diversi atti e momenti della funzione organizzatrice . Ma se l' istinto vitale, dopo essere stato stimolato dal contatto della materia a queste funzioni, viene contrastato in esse e impedito di compirle, egli si appena e si addolora, chè il contrasto e il combattimento nel sentimento, il contrasto colla naturale propensione del sentimento, è pena e dolore. Qui però conviene distinguere dal dolore la cessazione del sentimento (individuale). Quando alcune parti del continuo animato si sottraggono all' azione dell' istinto vitale, dividendosi e disorganizzandosi, cessa in esse il sentimento, di cui precedentemente erano termine, e quindi cessa ogni dolore. Così nelle parti, che escono per mezzo degli organi escretorii dal corpo umano, come pure nella cancrena, cessa ogni senso doloroso. Il dolore dunque è la lotta fra l' istinto vitale e la materia, ossia la forza straniera; ma quando la materia si è sottratta alle forze dell' istinto vitale e ha riportato su di lui intera vittoria, allora non vi è più lotta, nè dolore. All' incontro, quando l' istinto vitale trova la materia così disposta che non pone resistenza alla sua operazione, oppure quando egli consegue piena vittoria sopra di lei, rendendola a pieno termine della sua azione, allora è messo in essere il sentimento, la cui natura è piacere. Ma effettuato il sentimento (piacere per essenza), possono poi darsi movimenti nella materia, che ne costituisce il termine; e questi di due maniere. Alcuni nè discontinuano la materia vivente, nè fanno forza per discontinuarla e sottrarla all' azione del principio vitale; e però lungi dal distruggere il sentimento, lo eccitano e l' aumentano; ed essendo questo per essenza piacere, aumentano il piacere. Tali sono tutte le sensioni, che sorgono nel corpo animale secondo la natura. Altri movimenti fanno forza alla materia, sospingendola a discontinuarsi e disorganarsi, ed allora fino a tanto che non si è discontinuata e disorganata, si ha quella lotta che si chiama dolore (1). Ora, data la sensione piacevole e dato il dolore, l' istinto sensuale tosto si pone in azione per secondare la prima e sottrarsi al secondo. Questa azione dell' istinto sensuale trae dietro a sè altri movimenti della materia animata, di nuovo utili o dannosi alla costituzione dell' animale, conformi o difformi al suo fondamentale eccitamento. In questi movimenti conseguenti all' azione dell' istinto sensuale si deve distinguere: La quantità d' impulso che riceve l' istinto sensuale, e perciò la quantità della sua azione radicale. Questa non oltrepassa il grado limitato dalla quantità della sensione o del dolore, che l' accagiona. La sensione e il dolore può essere: 1) più o meno molteplice; cioè possono essere varie sensioni contemporanee e varii dolori in diverse parti del corpo; quindi varie azioni contemporanee dell' istinto sensuale; 2) più o meno esteso; quindi l' istinto sensuale può cominciare ad agire e produrre movimenti in una estensione maggiore o minore del corpo umano; 3) più o meno intenso; quindi l' azione radicale dell' istinto sensuale può essere più o meno violenta e precipitosa. La quantità della continuazione dell' azione dell' istinto sensuale . L' istinto sensuale, dopo ricevuto l' impulso dalla sensione piacevole o dal dolore, non opera se non a condizione e in quel tanto che egli trovi piacevole il suo operare, o meno dispiacevole del non operare. Quindi, allorquando l' operare gli riesca più spiacevole che il contrario, egli cessa da ogni azione, e la diminuisce a proporzione che il suo operare è meno piacevole. Il che spiega in parte l' attività della natura animale, quando si trova in certe condizioni morbose. Il vantaggio o il danno dell' animalità, che succede all' azione dell' istinto sensuale. Se l' azione dell' istinto sensuale trae seco dei movimenti nell' organismo, questi movimenti arrecano modificazioni nell' animale, non meno relative all' istinto vitale che allo stesso istinto sensuale, perocchè: Quanto all' istinto vitale, i movimenti cagionati dall' istinto sensuale nell' organismo o misto vivente, possono: 1) essere di quelli che aiutano l' istinto vitale a compire meglio la sua operazione, aiutando la continuazione e opportuna organizzazione delle molecole; 2) possono essere di quelli che danno alle molecole un contrario impulso, e quindi che producono o accrescono la lotta fra l' istinto vitale e la materia bruta, e generano o accrescono il dolore; 3) possono essere di quelli che sottraggono addirittura la materia bruta all' azione del principio vitale, la discontinuano e la disorganizzano, e quindi adducano la sua morte. Quanto all' istinto sensuale, i detti movimenti, suscitando sensioni piacevoli o dolorose, generano nuovi stimoli ed impulsi all' attività dello stesso istinto sensuale, il quale così moltiplica le sue azioni e le riproduce. Data adunque una prima sensione o un primo dolore, deve succedersi nel corpo umano una serie più o meno lunga di movimenti, i quali si alternano coi sentimenti piacevoli e dolorosi. E questa serie o vicenda di sentimenti soggettivi e di movimenti extrasoggettivi può essere o giovevole o pregiudiziale allo stato dell' animale. Esempio di una serie giovevole allo stato dell' animale si è quella per la quale l' animale si sviluppa dal germe e cresce fino alla sua perfetta maturità. Questo sviluppo è una perpetua vicenda: 1) di sensioni cagionate dagli stimoli esterni all' animale, eccitanti, secondo natura, l' istinto vitale; 2) di movimenti istintivi, prodotti dall' istinto sensuale ricevente l' impulso dalle dette sensioni; 3) di nuove sensioni che l' istinto vitale mette in essere, incitato dagli accennati movimenti; 4) di nuovi movimenti prodotti dall' istinto sensuale incitato dalle seconde sensioni. E questo circolo di movimenti e di sensioni , di sensioni e di movimenti, si perpetua in tutta la vita animale. In essa si alterna perpetuamente l' azione dell' istinto vitale e l' azione dell' istinto sensuale. L' istinto vitale, generando la sensione, dà impulso all' istinto sensuale, e l' istinto sensuale, generando il movimento, dà la materia all' azione dell' istinto vitale. In capo a questa continua vicenda stanno quegli stimoli esteriori che hanno prodotto i primi movimenti, e somministrata la materia alle prime sensioni dell' istinto vitale. Ma gli stimoli esteriori suppongono già l' animale formato, almeno nel suo primo rudimento; suppongono l' istinto vitale già in atto nel primo sentito, nel primo sentimento di cui egli è l' attività. Altro esempio della serie giovevole si ha negli stessi processi morbosi, quando questi processi riconducono l' animale ammalato allo stato di salute. Ogni processo morboso s' inizia con uno stimolo esterno, il quale modificando l' istinto vitale, e traendolo in lotta colla materia bruta tendente a sottrarsi al suo influsso, cagiona lo stato doloroso e penoso. Questi sentimenti dolorosi, traendo in giuoco l' istinto sensuale, gli fanno riprodurre altri movimenti, i quali prestano materia all' istinto vitale che produce le seconde sensioni; e queste, impellendo di nuovo l' istinto sensuale, lo provocano a cagionare nuovi movimenti, e così ha luogo il circolo perpetuo, più o meno lungo, delle sensioni e dei movimenti, che si dice processo morboso . Un esempio della serie e vicenda dei movimenti e delle sensioni, che riesce a pregiudizio dell' animale, lo possiamo vedere nell' invecchiare che egli fa insensibilmente fino alla sua distruzione. Quella stessa legge di vicissitudine che dal primo germe ha sviluppato l' animale a piena maturità, quella stessa da questa maturità lo conduce gradatamente al discioglimento. Del pari si scorge un circolo funesto di movimenti e di sensioni in quei processi morbosi, che hanno un esito mortale. Diamo ora uno sguardo all' arte ippocratica, dai professori della quale tante cose apprendemmo fin qui. I sistemi di medicina finora comparsi ebbero forse tutti qualche idea luminosa; l' errore si riduce ad una parte dimenticata della verità. Vi furono medici, che sembrano aver dato un' esclusiva attenzione a quella classe di processi morbosi, pei quali la natura riconduce l' animale allo stato di salute. Questi celebrarono e magnificarono l' «autokratia» della natura. Il pensiero era luminosissimo. Che certi fenomeni morbosi tendano al ristabilimento della salute, che certe emorragie, certe diarree, certe febbri sieno altrettanti sforzi della natura ammalata, che da sè stessa va risanandosi per quei passi stessi che sembrano morbiferi e sono salutiferi, è cosa innegabile; e questo fatto è quello che reputa a suo grande onore la celebre scuola di Montpellier; sono quelle idee di Van Helmont e di Stahl, che il Pinnel chiama sane e feconde (1). Ma non conviene dimenticare l' altro fatto, cioè esservi altresì un' altra serie di movimenti e di sensioni, che si volgono in circolo, e riescono a deterioramento, e in fine a distruzione dell' animale; che vi sono dei processi morbosi, i quali, conducendo l' animale di stato in stato, finiscono coll' arrecargli la morte. Quei medici, che sono stati altamente colpiti da quest' altro fatto, non posero un' eguale attenzione al primo, e mentre gli uni volevano tutto lasciar fare alla natura, gli altri tutto volevano che facesse l' arte. Nel sistema di Stahl la tendenza della natura allo stato di salute è spiegata; ma rimangono senza spiegazione soddisfacente gli errori della natura. Nel sistema degli avversari sono riconosciuti, se non ispiegati, gli errori della natura, ma rimane disconosciuta, e però priva di spiegazione, la sua tendenza riparatrice e sanatrice. Vi è un' unica legge naturale, diciamo noi, che dà ragione non meno degli andamenti salutiferi della natura animale che degli andamenti mortiferi; l' istinto vitale e l' istinto sensuale, alternandosi nell' operare, e l' uno modificando incessantemente l' altro, sono le cause di entrambi; essi andrebbero sempre di loro natura verso il bene, se non dipendessero da stimoli stranieri e materiali; e sono questi stimoli che li alterano, li perturbano, e scompigliano la loro naturale armonia. Quindi la causa di tutte le malattie si può ridurre ad una sola, cioè all' irritazione, presa questa parola in un senso assai esteso. Per irritazione, in questo significato, intendo l' effetto di una forza straniera al sentimento ed all' istinto animale, che operando su di questo ne altera la condizione normale, e così occasiona nei suoi due modi di operare, il vitale e il sensuale, un' alterna azione in sè stessa morbosa, e nel suo esito conducente o alla salute, liberandosi dall' irritazione, od alla morte. Il primo effetto dello stimolo straniero, e dell' irritazione che produce, cade nell' istinto vitale, il quale invece di produrre il sentimento normale a cui tende, per sè piacevole, contrariato, produce un sentimento anormale doloroso o molesto. Il secondo effetto cade nell' istinto sensuale, il quale sollevato dal sentimento anormale, accresce e varia la quantità di moto esistente nel corpo, e quindi con questi moti accresciuti e variati, anormali anch' essi, viene data materia a nuove sensioni anormali, che producono nuovi movimenti. Quando adunque questo corso di alterne azioni è incominciato, egli può prendere due qualità: Può cessare col cessar dello stimolo, e questo avviene ogniqualvolta lo stimolo non altera la materia dell' istinto vitale, ma solamente dà a questo un' attività ed eccitamento maggiore; ovvero quando la altera sì, ma in modo che le sensioni, che egli produce, altro non fanno che indurre l' istinto sensuale a cagionare tali movimenti che hanno per effetto il rimettere la cosa in pristino, restituendo all' istinto vitale quella materia che gli è opportuna, e che dallo stimolo aveva ricevuto qualche alterazione. Egli può continuarsi anche cessando lo stimolo, e ciò avviene indubitatamente, se i movimenti dell' istinto sensuale, che succedono alle sensioni dolorose dell' istinto vitale, lungi dal restituire tosto e ricomporre a questo la sua materia alterata, non fanno altro che alterarla maggiormente suscitando nuovi stimoli; perocchè le parti e molecole stesse del corpo vivente, spostate o mosse con certo impeto, diventano nuovo stimolo, stimolo veramente straniero, perchè materiale, che contrasta coll' istinto vitale. In tal caso il corso delle alterazioni e delle vicende interne dell' animale si continua indipendentemente dallo stimolo primitivo; perchè le modificazioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale riproducono ad ogni loro operazione una nuova schiera di stimoli irritanti, e succede quella condizione morbosa che dai moderni fu denominata diatesi . Queste due qualità del corso alternato delle sensioni e dei movimenti, della prima delle quali uno dei principali caratteri è la breve durata, della seconda una durata più lunga, furono assai bene osservate dai medici recenti, ma con una veduta quasi esclusiva al fatto dell' infiammazione; e prego il lettore di permettere che gliene metta sott' occhio la descrizione, che ne fa l' illustre Tommasini, la quale mi dà occasione di aggiungere qualche non inutile osservazione. Questo è il corso di breve durata; ora passa il Professore a descrivere quello, che noi chiamiamo corso di lunga durata di sensioni e di movimenti alterni. In questi luoghi del chiarissimo Tommasini, che descrivono fatti verissimi, debbo dire che io non saprei considerare altramente che come sommamente inesatta quella espressione di eccesso di stimolo, la quale rammenta le angustie del sistema browniano, onde si deve trarre del tutto la medicina, prima di mettersi sulla via regia dei suoi progressi. Invece di eccesso di stimolo pare che si dovrebbe dire inopportunità di stimolo; giacchè le malattie che conseguono allo stimolo, per confessione dello stesso Tommasini, non sono proporzionate alla grandezza ed intensità dello stimolo. Dunque cagione vera dei morbi non è l' eccesso, ma l' inopportunità dello stimolo; di modo che uno stimolo per piccolo che possa essere, se è inopportuno in certe date condizioni dell' animalità, cioè se egli irrita e disordina le funzioni dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, per ciò solo è già eccessivo, poichè tutto ciò che è male, è anche troppo. Il determinare poi l' inopportunità dello stimolo deve essere ampio campo alla medicale sapienza, dipendendo quella da innumerevoli cause, dall' atmosfera, dai temperamenti, dallo stato speciale in cui si trova l' animale, e in esso quel corso alterno che mai non cessa di sensioni e di movimenti, ecc.. La quale avvertenza non è del tutto sfuggita all' acume dell' illustre Tommasini, ma legato egli al sistema, che faceva dipendere tutte le malattie da stimolo eccedente o scarso, non seppe forse cavare tutto il profitto che avrebbe potuto dalle proprie osservazioni. Le quali osservazioni giustissime provano quello che noi dicevamo; provano che non è l' eccesso dello stimolo che cagiona il corso necessario dell' infiammazione, poichè con uno stimolo anche maggiore ella non nasce. Dunque è l' inopportunità . Ma quando lo stimolo è inopportuno? Ecco il grande problema; non si tratta più di misurare semplicemente la quantità dello stimolo, ma di tener conto di tutte quelle innumerabili circostanze, la cui mistura, per dir così, lo rende opportuno ovvero importuno. Questo ci conduce al metodo antico, al senno ippocratico. E primieramente è cosa indubitata che lo stato di sanità è condizionato all' azione continua di stimoli, quali sono l' aria, la luce, il cibo, e quelli che si suscitano dall' esercizio, e quelli che si riproducono dai continui moti intestini, che nel misto vivente si perpetuano. Questi sono certamente stimoli opportuni. E possono anche tali stimoli aumentare e diminuire fino a un certo termine, senza che perciò escano dalla sfera dell' opportunità. Un uomo sano si può astenere dal vino, può berne in poca quantità, ed anche in dose generosa, senza alcun pregiudizio di sua salute. Può mangiare più o meno, può esercitare le sue forze fisiche, intellettuali e morali più o meno, e la salute non ne riceve detrimento. Il corso delle funzioni animali cangia sì, ma non rimane alterato; la vicenda alterna delle sensioni e dei movimenti intestini può dunque essere resa più o meno celere, più o meno vigorosa senza alcuna morbosa affezione. Ed era necessario che la sapienza creatrice avesse conceduto all' animalità questa attitudine di adattarsi ad una grande varietà di stimoli naturali e ad una misura variabile di essi, giacchè senza di questo essa non avrebbe potuto conservarsi; ogni minima alterazione di atmosfera, ogni varietà di cibo, ogni accrescimento o diminuzione d' esercizio avrebbe dato principio ad un corso di fenomeni morbosi. Ma quanto si estende questa sfera di stimoli opportuni? dove si può trovare il principio, che determini il carattere degli stimoli inopportuni? La sfera degli stimoli opportuni si estende indubbiamente più o meno, secondo la sanità e la robustezza del corpo, e quella sua speciale condizione che questo riceve in gran parte dall' abitudine. Quindi si scorge il corpo umano resistere ai diversi climi del globo, e adattarsi alle diverse temperature; e nello stesso clima variare grandemente la docilità e sofferenza agli stimoli dei diversi individui, e laddove sembra che ad uno niente pregiudichi nè alterazione d' atmosfera, nè gravità di fatiche, nè varietà di cibi, un altro soggiace ad affezioni morbose per ogni più lieve cagione. Conviene dunque trovare il carattere dell' irritazione o alterazione morbosa nella condizione stessa del corpo animale; conviene trovare questo carattere nella vicissitudine delle sensioni e dei movimenti intestini, di cui abbiamo più sopra descritte le leggi; solamente in queste leggi giace la ragione, perchè quella vicissitudine in istato normale, benchè eccitata da certi stimoli esterni, non si perturbi, e perchè ella s' irriti ed alteri eccitata dagli stimoli stessi; ancora perchè, data un' irritazione, o succeda il corso morboso delle sensioni e dei movimenti sì breve che tosto finisce poco dopo la sottrazione degli stimoli; o sì lungo che anche sottratti gli stimoli si continua per lungo tempo, percorre più stadii, presenta varie scene di fenomeni, e termina colla restituzione della sanità o colla morte. Poichè, si noti bene, il detto corso quando è incominciato, non cessa mai subito all' istante stesso della sottrazione degli stimoli, che vi hanno dato incominciamento; ma la differenza dei due corsi non istà fra il subito e il lungo tempo, ma fra il breve e il lungo tempo. Non dipendendo dunque il corso morboso da eccesso di stimolo, ma da stimolo inopportuno alla condizione in cui si trova l' interna vicenda delle sensioni e dei movimenti intestini, apparisce, secondo che sembra a noi, la vera ragione per la quale i medici, legati al sistema dell' eccedenza e del difetto dello stimolo, non sappiano giammai determinare a qual grado e misura ne incominci l' eccedenza o il difetto; e se si provino a farlo, si abbattino di continuo a fatti ribelli refrattari al loro sistema. Laonde il Tommasini confessa di non poter determinare il limite, ove l' eccitamento comincia ad essere flogistico. Ora, nell' impossibilità in cui si vede il celebre uomo di determinare questi limiti, egli ricorre ad asserire che il grado maggiore e minore di stimolo e di eccitamento si deve considerare come relativo all' individuale tolleranza . Ma l' ubbriachezza di un uomo venuto per essa in delirio e minacciato di paralisi, è tal fenomeno che assai bene dimostra essere stata vinta dallo stimolo la individuale tolleranza; eppure il corso di quel morbo finisce in breve, rigettato che sia o digerito il vino; quando la più leggiera flogosi si continua a lungo con quel corso, che il Tommasini giustamente chiama necessario . Può dunque lo stimolo essere eccessivo anche relativamente all' individuale tolleranza, e non produrre la flogosi, e uno stimolo minore sullo stesso individuo produrla. A questo punto l' uomo illustre, stretto dall' evidenza dei fatti, già rasenta il vero soggiungendo: Non dunque all' eccesso dello stimolo, o al suo difetto, conviene ricorrere per spiegare il corso dell' infiammazione e di ogni altro processo morboso; ma sì alle leggi dell' alterna azione dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, delle sensioni e dei movimenti organici, che costituiscono una vicenda con corso fisso e necessario, per servirmi dell' espressione del Tommasini; vicenda che pur si compie nello stato dell' uomo sano, come in quello dell' uomo infermo, sempre colle identiche leggi; onde la patologia si riduce e continua alla fisiologia, scorgendosi che le leggi, che presiedono all' operare della macchina vivente in istato morboso, sono quelle stesse che presiedono all' operare di lei in istato di sanità, e che i fenomeni variano solo perchè varia lo stato dei due istinti che li producono, il loro reciproco rapporto, e la qualità relativa degli stimoli esteriori che li traggono in movimento. Il Tommasini riconobbe che la generazione, lo sviluppo e la riproduzione delle parti sono operazioni interne dell' animale, le quali, data la conveniente spinta degli agenti esteriori, procedono indipendentemente da questi, in virtù, diciamo noi, della spontaneità animale, che nei due istinti mentovati si manifesta, l' uno dei quali dà la leva all' altro reciprocamente; egli rammenta le osservazioni di Harvey sull' utero gravido, su centinaia di uova, dalle quali osservazioni risulta che i passi, che fa questo corpo vivente in un vivente, dai primi momenti della concezione sino al suo maggiore sviluppo, sono simili a quelli dell' infiammazione; reca la sentenza di Onofrio Schassi, secondo il quale la membrana dell' utero, detta decidua dall' Hunter, non è che il prodotto di una specie d' infiammazione naturale; ricorda competere alla infiammazione l' attività riproduttrice; per l' infiammazione riempirsi le cavità lasciate dalle piaghe e dai tagli, generarsi nuove fibre, riprodursi pezzi interi di carne, la parte rigenerata acquistare talora un volume morboso straordinario; essere stato osservato da Mascagni, Hunter, Rezia, Testa, Potolongo e Moore, che i vasi sanguigni, i linfatici, le cellulari, le cartilagini, le ossa sotto l' energia dell' infiammazione si sviluppano, si estendono, crescono di mole, anzi formarsi, come organiche produzioni, alcune tele cellulari nella pneumonite, che Maincourt distinse dalle false membrane, e tra esse ramificarsi propaggini di rossi vasellini, secondo il Cruikshank aumentarsi fin anche i filamenti nervosi. Esatte sono le espressioni che usa l' uomo insigne, quando dice che nei processi morbosi la natura « aberra dalle leggi alla salute prefisse », ovvero chiama le produzioni, che ne derivano, « vegetazione d' ignota stampa »; ma ricade nel sistema invalso e troppo angusto, quando tutto ciò attribuisce all' eccesso dello stimolo, al soperchio dell' eccitamento. Che nella generazione, nella riproduzione normale delle parti tagliate, nel processo per cui dall' infanzia alla virilità vanno raffermandosi le parti molli, si scorga un aumento di eccitamento e di vita, questo s' intende; ma in tutto ciò non vi è eccesso. All' incontro non vi è eccesso propriamente, ma irregolarità e anormalità delle operazioni animali quando, [...OMISSIS...] . Se un mesenterio, un omento, o un vaso per lenta flogosi vegetando, giungono a tale incremento che riesce funesto e mortale per meccaniche compressioni, tutto ciò deve ascriversi all' attività animale, che dirige ed accumula i suoi prodotti in un luogo (e di questa legge di località parleremo poco appresso), non propriamente all' eccesso dell' eccitamento; conciossiacchè una stessa e anche maggiore quantità di eccitamento, data all' animale in altre circostanze, lungi dall' essergli così dannosa, gli potrebbe essere utile. Altro è dunque eccesso di stimolo, altro inopportunità; altro aumento di azione vitale, altro azione vitale aberrata dalle leggi della sanità. Questo non si può chiamare eccesso di eccitamento, per dirlo di nuovo, se non nel senso che tutto ciò che aberra e che nuoce è sempre eccessivo; e in tal caso la parola eccesso sarebbe usata in un altro significato non proprio, nel quale significato ogni causa della malattia sarebbe un eccesso; la parola eccesso conviene dunque evitarsi. Per dimostrare maggiormente quanta differenza corra fra eccesso di stimolo e inopportunità di stimolo, faremo notare al lettore che la prima espressione involge il concetto che il corso fisiologico o patologico dipenda dal soggiacere l' animale ad una passione; laddove la seconda involge il concetto che il detto corso dipenda da un' azione dell' animale stesso. Anche qui il Tommasini si vede lottare manifestamente fra il sistema, di cui si è preoccupato, e i fatti che gli cadono sott' occhio. Uno dei quali fatti è la condizione che lascia dopo di sè nel corpo l' infiammazione, la quale si risveglia con maggiore facilità dove fu un' altra volta e per più leggeri motivi; di che il professore è costretto a conchiudere, che l' infiammazione infrange [...OMISSIS...] . Nella nostra maniera di concepire il corso morboso, le leggi dell' abitudine non sono menomamente infrante appunto perchè quel corso non prende la legge dall' impressione passiva ed eccedente dello stimolo, ma anzi dall' attività del doppio istinto animale. E noi abbiamo già distinte due maniere di abitudine, l' una passiva e l' altra attiva, e abbiamo osservato che l' abitudine passiva diminuisce l' intensione e la vivezza della nuova impressione; ma l' abitudine attiva accresce l' azione, rendendola più facile, più perfetta, più intensa. Così di due persone umane e benefiche, quella che è giovane prova più vivo il sentimento passivo della compassione, ma la più vecchia con minor sentimento è più operativa dell' altra nel sovvenire ai sofferenti (1). Se dunque il processo infiammatorio dimostra non soggiacere alla legge dell' abitudine passiva, come lo stesso Tommasini confessa, ed ubbidisce a quella dell' abitudine attiva, si scorge in questo stesso la prova che ella non è determinata dalla quantità dello stimolo e dell' eccitamento che passivamente riceve, ma dal gioco delle forze interne, il quale viene perturbato dallo stimolo, piccolo o grande che sia, e però dall' inopportunità di lui rispettivamente allo stato e condizione di esse forze. La passività, da cui Brown fece dipendere la vita, fu tanta che egli ne trasse il suo celebre canone, esaurirsi l' eccitabilità della fibra per l' azione degli stimoli. « I fatti confutarono questa teoria, e in Italia il Racchetti giunse a sostenere direttamente il contrario, sostenendo l' eccitabilità della fibra accrescersi sempre per l' azione degli stimoli ». Il Tommasini volle tenersi in una via media, negando la generalità della sentenza del Racchetti per ragioni [...OMISSIS...] . Ma egli non s' avvide che oltre le leggi dell' abitudine passiva vi sono, come dicevamo, quelle, contrarie alle prime, dell' abitudine attiva, e che a queste è conforme il procedere della natura animale. Conviene dunque recare l' attenzione assai più sulle leggi dell' attività animale che su quelle della passività; ed allora si potrà uscire del tutto dalle angustie del sistema browniano. Grande impedimento a questo si fu la guerra indiscreta e cieca mossa agli animisti; si ebbe paura di giungere fino all' anima, e parve più prudente consiglio il trattenersi alle condizioni della fibra. Quindi il Tommasini, parlando della conseguenza che lascia dopo di sè nel corpo l' infiammazione, la facilità cioè di nuovamente infiammarsi, dice quella essere necessariamente [...OMISSIS...] . Ma sino che si parla di fibra e di eccitabilità inerente alla fibra, non si considera il fenomeno che dal lato passivo; laddove la vera ragione che lo illustra non si trova che considerandolo dal suo lato attivo; cioè in relazione a quel principio che avviva e muove la fibra stessa, e che avendola per termine della sua azione, egli ne rimane eccitato, se quella viene stimolata; in virtù del quale eccitamento, secondo la legge più sopra toccata della spontaneità, scotendo la fibra, la fa parere ella stessa eccitabile. Ora niun dubbio che il principio animale, l' anima, soggiaccia alla legge dell' abitudine attiva, che è quella di eseguire con meno di fatica, e più di facilità e con maggiore piacere, quella specie di operazione che ella ha già eseguita più volte. E qui si osservi ancora come la legge dell' abitudine passiva e quella dell' abitudine attiva, sebbene opposte, si diano la mano, per modo che nella legge dell' abitudine passiva si trova in gran parte la ragione della legge dell' abitudine attiva. E di vero, presupposto che « la quantità di azione dell' istinto sensuale sia in ragione dei minori ostacoli, che egli trova nel suo operare, e della maggiore facilità e del maggior diletto », è chiaro che la legge dell' abitudine passiva che dice « le sensioni moleste diminuire la loro vivacità colla loro ripetizione e continuazione », è quella che spiega perchè un agente, ripetendo le sue azioni, diventi sempre più attivo e inclinato a porle; diventa più attivo, perchè scema la vivezza degli incomodi della fatica, della difficoltà che egli provava al principio; il che è tanto più vero che trattasi di un operare morboso e incomodo, traente seco necessariamente non poca molestia. Così le leggi delle due abitudini, lungi dall' essere in contraddizione, si spiegano reciprocamente. Nè si creda una contraddizione il dire che l' istinto sensuale trova incomodi e molestie nel suo operare, e il dire ancora che la quantità dell' operazione di lui va in ragione del diletto che egli ne prova; perchè gli incomodi, le molestie, le difficoltà possono mescolarsi e si mescolano effettivamente col piacere, dipendendo poi dalla prevalenza di questo o del suo contrario, l' essere un' operazione piacevole o dolorosa; e perchè non si deve fare il confronto tra l' operazione e la non operazione, ma tra l' operazione e lo stato in cui l' animale si troverebbe non operando. E potrebbe essere benissimo che l' operazione avesse più del molesto e del doloroso che del piacevole, in sè stessa considerata; ma in pari tempo potrebbe essere tale che l' istinto sensuale spontaneamente l' assecondasse e continuasse, giacchè non assecondandola e continuandola, egli ne avrebbe uno stato più molesto e più doloroso ancora che dandole corso. Il che conviene con ciò che precedentemente dicemmo: « la quantità dell' azione dell' istinto sensuale non istare solo in ragione del grado di piacere che egli prova nell' agire, ma in ragione composta di questo grado di piacere, e della spinta ricevuta a principio dalla sensazione ». La sensione dà il primo incitamento all' istinto sensuale, che non può cansarlo, e il grado di questo incitamento è quello che determina il maximum dell' azione ceteris paribus ; ma ricevuta tale impulsione, l' azione dell' istinto sensuale, dopo il suo primo moto, è diminuita dagli ostacoli che incontra per via, cioè dalla difficoltà, fatica e molestia che prova. Quindi il primo movimento impresso dalla sensione, se è violento, può dar cagione a gravi e inevitabili disordini nella organizzazione. A ragion d' esempio, è impossibile impedire che una detonazione violenta in certi individui sensibili produca una oppressione alla regione epigastrica, e fin anche la lipotimia, la sincope ed altri effetti funesti; effetti tutti operati dalla spontaneità dell' istinto sensuale, a cui non è dato resistere al primo incitamento della sensazione così improvvisa e fragorosa. Dicendo non gli è dato resistere, intendo che la fatica e la molestia del resistere sarebbe tanta, che egli preferisce lasciare il corso a quei movimenti iniziati dalla sensazione, benchè funesti. Il digrignare dei denti, prodotto dalla sensazione che arreca una lima che scorre sopra una sega, o altri suoni laceranti gli orecchi, non è certo un sentimento grato; ma non si può evitare; la spontaneità dell' istinto sensuale non l' evita, perchè l' impulso della sensazione è sì forte che a fermare l' oscillazione, che ne riceve la corda del timpano sicchè ella non si propaghi al nervo della mascella inferiore, costerebbe un grado di fatica e di pena sì grande, che assai minore è quella di lasciar libera la spontaneità istintiva, che propaga quel movimento. La facilità dunque, colla quale si riproducono le infiammazioni, assai agevolmente si spiega ricorrendo alla legge dell' abitudine attiva, a cui ubbidisce il principio animale. Ma si dovrà dunque escludere dalle cagioni di questo fatto il cambiamento organico della fibra, nella quale l' infiammazione si ripete? No certo; e sia pure che l' organica disposizione della fibra, dopo l' infiammazione, si rimanga modificata. Ma ci sembra una proposizione troppo ardita, e fin' ora non dimostrata, quella che [...OMISSIS...] . L' attribuire il grado ed il modo dell' eccitabilità esclusivamente all' organizzazione della fibra, è dottrina gratuita e al tutto improbabile. Anzi i fatti psicologici smentiscono nell' uomo un sistema così angusto che non riconosce altra cagione delle modificazioni che presenta l' eccitabilità, se non la pura organizzazione della fibra; i fatti dico delle passioni razionali. E chi può negare: I - Che le passioni razionali sieno uno stimolo eccitatore dei nervi e delle fibre? La gioia, la collera, il terrore, l' amore possono sospendere ed accrescere l' azione del cuore, e Bichat curò un uomo che, per cagione d' una paura, provò incontanente forte costringimento alla regione dell' epigastro, poco appresso gli si sparse sul volto una tinta giallastra, la sera ebbe le membra inferiori tumefatte. Si vide, e non di rado, ad un eccesso di collera succedere infiammazioni cutanee e mucose, nevralgie, ed altri sintomi morbosi. Chi può negare ancora: II - Che le passioni soggiacciono alla legge dell' abitudine attiva, diventandone più frequenti e violenti gli accessi, quanto più l' uomo le ha liberamente secondate? Ciò posto, supponiamo un poco che l' organizzazione della fibra rimanesse senza alterazione, ma che l' abitudine propria della passione desse all' anima razionale una grande suscettività, poniamo quella suscettività che un uomo potente ed abitualmente superbo acquista ad ogni menomo affronto, ad ogni aspra parola, ad ogni contraddizione ai suoi cenni, quella che acquista un uomo lussurioso alla vista di ogni oggetto atto a pascere la sua passione, quella d' un educato ai timori, avvezzo a temer di tutto, ecc.; non è vero che la sua fibra, sebbene non cangiata nella sua organizzazione, sembrerà più eccitabile, perchè più eccitabile, più attivo, più pronto si è reso coll' abitudine il principio animale che la muove, che la nutre, che le dà quel guizzo che alla passione sua è consentaneo? Se si scorge dunque nella fibra vivente maggiore mobilità dopo essere soggiaciuta a certo stimolo, non si può da questo senza più inferire che la mutazione sia inerente alla sua organizzazione, non se ne può conchiudere, dico, che questa organizzazione, che si pretende incontanente modificata, sia l' unica cagione della accresciuta eccitabilità; anzi pare che una buona parte, per lo meno, di questa nuova condizione apparente della fibra si debba ripetere dalla nuova condizione in cui è venuto, per l' abitudine attiva, il principio animale, che informa la fibra, l' avviva, l' agita; il qual principio certamente si modifica talora con indipendenza dalla fibra stessa, per cagioni intellettuali e morali. E noi non dubitiamo di applicare un simile ragionamento a quello che avviene negli animali bruti, quantunque il loro corpo non riceva stimolo dalle notizie intellettive e dalle disposizioni morali, di cui sono privi. Certo è ch' essi hanno un principio animale soggiacente alla legge dell' abitudine attiva con indipendenza dall' organizzazione, e certo è che l' istinto animale soggiace alla legge dell' abitudine attiva, indipendentemente dall' organizzazione. Onde, se non da questo, dipendono certi spiacevoli istintivi movimenti, che non di rado si vedono fare in società a certe persone, dei quali vorrebbero, se potessero, guardarsi, e non possono? Onde, se non dalla forza dell' abitudine attiva, il vizio di quel signore a me ben noto, che ad ogni due o tre parole ripete colle labbra il movimento del pippare, e, se se n' astiene per alcun poco con violenza, dà poscia due o tre pippate in fretta, quasi per rifarsi del perduto? Niuna alterazione sembra dover essere nata nella condizione organica delle sue fibre; ma sì l' abito gl' impone oggimai la necessità di fare quei movimenti, pei quali sembra che la fibra sia divenuta più irritabile, più mobile. Ella è una convulsione delle labbra, si dice; ed appunto il rendersi le convulsioni frequenti in un individuo deve attribuirsi in gran parte alla forza dell' abitudine attiva . All' attività del principio animale si deve parimenti riputare la ragione, perchè le convulsioni si propaghino per modo d' imitazione; non è l' immutata organizzazione della fibra che in tal caso la renda più contrattile, ma sì il principio attivo dell' animale che opera per imitazione della fibra stessa, la quale perciò più contrattile si dimostra. E qui si rinviene un altro argomento atto a provare non doversi ripetere dalla sola variata organizzazione della fibra la diversa misura d' irritabilità e mobilità, che ella dimostra; ma piuttosto dalla diversa condizione dello stesso principio attivo animale, che, indipendentemente dalla fibra, si modifica, e che muove e modifica poi egli stesso la fibra, che rispetto a lui è passiva. Infatti, quanto non è efficace anche negli animali l' istinto d' imitare? Il quale al principio sensitivo anzichè alla materialità ed alle organiche condizioni della fibra, si deve indubitatamente attribuire; e se si vuole, usando un' altra maniera di dire, attribuire tali fenomeni alle condizioni dinamiche della fibra medesima, potrà passare, purchè queste condizioni dinamiche non si facciano dipendere dalla sola organizzazione, ma si riconosca la forza, «dynamis», risiedente nel principio animale. Tanto è lungi che l' operare dell' animale per abitudine, per imitazione, per immaginazione, e in diversi altri modi provenienti dalla sua sensitività e dalla forza unitiva, dipendano dalla sola organizzazione, che anzi questa è puramente passiva, e però ella stessa dipende, e viene modificata da cotali diverse maniere del suo operare. E nondimeno tutto ciò non toglie che anche l' organizzazione alterata della fibra abbia la sua buona parte nei fenomeni del corpo sano e ammalato, purchè non la si creda la causa attiva di essi, purchè con essa sola niuno si consigli di spiegarli. Infatti la vita animale risulta da diverse reciproche azioni dell' anima nel corpo, e del corpo nell' anima (1). Quindi è che ogni azione del principio vitale deve influire sullo stato del corpo, ed ogni alterazione del corpo cagionare un' alterazione corrispondente nello stato del principio vitale. Se dunque viene a cangiarsi l' organizzazione del corpo, anche il principio vitale e la sua attività rimane modificata. Ma viceversa, se l' attività del principio vitale soffre qualche cangiamento, se questa attività agisce con quella specie di atti, a cui rispondono dei movimenti intestini nei tessuti del corpo, l' intima organizzazione di questi deve riceverne alcuna mutazione. Ciò dimostra che la condizione organica della fibra è assai, ma non tutto; l' essere ella organata piuttosto in un modo che nell' altro, la deve rendere più o meno impressionabile, le deve dare una passività maggiore o minore; ma niente le varrebbe esser divenuta così mobile, se il principio movente, cagione del moto, non agisce in lei; la sua eccitabilità dunque è una relazione passiva verso il principio movente, e non più. Ora come può variare in essa questa mobilità passiva, così il principio attivo motore soggiace pure a cangiamento nella sua relazione attiva, crescono o diminuiscono in esso i gradi di attività, si facilitano o si difficultano i suoi atti, ecc.. Il fenomeno dunque della maggiore impressionabilità od eccitabilità della fibra dipende da due cagioni, e non da una sola, e dalla cresciuta mobilità passiva di lei inerente all' organizzazione, e dalla cresciuta mobilità attiva del principio animale. Si vedrà poi quanto sia grande la parte che tiene l' organizzazione nella spiegazione dei fenomeni fisiologici e patologici (benchè non si debba attribuire ad essa sola il grado di eccitabilità apparente nel corpo umano), considerando che il sentimento fondamentale di continuità è al tutto dipendente dall' organizzazione, e da questa dipende in gran parte il sentimento fondamentale di eccitamento . Di più l' istinto sensuale produce dei minimi movimenti, i quali non possono a meno di recare qualche mutazione nella tessitura e nello stato organico dei corpi; e questi minimi movimenti sono quelli che vengono operati per mezzo del sistema nervoso ganglionare. Laonde con buon senno scrive il Tommasini: [...OMISSIS...] . Perocchè a noi anzi è indubitato che da nessuna morbosa alterazione il corpo umano ritorni allo stato organico identico col precedente, giacchè gli infiniti movimenti intestini, le molecole perdute ed acquistate, è impossibile che si compensino così giustamente da restituire il corpo in tutto e per tutto misto ed organato, come egli era prima. E crediamo che si possa di più a sicurtà asserire non esservi un solo momento nella vita, in cui la mistura e la tessitura delle parti sia in tutto e per tutto eguale a quella del momento precedente. Ma l' errore sistematico del grand' uomo è quello di pretendere che l' eccitabilità delle parti e la suscettività di rispondere agli stimoli dipenda unicamente dalla condizione organica della fibra, e dalla quantità di quelli si possa argomentare il grado di mutazione in questa. L' importanza della materia ci consiglia a procurare di recarvi qualche maggior luce collo specificare le condizioni diverse, che può ricevere lo stato del corpo animale dall' alterna azione dei due istinti; il che faremo nei capi seguenti. Dalle cose dette risulta: Che dal primo istante in cui l' uomo è posto, fino all' istante in cui l' uomo muore, vi è un corso non interrotto di azioni alterne dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, il quale noi chiameremo di qui innanzi corso zoetico . Che le leggi che l' uno e l' altro istinto segue nella sua azione, sono sempre le medesime, nè possono mai cangiare essenzialmente. Che dalle azioni alterne dei due istinti dipende egualmente lo stato di sanità e lo stato di malattia, come pure l' incremento e il decremento dell' animale. Che lo stato di malattia e i processi morbosi non sono altro che una parte del corso delle azioni alterne, di cui parliamo, non interrompono questo corso, ma lo continuano, sicchè i fenomeni morbosi non differiscono essenzialmente dai fisiologici. Dalle quali cose consegue che, quantunque le leggi, secondo le quali operano incessantemente i due istinti, sieno immutabili e necessarie, tuttavia il corso alterno delle sensioni e dei movimenti riesce così diverso che varia di tipo in ogni animale di specie diversa; e nella stessa specie non si può in alcuna maniera credere che s' incontrino due individui, nei quali quel corso proceda uniforme, anzi neppure nello stesso individuo è uniforme mai a sè stesso nei varii istanti della vita. Le varietà del detto corso zoetico negli uomini devono dunque riuscire assai maggiori che non quelle delle fisonomie; conciossiachè, essendo egli disposto in una serie d' innumerevoli anelli di azioni reciproche, basta il più piccolo cangiamento in un anello di essa acciocchè tutto affatto il corso si muti, si apra una nuova via, per la quale egli discorra divergendo dalla prima. Noi per brevità di discorso chiameremo anelli del corso zoetico una coppia di azioni, l' una dell' istinto vitale, l' altra del sensuale. Ma se le leggi dei due istinti sono immutabili, ond' è che il corso zoetico piglia tante diverse direzioni, sicchè in ciascun uomo, in ciascun animale cangia andamento? L' abbiamo veduto; se vogliamo retrocedere fino alle prime cause, che incamminano il corso zoetico piuttosto in un modo che in un altro, o che, incamminato, lo fanno divergere dalla prima direzione, dovremmo riferirci a cagioni estranee all' animale, la principale delle quali è la materia. Questa ora somministra ubbidiente il suo termine all' istinto vitale; ora combatte con esso, e lo costringe a dolorosa lotta; ora lo blandisce con opportuno stimolo, eccitandolo a piacevole sentimento; ora gli sfugge di mano, vincendo la sua rattenenza, e sottraendosi alla sua azione. Tutte queste diverse azioni ed attitudini, che prende la materia verso l' istinto vitale, lo costringono a produrre sentimenti diversi, i quali determinano un corso zoetico diverso. Ma noi dicevamo che la materia bruta è la cagione principale, che dà una piuttosto che un' altra direzione al corso zoetico, non che ella è l' unica. Usavamo questo riserbo di parlare, perchè un' altra causa estranea al concetto dell' animale e influente sul corso zoetico si è l' intelligenza, che nell' uomo è intimamente associata all' animalità. Se dunque consideriamo l' animalità nell' uomo, il corso zoetico riceve gli impulsi, che lo dirigono per una via anzichè per un' altra, o che lo fanno divergere dalla prima, da due cagioni: da un agente inferiore, ed è la materia, e da un agente superiore all' animalità, ed è l' intelligenza. La materia dunque e l' intelligenza sono le due cagioni, che nell' animalità umana determinano la direzione del corso zoetico, di maniera che quando questo corso è da quelle determinato, se si supponga ch' esse non cagionino più alcun' altra irritazione, il detto corso segue fatalmente per la sua via necessaria, perchè prescritta dalle leggi dei due istinti, senza declinare nè a destra, nè a sinistra. Ma se l' una delle due cause esteriori mentovate influisce di nuovo sull' animalità, quel corso è costretto a mutare direzione, percorrendo la nuova via con eguale certezza e necessità. Conviene nondimeno osservare che, come la materia determina o fa divergere il corso zoetico, operando nell' istinto vitale, in quanto questo è passivo verso la materia; così l' intelligenza determina o fa divergere il corso zoetico, operando sull' istinto vitale , in quanto questo è attivo verso la materia medesima. E veramente se una infausta notizia cagiona un sentimento di tristezza e di abbattimento, onde nasce questo fenomeno se non da ciò che l' anima intellettiva, addolorata per la fatale notizia, sottrae le forze all' istinto vitale e in parte anche all' istinto sensuale, di che il rallentamento del sangue e gli altri sintomi di debolezza e concidenza? Il grado dunque di attività dell' istinto vitale viene diminuito od accresciuto dall' azione diretta dell' anima intelligente, e così mutato il corso zoetico. Che se noi vogliamo considerare i primi passi dell' istinto sensuale , e cercare come questi vengano determinati, risulta da quanto abbiamo detto che ciò che li determina sono i primi sentimenti , effetti dell' istinto vitale. Quante dunque sono le specie, le forme, i gradi dei primi sentimenti dall' istinto vitale prodotti, altrettante sono le specie, le forme, i gradi dei primi movimenti cagionati nel corpo animale dall' istinto sensuale . Dai primi sentimenti adunque dipende tutto il corso zoetico, e i primi sentimenti dipendono dalle due cause accennate, la materia e l' intelligenza. Enumeriamo i sentimenti primitivi (1) secondo i loro tipi, o specie7piene (2), e vediamo da quali speciali cagioni ciascuno dipenda, e come egli inizii un differente corso zoetico. Il sentimento fondamentale ha per termini la materia continua e il moto; parliamo del sentimento fondamentale, in quanto ha per termine la materia continua. Al sentimento fondamentale di continuità deve essere data una materia avente certe disposizioni, precedenti all' azione dell' istinto vitale. Ma poichè una proposizione così generale non si può provare, non avendosi una materia e un istinto vitale disgiunti, si deve supporre prima di tutto un germe animato, il quale abbia una qualche materia acconcia all' azione animatrice dell' istinto vitale, con organizzazione opportuna al suo ulteriore sviluppo, la quale dicesi tipo primitivo dell' animale, mediante incessanti movimenti cagionati dall' istinto sensuale. Ciò premesso: L' animale non può conservare la vita, se non gli è data a suo alimento una materia avente certe disposizioni, precedenti all' azione dell' istinto animale. Questa proposizione è evidente a tutti quelli che considerano che non tutte le sostanze materiali possono servire di alimento all' animale. E` assolutamente necessario che siano continuamente sostituite molecole di azoto e molecole di ossigeno a quelle che l' animale va perdendo. Magendie, avendo alimentato alcuni cani con sostanze prive di azoto, come sarebbero zucchero, olio, acqua, ecc., in poco tempo morirono atrofici. Se l' ossigeno non nutrisse il sangue, l' animale morrebbe asfissiato. Nè basta ordinariamente che l' ossigeno sia ricevuto per mezzo del polmone mediante la respirazione; egli nutrisce e mantiene l' animale, insinuandosi in esso anche attraverso la cute. Lo stesso Magendie, avendo rivestito tutto il corpo di alcuni conigli e di altri animali, eccetto la faccia, d' un intonaco viscoso formato di una dissoluzione concentrata di gomma, di gelatina o di terebinto, in modo che la pelle non poteva più assorbire i gaz atmosferici, quantunque respirassero liberamente, quegli animali in poco d' ora furono morti asfissiati (1). Magendie d' altra parte ebbe pure dimostrato coll' esperienza che l' epidermide, e in generale tutte le membrane sono permeabili ai gaz (2). Oltre la qualità della materia, che dipende probabilmente dalla sua forma e composizione, è necessario che essa sia posta in continuità del corpo già animato, acciocchè l' istinto vitale possa invaderla. Benchè l' esperienza non dimostri, nè possa dimostrare la necessità di questa continuità, ma solo di una vicinanza, tuttavia a noi pare che la dimostri il ragionamento. Il terzo luogo è necessario, ancora, che quella materia opportuna dall' istinto vitale, mediante il corpo già vivente, venga elaborata, cioè minuzzata, ricomposta, purgata, classificata, distribuita. In quarto luogo che ella riceva dall' anima quell' ultima qualità, che la rende attiva in sull' anima stessa, di cui abbiamo altrove parlato (1). Date queste condizioni, il sentimento fondamentale di continuità si concepisce posto in essere, e conservante sè stesso; perocchè colle tre prime è formata l' organizzazione, e colla quarta l' organizzazione viene dotata di quell' ultimo atto che si dice vita extrasoggettiva, per la quale il corpo alla sua volta si rende attivo verso dell' anima, com' è necessario a spiegare la passività, che si ravvisa nel sentimento. E tutte queste condizioni si trovano nel germe animato, nel quale l' animale incomincia, sol che si annunzino così, riducendole a tre: 1 materia opportuna; 2 continuità; 3 animalizzazione (2). Quest' ultima condizione, quest' ultimo atto della vita extrasoggettiva del corpo, dipende, data l' organizzazione, dall' attività dell' anima sensitiva. E come questa attività può essere modificata dall' influenza del principio intellettivo, così non vi è dubbio che secondo la disposizione del principio intellettivo è modificata in ogni istante la produzione della vita e del sentimento conseguente, a segno che può essere impedito l' effetto vitale e la produzione del sentimento fondamentale; nel qual caso si ha in breve qualche disorganizzazione, e la morte. Il Nicholls narra di una dama inglese, che ai suoi tempi colta in adulterio, ne ebbe tanto dolore e vergogna da prenderle tosto la febbre, e venire in termine di morte. Impetrata dal marito sdegnato promessa di perdono, e tornata nella speranza di potergli tuttavia piacere, si riebbe da quell' estremo pericolo. Ma vedendola guarita, i parenti persuasero il marito che la moglie infedele aveva simulata quella infermità per rapirgli il perdono; ond' egli, partitosi per la campagna, mandò dire alla moglie aver egli fatto abbastanza conservandole la vita, del resto volere il divorzio. La donna infelice, stretta d' ambascia, altro non seppe rispondere se non ch' ella già si moriva, e rallentatolesi gradatamente il polso, sopravvenutale l' oppressione del petto, dopo poche ore cessò di vivere (3). Qual fatto più efficace di questo, e ve ne sono infiniti, a provare che la condizione in cui si trova il principio intellettivo, influisce sull' attività del principio animale, l' accresce, la diminuisce, la lega e la scioglie? Il sentimento fondamentale di continuità differisce dunque negli uomini primieramente per cagione dello stato in cui si trova il principio intellettivo. In secondo luogo egli differisce secondo il grado di continuità, che hanno fra loro le molecole viventi. Sembra probabile che la vita non esiga per sua condizione una continuità così determinata che non possa ammettere modificazione di sorte. Anzi mi pare probabile che vi sieno due limiti della continuità delle molecole, entro i quali si conservi la vita in istato perfetto, dico la mera vita di continuità, che parmi esiga continuità e nulla più. La continuità maggiore o minore dipende dalla forma e dalla grandezza delle molecole, le quali circostanze fanno sì che rimangano fra esse interstizi più o meno numerosi, e maggiori o minori. Ora, quanto il misto è più compatto e le particelle si combaciano in più punti, pare che la vita di continuità dovesse riuscire più fitta e robusta; ma la troppa aderenza delle molecole impedisce il loro movimento, e deve quindi scemare la vita di eccitazione. Ora il sentimento eccitato è troppo più che il sentimento di continuità. L' istinto animale adunque tende da una parte ad accumulare il sentimento, restringendo le molecole, e atteggiandole in modo che si tocchino colle massime superfici; dall' altra tende ad aiutare il loro movimento reciproco ed organico, e quindi a rotondarle e tenere le une dalle altre distanti nel maggior numero di punti possibili, senza che perdano di loro continuità. E` un vero problema di massimi e di minimi, che il principio animale risolve col fatto. Varia, dunque, il sentimento fondamentale di continuità anche secondo la maggiore o minore continuità delle molecole, di cui l' animale risulta. Varia secondo la quantità assoluta della materia suo termine; secondo la quantità di questa è più o meno esteso. Che se un corpo vivente perde un certo numero di molecole, questa perdita suol cagionare due effetti: 1 diminuire l' estensione del sentimento fondamentale di continuità; 2 modificare più o meno il sentimento fondamentale di eccitazione. Il primo effetto è perdita di qualche parte del sentimento di continuità. Si osservi la differenza fra questa perdita e la modificazione che soffre il sentimento di eccitazione. Questo suppone molecole, che mutino di posto senza abbandonare la loro continuità. Quando questo spostamento si diffonde in un dato organo, comunicante col centro fisico dell' animale, con certe leggi, nascono sensioni speciali, e la facoltà di esse si può chiamare sensitività speciale o di eccitamento speciale . Tale è la sensitività dei due ordini di nervi. Le altre parti del corpo, incapaci di quei grandi e speciali movimenti eccitatori, non hanno che la sensitività fondamentale di continuità, la quale si modifica senza eccitare la nostra attenzione, coll' addensarsi, col diradarsi, coll' ammettere nuove molecole, col dimetterle, ecc.. In questo senso tutte le parti del corpo si possono dire sensitive; ma non alla maniera dei nervi, la cui sensitività è eccitabile e speciale (1). Finalmente il sentimento fondamentale di continuità varia secondo che la materia è più o meno predisposta a ricevere l' azione dell' istinto vitale, e con essa la vita. Descrivere ed enumerare queste predisposizioni è cosa di gran lunga superiore al mio limitato sapere. Nè anche saprei dire, se non in parte, le vere cause, che danno alla materia quelle predisposizioni necessarie alla vita. Solo dalle cose dette apparisce che la materia, che si aggiunge ad un corpo vivo, per essere avvivata della stessa vita, deve avere certe qualità o forme, onde le si attribuiscono certi nomi, come di azoto, di ossigeno, ecc.. Apparisce, ancora, che deve essere elaborata dal corpo vivente al quale si accosta; elaborazione che riesce più o meno perfetta, secondo che è più o meno perfetta la macchina vivente che la elabora, e il principio che muove tutta quella macchina. Ma qualunque sieno coteste cause, che danno alla materia disposizioni preparatorie alla vita, certo è che anche in queste predisposizioni vi sono dei gradi, vi sono dei limiti di maggiore o minore predisposizione, entro i quali ha luogo la vita. Il sapere poi se le predisposizioni della materia possano alquanto variare, senza che venga meno la perfezione della vita, sicchè nella stessa perfezione della vita vi siano dei gradi, o delle forme diverse ed equivalenti, questo è assai più difficile a verificare. E per perfezione della vita intendo quel compiuto trionfo dell' istinto vitale sulla materia, pel quale non rimane più alcuna lotta fra i due elementi, ma il primo dominatore con atto assoluto nell' altro riposa. Certo non è impossibile a concepire che l' istinto vitale invada pienamente la materia, o che la invada con maggiore o minore forza. Il fatto dell' influenza del principio intellettivo sul crescere e sullo scemare le forze del principio animale, dimostra che la potenza di quest' ultimo varia di grado. Niente ancora vieta che secondo la disposizione della materia l' istinto vitale vi produca diversi effetti, ad alcuna parte non dia che la vita di continuità, ad un' altra anche quella di eccitamento, ecc.. Ma il determinare questi vari gradi, ella è una ricerca ancora intentata. Ora, ogni varietà del sentimento fondamentale di continuità è un elemento di variazione per l' istinto sensuale, che ne riceve un' attitudine diversa. Ma qual è l' effetto di questa attitudine? L' istinto sensuale primieramente tende a mantenere il sentimento. Tuttavia questo effetto, in quanto si oppone alle forze che lo vorrebbero distruggere o diminuire, si può attribuire anche all' istinto vitale; chè questo è il punto nel quale i due istinti convengono; perocchè se l' istinto vitale è quello che produce il sentimento, egli deve essere altresì quello che lo conserva; chè il conservarlo è un continuare a produrlo; coll' atto stesso con cui si produce, ei si conserva. D' altra parte, se l' istinto sensuale è quello che opera in conseguenza di un sentimento, al fine di continuarlo e di accrescerlo, questa attività stessa, che vuole continuare ed accrescere il sentimento, deve tendere prima di tutto a conservarlo. Il vero si è che i due istinti sono un' attività sola, e noi li riuniamo entrambi sotto la denominazione d' istinto animale . Ma perchè gli effetti si partono in due classi, diamo alla stessa attività due denominazioni, secondo che la consideriamo siccome causa di una classe di effetti o di un' altra. Queste classi si distinguono così, che gli effetti appartenenti alla seconda susseguono a quelli appartenenti alla prima; di modo che l' attività medesima non produce questi ultimi nel suo primo momento, ma nel secondo; non quando incomincia ad operare, ma quando continua l' operazione; è l' attività stessa, ma pervenuta ad un secondo grado di sviluppo. E poichè i secondi effetti non possono cominciare se non là dove finiscono i primi, quindi vi è un punto comune alle due maniere di operazione, nel quale finendo la prima, incomincia la seconda. Così avviene che la conservazione di un sentimento ha i caratteri dell' una e dell' altra classe di effetti, perchè la durata d' un sentimento involge da una parte il concetto di produzione, e dall' altra quello di continuazione . E` dunque un effetto che si riferisce ad entrambi gli istinti, che radicalmente sono un' unica attività. Se si considera dunque la conservazione di un sentimento come effetto dell' istinto sensuale, quella varierà: 1 di forza, secondo che l' efficacia dell' istinto vitale è maggiore o minore; 2 di estensione, secondo la quantità della materia; 3 di consistenza, secondo la continuità o spessezza della stessa materia; 4 d' indole e di qualità, secondo che la materia è organata in un modo o nell' altro, e secondo che le sue qualità preparatorie alla vita hanno maggiore o minore perfezione. Finalmente, se si suppone che alcune particelle, non al tutto prive delle predisposizioni necessarie alla vita, sieno in lotta coll' istinto vitale, e producano lo stato del dolore o della molestia (il quale pure varia secondo la natura e il grado dell' indisposizione di dette particelle, la loro qualità, il loro collocamento, ecc.); le varietà delle forze dell' istinto vitale imprimono uno stampo diverso all' attività dell' istinto sensuale. In generale conviene avvertire che il sentimento fondamentale di continuità non è idoneo a muovere all' atto suo l' istinto sensuale, ma solamente ad atteggiarlo in un modo piuttosto che in un altro, a costituirlo e determinarlo come una potenza. Perocchè a muovere l' istinto sensuale all' atto si richiedono sempre dei sentimenti eccitati, passeggeri di lor natura. E` dunque a parlarsi del sentimento di eccitazione, affine di spiegare come l' istinto sensuale si levi al suo atto. Cominciamo dal supporre un gruppo di particelle viventi al contatto fra loro. Tostochè uno stimolo qualunque sposti quelle particelle dalla loro reciproca posizione, senza che questo spostamento tolga la loro continuità, noi diciamo che si modifica ed eccita il sentimento in quel gruppo racchiuso, e nascono sensioni. Queste sensioni ammettono infinite varietà: celerità, frequenza di moto, numero di particelle, pressione reciproca, forza del principio vitale più o meno accentrato (1), ecc., sono altrettanti elementi variabili, che devono cangiare l' indole, il grado, il numero delle sensioni, ed appartiene ai progressi della scienza il determinare, fin dove è possibile, tutte queste differenze sensibili, di cui è suscettivo un vivente. Ma per sentimento fondamentale d' eccitazione non s' intende già un complesso di sensioni quale si vogliano, ma solo quel complesso di eccitamenti e di sensioni, che per l' unità della sua armonia è unificato in un sentimento individuo, che conserva lo stesso tipo, il quale tipo è il fondamento della specie dell' animale stesso. Onde si vede che anche nel sentimento fondamentale d' eccitazione si suppongono stimoli naturali, che si riproducono con legge costante, ma che tengono delle varietà nei vari individui della stessa specie. I quali stimoli sono stranieri all' animale, che è sentimento, ed appartengono al sensifero. Il loro effetto è il movimento extrasoggettivo, a cui s' accompagna la sensione, ossia il complesso armonico di sensioni continuamente riprodotte, che costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione. E queste sensioni sono quelle che danno prima di tutte le altre la leva all' istinto sensuale, il quale viene al suo primo atto, che è quello di assecondare le dette sensioni, e così aiutare i movimenti che le producono a continuarsi ed a ripetersi (1). Cerchiamo dunque prima di tutto il concetto, che è uopo formarsi degli stimoli . Lo stimolo, ossia la potenza stimolante, deriva dalle forze materiali, meccaniche, fisiche, chimiche, ecc., da tutte le forze straniere, in una parola, alla forza vitale dell' animale individuo. Esse agiscono in opposizione a questa forza vitale, e l' opposizione si manifesta più apparente nel solido vivente, quando gli vengono applicate forze materiali o qualsiasi altra forza straniera, in modo da produrre nell' interno di lui qualche movimento. Ogni movimento, prodotto nell' interno del solido vivente, si può considerare come effetto di uno stimolo. Nell' uomo questi si dividono in due grandi classi: le forze intellettuali, in quanto influiscono sulla forza vitale, e le forze materiali. Restringendoci a considerare le varietà degli stimoli materiali, se ne possono in prima distinguere due grandi classi. I Classe. - Le sostanze materiali componenti lo stesso corpo vivente. II Classe. - Le sostanze materiali non componenti il corpo vivente. Le sostanze materiali componenti il corpo vivente si dividono in fluidi e solidi: i primi hanno l' ufficio principalmente di stimoli, i secondi di stimolati. Giovanni Rasori non considera tutti i fluidi del corpo vivente come stimoli, ma accordando la facoltà stimolatrice soprattutto al sangue, riguarda la bile, i succhi gastrici e intestinali, e i principŒ pinguedinosi, che penetrano in tutte le viscere e sino alle minime fibre, come sostanze controstimolanti . Ma nel senso in cui noi prendiamo la parola stimolo, non si può ammettere l' esistenza di sostanze materiali veramente controstimolanti in senso positivo, ma soltanto in senso negativo, atte cioè ad impedire l' applicazione o l' azione degli stimoli, ovvero a distruggere quel moto che produce uno stimolo, mediante un moto contrario; non atte ad abbassare direttamente la forza vitale, a meno che non sieno disorganizzatrici. Di maniera che a noi par meglio di non considerare come controstimolo se non: 1 tutto ciò che disorganizza la macchina; 2 le sensioni e affezioni, che, per mezzo dell' istinto sensuale, diminuiscono direttamente la forza dell' istinto vitale. Consideriamo dunque quelle sostanze materiali, che, applicate al corpo vivente, producono un allentamento e una diminuzione dei movimenti vitali, come controstimolanti indiretti. Ora, se « lo stimolo è tutto ciò che produce un movimento interno nel solido vivente, il concetto di stimolo si riduce sempre ad una causa di moto nell' interno del solido vivente », e perciò non si dà azione stimolante senza moto. Supponendo poi il moto prodotto da cause materiali, queste potranno agire in modo chimico, fisico e meccanico. Uno stesso agente può operare nella macchina umana in tutti e tre questi modi. Ma è da osservarsi che l' agente opera in modo chimico principalmente sui fluidi del corpo vivente; sui solidi poi l' agente esterno opera assai più in modo fisico e meccanico. L' aria opera in modo chimico sul sangue; in modo fisico col suo peso su tutto il corpo; in modo meccanico col suo impulso e movimento. La spinta, che il sangue rosso dà al cervello e a tutti i nervi, è un modo meccanico di operare. Ma egli agisce oltrecciò in un modo che non può dirsi meramente chimico, ma deve dirsi chimico7vitale, avvivando e nutrendo tutti i tessuti; perocchè sono le sue forze chimiche, associate alle forze vitali, che producono questi ultimi effetti (1). Quantunque i solidi non sieno per sè stessi stimoli, ma stimolati, tuttavia essi producono degli stimoli colle secrezioni dei fluidi, e col movimento e la direzione che loro dànno. Con essi determinano il sangue ad accorrere alla parte ferita, crescendo ivi in questo modo l' azione stimolante. Di più, essendo i solidi quelli che lavorano e segregano i fluidi, l' azione normale o anormale dei solidi altera in bene o in male la natura dei fluidi. Se per lo spasmo dei solidi, a ragion d' esempio, il sangue viene accelerato più del dovere e riscaldato, egli s' infiamma, la fibrina tende a dividersi dal siero e dal grumo, onde, estraendosi dalle vene, manifestasi la cotenna. La disposizione acquistata in tal caso dalla fibrina a separarsi dagli altri due elementi tende alla disorganizzazione; qui vi è una manifesta lotta col principio vitale, che ha già perduto alquanto del suo dominio sulle forze materiali. L' eccitamento è una condizione dell' animale, purchè egli sia tale: 1 che non tenda a togliere la continuità delle parti; 2 che tenda a perpetuarsi; 3 non tenda a togliere all' animale l' unità e l' individualità. Quindi all' animale deve piacere d' essere stimolato, anzi gli è necessario; è necessario che sia applicato all' animale continuamente un certo sistema di stimoli. In secondo luogo vedesi che non ogni eccitamento, ma solo un dato eccitamento è confacente; non tutti gli stimoli, ma solo alcuni sono opportuni all' animale. Gli stimoli inopportuni di conseguente sono: Quelli che tendono a distruggere la continuità delle parti. Quelli che impediscono la continuazione dell' eccitamento, o alterando l' organizzazione, o turbando l' applicazione e l' azione degli stimoli opportuni, o provocando dei movimenti opposti a quelli che provocano gli stimoli opportuni. Quelli che tendono a distruggere l' unità e l' individualità dell' eccitamento. Di che si conferma che non è la quantità dello stimolo che lo rende pernicioso, ma l' inopportunità; quantunque sia vero che anche la quantità, se eccede certi confini, renda lo stimolo inopportuno. Come la materia componente il corpo vivo si può considerare sotto l' aspetto di agente, che stimola lo stesso corpo vivo, o ridotta a stato di fluido, o smossa dal suo luogo, così si può considerare sotto l' aspetto di agente stimolante qualunque materia estranea al corpo umano, che, applicata al medesimo in qualsivoglia maniera, produca nel solido un intestino movimento; ed anche la materia estranea al corpo umano in virtù delle sue forze chimiche, o pel suo movimento meccanico, o per la condizione speciale della parte del corpo a cui viene applicata, o per altra circostanza, può rendersi stimolo opportuno, ovvero stimolo inopportuno. L' inopportunità dello stimolo non consiste dunque nell' essere la materia stimolante estranea al corpo, ma nel produrre sul corpo un' azione disarmonica a quella delle forze vitali, cioè contraria ad alcuna delle tre condizioni dell' animale, la continuità delle parti, l' eccitamento perpetuo e l' individualità. La materia esterna è solida o fluida. La materia solida, se non passa a stato di fluido, applicata al corpo umano meccanicamente, non fa per lo più che produrre alcuni movimenti nelle parti del medesimo. Ma la materia fluida, o che si rende tale applicata al contatto del corpo umano, può essere rapita nel vortice della vita; il principio vitale tenta alcuna volta d' invaderla continuando in essa il sentimento; così può diventare nutrimento dello stesso corpo. Ma fra l' essere una tale materia del tutto estranea al corpo e l' essergli assimilata, vi è un tempo e uno stato medio, nel quale si assolve l' operazione della nutrizione, presa questa parola in senso latissimo. Anche la nutrizione dunque si fa per via di stimoli; il corpo che deve passare in nutrimento, applicato al corpo vivente, lo stimola; in virtù di questo stimolo il corpo vivo s' appropria la materia nutritiva; la segrega, la distribuisce, e, se ella è solida, la trita e discioglie in liquido per potersene così nutrire; e tutti questi movimenti sono eccitamenti a lui gradevoli. Ma se la materia non è disposta come dev' essere, nasce la lotta fra le forze chimiche e meccaniche di questa materia e le forze vitali dell' animale, che non possono invaderla e dominarla: onde il dolore, la molestia, i funesti effetti, in una parola, che prova la macchina vivente. Di più, se la materia esercita una forza chimica sul corpo vivo contraria e prevalente alla sua forza vitale, di maniera che gli tolga l' organizzazione e l' atteggiamento proprio della vita, in tal caso ella distrugge l' animale, sottraendogli la materia. Tale è l' effetto dei veleni e dei potenti dissolventi, come il fuoco, ecc.. Allorquando uno stimolo applicato ad un gruppo di molecole viventi, spostandole senza spingerle fuori della sfera di continuità, suscita le sensioni, l' istinto sensuale comincia ad agire con un effetto suo proprio, e non più comune all' istinto vitale. Allora l' azione dell' istinto sensuale, intesa ad aiutare la produzione della sensione piacevole, asseconda di conseguente i moti incominciati dalla forza dello stimolo esterno, che aumentano il grado del piacere; li asseconda e li conduce assai più in là che la forza dello stimolo non farebbe, e li continua spontaneamente anche cessato il detto stimolo. Anzi, se ella non trovasse opposizione, se forze contrarie non l' affaticassero e non venissero scemando continuamente la quantità del moto, niuna ragione vi sarebbe per credere che il movimento incominciato cessasse mai più; sicchè si può dire a buona ragione che l' istinto sensuale, considerato in sè stesso, a differenza di tutte le forze brute, è causa di moto perpetuo. Se dunque il moto dell' istinto sensuale va a cessare, ne sono causa gli ostacoli che egli trova per via, venienti principalmente dall' inerzia e dagli attriti della materia, come pure dall' opposta tendenza dell' istinto a conservare il sentimento di continuità e di coesione. E quindi, acciocchè il movimento primitivo e naturale si continui, è necessario che gli stimoli si riproducano; e la natura l' ottiene parte con tener pronti nuovi stimoli esterni, parte coll' organizzazione, oltre ogni dire ingegnosa, del corpo vivente, la quale fa sì che le stesse parti vive, che sono mosse dall' istinto sensuale affine di prolungare ed accrescere la sensione e l' eccitamento, divengano esse stesse stimolanti col loro moto, ovvero generatrici, motrici e direttrici di fluidi stimolanti, e così producenti nuove sensioni, le quali rinnovano l' attività dell' istinto sensuale affievolita dalle difficoltà. Le parti vive del corpo diventano stimoli di altre parti vive, perchè la vita non toglie loro la forza sensifera. Ma acciocchè si ottenga la continuazione dei moti prodotti dall' istinto sensuale, e per essi la riproduzione degli stimoli e delle sensioni conseguenti, forz' è che si mantenga una somma regolarità e proporzione fra le sensioni del primo anello del corso zoetico e quelle del secondo e dei successivi, e così pure fra i movimenti del primo anello e gli altri che vengono appresso, in modo che non intervenga alcun salto, e tutto succeda per via di circolo con legge di regolatissima successione. Ed acciocchè questo si compia, è necessario che l' organizzazione di quel gruppo di molecole, che dicemmo corpo vivente, sia così artificiosa che gli stimoli riprodotti dall' istinto sensuale e somministrati altresì dalla natura esteriore, riescano sempre dello stesso genere e d' una attività costante, od ordinata a progressione. Allora si manifesta nel gruppo delle particelle viventi quel fenomeno, che corso zoetico abbiamo appellato. Il quale fenomeno caratteristico dell' animale, nel sistema che vuole viventi tutti gli elementi dei corpi, diventa la differenza specifica fra i corpi che si sogliono chiamare bruti e gli animali; colla quale differenza si può perfezionare la definizione dell' animale. Poichè, avendolo noi definito « « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo »(1) »; ora, aggiungendo quella differenza che lo separa dai corpi che bruti si dicono, si riduce quella definizione così: « un essere individuo materialmente sensitivo e istintivo, nel quale la sensitività eccitata riproduce con legge fissa un' alterna vicenda di stimoli, di sensioni e di movimenti ». E in quanto quest' alterna vicenda è abituale e normale, cioè quale è richiesta dal buono stato dell' animalità, in tanto le sensioni innumerevoli, che ella contiene e riproduce, appartenenti ad un solo principio sensitivo, costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione, di cui gli uomini non si sogliono formare che una coscienza assai oscura (2). Ora, le prime sensioni sono effetti dell' istinto vitale e degli stimoli esteriori ed interiori, applicati dalla natura al sentimento fondamentale di continuità; questi stimoli, e i movimenti che producono, non appartengono all' istinto sensuale, il quale comincia ad operare in quelle prime sensioni che egli cerca di aiutare, e ne consegue la continuazione dei moti eccitatori. Si deve considerare dunque come primo anello del corso zoetico quello che si compone: 1 delle prime sensioni; 2 dei movimenti continuati o prodotti dall' istinto sensuale in conseguenza di esse (1). I movimenti , cagioni delle dette sensioni, variano per molte cagioni, le quali si riducono forse alle tre classi seguenti: Tutte le differenze, che abbiamo notate nel sentimento fondamentale di continuità, influiscono sui movimenti che producono il sentimento fondamentale d' eccitazione, e producono in esso altrettante varietà corrispondenti. Molte sono le specie d' organizzazione, atte a dar luogo ad un sentimento fondamentale d' eccitazione perpetuo, in modo che il principio animale perseveri entro il circolo sopradescritto di sensioni, movimenti e stimoli, senza lotta o dolore; e queste specie di organizzazione, e questi corsi zoetici organicamente diversi, costituiscono, noi dicevamo, i tipi dei diversi animali, cominciando dai zoofiti infino all' uomo. Nell' animale dello stesso tipo, anche supponendolo in istato di piena salute, il sistema fondamentale di movimenti eccitatori è variabile, secondo la qualità dei tessuti più o meno fitti, più o meno sviluppati, più o meno individuati, ecc., soprattutto nell' uomo, secondo la forza maggiore o minore dell' istinto vitale; e queste varietà accidentali dello stesso tipo costituiscono le varie indoli , che in una stessa specie di animali si manifestano, i vari temperamenti , i vari gradi di robustezza , le varie suscettibilità , ecc.. Ogni sistema fondamentale di tali movimenti è base d' un diverso corso zoetico, il quale differisce nelle diverse specie d' animali, e negli individui della stessa specie. Il corso zoetico, dunque, viene suscitato da stimoli, applicati dal di fuori ad un corpo vivente della vita di continuità. Dico stimoli applicati dal di fuori , perchè conviene distinguere gli stimoli estranei, che il vivente riceve e non produce a sè stesso, da quelli che egli stesso si produce internamente colla propria azione. I primi sono l' aria, l' acqua, il caldo, il freddo, i cibi, i corpi tutti stranieri, che applicati alla macchina animata vi cagionano qualche effetto, o salutare o pernicioso, come pure il principio intellettivo. A concepirne l' immensa varietà conviene fare diverse supposizioni; eccone alcune: Prima supposizione. - Che gli stimoli stranieri applicati da principio al corpo non si rinnovassero. In tal caso il corso zoetico finirebbe in breve tempo colla morte. Seconda supposizione. - Che gli stimoli stranieri si rinnovassero costantemente i medesimi, sì per la qualità che per la quantità, cioè si riapplicasse al corpo la stessa aria, lo stesso calore, la stessa luce, lo stesso nutrimento, ecc.. In questo caso il corso zoetico recherebbe l' animale per una successione di stati migliori o peggiori, la cui varietà in meglio od in peggio dipenderebbe dall' azione delle sue forze interne, determinate da quell' unica maniera, e quantità e qualità di stimoli, che gli sarebbero applicati. Per altro pare evidente che il corso zoetico a queste condizioni non potrebbe tirare avanti gran fatto, giacchè la costituzione dell' animale esige stimoli diversi, massime in quantità; l' adulto, a ragion d' esempio, ha bisogno di più cibo del bambino, ecc.. Terza supposizione. - Che l' applicazione dei medesimi stimoli si facesse o continua, o periodica; che variasse, in una parola, il tempo in cui si applicano tali stimoli, variasse il tempo in tutte le possibili maniere. E` chiaro che ogni varietà di tempo nell' applicazione dei medesimi stimoli cangia il corso zoetico, determina un nuovo corso. Quarta supposizione. - Che gli stimoli esterni che si rinnovano, cangiassero di quantità solamente. Quinta supposizione. - Che cangiassero nella quantità e nel tempo in cui si rinnovano, o continuano, o si tolgono. Sesta supposizione. - Che cangiassero di qualità solamente. Settima supposizione. - Che cangiassero di qualità e di tempo. Ottava supposizione. - Che cangiassero di quantità e di qualità. Nona supposizione. - Che cangiassero di quantità, di qualità e di tempo. Tutte queste supposizioni racchiudono innumerevoli determinazioni diverse del corso zoetico. Or bene, tutte queste mutazioni di stimoli esterni è appunto ciò che ha luogo nel fatto; di che conseguita che non si danno neppure due istanti della vita, nei quali gli stimoli esterni, applicati alla macchina vivente, non cangino in mille guise, nella qualità, nel tempo e nel modo, onde vengono a lei applicati, ecc.. Laonde il corso zoetico devia dalla sua direzione ogni istante della vita, e per più cause associate, una sola delle quali basta a farnelo deviare; ma tutte queste nuove direzioni che continuamente egli prende, non sono necessariamente morbose. Il che conferma che vi sono innumerevoli direzioni e cangiamenti del corso zoetico, che si contengono entro i limiti d' uno stato di buona salute; e che la salute dell' animale non è determinata da una sola linea, ma, per così dire, ella ha un territorio dove spaziare, uscendo dal quale l' animale entra nello stato morboso, o anche solamente in quello di decadimento, quando piaccia distinguere il morbo dal deperimento insensibile (1). Come si possono distinguere gli stimoli negli esterni e negli interni, prodotti dall' azione del vivente, così si possono distinguere i movimenti eccitativi della sensione prodotti dagli stimoli esterni primitivi, e quelli prodotti dagli stimoli secondi ed interni. Chiamo stimoli primitivi quelli che sono dati all' animale, e non prodotti da lui stesso; e stimoli secondi quelli che l' animale produce a sè stesso, in conseguenza delle alterne azioni di esso corso. Sì i movimenti primitivi come i movimenti secondi possono suddividersi in tre classi, considerandoli in relazione agli effetti che producono nei tre elementi, da cui l' animale risulta: 1) la continuità delle parti; 2) l' eccitamento; 3) l' individuazione dell' eccitamento. Di più i movimenti possono essere utili o dannosi a ciascuno di questi elementi (1), onde si avranno sei classi di movimenti eccitatori per ciascheduno dei due generi, cioè: 1) Movimenti utili alla continuità opportuna. 2) Movimenti dannosi alla continuità opportuna. 3) Movimenti utili all' eccitamento. 4) Movimenti dannosi all' eccitamento. 5) Movimenti utili all' individuazione. 6) Movimenti dannosi all' individuazione. E` chiaro che queste sei varietà si possono ritrovare tanto nei movimenti primitivi prodotti dagli stimoli esterni, quanto nei movimenti secondi prodotti dagli stimoli interni. Considerata la varietà degli stimoli e dei movimenti , veniamo alle sensioni , che si dividono anch' esse nei due generi delle primitive e delle seconde. Le primitive sono cagionate dai movimenti prodotti dagli stimoli primitivi, e costituiscono, in quanto sono naturali e tipiche, il sentimento fondamentale d' eccitazione; le seconde appartengono a tutti gli anelli successivi del corso medesimo. Come l' ente animale ha, quasi direi, due faccie corrispondenti, l' una soggettiva costituita dai sentimenti, l' altra extrasoggettiva costituita dai movimenti, così la classificazione dei movimenti si ripete nelle sensioni; anzi la classificazione delle sensioni e quella dei movimenti vanno di pari passo, e l' una può servire reciprocamente di fondamento all' altra. E` dunque necessario anche rispetto alle sensioni di osservare, in generale, esservi sensioni utili o dannose al sentimento di continuità, al sentimento eccitato, all' individuazione del sentimento. Questa classificazione si ravvisa non meno nel genere delle sensioni primitive, che nell' altro delle sensioni seconde. Le sensioni primitive danno la leva all' istinto sensuale, che per esse si mette in movimento. Richiamiamo brevemente le leggi, che noi abbiamo più sopra assegnate all' operare di questo istinto. Data una sensione, l' istinto sensuale tosto si pone in azione, e produce dei movimenti, che aiutano ad accrescere il piacere o a diminuire il dolore. L' istinto sensuale nell' uno e nell' altro caso viene in aiuto dell' istinto vitale, il quale produce il piacere, e lotta colla potenza nemica che glielo impedisce. La quantità della tendenza o dell' attività, colla quale insorge l' istinto sensuale, è pari all' intensità, e in generale alla quantità del sentimento eccitato. Il sentimento eccitato riesce più o meno vivo, secondo che è più o meno forte l' istinto vitale. Ma la maggiore o minore fortezza di questo dipende dalle cause accennate, e nell' uomo particolarmente dalle affezioni del principio intellettivo. Vedemmo che un gran timore razionale produce la paura, passione animale che debilita le forze dell' istinto vitale. Il grado di queste forze dipende ancora immediatamente dalle affezioni animali. La paura, la tristezza, ecc., in quanto sono affezioni animali, possono essere l' effetto di movimenti suscitati dall' azione dell' istinto sensuale; questo dunque di nuovo influisce immensamente a ingagliardire o debilitare l' istinto vitale, sicchè i due istinti influiscono l' uno sull' altro reciprocamente. Ma, qualunque sieno le cause che rendono l' istinto vitale più forte o più debole, certo è che in ragione della sua gagliardia anche le sensioni, che egli produce sotto gli stessi stimoli, sono più o meno forti, e quindi più o meno attive a sollevare l' istinto sensuale alla sua azione. Di qui nello stato di sanità i temperamenti flosci, snervati, linfatici, ed i temperamenti robusti. Di qui ancora la divisione delle malattie in acute e croniche ; quando le sensioni fondamentali sono ottuse e lenta tutta la sensitività, allora l' istinto sensuale, non potendo agire con attività nè a salvezza, nè a rovina della macchina, è inetto a produrre i movimenti salutari, che determinano le secrezioni e le escrezioni, le quali sarebbero necessarie o a dominare la potenza nemica, o ad espellerla: tale è la condizione del cronicismo. L' operazione dell' istinto sensuale suol cominciare con un senso d' inquietudine, perchè i movimenti che egli produce, non essendo compresi nel sentimento, nel primo istante egli non sa quali siano quelli che accrescono lo stato di piacere e diminuiscono lo stato di dolore, e però incerto tenta tutti gli aditi fino che si determina per una qualche direzione. Durante quest' incertezza, premendo da ogni lato l' attività sensuale, se ne ha quella inquietudine, che indica un bisogno di operare senza venirne tosto a capo. L' istinto sensuale conserva sempre, fra tutti gli stati a lui possibili, quello che gli è più piacevole. Quindi se l' operare gli costa tanta fatica o molestia, che il non operare gli riesca uno stato meno molesto, egli cessa da ogni sua operazione; dalla quale condizione procedono molte e importantissime conseguenze, alcune delle quali sono: Che quanto è maggiore l' impulso, cioè l' intensità della sensazione, tanto gli è più difficile il non operare, e l' operare costituisce per lui uno stato più piacevole o meno faticoso, meno molesto che lo starsi inerte, supponendo le altre circostanze eguali. Che l' intensità della sensazione venendo diminuita dall' abitudine passiva , questa diminuisce l' impeto dell' istinto sensuale, mentre l' abitudine attiva gli facilita il movimento, e così l' accresce. Che la forza, colla quale agisce l' istinto sensuale, non dipendendo dalla sola intensità della sensione, ma dal grado relativo di piacere che trova nell' operare, il suo sforzo di operare può diminuirsi per altre cagioni, cioè per tutte quelle che gli rendono meno piacevole e più faticoso l' agire; il che spiega in parte la capacità morbosa , ossia la tolleranza dei rimedi in dosi non tollerabili dall' animale in istato di sanità. Che la quantità del movimento , che l' istinto sensuale effettivamente produce, dipende in gran parte dall' organizzazione, la quale o vi mette ostacolo ed elide le sue forze, o si presta alla propagazione del moto, attesa la disposizione, e la forma mobile, e il grado di vita delle molecole. Che allorquando l' organizzazione sconcertata pone l' istinto sensuale in sì misera condizione, che egli non può fare movimento di sorta, senza che questo gli riesca più doloroso e molesto che il cessare intieramente da ogni azione, esso cessa di fatto dall' operare; il che è quanto dire l' animale muore d' una cotal morte quasi spontanea. L' organizzazione in questo caso non è così estesa che non si potesse prestare a ricevere il senso, ma l' istinto sensuale non si applica più a produrre in essa i movimenti eccitatori, necessari alla conservazione dell' organizzazione medesima, la quale ben tosto si guasta per modo da rendersi inetta alla vita eccitata, individuale. Si possono quindi concepire quattro principŒ di morte: 1 Il principio razionale, che colto da somma affezione sottrae tutte le forze all' istinto vitale, onde, quantunque nel primo istante non vi sia disorganizzazione, tuttavia questa succede tantosto. 2 La materia, che per violenza straniera si disorganizza, e così si sottrae all' azione dell' istinto vitale. 3 L' istinto sensuale che, prescegliendo di astenersi da ogni azione perchè gli riesce più molesta dell' inazione, cessa dal produrre quei movimenti, che sono necessari al mantenimento dell' organizzazione medesima. 4 L' istinto sensuale, che produce qualche movimento così precipitoso che rompe l' organizzazione. Allorquando mancano le cagioni per le quali l' istinto sensuale si rifiuta a produrre i movimenti, questi si aumentano o diminuiscono secondo che sono maggiori o minori le sensioni, e si aumentano o diminuiscono in tutta la macchina, o assai più in certe località secondo che le sensioni sono locali, e l' istinto sensuale trova che l' una o l' altra cosa più si confà a quello che egli cerca, lo stato piacevole. Dal che dipendono le infiammazioni locali ed altri fenomeni, su cui torneremo là dove prenderemo a considerare il terzo elemento del sentimento fondamentale, l' unità e l' armonia. Torniamo ora alla distinzione fra le sensioni primitive e le sensioni seconde . Noi abbiamo riposto il carattere delle sensioni primitive in questo, che l' istinto vitale, che le produce, non è ancora modificato dall' azione e dai prodotti dell' istinto sensuale; quindi quelle sensioni sono l' effetto dell' attività vitale nel suo stato nativo. E veramente l' istinto sensuale suscitato dalle sensioni primitive produce colla sua azione quasi delle nuove potenze, cioè l' abitudine , la ritentiva , l' affezione , il presentimento , ossia aspettazione animale, che è un' affezione risultante da più sentimenti successivi uniti in virtù della forza sintetica, come abbiamo dichiarato nell' Antropologia ; le quali tutte sono altrettante attività acquisite, e propriamente modificazioni e accrescimenti delle facoltà originali dell' animale. Le sensioni primitive , adunque, sono quelle che vengono prodotte da movimenti eccitatori primitivi , cioè da movimenti non prodotti da sensioni anteriori, ma da stimoli esterni e dai connaturali stimoli interni. Altro carattere delle sensioni primitive si è l' esser quelle singolari : l' effetto di più sensioni primitive contemporanee, che si fondono in una sola affezione , è già un prodotto delle sensioni primitive, e non primitivo. Nè le sensioni primitive si devono confondere colle mutazioni, che possono nascere nel sentimento fondamentale di continuità; chè quelle appartengono al sentimento eccitato. Il sentimento fondamentale di continuità può modificarsi, o perchè s' accostino nuove molecole all' esteso sentito, o perchè se ne distacchino. Nell' accostarsi di nuove molecole possono concepirsi i seguenti casi: Che le dette molecole abbiano già l' organizzazione simile a quella del corpo vivente, a cui s' uniscono. Questo sarebbe il caso della trasfusione del sangue da un individuo in un altro, della ristorazione del naso perduto, o del ricoprimento che si fa nelle amputazioni del moncone cogli integumenti, del rimarginamento delle ferite, ecc.. In tutti questi accostamenti di molecole si deve prescindere dal considerare le sensioni dolorose o piacevoli concomitanti, prodotte dai movimenti eccitatori, e si deve solamente considerare l' operazione dell' istinto vitale, che continua il sentimento individuato alle nuove particelle; questa operazione sola è quella che appartiene alla classe d' alterazione primitiva del sentimento fondamentale di continuità, di cui noi parliamo. L' operazione, che rende continuo il sentimento alle molecole accostate e già ben disposte, si concepisce come spontanea all' istinto vitale. Ma poichè l' accostamento non può esser fatto sempre in modo perfetto (chè è impossibile, a ragion d' esempio, che nel rimettimento del naso risponda la parte, che si attacca, a quella a cui viene attaccata, così appunto da combaciare vaso a vaso, filamento a filamento, ecc.), quindi interviene per accidente un lavoro complicato dell' istinto vitale, che compisce ciò che manca al perfetto combaciamento e continuità delle parti. Supposto questo caso come possibile, l' aggiunta delle molecole egualmente organizzate sarà utile o dannosa al corso zoetico, secondo che quelle molecole sono soverchie al bisogno della macchina, o riparatrici di molecole mancanti. Il soverchio, poniamo la soverchia abbondanza di sangue, altererebbe il corso zoetico in più modi; ma queste alterazioni non riguardano la continuità, ma l' eccitamento impedito o promosso con eccesso, e l' unità animale. Che le molecole sieno organizzate a sufficienza per fare che l' istinto vitale vi aggiunga colla sua attività quell' ultima modificazione, che è loro necessaria ad entrare nella vita dell' individuo; come accade di tutte le materie alimentari, che si digeriscono. La funzione della nutrizione è un corso di azioni successive dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, che fornisce un elemento al corso zoetico. Quando gli organi sono in istato normale e gli alimenti adattati, tutte queste serie di azioni dei due istinti sono naturali e piacevoli. Ma se vi è difetto negli organi, o nella qualità o nella quantità della materia, se vi sono degli stimoli inopportuni , ritrosi a lasciarsi dominare dall' istinto vitale, onde occasionino la lotta del dolore ed i conseguenti movimenti, ecc., tutto ciò altera il sentimento fondamentale d' eccitamento. Nutrito poi il corpo, è cangiato il sentimento fondamentale di continuità . Il qual cangiamento si riduce all' essersi aggiunte al continuo vivente alcune molecole. La quale aggiunta è di nuovo utile o dannosa al corso zoetico, secondochè le molecole aggiunte o sono riparatrici di quelle che contribuivano alla perfezione naturale della macchina, o riescono soprabbondanti rispettivamente alla loro ripartizione, a ragion d' esempio, se un genere di fluido ecceda in quantità, o un solido si sviluppi soverchiamente in proporzione degli altri, le quali due cagioni sogliono allentare l' organizzazione, e quindi l' ardire dei movimenti zoetici. Medesimamente, se la nutrizione riesce imperfetta, le secrezioni non ricevono pienamente la qualità che le rende atte alla vita. I due precedenti effetti sconcertano l' eccitamento e l' unità animale. Il terzo solo è un male inerente all' elemento della continuità, perchè le molecole inserite nel corpo non vi sono a pieno dominate dall' istinto vitale, e così divengono stimoli inopportuni . Che si tratti d' una materia solida, non convertibile in fluido dalle forze vitali; nel qual caso non si assimila al corpo vivente. Questa suol alterare il corso zoetico, pel movimento che produce nel corpo col suo impulso meccanico. Che si tratti d' una materia, le cui forze chimiche agiscano sul corpo vivente con potenza maggiore di quella del principio vitale, e tendano a disorganizzarlo, sottraendolo all' influenza di questo. Più facilmente che sui solidi si vede questo avvenire sui fluidi del corpo, ed è il caso dei veleni che scompongono il sangue, ecc. (1). Questo agente sulle forze materiali del corpo vivo, il quale tende a dare alle molecole un' organizzazione, una posizione, un' attitudine diversa da quella che esige l' animale, e che si affatica di dar loro l' istinto vitale, ha per effetto la distruzione dell' organizzazione vitale; non può essere impedito dall' addurre la disorganizzazione dal solo istinto vitale , ma può esser vinto talora dall' istinto sensuale , che viene in soccorso del vitale. E questo è il caso delle febbri, che nascono dai miasmi, del vaiuolo, e di tutte le malattie, che accusano una materia morbosa, introdottasi comecchè sia nel corpo umano; la qual materia dopo un certo tratto di tempo cessa dall' esercitarvi un' azione nocevole, sia perchè ella venga dalle stesse azioni concitate dell' istinto sensuale escreta dal corpo, o negli esantemi, o in altra guisa, sia perchè ella venga dalle stesse azioni concitate elaborata, ricomposta, e resa atta a ricevere il dominio della vita. Ella può essere ancora neutralizzata dall' azione di altra materia, introdotta insieme con essa nel corpo, come accade nell' uso dei controveleni, per esempio, dell' ammoniaca contro il veleno della vipera. Nei quali casi il corso zoetico riceve grandi alterazioni; ma durante il combattimento non è l' alterazione portata al sentimento fondamentale di continuità quella che lo muta così, ma quei cangiamenti del corso zoetico avvengono per l' alterazione che riceve il sentimento fondamentale d' eccitamento, e per le sensioni parziali. Se poi si considera il caso in cui le molecole del corpo vivente si dividano da lui, questo può farsi: 1 per le varie escrezioni; 2 pel violento distacco d' una parte. E l' uno e l' altro caso modificano il corso zoetico. Molte escrezioni sono naturali, ed effetto inevitabile dei movimenti appartenenti allo stesso corso zoetico, nè sono sensioni dolorose, scemano solamente il sentimento fondamentale di continuità. Ma quando non sieno riparate, il sentimento fondamentale di continuità non può scemare, senza che scemi anche quello d' eccitamento, poichè le molecole perdute lasciano nel corpo una diminuzione di stimoli, e se la perdita è eccessiva, anche una alterazione nell' organismo dei solidi, che li debilita. I fluidi, se soverchiamente diminuiscono, non possono più stimolare il solido colla stessa efficacia ai movimenti, coi quali si compiono le funzioni. I solidi, oltre non essere più sufficientemente stimolati ed eccitati, deperiscono per mancanza di nutrizione, impiccioliscono, si disseccano; si altera in una parola quell' organismo, che è necessario a compiere perfettamente le funzioni medesime. Quindi niente vieta che tutte le escrezioni e le sottrazioni del corpo si dicano controstimolanti, purchè di questi controstimolanti niuno si faccia un concetto fantastico, quasi d' una potenza positiva opposta a quella dello stimolo. Anche la perdita di un membro, diminuendo il sentimento fondamentale di continuità, modifica il corso zoetico; ma questa modificazione, assai più che a diminuzione dell' esteso sentito, deve attribuirsi all' imperfezione rimasta nell' organismo, a danno del sentimento fondamentale d' eccitamento. Premesse le quali cose, veniamo a considerare la varietà delle sensioni primitive, il cui complesso, nella sua parte costante e tipica, costituisce, come abbiamo detto, il sentimento fondamentale d' eccitamento. Queste sensioni variano: Per la varia azione del principio intellettivo, che opera sulla parte animale per via d' affetto e di volontà. - E` l' affetto principalmente quello che altera il sentimento fondamentale d' eccitamento. Tutti gli affetti razionali, che hanno per oggetto il bene, accrescono il sentimento fondamentale d' eccitamento, e quelli che hanno per oggetto il male, lo diminuiscono. Chi volesse entrare nella ricerca più particolareggiata di questa influenza degli affetti razionali sull' animalità, dovrebbe prima determinare la diversa indole d' eccitamento, che produce l' affetto razionale, che abbia per oggetto un bene o un male fisico; poi quell' affetto, che abbia per oggetto un bene o un male intellettuale (scienza); e finalmente quello, che abbia per oggetto un bene od un male morale. Dopo questa differenza categorica converrebbe distinguere le diverse maniere di affetti razionali, che possono aver luogo circa lo stesso oggetto categorico, e trovare quale maniera d' eccitamento venga prodotta da ciascheduna. Di più si dovrebbero classificare gli oggetti buoni o malvagi contenuti in ciascuna categoria, riconoscere e caratterizzare la proprietà eccitante e deprimente di ciascuna classe. Ma noi, lasciando altrui queste ricerche, osserveremo solamente che gli affetti razionali riguardanti il bene si possono chiamare stimolanti , e gli affetti razionali riguardanti il male si possono chiamare controstimolanti , se pur si vuole lasciare a questa parola il significato d' una cagione, atta a diminuire direttamente l' attività del principio vitale. Per la varia organizzazione. - Dipendendo l' eccitamento del sentimento fondamentale dai movimenti abituali intestini del corpo, la diversa direzione, celerità, moltitudine di movimenti, ecc., che loro presta l' organizzazione, influisce a cangiare le sensioni corrispondenti, e con esse tutto il corso zoetico. A ragion d' esempio, i nutrienti cangiano il corso zoetico anche modificando l' organizzazione. Si debbono considerare in due tempi: durante l' opera dell' alimentazione, e allora essi sono stimoli esterni, opportuni, naturali, piacevoli; e nel tempo in cui sono già assimilati al corpo umano e avvivati, ed allora parte cangiati in fluido sono diventati stimoli interni, parte divenuti solidi, costituiscono quella parte di organismo, su cui opera principalmente lo stimolo. Per la varia qualità e quantità degli stimoli. - Accrescendosi gli stimoli interiori ed esteriori, il sistema delle sensioni e dei movimenti conseguenti deve alterarsi. Dico deve alterarsi, non dico accrescersi. Perchè, quantunque sia vero in generale che col crescere dello stimolo fino ad un certo grado, crescono i movimenti e le sensioni, tuttavia, oltrepassato quel grado, lo stimolo soverchio intorpidisce e istupidisce la parte che resta inattiva; nuova ragione d' attendere a studiare l' opportunità dello stimolo, non la mera quantità. E io credo che sia per questo che così spesso i sintomi ingannano quel medico, che l' interpreta con soverchia confidenza, o isolatamente, o giusta le povere regole del sistema della quantità. Quante volte la prostrazione delle forze e l' abbassamento dei polsi sembrano indicar debolezza, e forse è segno di soverchio stimolo, che impedisce l' azione vitale, o la restringe al centro! Il quale effetto della stupidità della fibra, prodotta da soverchio stimolo, parmi un fatto dei più importanti per l' arte medica, se si considerano gli effetti, che nel corso zoetico possono conseguitarne. Poichè, se i movimenti accelerati nell' interno del corpo umano producono maggiori stimoli, e se questi movimenti rallentano, quando gli organi istupiditi da stimolo soverchio sono inetti ad una maggior azione, avremmo contemporaneamente due cause operanti in senso opposto: avremmo un eccesso di stimolo, che intorpidisce gli organi, e in conseguenza di questo torpore una diminuzione di stimolo riprodotto, quasi che la natura cerchi così di restituire l' equilibrio. Rimarrà dunque a vedere se nella somma degli stimoli accresciuti e diminuiti vi sia aumento complessivo o diminuzione, cioè se gli stimoli interni possano essere diminuiti dall' inazione degli organi più che non sieno accresciuti gli stimoli esterni, il cui eccesso ha prodotto quel torpore. In questo caso l' effetto totale di sostanze realmente stimolanti potrebbe riuscire ad una diminuzione di stimolo; osservazione che dimostra la difficoltà di determinare quale sia la vera natura ed efficacia dei rimedi. Vedo, a ragion d' esempio, che la digitale diminuisce l' azione del cuore e dei vasi, rallenta la circolazione, dispone al sonno; ma chi mi sa dire se l' effetto di questo vegetale sia prodotto dall' esser egli veramente, come dicono, un controstimolante, e non piuttosto uno stimolante eccessivo? Se si considera che quando il ventricolo è irritato, lo stesso rimedio produce effetti contrari, accelera il polso, aumenta le secrezioni, cagiona vertigini o gravezza di capo, non si potrebbe dubitare che, trovando egli maggior forza vitale che gli resiste, e quindi non potendo più produrre l' effetto dello stupore, manifesti allora la sua vera proprietà stimolante? Ed anche se, data ad alte dosi, la digitale mostra di essere stimolante, è forse che allora ella stessa produca quell' esaltamento, quell' irritazione che resiste, e quindi esclude lo stupore? Checchessia di questi dubbi, pare però certo il fatto generale, che un forte stimolo istupidisce, scema i movimenti vitali, e questi movimenti scemati scemano alla lor volta la riproduzione o l' azione degli stimoli interni; e però rimarrà sempre argomento importante alla meditazione dei dotti medici quel calcolo, che accennavamo, sull' effetto ultimo e complessivo di quelle due serie di stimoli eccedenti e declinanti; rimarrà degno nei casi speciali d' investigarsi il rapporto, secondo cui crescendo la prima serie, può diminuire la seconda; nè sarà una cosa assurda il concepire la possibilità, che con un rimedio stimolante di sua natura si ottenga il risultamento d' una diminuzione effettiva di stimolo; e tutto questo dimostrerà che il vedersi diminuito l' eccitamento in un infermo in conseguenza di un rimedio, non è ancora infallibile prova a conchiudere che quel rimedio sia di natura piuttosto controstimolante o deprimente, che stimolante, come pur facilmente si conchiude da chi non riflette alla serie complicata di cause e di effetti, che nel corso zoetico s' intrecciano e reciprocamente si modificano (1). Dalle quali cose si raccoglie: Che il sentimento fondamentale d' eccitamento può essere normale e piacevole, anormale e doloroso. Che lo stesso sentimento, normale ovvero anormale, può essere maggiore o minore, secondochè l' eccitazione è maggiore o minore. Che non è la maggiore o minore eccitazione quella che pone l' animale nello stato di salute o di malattia; ma questi due stati sono costituiti dalla normalità o anormalità dell' eccitamento. Che anzi quanto è maggiore l' eccitamento, purchè normale, tanto è maggiore la prosperità dell' animale. Che la misura massima dell' eccitamento dipende nell' uomo da tre cagioni; cioè dallo stato dell' animo, ossia dall' azione del principio razionale ; dall' organizzazione normale o anormale, più sviluppata o meno, più robusta o meno robusta; e dalla quantità maggiore o minore degli stimoli esterni e degli stimoli interni . Che ogni modificazione che nasca in alcuna di queste tre cause, ella cangia totalmente il corso zoetico in bene od in male. Se l' eccitamento oltrepassa la sua misura massima, egli diventa inopportuno , e la misura massima è relativa alle tre condizioni accennate. Tuttavia, che la quantità dell' eccitamento non possa costituire il carattere della malattia, vedesi anche da questo, che negli uomini più robusti le malattie diventano più violente, e nei deboli, di temperamento floscio e linfatico, prendono un carattere più mite e benigno. E tuttavia chi dirà che lo stato di robustezza non sia migliore dello stato di debolezza? Ma essendo il primo di questi due stati formato da azioni vitali più forti ed eccitate, se l' eccitamento esce dalla sua forma normale, il corso zoetico, che ritiene lo stesso impeto, precipita a maggiore rovina. Quindi la robustezza e l' eccitamento maggiore, cosa pregevole in istato di sanità, diventa funesto in quello di malattia, a segno che i medici talora lo confondono colla malattia stessa. Ed è facile il confonderlo, perchè quel corso normale, che è più attivo, produce anche stimoli maggiori; quindi nelle malattie, da cui vengono presi i robusti, vi è quasi sempre anche eccesso d' eccitamento. D' altra parte non isbagliano in tal caso i medici, se tentano di sottrarre alla macchina le sue stesse forze naturali e convenienti, acciocchè traviate, siccome sono, non servano ad accrescere la malattia. Il Rasori riconosce nelle febbri epidemiche, nel vaiuolo, ecc., una materia morbosa irritante, ricevuta nel corpo umano, e consigliando la cura deprimente, la vuol moderata, perchè, dice, [...OMISSIS...] ; parole che non so, a dir vero, quanto sieno coerenti al sistema dell' illustre autore, che, in tutte le malattie per soverchio eccitamento, concepisce la cura sanatrice siccome una semplice diminuzione d' eccitamento soverchio, e non ammette differenza essenziale fra i diversi controstimolanti; di che dovrebbe venirne che la stessa presenza della materia morbosa stimolante si potesse rendere innocua direttamente, con una dose di controstimolanti, che ne pareggiasse in senso contrario l' effetto. Ma il fatto si è che la cura depressiva, che si scorge così utile nelle cure di tali morbi, altro non sembra ottenere, e lo si confessa, che una minor veemenza nelle operazioni del corso zoetico; veemenza, in cui non consiste l' essenza del morbo, la quale sì bene consiste nell' anormalità o disordine degli alterni movimenti, che diviene più rovinoso partecipando di quella naturale gagliardia, con cui si compiono i movimenti e le sensioni vitali. Dalle sensioni passiamo ora a considerare la stessa facoltà di sentire, e notiamone le varietà in relazione al corso zoetico, che ne rimane determinato. Il sentimento fondamentale è un atto, il primo atto del sentimento; sotto questo aspetto egli non è una semplice facoltà . Se si volesse concepire una facoltà anteriore al sentimento fondamentale, la facoltà di questo sentimento altro non sarebbe che un ente di ragione, una finzione della mente nostra, perchè dinnanzi a un primo atto non esiste nulla nel soggetto, neppure una facoltà presa in senso attivo; dinnanzi al sentimento fondamentale non esiste neppure l' animale. Che se per facoltà del sentimento fondamentale s' intendesse l' attività che lo produce, l' istinto vitale in tal caso non avrebbe una facoltà anteriore a lui, ma in lui stesso si considererebbe la forza che lo costituisce, la sostanza dell' anima. Per facoltà di sentire nulla di questo noi intendiamo, ma soltanto la potenza attiva di sentire in altro modo da quello del sentimento fondamentale. Per sensione intendiamo una specie di modificazione del sentimento fondamentale, non ogni specie. Le modificazioni del sentimento di continuità non sono sensioni; l' uomo, per quanta attenzione vi ponga, difficilmente giunge ad osservarle, a formarsene coscienza. Neppure l' aumento o la diminuzione della forza dell' istinto vitale è sensione, nè si raggiunge dal pensiero dell' uomo, che ne rimane inconsapevole. Le sensioni appartengono insomma al sentimento eccitato ; sono le modificazioni di questo (1). La sensitività prende diverse forme speciali; ammette diversi gradi di ciascuna forma, e tutto ciò varia la condizione dell' animale, l' andamento del corso zoetico. Da che dunque dipendono le varie forme specifiche e i vari gradi della sensitività animale? Volendo trovare di queste mirabili varietà di specie e di grado la ragione ultima, che è veramente formale , si dovrebbe ricorrere col pensiero alla natura intima del sentimento fondamentale, modificazione del quale è la sensione. Poichè la ragione delle modificazioni, di cui è suscettibile un soggetto, non può essere che nella natura di lui medesimo; chè modificazioni di un soggetto vuol dire il soggetto stesso esistente in altri modi, e conservante in tutti la propria identità. A chi domanda ulteriormente perchè un soggetto possa esistere in diversi modi, altra ragione non si può dare se non che tale è la sua natura. Se noi conoscessimo positivamente la natura di un soggetto, potremmo conoscere altresì a priori tutte le modificazioni di cui è suscettivo, cioè dedurle dal solo concetto della sua natura. Ma la natura del sentimento fondamentale non è a noi nota in sè stessa, come si scorge considerando che il sentimento fondamentale di continuità sfugge alla nostra attenzione intellettiva. Ora l' eccitamento non è che un atto del sentimento di continuità. Sottratto dunque alla nostra coscienza il sentimento fondamentale di continuità, si rimane incognita anche la natura del sentimento d' eccitazione, e noi non possiamo che dedurre i suoi modi, forme e gradi cioè, a posteriori, dall' esperienza delle sensioni, che sono atte a cadere nella nostra coscienza. Ma che tutte quelle diverse forme di sentire dipendano dall' intima natura del principio sensitivo, che è la sostanza dell' anima, noi siamo costretti ad affermarlo anche dalla meditazione dei fatti. Poichè è un fatto che lo stesso identico sentimento ha più modi di essere; è un altro fatto che questi modi si cangiano, senza che egli perda la sua identità; è un terzo fatto che ciò che si chiama sensione non è che un modo del sentimento; un quarto fatto che nel sentire vi è un elemento di passività, della quale il soggetto è il principio sensitivo; un quinto fatto che vi è pure un elemento di attività, di cui il soggetto è pure lo stesso principio sensitivo. Dunque le varie forme di sentire dipendono dalla speciale natura della passività e della attività di esso principio. Ora, un principio contiene in sè virtualmente tutti gli atti e tutti i modi, di cui egli è suscettivo; dunque nel principio sensitivo si contengono virtualmente tutte le diverse forme di sensioni, le quali non sono create di nuovo quando cadono nella nostra coscienza, ma si estrinsecano, da implicite diventano esplicite; il sentimento non cangia l' essere, ma il modo dell' essere. Rimane a vedere quali sieno le occasioni o le condizioni, date le quali, la sensione si esplica. Il fatto, che dobbiamo aver presente, ridotto ad una formola generale, è questo: « il sentimento si atteggia nel modo più piacevole che gli sia possibile ». Ma che cosa è mai che mette un limite alla possibilità di atteggiarsi in varie guise? Dobbiamo sempre rispondere come per innanzi, la propria natura del sentimento fondamentale. A priori, non abbiamo a dire di più; solo ci resta il poter ricorrere all' esperienza per conoscere in qualche modo questo limite, per sapere altresì quale sia, date certe condizioni, l' atteggiamento più piacevole che può prendere il sentimento. E posciachè l' esperienza ci attesta che la natura del principio sensitivo racchiude un elemento di passività in rispetto ad un ente extrasoggettivo, s' intende che questo ente extrasoggettivo e la sua maniera di operare deve essere una delle condizioni, da cui dipende lo stato più piacevole dell' animale, di modo che il sentimento deve trovare più piacevole l' atteggiarsi in un modo anzichè in un altro, quando l' ente extrasoggettivo opera su di lui piuttosto in un modo che in un altro. Quindi niente ripugna che le diverse forme della sensitività dipendano dalla diversa organizzazione degli organi, di maniera che la ragione perchè l' occhio è suscettivo delle sensioni colorate, l' orecchio delle sensioni sonore, le nari delle sensioni odorose, il gusto delle saporose, lo stomaco, gli intestini, ecc., di sensioni di lor propria forma, altra non sia che la diversa azione del corpo sul principio sensitivo, dipendente dalla diversa organizzazione dell' organo stesso, benchè il principio sensitivo abbia il medesimo atto, quanto è da sè sotto ogni organizzazione. Questo può essere confermato anche coll' osservazione che fanno i fisiologi, che ogni nervo stimolato non dà altra sensione che la sua propria: così il nervo olfattorio non dà luogo ad altra sensione che a quella degli odori, l' ottico non ad altra che a quella dei colori, ecc.; quindi se il principio senziente è eccitato dai movimenti convenienti del nervo olfattorio, egli sente odori grati; se poi quei movimenti attentano a turbare l' eccitamento naturale, nasce la lotta che si manifesta cogli odori spiacevoli (1). Quanto al senso ottico, lo spiacevole suo proprio sta nell' oscuramento della vista, o nell' essere offesa da soverchia luce. Non è dunque a dubitarsi che, trovandosi dovecchessia i nervi opportuni, lo spirito dovecchessia sentirebbe; che egli potrebbe vedere col piede, se nel piede vi fosse un nervo organato siccome l' ottico, o udire colla mano, se nella mano vi fosse il nervo acustico, ecc.; che potrebbe vedere anche in cento parti del corpo, come si finse Argo, se cento occhi fossero nel corpo umano, e così si dica d' ogni altra sensione, la quale è in un luogo piuttosto che in un altro, in un solo piuttosto che in molti, non per alcuna diversità della sensitività o facoltà del principio senziente, ma per la diversità dell' organizzazione, che obbliga la sensitività a determinarsi in un modo piuttosto che in un altro, riuscendole più piacevole così in quelle circostanze. Mancando poi un organo a quella guisa costrutto, cessa la forma relativa di sensione (1). Il Morgagni, il Fatner, il Loder e il Valentin raccontano che in uomini, i quali non avevano mai sentito odore, trovarono mancare i nervi olfattori. Ora poi è certo che ogni forma speciale della sensitività ha virtù di mutare la serie delle azioni vitali, di cui si compone il corso zoetico, rispondendo ad ogni specie di sensione una specie determinata di movimenti promossi dall' istinto sensuale. Passando ora noi ai diversi gradi della sensitività, la ragione di questa diversità si riduce: 1 ad una particolare disposizione del principio senziente; 2 ad una particolare disposizione della materia animata, che lo determina ad un atteggiamento piuttosto che ad un altro. E quanto a questa particolare disposizione della materia, l' esperienza insegna che in certi corpi vi è una tessitura più fina, e delle membra più sottilmente organate; e gli individui, le cui carni e i cui organi sono più finamente tessuti, dimostrano possedere una sensitività più delicata, più pronta, più vivace, più potente. Quanto poi all' azione maggiore o minore del principio sensitivo, questo opera con più o meno di forza, per le diverse cagioni che abbiamo accennate. L' istinto vitale s' avvilisce, quando l' animo è occupato dal dolore, s' incoraggia, quando l' animo è diffuso nella gioia. Se il principio intellettuale è rapito nella contemplazione d' un oggetto, l' animalità smette una parte della sua operosità, perchè, essendo unico il soggetto e d' una quantità limitata di forza, non può usarne una porzione considerevole nelle operazioni intellettive, senza sottrarla alle operazioni animali. Ond' è, che se l' uomo a ventre pieno si applica a qualche serio studio, gli si rompe la digestione, e indi tutti gli incomodi dei letterati. Ma a rendere maggiore o minore la sensitività contribuisce massimamente l' istinto sensuale, che ha sì grande influenza sul vitale, dal quale reciprocamente riceve influenza. La sensitività è resa maggiore dall' istinto sensuale: 1 per la forza dell' abitudine attiva; 2 per la ritentiva dei piaceri goduti, nella quale sono accumulati i movimenti piacevoli altra volta esperimentati; e perciò questa ritentiva ha più di forza a muovere l' istinto sensuale che non abbia un piacere nuovo attuale; dove si vede perchè il piacere immaginato spesso eserciti una maggior forza sull' uomo che il piacere reale. Dallo stesso principio si trae la spiegazione di molti fenomeni edonici. Per quale ragione la maggiore intensità del piacere aspettato si prova nel momento d' incontrarlo, cioè in quel momento in cui nasce la mutazione, non quando ella è già nata? In gran parte da questo, che il piacere sta unito col movimento, e però nell' atto del movimento il piacere è più che mai attuato; al qual movimento succede gradatamente la quiete. Ma ciò non basta a spiegare quella intensità di diletto maggiore, che giace nel primo atto, in cui si entra in possesso del piacere desiderato. Essa dipende dall' aspettazione immaginaria, che nasce dalla ritentiva di tanti momenti piacevoli altre volte provati, la quale mette l' istinto sensuale in uno straordinario orgasmo, in una penosa inquietudine, in una impazienza che gli si ripeta quel piacere, che nell' apprensiva è divenuto il cumulo di tutti i piaceri anteriori. Onde nel primo affronto del piacere l' istinto sensuale, già mosso violentemente dall' accennata ritentiva, trova il diletto maggiore, non solamente per la maggior sua avidità, ma per quella soddisfazione altresì che gli succede, ed è il riposo della sua fremente cupidigia; riposo ottenuto in quell' istante, in cui vede a sè libero ed aperto il piacere concupito. Onde, placata l' ira di quell' appetito colla soddisfazione, rimane il solo piacere reale assai minore di quel che pareva alle brame, e perciò meno atto a muovere l' istinto vitale. Quindi ancora si spiega quell' altro fenomeno, che così acconciamente viene espresso nei sacri libri: [...OMISSIS...] ; come pure quello indicato dal volgare proverbio, che « la privazione genera l' appetito ». Ciò che è proibito o è difficile a conseguirsi, od è lungamente desiderato, rende l' istinto sensuale irrequieto, più attivo, e quasi in continue vibrazioni. E ancora il piacere, di cui l' occasione si porge inaspettata ed è preso alla sfuggiasca, perchè stringe il tempo, e pel timore che sfugga il prezioso istante, riesce più vivo, intenso, con un carattere nuovo e suo proprio; chè l' istinto sensuale più inquieto e sollecito provoca nelle fibre nervose guizzi e movimenti più celeri e violenti, dalla maggiore rapidità dei quali si deve soprattutto desumere l' intensità della sensazione. Così si osserva che l' uomo rotto ai piaceri tiene quasi inarcato abitualmente l' istinto sensuale in aspettazione della loro ripetizione, e gli stessi nervi protesi inverso a tutti gli stimoli, e quasi guizzanti e oscillanti, cioè preludenti e inizianti le sensazioni desiderate ed aspettate. Ed è tuttavia vero che la condizione fisica di cotesti nervi li dimostra più ottusi che non sieno nell' uomo sobrio, sì perchè i nervi sempre tesi non sono suscettivi di grandi movimenti, i quali importano successione di rallentamento e di tensione, e sì perchè manca ognor più la novità del piacere. Ma se diminuisce il piacere reale nello schiavo delle passioni voluttuose, ne aumenta l' avidità angosciosa dell' animo. La quale non ha fine (2), e dà senza posa la leva all' istinto sensuale; ma rimane sempre vero che lo stato dell' istinto sensuale nel voluttuoso ha maggiore mobilità e attività, che rende più attivo e pronto l' istinto vitale a produrre le piacevoli sensioni. Per la riproduzione, che l' istinto sensuale fa di abbondanti stimoli interni; di che è ragione la maggiore intensità delle sensioni, e le stesse cause che rendono più potente l' istinto vitale. Quindi: Quanto è maggiore il sentimento fondamentale d' eccitazione, tanto è maggiore, ceteris paribus , la sensitività. Dico ceteris paribus, perchè potrebbe anche esservi una resistenza maggiore agli stimoli esterni, posta dalla fibra compatta e robusta; ma se lo stimolo vince questa resistenza, deve nascerne una sensione maggiore di quella prodotta in un corpo di fibra più molle da uno stimolo proporzionatamente eguale. Se in qualche parte determinata del corpo l' istinto sensuale accumula quantità maggiore di stimoli, o prende una propensione ad accumularli, cresce la sensitività a quel luogo relativa (1). Così si può spiegare come coll' uso frequente i nostri sensorii si rendono più acuti e sottili, perchè l' incisore di gemme, a cagion d' esempio, affini la vista coll' adoperarla. Pare che la facoltà sensoria dell' occhio s' accresca non solo per la protensione delle estremità nervose, che vanno a cercare lo stimolo e gli presentano le loro papille più nude, ma ben anche pel maggiore afflusso del sangue, che stimolando avviva e rende più sensoria la parte. Infatti se l' occhio s' adopera oltre a un giusto termine, ne nasce l' infiammazione; il che dimostra il concorso degli umori. Del qual concorso è nuova prova questo, che le parti del corpo più si adoperano, e più anche s' ingrossano e si sviluppano, ivi concorrendo maggior nutrimento. Che se gli stimoli, che l' istinto sensuale adduce alle speciali parti del corpo umano, pel loro impeto, pel loro eccesso e per l' alterazione della loro crasi, impigliano l' organizzazione e tendono a distruggerla, allora nasce quella lotta, che rende la parte dolente. Il sentimento fondamentale della parte così afflitta non suol essere d' un dolore vivo, se l' incaglio del processo organico e gli intestini disordinati movimenti non oltrepassano un certo termine; e tuttavia la sensitività dolorosa è grande, bastando picciol tocco a cagionare vivo dolore. E questo è il caso dell' infiammazione, che aumenta la parte di volume, il che dimostra afflusso di umori; l' arrossa, il che dimostra afflusso di sangue; la rende dolente al tatto, se l' infiammazione è poca, dolente anche senza esser tocca, se l' infiammazione è molta; il che dimostra la lotta, che dicevamo, fra l' istinto vitale e la materia ivi mal disposta al suo uopo. E che la materia ivi sia mal disposta, apparisce dalla tendenza di ogni infiammazione a disorganizzare la parte infiammata. Anche l' ingorgo dei vasellini e il rallentamento del moto degli umori prova il medesimo. Il sangue sembra cacciato negli ultimi capillari venosi dal movimento maggiore del cuore e delle arterie; e i capillari venosi, che non lo possono smaltire, debbono venire così sfiancati fino a stravasarne o rompersi (1); i sottilissimi nervicciuoli debbono essere da ogni parte impulsi ed irritati; il sangue stesso accalorito dall' orgasmo delle arterie, e quasi stagnante, tende a disorganizzarsi, cioè a lasciar separare da sè la fibrina, che inclina a consolidarsi ed organarsi da sè in nuovi tessuti ed organi, mentre il grumo ed il siero inclinano ad alterarsi in pus. Brachet racconta che nel 1.11, tornandosi all' ospizio di Bicˆtre, l' infermiere della sala di chirurgia venne a lui, facendogli ammirare l' immenso accrescimento di vista che s' era trovato quella mattina; vedeva i più piccoli oggetti a smisurata distanza, nè si lagnava d' alcun male. Cinque ore appresso gli si manifestò un leggiero dolore di capo; dopo poche ore lo colse un' apoplessia fulminante, di cui morì la notte; un deposito di materie gli fu trovato nel talamo ottico destro, il quale aveva infiammata e irritata la parte dell' encefalo, che è sede della visione. Questo grande aumento di sensitività visiva provenne dunque dagli stimoli accresciuti sull' organo della visione, e probabilmente altresì dalla mobilità maggiore, che ne acquistò un tale organo. Un sacerdote venne da me, narrandomi che gli sembrava d' esser divenuto un altro uomo per la perspicacia della mente acquistata, la prontezza del pensiero, i sensi stessi resi in insolito modo più acuti, e chiamavasi beato di quel suo nuovo stato. Io lo consigliai subito a farsi fare qualche generosa emissione di sangue; egli differì alcuni giorni, e cadde in pazzia. L' istinto sensuale cresce la sensitività ancora, rendendo più mobile la fibra sensoria. Onde questa mobilità maggiore? Certo, un organismo più perfetto, una sottigliezza maggiore di tessuti, ecc., debbono renderla più mobile. Ma le fibre egualmente organizzate devono rendersi più mobili altresì e pronte a dare la sensazione, soggiacendo, come dicevamo, ad una copia maggiore di stimoli interni e continui; a quella guisa che un corpo quinci e quindi egualmente premuto si muove più facilmente ad ogni aumento di pressione da uno dei lati, o come si muove una bilancia, tostochè un peso anche minimo le tolga il perfetto equilibrio. Oltracciò l' istinto animale si sta più avvisato, più all' erta, più pronto all' operare, quando si sente scosso da tutte le parti, o in bene o in male; allora le fibre conservano quel continuo oscillamento, che equivale ad una quantità di sensioni incipienti, tutte in tendenza di spiegarsi e sfogarsi. La qual cagione, unita alla precedente, sembra che possa rendere buona ragione di molti fenomeni, procedenti dai diversi gradi e dalle variazioni della sensitività, sì rispetto alle sensioni piacevoli che alle spiacevoli; a ragion d' esempio, sembra rendere ragione del perchè varii così la sensitività speciale del gusto, divenendo ora più acuto, ora più ottuso nelle diverse affezioni infiammatorie dello stomaco. Quando l' affezione agisce sui nervi pneumogastrici, come pure quando agisce sul sistema nervo7ganglionare, l' organo del gusto riceve una nuova condizione, sia perchè in qualche parte si altera la sua intima organizzazione, sia perchè gli vengono applicati nuovi stimoli interni con disordine, sia perchè è reso più mobile ed oscillante. Le modificazioni, a cui soggiace l' organo del gusto dalle affezioni uterine, sono pure ammirabili, o che si considerino i capricciosi gusti delle fanciulle che si avvicinano all' epoca della pubertà, o di quelle il cui scolo periodico è difficile, o che soffrono altri incomodi, o che si considerino quelli delle donne incinte. La ragione della maggiore attività della fantasia nel sonno e nel sonnambolismo, si deve ripetere dalle stesse cagioni. Finalmente il grado di sensitività dipende assaissimo dal prestarsi più o meno, o non prestarsi al tutto l' istinto animale colla sua attività a produrre la sensione, o quegli spontanei movimenti, che alla produzione della sensione sono necessari. L' istinto vitale non si presta alla produzione della sensione, se non tanto, quanto il non prestarsi gli riesce più molesto. La stessa legge mantiene l' istinto sensuale rispetto ai movimenti; non si presta a produrli, se non quanto il farlo gli riesce più piacevole che l' astenersene. E` quello che ho detto del fenomeno singolare della capacità morbosa. E` noto come Giovanni Rasori amministrasse uno scrupolo di tartaro stibiato alla volta, una dramma e più dramme nel corso di ventiquattr' ore, e fino più oncie nel corso d' una malattia, senza che s' eccitasse il vomito, o poco e di rado, nè si accrescesse o poco il secesso, senza che comparissero sudori maggiori che non comportasse l' indole o l' epoca della malattia. Simili arditi esperimenti egli fece con tutte le preparazioni antimoniali, gli emetici, il nitro, i purganti anche più drastici. Dove sembra incontrarsi una contraddizione; perocchè questa capacità morbosa non si manifesta che in quelle malattie, che chiamano steniche, perchè caratterizzate da eccesso di stimolo. Ma se in queste malattie vi è un maggiore eccitamento, perchè dunque si mostrano quasi insensibili e resistenti all' azione di sì forti rimedi? A me pare che per ispiegare questo fatto si deva ricorrere alla indicata legge: « non prestarsi l' istinto animale (vitale o sensuale) ad operare in conseguenza degli stimoli, se non in quel tanto che il prestarsegli è più piacevole, o meno spiacevole del non prestarsi »; di che si trae essere un errore il credere che « la quantità d' azione dell' istinto animale cresca e diminuisca in ragione semplice e diretta della quantità degli stimoli ». Conviene distinguersi: 1 la quantità degli stimoli; 2 la quantità dell' eccitamento appartenente al sentimento fondamentale; 3 la quantità d' azione dell' istinto animale, sia vitale o sia sensuale. Ora ciò che noi dicevamo si è che la quantità di azione dell' istinto animale non va in ragione della quantità degli stimoli, ma procede a tenore della legge indicata, regolatrice della sua attività . Dopo ciò si possono fare delle altre domande importantissime, le quali sono: « Se l' eccitamento tenga esatta proporzione agli stimoli »; e io penso ancora di no, per la stessa ragione. « Se la quantità d' azione dell' istinto, in quanto produce la sensione o il moto animale, tenga esatta ragione colla quantità dell' eccitamento appartenente al sentimento fondamentale »; e di nuovo sembrami dover rispondere negativamente; perocchè niente ripugna che l' animalità trovi piacevole di lasciarsi eccitare, o men penoso almeno dello sforzo di sottrarsi allo stimolo; e poi quando trattasi di passare all' azione dell' istinto, che produce la sensione o il moto, trovi più piacevole o meno molesto il resistere, e il non prestarsi a produrlo. « Se in ragione esatta della quantità d' azione dell' istinto vitale, o che è il medesimo, in ragione della quantità di sensione o sensioni da lui prodotte, sia la quantità d' azione dell' istinto sensuale, o che è il medesimo, la quantità del moto da lui prodotto ». E di nuovo deve dirsi non essere, per una consimile ragione, quantunque resti vero che la sensione sia il principio d' un movimento animale conseguente (1). Ritornando dunque al principio generale, ripetiamo che « il maggiore o minore grado di sensitività dipende principalmente dalle leggi dell' attività dell' istinto animale », e che i fenomeni della sensitività non si possono spiegare misurando solo gli stimoli e le forze esteriori, che agiscono sul principio sensitivo, quasichè questo fosse unicamente passivo, e non anche attivo, e non fosse dotato di proprie sue leggi determinatrici del suo operare. Più si medita questa verità, più la si vede al fondo di tutti i fenomeni animali: Perchè una sensazione più forte toglie quella che è meno forte, come, a ragion d' esempio, lo splendere del sole impedisce la visione delle stelle? Certo si deve attribuire in parte all' azione meccanico7animale, che, facendo oscillare tutte le fibrille egualmente del nervo ottico, suscita una sensione uniforme, nella quale si fonde la sensione parziale delle stelle. Ma questo non ispiega a pieno come la luce delle stelle, che continua a ferire certe fibrille della retina, non vi cagioni più alcuna sensazione, perchè la trova scossa dalla maggiore azione del sole. Pare dunque che si deva piuttosto dire che le fibrille percosse dalla luce del sole non ricevono più il movimento del debole raggio della stella, perchè l' attività sensitiva è occupata a preferenza a secondare l' azione dello stimolo maggiore; benchè a produrre quel fenomeno concorrano più cause, e fra le altre la legge meccanica, che un moto maggiore resiste ad una forza assai debole tendente a modificarlo; chè dove vi è più quantità di moto, ivi vi è più di forza resistente a cangiare direzione o metro. Perchè le forze dell' istinto vitale resistono alle forze chimiche, fisiche e meccaniche, tendenti a disciogliere la macchina complicatissima e corruttibilissima del corpo umano? Per la stessa attività intrinseca all' anima. Per questo l' istinto animale raffrena l' azione dei succhi gastrici, adoperandoli a disciogliere gli alimenti, e impedendo probabilmente che la loro azione dissolvente nuoccia al ventricolo. All' incontro pare indubitato che nel cadavere si trovi alcune volte il ventricolo digerito tosto dopo la morte, per l' azione dei detti succhi, a cui non osta più l' attività del principio vitale (1). E qui mi conceda il lettore che a conchiusione delle cose dette, e quasi a riposo, manifesti un voto, che qualche sapiente medico prendesse a porre insieme una nuova teoria dell' arte di esperimentare in medicina . Se pur è vero quello che a me ne pare, dopo le riflessioni precedenti, devono parere insufficienti i trattati fin qui pubblicati sopra sì importante argomento. L' arte di esperimentare è la parte principalissima della logica medica , e da quell' arte dipende il vero progresso della medicina, la quale, senza di lei, non può che perdersi irrimediabilmente, e rovesciarsi da una teoria gratuita e crudele in un' altra pure gratuita, e forse più crudele ancora. Quali osservazioni crediamo noi che dovesse tenere innanzi agli occhi quell' uomo dotto, che togliesse la fatica di sì nobil lavoro? Prima e preliminare cura vorremmo che fosse quella di togliere l' apparente discordia delle opinioni, levando gli equivoci del parlare. Contendono i dotti con gran danno dell' arte, quando, senza darsi cura d' intendersi, gittano tanto tempo e tante parole a contrariarsi. A ragion d' esempio, se le due sette di empirici e di razionali si definiscano in un modo ragionevole, verranno tosto ad un facile accordo. Poniamo queste definizioni: Medici empirici sono quelli che pretendono doversi applicare i rimedi unicamente sulla regola dei casi simili considerati fenomenalmente. Medici razionali quelli che pretendono non doversi applicare i rimedi secondo la regola dei casi simili considerati fenomenalmente, ma considerati nelle loro cagioni efficienti interne, le quali non cadono sotto l' esperienza, ma s' argomentano tuttavia da dati esperimentali. Da tali definizioni si trae questa conseguenza: Gli empirici non escludono il ragionamento, di che a torto si accusano, ma lo restringono a determinare i casi simili per via dei fenomeni che cadono sotto l' esperienza. I razionali non escludono l' esperienza, di che pure a torto si accusano, ma vogliono che l' esperienza si adoperi a rilevare, per via di ragionamento, la costituzione intima del morbo di cui si tratta, e quindi le sue cause interiori che ne producono esternamente i sintomi. Così definite le due sette, e purgate dall' accusa ingiusta che reciprocamente s' appongono, il torto di ciascheduna, se pur v' è, riesce assai minore, e sono già con questo solo avvicinate. E a buon conto i medici idioti non saranno più confusi cogli empirici ; chè l' empirico non è necessariamente idiota; quando anzi per eseguire ciò ch' egli si propone, « di medicare secondo i casi simili fenomenalmente considerati », gli è mestieri d' una scienza immensa, di uno studio inesauribile. E di vero, è ella forse leggiera cosa lo stabilire quali sieno i casi veramente simili fenomenalmente considerati? è ella una breve fatica il raccogliere tutti i fenomeni morbosi, e il classificarli secondo la loro maggiore o minore similitudine? richiede poca sagacità il distinguere quelli che sono simili nell' essenza specifica, e quelli che non sono simili se non in accessori ed accidenti, lo stabilire la somma importanza che ha un dato rapporto di somiglianza, e la poca importanza d' un altro? il cogliere la gradazione delle somiglianze e della loro importanza per caratterizzare una malattia? Non si richiede a tentare su questa base una classificazione dei morbi, infinita perspicacia e perseveranza d' osservazione? E poi rimane a classificare alla stessa maniera il corso e l' esito diverso delle malattie nei climi, temperamenti ed altre circostanze diverse; e poi in questo metodo è uopo argomentare continuamente a iuvantibus et a laedentibus , per ritrovare la corrispondente efficacia dei rimedi, e le dosi e la maniera di amministrarli. Si separino dunque gli idioti dai veri empirici, e tosto i medici s' intenderanno fra loro più facilmente. Dopo queste separazioni, a che si ridurrà il difetto delle due sette indicate? Non più al mancare l' una di scienza, e l' altra soprabbondare; ma forse a una restrizione arbitraria, che ciascuna di esse pone al suo metodo. Tutto allora dovrebbe tendere a mostrare a ciascuna di esse, come ella gratuitamente si limita e si rende più difficile lo scopo che vuole ottenere, qual è quello di giungere alla vera scienza medica. Così s' avranno dei medici non empirici, non razionali, ma ragionevoli. I quali: 1 raccoglieranno e mediteranno tutti i fenomeni, come si propongono di fare gli empirici, classificandoli secondo le loro caratteristiche somiglianze; 2 non ricuseranno d' investigare la condizione morbosa interna col ragionamento, come si propongono di fare i razionali, a condizione che le induzioni sieno rigorosamente logiche. La questione non verserà più dunque sul metodo, il quale diverrà unico e completo, ma sull' esatta applicazione del medesimo. Non si dirà più: i casi simili non valgono nulla; ma si dirà: questi casi non sono simili, o non hanno una similitudine caratteristica, essenziale, specifica, ma solo accidentale. Non si dirà più: la causa interna della malattia è inutile a ricercarsi; ma si dirà: l' induzione, colla quale voi stabilite questa causa interna, non regge alla logica, od ha solo tanti gradi di probabilità, e perciò dovete mettervi in guardia, calcolando anche i gradi di probabilità che stanno contro la verità di quella causa. Queste questioni non sono più vaghe; qui si sta rigorosamente sul terreno della scienza; il progresso dell' arte è allora assicurato. Il nuovo Trattato dell' esperienza in medicina dovrebbe dunque: Determinare quali sieno i dati che l' esperienza sensibile somministra, indicare i modi di esperimentare per rinvenirli, e i modi di classificarli. Determinare quali sieno le regole per cavarne induzioni logiche, e la forza di conchiudere che ha ciascuna di esse, e classificare le induzioni medesime. In queste due parti del trattato si fanno avanti le difficoltà che s' incontrano, tanto ad istituire le esperienze, quanto a dedurne giuste illazioni; e quindi si dovrebbero mettere sott' occhio le illusioni, gli errori, i falsi ragionamenti, nei quali l' esperimentatore ed il ragionatore può trasviare. A quest' ultimo intento il sapiente scrittore da noi desiderato dovrebbe mostrare quanto sia complicata la macchina umana, e quanti sieno i principŒ attivi e le sublimi leggi che la modificano, e come reciprocamente attive le mutazioni che ne avvengono, e quanto pochi, comparativamente, i dati di fatto che l' esperienza ci somministra. Se il problema così detto dei tre corpi riesce tanto difficile a risolversi in astronomia, perchè trattasi d' azione reciproca, benchè uniforme, del sole, della terra e della luna; che sarà dove i corpi influenti gli uni su gli altri sono innumerevoli, e di continuo si mutano, e varie le forze, i movimenti complicati e sempre reciprocamente influenti, come accade nel corpo umano? Questa esposizione condurrebbe a provare, che « il pretendere di conoscere per diretta esperienza o per induzione tutti i fatti interni, da cui risulta lo stato sanitario d' un corpo vivo, e di pronosticarne l' esito, e di modificarlo salutarmente coll' applicazione dei rimedi, non è cosa da pigliarsi a gabbo, anzi superiore alle forze umane ». Lo studioso dunque dell' arte medica si può prefiggere due scopi: l' uno di rilevare questo stato positivo del corpo, mediante la cognizione degli elementi da cui esso è costituito, cosa arduissima; l' altro di appigliarsi a regole induttive, complesse, volte a conoscere l' efficacia salutare o nocevole dei rimedi applicati ad uno stato del corpo, che si conosce imperfettamente, cosa congetturale. Questi due grandi scopi caratterizzano due scuole mediche, distinguono la medicina analitica dalla medicina sintetica . Ecco il significato che noi attribuiamo a queste due denominazioni. L' arte medica è una: è l' arte di guarire le malattie. La scienza è la teoria di quest' arte. Ma il medico, che brama di ottenere il fine dell' arte, si può mettere in una delle due vie. Può persuadersi di riuscire a conoscere il modo di guarire le malattie, studiando che cosa esse siano in sè stesse, da quali forze e mutazioni interne risultino; e questa noi chiamiamo medicina analitica, perchè si propone di studiare le malattie nei loro interni elementi e di coglierle all' origine, investigandone il complesso delle forze, dei movimenti e loro effetti da cui risultano; il che è un andare prima per via d' analisi, affine di sintesizzare poi nelle induzioni conseguenti. Può anche persuadersi di riuscire a conoscere il modo di guarire le malattie, studiando gli indizi , che ne dimostrano il progresso verso il meglio o verso il peggio, senza darsi poi gran cura di sapere positivamente come ciò avvenga; e questa noi chiamiamo medicina sintetica, come quella che si propone di conoscere l' effetto complessivo dei rimedi; benchè, partendo da questa cognizione, lo stesso medico possa in appresso analizzare il detto effetto complessivo, e giovarsi di esso a conoscere gli elementi interni onde risulta. E l' uno e l' altro metodo può certamente condurre verso il fine, ma è mestieri unirli insieme, facendoli cospirare all' unico intento loro comune; condizione indispensabile ad ogni modo si è che i fatti osservati sieno certi e precisi, le illazioni rigorose: l' una e l' altra cosa difficilissima. Del rimanente è chiaro che la medicina analitica prende una via più lunga, e più difficile a condursi per illazioni logiche al suo fine; il che dovrebbe risultare pienamente dal trattato dell' esperienza da noi desiderato. Vi si dovrebbe dimostrare questa somma difficoltà da più lati, e principalmente da questi due: La complicatezza del corso zoetico e la sua perpetuità in anelli sempre nuovi, ciascun dei quali malagevole a riconoscere. Gli agenti che possono modificare il corso zoetico (1). Dell' uno e dell' altro fonte di difficoltà diamo qualche cenno, che chiarisca il nostro concetto. La smisurata difficoltà del proposto si conosce osservando che: Pochi sono comparativamente i dati di fatto , che l' esperienza ci può somministrare. Innumerevoli le cose che il medico dovrebbe indurne, per conoscere veramente la condizione dell' ammalato. Il medico cioè dovrebbe conoscere: 1) A quale anello sia pervenuto il corso zoetico. E un anello di questo corso, da quante cause mai non risulta, ciascuna sì difficile a ben rilevarsi! In prima ogni anello è composto dei due elementi, il sensibile ed il mobile . L' elemento sensibile è un complesso di innumerevoli sentimenti, dei quali solo pochi cadono distintamente nella coscienza, e molti si fondono in un sentimento, che costituisce appunto lo stato sensibile dell' animale. L' elemento mobile del pari risulta da innumerevoli moti intestini, e dalla loro reciproca azione e fusione. Di più, tanto nell' elemento sensibile, quanto nell' elemento mobile d' un dato anello sarebbe uopo notarsi l' ordine dei movimenti contemporanei, chè i diversi sistemi del corpo umano operano reciprocamente l' uno sull' altro e con successione, sicchè i movimenti contemporanei, che si fanno nel corpo, altri sono gli estremi d' una serie più lunga, altri d' una serie più breve dei movimenti precedenti; i movimenti muscolari, per esempio, non sono l' effetto dei movimenti nervosi contemporanei, ma dei movimenti nervosi appartenenti all' anello precedente. 2) Si dovrebbero oltracciò conoscere gli anelli precedenti all' anello di cui si trattava, o almeno lo stato dell' istinto vitale e dell' istinto sensuale, stato dipendente: a ) dalle forze e stimoli materiali che agiscono sull' organizzazione, poniamo la materia morbosa introdotta nel corpo umano, ecc.; b ) dalla condizione dell' organizzazione, già più o meno sconcertata; c ) dalle altre innumerevoli cagioni, che pongono l' istinto animale in un grado di maggiore o minore eccitamento, e in una maggiore o minore attitudine di operare, secondo la legge preaccennata della preferenza che l' istinto dà all' operare o al non operare, e all' operare più o meno. 3) Ancora si dovrebbero conoscere gli anelli susseguenti del corso zoetico, che sono impossibili a prevedersi con sicurezza, per gli stimoli accidentali che sopravvengono o si sottraggono; o almeno si dovrebbero conoscere le leggi che determinano la specialità di quel corso zoetico, di cui si tratta; la quale di nuovo non cade sotto l' esperienza, ma ha bisogno di argomentarsi dai pochi dati dell' esperienza. Certo, il calcolo delle azioni reciproche delle varie forze, ciascun atto delle quali ha una sua intensità e una sua misura, vince l' umana intelligenza. 4) Finalmente si dovrebbe prevedere l' azione dei rimedi. Ora come dedurla da così difficili congetture? Si può dunque conchiudere, senza temerità, essere impossibile stabilire l' arte di medicare unicamente sulle cause interne dei morbi direttamente conosciute, o indirettamente argomentate dai dati di fatto, che somministra l' osservazione del corpo umano. Si conferma vieppiù questa difficoltà di conoscere compiutamente lo stato interno dell' animale ammalato, considerando come tutte le regole induttive volte a questo fine sono fallaci. Esaminiamone alcune: I sintomi . - Qui è da rammentare quel tanto che fu detto contro la medicina sintomatica . Certo è che i medici che sono partiti dal principio di Brown, e sono quasi tutti i moderni, cioè dal principio che lo stato sanitario del corpo umano dipenda unicamente da un eccesso o da un difetto, o da un equilibrio di stimolo, confessano essere i sintomi al tutto fallaci, quando si voglia da essi indurre la condizione stenica o astenica del corpo (1). Che anzi le medesime malattie, con tutti i sintomi che le caratterizzano, sono da essi attribuite ora all' eccesso, ed ora al difetto di stimolo. Sicchè vi sono, a ragion d' esempio, secondo essi, delle idropi per eccesso di stimolo, ma ve ne sono anche di quelle cagionate da difetto di stimolo, e così si dica di un gran numero d' altre malattie. Onde neppure la specie della malattia indica con sicurezza la sua causa e natura interna (2). La regola a iuvantibus et laedentibus è certamente preziosa, se si adopera a conoscere l' efficacia dei rimedi. Ma se si pretende di adoperarla a rilevare le cagioni interne del morbo, l' intima condizione morbosa, ella si trova pure fallace. Io sono persuaso che due rimedi opposti, l' uno stimolante, l' altro controstimolante, possano produrre, in certi casi, per le complicazioni interne, il medesimo effetto. Ho già osservato che se lo stimolo è soverchio, istupidisce la fibra e diminuisce la sua quantità d' azione, e, diminuita questa, sono diminuiti i movimenti e gli stimoli interni che ella produce. L' effetto dunque dipende dalla proporzione fra l' aumento dello stimolo esterno, o dirò così terapeutico, e la diminuzione dello stimolo interno, fisiologico e patologico. Se questa diminuzione è maggiore che quell' accrescimento, l' effetto totale sarà una diminuzione di stimolo; quindi il rimedio applicato sembrerà controstimolante, quando egli sarà stimolante. La complicazione della macchina umana è tale che, assai più spesso che non si creda, s' avverano in lei questi due effetti contrari di accrescimento e di diminuzione parziale di stimolo, risultando poi l' effetto totale dall' eccedere l' accrescimento o la diminuzione. Allorquando qualche rallentamento del sangue venoso provoca lo sbadiglio, vi è diminuzione di stimolo; e pure a questa diminuzione succede spontaneo uno sforzo, che fa l' animale per inspirare una copia maggiore d' aria atmosferica, e questo sforzo, questa copia maggiore d' aria è accrescimento di stimolo. Lo stesso dicasi di tutte quelle cagioni, che rendono l' anelito più frequente e la respirazione più profonda per difetto di stimolo. O sia diminuita la quantità dell' aria atta alla respirazione, o sia diminuito il sangue, o un soverchio calore e celerità nel corso consumi più di sangue rosso, o l' uomo senta, come nei momenti prossimi alla morte, sfuggirsi la vita; in tutti questi casi alla diminuzione dello stimolo s' associa o sussegue prossimamente un aumento di stimolo, provocato da quella stessa diminuzione. Qui è l' istinto sensuale che accresce la sua azione, tentando di riprodurre gli stimoli che gli vengono sottratti; prova evidente che un tale istinto non opera solo in virtù e in ragione della quantità degli stimoli materiali, interni ed esterni, ma con altre leggi sue proprie; non è solo passivo, ma ben anche attivo. In niuna delle malattie, benchè si guariscano con una cura stimolante, la debolezza è tale che non vi sia contemporaneamente un aumento di stimolo parziale, il quale talora inganna i medici, giudicandole infiammatorie o steniche. Basta solamente leggere le due serie di storie, che il Rasori aggiunse in fine alla sua Teoria della Flogosi, l' una di malattie credute infiammatorie, e condotte colla cura antiflogistica ad estrema gravità, guarite poi colla cura stimolante (1); l' altra di malattie credute pure infiammatorie, finite colla morte, non mostrando il cadavere segno d' infiammazione, per convincersi che un aumento parziale di stimoli occorre in ogni malattia, senza che da questo si possa sicuramente inferire ch' essa sia stenica. Dappertutto dove si manifesta acceleramento di polso e aumento di calore, v' è stimolo parzialmente accresciuto; chè, non fosse altro, il solo moto, il solo calore aumentato è già stimolo e produttore di stimoli interni. Dappertutto dove è dolore v' è indubitatamente stimolo parziale accresciuto, chè il dolore è stimolo e produttore di stimoli, mediante l' azione eccitata dell' istinto animale. Dappertutto dove si scorge aumento di secrezioni ed escrezioni vi è stimolo parziale, chè le secrezioni cresciute dimostrano maggiore attività degli organi secretorii ed escretorii, e questa attività suppone maggiore eccitamento e stimolo. Anche dove le secrezioni ed escrezioni sono minori del bisogno può esservi aumento di stimolo, come nel caso in cui lo stimolo soverchio impedisca l' azione degli organi, quasi istupidendoli. Molto più ogni secrezione ed escrezione anormale e disordinata può dimostrare aumento di stimolo parziale, benchè accompagnata da contemporanea diminuzione di stimolo pure parziale. Le convulsioni dei muscoli, l' assopimento, il letargo, il delirio dimostrano un aumento parziale di stimoli eccitatori dei nervi e del cervello. Insomma vi sono assai pochi sintomi morbosi, nei quali non si ravvisi un aumento parziale di stimolo e di eccitamento. Di più, gli stessi sintomi che più indicherebbero debolezza, possono essere un effetto indiretto, se si vuole così chiamarlo, di aumento parziale o totale di stimolo e d' eccitamento; ovvero possono essere accompagnati da sintomi dimostranti parziale o totale debolezza, e diminuzione di stimolo. Nelle infiammazioni stesse i medici non sono ancora d' accordo nel decidere se il labirinto dei vasellini ingorgati si trovi in istato di debolezza o in istato di soverchia energia. Il Rasori confessa esservi una specie di debolezza nel viluppo capillare venoso, sede dell' infiammazione, benchè dichiari che non si tratti qui di quella debolezza, che deve determinare il metodo curativo (1). Questa distinzione, per dirlo qui di passaggio, già dimostra da sè il bisogno di distingure più accuratamente che non sia stato fatto, quale sia precisamente la debolezza di cui parlano i medici, che vogliono ridurre tutta la medicina alla quantità soverchia o mancante degli stimoli; giacchè essi stessi confessano che ogni debolezza osservabile nel corpo umano si adatta al loro sistema. Ad ogni modo conviene intanto ammettere che nel viluppo capillare infiammato vi è una qualche specie di debolezza. Or questo è un confessare che anche nella stessa parte del corpo umano può trovarsi contemporaneamente un elemento di debolezza ed un elemento di forza, o per dir meglio, una causa debilitante ed una eccitante. Non v' è alcun dubbio che l' afflusso del sangue alla parte infiammata è un aumento di stimolo, che viene ad essa applicato, benchè non possa certo essere la prima causa del morbo. Che se pur non si vuol riconoscere nei vasellini ingorgati di sangue altra cagione di debolezza che l' azione meccanica del sangue stesso, che vi si introduce con forza e li distende soverchiamente, sia per un poco. Ma rimarrà vero che uno stesso agente, il sangue, opera nella stessa parte in due modi, coll' uno dei quali la affatica, la sfianca, l' addebilita; coll' altro, stimolando, l' eccita e rinforza. Dunque lo stato della parte deve venir determinato non dal solo elemento che l' addebilita, nè dal solo elemento che la rinforza, ma dal calcolo dei due effetti opposti, contemporanei e misti. Ma è dimostrato che la debolezza dei vasellini ingorgati dipenda unicamente dall' azione meccanica del fluido, che impetuosamente è sospinto in essi? Non so se vi siano prove concludenti. Oggidì sembra ridotto a certezza che la circolazione non dipenda dalla sola forza del cuore (1), ma i vasi abbiano una controdistensione loro propria. E quantunque il sistema venoso appaia rispettivamente passivo, e l' arterioso rispettivamente attivo, tuttavia le tuniche delle vene non si possono spogliare affatto d' ogni virtù elastica e controdistensiva (2); altrimenti non potrebbero rispondere agli stimoli meglio d' una sostanza inanimata. Posta dunque un' attività vitale tanto nelle vene, quanto nelle arterie, benchè in queste maggiore, e in quelle minore; chi mai può sostenere esser cosa impossibile che quella stessa causa morbosa, qualunque sia, che accresce l' azione del cuore e delle arterie, non sia altresì quella che produca in sulle vene capillari il contrario effetto, rendendole meno resistenti, più cedevoli e dilatabili all' afflusso del sangue? In questo caso la vera cagione, tanto dell' attività maggiore presa dal cuore e dalle arterie, quanto della debolezza relativa dei capillari venosi, dovrebbe attribuirsi all' azione modificata dell' istinto animale, accresciuta nelle arterie, diminuita nelle vene. E non pare tampoco improbabile che il sistema venoso e il sistema arterioso abbiano fra loro un cotale antagonismo, essendo questo secondo sistema ordinato a spingere il sangue dal centro alla periferia, quel primo a ricondurlo dalla periferia al centro. Così già si volle notare un antagonismo fra i vasi capillari bianchi e i vasi capillari rossi, benchè non intendo come il signor Festler possa attribuire ai capillari bianchi una forza contrattiva maggiore che non ai vasi rossi, e a questi una maggiore forza espansiva che a quelli, quando anzi parrebbe il contrario (1); giacchè la contrazione suppone maggiore azione vitale, la quale prevale certamente nei vasi rossi, quando l' espansione non è sempre effetto della sola vitalità, ma ben anche della debolezza e passività; onde è manifesto, a ragion d' esempio, che le vene reagiscono meno al fluido che ricevono, che non le arterie, le quali lo sospingono aiutate dalla loro forza controdistensiva. Ora sarebbe forse impossibile che la stessa debolezza cresciuta, per qualsivoglia cagione, nel sistema venoso, la stessa maggior cedevolezza delle parti dei vasi venosi dovesse avere per effetto una maggiore attività nel sistema arterioso? In questo caso la debolezza sopravvenuta nella forza vitale delle vene sarebbe una cagione dello stato morboso, di cui si tratta, precedente a quella dell' eccitamento arterioso, sicchè questo diverrebbe rispettivamente effetto, anzichè causa. E che la cosa possa esser così me lo persuade il considerare che, supposta una dilatazione maggiore delle vene, una minore resistenza al corso del sangue, esse dovrebbero recare al cuore copia maggiore di questo fluido, e quindi accrescere in lui lo stimolo e l' attività, colla quale egli lo respinge per le arterie in tutto il corpo, che altrimenti ne andrebbe difettando. E supponendosi che il calibro delle arterie non si accrescesse punto nella stessa proporzione, in cui si accresce quello delle vene (perocchè le arterie dotate di maggior vita resistono maggiormente all' impulso materiale, ed al sangue considerato come stimolo, si contraggono), ne verrebbe che nelle arterie si dovesse necessariamente accrescere la velocità della circolazione, acciocchè potesse passare per esse una porzione di sangue eguale a quella che passa per le vene, condizione necessaria del circolo. Di più, essendo l' albero venoso assai più capace dell' albero arterioso, quand' anche i vasi di entrambi gli alberi si dilatassero in misura eguale, ancora dovrebbe avvenire un acceleramento di sangue nelle arterie acciocchè queste potessero dare sfogo a tutta la quantità di sangue, che le vene porterebbero al cuore, senza che questo vi si arrestasse. Ora poi qual è la cagione che fa sì che il sangue non si arresti nel suo corso? La vera e prima cagione, come abbiamo già accennato, è l' istinto animale, quell' istinto che, sentendo una molestia, si adopera a cansarla da sè, quell' istinto che per dare una spinta maggiore al sangue sa formare lo sbadiglio, che produce l' anelito e l' asma, che nelle varie condizioni d' aria atmosferica sa muovere i polmoni, accelerando o ritardando la respirazione, secondo che sente che gli vien bene il renderla ora più ampia e profonda, ora più lunga, ora più breve e frequente, ora più viva, ora meno, ora più facile, ora più pesante. Si dovrebbe dunque ricorrere all' attività vitale, come a prima cagione dell' acceleramento del sangue e del maggior afflusso nelle vene, attività che viene suscitata dalla debolezza e rilassatezza incolta a queste; sicchè tutta la questione si ridurrebbe a cercare la prima causa di questa rilassatezza morbosa delle vene; la quale indubitatamente si dovrà rinvenire in una qualsivoglia irritazione offensiva dell' istinto vitale, per la quale questo è obbligato ad entrare in quella lotta contro la cagione irritante, che abbiamo descritta. Non è qui necessario, nè cade a proposito del nostro intento, il porci nell' investigazione di questa causa, molteplice certamente. Ma piuttosto, ritornando al fenomeno dell' infiammazione, pare che questo ritrarrebbe dalle cose dette qualche maggiore dichiarazione. Perocchè il maggior afflusso di sangue nei capillari venosi, l' accresciuto movimento nelle arterie, cause entrambe atte, insieme con altre molte, a sviluppare una maggior copia di calore, e dare al sangue una tendenza a dissolversi nei suoi tre principŒ di siero, cruore e fibrina, sembrano bastare a spiegare come nel viluppo capillare venoso debba nascere ingorgamento, e quasi stagnamento sanguigno, con gonfiezza, calore, e tendenza alla suppurazione; massime là dove i capillari, il cui calibro è assai irregolare, sono d' una grossezza accidentale maggiore; circostanza, che il Rasori crede atta a spiegare la località dell' infiammazione (1), e dove, dirò io, per le cagioni che poi accenneremo, i detti capillari acquistano una spossatezza ed un rilassamento maggiore, quand' anche ne sieno più grossi di lor natura, diventando tali per la morbosa loro dilatazione. Ora, a che tutto questo nostro ragionamento? Unicamente a dimostrare che dove si scorge soverchio stimolo, ivi contemporaneamente può darsi soverchia debolezza; sicchè accresciuta azione vitale e diminuita azione vitale stanno insieme; e l' una è occasione dell' altra; il che io credo legge universale di tutte le malattie, come dirò appresso. E qui troppo più innanzi potremmo spingere la descrizione dei fenomeni di debolezza nello stesso stato d' infiammazione. Perocchè, se ciò che abbiamo detto ci fece trovare della debolezza nella stessa località infiammata, e alla prostrazione di forza, a cui son venute le vene, abbiamo attribuito la cagione o l' occasione dell' accresciuto stimolo; quanto più ci sarebbe facile osservare una debolezza coesistente all' infiammazione, considerando tutto il complesso dei fenomeni d' un corpo, che soffre per qualche locale infiammazione? Io sono appieno convinto degli argomenti di tanti illustri medici, che censurarono Brown perchè voleva curare molte infiammazioni, dette da lui asteniche, cogli stimolanti; ma, accordando questo errore nel metodo curativo, non mi ritengo per questo obbligato a concludere che nelle infiammazioni altro non si debba scorgere che eccesso di stimolo. Gli stessi medici, che ho citati, sono obbligati a distinguere due maniere di debolezza, cioè la patologica e la fisiologica , come essi le chiamano; ed accordano l' esistenza di questa seconda colla presenza d' una soverchia robustezza patologica . Ora questo è già un accordarci quello che noi vogliamo, esservi cioè forza e debolezza ad un tempo nel corpo umano e nella stessa malattia. Se poi le denominazioni di fisiologica e di patologica sieno esatte, e vengano con tutta chiarezza definite, questo è appunto ciò, su cui cade il mio dubbio. Se io considero come i nostri medici vennero a formarsi il concetto di quella che chiamiamo debolezza patologica, m' accorgo che la raccolsero dall' azione dei rimedi, ma tosto mi si presentano su di ciò più cose a riflettere. Il determinare se un rimedio sia stimolante o controstimolante, o si vuol desumere dall' effetto che egli fa sul corpo sano, e in tal caso l' illazione dal corpo sano all' ammalato va soggetta a gravi eccezioni; o si vuol desumere dall' effetto che fa sul corpo ammalato, e questa via suppone che si conosca avanti se lo stato morboso è stenico o astenico, come essi lo chiamano; e però facilmente si entra in un circolo vizioso, volendosi definire la stenia o astenia morbosa dalla proprietà stimolante o controstimolante dei rimedi, e in pari tempo desumere questa proprietà dei rimedi dallo stato stenico o astenico, alla cui guarigione conferiscono. Indi è da ripetersi in gran parte, a mio parere, la diversità d' opinione tuttavia esistente sulla efficacia dei rimedi. Ma ciò che più m' importa qui di osservare (perchè non cerco che d' indicare qual debba essere la sana logica da applicarsi all' esperienza in medicina) si è: Che l' effetto dei rimedi può benissimo servire di guida sicura per la medicina sintetica , cioè per quella che si contenta di rilevare l' efficacia utile o dannosa dei vari rimedi sulle malattie, determinate mediante tutti i sintomi e fenomeni apparenti e i caratteri certi; ma non vedo come esso possa condurre, almeno per induzioni certe, a stabilire le cause interne delle malattie, e le modificazioni in più o in meno dell' azione vitale in tante sue diverse, complicate, e talora opposte ed antagonistiche operazioni; ed anzi a me pare che il volere appunto dall' effetto dei rimedi dedurre immediatamente l' etiologia morbosa, e poi su questa unicamente fondare le regole da seguirsi nell' uso di quelli, sia un metodo che assai facilmente conduce la scienza entro le angustie di un sistema. Le quali riflessioni si oppongono tuttavia, meno di quel che paia, al metodo curativo degli illustri fondatori di quella che fu denominata, non so se a ragione o a torto, nuova dottrina medica italiana , la quale ad ogni modo, per tante verità che contiene, è bella gloria italiana. Io credo, a ragion d' esempio, che sia una verità acquistata alla scienza quanto insegnò il Tommasini, con altri, che il processo infiammatorio è unico , e che [...OMISSIS...] . Il che sufficientemente si dimostra solo considerandosi l' ingorgo sanguigno, chè il sangue, che ivi si rallenta, è come tagliato fuori dall' universale circolazione, non segue più il torrente, e il movimento che ritiene è divenuto suo proprio; nè per ciò perde la vita, se non allora che perviene alla suppurazione. Prima che si dissolva e muoia, egli vegeta dunque in un modo indipendente, e non più armonico colla vegetazione universale del corpo (2). Ora qui si presentano alcuni quesiti: Deve sempre il medico dirigere i suoi sforzi a far cessare l' infiammazione locale, dove sia palese o si sospetti esistere, trascurando affatto la condizione universale del corpo? Prima di tutto si osservi che un tal quesito appartiene alla medicina sintetica , e non all' analitica . Esso non tende per sè a spiegare ed analizzare lo sconcerto dinamico7organico del processo infiammatorio e le sue cause; ma, qualunque sia questo sconcerto, qualunque sia il complesso degli elementi interni e delle cause materiali e formali dell' infiammazione, tende a scoprire se convenga meglio, per ricondurre il corpo alla sanità, combattere l' infiammazione locale, trascurando il rimanente, ovvero bisogni calcolare anche la condizione universale del corpo. Ora, sebbene noi parliamo della medicina analitica, tuttavia facciamo sul detto quesito qualche riflessione. Il processo infiammatorio per sè conduce alla suppurazione, e però se egli è esteso o affetta, direttamente o indirettamente, qualche organo necessario alla vita, conduce alla morte. La somma importanza dunque d' impedire che questo processo, che sembra [...OMISSIS...] , pervenga ad un esito sì funesto, consiglia in molti casi dimenticare ogni altra considerazione; chè è uopo vincere il nemico maggiore prima del minore. Ma vi è altra via d' impedire l' esito fatale d' una infiammazione, estesa o grave, fuor di quella di sottrarre le forze al processo infiammatorio? Sono ben lontano dal saper fare una risposta adeguata ad una tale domanda; ma voglio osservare che neppur essa appartiene per sè alla medicina analitica , ma alla sintetica ; perocchè si cerca quel che si deve fare per la salute, non si cerca per quali molli interne e dinamiche, organiche, meccaniche, la restituzione della salute in quel caso si produca. Di poi, sia pure che l' andamento dell' infiammazione non si possa troncare, come si dice, con alcun mezzo antiflogistico o d' altra maniera. L' illazione che, dunque, non vi può essere altra via che quella di sottrarre ad essa le forze con cui opera, affine di renderla meno dannosa, sarebbe ancora lontana dall' avere tutto il logico rigore che si desidera. Ad ogni modo questa sottrazione di forze sarà un ottimo espediente per isgagliardire il nemico e renderlo meno rovinoso. Fin qui va appunto la medicina sintetica. Ma la medicina analitica non si ferma qui; vuol cavarne illazioni sulla natura intima del morbo; e niente di meglio, qualora lo faccia secondo il dettame d' una logica irrepugnabile. Ma questo è il difficile. L' illazione, che si pretende dedurre dal fatto che, sottraendo le forze al processo infiammatorio, questo si rende più benigno e incapace di addurre l' esito fatale che altrimenti minaccia, si è che dunque l' infiammazione è malattia consistente in eccesso di stimolo e di robustezza. Ma questo, o non aggiunge nulla alla conclusione precedente della medicina sintetica, « che si cura l' infiammazione felicemente col sottrarle quelle forze, onde procede nel suo corso »; ovvero è un' illazione illogica e falsa. O non aggiunge nulla, dicevo, se pel carattere di eccessiva robustezza, dato alla malattia, altro non s' intende che tale malattia si guarisce coi debilitanti. O è illazione illogica e falsa, se pel carattere di eccessiva robustezza s' intende descrivere proprio la natura del morbo, giacchè il corpo animale può essere debolissimo ed oltremodo estenuato, e tuttavia infiammato; onde se per robustezza s' intendesse ciò che tutti gli uomini intendono, già non sarebbe più vero che l' ammalato, in cui vi è infiammazione, sia robusto e di eccedente vitalità. Affine dunque di salvare i medici analitici da questo assurdo, che non possono voler dire, perchè hanno sotto gli occhi gli infermi, che mostrano loro il contrario, è uopo applicare al loro detto un significato diverso da quel che suonano le parole. Ricorre qui la distinzione, toccata di sopra, fra la robustezza patologica e la robustezza fisiologica . A primo aspetto ella sembra una di quelle tante distinzioni, che ingombrano e aggravano inutilmente le scienze, facilissime ad evitarsi coll' uso d' un linguaggio proprio, siccome l' intende il popolo, unico maestro e legislatore delle lingue. Ma pure quella distinzione è reale, fondata in natura, se si attende alla descrizione e definizione che se ne dà. Come dunque si definisce cotesta robustezza o debolezza patologica , che pare dover essere qualche cosa di diverso da quella che il volgo intende colle parole appunto di robustezza e di debolezza? Il Rasori ce la descrive come una robustezza o debolezza [...OMISSIS...] . Ottimamente; ma in tal caso la definizione non esce dai confini della medicina sintetica ; con essa non si dice già che vi sia veramente stato di debolezza o di robustezza nel corpo, il che sarebbe l' illazione avventata della medicina analitica , ma si dice solamente che vi è un nemico, a cui giova diminuire le forze. Ora, chi mai non sapeva che le forze del nemico sono sempre troppe? Non bastava dire che dove vi è un nemico attivo, che non si può d' un tratto spegnere, conviene cercare almeno di svigorirlo? Questo è logico, evidente. Ma questo non si fa perchè vi siano nel corpo umano troppe forze, ma perchè vi sono in esso forze nemiche. Non si può dunque conchiudere che il male stia in un soverchio di robustezza e di forza, ma nell' anormalità di questa; la quale, fosse anche pochissima, è sempre soverchia, chè lo dirò ancora, tutto ciò che è anormale, è soverchio. Tanto è vero che, non essendo punto dimostrato, come abbiamo notato di sopra, che l' infiammazione nasca da una assolutamente soverchia attività del cuore e delle arterie, anzichè da una attività soverchia relativamente al rilasciamento delle vene capillari, di maniera che la debolezza cresciuta in queste, può aver determinato quella, e non viceversa; non essendo, come dicevo, ciò dimostrato, rimane ancora possibile a concepirsi un' altra via conducente a vincere l' infiammazione, quella di restituire al viluppo capillare venoso una forza sufficiente a far sì che il sangue ingorgato rientri nell' universale circolazione, e non produca un processo di propria vegetazione. Io non voglio qui ricorrere agli effetti del freddo applicato ad una parte infiammata, nè discendere ad altri particolari; ma, dico, nelle generali, che altro è che questa via non siavi, altro che sia impossibile rinvenirsi. Suppongasi impossibile; l' impossibilità dovrà provarsi per tutt' altri argomenti da quelli che si volessero derivare dallo stato di eccesso di stimolo; chè questo stesso eccesso di stimolo parziale cesserebbe, tostochè il rallentamento del sangue ingorgato nei capillari fosse ricacciato per le sue vie naturali, mediante il detto accrescimento di vigoria, nei vasi rispettivamente rilassati. Si replicherà: « l' espressione di debolezza o robustezza patologica è nondimeno propria, perchè indica almeno quell' elemento che il medico deve solo curare, e che perciò forma la base della malattia corrispettivamente al metodo curativo ». Se fosse vero che vi fosse un elemento, a cui il medico dovesse restringere le sue vedute, e solamente in ordine ad esso determinare il medicamento, e se i medicamenti si dovessero unicamente partire in due classi, chiamate l' una dei rinforzanti e l' altra dei debilitanti; in tal caso l' espressione di debolezza o robustezza patologica acquisterebbe certo la dote della precisione, quantunque non acquisterebbe ancora quella della proprietà , perchè non indicherebbe ciò che suona debolezza o robustezza. Ma è forse vero che le vedute del medico si debbono restringere a così poco? E` vero, a ragion d' esempio, che egli deve al tutto trascurare quella che chiamano debolezza o robustezza fisiologica ? Che anzi, se la parola patologica equivale a morbosa, o almeno relativa alla malattia, come non meriterà il nome di patologica quella debolezza e spossatezza, che accompagna i mali infiammatorii, quando specialmente il processo flogistico affligge ed abbatte il sistema nervoso? Non è questa spossatezza effetto della stessa malattia? Non sono frequentissimi, e confessati da tutti, i casi, in cui tutto il corpo è ridotto alla maggior possibile estenuazione, e magrezza, e pallore, e concidenza, e tuttavia una parte affetta d' infiammazione vegeta più rigogliosa e rubiconda che mai, appunto perchè, quasi tagliata fuori dall' unità dell' animale, ha preso a fare a parte da sè sola certe funzioni della vita? (1). Ora, se debolezza patologica indica debolezza morbosa , quale debolezza più morbosa di quella che giunge a svigorire e sottigliare il corpo fino alla morte? Ma non si deve badare a questa debolezza nella scelta della cura. - Ritorno a dire, essere innegabile l' importanza di combattere il processo infiammatorio, minacciante dissoluzione e rovina; essere certo che a ciò conferisce il diminuire le forze al nemico; ma dovendo riconoscersi nel processo infiammatorio debolezza e robustezza contemporanee, e queste relative e non assolute, non si può decidere tutto a priori che non vi sia nessun' altra via conducente a ristabilire l' equilibrio fra la debolezza relativamente soverchia, poniamo delle vene, e la robustezza pure relativamente soverchia, delle arterie. Ad ogni modo riesce del tutto falso anche nel sistema moderno, di cui parliamo, che nello stesso tempo che si fa uso d' un metodo antiflogistico, non si debba almeno colla coda dell' occhio riguardare allo stato di debolezza universale del corpo. Nè il Rasori, nè il Tommasini spingono le cose a tanto eccesso. Nello stesso tempo che essi predicano il metodo antiflogistico, riconoscono che non è [...OMISSIS...] . Laonde, benchè classifichino anche la febbre nervosa continua fra le malattie infiammatorie, tuttavia riconoscono che conviene andar moderati assai nell' uso dei controstimolanti. [...OMISSIS...] Il che dimostra a sufficienza: Che non si può perdere di vista dal medico intieramente e in ogni caso la debolezza universale del corpo, e che perciò anche questa deve poter chiamarsi patologica , se per patologica s' intende quella, che deve dirigere il medico ad applicare i rimedi. Che se si vuol cogliere il concetto intimo direttivo della nuova medicina si troverà che questa non ammette un nemico solo nel corpo ammalato, cioè o solo debolezza, o solo robustezza (benchè sembra talora che l' insegni espressamente); ma vuole che si vinca dei due nemici il più forte o minaccioso; e questo è l' infiammazione il più delle volte; perciò in questa si vuol portata l' attenzione di preferenza. Che se poi l' addebilitamento universale divenisse minaccioso anch' esso egualmente o più, a questo pure si deve riguardare. Finalmente che le parole debolezza, robustezza , ecc., appartengono alla medicina analitica , e se ne può abusare facilissimamente, o usarle senza alcun vero profitto dell' arte; le parole all' incontro infiammazione, flogosi, rimedii antiflogistici , ecc., appartengono alla medicina sintetica , e l' uso di esse è sicuro e necessario; perocchè queste parole non ambiscono di descrivere le cause interne del morbo, o di ridurre il morbo ad una sola e semplice causa; ma si contentano di appellare il morbo quale si può conoscere dai suoi fenomeni, e i rimedi pure, quali appariscono dai loro effetti corrispettivamente ai mali così conosciuti e descritti. Da tutto ciò si deve conchiudere che anche la regola a juvantibus et laedentibus è eccellente, quando si usa a cavarne le induzioni proprie della medicina sintetica ; ma riesce difficilissimo, per non dire impossibile, il cavare da essa con sicurezza quelle induzioni, di cui va in cerca la medicina analitica . E noi potremmo istituire una simigliante critica sopra altre regole mediche celebratissime, e dimostrare in simil guisa quanto difficilmente esse si possano adoperare a costituire la medicina analitica . Ma stimiamo meglio venir dimostrando da un altro lato la stessa difficoltà di cavare con sicura logica quelle induzioni , a cui la medicina analitica aspira, non mai per iscoraggiare i cultori di questa, ma per cautelarli contro al rischio di deviare nei loro ragionamenti dal logico rigore, e così nulla ritrarne fuor che errori ed equivoci. Vi è un sillogismo della medicina sintetica , e vi è un sillogismo della medicina analitica . Il sillogismo della medicina sintetica è questo: I fenomeni (soggettivi ed extrasoggettivi), che noi conosciamo di questo morbo, sono tali e tali. Ma in uno stato di fenomeni eguali giovò il tal metodo curativo, e nocque il tal altro. Dunque è d' attenersi a quel metodo, evitando questo. Il sillogismo della medicina analitica è questo: Le cause interne e formali costituenti il presente morbo sono queste e queste. Il tal metodo curativo diminuisce o distrugge queste cause. Dunque il tal metodo è opportuno alla cura del presente morbo. Diciamo che in questo sillogismo della medicina analitica ogni proposizione è più difficile ad accertarsi, che la proposizione corrispondente del sillogismo della medicina sintetica. La prima proposizione del sillogismo della medicina sintetica non è che l' osservazione dei fenomeni. La prima proposizione del sillogismo della medicina analitica è già ella stessa un' illazione logica da fenomeni, che si suppongono precedentemente rilevati e raccolti; chè le cause interne e formali della malattia non si possono indurre che raziocinando dai fenomeni, sola cosa che conosciamo direttamente per via di percezione. Ora, dedurre col raziocinio le cause interne e formali del morbo dai fenomeni che esso presenta all' osservazione, è già questo solo un lavoro d' immensa difficoltà ed incertezza, evitato dalla medicina sintetica; e la difficoltà in gran parte, di cui abbiamo parlato, nasce principalmente dalla complicatezza del corso zoetico, di cui prima di tutto converrebbe conoscere a pieno la teoria; e poscia dedurne le deviazioni anormali e i loro caratteri, e finalmente poterne rilevare la realizzazione nel fatto concreto dell' ammalato che si cura. La seconda proposizione del sillogismo della medicina sintetica risulta ancora da accurate osservazioni. La seconda proposizione del sillogismo della medicina analitica è una illazione, di nuovo cavata coll' opera del raziocinio dalle osservazioni precedentemente supposte. Anche qui tutta la fatica del raccogliere, accertare e classificare le osservazioni è comune alle due forme di medicina; ma all' analitica soprastà oltre a ciò un fardello infinitamente più pesante, quello di determinare l' azione dei rimedi non già in relazione immediata al morbo, ma in relazione alle cause interne e formali di esso; di determinare il metodo curativo, non già notando se con esso un infermo si approssima allo stato di sanità o più se ne allontana, ma se l' azione interna di esso metodo restituisca le cause supposte della sanità, e tolga le morbose, o faccia il contrario. Qui giace una difficoltà smisurata, che in un Trattato dell' esperienza in medicina dovrebbe svolgersi minutamente e positivamente in tutte le sue parti, e che noi non possiamo considerare, a piccol saggio di ciò che brameremmo fatto da altri, se non da qualche lato parziale. Diciamo, adunque, che ogni effetto che s' ottenga nel corpo umano non si deve considerare come un prodotto di un solo agente, ma concorrono a produrlo sempre due cause, l' agente e il reagente . L' azione qui s' accompagna di continuo colla reazione , e lo stato del corpo, che ne consegue, non è che il risultamento di questa azione e reazione concomitante. Ora se l' azione è correlativa all' attività dell' agente, la reazione è correlativa all' attività (1) del paziente. Quindi il vero effetto d' uno stesso agente varia e talora riesce opposto, qualora lo stato del reagente cangi, e pigli un' attitudine opposta. Di che consegue che non si può predire il vero effetto, che porterà un rimedio applicato al corpo umano, volendolo dedurre dalle cause, se non si conosce a pieno lo stato del corpo umano, a cui si applica; il qual corpo umano è appunto nel caso nostro l' ente che deve reagire. Questo principio innegabile è conosciuto ed ammesso. Se non che, quegli stessi che ne riconobbero l' importanza massima che egli ha in sè stesso, non ebbero poi sempre la logica necessaria da saper procedere con lentezza bastevole nelle deduzioni che vollero cavarne. Chi lo conobbe meglio, a ragion d' esempio, dell' illustre Rasori, che tanto illustrò il fatto della capacità morbosa , fino quasi ad elevarla al grado di suprema regola in medicina? Ma è ben altro conoscere un vero nella sua vuota generalità, e altro saperlo ravvisare in atto, in concreto. Non si abbandonò egli forse di soverchio alla fiducia di conoscere senza molta difficoltà lo stato intero e l' etiologia dei morbi, contentandosi di due semplici parole, quali sono in fine quelle di soverchio stimolo e difetto di stimolo? Chi diede più importanza allo stesso principio di Hahnemann, che si consigliò di voler conoscere prima di tutto l' effetto dei rimedi sul corpo sano? Ma con qual precipizio non ne tirò poi la conseguenza generale, che l' agente nel corpo ammalato avrebbe prodotto sempre l' effetto appunto contrario, fondando, sopra un' illazione sì avventurata, impossibile a provarsi per la sua stessa vastità ed ambiguità, tutta quanta la medicina? Ciò che non si conobbe adunque da questi medici si fu la somma difficoltà di cavare delle illazioni logiche da quel principio. E veramente, chi pretende di valutare l' effetto dei rimedi amministrati al malato, calcolando lo stato del corpo reagente e l' efficacia del rimedio agente, in prima si presenta la difficoltà di conoscere appunto lo stato del corpo che deve reagire; e qui tornano in campo la complicazione e le leggi arcane del corso zoetico, e delle molle e forze ad ogni ora mutabili, che lo producono. Di poi viene la difficoltà di conoscere l' agente e la sua efficacia, la quale è certo costante per sè sola, ma non per questo è meno difficile a rilevarsi in correlazione all' effetto. Ecco alcune circostanze delle molte, che dovrebbero essere discusse nel Trattato dell' esperienza . Quando l' agente è complesso, cioè risultante da più elementi e forze diverse, e così pure quando il reagente è complesso, risultante anch' esso da più elementi suscettibili di passioni e reazioni diverse, allora diviene cosa difficilissima, e spesso fallacissima presagirne il vero effetto; il quale può accadere contrario, nonchè diverso da quel che si presagisce, o da quel che indicherebbe il solo agente per sè considerato. Esempi. - Complessità del reagente. - Il freddo abbassa il fluido contenuto nel termometro. Eppure attuffandosi il termometro nell' acqua fredda, al primo istante s' innalza il detto fluido, e tuffandosi nell' acqua bollente si abbassa. Onde questo contrario effetto difficile a prevedersi, se l' esperienza non lo dimostrasse? Di qui certamente, che il paziente e reagente, cioè il termometro contenente il liquore, non è semplice, ma composto di due parti, che sono: 1 il tubo; 2 il liquore. Ora avviene che allargandosi il tubo, debba discendere il liquore, restringendosi il tubo, debba salire. L' azione dunque del freddo e del caldo nel primo istante si comunica al tubo, e non penetra al liquore se non dopo qualche momento. Indi il fenomeno che dicevamo. Si noti la specie d' opposizione, che somiglia a un antagonismo senza esserlo, fra il tubo e il liquore contenuto nel tubo; scaldandosi l' uno e l' altro, il tubo allargandosi fa scendere il liquore, e il liquore in pari tempo diradandosi vuole ascendere. Dei due effetti contrari, quello che prevale suol pigliarsi per l' effetto dell' agente, e pure non è; anzi è solo la differenza fra due effetti opposti, prodotti dallo stesso agente. Il fuoco dilata; e perchè dunque restringe una palla di molle creta? Perchè la palla di creta è composta d' argilla e d' acqua; dilatando l' acqua in vapore, lascia restringersi fra loro le parti argillose, che non hanno più impedimento ad attrarsi. Complessità dell' agente. - L' agente è complesso, se risulta da sostanze di proprietà diverse, e quindi può dare un effetto inaspettato. L' agente può essere semplice quanto alla natura della sostanza, ma la stessa sostanza può agire con forze diverse. A chi domandasse quale sia l' azione dell' aria sul fuoco, che converrebbe rispondere? E` evidente che l' aria sul fuoco produce effetti contrari, secondochè opera con forze chimiche oppure con forze meccaniche . Se opera con forze chimiche lo alimenta, somministrandogli idrogeno e ossigeno; all' incontro se opera con forze meccaniche, siccome accade in una impetuosa colonna d' aria, lo spegne. S' ingannerebbe dunque colui, che considerasse nell' aria una sola di queste due maniere di forze, e decidesse che l' aria fa sempre sul fuoco il medesimo effetto. Il freddo restringe i corpi, sottraendo loro il calorico, che tiene le loro molecole ad una certa distanza. Or bene, l' acqua che si va restringendo a mano a mano che cresce il grado del freddo, tutto ad un tratto si dilata nell' atto del congelarsi. Lo stesso accade al zolfo, al ferro, ad altri metalli, che si dilatano, passando dallo stato di liquido a quello di solido per raffreddamento. Ora: 1 quasi tutto ciò che il medico adopera per influire sul corpo umano è complesso, sì per la pluralità delle sostanze, di cui è composto, sì per la diversità delle forze meccaniche e chimiche, colle quali agisce; 2 molto più lo stesso corpo umano vivente, che è quello che deve reagire, è oltremodo complesso, non solo per le varie sostanze di cui si compone, ma per le proprietà e forze meccaniche, fisiche, chimiche e vitali, che in esso agiscono simultaneamente e spesso in un senso opposto, e non solo con diversità di effetto, ma fin anche con vero antagonismo. Il Trattato dell' esperienza , da noi desiderato, dovrebbe discendere al particolare, e mettere in aperto tutte le diverse classi d' illusioni, in cui si può dare in conseguenza della molteplicità di sostanza e di forza degli agenti (rimedi, metodo curativo) e del reagente (corpo umano). E questo non basta ancora; dato pure che fosse semplice la sostanza e la forza, sì dell' agente che del reagente, se ne può avere tuttavia ora un effetto, ora un altro diverso, ed ora uno del tutto opposto solo che cangino le circostanze, gli accidenti, nei quali l' agente ed il reagente si trovano. Un cenno anche di ciò. Forze vitali. - Queste producono un effetto diverso, come vedemmo, secondo la condizione della materia in cui agiscono, dell' organizzazione, ecc.. Producono un effetto diverso, secondo che la loro azione si considera come modificatrice piuttosto delle forze meccaniche che delle chimiche, ecc., o viceversa. Producono un effetto diverso, secondo che la loro spontaneità è più o meno suscitata, più o meno disposta ad operare. Forze chimiche. - Ogni sostanza chimica agisce in modo diverso, secondo che deve agire in un' altra sostanza, colla quale ha una data affinità o ripugnanza. Agisce in modo diverso, secondo la proporzione delle due o più sostanze che si mescolano insieme; secondo il modo col quale si mescolano, il tempo, la vicinanza, le forme, e secondo tutti quegli accidenti, che i chimici notano con diligenza. Agisce in modo diverso, secondo che è sostanza elementare, o sostanza composta di più elementi, la sostanziale unione dei quali dà ad esse novelle proprietà. Forze meccaniche. - Il tempo, la celerità, le leggi della comunicazione del moto, la forma, il contrasto delle forze, ecc., sono circostanze che producono effetti opposti e contrari. Un po' d' aria apre un uscio; una palla da fucile lo fora senza aprirlo. La forza è maggiore nella palla, eppure non produce l' effetto dell' aria, perchè la celerità della palla è tanta che non lascia tempo al movimento da comunicarsi a tutto l' uscio; ma, prima che nasca la comunicazione, produce l' effetto di staccare quel pezzuolo ch' ella preme con tanto impeto, dalla coesione che lo tiene unito col rimanente della tavola. Dovrebbero in una parola enumerarsi tutti gli elementi, che possono mutare l' effetto degli esperimenti, e anche renderlo contrario; cavando in fine per corollario la soluzione ben determinata dei seguenti problemi: « Quali illazioni logiche si possono cavare, con rigorosa certezza, da un effetto ottenuto da un esperimento, e quali non si possano ». « Quanto di probabilità può avere un' illazione, che si può cavare dall' effetto d' un esperimento, quando non può aversi la certezza ». La medicina sintetica dunque è soccorsa da quelle regole medie complesse, che vedemmo costituire la mirabile sagacità degli uomini prudenti quelle regole, che accorciano il cammino alla soluzione dei più ardui e complicati problemi. E questa è anche la via tenuta dai più celebri medici di tutti i tempi, da quelli che al letto dell' ammalato mostrarono sagacità e sicurezza in debellare i morbi. L' abbandonare queste regole complessive, per applicarsi ad analizzare gli elementi primitivi costituenti le cause dei morbi e della loro cura, diede spesso all' arte medica il tracollo, e crudelissimi patimenti e morti alla sofferente umanità. Ma se attenendosi a quelle regole, senza mai abbandonarle, si verrà di mano in mano discendendo a più particolari cognizioni, l' andamento sarà sicuro, e il progresso lodevole. Così la medicina sintetica , che non deve essere abbandonata mai, discenderà cautamente ad illazioni analitiche; l' unica maniera possibile di raggiungere e conciliare insieme l' una e l' altra medicina. Per quanto io credo, la medicina analitica non può aspirare ad essere sola, ella deve nascere dalla sintetica; sarà il difficile, il laborioso, e il non mai compiuto parto di questa. Tale è il destino dell' arte salutare. Torniamo al nostro assunto, dal quale ci allontanò una digressione, che non ci pentiamo d' avere intromessa, come quella che ci spiana il resto del cammino nell' argomento che trattavamo. Noi volevamo dimostrare l' incredibile varietà e molteplicità delle vie, per le quali scorre il corso zoetico, e la sua estrema mobilità alle cagioni anche minime, che lo fanno deviare dalla sua direzione. A tal uopo noi abbiamo esposte le varietà primitive del sentimento fondamentale di continuità, e dell' istinto vitale che lo produce, le varietà degli stimoli primitivi e naturali, e delle sensioni che ne sorgono, e del medesimo istinto vitale, che mette in essere il sentimento fondamentale d' eccitazione, siccome pure la varietà della sensitività , cioè della facoltà che ha il sentimento fondamentale d' eccitazione di modificarsi sotto nuovi stimoli accidentali, e dar luogo a sensioni parziali, anch' esse accidentali. Le sensioni, che insorgono come conseguenza di stimoli primitivi dati dalla natura e non prodotti dall' istinto stesso animale, furono da noi dette primitive ; quelle poi che vengono prodotte in conseguenza di stimoli generati dall' azione dell' istinto, furono dette seconde . Di queste e delle loro varietà noi dobbiamo ancora parlare. A formarsi chiaro il concetto di queste sensioni seconde, e a vedere quanto esse influiscano sul corso zoetico, è uopo chiamare all' attenzione la dottrina della forza sintetica dell' animale, che noi abbiamo data nell' Antropologia . Appunto questa forza fa sì che le sensioni seconde, le quali succedono alle prime, suscitino nel corpo umano nuove attività e come nuove potenze, immutanti il corso zoetico, giacchè ogni associazione di sensioni figurate o non figurate, d' immagini, di sentimenti attivi o passivi (1), suscitati o risuscitati, intellettivi o corporei, producono nell' animalità un nuovo stato, nuove attività, nuovi movimenti. Le sensioni associate poi si fondono in quella che abbiamo chiamata affezione , e che è un sentimento universale medio fra le sensioni e le passioni . Infatti, come l' affezione è un effetto prodotto nella condizione sensuale di tutto l' animale dalle sensioni speciali contemporanee, così le passioni sono un effetto di quell' affezione, onde prende la spinta a muoverle l' istinto sensuale. L' istinto sensuale mosso dall' affezione determina le passioni animali, sempre e poi sempre secondo quella legge, che « il sentimento prende l' atteggiamento, che gli è più comodo e naturale ». Se nella tristezza vedesi l' istinto sensuale abbandonato all' inattività, egli prende questo modo, perchè a fare il contrario gli costa troppo; se nella gioia egli è tutto attivo, è perchè gli accomoda meglio quest' attività. Talora gli è meno gravoso il patire in quiete, e allora s' adagia in essa, come in un modo di essere a lui più comodo ed opportuno. S' adagia talora in uno stato di quiete, per ricevere più a pieno la gradita sensazione. Talora è irrequieto e attivo, per cercarla o cercarne l' occasione. L' ira è attiva; l' istinto sensuale nell' ira gode di quell' atteggiamento, che consiste in quell' attività veemente, bellicosa, che sorge quando un' altra attività precedente incontrò un ostacolo a pienamente spiegarsi e soddisfarsi. Ma l' ira, come qualunque altra passione, se diviene eccessiva, è uno stimolo troppo forte, e allora fa l' effetto degli stimoli eccessivi, istupidisce. Il qual fatto prova appunto che le sensioni hanno natura di stimoli, e che è il principio sensitivo quello che determina la legge degli stimoli, non è lo stimolo materialmente preso, giacchè gli stimoli materiali e gli stimoli spirituali, come sono le passioni, ubbidiscono alla stessa legge d' istupidire, se oltrepassano un certo grado di forza. La forza dell' abitudine , a cui soggiace l' istinto sensuale ed anche il vitale, in quanto produce il sentimento fondamentale d' eccitazione e le prime sensioni, ha un' influenza immensa sulla condizione sanitaria del corpo. Perchè avviene, a ragion d' esempio, che gli abitatori delle montagne, o dei luoghi ove l' aria è asciutta ed ossigenata, paghino il tributo all' aria più o meno stimolante di altre regioni, ove sono paludi, risaie o altre cause di miasmi, o anche semplicemente all' aria umida e più grossa, e che in appresso, dopo essere soggiaciuti a febbri, infiammazioni, ecc., vengano assuefacendosi alla nuova atmosfera? E` troppo manifesto che ciò procede dall' abitudine, e pare che la cosa possa seguire a questo modo. L' abitudine dell' istinto animale può diminuire od accrescere l' effetto degli stimoli esteriori, secondochè egli sottrae ad essi od aumenta la propria cooperazione, e più o meno cospira con essi alla produzione dei movimenti e delle sensioni provocate. L' istinto animale è dunque quell' arbitro, quel regolatore, che equilibra od accorda la tensione e l' attività della fibra nervosa cogli stimoli maggiori o minori dell' atmosfera, nel modo il più vantaggioso. Ma quando questo equilibrio ed accordo è già una volta bene stabilito in armonia d' una data atmosfera, e la fibra nervosa s' è mantenuta lungamente in quella tempera e grado e metro d' attività, che ben conveniva alla quantità e qualità degli stimoli, che porgeva alla cute un dato clima; allora quel dato grado e quella data tensione della fibra si conservano, e continuano abitualmente per qualche tempo anche sotto il nuovo clima; e quindi avvengono le malattie. Poichè se l' atmosfera, in cui prima l' animale si ritrovava, era poco stimolante, la vitalità suppliva ella stessa colla sua azione al poco eccitamento esteriore; ma questa azione diviene soverchia in un' altra atmosfera assai stimolante, e l' effetto eccessivo si manifesta coll' infiammazione. Di più, quando il corpo umano ebbe presa l' abitudine di vivere soggiacendo a pochi stimoli, tutto il corso zoetico nelle sue sensioni e nei suoi movimenti si conforma convenientemente con armonia di moti e di funzioni. Ma se gli stimoli esteriori vengono subitamente accresciuti o diminuiti, il cangiamento non può succedere ad un tempo in tutti i moti e le funzioni, che costituiscono il corso zoetico; ma dapprima in quella parte, a cui gli stimoli sono applicati, e, parlandosi di atmosfera, alla pelle, al polmone, al sangue; onde a principio deve succedere uno squilibrio fra l' attività, in cui si mettono certe parti del corpo, e quella di certe altre, che non risentono immediatamente l' azione dei nuovi stimoli; e un tale squilibrio di attività fra parti e parti, fra vasi e vasi, fra porzioni di vasi ed altre porzioni, sono cause, come già vedemmo, di malattie, di quasi tutte le malattie. Con un ragionamento simile si può spiegare la nostalgia, in quanto ha di fisico, le malattie, a cui soggiace il corpo per le mutazioni atmosferiche anche nello stesso clima, ecc.. E quindi converrebbe classificare diligentemente gli stimoli, e investigare se e quando, mutandosi le condizioni dell' atmosfera, o accadendo altri accidenti, una classe di stimoli esterni venga ad accrescersi, un' altra a diminuirsi; il che di nuovo potrebbe recare squilibrio e sconcerto, e spiegare la diversità dei morbi che si manifestano. Gli stimoli accrescono l' attività nell' animale, ma alcune volte in pari tempo la perturbano. Questo ci richiama a parlare delle diverse maniere di debolezza e di robustezza, che nell' animale si manifestano, e a cercare se la debolezza e la robustezza patologica può tenersi come ben fondata. Vi è primieramente una debolezza nell' istinto vitale, ed un' altra nell' istinto sensuale. Consideriamo la debolezza nell' istinto vitale, prescindendo, per un poco, dall' influenza che può esercitare su di lui l' istinto sensuale. Due sono gli effetti primitivi dell' istinto vitale: 1 produce il sentimento fondamentale di continuità, rispetto al quale egli viene indebolito dall' opposizione della materia o forza straniera; 2 produce le sensioni, quelle che costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione, ed anche le accidentali, che sono provocate da stimoli esterni accidentali; e in quanto a questo effetto vien egli indebolito dalla scarsezza e inopportunità degli stimoli. L' istinto vitale, mettendo in atto il sentimento fondamentale, specialmente quello d' eccitazione, dà luogo altresì alla sequela di alcuni fenomeni extrasoggettivi, come sarebbe del tono della fibra viva, la tensione dei nervi ed incessanti movimenti intestini. La debolezza di lui si manifesta anche nella scarsezza di tali fenomeni. Diamone alcune prove di fatto. Legandosi i vasi, e impedendosi che il sangue rosso inaffii qualche parte del corpo, questa diventa floscia, insensata, si paralizza. La legatura dei nervi reca effetti somiglianti. E poichè tali effetti si diffondono secondo la sfera d' azione dell' attività vitale, che è diversa dall' organizzazione materiale ed extrasoggettiva, quindi si hanno gli effetti simpatici in parti prive di una prossima connessione organica col nervo legato. Molinelli e Brunn, avendo legati i nervi pneumogastrici di alcuni cani, n' ebbero per effetto la dilatazione della membrana pupillare, l' occhio divenuto secco e torbido, diminuito di volume, l' iride abbrunita, la figura della pupilla alterata. E` dunque evidente che l' attività dell' istinto vitale, avvivando il corpo, obbliga le sue particelle extrasoggettive a comporsi in un dato modo, a prendere e tenere una data proporzione reciproca, a certe azioni e moti intestini, i quali sono tutti effetti extrasoggettivi. Non si dimentichi che la descritta debolezza del principio vitale nel produrre i due effetti indicati, e la lotta che per ciò deve talora sostenere, suppone un animale già esistente; di che nasce la conseguenza che la disposizione imperfetta della materia e l' inopportunità degli stimoli non può essere mai universale, ma deve sempre appartenere a qualche località determinata, o che questa abbracci un luogo solo o più, sia più o meno estesa. La ragione di che si è che il principio animale non esisterebbe come individuo agente, se non avesse almeno qualche parte di materia in suo pieno dominio, e alcuni stimoli opportuni, che dessero luogo al sentimento fondamentale d' eccitazione necessario all' esistenza dell' animale. Ora poi s' aggiunga anche la considerazione dell' influenza, che sostiene l' istinto vitale dall' istinto sensuale e dal principio intellettivo. Può benissimo essere indebolito da quella influenza, ma l' effetto di tale influenza si manifesta anch' esso con un cert' ordine, relativo alle diverse parti del corpo, e per conseguente non è senza qualche località, secondo l' organo della passione animale che fu suscitata. A ragion d' esempio, l' ira, la vendetta, e tutte le passioni che partecipano della tristezza, affezionano di preferenza il fegato; l' itterizia è spesso cagionata da cause morali. Se la passione ha un' origine intellettiva, il primo organo interessato deve essere l' organo dell' immaginazione, il cervello; ma le immagini che trascinano il pensiero, ed il sentimento intellettuale che ad esse si attiene, operano sul principio animale, e questo poi, come istinto sensuale, provoca, accresce, diminuisce, altera l' azione del fegato (1). La debolezza dell' istinto vitale, che procede dalla sua relazione colla materia, nasce anche qualora il corpo perda insensibilmente delle molecole, come per traspirazione, ecc., senza che vengano ripristinate per altre vie naturali, come per alimento, ecc.. Allora il sentimento di continuità va scemando, ma non succede turbazione, ma solo diminuzione del sentimento di continuità e d' eccitamento; e lo stato di debolezza conseguente non si può dire morboso fino a che, oltrepassando un certo grado, non muti di condizione, o almeno non si può dire debolezza diatesica , giacchè non produce processi morbosi indipendenti. Che se la perdita naturale di molecole vive continua senza riparazione, va scemando l' attività dell' istinto vitale, e quindi si rallentano tutte le funzioni. Quando poi questo rallentamento è giunto a un certo grado, la scarsa materia, di cui il vivo è composto, riducesi a tale che non è più dominata sufficientemente dall' istinto vitale, e quindi le forze materiali entrano con esso in lotta, incominciando tosto lo stato morboso o diatesico, che in questa lotta consiste. Ma se dal corpo vivente si stacca una parte in modo non naturale, ma violento, conviene distinguere due effetti di questa separazione: quello che nasce nel sentimento di continuità, il quale si discontinua e resta diminuito delle parti staccate, il che non è ancora condizione morbosa; e quello che nasce nel sentimento d' eccitamento, cioè il dolore e i successivi processi e movimenti intestini, e questa è condizione morbosa. Se la ferita non divide dal corpo alcuna parte, non vi è diminuzione di parti (prescindendo dalla perdita del sangue, ecc.), ma solo eccitamento e processo conseguente, che finisce o col rammarginamento, o in altro modo. Il dolore, cagionato dalla ferita, procede da due cagioni: 1 dall' inegualità del taglio, il quale non recide la parte così di netto che non lasci alcune particelle nè appieno divise, nè appieno unite, sicchè l' istinto vitale combatte con esse per rattenerle, mentre esse hanno perduta quella conveniente posizione e conformazione, che è necessaria al pieno dominio della vita; 2 dal perdere che fa l' organizzazione di quella perfetta configurazione, che rispondeva all' atteggiamento preso prima dal sentimento; onde questo si trova costretto ad atteggiarsi diversamente, e si sforza di farlo; dal che dipende la tendenza che dimostra a rammarginare la ferita, se gli vien fatto di configurare l' organismo al suo bisogno, o di disciogliersi e abbandonare quell' organismo, se non gli vien fatto. E il dolore prodotto da queste cagioni, e anche il solo sforzo che fa il sentimento all' uno di questi due intenti, è la causa del processo morboso, che finisce o colla sanità o colla morte. Una lotta si manifesta altresì, ogni qual volta qualche agente straniero giunga a sottrarre qualche porzione della materia vivente dal pieno dominio della vita, senza però che ella resti del tutto spoglia di vita. Determinato così il concetto dello stato morboso, noi possiamo distinguere tre maniere di robustezza e di debolezza, la fisiologica e la patologica , che si suddivide in patologica semplice e in diatesica . Le quali denominazioni non pretendiamo che sieno le più proprie ed acconcie, e potranno benissimo essere mutate in altre migliori dai dotti; ma ci si permetta di adoperarle intanto a significare, comecchessia, i nostri concetti. Chiameremo, dunque, robustezza o debolezza fisiologica quella del principio della vita nell' esercizio della sua dominazione sulla materia, quando questa dominazione è perfetta, pacifica, senza irritazione, senz' alcuna lotta. Il sentimento, in cui questa dominazione consiste, è per essenza piacevole. Chiameremo patologica quella robustezza o debolezza che manifesta il principio vitale, quando non domina pienamente, in modo da produrre il conveniente e soddisfacente piacere della vita d' eccitamento. Se manca qualche cosa all' integrità dell' organizzazione, come nello stato di fame e di estenuazione, vi è certamente uno stato che s' allontana dalla piena sanità; ma considerato questo stato da sè solo, benchè si possa dire, in qualche modo, patologico o morboso, non si può dire ancora diatesico, perchè non manifesta a chiari segni la lotta, ma solamente l' inazione dell' istinto vitale. Accordo che questa inazione trarrà dietro a sè una lotta, almeno se giunge a certo grado, come fu detto innanzi, ma resta sempre separato il concetto della lotta , a cui appartiene lo stato diatesico, dal concetto della semplice inazione . Sicchè quando queste due cose si trovano insieme, meritano ancora d' essere l' una dall' altra colla mente distinte. Come dunque definiremo e descriveremo quella robustezza e quella debolezza patologica, che diciamo diatesica? Noi la ravvisiamo in una robustezza o debolezza bellicosa, che dimostra nei suoi atti il principio della vita. Perocchè nella lotta indicata, il principio della vita, ora combatte con forza ed impeto, ora debolmente più che non gli sarebbe mestieri. Il che richiede qualche dichiarazione. Primieramente noi crediamo doversi distinguere la causa efficiente prossima della malattia dall' essenza di essa. Riconosciamo che la causa efficiente della malattia possa consistere talora in un' azione troppo veemente, talora in un' azione troppo allentata del principio vitale. Dico azione veemente e azione allentata piuttosto di dire robustezza o debolezza , poichè queste ultime parole meglio si applicano a significare uno stato che non sia un atto; e la causa prossima efficiente della malattia, in quanto appartiene al principio vitale, non può essere che un atto che produce poi, insieme ad altre cause, lo stato morboso. A ragion d' esempio, la gioia improvvisa d' un lieto avvenimento può aumentare momentaneamente l' azione del principio vitale, a segno da spingere il sangue con impeto maggiore di quello che possano sostenere le pareti dei vasi, e far succedere un' apoplessia. La tristezza può cagionare la morte in un modo opposto, diminuendo al principio vitale talmente la sua azione da rallentare la circolazione, e così, accumulandosi il sangue nei grossi vasi, illanguidire siffattamente tutte le funzioni vitali, sino a venirne la morte quasi spontanea, «abiastos». Ma questa esaltazione o questa depressione di forza, con cui agisce il principio vitale, non è la malattia, benchè ne sia la prossima causa efficiente; distinzione, che si deve fare accuratamente, se si brama giungere ad una teoria chiara dei morbi. La semplice diminuzione o il semplice aumento di forza nell' azione del principio vitale non costituisce dunque la malattia, ma può esserne la causa; e lo è di fatto, ogni qualvolta quell' azione diminuita o quell' azione accresciuta rechi qualche alterazione nell' organismo, o nella materia organata e vivente; per la quale alterazione il principio vitale sia contrariato nel pieno suo dominio sulla materia vivente, sicchè questa tenda a sottrarsi da lui, e così incominci la lotta che dicevamo. Secondo questo concetto della malattia è uopo conchiudere che in tutte le malattie, niuna eccettuata, v' è una debolezza, la quale è il fondo della malattia stessa; e questa debolezza fondamentale consiste nel dominio diminuito del principio vitale sulla materia. Laonde se talora il principio vitale, durante lo stato di malattia, fa sfoggio di forze straordinarie, non si deve conchiuderne che egli sia più forte, ma solo che egli sia più irritato, se ci si concede di così parlare, a quel modo appunto che un principe, il quale tiene in così perfetta soggezione i suoi sudditi che questi non possono muovergli alcuna ribellione, è più forte di quell' altro, a cui i sudditi ribellati dànno battaglia con dubbia sorte, benchè questo secondo spieghi maggiori forze militari, e faccia più prodezze del primo. La violenza dunque, con cui opera il principio vitale durante lo stato morboso, a vero dire, non è segno di robustezza, ma più veramente di debolezza, d' un impero pericolante. Onde, cessata la lotta, colla vittoria cessa altresì lo sfoggio delle forze bellicose, ed apparisce la debolezza nel principio vincitore; ed è perciò che tutti i convalescenti sono deboli; manifesta prova, per quello che pare a noi, che il principio vitale in istato di malattia è sempre più debole che in istato di sanità, benchè non paia, perchè in guerra; siccome accade anche che un uomo debole, se una grande ira lo coglie, spiega più forza d' un altro veramente forte, tranquillo e quieto. Vi è dunque in qualsivoglia malattia debolezza e forza. Vi è una debolezza fondamentale, relativa alle forze materiali insorgenti contro al dominio della vita. Vi è una forza bellicosa, che il principio della vita trae in palese, affine di conservare il suo impero minacciato, e riacquistarne la pienezza. Questa forza bellicosa è quella che trasse principalmente l' attenzione delle moderne scuole di medicina, e che produsse le dottrine dello stimolo e del controstimolo. Facciamovi sopra qualche osservazione. L' azione dell' istinto animale non esce dalla sfera del sentimento ma i diversi suoi atteggiamenti tirano dietro a sè i movimenti extrasoggettivi. Questi movimenti nella materia influiscono a provocare nuove azioni e nuovi atteggiamenti del sentimento medesimo, perchè la stessa materia, che da una parte è fuori del sentimento, dall' altra è animata e sentita. Di qui deducevamo che l' azione del sentimento, e restringendo il nostro discorso, l' azione bellicosa del sentimento può produrre nella materia organata modificazioni salutari o perniciose; e benchè il sentimento nel suo operare sia cieco rispetto all' utilità o al danno di questi effetti extrasoggettivi, influenti poi nella condizione soggettiva, tuttavia la Provvidenza ebbe prestabilita un' ammirabile armonia, per la quale spesso, se non sempre, i movimenti prodotti dovessero riuscire utili all' animale. A ragion d' esempio, la parte infiammata, dolente, o estremamente sensibile ricusa qualunque stimolo; ora l' istinto sensuale produce quei movimenti che può e l' organismo gli consente, per ricacciare ogni materia toccante la parte ammalata, o altra con quella legata. Nell' encefalite, nell' idro7encefalite, nelle apoplessie, ecc., i vomiti sono frequenti; i nervi dello stomaco ricusano gli stimoli, ecc.. L' istinto sensuale non cerca che a sottrarsi dall' ingrata e dolorosa sensazione, o dalla fatica molesta ai nervi, che dolenti vogliono riposo; ma è provvidenziale, che i movimenti che fa a tal fine sieno così concertati dalla natura da addurre l' effetto, che la materia stimolante ed extrasoggettiva venga espulsa (1). Gli sforzi bellicosi, adunque, del principio vitale, benchè sempre tendano, come in loro fine immediato e soggettivo, a perfezionare lo stato del sentimento , tuttavia non sempre sono utili alla salute; chè questa dipende in gran parte dalla condizione della materia extrasoggettiva; e quegli sforzi, benchè abbiano sempre uno scopo salutare immediato entro il soggetto, traggono seco dei movimenti extrasoggettivi (costituenti in parte i processi morbosi), per quel misterioso vincolo che l' ordine soggettivo ha coll' ordine extrasoggettivo; i quali non sempre riducono a migliore stato e disposizione la materia organata, ma talora la sconcertano ed indispongono maggiormente; di che essa, vie più sconcertata e più indisposta, determina l' anormalità del corso zoetico, che si rende finalmente esiziale. Posto dunque che la malattia sia avvenuta mediante una irritazione , presa questa parola in un senso generale per indicare « un conato della materia a sottrarsi dal dominio della vita », qualunque sia la causa che abbia prodotto questo sconcerto, e posto che il principio vitale insorga per ristabilire il suo dominio, possono accadere tre accidenti: Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, unicamente perchè agisce troppo debolmente, sicchè col solo aggiungergli delle forze, riuscirebbe l' effetto (debolezza soverchia universale dell' azione bellicosa senza sproporzione). Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, perchè operando con troppo impeto, produce movimenti violenti nella materia, sconcerti extrasoggettivi, che deteriorano lo stato della materia rispetto alla vita, anzi la rendono più ritrosa a ricevere il dominio (robustezza soverchia universale dell' azione bellicosa senza sproporzione). Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, perchè opera con azione disuguale e sproporzionata, cioè in certi luoghi o parti del corpo soverchia, e in altri luoghi, relativamente, troppo debole (soverchia robustezza e soverchia debolezza contemporanea del principio bellicoso, parziale e locale). Questi tre accidenti a prima giunta si presentano al pensiero; ma i due primi sono essi veramente possibili? Non parmi; non credo almeno, come ho detto prima d' ora, che costituiscano una diatesi morbosa , benchè ne possano essere cagione. Infatti, dato che, per qualsivoglia causa, il principio vitale sia universalmente indebolito, se si astrae dagli effetti che questa debolezza può produrre, altro non si ravvisa che una vita poco attiva e non più; il che per sè non è condizione morbosa; e se questa debolezza e inattività è cagionata da una irritazione o condizione morbosa precedente, in questo caso la condizione morbosa non è la debolezza, ma precede a questa siccome causa, e va fornendo il suo corso, senz' avere a fronte chi fortemente glielo contrasti. Che se non si tratta di debolezza dell' azione bellicosa, ma di debolezza dell' azione vitale in generale, questa potrà essere cagione della malattia, senza essere la malattia, allorquando il rallentamento delle funzioni della vita cagioni qualche sconcerto, pienezza o congestione di umori, ecc. (1), e allorquando ebbero luogo solo questi effetti, incomincia lo stato morboso e la lotta; ma questi effetti sono tutti locali, e perciò appartengono al terzo degli annoverati accidenti. Lo stesso dicasi della robustezza universale dell' azione bellicosa. Per sè non è la malattia; ma se la veemenza dell' azione bellicosa, o anche la forte azione della vitalità universale eccitata, produce qualche sconcerto nella materia, come rottura di vasi, o altro, in tal caso la malattia incomincia con questi effetti, i quali sono locali e parziali. E si consideri che ogni irritazione, che determina l' azione bellicosa, è sempre locale. Ora dove si trova località, ivi è successione di azioni e di movimenti, che da una si estendono ad altre parti, secondo l' organizzazione della materia e l' atteggiamento del sentimento. Così se una ferita al cerebro determina un' epatite, è evidente che questo effetto succede al primo, ed è un male locale che succede ad un altro pure locale; e ciò in conseguenza dell' azione bellicosa del principio della vita, sollevata dalla prima irritazione locata nel cerebro. Quindi nella condizione morbosa la lotta non abbraccia mai egualmente e contemporaneamente tutte le parti del corpo, ma è determinata ad alcune, ed una succede all' altra; il che fa sì che in ogni condizione morbosa si verifica il terzo accidente, pel quale « il principio vitale opera con azione disuguale e sproporzionata, di modo che in certi luoghi del corpo è maggiore che in altri ». Ristretto in tal maniera il concetto della malattia, e distinta l' igiene, a cui appartiene di conservare e rinforzare la sanità, dall' arte di guarire, conviene porre l' occhio alla località, dove incomincia l' azione bellicosa, e a tutte le altre località alle quali ella estende i suoi effetti, considerando: Che l' azione bellicosa di sua natura affatica e spossa il principio vitale; e quindi spesso avviene che col diminuirla, lungi dal diminuire le forze dell' ammalato, anzi si conservano, come si conservano le forze di colui, a cui cessano le fatiche e gli sforzi. Che l' azione bellicosa, esaurendo le forze del principio vitale, produce il contrapposto di un' apparente robustezza in quelle parti dove l' azione bellicosa si spiega, e d' una manifesta debolezza ed estenuazione in tutte le altre. Così accade nelle infiammazioni locali, che dimagrano ed estenuano il corpo, mentre nella parte infiammata si osserva grande azione, che non è punto robustezza, ma azione bellicosa e sforzo eccedente. Che l' azione bellicosa, nascendo da una primitiva irritazione, o non genera ella stessa altre modificazioni irritatrici della materia, e in tal caso cessa ogniqualvolta si può far cessare l' irritazione primitiva (malattie d' irritazione); o genera nuove modificazioni irritatrici, e per restituire la sanità conviene modificare la stessa azione bellicosa (malattie di diatesi). Talora l' azione bellicosa locale produce modificazioni irritatrici della materia, perchè i movimenti suscitati nelle parti o particelle sono tali, che non possono essere dominati e regolati dalla forza del principio vitale; e in tal caso v' è eccedenza rispettiva d' azione bellicosa locale, unita a debolezza rispettiva di vitalità universale; e fu probabilmente questo caso che indusse i medici a stabilire quella classe di malattie, che essi chiamarono di diatesi stenica . Se l' azione bellicosa locale è più debole dell' irritazione che la cagiona, ella permette a questa di prevalere, e la materia mal disposta si sottrae sempre più al dominio della vita; fu probabilmente questo caso che indusse i medici a stabilire quella classe di malattie, che essi chiamarono di diatesi astenica . Certo è che qualora la vitalità è più robusta, è altresì maggiore l' azione bellicosa. Onde accade che ogniqualvolta si crede utile diminuire l' azione bellicosa locale, si ricorre a quegli espedienti che sembrano diminuire la forza della vitalità; e qualora si crede utile d' accrescere l' azione bellicosa, pare che s' ottenga coll' accrescere la forza del principio vitale. Ma non è dimostrato che sia questa l' unica via di diminuire e di accrescere l' azione bellicosa; non è dimostrato che l' unica via sia quella di diminuire o di accrescere la robustezza del principio vitale. Resta dunque a cercarsi: Se forse l' azione bellicosa, producente una diatesi stenica, non si possa ricondurre sulla retta via coll' apporre ai suoi guasti una resistenza, accrescendo la forza della vitalità universale. Ovvero, posto che coll' accrescere la forza di questa vitalità universale, si abbia uno scapito e un vantaggio, lo scapito d' accrescere la forza bellicosa che mena guasto, e il vantaggio d' accrescere il potere universale della macchina che resiste a quel guasto, resta a cercare se non si possa mai avverare che questo vantaggio prevalga a quello scapito, e nel caso che qualche volta si possa, quando e come si possa. Se l' azione bellicosa, producente una diatesi astenica, si possa emendare unicamente coll' accrescere la vitalità universale, o coll' eccitare localmente un' altra irritazione e sollevare una nuova forza bellicosa (1); e in questo caso quali sono le cagioni perchè l' azione bellicosa non risponda vivamente allo stimolo, e si sta come avvilita, determinando i rapporti di queste cagioni diverse coi rimedi. Le quali sono tutte ricerche appartenenti alla medicina analitica. Torniamo ora sui nostri passi. Noi abbiamo manifestata l' opinione che il fondo di ogni malattia si riduca ad una debolezza dell' istinto animale. Crediamo importante non abbandonare questo argomento senza aggiungervi qualche altra riflessione, riassumendo e annoverando con maggiore chiarezza le cause che debilitano il detto istinto, e gli tolgono o diminuiscono il dominio su quell' esteso materiale, in cui termina il sentimento che costituisce l' animale. Primieramente rammentiamo che l' istinto animale per sè è inesauribile; i suoi limiti nascono unicamente dall' esser egli condizionato al sentito, suo termine. Il sentito si può concepire crescente di estensione senza confini; non v' è ragione di negare che il principio senziente possa invadere anche tutto l' universo, qualora fosse data la continuità necessaria delle parti; anzi egli tende in effetto ad estendersi ed a continuarsi ogniqualvolta al continuo, suo termine, s' aggiunga qualche altra parte di materia. Di che, se un corpo straniero tende a dividere il corpo vivo, l' istinto fa resistenza. In secondo luogo l' istinto animale ha la tendenza all' eccitamento, anche questa illimitata. Laonde colla sua attività egli asseconda e promove tutti i movimenti che vengono iniziati nel continuo, secondo le leggi prestabilite, che abbiamo indicate. In terzo luogo l' istinto animale tende a individualizzarsi, che è la via d' innalzare sè stesso alla maggior possibile potenza, e d' avere eccitamenti più forti e perpetui. Fa questo la stessa tendenza all' eccitamento, combinata colle forme degli elementi e delle molecole materiali; chè se in un continuo composto di elementi di forme immutabili si suppone una virtù, che assecondi ogni moto che in essi nasce, ritenuto sempre dentro la loro continuità, deve necessariamente venirsi formando una organizzazione sempre più conveniente a far sì che vi sia maggiore quantità e frequenza di moto, e che questo si perpetui; il quale moto non può essere nè massimo, nè perpetuo, se non è armonico, cioè se i moti parziali non hanno unità (1). Il sentimento dunque si atteggia necessariamente ad unità, come il modo a lui più naturale e più soddisfacente. Se dunque si considera l' istinto animale in sè stesso, non si trova alcuna causa che spieghi la sua debolezza e il suo malo stato; per sè tende necessariamente al bene, ed è capace di tutto. Ma la causa si trova bensì nella sua condizione, e in certe forze a lui superiori, che esercitano sopra di lui un' influenza. La condizione dell' animale, cioè il termine corporeo, deve avere tre accidenti: continuità, eccitamento, organizzazione. La continuità può essere divisa, non tolta affatto, perchè il corpo è essenzialmente continuo. L' eccitamento può essere tolto affatto, e in tal caso l' istinto vitale non produce più che il sentimento di continuità, non può più manifestare alcuna di quelle forze, che compiscono le funzioni animali; così cessa l' animale per semplice debolezza ed estenuazione. Può essere disciolta l' organizzazione , e in tal caso di nuovo l' animale non è più, egli ha perduta la sua individualità (1). Ma se l' eccitazione o l' organizzazione non è tolta repentinamente da qualche forza maggiore, ma solo è minacciata da una forza straniera, allora l' istinto animale entra con essa nella lotta sopra descritta. Oltracciò, nell' uomo il principio senziente soggiace all' azione del principio intelligente, col quale pure può lottare, o certo riceverne forza maggiore o debolezza. Indi è che i tipi primitivi di tutti i mali, a cui può soggiacere l' animalità nell' uomo, si riducono a due: 1) debolezza semplice del principio senziente; 2) attentato all' armonia dell' eccitamento. In quest' ultimo caso accadono tre accidenti: L' istinto animale nella lotta è più debole, e allora si avvilisce; la disarmonia dell' eccitamento si effettua e diviene maggiore fino a dissiparsi, rompendosi l' unità e l' individualità, onde la morte. L' istinto è più forte, e giunge a dominare la forza nemica, o ad espellerla, onde la sanità. L' istinto, benchè più forte, produce nondimeno, colla sua azione violenta, nuovi sconcerti nell' extrasoggettivo, e si crea così da sè stesso un nemico, che diviene più forte di lui, una nuova malattia con cui lottare; e qui si rinnova uno dei tre indicati accidenti. Consistendo adunque tutti i mali dell' animalità in debolezza del principio senziente, e in disarmonia dell' eccitamento sensibile, diciamo qualche cosa sull' uno e sull' altro tipo. Le cagioni proprie della debolezza del principio senziente nell' uomo, che vengono tutte dai due principŒ stranieri, coi quali è connesso (l' intelligenza e la materia), si riducono alle seguenti: Quando l' intelligenza fa conoscere all' uomo la propria impotenza in confronto alla difficoltà d' uno scopo ardentemente desiderato, si manifesta una diminuzione di forza anche nel principio animale; e ciò perchè il principio intellettivo e sensitivo s' identificano nell' uomo, onde la debolezza dell' uno è partecipata dall' altro. Diminuzione di coscienza di proprie forze è diminuzione di forze. Così, se l' intelligenza apprende un male imminente o già accaduto, si manifestano le passioni della paura, della sollecitudine, della tristezza, dell' ansietà, ecc. (1). All' opposto, qualora l' intelligenza apprende un bene imminente o già accaduto, si manifestano le passioni della speranza, della gioia, ecc.. E` un fatto che queste passioni non rimangono nella sfera dell' intelligenza, ma si diffondono a quella dell' animalità. Tutte le passioni tristi appariscono allorquando la circolazione e le altre funzioni animali si rallentano. Ora il rallentamento delle passioni animali è l' effetto manifesto della debolezza del principio motore, che è l' istinto sensuale. Dunque questo partecipa dell' affezione del principio intellettivo e della sua debolezza, che consiste nella scemata coscienza delle proprie forze, nella diminuzione del sentimento intellettivo; chè coscienza fa sentimento, e sentimento fa forza. E qui si noti che quando la cagione per la quale si debilita l' istinto animale, è una passione dell' intelligenza, l' indebolimento non è dapprima disarmonico, nè parziale, ma si rende tale nei suoi effetti successivi; chè l' intelligenza opera immediatamente nel principio senziente, che presiede, in vario modo però, a tutte le parti e funzioni del corpo animato. La seconda cagione, che scema l' attività del principio senziente, nasce dalla lotta morbosa; quando l' istinto sente d' avere contro di sè una forza maggiore, allora egli si scoraggia. E questo accade per l' unione del sentimento soggettivo colla percezione dell' extrasoggettivo avversario. Quando la forza dell' extrasoggettivo, percepita insieme col sentimento della forza propria, si fondono per la forza sintetica in un' affezione sola, allora si appalesano tali effetti di smarrimento. Se l' istinto animale sente dover combattere con un avversario forte, tanto meno opera, quanto più vi prova di fatica, fino a cessare del tutto dall' operare. Accade talora che quando l' istinto è valido e sicuro, ed opera energicamente, se d' improvviso gli si para innanzi un ostacolo, lo combatte con tanta forza, di cui ha contratta l' abitudine, che produce sconcerti nell' extrasoggettivo. Che se gli ostacoli sono molti e perseveranti, vanno un po' alla volta diminuendo e fiaccando l' ardore dell' istinto, e così togliendogli le forze, come si vede nel cronicismo, a cui passano talora le malattie più violenti. La terza cagione, che debilita l' azione dell' istinto animale, è la diminuzione degli stimoli interni. Questi possono diminuirsi in conseguenza d' una debolezza precedente dello stesso istinto, chè indebolito questo, si rallentano tutti i movimenti della macchina, e diminuzione di moto è diminuzione di stimolo. Ma si possono diminuire gli stimoli interni anche col diminuirsi degli umori, massime del sangue, il principale di essi, e in generale con una perdita di sostanza. La fame provoca idee tristi, scolora l' immaginazione, scoraggia, il languore si propaga a tutte le membra. Possono diminuirsi altresì per qualche ostacolo meccanico, che impedisca i movimenti della macchina vivente, come avviene nella ossificazione dei vasi, o che impacci la loro libera comunicazione, o ne scemi la celerità, come nelle ostruzioni, per esempio, se la mucosità spalma o ingombra le cellule aeree del polmone, come in sulla fine delle polmoniti, sicchè il sangue, non potendo compire l' ematosi, ritorni al cuore, quasi come ne è venuto, venoso e inattivo, o se si lega un nervo, ecc.. L' azione dell' istinto animale s' addebilita in quarto luogo diminuendosi gli stimoli esterni, cibi, bevande, aria atmosferica, ecc.. Viceversa s' accresce l' attività vitale per aumento dei medesimi, e s' accresce in diverso modo, secondo la qualità degli stimoli e la località a cui vengono applicati. L' ossido di carbone, recato ai polmoni mediante la respirazione, produce una speciale ilarità, l' inspirazione dell' etere solforico stupidezza dei sensorii, ecc.. E la stupidità della fibra, prodotta dall' eccesso di stimolo, è appunto la quinta cagione della debolezza dell' istinto animale nel suo operare. Per intendere di quale stupidità noi parliamo, conviene riflettere che lo stimolo non porta eccitamento, se non in quanto produce i movimenti intestini delle molecole animate. Se dunque i movimenti provocati sono contrari fra loro, sicchè l' uno elida l' altro, come accade sotto stimolo eccessivo, quei movimenti, facendosi minori ed opposti alla spontaneità animale, danno alla fibra una cotale stupidità non rispondente allo stimolo. Finalmente, se per qualsivoglia cagione accade che l' azione dell' istinto si concentri e quasi esaurisca in qualche parte del corpo, o in qualche sua speciale funzione od operazione, manifestasi altrettanta debolezza in altre parti, funzioni ed operazioni; il che accade però con grandi differenze e per vari modi, che è necessario distinguere. Generalmente parlando, è noto che la parte del corpo umano che più s' adopera, più si sviluppa, s' ingrandisce e fortifica. I muscoli dei contadini, dei facchini e d' altre persone addette ai mestieri faticosi, riescono di gran lunga più voluminosi e risentiti che non quelli di persone conducenti vita comoda e delicata. La stessa massa del cervello sembra accrescersi negli uomini dati agli studi. Fu detto che la grossezza maggiore, che aveva il cranio degli antichi germani, si dovesse attribuire ai pesi che usavano di portare sul capo. Una delle principali ragioni, per le quali l' istinto animale accumulando in modo straordinario la sua attività in qualche luogo speciale del corpo, la sottrae ad altri, si è quella della lotta morbosa. Quindi in tutte le malattie, le quali sembrano aver sempre, od acquistare in progresso, una località, scorgesi squilibrio di forza, troppa robustezza e troppa debolezza ad un tempo, attività soverchia in una parte, e inattività nelle altre. Venendo applicati al corpo animale stimoli esterni che producano piacere, e così accrescano l' eccitamento, la spontaneità animale accumula ivi la sua attività, per accogliere la maggior quantità possibile di quel piacere. Questa accresciuta attività nervosa in quella parte, vi determina poi anche maggior concorso di fluidi. Che se questo concorso è eccessivo, o se accade che i fluidi vadano a perdersi, può venirne gran danno al corpo; e questo è un caso di quella disarmonia eccezionale, che noi abbiamo indicata fra i fenomeni soggettivi e gli extrasoggettivi. Che se gli stimoli esterni applicati al corpo sono molesti, l' istinto animale ivi si attua per liberarsene. Ma questo attuarsi in quel luogo, vi produce medesimamente concorso di fluidi o stimoli interni, sicchè avviene che talora nello stesso tempo che l' istinto s' adopera a cacciare il soverchio e disordinato stimolo, che è stato applicato alla parte dal di fuori, egli stesso vi accumuli in quella vece altri stimoli interni. E questi recano sovente più danno al corpo che non farebbe l' azione degli stessi stimoli esterni, che egli s' affatica a cacciare; per esempio, mentre l' istinto cogli sforzi della tosse tenta liberarsi dell' irritazione che sente al polmone, nei bronchi, o alla trachea, egli stesso accumula in queste parti tanto di sangue che vi determina, o aumenta l' infiammazione, o anche produce rottura di vasi, onde la malattia termina coll' esito il più sinistro. E` specialmente la direzione e il concorso dei fluidi che produce la robustezza e la debolezza comparativa, di cui parliamo. L' attività dunque dell' istinto animale si può concentrare in una località, e mostrarvisi più o meno attiva per più ragioni; distinguiamole: I Causa, intellettuale . - Nell' estasi, ed in altre grandi azioni ed affezioni intellettuali, talora si toglie solamente all' uomo la coscienza delle sensioni; tal' altra sembra che restino veramente impedite le sensioni stesse, e sottratta al sensorio la sua mobilità. L' attività allora si esaurisce piuttosto fuori del corpo che in qualche parte di questo; benchè il cervello, che aiuta l' intelletto somministrandogli i segni delle immagini, che fissano la sua attenzione, ne rimanga anch' esso quasi sempre interessato. II Causa, sensoria . - Una specie di sensioni assai vive impediscono altre sensioni meno vive, benchè appartenenti ad altri organi sensorii. Nel sonno l' attività sembra concentrata nel cervello, nella facoltà interna di sentire; quindi sottratta agli stimoli dei sensi esteriori; forse anche in questo caso l' attività sensoria, cresciuta nell' organo della fantasia, si deve ripetere dall' afflusso degli umori in quella direzione. Venendo ferito qualche ramo facciale o frontale del quinto paio, se n' ha la cecità, che dura più o meno a lungo (1), senza alcuna lesione del nervo ottico. Dove sembra che il cervello sospenda la sua influenza sul nervo della visione, perchè scosso, e nella dolorosa lotta occupato, non gli rimanga più di virtù da collocare nell' operazione visiva; se pur non si deve piuttosto attribuire il fenomeno all' essere i movimenti cerebrali, cagionati dalla ferita o percossa, quelli che perturbano i movimenti sensorii; e stando così, è ad ogni modo da notarsi che quei movimenti non sono al tutto meccanici, ma animali; e però tali che impiegano parte dell' attività del principio della vita. Può essere anche che quella ferita, ed altre, che istupidiscono qualche organo sensorio, producano questo effetto per qualche alterazione da essi cagionata nella direzione dei fluidi, che inaffiar devono gli organi della sensazione. III Causa: concorso dei fluidi . - Ed è appunto il concorso dei fluidi (i quali sono i principali stimoli interni) che noi dobbiamo più attentamente considerare. E` principio indubitato che « in quella località dove l' azione vitale è comparativamente maggiore, ivi concorrono i fluidi in maggior copia »(2). Diciamo comparativamente , poichè è da aver mai sempre presente che non è un assoluto grado di forza quello che costituisce uno stato morboso, ma un grado relativo, uno squilibrio della forza vitale, che si altera soverchiamente in una parte comparativamente ad un' altra, la quale presenta i sintomi di rispettiva debolezza. Poniamo che il freddo sia un debilitante, e che quando è moderato, produca l' effetto di rintonare la fibra per via indiretta, sottraendo ad essa un soverchio stimolo che la istupidisce, od anche restringendola, ove sia di soverchio dilatata. Se dunque il freddo è debilitante, dove egli s' applica, ivi l' azione vitale diminuisce. Ora questo può spiegare perchè, venendo esposta la pelle al contatto di corpi assai freddi, ovvero passando noi leggermente vestiti da una temperatura calda ad una fredda, ne riportiamo varie infiammazioni delle membrane mucose, della pleura, del polmone, degli intestini, dello stomaco, o della vescica. Diminuita l' attività vitale ai vasi capillari della pelle, riesce comparativamente accresciuta l' attività dei vasi interni delle dette membrane; debbono dunque i fluidi affluire dall' esterno all' interno (1), ed ivi ingorgarsi, stagnarsi, fors' anche dai capillari venosi passare il sangue premuto a stravenare nei linfatici, che coi venosi probabilmente si abboccano (2). Il sudore si promuove coi bagni o bibite calde, si sopprime coi bagni o bibite fredde per una simile ragione, cioè perchè in tal modo col caldo si rendono più attivi i vasi alle superfici interne od esterne, e col freddo si rendono gli stessi vasi comparativamente meno attivi, e quindi si cangia la direzione dei fluidi. La ragione poi, perchè la bibita calda eccita il sudore alla superficie cutanea, sembra dovesse essere quella legge di simpatia, di cui abbiamo parlato, per la quale il principio senziente mette in giuoco contemporaneamente gli organi simili. Il ghiaccio si adopera utilmente a frenare le emorragie ostinate. Questo effetto pare doversi attribuire a due cagioni, cioè: 1 all' azione fisiologica, per la quale indebolendosi comparativamente le estremità dei vasi, si determina il fluido a prendere la direzione contraria, a retrocedere; 2 all' azione chimica, restringente le estremità dei vasi, il che impedisce l' afflusso. Lo spavento determina l' uscita di orine abbondanti, chiare e inodore; perchè scemando l' attività interna, e comparativamente accrescendola verso la periferia, accelera i fluidi nella direzione dall' interno all' esterno del corpo. All' incontro le irritazioni dei visceri sopprimono le secrezioni (1). Tutte le infiammazioni vive d' un organo contenuto nelle tre cavità splancniche, sospendono ed alterano il corso delle secrezioni; essendovi molta attività vitale al centro e debolezza relativa verso la periferia, il corso dei fluidi non si può fare egualmente bene verso di questa. E` la stessa ragione, per la quale il cibo vi provoca in bocca l' afflusso della saliva, per la quale un po' d' aceto applicato sulla congiuntiva o sulla pituitaria adduce le lacrime. La ferita d' un intestino arresta la digestione, come la gastrite può impedire la deglutizione (2). Bichat osservò che nel tempo che gli alimenti dimorano nello stomaco, è scarso lo scolo della bile, e che si accresce poi quando passano nel duodeno, per guisa che allora se ne trova in copia negli intestini, sempre per la stessa ragione, che finchè lo stomaco è stimolato dalla presenza dei cibi, l' attività vitale ivi è maggiore, onde attira i fluidi, anzichè lasciarli scorrere altrove. Così è un vero indubitato che lo stimolo accrescente attività nella parte esterna dei condotti secretori ed escretori, è uno dei mezzi principali, di cui si serve la natura per determinare le secrezioni e le escrezioni. Secondo Broussais con altri medici moderni, quelle grandi evacuazioni, che si dicono crisi , altro non sono che l' effetto della cessazione dell' irritamento dei visceri. Perchè questa irritazione sopprimeva le naturali secrezioni? Perchè essa aumentava l' attività vitale all' interno, e comparativamente la rendeva debole verso la periferia; indi era impedita la direzione degli umori al di fuori. Quantunque il ristabilimento delle funzioni degli organi secretori sia, quando succede naturalmente, l' effetto della cessazione della causa della malattia, non è però che molte volte le dette evacuazioni, prodotte artificialmente, non diventino un mezzo al ristabilimento della salute. Un sudore abbondante, provocato con bibite o bagni vaporosi generali o parziali, dissipa cefaliti ostinate; vescicatoi, caustici, rubefacenti producono il medesimo effetto per una causa simile. Questi sono altrettanti mezzi, coi quali si accresce l' azione del principio senziente alla cute, e quindi si diminuisce comparativamente nelle parti interne; con che si provoca la direzione dei fluidi dal di dentro al di fuori, e così si diminuiscono gli stimoli interni, che pel loro soverchio cagionano dolore. Conviene per altro riflettere che, quando è accresciuta l' attività vitale in una parte del corpo umano a cagione d' una irritazione o d' altro, quell' attività può comunicarsi ad altre parti, sia perchè la materia irritante muti di luogo, sia per una cotale irradiazione dell' attività stessa a parti organicamente continue, sia finalmente per una vera simpatia (1). Nel qual caso anche la parte che partecipa dell' attività cresciuta, diventa, comparativamente alle altre parti che non ne partecipano, più attiva. Di più, alcune parti divenute meno attive, occasionano l' attività comparativamente maggiore di altre. Allorquando per cagione di qualche infiammazione si gonfiano le glandole linfatiche, quando, per esempio, a cagione d' un panariccio intumidiscono le glandole sotto l' ascella, pare che ciò avvenga, perchè l' infiammazione, rendendo comparativamente meno attive altre parti, queste non attraggono più a sè, e conducono gli umori segregati dalle glandole; indi l' ingorgo e la tumefazione di queste. La tisi andata innanzi, indebolendo le parti circostanti o simpatiche col polmone, rende comparativamente più attive le parti dei vasi più lontane dal centro; indi il calore accresciuto alle palme delle mani ed alle piante dei piedi, le rose alle guance, il rosso vivo alla radice della lingua, i sudori abbondanti e colliquativi, le diarree, le gonfiezze edematose alle estremità (2). E` appunto questo accrescimento e diminuzione comparativa d' attività, questa serie di effetti che diventano cause alla loro volta, che complica immensamente la scienza medica, e rende oltremodo difficile a seguitarsi nelle sue variazioni il corso zoetico. Se si considerano quelle febbri che cominciano con una sensazione di freddo, a cui succede un forte calore, sembra che durante il freddo vi sia un riflusso del sangue dalla periferia al centro, e durante il calore un afflusso dal centro alla periferia. Ora, considerando che il sangue viene ricondotto al cuore per la via dell' albero venoso, e diffuso alle estremità per la via dell' albero arterioso, parrebbe doversene inferire che l' albero venoso acquisti un soverchio di forza, comparativamente all' albero arterioso; l' albero arterioso un soverchio di debolezza, comparativamente al venoso; nel qual caso, venendo il sangue portato al cuore con più impeto e celerità, sarebbe dalla reazione di questo e dei vasi arteriosi stimolati soverchiamente, riportato poi con pari impeto alla periferia. Solamente che si dovrebbe supporre l' eccedenza di forza nell' albero venoso consistere in uno stato di tensione o azione maggiore dei vasi; là dove la reazione del cuore e delle arterie non essere accresciuta per uno stato di loro propria tensione e forza maggiore, ma pel maggiore stimolo da cui vengono incitati, per la maggior copia e celerità del sangue, lasciando anche da parte la crasi del medesimo, che pare dover influire piuttosto nelle febbri continue che nelle intermittenti (1). Ma se questa ipotesi può aver luogo, quale può essere la causa di questo squilibrio d' attività fra l' albero arterioso ed il venoso? Ecco la questione complicata oltremodo. Se in una data località s' accumula il sangue per un' azione comparativamente in essa accresciuta, questo sangue ivi accumulato, e quasi stagnante, può e deve subire diverse alterazioni nei suoi principŒ, come lo dimostra il caso dell' infiammazione; e questa alterazione può essere comunicata alla massa del sangue, ed indi nascere la febbre, effetto così d' una irritazione od infiammazione locale (2). E` cosa indubitata che la stessa legge dei vasi, dirigenti i fluidi al luogo dove l' attività vitale è comparativamente maggiore, dipende principalmente dalla condizione dei nervi sensorŒ. Ciò è manifesto dalle osservazioni seguenti: Quando l' irritazione si fa dolorosa, ella produce simpaticamente maggiori effetti. Più gli organi infiammati sono dotati di nervi, e più anche è dolorosa la loro infiammazione, e di conseguente più alterate riescono le funzioni animali. Le simpatie hanno luogo con più di forza e di prontezza nelle persone più sensitive. Ma si deve osservare che nel sistema vascolare e nel sistema nervoso la propagazione e il concentramento dell' attività vitale tiene una legge opposta; nel sistema vascolare si concentra mediante il concorso degli umori in quel punto, dove qualche causa l' ebbe accresciuta; nel sistema nervoso, all' incontro, si propaga a seconda delle sue diramazioni, partendo dal punto dove prima è stata accresciuta, ed osservando sempre le leggi sue proprie. Quindi la gastrite, per esempio, è accompagnata da dolore di capo per la comunicazione nervosa. Per altro, che l' infiammazione, la quale accresce indubitatamente l' attività vascolare nel luogo infiammato, produca una comparativa debolezza in altri luoghi, si vede pel dimagramento che succede, ond' è impedita la nutrizione. Durante la digestione, alla prima eccitazione del cuore e di tutte le funzioni succede uno stato di debolezza degli organi, i sensi esterni e i muscoli perdono una parte della loro attività, si fa sentire qualche brivido di freddo; il che dimostra che il sangue non fluisce più colla stessa abbondanza ed impeto di prima alle estremità. Ma in questo caso il lavoro prevalente dello stomaco, che converte gli alimenti in chimo, non è uno squilibrio morboso, ma un' ondulazione di forza fisiologica, chè quell' aumento di attività del ventricolo va cessando, di mano in mano che compie la sua funzione e distribuisce l' alimento alle membra, restituendo ed accrescendo ordinatamente le loro forze; il che è un fatto tutto conforme alla spontaneità dell' istinto animale. Ma un fatto consimile è quello dell' irritazione o dell' infiammazione morbosa; se non che questa, contrariando la spontaneità dell' istinto animale, ne solleva l' attività bellicosa, e invece d' aver per successo la nutrizione delle parti, lascia in queste dei danni, fra i quali quello appunto d' impedire la loro nutrizione, rattenendo il corso dei fluidi, che dovrebbero diffondersi ad alimentarle. Ecco alcuni fatti dei molti. L' infiammazione dei reni trae seco talora l' atrofia delle glandole testicolari. Nella colica dei pittori è singolar cosa vedere come dimagrano i muscoli situati tra il pollice e l' indice. Negli ascessi, che occupano le tuniche degli intestini tenui, si incavano gli occhi, e diminuisce oltremodo la pinguedine, che deve sostenere l' occhio. In tutte le infiammazioni croniche che finiscono colla morte, il dimagramento si rende estremo ed universale in tutto il corpo, la parte infiammata continua a vegetare finchè si forma la cancrena. Insomma io credo così importante il noto principio, che i fluidi accorrono là dove è accresciuta comparativamente l' attività vitale, che sembrami poter dare egli solo all' osservatore indizio a conoscere la diramazione dei vasi, che s' intrecciano nel corpo umano, e, quasi voleva dire, lo costituiscono. IV Causa: eccitamento dei nervi del senso e del moto . - Abbiam detto che l' attività del principio senziente si concentra là, dove è più viva la sensazione . Consideriamo ora l' accentramento dell' attività, anche per cagione del fenomeno extrasoggettivo che accompagna il senso, cioè per cagione del movimento dei nervi. Questo movimento si propaga dal punto dove il nervo è stato scosso in tutte le direzioni, non già per una mera comunicazione di moto meccanico, ma per una comunicazione meccanico7fisiologica. E` nondimeno certo che l' attività del principio animale s' affatica, se i nervi sensorii o motori sono scossi soverchiamente, e quindi lascia altre parti deboli, come pure lascia uno stato di spossatezza dopo movimenti violenti, come accade nelle convulsioni. E` del pari certo: Che talora il sistema nervoso esercita delle funzioni, nelle quali una sola parte è interessata, e allora le altre restano come insensitive. Così accade nelle contensioni di spirito, nelle quali è interessato il solo cervello, organo della fantasia, onde la sensitività della cute sembra annientata; il che accade altresì in certe affezioni morbose, a tale che questa appena dà segno di senso. Che se il medesimo sistema nervoso non esercita una di queste funzioni, talora al contrario s' accresce la sensitività della pelle oltre misura, per le ragioni dette parlando delle malattie del cervello, come vedesi nei maniaci, negli ipocondriaci, nei melanconici, nelle femmine isteriche. I fluidi del corpo umano sono gli stimoli interni , i nervi sono gli stimolati. I nervi stimolati, colla loro azione più o meno prolungata, ed anche simpaticamente diffusa, dànno attività ai vasi in cui s' addentrano, e i fluidi vi accorrono sottraendosi ad altre parti (1), le quali restano comparativamente più deboli, e più deboli restano conseguentemente anche i nervi, che vanno ad esse. Ci rimane in fine a parlare delle località, di cui abbiamo fatto cenno qua e là sol di passaggio. All' intendimento nostro non appartiene farne un trattato, il che sarebbe troppo superiore alle nostre cognizioni. Ci proponiamo unicamente di tentare qualche soluzione di questo problema: « perchè il principio animale, essendo semplice ed uno, tuttavia manifesta diversi effetti della sua azione, piuttosto in certi luoghi che in altri del corpo vivente ». La teoria delle località ha dei principŒ generali, delle leggi, le quali si applicano egualmente al corpo sano e al corpo ammalato, o che si consideri il corpo abbandonato a sè stesso, e percorrente i successivi stadŒ del corso zoetico, non alterato da stimoli artificiali, o che si vogliano determinare gli effetti di questi stimoli, applicati ad arbitrio al corpo sano od infermo. Noi dunque esporremo prima le leggi generali delle località , che chiameremo fisiologiche , facendone poi qualche applicazione al corpo infermo, e deducendo alcune leggi patologiche ; e finalmente aggiungeremo qualche applicazione agli effetti di quegli stimoli artificiali, che si applicano al corpo infermo per restituirlo a stato di sanità, toccando così alcune leggi terapeutiche . Le leggi fisiologiche, ossia generali delle località, sogliono desumersi dai sei elementi, che costituiscono l' animale. I tre soggettivi di essi: 1 il sentimento continuo; 2 il sentimento eccitato; 3 il sentimento individuato. I tre elementi extrasoggettivi corrispondenti: 1 la materia continua; 2 i movimenti intestini di essa; 3 la costante armonia dei detti movimenti, a cui è condizione l' organizzazione. Il principio animale è la parte attiva del sentimento continuo, eccitato e individuato; ma il suo operare è condizionato al suo termine, cioè al corpo. Se consideriamo la sola continuità del sentimento, senza eccitazione o stimoli esterni, avremo un sentimento fondamentale di continuità uniforme, senza distinzione di luoghi o di parti, e perciò senza figura. In questo sentimento lo spazio misurato, l' estensione extrasoggettiva ancora non esiste; non esiste ancora l' animale, ma solo un suo elemento, l' animato. Coll' eccitamento cominciano a sorgere nel sentimento le località, i limiti figurati; l' eccitamento poi non è armonico ed individuato senza l' organizzazione del corpo, termine del sentimento. Quindi la prima causa, per la quale le località si manifestano nel sentimento, è un principio extrasoggettivo, cioè la parte extrasoggettiva dell' organizzazione, e lo stimolo ad essa applicato. Poichè tutte le parti dell' organizzazione non sono egualmente sentite, nè egualmente sensorie, è conseguente che cada in esse una disuguaglianza di azione vitale, cagione di località. Gli stimoli che si applicano all' organizzazione e promovono l' attività dell' istinto, non si applicano a tutte le parti egualmente dell' organizzazione, ma ad alcune determinate; e quindi un' altra cagione di località. Dal che procedono queste conseguenze: Il principio senziente ha una cotale sfera limitata dall' estensione del sentito; ma questa sfera non è ella stessa sentita, ossia determinata nel sentimento fino che il sentimento è uniforme, di continuità. L' azione, che esercita il principio senziente, è proporzionata al sentito. Se dunque nella sfera del sentito varia la qualità del sentimento e i gradi di sua intensità, proporzionatamente varia ancora di qualità e di quantità l' azione del senziente nei diversi punti della sfera sentita. Vi è allora varietà di sentimenti e d' istinti, ma non si sentono ancora i confini, e perciò le figure extrasoggettive di quei diversi sentimenti. Quando dei corpi stranieri agiscono alle superfici del corpo sentito, incominciano le sensioni superficiali, per le quali il principio sente i confini e le figure della sfera del proprio sentito, e ad un tempo dei corpi esteriori. Il principio senziente, ricevendo il primo impulso e la prima determinazione sua dagli stimoli, continua i movimenti iniziati colla propria spontaneità, le leggi della quale furono da noi indicate, e si possono ricapitolare così: 1) L' azione spontanea del senziente, ossia dell' istinto, è tanta, quanto più egli trova di facilità e di diletto nell' operare che nel non operare. Questa legge determina la quantità dell' azione . 2) Il modo dell' azione consiste nel volgere tutta la quantità d' azione, di cui fa uso, a perfezionare lo stato dell' animalità nei suoi tre elementi, cioè ad estendere la sfera del sentito, ad accrescere l' eccitamento, e a mantenere l' armonia e l' unità nel sentimento medesimo, e per conseguente l' organizzazione. 3) Questa tendenza della spontaneità del principio senziente a volgere la propria azione a perfezionare l' animale nei suoi tre elementi (sentito esteso, eccitato, armonico), può essere contrariata dal principio extrasoggettivo; nel qual caso nasce l' irritazione, causa delle malattie, che è la stessa forza della spontaneità, che si volge a combattere ciò che nuoce all' animalità per la stessa ragione, che ella tende essenzialmente a perfezionarlo. Quando la spontaneità dell' attività senziente vuole ottenere l' effetto d' accrescere il sentimento, o di ributtare da sè ciò che vi si oppone, allora ella mette in giuoco tutti quegli organi, e fa tutti quei movimenti, che a tal fine la possono condurre. Ma l' effetto, che ella vuole ottenere, talora è locale; e per ottenerlo ella deve dar moto ad organi e parti, che occupano altre località. Queste diverse parti, occupanti luoghi diversi da quello a cui si riferisce, come a proprio scopo, l' attività animale, sono la sede appunto delle simpatie. Ma incontra che, essendo il principio senziente sempre in attività, come esige la conservazione e il perfezionamento dell' animalità, gli avvenga di contrarre anche delle abitudini, si assuefaccia a muovere contemporaneamente certi organi per ottenere un dato effetto, di cui ha di frequente bisogno. Se poi gli accade di appetire un effetto, il cui ottenimento ha bisogno del moto d' alcuno di quegli organi, che egli è avvezzo di muovere insieme, allora non solo egli muove l' organo necessario all' effetto, ma gli altri ancora, che egli è avvezzo di muovere insieme, e ciò per abitudine. Il che nasce, perchè l' atto del principio senziente è semplice, movendo egli più organi, per dirlo colla frase scolastica, per modum unius ; l' atto poi con cui muove ad un tempo quel numero d' organi è diverso da quello, col quale ne moverebbe uno solo; ora ogni atto diverso il principio senziente deve imparare a farlo coll' esperienza; onde gli può riuscire più facile e piacevole tentare l' effetto coll' atto che muove più organi, alcuni dei quali inutilmente, che non coll' atto che ne muoverebbe uno solo, quello che fosse necessario. Il che certamente accade, se questo non l' ha imparato a fare e il primo sì, o se questo sappia farlo meno facilmente del primo. Come il sentimento continuo, il sentimento eccitato e il sentimento armonico ed uno, sono i tre modi generali del sentimento, e tutte le varietà appartengono all' uno o all' altro di essi, così anche le attività del sentimento si riducono a tre principali, corrispondenti a quei modi. Il sentimento eccitato ha già in sè il sentimento continuo, di cui è una esaltazione; il sentimento armonico ed uno ha in sè il sentimento continuo ed il sentimento eccitato, non essendo che la perfezione di quest' ultimo. L' anima intellettiva non si può unire che al sentimento armonico ed uno, e per mezzo di questo al sentimento eccitato, per mezzo poi del sentimento eccitato al sentimento continuo. Quindi nell' uomo vi sono tutti e tre questi sentimenti, ma il solo oggetto della coscienza è il sentimento armonico ed uno, fondamento dell' individualità animale. A noi pare che, meditando le relazioni di questi tre modi di sentimenti, si possa spiegare la località delle sensioni. Io provo in una mano una sensione piacevole o dolorosa; il movimento, a cui aderisce questa sensione locale, non è quello che si limita ai nervi della mano, dove la sensione ha luogo, ma appartiene principalmente al cervello, dove se niun movimento avesse luogo, niuna sensione proverebbe la mano. Perchè la sensione nella mano ha ella bisogno dei movimenti del cervello, che punto nè poco si sentono? Questa domanda contiene due questioni: perchè non posso io avere la sensione in una mia mano punta da un ago, se il movimento nervoso non si prolunga fino al cervello; e perchè, e come io sento il dolore della puntura nella mano, e non nel cervello o lungo il braccio, dove si continua il movimento delle fibre; che è la questione della località. Alla prima abbiamo risposto altrove, e qui ci basterà osservare che se il movimento nervoso venisse interrotto per modo che non giungesse al cervello, egli perderebbe l' armonia e l' unità con tutto intero il sentimento animale, allo stesso modo come se si dividesse il braccio dal corpo; e noi abbiamo detto che l' anima intellettiva non si può unire che al sentimento uno ed armonico, e però senza di questo non può avere coscienza d' alcun sentimento. La seconda questione poi, quella della località del sentimento, esige più estesa dichiarazione. La località comincia a sentirsi, quando noi percepiamo il corpo come uno spazio solido, limitato, figurato. Ma noi non percepiamo il nostro corpo limitato e figurato se non mediante l' esperienza extrasoggettiva, per la quale percepiamo le superfici del medesimo. In altre parole, il sentito non dà figura, nè luogo, nè parti al corpo nostro; ma solo il percepito, cioè quella forza extrasoggettiva, che fa sentire la sua azione nel sentito. Questa esperienza extrasoggettiva ci rappresenta il corpo in modo meramente fenomenale, il corpo che chiamammo corpo anatomico , e che è cosa assai diversa dal corpo reale , che immediatamente si sente (il sentito); ed anzi ha con questo delle disarmonie ed apparenti contraddizioni (1). Le località dunque appartengono al corpo percepito in modo extrasoggettivo e fenomenale. Ma dopo che noi abbiamo percepito in tal modo le località nel corpo extrasoggettivo, le applichiamo al corpo soggettivo; noi teniamo per regola dei nostri pensieri e delle nostre azioni quello, benchè fenomenale, e non questo, benchè reale. Come dunque riferiamo noi le sensioni soggettive alle località extrasoggettive? Il corpo locale e anatomico è il corpo a quel modo che lo vediamo, lo tocchiamo, lo assaporiamo, ecc.; è il composto di tutte queste nostre sensioni. Queste sensioni unite insieme ci danno la figura del corpo; e la figura di esso e delle sue parti (2) è quella che ci costituisce l' immagine del corpo; e l' immagine del corpo diventa la materia dell' idea volgare e comune del corpo, dietro la quale comunemente gli uomini ragionano ed operano; le località si riferiscono a questa figura immaginaria, che è una parte della sensione molteplice dell' universo esteriore. Le località dunque si riferiscono a questo corpo percepito così nelle nostre sensioni, e contemplato nelle nostre immagini; le parti di esso sono disegni, che si formano nella nostra sensitività esterna; è questa che concorre a formarle per noi, per la nostra cognizione. Dopo che le parti sono formate e disegnate mediante la nostra sensitività extrasoggettiva e superficiale, noi possiamo riferire e collocare in esse anche le nostre sensioni interne, non superficiali, e prive di una figura discernibile. Quando noi diciamo di sentire dolore in un piede, che altro facciamo con ciò, se non collocare il dolore in quella parte che si chiama piede , rappresentata a noi dalla percezione extrasoggettiva, e chiusa da superfici da noi percepite, che gli danno la forma? Il collocare adunque una sensione interna in qualche parte del corpo nostro, non è altro che percepire il rapporto, che ha la sensitività soggettiva e non figurata colla sensitività extrasoggettiva e figurata. Se la sensitività extrasoggettiva e figurata non mi avesse disegnato la forma del piede, io non potrei collocare in esso un dolore che sentissi; non saprei dire, nè pensare cos' è il piede che mi duole; questa parola piede non sarebbe inventata, nè la mia mente avrebbe ancora il concetto che quella parola significa, e che le vien dato dalla sensitività esterna. Ma perchè sentendo un dolore interno, io lo colloco verso la parte destra del piede, piuttosto che verso la sinistra? Certo io fo questo giudizio mediante il paragone con altre sensioni interne ricevute nel piede, perocchè avendo io già i confini del piede, che me ne disegnano la figura solida, e avendo così concepito questo solido, se nel solido stesso concepisco più sensioni, non è meraviglia ch' io possa riconoscere una di esse esser più vicina ad una data estremità del piede che l' altra, bastando a ciò che io confronti le diverse sensioni cogli estremi del piede, e fra esse. Quante più sensioni interne io intendo possibili prima di quella che mi segna l' estremità, tanto più giudico lontana dall' estremità una data sensione. Per altro questi giudizi sulle località delle sensazioni interne sono incerti, senza precisione, e spessissimo fallaci. La località adunque delle sensioni interne non è che un rapporto fra esse e le sensioni superficiali. Ma come si spiegano le sensioni extrasoggettive e superficiali? Che la sensione si estenda in superficie, questo è una conseguenza della maniera colla quale noi abbiamo detto prodursi l' eccitamento. Questo sorge quando le molecole animali si soffregano insieme; ora questo soffregamento non è che delle superfici, attesa l' impenetrabilità dei corpi. Se le piccole superfici delle molecole, dove nasce l' eccitamento, ne costituiscono una grande colla loro iustaposizione, in tal caso si ha una sensazione superficiale grande, più o meno distinta, come accade alle pareti esterne ed interne del corpo. Ma se l' eccitamento nasce in un gruppo di molecole, le cui piccole superfici non si continuino in modo da formare una superficie unica, e le dette molecole si soffreghino tra loro da tutte le loro faccie, allora nasce una sensazione confusa, in cui non si discerne una figura determinata, come accade in tanti sentimenti interni. Quindi in niuno dei sentimenti eccitati si sente precisamente e distintamente un vero solido, perchè l' interno delle molecole non è sentito che col sentimento di continuità; il che spiega perchè i dolori e piaceri sensibili, che avvengono all' interno del corpo, rimangano sempre, in quanto alla loro continuità, estensione e figura, senza alcuna precisione e distinzione. Rimane dunque solo a cercare come le superfici sensibili, a noi appartenenti, vengano da noi collocate in uno spazio solido, unite per modo da riuscirne una superficie sola, circondante un solido con tutte le sinuosità e prominenze, onde entra ed esce il corpo umano. Per spiegare questo, prima di tutto è da concedere che lo spazio immisurato sia dato dalla natura all' anima sensitiva, senza di che non si può spiegare nè questo, nè tanti altri fatti e leggi della natura (1). Di poi si rammemori che se l' uomo immobile fosse toccato in modo eguale da tutti i punti del suo corpo contemporaneamente, egli non percepirebbe ancora il suo corpo come uno spazio solido, nè distinguerebbe quando la sensazione superficiale s' incurva, quando rientra concava, e quando riesce fuori convessa. In una parola, senza il movimento attivo l' uomo non può percepire il solido; chè la solidità non cade nel sentimento, se non in quanto cade nel sentimento il movimento attivo (2). Il movimento dunque delle superfici sentite, questo movimento sentito anch' egli, gli stadi che egli percorre e che segnano il tempo e comparativamente le velocità, tutto questo fa sì che l' uomo collochi le proprie sensioni superficiali in luoghi determinati dello spazio solido, e così giunga a comporsi la percezione del proprio corpo, come di un solido perfettamente figurato. Nel tempo stesso che l' uomo fa questa operazione, colla quale produce a sè stesso la percezione solida e figurata del proprio corpo, egli va misurando altresì lo spazio dell' universo, e acquista la percezione dei solidi figurati, che in essa si trovano; tutto ciò mediante il movimento sensibile. Supposti adunque questi prodotti della sensitività esterna, possiamo far dare innanzi un passo alla soluzione delle località. Perocchè dato, come supponevamo, che ci venga punta una mano, la sensazione di questa puntura isolata, e per sè sola considerata, non ha località di sorte, ella non è più nel cervello che nella mano, che non esisterebbe per noi. Solo allorquando abbiamo percepito il corpo nostro come un solido rivestito di superfici sentite, noi collochiamo la puntura nella mano, nell' estremità della fibra nervosa, ed egli pare che la cosa accada così: abbiamo percepita la spina che ci punse, abbiamo osservato che, infiggendosi la spina nella mano, nasce il dolore; estratta la spina, il dolore diminuisce notevolmente, s' accresce toccandosi la ferita, e cessa col medicarla. Uniamo dunque il dolore colla causa che l' ha prodotto, e che lo rimuove. Ma la causa che l' ha prodotto, come pure quella che lo toglie, sono percepite da noi coll' esperienza extrasoggettiva, e quindi hanno località determinate dalla stessa sensitività extrasoggettiva. Perciò anche al dolore, fenomeno soggettivo, assegniamo il luogo stesso, gli assegniamo il luogo della sua causa extrasoggettiva. E questo ci è facile a farlo, perchè il dolore non avendo per sè località alcuna, non ricusa qualunque gli si dia: egli non esiste, come dicevamo, più nella mano che nel cervello, perchè mano e cervello sono parole esprimenti solidi extrasoggettivi. Ma lo spirito umano non ha nessuna ragione di unire al dolore la località extrasoggettiva del cervello, perchè il cervello non produce il dolore come forza straniera, a cui solo spetta la località, ma con un movimento organico soggettivo, dove località non apparisce. All' incontro egli ha buona e naturale ragione di associare il dolore colla causa extrasoggettiva e straniera; e questa, avendo località, aggiunge la località della medesima allo stesso dolore. Non è dunque, propriamente parlando, il dolore che s' aggiunge alla località, ma è piuttosto la località che s' aggiunge al dolore, e di sè lo veste, per così dire. Quindi avviene che in ragione che noi abbiamo una percezione più distinta di quella parte del corpo nostro, a cui è applicata la causa della sensione, anche a questa attribuiamo una località più distinta; e viceversa, la sensione rimane priva di località, quanto meno possiamo percepire la località della sua causa straniera o stimolante, cioè la parte del corpo a cui ella viene applicata. Ed è per questo che le sensazioni dell' occhio noi non le collochiamo distintamente nella retina, perchè non abbiamo della retina una percezione extrasoggettiva tanto distinta, quanto quella della cute, non potendo noi toccare la retina stessa e distinguerne al tutto le parti, come pure non potendo toccare la luce, che è lo stimolo straniero, e distinguerne le parti. La sensione quindi dell' occhio ci rimane come in aria, cioè non collocata distintamente in una parte del corpo nostro, fino a che col tatto noi le diamo un luogo; ma questo luogo non glielo diamo nel corpo nostro, ma là dove è la causa sensifera della sensazione del tatto, cioè nei corpi che noi tocchiamo. Medesimamente, alle immagini noi non assegniamo per loro luogo il cervello, perchè dell' interno cervello e delle sue parti non abbiamo la percezione extrasoggettiva, e non possiamo percepire extrasoggettivamente la causa interna, che lo muove e che produce l' immagine; la qual causa è organica, ma non sensifera. Le immagini dunque ci restano come campate in aria, o, per dir meglio, esse sono per noi come altrettanti corpi esterni. Sono sensioni, che collochiamo là dove le abbiamo prima collocate, quando avemmo le sensioni loro corrispondenti mediante la sensitività esterna. Rimane la questione della causa extrasoggettiva del dolore. Perchè il movimento vitale organico non presenta nessuna figura nel sentimento, e all' opposto la forza sensifera straniera segna nel sentimento una figura, e quindi fa nascere la località? Molti si sono studiati di descrivere il fenomeno extrasoggettivo del movimento sensorio. A me pare probabile congettura la seguente: il movimento sensorio esige molecole organate in un dato modo, di un certo numero e qualità di elementi. Queste molecole costituiscono un continuo, fluido o consistente non cerco (1). Gli elementi di esse sono mobilissimi, e così accordati che dividendosene alcuni da una molecola entrino a comporre la seguente, la quale lascia in libertà altrettanti elementi, i quali anch' essi alla loro volta si compongono con quelli della susseguente, che pure allo stesso modo si scompone; e così le scomposizioni e le composizioni si continuano in tutto il nervo fino al cervello, dove gli ultimi elementi che rimangono liberi, non trovando altre molecole con cui comporsi, ritornano ad abbracciarsi colla molecola a cui appartenevano, e succede in direzione opposta la stessa serie di composizioni e scomposizioni, rimettendosi il nervo nello stato di prima. Supposto questo giuoco chimico7organico7animale, se ne avrebbero i seguenti risultati: Il fenomeno della sensione avrebbe luogo quando la scomposizione percorse tutto l' organo sensorio. La sensione cesserebbe tostochè è finita la ricomposizione delle molecole. Rimanendo scomposte le prime molecole più a lungo di tutte le altre, vi sarebbe un' analogia fra il fenomeno extrasoggettivo e la sensione, per la quale questa più facilmente potrebbe attribuirsi ad una località; tanto più che tutte le molecole intermedie, scomponendosi e componendosi con celerità e continuità di parti, potrebbero conservare sempre la loro posizione, continuità e figura, giacchè di tanto entrerebbe in esse un elemento, di quanto ne uscirebbe un altro. Il fenomeno extrasoggettivo sarebbe così uno scuotimento dell' organo sensorio intero; condizione, come sembra, necessaria all' individuazione del sentimento, senza la quale non può l' uomo esserne consapevole. Come quando la scomposizione delle molecole sensorie comincia all' estremità esteriore per mezzo di qualche stimolo, rimangono per qualche tempo scomposte le molecole esterne, e si ha la sensione; così se la scomposizione comincia dal centro, cioè dal cervello, per virtù dell' istinto animale, la scomposizione dura qualche tempo nelle particelle dell' estremità interna, e si ha l' immagine; la quale, propriamente parlando, è illocale, perchè l' interno del cervello non si presta all' esperienza extrasoggettiva, che possiamo fare, quanto alle estremità esterne superficiali del corpo. Nel luogo, dove è applicato lo stimolo sensifero e incomincia la scomposzione, vi è violenza, perchè la prima scomposizione non accade per la spontaneità dell' istinto, ma per la forza esteriore; all' opposto le composizioni e scomposizioni successive seguirebbero senza violenza alcuna per la spontaneità dell' istinto; onde solo al cominciamento deve sentirsi la violenza, e non più nei movimenti successivi, benchè necessari a rendere individuale la sensione della violenza. Questa ipotesi dello spostamento intestino degli elementi della molecola sensoria senza che ella si disorganizzi, spiegherebbe dunque il perchè dove viene applicato lo stimolo, ivi esista propriamente la sensione; benchè questo ivi non diventi perciò solo una località, con relazione alle altre parti del corpo, se anche queste non le percepiamo allo stesso modo, e paragoniamo l' ivi di quelle coll' ivi di queste. Lo stato di spostamento, dunque, degli elementi delle molecole sensorie è ciò che dà alla sensione quanto le bisogna per essere poi riferita ad un luogo nell' esteso extrasoggettivo; e ciò perchè le molecole stesse sensorie, il nervo, il cervello, di cui parliamo, appartengono alla sfera dell' extrasoggettivo; onde quando diciamo che gli elementi delle molecole restano spostati, per esempio, all' estremità di un nervo, altro non diciamo se non che restano spostati e sentiti a quel luogo extrasoggettivo, che chiamiamo estremità nervosa. Ma che vuol dire molecole sensorie nel caso nostro? perchè fa bisogno che le molecole di tutta l' estensione del nervo, e quelle ultime del cervello ricevano il descritto moto e cangiamento di elementi? Abbiamo detto che la risposta conviene cercarsi nell' individualità dell' animale; l' animale non può sentire che ciò che entra nella sua individualità. Questa individualità, nell' ordine soggettivo, esige un sentimento unico, sede di tutti gli altri. Questo unico sentimento viene a dire un unico principio senziente e un solo sentito. Il sentito, in quanto è sentito7continuo, è unico, se non ha interruzioni; ma in quanto è sentito7eccitato è uopo che abbia un' unità armonica di movimenti, che virtualmente contenga tutte le sensioni accidentali, in modo che sia sempre lo stesso sentimento nei suoi diversi modi. Ora a questo fenomeno soggettivo d' un sentimento armonico d' eccitazione, nella sfera extrasoggettiva risponde l' organizzazione del cervello colle sue diramazioni nervose. Come abbiamo detto, la cagione di questa corrispondenza è irreperibile da noi, chè tutto ciò che percepiamo extrasoggettivamente è un mero fenomeno, oltre il quale non possiamo andare. Rimane dunque solo a constatare e descrivere il fatto dell' organizzazione come rispondente alla sensitività individuale, che nell' animale perfetto, e certamente poi nell' uomo, si osserva; il che è ufficio ampio e sottilissimo dei fisiologi. E quantunque la consapevolezza della propria individualità nasca nell' uomo dal principio intellettivo, tuttavia anche il bruto è individuo, consistendo la individuazione di lui in questo, che le sensioni abbiano lo stesso principio senziente; ossia l' attività, che in ogni sensione opera a produrla, sia la medesima (1); poichè, ciò a cui non si estende questa attività, è già fuori dell' individuo. Ma a questo principio senziente attivo risponde di fatto nella sfera dell' extrasoggettivo un' armonia di movimenti, e un cotal centro di essi, come già dicemmo altrove. Riassumendo dunque: Nè il sentimento fondamentale, nè le sensioni hanno località. Tra le percezioni della forza straniera (dei corpi esterni) ve n' ha una classe di superficiali , percezioni d' uno spazio superficiale. Questi spazi superficiali non hanno località, se si considerano in relazione col principio senziente; non si può dire che sieno nè dentro, nè fuori di lui, nè lontani, nè vicini, ecc., perchè egli non ha luogo affatto, e quindi niuna relazione locale con lui si può pensare. Ma questi spazi si uniscono e si continuano fra loro, ed allora essi acquistano una località rispettiva , cioè uno di essi, o una parte di essi, è di qua, o di là, ecc., d' un altro continuato con esso, o con una sua parte. Quando s' aggiunge il movimento attivo dalla parte dell' uomo, allora queste superfici pure, movendosi in tutti i sensi, prestano all' uomo il sentimento d' uno spazio solido determinato. La continuità delle superfici da tutti i lati e il movimento fanno sì che l' uomo percepisca il proprio corpo, i corpi esteriori e lo spazio con misura; e quindi che: 1) le parti del proprio corpo vengano ad avere un posto, una località rispetto al corpo divenuto un' estensione solida; 2) che al tempo stesso quell' estensione solida acquisti una località rispetto a tutti i corpi circostanti, e 3) ad ogni punto immaginato nello spazio. Così è creato nell' umano sentimento il corpo solido, i luoghi e gli spazi esterni; allora ogni sensione soggettiva si colloca in uno di quei luoghi determinati nell' estensione extrasoggettiva, e ciò si fa col percepire extrasoggettivamente la causa esterna e violenta della sensione. Questa causa, essendo un sensifero, un corpo straniero, e venendo collocato, quando produce con violenza la sensione, in un punto del corpo nostro extrasoggettivo, noi collochiamo la sensione lì appunto, dove abbiamo percepita quella causa. Quindi, quando ciò non si avvera, quando non percepiamo extrasoggettivamente la causa della sensione, o il luogo, dove ella si applica (nè coll' immaginazione possiamo supplirvi), non sappiamo più collocare al posto della causa la detta sensione, come accade nelle sensioni visive, o nelle interne, le immagini. Percepire la causa della sensione (il corpo esterno che stimola il senso) è percepire il luogo dove la causa viene applicata. Se noi cerchiamo qualche legge generale che determini questo luogo, troviamo che esso è determinato dalle due estremità nervose, l' esterna e l' interna nel cervello; e ciò probabilmente perchè nel movimento sensorio quelle estremità soffrono violenza, onde si alterano fisiologicamente nella composizione delle loro molecole sensorie; quando le molecole intermedie, benchè nasca un tramutamento di elementi, conservano intatta la loro composizione elementare, e il tramutamento è spontaneo e non violento (1). Troviamo ancora che la centralità del cervello risponde alla condizione dell' individuazione del sentimento, contribuendo essenzialmente all' unità armonica del sentimento fondamentale d' eccitazione; perocchè in tutte le sensioni il principio attivo senziente deve essere il medesimo. Pare dunque che al principio senziente, della cui attività sono modi le sensioni, rispondano nell' ordine extrasoggettivo i moti cerebrali, cioè che allora egli intervenga a sentire la sua attività, quando i detti moti sensori s' avverano. Ma questi stessi moti , in quanto hanno natura di moti, non cadono nella sensazione soggettiva , chè questa non ha proprio luogo, nè proprio spazio; e quando quelli si potessero osservare, l' osservazione darebbe un extrasoggettivo, e non più. La spiegazione data fin qui delle località è tratta dalla natura dell' animale; perciò ella conviene tanto alle località che si manifestano nel corpo umano in istato di salute, quanto a quelle che si manifestano nel corpo umano in istato di malattia. Venendo ora a dire qualche cosa di speciale circa le località patologiche, non abbiamo che ad accennare alcuni accidenti, i quali, determinando in modi diversi l' attività del principio senziente, le fanno comparire piuttosto in una parte che in un' altra del corpo extrasoggettivo. Mettiamoci innanzi il corpo, quale se l' ha formato l' uomo coll' uso dei suoi sensi esteriori, quale tutti noi adulti l' abbiamo presente, a cui prestiamo cieca fede, e su cui si fondano tutti i ragionamenti comuni intorno al corpo. Il primo fenomeno che ci si presenta occasionato, per esempio, da una contusione nel braccio, si è quello d' un dolore, che invece di farsi sentire alla sola estremità esterna, dove fu applicata la causa violenta, si propaga lungo tutto il nervo. - Convien dire che lo spostamento degli elementi componenti le molecole sensorie, di cui il nervo risulta, non sia in tal caso violento solamente al luogo dove fu applicato lo stimolo, unendo poi il movimento sensorio spontaneo, ma che la violenza stessa si sia propagata, e la scomposizione e ricomposizione non avvenga regolarmente. Altro fenomeno morboso è la durata del dolore in un luogo. - Convien dire in tal caso che la scomposizione delle molecole si ripeta continuamente con un movimento disordinato, oscillatorio, e più o meno frequente. Nei dolori vivi si sentono pulsazioni dolorose somiglianti a quelle del polso, e forse sono le dette oscillazioni violente dei movimenti elementari, che si descrivono nello stesso sentimento; a tener viva la quale oscillazione deve certamente concorrere il frequente battito del sangue, il che più manifesto apparisce nei dolori acuti di testa, che vanno a colpi frequenti, e che sembrano spezzarla. I dolori si trasportano da un luogo all' altro non solo successivamente, come avviene propagandosi l' infiammazione, ma ancora per salto. - Qualora un dolore si manifesta in un luogo per cagione di ferita, d' infiammazione od altro, concorre a produrlo in quel luogo tutta l' attività del principio senziente, che lotta nel modo che abbiamo indicato. Ma questa attività universale del principio senziente, sollevata alla guerra e producente il primo dolore locale, opera variamente in tutto il corpo, e lo altera. Ora questa azione in tutto il corpo, e le alterazioni che vi produce, sono determinate, in quanto al modo ed agli effetti, dall' organizzazione, che risponde all' unità armonica del sentimento, e prima dall' organizzazione nervosa, poi dall' organizzazione vascolare, e dalla qualità e quantità dei fluidi, e finalmente dalle leggi delle simpatie. A ragion d' esempio, un forte dolore accelererà il corso del sangue e produrrà la febbre, o anche infiammerà il sangue, alterandone la composizione. Acciocchè si manifesti un dolore in un dato luogo del corpo, in conseguenza d' un altro dolore precedente in altro luogo, basta che per l' azione universale del principio senziente vengano in quel luogo eccitati violentemente i nervi, sicchè ne segua lo spostamento di elementi con tendenza d' uscire dalla loro sfera. Cosa è il pizzicore che si sente al naso, quando si patisce di vermi? Non altro se non che un cotal movimento nel sistema nervoso, che si propaga dagli intestini al cervello, e dal cervello al naso, ma in modo che in quest' ultima estremità nasce appunto quello spostamento sensorio degli elementi, dato il quale ha luogo, secondo l' ipotesi da noi proposta, la sensazione. Dato dolore in un luogo, egli sorge in molti altri luoghi. - La spiegazione è simile a quella del fenomeno precedente. Un' affezione universale produce un dolore locale. - Succede anche questo pel medesimo giuoco. Sensione di dolore per un male, che è in altra parte, dove non cagiona dolore avvertibile. - Baglivi fa la storia della malattia d' una donna, che soffriva acuti dolori in un rene; nella sezione del cadavere si trovò sano il rene, dove accusava il dolore, mentre l' altro conteneva un calcolo. Il principio animale operava in entrambi per quella legge, secondo la quale nelle parti doppie simmetriche vi è una passione e un' azione unica. Pure nel rene, dove stava il calcolo, non si manifestava la sensione in modo avvertibile, forse perchè ivi non si operava lo spostamento degli elementi, venendo impedito dalla stessa condizione morbosa, dalla presenza del calcolo, che tratteneva l' oscillazione elementare, mentre nell' altro rene sano avveniva. Alterazione della sensitività, del gusto, del tatto, ecc.. - Questa suppone, nell' ipotesi che noi facciamo, una diversa composizione delle molecole sensorie. Se il senso rimane alterato di qualità, sicchè il sapore d' una sostanza, a ragion d' esempio, sembri un altro sapore, è probabile che gli elementi abbiano presa un' attitudine a spostarsi nella molecola sensoria, in modo diverso dall' ordinario. Se l' alterazione è solo nel grado della sensitività, senza che la sensione varii di qualità, il fenomeno può dipendere dalla mobilità dei detti elementi, come pure dal trovarsi i nervi meno protetti contro lo stimolo. Si sono vedute femmine non poter toccare una stoffa di velluto, senza cadere in isvenimento; talmente la sensazione della cute della mano eccitava il principio sensitivo, e questo operava in tutto il sistema nervoso e sul vascolare (1). Il sistema ganglionare divenuto atto a dare sensioni osservabili. - Di questo fenomeno è a dire il somigliante che del precedente. Sia alterazione nella composizione elementare, sia mobilità maggiore e maggiore comunicazione col sistema cerebrale e col vascolare; il sistema ganglionare si rende atto ad ammettere lo spostamento sensorio degli elementi, o acquista lo stimolo opportuno, che non aveva prima. Fin qui della località delle sensioni. Parliamo ora della località dei movimenti e fenomeni morbosi, che ne conseguono. Le località di questi movimenti e fenomeni morbosi ricevono la stessa spiegazione di quella delle sensioni, perocchè movimenti precedono e movimenti susseguono alle sensioni; sicchè movimenti e sensioni sono legati egualmente alle località. Ora tutti i fenomeni morbosi sono accompagnati o costituiti da movimenti. Egli sembra che le febbri d' ogni genere si possano riportare ad una di queste due cause, o ad un' affezione del sistema nervoso, o ad un' affezione del sistema vascolare (1), l' uno dei quali non manca però mai di sconcertare più o meno l' altro. La località è determinata dallo stimolo primitivo violento, e quindi appresso dalle simpatie , che ricevono varie modificazioni dalle accidentali varietà dei tessuti organici e dell' intero organismo. Talora l' organo, che soffre simpaticamente, rimane gravemente ammalato, quando il primo, irritato, soffrì leggermente. Così il freddo, operando esternamente sui tegumenti, cagiona infiammazioni al petto, agli intestini, alla vescica, ecc.. Rimarrebbe a parlare delle località terapeutiche, cioè dell' applicazione e dell' azione delle sostanze terapeutiche in determinate parti del corpo, e dei loro effetti in certe altre, o rispetto alla condizione universale; ma la loro spiegazione dipende dagli stessi principŒ. E` degno d' osservazione che le medicine rare volte si applicano alla parte ammalata; per lo più si affidano alle membrane mucose gastriche. Quindi le località, a cui trasmettono l' effetto della loro azione, sono determinate in gran parte dalle simpatie e da quelle cause accennate di sopra, che alle simpatie danno questa o quella direzione speciale e locale, principalmente poi dalle diramazioni nervose e vascolari, e dalle leggi con cui operano questi sistemi (1). E qui basti. Chè questo libro delle leggi dell' animalità, dove si disse tanto poco d' un subbietto senza confini, sarà parso lungo a quanti, cercando nella Psicologia esclusivamente la dottrina dell' anima intellettiva, non intendono che ella è condizionata alla dottrina del principio sensitivo. Il qual vero si tentò da noi di porre in evidenza, e tuttavia non ci confidiamo d' averne persuaso ogni fatta di persone. I medici, non senza qualche ragione, ci garriranno: come avete voi messo la falce nella messe altrui? Di che v' è occorso di dire molte cose inesatte, molte erronee. - Non ho che ad impetrare la loro indulgenza; emendare l' inesatto, cancellare il falso, mi sarà gratissimo; potrebbe essere che avanzasse ancora qualche cosa di buono; i più dotti, sempre più indulgenti, forse lo raccoglieranno. Dirò a tutti i professori dell' arte salutare, siccome pure a tutti gli studiosi di Psicologia, quale fu il mio intendimento. Nei moderni tempi gli scienziati hanno diviso l' uomo in due, alcuni tolsero a parlare dello spirito, altri del corpo; a ciascuna delle due parti parve possedere tutta la scienza, e contese coll' altra, e la dispettò, e il dispetto, tenendo luogo di ragione, divise maggiormente le due fazioni. Che ne fu? Invece di avere una scienza sola dell' uomo, se ne ebbero due, contenziose, contradittorie, inimicissime. L' una, e la meno rea, fece dell' uomo un cotal angelo tutto spirituale, che per un cotal miracolo moveva un corpo; all' altra metà restò la materia, la quale anch' essa, per un miracolo molto maggiore, s' animava da sè stessa, e sapeva fare tutto ciò che fa lo spirito. A noi parve desiderabile che cessassero cotali dissidi, e l' uomo riacquistasse nella scienza l' unità che ha nella natura, toltagli dagli imperfetti e fallaci metodi di studiarlo, seguitando i quali, quelli che da due secoli filosofarono intorno all' uomo, nè poterono mettersi in accordo, nè giungere al bramato conoscimento dell' essere umano; chè nè l' uomo dei medici, nè quello di alcuni psicologi è veramente l' uomo. L' intendimento dell' opera presente non ci sembra aver bisogno di maggiore dichiarazione; e speriamo che pure quei savi, che professano l' arte salutare, non lo vorranno biasimare, scuseranno ciò che vi è di imperito nel nostro audace tentativo, pregiando la bontà del fine; s' accorgeranno che colle scorse da noi date nella scienza da essi valorosamente coltivata, abbiamo voluto (non diciamo di essere riusciti) restituirle quell' onore, di cui fu spoglia da tanto tempo, che da lei dipendesse la scienza dell' anima, ed anzi ne fosse gran parte; sicchè d' ora in avanti non si possa più riprendere nè il psicologo, che s' addentra in alcune fisiologiche dottrine, nè il fisiologo o il medico, che ragiona dell' anima, quasi movessero i passi nell' altrui campo. L' uomo è uno; le due scienze sono una; la loro conciliazione ed unione prepara la perfezione dell' unica vera scienza dell' uomo. Le cose toccate in quest' opera, principalmente nell' ultimo libro, e attenenti alla medicina, mi acquisteranno forse riprensione e biasimo da una maniera di persone più gravi ancora. Convengono ad un sacerdote gli studi laicali? Come perdersi in scienze tanto aliene dalle sacre dottrine? Come scendere ad investigazioni sì basse e palustri inverso alle vette altissime dei monti santi? - Avrei a rispondere assai più cose che non possano capire in queste estreme pagine, le quali debbono chiudere l' opera, e non aprirla a nuova materia di ragionare. Ma potrebbe bastare anche ciò che pur ora dicevo, aver bisogno la scienza dello spirito di molte dottrine riguardanti l' animalità, senza le quali quella si rimarrebbe imperfetta; più imperfetta ancora si rimarrebbe la scienza dell' animalità, segregata da quella dello spirito, chè rimarrebbesi materiale, e il guardarla dall' ignominioso materialismo non deve essere desiderabile, anzi propria sollecitudine dei teologi cristiani? Pure quand' anche non vi fosse la necessità, che è pur così manifesta, di aggiungere lo spirito all' argilla effigiata dei fisiologi e dei medici moderni, non mi pentirei d' avere indicato, o almeno d' aver voluto indicare, ove la medicina moderna nella cura dei morbi vada traviando: quali errori sistematici la danneggino sì fattamente da farle perdere il fine di guarire le infermità, o almeno di alleggerirle ai mortali. Perocchè non la sola verità, ma con essa la carità è principale ufficio del sacerdote cattolico, ed ella è voce oggimai universale e da niun savio, benchè professore dell' arte medica, contrastata, che quest' arte sia ridotta a pessima condizione; anzi i medici più valenti dell' età nostra sono quelli appunto che ne mandano più lamenti, e i soli mediocri la difendono. Chi può numerare le migliaia d' uccisi da quell' ostinazione di restringere l' arte salutare a non dover far altro che misurare la quantità dello stimolo, e trovare se ecceda ovvero difetti, trascurando così di tener conto di tutte le innumerevoli circostanze, che rendono uno stimolo opportuno ovvero inopportuno? Perocchè si riduce forse a questo la principale differenza, che allontana cotanto la nuova medicina dall' antica. L' arte nuova vanta grandissima semplicità, si fa una sola questione: se ecceda o difetti lo stimolo; qui finisce per non pochi la medica sapienza. L' antica incominciava: « l' arte è lunga, la vita breve, il tempo precipitoso, l' esperimento arrischiato, difficile il giudizio »; tanti erano gli accidenti, così variabili, così fuggevoli, così complicati, che ella stimava dover sagacemente osservare, giustamente calcolare, prima di concludere quale fosse la cura più opportuna d' una malattia. Che ora esca una voce dal tempio, e s' unisca a tante altre per domandare la riforma, la restaurazione di un' arte, che, in fiore, salva molte vite in pericolo, decaduta, ne trae molte ella stessa in pericolo, molte ne perde, non deve parere indecoroso, nè maraviglioso a chi sa il cristiano sacerdozio essere istituito ad alleggerire all' umanità tutti i mali, procurarle, accrescerle tutti i beni. A chi poi lo ignora, e però stupisce e si scandalizza che noi ci avvolgiamo in medici studi all' intento di ravviarli, con isforzi maggiori forse del potere, su quel diritto cammino, da cui tanto s' allontanarono, diremo così: niente c' importerebbe sapere di medicina, non vorremmo consacrarle alcuna parte del breve nostro tempo, se non fosse stato Uno, che avesse pronunciata questa parola: « amatevi l' un l' altro »; quell' Uno, che solo fra quanti hanno loquela, sa chiaramente parlare nel fondo del cuore. Niuna maraviglia che dopo quella solenne ed efficace parola i sacerdoti cattolici scrivano anche di medicina; quella parola fece fare agli uomini troppe altre cose maggiori, e molti non si ricusarono di parere e d' essere trattati da pazzi, per non disubbidire a quell' accento divino. Giudicateci tali; quella parola ci necessita ad accettare il vostro giudizio in pace. Ma ora, per conchiudere finalmente il lungo nostro lavoro, e in qualche modo ricapitolarlo, la natura dell' anima semplicissima, e l' indefinitamente molteplice sviluppo della sua meravigliosa attività diedero argomento alla prima ed alla seconda parte dell' opera. Vedemmo nella prima parte come l' anima sia una in ciascun uomo, com' ella sia il principio semplice di tutte le operazioni umane, come sia sostanza e in pari tempo principio d' un sentimento, come questo principio sentimentale e sostanziale sia intellettivo, come questo principio intellettivo abbia un' immediata e immanente percezione d' un corpo vivente, come, mediante questa percezione immanente, egli si compenetri col principio sensitivo, e ne risulti un solo principio intellettivo e sensitivo, avente un doppio termine d' azione, l' inteso, essere ideale, e il sentito, corpo soggettivo; e quindi acquisti condizione di principio razionale , nel quale è messo in essere l' uomo. Questo principio razionale percepisce sè stesso nell' essere ideale, e così acquista la coscienza, e, reso consapevole, si esprime col vocabolo IO . La percezione di sè è il principio della Psicologia , e perciò questa appartiene alle scienze di percezione ; ella si rinviene e si svolge coll' osservazione interiore di ciò che si contiene, permane, e cangia nello stesso IO , e dell' ordine in cui stanno fra di loro gli elementi che lo costituiscono. Niuna concrezione di materia entra nell' anima umana, e però è spirituale; il suo termine primordiale è l' essere, di natura eterna ed infinita; quindi, sebbene ella possa perdere il termine corporeo, con che dicesi che l' uomo muore, perchè se ne separano quelle due parti ond' egli risulta, tuttavia l' anima stessa intellettiva è immortale, ed ha un' ordinazione all' ente infinito. Con questo lieto risultato chiudemmo la prima parte della Psicologia . Aprimmo la seconda coll' indagare in che modo quelle tante attività dell' anima, che nelle sue passioni ed azioni si manifestano, giacciano da principio tutte contenute, e quasi dormienti, nella semplicissima essenza, e come si sveglino poscia, e da lei si distinguano: ricerca che ci obbligò d' entrare in alcune questioni ontologiche, le quali si sarebbero da noi potute non poco abbreviare, se ad una scienza ontologica già formata avessimo potuto riportarci. Ma l' Ontologia è per anco quella scienza, che di tutte rimane più imperfetta, come di tutte è più ricca. Trovammo dunque nella semplicità dell' anima una molteplicità, organata ed armonica, quasi a lei aderente; ma che non penetra in essa per modo da discioglierne l' unità e la perfetta semplicità. Vedemmo che l' anima, unico principio, si pone in atto mediante una pluralità di termini, che la attuano diversamente, senza perciò moltiplicarla, anzi rimanendo ella identica in tutti i diversi suoi atti, quasi vertice o centro di più angoli; e quindi trovammo la via d' accordare la molteplicità delle attitudini colla semplicità del principio; dalla considerazione poi di quei diversi termini deducemmo, ordinate e classificate le molteplici attività, potenze e facoltà umane. Ma tutte queste attività conservano nel loro operare delle leggi costanti e meravigliose, e per entro a questa nuova investigazione, quasi in non mediocre pelago, non dubitammo di sospingere pure la nostra navicella. Volendo noi dunque svolgere e descrivere le leggi, secondo cui operano costantemente le umane potenze, anche qui, innanzi d' ogni altra cosa, cercammo di tutte quelle leggi la prima ragione ed origine nell' essenza dell' anima, d' onde di mano in mano le facemmo poscia tutte uscire. L' ultimo libro finalmente, che tratta delle leggi dell' animalità, noi l' aggiungemmo come appendice, chè quelle non sono propriamente leggi dell' attività umana, ma leggi, a cui questa è quasi di continuo condizionata e mirabilmente connessa. Ora poi qual' è l' ultimo intento, quale il desiderabile effetto di così varie e di così sublimi attività, di cui fu ornata dal Creatore l' anima umana? Quale è il naturale voto di lei? Che destino le fu assegnato da Colui che le diede l' essere? In sapere questo solo sta veramente il frutto maturo della dottrina intorno all' anima, il quale non fu ancora da noi raccolto. I nostri lunghi ragionamenti ci avranno dunque condotti alla porta del giardino, senza potervi entrare? E fino sotto alla bella pianta, senza che ci sia dato di spiccare la rubiconda e saporosa poma che vi dipende, per cibare la quale prendemmo il faticoso viaggio? - Non si deve pretendere che una scienza bene ordinata mostri il suo utile risultamento, prima ch' ella sia pervenuta alla fine; nè veramente nella dottrina delle attività e leggi, colle quali l' anima si sviluppa ed opera, finisce la Psicologia ; fino dal cominciamento, noi avvisammo che la cosa di tutte importantissima e nobilissima, che le rimane ad investigare, è la destinazione stessa dell' anima. Perchè dunque fermar qui il passo? Perchè chiudere questa opera, senza toccare il suo termine, al quale sempre riguardando, si fece tanto cammino? - Il lettore, crediamo noi, non ne andrà scontento, ove egli consideri che, quantunque a diverse scritture noi abbiamo posto titolo diverso, e ciascuna dimostri un cominciamento ed una fine, tuttavia elle non sono più che parti, ovvero brani di una sola e medesima scienza, niuno dei quali è compiuto in sè medesimo; chè una è la Filosofia , una la scienza; onde il ripartirla in più libri e ordinarla sotto diverse intitolazioni si fa per alleggerimento di fatica agli studianti, i quali di un' opera lunghissima e pressochè interminabile potrebbero pigliare sgomento o fastidio. Al che riflettendo, neanche la presente trattazione psicologica parrà imperfetta e tronca a chi la voglia raggiungere colla Teosofia e coll' Antropologia soprannaturale , trattati che, a Dio piacendo, e favorendoci il tempo, comunicheremo al pubblico, il primo dei quali è via al secondo, dove dei destini dell' anima umana ci converrà distesamente ragionare. Toccammo già del perchè abbiamo creduto conveniente ed anzi necessaria questa dilazione. L' anima umana è un' intelligenza; ciò vuol dire, ha tal natura che l' oggetto per essenza, l' essere eterno, di continuo le si manifesta, ed indi ella trae l' atto dell' esser suo. Questa altissima relazione essenziale, che da parte dell' eterno oggetto dicesi manifestazione , da parte del soggetto intuizione , crea l' anima, che è il soggetto intuente. Affissata nell' essere eterno e divino, ivi ella tiene la sua naturale sede; ella è nell' essere; dove si vede qual parte di vero contenga la sentenza di Nicolò Malebranche, che Iddio è come « il luogo delle intelligenze ». Nulla mancherebbe alla piena verità di questa sentenza, se l' illustre filosofo che la proferì, avesse saputo accuratamente distinguere il concetto di Dio e il concetto di ciò che è divino. Dimorando dunque l' anima intellettiva nell' essere divino e sempiterno, quasi ivi innaturata, non mai confusa, è manifesto che da quell' essere, onde si origina ed ha l' essenza e l' esistenza, e onde non si può partire intieramente giammai, che, se indi si dipartisse, s' annienterebbe, ella deve ritrarre altresì ogni suo perfezionamento ed ogni suo compimento. Tanto più che ella, essenzialmente intelligente, non è congiunta, nè comunica immediatamente con alcun' altra cosa; comunica con tutte soltanto per mezzo dell' essere, a cui è affissa, pel quale conosce; chè gli enti sconosciuti non sono alla intelligenza. Ed intelligenza è l' umana persona; sicchè l' essere sempiterno, che naturalmente la illumina, è per esso lei quel mediatore che alle cose tutte la congiunge, e le cose a lei; e però l' anima intellettiva, siccome ogni altra intelligenza, in questo essere manifesto e manifestante ha tutto quello che ha, da questo tutto riceve, questo le dà tutte le altre cose. Il che rende manifesto come l' anima non sia il bene di sè medesima, anzi il suo bene sia un diverso da sè, chè dimora nell' eterno oggetto, nell' essere infinito, nel lume, che la fa essere anch' essa lume, e le dà tutto ciò che ella può ricevere, le acquista tutto ciò che ella può acquistare. Ragionare dunque convenientemente e, in qualche modo, pienamente della perfezione e della destinazione dell' anima non si può, senza uscire da lei; conviene che il discorso si spinga con ardire a più sublime argomento, che s' innalzi fino alla divinità; conviene che abbandoni per qualche tempo l' anima, e dopo investigate le cose divine e Dio stesso, quanto all' uomo è conceduto, a lei faccia ritorno. Come l' anima dall' essere eterno, nel cui seno ella dimora perpetuamente, può derivare a sè la propria perfezione? E può ella indi derivarla da sè medesima? Da parte del medesimo essere si esige forse qualche nuova meravigliosa, misteriosa operazione? Tutte ricerche, che trapassano il breve confine della semplice Psicologia. Il che dimostra a sufficienza che questa, siccome tutte le altre scienze umane, per sè sola è imperfetta, nè si può perfezionare, se non oltrepassa i confini della propria limitata sfera, e non si continua con altre scienze maggiori di lei, che, lasciandosi addietro l' universo creato, ne trovano il Creatore, il quale come dello stesso universo è il principio e la causa, così ne è anche il fine, la ragione, il perfezionamento, l' eterna sublimissima destinazione. Per questo noi giudicammo del tutto necessario riserbarci a parlare intorno ai destini dell' anima umana nell' Antropologia soprannaturale, la quale deve tener luogo dell' ultima parte, e del glorioso fastigio della Psicologia. Essendomi io, o Giuseppe dolcissimo, fino dai primi miei anni, come è conveniente che ogni uomo faccia, dato discepolo alla verità in primo, e poi al senso comune degli uomini (tutti rispettandoli io siccome esseri dotati del divino lume dell' intelligenza), procurai di raccogliere le loro sentenze, quando o ce le tramandarono se passati, o ce le esposero se presenti, sopra quegli argomenti che più importano al retto pensare ed al ben vivere, sollecito d' intendere, quanto per me si potesse, il fondo dei loro pensamenti, anzi che di fermarmi alla corteccia delle parole, di cui li rivestirono. E così io trovai, non senza soddisfazione dell' animo mio, che essi furono più consenzienti fra loro nell' opinare intorno alle cose sostanziali e necessarie, di quello che ne pare nel primo aspetto, ed anche più talvolta che non credessero per avventura essi medesimi. Onde, sapendo quanto studio tu ponga nella filosofia, e quanto altamente apprezzi quelle parole degne di un oracolo, «gnothi seauton», io ti mando qui brevemente esposte le principali opinioni dei filosofi e degli stessi popoli sulla natura dell' anima, accompagnate da qualche mia osservazione benevola ai loro autori, e conciliatrice; persuaso che tu accoglierai questo tenue lavoro, siccome segno del mio affetto, e fors' anche esso ti potrà prestare qualche utilità nell' istituzione dei giovanetti, che dànno opera alle filosofiche scienze, nella quale tu assiduamente ti occupi; o, se in questo io m' inganno, atteso che la tua erudizione non abbisogna di straniero soccorso, esso mi procaccerà almeno da te qualche ricambio, che gioverà a me stesso. Io dunque narrerò i pensamenti e le opinioni principali sulla natura dell' anima umana, tenendomi, quasi a filo conduttore, a quel principio degli Eclettici, che « « tutti gli errori degli uomini hanno un cotal lato vero e un cotal lato falso, e che come il lato vero ha per causa l' aver essi osservato qualche cosa della natura, così il lato falso ha per causa l' avere ommesso di osservare qualche altra cosa », » subentrando in mezzo la prontissima fantasia a supplire alla manchevole osservazione, sì fattamente che, in generale parlando, riesce vero ciò che vi è negli umani pensieri di positivo, e riesce falso ciò che vi è di negativo, di esclusivo, e di arbitrario. Il qual principio, dove si applichi a comporre un sistema filosofico, siccome fuori di luogo (e questa importuna applicazione è l' errore degli Eclettici), riesce sterile e illogico, perchè nelle dottrine non può discernere il vero dal falso colui che già prima non possiede il vero, qual tipo al cui riscontro il falso si riconosce; ma esso diviene ottimo, applicato alla storia dei placiti filosofici, la quale non può essere convenevolmente trattata, se non dopo che la filosofia stessa sia trovata e sufficientemente stabilita; chè solamente con questa si può giudicarli equamente, ed anche ridurli a qualche concordia, da variatissime e discrepantissime sentenze cavando un solo tutto, legato in meravigliosa unità. Ma poichè le opinioni antiche sono quelle che io voglio principalmente riferire, descrivendole più da filosofo che da storico, perciò mi si conviene avvertir prima d' ogni altra cosa, che le antichissime a noi non pervennero se non in minuti frammenti, quasi logore e scarse rovine di venerandi edifizi, e che la lingua antica in cui sono espresse, siccome assai sintetica (conciossiachè la facoltà dell' analisi non si svolse che pel corso dei secoli), dovette esprimere i concetti indistinti, come essi erano nelle menti, ed anzi più; di che sembra che voglia esserci conceduto dagli uomini discreti l' interpretarli per modo da cavarne un senso ragionevole, benchè assai spesso lo faremo più per modo di congettura che di fermo pronunciato. Ora, prima di tutto, ecco ond' io crederei poter dedurre un principio, il quale mi guidasse a classificare le diverse sentenze, che gli antichi seguitarono intorno alla natura dell' anima umana. Quasi anelli d' una catena le cose dell' universo sono annodate insieme, sicchè il primo anello è la materia; il secondo l' anima sensitiva, che la sente e percepisce; il terzo l' anima intellettiva, che percepisce il sentimento; il quarto l' essere, che risplende nell' anima intellettiva e le giova di mezzo universale a conoscere; il quinto è Dio, che è lo stesso essere assoluto, prima e suprema origine di tutte le cose precedenti. In questa ammirabile catena, che tiene sospeso al cielo tutto l' universo, sta come anello medio l' anima intellettiva, la quale si trova legata ai due primi pel senso, e si trova legata ai due secondi per l' idea e per l' influenza dell' Ente sussistente, dove l' idea ha la sua propria sede e sempiterno domicilio. Ora quegli uomini, che incominciarono a domandare a sè stessi « che cosa sia l' anima », volsero certamente la loro attenzione e la loro curiosità all' anima intellettiva; perocchè l' uomo che toglie a riflettere su di sè, non può partire che dall' Io (1), e nell' Io è già contenuta l' anima intellettiva. Ma quell' anima, essendo inanellata, come dicevamo, da una parte colla materia e col senso, dall' altra coll' idea e con Dio; nè potendosi ella distinguere, se non da una mente già addestrata all' attenzione ed all' osservazione analitica, la quale mancava ai primi pensatori, nè si educa che col tempo; doveva necessariamente avvenire che il concetto di lei si confondesse nelle loro menti coll' una o coll' altra di quelle quattro cose, che non sono lei, ma sono legate intimamente con lei. Quindi dovettero uscirne, e ne uscirono veramente, quattro classi di sistemi erronei, i quali riferirono la natura dell' anima, ora alla materia, ora al senso, ora all' idea, ed ora a Dio stesso. Come poi si potrà sciogliere e sceverare dentro a cotali sistemi erronei quella parte che sta in essi di verità? Questo da noi si potrà ottenere, considerando che gli autori di quei sistemi osservarono bene quelle cose che sono legate coll' anima, e in quell' osservazione si trova la verità; ma poscia tralasciarono di osservare che quelle cose, da essi osservate, non erano l' anima che intendevano definire, e in questa disattenzione sorse la falsità. L' aver essi adunque tralasciato di osservare le differenze, che separano dall' anima le cose che sono all' anima congiunte, ecco il fonte di tutti i loro errori. Questo è il solito procedimento della mente umana, che prima apprende le cose tutte insieme, e poi le distingue. Il movimento libero dell' intendimento umano cominciò nell' Asia minore, nella stirpe jonia; il primo oggetto che s' offerse a quella speculazione si fu la natura materiale. E così doveva essere, perocchè la prima operazione naturale della ragione si è la percezione dei corpi; dunque l' oggetto di questa, il corpo, doveva essere altresì trasportato il primo nella sfera della riflessione filosofica. L' impulso e l' occasione d' un tale movimento venne dalla corruzione delle verità tradizionali intorno a Dio massimamente, le quali degenerarono nei miti e nell' idolatria. Perduta la scorta sicura della primitiva rivelazione, l' uomo fra le genti sentì il bisogno di cercarne un' altra, e sperò di trovarla nel libero esercizio del proprio pensiero, e così da discepolo stato fino allora, tolse a divenire maestro di sè stesso (1). L' Oriente, vicino al fonte della primitiva sapienza, e massimamente l' ebraica nazione, in cui quella si mantenne intemerata, e a cui furono consegnati in deposito i positivi oracoli della Divinità, non ne sentì egualmente il bisogno; perciò ivi, possedendosi il vero, non nacque, o almeno non nacque con istrepito e baldanza, la filosofia, nè si ridusse a scienza rigorosa la Dialettica, che ne è il foriere e lo strumento. Al confine occidentale dell' Asia l' eco della tradizione divenuto evanescente e confuso, l' individuo umano si trovò vacillante nei passi suoi, per l' incertezza e in parte altresì per l' assurdità della dottrina sociale; rientrò dunque in sè per sorreggersi; e permettendo un tanto male, disponeva nel suo alto consiglio la Provvidenza che fosse creata la scienza. Ma colui che primo sorse a filosofare, e quelli che gli vennero appresso, non potevano importare ad un tempo tutto ciò che conoscevano direttamente e popolarmente nell' ordine della scienza, nel campo dell' individuale riflessione; la prima cosa adunque, che importarono in essa, e che sottomisero alla meditazione, furono i corpi. Così ebbe origine la dottrina degli elementi (1). Talete (a. 600 av. G. C.) e Ferecide posero il principio di ogni cosa nell' acqua. Ippone di Reggio ripose la sostanza dell' anima nell' umore genitale, che perciò faceva vivente (2). I quali filosofi trovarono indubitatamente questo principio nella tradizione, la quale narrava come tutta la materia a principio fosse creata in istato liquido, e dal liquido uscissero tutte le cose. Suida, Eustazio ed altri attestano che Ferecide potè avere in mano certi libri arcani dei Fenici. Hernius provò che questi libri erano i libri di Mosè (3). Talete, appartenente ad una famiglia fenicia, e però di nazione contermina all' ebraica, si deve esser confermato in questa sentenza dall' aver veduto che tutte le generazioni cominciano dal liquido, e che il nutrimento stesso deve rendersi liquido, acciocchè sia rifuso nel corpo vivente, e ne acquisti la medesima vita. Così congettura Aristotele sull' opinione di Talete: [...OMISSIS...] . Al che aggiunge il conforto di tradizioni più antiche. [...OMISSIS...] (1). Ora, che Talete ricevesse dalla sacra tradizione il suo principio dell' acqua come origine delle cose, pare confermarsi dall' osservare che egli aggiungeva all' acqua lo spirito, «nus», qual principio motore (2), il quale spirito è pure indicato nell' antichissimo dei libri, come quello che ferebatur super aquas . Al che consuona anche la tradizione profana, riferita da Probo con queste parole: [...OMISSIS...] . Quanto poi ad Ippone, Aristotele lo colloca tra i filosofi rozzi. [...OMISSIS...] . Aristotele dice che nei versi orfici si legge che l' uomo trae l' anima dall' universo colla respirazione (2). Di poi Anassimandro, contemporaneo di Talete, Anassimene (a. 557 av. G. C.), Anassagora (a. 440 av. G. C.) (3), Archelao (a. 460 av. G. C.) (4), e Diogene Apolloniate (a. 460 av. G. C.) (5), riposero pure, in un modo o nell' altro, la natura dell' anima nell' aria, cioè ancora in un fluido, onde non si allontanarono gran fatto dai precedenti. Varrone fra i Romani, seguendo quell' antica sentenza, definì l' anima così: [...OMISSIS...] . La qual sentenza fu suggerita ai filosofi evidentemente dall' osservare il fatto della respirazione. Si legge in Cicerone: [...OMISSIS...] . E lo dice pure Lattanzio: [...OMISSIS...] . Ma Aristotele dà altra ragione di questa sentenza: l' aver voluto pigliare quei filosofi a sostanza dell' anima la sostanza più mobile e più sottile (9), affine di spiegare l' anima per via della sua qualità di essere mobilissima; la quale a me sembra anzi una spiegazione sistematica che vera, secondo il vezzo di Aristotele, ovvero una ragione trovata posteriormente alla vera. Secondo Pitagora [...OMISSIS...] . Tuttavia sembra indubitato che Pitagora distinguesse da questa l' anima intellettiva, di cui troppo più altamente sentiva, come diremo a suo luogo. Eraclito di Efeso pose a principio delle cose il fuoco (2). Democrito ridusse l' anima ad atomi rotondi di fuoco (3). Così pure Leucippo (4), Zenone e gli Stoici, suoi discepoli, seguirono la stessa dottrina (5). Ad Ipparco è attribuita da Macrobio la stessa sentenza (6). Questa sentenza nacque al vedere i grandi effetti del calore, specialmente vaporoso, conosciuti anche dagli antichi, e dell' elettricità in tutta la natura, e singolarmente dall' osservazione di quel calore, che si sviluppa nell' animale colla respirazione. Quanto lungamente i medici ponessero nel calore il principio vitale dell' animale, ho accennato altrove (7). Aristotele, di cui conviene alquanto diffidare, perchè inclina a ridurre a certe determinate classi gli antichi sistemi, e sembra talora interpretarli in modo da forzarli ad entrare nelle classi prestabilite, pretende spiegare l' opinione che poneva la natura dell' anima nel fuoco, per la mobilità e sottigliezza di questo. Egli riduce tutti gli antichi sistemi intorno all' anima a tre generi: a quelli che definiscono l' anima per mezzo del moto ; a quelli che la definiscono per mezzo del senso ; a quelli che la definiscono per qualche cosa d' incorporeo (1). L' opinione adunque del fuoco la ripete da un tentativo di spiegare il movimento spontaneo. [...OMISSIS...] . Ma altrove Aristotele medesimo fa venire questa sentenza dall' opinione popolare espressa nella lingua. [...OMISSIS...] . E tuttavia non è certo che questi antichi ponessero l' anima interamente materiale, quando anzi piuttosto spiritualizzavano gli elementi, e specialmente il fuoco, o in luogo dell' anima pura (di cui non avevano ancora l' idea netta) parlavano dell' animato . A me pare probabile che il crudo materialismo si debba attribuire a tempi più bassi e di corruzione, come al tempo di Stratone ed ai posteriori (4). Aristotele asserisce che i filosofi dissero essere anima ognuno degli elementi fuori che la terra, la quale niuno disse essere anima, se non quelli che composero l' anima da tutti insieme gli elementi (1). Il qual luogo, se non è stato interpolato, rende sospetto il verso attribuito da più autori antichi (2) a Senofane: [...OMISSIS...] . E non di meno Macrobio attesta che Senofane faceva l' anima « ex terra et aqua (4) », e il suo discepolo Parmenide « ex terra et igne (5) ». Forse Macrobio dice dell' anima quello che tali filosofi avevano detto dell' uomo. Mi fa congetturare la cosa dover essere così dal vedere che Diogene Laerzio narra che Zenone di Elea, discepolo di Parmenide, fa uscire l' uomo dalla terra, e dichiara l' anima un miscuglio di elementi, cioè di freddo e di caldo, di secco e di umido, così armonico però, che nessuno di essi tiene sugli altri il predominio (6). Il fare risultare l' anima non da un solo elemento materiale, ma da tutti insieme, e il porre in essi l' ordine e l' armonia, è già un passo di più che fa la riflessione. Ella ha già conosciuto che niun elemento materiale da sè solo può spiegare le operazioni dell' anima (7); e ricorrendo all' armonia, si cominciava ad aggiungere al concetto dell' anima l' unità, e qualche cosa di spirituale, perocchè l' armonia suppone un ente semplice, che in sè contenga il molteplice. Fra quelli che così opinarono, celebre fu Dicearco, di cui Plutarco scrive: [...OMISSIS...] . Aristosseno musico pose pure l' anima in una armonia; ma pare che la sua non fosse l' armonia degli elementi, ma degli organi e dei sensi. Onde Cicerone così descrive la sentenza di questo filosofo: [...OMISSIS...] . Ora, posciachè era ancor troppo difficile il concepire questo nobilissimo vero, che l' armonia non poteasi avere che in un principio semplice e spirituale, quelli che nell' armonia riposero la natura dell' anima, senza intendere quale dovesse essere la sede dell' armonia, finirono col dichiararla un niente. Il che ci dice appunto Cicerone, parlando di Dicearco: [...OMISSIS...] . Nella quale dottrina si sente tutto l' impaccio di chi erra, poichè si pone una forza equabilmente diffusa in tutti i corpi viventi, da essi inseparabile - che corrisponderebbe da qualche lato all' anima elementare e senziente lo spazio, di cui parlammo nella Psicologia - e un temperamento di tali corpi, cioè un' organizzazione, onde l' anima organica, che si dissipa coll' organismo; e tuttavia si dice che l' anima sia niente. Pare adunque volesse dire che l' anima non era niente, separata dal corpo; il che era tuttavia un travedere come l' anima sensitiva, o principio senziente, non poteva sussistere senza il sentito, non sollevandosi il pensatore fino alla natura dell' anima intellettiva, nè intendendosi per anco che il senziente (l' anima) non era il sentito (corpo). Di Aristosseno, Lattanzio afferma il medesimo. [...OMISSIS...] : quasichè la musica fosse senziente e non sentita; e per essere sentita non avesse bisogno degli orecchi e delle anime altrui che la sentano! Finalmente si passò all' opinione che l' anima consistesse in qualche sostanza, composta bensì di elementi, ma di una determinata maniera. E qui cade il sistema di quelli che la riposero nel sangue, fra i quali Crizia (2). Quanto poi ad Empedocle, noi ne parleremo in appresso. E cade pure il sistema di quelli, di cui parla Cicerone così: [...OMISSIS...] . Alla quale è prossima la sentenza dei moderni materialisti, che la confondono col cervello o col sistema nervoso; ed anche in più la dividono, secondo le parti di questo. Quando da prima s' intese che i soli elementi materiali non bastavano a spiegare le operazioni dell' anima, allora s' aggiunse loro qualche altro principio; ma non si abbandonarono perciò tantosto gli elementi. Era il medesimo che pervenire a qualche cosa di spirituale; ma l' intendere che questo principio doveva essere spirituale, appunto perciò che non apparteneva agli elementi materiali, non fu agevole passo, nè si fece d' un tratto. Con questo principio nuovo che si aggiunse, si pervenne al senso. Plutarco espone così la sentenza di Epicuro (n. 337, m. 270 av. G. C.): [...OMISSIS...] . Stobeo aggiunge la spiegazione di questa sentenza di Epicuro così: [...OMISSIS...] . Epicuro adunque conobbe che non si poteva spiegare il senso coi soli elementi materiali o colle loro qualità, e ricorse ad un altro principio, che disse innominato, appunto perchè diverso dagli elementi conosciuti e nominati; ma non si elevò all' intelligenza, nè s' avvide che questo quarto principio sensitivo doveva essere immateriale (3). Egli poi lo congiunse all' organizzazione per guisa che, disciolta questa, si dissipava (4); il che era un travedere la natura dell' anima sensitiva. Gli Stoici, secondo Plutarco, posero nel senso la parte principale dell' anima (5); il senso poi l' attribuivano a un cotale spirito simile a quello di Aristotele, della natura del calore (6). Dalla parte principale poi dell' anima derivavano tutte le altre, e così la costituivano (7). Ora, come dopo la dottrina degli atomi venne quella della loro armonia, professata da Dicearco e da Aristosseno, così dopo la dottrina che poneva l' essenza dell' anima nei sensi, venne quella dell' armonia dei sensi. Plutarco dice che il medico Asclepiade definiva l' anima [...OMISSIS...] il che veramente era un porre ancor meno di quello che aveva posto Epicuro, perocchè questi, ponendo un principio sensitivo, aveva abbracciato tutto il sentimento animale, là dove Asclepiade riduceva l' anima alle cinque maniere esterne e comuni di sentire, senza accorgersi che l' animalità ne ha molte altre. Pervenuta la meditazione filosofica a riflettere sulla natura del sentire, e conosciuto che questa operazione non si poteva in alcun modo spiegare mediante i soli elementi materiali, rimaneva che i pensatori facessero entrare nella sfera del pensiero riflesso e scientifico anche l' operazione dell' intelligenza, ove potevano finalmente rinvenire la natura dell' anima intellettiva. Ma è più difficile fissare la riflessione sul soggetto intelligente, che non sia trapassare di un salto all' oggetto, e in questo esclusivamente collocarla; perocchè l' oggetto è quello in cui il pensiero finisce; e la via percorsa dal pensiero, e il pensiero medesimo non diviene oggetto, se non per una operazione riflessa posteriore. Quindi si scorge ragione manifesta perchè niuno forse degli antichi giunse a distinguere e separare del tutto il soggetto dall' oggetto, cioè l' anima dall' idea ; e tutti i più illustri, usciti dalla materialità dei primi, e sollevati eziandio sopra il senso, precipitarono il loro volo nella idea, senza fermarsi pure all' intelligenza, che pensa l' idea; cioè a dire riposero l' intelligenza e l' anima intellettiva nelle idee. PITAGORA. - Fra questi mi sembra poter annoverare prima degli altri Pitagora, di cui riferisce Plutarco che [...OMISSIS...] . Ora i numeri non sono che idee astratte; se dunque la mente è un numero, essa mente, ossia l' anima intellettiva, è confusa colle idee che illuminano l' anima, il soggetto coll' oggetto. Ma questo concetto dei numeri pitagorici venne esposto diversamente dagli antichi, appunto perchè essendo esso un' astrazione, lasciava un immenso campo ai discepoli di determinarla in varie guise; ed era pur necessario che nell' uno o nell' altro modo la determinassero, acciocchè ne riuscisse un qualche ente. Aristotele, che si mostra incerto del significato che debba dare al numero di Pitagora, toglie a confutare questa sentenza presa in tre sensi; cioè come se s' intendesse di puri numeri, e come se s' intendesse di piccoli corpicciuoli, e finalmente come se s' intendesse di punti matematici (2). Fa meraviglia come egli neppure accenni che i numeri di Pitagora sieno idee; eppure lo dissero alcuni altri antichi; nè tampoco accenni che sieno « astratti delle entità, presi a base del ragionamento, che si voleva intorno a queste istituire »; la quale io stimo che sia la più naturale, e la vera spiegazione dei numeri di Pitagora. Dichiarerò meglio la cosa con un paragone. A quel modo che il matematico, volendo dare la teoria della quantità continua dei corpi, si forma colla mente dei corpi astratti, ritenendo la sola estensione e le figure, e rigettando il rimanente, e poscia su questi corpi ipotetici, o per dir meglio, su questi corpi7postulati ragiona ed edifica la sua teoria; così Pitagora, o chiunque parlò prima dei numeri al modo dei Pitagorici, volendo dare la teoria degli enti, si formò degli enti astratti, ritenendo di tutto ciò che negli enti si trova il solo numero, e quindi traendo la teoria degli enti da questo solo, che essi sono numeri. Ciò che mi convince questa dover essere la vera interpretazione dei numeri pitagorici, si è l' osservare quanta nei filosofi italici era la potenza dell' astrazione, e con quale veemenza l' istinto filosofico, che tende all' universale, li sospingeva verso l' astrarre come in una regione del tutto spirituale, dove, inesperti ancora e invaghiti della novità della scoperta di un mondo così puro da condizioni di materia e di tempo, si persuadevano dover racchiudersi l' intera sapienza. Basta considerare in qual modo Senofane si portò addirittura col suo pensiero alla questione sull' unità delle cose ; e come mediante Parmenide e Zenone il grande problema filosofico di quel tempo divenisse ben presto il più elevato per astrazione, di quanti se ne possano immaginare, cioè « se le cose tutte sieno uno o più ». La questione agitata fra i patrocinatori dell' unità e quelli della pluralità, non è, a ben giudicare, altra cosa che la questione dei numeri. Certo non vi era bisogno di aggiungere alcuna cosa all' unità ed alla pluralità; perocchè si parlava di questi due astratti, senza aggiunta di cosa alcuna. Onde tutte le interpretazioni dei numeri pitagorici, le quali aggiungono ai numeri qualche cosa per determinarli, ci sembrano posteriori al Samese filosofo, non sono più questioni di teoria (la quale sola si cercava al tempo dei primi Italici), ma di applicazione della teoria dei numeri . Di vero, la dottrina intorno ai numeri doveva essere, siccome una teoria purissima, applicabile poscia a tutti gli enti; ella era la matematica pura dell' ontologia, una cotal lingua universale. Indi le diverse forme che prese quella teoria, quando ella si venne applicando agli enti. Invece adunque di mantenere la teoria e l' applicazione distinte come due parti dell' ontologia, si confusero insieme, o piuttosto si perdette di vista la teoria pura. La teoria pura ontologica dei numeri, quale sembrano averla posta i primi filosofi italiani, non riguardava adunque più l' anima che gli altri enti; ma sì ad ogni maniera di esseri poteva e doveva applicarsi. E posciachè i numeri sono ciò che di più astratto si può considerare negli enti, perciò li dicevano le prime cose, come attesta Aristotele, e gli elementi dei numeri gli elementi altresì di tutti gli enti, [...OMISSIS...] . Laonde questa teoria dei numeri s' applicava all' estensione, e ne uscivano i principŒ della Matematica pitagorica. S' applicava ai corpi, e ne usciva la Fisica pitagorica, e segnatamente la dottrina degli indivisibili (2). S' applicava a Dio, e ne usciva la Teologia pitagorica. Finalmente s' applicava all' anima e ne usciva la Psicologia pitagorica. Ora le questioni intorno all' anima, nell' applicazione che ad essa si faceva della dottrina dei numeri, dovevano essere, se non erriamo, queste: 1) Nell' anima vi è l' unità? 2) vi è la dualità? o la trinità, o la quaternità ecc.? cioè, vi è cosa che sia rigorosamente una? o cosa che sia due, tre, quattro, ecc.? Delle quali questioni la risoluzione pitagorica si era che nell' anima vi era l' uno, il due, il tre, il quattro, e non più. Dove nell' anima si diceva trovarsi l' unità? Nella mente. [...OMISSIS...] . Poichè dunque la mente considera molti individui con una sola e medesima idea specifica, e molte specie con una e medesima idea generica, si dava alla mente l' unità. Ma troppo più a ragione le compete l' unità, perchè ella abbraccia tutti i generi di cose con una sola idea dell' essere in universale, nella quale sono ridotti a perfetta unità non solo i reali molteplici, ma ben anche tutti affatto gli ideali determinati, o sieno specifici, o sieno generici. Ed a me pare che questa idea doveva essere appunto il Dio di Pitagora, cui questo filosofo definiva il numero dei numeri, [...OMISSIS...] , come Platone lo chiamò poscia ente degli enti, [...OMISSIS...] . Ma l' errore, che adesso notiamo, si è d' aver confuso la mente coll' idea, o certo d' aver parlato sovente in modo che veniva con essa a confondersi; e quindi di non avere ben distinta la natura soggettiva dell' una colla natura oggettiva dell' altra. Nondimeno pare che prima di Socrate e di Platone, i Pitagorici, che avevano certamente conosciuta l' unità della mente, non avessero pronunciato espressamente, o almeno con costanza, che la ragione di quella unità si doveva rinvenire nella natura delle idee; poichè Aristotele dice che fu Platone che aggiunse ai numeri le idee, togliendole dal modo di disputare di Socrate (1), se pure non è anzi a dire che Platone altro non facesse che introdurre un linguaggio più filosofico circa la natura delle idee, e desse a questa dottrina una maggiore importanza. Ora, dove nell' anima si trovava il due? I Pitagorici dicevano nella scienza . La scienza è oggetto; e vedesi l' errore e la confusione indicata in fare che la scienza, in cui riponevano il due, corrisponda alla mente, in cui riponevano l' uno, quando avrebbero dovuto farla corrispondere all' idea; alla mente poi dovevano far corrispondere la ragione (il ragionamento). Che cosa poi intendessero per scienza, non è così facile il determinare; ma probabilmente qualunque proposizione o giudizio spettante alle idee astratte, e perciò necessario; poichè a pronunciare un tal giudizio si richiedono almeno due termini, il soggetto ed il predicato. Dove poi trovavano nell' anima il tre? Nell' opinione riguardante le cose contingenti, e però in quei giudizi, nei quali la convenienza del predicato e del soggetto non è necessaria ed evidente, come non suol essere nei giudizi sintetici (2). Non potendosi adunque in questa maniera di giudizi unire un predicato con un soggetto, senza avere una ragione straniera che a ciò determini la mente, oltre il predicato ed il soggetto, forza è che intervenga un terzo elemento per opinare; quindi davano il tre all' opinione. Finalmente i Pitagorici trovavano il numero quattro nel senso, cioè nei giudizi intorno alle cose sensibili; e ciò, mi pare, perchè il senso non è una ragione sufficiente di applicare un predicato ad un soggetto, se egli stesso non sia prima percepito dall' intelletto; e quindi il giudizio, anche più semplice che si possa fare in conseguenza del senso, esige per lo meno quattro elementi. Prendiamo ad esempio il giudizio seguente: « questo rosso è un ente ». Noi possiamo distinguervi: 1) la sensazione del rosso; 2) l' apprensione intellettiva di essa; 3) la necessità che dove è la sensazione del rosso, vi sia un ente operante; 4) la affermazione. Platone fa venire l' opinione dal senso, e la scienza dalla mente, e così riduce il quattro al due. Come poi l' anima nel sistema pitagorico sia un numero che si muove, apparisce dal considerare che i quattro numeri, che si notano nell' anima, derivano l' uno dall' altro: il quattro dal tre, giacchè il giudizio sulle cose sensibili suppone dinanzi a sè la facoltà dei giudizi sintetici; il tre dal due, giacchè la facoltà dei giudizi sintetici suppone dinanzi a sè la facoltà dei giudizi analitici; il due dall' uno, giacchè ogni giudizio suppone primieramente l' idea. Laonde Plutarco così riassume il sistema di Pitagora: [...OMISSIS...] . Empedocle (43. 7 37. a. C.). - Ma da Pitagora passiamo ai Pitagorici, e scegliamo fra essi Empedocle. Noi siamo di opinione che gli elementi, di cui Empedocle voleva composta l' anima, fossero le idee degli elementi, e non gli elementi materiali; o almeno è certo che così alcuni suoi discepoli lo intesero (2). Secondo questa opinione il filosofo Agrigentino verrebbe in gran parte purgato dal goffissimo errore del materialismo; anzi l' errore opposto gli si potrebbe imputare, di cangiare la natura dell' anima intellettiva nella natura delle idee stesse, il che è un deificarla, dappoichè la natura dell' idea tiene del divino. Noi esporremo qui estesamente le ragioni che ci addussero a questa persuasione. La prima si è che, trattandosi d' interpretare la mente di un filosofo, di cui ci rimangono solo pochi frammenti, vuol tenersi gran conto della tradizione filosofica, e non considerarlo isolato, siccome tutto avesse inventato da sè, senza scuola precedente. Tanto più convien fare questa considerazione, quando il filosofo visse in una età nella quale fioriva lo studio della filosofia, come si fu quella di Empedocle, al cui tempo i filosofi ionii, e più ancora quelli di Samo, di Colofone e di Elea erano celeberrimi, e le loro speculazioni meravigliavano per altezza gli ingegni. Ora sembra possibile che, dopo che le questioni più elevate si erano già cotanto discusse, Empedocle cadesse in un così rozzo e plebeo errore da fare l' anima intellettiva composta di materiali elementi, ignorando o cancellando tutto quanto era stato detto prima di lui di più sublime in questo argomento? Di poi, il materialismo riflesso e professato in modo aperto e sguaiato, non appartiene al periodo, in cui la filosofia si stava formando, ma, chi ben guarda, solamente al periodo della sua corruzione, allorchè il sofisma e la dissoluzione dei costumi cominciò a traboccare. Le prime filosofie avevano certo nel loro seno un materialismo, ma loro proprio e speciale, veniente da mancanza di riflessione, mescolato collo spiritualismo; perocchè la divisione fra lo spirito e la materia non s' era per ancora ben colta dalla mente, la quale nè affermava lo spirito, nè la materia, ma parlava di entrambi come di una cosa sola. S' aggiunga doversi la critica appoggiare a notizie certe per argomentare le incerte. Ora niuna più certa di quella che Empedocle professava il pitagoreismo, il perchè egli apparteneva alla scuola d' Italia. Ora è possibile che un pitagorico, e, se si vuole, un pitagorista (1), non avesse altra dottrina da metter fuori intorno all' anima, che quella di farla constare di elementi al tutto materiali? Oltracciò il filosofo nostro non fu mai dall' antichità collocato nel novero dei filosofi materialisti, chiamati plebei da Cicerone, ma sì introdotto nella compagnia di Pitagora, di Parmenide, di Anassagora, di Platone e d' altri tali. Aristotele pone questa differenza fra Empedocle da una parte, e i Pitagorici e Platone dall' altra, che questi posero l' uno e l' ente nella sola essenza delle cose (2), quando Empedocle soppose all' unità l' amicizia. Aristotele, proposte varie questioni, soggiunge: [...OMISSIS...] . E poco appresso ripete la medesima cosa, ma dubbiosamente, come se la sentenza che Empedocle supponesse l' amicizia all' uno e all' ente, fosse piuttosto congetturata da lui che da quel filosofo espressa (1). Come dunque Platone e i Pitagorici spiegarono i numeri di Pitagora, riducendoli alle essenze ed alle idee, così Empedocle avrebbe determinato l' uno astratto coll' amicizia, ritenendo il fondo della dottrina italica e a suo modo svolgendola. Ora, perchè poi l' Agrigentino compose l' anima di tutti gli elementi? Per spiegare la cognizione di tutte le cose, di cui l' anima è suscettibile, movendo dal principio che « « il simile si conosce col simile » ». Ebbene, onde tolse egli una tale sentenza? Dalla scuola di Pitagora, da questa scuola eminentemente spirituale, la quale professava appunto tale dottrina; dunque egli va inteso secondo la maniera di pensare di questa scuola. Calcidio dice espressamente: [...OMISSIS...] : non è dunque una sentenza trovata da Empedocle, ma da lui seguita. E ancora: [...OMISSIS...] . L' anima dunque ha in sè la similitudine degli elementi, non gli elementi stessi materiali; il che consuona col sentire della scuola pitagorica e dell' eleatica, nella quale fu istituito Empedocle. Empedocle riconosce Iddio qual pura mente, priva di ogni concrezione corporea; e ci rimangono ancora di lui alcuni versi, nei quali dopo aver egli detto che Iddio è insensibile e s' insinua nei petti umani per l' amplissima via della fede, «megiste peithus», e che è privo di membra corporee, conchiude: [...OMISSIS...] i quali versi rammentano, come già fu osservato, versi simili di Senofane (2), e mostrano siccome la dottrina empedoclea si continuasse a quella dei filosofi precedenti. Sesto, mettendo Empedocle coi filosofi italici, attesta che ammetteva uno spirito, «en pneuma», comunicante con tutta la natura, e ad ogni cosa dispensante la vita (3); il che troppo bene conferma che egli non era un puro materialista, e che non poteva fare le anime nostre di elementi materiali, quando noi stessi voleva che fossimo animati da quell' anima spirituale, che pervadeva tutto il mondo, e che era soltanto mente: [...OMISSIS...] (4). E non dichiara forse le anime umane di divina stirpe dal cielo discese in terra come in un esilio, in un antro, «phygades teothen», avvolte in corporea veste, «sarcon chitoni», costrette a trasmigrare da una in altra forma corporea per lo spazio di trenta mila anni «tris myrias horas», fin che sieno purgate? Dove le tracce della tradizione dell' antica colpa, e della pitagorica metempsicosi, sono manifeste. Come dunque, quando questo autore dice poeticamente che le anime umane sono composte di tutti gli elementi, si potrà intendere che egli le voglia concretare di tutti i generi di materia? Si consideri di più, che Empedocle diceva sovente i suoi elementi essere Dei; il che poscia da Platone e dai Platonici fu detto appunto delle idee. Aristotele afferma che, secondo Empedocle, gli elementi sono per natura anteriori agli Dei, «ta physei protera tu theu», certo perchè gli Dei stessi si facevano di questi composti; quantunque soggiunga che anche gli elementi sieno [...OMISSIS...] , onde si ravvisano più generazioni di Dei o di demoni, ammessi da Empedocle, fra i quali poneva le stesse anime umane. Il che è a pieno consonante colle dottrine dei Platonici, che di ogni idea fanno un Dio, e pure delle idee compongono gli animi umani. Quindi Empedocle, cangiati gli elementi in persone, loro dava i nomi della divinità (2); il che era uno stabilire colla scienza la superstizione e l' idolatria, imitando in ciò i filosofi più antichi, fra i quali Ferecide, che inscrisse quel libro, che compose sugli elementi e sulla loro commistione, «theokrasia». Perocchè questi savi nè poterono colla loro mente sollevarsi alla chiara cognizione di Dio, nè avevano cuore abbastanza saldo da combattere l' errore comune e grossolano della idolatria, in cui erano essi stessi educati. Alla nostra sentenza ancora viene non leggiero rinforzo da un luogo di Aristotele, dove questo filosofo dichiara espressamente la dottrina di Empedocle intorno alla formazione dell' anima umana essere simile a quella di Platone (3); il qual luogo è il seguente: [...OMISSIS...] . Ora, tra i filosofi che posero mente non al moto, ma alla virtù di sentire e di conoscere, nomina Empedocle e Platone; i quali conseguentemente la fecero composta di elementi atti a conoscere altri elementi, cioè di idee, come indubitatamente fece Platone. Seguita dunque così: [...OMISSIS...] Su di che ci si presentano a fare diverse importanti considerazioni. Primieramente è indubitato che Platone non fece l' anima intellettiva, ossia la mente, di elementi materiali, ma piuttosto la compose di idee; che anzi nel « Timeo » fa il corpo risultare di quegli elementi; e il corpo per Platone (come prima per Empedocle) è una cotal prigione dell' anima, di cui turba i regolari movimenti. Laonde dice, che [...OMISSIS...] ; e così spiega l' ignoranza, in cui l' uomo nasce, e gli irrazionali moti dei bambini, non giunti all' età della riflessione. Di poi è da considerarsi che se, al dir di Aristotele, i due filosofi nominati, che componevano l' anima degli elementi, facevano questo, movendo dal principio che « « ogni cosa si conosce colla sua simile » »; dunque gli elementi erano simili a questi, non erano adunque questi stessi; e ben si sa che per il simile Platone intende l' idea. Dunque trattavasi di elementi ideali, nei quali solo veramente risiede la similitudine delle cose, con cui l' anima conosce (3). Di poi, che cosa è la prima lunghezza, la prima larghezza, la prima altezza, secondo Platone? Non altro che la lunghezza, la larghezza e l' altezza esemplare ed essenziale, cioè l' idea, causa, secondo lui, delle cose reali. Così pure l' idea di uno è il principio esemplare dell' animale; perocchè Platone la stessa essenza, che era nell' idea, pretendeva che fosse altresì nelle cose; il che, piuttosto che materializzare le idee, era uno spiritualizzare le cose. Ma mi sembra esser prezzo dell' opera l' esporre qui più estesamente la dottrina di Platone intorno alla doppia specie di elementi, i reali e gli ideali ; investigando poscia se i frammenti e le testimonianze, venute fino a noi intorno alla dottrina di Empedocle, ci dicano nulla di somigliante. Due dei più grandi uomini, di cui s' onora l' Italia, Parmenide e Zenone suo discepolo, avevano troppo bene veduto e dimostrato che non si può spiegare l' esistenza dell' universo materiale, senza ricorrere a qualche principio spirituale, che gli desse la consistenza e l' unità. Potenti dialettici entrambi (e fu il secondo che della Dialettica fece una scienza), non si contentarono di pronunciare alcune sentenze solenni ma staccate, all' uso orientale, e intrapresero a dare una logica dimostrazione della loro tesi. A tal fine fissarono la loro attenzione sulla natura del continuo corporeo, e così argomentarono: ogni parte assegnabile in un continuo corporeo non abbraccia più di sè stessa, tutto il resto è fuori di lei. Ma le parti assegnabili in un continuo non hanno fine; dunque le parti continue, che si possono assegnare, non cessano mai di escludere da sè una porzione dell' esteso. Se ciascuna parte non cessa di escludere da sè ciò che non è dessa, dunque ella stessa non si trova giammai; se non si trova giammai, non esiste. Se non esistono i primi continui, nessun continuo può esistere. Ma la natura del corpo sta nel continuo; dunque per sè solo il corpo non esiste. Ma se voi aggiungete un soggetto semplice (una mente secondo il concetto di questi filosofi), che possa ad un tempo stesso abbracciare tutto il continuo con un atto solo, e non per parti, allora il continuo sta, egli esiste come un semplice, non in virtù della semplicità del soggetto, ma in relazione essenziale col soggetto. Nella mente dunque (che era per essi il detto soggetto) sta il fondamento del corpo, ossia la mente è condizione necessaria all' esistenza del corpo. La quale argomentazione è ineluttabile, essendo evidente che il continuo non si può ridurre a punti matematici; nè tampoco si può ridurre a punti matematici il corpo; perocchè in tal caso, o questi punti non agirebbero che in sè stessi, e quindi colla loro aggregazione non produrrebbero mai nulla di sensibile; ovvero avrebbero una sfera d' azione continua intorno a sè, ed allora il continuo si supporrebbe di nuovo esistente (1). Ma che cosa è il continuo nella mente? In quanto è un continuo possibile, esso è un' idea; ma in quanto lo spirito afferma il continuo, esso è il continuo realizzato nel senso e nella materia, ma sempre considerato dalla mente e in relazione colla mente (2). L' essenza dunque del continuo, che nell' idea si contempla, è quell' unità che fa essere l' universo materiale, il quale è un esteso continuo variamente modificato e modificabile. L' argomento, che traevano Parmenide e Zenone dalla natura del continuo per dimostrare che avanti a tutti i fenomeni del mondo doveva esistere qualche cosa di eterno, che desse loro esistenza e consistenza, fu forse il maggior lume che mai rischiarasse la mente di Platone. Dal principio, posto da quei due sommi filosofi italiani, egli trasse indubitatamente tutto il fondo della sua dottrina. Ma, siccome accade agli uomini grandi, egli si appropriò per modo la dottrina di Elea che parve nella sua bocca originale. La necessità di un' eterna unità, arguita da Parmenide e da Zenone considerando la natura dello spazio, fu da Platone dedotta, con un ragionamento simile, anche dalla considerazione del tempo e delle mutazioni, che in esso nascono, alle cose materiali e sensibili. Come dunque abbiamo fatto dell' argomentazione degli antichi savi di Elea, la quale noi abbiamo ridotta ad una forma breve e, per quanto a noi pare, efficacissima, così vogliamo qui fare altresì dell' argomento di Platone; pigliamo il fondo del pensiero, e diamogli tutto il nerbo di cui esso è suscettibile. L' argomento di Parmenide e di Zenone traeva la sua forza da questo principio, che « « la sostanza corporea (prescindendo dalla mente) non è che una relazione di più sostanze juxta7positae ; che dunque la sostanza, se vi è, deve trovarsi negli elementi, cioè nei primi estesi; ma questi non si trovano; e al di là dei minimi estesi non si concepiscono che dei punti matematici, i quali non sono sostanze estese; perciò le sostanze estese, cioè i corpi, non esistono senza l' unità della mente » ». Ora Platone argomenta così appunto dalla mutabilità delle cose nel tempo: « « Se una cosa fosse solamente in un punto matematico di tempo , ella non sarebbe, perchè un punto matematico non ha durata alcuna; ella dunque durerebbe niente; e ciò che non ha alcuna durata, non è affatto » ». Il che si prova anche così: « Poniamo che una cosa durasse un istante matematico e non più. Ora in quale istante ella cesserebbe di essere? Nell' istante medesimo in cui è, no; perchè in tal caso sarebbe e non sarebbe allo stesso tempo, ossia l' istante, in cui fu messa in essere, sarebbe l' istante, in cui ella fu annullata, il che è contraddizione. Dunque in un altro istante susseguente. Ma se l' istante, in cui viene distrutta, deve distinguersi da quello in cui ella esiste, già fra l' uno e l' altro istante vi deve essere un tempo di mezzo, nel quale ella è durata. Dunque ciò che dura un solo istante è assurdo, perchè ripugna al pensiero ». Or bene, se noi consideriamo l' universo materiale, senza aggiungervi niente affatto che venga dalla mente nostra, esso ci si cangia appunto in un assurdo. Poichè niuno dirà che un tale universo esista nel passato o nel futuro, esso non può esistere che nel presente. Ma in quale presente? Per quanto la durata presente s' impicciolisca, ella non si trova mai; e se si trovasse dopo un infinito numero di divisioni, si ridurrebbe ad un punto matematico di tempo; tale è tutta l' esistenza del mondo materiale lasciato solo, separato da ogni mente, perocchè ogni tratto di tempo è fuori dell' altro, e viene dall' altro escluso. Ma la durata di un istante non è durata; e l' ente, che si suppone durar solo un istante, non dura nulla; perciò è cosa assurda, come si dimostrò. Dunque il solo universo materiale, senza la mente che ne contempli l' identità in certo tempo (passato e futuro), abbracciandolo tutto con un atto semplicissimo, non esiste. Così Platone stabilisce la necessità delle idee come cause delle cose. La sua maniera di esprimersi è certamente diversa da quella che noi usammo; ma il fondo del pensiero non cangia. Egli si trattiene ad osservare la mutabilità continua delle cose; io ho spinta questa mutabilità all' estremo, mostrando che l' esistenza delle cose materiali è così fluente che non ha durata alcuna, nello stesso tempo che qualche durata è pur necessaria alla sua esistenza. Veniamo ora ad applicare questa dottrina agli elementi di cui si compone, secondo gli antichi, il mondo materiale. Platone dice che la terra si scioglie in acqua, l' acqua in aria, l' aria in fuoco, il più sottile degli elementi, dove già si scorge un' analogia colla dottrina di Empedocle, che asseriva il medesimo; il fuoco faceva principio degli altri tre (1). Ora, partendo da questa continua rimutabilità degli elementi, ne trae che conviene necessariamente ricorrere ad un soggetto stabile di tutte queste mutazioni. Ora, ciò che serve di soggetto a quei modi sempre mutabili è la stessa sostanza che diviene ora fuoco, ora aere, ora acqua, ora terra; ma questa sostanza, o materia prima, o soggetto di tutte le qualità, è qualche cosa d' invisibile, e solo dalla mente concepibile, secondo Platone. Egli stabilisce tre generi: l' uno ciò che si genera, l' altro ciò in cui si genera, il terzo ciò alla cui similitudine si genera. A quest' ultimo dà il nome di padre, al secondo quello di madre, al primo quello di prole. La materia in cui tutto si genera, ossia il soggetto di tutte le mutazioni, è dunque la madre, e di essa dice: [...OMISSIS...] . Dove il grand' uomo viene a insegnare che la sostanza o materia che forma il soggetto delle modificazioni sensibili, è dalla mente supposta e non data dal senso; nè andrebbe lontano dal vero chi in questa prima materia intelligibile, che si trasforma in tutte le cose, vedesse l' essere in universale, giacchè questo solo ha i caratteri assegnati da Platone a tale specie invisibile, suscettiva di tutte le forme «pandeches», non determinata a forma alcuna, «amorphon». E quantunque nella natura debba rispondere a questa specie una realità, tuttavia il concetto di questa realità sarebbe assurdo, se la mente unendovi l' idea non vi desse consistenza; perchè la mente sola, come dicevamo, può abbracciare la durata, condizione dell' esistenza; la quale durata continua è nella mente e partecipata alle cose reali solo dalla mente; onde della sua materia intelligibile dice Platone: «mete ex hon tauta gegonen». Indi trae Platone che gli elementi materiali non sono i veri elementi, ma cotali simulacri dei veri elementi. Ma discendendo col discorso da quella specie intelligibile informe, che, come dicevamo, non può essere che l' ente, somministrato dalla mente, e quasi aggiunto nella percezione alle cose sensibili e transeunti, viene a parlare di altre specie meno indeterminate, cioè del fuoco, come quello che è il primo degli elementi, e poi degli altri elementi ancora; e si propone la questione « « se vi sia un fuoco, separato dalla materia, permanente in sè stesso, e così degli altri elementi »; » e prova che vi debbono essere le essenze intelligibili di tali cose, a cui compete propriamente i nomi di fuoco, aere e gli altri, assai meglio che a tali cose materiali. Di che conchiude: [...OMISSIS...] ; la quale specie così egregiamente descritta è l' idea, o per dir meglio l' essenza della cosa intuita dalla mente, verso alla quale la cosa reale scade; onde il filosofo soggiunge: [...OMISSIS...] . Questa è l' indole, secondo Platone, degli elementi materiali, le cui essenze sono intelligibili, e sono i veri elementi, il vero fuoco, il vero aere, la vera acqua, la vera terra, di cui i primi non sono che somiglianze sfuggevoli. Di tali essenze intelligibili adunque si compone l' anima intellettiva, secondo Platone. Ora, se vero è quel che dice Aristotele, che Empedocle compone l' anima intellettiva dei quattro elementi simigliantemente a Platone, non conviene dire che anche il filosofo di Agrigento distingueva degli elementi intelligibili, ossia specie ed esemplari degli elementi reali? Il che a noi pare che cessi d' essere congettura per divenire certezza, quando si considera un altro luogo di Aristotele, in cui questi chiaramente afferma che Empedocle ripose l' essenza delle cose nelle idee. Il qual luogo è in sulla fine del primo dei Metafisici, e suona così: [...OMISSIS...] Che se ci rivolgiamo ad interpreti più recenti della mente di Empedocle, noi troviamo che Filopono intese gli elementi di Empedocle per le loro nozioni o idee; il che gli pareva evidente scrivendo: [...OMISSIS...] . Ma passiamo alla dottrina dell' amicizia o concordia empedoclea, dalla quale riceverà nuovo rincalzo la nostra interpretazione degli elementi, di cui egli componeva l' anima. Empedocle, dunque, oltre i quattro elementi ammetteva due principŒ che egli chiamò la concordia, «philia», e la discordia, «neikos». Ora, secondo gli scrittori posteriori ad Aristotele, e secondo Aristotele stesso, come abbiamo veduto dai luoghi arrecati (2), la concordia dell' Agrigentino risponde all' unità di Pitagora e di Parmenide, e la discordia alla pluralità. Il che, se ben si considera, riesce a dire che in questi due elementi empedoclei si disegnano i due mondi, l' intelligibile ed essenziale, nel quale sono gli elementi ideali, e il sensibile e simigliante, composto degli elementi reali; massimamente che, oltre essere stato Empedocle pitagorico, fu anche discepolo, come da Alcimada si riferisce, dello stesso Parmenide (3). E qui udiamo come Siriano, commentatore di Aristotele, difenda Empedocle dall' accusa di contraddirsi, che gli appone lo Stagirita, non troppo equo con quanti lo precedettero. [...OMISSIS...] Le quali parole, consentanee all' età ed all' educazione di Empedocle, ristorano a pieno questo nobile lume dell' italica scuola del torto, che gli è fatto da tanti, col supporlo sì goffo e zotico intelletto da voler composta l' anima umana di materiali elementi (2). E un altro commentatore di Aristotele, Giovanni Filopono, dice lo stesso, attribuendo ad Empedocle che egli lodi la concordia, siccome causa del mondo intelligibile e divino, e biasimi la discordia, siccome quella che disgrega il divino (3); e trova pure che Aristotele non fa buona e giusta ragione all' Agrigentino. Aggiunge che i due principŒ dell' amicizia e della discordia si conoscono colla ragione piuttosto che col senso, e sono sembrati ad Empedocle «asomatoi physeis» (4). Clemente Alessandrino poi, ed altri, ci conservarono un verso di Empedocle, che si riferisce alla sua «philia», dichiarandola oggetto del solo intelletto: [...OMISSIS...] . Riesce nondimeno ad alcuni inesplicabile come Empedocle, pel quale la concordia ha ufficio di unire, dica che ella sia quasi materia . Aristotele e Temistio credono di trovarlo qui in contraddizione seco medesimo, non sapendo spiegare come la stessa «philia» possa ora esser causa motrice e unitrice, ora poi causa materiale delle cose (2). Ma se noi moviamo da questo principio, che per amicizia Empedocle intendeva l' uno , come espressamente dicono Plotino (3) e molti altri antichi (4), e come è consentaneo alla scuola che professava, l' apparente contraddizione svanisce. Poichè, che cosa è l' uno? - L' ente in universale - Che cosa è l' ente in universale? - L' essenza dell' ente intuita nell' idea, l' ente ideale, l' ente intelligibile. Or bene, quell' ente fa appunto rispetto a noi i due uffizi: 1) di virtù unitrice e congregatrice delle cose materiali, perocchè vedemmo cogli argomenti di Parmenide e di Platone, che l' universo materiale svanirebbe, se la mente non gli aggiungesse l' ente , che alle cose continuamente divisibili e fluenti dà stabilità ed unità; onde gli antichi chiamano anche l' amicizia di Empedocle «tautopoios henopoios» (5); 2) di materia intelligibile , appunto perchè ciò che s' intende in tutte le cose è l' ente variamente terminato e realizzato; e la sola realità dell' ente non darebbe alcun oggetto alla mente, la quale niente potrebbe con esso solo nè concepire, nè affermare. Ond' è che la materia, intesa dalla mente in tutte le cose reali, è sempre l' ente. Questo si doveva intendere propriamente dell' uno primo, del Dio pitagorico, che secondo noi è l' idea dell' essere, chiamato anche numero dei numeri, fonte degli altri numeri, rappresentante le specie e i generi delle cose. Ora, poichè ciascun genere e ciascuna specie ha l' unità, secondo i Pitagorici, perchè quei concetti unificano gli individui, perciò Aristotele dice che Pitagora ed Alcmeone, suo discepolo, sembrano riporre i numeri nel genere della materia (1). E giacchè Aristotele mette insieme con Empedocle Platone, non sarà fuori di luogo l' accennare l' opinione del Serrano intorno alla materia intelligibile di Platone. Il quale nell' argomento al « Timeo » così dice, secondo il volgarizzamento di Dardi Bembo: [...OMISSIS...] . E` dunque un cavillare quel di Aristotele, dove dice che il movente e la materia sono concetti diversi, onde rimanga a dire ad Empedocle sotto qual concetto la sua amicizia sia amicizia, se sotto il concetto di movente (cioè congregante, unificante) o sotto il concetto di materia (2); perocchè come si distingue l' uno per essenza e l' uno per partecipazione, così si può distinguere l' amicizia per essenza e l' amicizia per partecipazione . Ora l' ente, l' uno, l' amicizia di Empedocle per essenza, è materia di tutti gli oggetti intesi ; e in quanto è partecipata, ella è causa unitrice, che della pluralità indefinita delle cose soggette allo spazio e al tempo, fa riuscire un solo ente fisso, oggetto dell' intelletto. Giustamente adunque l' amicizia di Empedocle è amicizia sotto tutti e due i concetti di uniente e di materia (intelligibile), benchè questi concetti in apparenza diversifichino tanto fra loro. Con che rimangono pure spiegati quei luoghi degli autori, nei quali l' amicizia e l' uno di Empedocle sembrano due cose e non una sola; perocchè ben osservando quei luoghi, si scorge che tutti si riferiscono alla produzione dell' unità nelle cose contingenti; onde il dire che l' amicizia produce l' uno in tutte le cose, come dice Simplicio, [...OMISSIS...] , altro non vuol dire se non che l' uno per essenza produce l' uno per partecipazione, ossia l' amicizia per essenza produce l' amicizia per partecipazione (2). Quindi ancora l' amicizia empedoclea da Filopono e da Temistio viene paragonata al concetto, ossia alla notizia delle cose: [...OMISSIS...] ; perocchè quell' amicizia non è finalmente se non l' unità dell' ente intelligibile e il suo intrinseco ordine. Onde anche in un luogo di Stobeo, dove crediamo esporsi l' opinione di Empedocle, benchè sembri perito il suo nome con alcuni altri vocaboli, si legge la discordia e la lite essere non altro che specie; [...OMISSIS...] . L' uno pitagorico (5) fu denominato da quei filosofi in varie maniere (6): e fu detto Dio, Apollo, materia, caos (7). L' amicizia di Empedocle ebbe simili denominazioni: i due primi nomi dimostrano che trattasi di cosa spirituale e intellettuale, e non materiale; come a lei appartenga l' appellazione di materia, l' abbiamo pure accennato; rimane che vediamo a qual titolo possa ella essere detta anche caos. Ora, se si considera che l' uno è l' ente in universale, e che a questo può competere la denominazione di materia prima intelligibile, già s' intenderà con questo solo come gli si possa dare l' appellazione di caos (intelligibile), in quanto che nell' essere in universale non vi è nessun ente distinto e particolare. Qui si scorge ancora quanto sia mal fondata quella censura di Aristotele, colla quale pretende di cogliere Empedocle in contraddizione, perchè talora dice la lite principio di distruzione, talora poi le fa produrre le cose materiali. Giacchè, se la lite di Empedocle si trasporta nel mondo intelligibile, ella diviene quella facoltà, per la quale l' intendimento distingue le cose nell' unità dell' ente (1), e però quella che dà l' origine nella mente agli esseri singolari e finiti (2); dalla mente poi del primo facitore escono le cose reali, posciachè Iddio opera colla virtù della mente (3). Svaniscono del pari le obbiezioni, che trae Aristotele contro il sistema di Empedocle da questo, che [...OMISSIS...] (4). Al che Empedocle poteva rispondere che anche gli elementi ideali si compongono come i reali, e perciò coi composti di quelli si conoscono i composti di questi. Quanto poi a quello che dice Simplicio ed altri, che Empedocle riduca i suoi elementi a due, e infine ad uno solo, chiamato la necessità, o la monade della necessità, non ripugna, poichè l' essere in universale, che è l' uno, è anche il principio della necessità, giacchè impone la condizione per la quale ciò che è, è ente. Simplicio poi considera l' amicizia piuttosto distinta da quella monade, secondo un rispetto diverso da cui si guarda, che assolutamente, in quanto cioè l' amicizia esprime l' uno nelle più cose (1). Onde in altri Scrittori invece di «monas tes anankes» si dice «hule tes anankes». Il perchè, siccome per Empedocle talora viene tutto dall' uno, talora poi dall' amicizia, che è l' uno applicato al più, così talora in capo ai suoi principŒ ed elementi viene posta la necessità come cagione di essi, chè l' essere intelligibile, da cui tutto viene, è necessario, e impone a tutte le cose le necessarie sue leggi (2). Ma se l' uno (l' ente) è il principio supremo di Empedocle, al quale egli impone il nome di amicizia quando lo considera nella pluralità, e se all' amicizia contrappone la lite, ossia il non7uno (il non7ente), per limitare l' uno e distinguere in esso il più; come poi da questi due principŒ escono i quattro elementi? qual è il nesso che li lega con quelli? Primieramente è da considerare che Empedocle, con Eraclito e con molti altri antichi, riduce i quattro elementi ad uno solo, cioè al fuoco, come al più sottile e al più semplice. La quale sentenza, che si può dir comune agli antichi filosofi e inserita nello stesso « Timeo » di Platone, fu esposta da Lucrezio in questi versi: [...OMISSIS...] Dove il fuoco, di cui si formano gli altri elementi (2), si fa venire dal cielo; il che sembra alludere al mondo intelligibile, onde li fa venire appunto Platone (3). Ma Aristotele muove una difficoltà, che, per quanto solida possa parere, vale tuttavia a farci conoscere come Empedocle trasportasse il suo pensiero al mondo intelligibile, e non poco da lui prendesse Platone. Dice Aristotele che la teoria di Empedocle non spiega la generazione. Perocchè, che afferma Empedocle? che il composto si fa per via di ragione . Questa sentenza contiene l' antica dottrina di Parmenide in quello che aveva di vero, ed era quanto dire che « l' unità è quella che fa che un essere si dica composto, e l' unità è posta dalla mente ». Ma Aristotele dice che conviene assegnare una causa reale, e non meramente ideale, a spiegare come le cose si compongano e generino. Ed aveva ragione; ma non era men vero e assai più profondo il pensiero di Empedocle, che è la mente quella che fa sì che il composto sia un ente (4). Tutti gli elementi adunque si riducono al fuoco; ma come il fuoco si raggiunge ai due principŒ dell' amicizia e della lite ? Dimostra lo Sturzio che per Empedocle l' uno, il caos, la materia, il fuoco sono pressochè sinonimi (5); onde in alcuni luoghi di Aristotele si legge che Empedocle negava [...OMISSIS...] . Ora noi abbiamo veduto che l' amicizia è un vocabolo, onde Empedocle esprimeva l' uno dei Pitagorici. E oltre ciò sappiamo che i Pitagorici chiamavano il loro uno fuoco, o che prendessero il fuoco quale simbolo, o che lo considerassero come principio della vita e sostanza divina (2), come io credo. Se dunque l' amicizia di Empedocle è l' unità intelligibile, convien dire che egli ammettesse anche un fuoco intelligibile, come fa Platone nel « Timeo , » un fuoco essenziale (essenza ideale), verso al quale il materiale non è che un cotal simulacro, non ha l' essenza di fuoco (3), ma la qualità ignea quasi forma accidentale (4). E così infatti ci attesta uno scrittore antico, dicendo espressamente che egli faceva principio del tutto l' amicizia e la lite, ma della monade il fuoco mentale, [...OMISSIS...] , chiamandolo Dio, come si chiamava con questo nome dai Pitagorici e dai Platonici tutto ciò che appartiene alle idee. Ora poi, se si riconosce ammesso da Empedocle che gli elementi sieno intelligibili, idee, e, come tali, vere essenze; e sieno altresì materiali, e, come tali, non essenze, ma partecipanti le essenze, al modo che fa Platone; tosto si conciliano le apparenti contraddizioni, che presentano gli antichi, i quali ora ci fanno gli elementi di Empedocle eterni, semplici, eguali, immutabili, incorruttibili, ora tutto il contrario. E` vero che Empedocle componeva anche il senso di elementi (1), ma ciò egli faceva, o perchè niuno degli antichi distinse accuratamente il senso dall' intelligenza (2); ovvero lo faceva alla guisa di Platone, che distingueva nell' anima la parte sensitiva, ed a questa attribuiva gli elementi reali quasi sua veste, e la parte intelligente, che dalle idee faceva risultare (3). Ma perchè meglio si veda quanto Empedocle si avvicini a Platone, e l' abbia preceduto nella dottrina delle idee, torniamo al mondo intelligibile . Appresso gli antichi scrittori si hanno due serie di testimonianze, opposte in apparenza; una serie pone come indubitato che Empedocle faceva il mondo uno; un' altra serie afferma che due erano i mondi di Empedocle. Ora la conciliazione è per noi agevole; poichè se si considera che l' ente è identico sotto le due forme d' idealità e di realità, convien dire che il mondo è uno e il medesimo. Ma se si considerano le due forme, l' ideale e la reale, in cui è questo unico mondo, niente vieta che si pongano due mondi, come fa appunto Platone, l' uno intelligibile, ossia ideale, e l' altro sensibile, ossia reale. Federico Sturzio scrive: [...OMISSIS...] . Ma in appresso appone ad errore dei nuovi Platonici l' attribuire ad Empedocle il mondo intelligibile: [...OMISSIS...] . Ed è dello stesso sentimento il Karsten. La quale interpretazione tuttavia mi sembra più da erudito che da filosofo; perocchè gli eruditi recenti, fatti accorti come gli Eclettici Alessandrini vanno accaloriti per tirare al loro sistema tutta l' antichità (e indubitatamente ora supposero libri inscrivendoli del nome di antichi filosofi, ora compendiarono, raffazzonarono, infarcirono di loro glossemi gli autentici, sempre poi interpretarono i precedenti sistemi sullo stampo del loro), divenendo oltremodo diffidenti, spinsero la critica fino a renderla strumento di scetticismo. Ma a temperare questo estremo, a cui reca facilmente la critica dei particolari, noi crediamo che convenga associare questa colla critica dei generali, cioè coll' unità delle scuole e delle tradizioni, coll' analogia delle sentenze, e con tutte le circostanze dei tempi e delle menti. Ora una critica, che non dimentica queste vedute più ampie, ci assicura: I) Primieramente, che la scuola alessandrina non avrebbe potuto tirare a sè l' autorità degli antichi, nè attribuire loro nuovi libri, se negli scritti originali e nelle memorie rimaste non avessero trovato qualche addentellato a cui continuare l' edifizio, qualche vera traccia del loro proprio sistema. II) Che l' antichità presenta due grandi scuole, l' una delle quali ha per suo carattere il raziocinio individuale , che si personifica in Talete, e l' altra ha per suo carattere l' autorità tradizionale, che si personifica in Pitagora (1), e si continua in Platone, alla quale appartengono gli Alessandrini, che per ciò inclinano tanto a trovare negli antichi l' autorità che confermi i loro detti. Ora, tenendosi conto di questa indole storica e tradizionale della scuola platonica, è da credere che realmente ella raccogliesse le dottrine tradizionali, e non le inventasse di pianta. III) Di più consta per indubitabili documenti che il fondamento della dottrina platonica, il quale consiste nella contemplazione dell' essere ideale e delle sue divine proprietà, risale alla più remota antichità, ed oso dire alle prime tradizioni del genere umano. Tutto l' Oriente se ne mostra pieno. Secondo Mosè, ogni cosa si crea pel Verbo divino: l' Achmoth, cioè la sapienza esemplare dell' Universo (2), è primogenita avanti a tutte le creature non solo nei libri sacri, tanto anteriori alla scuola italica, ma ben anche nelle leggi indiane di Manu (3), sotto il nome di Mahat o di Bouddhi. Dalle scuole ebraiche ai piedi di Gamaliele, e non già dagli Alessandrini, S. Paolo imparò che Iddio « « dalle cose invisibili fece le visibili »; » nella quale sentenza sta tutto il buono del platonismo. Ora questa dottrina, che è pure la dottrina platonica del mondo invisibile e intelligibile, non poteva andar perduta nel genere umano, anzi si recò da per tutto colle colonie, si conservò nelle religioni e nelle mitologie (4); non poteva massimamente andar perduta pei filosofi della scuola italica, a cui appartiene certamente Platone; uomini tanto avidi di sapere, tanto solleciti di raccogliere le antiche dottrine, viaggiatori per l' Oriente, e di essi non pochi conoscenti per indubitato dei libri sacri, siccome dicemmo di Ferecide, e come più ampiamente è mostrato nelle opere dell' Huezio. Ora fra i miei voti uno è questo, che si scrivesse con diligenza una Storia del platonismo avanti Platone . IV) Oltracciò, se Empedocle udì Parmenide e Anassagora (5), celebre per aver separata la mente da ogni materiale concrezione, è possibile che egli sia stato poi interamente all' oscuro della dottrina delle essenze? Nè tuttavia pretendo che egli abbia chiaramente posta quella dottrina; mi basta che la ponesse in un modo oscuro, forse senza uscire intieramente da quella forma universale, sotto cui l' aveva annunziata Parmenide. Poichè è da distinguersi nella dottrina di Elea la prima questione fondamentale delle altre spettanti all' applicazione. Quando quei filosofi venivano alle questioni accessorie di applicazione, non dissento che sdrucciolassero nell' una o nell' altra fossa, tra cui movevano i piedi, del materialismo e dell' idealismo. Perocchè la scuola di Elea propose la questione dialetticamente, nella sua massima astrattezza e universalità: « Se fosse ben detto che tutte le cose siano uno, o se si dovesse piuttosto dire che le cose sono più ». Pigliandosi la parola uno nella sua incondizionata universalità, non si cercava in questa prima questione « se questo uno fosse poi spirituale o materiale, se fosse reale o ideale », tali furono le questioni posteriori e di applicazione. Nella questione prima, adunque, si voleva sapere soltanto se si diceva cosa vera, e se si parlava con proprietà, dicendosi che « tutte le cose fossero uno », senza cercare più in là; era la sola essenza dell' unità, che si voleva verificare nelle cose, astraendosi da ogni altra qualità o proprietà, che aver potesse la unità. Della quale questione per venire a capo, considerarono principalmente la variabilità delle forme che presentano i corpi, e conchiusero che sotto di esse doveva essere la sostanza, soggetto immutabile e permanente di tutte quelle forme, la quale fosse uno in tutte le forme: dunque il tutto era uno. Ma venne tosto appresso l' altra questione di applicazione: che cosa fosse poi cotesto uno. E allora alcuni si rappresentarono questo soggetto, che soggiace uno e immutabile a tutte le forme, siccome una cotal materia prima non informata, e però atta a ricevere ogni forma; ma ben presto, o gli stessi od altri, cominciarono a intendere che questa materia senza forma non poteva sussistere, benchè potesse essere concepita dalla mente astraente; e perciò la dissero insensibile, incorporea, solo intelligibile; e così vennero nell' idealismo platonico. Era veramente difficile trovare il vero in argomento così sottile; era difficile intendere che ricorreva qui quella legge di sintesismo, che in tutta la natura si dimostra, per la quale la materia è realmente distinta dalle forme, e tuttavia non può sussistere se non unita con quelle; difficile altresì era ad afferrare che la stessa materia o sostanza opera comecchessia in noi, per quella forza con cui immuta il corpo nostro, e si fa termine della nostra percezione sensitiva. Finalmente difficile tornava ancora l' accorgersi che non la sola sostanza materiale, ma egualmente o viemeglio le varie forme dei corpi avevano un corrispondente nell' ideale immutabile ed eterno. Le quali cose non le vide sempre con piena distinzione neppure Platone, il quale nel Timeo fa passaggio dalla sostanza di una cosa all' idea, senza avvedersi che lo stesso passaggio si potrebbe fare egualmente movendo dall' accidente; perocchè - dopo aver distinto fra la cera e le varie impronte di cui ella si può successivamente effigiare, osserva che alla domanda che sia quella cosa effigiata, non si risponde che sia una delle figure passeggere, ma si deve rispondere che sia cera, e la figura non è il quid della cosa, ma il quale - passa ad applicare il ragionamento agli elementi e fermasi al fuoco, siccome di tutti il più sottile, onde gli altri hanno origine, e distingue due fuochi, l' uno essenziale ed intelligibile, a cui spetta la quiddità del fuoco, l' altro sensibile, a cui spetta solo la qualità di fuoco. La qual distinzione è manifestamente quella che separa l' ideale ed il reale (salvo che invece di qualità doveva dire modo categorico di essere ; il che non potè dire a cagione di povertà di lingua filosofica); distinzione, che egli confonde così con quella che separa la sostanza dall' accidente, mentre sì l' accidente come la sostanza può ben essere ideale e reale. Ma la ragione, onde si sdrucciola dalla prima distinzione della sostanza e dell' accidente alla seconda dell' ideale e del reale, si è perchè la sostanza viene separata dagli accidenti per opera della mente, senza che manchi perciò nella cosa reale il quid che risponde a tale idea, e perchè la sostanza appare immutabile e simile in questa proprietà sua all' idea del pari immutabile. Onde due cose, perchè l' una e l' altra permanente ed entrambe oggetto della mente, la sostanza reale e l' ideale, furono confuse in una sola, nell' essenza ideale . Vi fu un' altra cagione ancora più efficace a travolgere le menti a questa confusione, la quale si è che la sola mente aggiunge l' ente alle cose conosciute; e fino a tanto che ella non ce l' ha aggiunto, conosciute non sono; e l' ente aggiunto dalla mente risponde alla sostanza, in quanto questa è l' atto, nel quale e pel quale gli accidenti sono. Quindi era agevolissimo il passare a riguardar la sostanza come meramente intelligibile, come essenza ideale; ciò che si fa anche dai moderni filosofi della Germania. Ma chi sottilmente osserva, vedrà che altro è la sostanza reale, altro l' ente che vi aggiunge la mente, pel quale la sostanza stessa diviene conoscibile, divenendo ente, il che è quanto dire oggetto dell' affermazione. Ora, tutte queste questioni al tempo di Empedocle erano ancora avviluppate, e neppur da Platone (1), nè dai Platonici poterono a pieno disvilupparsi; ma tuttavia si agitavano, e la verità si vedeva ora da un lato ora dall' altro, e si pronunciavano altresì, non senza contraddizioni, ambiguità e troppo parziali vedute. Ma tutto ciò nondimeno persuade che Empedocle non fosse punto straniero alla teoria del mondo intelligibile ed ideale. V) E veramente se si esaminano le sue indubitate sentenze, sarà difficile conciliarle colla supposizione che l' uno di Empedocle non fosse più che la materia prima, materiale, separata dalle sue forme; poichè: 1) Non si vede come a questa potesse competere il nome di mondo, sì perchè la materia senza alcuna forma non può esistere, e se ha una forma, non è più immutabile; sì perchè la parola «kosmos» indica un mondo formato ed ornato, e non una materia informe; onde meglio converrebbe la parola «sphairos» a indicare la materia, la materia non materiale, ma intelligibile. 2) Di più, il mondo eterno e immutabile di Empedocle è di fuoco, come quello di Eraclito (1); dunque non è informe. Di più, lungi da esser materia inattiva, che diventa tutto ciò che si vuole, è anzi causa attiva, «aition poietikon», come dice Teofrasto (2), e come si raccoglie dallo stesso Aristotele, appresso il quale esso fa tutto, ed è chiamato sempre «theos»; nè sembra possibile che sia applicato il nome di Dio alla materia bruta ed informe, giacchè tutta l' antichità ripose le cose divine nelle idee. 3) Quando si volesse chiamare mondo la materia informe, materiale, sarebbe pure un mondo meno perfetto che il mondo già vestito di forme ed ornato. All' incontro il mondo intelligibile e divino di Empedocle è dichiarato più eccellente del mondo sensibile; e lo stesso Sturzio, che rigetta l' interpretazione che noi diamo al mondo intelligibile di Empedocle, si mostra nondimeno inclinato ad accordare che fosse da lui chiamato «sphairos», ed altre cose intorno a lui attribuite ad Empedocle da Proclo e da altri Platonici (1). Ora, a questo mondo fu imposto simbolicamente il nome di «sphairos», e datogli una forma sferica per indicare la sua eccellenza sopra il mondo sensibile, al quale veniva attribuita da Empedocle la forma di elissi. Perchè poi gli antichi attribuissero alla figura sferica la perfezione fra le figure, e quindi si considerasse la sfera come il simbolo della perfezione, lo dice Platone (2); ed è perchè si era conosciuto che la sferica era la figura della maggior capacità, e quella che conteneva tutte le altre figure, cominciando dalle triangolari fino a quelle che fossero terminate da poligoni di un numero di lati indefinitamente grande. Quindi la sfera è simbolo acconcissimo a rappresentare l' essere ideale ; perocchè, come quella contiene dentro di sè virtualmente tutte le altre figure ed eccede da tutte, così l' essere ideale contiene l' essenza di tutti gli enti determinati e finiti, ed eccede ancora. D' altra parte se Empedocle dava al suo «sphairos» la forma della maggior perfezione, non poteva dunque essere una materia che dal non avere alcuna forma ricevesse imperfezione, come accade della materia reale. 4) S' aggiunga che lo sfero di Empedocle era formato dall' amicizia, causa di ogni bene secondo quel filosofo; onde non può esser la materia reale informe, la quale non ha ancora ordine, nè organizzazione, nè armonia. 5) Plutarco, ed altri antichi, ci dicono che Empedocle come ammetteva due mondi, così ammetteva due soli, l' uno dei quali si chiama «archetupon», e anche «pyr on» (1), che è quanto dire fuoco7ente, fuoco per essenza, e l' altro si chiama «phainomenon» (2). Ciò posto, il sole non può essere la materia prima eguale ed informe, perchè egli è un ente organizzato e informato, e, secondo le idee degli antichi, perfetto; dunque il primo di questi soli non si può intendere del caos materiale, o della materia prima reale. Di più la parola archetipo indica manifestamente l' idea prima del sole, secondo l' uso che di questa parola si fece da tutta l' antichità. Anche il dirsi fuoco7ente dimostra il medesimo, significando ciò che è intelligibile e non sensibile. Vero è che si dice che il sole archetipo è in un altro emisfero del mondo, e che il sole visibile è quasi un riflesso di quello; ma questa maniera di parlare non si deve ella attribuire alla lingua poetica usata dall' Agrigentino? Sembra dunque che per quest' altro emisfero, dove sta il vero sole archetipo, si debba intendere la sfera del fuoco celeste ed essenziale, vivente, intelligente; la quale s' immaginava come una zona sferica la più lontana dalla terra; sicchè per emisfero non è da intendersi la sfera tagliata orizzontalmente, ma a zone sferiche l' una dentro l' altra (3). 6) Finalmente dagli stessi frammenti, che ci rimangono, si raccoglie che Empedocle ammetteva un «kosmos noetos», tipo dell' altro «kosmos aisthetos», il che definisce affatto la questione (4). VI) Ammonio (4) e Tzetzes (6) ci conservarono quei versi, che citammo di sopra, nei quali Iddio viene definito « mente sacra, ineffabile, che abbraccia tutto il mondo colla sua provvidenza ». Ora, se la mente divina conosce tutto, ben conviene ch' ella abbia in sè le similitudini di tutte le cose, secondo il principio del nostro filosofo, che non si conosce il simile se non pel simile. Non sembra dunque consentaneo che nella mente suprema l' Agrigentino riponesse l' archetipo, ossia l' ideale del mondo? VII) Pare anche indubitato che Empedocle, come tutti gli antichi filosofi, trasmutasse in anime, in Dei, in Geni e Demoni le idee, come pure i sentimenti, le virtù, i vizi. Di che lo stesso Sturzio (1) paragona ai Sefiri cabalistici i Demoni di Empedocle. Ora se la cosa è così, quanto non è coerente che gli elementi, di cui l' Agrigentino componeva l' anima, e ciascuno dei quali era un Dio, e pei quali l' anima era intelligente, perchè simili agli elementi di cui constava l' universo, fossero pure idee? VIII) Di più, se Empedocle avesse composto l' anima di elementi materiali, non ci sarebbe stato bisogno di spiegare com' ella si unisca al corpo, poichè sarebbe stata corpo ella stessa. All' incontro, noi sappiamo da Plutarco e da altri antichi che Empedocle diceva l' anima di divina origine, e l' unirsi al corpo era per lei come un essere mandata in esilio, lungi dagli Dei, che è pure il pensiero di Platone. Voleva anche che fosse immortale e punita secondo le sue colpe nel fuoco (2). Dove lo stesso Bruckero (3) riconosce che queste dottrine empedoclee, le quali tengono della scuola pitagorica, ripugnano all' anima formata di elementi materiali; onde congettura che Empedocle avesse posto due anime, l' una divina, intelligente, nata dall' anima del mondo, e l' altra sensitiva, compaginata di elementi. Lo Sturzio pretende che una tale congettura sia arbitraria, senza vestigio nei monumenti antichi, e perciò la esclude (4), ma senza sostituirne una migliore. Ora, quantunque Empedocle non abbia forse distinto accuratamente il senso dalla ragione, dando egli l' uno e l' altra fino alle piante (5), tuttavia non si può negare che egli ricusi nei suoi frammenti la testimonianza dei sensi a trovare la verità filosofica, e voglia che ogni cosa si consideri colla mente (1), con un parlare simile del tutto a quello che abbiamo nei versi di Parmenide (2). Di più non è improbabile, anzi consentaneo, l' ammettere ciò che vuole Sesto Empirico, che egli distinguesse la ragione stessa dell' uomo in ragione umana e ragione divina ; la prima ragionante delle cose sensibili, la seconda delle intelligibili (3). Ora, se si ammette la sentenza nostra, che gli elementi, di cui Empedocle componeva l' anima, fossero elementi ideali , le similitudini degli elementi reali, ogni cosa si riduce in accordo nel sistema dell' Agrigentino, venendo da quegli elementi composta la ragione divina, a cui si riduce la natura dell' anima intelligente ed immortale. E qui ponendo modo a questa discussione, stimiamo bene di conchiuderla colle assennate parole del sig. Cousin: [...OMISSIS...] . LEUCIPPO, DEMOCRITO, EPICURO. - Questi filosofi materializzarono l' antico sistema dell' ente semplice, onde tutto si faceva provenire, supponendogli la materia. I sistemi precedenti avevano confuso l' oggetto col soggetto, e dichiarata l' anima come risultante dagli enti (ideali), che ella intuiva. Ma questi enti, che pei precedenti filosofi erano astratti e perciò idee, veri oggetti, avendoli essi cangiati in enti materiali, perdettero propriamente la condizione di oggetti, e ricevettero la natura di entità extra7soggettive. Quindi, a parlare esattamente, il loro errore intorno alla natura dell' anima giace nella « confusione del soggetto (anima) coll' extra7soggettivo (materia) », a differenza dei sistemi idealistici, il cui errore giace nella « confusione del soggetto (anima) coll' oggetto (enti ideali) ». A questa corruzione dell' antica scuola può avere influito, fra le altre ragioni, anche la lingua imperfetta e volgare, di cui si dovettero servire necessariamente i primi che tolsero a filosofare. Noi abbiamo veduto che Empedocle chiamava elementi gli elementi ideali, e li riduceva tutti al fuoco; e che poi faceva il fuoco essenziale sinonimo di amicizia, di ente, di sfero, di Dio supremo, sia perchè la vita si manifesta col calore, sia perchè il fuoco è un cotal simbolo della luce intellettuale, sia per una reale confusione, che nasceva nel suo intendimento, fra le proprietà del fuoco e quelle del supremo essere, che vive per propria essenza. Da questo Dio egli faceva venire le anime umane. Il che non era alieno da quanto aveva insegnato Pitagora, del quale, come abbiamo veduto, Diogene Laerzio ci assicura che faceva dell' anima una emanazione del fuoco centrale. Parmenide del pari la dichiarava di natura ignea (1), benchè questa sentenza per fermo appartiene all' opinione e non alla verità, secondo la distinzione di questo filosofo. Quindi Leucippo, uditore di Parmenide, la ridusse pure al fuoco; e Democrito la definì [...OMISSIS...] , dove si scorgono confuse le cose, che l' anima percepisce, coll' anima stessa, l' oggetto col soggetto. Eraclito tutto dal fuoco derivava, e, secondo Stobeo, voleva l' anima essere di luce, «photos». Onde dagli Atomisti, corruttori dell' antica filosofia, si ritenne presso che la maniera di parlare degli antichi, e si trasmutò in pari tempo la dottrina. E quando si considera che Possidonio (3) fa venire la dottrina degli atomi dalla Fenicia, dichiarandone autore l' antichissimo Mosco, e che dalla Fenicia avevano pur tratto le loro dottrine Ferecide e Talete, si rende vie più verosimile che il sistema atomistico dei greci non sia punto altro che la corruzione di un sistema più antico, immune dall' espresso materialismo. Non voglio già asserire con ciò che i Fenici e gli Ebrei, loro contermini, possedessero in quell' antichissimo tempo la dottrina platonica delle idee, in quella forma esplicita ed analitica in cui la insegnò Platone; questo sarebbe troppo. Ma io credo che essi parlassero degli enti, senza definire precisamente se l' oggetto del loro discorso fosse l' idea o l' ente reale; parlavano dell' ente, come si presentava alla loro intelligenza, senza farne ancora un' analisi accurata. Così appunto, a mio vedere, ne parlò Parmenide, senza discendere alla precisa distinzione fra il mondo ideale e il mondo reale dell' essere. Ora gli atomi, così considerati, altro non sono che indivisibili ; i quali nei tempi posteriori da alcuni si definirono idee, da altri si definirono realità corporee. Indi la divisione nelle due grandi scuole, fra le quali si divise l' antichità. Ma gli uni e gli altri confusero l' anima umana col loro termine. Quelli che determinarono l' ente, su cui si speculava, facendolo ideale, confusero il soggetto (l' anima) coll' oggetto, perchè l' essere, in quanto è ideale, è oggetto; quelli che lo determinarono facendolo reale e corporeo, confusero il soggetto coll' extra7soggetto, perchè il reale non è propriamente oggetto, ma semplicemente un' entità extrasoggettiva. Dovendo tuttavia questi ultimi spiegare in qualche modo la cognizione che ha l' anima umana delle cose, ricorsero alle immagini: ma facendo queste stesse della natura dell' anima, le confusero coll' anima stessa. Tennemann espone brevemente il sistema degli idoli di Democrito in questo modo: [...OMISSIS...] . Tuttavia neppure questo pensiero a lui esclusivamente apparteneva. Platone nel Menone ci attesta che lo stesso Empedocle faceva che dai corpi esteriori si movessero certe emanazioni, chiamate «aporroiai», ovvero «aporroai», quasi immaginuzze, le quali, entrando pei pori degli occhi, producessero la visione: che anzi Plutarco attribuisce questa dottrina alla stessa scuola pitagorica (3). Questo fu poscia il sistema di Epicuro. Dove si vede che la dottrina di tali filosofi intorno all' anima, contenendo errori diversi, può appartenere a diverse classi di sistemi erronei. Ma veniamo al sistema di Platone. PLATONE. - Aristotele nell' opera sull' anima, dopo riferito in qual maniera tutta materiale Democrito voleva che l' anima movesse il corpo, cioè come un corpo muove un altro corpo, gli aggiunge nello stesso errore Platone per le cose che questi dice nel « Timeo »; il che a me pare non altro che una delle solite calunnie, colle quali lo Stagirita suol deprimere il suo maestro, cogliendolo alle parole, e interpretando a rigore ciò che egli dice con istile allegorico, o in altro modo figurato. Che Platone non abbia sempre accuratamente distinto le idee dall' anima intellettiva, ma voluto che l' anima si componesse della similitudine di tutte le cose, questo mi sembra indubitato. E` un' eredità ricevuta dai filosofi, che lo precedettero. Il seme di questo errore è già in Parmenide, che aveva detto: [...OMISSIS...] . La dottrina di Empedocle era questa, come abbiamo visto, ed ella stava dinanzi alla mente di Platone. Nulla di meno Platone distinse qualche volta la mente dalle idee assai chiaramente. Così, nel « Primo Alcibiade », Socrate fa osservare che la ragione è lo strumento, ossia il mezzo, con cui egli ragionava, e non è lo stesso Socrate, ossia la stessa anima di Socrate ragionante. Al qual detto se fosse stato coerente, sarebbe pervenuto a trovare la propria natura dell' anima umana. Ma il nesso delle idee con noi è così intimo, che talvolta accade a Platone quello che ai suoi predecessori, di fare di due entità sì distinte una cosa medesima, cioè l' anima; e di ciò stesso potrebbe forse purgarsi, come diremo appresso, ma non dell' averne parlato in modo alquanto oscuro ed equivoco. Nel « Timeo » Platone comincia a descrivere la formazione dell' anima del mondo, dicendo che Iddio la compose di tre nature, cioè: 1) dell' essenza indivisibile, che è sempre la stessa; 2) dell' essenza divisibile, che è quella che poi si divide pei corpi, ed è quanto dire della materia prima, onde dovevano essere tratti i corpi, la quale è perpetuamente un' altra; 3) di una specie di essenza media, che tiene delle due prime. Delle quali tre cose commiste Iddio fece una sola e medesima cosa, cioè l' anima, che doveva poscia animare l' universo corporeo, congiungendo i due opposti, ciò che è sempre il medesimo e ciò che è sempre un altro, con potenza e con una cotal violenza, «bia». Se Platone avesse collocato l' essenza dell' anima in quel principio medio, che lega l' identico ed il diverso, non sarebbe andato lungi dal vero, poichè l' avrebbe collocata nel principio razionale, che fa appunto questo ufficio di legare insieme i due estremi del reale corporeo e dell' ideale. Ma facendo che l' identico stesso (l' essere ideale) fosse parte dell' anima, era un confonderla colle idee o cose divine, e così divinizzarla; come il volere che una sua parte fosse il diverso, cioè la materia corporea, era un confonderla coi corpi, e così materializzarla. Quindi Aristotele, cogliendo il sistema platonico intorno all' anima da quest' ultimo lato debole, cioè dall' averle dato un elemento che è sempre diverso, prima lo mise insieme con quello di Empedocle materialmente interpretato, e disse che faceva l' anima composta dei quattro elementi; poscia tolse altresì a farne un fascio con quello di Democrito, il che ha l' aria più di una satira che di una seria e grave censura. Ora, quanto al rimprovero che Platone componesse l' anima dei quattro elementi materiali, basterebbe a purgarlo questo luogo: [...OMISSIS...] . Ma poichè Platone fa che Iddio traesse l' anima in parte anche da quella natura che nei corpi si divide, «tes au peri ta somata gignomenes meristes», dobbiamo vedere se questa natura divisibile, di cui l' anima partecipa, sieno forse i quattro elementi materiali. Ora noi troveremo non essere punto così la cosa. Ma considerando ciò che egli ne dice nel Timeo, ci riuscirà indubitato che per lui questa natura era lo spazio, e il rilevar questo ci riuscirà non poco utile, e ridonderà in lode non piccola di quel grande uomo, il quale si dovette accorgere di quello che noi crediamo di avere dimostrato, essere cioè lo spazio un termine costante e naturale dell' anima umana (2). Egli dichiara che questa natura è « « il ricettacolo della generazione di tutti i corpi » »; il che conviene ottimamente allo spazio; poscia continua: [...OMISSIS...] . Ora qui, togliendo a dichiarare questa terza entità, necessaria a spiegare la costituzione del mondo, incomincia dal dimostrare che i quattro elementi si cangiano l' uno nell' altro, e però niuno di essi è per essenza o fuoco, o aria, o acqua, o terra; perchè se fossero tali per essenza, non si cangerebbero. Deve dunque esservi un quid sostanziale, che non sia niuno di essi, ma che possa diventare e fuoco, ed acqua, e gli altri elementi; e quel quid, non avendo alcuna forma determinata e visibile, non può essere, Platone così conchiude, che un' essenza intelligibile. [...OMISSIS...] . Dove alcuni credettero che così Platone descrivesse la materia prima; ma certamente non è, a meno che per materia prima non s' intenda l' intelligibile, ciò che è sempre identico (l' essenza sostanziale, confusa da Platone colla sostanza reale ); il cui opposto è ciò che è sempre da sè diverso, a cui passa il filosofo soggiungendo immantinente: [...OMISSIS...] . Fino a qui noi abbiamo descritti da Platone l' identico e il diverso, la sostanza (ideale e reale confuse insieme da lui) e i corpi formati (colle loro forme specifiche e individuali). Ora la natura, che Platone pone anteriore all' esistenza dei corpi, come un costitutivo dell' anima, non è nè l' identico, nè il diverso, nè le idee, nè il corpo ; che cosa è dunque? Lo spazio, noi dicevamo. Anzi è Platone stesso che lo dice espressamente nel periodo che seguita: [...OMISSIS...] . Egli dice con somma acutezza e proprietà che lo spazio « « senza senso di toccamento si tocca, opinabile in una cotal maniera adulterina » ». Dice « in una maniera adulterina », perchè l' opinione viene, secondo Platone, dai sensi (ella risponde alla nostra cognizione soggettiva ), ma lo spazio pure non si vede come cada sotto ai sensi; neppur si vede come si possa percepire coi corpi, giacchè esso non è corpo (1). D' altra parte essendo lo spazio, cioè l' estensione, il fondamento di ogni continuo anche corporeo, e il continuo non potendosi trovare semplice, quindi rimane che lo spazio debba appartenere alla forma dell' anima sensitiva, la qual forma è il sentito. Onde Platone dice, benchè oscuramente, qualche cosa di simile a ciò che propose Kant, quando questi chiamò lo spazio forma del senso esterno. Ma noi abbiamo veduto in che consisteva l' errore di Kant, cioè nel fare dello spazio una forma soggettiva, anzichè un termine del sentimento fondamentale (forma extra7soggettiva). Avendo dunque l' uomo, come essere sensitivo, la forma dello spazio a sè connaturale nel modo detto, accade che gli sia difficile a pensare cose immuni da spazio, perchè non può arrivare a ciò, se non adoperando il solo intelletto, senza che vi si associ menomamente la sua sensitività animale; il che gli riesce oltremodo malagevole, perchè di natura e d' abitudine suol fare il contrario. Onde egregiamente, e con una eleganza filosofica meravigliosa, secondo il suo solito, Platone soggiunge così: [...OMISSIS...] . Quella porzione dell' anima adunque, che non è identica, e nella quale come in una cotal matrice si fa tutto ciò che è un soggetto alla generazione, si è lo spazio , il quale è quindi a Platone come una cotal forma dell' anima sensitiva. Dunque nella composizione dell' anima platonica non entra corpo alcuno, nè elementi materiali, che questo filosofo replicatamente dice essere corpi, e perciò prodotti da Dio posteriormente all' anima (3). Ma veniamo all' altra censura, che fa Aristotele alla teoria dell' anima di Platone, tratta dal moto che questi le accorda. Convien dunque sapere che, movendo Platone dal principio dei Pitagorici, che « ogni simile si conosce pel simile », dall' aver egli composta l' anima di ciò che è essenzialmente identico, e di ciò che è essenzialmente diverso, e d' una media sostanza, che abbraccia in sè le due prime, tolse a spiegare come essa conosca le cose opposte, cioè sì quelle che sono per essenza le medesime, e sì quelle la cui natura consiste nel divenire continuamente altre da quel che sono; ella conosce le une e le altre in sè stessa, perchè ella ha la natura di entrambe (1). Ma poichè espresse questo pensiero, cioè che ella conosce tali cose, dicendo che le conosce col « rivolgersi in sè stessa », quasi a similitudine dei pianeti che ruotano sul proprio asse, «aute te anakyklumene pros hauten», Aristotele lo incolpò di spiegare i movimenti dell' anima alla guisa di Democrito, ricorrendo a un moto eguale a quello dei corpi da luogo a luogo, e così prese a tassarlo di errore. Veramente era questo un captare in verbo, era un cavillare; giacchè niuno meglio di Platone riconosceva la spiritualità dell' anima intelligente, che la faceva prodotta da Dio in tempo in cui non esistevano ancora i corpi, benchè la sua parte inferiore, cioè la sensitiva, voglia egli che sia fatta di quella natura divisibile circa i corpi, cioè di spazio. Ma neppure allo spazio attribuisce Platone veramente moto locale, somigliante a quello dei corpi, e però svanisce del tutto la censura aristotelica. Rimane dunque a vedere soltanto, se noi abbiamo fondamento di attribuire a Platone l' errore di confondere l' essenza dell' anima coi suoi termini. Intanto è indubitato che alcune espressioni platoniche contengono questo errore, come sono tutte quelle dove egli dice espressamente che l' anima risulta da tre nature. A ragion d' esempio, di Dio dice: [...OMISSIS...] . Vero è che gli uomini grandi, come Platone, non vogliono essere costanti nei loro errori. Però vi sono dei luoghi, in cui egli mostra di accorgersi che l' anima doveva propriamente dimorare in quell' essenza media, la quale da una parte tocca il mondo ideale, e dall' altra attinge lo spazio ed appresso il corpo, senza che questi suoi termini sieno essa stessa, ma sue condizioni essenziali, ond' ella non è senza di essi per la legge del sintesismo, di che facilissimamente con essa si confondono. Oltre al luogo citato del « Primo Alcibiade », il « Timeo » stesso ce ne somministra alcuni, dove la perspicacia del grand' uomo rasenta il vero. Nel luogo ultimamente addotto la sola media parte dell' anima è chiamata «usia» (1), benchè altrove chiami con questo nome anche le due parti estreme. La media viene detta partecipe delle due estreme, dimostrando con ciò che è dessa quella che costituisce l' unità dell' anima, e quella sola che, unendo nella sua unità l' identico e il diverso, può conoscere l' uno e l' altro (2). Ora quella che conosce l' uno e l' altro è l' anima; dunque, secondo Platone, l' essenza dell' anima non può essere collocata nelle parti estreme, nè propriamente in tutte e tre le parti, ma solo nella media, benchè questa sia legata con quelle estreme, non parti, ma propriamente termini, che non appartengono alla sua sostanza, ma ne sono condizioni; pure si dice che le appartengono solo perchè la media da esse riceve la condizione e l' atto di sua natura. Quindi quella che agisce in Platone è continuamente la media; ed io intendo che questa sia pure quella, che talora chiamasi da Platone ragione, in quanto ella è partecipe di ciò che è sempre eguale a sè stesso. Onde egli dice che la ragione, cioè questa sostanza dell' anima, partecipe dell' identico e del diverso, in quanto all' identico è unita, percependo il sensibile, cioè il diverso, si forma delle opinioni e delle persuasioni ferme e vere, «doxai kai pisteis gignontai bebaioi kai aletheis»; quando poi si volge a ciò che è razionale, cioè all' identico, allora si arricchisce di scienza, che ha per dote la necessità, «nus episteme te ex anankes apoteleitai» (3): i quali due modi di conoscere rispondono perfettamente alla ragione umana, «logos anthropinos», ed alla ragione divina, «logos theios», di Empedocle. Nel qual passo del « Timeo » più altre cose sono degne di osservazione. I) E primieramente merita che si osservi come Platone non attribuisca punto al sensibile cognizione di sorta, ma sì attribuisca alla ragione la cognizione anche del sensibile; nel che egli vide sagacemente quello che non videro i moderni filosofi tedeschi, che, dividendo la cognizione in empirica e razionale, attribuiscono la prima ai sensi, i quali cognizione alcuna non possono dare; e ciò perchè non si sono potuti giammai purgare affatto dal sensismo, ricevuto dal secolo alla lor propria insaputa, nè hanno potuto digerire il veleno, nè tampoco con quei potenti drastici, che sembrano essere le loro speculazioni trascendentali. II) In secondo luogo, quantunque Platone faccia l' anima composta anche di ciò che è sempre diverso da quello ch' era prima, acciocchè ella possa conoscerlo, giusta il principio che « il simile si conosce col simile », tuttavia egli non reputava bastevole che l' anima fosse sensibile per conoscere il sensibile, ma oltracciò richiedeva che avesse la ragione, che è il principio formale della cognizione dello stesso sensibile, e quella che contiene il simile ideale ; mentre il senso non contiene il simile, ma l' azione delle cose corporee. III) La differenza, che Platone assegna tra l' opinione o la fede e la scienza necessaria, non istà in questo, come alcuni credono, che la prima sia cognizione falsa od illusoria, e la seconda soltanto vera: che anzi alla prima, se rettamente è posta, egli attribuisce «doxai kai pisteis bebaioi kai aletheis». Onde questa eccellente distinzione risponde a quella che noi facciamo fra la cognizione relativa o soggettiva e la cognizione assoluta ; delle quali la prima ha per materia il sentimento mutabile, e la seconda un oggetto immutabile, benchè la cognizione stessa sì di quello che di questo sia immutabile. IV) Finalmente vuolsi osservato come Platone dica l' anima possedere il necessario e la scienza, allorquando la ragione si volge a considerare il razionale, «to logistikon»; dove si vede che il grande uomo non si era sollevato a conoscere che vi doveva essere una realtà, che tenesse la medesima necessità e immutabilità del razionale o ideale; e questo è il seme, già da noi additato, di tutti gli errori del sistema platonico, degenerante in un razionalismo, e ogni cosa promettente all' uomo dal freddo cielo delle idee. Nel libro IV della « Repubblica » Platone non parla delle tre parti dell' anima, ma insegna che « « nell' anima dell' uomo vi sono due cotali entità, l' una migliore e l' altra inferiore; e quando ciò che è migliore per natura domina su di ciò che è inferiore, allora si dice che altri è più possente di sè stesso, e così dicendo si loda; quando poi, a cagione della rea educazione o di qualche consuetudine, ciò che è migliore, essendo da meno, viene superato dalla moltitudine di ciò che è inferiore, di questo altri si vitupera come di cosa obbrobriosa; e si dice che egli è più debole di sè stesso » ». Nel qual luogo scompaiono, come dicevo, i due termini estremi dell' anima in quanto sono da essa diversi, e resta la sola parte media, che è veramente l' anima, la quale riceve da entrambi: e ciò che riceve da quello che ha natura immutabile è l' entità sua migliore, ciò che riceve da quello che ha per natura l' esser sempre diverso, è l' entità sua inferiore. Abbiamo veduto Aristotele rampognare Empedocle perchè, facendo egli che l' anima si componga dei quattro elementi e dei due principii, acciocchè, avendo ella in sè il simile delle varie cose, possa conoscerle, non provvide poi a fare che ella potesse conoscere altresì i composti, e le passioni ed azioni dei composti; i quali non potevano essere tutti nell' anima. Questa difficoltà Aristotele probabilmente l' aveva bevuta alla scuola di Platone. Infatti questi aggiunse ciò che mancava alla spiegazione empedoclea dell' umana cognizione. In primo luogo quello che rimaneva incerto od equivoco nelle sentenze di un filosofo, che aveva scritto in poesia, fu da Platone dichiarato; di poi quello che mancava fu aggiunto. In Platone rimane dichiarato come si dovesse intendere che « il simile si conosce pel simile », perocchè questo principio ha due sensi: il primo, che le cose si conoscono per le idee, che ne sono come le similitudini (1); il secondo, che chi conosce una data natura deve esperimentarla, riceverla o averla in qualche modo in sè stesso, nel proprio sentimento, senza di che gli manca la materia della cognizione, non ne può avere che un' idea vuota e generale. Entrambi questi due sensi sono veri. Il simile fa conoscere il simile, è principio vero sì applicato alla forma, e sì alla materia della cognizione. E quantunque questa illustrazione non si trovi con parole espresse in Platone, tuttavia si può raccogliere dai suoi detti, osservando che egli attribuisce alla ragione la formale cognizione anche dei sensibili, e che tuttavia egli esige l' anima sensibile come condizione, senza cui ella non potrebbe conoscerli. Quanto poi a ciò che mancava in Empedocle e che aggiunse Platone, sì fu l' aver questi veduto una verità bellissima e fecondissima, ed è che nell' anima umana vi sono ingenite le leggi dell' ordine e dell' armonia, e tali leggi che fanno eco a quelle dell' universo, onde avviene che ella possa intendere l' armonia di questo. Nè solo vi è l' armonia di distribuzione, ma quella altresì che nei movimenti ordinati e rispondentisi è contenuta, della quale un' espressione è la danza. Ed è indubutabile che l' anima non potrebbe sentire ciò che vi è di bello e di armonico nell' universo e nell' opera dell' arte, se ella stessa non ne avesse in sè il fondamento. Che anzi non si dà armonia meramente oggettiva, ma ogni armonia consiste in un rapporto dell' oggetto col soggetto, e nel soggetto dimora. E se a Dio piacerà che noi pubblichiamo quella parte dell' Agatologia, che intitolammo Callologia, di cui l' Estetica non è di nuovo che una parte, noi vedremo come la costituzione mirabile e profonda della sensibilità dell' anima sia il principio supremo di quest' ultima scienza, o parte di scienza (1). Platone adunque diede il movimento all' anima del mondo - a cui somiglianza egli fa poi l' anima umana - e anzi la fece moventesi da sè stessa, « «auto heauto kinun» (2) », e fece i suoi movimenti regolati dai tempi, e armonici, assomigliandoli in tutto a quelli dei corpi celesti. Disse che ella movevasi come due circoli l' uno dentro l' altro, che ruotano di continuo: l' esteriore e maggiore composto di ciò che è sempre identico ed immutabile, l' interiore di ciò che è sempre diverso da sè; e questo circolo interiore fu poi da lui diviso in altrettante orbite, quante sono quelle dei pianeti, che quell' anima doveva animare. Ed è pur da notarsi come Platone metta ciò che è sempre diverso da sè, la materia prima, dentro a ciò che è identico, e quindi dica aver poi Iddio entro l' anima fatti i corpi (3), ed ella in mezzo di sè (dove sono i corpi) stendesi via oltre i cieli, e li circonda ed avvolge (4). Onde, avendo egli descritta l' anima in continua rivoluzione intorno a sè medesima e di varie quasi sfere composta, Aristotele fu pronto ad assalirlo come d' assurdità, e, pigliando tutto materialmente, non gli fu difficile confutare una tale dottrina. Ma pigliandosi ragionevolmente quanto dice Platone, con quello stile animato e poetico di cui si compiace, si troverà aver quell' uomo grande veduto anche in ciò dei veri ammirabili. Perocchè noi interpretiamo così la sua descrizione dell' anima del mondo, e i circoli di cui la vien componendo, e gli armonici movimenti che egli le presta. I) L' esteso non può esistere che nel semplice, e quindi il corpo nell' anima; noi l' abbiamo provato. Ora questo è ciò che dice Platone, benchè l' apparenza sensibile mentisca il contrario. E in vero, cadendo il contenuto, cioè l' esteso corporeo, sotto i sensi esteriori, e non il contenente, cioè l' anima, sembra che questa si stia nascosta, quasi coperta da quello; ma pure, secondo la ragione delle cose, è il contrario. II) Quindi l' estensione si può considerare sotto due rispetti, o in sè stessa, o nel suo rapporto col principio senziente, appartenente all' anima. L' estensione in sè stessa è estesa per essenza, e possono essere segnati in lei parti, limiti, mutamenti di parti e di limiti, e movimenti. Ma il rapporto, che ha l' estensione col principio senziente, non è esteso, poichè è un mero rapporto di sensilità (1); onde in quanto l' estensione è forma del sentito, ella non è estesa, perchè è semplice il principio in cui si trova, nel qual principio anche ella nasce. Quindi si possono distinguere due estensioni, l' una extra7soggettiva e l' altra soggettiva. La estensione soggettiva è in un modo inesteso nell' anima, in quanto è sensitiva; e però, se s' intende in questo modo la dottrina platonica, niente vi è di assurdo che Platone dia all' anima del mondo l' estensione, e distingua in essa più circoli, il tutto rispondente alla forma dell' universo materiale che deve animare, e che è suo termine. Poichè così appunto avviene nell' anima umana, in quanto ella avviva il corpo, avendo certo in sè l' estensione dello stesso corpo, ma in un modo semplice, com' è detto; giacchè il sentire, a ragion d' esempio, in due pollici di corpo senso di dolore o di piacere è diverso dall' avere la sensazione in un pollice solo; poichè il termine della sensazione (il sentito) è più esteso nell' un caso che nell' altro, e quindi la sensazione stessa si dice più estesa. Ora, avendo l' animale quello che noi chiamammo sentimento fondamentale, il quale a tutto il corpo sensibile si estende, ed allo spazio illimitato altresì, convien dire che all' estensione extra7soggettiva risponda nell' anima una pari estensione soggettiva; ossia, il che è più esatto e conforme alla maniera onde s' esprime Platone, che alla estensione soggettiva che è nell' anima, risponda l' estensione extra7soggettiva, che è nel corpo percepito dai sensori esterni, e che questa si percepisca per quella a cui si commisura; poichè anzi questa esiste per quella, secondo il principio nostro che « l' esteso continuo esiste pel semplice, in cui dimora ». Se dunque si considera tutto l' universo al modo di Platone come un solo animale, conviene dire che nell' anima di quell' animale risponda un' estensione corporea pari, e così conformata, come è appunto l' estensione extra7soggettiva, che hanno i corpi, di cui si compone l' universo corporeo, diviso in circoli e sfere; e così appunto Platone descrive distinta l' estensione dell' anima. III) Ora, di ciò medesimamente consegue che, non essendo il moto altro che un cangiamento dei luoghi che i corpi occupano nell' estensione, debba esservi nell' anima un moto soggettivo, rispondente al moto extra7soggettivo proprio dei corpi; altrimenti questo movimento dei corpi non potrebbe in alcun modo essere percepito dall' anima; anzi neppure esisterebbe, perocchè il movimento è una mutazione nel continuo, e il continuo è formato dal semplice, dove solo può esistere. A torto, dunque, Aristotele tolse a censurare il suo maestro d' aver dato il moto all' anima. E pare che egli non abbia saputo distinguere l' estensione e il moto soggettivo proprio dell' anima, dalla estensione e moto extra7soggettivo proprio del corpo; e che Platone desse quell' estensione e quel moto all' anima del mondo, e non questo. Infatti nel « Fedro » distingue il moto proprio del corpo e il moto proprio dell' anima; e dalla natura del moto dell' anima ne deduce la sua immortalità, perocchè, egli dice, l' anima ha il moto interno, che è come sua natura, là dove il corpo lo riceve da fuori. Onde, se il moto è nella stessa natura dell' anima, questa natura deve essere sempre in moto, e quindi sempre viva, poichè ciò che si muove da sè è cosa viva (1). Di che si vede, e che Platone attribuisce all' anima la cagione, ossia il principio del propro moto (2), e che il proprio suo moto, secondo questo filosofo, è interamente diverso dal moto del corpo; giacchè questo moto extra7soggettivo, di cui il corpo è il subbietto, non può essere mai una natura, ma un accidente estrinseco; quello poi è natura, e ogni natura è stabile e ferma. IV) Ora, con questo moto interno dell' anima del mondo Platone spiega tutti i movimenti che accadono nell' universo, dove il grand' uomo dimostra d' aver veduto quel principio, che da tutta l' antichità fu consentito, e di cui noi ci siamo giovati in quest' opera: « il movimento dei corpi supporre un principio incorporeo, sensitivo o intellettivo ». Infatti le forze brute dei moderni, ammesse come una confessione d' ignoranza, possono passare; ma asserite siccome vere forze brute, cioè escludenti la sensitività, altro non sono che una produzione dell' immaginazione, sono l' ignoranza degenerata in temerità, che, abbigliata alla scientifica, pronuncia assurdi. Aristotele confuta con ragione la maniera onde Democrito e Filippo il Comico volevano che l' anima movesse il corpo; quelli pensavano che essa lo movesse come un corpo muove l' altro, e recavano in esempio la Venere fatta di legno da Dedalo, la quale movevasi per un cotal gioco d' argento vivo, che il fabbricatore vi aveva saputo congegnar dentro. Oppone Aristotele, che se con ciò si spiegherebbe il moto, non si spiegherebbe poi la quiete, cioè non si spiegherebbe perchè l' animale si rimettesse in quiete, e poi ritornasse a muoversi; al che è pur mestieri supporre che « « l' anima non muova così l' animale, ma per una cotale elezione ed intellezione »(1) »: dove ricomparisce il sensismo aristotelico, accordandosi l' elezione e l' intellezione all' animale. Ora, benchè egli metta insieme con quei due filosofi materialisti Platone, non osa però fare a questo la stessa obbiezione. Infatti Platone non fa che l' anima comunichi il movimento al corpo, come fa un corpo ad un altro, a cui lo comunica, rimanendone esso di tanto spogliato; non dà all' anima il moto solamente, ma di più le dà il principio del moto, «kineseos archen» e quindi la sorgente perenne di sempre nuovo moto. E come ogni potenza passa all' atto secondo certe sue leggi, così anche il principio, ossia la potenza del moto, passa all' atto giusta le leggi proprie, che hanno il loro fondamento pel moto sensibile nel corpo dall' anima informato, e pel moto intelligibile nell' essere universale, da cui è informata l' anima umana, ai quali due termini si riducono le due estreme parti assegnate all' anima da Platone. Quanto poi alla fatica, che si prende Aristotele di dimostrare che l' anima intellettiva non può avere grandezza corporea, e che « l' intellezione è piuttosto simile alla quiete e a un cotale stato che al movimento », ciò è verissimo, se è detto ad esclusione delle parti e del moto materiale; ma non tiene, se si parla di parti e di moti sensibili quanto all' anima sensitiva, e di parti e di moti ideali quanto all' anima intellettiva. Perocchè le stesse parti e gli stessi movimenti sono in un dato modo nella materia (con relazioni di parti e di luoghi), e in un altro modo nell' anima sensitiva (con relazione di sensilità), e in un terzo modo nell' anima intellettiva (con relazione di entità), come abbiamo dichiarato a suo luogo (2). I filosofi precedenti, che riposero l' essenza dell' anima nelle idee, la deificarono, perchè gli antichi non erano giunti a distinguere fra Dio e l' idea. Avendo questa caratteri divini, e avendola confusa coll' anima, ne veniva la spontanea conseguenza che le anime fossero altrettante deità. Perciò questi filosofi appartengono tanto alla terza classe di sistemi erronei intorno alla natura dell' anima, quanto a questa quarta. L' errore originario di un così fatto sistema giace nella confusione fra l' oggetto dell' intelligenza, l' ente intelligibile, coll' intelligenza o mente che lo intuisce. Questo è il soggettivismo, cioè quel sistema che dichiara l' oggetto pensato modificazione del pensiero; è l' errore di Galluppi, l' errore più comune dei nostri tempi, anzi universale, il tristo legato del sensismo. Vero è che i soggettivisti che riducono l' oggetto, l' idea, la verità, ad essere un elemento accidentale o sostanziale dell' anima, non deducono tutti egualmente le conseguenze spaventevoli, che esso racchiude nel suo seno; molti non le vedono per mancanza di penetrazione sufficiente; altri, atterriti dalle conseguenze, si fermano a mezzo la via, o mediante cavillazioni inconseguenti si sforzano di declinarle; ma avendo il protestantesimo tolto a filosofare, egli senz' alcuna tema le dedusse tutte fino all' ultima in Germania; scomparve la religione, rimase il razionalismo. Il soggettivismo dei Platonici alessandrini intorno all' anima intellettiva è a sufficienza delineato in questo brano di Porfirio: [...OMISSIS...] . Prova poi che la mente è il medesimo delle cose percepite, da questo, che ella le considera in sè stessa, a differenza del senso e dell' immaginazione: [...OMISSIS...] Noi non vogliamo osservato in questa dottrina se non la confusione fra la mente e le cose dalla mente concepite. Vogliamo posta attenzione alla ragione, che si adduce, per conchiudere che le cose dalla mente concepite e la mente sono il medesimo. Tutta la ragione di una tesi così opposta al senso comune, cioè che la mente sia le cose percepite, si riduce a questa: « Le cose percepite dal senso sono esterne, dunque non sono il senso; le cose percepite dalla mente sono interne, dunque sono la mente, dunque ella le percepisce considerando sè stessa, e se cessa dal considerare le sue funzioni, niente affatto intende ». Ma chiunque fa uso di una tranquilla osservazione interna per rilevare accuratamente il fatto, trova che questa ragione è affatto insussistente e vana. E di vero: I) Dall' essere l' oggetto della mente interno non ne viene affatto che egli sia la mente. Acciocchè si potesse così conchiudere, converrebbe aver provato che non vi sia nulla d' interno, eccetto la mente; converrebbe aver provato che sia assurdo che una cosa incorporea inesista in un' altra pure incorporea; il che non si prova, nè si può provare. II) La parola interno applicata all' oggetto della mente è male usata, perchè significa una relazione locale di corpo a corpo; là dove l' oggetto della mente non è, propriamente parlando, nè fuori nè dentro di alcun corpo, non occupando alcun luogo nello spazio, e perciò essendo privo al tutto di relazioni locali. III) Se per interno s' intende unito colla mente, in tal caso si accorda che gli oggetti intuiti o percepiti dalla mente sieno, al loro modo, uniti colla mente; ma l' essere uniti colla mente esprime un concetto al tutto diverso da quello di essere confusi e identificati con essa. IV) Di più, se per cosa interna s' intende cosa unita, in tal caso non è vero che il termine del senso sia esterno, perocchè il termine del senso non può essere sentito o percepito, se non è unito col principio senziente; che anzi il termine del senso è così unito al principio senziente, che il senziente, sentendo o percependo, non fa un atto pel quale lo distingua da sè, non sentendo o percependo altro che il proprio termine, e sè stesso nel termine formante un unico sentimento; all' incontro l' oggetto della mente è unito alla mente, in modo che la mente non può intuirlo o percepirlo se non come oggetto, non solo distinto da sè, ma opposto a sè soggetto. L' illusione che fa credere che il senso percepisca gli oggetti da sè distinti o, come dicono i nostri filosofi, esterni, nasce da questo: 1) Che i corpi diversi dal nostro sono esterni al nostro; ora si confondono gli organi sensori, che appartengono al nostro corpo, col principio senziente che è l' anima. E poichè i detti corpi sono esterni ai nostri organi sensori, quelli si dicono esterni al principio senziente, che non è corpo. Dove non si riflette: a ) che prima di sentire i corpi esterni sentiamo col sentimento soggettivo e fondamentale il nostro proprio corpo, termine immediato del senso; b ) che i corpi esterni non li sentiamo se non uniti al nostro, per l' azione che esercitano nel nostro; la quale azione ha sua sede nel nostro proprio corpo e non nei corpi esterni, e però è così immediatamente unita al principio senziente, come è unito il nostro proprio corpo soggettivo. 2) Nasce ancora dai fenomeni della vista, pei quali pare che noi percepiamo col senso i corpi lontani; e dai fenomeni del moto attivo, pel quale ci avviciniamo ai corpi lontani. Ora la teoria di questi fenomeni non era ancor trovata al tempo degli Alessandrini. Ma noi abbiamo spiegato tali fenomeni ricorrendo: a ) allo spazio illimitato, termine immediato del sentimento fondamentale, b ) all' associazione delle sensazioni e ai giudizi, che nell' uomo vi si mescolano (1). V) Che se si considera che non solo il senso, ma ancora la mente percepisce i corpi esterni al nostro, l' argomento che si adduce perde fino l' apparenza di verità: poichè è anzi la mente, e la mente sola che possa pensare le cose lontane, mentre il senso non percepisce che quelle che gli sono presenti, e seco unite col rapporto di sensilità. Che se si tratta di esseri puramente ideali e possibili, o spirituali, questi, come dicevamo, non sono in alcun luogo, e però nè esterni, nè interni, nè lontani, nè vicini. VI) Che se il trovarsi l' oggetto unito, o per dir meglio presente alla mente, non involge nessuna logica necessità che il soggetto, cioè la mente, debba identificarsi coll' oggetto, e che quindi ella sia il proprio oggetto; che cosa si dovrà fare, secondo il buon metodo di filosofare, per verificare se ha luogo questa identificazione sì o no? Nient' altro se non vedere coll' accurata osservazione come il fatto avvenga, e verificato bene il fatto, non volerlo distruggere col raziocinio, secondo il logico assioma che contra factum non datur argumentum . Il fatto dunque da verificarsi è questo: « se la mente quando pensa una montagna, una pianta, un bruto, ecc., reale o possibile, creda ella di pensare sè stessa, e conseguentemente se ella creda di essere quella montagna, quella pianta, quel bruto, ecc., reale o possibile, che pensa ». Non vi è nessuno fuori degli ospizi dei mentecatti, che a questa domanda non risponda negativamente. I soli filosofi sono quelli che, volendo fare da maestri alla mente umana (forse per averne essi un' altra diversa dall' umana), dicono o vengono a dire così: « Non possiamo negare che la mente quando pensa la montagna, la pianta, il bruto reale o possibile, creda di pensare cose diverse da sè, e di tutt' altra natura; ma ella s' inganna, non pensa mai se non sè stessa, non pensa che le proprie modificazioni, le proprie funzioni ». Ebbene, signori filosofi, ascoltatemi un poco: se la mente che crede di pensare la montagna, la pianta, il bruto, ecc., e non sè stessa, pensa tuttavia sè stessa, come voi dite, almeno dovete concedere che non sa di pensare sè stessa, appunto perchè crede di pensare tutt' altro, cose grandemente da sè diverse. - Non può negarsi. - Dunque pensa sè stessa senza saperlo. - Così è. - Il pensiero di sè stessa è dunque un pensiero, che non ha coscienza di sè. - Appunto. - All' incontro ella sa di pensare, ha coscienza di pensare cose al tutto diverse da sè, sia poi che s' inganni o no in questa scienza o coscienza che ha del suo pensiero. - Certo. - Ora, si può sapere, aver coscienza di pensare una cosa senza pensarla? Per esempio, se voi sapete, ossia avete coscienza di pensare il diavolo, è possibile che voi crediate o sappiate, o abbiate coscienza di pensare propriamente il diavolo, senza che abbiate nessuna idea del diavolo? - Davvero no. - Oppure che crediate di affermare il diavolo, e vi persuadiate che il diavolo è un essere reale, senza che facciate veruna affermazione? - No, di nuovo. - Dunque se la mente vostra crede, sa, è conscia di concepire e di pensare il diavolo, pensa veramente il diavolo, e lo pensa come cosa diversa da sè. Che se voi, a malgrado di ciò, volete persuadere a voi stesso che quando pensate veramente il diavolo come cosa da voi diversa, v' ingannate del tutto, ma pensate unicamente voi stesso, deh badate che con ciò non fate altro se non limarvi il cervello per persuadere a voi stesso che voi siete il diavolo, o secondo un' altra delle vostre scuole, che « il diavolo è una modificazione o una funzione dell' anima vostra ». E` dunque più chiaro del sole che il preteso argomento dei soggettivisti, che confonde gli oggetti dell' intelligenza colla stessa intelligenza, è un ridicolo paralogismo, un sofisma temerario, con cui quei filosofi tolgono ad impugnare i fatti più manifesti della natura, a distruggere la coscienza del genere umano, e con un preteso ragionamento della mente a distruggere l' autorità del ragionamento e le testimonianze della coscienza intellettiva, che di ogni ragionamento è la base. Eppure questo errore è il perpetuo labirinto della filosofia; e mi fa uscire di me stesso dallo stupore, pensando che io non conosco scrittore anteriore al 1.27, che, entrato in questo argomento, abbia saputo pienamente spacciarsene e rompere questa tela di ragno. Ora, io qui ho creduto di stendermi a ripetere ciò che ho detto tante volte altrove (1), mosso dal dolore che mi preme, al vedere che il soggettivismo, che nell' accennato sofisma tiene le radici, è ancora universale anche nella nostra Italia; e indi i tanti funesti e mostruosi errori, che deformano e infamano la filosofia; errori oggimai svolti e dedotti logicamente fino alle ultime loro propaggini, come dicevamo. L' ultimo di questi errori, il più maturo frutto del soggettivismo, già l' accennammo, è la deificazione dell' anima, l' antropolatria, il panteismo psicologico. Facciamo in breve la storia di questo obbrobrio, di cui va svergognata la scienza, o piuttosto l' ignoranza orgogliosa e luciferina; e dei gradi pei quali ella discese giù in codesta sede dei demoni, ove ora si giace e si tormenta. L' errore originale e primitivo, onde vennero tutti gli altri, è l' accennato: l' abuso di questi vocaboli interno ed esterno, fuori e dentro, trasportati dai corpi all' anima; e quindi il principio che « l' anima nulla può conoscere fuori di sè stessa ». Vediamo come serpeggiò questo errore ed avvelenò la filosofia, la quale non può essere sanata fino che non si purghi affatto e digerisca il potente veleno, che le strazia mortalmente i visceri. BERKELEY. - Egli aveva detto che la nostra cognizione dei corpi si riduce alle sensazioni, che le sensazioni non sono che modificazioni dell' anima; che dunque i corpi non sono che modificazioni dell' anima stessa: Idealismo estetico . - Gli errori di questo ragionamento sono: 1) Il sensismo, errore che abolisce il pensiero. Infatti se si ammette il pensiero, cioè se si ammette che il corpo si percepisca dall' intelligenza come un ente da noi distinto, qualunque cosa sieno le sensazioni, rimane sempre vero che il concetto di un corpo è tutt' altro dal concetto delle modificazioni dell' anima; e però non si può confondere l' oggetto di quel concetto, che tutto il modo esprime colla parola corpo, col concetto delle modificazioni dell' anima propria. 2) La dottrina del sentimento imperfetta e mozza; poichè il sensismo lokiano, seguito da Berkeley, conosce le sole sensazioni acquisite, con cui si percepiscono i corpi extra7soggettivi, ed ignora il sentimento fondamentale, con cui si percepisce il corpo soggettivo. Di più, in quel sistema non si distingue fra il principio senziente e semplice, e il termine del sentimento esteso; e quindi non si può conoscere la dualità, che è essenziale ad ogni sentimento corporeo. Se si fosse conosciuta questa dualità, e che l' anima non è che il principio senziente, non si sarebbero già definite le sensazioni mere modificazioni dell' anima; anzi si avrebbe riconosciuto che in ogni sentimento corporeo, in ogni sensazione vi è una sostanza diversa dall' anima stessa, che agisce a suo modo nell' anima. Ma non distinguendosi il termine dell' anima dall' anima, si ridusse quello a questa; e si confuse e identificò il termine col principio, dicendo che quello era una mera modificazione di questo. HUME. - Ammesso il sensismo lokiano, cioè ammesso che le idee si riducono alle sensazioni ed ai sentimenti soggettivi, e ammesso che le sensazioni sono mere modificazioni dell' anima, Hume ne dedusse conseguentemente che anche le idee e i principŒ della ragione, che nelle idee si contengono, non sono che modificazioni dell' anima, e quindi che non hanno forza di provare l' esistenza di alcuna cosa fuori dell' anima, nè quella dei corpi, nè quella di Dio, ecc.: Idealismo razionale . - Gli errori generatori di questo sistema sono i medesimi, ma già producono una conseguenza di più; chè di vero Berkeley, fermandosi ai corpi, ed ammettendo l' esistenza di Dio e degli spiriti, era inconseguente. Ora, nell' essere Hume meglio conseguente all' errore, egli dovette impugnare un' altra verità, cioè « la differenza e l' opposizione che passa fra l' oggetto della mente e la mente che lo intuisce »; dovette chiudere gli occhi a questa patentissima verità di fatto, che « quando la mente pensa un oggetto possibile, per esempio una torre possibile a costruirsi, ella non pensa sè stessa, nè pensa una sua modificazione; anzi pensa cosa di natura diversa ed opposta alla natura propria ed alla natura delle proprie modificazioni; e questo oggetto, a cui ella pensa, non è tuttavia un nulla, perchè il nulla non è una torre possibile ». REID. - Atterrito da conseguenze così assurde e funeste, Reid volle tornare al senso comune, riconoscendo pienamente che gli uomini quando pensano i corpi, o le idee ed i principŒ del ragionare, non credono di pensare a sè stessi o alle proprie modificazioni, nè per vero ci pensano. Ma non sapendo come rispondere direttamente al paralogismo che serviva di base a tali errori, cioè che « l' anima non può uscire di sè, e perciò non può pensare che sè stessa, e quanto accade in sè stessa », invece di sciogliere il nodo, lo tagliò, dicendo che « « l' anima veramente percepisce e pensa cose da sè diverse, ma lo fa mediante certe leggi primitive e istintive della propria natura » »: Soggettivismo realistico . - Questa dottrina ammetteva il fatto, attestato dal senso comune, che l' anima pensa cose diverse da sè; ma non soddisfaceva, perchè non rispondeva al sofisma fondamentale opposto, anzi lo confermava. E nel vero: 1) Le leggi soggettive e istintive, che introduceva, erano introdotte ad arbitrio, non avevano alcuna prova. 2) Quelle leggi e quegli istinti, che si voleva movessero la natura umana a pensare cose esterne, essendo diversi dalla ragione, erano ciechi, e non potevano porgere la dimostrazione della propria veracità ed autorità di testimoniare cose diverse dall' anima; indi la loro testimonianza poteva essere illusoria; anzi doveva esser tale, dal momento che l' uomo si sottraeva alla guida della ragione per affidarsi ad un' altra guida, che si dichiarava non essere la ragione. 3) Finalmente, se l' uomo pensava le cose diverse da sè per leggi istintive della propria natura, queste stesse cose dovevano essere considerate come produzioni della natura umana; gli oggetti dunque del pensiero venivano dall' uomo, nè l' uomo poteva più assicurarsi che gli fossero dati altronde da percepire. KANT. - Queste osservazioni non isfuggite a Kant, gli fecero concepire il suo sistema. Egli ammise le leggi e gli istinti soggettivi di Reid, e ritenne la dottrina di Berkeley e di Hume, prendendo quelle leggi a spiegazione di questa. Disse non potersi negare che l' anima non possa uscire di sè, dunque conoscere tutto in sè stessa; ma non potersi neppur negare che il senso comune ammetta che l' uomo conosca cose diverse da sè; dunque tale credenza dover essere un necessario effetto delle leggi soggettive indicate da Reid, senza che queste avessero alcuna efficacia a provare la verace esistenza di cose diverse dall' anima. Credette dunque che altro non rimanesse a fare alla filosofia, per condursi alla perfezione sulla via in cui erasi incamminata, se non di determinare quali sieno queste leggi soggettive, desumendole dall' accurata enumerazione ed analisi degli oggetti, che per esse l' uomo ammetteva. Così nacque la dottrina delle forme kantiane, degli schemi e delle antinomie: Criticismo (idealismo razionale ridotto in sistema ). - Gli errori, che partorirono il criticismo, sono i precedenti, non saputi dal filosofo confutare, bensì saputi con ingegno non comune sistematizzare. I quali errori ingrandiscono nelle sue mani appunto perchè ridotti in un corpo, di cui tutti gli organi sono divisati. Kant solamente aggiunse che il non potersi coll' umana intelligenza dimostrare l' esistenza di alcun ente diverso da essa, non toglie che non ve ne possano essere; non se ne poteva dimostrare l' esistenza, nè negare. REINHOLD. - Come Reid aveva tentato in Inghilterra di rimuovere dalla filosofia le funeste conseguenze dei sistemi di Berkeley e di Hume, senza poter disciogliere il sofisma che loro serviva di fondamento, così Reinhold tolse a fare in Germania rispetto alle orribili conseguenze del criticismo. Egli dunque incominciò, al pari dello Scozzese, ad accordare imprudentemente a Kant le fatali sue premesse. Poi ragionò press' a poco così: « Il subbietto rappresenta a sè stesso gli oggetti. Ora data questa innegabile facoltà della rappresentazione, vediamo coll' analisi ciò che essa racchiude. La facoltà rappresentativa suppone tre concetti: 1) il soggetto rappresentante; 2) l' oggetto rappresentato; 3) la stessa rappresentazione. Tutto ciò mi attesta la coscienza di me stesso. Se dunque esiste la rappresentazione, il che non si nega, deve esistere anche l' oggetto rappresentato ed il soggetto rappresentante come sue condizioni »: Sistema della rappresentazione . - Ma era facile rispondere, ammesso e non impugnato l' errore primitivo e originale, che tutte queste distinzioni erano fenomeniche, prodotte dalle leggi a cui ubbidisce il soggetto nel suo operare. Il che Reinhold medesimo poscia riconobbe; riconobbe che il suo ragionamento, acciocchè avesse forza, presupponeva la verità di quell' oggetto che si trattava di dimostrare. Laonde disperato della ragione, la abbandonò, sperando di trovare una guida migliore nella fede di Jacobi, che somiglia a quella degli Scozzesi. Gli errori generatori del sistema di Reinhold sono dunque i precedenti, a cui s' aggiunse uno suo proprio; non perchè non lo professassero anche quelli che lo precedettero, ma perchè sopra di esso Reinhold fondò il suo sistema. Questo errore si è il credere che l' intelligenza percepisca gli oggetti unicamente per via di rappresentazione, intesa per un ritratto di essi. Se ciò fosse, non si potrebbe declinare il soggettivismo e lo scetticismo, perocchè niuna rappresentazione può da sè stessa far conoscere gli oggetti, se non si sa che ella li rappresenta, e che ella li rappresenta fedelmente. Ora, questo non si può sapere, se non confrontando la rappresentazione cogli oggetti rappresentati; al che fare conviene conoscerli, mentre si tratta di spiegare appunto come si conoscono; ovvero venendone assicurati da qualche testimonianza infallibile, e quindi supponendo l' esistenza di un infallibile testimonio diverso dall' anima, quando si tratta pure di cercare come si possa conoscere qualche cosa, che sia veramente diverso dall' anima. Il vero si è che gli oggetti sono presenti immediatamente all' intelligenza, sieno essi ideali o reali (sentiti), perocchè l' ente è il proprio ed immediato termine dell' anima intellettiva (1). FICHTE. - Riuscito male il tentativo di Reinhold, come era riuscito male il tentativo di Reid, il soggettivismo senza intoppi seguì il fatale suo corso. Fichte, ammettendo come i precedenti, per argomento efficacissimo il sofisma originale e primitivo, che l' anima non possa conoscere che sè stessa, scartò la possibilità lasciata sussistere da Kant di enti distinti dall' anima, che era veramente un' inconseguenza; giacchè se tutte le cose concepite dall' uomo sono un risultato delle forme soggettive, nessun' altra ne può rimanere, perchè l' intelligenza umana s' estende in qualche modo a tutto, al finito non meno che all' infinito. Compose adunque un sistema del più coerente soggettivismo. Riassumiamo ciò che s' era fatto sino a lui. Si era incominciato a cercare come l' uomo conosce le cose diverse da sè. La filosofia aveva ereditato dai maggiori uno speciosissimo pregiudizio, che l' uomo le conosce per via di rappresentazione. Gli idealisti inglesi avevano dimostrato che ciò era impossibile, e però conchiusero che l' uomo nulla conosce di diverso da sè; dal nulla conoscere passarono, per logica conseguenza, a negare l' esistenza di tali cose. Gli Scozzesi avevano detto che questo è un paradosso impossibile a sostenersi, perchè va direttamente contro all' autorità di tutto il genere umano. Kant diede ragione agli Scozzesi con un cotale scherno [schema] suo proprio, dicendo che non si potevano negare gli enti diversi dall' anima, ma d' altra parte essi non potevano essere che produzioni dell' anima. Gli istinti conoscitivi degli Scozzesi Kant li tramutò in istinti produttivi; nè Reinhold aveva saputo opporre che sforzi di buona volontà alla critica della ragione pura. Kant s' era occupato a distinguere, classificare e descrivere accuratamente tutti gli istinti, o leggi soggettive, o forme, come egli le chiama, dello spirito; colle quali lo spirito compone a sè stesso le proprie cognizioni, i propri oggetti. Non restava che a distinguere, classificare e descrivere gli oggetti stessi sommari, che lo spirito colla portentosa attività che gli si attribuì (del tutto per altro gratuitamente) produceva a sè stesso; e l' opera fu assunta a farsi da Fichte. Kant descrisse e anatomizzò la potenza, che ha lo spirito di produrre a sè stesso gli oggetti; Fichte considerò l' atto di questa potenza, e gli oggetti stessi già prodotti da esso. L' Io, che Kant aveva posto come il vincolo di tutte le rappresentazioni, e che Reinhold aveva fatto sinonimo di coscienza, divenne per Fichte l' atto primo di tutto lo scibile e di tutte le cose. Questo era un passo immenso che dava il soggettivismo verso il suo ultimo sviluppo; con un tal passo si rivelava già la faccia dell' abisso, in cui un tale sistema conduceva necessariamente i suoi seguaci. Perocchè se l' Io è l' atto primo di tutto lo scibile e di tutte le cose, egli è il Creatore, è Dio. Eppure questo passo, a cui il soggettivismo fu spinto dalla logica imperterrita di Fichte, non si poteva evitare dopo i precedenti. Vediamo come questo filosofo dell' alta Lusazia movesse il suo nuovo creatore alla grande opera della produzione dello scibile e dell' universo. Egli cominciò dal dire che l' Io pone sè stesso ; questo è il primo atto. Se questa proposizione l' Io pone sè stesso fosse usata a significare unicamente il primo atto immanente dell' Io, non si potrebbe riprendere; perocchè ogni cosa in quanto fa l' atto con cui è, pone in qualche modo sè stessa, potendosi considerare il passaggio dal non essere all' essere come una cotal via, per la quale viene a naturarsi la cosa: via che è percorsa senza successione di tempo con atto unico, ma tale in cui si possono colla mente discernere più gradi ab imperfecto ad perfectum, siccome solevano concepire il moto all' esistenza gli Scolastici stessi. Ma non così spiega Fichte il suo detto, ma vuole che l' Io ponga sè stesso pronunciando questa proposizione: « Io sono Io ». La qual maniera di spiegare come l' Io ponga sè stesso, è manifestamente assurda: 1) Perocchè quando il principio intelligente ha pronunciato il solo monosillabo Io, indubitatamente esiste, senza bisogno che egli aggiunga: sono Io . Onde con quella proposizione l' Io porrebbe un Io che già è posto; ella dunque esprime l' atto, con cui l' Io riflette sopra sè stesso, e non l' atto con cui l' Io esiste. Da questo primo errore procede che in tali sistemi la coscienza, opera della riflessione, accompagna sempre l' Io: il che è evidentemente falso, perocchè l' Io non ha sempre attuale coscienza di sè stesso. 2) Ho detto che il principio intelligente, quando ha pronunciato questo monosillabo Io, senza più, non può non esistere. Ma non basta. Potrebbe l' Io pronunciare sè stesso, cioè fare un atto, se non esistesse già precedentemente? Niuno fa atti prima di esistere. Dunque il pronunciare Io suppone l' esistenza anteriore dell' Io. L' Io dunque non pone sè stesso nel senso di Fichte. La ragione, per la quale questo filosofo ruppe in tali assurdi colla prima parola della sua filosofia, si fu che egli prese l' Io bello e formato, qual' è nel sentimento d' un uomo adulto, non ne analizzò il concetto, e non s' accorse che questo concetto era un elaborato della riflessione, e che non conteneva solamente l' anima umana, ma l' anima già svolta e pervenuta alla coscienza di sè; quando anteriormente a quest' anima, conscia di sè, vi è pure la stessa anima, che per essenza sua è principio ed individuo razionale, come noi abbiamo mostrato nella « Psicologia ». Ed è costante, che una delle cose più difficili a cogliere, per coloro che prendono a filosofare, è quello stato dell' uomo che precede la coscienza; eppure in questo stato è da cercarsi la natura umana, giacchè la coscienza non è naturale all' uomo, ma acquisita. Intanto coll' atto col quale l' Io pronuncia Io sono Io, secondo Fichte, l' Io ha posto il primo dei suoi oggetti, cioè sè stesso . Il vero però si è che l' Io con questo atto non ha posto sè stesso, ma solo si è conosciuto riflessamente, e che perciò la propria esistenza non dipende dall' atto con cui l' anima si conosce, perchè anzi questa cognizione suppone dinanzi a sè l' anima, oggetto della cognizione. Vediamo come Fichte fa che l' Io produca il secondo dei suoi oggetti sommari. L' Io fa un altro atto, con cui dice: Io non sono il Non7Io . Ottimamente: distingue sè stesso da tutto ciò che non è lui. Ma questo atto non è ancora che un atto di conoscimento, non produce cosa alcuna, anzi è un atto che distingue due cose, l' Io e il Non7Io; le quali non potrebbe distinguere, se già non fossero. La cognizione suppone dinanzi a sè l' esistenza (possibile o reale) della cosa conosciuta. Eppure questa evidentissima verità è quella che sfugge al filosofo pregiudicato; e suppone di nuovo gratuitamente che il conoscere e il distinguere sia il produrre. Il secondo oggetto adunque prodotto dall' Io, nella supposizione di questo filosofo, è tutto ciò che non è l' Io, e che sotto la parola negativa Non7Io acconciamente si comprende. Veniamo alla produzione del terzo oggetto. L' Io fa un terzo atto pronunciando: l' Io e il Non7Io sono nell' Io . Se fosse vero che l' Io non è altro che la produzione dell' atto con cui si conosce l' Io, e se fosse vero che il Non7Io non è del pari altro che la produzione dell' atto con cui si conosce il Non7Io, in tal caso sarebbe vero che l' Io e il Non7Io, ridotti ad essere due atti conoscitivi, sono nell' Io. Ma se è vero che niuno può conoscere e pronunciare sè stesso esistente, se prima non esiste indipendentemente da tale atto; e se è vero del pari che il Non7Io non si può conoscere o pronunciare esistente, se allo stesso modo prima non esiste; è altresì evidentemente vero che l' Io e il Non7Io non sono nell' Io. Ma nell' Io solamente sono gli atti con cui tali enti si percepiscono, i quali atti sono accidenti dell' Io; e in un altro modo sono nell' Io anche i concetti di quegli enti, non come accidenti dell' Io, ma da lui distinti per natura, come suoi oggetti. Ricorre adunque in Fichte una continua confusione fra la cognizione e l' esistenza delle cose, sempre l' antico errore di Parmenide: «to gar auto noein esti te kai einai». - Ci si dirà: « Per voi non esiste se non ciò che conoscete ». - Sia pure: ma se io conosco una cosa, io so in pari tempo che la cosa esiste indipendentemente dall' atto con cui la conosco; perocchè il concetto di conoscere involge necessariamente il concetto di una entità conoscibile, logicamente anteriore a quell' atto. Onde io non posso conoscere una cosa, se non a condizione che conosca altresì ch' ella è indipendente dal mio conoscere; altrimenti io direi una proposizione contradittoria, dicendo che conosco una cosa che non esiste se non in virtù dell' atto col quale la conosco, e però posteriormente a quest' atto (nell' ordine logico). O conviene negare il principio di contraddizione e d' identità, su cui si fonda lo stesso sistema di Fichte, o confessare che al conoscere dell' uomo precede logicamente l' esistenza della cosa conoscibile, e che perciò il conoscere umano e l' esistere non si identificano, anzi si distinguono per modo che senza tale distinzione il conoscere non è più possibile. Ma acciocchè si veda meglio quanti paralogismi involga questo sistema, riprendiamo ciò che io ho fin di troppo conceduto. Ho conceduto che se l' Io e il Non7Io altro non sono che atti di conoscere e concetti conosciuti, questi si possono trovare insieme nell' Io, come pretende Fichte. Ma io ho conceduto questo ad abundandum . A giusta ragione non dovevo concederlo. Avverto adunque che il filosofo nostro in quella sua proposizione muta il significato del vocabolo Io, perocchè dicendo che l' Io e il Non7Io sono nell' Io, egli prende l' Io e il Non7Io contenuti come due concetti formati dall' atto del conoscere; ma egli prende all' opposto l' Io contenente non già come concetto prodotto, ma nel senso volgare, come un ente reale, una intelligenza, in cui sono i concetti. Senza di ciò la proposizione non ha senso alcuno; perocchè se anche per l' Io contenente s' intende il mero concetto dell' Io, è assurdo che nel concetto dell' Io sia il concetto dell' Io, perchè non sono due cose, ma una medesima; ed è ancora più assurdo che nel concetto dell' Io sia il concetto del Non7Io, perocchè l' un concetto esclude l' altro per la stessa loro enunciazione. Onde il filosofo mescola e confonde l' Io, da lui prodotto per via di speculazione, coll' Io reale, nel quale solo dimora la cognizione di sè stesso. Ma l' ammettere un Io reale, anteriore all' Io concetto e riflesso, è la distruzione del sistema che si vuole stabilire, il quale si propone di ridurre ogni cosa ad idee o concetti. Mediante tale confusione adunque di significati attribuiti al vocabolo Io, conchiude che l' Io fa un' equazione col Non7Io, in quanto che si trovano nel medesimo Io, di cui sono egualmente produzioni, e però si radicano e immergono nello stesso atto primitivo dell' Io. Così gli oggetti supremi dello scibile e dell' universo sono tre: l' Io che pone sè stesso, l' Io che pone il Non7Io, l' Io che fa un' equazione tra l' Io e il Non7Io. Ma: In questi tre oggetti il valore della parola Io cangia sempre, come dicevamo, perocchè l' Io producente non può essere l' Io prodotto, giacchè producente e prodotto sono concetti opposti; l' Io, nel quale l' Io e il Non7Io fanno equazione, non può essere lo stesso Io che costituisce un termine dell' equazione, perocchè ciò che contiene i due termini non può essere uno dei due termini. Se l' Io produce il Non7Io, dunque produce ciò che non è Io, produce un' entità diversa da sè; egli dunque od esce colla sua attività da sè stesso, ovvero, senza uscire da sè stesso, produce un' entità che non è lui stesso. Il che è ben evidente, poichè l' Io e il Non7Io sono opposti; e non possono dichiararsi la cosa identica senza pugnare col principio di contraddizione, giacchè il sì e il no non si potrà mai dire che significhino lo stesso. Che se l' Io produce un' entità diversa da sè, dunque il celebre sofisma, su cui si regge tutto l' idealismo trascendentale, se ne è ito a terra, rimanendo conceduto che l' Io può uscire da sè stesso cogli atti suoi, può creare qualche cosa di diverso da sè e di opposto a sè, qualunque cosa poi ella sia (1). Vera equazione fra l' Io e il Non7Io non si potrà far mai, se non si mutano i significati di tali espressioni, perchè i contrari, dei quali l' uno esclude l' altro, non possono fare mai equazione fra loro, presi nello stesso senso. Potrà esservi paragone, non equazione. Quindi Fichte abusa della parola equazione. Se si vuol vedere questo abuso, si consideri che egli spiega la sua pretesa equazione, dicendo che l' Io contrappone all' Io divisibile un Non7Io, pure divisibile. Ma il contrapporre una cosa all' altra non è fare un' equazione, anzi è negare l' equazione. Egli soggiunge che quell' equazione contiene queste due proposizioni: 1) L' Io pone il Non7Io come limitato dall' Io; 2) L' Io pone sè stesso come limitato dal Non7Io . Ma in queste proposizioni niuna cosa fa equazione coll' altra, perocchè il limitare che l' una fa l' altra non è fare equazione coll' altra. Si abusa dunque di questa parola equazione. Oltre di che, l' Io limitante non è preso nello stesso senso dell' Io limitato, l' Io divisibile non è preso nello stesso senso dell' Io indiviso. Si gioca adunque colle diverse riflessioni, che il principio intelligente fa sopra sè stesso e sopra le cose diverse da sè, e invece di considerare ogni riflessione come un diverso atto del medesimo, si vuole che ognuna di essa produca un Io diverso, che coll' Io precedente abbia i rapporti di limitante, di limitato, di contenente, di contenuto, di producente, di prodotto, con misero gioco d' ingegno degno dei sofisti greci; ma inevitabile, quando non si conosca che l' ente intelligente precede la coscienza che si forma di sè, e quando si muova dall' errore che l' ente intelligente risulti dall' atto stesso con cui egli acquista coscienza di sè; la quale coscienza potendosi replicare secondo i numeri delle riflessioni, accade che gli Io stessi si vadano così replicando, e si possano così prendere ora pel medesimo Io, ed ora per diversi Io, secondo il bisogno dell' impresa che si tolse di paralogizzare. Tutto questo sistema poi manca di ragione sufficiente. Niente si può rispondere con esso a queste interrogazioni: Qual ragione vi è perchè l' Io ponga sè stesso, anzichè non si ponga? Che cosa lo muove a porsi? E a porsi in un tempo piuttosto che in un altro? Giacchè la coscienza di ogni uomo ha pur cominciato in un dato tempo. Qual ragione vi è perchè il numero degli Io che si pongono sia piuttosto uno che l' altro? Giacchè il numero degli Io è pur finito, e potrebbe essere accresciuto, e viene accresciuto ogni giorno col nascere di nuovi uomini. Ovvero dovete sostenere che non esiste che il vostro Io (il che sarebbe coerente all' escludere tutto ciò che è fuori di lui), nel qual caso voi comporreste la filosofia per voi solo. Qual ragione muove l' Io a porre il Non7Io piuttosto che a non lo porre? La parola Non7Io esprime il mondo e le cose tutte diverse dall' Io in un modo negativo, come osservammo, cioè dichiarando che esse non sono Io, ma non dicendo che cosa sono. Ora non ogni Io pone (per continuare colla stessa frase) un Non7Io eguale; imperocchè certi uomini conoscono del mondo e delle cose da sè diverse più, ed altri meno; e quindi l' Io dei primi pone non Non7Io diverso (più o meno abbondante) che non fa l' Io dei secondi. Qual ragione sufficiente assegnate voi perchè un Io debba porre un Non7Io determinato in un modo piuttosto che in un altro? Qual ragione vi è perchè l' Io voglia limitare sè stesso producendo il Non7Io? Qual ragione assegnate voi perchè l' Io voglia dividere sè stesso in due, nell' Io e nel Non7Io, come voi dite? Nel sistema di Fichte non si rende, e non si può rendere alcuna ragione sufficiente di tutti gli atti che si fanno fare all' Io. E dove ci fosse una tale ragione, che determina l' Io a tutti gli atti che gli si fanno fare, ella dovrebbe essere diversa dall' Io, e superiore all' Io, al quale verrebbe imposta; e così ella annullerebbe il sistema, perocchè tutto il sistema consiste nell' abolire ogni cosa fuori dell' Io. E` dunque, questo di Fichte, un sistema senza ragione, sistema del caso cieco; lungi dunque di spiegare la scienza, anzi si pone che il mondo esista ed operi senza causa; l' intelligenza così è soppressa, non rimane che il più capriccioso, il più assurdo fatalismo. E` conseguente, che tutti i primi principŒ del ragionamento rimangano in questo sistema violati e distrutti. Se si trattasse solamente di distruggerli, altro non se n' avrebbe che la distruzione e l' impossibilità del sapere. Ma in quella vece s' invocano i principŒ del ragionamento, acciocchè aiutino a comporre un sistema che affatto li viola, li abolisce. Infatti: Il principio di cognizione dice: « l' ente è oggetto del conoscere »; e questo sistema dice: « il conoscere produce l' ente », che è un principio affatto opposto; oltre di che suppone che il conoscere preceda l' esistere. Il principio di contraddizione dice: « fra l' affermare e il negare non si dà eguaglianza », e questo sistema dice: « l' Io che è affermazione, e il Non7Io che è negazione, fanno fra di loro un' equazione ». Ma le contraddizioni in tal sistema sono più che le parole. Mi restringerò ad accennarne una nuova. « L' Io pone il Non7Io ». Ora che cosa è il Non7Io? Tutto ciò che non è l' Io: il mondo e Dio. Ma nel mondo vi sono degli altri Io (1). Ora questi Io pongono sè stessi. Ma poichè rispetto all' altro Io, sono Non7Io, dunque sono posti due volte. Anzi ogni Io è posto tante volte quanti sono gli Io esistenti, perocchè ciascun Io pone sè stesso e pone tutti gli altri, compresi nel Non7Io. Ora, o colle parole « porre l' Io e porre il Non7Io »si vuole intendere meramente conoscere, e in tal caso il sistema si discioglie e svanisce, perchè suppone avanti del conoscere stesso l' oggetto; o si vuol dire fare esistere , e in tal caso gli Io si moltiplicano all' infinito, perocchè ogni Io, ponendo tutti gli Io che esistono, li produce; onde il numero degli Io si moltiplica per sè stesso; e questo numero di Io, elevato alla seconda potenza, di nuovo si moltiplica per la ragione stessa; onde l' aumento degli Io in questo sistema verrebbe espresso da una serie infinita, che, fatto il numero primitivo degli Io .uguale . .x ., si potrebbe esprimere così: .x ., .x . 2, .x . 4, .x . ., .x . 16, ecc., all' infinito; nella qual serie, non trovandosi mai l' ultimo termine, il numero degli Io esistenti non sarebbe assegnabile, anzi non potrebbe venire giammai all' esistenza neppure un solo Io, giacchè il primo implica tutta la serie. La quale è patentissima matematica dimostrazione, che nel sistema di Fichte diviene impossibile ed assurda ogni qualunque esistenza e conoscenza. Il filosofo nostro dirà forse che non esiste se non il solo suo Io, e che egli scrisse la sua filosofia per sè solo, come un ragno che fa la sua tela dove non sono mosche; ma primieramente in questo caso egli sarebbe condannato a porre un Non7Io del tutto inanimato, un Universo abitato da lui solo, e quindi a vivere eternamente fra esseri bruti; e tuttavia gli resterebbe a render ragione a sè stesso del perchè il suo Io non potrebbe porre alcun altro Io, compreso nel Non7Io, giacchè gliene potrebbe pure venire qualche vaghezza per uscire una volta dalla sua sterile solitudine, e rendersi prolifico di qualche suo simile! E quanta ragione poi non avrebbe di conservare sè stesso acciocchè non perisca con esso tutto il mondo! In secondo luogo poi, essendo indubitato che il suo Io pone nel Non7Io molti altri Io diversi da sè, converrebbe che il suo porre non significasse più produrre un ente reale, ma produrre delle illusioni, e in tal caso lui stesso sarebbe un' illusione perchè posto da sè stesso. Ma se tutto fosse illusione, non vi sarebbe più illusione, chè la parola illusione ha un significato relativo alla realità ; e ad ogni modo sarebbero sempre tanto veri gli Io, che egli pone nel Non7Io, quanto è vero lui medesimo che si pone allo stesso modo. Il principio di sostanza è tolto via, giacchè facendosi in questo sistema che il conoscere riflesso, che è un accidente dell' intelletto umano, sia lo stesso che l' essere, è tolta affatto la distinzione della sostanza e dell' accidente; si fa che l' accidente sussista per sè stesso. Il principio di causa è del pari abolito, perchè non si dà causa, la quale possa operare senza una ragione sufficiente; e noi vedemmo che l' Io opera in questo sistema senza una ragione che ne lo determini, e che spieghi il suo atto. Il principio del fare dell' ente dice così: « Ogni ente cogli atti suoi naturali tende a conservarsi, ingrandirsi, perfezionarsi ». Quindi per l' opposto: « Nessun ente limita sè stesso, nessun ente divide sè stesso, ecc. »; ma di queste passioni dell' ente si deve rinvenire una causa straniera alla sua naturale attività. Ora l' Io di Fichte, l' unico ente che esista, limita e divide sè stesso, contrappone a sè un ostacolo, che poi cerca di vincere e superare. E` violato dunque il principio ontologico del fare dell' ente; e tutto ciò senza darne ragione alcuna, per via di mero asserto dogmatico del filosofo nostro. Ma tolti via tutti i principŒ logici ed ontologici del ragionamento, niuno ha più diritto di ragionare, deve tacere; niuno ha diritto di pensare, deve vegetare; perchè nè parlare, nè pensar può, senza riabilitare prima i principŒ stessi, che disabilitò e distrusse. Il nostro filosofo adunque dice ancora troppo, dice di più che non abbia diritto di dire, allorquando esprime il risultamento del suo sistema con queste parole che lo annientano: « Non v' è nulla di esistente nè in me, nè fuori di me, ma solamente una variazione continua. Non v' è alcun essere. L' unica cosa che esiste sono le immagini; io stesso sono una di queste immagini, anzi io non sono questo, ma solamente un' immagine confusa d' immagini. Ogni realità si converte in un sogno meraviglioso, ed il pensiero è il sogno di quel sogno ». Fichte non ha diritto di dire pur questo, senza cadere in una nuova contraddizione. Il sistema del soggettivismo, così sviluppato, comparve prima che in ogni altro luogo in Oriente; e i filosofi indiani, che lo professarono, pervennero alla stessa conclusione di Fichte. V' è una setta di Buddhisti, che altro non ammette che il sentimento interno, l' esistenza eterna di lui, del manas intelligente, il quale ha la coscienza delle cose; e sostengono che tutto il resto è vuoto, cioè nulla, nè v' è possibilità di provare colla ragione che esista. Non ammettono che l' Io, onde fanno uscire il Non7Io come una mera illusione. « Non v' è cosa che esista realmente », dice un Buddhista. I Fo (cioè i sapienti pervenuti a ridurre tutte le cose ad essere altrettante produzioni vane dell' intelletto) « « non distinguono i mondi dal loro proprio intendimento. Tutto ciò che è nei mondi è lo stesso intendimento di Fo, cioè non vi è altra cosa che Fo (la natura intellettiva) »(1) ». [...OMISSIS...] . Infine tutte le cose si dichiarano sogni di Fo, cioè dell' intelligenza. SCHELLING. - Come i precedenti, Schelling ritenne l' errore che confonde le idee, e generalmente gli oggetti dello spirito, collo spirito. E poichè gli oggetti dello spirito sono infiniti (poichè da parte del suo oggetto lo spirito non è limitato), si occupò ad unificare questi oggetti, riducendoli ad un solo infinito. Confuso con questo infinito lo spirito che lo conosce, riuscì al sistema dell' identità assoluta, rimanendo lo spirito identificato coll' oggetto suo infinito, che tutti gli oggetti determinati comprende. Schelling adunque fu colpito da ciò che aveva detto Fichte, che « l' Io e il Non7Io formavano un' equazione »; e il sistema dell' identità assoluta si può dire infatti che non sia altro che uno sviluppo e un perfezionamento di questa proposizione del suo predecessore. Ma si consideri il filo di tutto il ragionamento, e ne apparirà l' inevitabile incoerenza. La ragione, per la quale si confuse lo spirito conoscente cogli oggetti conosciuti, si fu quel pregiudizio, di cui abbiamo parlato, che « lo spirito nulla può conoscere fuori di sè stesso »; del qual pregiudizio la filosofia tedesca dopo che le entrò nei visceri, peggiore d' ogni tenia, non potè mai liberarsi. Ora Fichte, lungi d' esser coerente a questo erroneo principio, che aveva preso per fondamento di tutto il suo ragionare, se ne dipartì senza accorgersene, perchè è cosa impossibile rimanere a lungo coerente ad un primo errore. Ecco come nacque l' incoerenza di Fichte. Fichte aveva confuso lo spirito coll' Io; e posciachè l' Io è uno spirito che ha coscienza di sè e si pronuncia, perciò aveva confuso lo spirito colla coscienza; nella coscienza stessa di sè aveva riposto la natura dello spirito, e quindi trovata quell' assurda e contradittoria sentenza, che « l' Io pone sè stesso ». Ma poichè lo spirito, oltre conoscere sè stesso, conosce anche tante altre cose, affine di spiegare questo fatto, Fichte aveva aggiunto che « l' Io pone anche il Non7Io ». Atteso poi che l' Io nulla può conoscere fuori di sè stesso, Fichte conchiuse che « fra l' Io e il Non7Io vi è equazione », riducendo così questo a quello. Ma era una conclusione assurda ed evidentemente contradittoria; perocchè il Non7Io è la negazione dell' Io; e però il Non7Io, qualunque cosa sia, non sarà mai lo stesso Io. Ma non sarà neppure una modificazione dell' Io, perocchè l' Io, essendo la coscienza di sè, non potrebbe non essere conscio della propria modificazione, se tale fosse il Non7Io. All' incontro l' Io è conscio che il Non7Io è una negazione di sè, qualche cosa che gli si oppone, e opponendoglisi, lo limita; lo limita in questo senso appunto che gli fa conoscere di non essere tutto, ma che oltre a sè, vi è qualche cosa che non è sè . Qualunque cosa sia dunque il Non7Io, e da qualunque parte tragga la sua esistenza, certo è che egli non è l' Io, nè una modificazione dell' Io, e però che non è eguale all' Io. Essendo dunque assurdo il fare una equazione fra l' Io e il Non7Io, avrebbe Fichte dovuto accorgersi dell' erroneità del principio, che « l' Io nulla possa conoscere fuori di sè stesso »; perocchè ogni principio, che conduce all' assurdo, è erroneo. Nè meglio può Fichte evitare l' assurdo, dicendo che il Non7Io altro non è che un' apparenza, ma che in verità è lo stesso Io. Perocchè in prima ciò si dovrebbe provare con qualche solido argomento, e non asserire nudamente. Di poi, diamo che sia un' apparenza; quest' apparenza rimane sempre che non sia l' Io, nè si possa come tale ridurre all' Io. In terzo luogo, se si distingue l' apparenza dalla sostanza, in tal caso si domanda se l' Io stesso è apparenza o sostanza. L' Io è la coscienza, ed è pure la coscienza quella che attesta che il Non7Io non è l' Io. La stessa testimonianza è quella che fa conoscere l' Io, e che fa conoscere il Non7Io; se ciò che attesta la coscienza è un' apparenza, anche l' Io è un' apparenza non meno che il Non7Io, ed è quello che in ultimo confessa lo stesso Fichte. Nè poteva altro, giacchè lo stesso Io è quello che pone sè stesso, e che pone il Non7Io. Se trattasi dunque di due apparenze, non v' è più luogo a distinguere nel Non7Io la sostanza dall' apparenza; e però nemmanco ad affermare che il Non7Io rispetto alla sostanza fa un' equazione coll' Io, e rispetto all' apparenza si divide dall' Io. Dunque o sono due sostanze, o due apparenze. E nell' uno e nell' altro caso il Non7Io è opposto, e non mai identificabile collo stesso Io. Ebbene, il Non7Io ha egli coscienza di sè? Non può essere, poichè egli è opposto all' Io, e l' Io è la coscienza. Il dire dunque Non7Io è lo stesso che dire Non7Coscienza. Dunque va a terra il principio di Fichte che lo spirito, essenzialmente coscienza, cioè Io, sia lo stesso Non7Io; dunque vi è qualche cosa che non è la coscienza. Ma il fondamento del sistema stava tutto nel ridurre ogni cosa alla coscienza; dunque il fondamento del sistema va a distruggersi nello svolgimento del sistema medesimo. Schelling, senz' accorgersi punto nè poco che l' introdurre qualche cosa che non fosse la coscienza distruggeva il fondamento d' una tale filosofia, ammise l' Io e il Non7Io, cioè la Coscienza e la Non7Coscienza; e pretese di trovare un movimento, che cangiasse la Non7Coscienza in Coscienza, e la Coscienza in Non7Coscienza. A questo fine egli doveva immaginare (perchè trattasi d' immaginare) un terzo principio, il quale divenisse ora consapevole, ora inconsapevole. Ma questo assunto, gratuito come i precedenti, era un uscire affatto dai primi ragionamenti, coi quali s' era pervenuto a stabilire l' Io e il Non7Io di Fichte, e però si abbracciava un sistema, cominciando dall' annichilirlo del tutto. Schelling, adunque, riceve da Fichte la proposizione che l' Io produca il Non7Io, cioè che il Consapevole (lo Spirito) produca l' Inconsapevole (la Natura); e con ciò viene ad accettare per buoni i principŒ sui quali Fichte basava questa conclusione. Ma di poi aggiunge la proposizione che « il Non7Io produce l' Io », perchè il Non7Io (la Natura) vuole conseguire la coscienza di sè; e con questa aggiunta distrugge e rinnega tutti i principŒ, coi quali fu stabilita la prima proposizione. La ripugnanza dunque e l' intima contraddizione non può essere più manifesta. La dottrina, che svolge la prima proposizione, fu nominata da Schelling Idealismo trascendentale ; la dottrina, che svolge la seconda proposizione, fu nominata Filosofia della Natura . La prima muove dal principio che l' Io nulla conosce fuori di sè; di che ne viene che tutto ciò che si conosce si debba ridurre all' Io; la seconda muove dal principio opposto e contradittorio al primo, cioè che si conosce e vi è qualche cosa che non è l' Io, ma che tende incessantemente a diventare Io, e perciò che è falso il principio posto da prima. La scissura e la lotta fra queste due parti del sistema del filosofo leonbergese non può essere più mortale. Schelling dunque riconosce che la coscienza non è essenziale all' ente, e che questo può averla e non averla; e in ciò poniamo che abbia ragione. Ma in tal caso manca il fondamento del ragionamento, col quale si faceva che l' Io, dopo aver posto sè stesso, ponesse anche un Non7Io eguale a lui; e quindi è sovvertita la base dell' identità assoluta . Se non è assurdo che fuori della coscienza esista qualche cosa, come mai si potrà identificare questo qualche cosa, estraneo alla coscienza, colla coscienza? Non potendosi più ricorrere alla speciosa ragione, che « tutto deve contenersi nella coscienza », e volendosi pure fare una identità del consapevole e dell' inconsapevole, si dovrà ricorrere ad una serie di asserzioni fondate in aria, destituite di ogni prova. Laonde Schelling, che fa in prima uscir fuori l' inconsapevole dal consapevole, come Fichte che fa uscire il Non7Io dall' Io, e poi fa uscire il consapevole dall' inconsapevole, ciò che non fa Fichte e che ripugna alla dottrina di Fichte, come spiega egli la natura bruta, priva di sensazione e d' intelligenza? Egli la considera come l' atto di un Io supremo, del quale suo atto l' Io non abbia alcuna coscienza. Come spiega la sensazione, che riconosce essere priva di coscienza? Egli la fa del pari scaturire dall' Io supremo, al quale nell' atto del sentire vien meno la coscienza di sè stesso. Come spiega il bello estetico? E` per lui l' Io supremo, che nell' artista, perdendo la coscienza di sè, ritiene la coscienza solo delle opere belle prodotte e individuate. Ma quale ragione sufficiente adduce di questo perdersi o di questo limitarsi della coscienza dell' Io? Niuna affatto; nè egli rende alcun perchè dei tempi, in cui questa coscienza ora si oscuri, ora s' illumini. Di più, come prova egli che questi atti, questi prodotti (perocchè confonde gli atti coi prodotti loro), benchè inconsapevoli, debbano uscire dall' Io, che è la coscienza stessa? La ragione non è altra che quella di Fichte, essere impossibile che l' Io intenda qualche cosa fuori di sè stesso, venendo ad argomentare o piuttosto a paralogizzare così: « L' Io non può intendere nulla fuori di sè. Ciò che intende adunque deve essere prodotto da lui stesso »; quasichè fosse lo stesso l' intendere una cosa in sè e il produrre una cosa diversa da sè. Quando anzi, se fosse vero che l' io non potesse intendere niuna cosa se non in sè stesso, si dovrebbe concludere che dunque egli non può produrre niuna cosa che fosse fuori di sè, qual' è il Non7Io, giacchè produrre e intendere si assumono come sinonimi. Ma si ammetta il paralogismo. Noi abbiamo un Non7Io prodotto dall' Io, un inconsapevole prodotto dal consapevole. Continua Schelling l' opera così avviata del suo predecessore, e dice: Questo Non7Io ha un conato ad acquistare la coscienza di sè, perchè è prodotto dall' Io, e perciò lo ha nelle viscere latente. Quale prova di sì grave affermazione? Nulla. Quale ragione sufficiente determina il Non7Io a costituirsi in un Io? Nulla di nuovo. Quale ragione che determini i tempi, in cui il Non7Io è privo di coscienza, e quelli in cui egli la acquista? Nulla per la terza volta. Passi. Ma rimane a domandarsi se l' Io può essere latente, se un Io latente non è una contraddizione in termini, perocchè viene a dire una coscienza senza coscienza. La coscienza, che non è coscienza, è il nulla . Già qui si scorge l' origine del nullismo di Hegel. Ma egli è ancor meno del nulla, perchè è una contraddizione, un assurdo; e il nulla non è un assurdo. Onde si vede che il nullismo dovette condurre Hegel all' assurdismo (parola così bella appunto, come il sistema che esprime), cioè a sostenere che la scienza si fonda sulla contraddizione, che è il principio di quella filosofia. Ridurre adunque ciò che è assenzialmente consapevole, come è l' Io, e ciò che è inconsapevole ad un principio unico, che ora acquista la coscienza ed ora la perde, è impossibile. In primo luogo tutti questi infiniti trasmutamenti del consapevole nell' inconsapevole, e viceversa, non hanno alcuna ragione, come dicevamo. In secondo luogo, o il principio unico può perdere la coscienza, e in tal caso, non avendo la coscienza per sua propria essenza, egli non è infinito, mancandogli il maggiore dei pregi; o il principio unico non può perdere la coscienza di sè, ma solo dei suoi atti e delle sue produzioni, e in tal caso ritorna la dualità, che si vuole ridurre invano all' unità ed alla identità assoluta. Un tale sistema, adunque, può parere meraviglioso come parto di una immaginazione confusa, ottenebratrice della mente, non mai come produzione di ragione filosofica e sapiente. Due sono adunque le parti della filosofia di Schelling. Il sistema di Fichte, che trae dall' Io il Non7Io, ne è la prima; la seconda propria di lui, è il Non7Io tendente ad acquistare la coscienza e ridiventare Io. Abbiamo esaminato i principŒ di natura psicologica, su cui si fonda la prima, e li abbiamo trovati insussistenti. La seconda muove da principŒ di natura ontologica, e sono tali che cozzano coi precedenti. Ora, su questi ultimi, che appartengono esclusivamente a Schelling, è uopo che ci tratteniamo ancora qualche istante. Essi sono attinti al fonte dei Platonici alessandrini, e tutti si riducono alla confusione dell' idea, oggetto, coll' intelligente, soggetto; ma l' esposizione loro ha qualche cosa di originale. Ecco come ella si conduce nel dialogo, che Schelling intitolò « Giordano Bruno ». Quivi si toglie prima a provare che il produttore delle opere artistiche è un' eterna nozione, confondendosi così la causa esemplare di tali opere colla causa efficiente. Rechiamone un brano. In tal modo pretende Schelling aver dimostrato che la nozione dell' individuo sia il produttore stesso delle opere estetiche. Venuto a questo, soggiunge che la nozione dell' individuo è eterna, e che è lo stesso eterno; di che ne trae che lo stesso eterno è il produttore di quelle opere. Ma questa eterna nozione dell' individuo, la quale è il produttore, poco appresso (non curante mai della coerenza del discorso) la chiama emanazione dell' eterno, rassomigliante a quello da cui emana. E poi asserisce immediatamente, senza trovar necessario di aggiungervi la minima prova, che Iddio « « dà alle idee delle cose, che sono in lui, una propria indipendente vita, in quanto permette loro di esistere come anime dei singoli corpi ». » E quindi deduce che « « ogni opera, la quale è il prodotto dell' eterna nozione dell' individuo, ha una doppia vita, cioè una vita indipendente in sè stessa, ed un' altra vita nel produttore ». » Così crede il nostro filosofo aver dimostrato: 1) che le anime sono le idee divine, in quanto Iddio loro permette di esistere come anime dei singoli corpi; 2) che s' identificano con Dio, così come s' identificano coi loro corpi; 3) che queste nozioni, cangiate dal filosofo in anime, sono il produttore delle opere estetiche; 4) che queste opere estetiche hanno vita, anzi una doppia vita, una in sè stesse e un' altra nel produttore. Ad ogni uomo che abbia non già una grande penetrazione, ma solamente un minimo che di logica in capo, deve fare stupore come proposizioni di tal natura si pronuncino così leggermente, quasi non avessero bisogno di dimostrazione la più rigorosa. Ma tale è l' indole della filosofia germanica, di cui si fa tanto strepito. Lasciando noi da parte questo strepito, perchè guai a quelli che, volendo filosofare, si lasciano assordare gli orecchi dallo strepito che leva la moltitudine dei filosofanti, non dubitiamo affermare: 1) che si vede, a dir vero, negli ingegni germanici una grande tendenza al ragionamento deduttivo e conseguenziale; 2) ma che si vede in pari tempo che non ne hanno l' arte, dimostrandosi assai meschini di logica: e ciò perchè la civiltà germanica, essendo recente e fatta a mano ed in fretta, non ebbe ancora il tempo di esercitarsi abbastanza nel discorso dialettico. I filosofi di quella nazione mancano in prima di analisi, e perciò confondono facilmente l' una coll' altra le idee. Mancano poi di dimostrazione, e perciò si contentano di affermare proposizioni sopra proposizioni, l' una più strana dell' altra, senza fermarsi mai a considerare seriamente il valore delle prove. A conferma di che, facciamo alcune osservazioni sul brano citato del Bruno di Federico Schelling. Si dice che il finito è perfetto, quando è annodato coll' infinito, e che non può essere annodato coll' infinito, se non è previamente uno coll' infinito. Ma se il finito è previamente uno coll' infinito, non ha più bisogno di essere annodato con esso lui, perocchè ciò che è uno con un altro, è già annodato o piuttosto immedesimato con esso. Che cosa vuol dire adunque questo previamente ? Egli non ha senso. Di poi l' espressione essere uno coll' infinito è ambigua, e perciò deve essere chiarita coll' analisi dei suoi diversi significati; il che dimentica di fare il nostro filosofo. Se l' esser uno vuol dire l' essere identificato, in tal caso non è più annodato ; perocchè ciò che è identico non si dice essere annodato con sè stesso, ma essere sè stesso; nè ha bisogno d' un mediatore, che lo annodi seco stesso. Dall' aver detto che il finito non può essere annodato coll' infinito, se non per mezzo dell' infinito e dell' eterno stesso, conclude che dunque un' opera, che rappresenti la più alta bellezza, non può essere prodotta che dall' eterno. Nella qual conclusione si racchiude più che nelle premesse; perocchè nelle premesse si distingueva: 1) un' opera finita; 2) l' annodamento di quest' opera coll' infinito, fatto dall' infinito stesso. La conclusione doveva essere che l' infinito contribuisce a produrre l' opera, che rappresenta la più alta bellezza, in quanto che annoda l' opera finita con sè stesso, ma non che produce l' opera stessa. Manca ancora l' analisi dell' annodamento, che si suppone fra l' opera finita e l' infinito, perchè questo annodamento può essere di più maniere; a parlar chiaro e senza equivoco conveniva dire in che precisamente si faccia consistere tale annodamento dell' opera finita coll' infinito; il che si preterisce. Di poi si prosegue a dire che l' eterno produce l' opera, che rappresenta la più alta bellezza, non considerato assolutamente, ma in quanto si riferisce immediatamente all' individuo produttore. Ma se il produttore è lo stesso eterno, come ora viene in campo un individuo produttore diverso dall' eterno, un individuo produttore a cui l' eterno solo si riferisce? Questa è contraddizione. Toglie quindi a spiegare in che consista questa relazione, per la quale l' eterno si riferisce all' individuo produttore; e per ispiegarla parte da questo principio, che « tutte le cose sono in Dio soltanto per le loro eterne nozioni ». Ma questo è falso, giacchè le cose sono in Dio anche come nella loro causa efficiente, non meramente come nella loro causa esemplare . Perchè si ammette dunque una proposizione, opposta alla dottrina di tutti i teologi e di tutti i filosofi, senza alcuna prova? Dall' erroneo principio che « « tutte le cose sono in Dio soltanto per le loro eterne nozioni » »deduce che « « Iddio si riferisce al produttore individuo per l' eterna nozione dell' individuo » ». Ma Iddio non si riferisce al produttore individuo solo per l' eterna nozione dell' individuo, ma ben anche perchè egli realizza colla sua onnipotenza la essenza dell' individuo, che è in quella nozione, e così lo fa esistere, lo crea. Soggiunge queste altre parole, quasi cosa che venga al tutto da sè, che nessuno possa negare, di cui nessuno possa domandare ragionevolmente dimostrazione di sorte: « la quale (nozione) è in Dio identificata coll' anima, precisamente come questa è col corpo ». All' opposto, il senso comune di tutti gli uomini distinguerà sempre, e in Dio e nell' umana mente: 1) la nozione dell' individuo dall' anima; 2) e l' anima dal corpo. La differenza fra la nozione dell' individuo e l' anima è infinita; perocchè quella è eterna, e questa è contingente; dunque non si identificano. La differenza fra l' anima e il corpo è di sostanza a sostanza; e due sostanze, delle quali l' una è termine dell' altra, non si possono identificare, benchè si possano unire a formare un solo individuo. Al nostro filosofo, adunque, non solamente vien meno la logica, di cui mostra non fare alcun caso, ma anche il senso comune, a cui crede di poter contrariare così leggermente e gratuitamente. Dopo avere asserito con tanta temerità che la nozione dell' individuo produttore s' identifica coll' anima, e che l' anima s' identifica col corpo, conchiude che questa nozione, che s' identifica pure coll' eterno, è il produttore stesso dell' opera, che rappresenta la più alta bellezza. Dopo aver dunque distinto nel discorso: 1) il finito e l' infinito; 2) la nozione del produttore e il produttore; egli confonde tutte queste cose insieme, senza darsi alcuna briga di spiegarci sotto quale aspetto sono distinte, e sotto quale s' identificano; come nasca la loro separazione e la loro identificazione; quale sia la ragione sufficiente di tali trasformazioni; in che modo e in che senso la parola identificazione di più cose in una non involga assurdo, come pare che l' involga. Di tutto ciò il nostro ragionatore si tiene affatto disobbligato. Se il filosofo nostro dicesse che « la nozione dell' opera bella, il tipo eterno », è quello che la produce, sarebbe in qualche modo tollerabile, non rimanendo a spiegare in tale sentenza se non in che senso si dica che la produca, cioè meramente come causa esemplare. Ma no, egli presenta ai suoi ammirati discepoli qualche cosa di più strano da credere sulla sua parola. Non trattasi della nozione o tipo dell' opera, ma della nozione dell' individuo produttore. Ora, se la nozione dell' individuo produttore è il produttore stesso, quella nozione non potrà produrre altro se non l' individuo produttore che ella rappresenta, non potrà produrre altro che sè stessa. Un assurdo dunque si raddossa sopra l' altro. E poichè quella nozione è l' anima, perciò l' anima non potrà produrre (se fosse una nozione producente) che sè stessa!! Niente dunque rimane spiegato con un tal modo di filosofare. Che poi le nozioni eterne, che trovansi in Dio, sieno anime, questo è conseguente alle premesse del nostro filosofo. Ma il vero si è che le nozioni e le idee sono bensì intuite dalle anime intelligenti, ma non che sieno le stesse anime intuenti, essendovi fra l' intuente e l' intuìto essenziale ed insuperabile differenza. Voi poi credereste con tutte le scuole che le nozioni eterne fossero sempre in Dio. Il nostro filosofo però dice che emanano da Dio; lo dice, e tuttavia le dice eterne, nè dice che perciò escano da Dio. Nè di tutte queste affermazioni contradittorie vi dà prova di sorte alcuna. Egli vi domanda ciechissima fede alle sue parole. Neppur crediate che le nozioni eterne di Dio sieno anime per sè stesse; no, elle sono anime, perchè Iddio permette loro di esistere come anime dei singoli corpi. Come poi tali nozioni possano aver desiderio di essere anime, come questo possa esser loro permesso da Dio, come, ottenuto questo permesso, possano acquistare l' esistenza di anime; queste sono tutte cose, che il nostro filosofo rimette a concepire e spiegare alla discrezione dei suoi benigni lettori, non credendosi obbligato d' incomodarsi a dircelo. Finalmente che cosa sarà l' opera di questo produttore, che ora è l' eterno, ora la nozione dell' individuo, ora l' individuo, ora l' anima? L' opera sarà qualche cosa di vivente, anzi una cosa che vivrà di due vite, l' una in sè, l' altra nel suo produttore, col quale pure così s' immedesima. Che cosa è vita? Come si può vivere di due vite? Come un' opera finita d' un individuo produttore può essere cosa viva? Come s' immedesima col suo produttore? Altri enimmi, con cui il nostro filosofo esercita la fede dei suoi discepoli. Tale è la logica costante della serie dei filosofi tedeschi, incominciata con Kant; nè ella è finita; ci resta a parlare dell' ultimo anello, di Hegel. HEGEL. - I filosofi tedeschi mossero la filosofia dall' Io, ma senza analizzarlo, perchè l' analisi, come abbiamo osservato, è pressochè loro sconosciuta. L' Io sottomesso all' analisi risulta: 1) da un sentimento fondamentale; 2) da un' intuizione dell' oggetto; 3) da una o più riflessioni, che quel sentimento intelligente fa sopra di sè, onde anche pronuncia sè stesso dicendo Io . L' Io dunque involge l' opera della riflessione e la coscienza, che ha l' anima di sè stessa. I nostri filosofi tedeschi fondarono il loro sistema sopra l' uno o l' altro di quei tre elementi, senza abbracciarli tutti, e senza nè tampoco distinguerli. Fichte, ponendo attenzione più al terzo elemento che ai due primi, parlò dell' Io dandogli la natura di riflessione, e però lo fece essenzialmente consapevole. Schelling si appigliò al primo di quei tre elementi, e immaginò un Io sentimento, che ora è consapevole, ora inconsapevole, senz' accorgersi punto che un mero sentimento non è mai un Io, perocchè ad un Io è essenziale la coscienza, che appartiene all' intelligenza. L' attenzione di Hegel, che trascurò l' analisi dell' Io, come i suoi antecessori, cadde sul secondo elemento, e il suo Io primitivo non fu sentimento, non fu riflessione o coscienza, ma fu ciò che sta in mezzo a questi due estremi, semplice cognizione . Ma mancando sempre l' analisi, confuse anch' egli, come i precedenti, il conoscente coll' oggetto cognito, e concluse che l' oggetto cognito era il conoscente. Di più, l' oggetto cognito è duplice, sussistenza e idea . Per difetto d' analisi dichiarò che ogni oggetto cognito è idea. Quindi se ne ebbe che l' idea era ad un tempo il soggetto conoscente, l' oggetto ideale intuìto, e l' oggetto reale percepito. Così Hegel ridusse ogni categoria di cose alla mera Idea. E l' Idea, divenuta ogni cosa, era necessariamente Dio, il Dio7tutto. Non era questo certamente un fare andare molto innanzi la filosofia dei suoi predecessori, perocchè essi erano in sostanza pervenuti alla stessa conclusione. Ma si erano poco occupati a dimostrare come l' Io si trasformasse in tutte le cose, e producesse tutte le opposizioni, che si possono pensare dall' umana mente. A questo lavoro s' accinse Hegel. L' Io di Hegel essendo dunque l' Idea, egli si occupò a descrivere come questa si trasformava nelle diverse categorie delle cose, dispensandosi sempre, secondo il metodo invalso, dal dimostrare. Asserì dunque che la Ragione, ossia l' Idea (perocchè è continua la confusione fra il soggetto, che intuisce e fa uso dell' idea, e l' idea intuìta e di cui si fa uso), ha nel suo essere tre momenti; ond' ella è: 1) Idea in sè e per sè, pura Idea logica; 2) Idea nel suo essere trasformato, Natura, Non7Io di Fichte; 3) Idea che ritorna in sè dal suo essere trasformato, Spirito, Anima. Quindi la divisione della Filosofia in tre parti: « Logica, Filosofia della Natura, Filosofia dello Spirito ». Prendendo a considerare il secondo dei tre momenti dell' Idea hegeliana, in qual maniera l' Idea si trasforma nella Natura? Questo è ciò che il filosofo non spiega; ma il solo supporlo involge assurdo sopra assurdo. L' Idea altro non è che l' oggetto intuìto dallo spirito, l' essenza delle cose; per esempio, l' idea dell' uomo è l' essenza dell' uomo, non è nè questo nè quell' uomo, ma il mero tipo dell' uomo, l' uomo possibile. Lo stesso si dica di ogni altra idea. Ora se noi diamo all' Idea un' azione qualunque per modo che la rendiamo un agente, noi le aggiungiamo una cosa straniera. Non abbiamo più la sola idea della cosa, ma abbiamo un agente associato coll' immaginazione nostra all' idea. L' Idea non ha altro ufficio che di farci conoscere le cose; le cose poi reali e sussistenti sono quelle che operano. Questi due concetti, il tipo manifestativo delle cose reali e le cose reali operanti, sono categoricamente diversi: quello, cioè l' idea, può stare innanzi alla nostra mente senza di queste, siccome accade quando pensiamo ad una cosa meramente possibile e non realizzata. Dunque il pretendere che l' Idea operi e si trasformi in altro, è mutar natura all' Idea; è abusare di questa parola; è sostituire all' Idea una natura reale e sussistente, capace di operazione, è ricadere nella dualità che si vuole sopprimere (1). Ogni Idea qualunque è immutabile ed eterna. La più leggera osservazione interna ce ne convince (1). Dunque l' Idea non può patire alcuna passione, nè essere il soggetto di alcuna trasformazione. Se l' Idea si potesse trasformare nella Natura, ella annienterebbe sè stessa, perdendo ciò che essenzialmente la costituisce, che è di esser lume alla mente. Ora niun essere può annientare sè stesso. E se anche potesse, annientato che fosse, non potrebbe ricrearsi e divenire un' altra natura, perocchè il nulla non può diventar nulla. Passiamo a considerare l' Idea nel terzo momento di Hegel. Questa dallo stato di Natura bruta ritorna a sè, e così nasce lo Spirito. Ma un tale ritorno supporrebbe che la Natura fosse l' Idea, la quale non si fosse annientata, ma conservando un quid identico potesse ancora operare. Ora questo è impossibile per l' osservazione fatta di sopra. Dunque, quand' anche l' Idea avesse cessato di essere Idea e fosse divenuta Natura, questa non potrebbe più tornare ad essere Idea per la ragione stessa, che in tal passaggio prima dovrebbe annullare sè stessa, ed annullata che fosse, non potrebbe più divenire cosa alcuna. Noi dicevamo che le trasformazioni non si possono nè spiegare, nè concepire, se non rimane un quid identico che sia il subbietto della trasformazione. Ora Hegel non si dà cura di indicare punto nè poco questo quid, che rimane immutato nelle trasformazioni che egli suppone. L' Idea è semplicissima, e però non può avere due elementi, l' uno mutabile e l' altro identico; quindi non può essere soggetto di alcuna trasformazione, ma è immutabile, come abbiamo detto alla osservazione II. In qual maniera si può concepire che la Natura bruta ritorni all' Idea? O come ritornando all' Idea può divenire Spirito? Questi sono misteri, di cui il filosofo nostro non adduce nessuna ragione sufficiente, anzi nessuna ragione, che faccia concepire la cosa come possibile. L' Idea non può mai divenire Spirito, perchè lo Spirito è l' intuente, e l' idea è intuìta dallo Spirito; onde hanno opposizione di natura fra loro. Neppure è possibile ricorrere ad un terzo termine, che unisca in sè questi opposti, Spirito intuente e Idea, perchè in tal caso non si partirebbe già più dall' Idea, come fa Hegel, ma da qualche cosa di superiore all' Idea stessa; e l' Idea rimarrebbe nella condizione dei termini opposti. Oltre di che, questo termine superiore incontrerebbe le stesse difficoltà ad esplicarsi e a trasformarsi, e la difficoltà sarebbe arretrata d' un passo, non tolta. Il perchè non dandosi Hegel alcuna sollecitudine di queste immense difficoltà, e procedendo sempre per la via dell' affermazione gratuita, tutta la sua dottrina si riduce a descrivere storicamente le trasformazioni dell' idea in tutte le cose le più opposte fra loro, e nello stesso nulla, sicchè quella sua Idea in luogo d' essere immutabile non istà mai in riposo. Certo che la descrizione di queste trasformazioni nel senso di Hegel sono altrettante operazioni mentali; perocchè rimane sempre l' erronea base, posta da Fichte, che « il conoscente niente conosce fuori di sè stesso, e però tutto ciò che conosce deve necessariamente essere cose che nascono in lui », riducendosi ogni realità a produzione della mente, e, come confessava lo stesso Fichte, ad apparenze ed a sogni, e sogni di sogni (quasichè il sogno potesse sognare). Posto dunque che la virtù trasformatrice di Hegel sia il pensiero, egli comincia dal porre che il pensiero possa concepire l' ente così astratto che da lui si tolgano in prima tutte le determinazioni, e poi si tolga via lui stesso, e così sia pari al nulla. Di che conchiude che questo ente così astratto fa un' equazione col nulla, e lo chiama ente7nulla. Ma: 1) E` falso che si possa astrarre l' ente dall' ente; l' astrazione non va tanto avanti; ella non giunge che a levare dall' ente le sue determinazioni, rimanendo l' ente indeterminato. Il togliere poi via l' ente stesso indeterminato non è un atto di astrazione, ma è una negazione assoluta, colla quale si abolisce l' oggetto del pensiero, e se rimane solo il frutto di tale negazione, si abolisce con esso il pensiero. La negazione poi dell' ente, che dà il nulla, non lascia più alcun ente, con cui il nulla possa mettersi in equazione. 2) Di poi, se il pensiero fa queste operazioni di astrarre e di negare l' ente, il pensiero stesso e le sue operazioni si scorgono diverse dall' pensato. Dunque egli, soggetto pensante, non si può mai confondere con questo, che è assenzialmente oggetto pensato; nella negazione adunque rimane ancora il negante, benchè incognito a sè stesso. 3) Se l' oggetto pensato non è il pensante, dunque il pensante pensa cosa diversa da sè, e non è più vero il principio posto, che non possa pensare nulla fuori di sè. D' altra parte è il pensiero stesso, a cui il filosofo si appella, che ci dice: 1) Che egli può bensì astrarre, negare, passare da un oggetto all' altro, ma non mai trasformare gli oggetti stessi l' uno nell' altro. 2) Che oltre gli oggetti propri del pensiero, le idee, vi sono altre entità che non sono idee, ma sentimenti e forze agenti nel sentimento, sulle quali il pensiero puro non ha alcuna virtù di operare trasmutazioni. Onde se si deve credere al pensiero umano, questo dichiara di non aver punto nè poco la virtù trasformatrice, che il nostro filosofo gli attribuisce. E quand' anche il pensiero avesse questa virtù, converrebbe assegnare qualche ragione sufficiente, per la quale rimanesse spiegato perchè egli ora adoperi tale virtù, ora non l' adoperi, ora l' adoperi in un modo, ora nell' altro. Parve che Hegel, a differenza dei suoi predecessori e maestri, sentisse in qualche maniera il bisogno di porgere questa ragione. A tal fine egli disse che il supremo principio della filosofia è il diventare, nel quale atto il nulla e l' essere si congiungono quasi ai loro confini; perocchè non richiedendosi ragione del primo principio, gli parve così di potersi schermire dal rendere alcuna ragione del diventare medesimo. Ma dei primi principŒ non v' è obbligo di dar ragione, se sono evidenti; ma v' è ben obbligo di giustificarli, se evidenti non sono, come è certamente il diventare di Hegel; e tanto più che questo diventare ha in ogni caso modi, e leggi, e tempi, di cui conviene assegnare qualche ragione che li determini. Che più? Lo stesso diventare di Hegel è un manifesto assurdo, giacchè suppone che qualche cosa diventi senza causa. Perocchè se assurdo non è che un essere, che prima non esisteva, cominci ad esistere quando sia posta una causa che lo crei, oltremodo è assurdo che cominci ad esistere da sè, senza che alcuna causa preceda, nè efficiente, nè materiale, come è assurdo pure che si annichili. Che se questa causa esiste, già non è più il diventare il principio dell' Ontologia, ma la causa prima che spiega lo stesso diventare, e lo rende concepibile all' intelletto; e di questa perciò è da parlare, ricorrendovi come a sufficiente ragione di tutti gli atti che conseguono, e delle loro circostanze (1). Tuttavia non si può negare che, commesso il primo errore, tutti gli altri sono in qualche modo conseguenti, inevitabili; perocchè la serie delle proposizioni erronee si può esporre così: 1) Il pensiero non può conoscere nulla fuori di sè (errore fondamentale, idealismo trascendentale, soggettivismo). 2) Dunque fuori del pensiero non v' è nulla. 3) Dunque ciò che si crede che esista fuori del pensiero, non è che una produzione del pensiero stesso, che produce il Non7Io, negando sè stesso. 4) Dunque le stesse idee sono produzioni del pensiero. 5) Ma il pensiero stesso, riflettendo che egli non può conoscere nulla fuori di sè, fa rientrare in sè il mondo reale e le idee, dopo averle prodotte come un diverso da sè, riconoscendo che quelle cose sono sè stesso, seco s' identificano. 6) Il pensiero poi può astrarre e negare, e così può annullare ciò che ha creato. 7) Di più, il pensiero può astrarre e non pensare sè stesso, perdere la coscienza, e quindi può annullarsi (2). Il pensiero stesso adunque (che abbraccia il tutto nel suo seno) ora è l' ente, ed ora il nulla. Così l' ente e il nulla si identificano. .) Ora, poichè l' infimo grado in cui possa essere il pensiero è questo annullamento di sè, e da questo nulla può sorgere a tutti gli altri gradi, perciò dal gran nulla escono fuori, come da un cotale oscuro abisso, tutte le cose. - Sistema del Nullismo. 9) Il pensiero ha dunque due termini: il nulla e il più alto grado di sua attività . La filosofia non può spiegare le cose, se non congiunge questi due termini; ella si deve dunque fermare a quel punto, nel quale il nulla diviene ente; e questo è il diventare di Hegel. 10) Ma la maggiore attività, a cui possa giungere il pensiero, è quella in cui egli acquista la coscienza di sè. Il pensiero consapevole adunque, come l' ultimo sviluppo dell' ente, è ciò che questi panteisti psicologici chiamano Dio. Ecco una serie di assurdi, procedenti con qualche logica connessione dal primo assurdo. Enumerare le produzioni fisiche, morali, sociali, ecc., del pensiero, e considerarle tutte come identificate al pensiero, è ciò in cui più ampiamente si stendono le opere di Hegel. Dobbiamo ancora ripetere ciò che abbiamo detto parlando di Schelling: questa filosofia non è che la riproduzione della filosofia indiana, e specialmente di alcune scuole del Buddhismo. [...OMISSIS...] Il principio di questi sistemi indiani è al tutto psicologico, quello stesso che forma la prima proposizione delle dieci da noi annoverate. Ecco due tesi, che si trovano in alcuni Sutras, citati da Burnouf: Non è mestieri il dire come un tale sistema sia empio; ma l' empietà, che esso racchiude, da niuno più che dai discepoli di Hegel fu nudamente proclamata e professata. « La stessa idea di Dio - dicono essi - non ha alcuna realità, perchè ella non riflette sopra sè stessa (2); quindi è gioco forza che la teologia si perda nell' Antropolatria, e che la religione disparisca nella speculazione ». La deificazione, il culto di latria reso all' uomo, come al solo Iddio: ecco l' assunto di questi deliranti, ecco il frutto maturo del soggettivismo; ci pensino bene i nostri italiani religiosi soggettivisti. Fra questi poniamo Aristotele; ma conviene fare sul suo sistema molte osservazioni. Primieramente è egli al tutto immune dall' errore, che noi attribuimmo a Platone, di confondere l' anima coll' idea, il soggetto coll' oggetto che la illustra? Questo sistema ha due faccie: è idealismo trascendentale, in quanto si ritengono le attribuzioni divine delle idee e le si attribuiscono all' anima, che con esse si confonde; ed è soggettivismo, in quanto si ritengono le doti dell' anima e le si attribuiscono alle idee, che con essa si confondono. In Platone questo sistema mostra la prima faccia; in Aristotele la seconda. Per fermo, è sentenza aristotelica che « « l' anima diventa in qualche modo tutte le cose » », e che « « intellectus est ea quae intelliguntur » (1) ». Di ciò abbiamo parlato nel « Rinnovamento » (2). Ella è tuttavia cosa grandemente diversa il confondere l' anima colle idee, attribuendo a quella la natura di queste, e il confondere le idee coll' anima, attribuendo a quelle la natura di questa, come noi crediamo che faccia Aristotele. In questo caso, benchè Aristotele ponga la natura dell' anima nel soggetto, e in ciò non erri, tuttavia cade in un errore assai maggiore di quello di Platone, perchè ignobilita le idee, traendole dal cielo in terra. Ma è prezzo dell' opera, che noi esaminiamo con più d' attenzione la sentenza aristotelica. Al vedere la franchezza, colla quale Aristotele parla censurando tutti i suoi antecessori, noi saremmo inclinati a credere che egli dovesse essere molto sicuro del fatto suo, e venuto in possesso d' una scienza ben definita. Pure a questa congettura fanno immensa opposizione le sue opere, nello stato in cui esse a noi pervennero. Durante il dominio della Scolastica, quando pareva una cotale empietà filosofica il dubitare che « il maestro di color che sanno »fosse caduto in contraddizione seco medesimo, lo spirito umano, preoccupato, non poteva portare un equo giudizio dell' aristotelica dottrina; una critica imparziale delle sue opere era impossibile. Questo freno d' indebita autorità posto agli ingegni provocò, secondo il solito, la reazione violenta da parte di quelli, a cui divenne alla fine insofferibile, i quali lo ruppero bruscamente come fa l' irato. Al giogo ingiusto dell' autorità filosofica, che vincola l' ingegno, essendo dunque succeduta l' ira, che lo acceca, ebbe luogo un' età, che neppur essa fu atta a giudicare equamente dell' aristotelica filosofia. Ben sarebbe desiderabile che nel tempo nostro, in cui sembrano sedati cotesti sdegni e resa impossibile quella autorevole prevenzione, si occupassero finalmente i dotti a darci una notizia veramente critica della dottrina, che nei libri a noi pervenuti dallo Stagirita si contiene, la quale ancora ci manca. Quanto a me, io non dubito che le ingiurie fatte a quei libri dalle vicende straordinarie, a cui essi soggiacquero, e dall' invida età, sieno maggiori di quel che si credano. Ma non importando investigare che pensasse veramente Aristotele, il che ci è affatto impossibile, bensì solamente ciò che contengono di presente i libri che portano il suo nome, io mi sento sgomentato a dover dire che essi presentano agli occhi miei brandelli di dottrine le più contrarie, un tessuto, o piuttosto un cucito, di tutti i sistemi filosofici che precedettero, dilacerati e rubacchiati ad un tempo. Mi conferma in questa opinione il vedere che Aristotele fu inteso dai suoi interpreti nelle guise più disparate, e gli furono attribuiti i sistemi più opposti. Alcuni lo vollero materialista, altri sensista, altri poi tolsero seriamente a conciliarlo con Platone fino a pretendere che egli differisca dal suo maestro di sole parole (1). A malgrado di ciò, mi sembra di poter asserire che il sistema aristotelico circa la natura dell' anima appartenga alla numerosa classe dei soggettivisti; e a ciò sono condotto dalle seguenti considerazioni. La definizione, che egli dà dell' anima, noi l' abbiamo riferita altrove [...OMISSIS...] . Ora, benchè molto sia stato disputato sul valore della parola entelechia, tuttavia la sua origine (da «en» e «telos») dichiara abbastanza che ella significa il finimento, l' atto che rende compiuto, la perfezione, ecc. (4). Quindi è indubitato che Aristotele concepì l' anima come un atto del corpo, col quale il corpo si perfeziona. E dice un corpo che ha la vita virtualmente, il che è più che potenzialmente; perocchè la mera potenza potrebbe pigliarsi per una capacità, o ricettività, o potenza passiva; ma la parola greca «dynamei» significa di più, esprimendo una potenza producente, ossia atta a passare all' atto, come sarebbe la forza rispetto al moto. Intende poi per un corpo, che ha virtualmente la vita, [...OMISSIS...] . Ora, in che ripone questa perfezione del corpo, che si chiama anima? In una forma o specie. E come definisce la forma o specie? Per contrapposizione alla materia, in questo modo: [...OMISSIS...] . L' anima dunque è ciò che si trova in un corpo e che fa sì che quel corpo sia un qualche cosa determinato, pel quale gli si dà il nome, nel caso nostro, che sia un animale. Non è dunque un atto accidentale del corpo (3), ma è un atto specifico, pel quale il corpo riceve un nuovo nome sostantivo. Quindi ripone l' anima fra le sostanze; perocchè egli distingue tre maniere di sostanze: la materia, la forma, e il composto (4); ma con più proprietà l' anima aristotelica si dovrebbe chiamare forma sostanziale (5). E veramente, in tutte le sostanze composte di forma e di materia non si vede come la forma, in quanto è forma, stia da sè, separata dalla materia; e per stare da sè deve esser qualche altra cosa oltre mera forma, onde non può essere sostanza, la quale sta da sè. Che anzi se si considerano i corpi, da cui furono tratte le parole di materia e di forma, e se si definisce la sostanza « ciò che in un ente esiste per sè », definizione che implica la relazione della sostanza coll' accidente, che esiste per quel primo (il che è quanto dire: la sostanza è l' atto pel quale sussiste l' essenza); in tal caso la condizione di sostanza appartiene piuttosto alla materia che alla forma; perocchè questa essendo come l' atto, quella è come il subbietto di questa (6). Quindi nel sistema aristotelico è impossibile concepire l' anima separata dal corpo, come l' atto è impossibile considerarsi senza il suo subbietto, di cui è atto. Niuna meraviglia, adunque, che Aristotele si trovi incerto e impacciato, quando applica la sua dottrina all' anima intellettiva; perocchè i filosofi, che lo avevano preceduto, avevano già dimostrato che le operazioni della pura intelligenza si fanno senza strumento di organo corporale; nè questo egli poteva negare, nè disconoscere la conseguenza, cioè che l' anima, in quanto è intelligente, non è atto di corpo, e poteva quindi sussistere senza corpo. Onde, dopo aver detto che l' anima non si può separare dal corpo, come l' immagine impressa sulla cera non si può separare dalla cera, quando poi viene all' intelletto, parla quasi incerto così: [...OMISSIS...] (1). Nel qual luogo è da considerarsi che il filosofo non disse addirittura che l' intelletto sia separabile dal corpo, ma disse separabile a quel modo che l' eterno è separabile dal corruttibile. A intendere adunque la mente di Aristotele conviene indagare che cosa egli intenda per eterno e per corruttibile, e in che modo, secondo lui, queste due cose sieno separabili. Se non si indaga questo prima di tutto, egli parrà cadere poche linee appresso in contraddizione. Infatti, se l' intelletto è separabile, perchè non è atto di corpo o di organo corporeo, dunque l' anima intellettiva non deve essere forma di corpo, perchè la forma o specie del corpo viene definita « l' atto e la perfezione del corpo stesso ». Tuttavia tosto appresso Aristotele dice che l' anima, anche in quanto pensa, è la specie, ossia forma del corpo: [...OMISSIS...] . Nega dunque all' anima intellettiva l' esser subbietto e materia, il che attribuisce al corpo; e le concede solo l' essere specie, forma, intenzione, atto, perfezione del corpo. Nè si può dubitare che qui si parli dell' intelletto, perocchè nel terzo libro definisce l' intelletto espressamente così: [...OMISSIS...] . S' aggiunge che nel libro secondo « Degli Analitici Posteriori » parla delle facoltà conoscitive degli animali imperfetti (attribuendo erroneamente anche ad essi una maniera di conoscere), e quindi passando agli animali perfetti, cioè agli uomini, viene a parlare dell' intelletto. Onde l' anima intellettiva è considerata come forma negli animali perfetti, di un grado più elevata di quella che è l' anima dei bruti, ma dello stesso genere. Che cosa dunque Aristotele intende per ciò che è eterno? Che cosa intende col dire che l' eterno si separa dal corruttibile? In primo luogo si avverta che Aristotele nega le idee e forme separate di Platone, che quindi non riconosce altre forme che quelle che sono nei particolari; che come non separa la forma dalla materia, così neppure la materia dalla forma, di cui ella è il soggetto. Alle forme particolari attribuisce l' atto, e quindi l' azione e la generazione; ma nega che producano forme, producano composti, appunto perchè la forma è inseparabile dalla materia. Ora la materia è eterna, e però deve avere una forma eterna, cagione di tutte le altre forme. Di più, è proprietà della mente separare la materia dalle forme, e così toglierle alle sue incessanti vicissitudini. La materia, dunque, astratta dalla mente, e parimenti le forme astratte, sono incorruttibili ed eterne rispetto alla mente che le contempla, a quel modo che spiega nei libri « Degli Analitici Posteriori »; quindi ciò che è eterno per Aristotele è la materia e la forma prese in astratto, le quali in realtà non esistono nell' anima, ma nelle cose esteriori. Ma l' anima ha la potenza di riceverle dal di fuori, ed è così che viene la mente dal di fuori, e che è separabile, perchè non è innata se non in potenza; dove si vede che la parola mente o intelletto si confonde colle specie che si acquistano dal di fuori, che è appunto l' errore da noi accennato, di confondere il soggetto coll' oggetto. Adduciamo in prova di ciò qualche luogo del filosofo. E prima di tutti sarà uno notevolissimo dal secondo libro « Della generazione degli animali », dove egli toglie a spiegare la generazione che si fa per via dell' unione dei sessi. Quivi egli distingue l' anima in potenza dall' anima in atto; l' anima non si dice essere generata e veramente esistere, se non è in atto. Ora l' anima vegetativa, sensitiva, e intellettiva, vengono all' atto successivamente, ed escono, quasi a dire, come si traggono l' un dall' altro i diversi tubi di un cannocchiale. Dice dunque che nel seme è uno spirito, e in questo è la natura, cioè il principio vitale etereo ( proportione respondens elemento stellarum ), che è l' anima ancora in potenza. Di quest' anima in potenza, all' atto del concepimento si fa l' anima vegetale, la cui indole consiste nella virtù che ha un corpo organico di ricevere nutrimento, e colla nutrizione, operazione interna, accrescere, e quindi anche poscia decrescere; indi esce dopo qualche tempo dal corpo nutrito un altro suo atto, cioè l' anima sensitiva, e finalmente da questa già maturata, l' intellettiva. [...OMISSIS...] (1). Il seme adunque maschile contiene l' anima in potenza, ma il concepito, che è tosto quando la femmina è fecondata, già contiene l' anima in atto, solo però l' anima vegetale. [...OMISSIS...] . Ora - soggiunge - [...OMISSIS...] . Fa venir fuori l' anima intellettiva allo stesso modo come fa venir fuori la sensitiva, e prima la vegetale dallo stesso corpo seminale, in cui il calore vitale s' acchiude (1), poichè dice: [...OMISSIS...] . La specie dell' uomo, e la specie del cavallo o di ogni altro animale, è trattata ad uno stesso modo; il che mostra abbastanza che Aristotele non conobbe l' altro elemento, che nell' intelligenza racchiudesi. Vuole dunque che il corpo potentia vitam habens, cioè il corpo che ha il calore vitale, quale è il seme e nel calore vitale la natura, ossia il principio vitale, quale è il seme maschile, tostochè si organizza e passa all' atto del nutrirsi, sviluppi l' anima vegetale, e successivamente gli altri due atti del sentire e dell' intendere. [...OMISSIS...] . Ora, dopo aver detto che le tre anime nascono così come tre atti successivi di un corpo, che ha in sè il principio vitale e che si sviluppa, passa a confermare la sua dottrina, provando che niuna delle tre anime può venire dal di fuori del corpo. [...OMISSIS...] . Ora, dopo aver detto tutto questo e fatte le tre anime inseparabili, e anche l' intellettiva fatta uscire dal corpo come le altre, soggiunge: [...OMISSIS...] . Ora alcuni intesero che questa mente , che Aristotele fa venire dal di fuori, sia l' anima intellettiva; ma ciò non può essere il pensiero dello Stagirita, perchè ha fatto già venire tutte e tre le sue anime, o le parti e funzioni dell' anima, dallo stesso corpo che le ha in potenza, la vita del quale si attua successivamente, prima divenendo vegetabile, poscia sensitiva, e finalmente intellettiva. Che anzi immediatamente soggiunge, confermando ciò che aveva detto prima: [...OMISSIS...] . Rimane dunque a cercare che cosa sia questa mente, che viene dal di fuori, benchè l' anima intellettiva stessa sia un atto e una perfezione del corpo. Nè ella può esser altro che una speciale facoltà o qualità, che l' anima intellettiva trae dal di fuori, cioè dalla comunicazione col mondo esteriore. Ora dal mondo esteriore appunto Aristotele vuole che noi caviamo le idee e gli universali; ed è perciò a vedere in che modo egli ne spieghi la produzione in noi; il che egli fa verso la fine del secondo libro, come dicevamo, degli « Analitici Posteriori ». Cerchiamo adunque in questi la spiegazione della sentenza aristotelica. Quivi il filosofo si propone di spiegare come noi abbiamo la cognizione immediata dei principŒ . E dopo aver detto che non può essere innata con noi, perchè ne avremmo coscienza (2), che è la solita ragione dei sensisti, la cui leggerezza fu già da noi dimostrata (3), dice che dunque è uopo che abbiamo qualche potenza di acquistarli. L' ammettere però una potenza di acquistare i principŒ della ragione, non spiega ancora cosa alcuna circa il modo di acquistarli, anzi lascia indecisa la questione assai più profonda: « se vi possa essere una potenza di acquistare i principŒ della ragione, senza che ella stessa abbia qualche principio, o qualche idea, di cui possa far uso ed essere diretta nel suo operare »; il che noi già dimostrammo affatto impossibile (4). Seguita Aristotele dicendo che tutti gli animali hanno questa potenza, perchè tutti hanno il senso; dando così al senso l' officio di formare i principŒ del ragionamento. Ma qual è dunque la differenza fra il sentire e l' intendere ? Questa differenza la riconosce Aristotele, e riprende i primi, che filosofarono, di non averla veduta, confondendo il senso coll' intelligenza. Ma finalmente (come appunto fanno i moderni soggettivisti, che non vogliono essere sensisti, benchè pur lo sieno) la differenza che egli pone, non consiste che in una cotal differenza, che ancora non eccede la sfera della sensitività, perchè colloca l' intendere in una permanenza della cosa sentita. [...OMISSIS...] . Ed ecco chiaramente spiegato come la ragione, ossia la mente, venga dal di fuori ad alcuni animali, quali sono gli uomini. Sono le sensioni eguali e simili, che vengono dal di fuori, che molte lasciano la stessa impressione permanente; e questa impressione unica, che rimane nell' anima da molte sensazioni, è ciò in cui Aristotele vede il nascimento della mente o della ragione, che ha per sua dote l' unità, il contemplare più cose in un solo. Ma altro è che più sensioni lascino nell' anima un' impressione eguale, il che avviene anche nei bruti, in quanto le sensioni sono simili, altro è che l' anima si giovi di quell' unica impressione, che rimane nel senso interno, quasi di tipo a riconoscere tutte le sensioni che ad essa rispondono, e di più tutte le possibili, il che fa solo l' uomo; perocchè solo l' uomo pensa il possibile, e solo il possibile costituisce l' universale, la spiegazione del quale è l' unico nodo della questione. E questo nodo è trasaltato via assai leggermente dal nostro filosofo; anzi egli pur mostra d' ignorare che la natura dell' universale sta tutta nel concetto del possibile, ossia nell' essere puramente ideale. Egli dunque seguita a dichiarare come la sensione si fermi nello spirito, e vi lasci un elemento costante in questo modo: [...OMISSIS...] Noi avvertimmo nell' « Ideologia » che, di tutte le opere di Aristotele, questo è quel luogo in cui il nostro filosofo più s' avvicina alla vera teoria dell' origine delle idee, perchè parla di un universale quiescente nell' anima, e dice che « « l' uno, in quanto è ente, è il principio della scienza » ». Ma conviene confessare che, ogni cosa bene considerata, rimane per lo meno dubbioso se Aristotele esca con ciò dal sensismo. Primieramente quell' universale quiescente è tradotto da Abramo de Balmes e da Giovanni Francesco Burana per « « universale costituito e stabilito nell' anima dalle molte memorie, o reminiscenze precedenti » », di maniera che non sia l' universale nell' anima che dia l' unità alle molte memorie, ma sieno le molte memorie che lascino l' unità, e per essa l' universale, nell' anima; e così pure la intende l' arabo commentatore. Ove è chiaro che il senso può lasciare, dopo le sensazioni, immagini nella fantasia, e più immagini associate fra sè e con novelle sensazioni possono produrre l' istinto di operare in modo che simuli un operare ragionevole, per una cotale aspettazione istintiva di casi simili, come noi abbiamo dichiarato rendendo ragione del perchè nell' operare dei bruti scorgasi ordine, somigliante a quello che si scorge nell' operare dell' uomo (1); ma non sarà mai che con ciò si spieghi un concetto universale, che è quello col quale la mente intuisce l' oggetto nella sua possibilità, mentre il fantasma non esce dalla realità delle cose passate e presenti, e nulla più produce che un' inclinazione e aspettazione di cose simili (senza idea di somiglianza). Quindi i commentatori più penetranti, come l' Aquinate, ritennero l' universale quiescente nell' anima esser cosa nuova, che qui introduce quasi di furto Aristotele, non l' unità dell' effetto fantastico, lasciato nell' anima dalle varie memorie, ossia immagini; ritennero che per quell' universale quiescente Aristotele intendesse veramente un principio esistente nell' anima, pel quale l' esperimento o l' effetto delle memorie, rimasto nell' anima, venga esteso all' avvenire e propriamente ai possibili, rendendosi così universale in atto. E se si considera che Aristotele pone sempre in potenza nell' anima ciò che poscia vi è in atto, non è punto improbabile che per universale quiescente egli intenda l' universale in potenza . Ma rechiamo le stesse parole del Dottore d' Aquino: « Hoc est enim quod dicit, quod sicut ex memoria fit experimentum, ita etiam ex esperimento, AUT ETIAM ULTERIUS, ex universali quiescente in anima »; ecco come l' universale quiescente, secondo S. Tommaso, non è l' effetto dell' esperimento, ma è la causa ulteriore dei concetti universali, che, posto l' esperimento, si formano, « quia scilicet accipitur ac si IN OMNIBUS », cioè in tutti i possibili, « ita sit, sicut est experimentum in quibusdam. Quod quidem universale dicitur esse quiescens in anima, in quantum scilicet consideratur praeter singularia, in quibus est motus; quod etiam dicit esse unum praeter multa, non quidem secundum esse », secondo la sussistenza, « sed secundum considerationem intellectus, secondo l' idea, qui considerat naturam aliquam, puta hominis, non respiciendo ad Socratem et Platonem; quod tamen, etsi secundum considerationem intellectus sit unum praeter multa, tamen secundum esse est in omnibus singularibus unum et idem non quidem numero, quasi sit eadem humanitas numero omnium hominum, sed SECUNDUM RATIONEM SPECIEI », che è di nuovo, secondo l' idea: « ex hoc igitur experimento, ET EX TALI UNIVERSALI PER EXPERIMENTUM ACCEPTO » (qui pare all' opposto che l' universale quiescente sia ancora l' effetto dell' esperimento, se pure questo universale non si debba qui prendere pel concetto universale in atto) « est in anima id, quod est principium artis et scientiae, etc. ». Secondo la quale interpretazione: Molte sensazioni fanno una memoria, molte memorie un esperimento, dall' esperimento e dall' universale quiescente, cioè in potenza, viene l' universale in atto. - Non è mestieri osservare che dalle sensazioni viene il fantasma, ed altresì una cotal ritentiva, un certo vestigio sensibile della sensazione avuta, il quale dirige l' animale a risuscitare il fantasma. Ma la memoria delle sensazioni e del fantasma esige l' intendimento, se per memoria s' intende le idee delle sensazioni avute, che rimangono in noi; si salta dunque dall' ordine del senso a quello dell' intelligenza, senza dare spiegazione di tal passaggio, o piuttosto senza accorgersi del gran salto. Dopo di ciò, il progresso del ragionamento è facile, perchè già l' universale è posto, basta dividerlo, ossia astrarlo. Tuttavia si riconosce che la natura dell' universale si è questa, che l' anima concepisca in tutti i possibili eguali ciò che esperimenta avvenire in alcuni reali; ma di nuovo non si dice come l' anima estenda la sua veduta a tutta la sfera del possibile, la quale sfera eccede infinitamente ogni numero di sensazioni. Si dice ancora che l' universale est unum praeter multa, è uno fuori dei molti. Ora i molti sono reali e singolari; l' anima, che intuisce l' universale, lo considera fuori di essi, non lo trova in essi; quell' universale è uno non secundum esse, cioè secondo il sussistere delle cose, perchè esso è fuori di questa sussistenza, praeter multa, essendo molti gli individui per la sussistenza che ha ciascuno in proprio, ma secundum considerationem intellectus, perchè è l' intelletto quello che vede come ciò che fu esperimentato può replicarsi all' infinito, cioè vede il possibile ; ma rimane sempre a spiegare che cosa sia questo possibile, il quale non si trova negli enti singoli, che agiscono nel senso; e questa è sempre la lacuna, che rimane aperta nel sistema aristotelico; ed è lacuna immensa, perchè taglia fuori tutta la questione. Egli distingue due uni , l' uno che è praeter multa, e questo non è sussistente, nè sensibile, ma solo intuìto dall' intelletto; l' altro, che è l' uno sussistente, secundum esse; e questo, dice, si trova in omnibus singularibus, si trova nei singolari, ma non è uno di numero, bensì uno di specie, unum et idem, non quidem numero, sed secundum rationem speciei . Ma così torna in campo la difficoltà, perchè la ragione della specie non è che cosa intellettuale, e però non può essere nei singolari, nei quali non vi è altro che la sussistenza, la quale è cosa in ciascun singolare separata, onde non fa un uno in più di essi, ma solo nella mente, che considera e paragona più singolari insieme. Il qual paragone non si può fare, se non raffrontando i singolari ad un tipo comune, che è l' idea, ossia la specie; onde l' uno è sempre nell' idea, e suppone l' idea (1). Donde proviene adunque l' idea? Ecco ciò che rimane tuttavia da spiegare; ecco il solito vano; ecco supposto quello che si cerca. E qui si scorge il vero fonte del sensismo di tutti i tempi, ed è il darsi a credere che l' uno sia doppio, cioè che egli esista in più reali, come sono singolari sensibili secundum esse, e che esista nell' intelletto secundum considerationem intellectus . Ma il fatto si è che niente di tutto ciò che è in un individuo reale forma unità con qualche cosa di ciò che è in un altro individuo reale; perocchè ciascun individuo reale è affatto diviso e separato dall' altro; ed essi sono più, senza che in alcun modo nella loro pluralità vi sia unità, eccetto che rispetto all' intelletto, il quale con una sola e medesima idea o specie li conosce. Onde l' uno secundum considerationem intellectus e l' uno secundum rationem speciei, non sono due uni, ma è lo stesso uno, espresso con due frasi che significano in fondo lo stesso. Ma poichè l' uomo parla sempre degli individui reali conosciuti, ed egli crede di parlare degli individui reali semplicemente, quindi egli si dà a credere che l' uno, che trova negli individui7cogniti di cui parla, sussista negli individui reali stessi, mentre non istà che nell' elemento conoscitivo, che egli vi ha aggiunto coll' atto del conoscerli, il quale elemento è l' idea o la specie, con cui li conosce. Illuso adunque Aristotele dall' errore di riporre negli individui stessi reali ciò che non è che negli individui7reali7conosciuti, diede a quelli ciò che è in questi, l' elemento conoscitivo, l' uno proprio della sola idea. E poichè gli individui reali si conoscono soltanto a condizione che sieno percepiti dal senso, quindi giunge a dire che il senso in questo modo fa l' universale, perchè fa la memoria, e questa l' esperimento, che diviene universale, e che perciò non vi è alcuna scienza innata, quasi abito ingenito. Se non che lo si vede titubante, perocchè non osa conchiudere, come dovrebbe stando alle premesse, che non vi sono abiti di scienza innati, ma solo nega gli abiti innati determinati : limitazione che fece affaticare i commentatori a darne chiara spiegazione, e non si poterono mai mettere d' accordo. Rechiamo di nuovo il testo che segue immediatamente al luogo addotto: [...OMISSIS...] . Nel qual passo il sensismo è manifesto; e tuttavia ancora dubbioso e vacillante, poichè si fanno venire dal senso gli universali, ma si dice però che il senso non può produrli in ogni anima, ma soltanto in quella che è atta a patir ciò, anima vero est talis, ut possit pati hoc; e, sebbene la parola patire sia oltremodo sensistica, perchè sembra che il solo senso agisca e che l' anima li riceva dal senso, come la cera riceve l' impressione dal suggello, tuttavia, qualora si confronti questo luogo con altri di Aristotele, in cui egli introduce nell' anima un lume, che chiama lume dell' intelletto agente, si scorge che egli non osa negare che nell' anima vi sia un principio formale degli universali; onde S. Tommaso commenta in questa maniera il passo allegato: [...OMISSIS...] . Laonde, sebbene nel testo di Aristotele non si esiga altro se non che l' anima sia tale ut possit pati hoc, tuttavia S. Tommaso vi aggiunge di più, che sia tale che possit agere hoc ; il che già è un allontanarsi dal sensismo aggiustando il testo nostro con altri testi pur del filosofo. Ora l' intelletto possibile altro non è che l' intelletto in potenza, ossia l' anima intellettiva in potenza; e l' intelletto agente non è che la virtù che ha quell' anima intellettiva in potenza di divenire anima intellettiva in atto, il quale atto le viene dal di fuori, cioè dalle sensazioni. Il dire poi che l' intelletto agente fiat intelligibilia in actu per abstractionem universalium a singularibus, conferma ciò che abbiamo detto circa l' errore, onde provenne come da universale fonte ogni sensismo, il che non è mai abbastanza considerato. Poichè l' uomo che astrae l' universale dal singolare, da quale singolare lo astrae? Certo da quello, che egli ha già concepito nella sua mente; perocchè sopra quei singolari, che egli non ha concepiti, non può esercitare l' operazione dell' astrarre, non avendoli presenti alla mente. Orbene, i singolari già da lui concepiti, onde astrae gli universali, sono forse nè più nè meno i singolari non concepiti? Questo è da vedersi, poichè la mente nel concepirli può avere aggiunto loro qualche cosa, che non hanno nella pura loro realità. E questo, che si doveva diligentemente vedere e cercare, fu dimenticato affatto dal filosofo; nè manco gli venne in mente che si potesse muovere cotal questione; eppure qui sta il tutto, qui sta quello su cui si disputa. Posto adunque lo stato della questione come deve essere posto, è facile a discoprire che i singolari, come sono nella mente, non sono puramente i singolari, come sono nella loro realtà fuori della mente; che anzi, entrando nella mente, hanno ricevuto per prima compagna la sensazione, e per seconda l' idea con cui si concepiscono, nella quale idea sta l' universale. Se noi dunque riassumiamo l' analisi delle cognizioni umane, fatta da Aristotele, e l' ordine in cui egli le distribuisce, troviamo: 1) che le cognizioni più remote dall' origine loro sono le conclusioni ; 2) alle quali debbono precedere nella mente i principŒ da cui provengono, onde nel primo dei « Fisici » dice che gli universali si conoscono avanti i singolari; 3) ma i primi principŒ sono quelli che non hanno mezzo con cui si dimostrino, riconosciuti evidenti tostochè se ne concepiscono i termini, dei quali il predicato è contenuto nella ragione del soggetto (giudizi analitici); 4) la questione adunque dell' origine delle cognizioni si riduce a sapere quali sieno i primi termini che si concepiscono dalla mente umana; perocchè, concepiti questi primi termini, tosto si hanno i primi principŒ, e da questi le conclusioni immediate, che sono principŒ rispetto alle conclusioni più remote. Ora, i termini che prima si conoscono, secondo Aristotele, sono l' ente e l' uno (1), che non differiscono se non secondo il rispetto sotto cui si considerano. Dunque tutta la questione dell' origine delle idee e delle cognizioni umane si riduce, secondo il medesimo Aristotele, alla questione: « Come si conosce l' ente? Come si conosce l' uno nei molti singolari? ». La questione in tal modo è posta ottimamente; ma questo stato della questione non è che il fondo della dottrina aristotelica, poichè in termini espressi non si trova così proposta in niuna parte delle opere dello Stagirita. Rimane dunque a vedere come la sciogliesse, e già l' abbiamo indicato; ma torniamoci sopra. Egli ricorre a due cause, al senso e alla natura speciale dell' anima, che ha la potenza di fermarsi a considerare nel sensibile il comune, il qual comune è l' universale; onde, nel secondo degli « Analitici Posteriori », dice che la cognizione sensibile è anteriore alla cognizione degli universali (1). Ma questo non è ancora, come già osservammo, spiegare l' origine delle cognizioni, poichè non basta il dire che l' anima abbia la potenza di formarsele, il che ognuno sa; conviene mostrare per quali passi questa potenza le vada producendo, e a quali condizioni ella possa produrle. Aristotele tenta anche di farlo. L' anima umana, viene egli a dire, è così disposta, che al ricevimento delle sensazioni ritiene quella parte che esse hanno di comune, il che egli chiama memoria ; paragonando più memorie, ritiene di nuovo quella parte che hanno di comune, il che egli chiama esperienza ; e così per via di astrazione giunge fino agli ultimi astratti ed ai principŒ. Ma lasciando stare che qui non è spiegato come nasca l' idea della sostanza, perchè le sensazioni non contengono la sostanza dell' ente esterno, ciò che vogliamo principalmente osservare si è che tutto questo discorso suppone che nel reale sensibile, o nella sensazione reale, sia già il comune, ossia l' universale ; poichè se non fosse, l' anima non si potrebbe fermare in esso ed astrarlo. All' incontro il vero si è che ogni reale esterno, ed ogni sensazione reale, non esce di sè, è tutta reale e finita; e niente di ciò che è reale è comune con un altro reale, con un' altra sensazione reale; dunque non vi è alcun comune, alcun universale nell' esterno reale, nè tampoco nella sensazione, che esso in noi produce, e che è reale anch' essa. Come adunque Aristotele credette di giungere a trovare il comune, l' universale, l' uno, l' ente nel sentito? Per quella illusione che abbiamo indicata, per la quale egli attribuì al reale puro ciò che appartiene al reale già concepito dalla mente. Per dirlo di nuovo, e non è mai detto abbastanza, il sentito, ossia il reale esterno a noi sensibile, dove vi è il comune, ossia l' universale, è il reale sensibile, tale quale esiste nella nostra mente, che l' ha percepito; poichè egli è l' oggetto, su cui si esercita l' astrazione, e l' astrazione non si esercita se non sull' ente reale sensibile già percepito. Conviene dunque spiegare la percezione, il che noi abbiamo fatto nel « Nuovo Saggio ». Dalla spiegazione ci risultò che la percezione intellettiva è « il reale sentito, in quanto dall' intendimento si vede nell' essere ideale come sua realizzazione ». Ciò posto, è chiaro che il reale sensibile percepito, su cui si esercita l' astrazione, contiene il comune e l' universale da cui si può astrarre, perchè esso non è il solo reale, ma il reale nell' ideale, è un oggetto reale7ideale, particolare7comune, e non reale e particolare solamente. Io dovrei qui venire alla conclusione, riassumendo il modo onde Aristotele intende che la mente, ossia l' intelletto, venga all' anima dal di fuori; ma non posso a meno di far prima l' intramessa di un punto di storia filosofica poco conosciuto; ed è la vera origine della celeberrima questione dei Reali e dei Nominali, e le loro vere sentenze. Esse si rinvengono diligentemente esposte nell' opera di Abelardo sopra Porfirio, poco innanzi da me citata, quale si trova nel Codice Ambrosiano. L' ente7reale7sensibile, percepito dall' intendimento, è l' oggetto, su cui si esercita l' astrazione; coll' astrazione si separa da esso il comune . Nasce tosto la questione, se il comune sia nelle cose o nell' intelletto. Si noti prima che l' uno, o il comune, o l' universale, è pressochè il medesimo; perocchè comune altro non significa se non ciò che è uno in più enti, e universale significa ciò che è uno in tutti gli enti possibili di una classe, o in tutti affatto gli enti. Ciò posto, Aristotele trovava l' uno, come abbiamo veduto, nelle cose reali, unum in multis, e diceva che questo era il principio dell' ente; e trovava pure l' uno nell' intelletto, unum praeter multa, e diceva che questo era il principio della scienza (1). Ora è chiaro che l' unum praeter multa per lui era il comune, astratto e separato dalle cose, l' idea specifica o generica della cosa, la cui sede è certamente l' intendimento, ed è principio della scienza, in quanto la scienza tratta teoreticamente delle cose e per astrazione. E` chiaro ancora che l' unum in multis viene ad essere il comune, riferito dalla mente alle cose singole reali percepite, perocchè il concetto della mente, uno com' è, si unisce e si lega in noi a ciascuna di esse, e in quanto è legato a ciascuna, noi lo chiamammo idea particolare ; e questo è il principio dell' arte, perchè l' arte è un abito di operare con ordine intorno ai particolari reali. Ma l' ordine, con cui opera l' arte, procede dall' averli percepiti colla mente, che li scorge simili o dissimili; infatti il simile è l' idea stessa intuìta in più cose reali, o per dir meglio più cose reali vedute nella stessa idea. Aristotele dunque poteva avere tutta la ragione nel distinguere l' unum in multis e l' unum praeter multa, e nel dire altresì che quello era il medesimo uno (1), se egli avesse inteso con ciò l' uno, cioè il comune nelle percezioni, e l' uno, cioè il comune nell' idea separata dalle percezioni. Ma l' errore suo era sommo e capitale, perchè non prendeva la cosa così, nè si accorgeva che il ragionamento andava bene fino che si parlava dell' ente reale concepito ; ma non andava più bene, tostochè si parlava del puro reale. Quindi egli errava, applicando al reale puro ed alla sensazione, che è anch' essa un singolare reale, ciò che non era vero se non rispetto all' ente reale percepito; e quindi errava altresì, facendo venire dal senso l' universale, il comune, l' uno; medicando poscia alquanto col dare all' anima una potenza di fermarsi al comune, che però riponeva nelle cose. Il quale errore di Aristotele debbo dire che non fu scoperto giammai da veruno, per quanto è a mia cognizione; e perciò la spiegazione degli universali divenne lo scoglio inevitabile della filosofia, e diede origine a perpetue, inconciliabili dispute, che hanno stancati ed allassati inutilmente tutti i secoli precedenti, e disamorati gli uomini della filosofia. Perocchè i primi commentatori ripeterono press' a poco quello stesso che disse Aristotele, ed ora riposero il comune nel reale sensibile, ora nell' intelletto, ora in entrambi, senza molta coerenza, nè sospettar guari la difficoltà. Poscia, meditandosi via più sulla cosa affine di dare un' espressione scientifica e precisa alla dottrina aristotelica, vi furono di quelli che si fermarono all' unum in multis, e dissero che i reali hanno veramente in sè qualche cosa di comune e di uno; onde fecero che l' uno appartenesse all' ordine della realità, e questi furono i Realisti . Ma tantosto si separarono fra di loro. Secondo l' esposizione di Abelardo, al suo tempo essi erano divisi in due fazioni; alcuni, tenendo fermo che il comune deve essere una realità, escludevano affatto da esso ogni elemento intellettuale, e dicevano perciò che il comune, ossia l' uno, che è nelle cose, era la materia, e che il proprio era la forma delle cose (1); sistema assurdissimo, perchè faceva sì che la stessa identica materia ricevesse contemporaneamente tutte le varie forme, in cui si presentano le cose. Così scambiavano la proprietà della materia colla proprietà dell' essere ideale, che veramente identico si attua e realizza in tutte le forme, ripristinando la materia intelligibile di Platone e dei filosofi di lui più antichi. Ma il sistema veniva ad avere due facce, perocchè parlando della materia reale, esso riusciva ad un materialismo assurdo, dove il comunissimo, cioè l' intelligibile, si faceva materiale; parlando poi della materia intelligibile, riusciva ad un idealismo del pari assurdo, dove la materia reale si cangiava in idea. La seconda fazione dei Realisti sosteneva che il comune è nei reali non secondo la materia, ma secondo la convenienza della similitudine. Questi aggiungevano in tal guisa un elemento intellettivo, ma non si accorgevano affatto di aggiungere qualche cosa all' ente reale; non si accorgevano di aggiungervi l' idea, dove solamente sta la loro similitudine, perchè veduti nell' idea dell' essere, ivi si commisurano e paragonano (2); anzi credevano di non aggiungervi se non l' atto, con cui l' intelletto li riguardava, e quindi stimavano che la similitudine, veduta in essi, fosse in essi come reali, e non come percepiti ; il quale era propriamente l' errore di Aristotele (3). Ma come avviene che quando le dottrine non sono chiare e nette, non tutti possono intenderle allo stesso modo, questa seconda fazione si spartiva nuovamente in due scuole; la prima delle quali sosteneva che l' universale, riposto nei singoli reali, risultasse dalla loro collezione, e non si potesse affermare di ciascuno (1); la seconda, che nella natura di ciascun singolo si contenesse (2). E prescindendo dall' errore capitale di sostituire il reale percepito al reale puro, entrambi avevano ragione; perocchè da una parte in ciascun reale percepito, essendovi l' idea in cui si vede, vi è il comune, essendo ogni idea un tipo comune di tutti i possibili, sotto il quale aspetto aveva ragione la seconda scuola. Se poi si considera che, finchè l' intendimento non ha che un solo reale percepito, esso non può accorgersi che vi giaccia il comune, ma se ne accorge tosto che, avendo più reali percepiti, ne fa il confronto, pare che solo nella collezione di più reali, fatta nella mente e dalla mente paragonati, si scorga il comune. La differenza sta dunque fra il comune in sè, che è nei singoli reali percepiti, e il comune conosciuto dall' uomo come comune, il quale non si osserva che nella collezione, nel rapporto di similitudine, che si vede avere ciascuno cogli altri, poichè la similitudine esige più enti fra cui ella passi. Ma posciachè non era conosciuto che l' oggetto reale, in cui si trova il comune, ossia l' universale, è un oggetto misto di reale e d' ideale, essendo un reale concepito; quindi entrambi i sistemi dei Realisti prestavano dei lati deboli, dai quali assaliti facilmente rovinavano. Il che diede luogo al sistema dei Nominali, cadente nell' eccesso opposto, giacchè se i primi si fermavano nel reale, senza accorgersi dell' ideale con esso congiunto nella mente nostra, i secondi neppur essi si accorgevano dell' ideale, ma vedevano che nel mero reale non si poteva trovare l' universale e il comune; e però s' appigliavano a dire che l' universale non era che un nome (1). Abelardo adunque, che ai Nominali appartiene, tolse a rifiutare tutte e due le scuole accennate di Realisti, in questa guisa. Quella di esse che riponeva l' universale in una collezione, esprimeva male il suo pensiero, che era certamente volto a indicare la similitudine, che in più individui si trova; poichè la parola collezione denotava un numero finito di individui reali, laddove il comune si trova in tutti gli individui possibili, i quali sono indefiniti di numero. Onde Abelardo argomentava: [...OMISSIS...] . Gli argomenti erano irrepugnabili. Abbatte pure la seconda scuola di Realisti con queste argomentazioni: [...OMISSIS...] . Abbattuti così i Realisti, Abelardo trae qual necessaria conseguenza il nominalismo: [...OMISSIS...] (2). E anche al nominalismo diede occasione Aristotele coll' avere insegnata piuttosto la dialettica che la logica, e presentate le idee e le argomentazioni vestite di vocaboli, ed esposti i nessi di questi più che di quelle; onde sul vocabolo materiale si pose più attenzione che sul suo significato invisibile e spirituale, in cui principalmente contemplava la mente di Platone. Quindi i predicamenti si chiamarono le cinque voci ; e i filosofi impacciatissimi a spiegare gli universali, sui quali ogni sistema presentava difficoltà insormontabili, finirono coll' appigliarsi del tutto ai vocaboli, come ad una tavola nel naufragio, quelli surrogando agli incomodissimi universali, e così eliminandoli affatto dalla filosofia. Toglie dunque Abelardo a dimostrare che un nome comune, fino che è solo, non presenta alcun oggetto all' intelletto, ma può significarne più d' uno; quando poi è determinato dall' unione con altri vocaboli, allora significa il particolare. Ma quando viene a ricercare quale sia la causa per cui s' impongono nomi comuni alle cose, egli allora è costretto a ritornare alla similitudine dei singolari (1), che gli rimane là dura e salda come uno scoglio, senza alcuna spiegazione (2), perocchè ella è appunto una di quelle cose così facili, così naturali, che si sogliono supporre dai filosofi e trapassare; ed esse intanto nascondono nel proprio seno un sistema intero. Dopo le quali cose è tempo che torniamo a noi, e che riassumiamo: Aristotele pose che l' uno, il comune (pressochè sinonimi) sia nelle cose, unum in multis ; che in quelle anime che sono fatte a ciò, come le umane, quando ricevono per mezzo del senso l' impressione delle cose, allora rimanga in esse il comune insieme col proprio; che le medesime anime, dotate di tale facoltà, fermino, pongano mente a quel comune, astraendo dal proprio, e così formino l' uno astratto , il comune, l' universale, che è nell' anima, unum praeter multa . Questo universale ridotto alle ultime astrazioni è l' intelletto, ossia la mente, la quale viene nell' anima dal di fuori (3). Ma posciachè l' anima non potrebbe acquistare questo intelletto, se non ne avesse la facoltà, dunque, dice Aristotele, l' anima ha l' intelletto in potenza (intelletto possibile); ed acquista poscia dal di fuori l' intelletto in atto, mediante la facoltà di fermarsi al comune ed astrarlo (intelletto agente), ammettendo questo principio, che intellectus in actu est intellectum in actu . Ecco tutta la teoria dell' anima di Aristotele; la quale anima rimane sempre un atto, una perfezione, una entelechia del corpo, dalla quale si divide la mente, quando si perde la cognizione del comune, e si acquista la mente, quando quella cognizione si riceve dai dati del senso; ma l' anima stessa non è dal corpo divisibile. Secondo questa dottrina l' anima non è corpo, ma è bensì atto di corpo, cosa appartenente al corpo, indivisibile dal corpo, esistente tutta in potenza in quello spirito, che afferma Aristotele trovarsi nel seme maschile, dal quale si sviluppa secondo le circostanze, e secondo che il corpo è meglio organato; perocchè lo svilupparsi fino a venirne l' intelligenza e l' intelletto in atto, è anche questo efficienza di un corpo idoneo a ciò, che egli dice più divino . Se egli la chiama forma , non è che dal corpo realmente la distingua; la chiama sostanza , ma per sostanza intende l' ultimo atto perfezionatore di una data materia, a cui non è dato l' esistere da sè, senza la materia di cui ella è la perfezione, ossia l' entelechia (1). L' errore di Aristotele intorno alla natura dell' anima consiste, dunque, nell' « aver fatto venire il comune dalle cose reali (dal senso che le percepisce e dall' anima atta a riceverlo), invece di sollevarsi ad intendere che il comune veniva più d' alto, che esso è essenzialmente idea ; nè può confondersi colla realità, perchè ogni comune infine si riduce nell' essere comunissimo, nell' essere ideale intuìto dall' anima per natura, il quale è forma7oggettiva di essa anima ». Quindi il maestro della scuola terminò la Filosofia naturale nell' anima, dicendo di lei, che [...OMISSIS...] ; laddove l' ultima delle forme che naturalmente si conoscono, conviene cercarla veramente più oltre, perocchè ella è l' essere ideale, per sè oggetto, immensamente all' anima superiore; la quale forma costituisce il nesso naturale dell' uomo col suo divino principio. Così il filosofo, per evitare l' errore di Platone che dava alle idee la sussistenza, rovesciò sgraziatamente nel suo contrario, confondendole colle realità contingenti, colla materia e coll' anima; per timore di non fare il volo d' Icaro, egli andò a nascondersi sotterra, e chiuse a tutti quel varco, pel quale solo l' uomo può salire sicuramente alle regioni dei cieli. Tali sono, o mio Giuseppe le sentenze principali degli antichi intorno alla natura dell' anima. Io procurai di esportele fedelmente, traendole dalle loro stesse parole, o dagli scritti più autorevoli che ce le tramandarono; il che se io abbia conseguito, non bramo altro giudice che te stesso. Nè mi contentai di riferirti i sistemi chiusi nella corteccia antica delle parole, ma tentai d' inciderla e romperla, benchè spesso durissima al taglio, per iscoprirne ed assaggiarne il midollo. Osai anche di porli al cimento; non però a imitazione di quelli che, stando in sullo appuntare sottilmente gli altrui concetti, non ne proferiscono e sostituiscono alcuno loro proprio; perocchè giammai non mi è sembrato convenevole il distruggere senza l' edificare, nè verecondo è l' animo di colui che toglie a correggere, nulla avendo fatto egli medesimo. Laonde coll' esporre alla pubblica censura quattro libri intorno alla natura dell' anima, io sperai avermi acquistato qualche diritto di scrivere questo a te, nel quale le opinioni altrui diligentemente raccolte, alla mia propria si paragonano e si cimentano. Le quali opinioni quante vigilie, quanti sudori, quante meditazioni non costarono ai più alti e nobili ingegni! Eppure cercando tutti la medesima cosa, per molti secoli, non riuscì loro di pervenire ad un accordo, quasi che mentre il vero unisce gli uomini, la scienza li divida. I moderni poi ricaddero sottosopra nelle medesime opinioni, che pure li partirono in vari drappelli; nè io so, per avventura, chi fra di essi abbia prodotto una sentenza, o nuova, o almeno migliore delle accennate. Se non che l' età dei padri nostri, per più di un secolo, depose fino l' animo d' investigare la natura delle cose, dichiarandola impenetrabile e deplorando la improvvida rozzezza degli antichi, che vi si travagliavano intorno; essa più colta, astenendosi dal cercare quella dell' anima, si contentò di descriverne leggermente le sensibili operazioni. Così, se le generose fatiche dell' antica filosofia non sempre e in tutto colsero il vero, rimasero almeno perenne monumento del sommo ardore, onde i primi sapienti tentarono definire la natura, l' indole, la condizione di questo spirito che ci avviva, ci nobilita, e ci innalza fino al soglio di Dio; cui si gloriò d' ignorare tutto quel secolo passato, di filosofi pieno, che docilissimo ed altero ubbidì e servì alla voce di Giovanni Locke e degli altri suoi maestri e duci, i quali si persuasero di rendere facile la sapienza, disaggravandola, quasi nave carica di preziosi tesori in procinto di affondare, da quanto ella recava di difficile, di peregrino, di sublime, gettandone il carico dai secoli accumulato, alle onde gonfie e spumose dei sensi e delle ribollenti passioni. Le quali ricchezze, posciachè alcuni dell' età nostra già procacciano di ripescare, io volli, come ho saputo, farmi loro compagno nella pietosa fatica, come in altri miei libri così in questo. Dove se le suppellettili e gli arnesi, che si traggon fuori e si ricuperano all' attenzione degli uomini, non sono tutti oro schietto - e il saggio, a cui io stesso di mano in mano li posi, chiaramente lo dimostra - tu considera però che nel traffico filosofico non è sola ricchezza la verità discoperta, ma ancora ogni studio ed ogni lavoro della mente per discoprirla; di che le capitali questioni pur solo intavolate, le meditazioni tendenti a scioglierle, gli abbagli stessi procacciano bene, avanzano ed arricchiscono il mercato della filosofia. Ma perchè, tu dirai, l' umana mente traviò cotanto dal vero, che la narrazione dei suoi pensieri pare doversi piuttosto appellare una narrazione dei suoi errori? Non ti riuscirà guari difficile ad intendere questo fatto costante negli annali di tutta la filosofia, se tu consideri che, quantunque la mente dell' uomo coi suoi atti diretti colga il vero - e così vien esso ricevuto e collocato quasi in arca sicura, nel fondo dell' animo - tuttavia alla riflessione, che vuole poscia leggere questo vero, il quale ella ha certamente davanti, sovente traballa la vista, e le avviene di leggere una parola per un' altra dello scritto; il che le incontra sventuratamente per la continua mobilità dell' immaginazione, che la dirige coi suoi fantasmi, seguendo le leggi animali, quando l' immaginazione dovrebbe essere diretta e governata; onde pare che la riflessione non dissomigli le più volte da un padrone cieco, guidato a mano da servo capriccioso e malfido. Così avviene che la riflessione, la quale produce la filosofia, volendo riguardare l' anima per conoscere che cosa ella è, di che natura e condizione, si creda veder l' anima, e veda tutt' altro, cioè ora veda la materia , ora il sentimento corporeo , ora l' idea , ora Iddio ; e così dica a sè stessa che queste cose sono l' anima. Perocchè di questo modo nacquero quelle prime quattro classi di sistemi tutti erronei intorno alla natura dell' anima, che ti ho esposti, i quali si possono chiamare dei materialisti, dei sensisti, dei falsi oggettivisti, e dei teofisti. Il quinto sistema poi, che fu l' aristotelico, evita in parte, come dimostrai, gli errori precedenti, essendosi accorto il suo autore che l' anima non poteva essere alcuna di quelle quattro cose, le quali sono termini del suo operare. Ma là dove Aristotele pose mano a spiegare l' intelletto, cadde egli stesso in un sistema di soggettivismo contrario ai quattro primi, e massimamente contrario a quello dei falsi oggettivisti; poichè, mentre questi volevano innalzare l' anima, dandole le divine qualità delle idee, egli degradò le idee dalla loro condizione altissima, riducendole al grado dell' anima stessa e delle cose soggettive. Che se nol disse espressamente, conseguita nulladimeno dal sistema di quel filosofo, il quale concede senza esitazione l' uno , ossia il comune , alle cose reali e soggettive; onde per Aristotele l' oggettivo, ossia l' ideale, non è più che un' appartenenza dello stesso soggettivo, ossia reale; poichè ogni reale, volendo ragionare dirittamente, al soggetto si riduce. Tu pertanto, confrontando ciò che noi abbiamo esposto circa la natura dell' anima colle altrui opinioni, giudica liberamente, guidato dal tuo proprio senno, se la sentenza nostra sia preferibile alle altrui, e se in questa parte abbiamo in nulla colle nostre meditazioni vantaggiata la filosofia, la quale non si vantaggia, senza prode della sapienza e della religione.

Questioni politico religiose

645939
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Sulle categorie e la dialettica

647180
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E a tutta questa dottrina si riduce la sentenza tanto sagacemente svolta da Platone medesimo nel Parmenide e altrove, e che forma il punto eminente della sua filosofia, dialettica ed ontologica ad un tempo, che l' uno lasciato solo (la pura unità I significato) non poteva esistere, anzi era uguale al nulla, e però il «to hen» e il «ta polla» erano indisgiungibili, e questo in seno di quello essenzialmente contenuto. E vedesi qui stesso l' origine della doppia materia platonica, l' una reale, l' altra ideale. Poichè da Aristotele si rileva che Platone ammetteva una materia chiamata da lui « il grande e il piccolo », che colla partecipazione dell' uno diveniva specie o numeri (1); e Simplicio dice che poneva un indefinito anche negli intelligibili (2). Or abbiam veduto che dall' uno indefinito la mente, secondo Platone, prima trova un' idea, poi due o tre, ed ei vuole che essa non si fermi a sapere soltanto che c' è in esso un numero indefinito d' idee (grande o piccolo), ma che ne rilevi il numero definito fino all' ultimo. Così la mente dall' uno ritrae un numero prima indefinito (grande o piccolo), e poi un numero definito, e questo, partecipando l' unità (senza la quale non sarebbe numero), è la specie (3). Il numero dunque, fino a tanto che è ancora indefinito e sommerso nell' uno primo, è l' indefinito intelligibile, ossia la materia ideale; quello poi che resta, trovate tutte le unità che costituiscono il numero determinato, è la realità pura, ossia la materia reale . Ci sono dunque per Platone tre indefiniti: l' uno indefinito , che è l' uno in quanto ha nel suo seno ogni altro indefinito, e risponde all' «apeiron en dynamei» di Proclo; il numero indefinito , o la materia ideale, che risponde all' «apeiron en poso»; e il quanto indefinito , o la materia reale, che risponde all' «apeiron en peliko». Colla quale distinzione ha una stretta analogia la dottrina di Archita intorno al quanto , che da Filolao (e probabilmente anche da Archita) s' attribuiva, come vedemmo, all' indefinito. Poichè questo pitagorico, di cui Platone comperò a caro prezzo i libri, per testimonianza di Simplicio distingueva il quanto in tre generi: 1 il quanto di tendenza, o di gravità; 2 il quanto di grandezza, o di quantità continua; 3 il quanto di numero, o di quantità discreta (1). Di che si vede ragione, come la scienza del quanto, la matematica (2), penetrasse dentro la metafisica di Platone seguace dei Pitagorici, e fosse cotanto da queste scuole reputata. Ci pare dunque indubitato doversi distinguere l' uno indefinito di Platone dalla materia ideale e dalla materia reale nel suo seno contenuta potenzialmente «en dynamei», e, dipartendoci in questo da Goffredo Stallbaum, crediamo che, quando l' Ateniese filosofo comincia nel Parmenide a rimuovere dall' uno ogni moltiplicità, non parli dell' uno primo indefinito rispetto alla mente nostra e a quel che contiene, ma parli dell' unità astratta (I significato), e voglia dimostrare che così sola e nuda involge contraddizione, di maniera che rimarrebbe nulla. Rimane dunque a cercare che cosa sia la materia ideale secondo Platone. Ora essendo quella in cui si trovano poi i numeri, cioè le specie distinte, ma in cui non ci sono attualmente; convien dire ch' essa sia l' idea senza determinazioni di sorte, e questa risponde appunto a quella che noi chiamiamo « idea dell' essere indeterminato », ossia « essere ideale ». Così Platone avrebbe distinto « l' essere ideale »dall' Uno primo, che l' ha nel suo seno, come ha pure nel suo seno l' indefinita realità, cioè da Dio. Colla dialettica poi, presa nel senso di Platone, si trovano nell' idea universale le specie, ciascuna delle quali è un numero. Ma l' Uno primo è quello dove risiede l' unità come in proprio fonte, cioè l' essenza; e da quest' Uno primo si comunica la forma d' unità alla stessa materia ideale, e alle determinazioni di essa, cioè alle specie, o numeri, che così vengono collegati o contenuti nell' unità, e sono primamente specie, poi forme o essenze delle cose. Nell' Uno primo dunque e massimo si trovano immersi i primi elementi di tutte le cose mondiali, che sono: 1 l' indefinito, il più , grande e piccolo; 2 l' uno. Questi sono i due che nomina Aristotele, da cui dice secondo Platone, non dissomigliantemente dai Pitagorici, farsi le specie e le cose. Già Filolao aveva chiamato il primo «ta polla» e «thateron», e il secondo «to hen» e «tauton», denominazioni così spesso usate da Platone; e aveva detto [...OMISSIS...] . I numeri non informati dall' unità, sono le determinazioni, i determinanti; l' unità, che le lega insieme, è l' essenza, l' ente, «to on», come risulta dal luogo citato d' Aristotele. L' unione dell' essenza colle determinazioni è l' ente definito che ne consegue, chiamato da Platone nel « Filebo » «xymmisgomenon». Ma oltre questo composto, che risponde alla triade, o numero perfetto dei Pitagorici, c' è il quarto principio, la causa dell' unione [...OMISSIS...] , la quale è l' Uno primo, come vedemmo. L' uno dunque per Platone era: 1 uno in sè (l' uno nel II significato, avente un subietto indeterminato, la diade); 2 era uno causa , o potenza d' emanare l' altro (l' uno nel V significato, come principio dei numeri e delle cose); 3 era uno in altro , quando diveniva forma o essenza dei numeri e delle cose, e in quest' ultimo stato l' uno si considerava come fine o finiente (l' uno nel III significato), o come il tutto di ciascun numero o di ciascuna cosa (l' uno nel IV significato, vedi p. 6 7 7). L' uno nel primo e nel secondo di questi significati non distinti dai primi Pitagorici era l' «arithmos artioperissos» (1), benchè quelli negassero all' uno la denominazione di numero il «to proton hen» dei più recenti (2). Ci riserbiamo a mostrare altrove come i Pitagorici traessero i loro due principii, il finiente e l' indefinito , da tradizioni orientali, che ascendono fino ai primi Camiti che introdussero in Babilonia l' adorazione dei due principii, il maschile e il femminile , fondamento del primo ciclo dell' idolatria, culto che non cessò più mai fino che l' idolatria non cessò per la luce cristiana «( Teos., Ontol. categ.; Teos. , vol. IV, n. 102) ». Qui mi basta osservare che la dottrina di quei due principii, e la dottrina dei numeri che vi si riferisce, apparteneva all' Ontologia universale, cioè alla teoria dell' essere senza distinzione delle sue forme o categorie, e però: 1 Non conoscendosi ancora le primitive forme dell' essere, e da queste prescindendosi necessariamente, quella dottrina astratta conveniva ugualmente all' essere nella sua forma ideale, all' essere nella sua forma reale, e all' essere nella sua forma morale. Quindi, applicandosi senza distinzione all' essere sotto l' una o l' altra forma, ne nasceva necessariamente una moltiplicità di sensi apparentemente diversi e contrarii, e non c' era un filo che conducesse alla conciliazione (il quale non poteva essere che la distinzione delle forme primitive): indi la confusione sempre crescente del sistema, e i dissidii dei filosofi, che non potevano intendersi nè tra loro, nè con sè stessi; 2 Rimanendo quei principii nelle astrazioni, erano puramente formali, ed applicabili ugualmente alla dottrina di Dio, dell' Uomo o del Mondo; e quindi non potevano far conoscere il proprio di Dio, e il proprio del Mondo: onde ne nasceva facilmente la confusione della natura dell' uno colla natura dell' altro. Poichè si voleva (il che è proprio necessariamente d' ogni sistema filosofico), che con quei soli principii tutto si spiegasse; onde alla forma delle cognizioni riducevasi violentemente la materia: il che apparisce fino dai Pitagorici primi, che prendevano i numeri per le stesse cose reali (1). Non potevano dunque esser queste le vere categorie , od ultime classi delle entità; poichè i due principii pitagorici ripetendosi in ciascuna delle tre forme dell' essere come vedemmo, supponevano una classificazione anteriore ad essi. Laerzio nomina Clinomaco Furio, appartenente alla scuola di Megara, come il primo che scrivesse dei predicati [...OMISSIS...] , ed Archita poi scrisse il primo delle categorie [...OMISSIS...] . Dexippo Erennio ateniese (3) e Simplicio ne parlano, e quest' ultimo aggiunge, che Archita tarentino, prima d' Aristotele, divise l' ente in dieci generi, nel suo libro « «peri tu pantos» (4) »; ma Temistio attribuisce quest' opera ad un altro Archita posteriore ad Aristotele (5). Avendo pensato Archita, che l' Universo non poteva constare nè di soli finienti, nè di soli indefiniti, ma di composti degli uni e degli altri, onde diceva, che al composto appartiene massimamente l' esser sostanza (1), sentenza che Aristotele ripete come sua propria (2), poteva ridurre in sommi generi gli enti composti, di cui risulta l' Universo, distinguendo in ciascuno di essi i due elementi. Dexippo Erennio (3) osserva che Aristotele, dando il secondo luogo tra le categorie alla quantità , s' allontanava da Archita che poneva in secondo luogo la qualità , il che approva Plotino. In generale i Pitagorici, di mano in mano che applicavano i loro due principii a diversi generi di cose esistenti e in esse le riscontravano, davano loro un altro nome; e così nacquero quelle categorie, o principii, di cui parla Aristotele (4). Questa classificazione aveva il vantaggio d' esser dedotta da un solo principio, di cui mancano le Aristoteliche: che è la censura, che giustamente gli fece il Kant (5). Ma da prima, stabilito che tutti gli enti mondiali abbiano in sè l' opposizione dei due principii, furono nominate alcune di queste coppie come venivano, e senza assegnarne il numero preciso: e questo fece Alcmeone di Crotona, che viveva ai tempi di Pitagora già vecchio (6). Ma i Pitagorici poi ridussero al numero dieci tali coppie, che così da Aristotele s' annoverano: [...OMISSIS...] . A me pare, che niente altro sieno queste dieci coppie di principii se non i due originarii di Pitagora, cioè, il finimento e l' indefinito , applicati a generi di cose i più comuni e facili a presentarsi. Perchè poi si ponessero dieci coppie piuttosto che altro numero, niuna ragione intrinseca si vede nella loro deduzione, ma sembra essersi scelto questo numero per l' opinione che il numero dieci contenesse in sè tutte le cose; onde, come osserva Aristotele stesso, quando la natura non si prestava a numeri prestabiliti dai Pitagorici, essi facevano violenza alla natura, per farla ubbidire al loro sistema numerico (1). La prima coppia adunque, il finimento e l' indefinito , era come il tema di tutta la serie, i due principii universali privi ancora d' ogni applicazione. La prima applicazione si faceva agli elementi dei numeri, come principii di tutte le cose, e se n' aveva il dispari e il pari; l' uno finiente, e l' altro indefinito subietto di divisione (2). Doveva pure l' indeterminato o indefinito presentarsi alla mente in due modi, cioè or nell' uno or nell' altro, senza da principio accorgersi che fossero due. Poichè da una parte un ente qualunque privo di determinazioni è indefinito; e dall' altra le determinazioni stesse, quando rimangono slegate prive d' un subietto, sono anch' esse un indeterminato o un indefinito. Quindi, tanto il concetto d' indeterminato o determinabile, quanto quello di determinante, diveniva duplice, poichè: 1 c' era il concetto di ente indeterminato, a cui corrispondevano le sue determinazioni come determinante; e 2 il concetto di determinazioni slegate prive dell' ente, che costituivano esse pure una pluralità indeterminata, a cui corrispondeva l' ente o l' essenza come determinante e riducente ad unità. Così l' ente e le determinazioni si determinavano reciprocamente. Non mi pare improbabile che, quando i Pitagorici pigliavano l' impari come determinante nella seconda coppia, e il pari come infinito determinabile, nel primo vedessero la determinazione dell' ente, e nel pari l' ente indeterminato, onde il pari pitagorico è chiamato da Aristotele « la diade come uno », perchè in questo pari vedevano l' ente privo di determinazioni. All' incontro, quando nella terza coppia ponevano l' uno come determinante e la pluralità come infinito determinabile, nell' uno concepissero l' ente in quanto determina e unisce la pluralità delle sue determinazioni. Avendo dunque concepito Platone il determinante e l' indefinito determinabile sotto questo secondo aspetto, egli pose l' essenza e l' ente, cioè l' uno come determinante, e la diade, la pluralità, il grande e piccolo, come indefinito determinabile. Dal che risulta, che Platone non avrebbe già scambiata, come dice Aristotele, la diade come uno dei Pitagorici nel « grande e piccolo »; ma si sarebbe appigliato alla terza coppia delle opposizioni pitagoriche anzichè alla seconda. La quarta coppia, « il destro e il sinistro », è un' applicazione de' concetti di finiente e d' indefinito alle relazioni di luogo, e risponde alla settima categoria d' Aristotele ( «keisthai»). Pigliavasi il destro come il lato più nobile o la situazione più perfetta delle cose, e il sinistro il contrario; e riputavasi mancante di determinazione il sinistro, perchè si considera sempre la determinazione come perfezionante; onde le determinazioni che rendevano imperfette le cose, non si consideravano come determinanti, ma come bisognose d' essere determinate. Onde la materia, a ragion d' esempio, sciolta e disordinata consideravasi come informe , benchè informe al tutto non potesse essere; ma andava priva di quella forma e determinazione che doveva avere (1). Nella quinta coppia, « il maschile e il femminile », si vedono applicati i concetti primitivi di determinante e indeterminato alla generazione e ad ogni produzione; e ben dimostrano l' origine antichissima del sistema, essendo i due principii, l' attivo e il passivo, rappresentati nel maschio e nella femmina, i più antichi Iddii dell' umana superstizione. Nella sesta coppia, « il quieto e il mosso », i concetti di finiente e d' indefinito s' applicano a uno de' fenomeni più importanti e universali, qual è quello del moto , preso in senso generalissimo che rappresenta ogni mutazione. Il moto , ossia la mutazione, fin che dura, è indeterminata, moltiplice, variabile: la quiete si prendeva come il termine del moto, quello che determinava il subietto che si move ad una condizione stabile e certa. Da questa coppia di principŒ traggono origine le tante discussioni de' primi filosofi per sapere « se tutto si movea », come pretendeva Eraclito ammettendo solo il principio dell' indeterminato , o « tutto stava », come sostenevano gli Eleati ammettendo il solo principio del determinato , ovvero « se tutto che ci avea nell' universo fosse moto e quiete », come insegnavano i Pitagorici co' loro due principŒ. Alla rettezza e stortezza delle linee si vedono applicati nella settima coppia i concetti di finiente e indefinito, considerandosi la stortura come una mancanza di perfezione, e una moltiplicità indeterminata, essendo una la retta, molte le curve. La curva dunque si considerava come bisognevole di ricevere il finimento della rettitudine. Nell' ottava coppia s' applicano gli stessi concetti alla luce e alla tenebra, presa quella e questa in senso latissimo, e però altresì come indicanti lo scibile e l' ignoranza. La tenebra presenta uno spazio dove niente è determinato o definito: la luce, facendo vedere lo spazio buio, gli dà le forme e lo determina. Questo ci chiama alla mente la specie «eidos, idea» di Platone, il viso di Cicerone. Le specie risultano per Platone dalla materia ideale che venendo determinata presenta alla mente un visibile, un apparente, una specie in somma: così gli enti speciali escono dall' oscurità primitiva dell' indefinito in cui giacciono. Non è che l' idea dell' essere, la materia ideale di Platone, sia tenebra rispetto a sè; ma nasconde ogni ente determinato nel suo seno: e però quest' ente, fino a che non riceve le determinazioni, è come sepolto in fitta notte. Viene la nona coppia, « il male e il bene », quello considerato come indefinito, cioè come una privazione delle determinazioni che dovrebbe avere. Mi sembra Aristotele aver tratto il suo principio della privazione da questo appunto, che i Pitagorici considerarono come privo di determinazioni tutto ciò che era difettoso, come vedemmo anche parlando della quarta e settima coppia. Finalmente nella decima coppia s' applicarono i due principŒ alle figure geometriche, e si considerò il parallelogramma come indefinito, perchè si può estendere da un verso più che dall' altro senza misura determinata, laddove il quadrato ha una proporzione stabile d' uguaglianza tra i suoi lati. Non si deve confondere la questione degli elementi degli enti con quella delle classi degli enti . L' espressione « elementi degli enti », ontologicamente presi, importa che per elemento s' intenda ciò che non è un ente da sè, ma è uno degl' ingredienti di cui qualche ente si costituisce (2). I primi Italici, come risulta dal capo precedente, s' applicarono piuttosto alla questione degli elementi, seguendo l' avviamento degli Ionici, che non a quella della classificazione degli enti. Ed era facile il confonder quella con questa, come le confuse Aristotele stesso, che nelle Categorie, cui chiama anche « generi dell' ente », divide l' ente in sostanza e accidente , i quali son due elementi di cui si compongono o tutti o certo molti degli enti finiti. Nasceva questa confusione dall' ambiguità della espressione « generi degli enti », che sembrava dover significare « delle classi generiche degli enti », e anche « delle qualità universali »che si predicano di molti enti. Ora la qualità universale non è l' ente, ma solo qualche cosa che all' ente appartiene (1). E però Aristotele stesso non ricusa assolutamente di chiamare elemento « « quello che è al sommo grado universale, poichè è uno e semplice in molti, o in tutti, o in moltissimi » ». [...OMISSIS...] . Il qual luogo è consentaneo al suo sistema, che in opposizione a Platone nega l' esistenza delle idee separate dalle cose, e però non possono essere che appartenenze (elementi) delle cose stesse. I quattro principŒ dunque de' Pitagorici e di Platone, che si considerano come classi o sommi generi degli enti, non sono propriamente tali: ma i due primi, la monade e la diade, sono elementi; la triade, cioè il definito, o, come lo chiama Platone, «to xymmisgomenon», è l' ente finito; il quarto principio poi, o la causa, è l' ente infinito. Onde, a propriamente parlare, due sono le supreme classi o categorie platoniche: quella dell' ente finito , che consta de' due accennati elementi; e quella dell' ente infinito che è uno perfettamente. Ma si possono nondimeno chiamare tutt' insieme i quattro cogitabili pitagorici. Di più abbiamo indicato come Platone concepisca quest' ente Uno, causa di ogni ente finito, che è chiamato anche semplicemente l' Uno. Quest' Uno, come abbiamo veduto, ha nel suo seno indivisibilmente uniti i due elementi dell' ente finito, cioè il finimento e l' indefinito (quest' è il grande e piccolo): il primo quand' è uscito è il quale , il secondo è il quanto . Il che rammenta l' ordine delle categorie d' Archita (se si dee credere a Dexippo, Simplicio, e Boezio), che poneva la qualità come la seconda, e la quantità come la terza: ordine, cui Aristotele disse rovesciato, che pose la quantità ( «poson») come la categoria prossima alla sostanza, e appresso ad essa la qualità ( «poion») (1). Ma Plotino preferisce l' ordine d' Archita e di Platone, che è consentaneo al pitagorico. L' inversione per altro che s' attribuisce ad Aristotele, se pur è vera (1), si potrebbe spiegare così, che, dipendendo la qualità dalle forme e dalle idee e la quantità dalla materia, nel sistema Aristotelico, in cui si negano le idee separate dalla materia, esse doveano collocarsi dopo di questa, di cui sono, quasi direbbesi, un atto accidentale, di cui la stessa materia è il subietto. L' Uno dunque causa prima, è l' uno nel secondo significato, a cui si dà un subietto massimo. In questo subietto massimo c' è il bene, che avendo natura diffusiva, fa sì che un tal uno emani i due elementi: 1 il finimento, 2 l' indefinito, e di essi componga gli enti mondiali (2). Il finimento, per Platone, è l' idea specifica , che unita all' indefinito diviene forma: questa forma rispetto alle menti è la specie che rende visibili, cioè intelligibili gli enti: l' indefinito è la materia, cioè quell' elemento che ricevendo la forma diviene un subietto reale, e insieme colla forma costituisce l' ente. Ma l' idea stessa procede dall' Uno supremo per gradi: poichè anch' essa primamente è indefinita e indeterminata, materia ideale (a cui risponde il nostro essere ideale ); e questa materia ideale è una pluralità indefinita e confusa, il numero indeterminato o piuttosto potenziale. Ha bisogno dunque questa materia ideale di essere determinata, ossia di ricevere anch' essa una forma. Ora questa forma è l' uno partecipato dall' Uno supremo. Ma quest' uno partecipato [...OMISSIS...] raccoglie in sè e unifica più o meno di quella pluralità indefinita e confusa che è nella materia ideale, e che anche si chiama « il grande e piccolo », e stringe piuttosto questa parte che quell' altra; onde dall' applicazione varia dell' uno a quella pluralità indefinita, che è nella materia ideale, s' hanno i numeri determinati e le specie , e queste specie così costituite sono anch' esse forme all' ultima materia, cioè alla materia reale. Ora questa materia reale , benchè non abbia più numeri nel suo seno, pure ha una quantità indefinita , e però anche ad essa spetta la denominazione di « grande e piccolo ». Le specie dunque o numeri come forme s' applicano e congiungono a un quanto maggiore o minore della materia reale, e così producono i varŒ enti reali, di cui l' universo si compone [...OMISSIS...] . Questa è una deduzione ontologica degli enti mondiali dalla prima causa, ma è proprio di Platone l' avervi aggiunto la dialettica (1), parte simile, parte dissimile da quella. Poichè anche quello, che in suo essere è già formato e definito, al primo affacciarsi della mente umana si presenta come un uno indefinito, e questo risponde all' indefinito come uno [...OMISSIS...] de' Pitagorici, da distinguersi dall' Uno primo e assoluto, causa di tutto. Circa l' uno indefinito dunque, che si presenta alla mente, la dialettica di Platone fece due cose: 1 Scompose l' uno dall' indefinito e mostrò che a) l' uno separato così da ogn' altra cosa, cioè la pura unità astratta , non potea concepirsi eistente, senza incorrere in quelle contraddizioni che svolge nella prima parte del Parmenide; b) l' indefinito così separato dall' uno rimanea pure per sè inintelligibile, e quindi anche impossibile. 2 Insegnò ad esercitare sovr' esso, cioè sopra l' uno dialettico, l' analisi, e ciò in due modi: a) trovando in esso tutto ciò che ci si potea distinguere; quindi in ogni genere, che è appunto un uno dialetticamente indefinito , tutte le specie, e nelle specie tutte le qualità distinguibili: queste qualità distinguibili informate dall' uno costituivano un numero solo, che era la stessa specie, e perciò diceva che la specie è un numero informato dall' unità; b) e trovando finalmente sotto le specie gl' individui reali, che divisi dalle specie rimanevano indefinibili, niun altro numero potendosi trovare in essi: e quindi ad essi cessava ogni analisi del pensiero, rimanendo così nel fondo della speculazione una materia (realità) oscura, non atta più ad essere intesa, venendo tutta la luce dalle sole specie (1). Dalle quali cose si raccolgono i diversi significati in cui è preso l' uno da Platone, cioè: 1 l' uno puramente mentale , com' unità formale, separata da ogni pluralità, prodotto soltanto dal pensiero astraente; 2 l' uno dialettico , l' uno indefinito (genere più o meno esteso), su cui s' esercita l' analisi dialettica; principio de' numeri o specie , e per mezzo di queste e della materia reale principio degli enti reali definiti; 3 l' uno partecipato dalle specie, costituente le essenze speciali , che sono poi partecipate dagli enti reali (individui); 4 l' uno primo e supremo , causa suprema, Dio. Ora Platone, che alla dialettica riduce tutta la professione del filosofo (2), parla degli enti alternativamente, ora in modo dialettico, ora in modo ontologico, e ciò perchè, come dice Aristotele, [...OMISSIS...] . Il che però non vuol dire che il modo di essere delle cose sia uguale in tutto al modo di concepire della mente umana. E questa è una delle cause dell' oscurità di Platone e di Aristotele stesso, parlando questi filosofi ad esempio di quelli che li precedettero con principŒ così universali e formali, che convenissero ugualmente al concepire e all' essere delle cose; onde, quando applicano al primo lo stesso linguaggio, e poi l' applicano al secondo, esso cangia di significato, e diventa equivoco ed analogico: oltre altre difficoltà e ambiguità che nascono per via. Applicando dunque questa osservazione ai diversi significati ne' quali Platone adopera il vocabolo uno , «hen», consideriamo l' uno dialettico . L' uno dialettico, cioè quello su cui Platone insegna ad esercitarsi l' analisi dialettica, è duplice, com' è duplice la materia: talora prende a subietto dell' analisi l' uno che ha nel suo seno la materia ideale, talora l' uno che ha nel suo seno anche la materia reale e sensibile: indefinita l' una e l' altra: dal primo si traggono le specie o numeri, dal secondo, colla partecipazione di queste, gli enti reali. Quindi l' analisi dialettica finisce in due modi: 1 quando nell' uno dialettico ideale , dopo aver trovate tutte le differenze o specie elementari, finisce nelle ultime unità (specie piene), non restando più in queste ultime unità che la materia ideale vestita d' unità, cioè l' indefinito che rimane in fine indefinibile: 2 quando nell' uno dialettico reale , dopo aver trovate pure le differenze, generi, specie, fino a quella che noi chiamiamo specie piena e che non ammette altre specie inferiori, rimane questa partecipata dalla realità, cioè s' è pervenuto col pensiero agl' individui reali, nei quali non c' è più altro da distinguere, rimanendo così nel fondo alla speculazione la materia pure indefinibile. Comincia dunque la dialettica ad esercitarsi sull' indefinito e finisce pure nell' indefinito. L' indefinito, da cui comincia, è definibile, e quest' è quello che dà occasione al lavoro dialettico; l' indefinito, in cui termina il lavoro dialettico, è l' indefinibile, puramente materia. Ma la materia ideale è fonte di luce intellettiva, la materia reale di tenebre; e questo risponde all' ottava coppia delle categorie pitagoriche, luce, tenebra [...OMISSIS...] . La materia ideale ontologicamente ha in sè tutte le specie o numeri definiti, ma questi per l' uomo rimangono nascosti a principio, cioè quella presentasi all' uomo come indefinita. Quindi c' è bisogno che la mente umana trovi tali specie o numeri. Trovate queste specie , ciascuna delle quali raccoglie in sè un certo numero di qualità e differenze, la riflessione filosofica considera che, se il numero trovato non fosse tenuto insieme dall' unità , quel numero rimarrebbe indefinito, e come tale oscuro; non sarebbe ancora specie , che vuol dire visibile, intelligibile (1). Conchiude dunque che il numero partecipando dell' unità come sua forma diventa specie . La materia reale all' incontro, non avendo in sè alcun numero, ha bisogno di parteciparlo, il che da' Pitagorici dicevasi un' imitazione de' numeri ( «mimesis»), perchè la materia stessa a' numeri si conforma; da Platone poi fu detta partecipazione delle specie (2) ( «methexis»), onde le specie rimanevano distinte dalle cose , come il partecipabile dal partecipante . Non dunque il solo uno , non la sola materia era per Platone il subietto dialettico, chè que' due elementi così staccati rimanevano infecondi; ma sì l' uno , per la mente, indefinito , cioè avente nel suo seno una materia ancora indefinita. Da quest' uno si deducevano dialetticamente degli altri uni simili al primo; per esempio, se era un genere quello su cui s' esercitava la dialettica, si deducevano le specie. E dico uni simili al primo, in quanto che gli uni dedotti contenevano anch' essi i due elementi del primo, cioè si componevano: 1 di materia (essenza indefinita); 2 d' unità che costringeva quella e l' informava. Ma le ultime unità non potendo più produrre di sè altre unità, essendo così il numero esaurito, contenevano soltanto i detti due elementi, che in tutte le unità ricompariscono. Ora l' uno dialettico , cioè quello che il filosofo pigliava a esercitarvi sopra l' analisi, variava, poichè esso non indica un oggetto fisso, ma un genere d' uni dialettici: su qualunque di questi uni che il filosofo potesse prendere a considerare, ei dovea esercitare la dialettica allo stesso modo, colle stesse operazioni. Potea dunque il filosofo prendere un uno dialettico più o men copioso, e trovarci un numero più o men grande: fin qui la dialettica. Vediamo ora dove cominciava l' ontologia, e da quella c' era il passaggio a questa. Quando il filosofo, in vece di prendere un uno qualunque a caso per esercizio dialettico, sceglie, tra questi uni possibili ad analizzare, quello la cui analisi fa conoscere l' intima costituzione dell' essere o dell' ente come tale, allora dalla dialettica stessa egli è introdotto sul territorio dell' ontologia. E, rilevato una volta che la costituzione dell' ente deve essere necessaria, tale cioè che, supposto in essa un qualche cangiamento, l' ente rimarrebbe annullato; è facile altresì conoscere che, trovata una proprietà dell' ente, qualunque questa fosse, essa non si può rimaner sola, ma deve involgere la condizione di tutte l' altre, chè da tutte insieme risulta quella costituzione necessaria dell' ente. Ora la prima proprietà dell' ente e la più semplice e facile a concepirsi dalla mente, è che sia uno . Dalla meditazione dunque del puro uno si potea pervenire ragionando a trovare tutte l' altre proprietà elementari dell' ente, e questo è quello che fa Platone nel « Parmenide » e nel « Sofista » di proposito, e su cui torna spesso negli altri dialoghi. Nella seconda parte del « Parmenide » (1), Platone stabilisce l' ipotesi che l' uno sia; e, dato per vero che sia, arguisce dall' esserci l' uno , che è necessario che ci siano i molti come sua condizione, altramente non sarebbe, contro l' ipotesi assunta che sia. Questa è la prima e fondamentale Antinomìa del sistema di Platone, ed è la terza coppia delle dieci che Aristotele attribuisce ad alcuni Pitagorici, «hen kai plethos». Egli move dal principio, che se l' uno è, dee partecipare dell' essenza , cioè dell' essere: onde già si distinguono colla mente due elementi: 1 l' essere, l' essenza, la materia; 2 l' unità, l' uno. L' uno è il finimento, secondo Platone, l' essenza è l' indefinito: la prima coppia, «peras kai apeiron», delle dieci pitagoriche. Di che conchiude, che quell' uno, poichè ha l' essere, è un ente; e questo ente è un tutto avente due parti elementari, l' uno e l' essere, che diventano due suoi predicati , potendosi predicare di quell' ente tanto l' uno quanto l' essere. E questi sono i due predicati ( «kategoremata») fondamentali di Platone. Qui dunque abbiamo già tre cose distinte colla mente: il tutto, e le due parti «to hen kai to on». Ma, quando la mente considera queste due parti dell' ente uno o dell' uno ente ( «tu henos ontos»), può ella considerarle separatamente senza che, quando pensa l' uno come parte, nol pensi esistente come tale, e quando pensa l' ente pure come parte dell' ente uno, nol pensi uno? Impossibile. Dal che conchiude Platone che l' uno involge in sè una moltitudine infinita ( «apeiron plethos»), poichè, essendo per necessità uno ed ente, cioè avendo due elementi in sè, e ciascuno di questi dovendo anch' essi avere l' unità e l' esistenza come loro elementi, essendo queste condizioni senza le quali non si potrebbero concepire, risulta che col ripetere lo stesso discorso si potrebbero distinguere elementi all' infinito. Di più ne trae la prima Antinomia speciale: cioè nell' uno essente ci sono necessariamente in un modo implicito tutti i numeri pari e dispari, la seconda coppia pitagorica «peritton kai artion». Poichè, dice, se due sono gli elementi dell' uno ente , cioè l' uno e l' ente (e il medesimo convien dirsi di ciascun elemento considerato da sè), dunque c' è nell' uno il due. Ma poichè quegli elementi sono congiunti da un nesso indissolubile, il qual nesso è un terzo elemento, dunque c' è anche il tre. C' è dunque il pari e il dispari [...OMISSIS...] . Di più, nel due c' è due volte l' uno, e nel tre tre volte . Ci sono dunque dentro i concetti di due e di tre , e di due volte e di tre volte . Onde c' è il due replicato, perchè c' è il due , e il concetto della duplicazione dell' uno; e c' è il tre triplicato, perchè c' è il tre, e il concetto della triplicazione dell' uno. Di conseguente c' è anche il concetto di tre esistenti e di duplicazione, e di due esistenti e di triplicazione; e perciò c' è il concetto di tre due volte, e di due volte tre, e però i pari presi un numero pari, e i dispari presi un numero dispari, e i dispari presi un numero pari, e i pari presi un numero dispari: onde non resta escluso nessun numero, ma tutti si trovano nel seno dell' unità esistente (1). Abbiamo veduto e risulta da tutto questo discorso che ciò che Platone chiama « essenza », «usia», è quello che noi chiamiamo « essere ideale », considerata da Platone come la materia universale delle idee di cui l' uno è la forma. Ora da quello che segue s' intende perchè egli dava a questa materia delle idee la denominazione di « grande e piccolo ». Egli ha dimostrato, che l' uno non può esistere come uno puramente, perchè non esisterebbe se non avesse l' essere, cioè l' essenza, che è qualche cosa di diverso dal puro uno: del pari l' essenza non può esistere senz' esser una: di che viene che l' essenza è il principio della moltiplicazione dell' uno, occupando ella, dopo l' uno, il secondo posto, e così meritando il nome di diade. Questo ragionamento, col quale Platone speculando sul puro concetto di uno, e preso per ipotesi che sia, trova per sua condizione prima la diade, e poi la moltiplicazione indefinita per mezzo di questa, merita d' essere da noi attentamente considerato. Dopo aver dunque dimostrato che nell' uno essente si trova logicamente il concetto di tutti i numeri essenti anch' essi, prosegue così: [...OMISSIS...] . Dove si trova la vera spiegazione del perchè Platone chiamava la materia ideale « il grande e piccolo », e mi fa maraviglia che Aristotele non l' accenni, e che un passo sì chiaro sia sfuggito a molti eruditi, che hanno cercato la ragione di quella denominazione (1). Poichè l' essenza, come in appresso dimostra, non potendo stare senza l' uno, e nell' uno essente essendoci i molti, conviene che l' essenza sia tra questi molti, grandi e piccoli, distribuita, e che non possa stare di conseguenza senza il grande e il piccolo. Ed essendo ella stessa quella che mette nell' uno la pluralità, consegue che da lei si deva ripetere il grande e il piccolo, e che con questa denominazione si chiami. Essendo dunque l' essenza distribuita in parti, e non potendo essere ciascuna parte se non sia una, conchiude che « « lo stesso uno, distribuito dall' essenza, sia molti e un' indefinita moltitudine » (2) »; e non solo l' ente uno ( «to on hen»), « « ma lo stesso uno ( «auto to hen») sia molti » », poichè « « nè l' ente può mancare mai all' uno, nè « l' uno all' ente, ma questi due piuttosto in tutto s' adeguano »(3) ». Così si spiega, secondo Platone, l' origine dei numeri dall' uno mediante l' essenza seco indivisibilmente congiunta, cioè mediante l' essere, che pur è diverso dall' uno. Trovata nell' uno essente la moltiplicità, è trovato il concetto di parte , perchè tutti gli elementi, di cui consta l' uno, sono come parti di lui. Di conseguente anche il concetto di tutto , perchè l' uno è il tutto di queste parti. Ora il contenente ( «to periechon») è il termine, il finimento ( «peras») del contenuto (4): dunque l' uno come tutto, e però contenente, è il termine, il finimento del più, perchè lo comprende e lo unifica in sè; il che fa ben intendere in che modo Platone diceva, come ripete Aristotele senza spiegarlo, che l' uno è la forma delle specie e de' numeri. E che l' uno sia tutto e parte, contenente e contenuto è la seconda Antinomìa speciale. Di qui Platone deduce che l' uno essente è determinato e indeterminato ad un tempo sotto diversi aspetti (ed è la terza Antinomìa speciale): poichè è determinato in quanto che il complesso delle parti o elementi che contiene sono raccolti e compresi nell' uno tutto, ed è indeterminato in quanto che la moltitudine che contiene da sè presa è indeterminata. [...OMISSIS...] Dal che si conferma quello che dicevamo, cioè: 1 Che l' uno per Platone è per sè solo un concetto anteriore a quello degli elementi del Mondo; 2 Che esso è anche definiente ( «to perainon»), e perciò fine o termine ( «peras»), in quanto comprende in sè l' altre cose (1 elemento); 3 E` anche molti , e in quant' è molti contiene la moltitudine indefinita, e perciò è «apeiron plethei» (2 elemento); 4 Se questa moltitudine indefinita si considera da sè, facendo astrazione dall' uno che la contiene, essa rimane l' indefinita diade, il grande e il piccolo; 5 Quest' indefinita moltitudine è l' essere che si distribuisce secondo le parti grandi e piccole, più o meno numerose. E` da considerare che questi discorsi sono messi da Platone in bocca a Parmenide, e che uno degli scopi di tutto il dialogo è quello di dimostrare, contro i Megarici, che la dottrina eleatica, esposta che fosse con una logica esatta, riusciva la medesima con quella da lui professata, e che non si poteva intendere altramente, qualora si volesse mantenere la coerenza del raziocinio: altramente diventava assurda e non si potea più sostenere. Partendo dunque dal principio di Parmenide che l' ente sia [...OMISSIS...] , e che sia uno [...OMISSIS...] ; spiega sotto quali diversi aspetti Parmenide potesse ammettere che l' ente uno fosse ad un tempo determinato e indeterminato. Ora, continuandosi a tener dietro al carme « «peri physeos» » e dandogli un' interpretazione ragionevole, Platone non ricusa d' attribuire all' ente uno la figura, giacchè Parmenide nel suo carme lo vuole sferico, della quale sentenza si giova altrove Platone per dimostrare che deve contenere una pluralità (2), attirando anche con questo uncino la sentenza eleatica dell' uno, alla sua dell' Uno molti. Dopo aver dunque provato, che l' uno è un tutto determinato in questo senso, che la moltitudine che contiene, e che è lui stesso, è sempre contenuta dall' uno, nè sta mai da sè sola (se non per un' astrazione della mente), e però è compartita e distribuita in moltissime parti [...OMISSIS...] grandi e piccole, deduce che questo tutto determinato dee avere i suoi estremi, e principio, mezzo, e fine, e il mezzo essendo equidistante dagli estremi, dee essere partecipe di figura, sia poi retta o rotonda o mista (1), dove si può rammentare la decima coppia pitagorica [...OMISSIS...] , e nello stesso tempo la forma sferica data all' ente da Parmenide; Platone abbraccia tutte le figure rammentate dai suoi predecessori, e v' aggiunge non senza significato la mista , che è come mediatrice e vincolo delle due prime. Questa figura, data da Platone all' ente, da alcuni interpreti s' intende detto in senso metaforico a quel modo che i logici danno l' estensione alle idee (2), mossi specialmente dal considerare che Platone vuole che il filosofo rimova nello studio dei numeri e delle figure geometriche ogni materia corporea (3). Il che però non appaga pienamente, chè rimane lo spazio figurabile ammesso da Platone come medio tra le idee ed i corpi. Credo doversi piuttosto considerare, che qui Platone parla dell' uno ente vago e informativo (4); e lo considera sotto i varŒ suoi aspetti, ora in sè, ora come partecipabile delle cose reali. Dicendo dunque, non che l' ente sia figura, ma che sia « partecipe della figura », reputò doversi intendere che l' ente è tale che « può partecipare anche della figura ». E parmi indubitato che Platone tra la materia ideale e la materia corporea ammetteva una terza materia, cioè la matematica , e però un terzo indefinito, che era lo spazio, del quale ricevendo il finimento, venivano le figure geometriche , poichè facendo egli venir tutto da' due elementi, anche le figure geometriche, è conseguente che avessero il loro indefinito e il loro finimento: e anche in questi per la stessa ragione si trovava l' uno finiente, e il più definibile. Essendo dunque l' uno essente necessariamente un tutto con pluralità di parti nel suo seno, e con principio, mezzo e fine, qualora si supponga informativo d' una materia a ciò acconcia cioè spaziosa, era suscettibile di figura, cioè di esistere come figurato: e questo è il nesso che in Platone congiunge la Geometria alla Metafisica (1). Passa a dimostrare un' altra proprietà dell' uno essente, quella ch' egli è in sè, ed è in altro; ed è una quarta Antinomìa speciale. E lo dimostra partendo da due concetti, che convengono all' uno. Poichè l' uno si può prendere 1 come tutto, 2 come le parti unite [...OMISSIS...] . Ora l' uno, preso come il complesso delle parti, e contenuto nell' uno preso come tutto; perchè le parti sono nel tutto: dunque l' uno è in se stesso, l' uno è nell' uno [...OMISSIS...] . Il che s' intende non solo di tutte le parti, ma anche d' un gruppo d' esse, e di ciascuna, perchè ciascuna è un uno contenuto nell' uno tutto . Ma l' uno preso come tutto , non è nell' uno preso come parti unite, dunque l' uno non è nell' uno, dunque è in altro. Questa illazione, che non essendo l' uno tutto contenuto nell' uno parti, dunque deve essere in altro, dimostra che si considerava il dove come una proprietà essenziale dell' ente. Poichè domanda Platone: « « Se non fosse dovechessia, non sarebbe egli nulla? »(3) ». E si fa rispondere: « necessariamente ». Quindi l' origine della categoria aristotelica «to pu». Ristretta questa a significare un luogo nello spazio, non è ontologica se non potenzialmente; non essendo necessario che l' ente sia in un luogo, il che appartiene solo a quegli enti speciali che sono o agiscono di necessità nello spazio. Ma potenzialmente è ontologica in questo senso, che non ripugna all' uno informativo, ch' egli informi una materia estesa o avente coll' estensione una relazione necessaria (1). Ma è da considerarsi di più, che gli antichi, come al moto , così al dove davano un significato più esteso che quello che si restringe allo spazio o a' corpi; onde rimane a cercare che cosa sia quest' altro, in cui dice Platone che dee essere l' uno ente considerato nel suo concetto di tutto (2): e viene in mente di togliere la risposta da quello che dice Dante dell' Empireo: [...OMISSIS...] . E che così l' intenda Platone si ha manifesto dal Timeo, dove Dio è chiamato «o to pan xynistas» (4), come altrove è da lui chiamato mente «nus» (5), e ragione «logos» (6). Onde dice, l' universo reale esser fatto sull' esemplare di quello che nella sola ragione e nella sapienza si contiene, [...OMISSIS...] . E ancora dice, che il Mondo reale fu fatto da Dio come un solo vivente simile al Mondo intelligibile che è pure un solo animale intelligibile, il quale contiene tutti gli altri animali come parti « « secondo l' uno e secondo i generi » » [...OMISSIS...] ; il mondo intelligibile poi, essenza del reale, è contenuto nella mente divina. Onde non rimane a dubitare che il contenente del tutto reale sia il tutto intelligibile, che lo informa e che nella divina mente rimane. Dall' esser poi l' uno sotto il rispetto materiale, cioè delle parti, in se stesso, cioè nell' uno formale; e sotto il rispetto formale, cioè come tutto contenente le parti, in altro, cioè nella mente di Dio: deduce Platone che l' uno essente ha due altre proprietà apparentemente opposte, cioè quella di stare , e quella di moversi (quinta Antinomìa speciale), che risponde alla sesta coppia pitagorica [...OMISSIS...] : dove la quiete e il moto sono concetti presi in senso universalissimo, non nel senso ristretto di moto locale, che è soltanto una specie de' varŒ moti che distinguevano gli antichi. Dice dunque che l' uno sta in quanto è in se stesso, e si move in quanto è in un altro. [...OMISSIS...] . Il che così si può intendere: « Le parti, cioè gli uni inferiori, essendo nell' uno tutto, ricevono da quest' uno tutto la loro stabilità, perchè sono in esso come uno nell' uno; ma l' uno, secondo il concetto di tutto, essendo in altro, cioè nella mente divina, conviene che di continuo si discerna da essa, e perciò da essa emani continuamente come forma, cioè come quell' uno che tutto contiene ed aduna »(uno nel IV significato). Ond' anche deduce che l' uno, rispetto a sè, è il medesimo ed è diverso; e così rispetto all' altre cose, cioè al più, è il medesimo ed è diverso (sesta Antinomìa speciale). Rispetto a sè, lo prova in questo modo. La relazione possibile d' una cosa ad un' altra non può esser che quadruplice: 1 o che sia la medesima; 2 o un' altra; 3 o sua parte; 4 o suo tutto: chè la parte non è nè un medesimo nè un diverso dal tutto, e così il tutto non è nè un medesimo nè un diverso dalla parte. Ora lo stesso uno non è nè parte di se stesso, nè tutto di se stesso, quasi di parti; nè l' uno è altro dall' uno. Dunque egli è il medesimo con se stesso . Ma sotto un altro aspetto è anche diverso da se stesso, cioè sotto l' aspetto di tutto che unisce in se le parti. Poichè come tale abbiam veduto lui non essere nelle parti, cioè nell' uno materiale, ma in altro. Ora quello che esiste in un altro diverso da sè, è uopo che sia un altro diverso da sè [...OMISSIS...] . Il che viene a dire che l' uno tutto, forma delle cose, come essente nella mente divina, è diverso dall' uno stesso emanato da quella mente, e imposto come forma alle cose, ha un altro modo di essere. Onde l' uno non solo è il medesimo a se stesso, ma anche da sè diverso. Rispetto all' altre cose prova del pari che l' uno è il medesimo con esse, e con esse diverso. Poichè quali sono l' altre cose? quelle che non sono uno. Ma l' uno è diverso da ciò che non è uno. Dunque l' uno è un diverso all' altre cose, cioè al non uno. Ma in un altro aspetto l' uno è anche il medesimo coll' altre cose che non sono uno. E lo prova dimostrando: 1 che l' uno non può esser qualche cos' altro dal non uno; 2 che non può esser sua parte; 3 e non può esser suo tutto: di che conchiude che l' uno dee essere il medesimo col non uno . Prova che non è altro dalle due nozioni d' identico e di diverso . Il diverso, dice, non può esistere nell' identico in quant' è identico, nè pure un istante. Ma le cose che sono, sono identiche finchè sono quelle che sono. Dunque in niuna di quelle cose che sono [...OMISSIS...] può esistere l' altro. Dunque l' altro non può esistere nell' uno essente, e però nè pure nel non uno; poichè se in questo ci fosse, già ci sarebbe anche nell' uno, chè il predicato diverso è reciproco (1). Di poi dimostra, che l' uno non può essere parimente una parte del non uno, e nè pure tutto del non uno, perchè in tal caso il non uno parteciperebbe dell' uno (2), e così cesserebbe d' esser non uno, contro l' ipotesi. Dal che conchiude che, se l' uno non ha la relazione di diversità dal non uno, nè quella di parte, nè quella di tutto, per modo che il non uno, restando non uno, sia una sua parte; rimane che l' uno sia il medesimo col non uno . La qual conclusione, benchè sembri strana, consuona però col principio messo da prima, cioè che tutte le parti insieme sia l' uno. Ora le parti in quanto sono moltiplici sono non uno: dunque il non uno è il medesimo uno. Il che è quanto un dire: « la domanda se l' uno sia diverso o identico col non uno, non può farsi, se si supponga che il non uno non esista, sia nulla: voi supponete dunque che il non uno sia qualche cosa: ma non può esser qualche cosa se non per l' uno che non abbandona mai l' esistente. Ora se il non uno esiste e quindi è uno, già si vede che esso è uguale all' uno, perchè altro non può essere che le parti informate dall' uno. Laonde le parti informate dall' uno, e quindi essenti, se si considerano puramente come parti, astraendo dall' uno; ma non negandolo di esse, sono non uno; ma se si considera come il non uno possa esistere, ritornasi col pensiero all' uno, poichè si vede che la condizione della loro esistenza è che sieno uno. Sotto questo aspetto dunque l' uno vedesi uguale a ciò che si dice non uno ». Trae di qui un' altra proprietà dell' uno, e una settima Antinomìa, attesi i varŒ suoi aspetti, cioè ch' egli è simile e dissimile a se stesso; ed è pure simile e dissimile all' altre cose . E primamente prova che l' uno è simile e dissimile all' altre cose che non sono uno, dall' esser ad esse diverso ed identico, nel modo detto di sopra. Essendo altro, ossia diverso dall' altre cose, l' altre cose sono altro, ossia diverse da lui (1). Dunque l' uno e il non uno, essendo reciprocamente altro, hanno questo di simile d' esser altro , perchè l' uno e il non uno partecipano della forma della alterità, ossia della diversità. Qui si vede come ciò che è dissimile, qual è il diverso, diventa simile, mediante una riflessione più elevata della mente, che fa della diversità stessa una forma astratta e perciò unica, applicabile a più subietti, i quali coll' applicazione di quell' unica forma diventano due, cioè diversi e dissimili. Infatti i subietti diversi ed altri l' un dall' altro, non si potrebbero riconoscere tali, se la mente non li considerasse mediante una sola idea; poichè nessun paragone ella può fare, sia per unire, sia per dividere più cose, se non applica loro un' idea comune «( Ideol. , 1.0 7 1.7) ». Il che prova di nuovo, che il più (il quale non si concepisce se non mediante la compresenza di più cose davanti alla mente, e però un certo confronto che le distingue tra loro e non le lasci confondere) (1), non si può intendere se non nell' uno e per l' uno. Ora, poichè fu dimostrato anche che l' uno è identico e diverso da ciò che non è uno, e che ciò che non è uno è del pari identico e diverso da ciò che è uno, sèguita che, se l' uno si considera in quanto è identico al non uno, e il non uno in quanto è diverso dall' uno, non si rassomigliano punto (2); e lo stesso si conchiude, se si considera il non uno in quant' è identico, e l' uno in quant' è diverso (3). Sotto queste considerazioni l' uno e l' altro sono dunque dissimili. E avendo dimostrato prima che l' uno, anche rispetto a sè, è identico e diverso, risulta ch' egli è simile e dissimile rispetto a sè, poichè quelle due proprietà sono contrarie, e però in quanto si paragonano quelle due proprietà si trova dissimile, ma se si considera che l' una è contraria all' altra, si trova simile a se stesso, perchè come identico è diverso dal diverso, e come diverso è diverso dall' identico: dunque ciascuna si paragona all' altra con una idea riflessa superiore che rende simili quelle due proprietà contrarie, appunto per questo che l' una e l' altra ha la forma della contrarietà alla sua opposta. Un' altra proprietà dell' uno essente, che s' inferisce dalle precedenti, si è, che l' uno tocca e non tocca se stesso, tocca e non tocca l' altre cose, ed è una ottava Antinomìa. E anche qui, come abbiamo detto d' altri vocaboli tratti dalle cose corporee, non si deve menomamente pensare che si parli d' un toccamento materiale; ma con questa parola non vuole indicare il filosofo se non la prossimità e l' aderenza d' un uno essente a se stesso e a ciò che non è uno. E dice, che sotto un aspetto e preso in un significato, l' uno essente è aderente all' uno essente, e a ciò che non è l' uno essente, il non uno, il più; e sotto un altro aspetto e in un altro significato, non è aderente. Il che, ragionando dalle cose dette deduce così. Si è veduto, che l' uno preso per tutte le parti è nell' uno preso sotto il concetto di tutto che le raccoglie. Se dunque l' uno preso nel primo senso è nell' uno preso nel secondo, l' uno dunque tocca l' uno, è aderente a se stesso; e lo stesso dicasi se per uno si prenda ciascuna parte, che, come vedemmo, deve partecipare dell' uno. Ma se l' uno in tal modo considerato è in se stesso e tocca se stesso, egli non tocca l' altre cose, appunto perchè si considera come essente in se stesso e non nell' altre cose. Ma abbiamo anche veduto che l' uno sotto l' aspetto di tutto è in altro ( «en hetero») (1): in quanto dunque l' uno è in altro o negli altri, intanto tocca gli altri, loro aderisce. Se quest' altro si deve intendere, come l' abbiamo noi inteso prima, la stessa mente divina, risulta da tutta questa dottrina che gli uni enti reali, sarebbero e toccherebbero l' uno supremo, Dio; e non viceversa. Così la specie non tocca l' ente reale; e questo spiega come le specie si dicono da Platone separate, benchè l' ente reale tocchi la specie di cui è informato e in cui è come in se stesso; e così pure Iddio non tocca la specie, ma la specie tocca Iddio, perchè essa è in lui, come in un altro, essente. Ma quando si dice l' uno e l' altro , quest' altro è relativo all' uno emanato da Dio come elemento ( «peras»), e però s' applica non solo a Dio da cui è emanato, ma anche alla materia ideale o reale ( «apeiron»). Questa, considerata recisa dall' unità ( «dyas»), non partecipa menomamente dell' uno, e però nè pure del numero; e però, fino che si considera in questo stato, non tocca l' uno, nè è da lui toccata, perchè non è ancora da lui informata: e quand' anco la materia si considerasse come uno, rimanendo quest' uno solo, e non potendosi distinguere in essa il due o altro numero definito, non ci sarebbe tatto, perchè questo non ci può essere se non tra due o più cose, tra le quali i toccamenti possibili sono tanti, quante le cose stesse, meno uno: di che apparisce di nuovo che l' uno rimane escluso dal toccamento. Dunque in questo senso nè l' uno tocca l' altre cose, nè l' altre cose toccano l' uno (1). Un' altra proprietà, e una nona Antinomìa dell' uno , conseguente alle trovate fin qui, si è, ch' egli, sotto diversi aspetti, è maggiore, minore ed uguale a se stesso e all' altre cose. La chiave di questa nona Antinomìa si è, che una proprietà può essere assoluta o relativa alla sua contraria. Ora la grandezza e la piccolezza sono proprietà relative, e non c' è una grandezza o una piccolezza assoluta, e perciò l' uno per sè è privo di grandezza e di piccolezza [...OMISSIS...] . Quindi è facile dimostrare, che l' uno e l' altro non possono essere maggiori e minori assolutamente, cioè per le loro proprie essenze [...OMISSIS...] : e in quanto manca loro una piccolezza e una grandezza assoluta, in tanto l' uno può dirsi uguale a se stesso e all' altre cose, cioè nè piccolo, nè grande, non maggiore, nè minore. Ma se si prende la grandezza e la piccolezza per qualità relative, quali sono, in tal caso si può dimandare se nell' uno e nell' altro ci sieno anche, oltre i concetti trovati fin qui, il concetto di questa relazione di grande e di piccolo, di maggiore e di minore. Ora questi concetti appunto ci si trovano. Poichè abbiamo veduto, che tutte le parti insieme sono l' uno (uno materiale), e che quest' uno è contenuto nell' uno come tutto (uno formale). Ora il contenente si concepisce come maggiore del contenuto, e quindi la forma maggiore della realità. Ma anche l' uno come tutto è in un altro (in Dio, Uno supremo) (3). In quanto dunque l' uno tutto è contenuto in quest' altro, egli è minore dell' altro. L' analisi dunque dell' uno dà, ch' egli, secondo diversi aspetti, sia maggiore e minore di se stesso e dell' altro, e sia anche uguale a se stesso ed all' altro. Veduto questo circa la relazione di quantità in generale, Platone applica la dottrina alla quantità discreta, e dice, che se l' uno è uguale, e maggiore, e minore di se stesso e dell' altre cose; dunque deve essere anche più e meno di numero, poichè l' eguale ha un egual numero di misure e di parti, e il maggiore ne ha più, il minore ne ha meno. Dal numero passa al tempo , e dimostra la decima Antinomìa speciale, che cioè l' uno: 1 è più vecchio e più giovane di se stesso, e non è nè più vecchio nè più giovane; 2 è più vecchio e più giovane dell' altre cose, e non è tale; 3 diventa più vecchio e più giovane di se stesso, e non diventa tale; 4 diventa più vecchio e più giovane dell' altre cose, e non diventa tale. Se l' uno è, come vedemmo, gli compete l' essere ( «einai»). Ma essere non è altro che partecipare dell' essenza col tempo presente (1), come pure lo stesso era ( «to en»), e lo stesso sarà ( «to estai») è partecipazione dell' essenza. Ma il tempo fluisce: dunque l' uno essente diventa sempre più vecchio di se stesso, cioè di quel che era. Ma il più vecchio è relativo al più giovane. L' uno essente dunque diventa più vecchio di se stesso, diventando più giovane. Ma l' uno ente che dal passato viene e tocca il presente, in questo momento in cui è presente non diventa già più vecchio e più giovane di se stesso, ma è già tale. Dunque non solo l' uno ente diventa più vecchio e più giovane di se stesso, ma anche è . Ma il presente sta sempre coll' uno, perchè, per quanto questi trascorra, sempre è presente. Dunque sempre e si fa ed è più vecchio e più giovane di se stesso. Ma se poi si considera, che tutto il tempo non ha una durata, nè maggiore, nè minore di quella dell' uno, si vede che l' uno non si fa, e non è, nè più vecchio, nè più giovane di se stesso, perchè ha tant' età appunto, quant' è quella di tutto il tempo, nè più, nè meno. Quest' Antinomìa ha per fondamento l' uno essente considerato nella sua identità , e nelle sue modificazioni . Poichè, in quant' è semplicemente identico, egli ha una durata unica e indivisibile, e però non gli si può applicare una misura d' età. Ma in quanto si modifica, egli identico con una modificazione è anteriore o posteriore, più vecchio o più giovane di se stesso identico, ma con un' altra modificazione. Per ciò che riguarda gli altri, avverte Platone, che qui si parla di altri in plurale, e non di altro in singolare [...OMISSIS...] : il che ben dimostra ch' egli distingueva tra «heteron» e «hetera» (benchè poi non mantenesse sempre questa proprietà di parlare); il che conferma l' opinione da noi più sopra annunziata, che egli distinguesse due altri , quello in cui era contenuto l' uno come tutto, l' idea o forma di tutte le parti, ed era Dio come altro dall' uno emanato; e quello che era contenuto da quest' ultimo, ed erano le parti insieme prese. L' altro dunque preso come le parti insieme, ossia gli altri, dice, sono più che non sia l' uno. Ora in una pluralità il minor numero è anteriore al maggiore, e l' uno è anteriore e perciò più vecchio di tutta la serie: dunque l' uno è più vecchio (almeno secondo la priorità logica) dell' altre cose. Onde conchiude: [...OMISSIS...] : dove si vede che parla dell' « uno indefinito », cioè dell' uno che ha nel suo seno la materia non ancora vestita di numeri ossia di specie, il qual pure lo considera come principio de' numeri di quest' uno uscito il primo nella formazione dell' universo (almeno secondo l' ordine logico) dal seno di Dio: [...OMISSIS...] . Ma se invece di quest' uno materiale, si considera l' uno come tutto, cioè come forma del precedente, l' uno è posteriore all' altre cose, perchè il tutto non c' è, fino che tutte l' altre cose, sino all' ultima, non ci sieno, e però l' altre cose sono anteriori e più vecchie dell' uno, e l' uno più giovane. Ma anche ciascuna parte è una: dunque l' uno nasce ed è coevo alle parti, e perciò, secondo questo aspetto [...OMISSIS...] non è nè più vecchio, nè più giovane dell' altre cose. Dopo avere per questo modo provato che l' uno è più giovane, e più vecchio, e d' uguale età dell' altre cose, passa di più a provare che egli può e non può diventare più giovane e più vecchio delle altre cose. Prova che l' altre cose non possono diventare nè più vecchie, nè più giovani dell' uno di quel che sono (2), osservando che se a cose disuguali s' aggiunge cose uguali, rimangono disuguali come prima, e però passando un egual tempo per le cose e per l' uno, la differenza aritmetica dell' età loro rimane la stessa. Ma se si considera la proporzione geometrica , quando a due tempi disuguali s' aggiugne uno spazio di tempo uguale diminuisce, la ragione nella quale sono differenti; e però pare che si diminuisca l' antichità dell' uno, e rispettivamente la gioventù dell' altro, onde quel che era più giovane comparativamente al più vecchio diventa più vecchio, e quel che era più vecchio comparativamente al più giovane diventa più giovane (1). E poichè l' uno e i molti sono reciprocamente più vecchi, ed anche più giovani, lo stesso discorso vale in entrambi i casi. Ma in quanto sono uguali d' età rimangono uguali coll' aggiungersi una ugual porzione di tempo, sia che si consideri la ragione aritmetica, ossia la ragione geometrica. Avendo dunque detto che il tempo è una proprietà dell' essenza, cioè dell' essere partecipato dall' uno, e che perciò l' uno è e diviene più vecchio e più giovane di se stesso e dell' altre cose, conchiude che l' uno, se è, cioè se ha l' essenza, è partecipe del passato, del presente e del futuro, che era, ed è, e sarà, e diventava, e diventa, e diventerà. Il che fa sì che a lui e di lui possa essere qualche cosa; e che anche questo sia stato, e sia, e sia per essere. E ciò che c' è di lui è la scienza, e l' opinione, e il senso: a lui poi è il nome e il discorso , poichè lo si nomina e se ne discorre. Dove si vede che Platone mette per condizione della scienza, e dell' opinione, e del senso, e dei nomi o segni, e del discorso, il tempo come inerente all' essere. Il che ben dimostra, onde Platone traesse la ragione, o la condizione dei predicabili e dei predicamenti, e di tutto il sapere di predicazione: questa condizione e ragione è per lui il tempo; e però un tal conoscere appartiene alle cose temporanee, e non alle sempiterne, di cui è proprio il sapere per intuizione o il sapere per sè. Poichè, se non ci fosse tempo, cioè il rapporto tra l' identità e la mutazione «( Psicol. , 1139 7 1171) », il conoscere umano non potrebbe essere discorsivo, com' egli è; e non si potrebbe predicare dell' ente cos' alcuna, o cos' alcuna attribuire all' ente; non si potrebbe dunque avere la scienza umana, che in quant' è riflessa e filosofica (la quale propriamente si chiama scienza, «episteme») esige le definizioni; e molto meno si potrebbe opinare; nè il principio sensitivo avere più sensazioni, e immutazioni; e di conseguente non ci sarebbero i nomi e la lingua. Convien dunque dire che, secondo Platone, i predicabili e i predicamenti appartengano al Mondo che ha presente, passato e futuro: all' ente in quanto, ritenendo qualche cosa d' identico, subisce successive mutazioni; e non all' ente in quant' è immutabile e sempiterno. Il che quanto sia vero apparisce dalla Teoria delle Categorie che noi daremo in appresso, dove vedremo che i generi degli enti non possono abbracciar tutto l' ente, ma nel solo ente limitato si trovano. Se noi dunque vogliamo distribuire in una tavola sinottica tutti questi elementi trovati da Platone, coll' analisi nell' uno essente, avremo la seguente distribuzione: Uno essente 1 Uno Essenza, contenente una pluralità indefinita, il grande e il piccolo. 2 Dispari Pari. 3 Parte Tutto. 4 Determinato Indeterminato. 5 In sè In altro. 6 Stante Moventesi. 7 Medesimo Diverso, rispetto a sè e rispetto all' altre cose. . Simile Dissimile, a se stesso e all' altre cose. 9 Toccante Non toccante, se stesso e l' altre cose. 10 Maggiore Minore ed Uguale, a se stesso e all' altre cose: a ) di grandezza, b ) di numero, c ) di età (tempo) (1). Tutte queste cose pertanto distinse Platone dialetticamente analizzando l' uno essente , ma vago e informativo: onde prende ora l' una condizione ora l' altra, anche opposta, secondo la materia che informa: le quali cose si possono considerare come elementi dell' ente, non elementi puramente materiali, ma elementi o costitutivi in un senso estesissimo. Ma sono essi anche generi? E se sono generi degli enti , come sono anche elementi dell' ente? Platone non dubita di chiamarli generi (1) di enti, perchè per ente intende tutto ciò che è, tutto ciò che mostra in sè d' avere una qualche potenza anche minima di patire e d' agire (2). Onde ogni atto o potenza in questo senso è considerato come ente, cioè come essente, benchè non sia un ente compiuto, che stia e si concepisca stare da sè. In questo senso dunque gli elementi sono generi di enti, noi diremmo d' entità. Si comprende dunque, secondo questa maniera di parlare degli antichi, che pigliavano «on» come participio, non solo ciò che esprime il nome sostantivo di ente , ma ciò che la mente anche per via d' astrazione considera a parte del resto, a ragion d' esempio l' accidente (enti mentali), e gli dà un nome suo proprio. Onde per provare che tali cose sono enti, cioè entità, Platone ricorre appunto ai nomi, e dice: [...OMISSIS...] . Di che deduce che tali enti o essenti hanno una comunicazione tra loro, perchè molti si predicano d' un solo; ma questa comunione [...OMISSIS...] è regolata di modo che nè tutti gli enti sono divisi l' uno dall' altro, nè tutti si comunicano alla rinfusa con tutti gli altri (due sistemi filosofici che combatte Platone), ma alcuni si congiungono ed altri no, onde è necessaria un' arte a distinguere quali sì, e quali no. Avendo dunque Platone definito l' ente dall' attività, di maniera che sia tutto ciò che ha attività anche minima [...OMISSIS...] , ne viene che sia proprio dell' ente il moto nel senso estesissimo (l' azione). Ma se fosse tutto moto non sarebbe, onde secondo qualche rispetto, deve convenirgli anche la quiete . Quindi due generi di enti, che si affanno e congiungono all' ente preso secondo il puro concetto di ente, il moto e la quiete. Ma il moto esclude la quiete: dunque questi due generi non comunicano insieme. Se non comunicano, l' uno è identico a se stesso e diverso dall' altro; e se convengono entrambi all' ente, dunque gli conviene anche l' identità e l' alterità, due altri generi. Qui dunque si distinguono cinque generi: l' ente, il moto, la quiete, l' identità e l' alterità, i quali da Plotino (2) e da altri Platonici (3) sono considerati come le cinque Categorie di Platone. Queste però non sono che la sesta e la settima coppia di quelle che enumera nel « Parmenide » (4), quantunque da queste, se rettamente si considera, si possono dedurre tutte le altre: chè già si vede che il moto, cioè l' azione, è necessario di porsi a principio se dall' ente uno si vuol dedurre, coll' operazione della mente, i suoi elementi, giacchè questo stesso d' aver la potenza di distinguersi colla mente dall' ente si concepisce come una cotale loro attività o movimento. Così si moltiplica l' essenza e ne viene il numero, da cui tutto il resto. Platone dunque, distinti nel « Sofista » questi che chiama cinque generi, prova che non possono unirsi a caso tutti con tutti; chè i contraddittorŒ, come il moto e la quiete, l' identità e la diversità, ricusano ogni congiunzione. Ma è ugualmente erroneo il dire che ciascuno si rimanga interamente separato dagli altri; poichè, separato l' ente dagli altri quattro, questi non sono più, e non rimane nè pur il concetto di ente che suppone un' attività e una stabilità, cioè d' esser unito col moto e colla quiete. Oltre di ciò, dice, continuando a confutare questi secondi (i Megarici), che non potrebbe più esserci discorso se non si potesse predicare una cosa d' un' altra; onde, essendo obbligato a far ciò gli avversarŒ, se pur vogliono parlare « « hanno in casa il nemico e l' avversario che dentro si fa sentire » », cioè si contraddicono col pure aprir bocca e pronunciare un giudizio (1). Dove si vede l' origine del concetto di categoria suggerito naturalmente dalla questione de' generi degli enti. Poichè, considerandosi per enti gli elementi che li costituiscono, come fa Platone, e questi riducendosi a generi, conveniva dimandare, se e come questi generi s' uniscano tra di loro: il che era quanto un chiedere « come si possano predicare gli uni degli altri ». Si vede ancora come sull' ali della dialettica egli ascendeva alle dottrine ontologiche (1), nè altre ne può aver l' uomo, se alquanto s' estende il significato di dialettica. Dimostrato dunque con somma sagacità ed evidenza che i cinque concetti sono tutti distinti e l' uno non è l' altro, prova pure che i contraddittorii non hanno comunione insieme, e che però non si possono congiungere il moto e la quiete, l' altro e l' identico; ma che si congiungono quelli che non si contraddicono, onde il moto e la quiete ciascuno partecipa dell' identico e del diverso e tutti quattro partecipano dell' ente, chè altramente non sarebbero nè si potrebbero concepire, e l' ente partecipa di tutti quattro. Poichè distingue tra ciò che è ciascuno, e ciò di cui partecipa: niuno può congiungersi col contrario a ciò che egli è, ma rimanendo ciò che è, può partecipare di ciò che non è lui. Quindi deduce il concetto del non ente: poichè, avendo mostrato che l' ente è un concetto diverso dagli altri quattro del moto, della quiete, dell' identico e del diverso, consegue che questi sieno non ente , cioè entità diverse dall' ente (2). Ma poichè queste quattro cose sono (3), e che se non fossero, non si potrebbero concepire, perciò anche del non ente si predica l' ente. Di che conchiude che [...OMISSIS...] : perchè queste specie che si possano attribuire all' ente, benchè si possano ridurre ad alcuni generi massimi, pure sono innumerevoli. Ma poichè il concetto dell' ente è diverso dagli altri, consegue che quante sono queste cose, altrettante l' ente non sia. E poichè ciascuna dell' altre cose è non ente, l' ente stesso è uno [...OMISSIS...] , e non è l' altre cose numero infinito [...OMISSIS...] . Infatti, spogliato l' ente di tutto ciò che di lui si predica, non rimane più nè attività, nè quiete nel termine dell' atto, nè si può paragonare con se stesso e dirsi identico, nè paragonare co' suoi predicati e dirsi diverso, e però l' unico concetto che rimane è quello dell' uno. E questo concetto dell' uno è quello che prese ad analizzare nel « Parmenide », dimostrando prima che se si lascia così scarno e solitario, non potendosi di lui predicare nè pure l' esistenza, non può stare, non è al tutto (che è la prima delle due fondamentali ipotesi intorno a cui s' aggira la dialettica nel « Parmenide »): se poi si predica di lui l' esistenza (seconda ipotesi) già si considera in relazione con un altro, che è da lui informato o unificato, e che non si concepisce senz' essere unificato, cioè senza che di lui stesso si predichi l' uno, di maniera che l' uno e l' esistenza sono predicati reciproci. Ma, posto ciò, s' ha già l' uno informativo dell' altro; e data questa prima universalissima dualità d' elementi, cercando tutte le passioni che può subire quest' uno informativo senza cessar d' esser tale, se ne traggono tutti que' generi che furono enumerati nel « Parmenide », da' quali innumerevoli altre specie. La dottrina dunque dell' uno e più , ne' due dialoghi del Parmenide e del Sofista, è la medesima. Ma, mentre in quello introducendo a parlare Parmenide stesso vuol dimostrare che dagli stessi principii conceduti dall' Eleate, a filo di logica, si può cavare, contro di lui, che l' uno e l' ente non è il medesimo, e che da questa prima dualità d' elementi procede una pluralità senza limite; nel « Sofista » dichiara espressamente di confutare l' errore di Parmenide, il quale, avendo posto esclusivamente il pensiero alla natura dell' ente e consideratolo come identico all' uno, non badò alla pluralità, innegabile anch' essa perchè contenuta nel seno dell' ente uno. E il primo passo è appunto questo, di dimostrare, che l' uno e l' ente sono due concetti diversi, benchè indissolubilmente legati insieme. Se sono due, l' uno non è l' altro reciprocamente. Se l' uno non è l ente, dunque l' ente è non uno, materia. Se l' uno non è l' ente, dunque l' uno è non ente come forma. Ma, quantunque il fondo della dottrina e l' argomentazione dialettica sia la medesima ne' due dialoghi, tuttavia in questo differiscono: che nel « Parmenide », come conveniva al principale interlocutore, comincia dall' uno puro e ne presenta le passioni; nel « Sofista » comincia dall' ente informato dall' uno (1), e dice che, se si spoglia l' ente di tutti i suoi predicati, rimane il puro uno , quello della prima ipotesi del Parmenide; se poi si considera co' suoi predicati, se ne trovano prima quattro massimi che sono l' attività, la quiete, l' identità, e la diversità. Ciascuno de' quali dà un concetto diverso dall' ente uno, onde sono non ente. Il non ente dunque del Parmenide e quello del Sofista, benchè ricevano la stessa definizione generica, cioè « ciò che non è ente », cangia alquanto di specie: perchè nel « Parmenide » talora il non ente è « tutto ciò che non è ente »anche l' uno; quando nel « Sofista » il non ente è « ciò che non è ente uno », come sono i quattro « predicati massimi, ne' quali non c' entra il predicato dell' uno, perchè rimane unito all' ente contrapposto a que' predicati »(1). Dimostra dunque nel « Sofista » contro « Parmenide » che l' ente uno non esclude la pluralità, cioè l' altro , ossia il non ente. Poichè, dice l' Ospite d' Elea, che ci tiene le prime parti [...OMISSIS...] . E dopo avere illustrata questa tesi con esempi, mostrando che ciò che si dice « non bello », « non grande », « non giusto », non è già nulla, ma bensì tutto quello che è diverso dal bello, dal grande, dal giusto; e così parimente il « non ente », non è nulla, ma tutto ciò che non è il concetto stesso dell' ente: e però che anche il non ente, è in qualche modo, ed è l' essenza dello stesso ente [...OMISSIS...] , ed ha una sua ferma natura [...OMISSIS...] ; dopo tutto ciò, dico, l' Ospite d' Elea soggiunge: [...OMISSIS...] . E Teeteto mostra di non essersene accorto, perchè s' era partito dall' ente uno di Parmenide, e per illazioni d' una logica irrepugnabile s' era pervenuto al non ente, negato da Parmenide, di cui l' Ospite Eleate reca i versi. Quello adunque che aggiunse Platone alla filosofia d' Elea è il non ente e le specie del non ente, come dichiara in appresso (1). Laonde un uno qualunque si può predicare che è, e si può predicare dell' altre cose. In quanto si predica che è, dicesi ente: e quest' è l' ente del Sofista, che risponde alla sostanza o al supposito d' Aristotele. Ma l' altre cose che si predicano di quest' uno ente, paragonate all' ente che s' è già predicato, è non ente, e questo non ente del Sofista risponde all' altre nove categorie aristoteliche che si dicono abbracciare gli accidenti (2). Dalla dialettica dunque, cioè dal considerare come nell' umano discorso si predicano alcune idee di altre, ma non tutte di tutte, e alcune si negano di alcune altre, pervenne Platone a stabilire che il concetto dell' ente, quantunque non potesse sussistere da se solo ma avea bisogno d' altri concetti che lo determinassero, tuttavia si distingueva colla mente dagli altri concetti, e questi non erano lui, onde si potevano dire non enti, in opposizione al concetto puro dell' ente; poichè il dire che sono altri concetti diversi da quello dell' ente, e il dire che sono non enti, è il medesimo. E a quell' analisi Platone pervenne spinto dal bisogno di confutare i sofisti (onde da essi intitolò il dialogo), i quali argomentavano: « Il non ente è nulla e però non si può esprimere con alcuna locuzione: dunque tuttociò che si dice è: si dice sempre il vero, e qualunque discorso si faccia intorno a qualunque cosa non può esser mai falso ». Fu dunque obbligato Platone a investigare la natura del non ente, e mostrare che non era nulla, e si potea pronunciare, e distinguere dall' ente. Ogni qualvolta dunque il discorso dice ente a quello che è, non ente , o viceversa, è fallace e mentitore. Così la sofistica fu recisa fino dalla sua più profonda radice. Ma noi dicevamo che questa investigazione dialettica condusse Platone all' Ontologia, e aggiungiamo ora in più modi. Primo perchè l' Ontologia trattando dell' essere in tutta la sua ampiezza, conviene che lo consideri anche nelle sue relazioni colla mente; ed essendo noi uomini quegli che speculiamo intorno agli enti, anche colla nostra mente umana. Secondo, perchè le idee, essendo sole quelle che somministrano il concetto dell' immutabilità e della eternità dell' essere, sono il fonte della dottrina intorno alla natura di questo: onde avviene che, conosciuta questa stabilità e necessità che nell' essere ideale si riconosce, anche la dialettica, ossia il ragionamento che vi ci ha condotti, trova nell' essere stesso per sè considerato la sua fermezza e immobile consistenza: il che non manca mai di far notare Platone, come là dove, distinto il mondo intelligibile dal reale che lo realizza quasi sua materia, deduce da quello il ragionamento necessario e apodittico, e da questo l' opinione , ossia l' elemento mutabile e materiale del ragionamento medesimo (1); [...OMISSIS...] : come sta l' essere ideale al reale, così sta il discorso assolutamente vero, che si fonda su quella, al discorso opinativo o verisimile, esprimente la persuasione che s' acquista colle percezioni sensibili di questo. In terzo luogo, già vedemmo che l' analisi dialettica dell' uno conduce al concetto di tutto, sia reale sia ideale; e questo alla mente divina, in cui solo può consistere simultaneamente in quella grande unità che gli è necessaria. In quarto luogo finalmente osservammo, che, se in vece di prendere a subietto del lavoro dialettico l' uno segregato da tutto il resto o l' uno informativo di tutto il resto, si prende l' uno anteriore a tutti gli altri contenente tutto da cui tutti gli altri uni procedono, altro non si fa colla dialettica stessa che considerare quello che a Dio convenga e che non gli convenga. Onde, trapassata la stessa Ontologia, siamo pervenuti alla Teosofia. Al che appunto s' appresero i neoplatonici (1). Plotino, che per acutezza e originalità va ad essi anteposto, considera i cinque generi, enumerati da Platone nel « Sofista » e altrove (2), come i sommi; e vuole che siano ad un tempo elementi e generi del mondo intelligibile (1), ma sotto un diverso aspetto: elementi dell' ente, in quanto si trovano e distinguono dall' intelligenza in ogni ente; generi , in quanto si considerano, ognuno da sè, come aventi delle specie subordinate. Il che per intendere come sia, dobbiamo prendere il discorso più da lungi, ed esporre come Plotino escluda, dal novero de' sommi generi, tutti quelli che Aristotele ed altri posero come tali. Egli dunque domanda in prima, se l' uno forse non si potesse computare tra' sommi generi: e lo esclude, percorrendo i suoi significati (2). Il primo significato da Plotino indicato è quello dell' uno puro [...OMISSIS...] , a cui nulla s' aggiunga, nè anima, nè intelletto, nè altro (e quest' è l' uno della prima ipotesi del Parmenide): esso non può esser predicato di nulla, e però non è una qualità generica, un genere. Il secondo significato è l' uno aderente all' ente, «to hen on», l' uno della seconda ipotesi del Parmenide. Ora questo già non è più lo stesso uno logicamente primo [...OMISSIS...] . Di poi l' uno, sia aderente all' ente o no, se si considera nel suo concetto di uno, non può esser genere, perchè il genere riceve in sè differenze, e con esse produce le specie nelle quali egli rimane, perchè rimane nelle specie la qualità generica; all' incontro se l' uno ammettesse differenze, si distruggerebbe, perchè, cessando d' esser uno, diverrebbe molti. I contraddittorii , come dimostrò Platone nel « Sofista », non si possono unire, ma solo i diversi . Ora al puro uno, il due e qualunque pluralità è contraddittoria (3). Il terzo significato dell' uno è che valga il medesimo che ente , nel qual caso, poichè si considera l' ente tra i cinque generi, così anche l' uno. Ma, risponde Plotino, che con ciò non s' avrebbe aggiunto all' ente che un nome di più, e non sarebbe mai l' uno primo e puro, l' uno come semplicemente uno, o l' uno distinto dall' ente coll' intelligenza. Ma non si potrebbe considerare come primo uno quello coll' ente, come ente dicesi da prima quello che è congiunto coll' uno, benchè ci sia un concetto anteriore, quello dell' uno? - Ciò che è superiore all' ente, risponde, non è a dirsi ente; laddove quell' uno che è anteriore all' uno ente, non può dirsi che uno. Onde questo è da prima uno. - Nella quale risposta si vede, che la parola ente è presa nel significato, in cui si prende nel « Sofista », dove si considera l' ente come un genere opposto all' altro genere del non ente (che abbraccia nel suo seno i quattro generi minori), cioè è presa come l' ente diviso colla mente dai suoi termini e dalle sue attribuzioni, e ritenuto il solo preciso concetto d' essente. Poichè, in questo significato di «usia» indefinita qual materia ideale, si può benissimo concepire che ei abbia un concetto anteriore, in via d' astrazione, all' ente, qual è quello dell' uno, appunto perchè concetto più astratto «( Ideol. , 575 7 5.1) » e formale dell' essente o dell' esistenza. Ma l' essere, come atto e non come materia , è anteriore a tutto, ed è forma d' ogni concetto dell' uno stesso: il che non considerarono bastevolmente i Platonici. Stabilisce di poi Plotino il principio, che « « non tutto quello che è comune in molti è genere » » [...OMISSIS...] , ma può esser principio o elemento e non genere; ma solo quello è genere che riceve in sè differenze e ha specie, e si predica delle specie come loro quiddità comune. [...OMISSIS...] L' uno dunque non si predica come quiddità d' alcuna specie, benchè inesista in ciascuna specie e in ciascun individuo, e non produce di sè nè ammette in sè le loro differenze. Un' altra proprietà del genere si è che egli sia ugualmente in tutte le specie. L' uno all' incontro, che s' attribuisce a tutte le cose, non è ugualmente in esse, ma più e meno: dunque non ha la proprietà de' generi. Vero è, che anche l' ente è più e meno, ma l' uno è partecipato variamente anche da quelle cose che sono ente ugualmente (2). Così l' esercito e la casa sono enti ugualmente, dice Plotino, e pure questa ha più unità di quello. Osserva poi, che « « ogni cosa non ha sola la tendenza ad essere, ma ad essere col bene » », ed è tanto più col bene, quanto più ha d' unità: e questo non meno nella natura che nell' arte. Onde conchiude che, tendendo tutte le cose all' uno e a imitare quello che è il medesimo [...OMISSIS...] , tendono al bene, è che l' uno è il bene (3). Cominciando dunque tutte le cose dall' uno, e in esso tendendo come in loro bene (4), l' uno è principio e fine de' generi, ma niuno di essi. Del rimanente qui e da per tutto Plotino confonde manifestamente l' uno, che è un carattere astratto del bene, col bene stesso: e non s' accorge che l' uno puro, senz' esser altro che uno, lungi d' essere il sommo bene è un vòto concetto; come accadde a' moderni, i quali spogliato il pensare d' ogni suo oggetto, credettero d' aver trovato il sommo pensiero «( Ideol. p. 1426 7 2.) ». Nondimeno nell' aver Plotino escluso il bene da' sommi generi, travide una verità. Poichè veramente il bene appartiene alla terza delle supreme forme dell' essere, come vedremo, ed eccede tutti i generi. Escluso dunque l' uno e il bene da' sommi generi, Plotino toglie a dimostrare che nè pure la quantità , la qualità e la relazione si devono computare tra essi. Non la quantità, perchè la prima quantità è il numero , venendo da questo tutte l' altre, e il numero è posteriore logicamente a' cinque generi. Poichè il moto, lo stato, l' identità e la diversità, sono insieme coll' ente come suoi elementi intrinseci, non come accidenti che a lui sopravvengono e lo qualifichino, o lo compiano; ma l' ente non è senza essi, costituendo essi l' ordine intrinseco di lui [...OMISSIS...] . Poichè il moto è lo stesso atto dell' ente, e lo stato non è già una sua passione, e l' essere identico e diverso non sono proprietà posteriori all' ente, perchè l' ente non divenne molti, ma era molti pur coll' esser ente, ond' avea identità e diversità. All' incontro il numero, e ogn' altra quantità che dal numero deriva, e la qualità e la relazione non entrano a costituir l' ente, ma sono posteriori e accidentali al medesimo. Nel che sembra esserci una contraddizione, perchè, se l' uno ente è per sè molti, come non ci sarà il numero? Laonde Platone nella stessa essenza ( «to on») pone latente un numero indefinito. Ma Plotino considera il numero attuale in tutta la sua estensione, onde dice che [...OMISSIS...] . Fa dunque derivare il numero dal moto , come l' unità numerica dallo stato dell' ente; e ne ripone l' essenza in una certa mistione di moto e di stato [...OMISSIS...] . Il che però ci sembra implicato di molti equivoci. Poichè se l' ente è un primo genere; il moto, ossia l' atto, il secondo; lo stato il terzo; l' identità e la diversità il quarto e il quinto: se qui non ci sono tutti i numeri, c' è però fino al numero cinque; e così ci sono abbondantemente gli elementi di tutti gli altri numeri, come anco dimostra Platone nel « Parmenide ». Deve dunque intendersi, ciò che Plotino dice della posteriorità del numero, della proprietà che ha il numero d' accrescersi sempre alla nostra ragione successiva e computatrice; e non d' un numero speciale che è inerente ai sommi generi ed elementi dell' ente. Di poi esclude da' sommi generi la relazione , perchè è posteriore ai termini tra cui passa la relazione: e così pure il dove che importa composizione d' una cosa in un' altra; mentre, dic' egli, [...OMISSIS...] : e perciò esclude il luogo, e il tempo. Il fare poi e il patire sono specie di moto , e così l' avere e l' atteggiarsi inchiudono una duplicità o triplicità, e però non sono primi generi. Ma sarebbe difficile il dire come l' alterità non involga una relazione, se non si restringa il significato di relazione (5). Esclude da' sommi generi di poi la bellezza, distinguendo quattro significati. Poichè, o s' intende la prima bellezza [...OMISSIS...] , e in tal caso è lo stesso uno e lo stesso bene. O s' intende quel bello che rifulge nelle idee, e questo, non essendo in tutte uguale, non può costituire un genere, oltrecchè è posteriore all' ente. O per bello s' intende la stessa essenza , e in tal caso è già computato in questa che è il primo genere (l' ente). O s' intende il bello che affetta noi che lo contempliamo, e in tal caso è movimento e in questo genere contenuto. Riduce pure la scienza al genere del moto; e dice potersi ella ridurre anche a quello dello stato , o ad entrambi: nel qual caso, essendo un misto di due generi, è posteriore. Esclude ancora la mente ( «nus») da' generi, come quella che è lo stesso ente da tutti i generi composta [...OMISSIS...] . E qui si vede come Plotino vuole, che i cinque generi del mondo intelligibile sieno elementi. Sono, dice, elementi della mente, e d' ogni mente [...OMISSIS...] , poichè questa è l' ente intelligente che unisce in sè gli altri quattro generi [...OMISSIS...] . Ma come da questi sommi generi provengono le specie? le specie, dico, dell' ente, del moto, dello stato dell' identità e della diversità? Plotino si sforza di rispondere a questo nel modo seguente. Primieramente, dice, come la scienza è una, e tuttavia ci sono molte scienze, che sono specie e parti di quella; così v' è una mente di cui l' altre sono specie e parti. La scienza una ha in potenza tutte le altre, ed è in potenza tutte le altre [...OMISSIS...] . Così, se facciamo astrazione da tutti gli oggetti speciali della mente, noi avvisiamo al concetto di una mente generica (1), che non ha niun oggetto speciale, ma che gli ha tutti potenzialmente. E` il pensare come pensare del Bardili «( Ideol. 1420 e nota) ». Questa mente non è nessuna mente particolare [...OMISSIS...] . Ma, come le scienze particolari sono qualche cosa in atto proprio della scienza una ed universale, e questa oltrediciò è tutta in potenza; così l' altre menti, che hanno oggetti generici o speciali, sono altrettanti atti della mente una in potenza; poichè, quando questa esce a' suoi atti, diviene quelle senza cessare d' essere ciò che era prima. L' ente dunque è la mente: e, avendo egli il movimento che è il secondo genere, mediante questo produce le specie. Fino dunque che l' ente mente è in potenza, è mente universale, superiore alle menti speciali che si generano per l' atto di quella. [...OMISSIS...] . Esister dunque in sè la gran mente [...OMISSIS...] , ed esistere in sè le singole menti; ma aver queste un' intima congiunzione e derivazione da quella, che le produce col passare a' suoi atti, cioè determinando i suoi oggetti per la virtù che ha insita del movimento. Quindi quella è la causa di queste. Le difficoltà di questo sistema sono manifestamente due: 1 Che quella che si chiama la gran mente e si fa causa dell' altre, essendo generica e in potenza, è più imperfetta d' una mente, che, poste l' altre cose uguali [...OMISSIS...] , fosse in atto; 2 Che non è spiegato come le menti inferiori possano avere un' esistenza a sè, se nascono col solo determinarsi quell' oggetto universale che si dà alla gran mente, dove si suppongono tutte le specie solo virtualmente comprese (1). Viene agli altri generi. Posto che la mente, la quale contiene tutto in potenza, ha il movimento consistente nell' atto del contemplare, ella può passare a tutti gli atti mentali possibili, e così infinite forze si spiegano all' occhio di questa mente: quindi il numero, la stessa infinità e la stessa grandezza [...OMISSIS...] . Questo movimento, che non è il primo essenziale ed elementare all' ente, ma una continuazione posteriore, manifesta già il quale e il quanto come determinazioni che s' aggiungono. Ora in tutti questi atti c' è la quiete e il moto , che così si specificano; ed essendovi il numero e il quanto, ed il quale altresì, c' è di necessità ancora l' identità e la diversità specificata. Dal concorrere in uno poi il quanto e il quale, Plotino fa venire la figura (1), e coll' intervento della diversità , che divide in più il quanto e il quale, le differenti figure e l' altre qualità tutte logicamente posteriori. La mente dunque è l' ente (primo genere) che ha unito a sè gli altri quattro e che abbraccia colla contemplazione tutti gl' intelligibili, tutte le idee, che ne' quattro generi si riducono. Questa è la prima e assoluta mente. Ma osserva Plotino che la mente umana discorre e scopre una cosa dall' altra: quest' è dunque una seconda mente, diversa da quella prima che con un' azione permanente, e senza discorso, ogni cosa abbraccia. Ora è evidente, che « « a quel modo che un acerrimo intendimento ottimamente argomenta, a quel modo appunto sono tutte le cose nelle ragioni antecedenti ad ogni argomentazione »(2) », poichè se così non fossero, non sarebbero vere le cose argomentate. Non si può dunque argomentare, cioè da una verità discoprirne un' altra, se queste verità tutte già non fossero ab eterno prima dell' argomentazione. Di che deduce che la mente umana o la mente ragionante presuppone dinanzi a sè una prima mente, la quale, non discorrendo o argomentando, ha semplicemente tutte le cose presenti, e che da questa la mente deve derivare (3). Ma come proviene questa seconda mente dalla prima? Ecco il gran nodo, il mistero della creazione. Plotino cerca di penetrarlo in questo modo. In quanto la mente, l' ente coi generi, non ha ancora che il primo atto, l' oggetto del quale sono i generi; in tanto è la prima mente (1). Ma in quanto la sua azione, continua e permanente, passa ai generi inferiori e di mano in mano alle specie; quel primo atto si moltiplica, specifica, determina, e dall' esistere nel tutto passa ad esistere nelle parti. Esistere nelle parti forma un altro modo di esistere diverso da quello che consiste nell' esistere nel tutto: e così la mente esistente nelle parti non è più la mente esistente nel tutto, ma è un' altra mente, le menti seconde. Tutte queste menti seconde però sono nella prima: ma, in quanto sono nella prima, concorrono a formarla, in quanto che in essa non avendo l' esistenza propria e separata sono tutte insieme la prima (2). Ma, in quanto sono parti, e come tali aventi un' esistenza propria, non sono la prima, ma altre da quella. Così il primo ente è uno e molti: e allo stesso modo ciascuno dei secondi enti e delle seconde menti (chè sono tra i molti dell' uno primo) è uno e molti. Ma conviene dichiarare in che modo. La prima mente produce le altre coll' azione colla quale determina i generi sommi ad essa essenziali in generi minori e in ispecie. Quella stessa successione dunque, che hanno dialetticamente i generi massimi fino alle ultime più ristrette specie, si vuole che esprima la successiva produzione de' diversi ordini di intelligenze. Questo stesso è il principio da cui si trassero le genealogie degli Eoni de' Gnostici, che sforniti d' ogni vigoroso raziocinio e impostori di professione, ad arbitrio d' una sregolata imaginazione, empirono la filosofia di tanti sogni d' empietà e corruttele. Il qual delirio non potea piacere al forte ingegno del filosofo Licopolitano, che confutò co' suoi scritti alcuni dei loro errori (1). Ma il principio del suo sistema è somigliante: diversa solo la derivazione degli enti dal primo. Poichè, come abbiamo veduto, sopra tutti i generi pone l' uno ( «to hen, to proton»), intorno al quale cade spesso nell' illusione dialettica de' razionalisti, a' quali, osservando essi che aggiungendo all' uno qualche cosa per via di predicazione lo limitano (1), sembra d' aver trovato il sommo, quando coll' astrazione sono giunti a concepire nudamente l' uno; quasi che questa stessa parola potesse indicar altro che il puro vuoto de' concetti, una pura forma mentale senza contenuto. Ma si contraddicono immediatamente appresso, chiamandolo appunto il primo , il sommo , il bene ( «to agathon»), come fa appunto Plotino, quasi che questo non fosse un predicare qualche cosa di quell' Uno, che pure doveva essere puro uno di cui nulla si predicasse (2). Da quest' Uno vien prima la Mente universale; da questa l' Anima universale; da questa le anime speciali; da queste la Natura (il principio animale); da questa la vita che si svolge, o il generato; e prima il Tempo, la Moltitudine, il Luogo ( «o topos»); e infine la Materia, male e caligine. Ma, come dall' Uno viene la Mente universale? Esso non ha nessun' azione, secondo Plotino, il qual teme che dandogli qualche azione già svanirebbe il concetto del puro uno ( «to haplos en») (3), e vi s' introdurrebbe un altro. Quest' uno non può dunque nè fare (4), nè pensare, nè essere (5), chè avrebbe i generi distinti in sè stesso: e il levargli anche l' essere e concepirlo superiore all' essere, è il punto più alto della speculazione (6). Come dunque riesce la mente universale? Plotino risponde per una certa esuberanza , o ridondanza (1), o profluenza [...OMISSIS...] , come il fiume dalla fonte (2), o come la vita, che si espande dal suo principio e quasi dalla radice ai rami d' un grand' albero [...OMISSIS...] , o come un fulgore, una corruscazione [...OMISSIS...] , da per tutto diffusa: similitudini o analogie del tutto insufficienti a dimostrare, come nell' uno non ci sia nè essere, nè azione, e tuttavia produca, e produca cosa che non ha identità con lui. Il fondo del pensiero plotiniano, a cui si riduce pur quello de' neoplatonici, è questo: In ciò che è assolutamente primo, non ci possono essere differenze di sorta, perchè, se ci fossero differenze, quale di esse sarebbe la prima? O questa ci sarebbe, o niuna sarebbe logicamente antecedente all' altra, ma tutte pari. Se una fosse la prima, questa solo sarebbe l' assolutamente primo; se fossero tutte pari, niuna sarebbe la prima: ma nè pure tutte insieme costituirebbero un primo, perchè la moltiplicità è posteriore logicamente all' unità. Ma l' ente e l' essere (chè questi due si prendono spesso da Plotino come sinonimi), l' azione, la quiete, e gli altri generi, costituiscono altrettante differenze tra loro. L' assolutamente primo dunque dee essere anteriore a queste cose, superiore al bello ( «hyperkalon») e a tutte l' altre cose ottime ( «hyper ton ariston»). Ciò che vi ha d' erroneo in questo ragionamento è la sua base male scelta. Poichè questa base è il principio: « la moltiplicità è posteriore logicamente all' unità »; principio vero in sè, ma male scelto, come dicevamo, per farlo servire a base d' una ontologia. Poichè l' ordine logico è un ordine parziale e formale, che non abbraccia tutto l' ordine dell' essere. Laonde si sarebbe dovuto provare che ciò che logicamente è anteriore, fosse anteriore anche nel fatto. Ma questo si suppone senza provarlo. Giace dunque il sistema sopra una base ipotetica, e però in aria. Le contraddizioni, in cui cade Plotino e tutto il neoplatonismo, ben dimostrano che la ragione protestava in essi contro il loro sistema. A ragion d' esempio Plotino non può concepir l' ente , senza concepirlo uno e molti [...OMISSIS...] , di maniera che l' unità e la moltiplicità è contemporanea all' ente. Questo lo conduce a dire, che l' uno non è ente, perchè non ha moltiplicità alcuna, ma è superiore all' ente: poi quando parla dell' ente, mostra di dubitarne, sentendo la necessità di definire che cosa intenda per ente [...OMISSIS...] , e di qual ente parli [...OMISSIS...] , mostrando così che l' ente può prendersi in un' estensione maggiore, dalla quale non si può sottrarre nè pure l' uno, se dev' essere qualche cosa. Ora questo scambio, di ciò che è logico per ciò che è ontologico, vizia tutto il sistema di Plotino e di tutti i neoplatonici. L' egizio nostro filosofo, secondo questa maniera di ragionare è obbligato di fare, che la prima mente, la quale esce dal primo uno come un suo splendore, altro non sia che l' ente coll' unione degli altri quattro generi, e di negare che in esso cadano altre differenze che queste cinque. Poichè introducendosi delle differenze in ciascun genere, di modo che se n' abbiano generi minori e specie, già non è più quel desso ma un altro. Per quanto sia sbagliata questa maniera di ragionare dall' ente logico all' ente subiettivo, essa però non ci obbliga di dare a Plotino la taccia di Panteista. Poichè egli viene a distinguere le diverse generazioni di cose con questo ragionamento: Iddio è quell' uno in cui non cadono differenze; Quando dunque nascono in lui per la sua continua attività i generi, questi non sono lui, perchè non ammettono la sua definizione. Del pari: La prima Mente non è che l' ente contemplante i cinque generi, senza che in ciascun genere cadano differenze; Ma tostochè essa mente per la sua attività quasi lampeggia in ciascun genere differenze, di maniera che quei generi si rompono in generi minori e in ispecie, la mente che contempla questi generi minori e queste specie non è più quella di prima, ma un' altra attività che alla prima si continua. Questa seconda mente non è la prima, ma un' altra, perchè a questa non compete la definizione e però nè manco la natura espressa nella definizione della prima. Laonde, non uscendo nulla dal primo Uno, nè dalla prima Mente, senza che ciò che esce tosto non perda l' identità col fonte da cui è uscito (1); procede che ci intervenga una specie di creazione, e che la prima Mente sia essenzialmente diversa dall' Uno primo, e che la seconda Mente, o Anima universale, sia essenzialmente diversa dalla prima Mente. E lo stesso si può argomentare circa le altre emanazioni. Non crediamo dunque che si possa accusare il sistema Plotiniano di Panteismo (2); ma egli è chiaro che non evita questa colpa, senza incorrere in altre non meno gravi. Poichè primieramente le definizioni del primo Uno e della prima Mente, ecc., sono arbitrarie e insufficienti a esprimere la natura divina e l' altre che si vogliono definire. In secondo luogo il Dio di Plotino, detto ugualmente l' Uno, il Primo, il Bene, è un Dio imperfetto, e non si può descriverlo perfetto se non con un sofisma. Il sofisma è questo: « « L' Uno non appetisce nulla, non conosce nulla: dunque è sufficiente a sè stesso: non gli manca cosa alcuna. All' incontro l' altre cose, la Mente, l' Anima ecc., appetiscono l' Uno, cioè il Bene: e però per sè sono deficienti e non sono prime »(1) ». Il vizio della quale argomentazione sta nel doppio concetto che può avere la frase « esser sufficiente a sè stesso »: perchè questa può intendersi d' una sufficienza reale e piena, e in tal caso non è sufficiente a sè stesso se non quello che è tutto sentimento, tutto intelligenza, tutto essere; e può intendersi d' una sufficienza dialettica e vuota di tutto, in quanto un concetto semplicissimo, privo d' ogni attribuzione, come quello del puro uno, non s' intende come possa aver bisogno d' altro, essendosi recise da lui colla mente tutte le relazioni e congiunzioni con ogni altro concetto (2). Per questa stessa ragione il Dio di Plotino è ridotto ad una vanissima ed astrattissima potenzialità: e però egli, negandogli tutto, lo chiama appunto « la potenza di tutte le cose » [...OMISSIS...] , e l' « indefinito » «aoriston» (2), e non senza contraddirsi vuole che unità così vuota sia causa di tutte le cause (3). In terzo luogo la Mente, che è il secondo principio che viene immediatamente dall' Uno, e che è la causa che fa tutte le cose, il Demiurgo del Timeo (4), è anch' essa potenziale e imperfetta, perchè è l' ente co' quattro generi (5), senza alcun altra distinzione, onde non può contenersi in essa che una cognizione generica, per ciò stesso imperfetta. Ma come fa tutte le cose la Mente? Allo stesso modo come l' Uno fa la Mente. Quando la mente è perfetta, cioè pienamente costituita da' cinque generi [...OMISSIS...] , ella continua a contemplare, e contemplando divide i sommi generi in generi minori e in ispecie. Ora questa virtù cogitativa, che procede alla divisione de' generi primi, non è più la mente; perchè la mente, secondo la definizione, è la virtù contemplatrice de' soli generi: dunque è un altro: quest' altro è l' Anima; l' anima universale, i cui oggetti sono tutti i generi minori e le specie distinte (6). E fin qui, dice Plotino, vanno le cose divine (1): a questi tre principii Uno, Mente ed Anima si riducono: perchè l' Anima è costituita dalle specie, onde al pari della mente la chiama specie (2), quando continuando ad operare ed andando quindi colla sua azione fuori di sè, fuori da quello che la costituisce secondo la definizione; esaurite tutte le idee che sono per sè sempiterne: fa che sussista un altro diverso da sè e dalle idee: quest' altro non può esser più idea, ma la stessa realità del mondo mutabile e al rivolgersi del tempo subordinato: perciò non divino. Si deve osservare che l' operante in tutta questa derivazione è sempre l' Uno: il primo atto del quale lo costituisce; il secondo, eccedendo la sua costituzione e natura, non è più lui ma la Mente; il terzo, cioè quello che esce dalla Mente già costituita, non potendo esser la Mente perchè eccede dalla sua costituzione, è l' Anima; il quarto che esce dall' Anima già costituita, eccedendo dalla natura dell' Anima, non è più cosa che appartenga al mondo ideale, ma è il Mondo reale. Quindi tutte queste cose nel sistema di Plotino sono intimamente connesse e congiunte fisicamente come una continuazione di moto , cioè d' azione. Onde parlando della Mente dice che [...OMISSIS...] , quasi dica, che basta il trovarvi che fa il nostro pensiero una diversità qualunque perchè in quest' ordine di cose si debba considerare come un' altra sostanza o ipostasi. E lo stesso dice dell' Anima rispetto alla Mente (2). Il qual pensiero non si può negare che sia acutissimo, perchè trattandosi di nature pure e semplicissime, che non ammettono nulla d' accidentale, se qualche cosa vi s' aggiunge è perita l' identità, e la cosa aggiunta dee costituire un altro subietto diverso dal primo. Ma per ciò stesso rimane l' imperfezione nel primo, che essendo diverso non può essere perfezionato dal secondo: e questo è uno de' fondamentali errori, che vogliam notato nella dottrina di questo filosofo, essendo al tutto insufficienti quelle molte frasi che spesso adopera per schermirsi da questa terribile difficoltà, che da per tutto il persegue. Continuando dunque noi ad esporre questo ingegnosissimo sistema, per quanto la sua incoerenza il permette, facciamo osservare, che da esso risulta che la Mente sia quasi un' imagine o similitudine del primo Uno, e l' Anima un' imagine o similitudine della Mente; poichè nei generi, che costituiscono la Mente, c' è l' Uno; e nelle specie, che costituiscono l' Anima, sono i generi: onde come in uno specchio l' Uno si riflette nella Mente, e la Mente nell' Anima. L' Uno, tosto che fa un atto diverso dall' Uno, non è più uno, ma è la Mente; e questo primo atto, che è la Mente, è la contemplazione de' generi che distingue in sè. Quest' atto dunque, che è nell' Uno, non è l' Uno, ma già è la Mente. La Mente, trovandosi media tra l' Uno e l' Anima, ha come due atti: col primo riceve ed è l' atto con cui essa è, e coll' altro dà; col primo è generata, coll' altro genera, ed è l' atto con cui, contemplando sè stessa ne' generi che la costituiscono, vede i generi inferiori e le specie. Quest' atto, che è nella Mente, non è la Mente, ma l' Anima. L' Anima, trovandosi pure media tra la Mente e la Natura, ha primieramente due atti: costitutivo di sè l' uno, l' altro comunicativo: il primo veniente dalla Mente, il secondo dall' Anima stessa che contemplando sè stessa, cioè le specie tutte, vede in esse la realità (1). Ma quest' atto che viene dall' Anima ed è in essa, non è più essa, ma è la Natura. Oltrediciò continua la potenza nella Mente, già generata, tanto da affissarsi nell' Uno quanto d' affissarsi in sè stessa; ma nè l' uno nè l' altro atto la fa uscire dal divino: e però, benchè l' affissarsi nell' Uno sia quello che la costituisce nella sua eccellenza, pure anche coll' affissarsi in sè stessa non si deteriora. Del pari l' Anima coll' affissarsi nella Mente è costituita nella sua propria eccellenza, ma dopo d' avere, coll' affissarsi in sè stessa, prodotta la Natura sensibile, può in questa immergersi colla contemplazione: nel qual caso, uscendo dal divino, si deteriora. Tutto dunque si genera per via di contemplazione ( «ek theorias»), e non solo le idee, ma le cose stesse naturali sono teoremi ( «theoremata»), cioè contemplati (2); e la Natura reale operando non fa che contemplare le varie forme di cui si veste e in cui si pone. Come dunque dall' Anima esce la Natura reale? L' Anima, il complesso delle specie, il mondo intelligibile ultimato, ha la virtù di contemplare; contemplando opera; operando produce: dopo dunque che l' Anima è costituita, la sua contemplazione di sè non può più produrre specie: sorge dunque un altro da sè, che è la Natura reale. Non sarà disutile intendere il pensiero di Plotino esposto da Marsiglio: [...OMISSIS...] . La prima Anima dunque è separata dalla materia: ma, come l' intende Marsiglio, contemplando sè stessa in quanto è essenza, comparisce la materia , essendo esaurita tutta la distinzione e la serie delle specie; e in quant' è intelligenza, comparisce la forma incorporea , cioè l' Anima vegetale del Mondo, intelligente anche questa: i quali due principii uniti insieme compongono il Mondo temporaneo. Nella materia finisce l' atto della contemplazione: essa è venuta dall' essenza, ma già non è più essenza (non più ente), perchè l' essenza è sempre una specie o idea. All' incontro l' Anima vegetale del Mondo, che è la prima forma della materia, a questa unita, svolge di sè, contemplando ancora, la natura genitale, e questa la natura sensibile, l' una e l' altra delle quali è come una vita evoluta [...OMISSIS...] , e questa produce le forme ultime puramente corporee (3) sempre per uno svolgimento [...OMISSIS...] . L' anima vegetale dunque contemplando opera come vita genitale e sensibile (onde il tempo), e dominando la materia informe (prodotta insieme con essa dall' Anima prima), le dà e rimuta le forme corporee, onde la moltitudine e il moto locale, e gl' individui viventi ed intelligenti, gli uomini, gli animali, le piante. In questi ultimi prevale più la materia che ne' primi. Ma conviene che più particolarmente noi vediamo in che maniera, secondo Plotino, si originino l' anime umane. Stabilisce in prima questo filosofo, che tanto la Mente quanto l' Anima prima, universale, separata, sia ad un tempo una e molte, come provò Platone che l' ente è uno e molti. [...OMISSIS...] Poichè, componendosi la Mente da' cinque generi, e questi trovandosi in tutte le specie in cui si dividono; per partecipazione in tutte queste si moltiplica la mente, come l' essenza del fuoco che si trova in tutti i fuochi grandi e piccoli, secondo la similitudine che Plotino soggiunge (2). Così l' Anima, che è la contemplazione de' generi minori e delle specie, si moltiplica secondo che gli anelli della gerarchia ideale l' uno dagli altri escono, e tuttavia queste molte anime si riducono ad una sol' anima contemplante. L' ultima di queste produce l' Anima vegetale della Natura. Ora qual è l' Anima umana? Plotino, quasi dubitando, dice: [...OMISSIS...] . Quando dunque nel continuo operare delle cause si giunge all' Anima prima, o Mondo intelligibile, e questa contemplando sè stessa produce la materia e l' Anima vegetale svolgentesi nella vita genitale e sensibile; in questa rimane il mondo intelligibile delle specie, come in queste rimane la Mente o i generi, e in quest' ultima l' Uno o il bene. Ma l' anima vegetale operando nella materia genera e s' individua, e la più eccellente di queste generazioni è quella dell' uomo, in cui è l' Anima umana. Di qui il principio dell' Etica Plotiniana, che consiste nel dovere di contemplare praticamente ciò che è migliore e ottimo. Poichè, se l' Anima umana si compone delle parti accennate, non è difficile l' intendere come, in quant' è in essa l' anima separata, si tenga nel mondo intelligibile; e, in quant' è anima vegetale, sia tratta dalla sua propria natura verso il sensibile e materiale. Ora, come il primo moto all' insù la rivolge verso il bene, così il secondo moto all' ingiù verso il male: e secondo che ella è più forte, o più debole, il che dipende dalla generazione, tende al bene, o si abbandona volontariamente alla materia: col qual sistema di cause naturali tutte così incatenate non si vede come si possa, senza incoerenza, salvare la libertà umana (2). S' avvicina Plotino all' errore de' due principii, ossia cade in un errore affine, quando ripone nella materia lo stesso male per sè «tuto to ontos kakon» (1). Errore veniente dal primo: poichè, come Plotino pose qualche cosa al di sopra dell' essere, cioè l' uno, il Bene; così doveva collocare altresì qualche cosa al disotto dell' essere medesimo, la materia, priva d' ogni unità e d' ogni forma, il Male. Di maniera che fece l' Essere medio tra il Bene e il Male, partecipe dell' uno e dell' altro. Ma come questo era un tentativo intemperante d' ingegno di oltrepassare i limiti dell' essere «( Logic. , n. 11.4) », il che accade a tutti i filosofi unitari; così vien meno a tali speculazioni esorbitanti e la possibilità di concepire ciò che vogliono e d' esprimere i loro pretesi concetti in parole. Onde come, quando Plotino parla dell' Uno, è costretto dall' intrinseca necessità di attribuirgli quell' essere, ossia quell' essenza che pure gli toglie; così cade nella medesima incoerenza parlando della materia, di che in fatto non potrebbe parlare, se non le attribuisse qualche essenza o qualche modo d' essere (2). L' anima poi s' infetta e accoglie il male contemplando la materia (1). Ma questo le accade non per quella contemplazione di sè, per la quale la materia si produce, ma per una contemplazione posteriore; chè l' anima è per sè buona, e il male le accade come accidente. Ma onde questa contemplazione posteriore della tenebrosa materia? Dalla debolezza di quell' anima che ha immediatamente generato la materia, come ultima produzione del tutto. Onde poi questa debolezza? Venuta la catena delle cause all' ultimo anello, e all' infimo prodotto la materia; questa non può più produrre cosa alcuna, perchè in essa è esaurita ogni attività produttrice: non potendo dunque più progredire avanti, la materia tenta di tornare indietro, e d' invadere procacemente quell' anima che l' ha prodotta, e per mezzo di questo ritorno abbracciandosi quasi all' Anima, da questa acquista le forme, e ne nascono le potenze vegetali, generative e sensibili. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo Plotino non solo dà l' esistere alla materia, coll' accennata incoerenza, ma anche il conato e l' azione d' introdursi nell' anima, producendo così la generazione , che è il modo col quale l' Anima s' unisce stabilmente alla materia. Quindi, benchè il male venga, secondo Plotino, come ultimo e necessario effetto di quella serie di cause, che incominciano dal Bene, onde non si può dire che ammetta i due principii indipendenti de' Manichei; tuttavia cade in due gravissimi errori: il primo che il male sia qualche cosa di reale, com' è la materia, e che questo reale sia una produzione necessaria e diretta di Dio medesimo. Certo egli suppone, che, col semplice generare la materia, l' Anima non si renda mala; ma ella però genera il suo nemico, il male: che invadendola, e così dando luogo alla generazione, la fa cadere e macchiarsi. Da tutto questo apparisce quali sieno le categorie, secondo Plotino. Egli concepisce le categorie come sommi generi, e nello stesso tempo come principii elementari dell' ente. Al di sopra e al di sotto dell' ente e de' suoi principii categorici, egli pone qualche cosa: cioè al di sopra, il Bene o l' Uno, e al di sotto, il Male o la Materia. Fra questi due estremi, pone due enti medii (1), la Mente e l' Anima; la prima delle quali comunica da una parte immediatamente col Bene, da cui esiste; dall' altra coll' Anima cui produce: la seconda, da una parte comunica immediatamente colla Mente da cui pure esiste; dall' altra col Male, cioè colla Materia, cui produce. I sommi generi o categorie sono nella Mente e la costituiscono; le specie che ne derivano sono nell' Anima e del pari la costituiscono: l' una e l' altra una e molte. I detti generi e ad un tempo principŒ sono cinque: l' ente, il moto, la quiete, la diversità e l' identità, da Platone enumerati già nel Sofista, e altrove. Il difetto delle categorie di Plotino, come pure di tutti i Neoplatonici, si è quello di avere classificato con esse l' ente ideale , e non l' ente in tutta la sua generalità. In fatti i cinque generi da esso enumerati sono generi d' idee e non di cose: essi non possono sussistere in sè gli uni dagli altri separati, onde fu obbligato ad unirli in un ente compiuto, la Mente. Plotino risponde che, in quanto sono uniti insieme e così costituiscono la Mente, sono posteriori, perchè il composto è posteriore al semplice, il più all' uno: e però se si classificano gli enti composti, non si hanno più de' generi sommi, ma de' posteriori. Questo è specioso, ma erroneo, perchè procede dall' errore dell' Unitarismo, che confuteremo dove esporremo la teoria delle categorie e ne' libri ontologici, che verranno appresso. Oltre altri errori indicati nell' esposizione che abbiamo fatta del sistema plotiniano, quello che nasce dalla stessa origine si è che Plotino, al pari degli altri antichi, non raggiunse la distinzione tra l' esistenza obiettiva e l' esistenza subiettiva: onde dall' una passa all' altra senza addarsi dell' abisso che le separa. E non è che egli non ne veda una distinzione di concetto, ma non s' accorge che nelle idee (e dicendosi idee si parla de' possibili intuiti dall' uomo) non compariscono se non dotate di un' esistenza obiettiva senza subiettività alcuna, e in vece d' osservar queste come sono, argomenta come devono essere, salendo colla speculazione alla prima Mente, della quale l' Anima è il verbo [...OMISSIS...] e l' imagine [...OMISSIS...] . Ora la prima Mente è l' unione dei cinque generi, e però è un composto, secondo Plotino, delle cinque prime idee generiche. Ma è costretto tantosto a prendere queste cinque idee generiche come cose reali, cioè a dar loro anche un' esistenza subiettiva, altrimenti si rimarrebbero sterili e prive d' ogni azione. Dice dunque di questa sua Mente, risultante da' cinque generi: [...OMISSIS...] . Sul qual passo sono da osservare più cose: 1 Quando Plotino distinse dall' Uno la Mente e dalla Mente l' Anima, disse che la differenza si riduceva a una pura alterità. Qui all' incontro l' alterità non produce diversa ipostasi, ma una sola Mente: incoerenza, che non si vede come evitarsi; 2 Riconosce Plotino che non ci potrebbe essere intelligenza senza una dualità, cioè un intelligente e un inteso, il che è un vero prezioso. Ma poi non s' accorge dell' assurdo di lasciare il suo Uno (Dio) privo irremediabilmente di intelligenza, a cui si può applicare quello, che egli trova assurdo per la Mente, [...OMISSIS...] ; 3 E` vero, che non si dà intelligenza senza questa dualità d' un intelligente e d' un inteso; ma nelle idee, come sono i generi, questa dualità non si trova. In fatti l' idea, o specifica, o generica, o universale, presenta un inteso, ma quello che la intuisce e la intende è l' uomo reale, il quale non è un' idea. Allo incontro non si può concepire un' idea che intenda sè stessa, senza che cessi d' essere idea e diventi una persona. Se dunque ciò, su cui Plotino specula, sono le idee che hanno un' esistenza puramente obiettiva, con qual diritto o per via di qual ragionamento passa egli a trovare un' esistenza anche subiettiva, che è quanto dire una persona intelligente? Confonde dunque le idee colla Mente che intuisce le idee. Ed essendo le idee molte, da questo trae che la Mente non è solo una, ma anche molte. Ma se si concede che molte menti ci sieno, perchè ci sono molte idee, non rimane per questo provato che la Mente sia una. Che anzi facendo risultare la mente da cinque idee generiche o categorie, non si vede alcuna via di fare che queste cinque formino una sola ipostasi, se non ricorrendo a qualche attività straniera alle cinque idee, che le tenga insieme e le contenga. Dirà Plotino, che questo è l' Uno; ma in tal caso l' esistente subiettivo che intende sarebbe l' Uno, e questo solo sarebbe la Mente, e intenderebbe cinque cose, intese e non anco intelligenti. Ovvero se queste cinque cose intendessero, sarebbero cinque menti, cinque ipostasi, e non una sola. E lo stesso è da dire dell' Anima, che egli fa constare di generi inferiori ai primi, e di specie. Poichè questo ha di proprio ogni subietto di esser uno, e di non poter essere più subietti, nè risultare da più subietti, benchè nello stesso subietto più cose si possano distinguere col pensiero, ma non mai più subietti. Onde, od ogni specie è anche un subietto intelligente, e in tal caso i subietti che si chiamano anime intelligenti non sono una, ma più: o le specie non sono subietti intelligenti, ma solo obietti intesi, ed in questo caso, conviene di nuovo trovare il subietto unico nel primo Uno, e questa sola sarebbe l' ipostasi intelligente, questa sola l' Anima che intenderebbe ugualmente e identica i generi, e ne' generi le specie. Forse Plotino replicherà che, altro essendo l' Uno considerato come puro Uno, altro quell' atto dell' Uno che contempla i generi, altro quello che contempla le specie, questi tre atti fanno che si distingua l' Uno in tre subietti. Ma non ogni alterità, a giudizio di Plotino stesso, costituisce un subietto diverso, altramente i cinque generi, e gli altri minori, e le specie, sarebbero altrettanti subietti diversi. Ora nè i generi, nè le specie, che come obietti sono diversi, hanno subiettività alcuna in sè che gli unisca. Nè si può conoscere che sieno più, se non c' è un subietto unico che ne contenga la loro pluralità, e che sia da questa diverso, nè un subietto può conoscere le specie se non ne' generi: e però il subietto, che conosce queste, deve essere identico a quello che conosce i generi. E, se ci fosse un subietto che conoscesse i soli generi e non le specie, come si troverebbe poi quello, che conoscesse le specie, se le specie stesse, molte come sono, quand' anco fossero subietti, sarebbero molte e non una? e una sola non si potrebbe nè pure conoscere come specie? Che se poi Plotino fosse pervenuto a ridurre le idee ad una sola, al che non giunse, qual poi sarebbe il principio della loro moltiplicazione? Questo non può essere, come noi abbiamo mostrato nella « Ideologia (n. 1449) », che un elemento di diversa natura dalle idee stesse, elemento variabile, a cui la idea si congiunge, cioè la realità; ma in tal caso, questa sta di fronte alle idee da loro originalmente indipendente, e non può venire, come la fa venire Plotino, dalle idee stesse già moltiplicate fino all' ultime loro specie. Onde anche per questa ragione si prova assurdo che la materia , e in universale la realità , dalle idee stesse sia generata; quand' anzi l' idea stessa rimarrebbe sterile, e non si potrebbe moltiplicare senza di questa. Se di più Plotino avesse veduto non solo che c' è un' idea sola anteriore ai generi e alle specie, ma che quest' idea dee avere una subiettiva sussistenza; in tal caso avrebbe dovuto conchiudere, che in un tale essere (al tutto diverso dalle idee che l' uomo intuisce), si trovavano due principii irreducibili: cioè l' intelligibile e il sussistente, e un solo e identico essere in entrambi: e così avrebbe conosciuto che l' essere primo non può essere Uno puro, ma un essere con una doppia forma, e avrebbe scoperte le due prime supreme forme dell' essere, e, come diremo, le due prime categorie. 4 Dalle quali cose si scorge che la maniera di filosofare di Plotino pecca per una gran mancanza di raziocinio dialettico (comune difetto de' nuovi platonici), onde asserisce le cose più gravi, e procede di asserzione in asserzione, senza rendersene esatto conto o darne qualche prova al lettore, contentandosi di leggiere e sottintese analogie per dedurne gravissime e paradossali conseguenze, che avrebbero bisogno di aperti e rigorosissimi raziocinŒ a persuadersi, facendosi altresì caso delle possibili obbiezioni. Questa sicurezza e autorevolezza di procedere, che, tenendo nascosta la catena logica, pretende da' suoi lettori che la indovinino da sè stessi e non ci facciano mai sopra difficoltà, è la stessa che quella che si vede nell' Hegel, e in tutti i filosofi entusiasti e imaginosi, i quali vogliono colla loro oscurità e misticismo imporre al pubblico, e captivarlo al loro carro trionfale; 5 Ma invano: il pensatore trova facilmente che tutti cotesti sistemi e in particolare quello di Plotino sono ipotetici, nè dicono esplicitamente il principio su cui si fondano, ma, senza accorgersene essi medesimi, lo suppongono; onde il principio, la base vera del sistema rimane sempre fuori del sistema; il che toglie loro l' esser sistemi. Così Plotino che descrive l' uscita di tutte le cose dall' Uno, e prima della Mente, poi dell' Anima o Mondo intelligibile, e finalmente del Mondo sensibile, non adduce alcuna ragione sufficiente per la quale i continui prodotti abbiano quel numero preciso d' anelli, e non più nè meno; e perchè l' Anima, a ragion d' esempio, s' esaurisca colle specie ultime, e perchè subito dopo ne esca il Mondo sensibile, e perchè tutto si fermi alla fine nella Materia. Ora qual è questo perchè? Certamente è questo che nella serie delle specie quando il nostro pensiero perviene a quelle che sono pienamente determinate (dette da noi specie piene, «Ideol. , n. 650 »), allora non sono più concepibili altre determinazioni, e quando si perviene alla materia, non si concepisce più nulla dopo di essa. Così appunto Plotino dice che la Mente ha in sè tutte le cose [...OMISSIS...] . Ora, in questo discorso, tutte le cose , [...OMISSIS...] , sono supposte dal sistema, e non ispiegate. Come dite voi che la Mente comprende tutte le cose, se non so ancora che ci sieno le cose, e che cosa importi questo tutte? Voi cominciate dall' abbracciarle tutte in una parola, e non fate difficoltà alcuna ad ammetterle, nè mi dite prima come sieno, o perchè sieno: e quindi la vostra filosofia parte da un tutto supposto. [...OMISSIS...] Ma che cosa è questo « tutto ciò che c' è di enti? » «pan ton onton». Voi non me lo dite: supponete sempre « tutto ciò che c' è di enti », quando sarebbe pur quello, che dovreste spiegare, e supponete di conoscerlo appieno pronunciando la sentenza che « tutto ciò che c' è di enti dee avere la sua operazione ». Appresso ancora viene questa sentenza: [...OMISSIS...] . Qui di nuovo si suppone conosciuto l' essere nel suo ordine intrinseco, e conosciuto tutto l' essere, e da questo presupposto, che è tutto il sistema, si trae il sistema, si decide che l' essere non può per sua natura fermarsi nell' intelligibile, benchè si abbia detto prima che nell' intelligibile c' è già tutto, che è possibile di farsi altro ed altro, che perciò quest' altro si dee fare, che ciò che si fa dee essere sempre un minore, e che essendovi l' anteriore, dee di conseguenza uscirne tutta la serie, fino all' ultimo anello che è la materia; senza mai dire perchè l' essere sia così fatto, e perchè l' ultima dell' essere sia la materia. Tutto il sistema dunque è basato sopra un sott' inteso, cioè sopra la natura dell' essere, che si suppone fatta in una data maniera, senza alcun esplicito esame, nè alcuna prova; e su questa supposizione poi s' argomenta a quello che di necessità deva fare l' essere, acciocchè risponda al sistema del filosofo. E tuttavia, benchè si tragga tutto dalla totalità dell' essere supposta in un modo supposto, si osa dire che c' è qualche cosa al di sopra e al di sotto dell' essere stesso! Ci ha dunque abuso di speculazione per mancanza di vera e compiuta speculazione. Finalmente stimo di non dover preterire del tutto la scuola de' Neo7platonici intorno alle derivazioni e partizioni dell' ente. Ella si può dividere certamente in più sˆtte, delle quali una fu quella de' Gnostici. Come furono divisi i Gnostici in due grandi classi, degli unitari cioè che derivavano ogni cosa da un solo principio, e dei dualisti , che ponevano due principŒ eterni: Iddio e la materia; così si potrebbero classificare anche i filosofi Alessandrini in generale (1). Lasciando noi i dualisti, si può compendiare in questo modo la teoria dei Neo7platonici unitari: « Tutte le cose, superiori ed inferiori, divine ed umane, eterne e temporali, fluiscono da un medesimo principio, e sono tenute insieme da un solo vincolo: le nature vanno compartite in diverse cerchie, secondo i gradi della loro eccellenza: le cerchie si allargano secondo l' imperfezione degli enti che contengono: l' infimo grado è occupato dalla materia ossia dal mondo sensibile: una cerchia più su stanno gli enti forniti di spirito e d' animo, quali sono le forze della natura, le anime, i demoni: superiormente a questi si trovano i generi delle cose intelligibili, ossia le idee: tiene il luogo supremo una tale natura, che abbraccia colla sua virtù, e collega in sè i generi tutti delle cose e le forze diffuse per l' universo. Tutte queste maniere di ente sono così distinte per natura come la mente nostra le concepisce distinte. « Causa di tutta questa piramide o piuttosto cono di enti è quella somma natura, che ne tiene la cima, dalla quale come da fonte emanano le cose riversandosi e cadendo da quello stato puro e divino in condizione più abbietta dalla regione intelligibile nell' umile e terrena feccia quasi sommerse. « Ora quella natura suprema, fonte dell' altre, contiene nel suo seno tutti i contrarii generi delle cose congiunti, avvincolati in uno, e indistinti: e però è uno e molti ad un tempo ( «en polla»), immoto e mobile, principio di natura e tuttavia natura perfetta e completa, dotato di mente e cotale, che in esso si stringono in uno il principio del pensare ( «o nus»), l' azione del pensare ( «noesis»), e il termine od oggetto del pensare ( «noeton»): la chiamano poi perfettamente ente ( «to pantelos on»), e per eccellenza l' intelligibile ( «to noeton»). Laonde, benchè questa natura sia una e tutta, può non di meno dividersi quasi in parti, ma non però separarsi ( «ameristos merizesthai»), ravvisandosi in essa l' ente uno ( «hen on») e i molti ( «plethos»), e il vincolo che lega l' uno co' molti. Così si rinvengono tre cose, i diversi generi, «ta polla», l' uno che li collega, «to on», la punta o supremo fastigio e fonte dell' universo, l' ente per sè, l' ente unico, che unicamente è «to on, monadikos on» »(1). Tutte queste cose i Neoplatonici le dicono più tosto sentenziando che ragionando, e più tosto come effati arcani che come dottrine esplicate. E questo è il carattere di tale scuola, opposto a quello della filosofia di Platone stesso. Perocchè il filosofare di questo grand' uomo è un continuo dialettizzare; quando ciò che si desidera nei libri de' nuovi Platonici è appunto quel far dialettico che analizzando e provando stringe. Quest' è forse difetto generale de' discepoli, i quali da' loro maestri si contentano di t“rre le conclusioni alleggerendosi della fatica de' loro ragionamenti, supponendo quelle provate: e così poscia si ripetono come affermazioni sorrette dall' autorità, non giustificate dalla ragione. Al qual modo di filosofare si diedero specialmente i filosofi Alessandrini pel gusto che trovarono nelle dottrine orientali, le quali non sono ragionate e dialettiche, ma autoritative, brevi e apoftegmatiche. Quindi ne' sistemi de' Neoplatonici manca il nesso delle sentenze, cioè si preteriscono quelle questioni che cercano come una cosa venga dall' altra, e che pur sono quelle sole che potrebbero dare alla dottrina luce e forza a persuadere. Manca dunque in tali sistemi quello appunto che per essi si cerca, e si ha diritto d' avere. A ragion d' esempio, quando i Neoplatonici dicono, avervi una natura suprema, la quale è uno e molti ad un tempo, immota e mobile, principio di natura e tuttavia natura perfetta, e in fine contenente tutti i contrari generi delle cose, avvincolati in uno ed indistinti, credono d' avervi bastevolmente ammaestrati. Ma il fatto sta, che ancor mancano interamente, non sono neppure accennate le questioni vitali che possono contenere qualche verace ammaestramento per noi. Perocchè queste questioni sono, come l' uno possa esser molti? come il mobile possa esser immobile? come ciò che è principio di natura possa esser la stessa natura? come i contrarii generi ed anzi le contraddizioni stesse possano giacere nell' ente medesimo semplicissimo? Queste questioni di somma importanza e difficoltà non si possono ammettere, non si possono evitare da un filosofo, come si eviterebbe da un debitore per via l' incontro di un creditore: ci si affacciano dappertutto importune con quel terribile - Come? in bocca: e se noi facciamo i sordi, o non rispondiamo per villania, restiamo puniti da noi stessi privandoci della sapienza filosofica che cercavamo. Che fanno adunque i Neoplatonici? Confessare aperto di non potersi spacciare da quelle questioni, sarebbe un andare troppo manifestamente contro il loro intento, che è quello di filosofare delle altissime cose. Essi dunque pigliano la via di mezzo, che è bensì più corta, ma non li conduce al termine: nè si propongono quelle questioni direttamente pigliandole a svolgere per disteso, nè le lasciano del tutto insolute; ma le risolvono per incidenza, e come a caso, sempre sentenziando invece che ragionando e deducendo. Trattasi, poniamo il caso, della questione Come l' uno sia i molti? Essi la risolvono dicendovi che « l' Uno scade dal suo « stato puro e divino in una condizione più abbietta », e così credono d' avervi pienamente soddisfatto. Ma chi mai non vede, che la difficoltà non è tolta con ciò, ma mutata in altra, e travasata di alcune parole in altre parole? Perocchè il difficile sta appunto qui nel sapere come l' uno, la natura prima e suprema, possa scadere dall' esser suo, e scadendo dall' esser suo non cessi di essere quello che è; come ella si possa trasformare, e tuttavia rimanere identica; come possa emanare di sè qualche cosa e tuttavia non diminuire; possa o parte di sè stessa o tutta sè stessa scendere a stato inferiore, e tuttavia nulla perdere di sua primitiva eccellenza. Ecco le questioni, che i Neoplatonici non risolvono: è sempre il gran problema dell' Ontologia che si affaccia per tutto, e che s' indura come diamante all' umano ingegno. Ma restringendosi a parlar solo delle categorie de' nuovi Platonici, essi le riducevano a tre, come vedemmo, cioè all' ente per sè, ai molti, e all' uno che legava ed identificava l' ente per sè ed i molti. Ora quel vincolo che lega l' uno e i molti rimane primieramente personaggio incognito, e però rimane incerto se possa fare una categoria da sè, o piuttosto appartenere ad un' altra categoria, per esempio, a quella de' molti: nè si vede qual vincolo possa avervi tra l' uno e i molti: che non sia egli stesso o uno o molti. D' altra parte i Platonici identificano l' uno coll' ente per sè, e così sono astretti a parlare dell' uno in due diversi significati, o come identico all' ente perfetto, o come vincolo dell' ente perfetto e dei molti. In secondo luogo l' uno non può costituire, propriamente parlando, una categoria; conciossiachè niuna cosa può essere se non è una, e però le cose tutte, niuna eccettuata, apparterrebbero alla categoria dell' uno. In terzo luogo i molti neppur essi possono dar nome ad una categoria; poichè o si parla de' molti presi singolarmente, e in tal caso ciascuno individuo è uno e non molti, appartiene alla categoria dell' uno, e non a quella di molti: o i molti s' intendono complessivamente, e in tal caso sono un complesso unico, che per la sua unità appartiene ancora alla categoria dell' uno. Se poi i molti si considerano ad un tempo nell' unico loro complesso e negl' individui che il formano; allora la parola molti non significa che quella relazione di somiglianza che hanno più singoli individui, onde dànno l' idea di numero; e così a questa categoria non apparterrebbero che le relazioni di somiglianza, per le quali si classificano gli enti, le quali relazioni di somiglianza non possono classificare una classe di enti, una categoria, ma piuttosto sono il fondamento di tutte le classi. Se poi per molti s' intende quella moltiplicità che si trova nel medesimo ente; neppur questa può costituire alcuna categoria, almeno se non si determina la natura di questa moltiplicità; e il determinar questa natura è di quelle questioni appunto che si trapassano dai nostri filosofi, quando dovrebbero in esse porre ogni sforzo d' ingegno. E veramente se si parla d' una moltiplicità qualunque, egli è indubitato, che ogni ente ha qualche moltiplicità: e, come la fede pone tre persone nello stesso Dio, così la ragione non può dimostrare in ciò alcun assurdo. Onde per nessun verso l' ente uno e il molti dei Neoplatonici possono pigliarsi per vere categorie. L' affinità e continuità delle sentenze ci persuase che riuscirebbe più naturale e facile la nostra esposizione raggiungendo Plotino a Platone. Ora dobbiamo tornare ad Aristotele, che esige una speciale attenzione. Aristotele è indubitatamente il più grande tra i discepoli di Platone, e se non lo arriva per elevatezza di mente, non gli sta addietro per sottigliezza, ed ha il merito grandissimo di avere ridotta a scienza la sillogistica «( Logic. , n. 26) », e d' averci lasciato de' libri, o de' commentari su tutte quasi le parti della filosofia. Sono ben lontani per lo più cotesti scritti aristotelici d' esser condotti, come si crede da molti, con un ordine rigorosamente scientifico. Anzi essi sottintendono sempre la scuola vocale (2), e per lo più disputano di questioni che dovevano esser vivissime a quel tempo tra i discepoli di Platone: questioni che talora conviene indovinare, per bene intendere a che miri e che voglia dire Aristotele, e in che stia la forza de' suoi ragionamenti. Nondimeno l' estensione e la varietà delle materie toccate nelle diverse opere di Aristotele, e l' aver egli approfittato di tutti i suoi predecessori, massimamente delle dispute che ebbero luogo nella scuola di Platone, ci consigliano ad esporre il suo sistema alquanto più copiosamente che non abbiamo fatto co' precedenti. L' ente può essere considerato in sè stesso, secondo che viene appreso in diversi modi e dalle diverse facoltà dello spirito umano, e secondo che è significato nel linguaggio. Quindi si presenta una triplice partizione dell' ente, verbale, dialettica e fisica . I filosofi precedenti a Platone, come i Pitagorici, privi ancora della dialettica e della logica, o avendola solo com' arte, non come scienza, non poterono accorgersi di questa triplice classificazione, e però le loro categorie altro non furono che certe classi, nelle quali l' ente alla rinfusa si prende ora sotto un aspetto ora sotto un altro. A Socrate e a Platone è dovuta principalmente la Dialettica e Logica riflessa e scientifica. Ma come l' entusiasmo, che suole accompagnare ogni invenzione, esagera ciò che s' inventa, la novità della vista rapendo quasi estatica a sè la mente; non è meraviglia che in Platone la Dialettica e la Logica traessero a sè ed assorbissero tutta la filosofia. Le categorie così divennero una classificazione ristretta agli enti ideali e mentali, e l' ente reale non ebbe in esse l' importanza che gli è dovuta. Quindi non pare del tutto aliena dal vero la critica che Aristotele fa a' filosofi più recenti (e vuol alludere certamente a Platone), là dove osserva, che essi [...OMISSIS...] . Ma seppe poi Aristotele stesso andare immune da una censura, se non uguale, simile a quella che egli fa al suo maestro? Certo, egli pose molta attenzione nella necessità di trovare una causa al moto, che non si poteva trovare nelle pure idee: e quindi, facendo un passo indietro, l' accompagnò agli antichi, che non separavano le idee da' reali, come dice egli stesso (1), e in questi soli vedevano le sostanze. Ma rivolgendosi alla considerazione de' reali, quasi abbandonati da Platone, disconobbe in parte la natura delle idee o specie, che rinchiuse nè reali, benchè finiti; e, rispetto a questo, cadde nell' eccesso contrario a quello che egli attribuisce a Platone. Di poi, riducendo a forme scientifiche la Dialettica del suo maestro, empì la filosofia d' entità di ragione , e a una classificazione di queste si riducono le sue categorie. Come dunque Platone diede un' attenzione troppo esclusiva alle idee , così Aristotele la diede pure troppo esclusiva alle entità mentali: e però nè l' uno nè l' altro uscirono bastevolmente, colla meditazione filosofica, dalla mente umana. La realità dell' ente finito nondimeno prende in Aristotele un posto alquanto più importante che in Platone. Sebbene dunque nè pure in Aristotele sieno tenute costantemente distinte le tre partizioni dell' ente sopraccennate, tuttavia confusamente ci appariscono; e però noi raccoglieremo da' libri di questo filosofo, e distribuiremo a parte, quello che a ciascuna di esse appartiene. Coglieremo quest' occasione altresì per fare su ciascuna di esse delle riflessioni non solo v“lte a distinguere quello che ci sembra inesatto, ma a perfezionare anche quello che ci sembra esatto e vero: il che ci risparmierà il dover ripetere le stesse cose altrove. Quando il linguaggio esprime fedelmente e senza equivoci i pensieri di chi parla, allora la partizione dialettica dell' ente e la partizione logica sono la medesima. Ma quando il linguaggio induce nell' animo altri concetti da quelli che naturalmente e logicamente si dovrebbero avere delle entità che vengono espresse, o connessi altrimenti, allora si manifesta la necessità di far notare nell' uso delle parole tutti que' casi, ne' quali i concetti e i pensieri umani non sono significati dalla lettera; al qual fine Aristotele scrisse i due libri « Dell' Interpretazione ». Egli trattò ancora più ampiamente la parte dialettica nei quattro libri che abbiamo sotto il titolo d' « Analitici », i quali risolvono gli argomenti nelle legittime loro forme sillogistiche, e si dividono in priori e posteriori . Noi non abbiamo bisogno di fare qui l' analisi di tali libri, che non si limitano solamente a dimostrare quando il linguaggio generi nella nostra mente nuove maniere di concepire e di connettere le entità, difformi da' concetti e dalle connessioni naturali; ma svolgono altresì tutte le fallacie delle argomentazioni: su di che questo filosofo ritorna in altri scritti ancora. All' uopo nostro ci limiteremo ad accennare quanto egli tocca in principio all' opera de' « Predicamenti » o Categorie; poichè qui egli incomincia ad avvertire appunto que' principali modi, nei quali il linguaggio devia dal rendere i precisi concetti della mente; onde se non si correggono coll' arte d' interpretarlo, facilmente si pigliano da esso concezioni assurde e nessi inestricabili; il che renderebbe impossibile la soluzione del problema ontologico. Questo esige prima di tutto che si dissolvano gli enti fattizi, di cui la ragione sufficiente sta appunto nella fattura e nella composizione che si genera nella mente a cagione del segno esterno. Osserva dunque Aristotele che le essenze (1), significate da nomi comuni, or sono della stessa, ora di altra natura: i primi nomi li chiama univoci ( «synonyma»), i secondi equivoci ( «omonyma»). Così il nome animale in quant' è comune all' uomo e al bruto è univoco, perchè significa la stessa essenza, l' animalità: ma il nome uomo , in quant' è applicato ad un uomo vero e ad un uomo dipinto, è equivoco, perchè il solo nome è comune, ma i concetti significati sono diversi (1). Dove si vede che l' essere un nome univoco od equivoco non appartiene al nome in se stesso, ma all' applicazione e all' uso che se ne fa. Di che avviene, che lo stesso nome si adoperi ora univocamente , ed ora equivocamente (2). Cadrebbe dunque in errore colui che, dall' unità soltanto del nome che si dà a più essenze, inducesse l' unità dell' essenza o del concetto; come cadrebbe in errore colui che inducesse la pluralità delle essenze o de' concetti da più sinonimi. Una dunque delle prime regole logiche ed ontologiche deve esser quella di ridurre, prima di tutto, il discorso al suo vero significato, di spogliare i concetti e gli enti dalle vestimenta delle parole, figgendo la mente in quelli anzi che in questi ( Logic. , n. 972). Il non aver fatto questo abbastanza, fu sempre la rovina della dialettica, degenerante in sofistica, tostochè essa, invece di attenersi a' concetti, si legò co' denti alle parole, prendendole per altrettanti concetti: e l' uggia che s' era messa di maneggiar quest' arme delle forme verbali non solo in assalire, ma ancora in difendere il vero, scemò forza a' difensori, e l' accrebbe agli assalitori. Nomi equivoci adunque, ovvero omonimi , si dicono quelli che s' accomunano a due essenze o a due concetti diversi. Gli Scolastici osservarono che, tra' nomi comuni a concetti diversi, alcuni sono tali che s' accomunano a concetti che non hanno alcun ordine o rispetto tra loro, altri a concetti che hanno qualche ordine o rispetto tra loro. A' primi lasciarono la denominazione di nomi equivoci , ai secondi diedero la denominazione di nomi analogici . Ma, ogniqualvolta un nome fu trasportato ed esteso dall' uso da un significato ad un altro, i concetti significati da quel nome hanno sempre tra loro qualche ordine o rispetto; e lo stesso esempio che arreca Aristotele de' nomi equivoci, cioè della voce uomo applicato all' uomo vero e all' uomo dipinto, segna due concetti che hanno similitudine nella forma e nel colore, benchè non così nella essenza significata dalla parola uomo . Ciò non può avvenire se non rispetto a que' nomi che casualmente significano cose diverse: per esempio, esse che vale essere ed anche mangiare; jus che vale diritto ed anche brodo , ecc.. Onde i greci filosofi distinsero i nomi equivoci primieramente in due classi, nell' una riponendo quelli che sono tali a casu , nell' altra quelli che sono tali a consilio . E così anco S. Tommaso chiama puramente equivoci quelli che sono tali per caso, e non quelli che sono equivoci per consiglio degl' imponitori (1). Questi ultimi senza distinzione vengono detti analogici dagli Scolastici. I filosofi greci divisero gli equivoci a consilio in tre classi: I Quelli, la cui denominazione comune esprime varie loro relazioni di dipendenza con uno stesso oggetto a cui primieramente spetta il nome [...OMISSIS...] . Così si dirà rodente tanto una sega, quanto un torrente, per la relazione di similitudine che entrambi hanno coll' atto del rodere; II Quelli, la cui relazione comune esprime varie relazioni di ordine ad un fine od effetto [...OMISSIS...] . Così si dirà medicinale tanto una radice, quanto uno stromento, o un esercizio, perchè ciascuna di queste tre cose sono ordinate all' effetto di restituire la sanità; III Quelli, la cui denominazione è comune a ragione della proporzione che hanno tra loro, e questi sono quelli a cui gli antichi riserbarono il nome di analogici (2), come si può vedere presso Ammonio e Simplicio, dove espongono la definizione dei nomi equivoci data da Aristotele (1). Così la denominazione di piede data al piè dell' uomo e al piè del letto, osserva Ammonio, è analogica; perchè il piè del letto sta al letto, come il piè dell' uomo all' uomo, cioè a dire l' uno e l' altro sono nella parte inferiore e servono a sostenerlo (2). Pure il restringere la parola analogia al semplice significato di proporzione, fa sì che rimane imperfetta la classificazione dei nomi equivoci. La primitiva origine di quella parola ha un significato più ampio della latina parola proportio; e se fu ristretto a indicare proporzione, anche in questo vocabolo, come in tanti altri, rimase imperfetta la lingua filosofica. E veramente la proporzione non appartiene che alla quantità, ed è determinata; l' analogia si rinviene anche tra le qualità, e le essenze, e le sostanze stesse, a tale che non si può determinare. E però il parlare dell' analogia, movendo unicamente dalla proporzione che passa tra diverse quantità e ragioni di quantità, fa sì che la parola analogia non convenga più in senso proprio e rigoroso a que' ragionamenti, che trattano delle cose spirituali, e massimamente delle divine, in cui non cade la quantità; ovvero che volendola a ciò usare si trasportino nel discorso ontologico i concetti limitati tolti all' estensione, allo spazio, ed al tempo. Laonde noi crediamo che si deva rendere più esatto e perfetto il linguaggio riguardante la classificazione de' nomi comuni; e che ciò si ottenga classificandoli in questo modo: Classificazione de' nomi comuni . I Classe . - Nomi comuni presi in senso proprio, e significanti un' unica essenza, applicabili a più individui, i nomi univoci (1); II Classe . - Nomi comuni presi in senso proprio, e significanti più essenze per puro accidente, essendo stati imposti ad una essenza senza riguardo all' altra, onde significano ciascuna essenza in senso proprio. Così Tigri significa il fiume, e significa anche animali feroci. Quando si dice Tigri per significare il fiume la parola è usata in senso proprio; quando si dice tigri per significare animali feroci, la si dice pure in senso proprio, senza alcuna considerazione al fiume di questo nome: aequivoci a casu; III Classe . - Nomi comuni imposti a più essenze diverse a bel consiglio, acciocchè col richiamare alla mente una di quelle essenze più note, udendosi il nome imposto all' altra meno nota o men vivamente conosciuta, questa s' intenda meglio per via di quella. Traslati, aequivoci a consilio . Ora quest' ultima classe è quella che importa diligentemente suddividere; e noi crediamo di poterne fare sei generi de' nomi metaforici, metonimici, causali, effettuali, proporzionali ed analogici . Egli è mestieri definire il carattere di tutte queste maniere di nomi traslati. 1 GENERE - Nomi metaforici . - Restringiamo questa denominazione a que' nomi che esprimono una qualche entità sensibile o vivamente conosciuta, e che si trasportano a significare una simile entità in altro subietto, dove la stessa entità trovasi in grado inferiore meno sensibile, affine di render questa più viva ed esagerarla. Così di un uomo sagace si dirà che ha uno sguardo acutissimo, trasportando l' entità dello sguardo acuto proprio dell' occhio corporeo ad una simile qualità che è nell' intendimento; perchè quella qualità, essendo più nota e viva perchè sensibile, aiuta a fare intendere la qualità dell' intendimento non sensibile, e però non vivamente conosciuta. Le metafore sono suggerite all' uomo dalla facoltà d' imaginare, e da quella legge del pensare umano, per la quale l' uomo vuole rendere a se stesso sensibili e vestire d' imagini le idee. I detti nomi applicati a significare sì un' entità in senso proprio e sì una entità in senso metaforico e rappresentativo, diconsi usati equivocamente a bel consiglio. 2 GENERE - Nomi metonimici . - Sotto questa denominazione comprendiamo tutti quelli, co' quali, volendo richiamare alla mente altrui un' entità, invece di indicarla col suo proprio nome, la indichiamo con un altro, che non esprime cosa simile come fa la metafora, ma tale però che per mezzo di essa incontanente soccorre alla mente altrui l' entità che vogliamo esprimere, principalmente coll' aiuto del contesto del discorso. Quindi diciamo or la parte pel tutto, ora una qualità per una sostanza, e viceversa una sostanza per una qualità, ora il contenente pel contenuto, ora un indizio o segno qualunque arbitrario, bastevole, pel contesto del discorso, a risvegliare nella mente ciò che vogliamo. Le metonimie sono suggerite all' uomo dalle facoltà dell' associazione delle idee, e da quella legge per la quale colui che parla è mosso a dire il menomo possibile per ottenere d' essere inteso, il che è anche un fonte dell' eleganza del discorso, e chi ascolta ama quell' eleganza, nè vuole udir tutto espresso, ma trovare qualche cosa da sè, e così non fare meramente il passivo, ma l' attivo. Le metonimie e le metafore s' uniscono talora in una sola parola, a ragion d' esempio il chiamare tigre un uomo crudele involge una metonimia, pigliandosi la tigre per esprimere la sua qualità d' esser crudele, ed una metafora venendo applicata ad uomo. I vocaboli adunque applicati ad un oggetto in senso proprio e ad un altro in senso metonimico, sono una seconda classe di nomi usati equivocamente a bel consiglio. 3 GENERE - Nomi proporzionali . - Questi sono quelli che gli antichi chiamavano analoghi , presa la parola analogia in senso ristretto per proporzione (1); ma poichè la proporzione non è che una speciale convenienza che si trova nelle quantità e ne' numeri, perciò è da separare questa specie di convenienza dalle altre, che verranno appresso; senza di che non si riuscirebbe giammai ad avere un linguaggio preciso applicabile alle cose divine. A ragion d' esempio, il definire gli analoghi per quelle cose che hanno proporzioni simili, e poscia il dire che la scienza si predica di Dio e dell' uomo analogicamente, riesce un favellare inesatto. Perocchè non è mica vero che quella proporzione che ha la scienza dell' uomo all' uomo, l' abbia pure la scienza di Dio a Dio; giacchè la scienza dell' uomo sta all' uomo come un abito al soggetto, quando la scienza di Dio sta a Dio con relazione d' identità. Noi diremo dunque proporzionali i nomi in quanto s' applicano ad oggetti di diversa natura, per cagione della ugual proporzione che ha ad essi ciò che loro s' attribuisce. Così quando diciamo il piè dell' uomo, e il piè dell' albero, o del monte, o del letto; noi abbiamo usato lo stesso nome a indicare più cose aventi la stessa proporzione ai subietti, di cui si dicono. I nomi proporzionali si possono pigliare come una suddivisione di metaforici, ma meglio si distinguono da essi per questo: che i metaforici così si chiamano, perchè sono nomi di cosa più nota e vivamente conosciuta applicati a significar cosa simile, ma men nota; laddove i nomi proporzionali non si fondano nella semplice somiglianza , ma nella somiglianza o uguaglianza di proporzione . 4 GENERE - Nomi effettuali . - Così chiamiamo quelli, che esprimendo il nome d' una causa, si applicano a significare un effetto. Così si dice un « uomo sano », e si dice pure una « cera sana », per dire che quella cera è tale, che apparisce come effetto, e quindi indizio, della salute che gode l' uomo. Questi nomi, appartenenti in senso proprio alla causa, ma applicati a significare l' effetto, sono quegli che gli antichi dicevano equivoci ab uno . I nomi effettuali si possono pigliare come una suddivisione de' metonimici, ma meglio si distinguono per questo, che nella metonimia si pone la causa per indicare l' effetto unicamente come un segno di questo, senza che sia espressa nel vocabolo la relazione. Così quando i latini chiamano Bacco il vino, e Cerere il pane, non esprimono mica con ciò che il vino sia invenzione di Bacco, o le biade di Cerere. Ma dicendo sana la cera d' un uomo, si fa intendere la relazione di questo effetto colla sanità che n' è la causa, e però senza conoscerne la causa non si può intendere il vocabolo; laddove si può sapere che pieno di Bacco, vuol dire pieno di vino, ignorando chi sia stato Bacco, e che abbia fatto, essendo un nome proprio, non avente, come tale, relazione al vino. 5 GENERE - Nomi causali . - I vocaboli acquistano questa appellazione, quando si vuol esprimere la causa, e lo si fa applicandole il nome dell' effetto. Così dicendo sano l' uomo, e sano il cibo o la medicina, il vocabolo sano è usato equivocamente: perchè applicato all' uomo è in senso proprio; e s' applica al cibo, o alla medicina, perchè la medicina o il cibo è cagione della sanità che è nell' uomo. La qual maniera di predicazione equivoca è quella, per la quale i greci filosofi dicevano tali nomi equivoci ad unum . Anche questi si possono pigliare come suddivisione dei metonimici; ma è da fare un' osservazione simile alla precedente, cioè si possono distinguere da' puri metonimici in questo: che, per essere un nome metonimico, basta che esprima la causa per via dell' effetto come un segno o indizio di lei, senza che nell' applicazione del nome sia espressa la relazione dell' effetto alla causa, laddove i nomi causali esprimono questa relazione, nè si possono intendere senza conoscerla. Così dicendosi, che viene punito il delitto , o premiata la virtù, si prende il delitto e la virtù pe' delinquenti o pe' virtuosi, e questa relazione è compresa nel contesto del discorso. 6 GENERE - Nomi analogici o indeterminatamente proporzionali . - Riserbiamo questa denominazione a que' nomi, i quali in senso proprio significano qualche cosa che positivamente conosciamo, e che si trasferiscono a qualche cosa che conosciamo negativamente, a cagione delle relazioni che la cosa cognita ha coll' incognita con una certa proporzione che non si può determinare, o che è del tutto indeterminabile. Così il cieco applica i vocaboli tolti dalle sensazioni dell' udito a favellare de' colori; e il suo discorso ha qualche cosa di vero, riferendosi all' effetto, in qualche modo simile che producono nell' animo umano o d' allegrezza, o di tristezza certi suoni e certi colori. L' analogia dunque si fonda su tutte quelle relazioni che possono cadere ed esser da noi conosciute tra le cose, di cui abbiamo cognizione e percezion positiva, e le cose, di cui non abbiamo che cognizione ideale negativa. Raccogliere tutte queste relazioni accuratamente e classificarle condurrebbe a distinguere le diverse specie di analogia, e di nomi analogici. Ma quello che sommamente importa, e che non vogliamo qui trapassare, si è il distinguere con accuratezza le due principali specie di analogia, di cui favelliamo; perocchè ci bisogna distinguere queste due specie a spianarci il cammino per favellare esattamente delle cose divine. Convien dunque osservare, che, quando noi applichiamo un vocabolo agli oggetti positivamente conosciuti, possiamo con questo vocabolo significare due maniere di cose: 1 possiamo significare tal cosa dell' oggetto conosciuto, la quale non appartiene all' essenza dell' essere stesso assoluto: per es., il colore od altra cosa materiale per nessun modo appartiene a tale essenza; 2 e possiamo significare tal cosa, che per via d' argomentazione intendiamo dover appartenere all' essenza dell' essere assoluto, poichè altramente tal essere ci riuscirebbe manchevole, ma non sappiamo in che modo le appartenga. Così la scienza, la potenza, la bontà, ecc., bene intendiamo, che devono appartenere all' essere assoluto, giacchè un essere che fosse privo di tali pregi sarebbe imperfettissimo, e però non pieno nè assoluto. Ma quantunque tali vocaboli esprimano doti e pregi dell' essere stesso assoluto, tuttavia non ce ne formiamo il concetto positivo, se non in quanto vediamo realizzate quelle doti, pregi, o qualità in esseri limitati, che cadono sotto la nostra percezione, cioè negli uomini. E poichè il positivo della cognizione si trae unicamente dalla percezione, perciò la parte positiva della cognizione che noi aver possiamo della scienza, della potenza, della bontà, ecc., è limitata a quel modo nel quale tali doti sono partecipate dall' ente finito umano, e quindi anche i vocaboli, che le esprimono, non significano quel modo di essere che tali doti hanno nell' essere assoluto, ma quel modo di essere che tali doti tengono nell' uomo, in cui solo si percepiscono. Di che avviene, che così fatti vocaboli, applicati alla Divinità, sono inetti ad esprimerne adeguatamente la natura, appunto perchè i concetti positivi, che significano, sono tratti da cose contingenti e limitate; onde si dice che tali qualità si predicano di Dio analogicamente . Quelle cose adunque che conosciamo positivamente, ma che sono tali che non appartengono alla natura dell' essere assoluto, non si possono predicare di Dio analogicamente, ma solo metaforicamente (1), come accade quando si attribuiscono a Dio il volto, le mani od i piedi. Ma quelle cose che di natura loro s' intende dover appartenere all' essere assoluto, queste si attribuiscono a Dio analogicamente a cagione della limitazione in cui tali cose sono dall' uomo percepite. Si distingua adunque in così fatti pregi la cosa , dal modo della cosa . La cosa, in sè stessa considerata, è assoluta ed infinita; ma il modo, nel quale l' uomo la vede, è limitato e finito: la cosa adunque si predica di Dio veramente; ma il modo, con cui l' uomo la percepisce, si predica di Dio solo analogicamente. E poichè l' uomo non può svestire interamente la cosa dal modo limitato, nel quale la percepisce, senza che gliene venga meno il concetto positivo; perciò si dice in generale, che tali doti e pregi sono predicati di Dio analogicamente. Sei adunque sono le predicazioni traslate: la metaforica, la metonimica, la proporzionale, l' effettuale, la causale e l' analogica. Alcuni latini scrittori della scuola, come dicevamo, compresero tutti questi sei generi, che appartengono all' equivocazione detta a consilio , sotto il titolo di predicazione analogica. All' incontro i commentatori greci d' Aristotele riservarono il titolo di analogici al solo terzo genere di nomi, quello de' proporzionali. Questa discrepanza di linguaggio generò confusione nelle dispute, delle quali le scuole si trovarono infine stanche e svogliate. Classificando accuratamente le diverse specie di predicazione, come abbiam tentato di fare, s' appiana la via necessaria per arrivare ad intenderci. E` ancora da avvertire, che ogni nome ha un primo ed unico significato, cioè significa una sola essenza applicato agli individui della quale esso ha un senso univoco; ed è questo che poi si trasporta a significare altro, e diviene equivoco a consilio, ossia traslato (2). Si dee dunque distinguere l' equivocazione traslata del vocabolo proprio e trasferito ad altro oggetto, dall' equivocazione traslata del vocabolo relativamente a' diversi oggetti, a cui significare fu trasferito. Nel primo caso i due oggetti significati, l' uno in senso proprio, l' altro in senso traslato, hanno un ordine tra loro, come a ragion d' esempio nel vocabolo ente applicato alla sostanza ed all' accidente; nel secondo caso i due oggetti, significati entrambi traslatamente, non hanno un ordine espresso dal vocabolo, ma hanno un ordine ad un terzo oggetto a cui si riferiscono, come il vocabolo ente applicato a più accidenti. Chiameremo i primi equivoci diretti , i secondi equivoci laterali . Negli uni e negli altri si dee distinguere la prima essenza a cui appartiene il vocabolo in senso proprio: ne' primi equivoci diretti si paragona questo significato proprio co' significati traslati; negli equivoci laterali il vocabolo in senso proprio è supposto, e si paragona i diversi traslati tra loro. Benchè questa doppia maniera di equivocazione abbia luogo in tutti i sei generi, tuttavia noi parleremo solo dell' analogia . Il nome della essenza in senso proprio paragonato co' suoi analoghi si può chiamare analogante , e i nomi delle essenze che hanno con essolei analogia, si possono chiamare analogati . Quindi la prima specie degli analoghi abbraccia l' analogante coll' analogato; e questa analogia non corre che tra due soli termini: la seconda specie degli analoghi è quella che abbraccia più analogati, escluso l' analogante; e questi analogati non si restringono a due, ma possono esser più indeterminatamente (3). Si può dire che nelle mani di Aristotele ogni partizione dell' ente sia logica, perchè anche allora che lo considera e parte fisicamente, lo riferisce sempre agli atti e alle forme cogitative. La scienza, a cui Aristotele pose più attenzione, è quella di predicazione; trascurò alquanto quella d' intuizione , di cui s' occupò cotanto Platone. Si può forse dire che di qui provengano le differenze che si osservano tra quelle due filosofie, delle quali differenze parleremo in appresso. Il principio, secondo il quale Aristotele divide costantemente l' ente, è l' analisi della proposizione. Egli aveva acutamente osservato che tutti i verbi, che s' adoperano nelle proposizioni, si possono sempre ridurre al verbo essere, riuscendo al medesimo il dire: « quest' uomo cammina o è camminante », e si dica il medesimo d' ogni altra proposizione (1). Predicandosi dunque sempre l' essere in tutte le proposizioni, credette che queste potessero somministrare ogni partizione dell' essere. Aristotele dunque accintosi all' analisi della proposizione, ossia della predicazione, distinse tre cose: 1 Il modo con cui si predica, ossia la natura del subietto considerato in relazione col predicato; 2 La cosa o entità che si predica; 3 Il valore della copula, che è la predicazione stessa. I Circa il modo con cui si predica, Aristotele distinse l' essere che si predica per accidente , [...OMISSIS...] , dall' essere che si predica per sè , [...OMISSIS...] . Ma queste espressioni non hanno tutta l' esattezza logica: al predicarsi una cosa di un' altra per sè corrisponde il predicarsi una cosa di un' altra per un' altra, cioè per una ragione ad essa straniera; e il predicarsi una cosa di un' altra sostanzialmente o essenzialmente corrisponde al predicarsi accidentalmente (3). A ragion d' esempio dicendosi d' un uomo che è musico, la qualità, benchè accidentale, d' esser musico appartiene all' uomo come uomo, e quindi per sè; all' incontro dicendosi d' un musico che è giusto, la qualità accidentale d' esser giusto non appartiene per sè al musico, cioè al musico in quant' è musico (in senso diviso), ma al musico in quant' è uomo (in senso composto, « Logic. , p. 101 »), e però gli appartiene per un altro, aliena vi . Dicendosi poi « colui che ride è uomo », la qualità d' esser uomo appartiene all' ente che ride, essenzialmente , ma non gli appartiene per sè , ma per un altro, cioè per la connessione che ha il ridere coll' essenza dell' uomo; poichè la ragione fisica per cui ride è l' esser uomo, e non viceversa; se non in una relazione dialettica, in quanto che il concetto del ridere inchiude quello di uomo. Altro è dunque il predicarsi per accidente , altro il predicarsi per altro: il predicarsi per accidente, è quando « il predicato è un accidente del subietto ». Ma questo predicato accidentale può convenire al subietto per sè, e può convenirgli per un altro: gli conviene per sè , se è un accidente di quel subietto preso questo in senso preciso; gli conviene per un altro, se non convenendo al subietto in senso rigoroso e preciso, conviene però a ciò che involge il subietto, per esempio, al subietto in senso composto, come denominazione d' un altro; o al subietto accidentale, come quello che suppone e richiama la sostanza. Del pari, altro è predicarsi essenzialmente ed altro è predicarsi per sè. Si predica essenzialmente, quando il predicato costituisce tutto o parte dell' essenza del subietto; e questo in due modi, poichè: 1 o il subietto è reale, e allora il predicato è un equivalente; 2 o il subietto è dialettico, e allora il predicato non è un equivalente del subietto in senso preciso, ma del subietto in senso composto, nel qual caso può il predicato essere una sostanza o un subietto reale, come: « chi ride è uomo »; e dicesi anche predicarsi sostanzialmente , e risponde alla terza maniera di predicazione accidentale degli Scolastici. Questi quattro modi dunque di predicazione si devono accuratamente distinguere (1). II Ora la predicazione per altro è posteriore alla predicazione per sè: onde, volendosi enumerare i primi generi de' predicati, che così intende Aristotele le Categorie, queste sono da lui chiamate predicamenti per sè. Ma egli confonde manifestamente il predicarsi accidentalmente , e il predicarsi per altro , come dicevamo. Poichè, dopo aver distinti i tre modi di predicazione per accidente [...OMISSIS...] . E a queste otto, nel libro delle categorie, aggiunge le due altre dell' essere situato e dell' avere , con che le categorie diventano dieci, e considera questi dieci predicati per sè, senza congiunzione [...OMISSIS...] . Apparisce dunque dalle stesse parole d' Aristotele: 1 Ch' egli colle dieci categorie intende classificare « le cose che si dicono »( «ta legomena»), come indica anche il nome di categorie o predicazioni. Ma poichè queste possono esser considerate come predicati, e come tali già congiunti con subietto, ( «ta kategorumena»); ovvero considerate sciolte, l' una a parte dall' altra, in quest' ultimo modo considerate, le chiama «kategoriai». 2 Che queste indicano altrettanti modi di essere: onde Aristotele non classifica veramente con esse gli enti, nè i principii degli enti, ma i modi più generici dell' ente (2). 3 Che esse significano i predicati che convengono all' ente per sè , e non per altro; di maniera che l' essenza sostanziale, il quanto, il quale, la relazione, convengono all' ente per la sua propria virtù, e non per una virtù straniera all' ente; il che avverebbe, se il quale si predicasse del quanto o del relativo. Così l' essere un ente grande o piccolo non conviene all' ente per sè, ma all' ente che è quanto è (3). Che dunque i predicabili significhino lo stesso essere in dieci modi diversi, questo s' intende. Ma anche qui Aristotele lascia da parte la cognizione intuitiva dell' essere, e tutto deriva da quella di predicazione . Ora l' essere è prima della predicazione, ed egli si divide indipendentemente da questa. Le dieci Categorie sono dieci idee che s' intuiscono, e intuite si predicano. Quando si predicano, sono già divise. Ma per Aristotele prima sono predicati, e poi astratti, benchè di natura sua dichiari anteriore la specie alla materia. Astratti poi non può ancora Aristotele contemplarli così semplici nella loro oggettività (1): li considera dunque come subietti di cui si predica in diversi modi l' essere. Il riconoscere nondimeno che sono « essere per sè », è lo stesso che confessare che non ricevono l' essere dall' atto della predicazione, e questo assegna loro un luogo elevato simile a quello che avea destinato loro Platone. Se dunque si considerano le Categorie come semplici ed incomplesse, [...OMISSIS...] , altro non presentano che una classificazione, benchè imperfetta, dell' essere ideale. Ma egli vuol considerare sempre gli universali nei singolari , poichè per lui questi soli sussistono: quindi i suoi universali doveano essere di loro natura predicabili , chè solo per via di predicazione le specie s' apprendono congiunte alle cose reali. Pure quest' operazione della mente, che si chiama predicazione , non produce punto le specie o le essenze ideali, ma non fa che usare di queste. Queste dunque sono prima idee o intelligibili, e di poi predicabili. Onde coll' aggiungere la predicazione, altro non si fa che guastare il concetto di esse idee, confondendolo con qualche cosa di soggettivo non appartenente alla natura della medesima. Di più: questa mescolanza dell' operazione soggettiva della predicazione colle idee non è necessaria, nè pure secondo il sistema d' Aristotele; poichè, sebbene egli nega l' esistenza dei generi in sè, ammette però che esistano da sè soli e separati dalla materia nella mente: e questo basta, perchè se ne possa parlare come d' intuiti, senza mescolarvi nulla di soggettivo. III La terza cosa che distinse Aristotele nelle proposizioni, si è il valore della copula, che si riduce sempre al verbo E`. Questo verbo dunque secondo Aristotele: a ) Può significare tanto che ciò che si predica sia in potenza, quanto che ciò che si predica sia in atto. Da questo trae la distinzione dell' essere in potenza e dell' essere in atto: e questa partizione dell' essere l' applica alle Categorie , che è quanto dire a tutti i predicabili. [...OMISSIS...] Con questo riconosce che il possibile e il sussistente è essere egualmente, e, come altrove dice, il medesimo essere; e che le Categorie per conseguente appartengono ugualmente all' ordine delle cose possibili ed ideali, e all' ordine delle cose sussistenti o reali. b) Essere od è , può significare ancora il vero; come non essere o non è il falso: [...OMISSIS...] . L' essere nel significato a ) afferma (o nega) qualche cosa in sè: l' essere nel significato b ) afferma qualche cosa nella mente; poichè il vero e il falso esiste, secondo Aristotele, soltanto nella mente. Col primo di questi due significati del verbo E` si pone qualche cosa in fatto come quando si dice « l' uomo è un animale »; coll' altro non si pone nulla in fatto, ma si esprime solamente che è vero o falso ciò che si afferma, come: « Colui è cieco », che viene a dire esser vero che colui è cieco; benchè col predicare la cecità non si ponga nulla in fatto, anzi si tolga un' entità positiva, qual è il vedere. Quindi la divisione celebre presso gli Scolastici dell' ens extra animam , e dell' ens in anima (3). S. Tommaso dichiara, secondo la mente di Aristotele, questi due significati del verbo E`, così: [...OMISSIS...] . Ma come avvien egli che il verbo E` possa significare la verità della proposizione, a ragione d' esempio, che nella proposizione: « Quest' uomo E` cieco », il verbo E` possa aver forza, come se si dicesse: « E` vero che quest' uomo E` cieco? ». Poichè la proposizione, così ridotta, altro non fa che introdurre due volte il verbo E`, e tutte e due le volte non può significare la verità della proposizione; chè in tal caso, nel risolverne il valore, si dovrebbe formare una proposizione, che andrebbe all' infinito, sostituendo al verbo E` l' equivalente « E` vero », venendosi a dire: « E` vero che E` vero, che E` vero, ecc. »; e senza venir mai all' ultima particola della proposizione « E` cieco ». Dunque in questa ultima particola il verbo E` non significa E` vero; ma significa l' affermazione di un non7ente. Non si può adunque rendere ragione di tali affermazioni, se non si parla della facoltà che ha lo spirito di affermare; e se non si dimostra che l' affermare non è un costituire un oggetto, ma è un disporre il soggetto intelligente in un dato modo verso un oggetto dato dall' intuizione. E questa disposizione e atteggiamento è appunto lo stesso atto dell' affermazione. Di che anche questo è una prova, che la negazione , la quale non pone nessun ente ma lo rimove, esige un atto simile e contiene un simile atteggiamento dell' animo. E veramente non si può affermare o negare senza conoscere l' essenza che si afferma o si nega: ora l' essenza è l' oggetto dato dall' intuizione. Ma affermando o negando un oggetto, o qualche cosa dell' oggetto, l' oggetto si viene a involgere nell' atto affermante o negante dello spirito. Onde, sopravvenendo la riflessione, questa contempla lo stesso oggetto vestito della negazione o dell' affermazione dello spirito; ed allora non è più l' oggetto puro, ma un oggetto che, parte è dato allo spirito indipendentemente dalle operazioni dello spirito, parte è lavorato dallo spirito stesso affermante o negante. Così la cecità è l' oggetto, cioè il vedere (presentato puramente nella sua essenza dall' intuizione) congiunto colla negazione. Tutti gli enti negativi o privativi sono formati in questo modo dallo spirito. Sorge quindi una riflessione d' altro ordine più elevato, la quale, esercitando l' azione sopra l' oggetto così lavorato, separa in essa la stessa affermazione o la stessa negazione, e forma degli astratti enti negativi e privativi; ed allora inventa de' vocaboli che li segnino. Così il vocabolo CECITA` significa l' astratto di un ente negativo. Questi enti negativi concreti ed astratti sono due classi di quegli che si chiamano enti di ragione , od enti razionali . Ora Aristotele non pervenne a conoscere la vera generazione degli enti razionali, nè seppe accuratamente descriverli come gli sarebbe bisognato. A tal fine conveniva che avesse investigato la natura di questa singolare facoltà dell' intendimento umano di vestire gli enti delle sue proprie disposizioni, e di convertire poscia a sè stesso queste disposizioni soggettive in enti, significandoli con parole simili a quelle che usa per significare gli enti veramente oggettivi. Noi crediamo bene di cogliere l' occasione di questa critica, che per noi si fa alla partizione che Aristotele fa dell' ente di ragione, per dare la classificazione degli enti razionali , come prima abbiamo fatto de' nomi che si possono dire enti dialettici . Aristotele conobbe chiaramente quell' ente razionale che nasce dalla negazione e quello che nasce dalla relazione . S. Tommaso accenna queste due fonti degli enti di ragione (1). Egli circa le relazioni osserva, che queste non sono sempre puri enti di ragione, ma talora sono realità (2) inerenti agli enti, come accade quando gli enti inclinano l' uno all' altro, o hanno azione o passione tra loro (3). Quindi è che talora la relazione reale è d' una parte sola, se una parte sola è ordinata all' altra, e all' altra tendente, e dall' altra dipendente, ma non viceversa, rimanendo dall' altra parte una relazione di pura ragione (4). Ma il filosofo delle scuole non considerò abbastanza in questo fatto degli enti di ragione due cose sommamente importanti: La prima , che gli enti di ragione altri sono astratti e puri come dicemmo della cecità; ed altri sono inerenti ai nostri concetti degli enti reali, come l' uomo cieco . Questi secondi sfuggono dall' attenzione filosofica facilmente: onde avviene che si parli di entità reali, come fossero per intiero reali fuori della mente; quando sono pure un composto di entità reali fuori della mente e di entità di ragione lavorate e messe loro intorno quasi come una rete dalle operazioni diverse dall' umana intelligenza, siccome abbiamo veduto essere l' ente espresso dal vocabolo IO «( Psicol. , pag. 61 e seg.) », e siccome vedremo anche in appresso, parlando delle Categorie. La seconda cosa, non osservata abbastanza, si è la differenza che passa tra l' ente ideale e l' ente razionale . L' ente razionale è produzione soggettiva della mente, come abbiamo detto: quando all' opposto l' ente ideale è per sè oggetto , ed è affatto indipendente dalla mente dell' uomo, e distinto da ogni mente, benchè escluda la realità ed abbia per sua natura la proprietà d' insiedere nella mente. La mente poi è un ente reale: e però tra l' ente ideale e l' ente reale passa una relazione essenziale , la quale non è nè pur essa un ente di ragione, non una produzione dell' intelligenza soggettiva, ma una congiunzione effettiva . Ora la mente, o, per dir meglio, il soggetto intelligente, essendo suscettibile di sentimenti, ed essendo egli stesso un sentimento primo e sostanziale, vede il reale, cioè il sentito e percepito sensitivamente, nell' ideale; chè ogni reale sentito segna nell' ideale un suo corrispondente, e così l' ideale si manifesta come tipo delle cose reali. Questa visione del reale nell' ideale è un' operazione della mente, e si scorge: 1 Nella percezione intellettiva, nella quale la mente dell' ideale e del reale fa un ente solo conosciuto; 2 Nell' idea specifica, nella quale si vede il reale nell' idea, ma solo come possibile, e non ancora come sussistente. Ora, quantunque la percezione e l' intuizione dell' idea specifica sieno operazioni della mente; tuttavia non si può dire che gli oggetti proprii di queste operazioni sieno enti di ragione . Poichè nella percezione: 1 c' è l' ente ideale, che è per sè oggettivo; 2 c' è il reale, che non è prodotto dalla mente, ma dato nel sentimento; 3 e c' è l' unione di questi due elementi, che si fa per una operazione della mente, ma per una operazione determinata dal rapporto o nesso essenziale che passa tra l' ideale e il reale, e che la mente non fa che vedere. Vero è che un tale rapporto suppone la mente, ma questa esigenza della mente si riduce a quella che ha l' essere ideale di trovarsi in una mente, e il reale d' essere o ridursi in un sentimento; onde l' esigenza della mente e del suo atto è un' esigenza ontologica, cioè uscente dalla natura stessa e dall' ordine intrinseco dell' ente; e però tale rapporto non è produzione soggettiva della mente umana, ma più tosto è analogo alla creazione, la quale, quantunque si faccia mediante il Verbo divino, tuttavia il prodotto è reale. Quanto poi all' idea specifica , ella non è che l' essere ideale considerato in rapporto con un reale possibile, rappresentato da vestigŒ o immagini del reale; e però si deve dire quello stesso che si disse della percezione. Tuttavia nella percezione e nell' idea specifica c' è di soggettivo l' affermazione o la negazione della realità; ma questo elemento soggettivo non è per sè l' oggetto di tali operazioni, e però non si può dire ente di ragione. Che se si considera l' affermazione stessa e la negazione come operazione del soggetto, in tal caso quelli si conoscono come entità reali, cioè come reali atti del soggetto intelligente, e però ancora non sono enti di ragione. Gli enti adunque che propriamente meritano d' essere appellati razionali , come quelli che si producono dalle operazioni della ragione senza che abbiano una reale esistenza in sè, si dividono primieramente nelle due classi indicate: che alcuni sono meri enti di ragione, quasi finzioni della ragione stessa; altri sono misti, cioè parte sono enti di ragione, e parte sono enti oggettivi, ovvero anche reali. I meri enti di ragione sono prodotti dalle seguenti operazioni della ragione: I Negare ; II Dividere ciò che nell' ente oggettivo o nell' ente reale è unito; III Riferire una cosa ad un' altra, trattandosi di cose non ordinate tra loro per via di nessi reali attivi o passivi; IV Comporre ciò che non è composto in sè stesso; V Analogare; VI Sostanziare ciò che non è sostanza; VII Suppositare . Dal che si vede, che gli enti di ragione appartengono tutti alla scienza di predicazione, e non alla scienza oggettiva. Facciamo un cenno degli enti di ragione che vengono prodotti da ciascuna di quelle operazioni. I Negare - Produce gli enti negativi . - La ragione avendo facoltà di asserire e di predicare, ha quella altresì di negare ciò che ha asserito e predicato, o che potrebbe asserire e predicare. Talora la negazione non è compiuta, e in tal caso si risolve in una limitazione, e si riduce al DIVIDERE. Ma i limiti e le privazioni delle cose, concepiti astrattamente, sono enti negativi con qualche relazione alla cosa limitata. Talora la negazione è completa, ed in tal caso l' ente ch' essa produce è il nulla : il quale pure suole rivestire varie relazioni, quasi termine delle limitazioni da una parte, e termine dell' entità che comincia dall' altra. Questi enti negativi non involgono errore se si prendono per quello che sono; ma la mente erra quando li prende per cose positive che non sono. II Dividere - Elementi formali (2) di un ente . - In un ente semplice ed indivisibile per sè stesso la mente distingue più cose, le quali non si trovano separate in natura, onde la separazione è posta dall' atto della mente. Ma questa separazione mentale è di due specie: a ) Talora i due o più elementi formali, distinti dalla mente in un oggetto, quantunque non separabili, cioè tali che l' uno non può esistere senza l' altro, sono distinti nell' oggetto stesso, di maniera che l' uno non è l' altro, nè entra nell' altro, ma sono legati insieme per una specie di relazione essenziale . Così nel sentimento si distingue il principio ed il termine, il senziente e il sentito, benchè non possano separarsi senza annullarsi, e senza annullare il sentimento che essi costituiscono. In questo caso la distinzione che fa la mente è in sè vera, e a quest' ente di ragione risponde una realità nella natura della cosa. Ma se la mente, oltre giudicarli distinti , trapassa a giudicare che esistano separati , o che l' uno di essi può star senza l' altro; in tal caso, alla prima distinzione che è vera, si aggiunge un giudizio falso, un errore. A questa specie si riducono tutte quelle cose che sintesizzano, come gli organi di un unico organismo, i quali non esistono come tali, che per ragione del tutto, e dal tutto non si possono dividere; l' intelligente e l' inteso, i termini correlativi, le tre forme dell' essere, ecc.. b ) Talora i due o più elementi inseparabili sono bensì distinti nell' oggetto, ma l' uno di essi entra nell' altro, e non viceversa. Così, quando la mente in un individuo da lei percepito distingue ciò che è proprio, ciò che è specifico, e ciò che è generico; allora il concetto di ciò che è specifico contiene in sè virtualmente anche ciò che è proprio, e il concetto di ciò che è generico contiene virtualmente ciò che è specifico; ma non viceversa. All' incontro, se la mente non guarda ciò che questi concetti contengono virtualmente, ma ciò che si trova nella realità propria, nella realità specifica, e nella realità generica; se n' ha il contrario: perocchè in un reale, che ha tutto ciò che gli spetta in proprio, è conseguentemente realizzato anche ciò che esprime la sua specie ed il suo genere; e in quanto si considera realizzato in esso ciò che è specifico, già si contiene realizzato anche ciò che è generico (1). In tutte queste distinzioni che fa l' umana ragione si crea degli enti di ragione, i quali non si dee già credere che sieno chimerici e vani, ed errano quei filosofi, che dicono, parlando anche in questo ambiguamente, che tali idee non hanno alcun valore obiettivo; poichè, se la mente con esse non considera e pensa tutto intiero l' oggetto, lo considera nondimeno e lo pensa ne' suoi formali elementi, realizzabili o realizzati nel tutto. La mente adunque non erra con queste distinzioni logiche; ma incomincia ad errare quand' ella vi sopraggiunge dei giudizi arbitrarii, coi quali si dà a credere, che quelli che non sono che elementi formali dell' oggetto, sieno altrettanti oggetti compiuti. III Riferire - Relazioni razionali . - Di queste abbiamo accennato di sopra. Le relazioni possono essere classificate anch' esse in generi e specie, e questi generi e specie sono come elementi formali delle relazioni medesime. IV Comporre - Unioni razionali . - Queste si fanno per lo più per via di relazione; ma la mente in generale ha la facoltà di considerare qualsivoglia complesso di cose eterogenee come una sola unità . Quindi le idee complesse razionali . V Analogare - Attributi . - Trattandosi di oggetti che la mente conosce solo negativamente, ell' è costretta attribuir loro, per via di certa analogia, le proprietà delle cose ch' ella positivamente conosce, e queste proprietà, in quanto sono predicate analogicamente dell' oggetto ignorato, diconsi attributi . Così il cieco nato dà le proprietà dei suoni ai colori di cui sente ragionare, e dirà il color rosso dover esser simile ad una voce soprana, ed il nero ad una voce bassa. E così pure è che noi parliamo di Dio, trasportando in lui le perfezioni che conosciamo nella natura. Questa maniera di ragionare non induce alcun errore, qualora la mente che l' usa, sappia in pari tempo, che tali sue predicazioni sono meramente analogiche. VI Sostanziare - Esseri immaginarii . - Un' altra classe di enti di ragione sono quelli, che la mente compone di altri enti da lei conosciuti: e a questi appartengono le personificazioni, le mitologie o le favole, e gli enti ipotetici che per qualsivoglia ragione l' uomo introduce nel suo discorso. Questi esseri sono falsi ed erronei, e non hanno valore oggettivo in sè stessi, ma se l' uomo conosce la loro falsità, o ipoteticità, con ciò stesso sfugge all' errore, riconoscendolo. VII Suppositare - Enti suppositati . - Se, colla facoltà di astrarre e di distinguere, la mente umana produce quegli enti di ragione, che abbiamo detti elementi formali , e relazioni , ecc., colla facoltà d' analogare altri enti di ragione che diciamo attributi , e colla facoltà persuasiva ed assertiva gli enti immaginarii ed i negativi , colla intuizione si procaccia le idee; colla facoltà stessa di ragionare produce poi questa settima classe di enti di ragione, che diciamo suppositati , cioè presi per supposti . Ed ecco ond' ella è mossa a costituirli. Prima legge di operare della mente è il principio di cognizione, il quale la obbliga a concepire, tutto ciò che concepisce, come un ente; giacchè quel principio dice: « l' oggetto dell' intelligenza è l' ente ». Ora tale è la natura dell' ente che non si può concepire, se non si concepisce in esso un atto primo. Quindi accade, che anche gli enti di ragione, i quali non hanno la natura d' atti primi, ma o sono semplici elementi di tali atti, o sono atti secondi, o sono negazioni di atti, non si possono concepire dalla mente, se ella non li veste della forma di enti, e perciò di atti primi, senza di che ella non potrebbe pronunciarli così separati e divisi dall' ente. Al che le prestano gran servizio i vocaboli e gli altri segni sensibili: i quali, non rappresentando la cosa segnata nella sua natura, ma solo indicandola, non porgono all' attenzione di chi gli usa la distinzione che passa tra gli enti reali e compiuti, e gli enti di ragione. Onde venendo tutti significati per egual modo, anche gli enti di ragione passano mescolati e indistinti insieme cogli enti compiuti e reali, e sostengono, per così dire, la persona di questi. Nel che la mente non prende errore, se ella non sa qual sia il personaggio che giuocano tali enti in sulla scena del suo pensiero. Posto adunque che la mente è obbligata di considerare gli enti di ragione come enti in sè, niuna meraviglia è, ch' ella li prenda nel ragionamento a suppositi: e questi sono quelli che più sopra abbiamo appellati subietti dialettici . Noi intendiamo sotto l' espressione di partizione fisica tutte quelle distinzioni dell' ente, che non hanno per loro fondamento il linguaggio, nè le operazioni subiettive della mente umana, ma che sono nell' ente stesso, sia reale, sia ideale. La prima divisione, che sotto questo punto di vista si presenta in Aristotele, si è dell' ente singolare e in sè sussistente, e dell' essere universale , che non esiste separato e per sè, ma nelle cose come forma della materia, e nella mente come specie, separate dalla materia corporea, ma non da una sostanziale intuizione. L' ente singolare sussistente è la SOSTANZA, ossia l' ousia prima, [...OMISSIS...] : l' ente universale si riduce da Aristotele, come a sommi generi, alle Categorie. L' ente singolare e sussistente, cioè la sostanza prima, è triplice: 1 l' una sensibile e corruttibile; 2 la seconda sensibile e mobile, ma incorruttibile (gli astri); 3 la terza insensibile, incorruttibile e immobile, il primo motore (2). L' ente universale non è per Aristotele un ente sussistente, ma inseparato dal singolare: tuttavia esso considera le dieci categorie, in cui lo riparte, come i dieci generi supremi dell' ente (3). Conviene dunque che noi esaminiamo diligentemente questa partizione. La dottrina delle Categorie Aristoteliche soggiacque a diverse interpretazioni, ciascuna delle quali potrebbe subire una critica speciale; ma la prima osservazione è questa appunto d' essere da Aristotele esposta in un modo pieno d' incertezze e d' anfibologie, onde le varie interpretazioni. Pure, aderendo alla lettera d' Aristotele, ella apparisce meno imperfetta che pigliandola come fu intesa dagli scoliasti greci, e da' loro discepoli gli Scolastici. Partendo dunque dal principio che Aristotele, colle categorie non volle far altro che classificare i sommi modi dell' ente secando ne' suoi elementi il linguaggio e cercando in questo i più generici e primi predicati dell' ente (1), non farà più meraviglia, che nella tavola delle categorie aristoteliche non si trovi nè l' ente , nè la materia . Nè l' uno nè l' altra poteva trovarci luogo: non l' ente , perchè egli non è un modo, ma quello che di tutti i modi è suscettivo, e quindi di tutti i predicati; non la materia perchè nè pur essa è un modo dell' ente, ma, secondo Aristotele, il substrato ( «hypokeimenon») di tutti, e quella che sostiene tutti i modi. Io non intendo qui ricercare, se la materia e l' ente (privo de' suoi modi) fosse per Aristotele il medesimo: certo è, che Platone stesso prende l' «usia», ovvero l' «on», come l' indeterminato, l' informe, e in una parola la materia; se non che egli distingue, come vedemmo, tre materie, l' ideale , la spaziosa e la corporea , onde i suoi tre sommi generi degli enti. Aristotele dunque dice, che [...OMISSIS...] . Riconosce dunque Aristotele, che la specie e la materia sono di diverso genere tra loro, perchè non si possono condurre a un medesimo, rimanendo sempre distinte. Ma oltre questi due primi generi, distingue quelli che si formano dalle categorie dell' ente [...OMISSIS...] . Ma che sono questi schemi di categorie dell' ente? e che cosa è l' ente di cui sono categorie? E se anche la specie e la materia sono generi, non diventeranno dodici i generi anzichè dieci? Per rispondere a queste domande, conviene osservare che per Aristotele ogni genere è una specie (2), onde nomina spesso anche « « la specie della materia » » (3). Ma la materia stessa non è una specie, ma una natura contrapposta e irreducibile alla specie. Conviene dunque, che anch' egli ammetta due principŒ , che infine, con qualunque nome si chiamino, sono sempre quelli de' pitagorici: l' indeterminato e il determinante. L' indeterminato, cioè la materia, non ha numero, perchè non ha specie, e quando riceve la specie, allora solo si figura e distingue: la specie all' incontro, che è il determinante, ha numero, cioè ci sono diverse specie. Ricercando quali sieno, si viene a scoprire una gerarchia di specie, nella quale si distribuiscono in più e meno estese, e quelle contengono queste. Ma le più estese di tutte non sono contenute in altre d' estensione maggiore, appunto perchè sono le più estese. Rimane dunque a cercare, se le più estese di tutte, irreducibili ad altre, sieno una sola, o più; e questa è la ricerca delle Categorie, come le concepisce Aristotele. Onde « il diverso schema della categoria dell' ente », equivale a dire « la diversa specie che si può predicare dell' ente »: l' ente poi, che è il subietto della predicazione, è la materia di cui, avendo già ricevuto la specie, questa si può predicare (1). Rispose dunque Aristotele, che le specie più estese, e irreducibili, non sono una sola, ma dieci: e così stabili le sue dieci Categorie. Lasciati dunque da parte gli altri significati, in cui si prende la parola genere (2), Aristotele nelle categorie parla di « « quelli che ammettono differenze » ». [...OMISSIS...] Il genere categorico dunque si considera da Aristotele, come materia rispetto alla specie , e subietto delle differenze . Ma il subietto stesso e la materia prendono significati diversi tanto presso Platone, quanto presso il suo discepolo. Onde questi generi, ciascuno de' quali è detto « come materia »( «hos hyle»), si distinguono secondo che « « il subietto primo, ossia la soggiacente materia, è diverso »(4) »: di che deduce, che « la specie e la materia sono generi diversi », perchè, tanto la specie, quanto la materia, sono subietti diversi irreducibili l' un all' altro. Dove la parola « materia »qui ha mutato di significato, cioè ne ha preso uno più ristretto, ha preso il significato di « materia reale ». Checchè dunque dica altrove Aristotele circa la doppia materia ammessa da Platone, cioè l' ideale e la reale, egli cade nella stessa distinzione: poichè, se ogni genere si considera come materia, «hos hyle», e se due generi sono « la specie e la materia », convien dire che ci sia una materia ideale , che costituisce il genere delle specie, e una materia reale , che costituisce un altro genere. E questi sono veramente i sommi generi d' Aristotele del tutto irreducibili. Ma qual genere può costituire la materia reale? Se al genere, secondo lo stesso Aristotele, sono necessarie le differenze [...OMISSIS...] , come la materia, priva delle specie, avrà differenze? In nessun modo, differenze che abbiano un subietto identico; e altramente non sarebbero differenze. Per questo Aristotele, benchè chiami un genere la materia, non l' annovera co' sommi generi, cioè colle Categorie. Il che dimostra, che prenda la parola genere in due sensi diversi. Altro è dunque il genere che si definisce: « quello che è primo come subietto, e non si riduce ad un altro », e questa definizione conviene alla materia, che non si può ridurre alla specie: altro è il genere che si definisce: « il subietto delle differenze », e questa definizione non conviene ala materia (1), ma a quei generi ch' egli chiamò Categorie, poichè questi sono « i primi subietti delle differenze », che uniti a queste costituiscono i generi minori e le specie, e queste sottostanno come loro materia. Le Categorie dunque non appartengono alla materia reale, ma all' ideale, e sono le specie più estese , secondo Aristotele, e però le meno determinate e comprensive. Dal che si deriva primieramente, che Aristotele non ravvisò col suo pensiero la materia ideale in tutta la sua universalità, la quale non è altro che l' essere ideale (1), poichè, se l' avesse bene ravvisata col suo pensiero, egli si sarebbe avveduto ch' ella è una specie più estesa de' suoi dieci generi, e avrebbe ridotto questi a quella come a loro sommo ed unico genere, se così si vuol chiamare, perchè subietto dialettico irreducibile ad alcun altro, e suscettivo di tutte le differenze o determinazioni. Conviene dunque riconoscere che Aristotele ammette primieramente due principii (a cui aggiunge poi per terzo la privazione «he steresis») che non si fanno (2), la materia e la specie , e quest' ultima si parte, come nei sommi suoi generi , nelle Categorie: la prima poi è il principio, da cui vengono, non i generi, ma gl' individui , supposta la forma o specie. Ma risultando dall' unione di questi due principii, materia e specie, la sostanza; rimane a vedere come questa possa tuttavia annoverarsi tra le categorie: a tal fine dobbiamo ritornare alla dottrina aristotelica, che riguarda la sostanza. Primieramente dunque la sostanza è il primo, come dicevamo, della filosofia aristotelica, perchè di tutte le entità sono prime le sostanze, [...OMISSIS...] . E questa sostanza, che costituisce il primo filosofico d' Aristotele, non è l' idea di sostanza (essenza sostanziale), nè pur l' idea piena; ma la stessa sostanza reale. Questo suo concetto il dichiara, tra gli altri luoghi, nel libro delle « Categorie », dove parla della sostanza (4). [...OMISSIS...] Non poteva designarsi in un modo più preciso la sostanza individua e reale; perchè, essendo questa il subietto reale a cui convengono i predicati, è chiaro che dire: o che il subietto è nel subietto, o che il subietto si predica del subietto, altro non sarebbe che una logomachia assurda. Questa sostanza dunque, ovvero «usia» prima , non può essere la sostanza categorica, perchè le « Categorie » sono i sommi predicabili (1). Appresso, di quella sostanza che appartiene alle Categorie, e che è l' idea o specie di sostanza, o l' essenza sostanziale, soggiunge così: [...OMISSIS...] . Non dunque la sostanza reale, ma le specie e i generi della sostanza, dette da noi anche essenze sostanziali, si riducono, come all' idea più generale, alla categoria aristotelica della sostanza; dappoichè la sostanza categorica, come l' altre categorie sono comuni , dicendo Aristotele, che « « fuori della sostanza e dell' altre cose che si predicano, niente v' ha di comune »(3) ». Convien dunque conchiudere, che le Categorie aristoteliche non sono punto una partizione dell' ente in tutta l' estensione della parola, ma una semplice classificazione degli universali, ossia delle idee. Di poi è necessario osservare su questa classificazione quanto segue: 1 Niuna delle dieci categorie esprime puramente l' ente qual è in sè, non involto nelle operazioni della mente; ma tutte significano enti misti d' entità in sè, e d' entità prodotta dalle operazioni della mente. Per convincersene si consideri che i dieci predicamenti, secondo gli Scoliasti, si riducono: 1 alla sostanza, 2 agli accidenti distribuiti in nove classi (1). Ora la sostanza è un vocabolo che nomina l' ente con una relazione agli accidenti che sono in essa; e questa relazione è un ente razionale. Di più la parola sostanza divide l' ente da' suoi accidenti. Ma questa divisione e separazione è l' opera della mente: non trovasi nella natura delle cose, dove, quantunque ci sia distinzione, non vi ha separazione, cioè non c' è sostanza (propriamente detta) divisa dagli accidenti, nè ci hanno accidenti divisi dalla sostanza; ma la sostanza e gli accidenti formano un ente solo perfetto. Nei dieci predicamenti non si parte dunque l' ente puro, qual è in natura, nè l' ente qual è nella mente intuente; ma quell' ente artefatto dalle operazioni della mente stessa, da appendici che spettano alla condizione dell' ente razionale. Insomma sostanza ed accidente si possono dire elementi dell' ente finito, ma non enti compiuti. 2 Dalle Categorie aristoteliche rimane escluso l' ente assoluto . La parola sostanza , involgendo una relazione coll' accidente, non si può in senso proprio applicare che a quell' ente che è suscettivo di accidenti. Ma l' ente assoluto non ha accidenti: dunque il suo essere non si può in senso univoco e proprio chiamare sostanza, ma semplicemente ente . Oltre di ciò l' Ente assoluto, essendo singolare, non si può predicare di cosa alcuna, e però non appartiene al novero delle Categorie; ma è un' ousia prima. 3 Manca ancora nelle Categorie la sussistenza, «ypostasis», e la persona, «prosopon» (1). E qui è da notarsi, che i greci filosofi non isvilupparono mai il concetto di persona; e questo stesso vocabolo, nel senso filosofico, è dovuto ai dottori ecclesiastici, i quali n' abbisognarono per esprimere la sublime dottrina della Trinità, facendo con ciò grandissima giunta alla filosofia. 4 Manca oltreacciò per intero nelle Categorie aristoteliche l' essere morale , che è pure una forma primitiva dell' essere, la quale con niun' altra si può confondere o ridurre a nessun altro genere. 5 La categoria del luogo, «pu», porge due osservazioni a farsi: la prima, che altro è il luogo , altro lo spazio . Il luogo è una determinata parte dello spazio considerata in relazione dei corpi reali o immaginarii, che la occupano. Quindi il luogo non è che una relazione contenuta nella categoria «pros ti», laddove lo spazio è, sotto un certo aspetto, assoluto. Forse i greci non avevano una parola che significasse l' equivalente del nostro spazio puro ed assoluto, perocchè «diastema», non significa spazio, ma intervallo, o spazio limitato. S' avvicina però a significare lo spazio puro la parola «ekteneia», che vale estensione, benchè in greco, se non erro, ha più forza di significare l' atto dello estendersi, che lo spazio esteso; e così pure la parola «syneches», che suona continuo , e fu usata dagli Eleati appunto a significare il continuo esteso dell' universo, e finalmente la parola «chora» che vale recettacolo , e che io credo veramente sia adoperata da Platone per indicare lo spazio, benchè non senza una relazione al corpo in esso contenuto. Ma la ragione principale, per la quale Aristotele introducesse nelle sue Categorie il luogo e non lo spazio, probabilmente si è perchè avendo egli considerato nelle Categorie altrettanti modi di predicare, doveva fermarsi al luogo che si predica de' corpi, anzichè allo spazio illimitato che non si predica de' corpi. E tuttavia tra lo spazio illimitato, e il luogo (spazio relativo), c' è ancora lo spazio limitato occupato da' corpi (spazio limitato), il quale si predica de' corpi. Perchè l' ha dunque omesso il nostro filosofo? Si può rispondere che l' abbia compreso nella categoria della quantità «to poson». 6 Le categorie del luogo ( «pu»), e della situazione ( «keisthai») non sono modi con cui si predica l' ente in universale, ma un ente particolare, cioè l' ente esteso e corporeo. Ora le Categorie, nel senso d' Aristotele, non sembrano descrivere quante maniere si possano predicare le particolari specie di enti, nel qual caso il loro numero dovrebbe crescere pressochè all' infinito; ma sì quante sieno le maniere generalissime di predicare. Ora questo prendere l' ente esteso quasi fosse universale, quasi il luogo e la situazione propria dei corpi fossero predicamenti di ogni ente, dimostra, come la mente del filosofo era legata ai sensi ed agli enti corporei. Onde la sua ontologia riuscì angusta, perchè cavata principalmente dalla considerazione dell' infima specie degli enti, quali sono i corporei, anzichè dalla considerazione dell' ente in se stesso, senza restrinzioni positive ed arbitrarie. 7 Se tutte le Categorie di Aristotele sono enti involti in appendici provenienti dalle operazioni dell' intendimento, alcune sono al tutto enti razionali come la quarta, che è la relazione «pros ti». Vero è, che ci hanno certe relazioni oggettive: ma, oltre che il filosofo qui non le distingue dall' altre giacchè il «pros ti» abbraccia tutte le relazioni senza distinzione, è da considerarsi di più, che le tre ultime categorie ch' egli enumera l' avere , il fare , e il patire ( «echein, poiein, paschein»), sono relazioni reali. Onde da una parte la divisione delle categorie riesce imperfetta, perchè nella quarta «pros ti» già queste tre ultime si contengono; dall' altra, se queste categorie si escludono dalla categoria della relazione, questa non abbraccia quasi più altro che meri enti di ragione. Se non che, volendo enumerare le relazioni reali a parte, ne avrebbe dovuto aggiungere molte che omise, e principalmente il ricevere , che Aristotele confonde bene spesso col patire , ma a torto, perchè il patire involge il concetto d' una modificazione che l' agente produce nel subietto paziente; laddove il ricevere semplicemente non acchiude questo concetto, potendo il ricevente ricevere senz' esserne egli stesso modificato. Che se di più si considera la spiegazione che il nostro stesso filosofo dà delle Categorie, vedesi che egli riduce alla categoria della relazione anche la quantità comparativa, come il maggiore, il doppio ecc., e la posizione. Distingue adunque i varii aspetti, sotto i quali lo spirito considera le stesse cose, e ne forma varie categorie (1). Onde dice che il giacimento e la sessione , e gli altri atteggiamenti , sono ad altro; cioè esprimono relazioni: ma il giacere , lo stare , il sedere , ecc., non sono relazioni, ma sono denominati dalle posizioni rispettive le quali sono relazioni. Il che dimostra che la distinzione delle Categorie è tutta dialettica , come deve essere, perchè tolta dal predicare, sicchè esse si distinguono secondo il senso preciso delle parole, e però secondo le relazioni mentali significate dalle parole, di maniera che la posizione, per es., la giacitura, ecc. appartiene ad una categoria, cioè alla categoria «pros ti», e all' incontro lo stare, il giacere, ecc. appartiene ad un' altra categoria, cioè alla categoria «keisthai». E osserveremo anche qui di passaggio la somma diligenza che è necessario adoperare in tradurre un autore così dialettico, perchè, sostituendo una forma all' altra di dire, perisce spesso il vero sentimento che voleva esprimere il filosofo. La stessa cosa può appartenere a più predicamenti, secondo l' aspetto in cui la si considera e il modo con cui ella verbalmente s' esprime. Prendiamo l' esempio dall' ottava categoria «echein», che da alcuni si traduce impropriamente habitus . Se si considera e si esprime AVERE, l' abito appartiene all' ottavo predicamento «echein»; se l' abito si considera come una relazione a chi lo ha, appartiene al quarto predicamento «pros ti», come si rileva dal capo III del libro « Dei Predicamenti »; se si considera come un abito che affetta e qualifica chi lo ha (il che accade specialmente degli abiti spirituali), appartiene al terzo predicamento «to poion», come pure si dice nel capo 4 del citato libro. Laonde Aristotele nell' opera « Dei Predicamenti » fin da principio definì quali sieno i nomi denominativi, cioè quelli che vengono imposti agli enti da qualche cosa di accidentale, come grammatico da grammatica, e però sono casualmente differenti dai predicamenti, dunque si denominano le cose, e le cose stesse così denominate cangiano talor di predicamenti. Affine adunque d' intendere i predicamenti, giova aggiunger loro il verbo essere che esprima la forma della predicazione, come nella seguente: «e usia» «to poson» «to poion» «pros ti» «pu» «pote» «keisthai» «echein» «poiein» «paschein» Le Categorie dunque d' Aristotele non compartiscono l' ente, ma distinguono i modi di predicare qualche cosa dell' ente, e quindi i concetti diversi, secondo i quali si considerano gli enti. Di più Aristotele distingue il modo di predicare una cosa d' un' altra da ciò che si predica . I modi di predicare li chiama predicamenti o categorie , e ciò di cui in ciascun modo si predica, li chiama predicabili o categoremi. I predicabili, di cui parla ne' libri « De' luoghi » si riducono a quattro: il termine , il proprio , il genere , l' accidente: e sotto il genere comprende la differenza specifica e la specie, che è lo stesso genere coll' aggiunta della differenza. Dice adunque, che in ciascun dei detti modi di predicare si possono predicare quattro cose: il termine , cioè la quiddità della cosa, o il proprio , cioè una tale qualità che sia propria di quella sola cosa di cui si parla, come dell' uomo aver la facoltà d' imparare la grammatica (il che non costituisce l' essenza dell' uomo, ma è sempre unito all' essenza), o il genere colle differenze e le specie, o l' accidente (1). Questi predicabili o ricevono le loro determinazioni da questi quattro predicabili (2). Per esempio, se noi prendiamo il predicamento quale , questo quale si può definire, o esprimendone l' essenza (predicabile «Horos») o esprimendo qualche sua proprietà che non è però la sua essenza, ma conseguente ad essa (predicabile «idion»), si può ancora definire genericamente (predicabile «genos»), si può definire specificamente cioè col genere e colla differenza (predicabile «eidos», e «diafora»), e si può definire indicando solo qualche suo accidente (predicabile «symbebekos»). E così i predicabili si possono applicare alla definizione dei predicamenti . Concludiamo, le Categorie aristoteliche non danno una partizione ontologica dell' ente, ma dialettica; ed anche questa manchevole. Non soddisfanno dunque alle esigenze dell' Ontologia. L' aristotelismo, prevalso nelle scuole, racchiuse gl' ingegni entro il circolo delle partizioni dialettiche, e se alcuno tentò di uscire da quella cerchia, e spaziare negli ordini degli enti, non gli riuscì bene l' audacia, impotente a vincere le difficoltà del cammino scientifico, non tracciato quasi da piede alcuno, e la guerra degli uomini. Onde, quantunque nella storia della Filosofia si trovino molti tentativi dialettici sforzi di classificare più ampiamente che non aveva fatto Aristotele i concetti generali delle cose, componendo arti magne e mnemoniche e lingue universali, da Raimondo Lullo specialmente sino a Leibnizio; tuttavia invano si cercherebbe ne' lavori anteriori al passato secolo qualche veduta nuova ed originale sulla partizione ontologica dell' ente. Conviene dunque discendere fino al Kant, il quale tuttavia dichiara, che il suo scopo nel disegnare le Categorie è quel medesimo ch' ebbe Aristotele (1). E di vero, che anche la partizione del Kant sia dialettica anzichè ontologica , si rileva da questo, ch' egli parte dal principio che « pensare è giudicare », come Aristotele parte dal principio che « i modi del predicare sono i modi dell' essere ». I due filosofi in questo vanno a pieno d' accordo. E che « pensare sia giudicare », noi l' accordiamo (2), perocchè pensare è propriamente usare della facoltà del pensiero. Ora analizzando l' atto del pensiero trovasi che questo suppone una facoltà innata, e che questa suppone l' intuizione primitiva ed immanente dell' essere. Così dal pensare, cioè dal giudicare, il Kant si sarebbe potuto sollevare alla vera teoria dell' umana intelligenza. Ma, invece di ricercare le condizioni del pensiero le vere anticipazioni, egli s' occupò unicamente, come avea pure fatto Aristotele, delle forme del pensiero, e credette avere esaurito il suo argomento, quando le avesse diligentemente classificate e distinte. E come Aristotele prese a classificare gli enti misti di entità a parte sui e di operazioni mentali, senza accorgersi di tale mistura, così pure fece il Kant; ma con questa differenza, che quella parte, che gli enti aristotelici aveano d' attorno pel lavorìo soggettivo della mente, fu presa dallo Stagirita come fosse anch' essa entità vera a parte sui; laddove Kant, eguale ad Aristotele nel tenere le due parti confuse, prese anche la parte, che era vera entità a parte sui , per cosa soggettiva, razionale, dalla mente lavorata e prodotta. Onde il dialettico Kant diede nell' eccesso opposto a quello in cui avea peccato il dialettico Aristotele. Il Kant s' accorse che le cognizioni che cadono nell' umana mente, altre sono necessarie ed universali, altre sono contingenti e particolari. Que' giudizi , che non ponno intendersi se non concependo la necessità e l' universalità, li chiamò a priori , e se non sono dedotti da niun elemento empirico precedente, li disse a priori puri: que' giudizi che si ponno intendere senza ricorrere alla necessità ed universalità, egli li nominò a posteriori . Fin qui niente accade da osservare. Ma quando viene a determinare onde nasca la necessità e l' universalità da una parte, la contingenza e la particolarità dall' altra, allora egli stabilisce un criterio evidentemente erroneo, il quale, come è il fonte del criticismo, così pure è il fonte dell' erroneità di tale sistema. Il principio è questo: [...OMISSIS...] . Egli è pur singolare a vedere con quale leggerezza e sicurtà Kant ammette questo principio. Egli avrebbe dovuto darsi tutta la cura di provarlo con dimostrazione rigorosa, giacchè trattasi del fondamento unico su cui posa tutto l' edificio della sua filosofia. E pure nulla di questo. - Egli lo introduce a principio nel discorso quasi per incidenza (3) come cosa che viene da sè, su cui non si aspetta dal lettore la minima opposizione. [...OMISSIS...] Egli dunque dà per cosa certissima che, se qualche cosa vi ha nelle cognizioni umane che non venga dall' esperienza, debba necessariamente esser prodotta dalla stessa nostra facoltà di conoscere, e che le cognizioni umane non possano avere alcun altro fonte fuori di questi due: 1 i sensi , e 2 la stessa facoltà di conoscere . Tuttavia se egli avesse indagato la natura della facoltà di conoscere, non già dalle supposte produzioni di lei, ma dal rapporto che passa tra lei ed i suoi oggetti necessarii, egli avrebbe trovato ancora il varco d' uscire dal labirinto del soggettivismo. Ma vi si perdette irrimediabilmente, posciachè prese la facoltà di conoscere unicamente come attività del soggetto, o mosse da un principio anticipato, ch' ella producesse a sè stessa tutto ciò che si trova nelle sue cognizioni, e che non viene dato dai sensi. Questo è il pregiudizio della filosofia Kantiana, il postulato arbitrario, il punto in aria a cui il filosofo appoggia la leva per muovere da' suoi cardini il mondo scientifico. Posto che ciò che si trova nelle cognizioni umane travalicante il confine dell' esperienza è una mera produzione della facoltà di conoscere, ne consegue necessariamente, che ad indagare la natura di tale facoltà basti occuparsi in enumerare con accuratezza e classificare queste sue produzioni. Tale adunque fu il campo, in cui si esercitò il filosofo di K”nisberga. Quel pregiudizio fondamentale gli prescriveva il cammino da tenersi nell' investigare la natura dell' intelligenza, e quindi lo impediva d' investigare questa natura per altra via che la segnata da quel pregiudizio stesso. Quindi la natura della facoltà di conoscere rimase incognita a Kant, il quale non fece che ricevere la descrizione di questa facoltà quale gliela dava il mentovato pregiudizio ch' ella fosse la causa producente di ciò che si conosce oltre i limiti dell' esperienza. Egli è ancora singolare a vedere, quanta fiducia dimostri questo filosofo ne' dati dei sensi, e quanto poca, anzi nulla, ei ne conservi pei dati dell' intelligenza. Questo è il costante carattere de' sensisti: ai sensi essi credono ciecamente: le loro deposizioni sono le sole oggettive, come espressamente dice fra noi il Galuppi: l' intelligenza sola non ha alcuna virtù di cogliere dei veri oggetti, ma sol de' fenomeni. Favellando di ciò che l' intelligenza crede conoscere al di là dell' esperienza, ei la rassomiglia alla colomba che sentendo la resistenza dell' aria s' immaginasse di volare più facilmente e liberamente nel vuoto. [...OMISSIS...] Nel qual discorso si ammette come indubitato che il sensibile sia il solo punto d' appoggio che abbiano le ali dell' intelletto, e che senza il sensibile l' intelligenza non trova che campi vuoti. Non sono questi i soliti pregiudizi volgari dei sensisti? i quali non si son saputi svestire nè pure da colui che pretese di darci un sistema di filosofia trascendentale! E veramente, che questo sia pregiudizio, fede cieca e volgare ai sensi, incredulità arbitraria e parimenti cieca alla deposizione dell' intelligenza, si può desumere da questa riflessione: Non meno il senso che l' intelligenza sono potenze dell' uomo; Non meno il senso che l' intelligenza hanno dei loro proprŒ termini, cioè il senso ha i termini sensibili, l' intelligenza i termini intelligibili; Non meno il senso che l' intelligenza ha questa legge che non percepisce il suo termine, se non a condizione che egli sia congiunto colla sua potenza: di maniera che egli è un pregiudizio volgarissimo il credere che il senso percepisca i suoi termini in quanto sono staccati da lui, e in questo senso esterni; onde se per esterni si intende staccati dalla potenza, è falso che il senso percepisca meglio che l' intelligenza un' entità esteriore. Se adunque la condizione delle due potenze in tutte queste condizioni è uguale, perchè mai, se non per un mero arbitrio, si dichiara che il senso ha virtù di percepire veri oggetti, e non così l' intelligenza? Questo è il medesimo che sragionare in questo modo: [...OMISSIS...] . Ma onde si prova la minore di questo sillogismo? Da nessuna parte, per nessuna via. - Essa non è che l' espressione della profonda INCREDULITA` che si è messa negli animi alle cose sopra sensibili; la prova evidente della corruzione e DELLA MATERIALITA` DEL SECOLO. Se invece di asserire ciò che detta l' incredulità preconcepita alle cose spirituali, si volesse veramente ragionare e filosofare, si perverrebbe ad un risultamento assai diverso; cioè si conoscerebbe: 1 Che il senso non attesta nulla per sè solo, e non ha alcuna virtù oggettiva perchè esso ha termini, ma non oggetti: 2 Che è solo l' intelligenza quella che vede i fenomeni e le entità sensibili nel vero oggetto intelligibile, l' ente da lei intuìto fuori di tutti i sensi corporei, e così gli oggettivizza, ossia li conosce come enti, come oggetti distinti dalla facoltà; 3 Che la intelligenza per conseguenza ha un oggetto al tutto superiore al mondo sensibile, e che quello è il solo vero oggetto dal quale viene l' oggettività alle stesse entità sensibili; 4 Che la sola intelligenza perciò ha vera virtù oggettiva, cioè ella sola è la facoltà di farci conoscere con certezza le cose come sono in sè, e distinguere da noi stessi quelle che sono da noi distinte. I sensisti adunque, e Kant con essi, cadono fra l' altre in questa inconseguenza, che prestano tutta fede alla ragione quando ci asserisce qualche cosa intorno agli oggetti sensibili, e le negano fede quando con eguale o ancor maggior asseveranza ella ci asserisce qualche cosa intorno agli oggetti intelligibili; quasi che una stessa facoltà potesse essere ad un tempo e verace e menzognera secondo il bel piacere de' filosofi materiali. Per altro, quello che è ancor più assurdo si è il dilemma Kantiano: che ciò che non viene dall' esperienza debba venire dal soggetto intelligente; e però che non venendo dall' esperienza dei sensi il necessario e l' universale, questo dee venire dal fondo dell' uomo stesso. Questo argomento si potrebbe rovesciare, e riterrebbe lo stesso valore del precedente, dicendo: « Il necessario e l' universale non può venire dal soggetto intelligente, perchè questo non è nè necessario nè universale; dunque deve venire dall' esperienza ». Questo « dunque deve venire dall' esperienza », vale altrettanto del primo « dunque deve venire dal fondo dell' uomo ». L' uno e l' altro nulla provano, anzi sono manifestamente erronei. La radice di questo errore, si è il non distinguersi la facoltà dell' umana intelligenza dagli oggetti dell' intelligenza: quella è contingente e particolare, questi sono necessarii ed universali. Questi dunque non possono venire da quella, perchè l' effetto non può essere maggiore della sua causa (1). Ma datemi un uomo pregiudicato, un uomo che già precedentemente abbia invincibile ripugnanza (benchè non sorretta da ragione alcuna) ad ammettere oggetti intelligibili diversi da' sensibili. Questi che farà? Si getterà ad asserirvi francamente (perchè tali prevenuti asseriscono, non ragionano), che quelle qualità di universalità e di necessità non possono essere che apparenti, il che è quanto dire che si potrebbe pensare che l' ente non fosse ente, o che si potrebbe pensare qualche cosa fuori dell' ente, distruggendo così tutti i principŒ della ragione. Se Kant, o piuttosto il suo secolo e il suo paese non avessero rotto il filo della tradizione filosofica, egli avrebbe potuto imparare da que' pensatori che vissero molti secoli prima, che vi ha ripugnanza intrinseca in fare che « la natura contingente produca il necessario, l' universale, l' eterno », caratteri di cui sono forniti gli esseri ideali, e che, o convien negare i principŒ della ragione, e perciò rinunciare del tutto a filosofare, giacchè in qualsiasi modo si filosofa, si fa sempre usando di que' principii; o convien cercare altronde l' origine degli oggetti ideali, e de' loro eccelsi attributi. Io ho già citato altrove questo passo della sublime operetta che ha per titolo « Itinerario della mente a Dio », che qui riproduco: [...OMISSIS...] . Il quale argomento è così evidente, che nessun sofisma il potrà abbattere giammai. Malebranche ripetè questo argomento, ma avendo confuso l' oggetto eterno , che lo spirito nostro vede, col soggetto eterno (i quali sono una cosa in sè, ma sono due cose rispetto al nostro spirito) preparò la via a' moderni soggettivisti. [...OMISSIS...] Ma il Malebranche altrove sostituisce alle idee la sapienza di Dio; la quale appartiene a Dio, concepito come soggetto. La sapienza divina ha per termine le idee, o piuttosto il Verbo divino; e noi non vediamo mica la sapienza divina naturalmente, ma vediamo le idee nostre, le quali, senza la divisione che hanno nella mente nostra, nel Verbo divino con unità perfettissima si contengono. Onde, quantunque sia vero che noi siamo illuminati dal Verbo, non è però vero che vediamo per natura lo stesso Verbo, o il modo col quale le idee si unificano nel Verbo. Epperò nè pure è vero che vediamo la sostanza divina, o le idee nostre quali sono nella divina sostanza. Conosciuto il vizio radicale della filosofia critica; conosciuto com' ella si eriga sulla fracida base di un pregiudizio materiale e cieco: vano è sperare di trovare in essa una buona Ontologia. Tuttavia vediam brevemente quali sieno le partizioni dell' ente, che questo filosofo ci viene proponendo. L' ente di Kant, parte prodotto, parte dipendente dalle facoltà dell' uomo, dovea partirsi come queste facoltà; le quali egli riduce a tre: Senso, Intelletto, Ragione . L' Estetica trascendentale, cioè la dottrina della sensitività, ci sembra la parte migliore della « Critica della Ragione pura ». Ma ella soggiace tuttavia alle seguenti opposizioni: 1 Kant, seguitando non pochi filosofi che il precedettero (1), considerò lo spazio ed il tempo come fossero cose della stessa condizione: e dichiarò il primo forma della sensitività esterna, e il secondo forma della sensitività interna. Ma il tempo non si riferisce meno agli enti esterni, cioè a quelli che sono nello spazio, che agli enti spirituali, come sarebbe l' anima nostra e le sue modificazioni: dunque se fosse forma della sensitività, egli dovrebbe esserlo non meno dell' esterna che dell' interna. 2 Il tempo non si può pensare se non come una successione di cose almeno possibili; e se non si pensa questa possibilità, non si pensa al tempo: laddove io posso pensare lo spazio, non già senza la possibilità de' corpi, ma bensì senza pensare alla possibilità de' corpi, come un' estensione illimitata vacua del tutto (2). Quindi il concetto del tempo stà essenzialmente nella relazione di più cose che si succedono. All' incontro lo spazio si concepisce immobile, indivisibile, uniforme, senza alcuna necessaria relazione ai corpi. Il tempo adunque come concetto, consistendo in una relazione, esige un oggetto intellettuale; perocchè ogni relazione tra più cose che non agiscano tra loro, appartiene alla mente, appartiene cioè all' ordine che hanno le cose nella mente «(V. Antrop. , p. 276, 277) ». 3 Se poi si cerca in che consista tale relazione, ella si trova nella limitazione e mutabilità delle cose contingenti, riferita dalla mente all' illimitazione, immutabilità, ed eternità dell' ente, col quale conosciamo le cose. Ma questa eternità dell' ente che sta innanzi alle menti, benchè necessaria a concepire il tempo come termine di confronto, tuttavia non è lo stesso tempo. Laonde quel tempo puro di cui parla Kant come necessario a conoscere il tempo empirico, non è il tempo, ma è la stessa eternità dell' ente di cui noi abbiamo l' intuito, alla quale noi confrontiamo le cose variabili, o possibili o reali. Imperocchè veramente noi non potremmo dire che le cose si succedono, non potremmo concepire la successione, se non avessimo prima concepita la non successione, cioè la stabile presenza dell' ente; quel concetto supponendo questo come un suo relativo antecedente. Noi abbiamo già dimostrato nella « Psicologia » che la successione non può essere concepita, se non è tutta simultaneamente presente allo spirito: il concetto dunque della successione dimanda un modo di concepire simultaneo ed immobile, e questo ci viene dalla natura dell' ente intuìto che è fuori dello spazio e del tempo «( Psicol., p. 1179) (1) ». Il tempo astratto dalle cose è un ente di ragione, un vero concetto astratto e composto; ma il tempo affermato nelle cose è un' entità mista consistente in « un rapporto differenziale che hanno le cose contingenti da noi concepite coll' essere immutabile da noi intuìto, il qual rapporto sta nel riconoscere la successione di quelle nella presenzialità di questo ». 4 All' incontro lo spazio ha egli natura di concetto intellettivo? Quei filosofi che l' asseriscono come Kant (1), confondono il concetto dello spazio collo spazio. Che lo spazio abbia un concetto come l' hanno tutti i corpi, ciò è indubitato; ma che lo spazio stesso sia un concetto, questo è falso. 5 Kant dice che [...OMISSIS...] , e con ciò intende provare la necessità dello spazio, e quindi la sua provenienza soggettiva. Ma egli è falso, che non si possa prescindere col pensiero dallo spazio. Quand' io penso ad un' idea, o ad uno spirito, non penso allo spazio. Ora non potrei io limitare il mio pensiero a pensare a tali cose immuni affatto di spazio? E non posso anche concepire la possibilità che Iddio avesse prodotti de' soli spiriti, i quali non pensassero che a cose spirituali, nel qual caso egli non avrebbe creato lo spazio. Niente di ripugnante in ciò. Lo spazio adunque non è necessario, ma contingente, e creato. Che cosa è adunque lo spazio? Egli è un termine del nostro sentimento fondamentale; è una realità: egli appartiene dunque alla potenza della sensitività corporea come un' antecedente e condizion sua necessaria; è una forma, ma forma distinta dalla stessa sensitività, come più a lungo abbiam detto nell' « Antropologia » e nella « Psicologia » «( Antrop. , II; Psic. p. 554 e seg.) ». 6 Finalmente Kant crede che senza spazio e tempo non si possa pensare, non si possa avere alcun oggetto nel pensiero, e che per ciò essi si trovino in tutti i concetti dell' intendimento (1). Ma benchè ad assentire a questa dottrina siano inclinati gli uomini, perchè la loro attenzione è assorbita, quasi direi, dai corpi e dai loro fenomeni; tuttavia non lice ad un filosofo procedere così materialmente da non intendere che la mente pensa alle essenze le quali sono per sè oggetti, e sono tuttavia immuni da ogni spazio e da ogni tempo. Dal quale errore di fatto Kant ritrasse un grande svantaggio nella deduzione delle sue categorie, perocchè egli non pensò a classificare in esse se non gli oggetti che soggiacciono allo spazio e al tempo, come tosto vedremo (1). Veniamo ora alla derivazione de' concetti fondamentali della mente che Kant appella categorie. Kant primieramente confonde i giudizi co' concetti , descrivendo quelli come un' aggregazione di questi. Egli è prezzo dell' opera, che noi qui esaminiamo con qualche diligenza la dottrina Kantiana del giudizio, onde il nostro filosofo deduce tutta quanta la sua teoria filosofica, discoprendo i vizŒ di questa teoria nella loro radice, dopo avere svelati quelli che giaciono ne' preliminari di lei. A tal fine esponiamo la dottrina del giudizio colle parole stesse di Kant. [...OMISSIS...] . Egli prende quindi a classificare queste funzioni dell' unità nel giudizio , e ne fa uscire quattro generi dei giudizŒ, suddiviso ciascuno in tre specie, e così trova dodici classi di giudizŒ, ciascun de' quali somministra un attributo generale; e questi dodici attributi sono i dodici concetti fondamentali , ossia le dodici categorie di Kant. Ora ecco i vizŒ radicali di questo che egli chiama « « filo conduttore per iscoprire i concetti puri dell' intendimento » ». 1 Dicendo Kant che giudicare (sinonimo di pensare) è conoscere per via di concetti, egli omette nella definizione del giudizio quell' elemento che ne costituisce l' essenza, voglio dire la copula. La copula di ogni giudizio, anche del giudizio negativo, si riduce all' affermazione , onde fu detto giustamente che giudicare è affermare . Quindi è del tutto falso, che giudicare sia conoscere per via di concetti: anzi il vero si è che « « giudicare è conoscere per via di affermazione, o, se si vuole un termine più generale, per via di predicazione » ». Nell' atto di affermare o di predicare sta l' essenza del giudizio. Ora il conoscere per via di concetti, e il conoscere per via di affermazione, sono cose distintissime, e costituiscono le due grandi classi del sapere umano che abbracciano « le cognizioni ideali », o, come noi sogliamo anche chiamarle, intuitive, le quali sono quelle che si hanno per via d' idee o di concetti; e « cognizioni di predicazione »; alle quali soltanto appartengono i giudizŒ «( Psicol. , n. 1006 e seg.) ». 2 Non avendo Kant conosciuta la differenza essenziale che passa fra il conoscere per concetto, e il conoscere per affermazione, egli disse che [...OMISSIS...] . Se ogni cognizione umana fosse un conoscere per meri concetti, nulla si conoscerebbe per via di giudizio ossia per via di affermazione. All' incontro Kant dice ancora, che tutto si conosce per via di giudizŒ. Ella è questa in se stessa una patente contraddizione; la quale nasce dalla confusione fatta da questo filosofo tra concetti e giudizŒ; avendo egli nel seno dei concetti introdotti, senz' accorgersi, i giudizŒ. All' incontro concetto e affermazione sono cose affatto distinte: il concetto pone innanzi alla mente l' essenza delle cose racchiusa nel concetto, e questa essenza è data all' uomo, non già formata dall' operazione dello spirito stesso: l' uomo non fa che intuirla tale quale gli è data (1). Erra dunque grandemente Kant sopprimendo una delle due grandi classi del conoscere umano; cioè confondendole in una, ed a quest' una concedendo gli attributi di entrambe. 3 Ma onde una tanta confusione in un pensatore così profondo? - Dal sensismo del suo secolo; ed ecco in che modo ella provenne. I sensisti non arrivano mai e non possono arrivare ad intendere la natura del concetto, perocchè essi non riconoscono altri oggetti che quelli somministrati dall' esperienza dei sensi. Kant professa espressamente questa dottrina, e con essa incomincia la sua « Critica della Ragion Pura », ammettendola come cosa fuori di controversia, e non bisognevole di prova alcuna (2). Or tutto il criticismo non è altro in fine, che lo sviluppo di questa prima proposizione sensistica introdotta senza la menoma prova. Posto adunque che non si abbiano altri oggetti de' sensi, ne seguiva che nè pure fossero possibili de' veri concetti, perocchè concetti senza oggetto alcuno, sono un bel nulla. Per essere coerenti conveniva adunque negare affatto l' esistenza de' concetti, come fecero altri sensisti. Ma fra i sensisti ve n' ebbero alcuni a cui ripugnò di negare affatto i concetti, i quali sono ammessi da tutto il mondo, e la cui esistenza è troppo evidente; e di questi uno fu Kant. Che fecero adunque questi sensisti? Falsarono la definizione de' concetti: ne ritennero il nome, ma ne descrissero la natura tutto in servizio del sensismo da essi professato. Ecco in che modo alcuni pretesero che i concetti non fossero che collezioni d' individui (1). Kant venne allo stesso, ma il disse più oscuramente, usando il suo solito stile. Disse cioè, che i concetti contenevano in sè un moltiplice , una varietà, [...OMISSIS...] cioè tutti gli oggetti a cui si possono riferire; e che era lo spirito quello che esercitando una sua propria funzione (2) dava l' unità a quel vario moltiplice. Egli parla a lungo di questa sintesi che vi fa nascere dall' unità della coscienza del soggetto percipiente; il che se fosse, non si avrebbe che un concetto solo. Perchè il soggetto percipiente è un solo, Egli non considera che avanti il molteplice deve essere il semplice, e che ogni semplice basta a fare che l' intendimento intuisca un concetto. Egli non considera che l' essere ogni concetto generale non vuol dire che egli sia moltiplice, come diremo tantosto; nè s' accorge che l' introdurre una facoltà della rappresentazione è un pregiudicare la questione, perchè si tratta appunto di questo, come sia possibile la rappresentazione; e prima ancora, che cosa sia la rappresentazione, qual sia la natura di questa facoltà supposta di rappresentarsi le cose. 4 Ma per venire a quel che dicevamo, egli è un errore di tutti i sensisti il prendere la generalità propria de' concetti per una loro moltiplicità. Generalità e moltiplicità sono cose non solo diverse, ma opposte. Quello che è moltiplice, non può esser generale in quant' è moltiplice, perocchè la nozione del moltiplice non dà che un aggregato di particolari, a ciascuno de' quali manca la generalità. Il solo semplice può avere la dote della generalità . Per convincersene basta osservare attentamente in che consista la generalità de' concetti, e si vedrà che un concetto benchè generale è semplicissimo. In fatti che cosa vuol dire un concetto generale? Non vuol dire altro se non che con quel concetto si conoscono infiniti individui possibili: per esempio, col concetto uomo io conosco tutti gli uomini possibili in quanto sono uomini. Ma qui si noti: tutti questi che si conoscono, esistono fuori del concetto; ma tutti hanno la stessa relazione col concetto come col loro tipo comune. La pluralità dunque non è nel concetto, ma è negli individui che si conoscono col concetto, e che non sono il concetto. Confondere gl' individui conosciuti col concetto che li fa conoscere, attribuire la pluralità di quelli a questo, che, benchè semplicissimo, li rende noti, è il perpetuo errore de' sensisti, l' errore dominante nel sistema di Kant. La generalità dunque, ovvero universalità del concetto non è alcuna pluralità, ma non altro significa se non che quel concetto ha una relazione identica con molti individui, e questa relazione consiste nell' essere egli la loro comune intelligibilità. Sono adunque affatto erronee le sopradditate parole di Kant: [...OMISSIS...] . E veramente il concetto di corpo non significa mica un metallo, in quanto è metallo, ma significa un metallo in quanto è corpo. Laonde la rappresentazione del metallo come metallo non entra mica nel concetto di corpo. Onde quantunque col concetto, di corpo si possano conoscere tutti i corpi, tuttavia non si possono mica conoscere le loro differenze, nè distinguere un corpo dall' altro: perocchè a qualunque oggetto si riferisca quel concetto, altro mai non dà che una rappresentazione sola, quella di corpo; e se voglio conoscere il metallo o altra specie di corpo ho bisogno di altri concetti. Onde niun concetto fa conoscere altro se non una sola essenza: e se fa conoscere più essenze, non è un concetto solo, ma più concetti composti. Onde il dire che un concetto contiene in sè altre rappresentazioni, è un confondere un concetto con altri concetti che si possono benissimo aggiungere al primo, ma che non sono il primo. Ogni concetto adunque è semplice come tale, ed è universale in questo senso che l' essenza, cui rappresenta, può essere realizzata replicatamente senza fine; e tutte queste realità, in quanto realizzano quest' essenza, con quella sola e semplice essenza possono essere conosciute. 5 Trasportando adunque Kant nei concetti le proprietà dei reali, che coi giudizŒ si conoscono, come la plurità e la varietà, non è maraviglia ch' egli non potesse più distinguere la scienza che si ha per via di concetti, dalla scienza che si ha per via di giudizŒ; e che definisse il pensare, cioè il giudicare, un conoscere per concetti. Non riguardò adunque più il concetto se non come un elemento del giudizio, che però dall' analisi del giudizio si doveva desumere, definendo il concetto unicamente come « l' attributo di un giudizio possibile », e così disconoscendo che il concetto, come tale, ha un valore suo proprio antecedente al giudizio; giacchè il giudizio non è che un' applicazione di esso. A torto adunque egli considerò come « « filo conduttore a discoprire i concetti dall' intendimento la classificazione dei giudizŒ » »; quando anzi la classificazione dei concetti si potrebbe pigliare a filo conduttore per discoprire quali esser possano i giudizŒ. L' aver dunque sommessi i concetti ai giudizŒ, pose Kant sopra una falsa strada, e gli impedì interamente di conoscere la vera natura oggettiva de' concetti, e dell' intuizione che fa di essi la mente. Ma qual fu la classificazione dei giudizŒ di Kant? Fu qual dovea essere, erronea del tutto, dopo che avea attribuito ai concetti le proprietà dei giudizŒ, e a' giudizŒ le proprietà dei concetti, e confusa in una parola l' indole degli uni coll' indole degli altri. Acciocchè le nostre osservazioni riescano più chiare, sommettiamo prima agli occhi del lettore la tavola Kantiana delle diverse maniere di giudizŒ. Ed è la seguente: [...OMISSIS...] 1 Queste quattro grandi classi di giudizŒ ci sono date da Kant sulla sua parola, poichè non fa alcun ragionamento che provi che questa classificazione sia legittima e completa. 2 Che i giudizŒ abbiano qualità , questo è manifesto, ma che i giudizŒ abbiano quantità, relazione e modalità , questo è evidentemente falso. Quando si sono tratte fuori tutte le qualità de' giudizŒ, la loro classificazione è compiuta. Altro è la classificazione de' giudizŒ, altro la classificazione degli oggetti loro. Se noi diremo che i giudizŒ sono affermativi, negativi, limitativi , avremo in qualche modo classificati i giudizŒ; che se vogliamo classificare gli oggetti de' giudizŒ, questi oggetti possono benissimo avere un quanto , un quale , una relazione , ed un modo . Ma ella è regola logica, che « ogni retta classificazione deve avere una base sola »; e quella di Kant varia di base. Perocchè la divisione de' giudizŒ in affermativi, negativi e limitativi ha per base la diversità della copula che costituisce formalmente il giudizio; all' incontro la divisione de' giudizŒ in generali, particolari e singolari, ha per base l' oggetto, ossia la materia del giudizio. Variano adunque le basi della classificazione. D' altra parte, se un giudizio afferma, egli appartiene alla stessa specie, qualunque sia l' oggetto affermato; il contenuto del giudizio non cangia punto la sua specie, e però non può costituire una nuova classe. La quale osservazione non isfuggì interamente alla sagacità di Kant: ma ei pretese giustificarsi dicendo, che non considerava i giudizŒ, come giudizŒ, ma come semplici cognizioni (1). Il che è scusa vana, e di quelle che impacciano il processo del discorso filosofico. Perocchè altro è classificare le cognizioni , altro i giudizŒ: e se voi distinguete quelle da questi, e volete classificar quelle, perchè vi occupate a classificar questi? Si sente da per tutto l' imbarazzo con cui procede Kant, pel principio sistematico di confondere la natura de' concetti colla natura de' giudizŒ. Questa avvertenza cade in acconcio sovente ne' ragionamenti di Kant. 3 Nella tavola di Kant entrano giudizŒ semplici , e giudizŒ composti di più giudizŒ. Così il giudizio problematico « se vi ha una giustizia eterna, il vizioso sarà punito », altro non è che la relazione fra due giudizŒ affermata con un terzo giudizio che si può esprimere così: « l' esserci una giustizia eterna, e l' esser punito il vizioso, sono due concetti conseguenti ». Ma i giudizŒ semplici ed i giudizŒ composti non debbono confondersi insieme, perchè « ella è pure regola logica che deve esser unico l' oggetto che si divide o classifica ». Quindi volendo dividere i giudizŒ in genere, prima di tutto conveniva partirli in I semplici, e II composti; e poscia dare separatamente la sotto7classificazione degli uni e degli altri. 4 Un' altra regola logica, che presiede alla retta classificazione, si è che « un membro della divisione non deve entrare nell' altro ». Ma nella tavola de' giudizŒ data da Kant i giudizŒ categorici ed i giudizŒ assertorii entrano evidentemente ne' giudizŒ affermativi , e così pure i giudizŒ che Kant chiama generali, particolari , e singolari non possono essere che una suddivisione di giudizŒ affermativi. Molt' altre osservazioni si potrebbero fare sulla tavola de' giudizŒ data da Kant, ma per istudio di brevità lasciandole, coglieremo in quella vece l' occasione di porgere qui un' altra tavola della classificazione de' giudizŒ, senza spirito di sistema, dal confronto della quale si potranno facilmente distinguere i varŒ errori della classificazione Kantiana. Come ogni giudizio ha tre parti, il soggetto, la copula e il predicato, così la divisione de' giudizŒ deve esser triplice. [...OMISSIS...] I rapporti d' una classificazione coll' altra non sono difficili a rilevarsi, ma noi gli intralasciamo non iscrivendo noi ora una Logica . Tornando ora dunque a Kant, dalle predette forme de' giudizŒ egli cava i suoi concetti fondamentali, come li chiama, ossia categorie, che ei definisce altrettanti attributi di giudizŒ possibili; le quali categorie sono le dodici seguenti: unità, pluralità, totalità (quantità); realità, negazione, limitazione (qualità); inerenza e sostanza, causalità e dipendenza, comunità ossia reciprocità tra l' agente e il paziente (relazione); possibilità e impossibilità, esistenza e non esistenza, necessità e contingenza (modalità). Noi abbiamo esaminata la classificazione di queste forme in un luogo del « Nuovo Saggio », a cui rimandiamo il lettore (1). Di più dalla critica, che testè abbiamo fatta delle classificazioni de' giudizŒ, risulta quanto esse, come loro legittime figliuole, devano essere manchevoli. Riporteremo adunque soltanto l' avvertenza che quella divisione di forme, secondo lo stesso scopo dell' autore, non è ontologica , ma puramente dialettica, e però ella è tale che non ci può somministrare in modo alcuno la partizione dell' ente o le sue passioni. Il che riceve conferma da questo, che essendoci elle date come altrettanti attributi , ossia predicati de' giudizŒ, esse escludono di considerare il soggetto come soggetto; quando pure il soggetto, se è reale, è la base di ogni entità. Oltre a ciò in esse non apparisce alcun ordine tra le varie classi, nè si trova perchè siano così distribuite. Certo che se si fosse trattato di porgere una tavola di categorie ontologiche , non conveniva cominciare dalla quantità, la quale suppone antecedentemente la sostanza, e una sostanza reale, e di più una sostanza determinata, cioè quella che riceve il più e il meno. S' aggiunge che le forme di Kant non comprendono che concetti ideali, negativi; sicchè il positivo dell' ente, che consiste nella realità del sentimento, non si trova affatto. Perocchè la parola realità , che è la quarta categoria, si è presa in senso improprio, non per accennare la realità che si manifesta nel sentimento, ma per indicare l' affermazione che fa lo spirito pronunciando un giudizio. Ora in una tavola di categorie veramente ontologiche non può mancare il più, qual è il positivo dell' ente, ossia la sua vera realità sentimentale. Ancora, le tre categorie di relazione non esauriscono tutte le forme della relazione. Poichè primieramente mancano tutte le relazioni ideali, come la dipendenza della conseguenza del principio; mancano tutte le relazioni nazionali, come la congiunzione di un predicato ad un soggetto dialettico, la qual congiunzione non si fa per via d' inerenza, come, per es., dicendo « il giudizio è un' operazione della mente », non è mica che l' operazione sia inerente al giudizio, perchè ella è identica col giudizio, il quale è quel luogo logico chiamato «Horos» da Aristotele. Ancora, la nona categoria dimostra il pregiudizio che l' azione e la passione siano reciproche; quando ci sono passioni ed azioni che non finiscono in un solo soggetto (1). Ancora, l' undecima categoria, cioè l' esistenza , è un genere che si suddivide nelle due specie di esistenza necessaria , ed esistenza non necessaria ma contingente: e però le tre ultime categorie non si dividono ex aequo come esigono i logici. Ma sarei infinito se volessi continuarmi in tutti i difetti delle categorie Kantiane; veniamo dunque alle idee della ragione. Come Kant derivò i concetti dell' intelletto da giudizŒ (1), così egli tolse a dedurre le idee trascendentali da raziocinŒ (2). L' unire la varietà dell' intuizione (percezione soggettiva) e farne uscire i concetti, è secondo Kant la funzione dell' intelletto , e chiama questo risultato la sintesi dell' intuizione. Noi abbiamo veduto, che v' ha qui un grande errore in darsi a credere che nel concetto vi abbia l' unificazione di una varietà; anzi niuna varietà cade nel concetto per quantunque generale; ma la varietà e la moltiplicità sta tutta fuori del concetto, cioè nelle relazioni che questo ha coi varŒ oggetti, ch' egli può farci conoscere sotto l' identica ragione. L' unire la varietà de' concetti facendone uscire uno della massima generalità il quale stabilisca la maggiore di un sillogismo, e così si possa ragionare, è la funzione della ragione. Il raziocinio per Kant è « « un giudizio ( conseguenza ) che viene determinato (cioè reso necessario) da un altro giudizio dato più generale ( maggiore ), mediante una condizione ( minore ) » ». Per es., « Caio è mortale »: è un giudizio che viene reso necessario dal più generale « l' uomo è mortale », mediante la condizione che Caio sia uomo. Ma anche la maggiore del sillogismo può essere condizionata, cioè discendere da un' altra proposizione più estesa, mediante una condizione sua propria. Onde non si può giungere ad una cognizione assoluta , se non percorrendo ed abbracciando tutta la serie delle condizioni, trovando così l' incondizionato. Quest' è quello che esige la ragione, nè si può accontentare d' una cognizione condizionata, la quale è nulla senza la sua condizione. Ora questa funzione della ragione , per la quale ella sintetizza i concetti, come l' intelletto sintetizzò le intuizioni della sensitività, conduce a tre oggetti , condizioni ultime del ragionamento. Ma non si creda per questo che Kant attribuisca per ciò alla ragione alcuna virtù di far conoscere questi oggetti veramente, quasi fossero oggetti in sè indipendenti dalla funzione predetta della ragione: nulla di ciò; essi non sono che illusioni . E qual ragione adduce di questa impotenza della ragione? Sempre il primo pregiudizio, la proposizione gratuita, supposta senza prove fino a principio dell' opera, cioè, che la sola sensitività dà all' uomo veramente oggetti. Dunque, allorquando l' intelletto o la ragione presentano oggetti, questi non possono essere altro che illusioni poichè non sono dati dalla sensitività!!! La sensitività ha l' esclusiva virtù di dare oggetti presso questi signori; e se poi cercate il perchè, non ne trovate altro, se non il fatto che la sensitività, colle sue prevalenti impressioni, li fa acciecati e legati al suo carro trionfale. Ma seguiamo la deduzione delle tre idee trascendentali della Ragione Kantiana. La ragione mediante il sillogismo lega i concetti trovando che l' uno è vero perchè contenuto nell' altro dato mediante la condizione ossia il termine medio. Consistendo dunque il raziocinio nella relazione di un giudizio con un altro, converrà ricorrere alla categoria della relazione per classificarli. Questa si divide in tre forme: 1 d' inerenza e sostanza; 2 di causa ed effetto; 3 di reciproca azione. Benchè con qualche stiracchiatura (1) queste tre categorie pretese Kant di dedurle dalle tre classi di giudizŒ categorici, ipotetici , e disgiuntivi , le quali appellazioni segnano di conseguente anche le tre supreme classi di raziocinŒ. Or dunque, ragiona Kant, esigendo la ragione di pervenire alla cognizione incondizionata, dee pervenire a ciò che dia unità a tutta la serie delle condizioni in ciascuna di quelle tre maniere di relazioni. Or quanto alla prima, che è quella d' inerenza e di soggetto, la ragione perviene all' unità assoluta e incondizionata del soggetto pensante , argomento della Psicologia; quanto alla seconda di causa e d' effetto, perviene all' unità assoluta della serie delle condizioni de' fenomeni , argomento della Cosmologia; quanto alla terza di reciproca azione o d' enumerazione de' possibili, perviene all' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero in generale, argomento della Teologia trascendentale. Quest' è quanto dire che l' idea dell' Anima intelligente, del Mondo, e di Dio, sono condizioni ultime assolute di tutti i raziocinŒ. E questo è vero. Ma ciò che non intende Kant, si è, che queste idee non sono condizioni del pensare, se non dato che realmente vi abbia l' anima, il mondo e Dio; e che non siano mica illusioni trascendentali. Perocchè, se fossero tali, l' anima, il mondo, e Dio, non vi sarebbero veramente; e così non vi sarebbe veramente il pensare, mancando la sua condizione. Ma, che il pensare vi sia, non è negato nè pure da Kant, il quale gli toglie bensì la virtù di provare l' esistenza degli oggetti, ma non quella di essere; onde noi abbiamo stabilito nel « Nuovo Saggio » il principio che: [...OMISSIS...] . Ma Kant, volendo dimostrare che quelle idee, o più veramente giudizŒ , nulla provano sulla reale esistenza dei loro oggetti; prende audacemente a dimostrare, che la ragione ammette tali oggetti non per veri ragionamenti, ma per via di certi paralogismi, o inevitabili sofismi, non già dell' uomo ragionante, ma della ragione stessa; di modo che questa non è solo impotente , ma essenzialmente mendace (2); il che se fosse, la natura stessa della ragione sarebbe cattiva. Il Manicheismo adunque è nel sistema di Kant. Ma egli è pur singolare a vedere come un individuo pretende di convincere di menzogna la ragione stessa degli uomini nella sua propria natura! Perocchè, o quest' uomo in far ciò usa della ragione, e usandone mostra di credere ch' ella è verace, ovvero intende di mentire egli stesso (e, s' egli mente, la ragione è giustificata); ovvero egli si fa un Dio, cioè un Dio falso, che prende a calunniare le opere del Dio vero. La superbia di Satana è dunque ancora nel sistema di Kant. Ma seguiamolo un poco nei suoi deliri. Espone prima il paralogismo , com' ei lo chiama, della ragion pura , cioè il sofisma con cui egli pretende che la ragione inganni l' uomo quando ella gli dice che v' ha un soggetto che pensa. Il preteso paralogismo, secondo lui, è questo: « Ciò che non può essere concepito che come soggetto non esiste che come soggetto, e perciò è sostanza; Ma un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può essere pensato che come soggetto; Dunque egli non esiste che come tale, cioè come sostanza ». Ora il Kant dice che questa conclusione è dedotta per sophisma figurae dictionis . E la prova ch' egli dà del suo asserto, ridotta a poche parole, è la seguente: « La sola intuizione, cioè la sola percezione de' sensi, somministra de' veri oggetti. Quindi la maggiore del sillogismo sarebbe una, se il soggetto concepito come soggetto potesse essere dato dall' intuizione sensitiva. Ma nella minore si parla di un soggetto, che non è dato e non può esser dato dall' intuizione sensitiva, ma è solo considerato per tale dal pensiero e dall' unità della coscienza. E però, non essendo un tal soggetto dato dalla intuizione sensitiva, egli non può essere un oggetto reale; ma solo un' apparenza o illusione trascendentale ». Muove sempre adunque il nostro filosofo dal suo diletto pregiudizio sensistico, che il solo senso somministra veri oggetti, e se ciò gli si accorda, egli ha ragione. Ma poichè per contrario questo sensismo è al tutto erroneo; convien dire che il paralogismo è del filosofo, e non della ragione stessa, con cui il filosofo si compiace di mettersi in lotta. D' altra parte egli ancora ignora, che nel sentimento vi ha sempre qualche cosa di sostanziale, e non dei puri fenomeni; e che questo vale specialmente pel sentimento interno che l' anima ha di sè stessa. Egli non punto osserva che nel sentimento suo proprio l' anima e sente la varietà delle sue modificazioni, e sente sè stessa soggetto unico e identico di esse; e questa parte del sentimento ha tutto ciò che racchiude una definizione legittima, e non già arbitraria, della sostanza «( Psicol. , p. 104) ». Dopo aver dunque Kant preteso di dimostrare, che non già l' umano individuo, ma la stessa ragione umana per sua natura paralogizza quando cerca di stabilire l' unità assoluta, incondizionata del soggetto pensante; egli passa a criticare i passi della ragione , quand' ella giunge all' unità assoluta della serie delle condizioni dei fenomeni , cioè del Mondo. E qui deride e sossanna la ragione umana più atrocemente ancora. Perocchè egli dice che il paralogismo, col quale la ragione stabilisce l' esistenza d' un soggetto pensante, almeno produce un' apparenza in un solo senso, senza che produca in pari tempo un' apparenza contraria. [...OMISSIS...] All' incontro quando la ragione cerca l' unità assoluta delle condizioni de' fenomeni (mondiali), allora ella produce a sè stessa non solo apparenze, ma apparenze contrarie, cioè intrinsecamente si contraddice. Egli stabilisce quattro di queste contraddizioni della ragione circa il mondo, che egli chiama antinomie, ossia conflitto di tesi apparentemente dogmatiche. Kant adunque pretende di cogliere in contraddizione la ragione stessa , e per coglierla con sicurezza, che cosa fa? Le mette egli stesso in bocca le parole che ella deve dire per contraddirsi: la fa parlare come egli vuole. Questa impresa suppone due cose non piccole: 1 La prima che al filosofo sia facile il mettersi in persona della ragione umana, e parlare proprio colla bocca di lei: il filosofo nostro, se è di buona fede, deve essere intimamente persuaso, di conoscere perfettamente ciò che direbbe la ragione in persona, se ella fosse una persona che potesse parlare. 2 La seconda, che al filosofo sia possibile, dopo essersi messo in persona della ragione e stabilito quello che la ragione stessa direbbe se parlasse colla sua bocca, di sollevarsi AL DI SOPRA DELLA RAGIONE, e, chiamatala al suo tribunale, convincerla di aver dette delle contraddizioni. L' alta persuasione che dimostra Kant di sè stesso arriva a tutto ciò, ed ecco adunque, come la ragione umana parla per la bocca di Kant, suo (1) critico e maestro a bacchetta. [...OMISSIS...] A confutare queste pretese contraddizioni della ragione basta solo una parola: la ragione non parla così. Perocchè certo Kant in nessuna maniera può dimostrare direttamente, che così appunto parli la ragione com' egli la fa parlare. Che se egli non ispaccia più l' autorità della ragione stessa , ma discende a provare con suoi propri ragionamenti prima la tesi, e poi l' antitesi, in tal caso non è più la ragione, ma è egli stesso che si contraddice; almeno il certo ed evidente risultato delle antinomie si è questo, che « l' uomo individuo, chiamato Emanuele Kant, non giunse colla forza del suo ingegno a dissipare quelle contraddizioni, sieno poi esse vere od apparenti ». Che dunque le antinomie provino ad evidenza la limitazione dell' ingegno di Kant, questo è indubitato; ma non è egualmente indubitato che provino la limitazione della ragione stessa, come pretende Kant che provino per uno scambietto, e molto meno la sua intrinseca lotta, che la renderebbe positivamente stolta e suicida. Se quelle contraddizioni o antinomie fossero proprie della stessa ragione, (il che veramente asserì Kant ma nol provò, perchè non poteva in modo alcuno provarlo), in tal caso noi non apriremmo bocca, perchè non vorremmo metterci in lotta colla ragione nè pure per difenderla dal suo proprio furore, (il che d' altra parte ci sarebbe impossibile), e ci rassegneremmo ad essere anche noi stolti, avendo una ragione stolta, come gli altri uomini: se pure alla ragione, che si è contraddetta una volta, non fosse piaciuto di contraddire ancora le sue contraddizioni; il che non sarebbe impossibile, giacchè se nell' essenza della ragione umana è la contraddizione; chi mai potrebbe mettere un limite alle sue contraddizioni, che dovrebbero forse essere altrettante quanti i suoi atti? Ma posciachè le contraddizioni o antinomie non della ragione, ma sono di un uomo che si chiama Kant, il quale introdusse sulla scena la ragione personificata facendola parlare, quasi come dei proprii rispettabili personaggi suol fare il burattinaio; noi non temiamo punto di entrare a vedere se sia possibile di uscire dall' intrico, in cui questo uomo si confessò preso quasi fra l' uscio e il muro. Ripigliamo dunque ad una ad una le tesi e le antitesi, e mettiamo a prova il valore degli argomenti coi quali Kant intende provare le une e le altre. La prima tesi si è che « « il mondo abbia cominciato, e che lo spazio sia finito » ». Che il mondo abbia cominciato, si prova da Kant discretamente; e noi l' ammettiamo pel suo e per altri argomenti. Che lo spazio sia finito, Kant lo prova dalla supposizione che egli fa, che lo spazio non sia altro che un aggregato di parti, e che lo spirito acquista il concetto dello spazio con unire successivamente queste parti. Ma noi neghiamo affatto che lo spazio puro abbia parti, diciamo anche ch' egli è per sè semplicissimo e indivisibile, e termine del nostro sentimento fondamentale. Le parti appartengono ai corpi ed alle sensazioni prodotte da corpi, come sono le superficie ed altre astrazioni fatte sui corpi come le linee ed i punti. Onde l' argomento di Kant prova che sia limitato quello spazio che è occupato da corpi, o che è segnato dal nostro spirito per via di solidi, superficie, linee, e punti mobili; e questo spazio appunto perchè è limitato e misurato non può essere infinito. Ma niente vieta, che lo spazio puro come termine di un sentimento fondamentale sia infinito. L' antitesi opposta, si è che « « il mondo non abbia principio, quanto al tempo, nè confine quanto allo spazio » ». E circa i confini dello spazio noi vedemmo che convien distinguere: lo spazio, quale spazio puro, non ha confini come dicemmo, e come dimostrano anche gli argomenti che per provare quest' antitesi adduce Kant; all' incontro lo spazio occupato dai corpi ha confini, come anco provano gli argomenti addotti precedentemente da Kant per provare la tesi. Onde il sofisma kantiano qui si rileva in questo, che ora si parla dello spazio quale i corpi limitati lo somministrano all' osservazione dello spirito nostro, ora si parla dello spazio quale è termine del sentimento fondamentale. Si cangia dunque il soggetto delle due proposizioni opposte, e si vuol far credere che sia il medesimo. A provar poi che il mondo non può aver cominciato, Kant parte da questa proposizione che « « il cominciamento è un' esistenza preceduta da un tempo, in cui la cosa ancor non è » ». Ma questa proposizione è falsa, perocchè il cominciamento d' una cosa può essere preceduto da un tempo, se avanti di essa v' ebbero altre cose; ma se non v' ebbe avanti di lei niuna cosa, come è nel fatto del Mondo, cioè del complesso di tutte le cose contingenti, non vi è tempo innanzi a quel cominciamento, perchè non vi ha successione. Ma Kant dirà, « « che si può immaginare una successione e questa possibile successione è il tempo di cui parla » ». Rispondo, essere vero che a questo tempo o successione immaginaria non si può prescrivere confini determinati; ma questo non fa che un tal tempo possibile sia infinito , ma solamente indefinito , a quel modo appunto che alla quantità possibile della materia corporea, come pure al numero, non si può assegnare un termine, perchè si può sempre immaginare accresciuta, e a qualunque numero si può sempre aggiungere un' unità: il che è quello che S. Tommaso chiama infinito in potenza e non in atto, il quale non è veramente infinito. In secondo luogo, il tempo ossia una successione che si può immaginare come possibile prima del cominciamento del mondo, non appartiene al mondo, al quale appartiene solo il tempo proprio de' reali; e quindi non toglie che il mondo abbia incominciato ad esistere. Il tempo possibile appartiene dunque al mondo delle idee, il quale è nel suo fondo eterno, e non mai cominciato. Quindi il sofisma di Kant consiste anche qui nel mutare il soggetto della proposizione; perocchè con una dice « che è incominciato il tempo reale »; coll' altra, « che non è incominciato il tempo possibile »; le quali proposizioni così spiegate, come debbono essere, cessano di costituire una antinomia. La seconda tesi si è: « « che ogni sostanza composta è composta di semplici, e non esistono che semplici o composti di semplici » ». Primieramente questa tesi è ambigua, e però acconcia al sofista. E` ambigua, perchè la parola semplice ha più significati, e almeno questi due: 1 senza estensione , 2 senza pluralità . Ora, se per semplice s' intende senza pluralità e però si fa equivalere ad uno , egli è chiaro e non bisognevole di prova, che ogni sostanza composta è composta di semplici, perchè questa proposizione è identica a quest' altra « ogni pluralità è composta di unità ». Ma se per semplice s' intende privo di estensione , in tal caso non ogni sostanza composta è composta di semplici, ma di parti estese. Così un corpo è un aggregato di elementi estesi e continui: ma questi elementi, benchè estesi, non sono però composti, nè hanno parti in atto, essendo un puro sbaglio di Kant (comune però ai suoi maestri o condiscepoli, i sensisti) il credere che l' estensione sia un' aggregazione di parti; quando anzi il vero si è, che l' estensione continua, come tale, non ha parti in atto, ed ha solo parti in potenza (le quali non sono parti reali), cioè ha solo parti immaginate dalla mente, la quale può suddividere il continuo indefinitamente, senza che ciò che le rimane cessi mai d' essere continuo, come abbiamo altrove spiegato; onde l' esteso continuo si deve dir semplice, qualora per semplice s' intenda privo di parti e di pluralità. Ma più estesi continui corporei possono, venuti al contatto, comporre un continuo solo, il quale è composto di semplici estesi, benchè senza parti. Queste parti poi del composto non sono determinate dall' estensione, la quale è semplice anche nel composto continuo; ma dalle forze dei singoli estesi, ciascuna delle quali forze, diffondendosi in un piccolo spazio determinato e circoscritto, rimane in qualche modo distinta da tutte le altre. Se poi si parla di semplici volendo significare inestesi, niente ripugna che un inesteso com' è l' anima venga in composizione con un esteso com' è il corpo ed anco con un aggregato d' estesi, com' è il corpo organico composto di molti elementi estesi. Onde questa maniera di composizione risulta da una sostanza semplice (inestesa) con una sostanza non semplice (estesa e composta di estesi). Onde in questo senso è falsa la tesi che non esistano che semplici, e composti di semplici. Finalmente erra di nuovo Kant quando pretende che « « la composizione non è che lo stato esteriore, una mera relazione accidentale delle sostanze » ». Anzi vi ha una composizione sostanziale , ignorata interamente da' sensisti, ma data manifestamente nella natura per modo che « « il composto è sostanzialmente diverso da' suoi componenti » », ossia ha un' altra forma sostanziale «( Psicologia , n. 204, seg.) ». Così il corpo, considerato come semplice materia, e il corpo animato, è sostanzialmente diverso, perchè ha una diversa forma sostanziale. Veniamo ora all' antitesi , la quale si è che « « niuna cosa è composta nel mondo di parti semplici, e nulla esiste di semplice » ». Questa tesi Kant si fa a provarla con due argomenti i più sgangherati. Il primo muove da questa proposizione che « ogni composizione di sostanze non è possibile che nello spazio », la quale è gratuita e falsa. Perocchè l' unione dell' anima col corpo non si fa nello spazio (benchè nello spazio si manifesti); ma si fa nella percezione fondamentale dell' anima, la qual percezione è semplicissima, come abbiamo provato nella « Psicologia », n. 264 seg.. Nè gli basta a condurre a fine la sua prova questo errore, se non vi aggiunge anche quest' altro « « che tutto ciò che occupa uno spazio comprende diversità d' elementi l' uno fuori dell' altro » »: mentre il vero si è che in esteso continuo non vi sono elementi reali ma solo potenziali come abbiamo detto; e però egli non è punto nè poco composto quanto allo spazio. Tutti i fondamenti adunque della sua prima prova vanno in fumo. Il secondo argomento che adduce è questo: « « Il semplice non può essere dato dalla percezione de' sensi; ma la sola percezione sensibile (ch' egli chiama intuizione) dà degli oggetti, e senza questi non ci hanno che idee; dunque noi non possiamo dimostrare che vi abbiano semplici nella natura, ma solo idee di semplici » ». Ognuno vede, che la minore di questo argomento, è il solito pregiudizio sensistico, su cui il Kant fabbrica tutta la sua dottrina. Ciò che abbiamo detto innanzi basta a distruggerla. In secondo luogo egli parla di idee . Ma queste idee son esse semplici o composte? sono nulla o qualche cosa? sono enti corporei nello spazio o enti fuori dello spazio? Questo è ciò che il nostro filosofo stima bene di non dire; ma che il discreto lettore può dire nondimeno a sè, malgrado del suo silenzio. La terza tesi si è che « « la sola causalità secondo le leggi della natura non basta a spiegare i fenomeni, ma vi si esige di più una causalità per libertà » ». L' argomento da lui addotto è efficacissimo a provare questa tesi, il quale consiste in dimostrare che colla sola causalità fisica e non libera si avrebbe un ricorso di cause all' infinito, di cui non si potrebbe aver mai l' ultima, e quindi non si troverebbe mai la spiegazione, ossia la ragione sufficiente de' fenomeni. L' accordiamo completamente. Ma vien l' antitesi negante la libertà; e per istabilirla muove l' argomento da questo principio: « « Ogni cominciamento d' azione suppone uno stato anteriore della causa non ancor operante, onde conchiude che mancherebbe la ragione sufficiente che determinasse la spontaneità della causa ad operare più tosto che a non operare » ». Ma il principio non è applicabile, perchè si può concepire benissimo un' azione che non sia cominciata, e che faccia cominciare l' effetto: sicchè vi abbia il cominciamento nell' effetto e non nell' azione della causa. Così Iddio può e dee aver creato il mondo con un' azione che non ha mai cominciato, con un' azione eterna: e con quest' azione eterna produsse il cominciamento delle cose che sono l' effetto di quella azione. Un secondo errore contiene il ragionamento con cui Kant pretende provare questa sua antitesi, ed è che se vi ha la libertà, questa opererebbe ciecamente , perchè non avrebbe una causa determinante . Qui il filosofo confonde la causa efficiente , colla ragion sufficiente . La libertà non è certamente determinata ad agire dall' azione d' una causa efficiente che la distruggerebbe; ma non opera tuttavia alla cieca , ma sempre col lume di una ragione sufficiente . Ma perchè la ragion sufficiente non opera alla foggia della materia, perciò i sensisti non sanno intendere il modo del suo operare, conciliabilissimo colla libertà. Finalmente noi abbiamo dimostrato ancora, che ogni causa efficiente ha un suo oggetto, e che la libertà ha anch' essa un suo unico oggetto, e quest' oggetto è la scelta tra due volizioni. Onde la libertà è anch' essa una causa efficiente, ma d' indole speciale, perchè ha un oggetto tutto speciale (1). La quarta tesi stabilisce: « « che il mondo si riferisce a un essere assolutamente necessario » ». Ora Kant dice con ragione: « « che ogni condizionato presuppone, rispetto alla sua esistenza, una serie completa di condizioni fino all' incondizionato assoluto, che solo è necessario assolutamente » ». Fin qui siamo, press' a poco, d' accordo. Ma poi soggiunge, che questo assolutamente incondizionato dee essere nel mondo sensibile: e qui comincia il sofisma. Poichè egli muove a ragionare da questo falso principio: « « che il cominciamento d' una successione non può essere determinato se non per via di ciò che precede quanto al tempo » ». Ora questo principio è falso; perocchè il cominciamento d' una successione (nel tempo) può essere anzi determinato da un atto fuori del tempo, e che si fa nell' eternità; come abbiamo detto poco innanzi. Onde non si può trarre in alcun modo la conseguenza che vuol Kant, cioè, che l' assoluto che spiega l' esistenza del mondo appartenga al tempo, e quindi al mondo. L' antitesi poi di questa tesi, secondo il Kant, si è « « che non esiste niun ente assolutamente necessario » ». Questa antitesi viene dedotta dagli errori spacciati precedentemente dal nostro filosofo come verità lampanti. Toglie prima a provare, che l' ente assoluto non può essere nel mondo; perchè in tal caso l' ente assoluto, o sarebbe il primo anello della serie degli avvenimenti successivi, e in tal caso sarebbe senza causa, e non ispiegherebbe il tempo a lui precedente, e la serie degli avvenimenti andrebbe ad un regresso infinito, ed ella non sarebbe necessaria, perchè niuno de' suoi anelli sarebbe necessario. Fin qui il ragionamento corre e vale a distruggere l' errore della tesi, che l' assoluto si contenga nel mondo sensibile. Ma viene poi a provare, che l' ente assoluto non può trovarsi nè pure fuori del mondo: perchè, se la causa del mondo fosse fuori del mondo, per dare a questo il principio essa « « dovrebbe cominciare ad agire, e « la sua causalità così avrebbe luogo nel tempo » ». Quindi questo essere come causa formerebbe parte della serie de' fenomeni successivi del mondo, contro il supposto dalla proposizione. Ma, come abbiamo detto di sopra, si nega al tutto che la causa assoluta comincii ad agire, poichè ella opera con un atto eterno; come si nega al tutto ch' ella, qual causa, abbia luogo nel tempo; perchè il tempo stesso è l' effetto di quella causa; e però ella è affatto immune dal tempo ch' ella produce, producendo il mondo. Tali sono le famose antinomie della Ragion Pura di Kant. Non sono, no, antinomie della ragione; sono proprio antinomie e contraddizioni del sofista che potè sedurre e traviare forse per secoli la Germania. Gli argomenti con cui egli le fortifica non sono nè pure di sua invenzione: sono gli argomenti prodotti e riprodotti dagli empii di tutti i secoli: egli non fece che vestirli d' una misteriosa e solenne oscurità, di un gergo che ebbe un potere magico d' incantare tanti spiriti della sua nazione. Ma io voglio qui notare di più una peculiar lotta che si manifesta nelle varie tendenze di questo sofista speculativamente ATEO, checchè egli si dica, anzi il MAGGIOR ATEO che nel campo della filosofia sia comparso nel secolo XVIII. Egli dunque ha due tendenze: 1 La prima è di sollevar sè stesso sopra la ragione, giudicandola dall' alto del suo tribunale, o più tosto schernendola come una stolta, piena di contraddizioni, e questa tendenza domina in tutta l' opera dal frontispizio « « Critica della Ragione Pura » » fino all' ultima parola. 2 La seconda si è di dimostrare, che l' uomo era chiuso nella sfera della sensitività fisica che sola gli somministra oggetti reali: qui, nel senso fisico, finisce la cognizione umana: di che consegue che negli oggetti de' sensi, nella materia, sia riposto anche il fine dell' uomo. La ragione in fatti, secondo Kant, è una servetta civettella dei sensi: ella non vale se non a farci conoscere viemeglio gli oggetti sensibili, ad unirli, ed a fornirci certe regole utili per dirigere la nostra condotta rispetto a quelli. Ed unicamente per questo fine la ragione ricorre all' idea dell' anima, del mondo e di Dio, siccome a finzioni utili, per concepir meglio gli oggetti dell' esperienza sensibile, e guidarci nel farne uso più utilmente. Kant dichiara assai frequente quest' ultimo fine della sua filosofia speculativa: [...OMISSIS...] . Tali sono le due tendenze della filosofia di Kant, ma Kant, più sagace della sua filosofia, s' accorge che le due tendenze non istanno bene in pace fra loro. Perocchè se la ragione è piena essenzialmente di contraddizioni, se sta del continuo in sul ludificare la mente umana, come potrà essa pur servire all' uomo di guida nell' uso delle cose sensibili? Il filosofo dunque, impegnatosi a mostrare la ragione paralogizzatrice, contraddittoria seco stessa, prestigiatrice rispetto a tutto ciò che eccede la sfera de' sensi corporei, e com' egli dice, l' esperienza; è del pari impegnato a difendere il valore della ragione in tutto ciò che si contiene entro questa sfera del suo uso empirico, ed a sostenere, che gli stessi sofismi della ragione, le stesse illusioni ch' ella ingerisce nell' uomo, sono come a dire pie frodi, cioè hanno un fine utile all' uomo stesso. Allora quando il nostro filosofo è occupato dal pensiero di difendere in questo senso la ragione, egli ragiona così: [...OMISSIS...] . Dunque il paralogismo e le antinomie, che avete prima attribuite alla ragione, non sono proprie della ragione, ma dell' abuso che voi avete fatto di essa: [...OMISSIS...] . E perchè mai? Se l' idea di un essere non ha alcun valore oggettivo, come potete voi dimostrare che la ragione non ci illuda? Vedo bene che voi negate solo che la ragione ci illuda primitivamente , e con questo accordate che ci illude posteriormente. Ma dove fondate voi questa distinzione? Non è ella arbitraria come tutto il resto delle vostre dottrine? [...OMISSIS...] Onde questo ottimo? Forse, anche questa vostra probabilità d' ottimista, potete voi dedurla da altro fonte che da quella ragione stessa, che non ha alcun valore di provare oggettivamente, e tuttavia somministra delle regole suppositorie atte unicamente a compire la sintesi della varietà esperimentale? E in tal caso, che vale questa vostra probabilità? Non è ella una nuova illusione? E con un' illusione volete voi dissipare l' illusione? [...OMISSIS...] . Parole degnissime di tutta la vostra attenzione, o lettori. Deh! con che tuono di severo cipiglio non garrisce qui Kant i sofisti, i quali danno biasimo e mala voce a quella ragione, a cui come ad ammirabile sofisticatrice e lor degnissima madre essi debbono la loro esistenza e la loro coltura! Quale ingratitudine non usano i sofisti colla ragione! E` vero, che la ragione è per sè fonte d' assurdi e di contraddizioni infinite; ma i sofisti, che ne fanno uso, hanno essi il diritto di menar contr' essa tanto schiamazzo? Se ella inganna e delude, ha però un suo secreto fine in far ciò, e dispiega un' azione oltremodo benefica, la quale consiste in conservare appunto al mondo i sofisti, e dar loro quella cultura per la quale conoscendo di essere da essa ingannati, la mordono, senza badare a quel gran secreto ch' ella ha nell' ingannarli, che è di farli esistere!!! Dopo di ciò veniamo all' ultima parte della satira che Kant tanto industriosamente compose della Ragione. La ragione che dialetticizza, come vedemmo, si propone tre scopi: di pervenire all' unità assoluta incondizionata del soggetto pensante , ed ella non ci perviene se non per via di un paralogismo, che le fa credere che esista realmente un' anima pensante; di pervenire all' unità assoluta delle condizioni de' fenomeni mondiali , e a questo non perviene nè manco per via di paralogismi, ma in questa vece cade necessariamente in quattro contraddizioni o antinomie, provando a sè stessa il pro ed il contra della stessa proposizione; di pervenire finalmente all' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero , e rispetto a questo suo terzo e più sublime scopo ella non è più fortunata che rispetto a' precedenti, perchè cade in una illusione trascendentale che le fa credere che esista un essere intelligente suprema causa di tutte le cose. Ma qui entra Kant a soccorrerla, e come egli la liberò dalle illusioni precedenti, così ora la libera dall' illusione di ammettere l' esistenza di un essere supremo. A tal fine Kant, movendo dal suo solito principio che qualsivoglia ragionamento della ragione non può avere alcun valore oggettivo perchè la sola esperienza de' sensi è atta a somministrare de' reali oggetti, e Iddio non cade sotto i sensi, si fa a dichiarare inefficaci l' uno dopo l' altro tutti gli argomenti coi quali si credette fin qui poter provare l' esistenza di Dio. Così Kant s' applaude d' aver tratto d' inganno la ragione! Ma se Iddio non esiste, o la ragione almeno non può provarne l' esistenza, in che maniera soddisferà alla sua esigenza di ridurre ad unità assoluta la serie delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero? Kant crede che a ciò basti il fingere che vi sia Iddio: quest' idea, chiamata da lui Ideale, secondo Kant può servire di regola alla ragione per riuscire a quella unità. Ma se Iddio è quello che dà unità alle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero, e tuttavia non esiste veramente; dunque nè pure quest' unità sarà verace, ma sarà finta e illusoria. A questa difficoltà Kant in sostanza risponde consigliando la ragione a rinunziare a questa sua esigenza di trovare l' unità assoluta delle condizioni degli oggetti del pensare. Perocchè egli dice, che questo bisogno è più tosto un bisogno pratico che speculativo; e che certo, se si vuol soddisfare ad esso, conviene ammettere l' esistenza di Dio. [...OMISSIS...] Per tal modo da prima era la ragione pura quella che esigeva un' unità assoluta di tutte le condizioni degli oggetti del pensiero: ma, posciachè questa esigenza conduce invittamente all' esistenza di Dio, ora si vuole che questa esigenza sia più tosto un cotal impegno o bisogno pratico, quasichè la ragione speculativa ne possa e ne debba far senza. Perchè dunque tante parole sparse innanzi per dimostrare che la ragione pura ha quella esigenza? Per eludere questa esigenza prima confessata e lungamente stabilita della ragione pura, Kant aggiunge, che, quantunque gli enti limitati non mostrino d' aver in sè stessi le condizioni della loro esistenza, tuttavia non si può dire per questo, che essi sieno condizionati. [...OMISSIS...] Il che è quanto dire, che più tosto che ammettere l' esistenza di Dio, si può ammettere il sistema degli atomi d' Epicuro, il concetto de' quali non li mostra a dir vero necessari, ma tuttavia si potrebbero presentare come necessariamente incondizionati!! Ma dove dunque si troverà questa loro necessità, e incondizionalità, se non si trova nella loro idea? Se l' idea di essi non ce la presenta, conviene dunque che sia fuori di essi, e se è fuori di essi, dunque la necessità e la incondizionalità sta nel concetto d' un altro ente, e non nel concetto delle cose finite. Ritorna dunque il bisogno di un Dio per chi non vuole rinunziare alla ragione. In appresso Kant passa a sostenere, che, quantunque l' idea di Dio non provi l' esistenza di alcun essere realmente esistente, tuttavia è un' idea buona per la pratica. [...OMISSIS...] Ma quali sono i principii del suo giudizio? Sono, che l' esistenza di Dio è una illusione trascendentale. Non conosciamo dunque niente di migliore dell' illusione? Convien dunque lasciarsi illudere per soddisfare al dovere di scegliere? Vi può essere un dovere morale che ci obblighi ad abbandonarci all' illusione? E a mentire a noi stessi pigliando come certe le nostre convinzioni imperfette? Che cosa è quest' addizione pratica che possa aggiunger peso agli argomenti che non han peso, se non l' addizione di una menzogna interiore? Quale filosofia può esser quella, che pone la necessità della menzogna interna come base della morale? Chi ha detto a Kant, che la ragione sia un giudice sommamente equo, se è ingannatrice? E che non le rimanga come giustificarsi se commette il peccato di sottrarsi a' propri inganni? Sebbene adunque in niuna parte della sua filosofia Kant possa fuggire le contraddizioni, tuttavia in niuna parte lotta tanto e combatte seco stesso, quanto dove parla della dimostrazione dell' esistenza di Dio. Perocchè prima confessa, che la ragione la esige per trovare l' unità delle condizioni degli oggetti del pensiero; poscia questa esigenza , ora non c' è più, perchè si possano rappresentare come incondizionati gli stessi enti limitati, come Epicuro faceva de' suoi atomi; ora dice, che questa esigenza non è propriamente una prova dell' esistenza di Dio, ma piuttosto un bisogno, un interesse che conduce ad aggiungere qualche cosa alla speculazione; ora finalmente la ammette di nuovo, ma soggiunge che « « la necessità assoluta dei giudizŒ non è la necessità assoluta delle cose »(1) »: il che è quanto dire, che la necessità assoluta de' giudizi non è necessità assoluta, perchè se un giudizio, col quale afferma l' esistenza di un ente, fosse assolutamente necessario, certo dovrebbe essere assolutamente necessaria l' esistenza dell' ente che con quel giudizio viene affermato; perocchè se questa esistenza potesse mancare, il giudizio che lo pone non sarebbe assolutamente necessario perchè sarebbe falso. Lasciando dunque da parte tutte queste appena credibili aberrazioni del sofista, vediamo come egli espone la necessità del suo Dio, che per lui è un' idea vuota di oggetto reale. Noi crediamo di trattenerci ad esporre questo suo ragionamento, perchè egli contiene non già una dimostrazione dell' esistenza di Dio ma bensì una dimostrazione della necessità dell' essere ideale , lume dell' umana mente; onde pigliandola così ella viene a darci una conferma della nostra teoria dell' essere in universale, mostrando la necessità d' ammetterla come ragione sufficiente di tutti i concetti dell' umana mente. Kant espose il problema della ragione così: « « trovare l' unità assoluta delle condizioni di tutti gli oggetti dell' umano pensiero » ». Ma fino da principio egli pregiudicò la soluzione di questo problema collo stabilire gratuitamente che « il solo senso fisico somministra all' uomo oggetti », e tutte le altre facoltà non hanno altra virtù che di lavorare intorno agli oggetti de' sensi, dovendosi considerare come illusioni trascendentali gli oggetti che esse mai presentassero all' uomo. Kant si tolse con ciò di filosofare liberamente, legato alla catena de' suoi sofismi. Egli distinse adunque: 1 Le intuizioni (percezioni) de' sensi; 2 i concetti dell' intelletto; 3 le idee della ragione; 4 l' ideale. Disse dunque: 1 Che i concetti non possono rappresentare un oggetto senza le condizioni della sensitività, mancando loro le condizioni della realità oggettiva e non trovandosi in essi che la semplice forma del pensare (1). 2 Che le idee sono ancora più lontane dalla realità oggettiva; perocchè esse hanno per loro immediato oggetto i concetti, ai quali cercano di dare unità sistematica. 3 Finalmente l' ideale è ancor più lontano dalla verità oggettiva; perocchè per ideale intende un prototipo di perfezione nel quale sono suppositate le idee, consistendo l' ideale d' ogni spezie in un individuo, a cui di tutti gli attributi opposti se ne dà uno, quello che è richiesto a renderlo quanto mai si può concepire più perfetto. [...OMISSIS...] Questo è in sostanza uno degli argomenti da noi usati per provare che tutti i pensieri, tutte le operazioni della mente umana esigono avanti di sè l' intuizione dell' essere universale , perocchè tutti gli altri concetti altro non sono che determinazioni e limitazioni di quest' essere, e l' universale, l' indeterminato, l' illimitato dee precedere agli atti limitanti, determinanti, particolareggianti. Onde Kant qui mostra d' aver approssimata la verità; ma egli determinò male quale fosse l' essere universale che serve di fondamento alle determinazioni delle cose . Egli confonde l' ideale col reale; perocchè: 1 La parola sostrato propriamente appartiene alle sostanze, e non può esser applicato all' essere in universale, che come un certo traslato. 2 Egli parla di determinazione di cose , e non di concetti e di idee; ma egli dovea in ogni caso aggiungere, che si tratta di cose possibili e non reali. Queste cose possibili si distinguono bensì da' concetti astratti , ma finalmente sono anch' esse concetti, perocchè una cosa possibile è un concetto o un' idea. Se Kant avesse parlato con proprietà, non avrebbe avuto dopo da disfare il fatto; perocchè dopo aver parlato qui di cose , toglie in appresso a dimostrare, che queste cose sono oggetti della ragione, che non hanno alcuna realità, e che si prendono come oggetti ideali per un' illusione trascendentale. All' opposto il vero si è, che niun uomo di buon senso prende nè le idee, nè gli ideali, nè le cose possibili per oggetti reali . Ma se la ragione è impotente di somministrare all' uomo oggetti reali per via d' idee e di concetti; ella può però somministrargliene per via di argomentazioni , cioè di giudizŒ incatenati fra loro; la qual maniera di conoscere non appartiene alle idee, a cui solo Kant pone mente. Questo filosofo dunque sbaglia: 1 nel credere che gli uomini diano alle idee ed a' concetti la virtù di porgere oggetti reali , mentre tutto il mondo non dà loro altra virtù ed officio che di porgere oggetti verissimi sì, ma ideali e possibili; 2 nell' affaticarsi a distruggere questo errore comune che non esiste se non nella mente di Kant; 3 nel voler indurre dal valor meramente ideale delle idee e de' concetti, che anche i giudizŒ ed i raziocinŒ sieno limitati ad avere un valore meramente ideale, senza che possano provare l' esistenza d' oggetti reali; 4 e poichè il ragionamento, quando prova l' esistenza di un ente reale che non cade sotto i sensi, vale bensì a provarci la detta esistenza, ma non a farci conoscere la positiva essenza di quest' oggetto; erra Kant di nuovo nel pretendere di dedurre l' impotenza di provarci l' esistenza di un ente, dall' impotenza di farcene conoscere l' essenza (1). 3 Egli dice che il fondamento delle determinazioni dee contenere in qualche modo la provigione della materia , onde possono esser presi tutti i predicati delle cose; ma qui l' uso della parola materia è di nuovo improprio e capzioso, perchè la materia in senso proprio spetta alla realità: all' incontro i predicati appartengono all' ordine delle idee, e però alla forma, trattandosi di cose possibili. Riconosce adunque Kant la necessità di un' idea, fondamento di tutti i concetti determinati; e noi pigliamo in tanto a conto questa concessione. Egli riconosce altresì che quest' idea , cui nomina anche essere primitivo, è semplice. [...OMISSIS...] Or l' aver conosciuto, che il fondamento di ogni determinazione ideale dee essere un' idea primitiva e semplice, avrebbe dovuto guardare Kant dall' errore di esigere per fondamento di detta determinazione anzi un ideale che un' idea . Perocchè l' ideale è un ente particolare perfetto (2); e i predicati di un ente particolare perfetto, benchè concepito come possibile, sono suoi proprii, esclusivamente suoi; onde non si possono prendere da lui senza privarli dell' adesione che hanno con lui, e così renderli prima idee , cioè generali. Onde egli è una manifesta incongruenza riconoscere la necessità di un fondamento delle determinazioni tutte, e voler poi che questo fondamento sia un ideale, cioè un particolare. Perocchè, se questo ente particolare è l' ideale del sapiente, e se voglio determinare un altro essere col predicato della sapienza; io debbo prendere la sapienza in genere, e non mica la sapienza di quell' ideale del sapiente, la quale è unita a lui per modo, che, se da lui la stacco colla mente, non è più sua, ma è la sapienza in generale. Della quale difficoltà lo stesso Kant ebbe sentore; e fu costretto a confessare che la determinazione non potea considerarsi come una CIRCOSCRIZIONE di quell' ideale; ma quindi cadde nell' assurdo che è via al panteismo, cioè che ella fosse uno sviluppo di quest' ideale stesso, quasichè un ideale, se è ideale e però perfetto, si possa concepire come bisognoso o suscettibile di qualche sviluppo (1). Il che però non vedo come s' accordi con quello che egli aveva detto poco innanzi, [...OMISSIS...] . Lasciando però da parte questa contraddizione, Kant aveva riconosciuto che « « il concetto universale d' una realità in generale non può esser diviso a priori , perchè senza l' esperienza non si conoscono specie determinate di realità comprese sotto quel genere » ». La quale riflessione l' avrebbe condotto dirittamente al vero, se l' avesse scorto a conchiudere, che dunque le determinazioni speciali (almeno le determinazioni positive) non poteano esser date dall' idea che serve loro di fondamento, ma dalla sensitività stessa. Con questo sarebbe venuto a conoscere, che il fondamento di tutte le determinazioni non dovea essere un ideale, ma bensì un' idea, e propriamente l' idea dell' essere indeterminato suscettibile per ciò appunto di determinazioni e di limiti. Ma l' impegno del nostro sofista era preso; egli volea convertire forzatamente quest' idea in Dio, per aver poscia il piacere di disfare questo Dio; il che gli dovea esser facile, perocchè è facile a disfare il mal fatto. Concludiamo: la partizione dell' ente tentata da Kant è dialettica come quella di Aristotile, e non ontologica: ella è di più soggettiva, e fatta d' un lavorìo tutt' a filagrana di sofismi. I fonti logici di un sistema così profondamente erroneo furono due: 1 Il sensismo , cioè il pregiudizio che i soli sensi dessero all' uomo degli oggetti reali: onde venne a Kant l' assunto di dover spiegare tutte le operazioni dell' intelligenza umana in modo che ella non dovesse mai dare all' uomo alcun oggetto, e posciachè ella pur ne dà, di spiegar questo fatto come una illusione. Allo svolgimento di tale assunto si riduce tutto l' idealismo trascendentale. 2 L' astrattismo , cioè il falso metodo di racchiudere la filosofia in pure astrazioni, presupponendo che il problema di essa consista nell' isolare da tutto il rimanente l' elemento razionale puro; il che diviene errore e fonte d' errori, tostochè, invece di considerare l' elemento razionale puro come parte di un tutto da cui è indivisibile, si considera come un tutto egli stesso, atto a dare argomento ad una scienza completa, come pare a Kant «( Psicol. , 1 7 5) » (1). Per soddisfare alle esigenze del principio della ragion sufficiente , i filosofi tedeschi lavorarono i loro sistemi da Kant fino a Hegel. Kant imbevuto del sensismo del suo tempo aveva accordato, senza credere necessario di addurne alcuna prova, che la sensitività fisica somministrava all' uomo oggetti reali, ed era essa la sola facoltà che avesse un tal privilegio. Tuttavia distinse la materia dell' oggetto sensibile dalla forma . Questa ei pretese che venisse dallo spirito, il qual vestiva la materia data dalla sensitività, delle due forme dello spazio e del tempo. Ma in quanto alla materia egli la lasciava come un fatto (empirico). Quindi nel sistema Kantiano rimaneva una dualità; perchè la materia sensibile (vera od apparente) non si poteva ridurre allo spirito come a suoncava la ragione sufficiente di questa dualità: e quindi si argomentò di ridurre ogni cosa ad un principio solo, che contenesse la ragione sufficiente di tutto. Questo filosofo tuttavia non osservò (ed è comune questa inavvertenza a tutti i filosofi della Germania) che, quand' anco venisse fatto di ridurre la pluralità all' unità, non è per questo solo soddisfatto all' esigenza del principio della ragion sufficiente, se non si perviene a tale unità, il concetto della quale contenga in sè la ragione di sè stesso. Così appunto quando Kant uscì a dire, che, quantunque la serie degli eventi mondiali non dimostrino in sè stessi la ragione di sè, o, secondo la sua maniera di parlare, non contengano la condizione della propria esistenza, tuttavia non si può per questo dire che essi non sieno incondizionati, perocchè si potrebbero concepire come assolutamente necessari; mostrò assai chiaro di non capire che cosa significhi ragion sufficiente: perocchè, se l' avesse inteso, avrebbe in pari tempo conosciuto, che ciò che non dimostra nel suo concetto la ragione e la condizione della propria esistenza, o del modo di essa, non l' ha. Perocchè avere in sè la ragion sufficiente, significa essere questa contenuta nel concetto della cosa; giacchè se è fuori del concetto delle cose, è fuori della cosa. Quando dunque un ente non ha la ragione sufficiente di sè nel proprio concetto, e conviene però cercarla altrove; il filosofo non può mica appiccicargliela, come dipendesse da lui il dargliela o il togliergliela: nè può neppure asserire la possibilità che esso l' abbia, contro il fatto che attesta non averla. Or tutto lo studio di Fichte si riduce a trovare un ente, a cui si riducano tutti gli enti; e trovato quest' ente dichiararlo arbitrariamente assoluto, quantunque il suo concetto non sia che quello di un ente condizionato , privo della ragion di sè stesso. Al che s' aggiunga un' altra riflessione preliminare. Tutto l' intento de' sistemi tedeschi, come dicemmo, è quello di trovare una ragion sufficiente della pluralità dell' ente. Ora questo intento suppone, che la stella polare, a cui affidano il corso de' loro ragionamenti, è il principio della ragion sufficiente . Ottimamente. Ma questo è un supporre la validità ed efficacia di questo principio; perocchè a tale validità ed efficacia è condizionato il valore di tutti i loro ragionari. Peccano adunque tutte queste filosofie di petizione di principio; perchè suppongono valido a conchiudere il vero un principio della ragione, mentre essi si propongono or di far la critica della ragione stessa, o di svolgere come nascono i principii della ragione, e come collo svolgimento del pensiero la pluralità stessa degli enti si va producendo. Il che dimostra, che evitare il circolo in filosofia non si può ricominciando di botto dall' ontologia , e che convien muovere anzi dall' ideologia , onde provvedersi di que' principii di ragionare che sono poscia gli stromenti co' quali la stessa ontologia si può edificare (1). Intanto, affine di portare un giusto giudizio de' sistemi tedeschi e de' sistemi ontologici in generale, è da fermare questo principio, che « il loro intento si è quello di dare una ragione sufficiente di tutte le maniere di esistenze »(2). Perocchè, conosciuto questo, noi possiamo esigere, che tali filosofi niente avanzino che sia privo di ragione sufficiente; giacchè, se lo facessero, mancherebbero al loro intento, e sarebbero in contraddizione seco stessi. Fichte adunque per trovare la ragione sufficiente della dualità che restava nel sistema di Kant, pretese che tutto quanto cade nel pensiero, e perciò l' uomo, il mondo, e Dio stesso, conveniva ridursi al solo IO. Egli moveva da questo principio: « tutto si deve rinvenire nella coscienza empirica », e biasimava Spinoza unicamente perchè fosse uscito da questo limite, dove l' uomo è racchiuso. [...OMISSIS...] Il principio, che non si deve uscire dalla coscienza empirica, è certamente specioso. Ma in prima quella parola empirica , che vi aggiunsero i tedeschi, è superflua e dannosa; superflua, perocchè empirica vale sperimentale, e la coscienza è sperimentale di sua natura, giacchè ognuno esperimenta ciò di cui è conscio; dannosa, perchè presuppone l' errore che v' abbia una coscienza non sperimentale, quasichè avere coscienza non fosse una vera sperienza. E quest' errore, insieme col vocabolo male appropriato, schizza appunto nelle filosofie tedesche, le quali tutte per poco presuppongono una coscienza diversa dalla sperimentale, che chiamano ora razionale, ora trascendentale, e che non è coscienza, ma piuttosto un cotal essere finto dall' immaginazione. Ora del principio, che non si deve uscire dalla coscienza, abusano gli idealisti; e della distinzione di due coscienze, l' una sperimentale, l' altra trascendentale, abusano quelli che volendo essere idealisti, pure intendono che al di là de' sensi e delle idee l' uomo ammette qualche cosa, e lo vogliono spiegare senza cessare di essere idealisti, tra' quali ultimi è Fichte. Vediamo adunque in che senso possa esser vero il principio, che non si deve uscire dalla coscienza, e quale ne sia l' abuso che ne fanno gl' idealisti trascendentali. Quest' abuso nasce dall' aggiungere a quel principio altri principii arbitrari, per esempio che un ente non possa inesistere in un altro, rimanendo distinto da quello in cui si trova. Questo principio è supposto gratuitamente da tali filosofi, quando, se avessero voluto consultare puramente la coscienza, questa stessa avrebbe loro data la prova della sua erroneità. La coscienza infatti suppone una dualità, il soggetto e l' oggetto, e suppone che l' oggetto sia nel soggetto, non in senso materiale, quasi come le frutta sono in un paniere, ma nel senso intellettivo, che altro non significa che l' oggetto è presente al soggetto e da lui conosciuto. Questo viene accordato anche da Fichte; ma egli coglie da questo appunto cagione d' uscire dalla coscienza, dicendo che questa dualità non si può spiegare, se non supponendo, che innanzi al soggetto ed all' oggetto v' abbia un punto d' indifferenza, dove si trovi la cagione del soggetto e dell' oggetto medesimo, nel quale punto d' indifferenza egli colloca la sua coscienza pura in contraddizione della coscienza empirica. Ma questa coscienza pura non è coscienza, se teniamo fermo quello che lo stesso Fichte ci ha accordato, cioè che la coscienza esiga un soggetto ed un oggetto. E in vero qual coscienza vi può essere, dove manca il principio che sia consapevole, e manca ciò di cui tal principio possa essere consapevole? La coscienza pura adunque supposta da Fichte come un antecedente alla coscienza empirica, non essendo per niun modo coscienza, sarà tutt' altro, se ella esiste; e questo è quanto dire, che il filosofo è uscito dalla sfera della coscienza, in cui si proponeva di rimanere. Nè basta a trattenerlo il puro nome di coscienza attribuito a quel supposto punto d' indifferenza, quando tal nome non gli conviene. La coscienza adunque suppone un soggetto ed un oggetto, ma non in ogni coscienza cade il soggetto, il quale non ha coscienza di sè che per riflessione, come lo stesso Fichte ci accorda, e però ha bisogno di essere oggettivato acciocchè egli diventi oggetto di coscienza. Nella coscienza adunque, propriamente parlando, non cadono che gli oggetti. Ma la coscienza stessa ci dice che un oggetto non è l' altro, nè si può coll' altro confondere od immedesimare. Ora gli oggetti che cadono nella coscienza sono innumerevoli, e tra questi vi è anche il soggetto che allor si rende consapevole di sè stesso, e ben presto si pronuncia col monosillabo IO. Or come la coscienza ci dà la distinzione di tutti i suoi oggetti, così ci dà la distinzione dell' IO da tutti gli altri innumerevoli oggetti che alla coscienza appartengono. La coscienza dell' IO ci dice bensì, che quest' io è il principio consapevole, ma ci dice in pari tempo, ch' egli, principio consapevole, è un solo di tutti gli innumerevoli oggetti della coscienza, ci dice che l' IO ha una relazione con tutti gli oggetti, ma che non ha la loro natura, che anzi la natura degli altri oggetti è essenzialmente e incomunicabilmente distinta dalla natura dell' IO. Così, quando io affermo me stesso da una parte, e dall' altra affermo un cavallo, una stella, o Dio stesso, è la coscienza, che ho di tutte queste cose, che mi fa conoscere la loro differenza, e m' attesta, che l' essenza del cavallo, o dell' astro, o di Dio, è un' essenza diversa di quella del me, affermante tali cose, e che perciò, se voglio ascoltare la coscienza, debbo prendere tutte queste cose per enti diversi. Vero è, che sono sempre io quell' istesso, che le conosco tutte, il che non vuol dir altro, se non che io ho con tutte la relazione di conoscenza. Ma quella coscienza che mi dice ciò, mi dice del pari che questa relazione non consiste in una identità di natura, ma bensì mi dice che quella relazione non potrebbe essere senza che la natura e gli enti fossero diversi. Onde, sebbene sia vero che per ispiegare la coscienza debbo supporre che un solo sia il principio consapevole, e questa unità di principio mi è attestata dalla coscienza; tuttavia tanto è lungi che sia necessario, per ispiegare la coscienza come vuol Fichte, di condurre tutti i diversi enti ad un solo ente, cioè all' IO, che anzi in nessuna maniera la coscienza umana potrebbe essere spiegata, se non si suppone diversità di enti, cioè se non si suppone, che quelli enti, che sono distinti dalla coscienza, siano distinti realmente. Fichte adunque cozza direttamente contro il principio di tutta la sua filosofia, che, come dicevamo, è quello della ragion sufficiente; perocchè, mentre egli crede di trovare la ragion sufficiente della coscienza nel ridurre tutti gli enti che cadono in essa ad un solo, il vero si è che con una tale riduzione, d' altra parte immaginaria e ipotetica, si distrugge bensì la coscienza, ma non la si spiega, essendo condizione indispensabile della coscienza la pluralità dei suoi oggetti, e l' unità solo di quell' oggetto che è anche soggetto. Fichte è infedele al suo principio di non dovere uscire dalla coscienza anche in un altro modo, cioè distinguendo, oltre la coscienza empirica, una coscienza razionale, la quale egli pretende di ritrovare nella coscienza empirica. Ma come ve la trova? Unicamente per questo argomento ch' ella è necessaria per ispiegare la coscienza empirica . E` dunque una argomentazione che adopera Fichte, colla quale argomentazione parte dalla coscienza empirica in virtù del principio della ragione sufficiente, e viene a questa pretesa coscienza razionale . Ma qual è questa nuova coscienza? questa cotale superfetazione della coscienza empirica? E` quel punto d' indifferenza di cui abbiamo parlato dove non v' ha nè oggetto nè soggetto. Ma senza oggetto e senza soggetto vi ha egli coscienza? No certamente; non resta dunque che una chimera; ovvero un' entità a cui non si può applicare il nome di coscienza, perocchè non vi si trova nè chi sia consapevole, nè ciò di cui possa esser consapevole. Con eguale improprietà egli dà il nome di IO a quella inconsapevole coscienza, cioè non coscienza, ch' egli suppone esistere anteriormente alla vera coscienza che è coscienza empirica; dico la coscienza empirica, cioè sperimentale, in tutta l' ampiezza della parola, non limitata alla sola esperienza degli organi sensorii. Onde pone due IO: l' IO assoluto, e l' IO empirico posto dall' Io assoluto. Ma se vi ha un principio che pone l' Io empirico, questo principio non può essere una coscienza, nè cadere nella coscienza; e però non sarà mai, e poi mai un Io; giacchè l' Io è per sua propria essenza una consapevolezza. Qualora adunque noi vorremo riconoscere per buoni gli argomenti di Fichte, questi ci condurranno alla necessità di riconoscere che l' Io, ossia la consapevolezza d' un principio d' azione intellettiva che pronunzia sè stesso, non può spiegarsi se non si ammette qualche cosa che sia anteriore all' Io, ed alla coscienza, e fin qui l' argomento corre. Lo stesso Fichte dice, che prima che noi venissimo al pensiero della riflessione, si erano succedute nel nostro spirito diverse operazioni spirituali, ma noi non ne fummo consapevoli. Solo ritornando lo spirito in sè, egli PONE SE` STESSO come un essere riflettente e pensante, ed allor solo ci rendiamo conscii di noi medesimi. [...OMISSIS...] Ottimamente: ma ciò che si trova d' antecedente alla riflessione non è mica per questo un' altra coscienza, non è un altro Io; ma è semplicemente uno spirito inconsapevole di sè stesso, e che non pronuncia punto sè stesso; perocchè altro è lo spirito intelligente, il quale è dato dalla natura, altro è l' Io , il quale è quello spirito già sviluppato e però artificiato «( Psicol. 67 7 .1) ». Ma da che fu mosso Fichte a dare il nome di Io a ciò che si trova nell' uomo di antecedente alla coscienza, e però di antecedente all' Io, onde cadde nell' assurdo d' ammettere due Io nello stesso soggetto? (1). Da quel principio male applicato che « tutto si deve rinvenire nella coscienza ». Ora la coscienza stessa lo conduceva fuori di sè, dimostrando d' essere fattizia, e d' aver bisogno d' una causa e di un' azione che la ponesse in essere. La verità del principio della ragione sufficiente risplendeva, e l' uomo poteva rendersi anche consapevole di questo splendore, e questo principio movente di tutta la filosofia conduceva a qualche cosa di anteriore alla coscienza. Ma poichè si era messo il chiodo di non doversi uscire da questa; però se ne usciva, e poi per non confessare d' esser uscito si copriva l' incongruenza con parole appiccicate, dando il nome d' Io e di coscienza a ciò che non era nè Io, nè coscienza. Quel principio adunque non è vero, se non inteso così « di dover muovere il ragionamento nostro dalla coscienza », ma non così « di dover fermarsi entro i cancelli della coscienza ». Questa seconda è la parte falsa, la giunta arbitraria de' sensisti e degli idealisti. Ma ond' avviene ciò, che la coscienza stessa conduca l' uomo fuori di sè, e il conduca a conoscere cose che non cadono in essa? Da questo che la coscienza è essenzialmente intellettiva, sorgendo in noi mediante una riflessione del pensiero sopra il soggetto pensante. Ora la natura dell' intelletto è tale, come abbiamo veduto, che mette l' essere intelligente in comunicazione (intellettuale) con cose diverse da sè. Nell' intelligenza vi è l' identità e il diverso, dato in natura; cioè vi è il principio intelligente, il quale è sempre identico a sè stesso in tutte le sue operazioni, e vi è il termine, ossia l' oggetto inteso, il quale è contrapposto al soggetto intelligente; e quest' oggetto inteso può essere qualsivoglia cose al tutto diverse dall' ente intelligente. Così nella natura intima dell' intellezione convien cercare il punto di comunicazione fra l' intelligente e gli enti da lui intesi; i quali hanno un loro modo d' INESISTERE NELL' INTELLIGENTE senza punto confondersi con lui, anzi da lui distinguendosi. Tale è il fatto , contro al quale non vale argomento alcuno, e molto meno l' argomento dell' analogia co' corpi e colla materia. Perocchè la immensa ripugnanza che hanno tutte le specie de' sensisti ad ammettere semplicemente un tal fatto, non procede da altro che da un argomentar che fanno per analogia a quel che vedono avvenir ne' corpi. Il quale argomento si riduce a questo: « un corpo non può inesistere nell' altro, dunque nessun ente può inesistere nell' altro »: dove la conseguenza è troppo più ampia delle premesse, e però vi ha il difetto logico della falsa induzione. Di più l' intelligenza non ha solamente ad oggetti suoi gli enti particolari, ma prima di tutto l' essere in universale , il quale colla sua universalità collega in varŒ modi gli enti tutti fra loro, onde nascono i principŒ del ragionamento , fra' quali uno è quello della ragion sufficiente , che produce nell' uomo il bisogno di filosofare. Or l' uso di questi principŒ, che suppongono il nesso degli enti dato allo spirito umano per natura nel primo suo oggetto, ci conduce da un ente all' altro, e talor anco dall' ente cognito all' incognito. Seguendo dunque il ragionamento là dove egli muove i passi, lo spirito nostro esce dalla coscienza, cioè a dire, non prende la sola coscienza per oggetto del suo pensare, ma altri ed altri oggetti. Fichte fa questo ragionamento: [...OMISSIS...] . Io non so se si possa dare un ragionamento più contraddittorio di questo. Si comincia dal dire che l' Io è una coscienza, e si finisce col provare che deve esistere un Io che non può venire a coscienza! Il ragionamento anzi prova che non v' ha un Io solo, come v' ha una sola coscienza; ma che anteriormente a questa coscienza, e prima che l' uomo pronunci questa parola Io, vi è l' uomo senza coscienza, e che non è propriamente Io in senso diviso, come dicono i logici, ma solo in senso composto (1). La proposizione: « Io so di me solo in quanto io sono, e io sono in quanto io so di me », contiene appunto il sofisma che i logici dicono compositionis et divisionis; perocchè nella proposizione « Io sono in quanto so di me », la parola Io può avere due significati: può significare semplicemente l' uomo (dove l' Io è preso in senso composto), e viene a dire, « quell' uomo che poi pronuncia Io », nel qual senso si chiama un Io l' uomo, non perchè col solo esser l' uomo sia un Io, ma perchè all' essere di quest' uomo s' aggiunse poscia l' Io; e può significare l' uomo avente la coscienza, e pronunciante l' Io (dove l' Io è preso in senso diviso), venendo propriamente a significare non l' uomo, ma la sua coscienza, l' uomo in quant' è consapevole. E` dunque vero che « Io, come coscienza di me, come uomo conscio, sono in quanto so di me »; ma non è mica vero che « Io, come uomo semplicemente, sono in quanto so di me », perchè anzi sono anche senza saper di me, ed ero prima che acquistassi alcuna coscienza, e dicessi Io. Quella proposizione adunque non prova, che l' uomo ponga sè stesso; prova solo, che l' uomo pone l' Io, cioè la coscienza di sè, quando dice me (2). L' Io adunque precisamente non è l' uomo, ma è un accidente dell' uomo, senza il quale sta l' uomo; è una produzione della riflessione, una cognizione acquisita; e non più. Fichte all' incontro confuse questa produzione accidentale colla sostanza dell' uomo, e suppose che l' uomo non fosse prima che ponesse sè stesso; quindi, in luogo di cavarne che l' uomo produce ne' suoi atti la cognizione di sè, ne cavò l' assurdo che produce sè stesso, che è la sua propria causa. La conclusione adunque di Fichte: « « Il mio Io è dunque solo in quanto egli si pone ed in quanto egli è attivo: l' azione è il carattere fondamentale dell' Io » », non hanno valore, se non tradotte in quest' altre: La coscienza di me stesso comincia in me con un atto mio proprio di riflessione, e però l' azione è il suo carattere fondamentale, perchè la riflessione è un' azione. Del resto avrebbe potuto dire di più, che il carattere di ogni ente è un' azione , presa questa parola in senso generalissimo, perchè l' essere stesso è un atto; e quest' atto in qualche modo pone l' essere, potendosi coll' astrazione distinguere in quest' atto il principio ed il termine, col quale la forma è già posta, fatta sussistere. Tale risultato dà l' analisi di ogni ente, e però non è maraviglia che ciò si avveri anche della coscienza, anche dell' uomo anteriore alla coscienza. Ma egli sarebbe pure un grande abuso d' astrazione il prendere il mero principio dell' atto per l' atto stesso, o per un atto compito e che possa stare da sè: valendo qui assai bene l' adagio scolastico, che « in actu actus nondum est actus ». V' ha poi una somma inesattezza di favellare, cagione ed effetto di gravissimi errori, in quelle parole che « « non v' ha coscienza se non si divide in soggetto ed oggetto, in ispirito e natura » ». Primieramente può cadere nella coscienza il solo oggetto, e non il soggetto; cioè io posso esser consapevole di qualche oggetto reale o possibile diverso da me, senz' avere alcuna attuale consapevolezza di me stesso, senza riflettere su di me nè punto nè poco. In secondo luogo, l' oggetto, di cui sono consapevole, potrebbe essere uno spirito, potrei essere io stesso; e in tal caso la natura sensibile (in quant' è contrapposta allo spirito) non cadrebbe punto nella coscienza. Onde la natura, il mondo, non è necessaria a spiegare la esistenza di una coscienza e di un Io. Questa considerazione è importantissima. Perocchè Fichte argomenta appunto così: [...OMISSIS...] . Ora, lasciando ciò che diremo appresso, noi neghiamo che la natura, il mondo, sia condizione senza la quale l' Io non possa avere coscienza; purchè gli sieno dati altri oggetti, poniamo oggetti spirituali, od oggetti anche meramente possibili. Onde il principio della ragion sufficiente non richiede assolutamente l' esistenza del mondo a far che l' Io acquisti coscienza, potendo egli a ciò venire per altre vie. In terzo luogo è del tutto falso, che la coscienza si divida in soggetto ed oggetto. Anzi la coscienza stessa ci attesta, che tanto il soggetto quanto l' oggetto non sono la coscienza, e molto meno due parti in cui ella si divide. In quanto al soggetto la coscienza ci dice, ch' egli è quello che è consapevole, ma non è la stessa coscienza, l' atto della consapevolezza. Il soggetto è il principio di quest' atto riflesso che consapevolezza si chiama, come è il principio di molti altri atti diversi da quello della coscienza. Fra gli atti del soggetto, ed il soggetto stesso, vi ha dunque una distinzione reale: gli atti del soggetto sono accidenti senza i quali il soggetto può essere. Tale è la coscienza; il soggetto può esser senza di essa; ma non può il soggetto essere senza sè stesso: egli è atto primo, di cui gli atti secondi sono derivazioni. Molto meno l' oggetto può essere la coscienza o parte di lei. Anzi è la coscienza stessa che ci attesta, che altro è lei stessa, altro i suoi oggetti; altro l' atto con cui ci rendiamo consapevoli, altro ciò di cui ci rendiamo consapevoli. La coscienza è un nostro atto o abito; ma l' oggetto, di cui ci rendiamo consapevoli, non è mica sempre un nostro atto, o un nostro abito. Se io sono consapevole di pensare una montagna, sono consapevole in pari tempo che la montagna pensata non è mica l' atto del mio pensiero, o la riflessione sullo stesso (la coscienza). Ma, che cosa fanno i sensisti? Dopo aver appellato alla coscienza, rinnegano tutte queste deposizioni della coscienza, e vi dicono che non possono essere vere , ve lo dicono sulla fede della loro parola, ve lo dicono a priori; anzi vi accertano che sono tutte illusioni, e che non esiste altro che la coscienza, e che il soggetto e l' oggetto sono parti di lei: a malgrado che di ciò non siamo consapevoli; anzi a malgrado che siamo consapevoli del contrario: quasi che, se fossero veramente parti della coscienza, la coscienza stessa nol dovesse sapere ed attestare. Dobbiamo dunque concludere esser falso il principio, « che l' azione di porre sè stesso supponga un Io puro ed assoluto »; quest' azione altro non suppone, che uno spirito che afferma sè stesso, ed affermandosi si conosce. Onde, in quant' è conoscente in atto di sè, egli si pone, ma questo è un suo essere accidentale; e però non pone la propria sostanza: ma nella propria sostanza pone un accidente coll' atto del conoscere. Quando poi si è posto e denominato Io , allora questo spirito, che acquistò tale modificazione accidentale e la denominazione d' Io, con un' altra riflessione sopra l' Io , pone di nuovo l' Io; ma il ponente non è un altro spirito, un' altra sostanza; ma lo stesso spirito di prima, identico. Onde, come le riflessioni sono innumerevoli, così le affermazioni di sè; e ogni volta che afferma sè l' uomo afferma un sè identico nella sostanza; ma modificato nella cognizione, perchè l' affermato è uno spirito che acquistò nuova cognizione mediante una nuova riflessione. E` dunque falso che l' Io ponga sè stesso, essendo vero solamente, che lo spirito pone l' Io presso quest' Io come significativo di quella coscienza, che non è l' essere dello spirito, come vuol Fichte, ma è puramente un suo accidente, la cognizione di sè, la quale può essere e non essere senza che lo spirito cessi di essere, benchè questo spirito la formi quando, conoscendo sè stesso, dice Io. E` falso parimente, che si abbiano due Io nello stesso uomo, l' uno ponente e puro, l' altro posto ed empirico. Ed essendo queste due falsità manifeste, qui potremmo chiudere il discorso sul sistema di Amadeo Fichte. Ma giova seguirlo nei suoi traviamenti. [...OMISSIS...] E certo, se qualche cosa potesse essere causa di sè, egli avrebbe in qualche modo in sè la propria ragione sufficiente: ma essendo una proposizione contraddittoria che chi ancora non è si dia l' esistenza, perciò cade tutto quel ragionamento. Que' filosofi nondimeno, che non hanno timore d' involgersi in perpetue contraddizioni, lungi dal trovar strano che un ente che ancor non è dia a sè stesso l' esistenza, o, come essi dicono, si ponga, vanno avanti, anzi più innanzi, e ne deducono che il nulla è cagione del tutto , creando così quel sistema che fu detto del nullismo. Costoro 1 partono sempre dal principio, che l' essere umano consista nell' atto o stato della propria coscienza; indi deducono che l' uomo prima della coscienza, essendo privo di essere, è NULLA. 2 Ma la coscienza è un atto dell' uomo stesso riflettente sul proprio essere dunque il NULLA, cioè quell' uomo che era nulla, ha dato l' essere a sè stesso, e diventò il creatore di sè medesimo. Essi negano adunque di riconoscere alcun essere avanti la coscienza, avanti alla quale pongono solo il nulla: confondendo essi il conoscere coll' essere dell' uomo; per uno strano abuso di astrazione, mediante la quale isolano il pensiero riflesso dall' uomo; e prendono quel pensiero così isolato come fosse tutto l' uomo in corpo ed anima. Il sistema del nullismo hegeliano è natìo dal sistema di Fichte come una naturalissima deduzione, ma egli è pur singolare a vedere la sorte dell' errore. Fichte insegna, che v' ha un Io assoluto che pone l' Io empirico , dove si trovano tutte le cose, il Mondo stesso; così fa dell' Io un essere infinito, Creatore, Dio. Ebbene viene Hegel: e accettando tutto il ragionamento di Fichte, ne conclude, che questo Io assoluto ed infinito è il NULLA; perocchè, se deve porre ogni cosa, anche sè stesso, dunque nell' atto di porsi, nulla è ancor posto, nè pure l' Io che pone; perocchè, se fosse posto, non avrebbe bisogno di porsi. Dunque il Dio di Fichte s' è cangiato d' un tratto logicamente nel NULLA di Hegel. Tanto è vero che le conseguenze di un errore conducono agli errori opposti, e le conseguenze di un assurdo conducono agli assurdi. La grandezza di questa filosofia sta appunto nella mostruosa grandezza degli assurdi, e quel certo attraente che esercitano sugli spiriti dipende dalla « Logica » che incatena l' uno coll' altro gli assurdi più contrari. Perocchè nei loro autori si scorge un gran potere di logica in rendere fecondi tali assurdi, che non si possono ammettere in modo alcuno senza aver prima rinunciato ad ogni logica. Del resto, se si considera che, non solo rispetto allo spirito umano, ma altresì rispetto ad ogni ente contingente, si concepisce la sua sussistenza come un atto avente un principio ed un termine, se si astrae il principio dal termine, questo principio astratto non esiste veramente, appunto perchè è un astratto. Indi prendono appicco i nullisti a dire che è nulla , e che dal nulla venne l' ente; perchè l' ente fu posto veramente in virtù del principio del suo atto. Questo astratto principio risponde in qualche modo alla materia prima degli antichi, che è nulla in atto e tutto in potenza. Ma tutta questa macchina cade a terra dal solo osservare, che il principio dell' atto costituente un essere non esiste punto separato dal suo termine; ma con esso e insieme con esso non è nulla. E` dunque abuso d' astrazione, che diede corpo a tali larve filosofiche. D' altra parte se si vuol riconoscere la ragione sufficiente dell' esistenza del termine nel principio dell' atto della sussistenza; non è già che si possa riconoscere in questo principio la ragione sufficiente di tutto l' ente; perocchè lo stesso principio dell' atto ha bisogno d' un' altra ragione che ne spieghi la sussistenza; perocchè il suo concetto non la contiene; potendo essere e non essere. Applichiamo quest' osservazione all' Io di Fichte che pone sè stesso. Quest' Io altro non è che il principio dell' atto di cui l' Io posto è il termine. Così lo descrive lo stesso Fichte, quando dice, che l' Io puro è superiore all' Io empirico, dove cade la differenza del soggetto e dell' oggetto, perocchè è l' origine di questo, e però lo chiama punto d' indifferenza . [...OMISSIS...] Ebbene, se quest' io è il principio dell' atto, pel quale sussiste l' Io termine di quest' atto; dunque egli si potrà bensì considerare come la ragione sufficiente del suo termine, ma non di tutto quell' ente che si chiama Io, e che come ogni altro si compone di principio e di termine. Rimane adunque a cercare ancora una ragione sufficiente di quel principio dell' atto che fa sussistere l' Io, perocchè quel principio non ha già in sè questa ragione sufficiente; giacchè, se l' avesse in sè, sarebbe racchiusa nel suo concetto. Ma il concetto del principio di quest' atto ci dimostra anzi, che si può egualmente pensare che esista o non esista; e però conviene cercare altrove la ragione sufficiente che spieghi perchè esista più tosto del suo contrario. Il che è quanto dire che il principio della ragione sufficiente dell' esistenza dell' umana coscienza non si può acquetare nell' Io puro ed astratto di Fichte; ma esige un' altra ragione fuori al tutto dell' Io umano, e veramente assoluta, la qual ragione è IDDIO. Ma egli è uopo che noi esaminiamo qui con qualche accuratezza gli argomenti da' quali Fichte fu indotto a credere, che affermare sia un porre, un creare. Questa sentenza già veniva qual conseguenza direttissima del pregiudizio degli idealisti, che niente possa essere fuori della mente dell' uomo. Ma Fichte adduce altre prove, e queste noi dobbiamo porre a disamina. I Argomento di Fichte . - [...OMISSIS...] . Giudizio sul detto argomento . - Esso è difettoso pe' seguenti capi: 1 L' Io non può porsi prima d' esistere: dunque non v' è un Io che ponga sè stesso; 2 la coscienza di sè può aversi senza bisogno che esista il mondo materiale; 3 Quando anco la coscienza non potesse essere senza il mondo, ciò non prova che l' Io ponga il mondo, ma solo che affermi il mondo già per sè esistente; 4 Il NON7IO non è il mondo; perocchè il Non7Io è una semplice negazione, e il mondo è cosa positiva; 5 Il mondo esterno (che il Fichte chiama la NATURA) è limitato; ma non viene da questo la limitazione dell' Io ; perocchè potrebbe esservi uno spirito che conoscesse il limitato, senza che per ciò fosse limitato egli stesso; 6 E` falso anche il principio presupposto da Fichte « che l' azione non si possa concepire senza una resistenza »; così si concepisce la creazione che è la massima azione; 7 Quand' anco l' azione avesse bisogno d' una resistenza per esercitarsi, ciò non proverebbe che questa resistenza la creasse ella a sè stessa; anzi, come cosa a lei opposta, le dee venire altronde. II Altro suo argomento . - Senza ammettere che l' Io ponga il mondo, non si può spiegare l' azione che l' Io esercita sul mondo. [...OMISSIS...] Giudizio sull' argomento . - Esso pecca in molti punti, cioè: 1 Niuno dice che Io sia unicamente un essere passivo, ma passivo in parte e in parte attivo: onde, enumerando gli assurdi che ne verrebbero dal far l' uomo del tutto passivo, il filosofo combatte avversarŒ che non esistono, e non tocca quelli che veramente esistono. 2 L' uomo non preforma, e non precrea il mondo, quando concepisce un ideale, a cui s' ingegna poscia di modificare il mondo. Tanto è lungi che l' uomo possa nulla sulla sostanza del mondo, ch' egli non può levare nè aggiungere al mondo la menoma particella di materia; benchè potrebbe concepirla diminuita od accresciuta, colla sua mente, in un qualunque ideale ch' egli si formasse. Ma l' uomo stesso, fino a che non ha perduto il senno, non potrebbe neppure concepire la menoma speranza di realizzare un ideale, nel quale si dovesse aggiungere al mondo o togliere un atomo. Che anzi il potere dell' uomo è limitatissimo, non solo sulla sostanza materiale, ma ben anche a modificarla; sicchè le modificazioni, che tutto il poter dell' uomo può cagionare sullo stato dell' universo, valgono presso che zero, computato l' universo intiero. Ora questa limitazione del potere dell' uomo sul mondo non trova alcuna ragione sufficiente nel sistema di Fichte; e tanto meno se si suppone che l' Io ponente sia un Io assoluto ed infinito. 3 Fichte trova impossibile che, se l' uomo rispetto al mondo è passivo, diventi poi attivo. Ma, primieramente, in ciò non vi ha la menoma contraddizione, perocchè l' uomo non è mica attivo sul mondo collo stesso atto con cui è passivo. Non si possono negare all' Io moltiplicità di oggetti, di atti, di facoltà, di leggi. Non v' ha dunque contraddizione che secondo gli uni sia passivo, e secondo gli altri attivo. Di poi, qui non si tratta di vedere, che cosa sia possibile, ma quale sia la cosa nel fatto. In terzo luogo, esclude forse il Fichte una limitazione posta all' operare dell' Io? una resistenza, un freno posto alla sua tendenza? Non già; ma, credendo di spiegarla, egli vuole che l' Io stesso produca a sè la resistenza e l' opposizione. Con questo sistema, alla prima difficoltà se n' aggiunge un' altra. Perocchè, se prima era difficile intendere come l' attività dell' Io potesse trovare una resistenza nel mondo, ora rimane questo a spiegarsi; ma s' aggiunge di più la difficoltà molto maggiore come sia possibile che l' Io stesso sia l' autore d' un ente che gli resiste e lo limita. Ricorrerà l' idealista al solito rifugio, che la resistenza è una pura illusione? Non può, perchè ha dedotta la necessità della resistenza come condizione dell' azione e della coscienza che l' Io vuol porre. E quanto poi non è arbitraria e strana quest' appendice, che l' Io, creando a sè la resistenza, cioè il mondo, si riserbò il potere di cangiarlo e di modificarlo! Vi ha forse una ragione sufficiente di ciò? E qual ragione sufficiente può assegnare il filosofo nostro, perchè l' Io si sia riserbato questa quantità determinata di potere, nè più nè meno? e se ne sia riserbata una quantità così piccola, che è nulla verso la potenza con cui il mondo resiste a' suoi disegni? E riserbandosi questo minimo grado di potenza sulla sua creatura, ha dunque rinunziato per sempre ad averne un grado di più? Il creatore potè abdicare così per sempre la sua onnipotenza? Avrà egli creato un complesso di esseri più potenti di lui? Non potrà annullare nè accrescere il numero delle sue creature? Non potrà più riassumere il suo maraviglioso potere? Non solo l' avrà perduto di diritto, ma anche di fatto? L' infinito sarà scaduto ad una condizione inferiore del finito da lui prodotto? E s' ella è così, dove oggimai si trova l' Io assoluto ed infinito? E` perito per sempre, come quegli animali che generando de' loro simili muoiono nell' atto della generazione. Mentre adunque Fichte inventa un sistema per assegnare delle ragioni sufficienti al fatto della coscienza, egli dà per ragioni altri fatti da lui supposti e disdetti dalla coscienza, i quali hanno bisogno assai più de' primi di spiegazione, ed anzi sono del tutto inesplicabili. Ed è poi lepido il modo facilissimo col quale fa comparire l' individuo umano al mondo! [...OMISSIS...] Vi par egli questa filosofia? non è ella una descrizione accurata e filosofica della maniera con cui l' uomo si pone da sè stesso? Ora sentitene la spiegazione: [...OMISSIS...] . Ecco adunque come i filosofi trascendentali descrivono i fatti, ecco come li spiegano. Li descrivono prima come produzioni di un Io precedente senza coscienza di sè, e tuttavia ASSOLUTO e INFINITO. Veramente chi ha coscienza (presso di loro sarebbe l' Io empirico) è qualche cosa di più di quello che non ne ha. Ma il loro assoluto, il loro infinito, il loro DIO, non ha coscienza, sì va travagliandosi per cavarla dalle proprie viscere, benchè il parto riesca sempre imperfetto. Così doveva essere, acciocchè un tal Dio potesse convertirsi nel nulla colla stessa facilità (mi si perdoni il paragone) con cui si rivolta la frittata nella padella. Quando poi vengono alla spiegazione, essi hanno alla mano la ragione sufficiente con ogni facilità, dandovela in questa o consimili parole: « era necessario che così avvenisse: l' Io doveva così operare: ne aveva proprio bisogno per porre sè medesimo: è una legge della sua coscienza »: quasichè, quando il filosofo dichiara una cosa necessaria, ella sia tale anche in fatto. Ma la necessità, dico io, convien provarla, convien trovarla nel concetto della cosa, e non fingerla, o introdurla a capriccio per un cotal puntello al proprio sistema. D' altra parte Fichte dice: « « Tostochè l' Io comparve a sè stesso nel mondo, egli dovette per legge della sua coscienza imaginare i suoi genitori e i suoi antenati » ». Ma datemi un poco la ragione sufficiente: 1 Perchè l' Io sia comparso nel mondo più tosto in un tempo che in un altro? perchè non prima, o non dipoi? 2 Perchè egli abbia creati questi fra' suoi genitori più tosto che altri, cioè genitori di tale età, fattezze, condizioni? perchè non gli si rappresentarono giovani anzi che vecchi, belli anzi che deformi, nobili e ricchi anzi che ignobili e poveri, buoni, anzi che malvagi ecc.? Dove trovate voi la ragione sufficiente di tutto ciò nel vostro sistema? E perchè certi fanciulli nascono orfani di padre, e non compare loro più la madre, morta nel darli alla luce? 3 Perchè l' Io non pone e crea sempre questa stessa linea d' antenati? ma conosce una serie più o meno lunga, e intende finalmente che la serie anche degli antenati incogniti non va più di là d' un certo termine? Nel sistema di Fichte la storia intera dell' umanità è una produzione dell' Io. Ma perchè mai inventò egli la storia in un modo piuttosto che in un altro? Quali ragioni sufficienti saprebbe addurre il nostro filosofo che spiegassero tutti gli accidenti storici che non mostrano alcuna necessità in sè stessi? Vi hanno molti concetti affini, i quali si confondono facilmente: i filosofi tedeschi, che hanno difetto d' analisi, traggono da una continua sostituzione di concetti gli oscuri loro sistemi: ciascuno de' concetti, di cui fanno uso, sarebbe importante e fecondo; ma, scambiati gli uni per gli altri, mescolano insieme la loro fecondità per modo che ne riesca un viluppo sottilissimo e un bastardume d' ogni generazione di piante che senza regola si aggraticciano ed impediscono. Il concetto di un Io assoluto produttore dell' Io empirico, in Fichte non è mai il medesimo; ma ora ei pone quell' assolutità in una cosa ora in un' altra. 1 Abbiamo veduto che l' ebbe posto in questo, che l' Io pone sè stesso. « Ma, non potendo avere tale proposizione alcun senso, s' ella non s' intenda così, che il principio di quell' atto, onde un ente (nel caso nostro l' Io) sussiste, pone il suo termine; questa proposizione nè ci conduce ad un Io, ma ad un principio di atto; nè ci conduce ad un principio necessario, ma contingente, e tale da supporre una ragione sufficiente fuori di sè. 2 Fichte dice ancora, che il carattere della ragione è il semplice porre in sè e per sè; e che in questa operazione si dee ravvisare la sua assolutità. In questo detto di Fichte v' ha della profondità, cioè vi hanno le vestigia di un ingegno che vide un nodo difficile, benchè nol sapesse superare; e già il solo vedere dove giaccia il difficile, suppone un pensare che non si trattiene alla superficie. Spieghiamoci. Il porre di Fichte altro non è che l' affermare . Quando l' uomo afferma, egli sa che una cosa sussiste; prima che l' affermi, egli è per lui come se quella cosa non sussistesse. Ma che cosa è questo affermare? Agli occhi di Fichte fu un porre gli esseri, un crearli; e ciò perchè altramente si sarebbero dovuti ammettere come esistenti esseri fuori della sfera del pensiero; e s' era messo il chiodo (tutto ad arbitrio) che non si dovesse uscire dal pensiero; non si dovesse uscire dalla coscienza: benchè pur si usciva (ed era contraddizione manifesta) col supporre un Io anteriore alla coscienza e causa di questa (1). Intanto però non si considerava, che è la coscienza stessa quella che ci dice che ella non crea le cose, ma non fa che affermarle; e l' analisi dell' affermazione importa il precedente concetto dell' esistenza; non potendosi affermare quella che già non esiste. Considerare adunque l' affermazione come una creazione, è un contraddire ad un tempo alla coscienza, e al concetto di questa operazione dello spirito che affermazione si chiama. Se affermando noi creassimo l' ente affermato, certamente lo sapremmo; noi avremmo il convincimento che l' ente affermato non esiste, se non nel momento dell' affermazione, e che cessando noi d' affermarlo, egli rientrerebbe nel suo nulla. All' incontro, noi, cioè tutti gli uomini, siamo intimamente persuasi, che l' ente non dipende punto dalla nostra affermazione, e che egli ha de' caratteri opposti a questa: per esempio egli ha il carattere di stabilità , quando l' affermazione è transeunte e momentanea; onde nell' effetto vi sarebbe assai più che nella causa: e quindi è impossibile trovare nell' affermazione la ragione sufficiente della sussistenza degli enti. E non di meno l' affermazione , colla quale noi ci persuadiamo della sussistenza degli esseri, è una operazione assai misteriosa; e l' aver veduto ch' ella non è di facile spiegazione, è ciò che ci fa lodare di profondità il pensiero di Fichte. Il misterioso, ch' ella contiene tale operazione, sta in questo, che per essa l' ente non è da noi conosciuto di più: giacchè l' ente si conosce coll' idea, e non con l' affermazione; giacchè quando si dice ente , si dice la sua essenza . E pure l' affermazione non è inutile al conoscer nostro: che cosa dunque conosciamo per essa? Primieramente non si dee mettere a suo conto l' occasione ch' ella ci porge di avere l' idea determinata dall' ente, perchè questa cognizione non ha propriamente la causa formale nell' atto di affermare; ma solo prende da quest' atto l' occasione, mediante il sentimento che serve di termine a cui si riferisce l' essere universale e così lo si limita. Rimane adunque che l' affermazione per sè altro non ci faccia conoscere se non la sussistenza di quell' ente di cui ci occasiona l' idea; idea che ci è data, come da vera causa, dall' intuizione dell' essere, e dal riferirlo che noi facciamo al sentimento. Ma che è la sussistenza dell' ente che non si trova nell' essenza (parlando di contingenti)? Altro non è che l' atto proprio dell' ente stesso, mentre l' essenza non è che l' ente in potenza. Ora quest' atto ha un rapporto reale con noi, o d' identità (se siam noi stessi l' ente di cui si tratta), o d' azione. Questa relazione reale , non essenziale all' ente, anzi contingente, è quello che si afferma. Coll' affermazione adunque, trattandosi di enti contingenti, si conosce non la loro essenza eterna e necessaria, ond' hanno il nome di enti; ma il loro atto contingente, la loro realità: in una parola non ciò che sono di diritto, per così dire, ma ciò che sono di fatto. Quel misterioso adunque, che si trova nella natura dell' affermazione, si riduce tutto al misterioso che si trova nella distinzione fra l' essenza dell' ente contingente e la sua realizzazione , o atto proprio dell' ente stesso. Or, quando noi abbiam detto che l' affermazione nostra non può esser quella che fa sussistere l' ente, perchè noi affermiamo un ente stabile e permanente anche oltre l' atto dell' affermazione; Fichte non ci può mica dire, che quest' è un' illusione trascendentale. Egli è singolare a vedere quanto venga comoda questa scappata a' filosofi della scuola tedesca. Ogni qualvolta vien loro fra i piedi qualche cosa che gl' imbarazza, se ne distrigano con tutta disinvoltura dicendo « quest' è un' illusione trascendentale ». Ma pure Fichte non può dir questo nel caso nostro; ed ecco perchè. Fichte e i fichtiani ragionano così: « Kant ha smembrato il pensiero, come pensiero, in antinomie, categorie ed altro, e in vece di verità ci ha lasciato contraddizioni. Se dunque cotesto smembramento del pensare non conduce che a contraddizioni, sèguita che si debba battere un' altra via per giungere alla verità, cioè la via del semplice affermare. La ragione, questa facoltà spirituale piena d' interna unità, non può condurre a contraddizioni (1). Il pensiero adunque non dee esser una proprietà suprema della ragione, ma solo una proprietà inferiore. Il semplice porre (affermare) in sè e per sè , o l' asserire senza più, è il carattere supremo della ragione, potendosi indi spiegare il pensare con tutte le sue contraddizioni »(2). Fichte adunque: I Confessa che la ragione non può contraddirsi nè illudersi; II Pone l' atto della ragione nel puro affermare . Dunque in questo affermare non può cader inganno. Dunque (per tornare a ciò che poc' anzi, p. 232, dicevamo: non potere Fichte in ciò imputarci di illusione trascendentale) la ragione, quando afferma un ente come cosa stabile e indipendente dalla stessa sua affermazione, non può farci cadere in alcuna illusione trascendentale: dunque ella non crea gli enti, ma li conosce già esistenti: dunque v' ha qualche cosa fuori della ragione umana, e in essa non si può trovar tutto, se ad essa medesima prestasi fede. Nè si può dire che l' affermazione non sia pura quando attesta tutto ciò: perocchè ella lo attesta sempre per tutti gli oggetti affermati, com' è suo proprio intrinseco carattere; senza il quale ella punto non sarebbe. III Ma Fichte poi attribuisce al suo porre in sè e per sè , che è l' azione essenziale della ragione, un altro senso; dal quale prende nuovo argomento per dichiararla assoluta e creatrice delle cose. Egli dice « che ogni tendenza dell' Io va a parare a quel punto, dove esso può sollevarsi dal pensiero e dal mondo ad un essere puro ed assoluto », il che è quanto dire che l' uomo non è pago se non si solleva all' infinito. Di che deduce che l' Io stesso, che ha questa tendenza, è infinito, assoluto. « L' Io si sente assoluto (così ragiona Fichte), e però indipendente dal mondo; egli tenta di strapparsi via dal mondo, e avvicinarsi allo stato assoluto. L' Io assoluto è quella idea che serve di base alle esigenze pratiche dell' Io « di comprendere in sè ogni realità », e di assolvere l' infinità. L' Io tende ad essere realmente assoluto, ma si trova in ogni momento limitato. Questa tendenza unita al sentimento di limitazione è la ruota che muove lo spirito umano, la quale non può fermarsi, ma trae l' uomo da uno stato all' altro; ella è la causa per cui l' uomo abbozza ideali di sè e del mondo, riformando sè e il mondo su di essi. Tendendo l' Io ad una assoluta illimitazione, egli dirige i suoi sforzi a t“r via la tendenza stessa; perocchè là, dove è tendenza, ivi è limitazione. Per questa tendenza di annullare ogni tendenza, mostra il carattere soprasensuale dell' Io: solo a questa condizione l' Io è assoluto. Tutta la moltitudine degl' ideali, tutte le immaginazioni d' una bella fantasia, traggon l' origine da questo carattere assoluto dell' Io. Ma questo carattere non è del tutto reale; esso è per ora un ideale che l' Io ha di sè, e giusta il carattere dell' Io resterà sempre un Ideale. Solo adunque in quanto l' uomo ha in sè l' idea dell' assoluto, e cerca in essa il proprio carattere fondamentale, egli è capace di poesia e di arte. Ma ancor egli sente che l' assoluto, suo carattere, lo muove alla moralità . Poichè l' uomo, ispirato da questa idea di assolutezza, disprezza e deve disprezzare tutti i motivi sensuali delle sue azioni, ed esercitare il dovere solo pel dovere: l' idea dunque del soprasensuale assoluto è il punto, donde parte ogni coscienza, e dove ogni coscienza di nuovo ritorna e si concentra. Qui si rileva l' errore capitale di Fichte e di tutti i filosofi trascendentali della Germania. Essi dicono in sostanza: « l' Io tende ad uscire dai suoi limiti; dunque ha un ideale di sè, un' idea dell' illimitato ed assoluto essere. Ma l' idea è un Io: dunque vi ha un Io7idea illimitato ed assoluto ». L' errore sta sempre nel confondere l' idea coll' Io, l' oggetto col soggetto. Si accorda che l' Io abbia l' intuizione di un essere illimitato, ideale; ma si nega che quest' essere ideale senza limiti sia lo stesso Io; perchè l' oggetto intuìto, non è il soggetto intuente. Il soggetto intuente, cioè l' Io, è quello che fa l' atto dell' intuire; ma chi mai dirà, che l' idea, che l' oggetto intuìto sia quello che fa quest' atto? Se l' oggetto intuìto è quello che intuisce, egli cessa, in quanto fa quest' atto, di essere oggetto intuìto, perchè l' intuìto e l' intuente sono relazioni che si escludono reciprocamente. Fichte dice, che, se si pone che l' oggetto sia diverso dal soggetto, non si trova più il nesso tra l' uno e l' altro; e che perciò conviene supporre, che il soggetto stesso si trasformi in oggetto, e rappresenti come due personaggi. - Ma questo è un correre a precipizio. Poichè: 1 Se non trovate il nesso che congiunga il soggetto coll' oggetto, in tal caso vi resta a confessare la vostra ignoranza, senza negare quel nesso che è un fatto evidentissimo. Per altro quel nesso si trova nell' atto della cognizione . D' altra parte, niuno può dimostrare alcuna ripugnanza nel concetto di più enti comunicanti insieme secondo la propria natura; 2 Il ripiego di Fichte, invece di sciogliere il nodo, lo taglia, negando che vi abbia un nesso reale, e dichiarandolo arbitrariamente illusorio; 3 Che anzi nè pure è vero che tagli il nodo: perocchè, dopo la spiegazione che pretende darne il nostro filosofo, quel nodo si rimane saldo come prima, anzi più involuto e aggruppato di prima. E veramente la spiegazione di Fichte si riduce a dire, che l' oggetto è solo apparentemente oggetto, ma realmente è anch' egli soggetto. E bene sia così: rimane però che quest' oggetto, in quanto è apparente, il che è un dire, in quant' è oggetto, non sia il soggetto. Vi ha dunque un nesso tra il soggetto reale e l' oggetto apparente, che rimane intieramente a spiegare, e che non si spiega già col distruggere l' oggetto facendolo rientrare nel soggetto. Sono adunque questioni che si confondono malamente insieme queste: Qual è la natura dell' oggetto? E` ella reale od apparente? Come può darsi un nesso tra l' oggetto (reale od apparente) e il soggetto? - Nè la soluzione dell' una è la soluzione dell' altra. Or non vale il dire, che, producendo il soggetto a sè stesso l' oggetto, produce anche il nesso che lega seco quell' oggetto. Perocchè con ciò altro non si farebbe, che di nuovo confondere due questioni differenti, cioè: a) Qual sia l' origine, la causa di quel nesso? b) Qual sia la natura di quel nesso? E` ella ripugnante questa natura o no? Da qualunque causa sia stato prodotto quel nesso, egli esiste: sia egli apparente o reale, esiste tuttavia. Ciò che si dee spiegare non è già la sua causa occulta; ma la sua natura manifesta , che sta nel fatto lampante della umana cognizione. Se l' Io occultamente produsse l' oggetto, questa produzione occulta non è il nesso che si vuole spiegare, perchè questo nesso è palese; e quella produzione perciò è esclusa dal nesso, e a lui anteriore. Se dunque Fichte immaginò quella produzione occulta come un' ipotesi atta a spiegare un tal nesso, dall' istante che è provato che quella ipotesi (d' altra parte mostruosa) non vale a spiegarlo, ella cade, e con essa tutto il sistema. L' errore fondamentale adunque di Fichte, come di tutta la scuola a cui appartiene, è di non poter intendere l' esistenza di un oggetto distinto essenzialmente dallo spirito che lo intuisce: e dal non poterlo intendere, argomentare che dunque l' oggetto dee incorporarsi occultamente col soggetto; imponendo così alla natura quelle leggi, che loro detta il non sapere. Dopo la pubblicazione del « Nuovo Saggio » e di altri miei lavori, ne' quali tolsi a dimostrare 1 che l' oggetto non si confonde col soggetto, e che questo fatto ideologico della distinzione dell' oggetto dal soggetto toglie via lo scetticismo, inevitabile a' sensisti e soggettivisti, i quali li confondono; 2 che l' oggetto per essenza s' intuisce dall' uomo per natura, ed è l' essere in universale: uno scrittore italiano affermò con forza il principio, che l' oggetto , distinto dallo spirito che l' intuisce, doveva essere la base del sapere e della certezza, e di questo ci congratuliamo; ma, nello stesso tempo che in questo vero egli conviene meco, stimò bene di farmi il viso dell' armi, e darsi la pena di scrivere diversi volumi per dimostrare, che io sono al tutto psicologista, ed egli solo è il vero ontologista. Perocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Questo scrittore credette di raggiustare il mio sistema col dire, che l' oggetto dell' intuizione che ha l' uomo per natura non è l' idea dell' ente, ossia l' ente ideale; ma che è l' ente reale , che contiene in sè ogni realità: perocchè, egli dice, l' ente ideale e comunissimo, se non è anche reale, s' immedesima col soggetto uomo (1). Così egli viene ad accordare di necessità a Fichte e agl' idealisti della Germania (che per altro si mostra persuaso di combattere vittoriosamente), che l' oggetto ideale , la pura idea , s' immedesima collo spirito; e però in questa parte diviene con essi idealista trascendentale. Dall' altra parte egli ammette coi sensisti, che il solo reale sia veramente oggetto, e con ciò pecca manifestamente di sensismo. Ben è vero che il reale può essere conosciuto e però può diventare oggetto della mente (il che noi diciamo oggettivare ), ma non è già vero, che sia conosciuto per sè stesso senza l' idea. Onde non essendo conosciuto per sè stesso, non è per sè oggetto della conoscenza. Laddove l' idea è conosciuta per sè, giacchè idea importa cosa intuìta, onde ella è per sè stessa oggetto, ed è quella che unendosi al reale lo rende conoscibile. Il vero oggetto adunque è l' idea; e questa poi partecipa l' oggettività al reale, a cui ella si unisce nella cognizione. Il supporre adunque che l' oggetto primo della mente sia il reale , è una eredità del sensismo. Essendo adunque dinanzi alla mente umana l' essere in universale , e mediante quest' essere illimitato giungendo l' uomo a conoscere la perfezione degli esseri, ed a produrre a sè stesso gl' ideali delle loro perfezioni; certo, dee suscitarsi in esso il desiderio di rendersi perfetto, e di toglier da sè, per quanto gli è possibile, i limiti: il che egli poscia giugne ad intendere che non può conseguire se non mediante l' unione coll' essere supremo ed infinito, dove, cessati tutti i limiti, è la pienezza dell' Essere realizzata: in una parola mediante l' unione con Dio. Ma egli non arriva mai naturalmente a concepire il desiderio, come suppone Fichte, di rendere Dio sè stesso; il qual desiderio mostruosissimo altro non sarebbe, che la massima inversione e perversione della propria natura, la massima immoralità e insieme la massima stoltezza. Lungi adunque d' avere Fichte osservata la natura umana, com' egli si proponeva, e conoscerne gl' interessi recessi; egli non pervenne punto a conoscerla, e confuse l' ultimo decadimento di essa, qual è l' orgoglio di divenire una Divinità, col supremo innalzamento a cui aspira, qual è la massima sommissione e umiliazione alla Divinità: perocchè l' ideale dell' uomo, l' uomo perfettissimo, è l' uomo che riconosce sè stesso nulla dinanzi al tutto che è Dio, onde sente d' avere ogni cosa ricevuto. Quanto è adunque illegittimo interprete del voto della natura umana quel filosofo, il quale prende per ideale dell' uomo l' angelo ribelle! Fichte distingue il suo sistema da quello degli Stoici così: [...OMISSIS...] . Colle quali parole voleva dire, che la coscienza essendo limitata, e non potendo mai pervenire a levare da sè tutti i limiti, essa coscienza, che è l' Io empirico, non può esser Dio, ma solo tende a rendersi uguale a Dio. Ma che cosa è questo Dio di Fichte? E` l' idea infinita dell' Io; quello che chiama Io puro, e che pone l' Io empirico: ponendo questo Dio non si esce dall' Io umano. E` un Dio ideale che continuamente tende a realizzare sè stesso, ed è impotente a segno che non arriva mai: onde stabilisce questo filosofo una perfettibilità eterna dell' uomo; e nello sforzo continuo di giugnere alla perfezione, senza mai pervenirvi intieramente, egli pone l' umana destinazione . Qui si vede comparire in altra forma il sistema della speranza sempre ingannevole di Foscolo (1). Ora egli è falso, per dirlo di nuovo, che l' uomo tenda a divenire un Dio realizzato; come è falso che l' ideale dell' uomo sia quello di un Io senza limitazioni di sorte alcuna; giacchè, togliendo all' Io tutte le limitazioni, egli perderebbe affatto la propria identità, e diverrebbe un altro essere: nè egli è possibile che l' Io desideri di perdere l' identità sua propria; quando anzi è vero che ogni essere intelligente brama bensì di perfezionarsi nella sua natura, ma non brama cangiar natura; la cui brama avrebbe d' altra parte per oggetto un assurdo. Dall' esame de' principii accennati di Fichte vedesi che la filosofia da lui proposta manca di solidi fondamenti. Vedesi del pari che questo filosofo, volendo stabilire un essere assoluto che contenesse la ragione di tutte le cose, e d' altra parte non volendo uscire dell' uomo, pel pregiudizio sensistico ed idealistico; ricorse ad un Io, che non può essere in alcun modo assoluto, infinito, ragione delle cose, Iddio. E veramente: I Quest' Io puro di Fichte non ha coscienza, appartenendo la coscienza all' Io empirico. Ma un assoluto, e un Dio senza coscienza, non può essere un assoluto, e un Dio; ma piuttosto uno stipite. II L' Io puro di Fichte non può esser libero , perchè la vera libertà è una dote propria della volontà , e la volontà non esiste se non qual conseguente de' beni conosciuti. Ma l' Io puro non conosce come tale cosa alcuna, e perciò egli opera del tutto alla cieca, e necessariamente. Abusa dunque il filosofo nostro, seguìto in questo da Schelling e dagli altri trascendentali, quando pretende che l' Io sia sommamente libero appunto perchè pone sè stesso. Schelling così esprime questo pensiero: [...OMISSIS...] . 1 Ora, se l' Io si conosce perchè si determina, dunque innanzi a tale determinazione non vi ha cognizione, e però nè pur volontà, e meno libertà (se per libertà s' intende una dote della volontà). La libertà dunque di cui parla qui Schelling è una cieca necessità. 2 Si dice che la determinazione che prende l' Io non ha fondamento ulteriore: ma le determinazioni che non abbiano per loro fondamento una ragione , sono cieche: la volontà stessa di Dio dee essere sempre guidata da un lume intellettivo: onde non è già un pregio, ma un difetto l' attribuire ad un ente il determinarsi senza cognizione e senza ragione; 3 Il dire che non ci possiamo innalzare al di sopra di quest' azione, è un parlare così improprio, che assai più vero sarebbe dire il contrario, cioè che non ci possiamo abbassare al di sotto di quest' azione. Che se egli sembra che l' astrazione non possa andare più là nell' operazione descritta da Schelling (benchè nè pur questo sia vero); in tal caso è da osservare che l' astrazione non ci conduce mica sempre ad esseri più nobili e perfetti, ma piuttosto ad esseri più imperfetti. 4 I nostri idealisti affermano che « isolandosi da ogni oggetto lo spirito non trova più che sè stesso »: ma essi non riflettono che cosa si esige acciocchè lo spirito possa trovar sè stesso, perchè non analizzano questa operazione. Lo spirito non trova sè stesso se non percipendosi. Ma non si può percepire, se non si afferma come un ente; e non può affermarsi come ente, se non sa che cosa sia ente . Ora sapere che cosa sia ente, è lo stesso che avere l' idea dell' ente. Lo spirito adunque non può trovar sè stesso, se non ha presente l' ente come suo oggetto. E veramente lo spirito è un soggetto, e non comincia a divenire oggetto a sè stesso, se non si contempla nell' essere , e così si oggettivizza, partecipando dell' oggettività essenziale dell' essere stesso. L' immaginarsi adunque che lo spirito possa percepir sè stesso, o sia trovarsi, astraendo da tutti gli oggetti, è un errore proveniente da difetto di scienza ideologica; lo spirito non può percepire e trovar nulla, se non col mezzo dell' idea dell' ente, che è l' oggetto per essenza: tolta via la quale idea lo spirito è nelle tenebre; non conosce più nulla, nè sè stesso nè l' altre cose. Anzi lo spirito così accecato cessa d' essere spirito intelligente; molto meno può essere qualche cosa di assoluto. Egli è poi strano che i filosofi tedeschi diano il potere all' astrazione di trovare o di creare l' assoluto , quando l' astrazione niente trova nè crea; ma solo separa; e si esercita sopra un oggetto già percepito. Che cosa può fare dunque l' astrazione rispetto allo spirito? Separarlo dagli oggetti reali che non sono lui stesso. Che ci rimane allora? Lo spirito solo; quello spirito che si aveva anco innanzi: con ciò non si è innalzato sopra il finito, ma s' è spogliato di tutte le sue cognizioni; e però non resta punto migliorato, anzi deteriorato all' ultimo grado. Perciò noi dicevamo, che questa astrazione non innalza lo spirito, ma lo abbassa tanto che non si può di più. 5 Vero è, che con ciò si vuol pervenire all' atto primo dello spirito. Ottimamente, ma quest' atto primo, col quale lo spirito esiste, nol fa certo volontariamente, perchè non conosce ancor nulla, non potendo conoscere nè operare prima di esistere; il perchè quest' atto non si può chiamare volere , se non abusando de' termini della scienza. Nè pure lo spirito si determina ad esistere da sè stesso, perchè non può determinarsi se prima non esiste. Quindi egli è necessario che un altro essere lo determini ad esistere, e quest' essere è DIO. Conviene adunque ricorrere ad un essere che stà al di fuori dell' IO umano per rinvenire la ragione sufficiente di questo, e sono al tutto inutili gli sforzi de' trascendentali (1) per racchiudere l' uomo in sè stesso. L' illusione di questi filosofi consiste nel confondere: a ) La prima condizione del conoscere umano col primo oggetto della conoscenza. La prima condizione del conoscere è che esista lo spirito; ma non ne vien mica per questo, che l' atto con cui esiste lo spirito sia il primo oggetto della conoscenza. L' uomo ha un primo oggetto della conoscenza (l' essere), per mezzo del quale conosce la condizione del suo atto di conoscere , e distingue tanto bene quest' atto dall' oggetto , che quello lo ravvisa contingente, e questo necessario. L' atto del conoscere, nè pure l' atto dell' esser umano, non è assoluto; ma l' assoluto conviene cercarlo nel primo oggetto del conoscere compiuto e realizzato. b ) Essi confondono ancora ciò che è il primo nell' essere dell' uomo con ciò che è assoluto , ragionando in sostanza così: « L' atto dell' esistere umano è il primo di tutti gli atti che fa l' uomo. Ma fuori dell' uomo non v' ha nulla, pel pregiudizio sensistico. Dunque quell' atto deve essere la ragione di tutte le cose, l' assoluto ». Ma la minore del sillogismo è falsa. E se fosse vera, sarebbe ancor falsa la conseguenza, giacchè non se ne potrebbe cavar altro, se non che la ragione sufficiente, l' assoluto, manca del tutto, riuscendone quest' argomento: « L' atto dell' esistere umano è il primo degli atti umani. Ma non vi ha nulla fuori dell' uomo, e l' atto dell' esistere umano è di fatto contingente. Dunque manca l' assoluto, la ragion sufficiente degli atti umani ». A cui si deve far susseguire quest' altra proposizione: « Ora la ragion sufficiente ci dee essere: dunque è falso quest' argomento ». 6 Uno spirito che opera ciecamente, non può avere alcuna regola sua propria, perchè la regola non è tale se non si conosce, e lo spirito di Fichte e di Schelling si suppone aver annientati tutti gli oggetti del suo conoscere. E noi potremmo recare più innanzi questa enumerazione di assurdi, se fosse prezzo dell' opera. III L' assoluto di Fichte e de' filosofi che sono andati sulla sua via è un assoluto in potenza; perchè è un Io che ha bisogno di porre sè stesso, e che quando si pone diventa empirico. Ma ciò che è in potenza è ciò che vi ha di più imperfetto, e somiglia alla materia prima, che rappresenta il più basso grado dell' essere. Se non che gli antichi intendevano, che quello che non ha già in sè stesso l' atto dell' esistere, dee riceverlo da altro; e però niuno mai sognò che la materia prima dèsse a sè stessa la forma. Ma ben sognarono questo assurdo i trascendentali della Germania, i quali, ad un principio che non è ancor posto, accordarono la virtù creatrice. IV L' assoluto di Fichte, a cui si attribuisce il poter creatore, è impotente , perchè si sforza di porre sè stesso in un modo incondizionato, e non vi perviene giammai. Ma l' assoluto essere esclude il difetto dell' impotenza. V L' assoluto di Fichte è perfettibile , senza che giammai possa raggiungere la sua propria perfezione ponendosi compiutamente: ma un ente che è, e rimane sempre imperfetto e limitato, non può essere assoluto. Non v' ha dunque un Io umano che sia un ente assoluto . Ora la ragione sufficiente di tutte le cose non si può ritrovare se non in un ente da ogni parte assoluto. Dunque la filosofia trascendentale, che ha preso l' assunto di trovare una ragione sufficiente di tutte le passioni e i modi dell' ente, ha pienamente fallito al suo scopo; ella ha dichiarato assoluto quello che non è, nè può diventarlo per l' affermazione di un filosofo: ella s' è chiusa nell' uomo, cioè nel contingente, e per quantunque astrazioni ci abbia fatto sopra, per quanto l' abbia distillato nelle vane storte della sua imaginativa, non n' ha cavato altro che contingente. Per quantunque Fichte abbia tolto a filosofare, prevenuto dal pregiudizio degli idealisti « che l' uomo non può conoscer nulla, se non ciò che ha in sè, e che tutto ciò che l' uomo ha in sè è parte dell' uomo »; per quantunque la sua nobile intelligenza si fosse resa schiava di un principio sì gratuito e sì falso, e strascinando sì pesante catena non potesse correre nè camminare liberamente; per quantunque si sforzasse di far apparire più ampio che non fosse il breve spazio della prigione dove s' era chiuso da sè stesso, col far per essa mille giri e rigiri circolari: egli era impossibile che finalmente non ci sentisse l' angustia del luogo, e non gli venisse voglia di atterrare le mura della povera natura umana, o di farvi un buco almeno per ispiarvi fuori e godervi la bellezza dell' immenso campo del cielo. Egli era stato costretto a stabilire un Io che non aveva più niente dell' Io umano, e di dare a quest' Io le prerogative opposte a quelle dell' uomo; e tuttavia il pregiudizio, che serviva di base e di tema a tutta la sua filosofia, lo costringeva ad affermare che quest' Io era l' uomo, o parte dell' uomo; quasichè coll' affermarlo potesse un filosofo far che fosse quel che non è. Era stato spinto fino ad affermare, che quel suo Io « non era già l' Io individuale proprio di questa o di quella persona, ma un Io elevato sopra ogni individualità, sopra ogni soggettività ed oggettività: un Io comune a tutte le idee razionali; non già l' Io di Kant, ma l' Io di tutte le possibili intelligenze ». Confessava egli bensì che non se ne potea provare direttamente l' esistenza, e che tutta la dimostrazione indiretta che se ne potea dare stava in questo che « quell' Io DOVEA esser presupposto, perchè altramente non si poteva spiegare la coscienza ». Onde, mentre l' Io evidentemente esprime un individuo che pronunzia sè stesso, Fichte era costretto, per non abbandonare il sistema, a dire che il suo Io non era individuo, togliendogli così ciò che forma l' essenza dell' Io. Quando un uomo di mente è pervenuto a sì sformati paradossi, e a contraddizioni sì intrinseche e manifeste, per quantunque sia dominato da pregiudizŒ bevuti da' suoi maestri, se di gran mente è fornito, non può a meno di ridestarsi; ed è vicino a mutar sistema. Infatti, che mai si esigeva acciocchè Fichte il mutasse? Nulla più che di cambiare una parola. Egli era già in fatti uscito dall' uomo, perchè l' Io a cui ricorreva per ispiegare l' esistenza dell' uomo, niente aveva più di ciò che costituisce l' uomo: ed aveva ciò che non potea aver l' uomo, come la necessità e gli altri attributi divini. Bastava dunque, che mutasse nome a quest' Io, e non chiamandolo più uomo confessasse che era Dio; e gli togliesse d' attorno quelle imperfezioni, e per così dire quelle immondezze che gli erano restate appiccicate nel parto impuro e laborioso pel quale si era fatto nascere dai visceri della natura umana. Così fece Fichte, e nella sua nuova opera intitolata « Sistematica » (1), alla parola Io sostituì finalmente la parola Dio . Se questo filosofo avesse potuto vivere una vita due volte più lunga, io credo, che, come rinvenne da questo error capitale, così egli sarebbe rinvenuto dagli altri; perocchè quando un ingegno comincia a volgersi verso la verità, egli va innanzi per quella via e non è più pago se non la fornisce. Ammise adunque il nostro filosofo Dio, non più come un' astrazione, un' idea morta, ma come un essere vivente. Col suo essere è dato tutto l' essere, ed ogni altro essere possibile. Ma come nascon da Dio le cose? Ecco lo scoglio perpetuo di que' filosofi che hanno voluto vedere il fondo di tanto secreto. Fichte adunque pose Iddio , e una estrinsecazione di Dio . L' essere di Dio avente quasi due facce: la faccia interna, accessibile solo al pensiero; e la faccia esterna che viene anche chiamata dal filosofo « « l' essere di Dio fuori del suo essere » ». Questo essere di Dio fuori del suo essere è anche detto il sapere di Dio, e appellato lo schema , equivalente nel linguaggio di Fichte ad imagine . Questo solo schema di Dio può essere fuori di Dio, non propriamente come un effetto, ma come conseguenza immediata del suo essere: quindi è lo spirito umano ed il mondo. In una parola tutto quello che nel primo suo sistema Fichte aveva detto dell' Io puro, nel secondo lo dice di Dio; il che dimostra aver compreso il nostro filosofo, che non si potea ridurre l' Io empirico all' Io puro senza fargli perdere la sua identità, senza cessare di essere Io. Ma rimase infitto anche nel secondo sistema l' errore di fare che il mondo fosse qualche cosa della divina natura. Rixner nel suo « Manuale della Storia della Filosofia » espone così questa specie di emanazione o di panteismo a cui s' abbattè Fichte quando riconobbe l' insufficienza del suo primo sistema. [...OMISSIS...] Si asserisce, che la vita divina diventa vita che si sviluppa nel tempo: ma che cosa vuol dire questo diventa? Chi la fa diventare? Può egli l' essere divino diventare qualche altra cosa? può limitarsi senza cessare di esser divino? o può egli cessare? o può essere ad un tempo limitato ed illimitato? Che se la vita divina diventa il genere umano ed il mondo, dov' è la ragion sufficiente che spieghi perchè diventi questo mondo più tosto che un altro, con questo numero determinato di enti, e di modificazioni nè una di più, nè una di meno? E come questa vita divina estrinsecata e divenuta umanità ha perduto la coscienza di essere vita di Dio? Simili domande si potrebbero fare ad ogni parola del nostro filosofo. Egli investiga una filosofia che contenga la ragione sufficiente di tutto; e, in vece di ragioni sufficienti, afferma nuovi fatti, i quali esigono assai più perchè si possano credere una ragione sufficiente, ed in quella vece son tali che al tutto la escludono, son tali che mostrano di non poterla in alcun modo avere. Dalle cose dette apparisce, che questo filosofo riduce tutte le manifestazioni dell' ente a due supreme entità: I L' Io puro nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema Iddio . II L' Io empirico nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema l' Umanità . L' Io empirico , ossia l' umanità , viene suddivisa in a ) Io , e b ) Non7Io - Spirito e Natura. All' Io empirico non disdice il nostro filosofo tutte le forme di Kant, come nè pure il paralogismo , le antinomie , e l' ideale che Kant attribuisce alla ragione. Nel sistema di Fichte adunque è ritenuto il sistema kantiano, ma come occupante un posto inferiore. Fichte fece al Kantismo quasi direi la sommità di cui credeva privo l' edificio del suo maestro, e così gli parve d' averlo ultimato. Or noi non ci tratterremo a dimostrare l' enormità di queste cotali categorie fichtiane, rimanendo già provato quanto esse sieno erronee ed insufficienti dalle cose qui sopra ragionate. Il paralogismo adunque che serve di base al primo sistema di Fichte si può esprimere così: « Vi dee essere una ragione sufficiente di tutte le cose che sono od appariscono: ma, l' uomo non potendo uscire da sè stesso, le cose che gli appariscono debbono essere elemento che costituiscono la sua stessa natura, e che in lui si vanno svolgendo; dunque anche la ragione sufficiente di tutte le cose SI DEVE TROVARE nell' uomo, nel fondo della sua natura ». Quanto la minore di questo sillogismo sia gratuita ed erronea noi l' abbiamo veduto. Ma, dato ch' ella fosse anco vera, avrebb' ella la conseguenza un valore? Non avrebbe altro valore che quello che può avere un membro d' una antinomia. Perocchè si potrebbe contrapporci un altro sillogismo, in questa forma: « Di tutto quello che è nell' uomo si dee avere una ragione sufficiente; ma nell' uomo questa ragione non vi è, perchè tutta la natura umana è contingente: dunque la ragione sufficiente di tutte le cose NON SI PUO` TROVARE nell' uomo ». Or quando s' incontra un' apparente antinomia, l' uno de' due membri opposti deve esser falso; e fino che non si è provato falso l' uno di essi, entrambi restano dubbiosi. In ogni modo adunque il primo sistema di Fichte manca di una solida base. Oltre di che, dopo aver Fichte concluso che la ragione sufficiente di tutte le cose si deve trovare nell' uomo, quando si pose all' opera per indicare in quale elemento dell' umana natura consistesse questa ragione sufficiente, immaginò quello che egli chiama l' Io puro , il quale nè si conosce per veruna esperienza, nè cade in modo alcuno nella coscienza dell' uomo. Egli adunque con ciò: 1 Era uscito dalla sfera dell' esperienza, e aveva stabilito un principio a priori , non più distinguendo coordinatamente le due Ragioni, come avea fatto Kant, la teoretica e la pratica , ma dando alla ragione pratica il principato e facendola madre della ragione teoretica; cosa d' altra parte assurda, perchè la stessa esistenza della ragione pratica non si potrebbe conoscere se la ragione teoretica non la dimostrasse. Così Fichte o doveva credere alla ragione teoretica di tutti gli uomini, e in tal caso il suo sistema veniva da essa necessitato; o doveva consentire a Kant che ogni ragionamento a priori non fa conoscere oggetti nuovi se non illusoriamente, e in tal caso il suo Io puro , che non si potea afferrare coll' esperienza, diveniva anch' esso un' illusione trascendentale; 2 Era uscito dalla sfera dell' Io umano , perocchè la parola Io esprime un ente consapevole che pronuncia sè stesso, e quest' Io che pronuncia sè stesso, e che è l' umano, non sa nulla del compagno che gli si vuol dare, ma sa che egli non è questo. E questa seconda ragione essendo balenata finalmente agli occhi di Fichte, a cui anco doleva di vedersi considerato in Germania come un ateo, il condusse, come dicemmo, a sostituire Iddio al suo Io puro, dove aveva collocato l' assoluto. E questo fu l' addentellato a cui raggiunse Schelling la sua fabbrica. Ma accettando il Dio di Fichte, ricusò d' accettare la connessione che Fichte avea stabilito fra questo Dio e l' altre cose, la quale consisteva in dichiarare l' uomo nulla più che un cotale schema ideale di Dio. Fichte s' atteneva ancora con forza al principio dell' idealismo trascendentale che tutto l' essere si riduca al sapere, e che il sapere sia il solo generatore delle cose. Quindi l' uomo era per Fichte l' unica espressione e rivelazione del sapere divino, e la natura era ancora una cotal produzione apparente dell' uomo, che l' uomo opponeva a sè stesso, per poter pugnare con essa, e pugnando perfezionarsi. Ma in questo modo, secondo Schelling, non si rinveniva una sufficiente ragione dell' uomo e della natura; perchè non appariva come Iddio avesse potuto produrre una sua immagine che non avesse la natura di lui, e un mondo che fosse morto e non vivo e divino. La separazione dunque del mondo da Dio rimaneva così senza spiegazione. D' altra parte il Dio di Fichte era fuori della coscienza umana, e non si poteva intuire. Secondo Schelling adunque, per ispiegare le cose che sono ed appariscono, conveniva trovare un sistema nel quale si potesse « « appercepire il divino come l' unico vero reale, e appercepire l' unico vero reale come l' unico vero divino »(1) ». Quindi nacque quel sistema che fu intitolato dall' identità assoluta . La maniera dunque di ragionare di Schelling si riduce al seguente paralogismo: « Non si vede una via di spiegare come l' uomo e la natura (il mondo) sieno enti distinti dall' Essere Supremo. « Ma se si negasse questa distinzione, e si dicesse che tutte le cose s' indentificano in Dio, la filosofia sarebbe liberata dalla molestia d' una tale questione. « Conviene adunque stabilire un sistema d' identità assoluta , per mezzo del quale tutte le cose contingenti vengano identificate con Dio ». Ognuno sente quanto vi ha d' arbitrario e di falso in tale argomentazione. La filosofia dell' identità assoluta trae la sua origine dall' ignoranza, e dal pudore che sentono i filosofi a risolversi di confessarla. Ma l' ignoranza non è la miglior base che si possa dare ad un sistema. L' ufficio della filosofia è quello di sciogliere le questioni: ella manca al suo ufficio qualora, non sapendole risolvere, inventa un sistema apposta per escluderle, o per dir meglio inventa un sistema che prende per suo fondamento la supposizione che quelle difficoltà non esistano. Tale è il fatto di Schelling. Se si considera il lavoro di Schelling come una continuazione logica (1) di quella de' suoi predecessori (Kant e Fichte), si trova che egli aggiunse all' eredità da essi ricevuta (e per avventura senza benefizio d' inventario) quella parte che denominò « Filosofia della natura ». Ma egli pretese di più, che la filosofia della natura e la filosofia trascendentale , che fu la detta eredità, avessero il medesimo oggetto, cioè Dio con due diverse manifestazioni, che sono natura e spirito, essere e sapere . Già in queste due parole essere e sapere ravvisasi un mancamento, perchè sapere non è che l' atto di un essere, e però egli è appartenenza del soggetto. All' incontro sotto la categoria del sapere Schelling introduce le idee , come le idee fossero sapere, mentre esse altro non sono che mezzi ed oggetti del sapere. La confusione adunque del soggetto coll' oggetto ravvisasi per tutto negli scritti di Schelling come in quelli de' suoi maestri. Ma poniamo a dirittura sott' occhio al lettore in piccol quadro il disegno della Schellinghiana filosofia (a cui però l' autore stesso più tardi dovea aver rinunziato). Questo è il seguente: [...OMISSIS...] Questo disegno ha la più perfetta regolarità; è compassato a meraviglia. Ma per ciò appunto dee dar sospetto: chè difficilmente l' immensità dell' essere lasciasi misurare da poche menate del compasso dell' uomo. Conviene adunque riflettere sopra un sistema così delineato, e in parte colorito altresì dall' autore, quanto segue: I Mettendo da una parte la natura, l' universo reale , dall' altra l' universo ideale , non apparisce qual sia il nesso tra i due universi. Il nesso è formato dall' ente intellettivo , il quale appartiene all' universo reale, ma attigne le idee, o piuttosto le idee a lui si comunicano; e in questa comunicazione e congiunzione non istà già l' identificazione del reale coll' ideale , che sempre rimangon distinti; ma bensì l' unità de' due estremi, e dimostra come sieno intimamente congiunti senza confondersi. II L' universo è limitato: a ) nel numero e nella grandezza de' corpi; b ) nel numero e nelle doti degli enti intellettivi; c ) nella quantità di potenza e d' azione attuale di tali enti. Niuna ripugnanza vi ha a concepire che i corpi e gli esseri esistenti, invece d' esser quel numero che sono, fossero uno di più o uno di meno: niuna ripugnanza che le doti, la potenza e l' azione complessiva fosse maggiore o minore di quello che è. Convien dunque assegnare una ragione sufficiente di queste limitazioni. Ma se l' Universo s' identifica con Dio, questa ragione manca; perchè il concetto di Dio svanisce ogni qualvolta si pone in esso limitazione o potenza passiva. Iddio è così illimitato che è un assurdo pure il pensiero di dargli la facoltà di limitare sè stesso. Poichè il limitarsi per Iddio è il medesimo che per un altro essere l' annichilarsi. Questo è quello che prova la Teologia con evidenza. Vero è che Schelling dice che questi limiti sono apparenti; ma a ) Primieramente quando fossero anche apparenti, rimane sempre a dare una ragione sufficiente del perchè Iddio abbia bisogno o voglia di porre a sè stesso delle limitazioni apparenti; b ) Se le limitazioni di Dio sono apparenti, esse debbono apparire a qualche essere, perchè se non apparissero a qualche essere non sarebbero apparenti. Ma questo essere non può esser Dio stesso, perchè Iddio non può far apparire sè limitato a sè illimitato, troppo bene conoscendosi egli per prendersi in fallo. Esiste adunque un altro essere, oltre Iddio, a cui appariscono le limitazioni che Iddio pone a sè stesso. Ora quest' essere non può essere apparente, perchè sarebbe un discorso assurdo il dire che limitazioni apparenti appariscano ad un essere apparente. Di più, quest' essere non essendo Dio, ed essendo reale, egli è un essere limitato non apparente, ma reale. Non si possono adunque escludere gli enti realmente limitati; e non si può ridurre l' ente alle due categorie di Assoluto e di limitazioni apparenti; c ) Finalmente l' uomo, se sa qualche cosa di vero, sa certamente di non essere apparente, ma reale. Infatti, come si può accertarsi della realità se non mediante il sentimento e la ragione? Se niun sentimento vi avesse, niuna realità sarebbe concepibile. Se la ragione giunge raziocinando a pensare l' esistenza di un Essere supremo, infinito, assoluto, ella il fa per via d' un ragionamento, che ha materia e forma . Infatti ella non può asserire che esista un ente reale assoluto, se non sa prima che cosa sia un ente reale . Ma ella non potrebbe sapere che cosa sia un ente reale, che cosa sia esistere realmente, se non avesse sperimentata l' esistenza reale in sè stesso. Prendete via dall' uomo tutti affatto i sentimenti, non solo gli animali, ma ben anco gli spirituali, che cosa vi rimane? Non più certo un uomo, ma un stipite insensato. Questo non potrebbe mai sapere che cosa sia esistere, non potrebbe per conseguente ricevere l' idea dell' ente , perchè non può ricevere il lume di questa idea, chi non è un sentimento, che nulla affatto può sentire. E se è necessario, che chi riceve l' idea dell' essere sia un sentimento, è necessario di poi che applichi quest' idea al sentimento, quando ne vuol far uso, e non lasciarla del tutto oziosa e come un geroglifico privo d' interpretazione. Senza il sentimento adunque non vi ha il concetto di un ente reale, il sentimento somministra la materia di un tal concetto, e però la materia del raziocinio che si intuisce sopra di lui. Quando non manchi questa materia, allora si può con un ragionamento trovare l' esistenza di un essere assoluto, a ciò conducendoci la forma del ragionamento , alla qual forma appartiene il principio di assolutità . Se dunque il sentimento stesso si pone essere un' illusione, manca la base di un tale ragionamento, il quale non può più condurci che ad uno assoluto apparente, e non reale. O convien dunque rinunciare alla dottrina dell' assoluto, o conviene ammettere che reale sia il sentimento; perchè niun' altra realità è a noi immediatamente conosciuta fuor di quella che nel sentimento abbiamo, o che mediatamente da questo induciamo. Che se il sentimento , che ha l' uomo individuo, è un ente reale, dunque esistono realmente degli enti limitati , e questi non sono mere apparenze, ossia limitazioni apparenti dell' ente assoluto. III Quando Schelling chiama natura il principio di ogni essere, la denominazione non avrebbe inconveniente, quando egli riserbasse tale parola a indicare la natura divina, e non l' adoperasse poi a significare l' universo qual è, materiale e spirituale, limitato, ch' egli denomina anche «to moron tu theu». IV Quando aggiunge che la natura, separata dalla ragione , non è veramente, egli direbbe vero, se intendesse dire che « senza l' idea le cose nè si possono produrre, nè si possono pensare, e però non sono »: onde non si pensano divise dall' idea ed essenti per sè, se non in virtù d' astrazione solamente. Nè pure avrebbe errato, se raffrontando le cose reali colle loro essenze ideali ne avesse predicata l' identità d' essenza. Ma avrebbe dovuto fermarsi qui. Invece egli non s' è accontato, che, se l' essenza della cosa reale è quella appunto che trovasi nella sua idea, l' essenza ideale non di meno differisce dal suo realizzamento ne' contingenti, e in nessuna maniera v' ha identità fra il reale e la sua essenza ideale. Tutto ciò che v' ha fra queste due cose, si è congiunzione nell' essere intellettivo che percepisce il reale: perocchè nella percezione si unisce individualmente il reale colla sua essenza ideale, e da questa congiunzione nasce l' individuo conosciuto , che non è già puramente la cosa quale si pensa per astrazione fuori della mente e divisa dall' idea. Poteva altresì dire che ciò che esiste veramente è solo l' individuo conosciuto; ma poi analizzando quest' individuo avrebbe trovato che in esso vi ha: 1 un elemento reale; 2 un elemento ideale; e che entrambi questi elementi sono veramente; benchè non sarebbero se non vi avesse una mente (per es., la mente divina) che li concepisce. Il che non è già confondere o immedesimare la mente con essi; ma è unicamente dichiarare una mente , un soggetto intellettivo, qual condizione ontologica della loro esistenza; e così assegnare un nuovo caso di quel sintesismo che da per tutto s' incontra. V Quindi troppo vagamente ed erroneamente Schelling pose l' assoluto nel punto d' indifferenza tra gli opposti . Vagamente, perchè non indica con precisione quanti sieno questi opposti, quando avrebbe dovuto con costanza stabilire per opposti il reale e l' ideale . Erroneamente, perchè, se vi avesse un assoluto che fosse un punto di indifferenza tra il reale e l' ideale , egli non sarebbe nè reale nè ideale, come già osservai parlando di Fichte: e però, lungi da esser perfetto, sarebbe imperfettissimo; lungi da esser Dio, sarebbe la materia prima degli antichi , che svanendo in nulla dà luogo al nullismo cavatone poscia espressamente da Hegel. All' incontro avrebbe dovuto trovare un assoluto nel quale l' ideale e il reale fossero alzati alla maggior potenza, senza mai confondersi se non nell' essere , rimanendo distinti nelle forme o modi. Perciocchè in tal modo l' assoluto, non solo avrebbe avuta tutta la perfezione e la pienezza dell' esistenza, esistendo in tutti i modi; ma avrebbe avuto da una parte l' unità perfetta nell' identità dell' essere, dall' altra un ordine interiore, un organismo idoneo a spiegare come possa essere attivo e fonte di moltiplicità, giacchè nell' assoluto dee trovarsi altresì la massima attività, la massima vita, la cagione intrinseca del movimento. Nel punto d' indifferenza all' incontro non v' ha ragione che spieghi perchè cessi d' essere indifferente, e lasci così la propria natura, e come possa far ciò quando egli è costituito essenzialmente da una piena e semplice indifferenza. Il dire, come fa Schelling, che « « l' assoluta identità pone sè stessa infinitamente come soggetto e come oggetto, perchè senza di ciò non può conoscere sè stessa infinitamente » », lungi dallo spiegar cosa alcuna, complica maggiormente le difficoltà. Perocchè, se l' assoluto, chiamato dal filosofo nostro assoluta identità , consiste nel punto d' indifferenza anteriore all' origine del soggetto e dell' oggetto, come mai quel punto può aver bisogno, per conoscersi, di perdere la sua indifferenza ponendosi come soggetto e come oggetto? Ha dunque bisogno di cessare di essere, per conoscersi? Come punto d' indifferenza è assoluto: e quest' assoluto è così ignorante che non conosce sè stesso? ed ha bisogno di cercarsi fuori di sè, e per trovarsi ha bisogno di porsi colla differenza di oggeta totalità? Fuori della totalità vi è qualche cosa? E si tratta di un fuori , come un corpo è fuori di un altro, o come l' idea è fuori della mente, o come un' idea è fuori di un' altra idea? Perchè dichiarazioni così rilevanti sono omesse da cotesti filosofi? Ad ogni modo, se la totalità è l' assoluto, ciò che riman fuori dell' assoluto non si vede come possa far conoscere l' assoluto a sè stesso. L' assoluto si cercherebbe in tal caso per conoscersi dov' ei non sarebbe più. VI Oltracciò il punto d' indifferenza , anteriore al soggetto e all' oggetto, nel quale Schelling sulle traccie di Fichte collocò l' assoluto, non può avere identità al soggetto ed all' oggetto, perocchè ciò che è essenzialmente indifferente non può identificarsi con ciò che è essenzialmente differente. VII Di più, il punto d' indifferenza non può essere nè concepirsi se non per via d' astrazione che fa la mente. Ma un astratto non può esser mai l' assoluto. Oltre di che questo astratto è piuttosto un astratto falso e chimerico che vero, perchè, tolta via la distinzione dell' oggetto e del soggetto, non rimane propriamente nella mente qualche cosa d' indifferente, ma il nulla; che si considera indifferente in senso al tutto negativo, unicamente perchè il nulla non può aver differenza come non può aver proprietà perchè è nulla. Quindi di nuovo hassi il nullismo. VIII Essendo però impossibile il non vedere che il punto d' indifferenza non può sussistere come tale, Schelling si buttò a dire che « « l' identità assoluta esiste solo come universo »(1) »; quasi che l' universo fosse il modo di esistere di Dio: onde il panteismo di cui fu accusato. Ma se l' identità assoluta esiste solo come universo, l' assoluto non esiste adunque più come punto d' indifferenza . A questo mancamento, credette il filosofo nostro poter soccorrere distinguendo nell' universo la totalità dalle singole parti; e disse che nella totalità vi aveva indifferenza. Ma anche qui si gioca d' astrazioni. Perocchè la totalità dell' universo non è che un essere della mente, la qual considera il complesso degli enti coll' idea astratta di tutto . Acciocchè al tutto , ossia alla totalità , sottostesse un valore reale, converrebbe dimostrare che sussista qualche cosa che di tutte le parti dell' universo forma realmente un ente solo il quale dà a ciascuno tutto ciò che esso ha, e però è identico con ciascuna. E benchè anche questo dica lo Schelling, tuttavia non mostra mica nè qual sia questo ente, nè che sia uno; ma si contenta di appellarlo ora identità assoluta , ora punto d' indifferenza , ora totalità; le quali son parole e non più. Soggiunge che se l' identità assoluta, per sussistere, dee porre sè stessa qual universo, s' incorrono tutte le difficoltà che v' hanno a concepire come un ente dia l' esistenza a sè stesso, le quali abbiamo esposte parlando di Fichte. IX Ma la manchevolezza di questo sistema appare più palese, più che il suo autore, uscendo dall' oscurità e dall' ambiguità de' principii generali, discende ad applicarlo alla spiegazione de' fatti. Come vedemmo egli distingue due universi: quello dell' essere e del sapere (onde le due filosofie della Natura e dell' Idealismo ); che però non sono che due astrazioni, secondo lui stesso, giacchè non esistono in vero se non identificati. Per altro volendo egli spiegare tutti i fatti, avrebbe dovuto incominciare appunto da questo dell' astrazione: definendo prima questa operazione maravigliosa (benchè dalle definizioni mostrano d' abborrire per lo più i filosofi trascendentali come il can rabbioso dall' acqua); e di poi dando ragione di questa potenza capace di dividere un identico universo in due, tanto distinti quant' è la materia bruta dall' idea. X Quando poi egli prende a descrivere i fatti che intende spiegare nell' universo dell' essere, che è ciò che chiama « Filosofia della Natura », non solo non agguaglia la grandezza dell' argomento, ma scade da ogni dignità filosofica. Perocchè sono vere inezie quelle che di frequente egli dice, anzi che dotte sentenze. Non è ella un' antica inezia lo spiegare la rotondità de' corpi celesti perchè la figura sferica è la più perfetta? e il collocare la ragione del rotar de' pianeti intorno al sole nel bisogno che sentono (essendo animati) di unità? Sapete perchè il sole mostra sul suo disco alcune macchie? Il filosofo vi dice seriamente che quelle macchie sono assolutamente necessarie , mostrando esse che il sole è subordinato ad un sistema stellare superiore! Volete sapere la definizione del magnetismo, dell' elettricità e del chimismo? [...OMISSIS...] Quindi le tre dimensioni de' corpi, quindi i tre processi della natura. Le tre potenze della natura sono la gravità , che è potenza di primo grado e produttrice della materia; la luce potenza di secondo grado, onde il moto e la forza; la vita potenza di terzo grado, onde l' organismo e l' uomo stesso. Egli condanna Fichte per aver tratto l' universo dall' Io, e invece fa uscire l' Io dall' universo come un prodotto. Udite con che audacia ed ignoranza favella: [...OMISSIS...] . Sarebbe un perdere il tempo il ripetere tutte le frivolezze di cui questo filosofo empisce il suo libro intitolato: « Idee sulla natura ». XI A tre pure riduce le potenze (1) del mondo ideale che sono: verità, bontà e bellezza . Ora primieramente non s' intende come la bellezza debba essere una potenza più elevata della bontà , quasichè le arti belle, che spettano alla bellezza, sieno qualche cosa di più della moralità e della religione che il nostro filosofo riduce alla bontà. D' altra parte la verità e la bellezza sono oggetti dell' intelligenza che le intuisce e fruisce, quando la bontà è una qualità soggettiva, non essendo che la perfezione del soggetto intellettivo7morale. Onde, se i due primi appartengono al mondo ideale , la bontà appartiene al mondo reale in quanto si perfeziona colla sua adesione all' ideale. Questa confusione tra il mondo reale e l' ideale accade al nostro filosofo pel materialismo di cui va infetta la sua « Filosofia della Natura ». Perocchè la natura fu ridotta da questo filosofo ai soli fenomeni materiali, e non conosce punto che v' ha un reale spirituale , che non appartiene già al mondo delle idee, ma nè pure a quello della materia. All' incontro Schelling considera le anime e gli spiriti come altrettante idee viventi, senza accorgersi che l' idea è essenzialmente oggetto e solo oggetto, e lo spirito è il suo opposto che intuisce l' idea, ma non può essere in alcun modo l' idea. XII A cagione dello stesso errore fondamentale egli disse che lo sviluppo delle potenze reali porge il sistema cosmico dei prodotti necessari della natura, mentre avrebbe dovuto annoverare tra le potenze reali anche le potenze spirituali e libere. All' incontro disse che « « lo sviluppo delle potenze ideali dà la storia dell' umana libertà in tutto il genere umano » »; mentre potenze ideali, nel senso comune della potenza, non ve n' hanno, spettando le potenze a' soggetti reali e non alle idee. Nè alle idee o al loro sviluppo (quantunque le idee non abbiano un loro proprio sviluppo) appartiene la libertà (dell' uomo) che è potenza reale d' un soggetto reale, e non ideale, quale è l' uomo. Onde l' apparente regolarità e simmetria ond' egli compartì le varie parti della sua filosofia ricade troppo a scapito della verità, di che ci dava sospetto pure al primo sguardarla. Questo filosofo adunque, col suo sistema dell' identità assoluta, tolse in fatto le categorie dalla filosofia come inesplicabili; il che in sostanza aveano fatto pure i suoi maestri. Non potendosi però negare che le categorie appariscano, le dovettero ammettere come illusioni trascendentali: ed egli tre ne diede al mondo della natura , cioè la gravità , la luce e la vita; tre al mondo delle idee , nel quale confuse gli spiriti, cioè la verità , la bontà , la bellezza . Ora questa divisione dell' ente è al tutto inetta, e appena degna d' essere confutata. La gravità nè è un ente, nè la proprietà di un ente, ma una semplice legge , cioè un fatto costante. La luce è un corpo di cui non si conosce ancora la natura; e se si piglia come stimolo del sensorio ottico, è una denominazione che può appartenere a qualunque altra causa atta ad eccitare nell' organo della visione i movimenti sensorii. La vita si prende in diversi significati (1). Applicata al corpo, è una sua modificazione che lo rende atto ad esser sentito immediatamente e sensorio: applicata al principio senziente, consiste nel sentimento che lo costituisce. Non v' ha dunque ordine in questa classificazione, nè ella abbraccia nè pure tutto ciò che appartiene alla natura corporea. La verità , la bellezza , non sono che relazioni che hanno le idee cogli spiriti dotati d' intelletto e di sentimento intellettivo; la bontà è la perfezione delli spiriti stessi. Gli spiriti stessi rimangono adunque esclusi da tali categorie. Come Fichte s' era avveduto dell' insufficienza del suo primo sistema, così Schelling si trovò mal pago del suo, e lo abbandonò. Le opinioni filosofiche tuttavia ultimamente manifestate a Berlino dimostrano ch' egli non ha ancor digerito il principio degl' idealisti, che l' intelligenza e il mondo esterno sieno così dissociati che la prima non possa dimostrare l' esistenza del secondo. Quindi divise la Filosofia in negativa , che considerò come un trovato della ragione, e in positiva che attribuì all' esperienza. Or l' attribuire all' esperienza de' sensi una filosofia, quasi potesse avervi una cognizione meramente sensibile senza l' intervento della ragione, è quel peccato di sensismo che guasta tutta la filosofia, e specialmente la germanica «( Psicol. 29 7 33) ». Ma udiamo onde trae la partizione delle due filosofie. Richiamando la distinzione degli Scolastici tra la questione quid est , e la questione quod est , viene a dire tra « qual sia l' essenza d' una cosa », e « se la cosa sussista » «( Sistema filosofico , 1. 7 42) », Schelling attribuisce alla ragione la prima questione, all' esperienza la seconda. Quindi, secondo lui, la Filosofia della ragione, ch' egli chiama negativa, si limita a far conoscere le essenze delle cose, senza poter giammai decidere se niuna cosa realmente sussista. All' incontro la Filosofia dell' esperienza, ch' ei chiama positiva, suppone le cose sussistenti e tratta di esse. La prima dunque non esce dal mondo ideale, dal mondo de' possibili (1); la seconda sola ha per oggetto il mondo reale. La Filosofia negativa adunque di Schelling si riduce ad una Ideologia . Ma impropriamente le attribuisce l' epiteto di negativa , perocchè l' Ideologia non nega, benchè nè meno afferma il reale; ma il reale rimane fuori della sua sfera. Affine che si possa dare il titolo di negativa ad una dottrina, conviene che ella contenga una negazione . Perciò si dicono concetti negativi quelli con che vogliamo far conoscere cosa sussistente per via d' analogia , giacchè l' analogia non ha valore se non unita ad una negazione. Quando il cieco procaccia di distinguere i sette colori di cui vuole parlare, per l' analogia che aver possono co' suoni, egli non può avere un concetto verace se in pari tempo non neghi a sè stesso che i colori sieno i suoni. La necessità dunque d' una negazione a fare che un dato concetto non inganni nella sua applicazione è ciò che induce a dargli l' applicazione di negativo . Ma l' idea non affermando nulla di reale, ma solo facendo conoscere il possibile , è scevra da ogni negazione, nè ha bisogno d' essere rettificata con questa per non riuscire ingannevole. Quindi non le si addice il titolo di negativa, benchè nè pur quello di positiva. Ciò che dice ora Schelling che la Filosofia della ragione non tratta che del solo mondo ideale, ossia di possibili, può pigliarsi altresì come una interpretazione o modificazione del suo precedente sistema dell' identità assoluta . Ma tutto questo sistema diverrebbe con ciò stesso sterile, perchè si acchiuderebbe nel mondo ideale, senza che egli si permetta di spingere un solo passo fuori del possibile: ond' egli non potrebbe dare alcuna ragione sufficiente, nè della coscienza, nè dell' esperienza, nè delle operazioni del pensiero, nè dell' universo materiale; perchè tutte queste cose appartengono al mondo reale. Quindi Schelling tratta ora di tutte queste cose a parte, cioè nella Filosofia positiva , la quale si limita a credere all' esperienza, senza cercare di essa alcun fondamento razionale. Questa via positiva ed empirica è quella che ora preferisce e a cui più si applica. Noi non ci allungheremo dimostrando quanto sia erroneo e dannoso questo divorzio della ragione colla natura, questa bipartizione della scienza, che abbraccia ad un tempo i due errori dell' idealismo e del materialismo; perchè ciò risulta da tutto ciò che abbiamo scritto di filosofia. In quella vece noteremo l' abuso d' astrazione come il fonte principale delle filosofie tedesche, con un esempio tolto dalla Filosofia della ragione di Schelling, com' egli di presente la espone nelle lezioni che dà a Berlino. Se l' uomo coll' astrazione distingue solamente gli elementi che si contengono in una data idea, senza pigliarli per enti che stanno da sè, egli non abusa di tale operazione. Acciocchè adunque non cada abuso in astrarre si richiedono due condizioni: 1 Che l' astrazione distingua i veri elementi che presenta una idea; 2 Che ella non li prenda per altro se non per quello che sono, cioè per elementi, e non per enti ideali stanti da sè. Vi ha dunque abuso: 1 Se si pretende di trovare in un' idea elementi che non sono tali; 2 Se si pretende che quelli che sono meri elementi, sieno enti ideali stanti per sè. Nella filosofia germanica s' incontra l' uno e l' altro abuso. Ma noi vogliamo segnalare il primo, come il più pernicioso e il più sottile a sottrarsi dall' attenzione. Acciocchè ciò che distingue l' astrazione in un' idea sia un elemento della medesima, egli dee essere veramente distinto dagli altri elementi e così distinto dee potersi concepire. Ora accade che i filosofi tedeschi, e specialmente gli Hegeliani, considerano per elemento quello che non è tale perchè non si può idealmente distinguerlo neppure col pensiero dentro l' idea, onde altro non è che un loro creato, una finzione della loro attivissima immaginazione filosofica. L' esempio che addurrò chiarirà meglio la cosa. Esponendo Schelling la sua Filosofia negativa, viene discorrendo così: [...OMISSIS...] . Intanto è un ragionamento evidentemente falso il dire che la ragione essendo potenza anche quel che contiene sarà potenziale. Poichè, se s' intende che la ragione sia in potenza a conoscere e non in atto, in tal caso ella nulla ancora conosce, nulla contiene; e però non si può dire come sarà il suo oggetto. L' oggetto non è fino che non è l' atto che l' intuisce; e l' oggetto proprio dell' atto è l' identico oggetto della potenza: dunque la ragione per essere in potenza, anzi che in atto, non influisce sul suo oggetto, nol costituisce in potenza anzi che in atto. Di poi è una contraddizione il considerare la ragione come una mera potenza senz' atto, e tuttavia definirla « l' infinita potenza di conoscere »; perocchè ciò che è in potenza non è mai infinito; nè ciò che è infinito può essere divenuto tale con un passaggio dallo stato di potenza a quello di atto; ma dee essere in atto fin sul principio. Perocchè dallo stato di potenza allo stato d' infinito atto ci ha una distanza infinita, e una distanza infinita non può essere trascorsa da nessun movimento. In terzo luogo « l' infinita potenza di essere »è un concetto assurdo. Perocchè questa potenza è qualche cosa, o nulla. Se è nulla, non è potenza. Se è qualche cosa, è già essere in atto. Dunque non si può concepire « una pura potenza infinita di essere »; e quand' anco non fosse infinita, la potenza non si può concepire senza un atto. Convien dunque che v' abbia prima un atto, cioè un essere in atto, acciocchè vi abbia la potenza di essere. Ed ecco già qui comincia a manifestarsi l' abuso d' astrazione, di cui parlavamo. Perocchè si pretende la potenza di essere come cosa che possa stare da sè senza atto. Ma, così divisa dall' atto « la potenza di essere », nè pure è un vero astratto, perchè così divisa non si può conoscere. Di più « il poter essere »ha due significati che vogliam distinguere. Perocchè significa tanto un poter essere logicamente considerato, come un poter essere considerato fisicamente. La possibilità logica dell' essere segna l' essenza di un essere che non involge contraddizione. Ma l' essenza , come essenza, non è in potenza ma in atto; e dicesi in potenza solamente considerandosi rispetto alla sua realizzazione non racchiusa nell' essenza. Onde di nuovo l' atto dell' essere non manca. La possibilità fisica importa di più la cognizione d' una causa reale atta a realizzare quest' essenza; e questa causa è di nuovo un essere in atto . Dunque è impossibile, che oggetto della ragione sia unicamente il poter essere; ma anzi convien che sia un atto dell' essere (l' atto dell' essenza, l' idea) nel quale si pensi la possibilità della sua realizzazione, ciò che è il poter essere. Ora tutta la Filosofia di Schelling e di Hegel non è che un edifizio innalzato sul fracido fondamento di questo falso ed assurdo astratto di un « mero poter essere », che si suppone gratuitamente dover precedere all' essere; perchè, illudendosi, si crede di poterlo trovare coll' astrazione antecedente a tutto. Ma l' astrazione, come dicemmo, non dà ciò veramente; ma è l' abuso dell' astrazione, cioè l' immaginazione, quella che non già trova analizzando, ma finge ed inventa così una creatura vuota di verità, aiutandosi a segnarla con vocaboli che altro non danno che un non7senso. Infatti Schelling continua a ragionare su questo falso astratto così: « La potenza adunque di essere è anteriore all' essere. Fino che si considera come potenza anteriore all' essere, ella può passare all' essere e non passare, e perciò è padrona di sè, ha il dominio sull' essere, è libera. Ma quando ella è passata all' essere, e l' essere è posto, ella ha perduto la sua libertà, ed è in potere dell' essere stesso. Or quest' essere privo di padronanza, privo del dominio dell' essere, non è spirito nè concetto; perchè spirito significa padronanza, e signoria dell' essere. Nella natura tutto è già posto, tutto ha la sua forma. Ma è facile di vedere che dee aver preceduto, qual materia , un essere cieco, e indeterminato, ossia infinito ». Così da un falso astratto argomenta ad un altro falso astratto , perviene alla materia prima degli antichi; alla quale, con una contraddizione in cui gli antichi non caddero, dà ad un tempo l' esser cieco all' esser libero; confondendo l' essere indeterminato, che è un' imperfezione, coll' esser libero che è una perfezione; e l' essere indefinito , che è un' imperfezione, coll' essere infinito che è una perfezione. Egli è chiaro che mediante ragionamenti di simil fatta si può pervenire a qualunque mostruoso assurdo; e questo è quello di cui si gloria la filosofia di Hegel, che non è infatti che la raccolta di tutti gli assurdi più ridicoli vestiti del più baldanzoso paludamento filosofico (1). Kant, Fichte, e Schelling ed Hegel non formano che una stessa scuola di sofisti, assai simili a quelli della Grecia, di cui Kant è il fondatore (2). I dati erronei ed arbitrari da cui partono e che noi abbiamo esposti, sono sempre i medesimi; ma ciascuno volendo essere originale ed unico signore del campo, deprime il suo predecessore, appropriandosi le sentenze e disponendole con altra simmetria. La critica che Hegel fa a Kant è quella che gli avea fatto Fichte: l' essersi quel filosofo contentato di chiuder l' uomo nelle forme soggettive e nelle illusioni trascendentali, senza dichiarare impossibile l' esistenza delle cose esterne e di Dio, benchè non accessibile alla ragione, ed aver quindi lasciata nella filosofia una dualità. Fichte, secondo Hegel, non fece altro che unire il desiderio , l' aspirazione istintiva a Dio di Jacobi, colla vuota oggettività del pensiero di Kant. Egli censura il primo, perchè questa unione resta sempre in un dover essere, senza che possa mai passare nel fatto. Infatti « l' Io puro, secondo Fichte, deve sempre porsi in un modo compiuto, assolutamente, travasandosi tutto nell' Io empirico, senza che possa mai venirne a capo, benchè a ciò s' affatichi all' infinito »: onde pone nella perfettibilità indefinita l' umana destinazione. Questo in Fichte rimaneva un mero postulato che doveva essere tolto per arrivare alla verità speculativa. Così in Fichte il pensare , urtando nell' infinito, trovava un limite insuperabile, e non si poteva costituire come assoluto principio della verità. Ora, senza considerare il pensare speculativo come questo assoluto principio di ogni verità, non pervenendosi all' assoluto, si rimane nel relativo: di che Hegel chiama la filosofia fichtiana una mera fenomenologia del pensare. Era in sostanza la critica stessa che gli avea fatta Schelling. Questi filosofi pretendevano di dover pervenire all' assoluto colla pura speculazione, e pretendevano che trovato l' assoluto non solo fossero spiegati tutti i misteri, ma ben anco lo stesso universo che doveva uscire dal pensare come i miti dell' antichità lo fecero uscire dall' uomo. Ma essi non davano però alcuna ragione del perchè la dovesse andar così, nè mostravano le loro credenziali che li dichiarassero atti ad eseguire tale e tanta promessa (che involge in sè stessa più assurdi). Intanto il principio di doversi cavare ogni cosa dal pensiero, era dovuto a Fichte, a cui l' avea suggerito la filosofia di Kant; e Schelling ed Hegel in sostanza non fecero che un tentativo di svolgere quel principio più logicamente, com' essi almeno si diedero a credere. Rixner (1) dice che lo scopo di Hegel non è altro che di formare della dottrina dell' idealità assoluta di Schelling una scienza atta ad essere insegnata metodicamente. Infatti è difficile trovare in Hegel qualche cosa di nuovo, eccetto che parole e cavillazioni a grande stento filate. L' unica cosa forse, in cui si dipartì dal suo maestro, si fu che sostenne non doversi cominciare dall' intuizione dell' assoluto ( Anschaung ) che Schelling poneva, chiamandola una « premessa insussistente »; e mantenne, che il principio del filosofare si dovesse prendere dal puro pensare , dove egli pretende trovare l' identità dell' ideale e del reale, e doversene cavare ogni cosa; il che veramente è conseguente all' errore fondamentale dell' idealismo: e perciò lo semplifica e perfeziona, rendendolo, se mi lice parlar così, un errore assoluto . Hegel adunque pretese di sollevarsi sopra il punto culminante della filosofia di Fichte, l' Io puro , per le ragioni che adduce nella lunga discussione che premette al libro I della sua Logica intorno alla questione [...OMISSIS...] ; le quali parole voglion dire che non si può ridurre ogni cosa all' Io , come voleva Fichte, perchè nel concetto dell' Io s' acchiude la relazione con un oggetto che rimane diverso dall' Io; quando conviene pur cominciare da ciò che non supponga esistere nulla di diverso da sè. Questa critica in sostanza era quella stessa che aveva fatta Schelling al suo maestro, quando aveva biasimato che nel sistema di Fichte il mondo materiale si rimanesse come cosa morta fuori dell' Io puro . Onde pretese di levarsi ad un punto più elevato di Fichte, sostituendo all' Io puro , l' intuizione dell' assoluta identità . Ma Hegel volle mettersi al di sopra di Schelling trovando un altro punto di partenza ancora più eminente, e però rigettò l' intuizione Schellinghiana dell' assoluto, perocchè in questa intuizione dell' assoluto già vi hanno due cose, cioè: 1 intuizione, 2 assoluto; onde Hegel, sostenendo che si dee cominciare dal semplice e trovare poi in esso ogni cosa, fece dell' intuizione e dell' assoluto una cosa stessa, che denominò puro , o vuoto, pensare , che chiamò l' immediato , o la stessa immediatezza . Il perchè disse che [...OMISSIS...] , come accade nell' intuizione a cui si vuol ridurre la riflessione, quasi facendola retrocedere. Così sottilizzando, stabilisce per vero immediato cominciamento del sapere il puro sapere , vuoto d' ogni contenuto, e crede di esser andato con ciò più su di tutti i suoi predecessori, e di quanti hanno prima di lui filosofato. Il perchè, a quella maniera che Schelling alla « Filosofia trascendentale » di Fichte aggiunse una seconda parte intitolandola « Filosofia della natura »; così Hegel alle due dottrine di Schelling ne aggiunse una terza, intitolandola « Logica ». Di che riuscì la dottrina hegeliana tripartita in questo modo: [...OMISSIS...] . Benchè noi non intendiamo qui entrare in un esame circonstanziato del sistema di Hegel, come facemmo di quello de' suoi maestri: parte perchè ciò che abbiam detto a loro riguardo vale in buona parte anche per lui; parte perchè ci bisognerà discuterlo altrove dove favelleremo della dialettica (1); tuttavia qui dobbiamo esporre l' errore fondamentale di tutto il suo sistema, il quale conosciuto, potremo fare giusta stima della partizione hegeliana dell' ente, scopo di questo libro. L' errore fondamentale adunque del nostro filosofo consiste nell' aver confuso il VERBO coll' IDEA, di aver cioè di queste due cose fattane una sola, a cui appartenessero indistintamente gli attributi dell' una e dell' altra. Dichiariamoci. La distinzione importantissima tra il verbo della mente e l' idea fu da noi esposta nel « Nuovo Saggio »: io prego il lettore di averla ben presente (2). Quando io penso l' essenza di un ente, per esempio, l' essenza dell' uomo, che cosa è presente alla mia mente? L' uomo. L' uomo, senza più, presente alla mia mente è l' umana essenza. Quest' essenza, in quanto è intuìta dalla mente, si chiama idea . L' essenza dell' uomo è l' uomo possibile: ma non si dee mica credere che quando la mente intuisce l' essenza dell' uomo, ella vi aggiunga contemporaneamente il concetto di possibilità . No: questo concetto è posteriore; la possibilità, come ho spiegato più volte, è una mera relazione dell' essenza, che è trovata ben presto dalla mente, ma che non è compresa nel primo intuito. Onde si suol dire con verità che l' idea fa conoscere l' uomo possibile , ma a condizione che si intenda così che ella fa conoscere l' uomo, il quale posteriormente si riconosce colla riflessione aver la relazione di possibilità, benchè questa possibilità a principio, come dicevo, non soggiaccia all' intuito. Io non so capire come, essendomi spiegato su ciò tante volte e così chiaramente, tuttavia ancora si continui ad attribuirmi, come fa tra gli altri il signor abate Gioberti, che io ammetto per oggetto dell' intuito il meno possibile (1): ancor peggio poi si fraintende e si altera ciò che io dico quando mi si imputa di ammettere un' idea possibile . Fra le altre male intelligenze e logomachie del sig. abate Gioberti vi ha quella che egli confonde l' attualità colla realità . Egli inveisce contro di me perchè dico che l' idea non è un reale, e argomenta che « l' ideale non può concepirsi senza che abbia qualche realità ». Ma intendiamoci sul valore delle parole. Il suo argomento varrebbe, se per realità s' intendesse attualità , giacchè è certamente giusto questo argomento: « Il possibile non può concepirsi senza qualche attualità ». Ma, lungi che io neghi l' attualità all' essere ideale, dico anzi ch' egli è la prima attualità (2). Infatti, se è l' essenza , dee per conseguenza esser la prima attualità degli enti. All' incontro nego che l' ideale sia reale , perchè la parola reale si adopera appunto a significare un modo d' esistere opposto al modo ideale; onde, chi dicesse che l' ideale fosse reale , confonderebbe due concetti opposti, e direbbe un manifesto assurdo allo stesso modo di colui che dicesse che il nero è bianco, o che l' accidente è sostanza (3). L' idea pura adunque non contiene nulla di reale , venendo escluso il reale dalla stessa parola idea . L' intuizione è l' atto con cui lo spirito contempla l' essenza pura della cosa; ed appunto perchè l' intuizione è l' atto dello spirito, essa è reale; giacchè ogni azione di cosa reale è reale. Ma l' essenza pura è l' oggetto di quest' atto, ed altro non è, se non « l' ente in quanto è conoscibile ». Le espressioni che s' usano: « l' ente ideale è nella mente, l' ente ideale è presente alla mente, ecc. », non si debbono intendere materialmente, quasi che l' ente ideale fosse nella mente come l' acqua è in un vaso, o fosse presente alla mente come un corpo è presente agli occhi per la vicinanza dello spazio; ma esse non valgono che come pure sinonimie di questa espressione propria: « l' ente ideale è conosciuto dalla mente ». Conoscer l' essere ideale, ossia l' essenza mera dell' ente , si esprime colla parola propria intuire . In questa pura cognizione la mente contempla, ma non pronuncia cos' alcuna; perocchè il pronunciare è un atto posteriore a quello dell' intuire ; giacchè non si può pronunciare nulla di ciò che non si ha prima almeno intuìto. Pronunciare qualche cosa dell' ente intuìto, è giudicare, è fare quell' atto che si chiama verbo della mente. Il verbo della mente è dunque quella parola interiore che dice la mente in conseguenza dell' ente intuìto: è dunque una operazione della mente essenzialmente posteriore all' intuizione. Ora, posciachè pronunciare non si può senza pronunciar qualche cosa di qualche cosa: dunque il verbo della mente ha di bisogno di avere nel suo termine una duplicità. L' essenza è semplicissima: l' intuizione adunque dello spirito ha un termine unico dove riposa: il verbo invece, la parola interiore , non potrebbe essere proferito dallo spirito, se non vi avesse un modo di introdurre la pluralità nel termine del suo atto. Questa pluralità può comparire in due modi: 1 Coi sensibili comunicati a noi nel nostro sentimento; 2 Coll' analisi dell' essenza e delle sue relazioni. Ma questo secondo modo ha luogo solo posteriormente al primo: per esempio, quando la mente pronuncia che « l' essenza umana è possibile d' essere realizzata »ha moltiplicato il suo termine coll' analisi dell' essenza umana. Ma si badi. Ella ha trovato una relazione tra l' essenza umana e il concetto della sua realizzazione . V' ha dunque in questo pronunciamento una triplicità: 1 l' essenza; 2 il concetto di realizzazione; 3 la relazione di possibilità, per la quale si giudica che l' essenza possa essere realizzata. Ora, acciocchè lo spirito possa pronunciare questo giudizio, possa dire questa parola, è necessario prima di tutto ch' egli ritrovi la realità, e questa realità non gli è data che nel sentimento. Acciocchè dunque la mente possa venire a dire qualche parola interiore, a pronunciare un giudizio qualsiasi, è condizione necessaria che le sia dato, prima di tutto, il sensibile. Dunque in nessuna maniera è possibile confondere l' intuizione col verbo della mente: quella essendo semplicissima ed una, questo esigendo pluralità acciocchè possa aver luogo. Schelling confuse l' intuizione col verbo della mente, dando all' uomo questo invece di quella. Per accorgersene basta osservare, che l' oggetto dell' intuizione Schellinghiana è l' identità assoluta che egli esprime colla formola A .uguale . A, chiamando l' uno degli A predicato , l' altro soggetto . Dunque quest' oggetto è molteplice. Infatti la cognizione dell' identità non può essere data che per un giudizio. Ma eglino sono veri e innegabili questi fatti: 1 Che nella semplice intuizione d' un' idea, d' un' essenza, non cade nè pluralità, nè giudizio; 2 Che non è punto cosa assurda questa intuizione semplice; 3 Ch' essa nell' ordine logico precede ogni giudizio; 4 Che il giudizio non può essere innato nell' uomo, perchè egli è un' operazione che contiene un movimento, un discorso che trapassa da un' idea in un' altra; e un movimento intellettuale è bensì atto del soggetto esistente, ma non già una disposizione stabile che possa essere innata; 5 Che a spiegare le operazioni dell' umano intendimento basta che si trovi innata nell' uomo l' intuizione semplice e immanente dell' essenza dell' essere senza più. Il solo fatto psicologico ed innegabile, che per l' uomo sono due operazioni distinte l' intuizione dell' essenza e il giudizio , basta a doverci convincere che l' intuizione precede il giudizio; e che quindi l' umano conoscimento non comincia da un verbo , ma da una idea intuìta . Schelling, attribuendo all' uomo un verbo primitivo sotto il nome d' intuizione, invece d' una vera intuizione diede all' uomo quello che è proprio di Dio, nel quale le idee non sono distinte dal suo Verbo pel quale solo tutto conosce, che anzi non sono propriamente idee l' una dall' altra realmente distinte, ma sono relazioni conseguenti al suo Verbo nel modo che altrove abbiamo esposto (1). Ma per l' uomo le idee sono separate dal verbo, e l' una dall' altra è separata e distinta; e però esse precedono logicamente al verbo umano e non al divino. Questo primo errore di Schelling fu il primo passo che lo travolse al panteismo. Ma all' errore di Schelling ne aggiunse Hegel uno assai maggiore. Quegli avea confusa l' intuizione col verbo della mente: errore gravissimo; ma finalmente tanto l' intuizione quanto il verbo sono due operazioni soggettive, cioè dello spirito umano. Hegel non si contentò di ciò: ma confuse l' intuizione ed il verbo colla stessa idea (cioè il soggettivo coll' oggettivo), e attenendosi a questa, volle in essa trovare l' intuizione, il verbo, ogni cosa. Certo che questo medesimo errore non mancava in Schelling, perocchè questi era pervenuto a dire che le idee erano anime , trasnaturando così l' oggetto in soggetto. Ma l' errore in Schelling non era coerente, perchè a principio del suo sistema avea pur parlato d' assoluto e d' intuizione dell' assoluto; il che veniva a distinguere l' atto dello spirito intuente dall' oggetto intuìto: laonde i seguaci di Hegel lodano il loro maestro di una logica rigorosa, e non può negarsi che egli abbia conosciuta l' incoerenza di Schelling, ed abbia procurato di rendere l' errore coerente a sè stesso, per quanto gli fu possibile. Confondere l' idea col verbo, il concetto col giudizio, è lo stesso adunque, che: 1 Confondere quello che è oggetto dell' intuizione coll' operazione soggettiva dello spirito qual è il giudizio: 2 E, stantechè l' operazione dello spirito è reale , perciò è anche un confondere il modo ideale dell' essere col reale. Quindi per Hegel la dialettica è il movimento dello stesso concetto; è lo stesso concetto quel che dialetticizza , non è più lo spirito umano. Al concetto adunque attribuendosi le operazioni dello spirito, non è maraviglia se egli si cangia un poco alla volta in ispirito (1), e si metamorfizzi in ogni cosa che si voglia, diventi Iddio, universo, tutto. Qui sta la somma dell' hegeliana filosofia. Vincenzo Gioberti trasportò in Italia alcuni principii staccati della filosofia di Hegel (e col prenderli così staccati ne deturbò la logica coerenza), nello stesso tempo che molto declama contro questo filosofo. Egli non riconosce l' intuizione della pura idea; anzi pretende che non si possa intuire l' idea se non per via di giudizio, e in questo conviene con Schelling nel confondere l' intuizione col verbo , dando a questo il nome di quella. [...OMISSIS...] . Di poi confonde ancora con Hegel il verbo della mente, cioè il giudizio coll' idea ossia col concetto, scrivendo: [...OMISSIS...] . Così egli confonde il concetto col giudizio , senza accorgersi che la nota caratteristica del giudizio è l' affermazione , e che nell' affermazione il giudizio consiste; e l' affermazione è un' operazione soggettiva dello spirito, laddove il concetto, ossia l' idea, non è una operazione dello spirito, ma è un oggetto, in cui si può ben terminare un' operazione dello spirito (l' intuizione), ma distinguendosi appunto perciò da esso. L' ab. Gioberti confonde adunque al pari di Hegel l' operazione dello spirito (il verbo), che è cosa soggettiva , col concetto che è l' oggetto stesso intuìto. Ora il perdere di vista la differenza essenziale che passa tra il soggetto e l' oggetto , conduce direttamente a confondere l' idea colla cosa , l' ideale col reale; che è appunto l' altro errore cardinale di Hegel, il quale vuol cavare le cose stesse dalla sua idea. Ecco come s' esprime il signor Gioberti: [...OMISSIS...] . Il dire che « « ogni cosa è un concetto » », è proposizione così ardita che nè pur Hegel la direbbe (3). Qui c' è il materialismo: perchè, se i corpi sono cose e se ogni cosa è un concetto, dunque anche i corpi sono concetti. C' è conseguentemente l' idealismo: perocchè le cose sono trasmutate in idee. C' è il soggettivismo e il psicologismo: perchè il primo psicologico non può essere che quel primo che si pensa nell' anima; se dunque il primo psicologico produce tutti i concetti, dunque tutti i concetti sono produzioni dell' anima. C' è il panteismo: perchè, se il primo psicologico (ciò che prima si pensa nell' anima) s' immedesima col primo ontologico, dunque all' anima si riducono tutte le cose. E poichè il primo psicologico immedesimato col primo ontologico diviene il primo filosofico, « che è assoluto, cioè principio del reale e dello scibile », dunque l' anima, fonte de' concetti, unita al primo ontologico, fonte delle cose, è ciò che costituisce il Dio Giobertiano. Confuso il reale e l' ideale in uno, immedesimato il soggetto e l' oggetto, ne dovea venire la dottrina della dialettica Hegeliana. Hegel diede il ragionare all' idea stessa; è l' idea che si muove e che si svolge in giudizŒ ed in raziocinŒ: ma queste non sono più operazioni dell' anima umana. Il che niente ripugna, dopo che nell' idea si trasportarono le qualità del soggetto, e conseguentemente a lei si diede la vita e l' attività dell' anima (il che potrebbe essere a dir vero immaginazione poetica, non mai la verità del fatto). Quindi l' uomo, secondo il Gioberti, non è già quegli che giudica e che ragiona; ma è l' idea che fa tutto questo: e l' uomo è l' uditore passivo di ciò che l' Idea - Dio pronuncia (benchè talora pronuncii a sproposito). Il che non fa maraviglia, dopo avere stabilito il signor Gioberti che l' idea è un giudizio , come vedemmo. [...OMISSIS...] Se l' idea è un entimema, dunque ella non è solamente un giudizio, ma ben anco un raziocinio. Quindi il nostro filosofo attribuisce la voce (una voce razionale ) all' idea, dicendo che l' evidenza [...OMISSIS...] . Ma quello ch' è più singolare (nel che va troppo più avanti di Hegel), non solo il signor Gioberti vuole che l' idea (come fosse un soggetto intelligente e non un oggetto intelligibile) pensi e ragioni, ma ben anco parli con voci umane e sensibili, ed esprimendo sè stessa si faccia attrice del primo linguaggio. Ecco com' egli proponga questa sua quanto nuova altrettanto arbitraria teoria. [...OMISSIS...] S' estende poi a far parlare l' idea, e colla sua ricca immaginazione inventa un dramma in cui ella interloquisce tutto ciò che il filosofo le mette in bocca. A chi piace sollazzarsi, può vedere questo tutto nella lettera VII di quelle scritte al prof. Tarditi (2), della quale rechiamo qui solo il cominciamento: [...OMISSIS...] . Non credo prezzo dell' opera il seguitare più innanzi. Conchiuderemo solo, che in nessuna maniera, nè Hegel, nè altri, può dimostrare che l' idea sia un soggetto che pensa , invece d' essere, come è, un puro oggetto che sta innanzi al soggetto che pensa: per nessuna maniera di sottigliezze e di sofismi si può far perdere la sua natura all' idea, o immedesimare il soggetto coll' oggetto, o fare che l' uno si cangi nell' altro. Quindi per la stessa ragione vien meno il ragionare nella bocca di tali filosofi, e sottentra in sua vece un gran salto che dà la fantasia, quand' essi si arrovellano per riuscire a distruggere la differenza fra concetto e giudizio, idea e verbo, sicchè dall' uno possano passare all' altro quasi ad un sinonimo; come pure tra ideale e reale; cosa ed idea; le quali nozioni differiscono tra loro essenzialmente: nè contro le nature delle cose possono menomamente le sottilità de' sofisti, nè le declamazioni de' retori. Avendo dunque Hegel, senza alcuna prova, ma con un puro salto mentale della fantasia (benchè procuri d' asconderlo tra veli d' una nuova ed oscura maniera di parlare e di lunghi cavillosi e stentati periodi, pronunciati con quella sicurezza con cui sogliono insegnare i professori di quella nazione) attribuito all' idea le proprietà del soggetto intelligente; egli la rese non solo illuminante, ma illuminata e pensante e operante e producente, finalmente fonte di tutte le cose e di tutte le apparenze, non adoperando mai, a comporre le une e le altre, altra materia che sè stessa. Laonde egli riduce gli oggetti di tutte le scienze ad un oggetto solo, cioè all' idea ed al suo movimento dialettico, come si può vedere nella sua « Enciclopedia delle scienze filosofiche » (1). La quale Enciclopedia pare che stèsse sotto gli occhi di Vincenzo Gioberti, quando scriveva: [...OMISSIS...] . Riduce dunque Hegel tutte le scienze filosofiche a tre: Alla prima, che chiama Logica , attribuisce per oggetto l' Idea considerata in sè stessa e per sè stessa; Alla seconda, che chiama Filosofia della natura (denominazione tolta da Schelling), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo esser altro, cioè in quel suo movimento pel quale si trasmuta in altro, nel mondo; Alla terza, che chiama Filosofia dello spirito (e risponde all' Idealismo trascendentale di Fichte), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo ritorno dall' esser altro in sè stessa, cioè considerata in quel suo movimento pel quale, dopo essersi trasmutata nel mondo, col pensiero riduce a sè, riconosce come sua propria creazione e sostanza, il mondo. Ciascuno, che un po' considera questa partizione delle scienze filosofiche, sente il dominio che ha l' immaginazione nelle filosofie tedesche, e n' è prova altresì l' abbondanza delle metafore di cui lussureggia lo stile di que' filosofi. Il vedere l' idea che si muove da sè, e diventa il mondo, e poscia ritorna in sè trasportando seco tutto il mondo ed inabissandolo nel proprio seno, egli è pure uno spettacolo maraviglioso e dilettevolissimo a quelle gigantesche fantasie. Nell' entusiasmo, che destano cotali drammi della tedesca filosofia, a niuno viene in mente il domandare come l' idea, che è immobile, impassibile, puro oggetto dello spirito, possa muoversi, com' ella possa diventare materia; e da materia trasmutarsi nuovamente in spirito. A niuno cade in pensiero di chiedere come una natura possa trasmutarsi in un' altra natura, e in tal natura che ha determinazioni contrarie e ripugnanti a quelle che avea prima. A niuno finalmente sovviene di pregare questi filosofi taumaturghi, degni discendenti di Giacomo Boehme, che vogliano indicare qualche ragione sufficiente de' varii moti e tramutamenti dell' idea, e perchè ella prescelga questi a quelli, che pure sarebbero egualmente concepibili: a ragion d' esempio, perchè divenendo ella il mondo, non diventi un mondo un po' più grande, o un po' più piccolo del presente; perchè, divenendo il genere delle bestie, diventi proprio quel numero di bestie che abita il globo, nè pur una di più o di meno, e perchè le femmine pregne talora si sconciano, e l' Idea non ne patisca, benchè trasformata in esse, o non l' impedisca; e così va discorrendo. Ma poichè la Logica , che tratta dell' essere in sè e per sè, secondo il nostro filosofo è la solida base delle altre due scienze filosofiche che da esse derivano, cerchiamo in essa la partizione dell' essere. Infatti nel primo libro della « Scienza della Logica » di Hegel, verso la fine della discussione che egli fa sulla questione dell' « onde si debba cominciare », noi troviamo questo titolo: « universale partizione dell' Essere ». Dobbiamo dunque fermarci un poco ad esaminarla. Egli propone la tripartizione seguente: [...OMISSIS...] . Ognuno s' accorge che questo stile non è molto chiaro; e che la divisione non è molto regolare. Aggiungiamo poche osservazioni 1 Tutto si riduce all' essere ed alle sue determinazioni . Ma convien porre ogni attenzione a quella che egli dice la terza determinazione dell' essere. Ella contiene l' essere senza determinazioni, il qual precede. Si vuole che sia il cominciamento della scienza: è l' immediato , secondo la solenne denominazione di Hegel. Ma tosto si corre all' astratto, e lo si chiama immediatezza , indeterminazione, anzi indeterminatezza [...OMISSIS...] , senza accorgersi che tali parole non esprimono più l' essere stesso, ma una sua qualità negativa (privazione di mediatità, e di determinazioni). Che se questa qualità negativa si voglia prendere per sè e in sè, non aggiungendola all' essere come a suo subietto, noi già siamo usciti dell' essere, e venuti ad un concetto assurdo, cioè ad un non7concetto, illusi dal suono d' una parola che niente più significa. Il che è la solita pecca della filosofia tedesca. 2 Oltracciò si abusa della parola determinazione applicandola a significare anche l' indeterminazione assoluta dell' essere, quando questa non è determinazione, ma anzi mancanza di determinazione, non7determinazione. Ma, poichè la mente considera la mancanza di determinazione come una variante dello stato dell' essere, perciò la stessa indeterminazione si colloca tra le determinazioni pigliando queste in genere come quelle che producono le varietà dell' essere (1). E anche qui si sostituisce all' entità la vista logica dello spirito, e quella falsa maniera con cui egli classifica ciò che pensa secondo forme vuote che egli stesso impone alle cose in virtù dei segni verbali, rispetto a' quali è alla stessa condizione ciò che è negativo e ciò che è positivo, giacchè il vocabolo, che è positivo, segna anche il negativo. Affine dunque di strigare la verità dalla rete d' innumerevoli enti di ragione e di concetti fattizi e vani, in cui Hegel di continuo l' avvolge, convien incessantemente disfar la rete tessuta laboriosamente da questo filosofo, distinguendo accuratissimamente gli enti di ragione dagli enti in sè , e distinguendo di più, tra gli enti di ragione, quelli che sono concetti da quelli che sono non7concetti, cioè enti supposti, verbali, e nulla affatto esprimenti se non assurdi. 3 Di poi si dice che « la terza determinazione dell' essere cade nella sezione della qualità ». Ma, propriamente parlando, consistendo questa pretesa determinazione nell' indeterminatezza , conviene più veramente dire che è non7qualità. 4 Si dice ancora che questa indeterminatezza è una determinazione delle altre determinazioni dell' essere. Niente affatto: anzi è la loro negazione. 5 Si confonde l' indeterminatezza coll' immediatità dell' essere. Per immediatità s' intende quel primo logico, onde comincia la scienza. Ora questo primo logico, questo immediato, è certamente l' essere puro senza determinazioni; perocchè le determinazioni vengono appresso come qualità d' un subietto. Ma non è mica vero perciò, che il primo logico nient' altro presenti alla mente che l' indeterminazione; e molto meno ch' egli sia l' immediatezza medesima. L' immediatezza, come abbiamo osservato (1), non può stare da sè: essa è un concetto relativo all' immediato , all' ente quasi a suo subietto; l' immediatezza è un astratto, una relazione dell' ente al mediato, cioè del principio alle conseguenze e deduzioni. Onde non può essere il primo logico . Nè pure, come dicevamo, può costituire il primo logico; l' immediato, come immediato, e non più. Questa parola altro non significa che una relazione con ciò che in ordine alla scienza è mediato; e però suppone che vi sia il soggetto di questa relazione, perocchè ogni relazione suppone un ente di cui sia relazione. L' indeterminazione poi, o l' indeterminatezza, non significando altro che mancanza di determinazione, è un concetto che si riferisce del pari ad un soggetto, a cui l' indeterminazione appartenga, ma di più lascia in dubbio se questo subietto sia un puro ente mentale , o un ente in sè . Perocchè altro non esprimendo la parola indeterminazione se non una mancanza, e non ponendo nulla di positivo, ella può essere applicabile ugualmente al nulla , nel qual caso il suo subietto è un ente mentale , perchè infatti nel nulla non si concepisce determinazione alcuna; e può essere applicata all' essere , il quale si può benissimo concepire dalla mente nostra privo di determinazione. Che anzi l' essere, a cui si riferisce la mancanza di determinazioni, è doppio: perocchè, 1 può intendersi l' essere ideale , nel quale si pensa il puro essere con astrazione da ogni determinazione; e 2 può intendersi l' essere assoluto , Dio, non perchè Iddio sia un essere indeterminato nel senso di vago e comune, ma nel senso che niuna determinazione è in lui distinta da lui stesso, o da altra determinazione; onde non può rinvenirsi in lui determinazioni in senso proprio, come distinte dall' essere e tra loro. 6 E qui si discuoprono facilmente tutte le radici degli errori hegeliani. La fallacia con cui questo sofista inganna i suoi discepoli consiste appunto nell' aver preso per primo logico una qualità invece dell' ente, e fatta passare per ente: qualità che si può applicare a più subietti . Ora avendo presa quella qualità, cioè l' indeterminazione e l' immediatezza (che son due cose che egli confonde pure in una) pel primo logico , e avendola fatta passare per lo stesso subietto, a cui ella appartiene, ed essendo questo moltiplice; ne venne ch' egli potè attribuire a quella qualità tutto ciò che si può attribuire ai diversi soggetti. Quello che è singolare si è, ch' egli stesso confessa di dover trattare del suo essere (l' indeterminazione ed immediatezza) nella sezione della qualità, benchè privo di qualità [...OMISSIS...] . Potendosi adunque l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire al nulla ed all' essere; egli ebbe bel gioco a prenderlo ora pel nulla ed ora per essere; ed a conchiudere che l' essere è uguale al nulla! Ognuno che abbia letto le opere di Hegel (se ebbe tanta pazienza) ben sa quant' egli si limi il cervello e il faccia limare a' suoi lettori su questa insigne scoperta che l' essere e il nulla fanno una perfetta equazione (1). Di poi, potendosi l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire all' essere ideale; ebbe pure buon gioco a farne uscire tutta la logica e la dialettica pura. Finalmente, potendosi (benchè in altro senso) attribuire a Dio stesso, convertì il suo nulla in Dio; e fece travedere, siccome valente giocolatore, i suoi pazienti uditori, dimostrando che Iddio diventava nulla, e il nulla diventava Dio, quasi direi, a volontà del filosofo, che pone quindi IL DIVENTARE a principio della sua dottrina, quasi punto d' unione tra il nulla e Dio! Egli è manifesto qual governo si debba fare, mediante un tale principio, di Dio, dell' uomo, e dell' Universo, che per un cotale movimento dialettico continuamente si permutano. Non si creda però che a tali delirii tengano dietro molti in Germania, anzi sono di pochi. Anche tra gli scrittori tedeschi ve n' hanno assai, che tolsero ad oppugnare il sistema hegeliano. Vendel, che è uno di questi, lo definisce: « « La pazzia ridotta a teoria » » (1). Il buon principe Costantino di L”wenstein, rapito così giovane alle speranze degli amici, giudica di Hegel con molto senno nel suo saggio postumo di una cristiana filosofia (2). Staudenmeier ne pubblicò più recentemente una confutazione. Lo stesso Calybaeus nella sua « Critica di Hegel » dice: [...OMISSIS...] . Così giudicano tutti i cervelli sani di quella nazione; e se non giudicassero così, povera quella nazione! La sarebbe divenuta un manicomio. Il filosofo francese, più che altri mai promosse lo studio della filosofia in Francia, attinse ad un tempo ai Neoplatonici, e ai recenti filosofi tedeschi. Egli si sforzò di ridurre le categorie di Kant alle due leggi di causa e di sostanza, cui restringe poi ad una sola. Per sè, al suo parere, la sostanza è la causa in quanto esiste, e la causa è la sostanza in quanto opera: sicchè sostanza e causa differiscono come due rispetti sotto cui si considera la stessa cosa. Perocchè, dice egli, le idee di tempo e di spazio, di quantità, di qualità, di relazione e di modalità, si riducono alle due idee di ciò che è e di ciò che opera. La quale teoria pecca, perchè si scosta grandemente da ciò che dà l' osservazione della cosa in sè stessa, che è riconosciuta dal signor Cousin per la guida fedele del filosofo. E veramente l' attenta osservazione della cosa ci dimostra che nè l' idea di spazio, nè quella di tempo, si può ridurre menomamente a idee di sostanza e di causa; come nè tampoco vi si possono ridurre le altre quattro idee annoverate. Perocchè la quantità e la qualità non sono sostanze, ma modi di alcune sostanze, non di tutte (la sostanza assoluta, cioè Dio, non avendo nè quantità, nè qualità, a propriamente parlare), la relazione poi altro non essendo che un' idea astratta, la quale abbraccia tutti i rispetti ne' quali la mente contempla le cose, sieno sostanze, o idee, o che altro. La modalità finalmente nel senso kantiano è una cotal relazione delle idee fra di loro, e però non si può ridurre, nè pur essa, alle idee di sostanza o di causa. Il signor Cousin adunque non procede in questo colla maturità d' un filosofo; precipita delle conclusioni senza usare la necessaria pazienza ad osservare accuratamente quali sieno le differenze tra il concetto di sostanza e i concetti delle categorie kantiane, le quali differenze sono immense, e tali che in nessun modo questa si lascia ridurre a quella. In secondo luogo nei concetti di sostanza e di causa non si contengono i concetti dei modi delle sostanze: e però quei due concetti non abbracciano tutto ciò che si può concepire; e però non possono essere vere categorie. Converrebbe aggiungervi la categoria dei modi; dividendosi l' ente in sostanza e modi della sostanza. Ma la divisione non quadrerebbe meglio, perocchè in nessuna di queste due categorie si potrebbe collocare l' Essere Supremo: non nella categoria di sostanza in opposizione a' suoi modi, perocchè la natura divina è superiore alla sostanza, e accuratamente si dee chiamare soprasostanza [...OMISSIS...] , come vedremo: molto meno nelle categorie dei modi in opposizione alla sostanza; perocchè in Dio non v' hanno modi realmente distinti dalla sostanza medesima. In terzo luogo è un errore fondamentale il dire che tra il concetto di sostanza e quello di causa non passa reale differenza. Il quale errore dimostra nuovamente un difetto di accurata osservazione del fatto come stanno queste cose. La quale osservazione ci dà, che la sostanza è il principio, il soggetto, e, se si vuole, anche la causa degli accidenti, ma solo degli accidenti; i quali rimangono in essa, come termini inerenti all' atto suo: laddove il concetto di causa s' estende di più a significare un' energia che produce effetti separati affatto da sè, effetti che nè rimangono in esso, nè sono suoi modi; che non hanno lui per soggetto; e sono o un' altra sostanza o modi d' un' altra sostanza (1). Pretende dunque questo filosofo di ridurre ad unità le categorie di Kant, cioè all' idea di sostanza ch' egli identifica con quella di causa: il che non è veramente uno sciogliere il problema delle categorie, ma un distruggerlo. Conciossiacchè le categorie sono perite quando ad una fosser ridotte; giacchè con quel problema si cerca appunto di classificare le varietà degli enti; e il ridurre queste varietà ad una è un negare ogni varietà, negare il fatto della varietà. Convien dunque dire che non si possono ridurre tutte le categorie alla sostanza, e per lo meno i modi non sono contenuti nell' idea di sostanza, e però debbono formare una classe a parte, come dicevamo. E veramente lo stesso Cousin viene poi a classificare i modi delle sostanze, dove ragiona della sostanza per sè: di Dio. Ma disavvedutamente avviluppandosi in questo ragionamento incappa in più errori. Poichè primieramente suppone che le idee di Dio sieno i modi di Dio, cosa assurdissima: conciossiacchè non v' ha in Dio altre idee realmente distinte che il Verbo divino; e il Verbo è la stessa natura, e, se si vuole usare la parola sostanza , la stessa sostanza divina, che giova meglio dirsi sovrasostanza. Quanto poi al Verbo, qualora piacesse di chiamarlo un modo in cui Dio è, non dovrebbe in ogni caso dirsi che egli è un modo della sostanza divina o sovrasostanza, ma piuttosto ch' egli è un modo dell' essere Divino, un modo in cui l' essere divino E`: il che è pur tutt' altro. Poichè il modo dell' essere non è un accidente, laddove il modo della sostanza è un accidente. Venendo adunque il Cousin a classificare i modi, ossia le idee divine, egli così ragiona: [...OMISSIS...] . Ma, chi esamina con diligenza quel ragionamento, il trova vacillante; perocchè, lungi che i suoi passi sien posti con sicurezza, cioè che sia provato tutto ciò che s' ammette in esso, anzi vi si introducono assai cose di furto affatto gratuite. Lascio l' errore accennato di chiamare le idee modi di Dio, ed osservo: 1 Questa proposizione: « Iddio possiede l' idea dell' unità », ecc., suppone almeno tre cose: a ) il possidente; b ) l' idea dell' unità; c ) e la possessione o il nesso tra il possidente e l' idea. Convien dunque dire in che l' idea posseduta differisca dal possidente, e la possessione dall' uno e dall' altra: perocchè, se queste cose non differiscono in nulla, quella proposizione non avrebbe alcun senso. 2 Se l' idea dell' infinito, e l' idea del finito, e quella della relazione sono tre idee diverse in Dio, dunque vi debbono avere tre atti di possessione; e rimane a stabilire come questi tre atti di possessione differiscano dalle idee di Dio, e da Dio stesso, per la ragione medesima. Se poi differiscono, già i modi di Dio non sono più tre (le tre idee), ma per lo meno sei: perocchè oltre le tre idee vi hanno i tre atti di possessione. 3 Egli è falso che l' idea di unità e l' idea d' infinito sieno la medesima idea, perocchè ogni ente anche finito è necessariamente uno. 4 E` falso ancora, che l' idea di varietà contenga necessariamente l' idea di finitezza e di limitazione. Così le persone divine variano o piuttosto diversano fra loro; ma questa diversità non arreca perciò l' idea di cosa alcuna finita. Solo nelle cose umane la varietà è segno di limitazione, perchè in ogni variazione non si ripete tutto l' ente, che varia; laddove in Dio, in ogni persona si ripete tutta affatto la sostanza divina senza pluralizzarsi . Onde la varietà che è in Dio, non induce niuna cosa che sia finita, niuna idea di limitazione. 5 L' idea di uno e di vario e di relazione sono idee astratte, onde non possono essere in Dio distinte come vengono significate dalle parole, nè l' idea di uno può essere lo stesso che la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente, giacchè l' uno può esser applicato a qualsivoglia sostrato; come nè pure l' idea di vario può essere la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente e come cognito, perchè la varietà s' applica egualmente a qualsivoglia pluralità. Lo stesso dicasi dell' idea di relazione. Queste idee adunque non possono essere i modi di Dio, nè si possono dedurre sol dicendo che Iddio conosce i suoi modi. 6 Le idee astratte, ossia generiche, suppongono avanti di sè le idee specifiche, ossia meramente universali, come queste suppongono innanzi di sè le percezioni delle cose a cui si riferiscono. Se dunque si pone in Dio l' idea dell' uno come suo modo, forz' è che prima dell' idea astratta e generica dell' uno, vi sia l' idea d' un Dio uno; e innanzi questa, la percezione di sè stesso: e così i modi e le idee di Dio si moltiplicano grandemente sopra il numero tre a cui le restringe con tanto arbitrio il sig. Cousin. Somigliantemente l' idea di varietà non si può ammettere in Dio, se non si suppongono molte altre idee e percezioni a quelle precedenti, di cui quella è un astratto molto elevato. Primieramente l' idea di varietà suppone quella di numero egualmente astratta, ma che contiene meno dell' idea di varietà, perchè il numero suppone più unità non varie, anzi uguali. Di poi, l' idea del numero in genere suppone i numeri in ispecie, cioè il due, il tre, il quattro e così all' infinito. Onde tutte queste idee debbono essere in Dio, perchè supposte dall' idea di varietà, e non contenute in essa, ma sì contenenti l' idea di numero. Di che un' altra difficoltà egualmente insuperabile nel sistema Cousiniano, che queste idee specifiche de' numeri dovrebbero essere attualmente infinite in Dio, se fossero suoi modi distinti, perchè a' numeri non si può assegnare alcun confine. Ora un numero di idee infinite, è contraddizione, supponendosi giunto all' infinito il numero: il quale, se vi fosse giunto, non potrebbe più oltre procedere, contro l' intima natura del numero che esige che si possa sempre aumentare d' una unità. Di più, anche il numero specifico è un' astrazione che suppone le entità da cui si astrae e le percezioni di esse. Se si dovesse dunque dedurre le idee divine come fa il Cousin, converrebbe prima supporre che Iddio percepisse sè stesso; poi, che rifletta su di sè stesso e si percepisca di nuovo in due modi, come percipiente e come cognito; poscia, che da questa doppia percezione riflessa astragga il numero due, e dal due gli altri numeri, e da questi il numero in genere, e quindi l' idea di varietà, il che porrebbe, se non successione in Dio e generazione d' idee, almeno più atti distinti, e quasi facoltà, e però di nuovo una moltitudine infinita di modi: cose tutte ripugnanti e distruggenti il sistema stesso di Cousin che pretende trovare in Dio tre modi, ossia tre idee e non più (1). 7 Le stesse riflessioni si debbono fare rispetto alla terza idea di relazione, pure astratta anch' essa, sicchè ne suppone altre ed altre dinanzi da sè. Onde per ogni verso apparisce quanto vacilli il fondamento della filosofia Cousiniana. E tuttavia il nostro filosofo si compiace assai nell' applicare questo giochetto d' astrazione al mondo quasi rappresentazione di Dio, perchè contenente in esso unità, varietà e relazioni tra l' unità e la varietà. Il concetto potrebbe avere qualche valore, se non fosse adoperato fuori di luogo, e non occorresse, nell' uso ch' egli ne fa, una continua confusione tra l' idea e il reale. L' idea di unità e d' infinito, dice, come è il modo necessario di Dio, così è il modo necessario del mondo. Ma, lasciando che il mondo può esser uno e tuttavia esser finito (e certo egli è finito da molti lati), chi dirà mai che il modo dell' essere del mondo sia un' idea? Un' idea è ella una sostanza sussistente e reale? Quando ciò fosse, l' idea del mondo sarebbe il mondo: di che nulla di più assurdo e contrario al buon senso. Si confonde adunque l' idea di unità coll' ente reale, conosciuto bensì coll' idea, ma sussistente in un modo al tutto diverso dall' idea. Lo stesso si dica delle altre due idee, che non sono certamente il mondo nè modi di esso: perocchè il mondo è un complesso di singoli reali, i quali hanno de' vincoli d' azione e di passioni reali tra loro; e la varietà non esiste propriamente come tale, cioè come idea di varietà nel mondo, ma nella mente: la quale, riferendo il mondo a tale idea, il conosce, nol crea. Lo stesso dicasi della relazione come tale, cioè come astratto della mente: che non è punto il mondo, nè è nel mondo reale, ma nel mondo già dalla mente conosciuto. Cousin applica la sua formula a tutte le scienze: all' astronomia, alla chimica, alla fisiologia vegetabile ed animale, alla geografia, alle scienze che riguardano l' umanità, ecc.; e da per tutto trova senza difficoltà l' uno e il vario, e la relazione fra l' uno e il vario, applicazione sterile di risultamenti: perocchè non solo queste idee astratte si possono riscontrare realizzate negli enti, ma molte altre, ed anzi tutte quelle che noi chiamiamo idee elementari dell' essere (1), e molte volte queste idee elementari presentano una trinità degna di considerazione, ma tutt' altro che unica. Così in ogni ente si può riscontrare realizzate le idee di principio, di mezzo e di fine. Sant' Agostino acutamente osserva che in ogni ente non manca un cotal vestigio di trinità, avendovi l' essere, la specie (o forma) e l' ordine (2): altrove trovò in ogni ente il modo, la specie e l' ordine (3); e S. Tommaso (4) riduce a questi tre il numero, il peso e la misura, secondo cui la Scrittura dice esser fatte tutte le cose (5). Ma la questione, se in tutti gli enti v' abbiano de' vestigi di trinità, è per intero diversa da quella delle categorie; e l' avervi de' vestigi, non è l' avervi in esse la stessa trinità, molto meno è l' avervi nelle cose le tre idee Cousiniane: essendo certo che nelle cose non si hanno idee, se non nel sistema dei Panteisti, come sarebbe nel sistema di Vincenzo Gioberti che dice: « « ogni cosa è un' idea »(6) ». D' altra parte il Cousin, affine di trovare le sue tre idee (che non sono poi tre sole, come dicemmo) in tutte le cose, è obbligato ricorrere a quelle stiracchiature che potrebbero andar bene inserite nelle tavole mnemoniche de' Lullisti, ma che nel secolo nostro non possono far fortuna. Così egli trova nell' attrazione universale l' idea di unità e d' infinito. Per l' unità passi: benchè ivi non vi abbia unità, ma tendenza all' unione della materia senza che mai si unifichi penetrandosi; ma quant' all' idea d' infinito, dove sta ella nell' attrazione, se anzi la materia coll' attrazione tende a restringersi e limitarsi entro una sfera minore? Vuol poi trovare l' idea di varietà e di limitazione nell' espansione della materia. Fatica inutile anche qui, perchè la materia, o che si restringa, o che s' espanda, è sempre varia egualmente ed egualmente finita. Altre molte applicazioni, ch' egli fa delle sue tre idee fondamentali, non sono più felici di questa. Finalmente osserveremo, che l' uno, il vario, ed il loro nesso posto dall' autore dell' eclettismo francese, come le tre idee supreme, a cui tutte le altre si riducono, sono un cotal riflesso dell' eclettismo alessandrino imperfettamente riprodotto.

Cerca

Modifica ricerca