Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonava

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D'Ambra, Lucio

220397
Il Re, le Torri, gli Alfieri 4 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Non abbandonava lo scacchiere un solo minuto. Pensava a questa o a quella mossa da fare o da tentare dalla mattina alla sera e vi pensava ancora dalla sera alla mattina. Ogni giorno, nelle prime ore della mattinata, il principe ed io avevamo preso l'abitudine di fare tre o quattro giri a cavallo nel galloppatoio del Parco delle Delizie, la grande villa di Pulquerrima, ove, nelle ore mattutine, conviene il fior fiore della società pulquerrimese. Ma durante quelle nostre prime passeggiate, più che a giuocare, Sua Altezza badava a studiare meticolosamente lo scacchiere, ed una volta ancora io avevo cosi l'onore d'iniziare Sua altezza in tanto ardue discipline. Sua Altezza, che a Londra aveva mosso i suoi primi passi a traverso stati civili assai meno complicati, si meravigliava di dover rilevare che, quasi senza eccezione, ogni pedina era fiancheggiata da almeno due alfieri, di cui uno solo avrebbe a rigore potuto precisare ufficialmente la sua posizione su lo scacchiere. E giunse così rapidamente a concludere che nello scacchiere sul quale egli si trovava a giuocare le pedine più rigidamente virtuose eran quelle che d'alfieri si contentavan d'averne solamente due. Per sua fortuna, in questi giuochi galanti Sua Altezza aveva di Ferro la memoria come la salute, e, in capo ad una settimana infatti, non sbagliava d'un alfiere per nessuna pedina. Le elencava ad una ad una, coi loro due, tre o quattro alfieri. Avevo adoperato, per condurlo a questo risultato, un eccellente sistema mnemonico: il nome di ogni signora era seguito da un numero ch'era quello dei suoi alfieri e, per brevità, da alcuni nomi di battesimo ch'eran quelli degli alfieri medesimi. Esempio: la principessa Urquela, quattro: Emanuele, Alvaro, Marcello, Venceslao; la contessa de la Rochebleue, tre: Tizio, Caio e Sempronio. II principe ne recitava cinquanta di seguito, senza riprendere fiato e senza il più piccolo errore. Ripetevamo l'esercizio la sera e la mattina. E l'dentificazione dei soggetti durante le nostre mattutine passeggiata a cavallo al Parco delle Delizie era semplicissima. Sua Altezza notava una signora bionda, bruna o castana, e mi chiedeva sùbito chi fosse. Se io la nominavo, immediatamente il principe, senza un attimo di perplessità, aggiungeva lo stato di servizio galante della signora: Quattro: Antonio, Armando, Serafino e Gioachino.... Cinque: Pietro, Paolo, Giuseppe, Giacomo e Giovanni! Pochi giorni più tardi cominciammo a scendere da cavallo dopo due o tre giri e a prendere l'abitudine di fare un mezzo chilometro a piedi in quel viale dei Tigli che in quelle ore mattutine era un vero salotto all'aria aperta, fra cielo e mare. Ad una ad una, tutte le signore sollecitarono l'onore di essere presentate al principe contemporaneamente ai loro alfieri ufficiali e ufficiosi. Talchè in capo ad una diecina di giorni il principe teneva circolo di belle signore, con una scioltezza, con una sicurezza, con una tranquillità che non avrei superate io che in mezzo a quelle buone amiche mie avevo vissuto fin dai miei più teneri anni, nel viale dei bambini. Ne corteggiava insieme tre o quattro, e con alcune, che piu agilmente si prestavano al suo giuoco, andava avanti a vapore. E gli alfieri guardavano, vedevano e lasciavano fare, più lieti e pettoruti che mai se la loro pedina era la favorita. Una volta Sua Altezza mi disse: — Se stesse ai loro mariti, mi toccherebbe, per non far dispiacere a nessuno, di prenderle tutt'insieme.... Una alla volta, per carità. Posso distribuire i numeri d'ordine, come negli stabilimenti di bagni. Non scontento nessuno. Una sola volta un alfiere ufficiale parve un poco seccato della come a briglia sciolta che Sua Altezza faceva una mattina a sua moglie, sotto i suoi occhi e, peggio ancora, sotto quelli di tutta Pulquerrima. Mentre ritornavamo a casa a cavallo il principe mi raccontò il piccolo incidente: quando aveva potuto finalmente raggiungere sua moglie in un viale appartato dove il principe l'aveva dolcemente trascinata, l'alfiere aveva fatto capire a Sua Altezza, con un sorriso amaro, che anche i doveri della sua devozione di cittadino dovevano avere un limite là dove incontravano i suoi inalienabili diritti di marito. «Ma che aveva quell'uomo impossibile per guardarmi di traverso in quel modo?» mi disse il principe, meravigliato. Fermò la sua attenzione e si riconcentrò, e, dopo un silenzio, lo sentii aggiungere, ripetendo il cognome della pedina facile e dell'alfiere difficile: «Carenda, sei: Luca, Luigi, Luciano, Leone, Lorendo e Leopodo. è quella che batte il record del sei, ora mi ricordo benissimo. Ma che ha dunque da brontolare, lui? Ho forse il solo torto di chiamarmi Rolando per il marito di quella collezionista d'Elle?

Accompagnato dal suo aiutante di campo e da me, Sua Altezza scene lo scalone reale fra la folla degli invitati che, commentando, abbandonava la festa. Le dame chiuse nelle chiare sorties de bal, i gentiluomini impellicciati si ritrassero ai due lati dello scalone inchinandosi e scoprendosi. Sua Altezza passò senza battere ciglio, con la mano al berretto, senza vedere nessuno. Non degnò d'uno sguardo neppure la duchessa di Frondosa. Salimmo in automobile tra un gran sfolgorio di luci, un gran frusciare di sete, un vivo odore di fiori. E l'automobile, veloce e leggera, filò via immediatamente, nella notte, prima attraverso due interminabili file di automobili e di carrozze che attendevano e poi attraverso la città addormentata cui Sua Altezza non doveva ritornare che molto più tardi, in viaggio ufficiale, dietro la nera siepe di alti colbacchi della Guardia Reale. Per le persone che hanno un esagerato concetto di loro stesse c'è un metodo infallibile per superare il dolore: quello di sapere che questo dolore è guardato, che l'ora dolorosa ha una platea. Era evidente in ogni gesto e in ogni atteggiamento di Sua Altezza durante il breve tragitto da Pulquerrima ad Effemeris che, più di un figliuolo che accorre a seguire il funerale di suo padre, egli sentiva di essere un re di più che entrava nella storia. Ogni giro di ruote sui lucidi infiniti binarii avvicinava non il principe Rolando a suo padre ma Rolando II al suo trono. La commozione figliale era quindi superata da un altro sentimento più forte e più necessario: il sentimento della dignità regale, il raccoglimento con cui occorre sentir battere all'orologio del mondo i minuti primi che, quando sono sessanta, hanno formate senza saperlo, col loro passettino solito e indifferente, una delle grandi ore della Storia. Una delle grandi ore della Storia! La frase ricorre sovente nei più bei periodi dei giornalisti. Ed è singolare osservare che le grandi ore della storia sono, per coloro che le vivono, proprio quelle in cui sembra che non avvenga mai nulla. Evidentemente la storia si elabora in silenzio o, se dice le sue grandi parole, le dice in una lingua misteriosa che gli storici potranno interpretare più tardi ma che sono e restano indecifrabili pei contemporanei. Mentre scrivo queste righe sento su la mia fronte il peso delle mie trentasette primavere: si dice così, come se nella vita degli uomini contasse solo, come fardello, la più leggiadra delle quattro stagioni. Da che ho uso di ragione di grandi ore della storia ne ho sentite suonare più d'una, ma non di una sola potrei dire oggi quale fu la grandezza. Perchè una grande ora della storia consenta a rivelare che cosa aveva nel grembo dei suoi sessanta minuti occorre che quella ora sia guardata almeno a mezzo secolo di distanza. L'età ragionevole dell'uomo essendo posta dall'opinione comune a un'epoca che coincide con quella alla quale un onesto padre permette per la prima volta al suo figliuolo d'uscir solo di sera e con la chiave di casa, ed essendo raro che un uomo possa aspettare, indisturbato dal destino, sino a settant'anni l'ora di capire anche lui cosa fossero e contenessero le grandi ore della storia, a senza altro evidente che l'uomo non può farsi un'idea esatta che delle grandi ore vissute dai suoi predecessori. Le grandi ore della storia che ha vissuto lui apparterranno ai suoi lontani nipoti. Essi soli avranno il segreto che apre quei lucchetti indecifrabili. La storia ha due tempi: un primo tempo che è quello delle generazioni che la vivono ed un secondo che è quello delle generazioni cui è concesso d'interpretarla. Io non potei che vivere quella grande ora della storia di Fantasia di cui parlavano a lettere di scatola i giornali di Effemeris. La vissi, come sempre, ai talloni di Sua Altezza la quale, poichè le abitudini comode sono le più difficili a sradicarsi, mi conservava la sua benevolenza, anche ora che era diventata Sua Maestà. È segreto della gente seria quello di vivere le grandi ore inesplicabili con una gravità e una dignità compatibili solamente con grandi ore che sarebbe possibile spiegare. E Rolando II, nel breve tragitto ferroviario da Pulquerrima a Effemeris, aveva fatto trar fuori dai suoi bauli non solamente una fascia di crespo con cui mettere il segno del lutto su la sua bella tunica verde, ma anche una serietà che dava, se mai avesse potuto durare, le migliori speranze per l'avvenire del regno di Fantasia. Giunto ad Effemeris, aveva ricevuto con regale compunzione le condoglianze dei ministri e degli alti dignitari della Corte e dello Stato. Uscito dalla stazione per salire in automobile aveva ricevuto con un mesto sorriso di re benevolo e di figlio addolorato i plausi del popolo di Fantasia che — morto il Re, viva il Re!— dopo avere bagnato montagne di fazzoletti con fiumi di lacrime per la morte del vecchio Sovrano, ora, all'arrivo del Sovrano nuovo, li rasciugava agitandoli in segno di giubilo al sole della più bella giornata di primavera che mai re possa desiderare per ascendere in letizia il suo trono. E l'indomani, ai funerali del re defunto il giovane re, passando diritto e fiero dietro l'affusto di cannone dove suo padre, così poco militare in vita, dormiva in morte il suo primo ed ultimo sonno guerriero, Rolando II rapiva i cuori di tutta la popolazione femminile della capitale. La sua figura era popolare poichè il re defunto soleva far pubblicare sui giornali, almeno una volta alla settimana, con la periodicità fissa d'una inserzione a pagamento, i ritratti del suo augusto figliuolo: chè, abile amministratore della sua casa regnante, amava mettere in mostra quel bel giovanotto che anche i nemici più acerrimi del suo regno dovevano riconoscere per l'unica cosa ben fatta della sua lunga storia regale: storia quanto mai felice e però, se oso esprimermi così, storia senza storia. Quando, compiuto il funerale, Rolando II risalì in automobile con le gambe spezzate per aver percorso mezza Effemeris a piedi e con gli occhi stanchi per aver fatto quel lungo sforzo di non battere ciglio cui son condannati gli occhi umani quando hanno l'onore d'essere occhi di re, Pulquerrima tornò nel cuore del Sovrano che Effemeris acclamava in una limousine ermeticamente chiusa dove non si vedeva sagoma umana se non quella dello chauffeur. A venticinque anni la dolce giovinezza alterna senza difficoltà i più frivoli piaceri della tavola e i più gravi problemi dello spirito. Talchè, acceso in volto dai vapori d'una gioconda digestione, Sua Maestà, ritrovandomi dopo colazione nello studio paterno dove un suo ritratto ad olio era già stato sostituito a quello non meno oleoso ed oleografico del defunto genitore, tornò con me alle leggere conversazioni di Pulquerrima e vi tornò nel modo più impreveduto: sfogliando i telegrammi di condoglianza che i segretari avevan deposti, debitamente annotati, su la scrivania regale. Li leggeva ad uno ad uno, Sua Maestà, con pacata melanconia. Ogni volta che ne sollevava uno dal pacchetto di sinistra per passarlo, dopo letto, al pacchetto di destra, diceva a me i nomi dei mittenti: erano colleghi amabili e cortesi, imperatori e re d'altre nazioni, principi ereditari e principi cadetti, colleghi di domani o di dopodimani, ministri e ambasciatori, generali e ammiragli, senatori e deputati. Vidi ad un tratto disegnarsi sul suo volto uno dei suoi più chiari sorrisi e udii la sua voce dire allegramente: «Anche lei.... Isabella....Molto gentile...». E mi passò il telegramma di condoglianza della duchessa di Frondosa, telegramma che era firmato anche dal duca; ma il duca aveva il torto d'esser marito ed è noto da che mondo è mondo che i mariti non contan mai nulla per gli amanti nè in fondo ai telegrammi nè in fondo ad ogni altra cosa. E quand'ebbi restituito il telegramma che Sua Maestà piegò e infilò nella tunica, in fondo alla tasca interna, proprio lì, sul cuore, la voce di Sua Maestà sospirò dolcemente: «Isabella!» Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Era, l'altra sera, molto più gentile dell'usato. Il ghiaccio del suo cuore cominciava a fondersi. Cominciavo a sperar seriamente di poter giungere a cogliere il frutto di ciò che avevo seminato». Non è mia colpa se lo stile conversativo di Sua Maestà non sapeva trovare imagini più personali di queste. Il volto del giovane re s'era di nuovo oscurato e la sua voce aggiungeva: «Ero, ne son certo, alla vigilia della resa». A queste parole seguì un lungo sospiro. Al lungo sospiro seguì un lungo silenzio. Al lungo silenzio seguì un nuovo lungo sospiro. Al nuovo lungo sospiro seguì un nuovo lungo silenzio. E poichè sospiri e silenzi diventavano sempre più lunghi e non era evidentemenle possibile andare così, a un ultimo lungo sospiro e a un ultimo lungo silenzio seguirono finalmente queste memorabili parole: — Ma sul più bello.... Ah, mio padre non è morto a tempo!... E mentre a questo elogio funebre seguivano ancora un sospiro e un silenzio, io pensai a quel povero re gaffeur che anche morendo aveva dovuto dare ancora noia a qualcuno. E mentre per scuotere l'impressione di ciò che quelle parole avevan di troppo personale mi dicevo che non era colpa mia se al re defunto non toccava che quell'elogio, dovevo anche riconoscere che quell'elogio era meritato e che un re il quale abbia un figliuolo impegnato in una galante avventura può, valendosi dei privilegiati rapporti col divino benefattore che l'ha fatto re per grazia celeste, ottenere, quando l'ora di morire sia giunta, almeno una proroga di cinque o sei giorni. Che per cinque o sei giorni non avuti a disposizione al momento buono c'è sempre il rischio di dovere poi aspettare una nuova occasione per cinque o sei mesi. Accadde così a Sua Maestà, la quale, pur tra le nuove gioie e i nuovi affanni del regno, non dimenticava la bella torre rimasta laggiù, su lo scacchiere di Pulquerrima, proprio alla vigilia di crollare finalmente anche lei. Ne parlava ogni giorno, quasi ogni ora. Per una via o per l'altra giungeva sempre a insinuare nella conversazione il nome della duchessa di Frondosa; e, quand'era coi ministri e della duchessa non c'era assolutamente modo di parlare, parlava del duca, chiedeva che uomo fosse, che valore avesse diplomaticamente, quale fosse attualmente la sua posizione politica. Anche a parlar del duca si sentiva in cuore un po' di duchessa. E il vantaggio, questo, dei mariti: che non solo vedono amata la loro metà ma si sentono amati anche loro, almeno per metà. Il teatro cinematografico ha un gesto quanto mai espressivo e quanto mai falso: e il gesto che fa un attore, movendo la mano, portandola alla fronte, raggruppando su questa perpendicolarmente le dita, quando vuole far comprendere al pubblico che gli è venuta improvvisamente un'idea. Il gesto è falso perchè le idee non vengono generalmente così, e perchè le idee prima di trovarle nella nostra testa noi le troviamo nella testa degli altri. Nulla nasce da nulla e però un'idea non sorge in un cervello d'improvviso e spontaneamente. Poichè tutto è derivazione, generazione, concatenazione, completamento e perfezionamento, mise au point come dicono i francesi, una idea nostra nasce da un'idea d'un altro, un pensiero che ci è manifestato ce ne suggerisce un altro che noi manifestiamo a nostra volta. Solo Adamo avrebbe avuto il diritto di fare il gesto caro agli attori cinematografici. Ebbe egli solo la prima idea da cui poi venne tutt'il resto. E in fondo anche Adamo, come generatore spontaneo d'idee, è sospettabile e discutibile dal momento che per dargli l'idea di che cosa poteva fare di Eva fu necessario l'intervento del serpente. Il serpente che suggerì a Sua Maestà, alcuni mesi dopo la sua ascesa ai trono, che cosa potesse fare della duchessa Isabella di Frondosa, aveva nome don Pedro de Aldana ed era presidente del Consiglio, press'a poco inamovibile, del dolce regno di Fantasia. Ebbi la fortuna d'assistere anche a quest'altra grande ora della storia d'una dinastia. Conseguentemente a quanto ho detto più sopra, era impossibile che un'idea sbocciasse nel cervello di don Pedro senza che un'altra idea nel cervello o su le labbra di un altro le offrisse il modo di venire al mondo. L'idea forcipe apparve su le labbra di Sua Maestà, in un grigio giorno d'inverno, nella solitudine del suo studio ov'egli non aveva mai nulla da studiare: era un'idea semplice, senza parole, molto aperta, un po' rumorosa: uno sbadiglio, uno sbadiglio che voleva dire: «Mi annoio!» E allora, nel desiderio d'alleviare la noia di Sua Maestà, don Pedro de Aldana trovò a sua volta la sua idea che manifestò con un garbato sorriso e con cinque semplici e timide parole: «Vostra Maestà dovrebbe prender moglie.» Se le idee sono concatenate, non e detto che questa concatenazione debba sempre essere immediata. Tra un'idea madre e un'idea figlia può correre uno spazio di tempo anche piu grande dei nove mesi necessarii alla funzione generativa. Così può accadere che l'idea madre sia madre senza saperlo, il che accade anche, nei primi tempi, in natura. I primi travagli della gestazione solo infatti misteriosi e impenetrabili, e i contraccolpi ch'essi dànno sono generalmente addebitati alle cause più innocentemente estranee a quelli effetti. Così Sua Maestà, quando si diede attivamente a cercar moglie per le più antiche Corti d'Europa, attribuiva quella sua improvvisa vocazione di marito al peso della sua solitudine di scapolo e alla necessità imperiosa della ragione di Stato. Credeva di dare retta alle esortazioni di don Pedro nel senso della necessità di mettersi a posto definitivamente, di dare al popolo di Fantasia il prestigio d'una nuova regina, di consolidare la posizione politica del suo regno in Europa imparentando due dinastie per creare fra due popoli quella cordialità di sentimenti che dura quanto durano i rapporti di famiglia: fin quando, cioè, l'interesse preciso dell'individuo non soverchia quello astratto del gruppo d'individui. Credeva insomma di cercare moglie, viaggiando l'Europa e raccogliendo in tutte le lingue, in tutte le capitali, i più eloquenti segni di simpatia universale per il suo vecchio regno e la sua annosa dinastia. In realtà, cercando sua moglie, cercava ancora la duchessa di Frondosa. Invano aveva tentato di dimenticarla, ignorando che se è lecito e possibile dimenticare il passato non si può dimenticare l'avvenire, il quale cammina sempre davanti a noi e non possiamo levargli gli occhi di dosso se non a patto di volgergli le spalle e di tornarcene indietro. Ma, poichè Sua Maestà. Rolando II cominciava appena il viaggio d'andata, non era assolutamente il caso di parlare di ritorno. Anzi il suo ardente entusiasmo, il suo amore della vita, gli facevano assolutamente escludere la possibilità d'un qualsiasi viaggio di ritorno. Sarebbe ritornato senza saperlo, come ritornano gli uomini che s'illudono di poter andare sempre avanti: con uno, cioè, di quei viaggi circolari che dopo aver girato mezzo mondo e mezza vita vi riportano infallibilmente al punto di partenza. Aveva riveduto la duchessa Isabella quanto più sovente gli era stato possibile. Se ricusava di andare ad inaugurare magari un'esposizione mondiale in una qualunque delle più insigni grandi città di Fantasia, non si lasciava mai sfuggire l'occasione d'inaugurare sia pure un asilo infantile nella dolce città di Pulquerrima dove la duchessa continuava, più virtuosamente che mai, a dimorare. Trovava così, almeno un paio di volte al mese, qualche cosa da inaugurare a Pulquerrima. E, quando i bilanci municipali della città non bastavano al collocamento di tante «prime pietre», quelle «prime pietre» erano fornite sottomano dalla cassetta privata di Sua Maestà. Poichè non è l'uso che i sovrani assistano anche al collocamento della seconda, della terza o della quarta pietra, posta la prima quelle altre pietre non venivano mai. Talchè Pulquerrima fu in capo a due anni di segno lastricata di «prime pietre», così come quelli che ci sono stati affermano che l'inferno sia lastricato di buone intenzioni. Ma per quante «prime pietre» collocasse, Sua Maestà non riusciva mai, ad ogni viaggio a Pulquerrima, che a collocare e a ricollocare nulla più che la «prima pietra» anche della sua felicità sentimentale. Riportava sempre indietro nella valigia tulle le altre pietre che la duchessa Isabella, fra un tè e un pranzo, rifiutava col suo più bel sorriso di donna fermamente decisa a non farsi costruire una nuova casa per far mutare di residenza alla sua onesta felicità. Partiva cosi, Sua Maestà, ogni quindici giorni, pieno di speranze, e ritornava sempre di pessimo umore. A tal segno che c'era da temere ogni volta, al suo ritorno, una crisi di gabinetto; e i ministri, non appena Sua Maesta metteva piede nel treno reale per Pulquerrima, s'affrettavano, per paura di non fare più a tempo, a distribuire tutte le onorificenze che coi loro nastri multicolori dovevano saldamente legare il loro avvenire politico al carro leggero della gratitudine nazionale. Dopo un anno di viaggi a Pulquerrima e all'estero, don Pedro de Aldana, senza averla mai veduta, fissò finalmente la sua scelta per la sposa del Re. Se l'idea figlia non era ancora venuta al mondo, già Rolando II sentiva nel sub-cosciente — si parla così in alto stile scientifico — che non valeva la pena di preferir come moglie questa o quella, visto che cercare moglie per sè voleva dire cercare il modo di raggiungere finalmente la moglie d'un altro. Aveva osservato, viaggiando, a titolo di pura curiosità, che le spose veramente affascinanti erano nelle Corti e negli Stati più modesti: e, se convenivano ai suoi gusti estetici, non potevano convenire ai gusti politici del suo primo ministro. Talchè, persuaso dell'inconciliabilità di questi gusti, lasciò che don Pedro de Aldana gli desse moglie a piacer suo, e dopo avere percorso l'Europa disse a don Pedro le grandi parole remissive con cui un uomo incerto fra due qualità di cioccolatine lascia al commesso del negozio la facoltà di decidere: «Faccia lei!» Cadde così la scelta di don Pedro su la principessa Alice di Cardun, figlia del Re di Asturia. Asturia e Fantasia essendo state poste dal capriccio della geografia politica porta a porta; conveniva oltremodo alla politica di Fantasia e di Asturia porre su l'armata frontiera un ramoscello di fiori d'arancio. Se non era bella la sposa, era bellissima la combinazione diplomatica e, poichè un re non ha il diritto di portare nel talamo coniugale la grazia d'una sposa ma ha dovere di portarvi la tranquilla garanzia d'un trattato di alleanza, conveniva a Rolando II di tacere, per la ragione di Stato, lo stato di qualsiasi sua altra ragione. Se è vero che si dà prova di maggiore generosità e di più larga benevolenza regalando la roba propria che non regalando quella, degli altri, la benignità celeste s'era dimostrata incomparabilmente generosa, accordando alla futura regina di Fantasia ogni sorta di beni, forse celesti, ma non certamente terreni. Sua Maesta aveva, nel cassetto della sua scrivania, il ritratto della regale fidanzata. Lo guardava di tanto in tanto, per abituarsi, e lo guardava sempre quando c'ero io, forse perchè io potessi al caso fargli coraggio. Vedevo allora sul suo volto disegnarsi, con un'ombra nera, un dubbio: il dubbio che la ragion di Stato esigesse troppo da lui, e che con la sola ragion di Stato non fosse possibile fare ciò che assicura attraverso i secoli, di rampollo in rampollo, la durata delle dinastie..Lo incoraggiavo affermandogli che bisogna far fronte al proprio destino, quando si e re, ad occhi chiusi. E lo sentii rispondere un giorno, con un sospiro ch'era di sollievo: « Ad occhi chiusi. È tutt'un programma coniugale questo, mio caro d'Aprè!» E finalmente un giorno, quando mancavano tre mesi alle nozze regali, Sua Maestà, guardata ancora una volta, con la solita ombra nera sul viso, la fotografia della sposa promessa, bella d'una bellezza forse invisibile a noi perchè non di questo mondo, Sua Maesta sentì nascere d'improvviso l'idea figlia. Poichè le sue labbra non erano abituate a serbare i segreti del suo cervello, l'idea figlia era appena nata nel mistero della scatola cranica che già si manifestava con queste parole: — Ma, ora che ci penso, bisognerà pensare alla Corte della Regina. Bisognerà nominar le sue dame d'onore. E, prima di tutte, naturalmente, Isabella. Poichè è fatica insopportabile anche quella di essere sinceri con noi stessi, Sua Maestà aggiunse sùbito: — La Regina non potrebbe trovare migliore amica. Poi si riprese e, levatosi dal tavolino, venutomi davanti, mi disse: — Senta: quando Isabella sarà qui.... Si resiste ad un principe, ma non ad un Re.... E poichè un po' della storia — reparto storia galante — somministratagli dal povero vecchio capitano dei dragoni gli era rimasta ancora nella memoria, sorrise e, gettando via leggermente assieme al fiammifero con cui aveva acceso la sigaretta anche tutte le piccole possibili differenze fra lui e Luigi decimo-quinto, esclamò: — La mia Pompadour!

Sua Altezza abbandonava così la festa prima che se ne fossero allontanati suo padre e l'imperatore Goffredo: il che poteva anche essere assolutamente necessario per un uomo che una donna desiderosa di metter le cose a posto aveva garbatamente ma esplicitamente licenziato, ma non era niente affatto protocollare per un principe reale che giungeva così a filar via all'inglese, senza salutare nessuno, come fosse il più libero ed il più oscuro degli invitati. Per il momento il malumore del principe si sfogò in un silenzio ostinato. Ma, giunti a terra e saliti che fummo nella vettura di Corte che ci riaccompagnava a palazzo, Sua Altezza mi fece capire che anche io non ero affatto escluso dal suo risentimento. Aveva preso una sigaretta e tentato d'accenderla — altra negligenza di etichetta — contro il vento della sera. Ma s'era bruciato le dita e gittando via, con gesto irritato, sigaretta e fiammifero, aveva brontolato a denti stretti: «Ma anche lei poteva dirmelo, perdio, che quella duchessa era una Giovanna d'Arco!». Povero, dimenticato capitano dei Dragoni azzurri che aveva passato le sue più belle ore a insegnare storia a Sua Altezza senza che Sua Altezza riescisse a farsi, per esempio, almeno un'idea approssimativamente chiara della vergine guerriera! Per pigro abito di semplificazioni il giovane principe aveva solo ritenuto di tanti lunghi commenti che Giovanna d'Arco era vergine e però ritrosa e restia. Ciò gli bastava, poichè non aveva seguito alla Sorbona i corsi del professor Thalamas, per raffigurare in lei il tipo rappresentativo dell'austerità femminile. Mi guardai bene quindi dal ripetere schiarimenti che il capitano dei Dragoni azzurri aveva già dovuti somministrare inutimente e mi limitai a chiedere rispettosamente al principe che cosa fosse avvenuto. E il principe, com'era sua abitudine, non in avaro di spiegazioni. La conversazione sera fatta a mano a mano molto galante e la duchessa sembrava ed era semplicemente incantevole. Abituato a non incontrare mai difficoltà, Monsignore credeva che la via dell'avanzata gli fosse facile e piana anche con quella bella signora. Io l'avevo avvertito, è vero, della sua incensurabile fama. Ma Monsignore, ch'è testardo come son testardi tutti gli «enfants gatés», si era ficcato in mente che io ero, che non potevo essere che male informato. Lo provava anche il fatto, del resto, che la duchessa civettava deliziosamente e che si lasciava far la corte con la più affabile condiscendenza, tanto che a un dato punto l'odore dei fiori, la bellezza della duchessa, il fascino della notte primaverile, la voluttuosa carezza del valzer viennese avevano provocato l'ardire del principe e l'ombra che circondava la coppia l'aveva decentemente favorito. Che cos'è mai, del resto, alla stregua dei peccati mortali, prender la mano d'una bella signora e baciarla lungamente schiacciandovi un po' sopra le labbra? Senonchè la duchessa aveva ritratto la mano e aveva tranquillamente invitato il principe a rimanere al suo posto. E perchè vi rimanesse ve l'aveva prima rimesso. Ma il principe, che per le gaffes grandi e piccine non aveva mai avuto una istintiva ripugnanza, stimando che fosse il caso di scherzare ancora e tentando di riprendere la mano restia, aveva detto alla duchessa con un sorrisetto superiore e maleducato:«Via, duchessa, perchè volete essere tanto difficile?». E proprio a questo punto donna Isabella s'era bruscamente levata rispondendogli di botto chemcertamente il principe da Sua Altezza l'Infante Anna-Maria, sua zia, era stato abituato a un'assai minore severità. E quindi, dopo la botta e la risposta, la scena innocente cui anch'io ero stato chiamato a partecipare. La poca severità dell'Infante Anna-Maria verso di tutti e specialmente verso il suo regale nipote che sin dalla più tenera adolescenza, prima ancora di recarsi ad Oxford, aveva portato alla vetusta e venusta parente i suoi lion d'arancio, era notissima a tutto il regno di Fantasia ed era per, difficile per Sua Altezza considerare come un'offesa alla regale famiglia il richiamo ad una verità ch'era ormai incontrastabile per voce di popolo confermata anche dall'esperienza personale di varie centinaia di sudditi. Non tenne quindi, oltre quella sera della prima impressione, alcun rancore per quella mancanza di rispetto ad una zia cui egli doveva la rivelazione precoce della sua sola e vera vocazione; e, nei giorni e nelle settimane seguenti, ricercò e rivide la duchessa di Frondosa come se nulla fosse stato, sperando di riuscire col tempo, con la pazienza e col fascino della sua futura corona, a ridurre Giovanna d'Arco a più miti e condiscendenti consigli. Cominciò a frequentare i salotti che la duchessa frequentava, a correre in vettura, lui che amava tanto di vedere e di farsi vedere, le passeggiate eccentriche e solitarie che la duchessa prediligeva, a frequentare assiduamente il teatro di musica cui la duchessa non mancava mai, lui che in fatto di musica non poteva sopportare idee melodiche più complicate di quelle d'una canzonetta da caffè-concerto o d'una marcia da circo equestre. La duchessa leggeva molto e il principe faceva la fortuna delle librerie. La duchessa era assidua alle conferenze e il principe non ne trascurò più una. Cercava di vederla ogni mattina, ogni giorno, ogni sera. La giornata gli sembrava insopportabile se non aveva alcuna possibilità d'incontrare la duchessa. Io ero il suo lieto confidente nelle buone giornate. Scontavo il suo malumore nelle cattive. E, finalmente, si decise a mancarmi di rispetto per la prima volta e, poichè mi vide docile ai suoi capricci, non fu certo l'ultima. Eravamo a colazione a palazzo, due ore prima d'una garden-party che Sua Altezza offriva, per completare le presentazioni, alla società pulquerrimese. Facevamo colazione soli, come quasi tutti i giorni. Intuii che aveva qualche cosa di serio da dirmi poichè vedevo che non apriva bocca neppure per mangiare e che non cessava d'arricciarsi i baffetti. N'ebbi la conferma quando fummo al caffè e quando, ordinato al maggiordomo di lasciarci, cominciò a parlare. Capii sùbito che voleva qualche cosa da me e lo capii appunto perchè aveva l'aria di non volermi chiedere nulla. Parlava invece della nostra buona amicizia, della grande fortuna che aveva avuto di ritrovarmi inopinatamente a Pulquerrima e faceva l'elogio sperticato, che io ascoltavo senza arrossire come una bella donna che si guardi e, si ammiri allo specchio, della mia abilità diplomatica, del mio tatto, della mia mia astuzia, della mia esperienza mondana. E quand'ebbe esaurito gli aggettivi, ch'erano per lui un lusso forzatamente limitato, ricorse alle imagini. Io ero il pilota abilissimo della sua navicella gettata, al suo primo viaggio, in pieno alto mare. Avevo anche la suprema delicatezza di non far punto sentire la mia presenza e di tenere silenziosamente il timone in modo da lasciare a lui l'illusione d'essere già un vecchio capitano di lungo corso, sicuro del mare. Ma la sua navicella andava oramai purtroppo per una rotta che non seguiva la mia traccia ma che dipendeva unicamente dalla sua volontà. E dopo gli aggettivi e le imagini, quando si accorse che queste erano molto comode per dire quasi con facilità la cosa molto difficile che aveva da dire, le imagini si complicarono di metafore e imagini e metafore, incrociandosi e confondendosi, davano luogo ad un discorso straordinario col quale Sua Altezza, con l'aria piu serena di questo mondo, mi proponeva semplicemente di aiutarla, se non in tutti i suoi amori, almeno nei suoi amori difficili. Insomma, per far breve il discorso, si trattava nè più nè meno che di questo: la navicella dell'amore di Sua Altezza faceva rotta verso l'isola di felicità promessa dall'amore restio della duchessa di Frondosa. Per non rischiar d'incagliare in qualche secca e per non perdere inutilmente e faticosamente molte ore di navigazione occorreva sapere se in quell'isola inesplorata c'era almeno la più lontana speranza di trovare un punto d'approdo. E a chi domandarlo, per avere un dato geografico sicuro, se non alla duchessa in persona? Lei sola conosceva la sua isola. Continuava ella, infatti, a scherzare, a civettare col Principe, a giuocare col fuoco. Il faro, dunque, era acceso. Ma era mai possibile che quel faro fosse una burla tentata ai danni dei navigatori più arditi e più ostinati e che veramente poi, dietro quel faro, come la duchessa pretendeva, non ci fosse alcun porto? Questo, io dovevo tentar di sapere, poichè purtroppo le carte galanti dei più esperti marinai di Pulquerrima erano mute al riguardo. E saperlo era facile. Bastava parlare alla duchessa Isabella della lunga e disperata navigazione di Sua Altezza, di quella sua povera navicella sentimentale sbattuta dalle onde che volta a volta l'avvicinavano e l'allontanavano dall'isola irraggiungibile e misteriosa. Si trattava, insomma, di far sapere all'austera signora dell'isola che la povera navicella non navigava così a casaccio per puro capriccio, ma che il suo povero capitano aveva veramente e definitivamente perduto la bussola e che in tal caso era elementare dovere di umanità e di pietà aprire al fragile legno le braccia tranquille d'un dolce porto ospitale. Non esito a confessarlo. Non so quale specie di sadismo morale mi traeva ad ascoltare quasi con voluttà da Sua Altezza quest'inconcepibile discorso di cui non avrei tollerato da nessun altro neppure la prima sillaba. Questa condiscendenza tacita della prima volta doveva essermi fatale in seguito. Tuttavia, per quella prima volta, riuscii a declinare il poco onorevole incarico. Continuando le metafore di Sua Altezza, che comodamente permettevano a entrambi di non arrossire, dichiarai che la mia esplorazione era forse impossibile, ma che era, ad ogni modo, sopratutto superflua. Affermai recisamente che l'isola non aveva porti nè grandi nè piccini, che l'isola era stata sempre disabitata e che la luce che Sua Altezza scambiava per quella d'un faro era invece quella d'una dolce capanna sotto la quale la duchessa e suo marito filavano un amore perfetto degno dei più leggendarii amanti. Non c'era quindi altro da fare che macchina indietro. Per approdare c'erano cento isole abitabilissime attorno a quell'isola inospitale, isole con porti garentiti e provati, con visibilissimi fari accesi che veramente invitavano i navigatori, isole che costituivano tutto l'arcipelago del salotti di Pulquerrima e tra le quali non c'era, per navigare, altro imbarazzo che della scelta. Sua Altezza, bontà sua, non insistè. Mi chiese solamente, lasciando le metafore, se veramente credevo la duchessa di Frondosa così onesta e risposi che la reputavo veramente onestissima. Monsignore volle anche degnarsi di farmi osservare che in tal caso disperato egli avrebbe finito per innamorarsene sul serio. Ed io non potei che stringermi nelle spalle, senza rispondere. Non se ne parlò più. Venne l'estate. Passarono giorni, settimane e mesi. Sua Altezza continuava intanto a muoversi come voleva su lo scacchiere galante di Pulquerrima, ma io comprendevo che tutte le pedine cui dava caccia fortunata, che tutte le torri che faceva cadere con un sospiro e qualche volta anche con uno sbadiglio non erano altro per lui che tentativi per distrarsi dalla sua idea fissa, che pretesti per sfogare su le torri che precipitavano le esuberanze d'ogni genere che la torre incrollabile provocava in quel cuore e in quel sangue di ventitrè anni. Intanto Sua Altezza continuava a vedere ogni giorno la duchessa di Frondosa, la quale, dal canto suo, continuava a giuocare con lui di parole con quella sua bella serenità che non si turbava mai. Educata dalla prima aspra lezione, Sua Altezza non tentava più il passaggio troppo rischioso dalle parole molto vaghe ai gesti abbastanza precisi. E, una sera, tornando da un pranzo dai Frondosa al quale avevamo assistito insieme, Sua Altezza mi confessò che non solo il fascino della duchessa Isabella lo attirava in quella casa, ma che anche il duca Alvaro gli era oramai simpaticissimo. Non aveva mai visto, mi diceva, uomo più compìto, gentiluomo più perfetto, diplomatico più illuminato e padron di casa che gli fosse paragonabile. Contava di farne oramai un suo amico, un suo strettissimo amico, senza nulla togliere per altro all'affetto di lunga data ch'egli aveva per me. Lo lasciai dire e mi proposi di lasciarlo fare. Non c'era più d'altronde da discutere. Dopo la moglie, il marito.... Era, decisamente, l'amore.

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245529
Grazia Deledda 3 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Il pensiero di riprenderla non mi abbandonava un momento. Un giorno andai a vederla. Entrai senza picchiare, avanzandomi fino all'uscio della stanza che ben conoscevo. E dapprima mi parve di sognare, o di aver sognato, perchè nulla era mutato in quella stanza: la moglie del mio creditore lavorava seduta accanto al braciere, la sua fisionomia era la solita, e solo si alterò al vedermi, ma di un turbamento che mi parve più di sdegno che di affetto. Subito però si dominò, mi accennò di avanzare. AI rumore del miei passi l'uscio della cucina si socchiuse e subito intravidi la balia con una grande scodella in mano: mi guardò con l'avidità con cui mangiava: avidità di sapere perchè ero lì. La padrona la chiamò, le disse di farmi vedere la bambina, poi si volse a me accennandomi di seguire la balia: si entrò nel salotto attiguo, e la prima cosa che distinsi, nella penombra, fu la porta-finestra difesa da una semplice persiana che dava sulla strada. Tante volte passando di fuori avevo veduto quella persiana socchiusa e l'interno del salotto, col solito arredamento paesano: tavola rotonda in mezzo con un mazzo di fiori finti, uno specchio pur esso ornato di fiori a smalto, divano e sedili ricoperti di goffi merletti. Adesso c'era anche una grande culla di vimini: la balia sollevò un lembo della stoffa che la copriva, e non ostante la penombra e sebbene guardassi rigido dall'alto senza troppo avvicinarmi nè chinarmi vidi distintamente il piccolo viso, non più grande di una grande rosa, ma già vivo, balzante verso di me da una profondità che era quella dell'anima mia stessa. Gli occhi erano aperti, placidi, nuotanti come in un velo di piacere, le labbra strette succhiavano l'aria. Subito mi preoccupai perchè la balia la ricoprì tutta: non poteva soffocarsi, così? E rientrando di là vidi che la donna continuava a lavorare la sua maglia, in fretta, come per riacquistare il minuto perduto. Ma perchè aveva voluto la bambina se era per continuare la sua vita inerte? Io invece mi sentivo tutto sconvolto solo per averne intraveduto il viso. Accennai ad andarmene. Volevo portarmi via intatta quell'impressione indefinibile che non era di gioia, nè di dolore perchè trascendeva l'una e l'altro; ma la donna mi guardò rapida col suo sguardo glauco, supplicandomi di restare. E io restai: anche perchè la balia mi osservava; e i suoi occhi così lucidi che non lasciavano distinguerne il colore, mi ricordavano quelli di una biscia che avevo veduto una volta fra l'erba.

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Può anche piangere, se vuole: il suo grido adesso può confondersi con le altre voci della notte, col mormorio degli alberi, con tutti i lamenti e i canti che salgono dalla profondità della mia anima; ma a dire il vero la bambina non si agitava nè piangeva; era tutta dura dentro la fascia, con le manine in dentro, tutta tiepida e un po' umida come un fiore notturno, nell'involucro della coperta; e abbandonava la testina in avanti, profondamente addormentata. Le passai timidamente un dito sul visetto, sulle palpebre chiuse, sulla bocca dalla quale colava il latte: poi la ricoprii e ripresi a camminare. Ed ecco di nuovo sentii, dentro di me, l'eco di un passo che mi seguiva: ma questa volta mi volsi, per togliermi più che altro dall'incertezza. E realmente vidi una forma avanzarsi nell'ombra. Non c'era che aspettarla e assicurarsi che non cercava me; il guaio fu che, nonostante l'oscurità, mi parve di ravvisare il vecchio Tobia: e quasi d'istinto ripresi a correre, ma invece di andar dritto credetti bene di allontanarmi trasversalmente per fargli perdere le mie traccie. Andavo alla cieca: davanti a me però vedevo uno sfondo meno scuro, grigiastro, e credetti fosse il mare; quindi dopo un certo tratto ripresi a correre nella direzione di prima. Mi ero abituato al buio e distinguevo le strisce dei sentieri, i cespugli, le macchie: all'ombra nera di una di queste tornai a fermarmi. Ero di nuovo solo, con la mia creatura; il cuore mi batteva, e mi pareva fosse il suo, agitato per la corsa e il vano spavento. Ma non sono pazzo? - mi domandavo. - Perchè corro così, senza neppure essere certo di essere inseguito? E se davvero lo sono, e se è il vecchio che m'insegue, che può farmi? Neppure Dio, può ormai togliermi la mia bambina dalle braccia. Piuttosto cominciai a impensierirmi per l'immobilità, per l'abbandono di lei: ma che poteva fare, lei povera creatura, povero uccellino nudo appena nato e tolto dal nido? Se piangeva non la sentivo; agitarsi non poteva. La scoprii di nuovo; non la distinguevo bene, nell'ombra, ma tornai a palparla; era tiepida, col visetto molle tutto bagnato di latte, con gli occhi chiusi. Aveva un sonno ben profondo! L'aggiustai meglio, cercando di metterla in quella posizione che le donne usano dare ai bambini quando li allattano, e le lasciai il viso scoperto. Faceva quasi caldo, o almeno mi sembrava così per il calore che io stesso sentivo: potevo lasciarla respirare: avevo paura di soffocarla: una paura strana che m'era venuta ad un tratto, che saliva da un angolo oscuro del mio essere e m'inseguiva come poco prima la forma minacciosa balzata dall'ombra della pineta. Ma perchè questa paura, incalzante, insistente, se la bambina era tranquilla, e scoperta, adesso? Vado, vado, non penso più neppure all'uomo che m'insegue; non penso che ad arrivare in fondo alla pineta, nella casa del guardiano; di trovare la balia e farle dare il latte alla bambina. D'improvviso mi sentivo di nuovo calmo, sicuro di me; mi pentivo e mi vergognavo d'essere fuggito; e anche di aver rubato la bimba, quando con la forza e il mio diritto avrei potuto prendermela un giorno e portarla dove volevo. Ma adesso il fatto è fatto; non pensiamoci più; pensiamo piuttosto a orientarci meglio, ad arrivare alla metà. Piuttosto.... Ecco una nuova paura mi assale, mentre volgo addirittura le spalle a quello sfondo grigio che mi accompagna di fianco, e cerco di andare verso il fiume. Luci vaghe, lontane, appaiono tra il fitto degli alberi; sono forse i riflessi dei lumi delle casette della collina; la strada che seguo è dunque buona. Piuttosto.... Sì, pensavo che la bambina, una volta abbandonata da me a quella gente sconosciuta, potesse venir di nuovo rubata, o tolta loro con inganno dai miei creditori. No, no, dicevo a me stesso, io veglierò; starò in giro intorno alla casetta, o farò venire la donna in casa. La zia acconsentirà: la zia ha denari, adesso ne sono convinto. E tutto mi sembrava facile, nella fantasia; ma in fondo sentivo bene che tutto era un sogno: sogno anche la calma e la fiducia che credevo di avere: in fondo un'angoscia mortale mi premeva, mi spingeva, e sempre quella paura strana, insistente, che la bambina fosse morta. Ah, ecco, l'orribile verità l'ho detta.

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E quell'impressione di aver sentita la voce di Dio nella mia voce stessa non mi abbandonava. E avevo paura di ritentar la prova. Ma tutto adesso parlava: sentivo il rumore dei miei passi, il fruscio delle foglie, e un suono lontano che dapprima mi sembrò fosse dentro di me: il mormorio del mare. Poi d'un tratto mi fermai, pronunziando parole vaghe, confuse, come quelle dei bambini che cominciano a parlare. La gioia era tale che vinceva il dolore. Per alcuni momenti dimenticai di aver la bambina morta fra le braccia. Eppure ripresi a camminare: e andavo o credevo di andare ancora verso le colline, verso il fiume, in cerca della casa della balia! Ecco di nuovo infatti l'orizzonte schiarirsi: il cielo si faceva azzurro, le chiome dei pini vi si disegnavano nere come nuvole basse che pur lasciavano trasparire un chiarore sempre più vivo: finchè d'un tratto la pineta cessò con una sola fila di pini che pareva si fossero fermati lì protesi a salutare un essere invisibile che passava nella strada bianca illuminata. Quella strada, quel chiarore, mi fecero paura e nello stesso tempo mi richiamarono alla realtà. Qualcuno poteva vedermi e fermarmi: d'altronde che cosa cercavo da quella parte? Case non se ne vedevano se non in lontananza fra le vigne: e anche avessi trovato quella che cercavo a che mi serviva? Rientrai nella pineta: il chiarore della luna si faceva sempre più vivo, illuminava i sentieri, i cespugli, illuminava, a tratti, quando io ci capitavo sotto, l'involto bianco che tenevo con me! E mi gelava tutto, come fosse un getto di ghiaccio, mi penetrava fino al cuore e smorzava, la mia gioia. Non tentavo neppur più di parlare: il suono della mia voce accresceva la mia paura. Tuttavia speravo ancora di essermi ingannato; forse la bimba era viva ancora, forse si poteva ancora salvare. Bisognava portarla dal dottore: ed ecco mi dirigo ancora alla casa del dottore: adesso mi orientavo bene, nella pineta, capivo flnalmente dov'era il mare, dove il paese, dove il fiume. Vado di nuovo verso il mare: lo sfondo grigio s'è fatto azzurro; sotto la luna piena sempre più alta e chiara, tutto il paesaggio si colorisce di azzurro e di argento, tutto diventa fresco, lieve, irreale. Ed anch'io nonostante la stanchezza, l'angoscia, il terrore, ho l'impressione di essere diventato lieve, di camminare rapido, senza sfiorare la terra. Mi sembrava che l'aria attraversasse il mio corpo come la tela d'una vela e mi spingesse. Ma dove, dove andavo? In casa del dottore no, non volevo più andare: e non più per paura, ma perchè sentivo ch'era inutile andarci, che la bimba era morta e nessuna forza umana, neppure quella del mio dolore, poteva rianimarla. Eppure andavo: dove? non sapevo: arrivato al confine della pineta tornavo indietro. Credo di aver fatto in tutti i sensi, quella notte, tutti i sentieri della pineta; e ancora mi pare adesso ogni notte nell'addormentarmi di essere là e di vagare, col mio carico, col desiderio e la paura di deporlo e di uscire libero da quel labirinto, come si vaga nei sentieri della vita, col carico delle nostre passioni e con un desiderio di liberazione....

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