Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222716
Misteri del chiostro napoletano 3 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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La risoluzione di ripudiare lo stato monastico era, a parer suo, opera di Satanasso, il quale erasi preso l'impegno di attirarmi seco nell'Inferno; per la mia lunga renitenza, Iddio mi abbandonava agli artigli del Demonio; essere nullameno tempo ancora di fare ammenda del passato, rimanendo nel chiostro. Conchiudeva, che nel mettere il piede fuori del monastero sarei stata sospinta da mano invisibile, al quale segno del divino intervento se non ne fossi stata dissuasa, egli (lo scrivente) nel dì dell'estremo giudizio sarebbe stato il mio inesorabile accusatore innanzi a Dio. Esaminai quella scrittura: non mi parve totalmente nuova. Esplorai le mie carte: non vi trovai alcun carattere somigliante. Pure era ben sicura di averla altre volte veduta. - Domandai alla portinaia chi avesse recato quel foglio; mi rispose: "Un tale, ignoto a me, che dopo di averlo posto nella ruota, frettoloso se ne partì." In un angolo dell'arcato corridoio eravi una cappelletta, dedicata a sant'Antimo, santo di origine basiliana. Passandovi quel giorno stesso in compagnia di mia zia, vi osservai una preghiera manoscritta sur una tavoletta appesa al muro. Mi approssimo, la guardo: il carattere era perfettamente simile a quello della lettera anonima, ed appunto in quel luogo lo aveva altra volta veduto. Ricondussi mia zia al coro, e volai in cerca della conversa, cui la cappelletta apparteneva. Seppi che la preghiera erale stata scritta da quel pretino, che al vedermi passare pel parlatorio, soleva cinguettare: "Ps! cara, vien qua!" Aveva intanto disposto mia madre che, uscendo del monastero, mi portassi in casa della sorella maggiore, e colà attendessi la signora che doveva accompagnarmi. A cagione dei fantastici ragionamenti che i preti e le monache mi tenevano tutto il giorno, i miei sonni erano spesso turbati da apparizioni spaventose di spettri, di demonii, di sante reliquie. La notte, che precedeva all'uscita, la commozione mi fece prendere riposo tardissimo. Era adunque fra la veglia e il sonno, allorchè parvemi udire all'orecchio il tintinnío d'un campanello. Mi desto incontinente, schiudo gli occhi, tendo l'orecchio: sono circondata dal solito silenzio. Di là a poco raccontai ad una monaca l'effetto di quella allucinazione. Essa si mise a piangere, a farsi il segno della croce, a strillare: "Miracolo! Miracolo!" "E chi può avere operato il miracolo?" le domandai. "Ci vuol tanto a capirlo? È il campanello di san Benedetto, che ti chiama." Mezz'ora dopo, il convento era sossopra: le monache, le converse, le educande non ragionavano d'altro che del miracolo, e già parlavasi d'una messa, destinata a perpetuarne la memoria negli annuali e ne' fasti del chiostro. Ma, non ostante il misterioso tintinnío, restai ferma nella mia deliberazione. All'ora fissata abbracciai teneramente la vecchia zia, valicai esultante la soglia del monastero, e dopo d'aver visitata Giuseppina, che non aveva veduta da qualche tempo per la sua infermità, mi recai in casa dell'altra sorella, ove mi trattenni dieci giorni, aspettando l'ora della partenza. Ma era scritto che il mio riscatto esser dovesse di breve durata! In questo mentre io riceveva da Reggio due lettere: erano delle altre due sorelle, colà maritate, che, per urgenza e a tutta possa, mi consigliavano di restituirmi all'abbandonato cenobio. Erano poi dolorosissime le ragioni che le inducevano a darmi tale consiglio. Mia madre era in procinto di passare a seconde nozze; Domenico, posto in oblio l'amor mio, ed impassibile alle mie sventure, erasi dedicato ad altra donna; del resto, io correva il rischio di passare da un monastero della capitale in uno di quelli della provincia. Queste infauste notizie mi atterrirono: scaricavasi d'un sol tratto sul capo mio tutto quanto il peso dell'orfanezza. Dopo d'aver lungamente ponderate le condizioni della critica situazione in cui quelle novelle mi ponevano, mi spinsi, benchè a malincuore, a domandare, se voleva il cognato ritenermi presso di sè, insino a che fosse piaciuto al Signore di procurarmi altro rifugio. Il cognato gentilmente vi consentì. Deliberai allora, che quando quella dama di Messina fosse venuta per prendermi seco lei, le direi che si partisse sola. - Così feci, ed essa se ne partì senza di me. Ma da lì ad otto giorni con una lettera fulminante mia madre protestava di non voler sopportare in pace la mia disubbidienza. Ella erasi trasferita a Messina per ricevermi, e non avendomi incontrata, come s'aspettava, era montata in furia. Non basta questo. Il ministro di Polizia citava nello stesso tempo mio cognato, per indurlo a farmi subito partire, conforme al volere di mia madre. "Cara cognata," mi disse quest'uomo dabbene, dopo l'avvertimento ricevuto: "vi ho offerta di buon grado l'ospitalità in mia casa, ed avrei seguitato a ritenervi con piacere, se vostra madre non ne mostrasse rincrescimento; ora, nel modo che le cose vanno, spiacemi di dirvi che non posso resistere agli ordini di mia suocera." Io era recisamente licenziata. - Che fare? Dove andare? A chi ricorrere? - Mi trovava in un bivio terribile. Un carcere a destra, un altro a sinistra, e d'ogni intorno l'abbandono e la desolazione! "Dio mio! diceva a me stessa, non potendo contenere le lagrime: che mai sarà di me, priva, come mi trovo, di mezzi, priva d'ogni appoggio, priva per fino della mia volontà? Se un destino crudele muove tutto a congiura contro di me, non v'ha almeno qualche legge pietosa che mi difenda?" Fu suonato all'uscio: era un amico di casa settuagenario, curvato sotto il peso degli anni. All'udir l'accaduto, quel buon vecchio mi esortò a ritornare nel monastero, finchè (diceva) fosse dissipata, la tempesta che addensavasi sul mio capo; più tardi poi si sarebbe cercato di rappattumare la madre con me. A questo consiglio si conformarono eziandio e la sorella ed il cognato ed altre persone familiari, nè, a dire il vero, scorgeva neppur io, fuori di quello, altro schermo che mi campasse dalla disperazione. Non sapendo dunque a quale miglior santo rivolgermi, secondo il detto comune, mi feci il dopo pranzo ricondurre al convento. Ivi, chiamata la zia in disparte, le dissi volermi novellamente chiudere per pochi altri mesi ancora, al che essa rispose, che sopra tale risoluzione faceva d'uopo consultare la disposizione delle monache. Poco dopo, convocate queste nel parlatorio, e udita per bocca della badessa la mia domanda, risposero, che mi avrebbero accolta volentieri nello stabilimento, se dichiarava in quell'istante medesimo di rientrarvi, non provvisoriamente, ma per farmi religiosa; nel caso contrario, dichiaravano di volermi chiudere le porte. Quale orribile alternativa! Mia sorella, vedendomi sulle spine, notando massimamente l'esitazione mia nel rispondere, mi esortò sottovoce a dire pel momento di sì, che poi, rientrata, non mi avrebbero di leggieri respinta. Me ne persuasi, e risposi sommessamente, che rientrava col disegno di farmi monaca. "Affermatelo pure ad alta voce," mi disse la badessa. - "Siete alfine determinata di dare i voti?" Il cuore mi batteva forte, il capo mi girava: credeva di venir meno. Chiesi d'una seggiola, tersi colla pezzuola il freddo sudore che mi colava dalla fronte, e con voce di agonizzante risposi: "Sì." -Il dado era tratto.... Fatale SÌ!- Non appena ebbi pronunziata l'affermativa, uno scoppio d'acclamazioni e di festose grida mi percosse l'udito. Le monache tutte proruppero di comune accordo in proteste, tendenti ad assodare, che la mia conversione era effetto manifesto del campanello di san Benedetto, da me stessa inteso qualche ora prima della mia uscita; perlochè con tutta fretta mandarono uno stuolo di converse sul campanile per suonare a festa. Nell'udire a quell'ora insolita la campana, i vicini fecero domandare che cosa fosse successo alle monache; e queste divulgarono largamente, che la nipote della badessa erasi per superiore ispirazione dichiarata religiosa. Perduta d'animo, confusa, dalle inaspettate combinazioni soperchiata, io tremava a guisa di foglia cadente al vento d'autunno. Dato pertanto l'impegno di chiudermi il giorno appresso, me ne tornai in casa della sorella, immersa nella più cupa costernazione; essa pure mostravasi molto dolente dell'andamento che l'affare avea preso all'improvviso. Il suono funesto delle campane rintronò al mio orecchio per tutta la notte: mi pentii cento volte di aver detto quel SÌ, ed accusai me stessa di fiacchezza. Ma guai a chi è trascinato dalla fatalità!.... Alle dieci della mattina mi avviava al convento, alle porte del quale parecchie persone famigliari mi attendevano. Fui ricevuta con nuova scampanata a festa, e collo sparo dei mortaletti, alla cui esplosione una folla immensa di gente si radunò. Per tutta quella giornata d'altro non si ragionò, che del miracoloso campanello, e della mia prossima vestizione. Il canonico gongolava di gioia, le suore ne esultavano, era un andirivieni continuo nella chiesa di preti e di confessori. Il cardinale Caracciolo, e il vicario vennero pur essi a congratularsi meco della mia risoluzione, e la sera un lauto trattamento di gelati e di pasticceria fu offerto dalla mia zia alla comunità. - Insomma, per vincolarmi ne' lacci, dov'era incappata, in modo da non potermene più disimpegnare, i preti e le suore strombazzarono il prodigio di san Benedetto e l'atto della mia conversione con ogni mezzo possibile di pubblicità. A sollievo delle solitarie pene che m'attendevano, m'era provveduta di alcuni volumi, che cacciai nel fondo del baule. Eranvi fra quelli la Bibbia, il Manuale d'Epitteto, e le Confessioni di sant'Agostino. Aveva pur cercato delle Consolazioni di Boezio, ma non mi venne fatto di rinvenirle. Mi fu bensì da mano amica favorito un altro libro, il cui titolo pareva alla mia situazione particolarmente confacevole: era la Solitudine di Zimmermann. Da quello scritto mi riprometteva una novella vena di conforti, e però mi sapeva mill'anni di cominciarne la lettura. Come, dopo il trattamento dei gelati, si furono le monache ritirate, preso a mia volta commiato dalla zia, m'affrettai di tirar fuori del baule il sospirato volume. Con quale palpitante avidità ne divorai al lume della lucerna le prime pagine! La storica facondia, lo stile animato e leggiadro, la soave malinconia, il movimento de' sentimenti e delle passioni, con che l'autore studiasi d'infondere l'amore della solitudine a chi lo legge, mi rapirono fin dal principio in una sfera sconosciuta di poesia, e ringraziai la provvidenza d'avermi dato a compagno un maestro, capace di poetizzare le amarezze dell'esilio, di rendermi affezionata alle mie catene, di temprare il mio cuore ribelle all'uniformità dell'inerzia, alla perpetua monotonia del quietismo. Ma di repente un triste pensiero m'assalì. - Cotesto filosofo, che sugl'incanti della solitudine a larga mano profonde i fiori dell'eloquenza, era egli infatti il mio compagno di prigionia? Era egli stato, per forza superiore ed ineluttabile, costretto, al par di me, a consumare il suicidio della propria volontà? Egli, che con tanto ardore decanta i vantaggi del ritiro, conosce forse come sa di morte la solitudine, quando priva è d'affetti, di vincoli, di memorie, d'aspirazioni; la solitudine, sfrondata da ogni germoglio d'amore, impastoiata da mille pratiche, l'una più servile dell'altra, sentenziata a perenne ed ignobile sterilità? - Ricaddi più che mai nell'abbattimento. Una mano di ferro m'adunghiò alla gola: credetti di restarne soffogata. L'orologio del vicinato aveva già suonato il tócco dopo la mezzanotte. Richiusi il libro, spensi il lume, e spalancai la finestra in cerca d'aria. Era il cielo velato da foschi nuvoloni, vaganti a seconda del vento. All'estremo orizzonte qualche stella romita avventurava un raggio, offuscato dalla caligine; e la luna, involta pur essa nella nebbia, batteva con incerta luce le mura del monastero. Alcune goccie di pioggia, che di tratto in tratto scrosciavano sul lastrico, interrompevano per un istante il vasto silenzio, e poi tutto rientrava nella muta solitudine. Mi venne in mente di scrivere a mia madre una lettera grondante di lagrime. Riaccesi la lucerna, ne gettai lo sbozzo sulla carta, ma troppo agitato giudicando lo stile, lo stracciai subito. - Non sarebbe meglio, domandai a me stessa, confidare alla zia le mie angustie? - Ma ella dorme a quest'ora! - La sveglierò. Per giungere alla sua stanza, bisognava traversare un tenebroso corridoio. Bussai all'uscio: nessun risponde. Torno a bussare: la conversa riconosce la mia voce, ed apre, sgomentata da tale visita. Nel vedermi a quell'ora, e sì fortemente conturbata, anche la badessa trasecolò. Dopo aver fatto uscire la conversa: "Cara zia," le dissi, contenendo appena la commozione che m'agitava: "duolmi assai di recarvi tante e sì gravi molestie; ma il tempo stringe, gli affari miei camminano con soverchia celerità, poichè non voglio lasciarmi sorprendere degli eventi al di là del dovere." L'informai allora minutamente del concorso di circostanze, che mi avevano indotta a ritornare nel monastero, non senza la riserva d'un imminente e definitivo riscatto, e conclusi il ragionamento dichiarandole ch'io provava per lo stato monastico la più ferma ed insuperabile ripugnanza. La povera vecchia diè tosto nel pianto, e fattosi delle mani velo, esclamò: "Lassa! Quale vergogna attendeva la mia vecchiaia, e l'ultimo mio badessato! Che mai diranno le monache? Che dirà il cardinale? Che dirà il vicario? Che dirà il mondo intero? Chiameranno pazzarella te, e me più pazza ancora, per averti persuasa a rientrare. E la riputazione del convento!.... E il campanello di San Benedetto che ha suonato!.... E le gazzette che ne parleranno!.... Qual ampia materia di scandalo! Quale argomento di favole presso gl'increduli della città!" A queste riflessioni la poveretta si diede a piangere e singhiozzare dirottamente. Il turbamento di quell'ottuagenaria, la sua somiglianza col mio adorato padre, al quale io non aveva cagionato mai il menomo cruccio, queste cose mi scossero. Veggendo ch'ella non si dava nè pace nè tregua, e andava ripetendo lamentevolmente: "Ahimè, quale tremenda sventura! Quale vergogna!" le presi una mano fra le mie, e dando allora libero sfogo al dolore, "Amata zia," le dissi, "ricoricatevi, e datevi pure pace: contro il destino mio non mi rivolterò più." Alzò la testa, mi guardò fisa: io, senza prender fiato: "Sì," le soggiunsi, "mi farò monaca. Mi costerà la vita: una disgraziata di meno: ma non amareggerò per certo gli ultimi giorni di vita della sorella di mio padre." Non potei andar oltre, perchè la foga dei singhiozzi mi soffocò le parole. Restammo entrambe abbracciate per qualche tempo senza dir motto. Alfine riprendendo essa il discorso, e sul mio capo poggiando la santa reliquia, che pendeva al di lei collo: "Sta' tranquilla, figlia mia," mi disse. "Iddio e il nostro patriarca ti sosterranno in questo sagrifizio. Pregherò dalla mattina alla sera per farti venire la vocazione che ti manca, e sarò esaudita." Volle da me la promessa di non ripetere a chicchessia gl'incidenti di quella notturna conferenza, e lo promisi. Il mio sagrifizio da quel momento era consumato: mi considerai una vittima. L'ingresso del giornalismo è interdetto nel convento. Ciò nondimeno, tiratami il canonico in disparte la seguente mattina, mi pose sott’occhio due giornali, umidi ancora dalla stampa, ove davasi al pubblico la notizia della mia deliberazione. Dicevasi in uno di quei fogli: «Ci facciamo solleciti di partecipare un fatto, che a' devoti d'ogni classe recherà piacere. Una delle figlie del defunto e compianto maresciallo Caracciolo, la signorina Enrichetta, de' principi di Forino, giovine di rara pietà, si è determinata di ripudiare la vanità del mondo, per prendere il velo nel monastero di San Gregorio.» Portava l'altro diario, organo ben noto della pretesca consorteria: «Il campanello di San Benedetto ha tornato a risuonare poc'anzi, e questa volta per conquistare all'angelica regola Benedettina un'altra Caracciolo in età tenera, e discendente in linea diretta da san Francesco dello stesso cognome. Questa giovinetta, che somma reluttanza avea mostrato nell'abbracciare lo stato monastico, ora, per essere stata evocata durante il sonno dal suddetto miracoloso campanello, ha formalmente espressa la sua intenzione di farsi monaca..... Empi e miscredenti, favete linguis animisque!» Intanto mia madre non mi scriveva. Le indirizzai una lettera; un'altra ne scrisse mia zia per annunziarle la mia risoluzione di farmi monaca. Rispose non volerlo affatto permettere, e per molti mesi oppose la più ostinata resistenza. Era suo intendimento, diceva, di maritarmi a persona di suo aggradimento, nè mi avrebbe ritenuta nel chiostro, se non infino a che tale opportunità si presentasse. Se non che, soggiunse mia zia, non poteva essa opporsi ai decreti della Divinità. Questi decreti per altro non potevano effettuarsi immediatamente. Al mese d'agosto del 1840 non aveva ancora raggiunta l'età disciplinale per vestirmi monaca; compiva vent'anni nel 1841. Si dovette perciò attendere sino al mese d'ottobre di quest'ultimo anno, ossia un intervallo di venti mesi dopo il mio primo ingresso nel chiostro. Questo tempo fu dalla comunità dedicato ad apparecchiare a spese mie..... i confetti pel giorno della festa. Frattanto mia zia che per un intero decennio aveva esercitato le funzioni di badessa, fu surrogata da un'altra Caracciolo, donna piuttosto burbera e rigorosa. Questo rigore, contrapposto alla soverchia affabilità di mia zia, fece sì che malcontente ne uscissero tutte le monache. Quaranta giorni prima della mia vestizione fu deciso, per contentare mia madre, ch'io passassi questo spazio di tempo presso di lei. Però, prima di uscire, mi fu fatto sborsare per le spese della funzione ducati 700, e qui cade acconcio di notare, che l'egregio generale Salluzzi mantenne la sua promessa, donandomi ducati mille. In questo mentre mia madre, reduce dalla Calabria, prese alloggio in casa di Giuseppina di conserva colle mie due sorelline. Tanto essa che gli altri parenti, nel notare la mia rassegnazione ad un male che ormai sembravami inevitabile, riputarono vera e spontanea la mia vocazione. Dal canto mio, dovendo rinunziare al mondo per sempre, e volendo evitare ulteriori rammarichi, schivai, per quello spazio di tempo, e teatro, e passeggio, e società. Tentai soltanto un giorno di cantare sul piano-forte un'arietta popolare, quella che tanto era piaciuta altra volta a Domenico; ma la commozione che mi sorprese, ma i rimpianti amari che nel cuore mi ripullularono, diedero ai miei nervi sì gagliarda scossa, che d'allora in poi feci divorzio anche colla musica, nè suonai più che l'organo della chiesa. Più d'una volta mi venne il pensiero di aprire il mio cuore al Generale, mio secondo padre, e chiedergli aiuto: ma la parola data mi chiudeva le labbra. Egli aveva già sborsato il danaro, del quale molta parte erasi presa; ora, volendo pur mancare all'impegno solenne, fermato colla zia e colle monache, poteva io più ritrattarmene, senza far trista figura davanti al benefattore? Non vi era alcuno scampo plausibile. Doveva assolutamente chiuder gli occhi, ed abbandonarmi alla discrezione della fatalità. Spuntò il critico giorno. Una folla di parenti e d'amici affluì fin dal mattino nella sala di mio cognato: gli uomini discorrevano allegramente; le donne chiassavano, le zittelle si erano impadronite del piano-forte; io sola era mesta con in bocca l'amarezza dell'assenzio. A dieci ore fui chiamata all'allestimento. M'inghirlandarono di fiori gemmati, a guisa di sposa: mi fecero indossare un abito sontuoso di velo bianco, ed al capo mi attaccarono un altro velo dello stesso colore, scendente sino ai piedi. - Quattro dame assistettero all'acconciatura, due altre dovevano accompagnarmi: la duchessa di Carigliano e la principessa di Castagnetto. Conformandosi alla consuetudine, queste dame cominciarono dal condurmi a diversi monasteri, onde farmi vedere dalle altre monache: le seguitai automaticamente, muta d'accento, col pensiero assente. Mi scossi solo, allorchè seduta nella porteria del monastero di Santa Patrizia, accanto all'altra zia Benedettina, vidi entrare frettolosi ed anelanti due chierici, che gridarono: "Ma, signore, venite presto a San Gregorio Armeno! Il pontificale è finito: non si attende che la monaca." Una pugnalata al cuore non ha effetto diverso di quello che provai da tale chiamata. Un tremito generale s'impossessò delle mie membra, e divenni livida al par di cadavere. La prima ad alzarsi fu la duchessa Carigliano. Compressi la mano sul cuore, mi levai a stento, e baciai quella vecchia zia, che mi disse lagrimando: "È questo l'ultimo nostro bacio.... Addio, figlia mia! ci rivedremo in cielo." La principessa, venutami più d'appresso, mi guardò in volto. "Fermatevi, duchessa," disse alla Carigliano: "non vedete che la monachella si sviene?" Infatti, appuntellata alla spalliera della seggiola, io vacillava, pronta a cadere. Mi posero a sedere, e chiesero un bicchier d'acqua, dal che refrigerata un poco, ripresi lena, e mi rialzai. "Scommetto, che non siete contenta di farvi monaca," mi disse per via la principessa. "Al contrario," risposi, inghiottendo un sospiro traditore; "ne sono contentissima." Avanzava frattanto la carrozza, ed avanzando entrava nel quartiere di San Lorenzo. Approssimatici alla città dolente, misi il capo allo sportello, cercando con lacerante curiosità le persiane delle finestre, le cancellate di legno, le inferriate, e gli altri ripari del monastero. Alla vista del sepolcro che stava lì per ingoiarmi, non so come, spinta da un istintivo impulso, non mi sia rovesciata dalla carrozza in mezzo alla strada. - Mi risostenne l'intima autorità dell'amor proprio. Quanto mi avvicinava a San Gregorio, tanto più distinto facevasi il suono delle campane. Ogni tócco era suono funereo nell'animo mio. All'angolo della strada, il confuso cicalar della moltitudine, accorsa da ogni parte, lo sparo dei mortaletti, le acclamazioni delle donnicciuole a' balconi, e la banda degli Svizzeri finirono di impietrirmi. - Io ho provate le estreme sensazioni del suppliziato! Al portone della chiesa fui ricevuta da una processione di preti colla croce in alto. Due altre dame si posero al mio fianco, la principessa di Montemiletto, e la marchesa Messanella. Il prete colla croce in mano camminava innanzi, gli altri formavano due ale. La chiesa era parata con eleganza, illuminata con profusione, e divisa nel mezzo da uno steccato bianco e rosso, alla cui dritta stanziavano le signore, che erano state invitate e ricevute da mia madre, ed a sinistra stavano i cavalieri, ricevuti da mio cugino il principe Forino. Di quella assemblea numerosa, delle variopinte decorazioni, di quell'oceano di luce altro non vidi che una masse informe e confusa. Giunta che fui al mezzo del tempio, mi fecero inginocchiare, e mi presentarono una piccola croce d'argento, e una candela accesa. Dovetti poggiare la prima sul petto, tenendola colla sinistra, e portar nella destra la fiaccola. Nel passare vicino alle signore, la mia sorellina Giulietta stese le mani per afferrarmi dal velo, e gridò tanto alto da farsi sentire da tutti: "Non voglio, no, non voglio che tu vada a chiuderti!" Quella voce argentina attirò l'attenzione d'ogni persona. Era la voce dell'innocenza che gridava alla barbarie. Mi volsi a quella parte: una signora imbavagliava la bocca della fanciulla col fazzoletto. Mi corsero le lagrime agli occhi, asciutti fino a quel punto. Arrivai all'altar maggiore. Il vicario, che funzionava, essendo infermo il cardinale, stava seduto dal lato dell'Epistola. Ivi, io e le dame rimanemmo per pochi minuti genuflesse; poi mi menarono al vicario, e mi posero ginocchione ai suoi piedi. Un prete, dalla cotta superbamente ricamata, presentògli un piccolo bacile d'argento con forbicette, con le quali mi recise una piccola ciocca di capelli. Mi rialzai allora; e fiancheggiata dallo stesso corteggio, preceduta dalla banda che suonava, uscíi nuovamente della chiesa. Il tratto di strada, che da questa mena alla porteria, fu fatto da tutti a piedi, in mezzo ad una fittissima calca di curiosi. Appena posi il piede al soglio della clausura, proruppi in uno di quei pianti sfrenati, che non può forza umana contenere: e le monache a chiuder tosto le porte, ad internarmi sollecitamente, a dirmi in coro: "Non piangere, per carità! Altrimenti diranno i secolari, che non ci monachiamo per vocazione, ma per forza.... Zitto, zitto, per carità!" Scesi al comunichino. Il vicario, i canonici, i preti e gl'invitati erano tutti affollati presso al cancello. Ivi, condotta in un angolo, fui per mano delle monache spogliata via via degli abiti di gala, del velo, della ghirlanda, dei guanti e perfino dei calzarini. Quando in vesta di lana nera, colla chioma scarmigliata, cogli occhi tumefatti dal pianto m'accostai al portellino del comunichino, intesi tra la folla alcuni gemiti, provocati dalla commozione. Chi mi deplorava? Lo ignoro. Il vicario benedisse lo scapolare, ed offertomelo di propria mano, me l'indossai. Quindi mi prosternai dinnanzi alla badessa. M'avevano spogliata dell'abito secolare: dovevano pur togliermi la chioma. Le monache strinsero in una sola treccia i miei lunghi capelli, e la badessa impugnò delle grandi forbici per reciderla, mentre un silenzio profondo regnava intorno. Una voce potente, uscita da mezzo i convitati, gridò: "Barbara, non tagliare i capelli a quella ragazza!" Tutti si volsero: bisbigliarono di un pazzo. Era un membro del Parlamento inglese. I preti imposero silenzio, e le monache, le quali in altre simili funzioni avevano veduto de' protestanti, dissero alla superiora, ch'era rimasta colla mano sospesa, stringendo le forbici: "Tagliate! È un eretico." La chioma cadde, e presi il velo.

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Io mi abbandonava alla più sfrenata desolazione. Feci una nuova e più vigorosa istanza, e la mandai a Roma. Coerente intanto alla sua promessa. Riario venne più di frequente al monastero. Ogni volta che il campanello chiamava la comunità al parlatorio, io mi sentiva rabbrividire. Per evitare quel disgustoso incontro, avrei dato non so che: ma come fare? Non appena giunto, egli diceva; "E la vostra Caracciolo dov'e?" - Benchè fremente di dispetto, doveva farmi innanzi e udirmi domandare con voce melliflua come stessi di salute, e se fossi tranquilla d'animo: complimenti del carnefice al condannato. "Povera figliuola! È così buona! Non si vede, nè si fa sentire:" rispondeva per me l'ipocrita badessa, solita sempre a lodare le persone nella loro presenza. "Brava!" soggiungeva l'eminente visitatore: "così va bene." Un giorno la superiora mi fece mettere nella prima fila. Tale studiata preferenza indignò le monache, le quali bisbigliarono contro la badessa, e dissero, dietro le mie spalle: "Che fastidio! si parlerà dunque in eterno della Caracciolo?" "Eminenza," fece la superiora, "debbo denunziarvi questa signora monachella che ogni giorno più si atteggia a misantropa. Fugge la compagnia, passa gran parte della giornata rinserrata nella sua cella, e nelle ore di ricreazione non si vuol unire colle altre monache. "Lasciatela un momento sola con me," disse l'arcivescovo in tuono di potestà patriarcale. Le monache uscirono malcontente, ed io mi sedetti a qualche distanza, curiosa di vedere come Sua Eminenza avrebbe intavolata la sua orazione. Ei si compose in atto affabile, affine di ispirarmi fiducia, si terse il sudor del volto colla pezzuola di batista, poscia m'interrogò: "Per qual motivo ve ne state sempre sola e pensierosa?" "Sarebbe anche questo un delitto? Quando adempio a' miei doveri ed obbedisco a' precetti, mi pare che gli altri non dovrebbero brigarsi delle mie abitudini." "Però vorrei poter vedere traverso le pareti ciò che fate per tante ore sola nella vostra stanza. Il confessore non deve internarsi in tutto?" "Leggo, scarabocchio, lavoro: è forse anche questa un'infrazione?" "Sicuramente. Non vi è lecito leggere o scrivere se non opere di devozione. E, di grazia, che state leggendo e scrivendo?" "Cerco nella lettura di qualche libro istruttivo un conforto alla oppressione che m'abbrutisce; sbozzo le memorie di questa mia captività per lasciarne un ricordo, se mi verrà fatto." "Oppressione..... memorie..... captività....! A maraviglia! Dove diamine avete attinto questo frasario da Carbonaro? Sapete che dovrei castigarvi severamente per tali fantasie spropositate?" "Potete fare anche questo. Mi manca solamente la catena al piede: ordinatela." "Non me lo permette l'interesse che sento per voi. Pur nondimeno vorrei farvi deporre quella smania maledetta di ricuperare la libertà; su questo argomento sono assoluto, implacabile, inesorabile, nè vi acconsentirò mai." "Tentate invano di togliermi l'ultimo barlume di speranza. Ho riscritto alla Santa Sede." "Lo so, lo so, ed io controscriverò sempre negativamente. Vogliate per altro confidarmi dove vorreste andarvene, uscita che foste di convento." "In casa di mia madre. Ormai non ho bisogno di tutela, ma credo che nessuna donna possa custodire una giovine meglio della propria genitrice." Nel pronunziare quest'ultime parole, gli occhi mi si gonfiarono di lagrime: mi era balenata alla monte la memoria di mio padre. - Il cardinale proruppe in un riso mefistofelico, e disse: "Pastocchie! Vorreste piuttosto uscire per ballare: in casa di vostra madre si danno feste di ballo a' liberali; ma badi bene a quello che fa, altrimenti ci baderà la polizia!" Quest'ultimo tratto esaurì la mia pazienza. Afferrato il lembo dello scapolare, "Con quest'abito abborrito da tutti," gli dissi, "avrei vergogna di farmi vedere, ed ancor più di prendere parte ad una festa. Non chiedo la liberazione, altro che per riconquistare un bene supremo, al cui godimento ho rinunziato per inesperienza, per debolezza, per forza d'avverso destino." "Non posso," ripetè più volte il cardinale, rinforzando ad ogni passo il tuono. "Per ora," soggiunse, "sto per ripartire alla volta di Roma; appena tornato, vi rivedrò." "Ed io, da parte mia, non cesserò giammai d'aspirare al mio riscatto. Buon viaggio!" E quand'ebbe voltate le spalle, gli dissi: "Vattene alla malora!" Ciò nondimeno l'abbattimento mio andava crescendo di giorno in giorno, ed il cervello cominciava realmente a risentirsene. Io confrontava le mie sofferenze morali con quelle delle due converse impazzite, e temetti di trovarmi anch'io vicina a diventar pazza. Le speranze, riposte da me nell'animo liberale di Pio IX, andavano frattanto dileguandosi. Erasi prima parlato di scioglimento di voti; si disse poi d'una quinquennale rinnovazione degli stessi; in ultimo si spacciò che tale rinnovazione sarebbe stata ristretta soltanto a quanti avevano fatta la professione dopo il Breve; finalmente si cessò di parlare su tale argomento. - Nell'animo di Pio IX l'emancipazione monastica e la patria carità subirono la medesima sorte: «E quando Roma non voltò mantello?» Mio primo intendimento, come ho già detto, era quello di uscire per soli sei mesi, riservandomi di rinnovare il permesso al termine di questo periodo, e di passare da quello in altro chiostro, nel caso che negate mi fosse il prolungamento. La capricciosa repulsa, l'avermi ricusato quello che tutti i giorni si concedeva a tante che ammorbavano Napoli; massimamente in tempo d'estate; queste cose mi punsero al vivo. Era evidentemente un tratto di personalità, cui piuttosto che soccombere avrei rinunziato all'esistenza stessa. Da quel momento diedi l'addio ad ogni sorta di palliativo, di mezzo termine, e mirai a dirittura al definitivo scioglimento dei voti. Raccolte adunque delle informazioni intorno a tale bisogna, letti più libri su questa materia, ed abboccatami con un dottore in gius canonico, seppi che conveniva anzi tutto mandare il reclamo prima che fosse spirato il quinto anno della professione: che bisognava poi provare la violenza morale nell'atto della monacazione: infine che la causa doveva trattarsi prima alla curia di Napoli, e poi a quella di Roma, locchè avrebbe preso molto tempo e moltissimo danaro con iscarsa probabilità di riuscita. Questi ragguagli mi sconcertarono. Prossimo a spirare era il quint'anno della mia professione..... E poi, la curia di Napoli avrebbe essa urtate di fronte le disposizioni d'un cardinale arcivescovo per esaudire i reclami d'una monaca priva di protettori......? E poi, dove mi sarei procacciata il denaro necessario per spedire personalmente l'avvocato a Roma, e per dare l'inevitabile boccone alle signorie reverendissime di quella capitale? - Questa trista prospettiva, dico, mi sbigottì. Nulladimeno, per non cadere nella prescrizione, deliberai di mandare il ricorso alla curia napoletana; e così feci, mettendo in luce le circostanze tutte che fecero violenza alla mia volontà dal punto ch'entrai nel convento sino al giorno de' voti. Quale fu la sorte di questa istanza? fu essa intercettata alla curia di Napoli che non le diede alcuno sfogo, od invece cadde negli artigli del cardinale che se ne impossessò? Non mi venne mai fatto di penetrare questo mistero: certo si è, peraltro, che l'istanza mia sparì, senza lasciar dietro di sè alcuna traccia. Trovatami pertanto alle strette, nè più sapendo che mi fare, divisai di scrivere a dirittura al Santo Padre, affine di aprirgli il mio cuore, manifestargli le mie disposizioni con filiale franchezza, muoverlo a pietà del mio stato. Pio IX era allora in grido d'uomo d'alto ingegno e d'uomo di mondo. Nella relazione, che per lui in particolare scrissi, credetti acconcio non tenergli soltanto parola della mia salute, che di giorno in giorno deperiva, ma notificargli eziandio alcun che di non meno rilevante: cioè, che avendo avuto sin da giovinetta inclinazione pel matrimonio, sarei passata a marito, ov'egli avesse condisceso a svincolarmi dagli obblighi, che mio malgrado aveva contratti trasportata dalla corrente di disastrose e fatali circostanze. - Per rendere inviolabile il segreto della relazione, immaginai di premettere a quell'istanza il confiteor, orazione la quale, come ben si sa, precede la confessione auricolare. Il cardinale era frattanto ritornato da Roma. Venuto al monastero, volle trovarsi di bel nuovo a quattr'occhi con me. Inaugurò il colloquio facendomi dono di una corona benedetta, portata dalla Santa Città, e chiese in ricambio un qualche lavoretto di mia mano. Il regalo mi parve di cattivo augurio. Più bramosa della mia libertà, che vaga di tali ninnoli da santocchia, dissi corrucciata a Sua Eminenza ch'io non sapea fare nulla di lavori donneschi. "Non è vero," diss'egli leziosamente: "non mi sono ignoti i vostri lavori. Applicatevi a qualche cosa; ad un elegante ricamo, per esempio: ciò vi servirà di distrazione." In questo mentre si fece innanzi l'abbadessa e saputo dal cardinale il mio rifiuto, torse sdegnata il viso. "Il lavoro sarà fatto immancabilmente," disse in tuono imperioso al cardinale: "glielo farò avviare e terminare io stessa." Per più giorni m'annoiò, reiterandomi la domanda, se già l'avessi incominciato, e di quale sorte sarebbe stato. Stizzita alfine dall'incessante molestia le dissi: "Vorreste forse impormelo per disciplina?" "Ohibò! spero che lo farete di buon grado." "Allora con vostra buona pace, fatela finita! Io detesto quell'uomo quanto un prigioniero di Stato detesta l'autore del suo imprigionamento. Non è forse desso che a viva forza mi trattiene in questo stato di violenza?" "Ma lo fa perchè ti vuol bene." "Mi vuol bene? obbligatissima! Dio voglia che mi porti odio, invece di quella funesta amicizia." "Ora però," soggiunse l'abbadessa con affettazione, "ora dovresti passarlela più tranquillamente. Quelle fraschette delle monache giovani non t'importunano più." "Me ne accorgo," risposi: "temono che io, uscita per avventura dal chiostro, non le paghi a contanti come si meritano." La superiora si morse le lebbra. Seppi di poi che l'argomento del mio congedo, considerato come peccato politico, e messo nel numero degli affari di Stato, preoccupava più ch'io non immaginassi, le autorità; e che tra il Riario, la badessa e il confessore regnava su tal proposito un'intelligenza non meno arcana che intiera. Un'altra volta, avendo saputo che dall'ufficio d'infermiera io era stata trasferita a quello di panettiera, il cardinale venne a recarmi le sue congratulazioni (!), e di più a domandarmi de' dolci, fatti di mia propria mano. - Egli ebbe la stessa negativa. Dovette più tardi visitare il convento per affari della comunità. Disbrigata la faccenda che ve l'avea menato, si fece condurre dalle monache nella mia cella, che prese ad esplorare a parte a parte; quindi, uscito sul terrazzo, e scorto lì di faccia il Vesuvio colle adiacenti colline e coll'ameno paesaggio che intorno intorno lo corteggia disse: "Di quale magnifico prospetto gode la vostra stanza! che immenso orizzonte! questa vista solleva il cuore e edifica lo spirito!.... E voi volete lasciarla!" "Questo prospetto," risposi, "non fa che rendere più sospirato al prigioniero il bene della libertà." "Ma voi siete libera quanto basta: chi sa, che una dose maggiore di libertà non vi tornasse dannosa!" "Con simili detti era pure confortato dal suo tiranno l'afflitto popolo d'Agrigento," risposi a Sua Eccellenza, accompagnando l'ironia con un sorriso. M'intese, si tacque, e partì. Era quello il tempo de' monsignori Apuzzo, de' Pietrocola, de' Del Carretto; il tempo, in cui a furia di sofismi erasi elevata a dignità d'assioma la dottrina, che il popolo delle Due Sicilie, troppo felice nello stato d'innocenza pecorina in cui viveva, non dovesse punto correre il rischio di restarne defraudato col cercar di spingere le sue letterarie cognizioni più in là dell'abbiccì. In qual parte del mondo cristiano non risuona l'ignominia del Catechismo di monsignor Apuzzo? Potevano l'oscurantismo clericale e il dispotismo borbonico lasciarsi addietro un monumento più infame di questo? Circa un mese e mezzo dacchè aveva spedita la lettera al Santo Padre, mi venne incontro il confessore tutto contristato, e di pessimo umore. Veniva dal palazzo arcivescovile. Chi lo crederebbe? quella lettera, di cui io sperava aver fatto un mistero allo stesso canonico, era stata rimessa tal quale originalmente al cardinale arcivescovo! E il segreto epistolare? - Violato! E il sigillo della confessione? - Infranto! Sua Eminenza voleva sapere dal canonico il come, il quando, il perchè avesse costui permesso che tale scritto fosse stato diretto a Sua Beatitudine, e chiedeva inoltre se qualche procellosa passione mi avesse suggerito tale spediente. Il canonico asserì di non saperne nulla: almeno così mi disse. - Son tutti d'una buccia. È certo però, che nella confessione io m'era fatta una legge di non rivelargli, se non le mere infrazioni alla disciplina. Il cardinale, saltato in collera per questo tratto novello di ciò ch'egli piacevasi di qualificare col nome di mia irrefrenabile cospirazione, lasciò trascorrere lungo tempo, senza venire a trovarmi. Intanto quella lettera, caduta in sua mano, troncava l'ultima mia speranza di vedere prossimamente terminato il mio purgatorio. Se non che, in luogo di quelle illusioni, che di mano in mano svanivano in sul nascere, andava per me spuntando un diverso, e più chiaro lume di salvezza. Ridesto nel sepolcro, ove chiuso da già ventisett'anni giacevasi, il genio dell'italica libertà scuoteva dal crine la polvere della tomba, e riprendeva più bella e più forte l'antica sua vita.

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Io e Maria Giuseppa, che non mi abbandonava, entrammo dunque nel ritiro, e mia madre due giorni dopo se ne partì. Molti riguardi mi furono usati dai superiori dello stabilimento; veniva ogni giorno il cameriere del vicario per sapere se avessi ordini da dargli, e il cardinale aveva commesso sì alle religiose, che alle ragazze, di usarmi il massimo rispetto. Ebbi per questa ragione da esse il titolo rancidissimo di Eccellenza. Intanto scorsero parecchi giorni prima che Riario avesse scoperto il mio rifugio. Saputolo alfine, si morse le dita, e scrisse a Capano una lettera piena d'impertinenti rimproveri per avermi dato asilo. Questi rispose trattarsi d'un'onorata religiosa non d'altri scontenta, che di lui, e non già, come dal suo foglio sarebbe sembrato, d'una fuggitiva dal carcere, rea di qualche enorme misfatto; del resto, essere l'arcivescovo di Napoli in dovere più di ringraziarlo per avermi accolta, che di censurarlo. Riario sopì la collera, per ridestarla in sè a miglior tempo. Veniamo ora all'ignobile ritiro, dove il destino mi aveva balestrata. Grandiosa è l'Annunziata di Capua: ha vasto fabbricato e chiesa bellissima. Le religiose vi occupano stanze separate, ma le proiette dormono stivate in lunghi ed oscuri corridoi, ove non si può penetrare senza disgusto. Vi alloggiavano in quel tempo trecento in circa di queste femmine. Rimasi spiacevolmente colpita dello squallore, dal sudiciume, dal misero aspetto di quelle vittime di malcauti amori. Prive delle domestiche virtù e de' requisiti che nobilitano il sesso debole, destitute d'ogni elementare istruzione, rozze, garrule, petulanti, infingarde, esse convivevano lì in uno stanzone comune incatenate: parevan piuttosto un branco di bruti, che una famiglia di creature ragionevoli viventi in terra cristiana, e lì riunite sotto gli auspicii della Chiesa per uno scopo di riforma morale. A questo prospetto stomachevole aggiungevasi una scostumatezza nauseante per famigliarità ch'esse trattenevano coi soldati della guarnigione. Nè l'abbadessa delle religiose, ch'era in pari tempo superiora delle proiette, riusciva a frenare la depravazione. Addivenuta burbera ed intrattabile sì per le infermità, sì per i continui travagli che la comunità le cagionava, essa aveva deposte per intero la prudenza e l'affabilità, ch'erano indispensabili al reggimento d'un istituto tanto male accozzato ed eteroclito. Era in quel mentre afflitta Capua da gravi trambusti. I carcerati eransi rivoltati, ed avevano fatto altrettanto i seminaristi colla mira di trucidare il proprio rettore; e già si accingevano a far lo stesso quelle disgraziate dell'Annunziata, a niente meno risolute, che ad immolare la povera badessa. Le trattenne un poco il rispetto che volevano dimostrare a me. Non sì però che una di esse non le tendesse una maligna trappola. Eravi al disopra della gradinata una stanza formata a guisa di tunnel, passaggio piuttosto pericoloso; quella briccona si pone in agguato ad una finestra superiore, e nel punto che la badessa passava di lì, rovescia a perpendicolo sul mal fermo terreno un vaso di fiori pesantissimo. La misera vecchia dovè la sua salvezza alla pura combinazione d'essersi soffermata un momento prima di porre il piede sul passo fatale. Una mattina le fecero trovare, dipinte alla sua perta, due grandi croci nere, sovrapposte ad un cranio: minaccia di morte. Quelle ribalde misero in opera tutti i mezzi di seduzione onde attirare a' loro conciliaboli la mia conversa; ma Maria Giuseppa, la quale per probità e saviezza faceva eccezione al proverbio, non solo assurdo ma falso, che il tuo più gran nemico, dopo il fratello, è il servitore, Maria Giuseppa, dico, lungi dal prestare orecchio alle loro parole, si fece rigida censora del loro contegno. E le biasimò altamente nell'occasione che, essendo stata la badessa confermata dai superiori nella sua carica, elle si diedero a suonare tutte le campane a lutto. Fecero anche di peggio in un'altra circostanza. La sera d'una festa popolare, avendo la superiora proibito a quelle sciagurate di salire sul belvedere, attesochè, sotto il pretesto di vedere i fuochi artificiali, questo indispensabile condimento dello spettacolo napoletano, esse non avrebbero mancato di fare delle pezzuole altrettanti telegrafi corrispondenti col quartiere militare, esse, fortemente per tale divieto indispettite, ammonticchiarono all'uscio della badessa una dozzina dei loro pagliericci, e vi appiccarono il fuoco; poscia, come la paglia ebbe divampato, presero a saltare sulle fiamme, a modo dei monelli di Napoli, quando, riuniti d'inverno alle cantonate, possono attaccar fuoco agli avanzi di paglia delle scuderie. Chi le avesse viste a qualche distanza lacere, scalze, coi capelli scarmigliati infuriare a quel modo; chi ne avesse udito l'orribile baccano, avrebbe creduto di assistere a un sabato misterioso di streghe e di versiere. Un giorno, avendo io incontrata quella di loro che faceva più rumore delle altre, una giovine magra e spilungona, cui non moriva in bocca mai la lingua, la pregai di volersene stare, se poteva, un po' più tranquilla. Ella, dopo avermi baciata la mano: "Eccellenza, fo l'impertinente e la chiassona apposta." "Tu mi canzoni!" "Gnoranò: fo l'impertinente per pigliar marito." "Non t'intendo." "Eccellenza sì: chi non fa la pazza, qui va a pericolo di restar sempre ragazza. In questa Annunziata qui, non si fa mica come in quella di Napoli, dove i giovanotti si scelgono la sposa, buttando il fazzoletto alla ragazza che vogliono. Qui gli uomini (belli o brutti, giovani o vecchi importa poco) vengono al parlatorio; la superiora chiama allora per nome ognuna di noi una dopo l'altra, finchè al compratore non piaccia la mercanzia. Ora dovete sapere, che quella furbacchiona, le prime che chiama al parlatorio son le più impertinenti, quelle che l'hanno fatta più disperare." "Perchè?" "Per liberarsene più presto." Non potei frenar le risa a siffatto ricambio di furberia, e quando m'imbattei nella superiora, la quale più volte erasi consigliata meco rispetto al modo di regolare quel pandemonio, le suggerii lo spediente di chiamar le ragazze, non ad arbitrio, ma per età; poichè così avrebbe tolto il caso che facessero le cattive per speculazione. Tutte le mattine veniva a salutarmi una giovine contegnosa, ma pallida e molto mesta, che celava un mistero difficile molto a indovinare. Le domamdai se soffriva di qualche indisposizione: esitò sulle prime a rispondere, ma poi, con parole interrotte e sospirando, consentì a rivelarmi ch'ell'era vittima d'una malìa. Io presi l'impegno di persuaderla che le stregherie sono mere imposture, e non bisogna crederci; ma mi avvidi che pestava l'acqua nel mortaio, poichè la poveretta erasi fissata in quell'idea. Avendola pregata a raccontarmi come credeva essere stata ammaliata, ella condiscese a manifestarmelo. Aveva ella, mi disse, amoreggiato per più anni con un tale, che era andato provvisoriamente a Napoli co' suoi padroni. Prima di separarsi, recandosi costui a qualche distanza della città, vollero vicendevolmente giurarsi fedeltà inviolabile. Ma se fedele si serbò il giovine nell'assenza, non ne fece altrettanto la Capuana, perchè, contratta amicizia con un sergente, violò il giuramento. Di quest'infrazione avvertito il primo amante, volò sollecito in Capua, ove, fingendo di trattare la perfida come prima, invitatala a pranzo, le regalò delle paste che aveva portato da Napoli. Il giorno appresso, assicuratosi che la sleale amante aveva già divorato il regalo, gittò la maschera e rinfacciandole con virulenza il tradimento: "Ora sono vendicato!" le disse: "già la malìa opera nelle tue viscere.... Addio!" Da quel giorno in poi fu turbata la ragione di quella infelice: un'estrema confusione di idee e di sentimenti la condusse a quello stato lagrimevole. "Ma perchè," le domandai io, "attribuite ostinatamente alla fattucchiería quello che potrebb'essere l'effetto d'una mera combinazione, o, seppur volete, di qualche veleno messo in quelle paste?" "No, no!" rispose: "io ho il demonio in corpo; non posso entrare in chiesa, nè accostarmi ai Sacramenti." "Vieni con me: ti condurrò nel coro io stessa; il tuo diavolo avrà paura di me!" "No, no, per carità.... non posso; morirei subito." L'afferrai per la mano, e quasi trascinandola, le feci scendere le scale: essa piangeva, tremava, imprecava, tentava continuamente di svincolarsi. Dopo lunga resistenza, raddoppiata presso alla porta, al fine vi entrò. La forzai ad inginocchiarsi a piè dell'altare; ella mandò un urlo spaventevole, e fuggì come un lampo. - Povera Napoli, ad estirpare la superstizione feroce che t'insozza non basterà la libertà di mezzo secolo!

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