Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandonava

Numero di risultati: 48 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Sull'Oceano

170956
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1890
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Pagina 14

Il pollo non si mangia con le mani. Galateo moderno

188778
Pitigrilli (Dino Segre) 2 occorrenze
  • 1957
  • Milano
  • Casa Editrice Sonzogno
  • paraletteratura-galateo
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Nelle vecchie famiglie cattoliche, quando una bambina petulante - imitando la madre, la zia e la nonna si abbandonava a un fastidioso chiacchierìo, un adulto le ordinava di chiudere la bocca, e di fare un fioretto alla Madonna. Ma i tre sistemi si indirizzavano a tre categorie diverse di persone, a tre mentalità distinte: il fanciullo greco aspirante alla filosofia e alla matematica, il benedettino e il carmelitano aspiranti a Dio, e finalmente la bimba, aspirante al matrimonio, fanno un impiego differente del dono della parola. La donna di altri tempi, vuota di idee, l'essere dai capelli lunghi e dalle idee corte, della quale sopravvivono oggi troppi esemplari, parla per il bisogno fisiologico di far funzionare gli organi fonetici, per il bisogno di emettere sotto forma di rumori l'acido carbonico della respirazione. La povertà delle sue idee ha per derivativo la parola, come gli uomini falliti in amore trovano un derivativo nelle gioie della mensa. I tea rooms sono pieni di signore che vi si dànno convegno per parlare durante ore e ore di niente. Se tendiamo l'orecchio, sentiamo ricorrere all'infinito i soliti e inconsumabili argomenti: «la gonna e la scollatura», «la jupe» e «le décolleté», «la pollera» e «el escote». Con questi discorsi la donna si inquadra nella mediocrità, tepidarium adatto alla proliferazione di tutta la flora della stupidità, sulla quale trionferà poi la putredine delle frasi insulse, dei luoghi comuni sfilacciati, dei tratti di spirito arrugginiti. Il giorno che vorrà elevarsi per il cambiamento che le auguro delle sue condizioni, si sentirà irreparabilmente catalogata nella paccottiglia umana, senza possibilità di migliorare di categoria. Il suo cervello si sarà plasmato nella miseria intellettuale, che è la miseria dalla quale non c'è speculazione in borsa o alta protezione che ci faccia uscire. A queste signore consiglio una buona cura di silenzio pitagorico. Per realizzarlo non c'è altro sistema che la lettura e lo studio. Le due ore passate al caffé con le amiche starnazzanti per richiamare l'attenzione dell'universo sul loro cappello nuovo e riempirsi di pasticcini che compromettono la linea, possono essere utilmente impiegate nello studio di una lingua straniera, e della propria lingua, il che è altrettanto utile e urgente, e nel formarsi una cultura generale. Lo studio conferisce alla bellezza. Presentatemi dieci donne di differente cultura, e io, senza sapere chi sono, senza che aprano la bocca, mi sento di indicarvi quella che ha letto diecimila libri, quella che ha una laurea, quella che conosce quattro idiomi, quella che ha l'abitudine alla cattedra - e le altre... Le altre, quelle che ostentano per i libri l'orrore che un ecclesiastico manifesta per le donne impudiche. Se le donne sapessero quale magico «institut de beauté» è lo studio, abbandonerebbero le creme e disdirebbero l'appuntamento col massaggiatore. Non c'è «rimmel» non c'è «khol», non c'è atropina che valga l'esercizio intellettuale, nell'illuminare gli occhi e dilatare le pupille. La donna ignorante che crede di farsi bella per mezzo dei sortilegi della cosmesi è come un calvo che versi tutte le sue speranze nella parrucca. Ai concorsi di bellezza internazionali assistiamo a una sfilata di graziosi mammiferi che sognano l'olimpo della televisione e l'empireo del cine. Riusciranno solamente quelle, generalmente le meno belle, che hanno negli occhi la luce dell'intelligenza. Mentre la cura di perfezionamento mentale si svolge, il mio consiglio è di parlare il meno possibile. Se è vero che la parola è stata conferita all'uomo per contraffare il proprio pensiero, il silenzio è stato offerto alla donna per darle il modo di farsi credere più intelligente di quello che è. Il silenzio le impedirà di impossessarsi avidamente delle idee e delle opinioni grossolane che ode per la prima volta, ornandola al tempo stesso di un'indicibile austerità. Il non dire ciò che tutti dicono è la vera aristocrazia mentale. Esempio: mentre ella guida l'automobile, un altro automobilista le attraversa la strada e la costringe a frenare. L'uomo comune, o la donna senza stile, lancerà fra i denti un'ingiuria o chiamerà a testimoni il Cielo e la persona che siede accanto, sulla scelleratezza e l'irresponsabilità di certi automobilisti. La donna di classe non si scompone, e rimette in marcia la conversazione interrotta e il motore. Il silenzio le impedirà di ripetere le frasi che tutti dicono: « Non ci sono malattie, ci sono malati; l'uomo ha l'età delle sue arterie; «l'apprenti sorcier» che non sapeva arrestare la magìa che aveva scatenato... ». Imparino ad apprezzare il prestigio del silenzio, dell'allusione lontana, della frase in sospeso, assai più efficace di quella completa e totale che cade come una sentenza o una martellata. Nel nostro pensiero la parte più importante è cio che gli altri indovinano. Sentite l'eleganza di una frase lasciata in sospeso: un vecchio ammiraglio diceva: - Ai miei tempi le navi erano di legno e gli uomini d'acciaio. Oggi le navi sono d'acciaio... E basta.

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Ordinò un'altra birra e degli altri salami di Vienna con crauti, e sentii che il suo cuore fino allora diffidente ora si abbandonava a me. Io avevo parlato finalmente il suo idioma! Si persuase che avevo anch'io la tessera del mediocre buonsenso, il baccellierato del luogo comune, la capacità di dire «cose da pazzi, roba da chiodi, gente dell'altro mondo, spiegato l'arcano, bevi Rosmunda, l'eccezione conferma la regola, grazie non fumo». Che ero cioè un essere come tutti gli altri - e come lui.

Pagina 260

Nuovo galateo

190433
Melchiorre Gioja 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
  • paraletteratura-galateo
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I Goti condannavano alla pena di morte chiunque abbandonava il paese ed anche chiunque voleva abbandonarlo; e se il reo otteneva dal sovrano in grazia la vita, veniva però condannato a perpetuo carcere, o frustato, o privato della vista. Con queste e simili leggi s'associava nella mente del popolo l'idea di straniero all'idea di delitto. La guerra abitua talmente i popoli alla carnificina, che essi si riguardano come nemici dacché non abitano la stessa contrada. Gli Africani della costa del Zanguebar, vittime della crudeltà dei Portoghesi, massacrano chiunque s'avanza nel loro paese. I Traci e gli abitanti della Tauride svaligiarono e uccisero per molto tempo quelli che si accostavano al loro territorio.

Pagina 280

La gente per bene

191537
Marchesa Colombi 1 occorrenze
  • 2007
  • Interlinea
  • Novara
  • paraletteratura-galateo
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. - A te piaceva la signorina Caia, che ti si abbandonava mollemente nelle braccia, come se fosse al quarto atto d'un melodramma.... Avevi sulla spalla dell'abito la cipria delle sue guancie. - Il color della dama. Mi piaceva per una sera, però. Non la vorrei fra le concorrenti, quando mi decidessi a gettare la mia pezzuola per trovare una sposa. - Io ho fatto un giro colla signorina Ipsilonne, che, ad ogni complimento che le facevo me ne rispondeva un altro, come se si giocasse di scherma. - Pazienza, era ingenua.... Tu avessi udita la signorina Zeta, che, per far la spiritosa, canzonava le tolette ed i modi delle altre signorine e dei giovinotti! - Ah! dev'essere stata curiosa. Cosa t'ha detto di me? - E di me ? - E di me ? - Ha detto che le pareva d'essere una tazza di miele, perchè si vedeva ronzare intorno tanti mosconi. - Oh Dio! Che barba! - Caro quel miele ! - I mosconi volano anche intorno.... Via; la porta è chiusa e non si ode altro. Ma credo che basti. Vedono, signorine mie, che ogni medaglia ha il suo rovescio; ogni festa il suo dimani.

Pagina 74

La giovinetta educata alla morale ed istruita nei lavori femminili, nella economia domestica e nelle cose più convenienti al suo stato

192048
Tonar, Gozzi, Taterna, Carrer, Lambruschini, ecc. ecc. 1 occorrenze
  • 1888
  • Libreria G. B. Petrini
  • Torino
  • paraletteratura-galateo
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Amava bensì di giuocare, ma solo dopo lo studio ed il lavoro delle mani, nè in questo tempo di ricreamento s' abbandonava ai giuoco così, che non riflettesse come e quando potea dare altrui noia, e perciò trastullavasi sempre con misura e circospezione. D'undici anni ella sapeva far ricami d'ogni maniera. Colla destrezza d'un abile sartore, ella dava il più elegante taglio alle proprie vesti, danzava graziosamente, disegnava di buongusto, e nel suonar ch'ella facea della lira, e nel cantare, parea tutta infondere l'amabilità del suo carattere. Gli uomini più distinti in Roma per probità e sapere usavano a casa di Fundano ; e Lilia festeggiava e giubilava al loro arrivo e faceasi loro innanzi colle più gentili accoglienze. Lieta si mostrava ed amorosa verso tutti ; e spesso, dopo aver gittato le braccia in collo al proprio padre, con altrettale affetto che modestia accarezzava gli amici di lui. Quando Funclano era applicato in alcune opere di erudizione, Lilia cercava nei libri i vari passi di che egli abbisognava, e gliene faceva lettura; servivagli anche da scrivano, e talvolta di segretario. S'egli stanco sentivasi di comporre, Lilia ben tosto se ne avvedeva, e dava di piglio alla sua lira, e col suono e col canto tentava di alleviarlo. Di nove anni Lilia era già la delizia de'suoi genitori; quando Manilia, la madre sua, a cagione d'un parto, ammalossi così gravemente che i medici ne diedero per disperabile la guarigione. Fundano non resse a tanta sventura e cadde malato egli pure. I due malati avevano il lor lecco in camere separate. Lilia passava continuo dall'una all'altra, ponendo ogni studio in confortarli amendue, e altrettanto avveduta quanto tenera ed affettuosa taceva all'uopo ciò che potea accrescer pena all'uno o all'altro. Come sta tua madre ? domandavale inquieto Fundano : e Lilia: Oh, rispondeva con lieto volto, quest'oggi la mamma sta molto meglio di ieri : il medico assicura che fra cinque giorni ella potrà alzarsi alcunpoco e tenerti compagnia. Ma quanto costa l'infingersi, anche per pietà, ad un'anima schietta e liberale! Lilia, conscia pur troppo d'essere stata mendace verso il suo buon genitore, tosto che gli avea dato di simili notizie, trovava modo di sottrarsi alla vista di tutti ; e veduta l'avresti nel luogo men frequentato della casa dirompere in pianto. Asciugandosi poscia in tutta fretta le guancie, recavasi innanzi alla moribonda sua madre, ricomponeva il suo volto e mostrandosi tranquilla, le dava novella di Fundano : Cara mamma, dicevale, il mio babbo non ha più che un fil di febbre: mi ha detto che venga a darti un bacio per lui; ma non ti scomodare, allunga soltanto la tua mano ch'io la bacerò. Manilia in fine muore in età di ventisette anni. Fundano quel dì era più gravato che mai. Lilia di buon mattino entra nella camera della madre. Al trovarla senza moto e vita il dolore le fa dimenticare l'usate sue precauzioni, mette un alto strido, e cade tramortita. Come prima Lilia fu rinvenuta, s'avvide quanta agitazione dovea aver cagionato al padre suo, e tosto cerca modo di apportarvi rimedio. Fundano di fatto trovavasi nei più violenti trasporti : più non conosceva ragione, nè voleva ascoltarne. Il suo delirio venne a tale che perduto era della mente più che del corpo, poiché cercava un ferro, e giurava di non volerpiù sopravvivere alla sua sposa. In questo, ecco Lilia serena e gioviale: Ah ! dice, caro babbo, che paura! Intanto che la mamma beveva un po' di brodo, la cagnolina ha messo le due zampe davanti nel bel mezzo della tazza, e ha riversato i tre quarti sopra il letto : oh! gliene avrei date pur tante a quella sciocca di cagnuccia. La fanciulla disse queste cose in una maniera sì naturale, che la disperazione di Fundano si calmò tostamente. Egli si pensò d'essersi ingannato ; ed esalando un sospiro : Io ben altro temeva, disse, che questo piccolo sconcio. Avvicinati, mia figlia, e dammi un amplesso. Da questo istante Fundano cominciò a migliorare; e quand'ebbe ricuperato alquanto di vigore nel corpo, n'ebbe anche nell'animo da sostener la fatal nuova della sua Manilia. La ragione ripigliò il suo impero sopra di lui; e per ritrarre la mente da quanto avea perduto, occupò ogni suo pensiero in quanto gli rimaneva ; e rimanevagli ancora la sua Lilia. Più non eran que'tempi, in che l'uom dabbene nel giovare alla patria trovava conforto alle proprie sciagure ; più non si concedeva ai privati apportar rimedio ai pubblici mali, che gli affari della repubblica eran quelli d'un uom solo. Fundano adunque tutta collocò la propria felicità nel perfezionare l'educazione di Lilia. Cercò librielementari in ogni genere i migliori, e non perdonando a dispendio, chiamò in sua casa e professori e maestri per dottrina e probità i più rinomati, come pure i più abili professori, sia nella musica, sia nelle arti del disegno. Cortesie, onori, ricompense, nulla risparmiava per mostrar loro la sua gratitudine. Tali furono i progressi di questa fanciulla, che la riputazione di lei non era men grande de' suoi meriti. I padri e le madri eran bramosi e solleciti di additarla ai loro figli, e la rammentavano ad essi quale esemplare ben degno d'essere imitato in ogni cosa. E qui par bene l'osservare che Lilia, quantunque bellissima fosse della persona e leggiadrissima nelle maniere, pure nelle conversazioni di Roma, di null'altro parlavasi che de' suoi talenti e della sua costumatezza. Lodavansi le molte sue cognizioni, l'industria delle sue mani ne' lavori femminili, la sua intelligenza nei domestici affari ; e sopra tutto non poteansi passare sotto silenzio le qualità del cuor di lei, la sua semplicità, la sua modestia, la sua generosità, la sua cortesia ed amorevolezza. Quantunque la storia, che si minutamente ci narra le scelleraggini umane, non ci dica quanto desideriamo delle azioni particolari di questa donzelletta, pure alcuna non ne seppe tacere, la quale ci dimostra come ella corrispose alle tante cure che si ebbero di lei. Tutto aveva cospirato fin dalla sua tenera età a far si ch'ella tenesse in sommo pregio la semplicità, anche nella maniera di adornarsi : ma per una contraddizione, pur troppo comune all'incauta tenerezza dei genitori, giunta ch'ella fu a certa età, il padre suo ognora le ordinava abiti sontuosi, e dimenticò dei propri precetti, si compiaceva di vederla ornata di tutto punto. Un giorno, per darle premio d'una lettera da lei scritta nella più generosa maniera e con la più elegante disinvoltura, la regalò d'un magnifico anello di diamanti. Lilia n'esultava da prima, e rese grazie al padre suo, le maggiori e le più gentili che mai seppe ; ma interrogatolo del valore di quel gioiello, e uditane la risposta : E costa sì caro ! sclamò ella. Oh! padre mio, nè rammenti le tante volte che mi dicesti essere il senno e i gentili costumi congiunti alla semplicità, l'ornamento proprio delle fanciulle? Credimi, io bramo, e te ne prego, che custodisca tu stesso questa bella cosa che io potrei perdere; il che, se avvenisse, perderei in un momento quanto basterebbe per mantenere più anni un'intera famiglia. Fundano, maravigliando a cotanta moderazione e saviezza, non seppe contenersi, e: Vieni, le disse, mia cara figlia, vieni ch'io t'abbracci e mi ti stringa al seno. Tu fai un amabil rimprovero al padre tuo, e siegui più fedelmente i miei consigli di quel ch'io segua le mie massime. Lilia frattanto cresceva in bellezza, in sapienza ed in virtù; e comechè fosse in età di soli tredici anni, così singolari erano le doti che l'adornavano che i più principali di Roma la chiedevano in maritaggio pei loro figli : ne parlavasi di Lilia senza che si chiudesse il discorso con queste parole : « Felice colui che, ottenutala in isposa, sarà capace di comprendere un tanto suo bene. » Fundano finalmente deliberò di maritarla; ed avendole palesato qual era l'egregio giovane a cui aveala destinata, Lilia gli rispose coll'usata sua ingenuità: « Mio caro padre, fuori di te io non avrei voluto altro marito; ma io farò tutto che potrà esserti di piacere; giacché vuoi maritarmi io pure il voglio; ma a condizione ch'io non abbia a separarmi da te ». - « Son questi pure i miei voti, ripigliò Fundano, abbracciando la figlia sua. Se tutti riconoscono nel tuo volto i lineamenti del padre, io riconosco nel tuo cuore quello della mia sposa, la cui memoria stassi nel mio profondamente scolpita, e vi starà fino all'ultimo respiro. Sì, mia Lilia, noi ci rimarremo sempre uniti; sei divenuta necessaria alla mia vita, così che venir meno la sentirei se da te divider mi dovessi ». Ciò dicendo diede mano a un manoscritto fregiato di miniature ed ornato di nastri, ed aprendolo : « Quest'è l'esemplare, soggiunse, de' tuoi costumi, questa è la vita della mia sposa: io la scrissi perché tu la legga a' tuoi figli quando io più non sarò ». Lilia presa fu subito da grandissimo desiderio d'udirne la lettura; e il padre ben volentieri ne la compiacque. Fundano avea descritto ogni cosa minutamente, fino agli ozi innocenti ed ai giuochi dell'infanzia di Manilia: e tutto con tanta leggiadria ed effetto, che ciascun tratto faceva desiderare di leggere il seguente. Secondochè Fundano avanzavasi nella lettura, ognora più cresceva in Lilia la commozione; e quando in leggendo fu giunto all'ultima malattia, con la voce e coi gesti, non meno che con lo stile, scolpiva così al vivo le più piccole avventure, la desolazione di ciascuno della famiglia, il proprio stato, quello di Manilia, e persino gli ultimi momenti di vita della sua sposa, che Lilia, divenuta per dir così, spettatrice di bel nuovo della morte di sua madre, cadde svenuta. Rinvenne poco di poi; ma le durava tuttavia un angoscioso stringimento di cuore, a cui sopravvenne la febbre, che la costrinse di mettersi a letto. Lilia, non ostante, per non crescere afflizione al padre suo, mostravasi serena e sicura, ed occultava con molta fermezza la violenza della malattia; la quale, checché ne fosse la cagione, in capo a due giorni a tal giunse, che fu giudicata dai medici senza rimedio. Ella sentendosi mancare ognor più la vita, e leggendo il suo destino nella mestizia di tutti quelli che l'attorniavano, chiese grazia a Fundano di farle fare il ritratto. Il padre, senza poterle dare risposta, mandò subito pel più valente pittore che fosse in Roma. Quand'esso fu giunto, Lilia s'acconciò nell'attitudine che meglio le si addiceva, e immobile vi si tenne fino a ch'egli ebbe colti e disegnati i tratti principali; in cui ella quindi ravvisando sè medesima, voltasi con aria di compiacenza al padre suo : «Che la morte non potrà almeno rapirti questo simulacro della tua amica, così tu non mi perderai di vista internamente ;» e sì dicendo gittògli al collo le sue braccia languenti. Quindi poco stante : «Ti chieggo, o mio caro padre, di permettere alla mia sorella di venirmi ad abbracciare; vorrei pur vedere la mia nutrice, le mie compagne ed amiche ». Quando furon venute, strinse loro la mano, e regalatele ciascuna di qualche cosa che a lei apparteneva : « Conservate, aggiunse loro, questi piccoli doni, siccome miei ricordi: e tu, mia sorella, addoppia cotanto le tue cure e la tua amorevolezza verso il nostro buon padre, ch'egli in te sola riunito ritrovi e l'amor mio e quello della sua sposa ». Non ho cuore di descrivere, come ben l'immagino, quale sarà stato il compianto ed il lamento di tutti gli astanti. Lilia sola pareva di tutti la meno desolata. Mostrar volle per ultimo la sua riconoscenza verso la nutrice, e pregò suo padre a provvederla di danaro e d'una porzion di terreno, sicchè non avesse poi a cadere nell'indigenza, e procacciar potesse a' suoi figli una buona educazione. Già la figlia di Fundano toccava il termine di sua carriera: più non potendo articolar voce, prese per la mano il padre suo e avvicinatolo al proprio seno, diegli una rivolta d'occhi tenerissima, e chiudendo placidamente i lumi, cessò di vivere.

Pagina 56

Una famiglia di topi

205068
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Così doveva ragionar Caciotta, mentre, dopo il suo primo bagno, s' abbandonava a chi sa quanti pensieri, e finiva di pettinarsi e di ripulirsi da sè, passandosi rapidamente le manucce su e giù per il nasino roseo e per il collo, leccandosi e morsicchiandosi il ventre, il dorso e la coda. Ragù, quand' ella ritornò nella paniera imbottita, dov' egli l' aspettava, quasi non la riconosceva più. Nella loro lingua topesca si mise allora a farle un monte di complimenti, dicendo: - Caciotta mia, sei più bianca della luna, adesso! Il tuo pelo è più morbido della seta floscia; più odoroso della vallata delle Rose! Lascia ch' io ti baci gli occhi, che splendono più dei rubini! lascia ch' io ti ripeta che il mio amore per te è un mazzo di fiori che non avvizzisce mai! -

Pagina 27

Angiola Maria

206983
Carcano, Giulio 6 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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E Maria anch' essa, direi quasi, consapevole appena della vita, s' abbandonava alla malia di un sentimento che presto c' incatena, quando ci vediamo accarezzati, amati. Ma il soggiorno della città e le abitudini del mondo signorile dovevano presto rivelarle il vero, e farle sentire il molto amaro ond' era mista la poca gioia da lei gustata per breve stagione. Non andò gran tempo che gl' inviti a splendidi festini, a nobili brigate, le visite fatte e ricevute, secondo la legge d' una schizzinosa cerimonia, e i circoli de' forestieri divezzarono lord Leslie dalla solitudine a cui pareva essersi condannato. Le buone novelle politiche, venute dallo straniero, l' avevano riconciliato con le speranze d'una volta; frequentava le più illustri case, conduceva sempre con sè le figliuole, e voleva che Arnoldo le accompagnasse. Nel cuore dell' inverno, le armonie de' nostri teatri e l' allegria delle veglie e de' balli chiamarono ad altri pensieri, ad altre premure le due giovinette; le quali prima avevano menata vita troppo modesta e casalinga per non piacersi, come suole avvenire, di que' variati sollazzi che per esse avevano ancora la seducente lusinga della novità. Intanto Maria, in tutto quel tempo, e furono due lunghi mesi, visse quasi sempre abbandonata e solitaria, in mezze al tumulto della città, fra il continuo udir ricordare le feste del dì passato e il vedere gli altri apparecchiarsi a' piaceri del domani, feste e piaceri che non erano per lei! E quante volte desiderò di trovarsi a casa sua, al fianco di sua madre, accanto al suo arcolaio; e sentiva un accoramento di vedersi così negletta, e divorava in segreto le lagrime dell'amore e dell' abbandono! Quando rimaneva in casa, in quelle lunghe sere invernali che sembrano eterne a chi, nella solitudine, ha de' dolori a cui meditare; quando altro non le giungeva all' orecchio fuor del lontano mormorare, ch'è l' indizio della vita notturna d' una città, e pensava che nessuno poneva mente allo sfogo del suo dolore; allora, dopo aver tentato inutilmente d' occuparsi in una o in altra cosa, per disviar gli assidui pensieri che aveva in cuore, rimembrava la pace che non doveva trovar mai più, cercava di persuadersi della stoltezza di quell' amore che l'aveva fatta smarrire, e degli anni inutili, desolati, che ormai le restavano a passare. Nelle prove del dolore la sua anima confidente e pura aveva trovato la forza di conoscer In vita e la funesta sua realtà; poichè pare, pur troppo, che la conquista d'una ferma ragione debba valere il prezzo dell' innocenza e del disinganno : così bisogna che l' albero perda i suoi fiori, perché si fecondi il frutto. Maria, la quale non aveva veduto il mondo, non aveva trovato sul suo cammino se non persone amiche e liete di poterla amare, Maria, in quell' ore di solitaria tristezza, divenne una creatura nuova. Allora la vita, che un tempo si dipingeva dinanzi a lei così serena e bella, spogliavasi di tutta la sua magia; anch' essa la timida fanciulla provava in cuore una pena ignota, muta, indistinta, poi la puntura segreta del primo rimorso; anch' essa aveva una parola, un' acerba parola per domandare al Signore con che ragione l' avesse resa infelice! E non le parevano più cosa impossibile la malizia degli uomini e la fortuna de' cattivi; per la prima volta, l'amaro sorriso dell' odio aveva sfiorato la sua bocca; ella pure sentiva dentro di sè una forza intima, potente, la forza di disprezzare chi le aveva fatto del male. In que' momenti angosciosi, si metteva a scrivere al fratello lunghe lettere, nelle quali versava tutta l' amarezza dell' anima e il compianto del suo misero destino: erano fogli sparsi più di lagrime che di parole; era la pietosa 'onfessione d' un cuore che non sa reggere al primo colpo del dolore. E poi lacerava, bruciava ciò che aveva scritto; si sforzava d' essere tranquilla; e raccolti i pensieri, ponevasi a leggere con voce commossa í suo libro di preghiere, Così passarono per lei giorni e settimane di quel tristissimo inverno. Ben vide che sarebbe stato una follia il domandare alle amiche, perchè non la conducessero con loro, dopo ch' ella stessa s' era tante volte mostrata ritrosa d'accompagnarle; nè le fanciulle ebbero più cuore di pregarnela, quando si accòrsero che il padre repuguava all'intima confidenza da loro messa in Maria. La giovinetta, dunque, soffocava il suo affanno, e tremando sempre che una, parola, un gesto, un' occhiata potesse tradire quel segreto, il primo ch' ella avesse avuto, e che avrebbe voluto nascondere anche a sè medesima, cercava d' ingannar chiunque appena le volgesse uno sguardo; cercava di parer lieta, quando il suo cuore non era pieno che d'una sola malinconica idea. Era pur doloroso il veder sempre un mesto pallore sulla sua fronte, e un sorriso di gioia sulle sue labbra Ma, in quel tempo, il segreto turbamento d' altri e più gravi pensieri agitava la mente di Arnoldo. La quiete della meditazione, che fa nascere la necessità di conoscere e di sapere; la libertà dell' anima, che conduce allo studio di quanto v' è di più riposto nelle cose, e ché in mezzo al tumulto degli uomini è così facilmente dimenticato e perduto; la volontà, non più tentata da esterne apparenze e scevra d' ira o di timore, avevano fatto maturo l' intelletto del giovine a uno studio nuovo e più severo della vita. Troppo spesso la sana mente e la fredda ragione sono umiliate da una specie di vago abbattimento, da un amaro disgusto di tutto, perchè possano essere capaci di grandi e virtuose risoluzioni. La coscienza del dovere, senza l' alito segreto dell' affetto, non è virtù; perchè la virtù viva nel cuore, non basta la persuasione indotta dalla chiara evidenza del fatto; è forza che al fatto si trovi una spiegazione, un principio sovrano, il misterioso legame dell' anima con la vita. Arnoldo aveva conosciuto nella nostra città uno di quegli uomini di semplici costumi e d'animo incorrotto, i quali, in mezzo al mondo, seguono con passo sicuro una via negletta e taciturna, la via dell'onesta saggezza. Gli applausi e la gloria non sono per loro, anime grandi e oscure; ma sono per loro la tranquillità dell' uomo modesto e la forza del giusto: vengono sulla terra ignoti, passano dimenticati, e se ne vanno del pari; ma il frutto delle parole e dell'esempio loro sopravvive, nè può andar perduto. Quest' uomo, del quale non dirò il nome, perchè i buoni non cercano quaggiù lode nè invidia, paghi dell'amore de' pochi, nel piccolo cerchio di coloro che si ricordano del bene ricevuto; quest' uomo, colla dolcezza dei consigli e con la forza mite d' un senno angelico e consapevole del cuore umano, indirizzò e sostenne i pensieri di Arnoldo a quel fine a cui l'anima sua da tanto tempo anelava. Egli lo preparava a' gravi studi, lo nutriva di ferventi meditazioni e di calda volontà, ne accendeva il coraggio, e rinfrancava la vigilanza; gli prometteva la vittoria dopo la battaglia, e dopo la fatica il sospirato riposo. Alle severe lezioni di lui Arnoldo consacrava allora la maggior parte del suo tempo; ond' avveniva che si rimanesse, talvolta anche per interi giorni, lontano dalla suo casa e dall' amata giovinetta. E poi, al ritornarvi, quasi sempre lo videro mesto, chiuso ne' suoi pensieri; non parlava, e passava lunghe ore intento a nuove e severe letture, coll' animo combattuto da strane e inquiete fantasie. Nondimeno, con gran cautela, tenne nascosta a tutti la ragione di quelle sue assenze quotidiane, di quell' assidua e muta preoccupazione. Maria sola se n' era accorta, ma taceva; e per il suo cuore era un tormento di più. Pure, in mezzo a quest' ignota cura d' Arnoldo, vi era de' giorni ne' quali l'amore, quasi divenuto in lui una quieta abitudine, si faceva più forte del suo proposito, più grande della sua virtù. Allora egli s'abbandonava a' suoi sogni antichi, a quei fallaci disegni che fa sempre l' incauta giovinezza, persuasa la scusa dell' amore rendere tutto facile e giusto. Allora la leggiadra immagine di Maria non rallegrava più, come prima, tutti i suoi pensieri; il suo cuore era ardente, gravato; cercava spesso di lei; ma poi venutole vicino, sentiva conturbarsi; voleva parlarle, spiegarle l'amor suo, nè sapeva con che parole. E se mai avvenisse che i timidi occhi della fanciulla s'incontrassero per un momento ne' suoi, ella era colta da un terrore nascosto, non mai provato. Una mattina - era in febbraio - le due sorelle e Maria sedevano silenziose presso un tavolino di lavoro, non lontano dalla finestra, dalla quale penetrava una luce fosca attraverso i cristalli, dalla gelata nebbia notturna infiorati coi più bizzarri rabeschi. Arnoldo, appoggiato alla spalla del camino, volgeva distratto le pagine d'un volume che teneva fra mano. Poco di poi, essendo annunziata una mercantessa di mode, le due sorelle uscirono; e Arnoldo rimase solo con la fanciulla. Tacevano entrambi, e Maria non osava levar gli occhi dal lavoro, al quale pareva intenta. Arnoldo aveva posto giù il libro, e la rimirava, tutt'occupato in quella idea d'amore. Alla fine se le avvicinò, e con voce concitata e commossa, « Maria! » le disse « è tanto tempo che devo parlarvi, e voi.... » Maria taceva; ma il suo cuore era tremante, batteva rapido e forte.

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Un' ora di poi, essa abbandonava la casupola ospitale, seguita dalla sincera compassione, dagli augurii di quelle due buone creature; e persuasa che il Signore, il quale l'aveva prima fatta incontrare coli' onesto cavallaro, e poi condotta alla casa del contadino dabbene, l'avrebbe accom-pagnata nel resto della via. E ben s'era anche il buon cala pagnuolo profferto di venirle dietro, per un tratto di cammino; ma essa, che già non sapeva come dimostrargli la sua riconoscenza, non volle a qualunque modo ssentire, e si rimise sola per il suo sentiero. Pure, appena uscita, vide che il vecchio cane del casolare l'aveva preceduta; e giunta poi dove la strada faceva svolta al basso, lo scorse ancora sopra un'altra ripa, ov'erasi fermato, e donde la seguì per gran tempo cogli occhi, finehè si fu dilungata. La via s'avvallava, facendosi di tratto in tratto più lubrica e difficile: fuor dalle gole dell' alture vicine soffiava cruda e sottile la tramontana; pure, alla fanciulla, quell'aria spirava benedetta e salutare, perchè veniva dalla sua terra natale, e pareva dirle che dietro alle folte nebbie di che essa vedevasi circondata, erano le creste delle sue montagne, le care acque nelle quali si specchiava il suo paesello. Al piede di quella scesa, attraversava un rustico ponte gittato a cavallo d'un torrente, che coll'onda grossa e limacciosa rodeva i margini della riva: un uomo era seduto a un capo del ponte, sur un masso di tufo, che forse l'urto delle piene estive aveva roveschiato. Era un vecchio mendicante, con la bisaccia vuota in collo e un giubbone di lana rattoppato, alla foggia dei montanari; stringendo a due mani un nodoso bastone, se lo teneva piantato dinanzi e appoggiava al vertice di quello la testa contornata di radi e canuti capegli e di una barba grigia e irta. La fanciulla s' arrestò in faccia del vecchio, e con un senso di profonda compassione tolse fuori una moneta d'argento, unica a lei rimasta, che appena sarebbe bastata a procacciarle qualche soccorso lungo la via; e la lasciò cadere nella palma callosa e tremante che in quel momento il povero le tese. Egli fissò gli occhi con meraviglia su la moneta, poi li levò con espressione indicibile sul volto della fanciulla, confuso e in atto di dubbio e d'inchiesta. « Ditemi, buon vecchio, » gli domandò allora Maria, « è questa a mancina la buona strada per Como? » « Sì, tenete per di là; dopo un duecento passi vi troverete sulla strada maestra, poco lontana dalla Camerlata.... Ma dite, la mia buona giovine, non avete paura d' andar sola a quest' ora, in una stagione così fatta? » « No! mi son messa alla volontà del cielo; e pregatelo anche, voi per me.... » « Oh pensate! anzi, se non fossi vecchio e stracco come sono, vorrei farvi compagnia; sono incamminato anch' io verso Como; ma fiacco e malato qual mi vedete, dopo aver fatte venti lunghe miglia sotto la neve, appena potrò prima di notte tirar innanzi fino a quella cascina ch' è laggiù. » « Vi ringrazio della buona intenzione; ma devo andarne ancor molto lontano, e si fa tardi. Addio! » Ripigliò il cammino, e ben tosto trovossi all' imboccar della strada maestra. A mano a mano che progrediva, il nebbione si levava più denso e cupo, stillando umidi e crassi vapori nell'aere gelato. Già non era più di due miglia lontano della città; e qualche viandante, povero coni' essa, e alcune carrette e calessi tenevano quella via. Sicchè ella si sentiva battere il cuore più sicuro di prima, quando camminava sola per la strada di traverso. Passò davanti al portone d'una vecchia taverna dalle muraglie sgretolate e tutte nere di fumo che spiccavano sotto le tettoje biancastre per la neve caduta: il carro d'un mulattiere era sotto il portone, e dalle grate di legno delle finestre usciva a lampi il chiarore d'una gran fiamma rossiccia. S' udiva, ora distinto, ora confuso, uno strepito di voci, un alto e sonoro scrosciar di risa: la fanciulla tremava di freddo e continuava la via, seguendo intanto con l'anima la storia de' suoi mesti pensieri. Non molto dipoi, il suo orecchio fu percosso da un rumore di ruote e di cavalli; e quel carro, da lei veduto sotto la porta dell'osteria, le passò vicino: lo conducevano due giovani e robusti mulattieri; uno de' quali, seduto di traverso su la schiena d'un vigoroso mulo, cantava a piena gola, sur una rauca e strana solfa; l'altro camminava a fianco del carico, traendo spesse boccate di fumo da una corta pipa di gesso che teneva inchiodata in un angolo delle labbra, e facendo agli orecchi delle bestie chioccare a grandi scoppi la grossa scuriada. Quando i due ebbero adocchiata la fanciulla, cominciarono fra loro a parlarsi in un rozzo gergo, alternando certe risa sguajate e certi atti misteriosi, che la giovinetta ne raccapricciò tutta, e più stretto si chiuse sul viso e sul seno il rozzo panno che la copriva, rallentando i passi per rimanere indietro. Ma un d'essi, mettendo fuori un aspro gorgheggio che somigliava all'urlo d'un mastino, attraversò d'un salto il fossatello che lo divideva dal sentiero dov'era Maria, e le si piantò dinanzi, ficcandole nella faccia gli occhi arditi e travolti. La fanciulla gelò, arretrandosi con involontario ribrezzo, chinò la testa e si nascose il volto con le mani; l'altro allora, al quale era cosa nuova quella paurosa modestia, le si fece incontro più audace, e con un motto vergognoso, che ripetè per la buona intenzione di calmare gli scrupoli della giovinetta, le profferse di far la strada in compagnia. Ella non rispose; ma d'improvviso, volte le spalle allo sfacciato, cercò di salvarsi dalle sue mani fuggendo: il terrore le dava l'ale, ma il giovane la seguiva, la incalzava; e l' altro mulattiero, veduta la scena, balzò dalla groppa della sua cavalcatura, e correva anch' esso in ajuto del compagno. Maria ansante, affannosa, fuggendo, guatava per ogni parte se alcuno giungesse: e nessuno si vedeva. Già i due le stavano sopra, e con avide braccia, come una colomba che due falchi si contendano, già l'abbrancavano; quand'ecco un uomo sbucar fuori da una viuzza della campagna: era il vecchio mendicante da Maria incontrato al ponticello del torrente. Costui la vide, corse, gettossi tra la fuggitiva e i due inseguenti, e strinse al suo seno la sbigottita fanciulla, con un braccio che l' ira fece ancor forte, nel tempo stesso che levò l'altro arwaio del nodoso bastone, minacciando di rompere fossa al primo che si fosse avvicinato: tutto fu un istante. I due compagni, sorpresi dall' imbarazzo, si guardarono in faccia un l'altro; ma il vecchio, con ferma voce, gridò: « Non fate un passo, birboni, e tornate per la vostra strada! Io non ho paura di voi; voi accopperete me, vecchio come sono, prima di toccare a questa fanciulla la punta d'un dito! » « Cos' ha mai questo demonio di vecchio? » disse uno allora; e l'altro: « Malann' aggia il dannato che guasta il fàtto nostro! Come c'entri tu, vecchia tramoggia dismessa? Va al diavolo, che t'aspetta, o t'avrai a pentire! » E tutt' e due intanto fecero per iscagliarsi sul mendicante, e strappargli di mano il bastone, ch' egli teneva ancora sollevato in atto di minaccia su le loro teste. La giovinetta aveva gettato le braccia al collo del suo difensore, e a lui si teneva stretta, avvinghiata. « Lasciatela stare, per Dio! » il vecchio riprese con accento disperato; « lasciatela stare.... È mia figlia!... » Queste parole fecero uno strano effetto sulle anime rozze ma schiette de' due garzonacci: l'accorta menzogna, che la stretta del pericolo suggerì al pover uomo, fu quella che salvò la fanciulla dallo scellerato insulto. « È mia figlia! » rèplicò l' animoso vecchio, e la sua nuda fronte si corrugava, ardevano gli occhi, e tutte le sue membra per lo sdegno tremavano. I due giovani si trassero indietro, celti da un cotale istinto di vergogna che non sapevano spiegare a sè stessi; su que' volti foschi, e fortemente scolpiti, lo sfacciato ardimento aveva ceduto il luogo a un insolito senso di compassione che li faceva stupidi e muti. Alla fine: « Andiamo, Anselmo! » disse uno: « questo non è pane per i nostri denti; e voi, galantuomo, perché non l'avete detto alla prima, ch'era vostra figlia?... Non avete a far, con degli assassini; vi sareste risparmiato a voi l'incomodo d'alzare il bastone, a noi il rischio di rompervi le corna. » Ciò detto, voltaron le spalle; e, pigliatosi a braccio un l'altro, se n'andarono zufolando di concerto, per tener dietro a' muli che avevano perduto di vista. « Sia ringraziato il Signore! » disse il mendicante, appena si furono allontanati, « che m'abbia mandato l' inspirazione di continuare la strada; io son vecchio, è vero, ma mi ricordo d'altri anni, d' altri tempi.... e, per l'anima! vi giuro, che, a costo di questi quattro dì che mi restano di vita, quegl'infami non avrebbero ardito non solo di torcervi un capello, ma nemmeno di dirvi una parola di più.... Or via! andiamo, io mi sento bene; la mia forza antica mi è tornata in corpo, e voglio venire con voi, fino laggiù alla città. » La fanciulla lo guardava con una tenerezza soave, dalla quale traspariva tutta la gratitudine d'un' anima pura, che non sa trovar parole per esprimere quello che prova. « Creatura del cielo! » continuava il mendicante, « voi avete stesa la mano al povero vecchio, voi avete spartito con lui forse l'ultimo vostro pane. Poco fa, quando là sul ponticello vi siete fermata dinanzi a me, e con atto di compassione m'avete guardato, io ho veduto spuntare una la- grima su' vostri occhi; era tanto tempo che non incontravo una faccia pietosa!... Adesso, sono un povero diavolo; ma anch' io sono stato un uomo, e ho vissuto giorni ben diversi.... Oh! ma allora, in vece di questo giubbone, io portava la divisa gloriosa del soldato, e aveva veduto più di trenta battaglie, io odorava con gioia il fumo del cannone; e queste mani, che adesso vedete tremare, hanno piantato una delle bandiere di Napoleone, là sui tetti delle case di Smolensko, in mezzo ai ghiacci della Russia!... Ma oramai tutto è finito da tanto tempo, e nessuno sa più nemmanco chi io mi sia.... Voi sola m'avete consolato con un'occhiata d'amore; siate dunque benedetta! » Maria s' era appoggiata al braccio del vecchio; e alternando parole di conforto al racconto delle loro vicende cosl diverse, ma dolorose del paro, continuarono a camminare in compagnia, fino a che giunsero presso alla città. Qui si fermarono, si separarono: Maria, con un senso di riverenza e d'affetto, strinse la mano della sua guida, quella mano arsa e callosa che poco prima s'era levata in sua difesa, e a malincuore si congedò dal vecchio mendicante, che più non doveva rivedere. Battevano le quattr'ore di sera sulla torre d'una chiesa del sobborgo di Sant'Agostino, quando la giovinetta, sola un'altra volta e sostenuta dal suo cuore, l'unico amico fedele che rimanga agl' infelici, prendeva la via della montagna; sperando pur di potere almeno arrivare presso al suo paese, prima che la notte fosse venuta. Pensava che le sarebbe stato impossibile trovare in quell'ora una barca che ve la tragittasse, tanto più che non le era nemmeno avanzato di che pagarne il nolo; e poi, il timore d'esser conosciuta, e la ripugnanza che sentiva a mettersi di nuovo in mezzo alla gente per le vie oscure ed anguste della città, le accrescevano la sicurezza di poter giungere egualmente dalla parte di terra al termine del suo viaggio: era quella la strada del suo terreno nativo, e l'aveva trascorsa più d'una volta, fin da fanciulla, in compagnia del padre suo. L'alpestre cammino era disagiato e rotto, ma i passi della fanciulla eran rapidi e sicuri; un segreto coraggio la sosteneva, dicendole che dopo un' ora di via sarebbe finalmente giunta al luogo della sua pace, a quel ricovero così sospirato e pianto, dove oramai aveva poste le sue poche speranze, tutta la sua vita. La poveretta si pasceva, camminando, di queste pure idee consolatrici; e mentre continuava a salire su per la difficile erta, pareva che la ricordanza de' suoi mali recenti andasse dietro a lei fuggendo, svanendo a poco a poco, come l'angustia di un pericolo già passato. Domandava a sè medesima, se la vecchia Marta fosse ancor viva, se l'aspettasse ancora, se l'avrebbe stretta nelle sue braccia, se le avrebbe perdonato e tenuto luogo di madre. In mezzo a queste immagini, la cui amarezza era temperata dalla fiducia, Maria non s'accorgeva dell'asprezza della strada, e le sue gracili membra portavano con alacrità l'insolita fatica. Di poche e rade traccie umane eran tocche le nevi di quelle dirupate rive; il fianco della montagna, tagliato a mezzo della via che conduce da uno all'altro di que' sette miserabili e oscuri villaggi, i quali si chiamano con superbo nome le sette città di Blevio, presentava in tutta la sua nudità lo squallor dell'inverno, che aveva fatto quasi impraticabili i sentieri e le coste. Macigni rovinati di recente, e ricoperti tutti dallo stesso manto di neve; alberi conquassati dagli eterni rovaj, minaccianti di rovesciar su la strada, co' rami più annosi squarciati, che crepitavano al più leg- giero soffiare del vento; e gore d'acqua putrida, ghiacciata, ov' era rotta o fessa la terra; e giù giù, per il dosso della montagna, boscaglie nude, stecchite, e rigagnoli di nevi squagliate: vecchi torrenti che trascinavansi dietro ceppaje sbarbicate e lembi di terreno lacerati dall' impeto del gorgo, poi con impeto si dividevano, si moltiplicavano, saltando per le rapide balze e rovinando per entro le scoscenditure e le frane con uno scrosciare dirotto, solo strepito che sturbasse la sepolta natura; e al basso, in fondo, spiccante col suo cupo colore, sotto il cielo torbido, bruno, e sotto ai monti tutti bianchi, la verde e muta acqua del lago. Intanto era sopraggiunta la notte; e, dopo molti pericoli e molto terrore, Maria aveva attraversato l'ultimo di que' sette villaggi. Passando, non vide che il riflesso di qualche tardo lume, dietro il pertugio ingraticolato d'una casipola; non aveva incontrato che due o tre montanari, i quali, senza badare a lei, s'erano perduti per le tenebrose callaje del paese. Cominciava a spirar di nuovo la tramontana, a fioccar più larga e più folta la neve, sbattuta dal vento, che fischiava rompendosi contro ai dirupi e sollevava nei suoi vortici quella già caduta. Più d'una volta la fanciulla, la quale infiacchita, affranta dal crudele viaggio, reggevasi a stento, sentì mancarsi sotto i piedi il terreno, e alzò uno strido di spavento, uno strido che l' orrida solitudine lasciava senza risposta; più d'una volta con disperato sforzo si mise a correre a tutta lena su la perigliosa via, a fianco de' precipizii, sul margine de' sdrucciolevoli massi, come per salvarsi dal turbine che pareva inseguirla; e poi af'annosa, anelante e credendo veramente di morire, s'avvinghiava con le deboli braccia al tronco d' un albero, alle punte d' uno scoglio. E il vento quasi si facesse giuoco della misera creatura, come di gracile canna, or la incalzava e or la respingeva imperversando: nella foga del correre contro la furia dell'uragano, essa aveva perduto la mantellina che la copriva: e, a ogni buffa del vento, le sue trecce sciolte le sferzavano sul candido collo e sul viso livido, agghiacciato. Poi tornava a camminare, e sollevando di sopra il capo le mani strettamente intrecciate, sembrava tra l'orror della paura e il gemere della preghiera domandasse al cielo la morte come una grazia; stanca la vista le si appannava, le si confondevano nella mente gli stessi pensieri di terrore, e già più non sapeva dove ella fosse. Alla fine, il sentiero cominciava a calar al basso, e in mezzo al fosco della notte e allo smorto biancheggiar delle nevi, parve a Maria di vedere un filare d' alberi, un muro, una casa.... A tentone seguiva la guida di quel muro, e trovavasi in faccia d'un cancello chiuso fra due cadenti pilastri. Appoggiò la fronte alle fredde aste del cancello.... e riconobbe il campo santo del suo paese; credè perfino discernere il mucchio di terra dov' era sepolto suo padre e la croce coperta di neve che lo proteggeva. Allora si mise devotamente inginocchioni su l' entrata del sacro terreno; e da quella scena di morte richiamata d' improvviso ai pensieri della vita, pregò, pregò a lungo.... Ma il disagio patito, la dolorosa via, l'angoscia e il rimorso le piombarono in quel punto su l'anima, la quale forse più non era attaccata che per un filo all' esistenza. Ella abbrividiva, si sentiva sfinire, ardeva, gelava nei momento stesso.... Non ebbe più forza di tenersi al cancello che aveva abbracciato, e lasciandosi cader giù lentamente su l'agghiacciato terreno, giacque come morta. Un' ora di poi lo scalpitare d'un cavallo turbava il silenzio mortale di quella desolata riva. La notte era già alta; l'uragano cessato; solo testimonio di vita era il fremito indistinto del lago, che si rompeva alla sponda col monotono spumeggiar del fiotto. Il giovine cavaliero, ravvolto in un corto mantello, pareva disprezzare tutto il rigore della stagione, consolarsi quasi nel respirare l'aria asprissima della montagna. Egli aveva abbandonato le redini sul collo del cavallo, che con passo lento e stanco discendeva per la china. Allorchè giunse vicino al campo santo, il suo sguardo cadde a caso sopra qualche cosa d'opaco che spiccava sul bianco terreno. Raccolte le briglie, fè volgere il cavallo a quella parte, e curvandosi sulla sella vide, al debole chiaror della neve onde appariva coperta ogni cosa all' intorno, una misera creatura la quale pareva svenuta o estinta; pensò che fosse colà venuta dal paese a pregare per i suoi morti, e che la crudezza del freddo o l' imperversar dell' uragano l'avessero ridotta a quegli estremi. Il cuore gli tremava forte; fermò il cavallo, scese di sella; poi, chinatosi sul terreno presso quella salma assiderata, riconobbe ch'era una povera giovinetta: sorreggen- dola sulle braccia egli la sollevò alquanto, e la sostenne inginocchiato com'era, sì che la testa grave e cadente dell'estinta si rovesciò su la sua spalla. Allora avvicinò il suo volto alla bocca dell' infelice, per conoscere se un alito leggiero di vita scaldasse ancora quelle membra immobili; fissò gli occhi sovr' essa; ma al primo guardare nulla vide, nulla distinse, quasichè l'anima sua non avesse più senso.... Tornò a fissar quella fronte, que' labbri, que' cigli, ogni fattezza.... Un brivido gli corse per tutte le vene, e si sentì trapassar il cuore come dalla fredda lama d'un pugnale.... Arnoldo l' aveva riconosciuta.

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Era passato più d'un mese dal giorno che Arnoldo abbandonava Milano, per venire in traccia della perduta Ma- ria. Se vi ricorda, appena seppe ch' essa non era più nella bottega della crestaja, nè potè averne in altra guisa novella alcuna, si mise in mente che la si fosse ricoverata al suo paese, presso qualche parente; e partì con questa certezza. Venuto fino a ***, prese a pigione una parte dell' antico palazzotto, ove suo padre aveva dimorato; ma quant' egli fece per trovar traccia della giovine orfana, fu tutto vano. Queste ricerche replicate, e sempre perdute, gli facevano scorrere nell' affanno e nel dubbio i tristi giorni dell' inverno; e un mese così passò. C' eran pure alcuni dì, ne' quali sentiva ancora di vivere: erano quelli in cui, salito in sella d'un giovine cavallo, che aveva da un pacifico Comasco comprato in quel torno, s'arrischiava su per le rotte strade delle montagne, sfidando l'aspreggiare della stagione e la traversia de' venti. Quelle corse selvagge lungo i margini dell'acque, e sopra i fianchi de' dirupi, gli ricordavano la sua patria, il suo cielo, le nebbie del mare, il castello del buon zio, la combattuta sua giovinezza; tutta la prima, la vera poesia dell'anima vergine e ardente. Ma poi succedevano de' giorni, ne' quali tornavagli incresciosa la vita; gli pareva che al suo soffrire non restasse altro conforto che un novello soffrire. Allora se ne stava, le ore intere, appoggiato alla finestra della sua stanza, guardando il lago, e si sprofondava nella meditazione e nel passato: un volume, suo. fedele amico, un bello Shakespeare, datogli per ricordanza dal cugino Randale, dal compagno de' suoi prim' anni, gli stava aperto dinanzi; e gli uomini disegnati da quel gran pittore dell'anima e della vita prendevano agli occhi suoi figura e movimento. Mirava sè stesso nello sfortunato Edgardo, il figliuolo di Glocester; piangeva al sublime delirio, alle cocenti lagrime di Lear; fremeva a' soliloquii di Macbetto, e pensava a suo padre; per lui, la tenera Cordelia, l'innamorata Desdémona, la dolente Caterina, eran sempre Maria. Altre volte, e il più sovente, camminava di buon mattino fino alla casetta d'Andrea, dove la vecchia Marta abitava ancora, quanto solitaria e grama, lo pensate! E vi restava per tutta la giornata, seduto in un canto del focolare, poco lontano dalla vecchierella; la quale non rifiniva di parlargli di quella cara tosa. Era la meschina dimora unico avanzo del bene della fanciulla; e senza il buon signor Gaspero, il quale aveva salvato per miracolo dagli artigli dell' esattore comunale la casa e la vigna, tutto sarebbe stato perduto. Egli poi lo fece perchè, a dirvela in confidenza, sentiva ancora un po' di batticuore per la giovinetta, che si ricordava d'aver tante volte fatto ballonzare piccina su le ginocchia. Arnoldo dunque contemplando, coll' animo tremante e con lo sguardo fisso, atterrito, immobile, la faccia della fanciulla, spiava se in mezzo a' tormenti, con che il dottore e lo speziale straziavano quella bianca e dilicata creatura, il cuore e le labbra di lei si riaprissero al gemito dell'esistenza. Con ambe le mani le strinse la destra agghiacciata, e appressandovi le labbra, con un affetto che solo poteva essere consacrato dalla terribile idea della morte, v' impresse un lungo ardente bacio, delirando quasi che con quel bacio dovesse restituirle la vita; come Romeo, quando venne alla tomba di Giulietta. Baciatala appena, la riguardò ancora.... soprastette.... E poi, balzando d' improvviso, con un accento soffocato da un impeto di gioja, proruppe: « Ella vive ancora!... » Non era vana illusione; quella fredda mano aveva risposto al premer delle sue, con un tremito leggero, fuggitivo. Era il tornar della vita; egli allora, tutto agitato da speranza e da terrore, le posò la destra sopra il seno, e quel leggiero risalto si ripetè: il cuore ripigliava il suo palpitare. Nè molto andò ch' essa riaperse e lasciò errar debilmente all'intorno gli occhi estatici e muti; poi fece come uno sforzo per sollevare la testa; ma gli occhi le si richiusero, e la testa ricadde. Arnoldo sentì di nuovo la crudele stretta dell'angoscia, e il suo volto si ricoperse di mortale pallidezza. Afferrò per un braccio lo scompigliato dottore, che gli era vicino, e fortemente scuotendolo: « Mi rispondete voi della sua vita?» domandava con alto sgomento. E quegli, sotto la tortura di così valide stratte, balbettava: « Rispondo, rispondo io.... non tema; mi lasci, mi lasci andare!... » « Ma questo Ietargo mi spaventa! » replicava il giovine, dando un altro e più fiero squasso al braccio del povero dottore. « Non tema, » questi rispondeva, « è un semplice sopore, cosa naturale.... Io me l'aspettavo..., bisogna che sia così! » Ma lo speziale, veduta cotesta gagliarda dimostrazione, rinunziava a tentar altri specifici, alla speranza del pingue regalo; e cautamente, come capitano che preveda a tempo il pericolo, ritiravasi dietro la trincea del suo banco. Intanto bisognava pensare a collocar la malata in altra parte, dove potesse trovar riposo, meglio che in quel duro seggiolone del curato; bisognava procurarle una camera, un letto: lo speziale era nel cimento d'offrire il suo per quella notte, e Arnoldo già aveva risoluto di farla trasportar nella villa; quando il signor Gaspero venne fuori col consiglio migliore: e fu, che si mandasse a chiamar la Marta, e trasportassero la fanciulla nella sua propria casa, che non era lontana; così almeno la poveretta, al risvegliarsi, si sarebbe trovata sotto un tetto conosciuto, tra le braccia d'una persona amica, Mandarono dunque per la Marta; e come la buona donna si rimanesse consolata insieme e sbigottita, tra la contentezza di riveder la sua Maria, e il dolore di vederla in quello stato, può credersi appena. Ma Arnoldo e il dottore pressavano, sicchè ben presto portarono la giovinetta, tutta ravviluppata nelle coltri, a casa sua; dove giunti, la deposero in quella camera, da lei un tempo occupata, nel suo letticciolo, ch' era ancor rifatto. Ell' era tuttavia immersa in un sopore profondo. Arnoldo, che l'aveva sostenuta tra le sue braccia, con quella cura attenta, gelosa di cui solo l'amore è capace, si trattenne per lunga pezza appiè del letto; e, seduto su d'uno sgabello, col capo chino su le ginocchia, s' abbandonò a profondi e crucciosi pensieri. Poi, avendo il medico raccomandato sopratutto silenzio e quiete, acconsentì a ritirarsi nel piccolo andito vicino, e si gettò sopra una seggiola, presso la porta socchiusa della cameretta: donde gli giungeva all'orecchio l'affannoso e grave respirar di Maria, la quale, riavuta alfine dal suo lungo svenimento, s'era addormentata profondamente. Marta stette a vegliare tutta notte presso il capezzale della fanciulla. La mattina seguente, sul primo albore, vedevasi il cielo sgomberato del tutto dalle nuvole della bufera notturna, e risplendeva uno di que' dolci soli d' inverno, che consolano il cuore degli uomini e la malinconia della natura: uno di que' soli che, dopo l' imperversare del cattivo tempo, non sono radi in quella beata parte di terra. - Maria si riscosse dal profondo suo sonno, e sollevandosi lentamente su la persona, alzò gli occhi, e vide il primo raggio di quel sole, smorto ma pur limpido, che penetrava per la finestra e cadeva sul suo letto. Guardò trasognata all'intorno, ravvisò la figura amorevole e serena della Marta; la quale, seduta da un canto, stava a mirava tra confortata e pietosa, senza poter dire una parola. Riebbe allora la conoscenza, tornò a cercar con gli occhi per ogni parte, chè non sapeva dove fosse. Era pur quella la sua cameretta, un tempo così cara, il soggiorno d'un'età più felice; era il raggio del suo sole che la salutava, era la casa di suo padre e di sua madre. E già non si ricordava più d'aver pianto e patito.... era ancora là, erano tornati i giorni della sua fanciullezza.... tutto era stato un sogno, un lungo e terribile sogno! Ma rivolse il capo dall'altro canto, e gli occhi suoi s'incontrarono in quelli d'un giovine di nobile aspetto, con incrociate sul petto le braccia, che la contemplava silenzioso, ma sorridente. Lo guardava essa, e coli' incertezza dello sguardo pareva domandar chi fosse. Allora tutti i pensieri le si sollevarono nella mente, si confusero, le ripiombarono in un punto sul cuore; la speranza che ogni cosa fosse stato un sogno era svanita.... Distolse gli occhi da lui, gittò le braccia al collo della Marta, che a lei stava vicina, e tutto nascondendo il viso in quell'amplesso, si mise a piangere, come si piange quando con le lagrime si può sfogare un dolore raggruppato per tanto tempo nel cuore. « Oh! cosa le avete voi fatto, signor Arnoldo?... » domandò la Marta, posando in atto di compassione la destra sul capo chino della giovinetta. Io l'ho amata!... » rispos' egli. ln quel mezzo, il medico comparve su l' entrata della camera. Maria era ricaduta sui cuscini del letto, in un nuovo spossamento di tutte le forze. Il dottore le si avvicinò, studiò con attenzione il suo volto colorato allora d'un leggier vermiglio, e gli occhi incavati e morti; le toccò i polsi, che rispondevano con ardenti e ineguali bàttiti febbrili, e conobbe che il male era più serio che prima non avesse pensato. Ma, benchè in cuore lo sentisse, pure tacque al giovine forestiero il fatale sospetto; si limitò a ordinare alcune pozioni, e a prescrivere nuovamente che lasciassero l'ammalata nel più assoluto riposo, procurando di risparmiarle la menoma sensazione di piacere e di dolore: poi si volse ad Arnoldo, e, fattosi un po' d'animo, gli comandò d'allontanarsi da quel luogo, se pur voleva che la vita dell'ammalata fosse salva. Arnoldo obbedì a malincuore, ma obbedì. Uscito in compagnia del dottore, appena furono nell' andito, si fermò, e lo prese per la destra, dicendo: « Giuratemi ch' ella vivrà! » con un accento che fece tremare il pover uomo; il quale lo guardò, e balbettando rispose: « Oh! oh! oh! tutto sta nelle mani di Colui ch' è lassù!... » Chi amò veramente, chi pianse al terribile dubbio di dover perdere per sempre l'amor suo, immagini l'angoscia dell' innamorato giovine. Alla vita di quella creatura era allora attaccata la vita della sua fede, il coraggio dell'anima sua, tutta la sua speranza terrena. Prima d'allora, egli non aveva pensato mai che fosse così dura la solitudine a un'anima bisognevole d'amore e d'esempio; e quando ritrovò quella fanciulla di pura bellezza, che nella sua mente egli aveva rivestita dei più ideali colori della virtù, confidò finalmente che il cielo si fosse riaperto per lui. Il solo pensiero di dover perderla ancora gli appariva troppo tremenda e incomportabil cosa. Egli non aveva creduto prima d'allora d'amarla tanto! Il dì seguente, il medico dovette pur troppo confermarsi nel concepito sospetto: gl'indizii d'una lenta febbre di consunzione si manifestarono nell' ammalata: la notte l'aveva passata senza sonno; al letargo del giorno innanzi eran succeduti turbamento, delirio, e l'obblio del passato e il vago presentimento d' un termine vicino; a tutto ciò ben presto s'aggiunsero una tosserella acre, muta, e un assiduo languore. L'infelice si lamentava spesso d' atroci punture al cuore, d'un sordo tintinnio negli orecchi, d'improvvise fiamme che le ardevano il sangue, le oscuravano gli occhi e la mente; e allora, le coltri le pesavano sul seno, tutto le dava tedio; e, con un fievole gemito, diceva di non poter respirar l'aria che la circondava. Poi seguiva una lunga spossatezza, e pareva che la sua vita andasse mancando, come raggio che si dilegui; pareva che ogni ora dovesse esser l'ultima per lei. La buona Marta stava sempre al fianco di quel letto; la sorreggeva, apprestava le medicine dal dottore ordinate; e benchè nel suo cuore molto patisse, aveva forza di non piangere, e trovava sempre qualche pietosa parola per sostenerla. Ma quando l'ammalata s' acquietava, e ch' ella sedeva sola a' piedi del letto, lasciava allora tacitamente scorrere le sue lagrime; e nell'anima semplice e fedele pregava, ma sempre in segreto, la Madonna. Talvolta, nel cuor della notte, Maria a un tratto balzava esagitata, in mezzo a que' sonni leggieri, se pur sonni potevano dirsi gli sfuggevoli riposi che il dolore, stanco quasi di tormentarla, le concedeva; balzava a sedere sul letto, e cacciandosi indietro con le mani tremule e scarne i lunghi capegli, che umidi di febbrile madore le si stendevano sul viso, spingeva gli occhi attoniti fra l' ombre della camera, poi levava la destra convulsa per additar le immagini sinistre che l' assediavano, o le persone amiche con le quali immaginavasi di parlare e di piangere. Allora i suoi pensieri vagavano nelle torbide memorie del passato; la sua innocenza, l'amor suo, i pericoli corsi, le disgrazie, e quanti l'avevano avuta cara, e quanti le avevano fatto del male, tutto le si affacciava, in un punto, all'anima oppressa; e le sue interrotte parole erano piene di pietà e di dolore. La sola Marta era testimonio di codesti solitarii e compassionevoli lamenti. - Perchè mai mi lascian tutti così sola, sola, dopo che fui sempre perseguitata?... Oh Dio! che ho fatto di male? O mia madre, io pensava sempre a voi, quand' ero lontana; ma questo povero cuore.... questo cuore non era mio! C'è qui dentro un segreto, che non devo scoprire a nessuno, neppure a lui, a lui che.... ah il suo nome non potrò dirlo mai!... Perdonatemi, o mia buona mamma! Dio m' ha castigata.... perdonatemi voi!... S'egli mi parla di qui innanzi, tacerò, farò la sorda, fuggirò via.... Ahimè! dove sono?... questa è la chiesa ov' egli m' aspetta, questo è l' altare - Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te.... - Forse non verrà.... ah no! eccolo, è lui.... Perdono, o Signore! io ascoltai la sua promessa, perdono! - E ricadeva illanguidita, senza movimento, per sollevarsi ancora, dopo pochi istanti, rapita dall' impeto di nuove immagini: - Egli tornerà, il suo cuore è buono; le sue parole son vere, come la virtù; con quel suo sguardo è impossibile non dire la verità!... Oh caro! io l'avrò convertito, egli crederà nella nostra santa fede, verrà a pregare il Signore con me.... lo sono pallida, lo so; ho patito tanto, e sto ancora assai male.... Guardatemi, ditemi; è possibile che non mi riconosca più, che più non sappia chi sono?... No, non è vero! esso era pur qui, l' ho veduto; e' m' ha ravvisata, m' ha sorriso come una volta.... se non fossi bella come prima, avrebb' egli sorriso ?... - E anch' essa, la povera giovinetta, come se contemplasse un' ombra presente, sorrideva così da strappar le lagrime chiunque fosse stato presente al suo mesto delirio. Dopo un altro istante di riposo, risorgeva ancora lentamente, giacchè invano la desolata Marta tentava con amorose e ripetute preghiere di far ch'ella si caricasse più tranquilla. E giungendo le mani, e scotendo il capo, in atto di chi racconta lunghi travagli sostenuti, ripigliava: - Io non ho amato altri che te, e non te l'ho detto mai.... ma, per amor del cielo, non ne parlare con persona viva.... Vedi! mia madre è morta, mio fratello, mio padre, tutti son morti!... io sono sola a questo mondo.... e tu, tu mi puoi dare il paradiso o l'inferno.... Io vorrei esser tua; ma temo che lassù in cielo non sia scritto così! Vieni, vedi, questa è quella Madonna a' piè della quale giurasti di volermi sempre bene.... T' avvicina, pigliami per mano! Dio ne benedirà! Ma, chi è mai quel prete? lo vedi? io lo riconosco.... è lui, è mio fratello, è il tuo amico.... Oh Dio! Dio eterno! fuggiamo, lasciami.... non vedi che leva la destra in atto terribile di minaccia? non senti ch' egli ne maledice tutt' e due?... - Ma il cielo pietoso, dopo quelle notti d'angoscia, dopo quelle visioni di sgomento, le concedeva almeno lunghe ore di calma benefica e sollevatrice, interi giorni di pace e di rassegnazione; nel volger de' quali, dolci le tornavano lo sfogo del pianto, il conforto d'una calda preghiera, e soave perfino il ricordarsi del dolore sofferto, il pensare a quello che ancor le restava a soffrire. In quel tempo però ella poco parlava, e pareva quasi straniera a ogni affetto che la riavvicinasse alla vita: l' avresti quasi creduta una di quelle sante giovinette martiri della prima età cristiana, le quali, in mezzo a' tormenti, contemplavano estatiche la corona celestiale. Io non dirò tutto il patire di quella meschina, che già questa semplice narrazione è troppo compassionevole e piena di pianto. La malattia della povera Maria fu lenta, sorda, penosa; più d'una volta essa toccò a quel tremendo punto, in cui la sola speranza che rimanga è un domani nel cielo; più d'una volta fece temere di vederla finire, dopo alcuno di quegli impeti di tosse convulsiva che di frequente l'assalivano. Eppure il dottore, sia che non fosse troppo sapiente, sia che vedesse più in là che non sembrava, ebbe segreta speranza di salvarla ancora; e nelle cure assidue che le prodigava, non tardò ad accorgersi non avere il male soggiogato del tutto quella debole complessione, e anzi a poco a poco rimettere di sua crudeltà; onde fu persuaso che se alla fanciulla non erano quaggiù promessi lunghi anni, le sarebbe stato conceduto almeno di veder più d'una primavera, e forse di respirar novella vita ne' balsami dell' aria nativa. Egli non s' ingannò. Venne la primavera, e ben presto la gracile salute della nostra giovinetta cominciò a rifiorire. Il silenzio dell'anima e la pace di natura poterono più che gli sforzi dell'arte; ma per non far ingiustizia a quel dabben dottore, bisogna dire che la paziente attenzione e lo studio che pose a risparmiare alla sua ammalata ogni più leggera commozione, e più di tutto ogni memoria della sua vita passata, fanno fede ch' era miglior medico ch' egli medesimò non si credesse: un medico filosofo, voglio dire, come pretendono d' essere tutti i nostri medicuzzi d' ieri. Non permise ad Arnoldo di visitar Maria che una sola, o al più due volte la settimana; e sempre in compagnia di lui, per due eccellenti ragioni: una, perché il mondo non ci avesse a ridire; l'altra, perché un solo colloquio che fosse finito con far piangere l' ammalata, avrebbe potuto rovinare il sistema della sua cura. Dunque, in tutto quel tempo, Arnoldo era stato quasi straniero per Maria; essa non osava dimandar di lui, neppure alla Marta; ed egli, temendo sempre che il cielo non gli rapisse quel fiore s adorato, si tenne in una mesta e contegnosa lontananza. La Marta poi, la quale dapprima, finché durò il male di quella sua diletta, aveva saputo soffocare le lagrime, allora piangeva; ma piangeva di consolazione. Era un mattino, un bellissimo mattino, al principio d'aprile. Maria sedeva al raggio di quel puro sole, nel cortiletto che si specchiava al lago; sedeva tranquilla presso il muricciolo, su cui erano ancora i suoi vasi di fiori, quantunque inferme e cadenti ne fossero le odorose pianticelle. Essa respirava l' aria imbalsamata dai profumi della mattina; e il suo viso, alquanto pallido ancora, mostrava quel gracile incanto di bellezza, che tocca assai di più, quando riveli il segreto d' un' anima memore de' suoi dolori. Un sorriso ineffabile, misto d' una dolcissima malinconia, errava sulle sue labbra ancora smunte; e la lieve tinta rosata onde le si coloravano le gote, faceva spiccar di più la muta candidezza del bel volto e del sottile suo collo. Arnoldo entrò nel quieto recinto, nè Maria, assorta ne' suoi pensieri, s'avvide di lui. Egli le si avvicinò lentamente: la fanciulla alzò allora gli occhi, e la fronte le si velò d'un vivo rossore, che subito disparve. Da prima, Maria non trovò parola, poi balbettò come un saluto; e il giovine, fattosi a sederle d' accanto, si rimase lungo tempo a guardarla, incerto, pensieroso. Ed essa, inchinate le pupille a terra, taceva. « O Maria! » diss' egli finalmente, « io benedico quest'aria così serena e in pace, questa gioia di tutta la natura, questa divina bellezza della terra e del cielo che vi restituiscono la vita, che sembrano sorridervi per consolarvi di quello ch' è passato!... Voi siete nata in un paese beato; questi monti e quest'acque sono la più bella contrada del mondo.... Oh vi fossi nato anch' io, oh fossi anch' io Italiano!... Ma voi lo sapete, Maria, io ho risoluto di non abbandonarli più questi luoghi. Ora sono solo su la terra, costretto a fuggire dalla casa de' miei padri, a portare un nome non mio.... Una volta io era potente, adulato, cercato; ora mi respingono tutti. Ma voi non mi respingete, no; non posso più offrirvi, è vero, che un' umile sorte e l'esilio; ma voi siete buona, e manterrete la vostra promessa.... Ditelo, Maria, ditelo adesso ch' è tempo. Fra voi e me non c'è più distanza; una vita anche povera, ma beata con voi, è la sola felicità alla quale io voglia, alla quale mi sia concesso aspirare. » « Lei è buono, e de' cuori come il suo ce n' è pochi. Ma io cerco inutilmente di esprimere quello che sento.... Pure, se le mie parole hanno qualche valore agli occhi suoi, m' ascolti, signor Arnoldo!... E così Dio mi mandi forza di parlarle come devo, in questo momento che deciderà della mia vita! » « Dite, Maria! Il farmi felice o infelice per sempre sta in voi.... a voi lascio la mia sorte! Ho saputo rispettare fin adesso ogni vostro desiderio, non v' ho mai ricordata una promessa.... perchè il vostro dolore, le vostre disgrazie.... » « Per carità, signor Arnoldo, non parliam più di me. È di lei che mi preme, della sua felicità, del sacrifizio che vorrebbe fare. Ritorni per un momento alla sua vita passata; pensi a lei, come deve fare un uomo, e poi decida. » « Come, Maria, sarebbe possibile che ricusaste d'unire la vostra sorte alla mia? dopo tutto quello ch' è stato, dopo tanto amore?... Oh io vi amo ancora, Maria, v' amo come la prima volta che vi ho veduta, come quel giorno.... » « Non mi dica così, signor Arnoldo, ne la prego col mio cuore, con le mie lagrime!... se ha ancora della stima per me, parliamo come fossimo stranieri uno all'altro. Non è vero che lei non abbia più nessuno a cui pensare.... Suo padre soffre certamente, per la sua lontananza, sospira di rivederla prima di morire, di lasciarle il suo nome e l'onor della famiglia.... E le buone sue sorelle?... e il suo paese che lo chiama, l'aspetta, che ha bisogno di lei?... queste cose, appena lo capisco come sieno, ma pur sento che sono vere. Non posso crederlo che suo padre l' abbia maledetto, non è vero che più nessuno si ricordi di lei! E se anche, al primo momento, lo sdegno l'avesse fatto ingiusto, si sarà pentito poi; perchè padri e madre posson perdere tutto, non i figliuoli.... E se un tempo, per l' onore, ha creduto bene d'abbandonare chi lo disprezzava, adesso è il momento di far vedere a quegli stessi, che la persuasione e non il capriccio l' hanno consigliato, e che ha ancora, lasci ch' io lo dica, lo stesso cuore e la stessa virtù! » « Buon Dio! siete voi che mi parlate così? Chi vi disse tutte queste cose? chi ve le inspira? Io, sì, lo sento il cruccio di star lontano da' miei.... so che le mie povere sorelle piangono e m'aspettano; ma, per me, il domandar perdono sarebbe come rinnegare la verità che ho abbracciata! Nè per questo ho fatto sacrifizio d' ogni cosa; l' ho fatto per ciò che tutti calpestano, per fede e coscienza. Maria, lo vedo, voi non mi amate più! » « Ah! signor Arnoldo, non dica, non pensi così. Io era già morta, e lei mi salvò! La riconoscenza ch'io ne sento basterà oramai essa sola ad occupare tutta la mia vita!... » « Voi parlate .di riconoscenza, ed è amore ch'io vi do- mando. E che? se dovessi anche tornarvi, là nella mia patria, se l'onore mi richiamasse, non andrei superbo di mostrare a tutti qual tesoro io possegga? non benedirei sempre il cielo di poter mettervi a parte d' ogni contentezza della vita, di farvi grande, come siete degna d'essere, più d'ogni altra donna? » « Il suo cuore è giusto e generoso; ma io, quantunque nulla sappia in confronto di lei, sento che questa è un' illusione. Noi so da vero, perché mai abbia preso a voler bene a una poveretta come me; ma so ch' io non lo meritava, e che non ero nata per questa fortuna. Oh non mi guardi così! se ascoltassi soltanto il mio cuore, una cosa così amara non potrei dirla.... E insieme, capisco ch' io le parlo troppo male; pure, al momento in che siamo, bisogna dir tutto com' è. » « Cielo! oltre al non amarmi più, potreste pensare, Maria, che verrebbe tempo ch' io avessi a mancare alla mia fede, all'amore?... » « No! vedo pur troppo che non so spiegarmi, o che lei non m' intende!... E questi suoi rimproveri mi fanno piangere. Ma.... non voglio dire di lei.... Tutti l' hanno amato, e l' ameranno sempre: e come noi dovrebbero, nessuno ardirà disprezzare la fortunata che porti il suo nome. Ma per questa donna felice, se mai fosse d'una condizione diversa dalla sua, una meschina come son io, non ci sarebbe una continua rampogna, un tormento segreto, eterno?... Potrebbe mai credere ad onori che non sono per lei, non arrossire di trovarsi con quelli che mentono con Ia bocca e disprezzano nel cuore, con quelli che tacciono per compassione?... Oh! gli occhi di chi ha molto sofferto leggono in fondo ai cuori, da cui non sono amati, abbastanza per poter piangere ancora. E poi, viene il tempo il più amaro. L'uomo che prima era l' amico, il fratello, il padre suo, il suo tutto, non la guarda più come in quel giorno, in quel giorno felice che nasce una volta sola, e non torna più; non le chiede più di quelle parole che, un tempo, facevano la sua gioia, il suo conforto. Egli è un uomo fatto, un cittadino; ha la gloria che lo chiama, la vita che gli comanda, la società che l'accarezza, il mondo che lo guarda.... Egli non è più solo, come in quel giorno così bello! « Maria, Maria, che cosa dite mai? » « Ah! lasci ch' io sfoghi tante cose che da gran tempo porto nel cuore! Quella poveretta che sente non essergli più necessaria, quella, che quasi un fiore per un giorno gli piacque, non è più la medesima.... Ella tace sempre, piange spesso; ed egli volge indietro la testa, cerca altri fiori più freschi, più belli, perché l'uomo ha sempre bisogno della bellezza.... Oh mio Dio! quest'angoscia non basta sola a farla morire di dolore? E il dubbio che l'accompagna sempre, e il timore di proferire una parola sola che lui dispiaccia, l'affanno segreto di sentirsi così piccola cosa a paragone di lui, e fin la grandezza dell' amore che gli porta, di un amore ch' egli con un solo pensiero può maledir per sempre.... » « Non più, Maria, non più!... Ecco, era una speranza del tutto vana la mia, e voi spezzate quasi l' ultimo anello di mia vita.... Tu, o Maria?.., tu, la più bella, la più santa creatura del Signore, l'unica luce ch' io avessi ancora, puoi abbandonarmi? Abbandonarmi, quand' io, per amarti, ho dimenticato patria, parenti, nome, tutto?... Cielo! dunque la virtù ch' io cercai, altro non era che un delirio, la poesia de' vent' anni, l'incanto d'una primavera? Bisogna che sia così. E ora che farò?... Tornar nei mondo, gettarmi in questo vortice di cose, nell'ebbrezza della passione, nella vita del momento; sì, ridere delle lagrime che si versano da per tutto, e di quelle che farò versare anch' io; e a quanti mi rinfacceranno di non creder più a nulla, nemmeno alla virtù dire: Gli uomini m'han voluto così! peggio per loro. » Maria raccapricciò a codeste strane parole, chinò la fronte e impallidì. Arnoldo la guardava quasi sdegnoso, e levandosi a un tratto, mosse per allontanarsi. « Si fermi, signor Arnoldo, » proruppe la sbigottita fanciulla, « e non mi lasci in questo modo.... Io le ho parlato come una povera giovine onesta, ho fatto il mio dovere. Lei non sa, non vede il mio dolore, ma soffrirei ben di più se non avessi coraggio di parlarle col cuore in mano. La grandezza, la felicità che mi vuol dare, non sono fatte per me: questi due anni della mia vita non saranno stati altro che un sogno, ma il più bello di tutt' i miei sogni!.. Quando penso a queste quattro mura, dove sono nata, dove per tanto tempo sono stata felice anch' io.... quando penso a mio padre, a mia madre, a mio fratello.... Oh se vivessero ancora.... non mi avrebbero certamente benedetta! » « Se que' buoni vivessero ancora, vorrei metter la nostra sorte nelle loro mani. E anche lui, vostro fratello.... » « Il povero Carlo!... Ah se sapesse com'egli pensava e

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Il seguente mattino, Arnoldo abbandonava quelle rive, abbandonava l'Italia. Tornato alla villa dopo il colloquio avuto con Maria, vi aveva trovato alcune lettere d' Inghilterra, fra le quali una di Elisa sua sorella, che dipingendogli il misero stato di salute del padre, il terrore o l' abbandono in cui essa e Vittorina vivevano, lo scongiurava a non perder nemmeno un' ora, a ritornar subito, a ricordarsi del nome che portava, e del dovere di figlio e d' Inglese, che lo richiamavano in patria. Questa lettera finì di persuadere Arnoldo. Bisognava dunque partire, senza rivedere Maria; tutto glielo comandava: e chi sa anche se avrebbe potuto ancora arrivare a tempo per ricevere la benedizione del padre suo? Egli dunque partì. Maria, che in tutta quella notte non aveva mai potuto chiuder occhio, s' era levata col sole, e se ne stava appoggiata al davanzale dell'aperta sua finestra, contemplar di lontano la villa *** dov' egli abitava. I balconi del terrazzo erano spalancati; quella parte della casa aveva l'aspetto d'un luogo abbandonato di recente. Quel pianerottolo deserto, quell'alto terrazzo, quelle vate finestre, le mettevano nell'anima un' involontaria tristezza. I suoi sguardi calarono lenti e distratti allungo della riva.... Nello stesso momento vide una barchetta staccarsi dal piccolo porto che si apriva al piede della villa. Un uomo, avvolto nel suo mantello, era nella barca, la quale ben presto pigliò il largo; il barcajuolo faceva forza di remi contro il vento che increspava tutta la superficie del lago. Un grido doloroso, invano trattenuto, le scoppiò dal più profondo del cuore.... Allora, quasi fosse stato scosso da quel grido, Arnoldo levò il capo, e di lontano la riconobbe. Si alzò, stese la mano verso di lei in atto d'un ultimo saluto; poi, quasi oppresso da forza prepotente, s'abbandonò di nuovo su la prora della barca: la quale fuggendo via via si dilungò rapidamente, finché non apparve più che come un punto nero, nell' iride dell' acque che riflettevano il sole nascente. Ma quand' ebbe perduta di vista quella barchetta, la povera Maria sentì mancarsi il cuore: uno schianto improvviso la soffocò; proruppe in lagrime d'amarissimo cordoglio, in quel piangere caldo e dirotto di chi non ha più speranza. Ella pensava che tutto era finito, che non l'avrebbe riveduto mai più. Angiola Maria visse ancora un anno, nella solitaria casetta, in compagnia della sua vecchia amica, che le era prodiga delle cure le più amorevoli, e che si ricordava così spesso di lui. Aveva raccolte sei o sette povere fanciulle del contado, tutte da quattro a cinque anni, belle creaturine dai capegli d'oro e dai visetti color di rosa, innocenti anime che l'amavano come madre. Insegnava loro a leggere, a dire quelle prime orazioni del fanciullo, che sono il più soave profumo che si innalzi ne' cieli; si deliziava di vederle folleggiare, quelle piccine, per le ajuole del suo cortile; e tutte le metteva a parte di quel poco ben di Dio che a lei era avanzato. Cosi si sentiva abbastanza felice, perchè persuasa e contenta d'aver compito il suo dovere. Innocente e sublime creatura! Essa aveva compito il suo sacrifizio. Al cominciar dell'altro inverno, que' fatali indizii d'una lenta consunzione, sopita per poco tempo ma non vinta, tornarono a spiegarsi; e il dottore, che di quando in quando capitava a visitarla, s' era subito accorto della funesta verità. Pure Maria trascinò i suoi giorni per tutta l' invernata. A poco a poco, ella si consumava, finiva, senza temere di nulla, senza patire. Dio è sempre pietoso, e volle risparmiarle l'ultima angoscia. Le fanciullette sue amiche venivano ancora quasi ogni dì a tenerle compagnia; qualche tolta, alcuna d'esse, la più grandicella, le domandava perchè fosse cosi pallida e dimagrita, e nel domandare pian- geva.... Ma ell'era rassegnata; nè fu udita mai pronunziare un solo lamento; chè anzi, assorta talora in dolce meditazione, le sue labbra s' aprivano a un tranquillo e celeste sorriso. Tornò la primavera, tornò il bel sole, tornarono i fiori; ma il cielo non fu più sereno, nè l'aria ebbe più balsamo per lei. Oramai, ella non sorgeva più dal suo letticciuolo. Al principio dell' aprile, in quel giorno stesso che, un anno prima, aveva veduto partire Arnoldo, ella restituì l'anima pura al Creatore. E le fanciulle da lei tanto accarezzate, e la Marta, alla quale lasciò la sua casetta, e quel buon galantuomo del signor Gaspero, che sempre le aveva voluto bene, furono i soli che l'accompagnarono l'ultima volta fin al luogo del suo riposo. Ella è sepolta presso a suo padre; e quelle due zolle sono protette da un' unica croce. Alcune settimane dopo la morte di Maria, il signor Gaspero stava leggendo agli amici le novità della gazzetta: sedevano a circolo su l' entrata della bottega di Samuele; poichè, al venir della state, l'aristocrazia del paese, come i capi delle tribù indiane, soleva tener consiglio a cielo sereno. Dunque, fra le altre novelle, sotto la data di Londra, egli lesse questa: « - Sir Arnoldo, figlio di lord Leslie, quello stesso la cui conversione alla religione cattolica menò gran rumore l'anno passato nel bel mondo, fu eletto membro del parlamento pel borgo di ***. Si pretende che l'onorevole baronetto deva condurre in isposa una sua cugina, la bella e ricca erede di lord S.... miss Elena Davison. » Il buon vecchiotto continuò a leggere; nè a lui, nè al dottore (il quale però conservava ancora, come reliquie, certe tre quadruple di Spagna lasciategli in dono dal giovine inglese), nè al curato, nè allo speziale, cadde in pensiero che quell'onorevole baronetto fosse appunto il bel forestiero da tutti loro già conosciuto. Non vi fu che il deputato politico, il signor Mauro, se pur vi ricordate di lui, il quale susurrò a mezza voce: « Quel nome non m' è nuovo.... Ma via, a noi cos' importa?... » Bisogna dire, peraltro, che di Maria non si dimenticarono. Il signor Gaspero raccontò più d'una volta la storia della povera fanciulla; e n' era sempre commosso, e conchiudeva seriamente: « Il mondo è una scala, e ciascuno deve starsene al suo scalino. La Provvidenza non ha creato per niente i signori e i poveri diavoli. Dunque rimani contento nella condizione in che essa t' ha collocato, nè voler sollevarti da quella per non perdere pace, libertà e salute.... » Ma, dopo un momento, scrollava il capo, e con un sogghigno di compiacenza, soggiungeva: « Questo è vero! Eppure io sono la prova del contrario. Se fossi sempre stato quel baggeo ch'io m' era da fanciullo, la mia fortuna a quest'ora sarebbe di menar la barca fino a Domaso e di pescare agoni laggiù sotto la riva; ma perchè, in que' bei tempi, non me ne stetti con le mani nel giubbone, da povero merciajuolo son diventato quello che sono, ho veduto quel che so io; almeno ho casa e tetto, e posso fare e disfare anch'io la mia parte; nè mi manca nulla, fuorchè la consolazione d' un' anima bella, come fu Angiola Maria. Ma! un' altra come lei non la troverò più, campassi anche gli anni di Noè. »

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Arnoldo abbandonava a malincuore, e colla fidanza di rivederle, le bellissime spiaggie di Mergellina, di Pozzuoli e di Baja, ove trovavasi allora; abbandonava la delizia di quel mare e di quel cielo veramente, italiani, per ritornarsene, ignaro della domestica fortuna che l' aspettava, nel seno della superba Londra. Qui vide suo padre, acceso più che mai di volontà d'onori e di ricchezze, attorniato di favoreggiatori e di nuovi amici; i quali vivevano tutti del suo credito e de' suoi conviti, e vendevansi a gara alla sua potenza. Il giovane amava le solenni memorie domestiche, e l'antica grandezza di sua famiglia così severa, veneranda e tranquilla, della quale il pensiero de' suoi primi anni gli risvegliava le poetiche ricordanze. Ma allora il suo cuore non era più il cuore del fanciullo; Arnoldo non era più quel di prima. Educato dall'esperienza de' viaggi, dallo spettacolo di tanti e variati costumi, dagli avvenimenti che dovunque parevano incalzarlo, dagli stessi suoi pensieri che si maturavano a volontà più tenace e a più costanti proponimenti, il giovine si persuadeva che il tumulto della vita civile non era per l'uomo che sortì da natura affetti generosi ma tranquilli, non era per lui. Egli era entrato nell'onesta casa del cittadino di Parigi, e nella soffitta del povero operaio di Lione; stanco dalla lunga via sotto gli ardori del sole d' estate, s' era riposato all'ombra d'una vecchia quercia spagnuola, in mezzo a una banda di guerrilleros, che dormivano d' intorno a lui sicuri e spensierati, sul nudo terreno, co' fidi loro moschetti a lato; aveva durato molte notti sotto il tetto d' un casolare svizzero, in cima delle Alpi, alla vista delle eterne ghiacciaie e del paese povero e libero; s'era adagiato nella barca del gondoliere veneziano, e aveva vogato nel navicello del pescatore di Napoli. Allora, aveva sentita più fortemente nel cuore la voce misteriosa della verità e della bellezza, che spiegano allo sguardo sempre e da per tutto una poesia potente e divina, nello spettacolo della natura e nelle vicissitudini del cielo e del mare, nella religione della povertà e nell'entusiasmo degli, umani sacrifizii: allora, meditando a sè stesso, egli aveva conosciuto che ben poca cosa diventano, in faccia d'una provvidenza così grande, le glorie storiche e l'orgoglio d'una famiglia che conta i nomi degli avi e de' redati poderi, nè si giova delle larghe fortune, che per fare nuova grandezza e per ambizioni maggiori. Il cuore d'Arnoldo era buono e mite; generoso, com' il giovine a vent'anni, ardente di trovare nella vita la bellezza e l'amore, come il poeta nelle sue prime inspirazioni, egli avrebbe fatto rinunzia del proprio avvenire e forse di sua stessa fortuna, preparata con sì lunga solerzia, per una vita oscura e modesta, ma consolata dalla benevolenza, dall' amore, dalla semplice e tranquilla amicizia. L' arte della vita per lui altro non era ancora che il bel sogno della virtù. Una sera, lord Leslie, all' uscir della Camera de' Pari, chiamò con gran mistero il figlio nel suo gabinetto. E con insolita amorevolezza, e con la fronte serena, egli ch' era sempre accigliato e di scarse parole, s' aperse con lui: gli disse d'avere spesa tutta la vita per lui solo; gli ragionò della grandezza della famiglia, dell' onoranza degli avi; e conchiuse col proporgli un illustre matrimonio, che doveva ristorar la sua ricchezza, crescere il favore del suo nome, e anche a lui aprire la luminosa via degli onori. In sulle prime, il giovine ristette unitolo e scontento, ma poi non potè rifiutare a suo padre di conoscere almeno la damigella che doveva essergli promessa sposa: la cosa stette intanto segreta. La vide dunque, la conobbe: era bella, orgogliosa e leggiera; era fatta per i piccoli trionfi del gran mondo, non per vivere nel cuore d'un uomo. Arnoldo sentì subito che non avrebbe potuto amarla mai; vide che, insieme alla fanciulla, gli era necessario sposare anche la causa de' parenti di lei; gli parve quasi d' essere venduto, e a questo repugnava. Disse aperta la sua risoluzione al padre, che impaziente aspettava, e lo scongiurò di comandargli qualunque sacrifizio, fuor quello del suo cuore. Levò la testa il lord in atto di maraviglia, impallidì alla negativa improvvisa; e congedò, senza dir nulla, ma in superbo atto, il ribelle figliuolo. Lord Leslie aveva impegnata la sua parola a' genitori della fanciulla: quello strano rifiuto d'Arnoldo rovesciava tutto l'edificio delle sue speranze. Poichè invano ebbe intromessi i consigli d' alcuni autorevoli parenti per vincere l'ostinata ripulsa del figliuolo, risolvè di lasciar l'Inghilterra, e se ne venne con rapido viaggio in Italia, insieme con Elisa e Vittorina. Arnoldo, ignaro affatto di questa subitanea partenza, e dolente dell'ingiusto sdegno del padre, ascoltò il buon pensiero di seguitarlo, per tornar più presto che potesse in pace con lui. Parti non molto dipoi, e lo raggiunse ch' egli era di fresco arrivato. Non dirò come il padre e il figlio s'incontrassero sul terrazzo della villa di***, nè dirò le lagrime e le preghiere delle due giovinette, che tentarono invano di mitigare la cupa collera del vecchio sdegnato. « Io sono figlio vostro » aveva detto Arnoldo supplichevole « e voglio starmi con voi! se voi non mi perdonate ancora, aspetterò che il tempo e la conoscenza delle mie virtuose intenzioni mi tornino in grazia vostra. Sì, avrò pazienza, finché voi non pronunziate sul mio capo la maledizione!... » Lord Leslie parve commosso; ma non cedette, nè rispose che questo: « Andatevene, sconsigliato! Io non vi rivedrò finché non abbiate fatto miglior senno. » - E ogni ragione fu inutile. Ma Arnoldo non rinunciò alla sua affettuosa speranza. Prese a pigione una piccola casa, che non era a più d'un miglio di quella villa; abbastanza contento, se gli avvenisse d'incontrare le sue buone sorelle o sul lago, o sui sentieri della montagna. Con loro, egli ingannava molte ore, ragionando di tante cose, di tante memorie che portava nel cuore. La storia di codesta vicenda famigliare potrà, cred'io, spiegare la sdegnosa tristezza del lord, e l'amorevole preghiera delle due fanciulle, in quella mattina.

Pagina 33

I ragazzi della via Pal

208324
Molnar, Ferencz 1 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
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Fuggiva dalla terra infedele ch'essi avevano difeso con tanto dolore, con tanto eroismo e che ora li abbandonava per prendersi sulle spalle una gran casa d'affitto, per sempre. Si rivolse ancora, dalla porticina, come chi lascia la patria per sempre. E nel grande dolore che gli serrava il cuore si mescolò una goccia, una goccia sola di conforto. Se il povero Nemeciech non ha potuto vivere fino ad ascoltare la deputazione della Società dello Stucco che gli domandava perdono, almeno non aveva saputo neanche che la patria per la quale egli era morto gli sarebbe stata tolta. E il giorno dopo, quando tutta la classe era seduta in silenzio, il professor Raz salì a passi lenti e gravi sulla cattedra e parlò con parole semplici e commosse, di Ernesto Nemeciech e invitò tutta la classe a volersi trovare l'indomani alle 15 in via Racos, vestiti tutti di nero o almeno di scuro. Giovanni Boka guardò cupo davanti a sè e per la prima volta cominciò ad albeggiare nella sua semplice anima di fanciullo un vago sentore di quel che possa veramente essere la vita, della quale tutti noi siamo schiavi ora tristi ora gai.

I miei amici di Villa Castelli

214301
Ciarlantini, Franco 1 occorrenze
  • 1929
  • Fr. Bemporad & F.°- Editori
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Solo al tramonto del sole Ella abbandonava la casuccia, e saliva il monte Calvario, lentamente, come aveva fatto Gesù sotto il peso della croce. Intanto scendevano dal cielo a gruppi gli angioli e baciavano la terra ancora sparsa del sangue del Redentore. In cima al Calvario la Madonna, contornata dagli angioli, si fermava ed abbracciava piangendo la Croce nuda. Le lagrime che Ella spargeva intorno si cambiavano in perle bianche. Nei libri dei botanici si chiamano vischio bianco, ma il popolo le chiama «le lacrime della Madonna».

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220278
Storie d'amore e di dolore 5 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Ma Giulio Sermanni, con la sua tradizionale poesia, quando aveva fatto tanto d'entrar nel campo del sentimento, non lo abbandonava a quel modo senza un po' di sfogo, e specialmente dopo aver sorbito qualche bicchierino di più. — Sì, da vero. Matilde dieci anni fa era magra, bruna, palliduccia. Abitava in una stamberga attigua alla mia, nelle soffitte d'un vecchio palazzo a Porta Genova, e a traverso l'assito che ci separava ella poteva, osservando dalla mia parte, godersi lo spettacolo d'una confusione di tele, di cartoni, di gessi, in mezzo ai quali io badavo a tirar giù alla brava pennellate e freghi di matita. Ma aveva altro da pensare, poverina! In vece, per conto mio, quando udivo il suo passo svelto su' mattoni o la sua fresca vocetta che rispondeva al brontolìo della madre, non mi facevo per nulla scrupolo di curiosare dalle commettiture del legno nella camera della mia vicina. Questo accadeva sempre di mattina presto, o di sera. Nelle altre ore del giorno, silenzio perfetto: meno lo strascicar lento delle ciabatte della vecchia e la sua tosse ostinata. La ragazza, ch'era giornante da una sarta, s'alzava nel cuor dell'inverno verso le sei. Acceso un lumicino che spandeva su l'oscure pareti un barlume fioco fioco da stanza mortuaria, indossava un vestito a quadrelli che nella notte le aveva servito da coperta, e, ancor tutt' assonnata, si scioglieva le trecce guardandosi in un pezzo di specchio rotto che s' appoggiava su le ginocchia. Aveva de' capelloni lunghi, folti, bellissimi, ma che una volta acconciati non facevano più nessuna figura, perchè se li spartiva lisci lisci a sommo del capo, e se li fermava di dietro, come stretti da una morsa, con un brutto pettinaccio sdentato. Terminata quest'acconciatura, ella si metteva a spazzar la camera, a spolverare i tre o quattro mobili tarlati che c'eran dentro, ma pian pianino perchè non si destasse la madre, che russava ancora, raggomitolata in una specie di canile; poi, aperta la cassetta Contessa Lara. 9 del tavolino, prendeva da un foglio mezzo lacero un cucchiaio di caffè di ghiande, e lo metteva a bollire sopra un veggio. Questo modo di riscaldarsi lo stomaco era l'unico lusso di Matilde, allora! — Montazzi inghiottì quattro o cinque sorsi di chartreuse tutti di seguito, astrattamente, e Bertino Fragni s'accostò più che mai alla tavola. II pittore riprese: — Dopo queste faccende, la ragazza trottava lesta lesta verso il suo magazzino e fino a un'ora di notte era tutta una tirata di lavoro. Spesso, al suo ritorno, c'incontravamo per le scale. Io scendeva per recarmi in Galleria, al Gnocchi, dove s'era formata una combriccola di glorie in erba cui davamo il nome pomposo di cenacolo. C'era un po' di tutto: pittori, scultori, musicisti, uomini politici, e non mancava nè anche qualche poeta di genere pornografico; però una razzamaglia di buon umore e con un certo bagaglio di talentaccio, più che altro poi di sfacciataggine. On ne doutait de rien! Bisognava sentir che teorie strampalate, che sublimi paradossi difesi a forza di pugni su' tavolini!... Basta, so che adesso darei molte opere mie che il pubblico loda e paga, per l'entusiasmo pazzo d'una di quelle ore giovenili. Matilde, lei, povera piccina, saliva al nostro quinto piano intirizzita dal freddo, e ravvolta in uno scialletto a maglia che a pena le copriva le braccia; ma era un amore con quel visino livido sotto la paglia d'un cappello scolorito e sbertucciato da chi sa quanti acquazzoni, con quelle dita che facevan capolino in cima ai guanti, tutte rosse per le punture dell'ago e pe' geloni; era un amore tutta impacciata a dissimular sotto le gonnelle troppo corte i tronchi di certi stivaletti larghi e sformati dove il pieduccio le ballava; sicchè ci avevo preso gusto a fermarla. - Buona sera, come sta? Ha fatto tardi, eh? O non ha paura a girar sola a quest'ora? — Quasi sempre le stesse domande e sempre le stesse risposte: - Grazie, sì, stava bene. No, paura no, perchè sceglieva le strade con molti lampioni. Nel carnevale, si sa, c'era il lavoro a monti in magazzino, e non si poteva finir prima. Ma non era mica stanca! Quando si fatica si dorme meglio, nevvero? Buona notte, grazie. - - Buona notte! — E, sorridendo, correva su tutta contenta di appendere a un arpione lo scialletto a maglia e il cappello di paglia, e di mangiar finalmente quel po' di minestra su l'acqua che la mamma avea preparata. Qualche sera, quando la porta di Matilde s'era gia richiusa, io rientravo dietro a lei zitto e cheto nella mia stanza, e mi godevo un quadretto da innamorare un pennello fiammingo. Al lume d'un mozzicone di candela di sego infilato nel collo d'una bottiglia posta in mezzo alla tavola, cenavano le due donne: la vecchia, faccia caratteristica della popolana dalle fattezze ruvide, accentuate, con una pezzuola di cotone a fiorami gialli in testa, legata sotto il mento, e una a fiorami rossi incrociata su 'l seno, piegava il naso fin quasi al piatto, biasciando lentamente i bocconi; la giovanetta, con una cornice di capelli bruni su la fronte, due begli occhi d'un grigio d'acciaio brunito, allargati dalle ciglia lunghe, col profilo regolare, si coloriva e pareva rianimarsi al caldo della zuppa fumante. In un angolo della stanza brillava la nota rossa di qualche tizzo acceso dentro un fornello di terra; a una parete era un'asse con sopra un boccale e de' piatti sbocconcellati ma lucidi, puliti; più là il letto, con a capo un gran ramo d'ulivo ombreggiante una Madonna di carta colorata e un quadretto nero con una medaglia al valor militare: memoria del padre morto in guerra: una reliquia. Matilde, mangiando, raccontava il gran da fare che c'era in magazzino. Madama era diventata più stucca, più rigorosa che mai. E certe volte si metteva a descriver minutamente un abito che avea finito in giornata; era d'una signora forestiera, chi diceva una marchesa, chi una mantenuta, non si sapeva. — Eh!... Bisogna esser di quelle per aver fortuna! — filosofava tra un sospiro e l'altro la madre, scrollando la faccia ossuta. La ragazza terminava a dire: — Bisogna veder che vestito!... — E l'idea di quei monti di stoffe dalle morbidezze di velluto, da' riflessi di raso, di quell'onde di tralci e di merletti in cascate d'argento, era il contrasto più forte, l'antitesi più potente che si potesse opporre a quell'interno miserabile. Un giorno, il proprietario del nostro palazzo fece sloggiar le mie vicine co' loro quattro stracci, per un'unica, ma valida ragione: non avevano pagato l'affitto. Questo io lo seppi qualche giorno dopo dalla portinaia, che mi raccontò per filo e per segno tutti i fastidi sofferti da quel galantuomo del padrone per dare lo sfratto alle due donne. La ragazza, quando caricavan la roba sur un carretto a mano, stava lì ferma al portone con gli occhi rossi, più muta e più sbiancata d'una statua.... Ma, Dio mio, certe cose si sanno senza imparar l'abbaco! O che forse credevan di stare in casa gratis? Quanto a mance, non c'era pericolo che cascasse mai un soldo; po' poi la Matilde doveva guadagnar bene in quel gran magazzino... E la degna portinaia concludeva con una strizzatina d'occhi: — Quando si è giovani si trova sempre da far bene. - - Dove mai sarà andata a finire la povera Matilde? — mi domandavo io con un certo senso di tristezza. Passò più d'un anno senza che rivedessi la sartina. Non la cercai, è vero, perchè non c'era nulla di comune tra di noi; ma di tanto in tanto quella sua figura patita ed ingenua mi tornava nella memoria; massime poi da quando nella sua camera era venuta a star una famiglia d'operai carica di bambini che vociavano e piagnucolavano in tutte l'ore del giorno e della notte; a segno che una bella volta dovetti prender io pure le mie carabattole e andare ad alloggiare altrove. Ora, sentite. Una sera, al Gnocchi, mentre me ne stavo secondo il solito in mezzo al così detto cenacolo, viene una coppia, maschio e femmina, a sedersi al tavolino dirimpetto. Il maschio mostrava una cinquantina d'anni. Alto, con la barbetta ancora biondiccia tagliata corta e un po' calvo, con modi riservati, magari freddi, aveva in tutta la persona un'eleganza esotica, da gentiluomo russo o svedese. M'era ignoto. La femmina, in vece, mi ricordava un viso da me conosciuto, ma non mi sovvenivo nè dove nè quando. Bruna, snella, con due lunghe trecce penzoloni su le spalle, indossava un vestito d'ultima moda fatto di seta e di velluto color lontra: un vestito da signora autentica. Ma in pari tempo erano in lei delle stonature da non isfuggir a un occhio pratico di donne: per esempio, un cappello con delle penne rosee troppo vistose, e brillanti agli orecchi, al collo, ai polsi; sopra tutto poi una larga striscia nera giro giro agli occhi. Che volete? Sarò retrogrado, ma per me, lasciando da parte le voluttuose usanze orientali, ho un'idea fissa: le donne oneste non si tingono. Poi questa donna rideva, rideva da bimba sguaiata, e mangiava per due. Guardandola bene ravvisai la Matilde. Passarono circa altri quattro anni e la rividi quando proprio non mi ricordavo più che fosse al mondo, un inverno, di carnovale, ai veglioni della Scala. Ella tornava allora da Vienna o da Parigi dov'era andata a scuola; portava una parrucchina fulva come il granturco e s'era ingrassata a furia di mangiar dolci e di girare in carrozza. Aveva una stupenda pariglia di sauri e degli abiti di trine vere. — Bisogna esser di quelle per aver fortuna! — aveva filosofato sua madre. Un amico comune mi presentò alla nuova stella, una sera, al Manzoni. Per me pure, in tanto, era girata la ruota. Le mie tele cominciavano a vendersi bene; nel mio studio era già una profusione alla Makart di ninnoli eleganti e d'oggetti d'arte, e più d'una volta Matilde mi ha fatto volentieri da modella per raffigurare qualche baccante. Entrava da me con un incantevole sorriso com'è entrata or ora qui; toccava tutto, curiosava dovunque, poi sedendosi a canto a me mentre lavoravo, si metteva a narrarmi — chi sa perchè - le sue tante avventure amorose, con la franchezza, con l'abbandono d'una folle compagna d'infanzia. - Ma un amore non l'ho mai avuto, sai! — mi disse una volta facendosi triste d'un tratto; poi scrollò le spalle e soggiunse: - Chi sa se l'amore esiste! — Cosa strana! Matilde non ha mai voluto convenire d'esser lei la mia piccola vicina della soffitta a Porta Genova. Quando io, talvolta, gliene ho parlato, massime ne' tempi a dietro, insistendo su' particolari delle nostre prime relazioni e facendogliene vedere il lato gentile, ella protestava energicamente ch'io non l'avevo mai conosciuta, e al fine indispettita, nervosa, mi piantava lì senza salutarmi. Sostiene d'esser nata a Torino e di non saper nulla de' propri genitori. Un giorno, mi ricordo che a questo proposito fui crudele con lei; guardandola fisso fisso le chiesi a bruciapelo: — O della medaglia al valore ch'era a capo del tuo letto, che cosa n'hai fatto? — Ella impallidì, e mi rispose soltanto con una occhiata: un'occhiata che non dimenticherò più. Fu la sua sola vendetta, povera Matilde! - Il fragore delle voci e delle risa misto a un tintinnio di posate e di cristalli cresceva nel gabinetto a costo, simile alla marea. Sermanni ascoltava astrattamente; non parlava più. - Andiamo! — disse Bertino Fragni,voltandosi agli amici. Montazzi si versò dell'altro liquore. - Eh, che volete farci? Questa è la vita — dichiarò come per rispondere al baccano della vicina comitiva e al silenzio improvviso del narratore; quindi soggiunse a mo' di morale: - Matilde, però, nel suo genere, è una buona diavola. - - Dieci anni fa era un angiolo — pensava Giulio Sermanni. - Andiamo, andiamo! — ripetè Bertino — lo sapete che di là ci aspettano. Accesero degli altri sigari; s'infilarono i soprabiti e uscirono. Ma il pittore si fermò di botto. - Scusatemi se non vengo con voi — disse a' due giovanotti maravigliati. — Ho da fare. Proprio vi giuro che non mi sarebbe possibile.... — I compagni protestarono forte. No, perdio! che non doveva lasciarli. Che c'era di nuovo? Qualche convegno amoroso, si capisce. Ma per quella volta la sua bella poteva aspettare!... E a troncare il battibecco, Bertino spalancò l'uscio della stanza dove avea luogo la cena ed annunziò il tradimento meditato dal Sermanni. Allora sì che fu un vocio da stordire; e Sermanni era già in fondo al corridoio quando una donna mezz'ubriaca, con gli occhi lustri, con le labbra ardenti, gli corse dietro incespicando nello strascico di damasco del proprio vestito, e tra risa sgangherate gridò: — Disertore! disertore! — buttandogli il suo bicchiere colmo di sciampagna.

Rimasta ritta davanti alla scrivania, abbandonava le braccia, che le pendevano sotto lo scialle di lana nera, e sporgeva innanzi la testa bassa, con l'occhio vitreo, con la bocca mezzo aperta, cadente. — Del resto, — soggiunse il direttore — le cose sono state fatte ammodo; i genitori di quell'altro ragazzo hanno ordinato un mortorio decente al bambino vostro, credendolo il loro; questo deve consolarvi. E in ultima analisi, — concluse — con la morte c'è poco da fare: pur troppo, lo sapete come me. Quanto ai panni, ve li restituiranno, non c'è dubbio: m' impegno io. — Lucia udiva un rumore di parole vaghe, assordante come uno scrosciar d'acque invisibili. Non rispose mai. Soltanto, quando il direttore s'alzò, ella capì che doveva andarsene. Che cosa ci stava ormai a fare? Chi aspettava? E s'avviò verso l'uscio, col desiderio intenso di ritrovarsi in casa sua, nel suo covo, che le pareva lontano, lontano, come se, per arrivarci, avesse dovuto far un viaggio interminabile, eterno.

Emma, my darling, alzati e senti se il signor conte ha la febbre — ordinò alla figliuola; poi si mise a spiegare a' suoi ospiti come Emma fosse abilissima a conoscere la febbre, da quando lei, sua madre, aveva avuta la perniciosa a Roma; in tanto che la giovanetta, con un sorriso birichino, tastava il polso del vecchio, che le abbandonava la mano, guardandola beatamente fisso, di sopra le lenti. — No, no, miss Emma, il conte non ha febbre — insinuò con rispettosa confidenza San Teodoro. — Il conte è innamorato, come diceva benissimo ieri la signora Alford. Emma scoppiò in una sonora risata di bimba; gli altri risero meno rumorosamente; ma in quella che il capitano apriva bocca per lasciarne andare qualcuna delle sue, e Sampieri pensava: — Dio ti mandi un acci... — ecco un cameriere avvertir sottovoce la padrona che c'erano due uomini con un mobile fatto di fiori. — Io non ho ordinato fiori — rispose la signora; poi si volse alla sua ragazza: — va a vedere di che si tratta, my darling, perchè dev'esservi uno sbaglio d'indirizzo. Emma era a pena uscita che di nuovo si precipitava nella sala da pranzo, con gli occhi lucenti di gioia, esclamando: — La fontana! Una fontana più alta, più bella di quell'altra! — poi subito, volta al tenente: — Ma che pazzia, Totò! che gran pazzia! Dopo che ve l'avevo proibito, dopo che v'avevo fatto promettere, giurare che non l'avreste ordinata! Un oooh! d'ammirazione generale salutò quel trionfo di fiori che lentamente i camerieri trasportavano nella stanza, in tanto che Emma, a cui s'univano la madre e il capitano, badava a colmar di dolci rimproveri e di effusioni di gratitudine l'ufficialino: il quale si difendeva, in vano, giurando su tutti i toni e in tutti i modi ch'egli non ne intendeva una buccicata. Quando il cicaleccio si fu alquanto acquetato, Emma andò a posar la testa bionda su l'orlo odoroso della vasca di gardenie, come una colomba assetata. — Avrei dovuto figurarmelo — diss'ella dolcemente commossa. — son proprio del carattere di Totò queste premure senza parole... — e seguitando ad aspirare il profumo acuto, mormorò: — I bellissimi fiori dovranno appassire, ma il ricordo resta.... L'avvocato guardava fisso fisso il suo amico. — Che diamine faccio io? — gridò il tenente guardando l'orologio - M'ero assolutamente dimenticato che debbo tornare a Salerno. E a quest'ora mi pare impossibile di fare in tempo al treno, con tanta distanza dalla stazione! Rapido come un lampo, balzò a riprendere la sciabola che aveva deposta in un canto, e affibbiandosi il cinturino, salutava in fretta e furia la società; poi volò giù a precipizio per le scale; ma Emma, afferrando una manata dei tralci di rose che figuravano il getto della fontana, senza udir un grido soffocato d'ira e di dolore del povero conte Sampieri — a cui nessuno, tranne il Bencini, badava — corse al balcone e buttò i fiori nella carrozzella che si portava via San Teodoro. Quando la fanciulla rientrò nella sala, il vecchio n'era scomparso. L'amico si mise in cerca di lui per tutta la pensione; ma senza frutto. Allora, inquieto, insospettito, fantasticando che un originale di quella fatta era capace di commettere qualunque sciocchezza, uscì subito in traccia di lui, percorrendo tutti i luoghi ch'erano usi a frequentare insieme; e finalmente, dopo più d'un'ora di palpiti, trovò il conte dentro la Villa, solitariamente accasciato sur una panchina, come un povero diavolo che non ha nè pane nè tetto. L'infelice non gli lasciò tempo di parlare. - Ma è orribile! è atroce, sai! — esclamò battendosi tutt'e due le mani su le ginocchia. — Chi poteva immaginare che quell'animale si sarebbe appropriato così tutto il merito?... mentre son io che ho regalato il mazzo ad Emma; io, io, non già lui! - Me lo figuravo, non dubitare. - asserì l'altro - Ma, che tu sia benedetto! o perchè non glielo accompagnavi con una tua carta? O almeno perchè non hai parlato quando la cosa è andata come è andata? Ci voleva tanto! - Mio caro, non è da oggi che tu mi conosci! Io, lo sai come son fatto. Con le donne ho avuto un sistema tutto di discrezione; e figúrati se questo sistema mi si è fatto più sacro da quando ho capito che è proprio quello che piace a Emma. Le dichiarazioni brusche non valgon a nulla, di certo: in vece la delicatezza.... Ora, però, so io quel che ho da fare. — Come? — domandò con sorpresa l'avvocato. — E intenderesti di corteggiar ancora quella ragazza... a ogni costo?... - Intendo di farla mia moglie, capisci? — dichiarò il conte risoluto. - La passione, eh? dà ogni scaltrezza, e io ho trovato un mezzo ingegnosissimo per impossessarmi di quel coricino cosi sensibile. — Sì molto sensibile, ma non per te! — ribatteva l'avvocato. — Per adesso, mi sembra che tutti i tuoi espedienti ingegnosi, tutte le tue delicatezze mute sieno state soltanto buone ad avvantaggiare il tuo rivale, il bel Totò.... - Bencini, non mi nominar mai più quello sfacciato straccione, o ci guastiamo! — Caro Sampieri, ci guastiamo senza dubbio e su 'l serio, se tu non mi giuri su 'l tuo onore che domattina stessa andiamo via di qui. Ma il conte era nello stato acuto della passione. Partire! Partire ora proprio ch'egli aveva trovato il modo di conquistare il paradiso? No, no, e poi mille volte no, che non partiva! E fece e disse tutto quel che potè per persuader l'avvocato che questo era l'esperimento decisivo, l'estremo. — Ti chiedo per grazia, per misericordia, di tentar quest'ultima prova; dopo di che partirò per sempre, sì, per sempre; ma mi devi promettere che questa volta mi aiuterai molto anche tu. Fuori di sè per la stizza che gli faceva l'ostinazione del conte, il Bencini protestò energicamente su 'l proprio intervento in una ridicolaggine come quella; e sa Dio se risparmiò, mescolati insieme, consigli e rimproveri. Ma quando vide quella povera figura grottesca, compassionevole pregarlo con gli occhi pieni di lagrime, quando s'accorse che il cervello del suo vecchio amico ci andava di mezzo, si calmò e cercò di calmare l'altro; ascoltò con pazienza i progetti di lui, e gli promise il suo appoggio a conseguirne l'adempimento. Poco dopo l'avvocato tornava solo alla pensione.

Pagina 317

D'Ambra, Lucio

220397
Il Re, le Torri, gli Alfieri 4 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
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Non abbandonava lo scacchiere un solo minuto. Pensava a questa o a quella mossa da fare o da tentare dalla mattina alla sera e vi pensava ancora dalla sera alla mattina. Ogni giorno, nelle prime ore della mattinata, il principe ed io avevamo preso l'abitudine di fare tre o quattro giri a cavallo nel galloppatoio del Parco delle Delizie, la grande villa di Pulquerrima, ove, nelle ore mattutine, conviene il fior fiore della società pulquerrimese. Ma durante quelle nostre prime passeggiate, più che a giuocare, Sua Altezza badava a studiare meticolosamente lo scacchiere, ed una volta ancora io avevo cosi l'onore d'iniziare Sua altezza in tanto ardue discipline. Sua Altezza, che a Londra aveva mosso i suoi primi passi a traverso stati civili assai meno complicati, si meravigliava di dover rilevare che, quasi senza eccezione, ogni pedina era fiancheggiata da almeno due alfieri, di cui uno solo avrebbe a rigore potuto precisare ufficialmente la sua posizione su lo scacchiere. E giunse così rapidamente a concludere che nello scacchiere sul quale egli si trovava a giuocare le pedine più rigidamente virtuose eran quelle che d'alfieri si contentavan d'averne solamente due. Per sua fortuna, in questi giuochi galanti Sua Altezza aveva di Ferro la memoria come la salute, e, in capo ad una settimana infatti, non sbagliava d'un alfiere per nessuna pedina. Le elencava ad una ad una, coi loro due, tre o quattro alfieri. Avevo adoperato, per condurlo a questo risultato, un eccellente sistema mnemonico: il nome di ogni signora era seguito da un numero ch'era quello dei suoi alfieri e, per brevità, da alcuni nomi di battesimo ch'eran quelli degli alfieri medesimi. Esempio: la principessa Urquela, quattro: Emanuele, Alvaro, Marcello, Venceslao; la contessa de la Rochebleue, tre: Tizio, Caio e Sempronio. II principe ne recitava cinquanta di seguito, senza riprendere fiato e senza il più piccolo errore. Ripetevamo l'esercizio la sera e la mattina. E l'dentificazione dei soggetti durante le nostre mattutine passeggiata a cavallo al Parco delle Delizie era semplicissima. Sua Altezza notava una signora bionda, bruna o castana, e mi chiedeva sùbito chi fosse. Se io la nominavo, immediatamente il principe, senza un attimo di perplessità, aggiungeva lo stato di servizio galante della signora: Quattro: Antonio, Armando, Serafino e Gioachino.... Cinque: Pietro, Paolo, Giuseppe, Giacomo e Giovanni! Pochi giorni più tardi cominciammo a scendere da cavallo dopo due o tre giri e a prendere l'abitudine di fare un mezzo chilometro a piedi in quel viale dei Tigli che in quelle ore mattutine era un vero salotto all'aria aperta, fra cielo e mare. Ad una ad una, tutte le signore sollecitarono l'onore di essere presentate al principe contemporaneamente ai loro alfieri ufficiali e ufficiosi. Talchè in capo ad una diecina di giorni il principe teneva circolo di belle signore, con una scioltezza, con una sicurezza, con una tranquillità che non avrei superate io che in mezzo a quelle buone amiche mie avevo vissuto fin dai miei più teneri anni, nel viale dei bambini. Ne corteggiava insieme tre o quattro, e con alcune, che piu agilmente si prestavano al suo giuoco, andava avanti a vapore. E gli alfieri guardavano, vedevano e lasciavano fare, più lieti e pettoruti che mai se la loro pedina era la favorita. Una volta Sua Altezza mi disse: — Se stesse ai loro mariti, mi toccherebbe, per non far dispiacere a nessuno, di prenderle tutt'insieme.... Una alla volta, per carità. Posso distribuire i numeri d'ordine, come negli stabilimenti di bagni. Non scontento nessuno. Una sola volta un alfiere ufficiale parve un poco seccato della come a briglia sciolta che Sua Altezza faceva una mattina a sua moglie, sotto i suoi occhi e, peggio ancora, sotto quelli di tutta Pulquerrima. Mentre ritornavamo a casa a cavallo il principe mi raccontò il piccolo incidente: quando aveva potuto finalmente raggiungere sua moglie in un viale appartato dove il principe l'aveva dolcemente trascinata, l'alfiere aveva fatto capire a Sua Altezza, con un sorriso amaro, che anche i doveri della sua devozione di cittadino dovevano avere un limite là dove incontravano i suoi inalienabili diritti di marito. «Ma che aveva quell'uomo impossibile per guardarmi di traverso in quel modo?» mi disse il principe, meravigliato. Fermò la sua attenzione e si riconcentrò, e, dopo un silenzio, lo sentii aggiungere, ripetendo il cognome della pedina facile e dell'alfiere difficile: «Carenda, sei: Luca, Luigi, Luciano, Leone, Lorendo e Leopodo. è quella che batte il record del sei, ora mi ricordo benissimo. Ma che ha dunque da brontolare, lui? Ho forse il solo torto di chiamarmi Rolando per il marito di quella collezionista d'Elle?

Accompagnato dal suo aiutante di campo e da me, Sua Altezza scene lo scalone reale fra la folla degli invitati che, commentando, abbandonava la festa. Le dame chiuse nelle chiare sorties de bal, i gentiluomini impellicciati si ritrassero ai due lati dello scalone inchinandosi e scoprendosi. Sua Altezza passò senza battere ciglio, con la mano al berretto, senza vedere nessuno. Non degnò d'uno sguardo neppure la duchessa di Frondosa. Salimmo in automobile tra un gran sfolgorio di luci, un gran frusciare di sete, un vivo odore di fiori. E l'automobile, veloce e leggera, filò via immediatamente, nella notte, prima attraverso due interminabili file di automobili e di carrozze che attendevano e poi attraverso la città addormentata cui Sua Altezza non doveva ritornare che molto più tardi, in viaggio ufficiale, dietro la nera siepe di alti colbacchi della Guardia Reale. Per le persone che hanno un esagerato concetto di loro stesse c'è un metodo infallibile per superare il dolore: quello di sapere che questo dolore è guardato, che l'ora dolorosa ha una platea. Era evidente in ogni gesto e in ogni atteggiamento di Sua Altezza durante il breve tragitto da Pulquerrima ad Effemeris che, più di un figliuolo che accorre a seguire il funerale di suo padre, egli sentiva di essere un re di più che entrava nella storia. Ogni giro di ruote sui lucidi infiniti binarii avvicinava non il principe Rolando a suo padre ma Rolando II al suo trono. La commozione figliale era quindi superata da un altro sentimento più forte e più necessario: il sentimento della dignità regale, il raccoglimento con cui occorre sentir battere all'orologio del mondo i minuti primi che, quando sono sessanta, hanno formate senza saperlo, col loro passettino solito e indifferente, una delle grandi ore della Storia. Una delle grandi ore della Storia! La frase ricorre sovente nei più bei periodi dei giornalisti. Ed è singolare osservare che le grandi ore della storia sono, per coloro che le vivono, proprio quelle in cui sembra che non avvenga mai nulla. Evidentemente la storia si elabora in silenzio o, se dice le sue grandi parole, le dice in una lingua misteriosa che gli storici potranno interpretare più tardi ma che sono e restano indecifrabili pei contemporanei. Mentre scrivo queste righe sento su la mia fronte il peso delle mie trentasette primavere: si dice così, come se nella vita degli uomini contasse solo, come fardello, la più leggiadra delle quattro stagioni. Da che ho uso di ragione di grandi ore della storia ne ho sentite suonare più d'una, ma non di una sola potrei dire oggi quale fu la grandezza. Perchè una grande ora della storia consenta a rivelare che cosa aveva nel grembo dei suoi sessanta minuti occorre che quella ora sia guardata almeno a mezzo secolo di distanza. L'età ragionevole dell'uomo essendo posta dall'opinione comune a un'epoca che coincide con quella alla quale un onesto padre permette per la prima volta al suo figliuolo d'uscir solo di sera e con la chiave di casa, ed essendo raro che un uomo possa aspettare, indisturbato dal destino, sino a settant'anni l'ora di capire anche lui cosa fossero e contenessero le grandi ore della storia, a senza altro evidente che l'uomo non può farsi un'idea esatta che delle grandi ore vissute dai suoi predecessori. Le grandi ore della storia che ha vissuto lui apparterranno ai suoi lontani nipoti. Essi soli avranno il segreto che apre quei lucchetti indecifrabili. La storia ha due tempi: un primo tempo che è quello delle generazioni che la vivono ed un secondo che è quello delle generazioni cui è concesso d'interpretarla. Io non potei che vivere quella grande ora della storia di Fantasia di cui parlavano a lettere di scatola i giornali di Effemeris. La vissi, come sempre, ai talloni di Sua Altezza la quale, poichè le abitudini comode sono le più difficili a sradicarsi, mi conservava la sua benevolenza, anche ora che era diventata Sua Maestà. È segreto della gente seria quello di vivere le grandi ore inesplicabili con una gravità e una dignità compatibili solamente con grandi ore che sarebbe possibile spiegare. E Rolando II, nel breve tragitto ferroviario da Pulquerrima a Effemeris, aveva fatto trar fuori dai suoi bauli non solamente una fascia di crespo con cui mettere il segno del lutto su la sua bella tunica verde, ma anche una serietà che dava, se mai avesse potuto durare, le migliori speranze per l'avvenire del regno di Fantasia. Giunto ad Effemeris, aveva ricevuto con regale compunzione le condoglianze dei ministri e degli alti dignitari della Corte e dello Stato. Uscito dalla stazione per salire in automobile aveva ricevuto con un mesto sorriso di re benevolo e di figlio addolorato i plausi del popolo di Fantasia che — morto il Re, viva il Re!— dopo avere bagnato montagne di fazzoletti con fiumi di lacrime per la morte del vecchio Sovrano, ora, all'arrivo del Sovrano nuovo, li rasciugava agitandoli in segno di giubilo al sole della più bella giornata di primavera che mai re possa desiderare per ascendere in letizia il suo trono. E l'indomani, ai funerali del re defunto il giovane re, passando diritto e fiero dietro l'affusto di cannone dove suo padre, così poco militare in vita, dormiva in morte il suo primo ed ultimo sonno guerriero, Rolando II rapiva i cuori di tutta la popolazione femminile della capitale. La sua figura era popolare poichè il re defunto soleva far pubblicare sui giornali, almeno una volta alla settimana, con la periodicità fissa d'una inserzione a pagamento, i ritratti del suo augusto figliuolo: chè, abile amministratore della sua casa regnante, amava mettere in mostra quel bel giovanotto che anche i nemici più acerrimi del suo regno dovevano riconoscere per l'unica cosa ben fatta della sua lunga storia regale: storia quanto mai felice e però, se oso esprimermi così, storia senza storia. Quando, compiuto il funerale, Rolando II risalì in automobile con le gambe spezzate per aver percorso mezza Effemeris a piedi e con gli occhi stanchi per aver fatto quel lungo sforzo di non battere ciglio cui son condannati gli occhi umani quando hanno l'onore d'essere occhi di re, Pulquerrima tornò nel cuore del Sovrano che Effemeris acclamava in una limousine ermeticamente chiusa dove non si vedeva sagoma umana se non quella dello chauffeur. A venticinque anni la dolce giovinezza alterna senza difficoltà i più frivoli piaceri della tavola e i più gravi problemi dello spirito. Talchè, acceso in volto dai vapori d'una gioconda digestione, Sua Maestà, ritrovandomi dopo colazione nello studio paterno dove un suo ritratto ad olio era già stato sostituito a quello non meno oleoso ed oleografico del defunto genitore, tornò con me alle leggere conversazioni di Pulquerrima e vi tornò nel modo più impreveduto: sfogliando i telegrammi di condoglianza che i segretari avevan deposti, debitamente annotati, su la scrivania regale. Li leggeva ad uno ad uno, Sua Maestà, con pacata melanconia. Ogni volta che ne sollevava uno dal pacchetto di sinistra per passarlo, dopo letto, al pacchetto di destra, diceva a me i nomi dei mittenti: erano colleghi amabili e cortesi, imperatori e re d'altre nazioni, principi ereditari e principi cadetti, colleghi di domani o di dopodimani, ministri e ambasciatori, generali e ammiragli, senatori e deputati. Vidi ad un tratto disegnarsi sul suo volto uno dei suoi più chiari sorrisi e udii la sua voce dire allegramente: «Anche lei.... Isabella....Molto gentile...». E mi passò il telegramma di condoglianza della duchessa di Frondosa, telegramma che era firmato anche dal duca; ma il duca aveva il torto d'esser marito ed è noto da che mondo è mondo che i mariti non contan mai nulla per gli amanti nè in fondo ai telegrammi nè in fondo ad ogni altra cosa. E quand'ebbi restituito il telegramma che Sua Maestà piegò e infilò nella tunica, in fondo alla tasca interna, proprio lì, sul cuore, la voce di Sua Maestà sospirò dolcemente: «Isabella!» Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Era, l'altra sera, molto più gentile dell'usato. Il ghiaccio del suo cuore cominciava a fondersi. Cominciavo a sperar seriamente di poter giungere a cogliere il frutto di ciò che avevo seminato». Non è mia colpa se lo stile conversativo di Sua Maestà non sapeva trovare imagini più personali di queste. Il volto del giovane re s'era di nuovo oscurato e la sua voce aggiungeva: «Ero, ne son certo, alla vigilia della resa». A queste parole seguì un lungo sospiro. Al lungo sospiro seguì un lungo silenzio. Al lungo silenzio seguì un nuovo lungo sospiro. Al nuovo lungo sospiro seguì un nuovo lungo silenzio. E poichè sospiri e silenzi diventavano sempre più lunghi e non era evidentemenle possibile andare così, a un ultimo lungo sospiro e a un ultimo lungo silenzio seguirono finalmente queste memorabili parole: — Ma sul più bello.... Ah, mio padre non è morto a tempo!... E mentre a questo elogio funebre seguivano ancora un sospiro e un silenzio, io pensai a quel povero re gaffeur che anche morendo aveva dovuto dare ancora noia a qualcuno. E mentre per scuotere l'impressione di ciò che quelle parole avevan di troppo personale mi dicevo che non era colpa mia se al re defunto non toccava che quell'elogio, dovevo anche riconoscere che quell'elogio era meritato e che un re il quale abbia un figliuolo impegnato in una galante avventura può, valendosi dei privilegiati rapporti col divino benefattore che l'ha fatto re per grazia celeste, ottenere, quando l'ora di morire sia giunta, almeno una proroga di cinque o sei giorni. Che per cinque o sei giorni non avuti a disposizione al momento buono c'è sempre il rischio di dovere poi aspettare una nuova occasione per cinque o sei mesi. Accadde così a Sua Maestà, la quale, pur tra le nuove gioie e i nuovi affanni del regno, non dimenticava la bella torre rimasta laggiù, su lo scacchiere di Pulquerrima, proprio alla vigilia di crollare finalmente anche lei. Ne parlava ogni giorno, quasi ogni ora. Per una via o per l'altra giungeva sempre a insinuare nella conversazione il nome della duchessa di Frondosa; e, quand'era coi ministri e della duchessa non c'era assolutamente modo di parlare, parlava del duca, chiedeva che uomo fosse, che valore avesse diplomaticamente, quale fosse attualmente la sua posizione politica. Anche a parlar del duca si sentiva in cuore un po' di duchessa. E il vantaggio, questo, dei mariti: che non solo vedono amata la loro metà ma si sentono amati anche loro, almeno per metà. Il teatro cinematografico ha un gesto quanto mai espressivo e quanto mai falso: e il gesto che fa un attore, movendo la mano, portandola alla fronte, raggruppando su questa perpendicolarmente le dita, quando vuole far comprendere al pubblico che gli è venuta improvvisamente un'idea. Il gesto è falso perchè le idee non vengono generalmente così, e perchè le idee prima di trovarle nella nostra testa noi le troviamo nella testa degli altri. Nulla nasce da nulla e però un'idea non sorge in un cervello d'improvviso e spontaneamente. Poichè tutto è derivazione, generazione, concatenazione, completamento e perfezionamento, mise au point come dicono i francesi, una idea nostra nasce da un'idea d'un altro, un pensiero che ci è manifestato ce ne suggerisce un altro che noi manifestiamo a nostra volta. Solo Adamo avrebbe avuto il diritto di fare il gesto caro agli attori cinematografici. Ebbe egli solo la prima idea da cui poi venne tutt'il resto. E in fondo anche Adamo, come generatore spontaneo d'idee, è sospettabile e discutibile dal momento che per dargli l'idea di che cosa poteva fare di Eva fu necessario l'intervento del serpente. Il serpente che suggerì a Sua Maestà, alcuni mesi dopo la sua ascesa ai trono, che cosa potesse fare della duchessa Isabella di Frondosa, aveva nome don Pedro de Aldana ed era presidente del Consiglio, press'a poco inamovibile, del dolce regno di Fantasia. Ebbi la fortuna d'assistere anche a quest'altra grande ora della storia d'una dinastia. Conseguentemente a quanto ho detto più sopra, era impossibile che un'idea sbocciasse nel cervello di don Pedro senza che un'altra idea nel cervello o su le labbra di un altro le offrisse il modo di venire al mondo. L'idea forcipe apparve su le labbra di Sua Maestà, in un grigio giorno d'inverno, nella solitudine del suo studio ov'egli non aveva mai nulla da studiare: era un'idea semplice, senza parole, molto aperta, un po' rumorosa: uno sbadiglio, uno sbadiglio che voleva dire: «Mi annoio!» E allora, nel desiderio d'alleviare la noia di Sua Maestà, don Pedro de Aldana trovò a sua volta la sua idea che manifestò con un garbato sorriso e con cinque semplici e timide parole: «Vostra Maestà dovrebbe prender moglie.» Se le idee sono concatenate, non e detto che questa concatenazione debba sempre essere immediata. Tra un'idea madre e un'idea figlia può correre uno spazio di tempo anche piu grande dei nove mesi necessarii alla funzione generativa. Così può accadere che l'idea madre sia madre senza saperlo, il che accade anche, nei primi tempi, in natura. I primi travagli della gestazione solo infatti misteriosi e impenetrabili, e i contraccolpi ch'essi dànno sono generalmente addebitati alle cause più innocentemente estranee a quelli effetti. Così Sua Maestà, quando si diede attivamente a cercar moglie per le più antiche Corti d'Europa, attribuiva quella sua improvvisa vocazione di marito al peso della sua solitudine di scapolo e alla necessità imperiosa della ragione di Stato. Credeva di dare retta alle esortazioni di don Pedro nel senso della necessità di mettersi a posto definitivamente, di dare al popolo di Fantasia il prestigio d'una nuova regina, di consolidare la posizione politica del suo regno in Europa imparentando due dinastie per creare fra due popoli quella cordialità di sentimenti che dura quanto durano i rapporti di famiglia: fin quando, cioè, l'interesse preciso dell'individuo non soverchia quello astratto del gruppo d'individui. Credeva insomma di cercare moglie, viaggiando l'Europa e raccogliendo in tutte le lingue, in tutte le capitali, i più eloquenti segni di simpatia universale per il suo vecchio regno e la sua annosa dinastia. In realtà, cercando sua moglie, cercava ancora la duchessa di Frondosa. Invano aveva tentato di dimenticarla, ignorando che se è lecito e possibile dimenticare il passato non si può dimenticare l'avvenire, il quale cammina sempre davanti a noi e non possiamo levargli gli occhi di dosso se non a patto di volgergli le spalle e di tornarcene indietro. Ma, poichè Sua Maestà. Rolando II cominciava appena il viaggio d'andata, non era assolutamente il caso di parlare di ritorno. Anzi il suo ardente entusiasmo, il suo amore della vita, gli facevano assolutamente escludere la possibilità d'un qualsiasi viaggio di ritorno. Sarebbe ritornato senza saperlo, come ritornano gli uomini che s'illudono di poter andare sempre avanti: con uno, cioè, di quei viaggi circolari che dopo aver girato mezzo mondo e mezza vita vi riportano infallibilmente al punto di partenza. Aveva riveduto la duchessa Isabella quanto più sovente gli era stato possibile. Se ricusava di andare ad inaugurare magari un'esposizione mondiale in una qualunque delle più insigni grandi città di Fantasia, non si lasciava mai sfuggire l'occasione d'inaugurare sia pure un asilo infantile nella dolce città di Pulquerrima dove la duchessa continuava, più virtuosamente che mai, a dimorare. Trovava così, almeno un paio di volte al mese, qualche cosa da inaugurare a Pulquerrima. E, quando i bilanci municipali della città non bastavano al collocamento di tante «prime pietre», quelle «prime pietre» erano fornite sottomano dalla cassetta privata di Sua Maestà. Poichè non è l'uso che i sovrani assistano anche al collocamento della seconda, della terza o della quarta pietra, posta la prima quelle altre pietre non venivano mai. Talchè Pulquerrima fu in capo a due anni di segno lastricata di «prime pietre», così come quelli che ci sono stati affermano che l'inferno sia lastricato di buone intenzioni. Ma per quante «prime pietre» collocasse, Sua Maestà non riusciva mai, ad ogni viaggio a Pulquerrima, che a collocare e a ricollocare nulla più che la «prima pietra» anche della sua felicità sentimentale. Riportava sempre indietro nella valigia tulle le altre pietre che la duchessa Isabella, fra un tè e un pranzo, rifiutava col suo più bel sorriso di donna fermamente decisa a non farsi costruire una nuova casa per far mutare di residenza alla sua onesta felicità. Partiva cosi, Sua Maestà, ogni quindici giorni, pieno di speranze, e ritornava sempre di pessimo umore. A tal segno che c'era da temere ogni volta, al suo ritorno, una crisi di gabinetto; e i ministri, non appena Sua Maesta metteva piede nel treno reale per Pulquerrima, s'affrettavano, per paura di non fare più a tempo, a distribuire tutte le onorificenze che coi loro nastri multicolori dovevano saldamente legare il loro avvenire politico al carro leggero della gratitudine nazionale. Dopo un anno di viaggi a Pulquerrima e all'estero, don Pedro de Aldana, senza averla mai veduta, fissò finalmente la sua scelta per la sposa del Re. Se l'idea figlia non era ancora venuta al mondo, già Rolando II sentiva nel sub-cosciente — si parla così in alto stile scientifico — che non valeva la pena di preferir come moglie questa o quella, visto che cercare moglie per sè voleva dire cercare il modo di raggiungere finalmente la moglie d'un altro. Aveva osservato, viaggiando, a titolo di pura curiosità, che le spose veramente affascinanti erano nelle Corti e negli Stati più modesti: e, se convenivano ai suoi gusti estetici, non potevano convenire ai gusti politici del suo primo ministro. Talchè, persuaso dell'inconciliabilità di questi gusti, lasciò che don Pedro de Aldana gli desse moglie a piacer suo, e dopo avere percorso l'Europa disse a don Pedro le grandi parole remissive con cui un uomo incerto fra due qualità di cioccolatine lascia al commesso del negozio la facoltà di decidere: «Faccia lei!» Cadde così la scelta di don Pedro su la principessa Alice di Cardun, figlia del Re di Asturia. Asturia e Fantasia essendo state poste dal capriccio della geografia politica porta a porta; conveniva oltremodo alla politica di Fantasia e di Asturia porre su l'armata frontiera un ramoscello di fiori d'arancio. Se non era bella la sposa, era bellissima la combinazione diplomatica e, poichè un re non ha il diritto di portare nel talamo coniugale la grazia d'una sposa ma ha dovere di portarvi la tranquilla garanzia d'un trattato di alleanza, conveniva a Rolando II di tacere, per la ragione di Stato, lo stato di qualsiasi sua altra ragione. Se è vero che si dà prova di maggiore generosità e di più larga benevolenza regalando la roba propria che non regalando quella, degli altri, la benignità celeste s'era dimostrata incomparabilmente generosa, accordando alla futura regina di Fantasia ogni sorta di beni, forse celesti, ma non certamente terreni. Sua Maesta aveva, nel cassetto della sua scrivania, il ritratto della regale fidanzata. Lo guardava di tanto in tanto, per abituarsi, e lo guardava sempre quando c'ero io, forse perchè io potessi al caso fargli coraggio. Vedevo allora sul suo volto disegnarsi, con un'ombra nera, un dubbio: il dubbio che la ragion di Stato esigesse troppo da lui, e che con la sola ragion di Stato non fosse possibile fare ciò che assicura attraverso i secoli, di rampollo in rampollo, la durata delle dinastie..Lo incoraggiavo affermandogli che bisogna far fronte al proprio destino, quando si e re, ad occhi chiusi. E lo sentii rispondere un giorno, con un sospiro ch'era di sollievo: « Ad occhi chiusi. È tutt'un programma coniugale questo, mio caro d'Aprè!» E finalmente un giorno, quando mancavano tre mesi alle nozze regali, Sua Maestà, guardata ancora una volta, con la solita ombra nera sul viso, la fotografia della sposa promessa, bella d'una bellezza forse invisibile a noi perchè non di questo mondo, Sua Maesta sentì nascere d'improvviso l'idea figlia. Poichè le sue labbra non erano abituate a serbare i segreti del suo cervello, l'idea figlia era appena nata nel mistero della scatola cranica che già si manifestava con queste parole: — Ma, ora che ci penso, bisognerà pensare alla Corte della Regina. Bisognerà nominar le sue dame d'onore. E, prima di tutte, naturalmente, Isabella. Poichè è fatica insopportabile anche quella di essere sinceri con noi stessi, Sua Maestà aggiunse sùbito: — La Regina non potrebbe trovare migliore amica. Poi si riprese e, levatosi dal tavolino, venutomi davanti, mi disse: — Senta: quando Isabella sarà qui.... Si resiste ad un principe, ma non ad un Re.... E poichè un po' della storia — reparto storia galante — somministratagli dal povero vecchio capitano dei dragoni gli era rimasta ancora nella memoria, sorrise e, gettando via leggermente assieme al fiammifero con cui aveva acceso la sigaretta anche tutte le piccole possibili differenze fra lui e Luigi decimo-quinto, esclamò: — La mia Pompadour!

Sua Altezza abbandonava così la festa prima che se ne fossero allontanati suo padre e l'imperatore Goffredo: il che poteva anche essere assolutamente necessario per un uomo che una donna desiderosa di metter le cose a posto aveva garbatamente ma esplicitamente licenziato, ma non era niente affatto protocollare per un principe reale che giungeva così a filar via all'inglese, senza salutare nessuno, come fosse il più libero ed il più oscuro degli invitati. Per il momento il malumore del principe si sfogò in un silenzio ostinato. Ma, giunti a terra e saliti che fummo nella vettura di Corte che ci riaccompagnava a palazzo, Sua Altezza mi fece capire che anche io non ero affatto escluso dal suo risentimento. Aveva preso una sigaretta e tentato d'accenderla — altra negligenza di etichetta — contro il vento della sera. Ma s'era bruciato le dita e gittando via, con gesto irritato, sigaretta e fiammifero, aveva brontolato a denti stretti: «Ma anche lei poteva dirmelo, perdio, che quella duchessa era una Giovanna d'Arco!». Povero, dimenticato capitano dei Dragoni azzurri che aveva passato le sue più belle ore a insegnare storia a Sua Altezza senza che Sua Altezza riescisse a farsi, per esempio, almeno un'idea approssimativamente chiara della vergine guerriera! Per pigro abito di semplificazioni il giovane principe aveva solo ritenuto di tanti lunghi commenti che Giovanna d'Arco era vergine e però ritrosa e restia. Ciò gli bastava, poichè non aveva seguito alla Sorbona i corsi del professor Thalamas, per raffigurare in lei il tipo rappresentativo dell'austerità femminile. Mi guardai bene quindi dal ripetere schiarimenti che il capitano dei Dragoni azzurri aveva già dovuti somministrare inutimente e mi limitai a chiedere rispettosamente al principe che cosa fosse avvenuto. E il principe, com'era sua abitudine, non in avaro di spiegazioni. La conversazione sera fatta a mano a mano molto galante e la duchessa sembrava ed era semplicemente incantevole. Abituato a non incontrare mai difficoltà, Monsignore credeva che la via dell'avanzata gli fosse facile e piana anche con quella bella signora. Io l'avevo avvertito, è vero, della sua incensurabile fama. Ma Monsignore, ch'è testardo come son testardi tutti gli «enfants gatés», si era ficcato in mente che io ero, che non potevo essere che male informato. Lo provava anche il fatto, del resto, che la duchessa civettava deliziosamente e che si lasciava far la corte con la più affabile condiscendenza, tanto che a un dato punto l'odore dei fiori, la bellezza della duchessa, il fascino della notte primaverile, la voluttuosa carezza del valzer viennese avevano provocato l'ardire del principe e l'ombra che circondava la coppia l'aveva decentemente favorito. Che cos'è mai, del resto, alla stregua dei peccati mortali, prender la mano d'una bella signora e baciarla lungamente schiacciandovi un po' sopra le labbra? Senonchè la duchessa aveva ritratto la mano e aveva tranquillamente invitato il principe a rimanere al suo posto. E perchè vi rimanesse ve l'aveva prima rimesso. Ma il principe, che per le gaffes grandi e piccine non aveva mai avuto una istintiva ripugnanza, stimando che fosse il caso di scherzare ancora e tentando di riprendere la mano restia, aveva detto alla duchessa con un sorrisetto superiore e maleducato:«Via, duchessa, perchè volete essere tanto difficile?». E proprio a questo punto donna Isabella s'era bruscamente levata rispondendogli di botto chemcertamente il principe da Sua Altezza l'Infante Anna-Maria, sua zia, era stato abituato a un'assai minore severità. E quindi, dopo la botta e la risposta, la scena innocente cui anch'io ero stato chiamato a partecipare. La poca severità dell'Infante Anna-Maria verso di tutti e specialmente verso il suo regale nipote che sin dalla più tenera adolescenza, prima ancora di recarsi ad Oxford, aveva portato alla vetusta e venusta parente i suoi lion d'arancio, era notissima a tutto il regno di Fantasia ed era per, difficile per Sua Altezza considerare come un'offesa alla regale famiglia il richiamo ad una verità ch'era ormai incontrastabile per voce di popolo confermata anche dall'esperienza personale di varie centinaia di sudditi. Non tenne quindi, oltre quella sera della prima impressione, alcun rancore per quella mancanza di rispetto ad una zia cui egli doveva la rivelazione precoce della sua sola e vera vocazione; e, nei giorni e nelle settimane seguenti, ricercò e rivide la duchessa di Frondosa come se nulla fosse stato, sperando di riuscire col tempo, con la pazienza e col fascino della sua futura corona, a ridurre Giovanna d'Arco a più miti e condiscendenti consigli. Cominciò a frequentare i salotti che la duchessa frequentava, a correre in vettura, lui che amava tanto di vedere e di farsi vedere, le passeggiate eccentriche e solitarie che la duchessa prediligeva, a frequentare assiduamente il teatro di musica cui la duchessa non mancava mai, lui che in fatto di musica non poteva sopportare idee melodiche più complicate di quelle d'una canzonetta da caffè-concerto o d'una marcia da circo equestre. La duchessa leggeva molto e il principe faceva la fortuna delle librerie. La duchessa era assidua alle conferenze e il principe non ne trascurò più una. Cercava di vederla ogni mattina, ogni giorno, ogni sera. La giornata gli sembrava insopportabile se non aveva alcuna possibilità d'incontrare la duchessa. Io ero il suo lieto confidente nelle buone giornate. Scontavo il suo malumore nelle cattive. E, finalmente, si decise a mancarmi di rispetto per la prima volta e, poichè mi vide docile ai suoi capricci, non fu certo l'ultima. Eravamo a colazione a palazzo, due ore prima d'una garden-party che Sua Altezza offriva, per completare le presentazioni, alla società pulquerrimese. Facevamo colazione soli, come quasi tutti i giorni. Intuii che aveva qualche cosa di serio da dirmi poichè vedevo che non apriva bocca neppure per mangiare e che non cessava d'arricciarsi i baffetti. N'ebbi la conferma quando fummo al caffè e quando, ordinato al maggiordomo di lasciarci, cominciò a parlare. Capii sùbito che voleva qualche cosa da me e lo capii appunto perchè aveva l'aria di non volermi chiedere nulla. Parlava invece della nostra buona amicizia, della grande fortuna che aveva avuto di ritrovarmi inopinatamente a Pulquerrima e faceva l'elogio sperticato, che io ascoltavo senza arrossire come una bella donna che si guardi e, si ammiri allo specchio, della mia abilità diplomatica, del mio tatto, della mia mia astuzia, della mia esperienza mondana. E quand'ebbe esaurito gli aggettivi, ch'erano per lui un lusso forzatamente limitato, ricorse alle imagini. Io ero il pilota abilissimo della sua navicella gettata, al suo primo viaggio, in pieno alto mare. Avevo anche la suprema delicatezza di non far punto sentire la mia presenza e di tenere silenziosamente il timone in modo da lasciare a lui l'illusione d'essere già un vecchio capitano di lungo corso, sicuro del mare. Ma la sua navicella andava oramai purtroppo per una rotta che non seguiva la mia traccia ma che dipendeva unicamente dalla sua volontà. E dopo gli aggettivi e le imagini, quando si accorse che queste erano molto comode per dire quasi con facilità la cosa molto difficile che aveva da dire, le imagini si complicarono di metafore e imagini e metafore, incrociandosi e confondendosi, davano luogo ad un discorso straordinario col quale Sua Altezza, con l'aria piu serena di questo mondo, mi proponeva semplicemente di aiutarla, se non in tutti i suoi amori, almeno nei suoi amori difficili. Insomma, per far breve il discorso, si trattava nè più nè meno che di questo: la navicella dell'amore di Sua Altezza faceva rotta verso l'isola di felicità promessa dall'amore restio della duchessa di Frondosa. Per non rischiar d'incagliare in qualche secca e per non perdere inutilmente e faticosamente molte ore di navigazione occorreva sapere se in quell'isola inesplorata c'era almeno la più lontana speranza di trovare un punto d'approdo. E a chi domandarlo, per avere un dato geografico sicuro, se non alla duchessa in persona? Lei sola conosceva la sua isola. Continuava ella, infatti, a scherzare, a civettare col Principe, a giuocare col fuoco. Il faro, dunque, era acceso. Ma era mai possibile che quel faro fosse una burla tentata ai danni dei navigatori più arditi e più ostinati e che veramente poi, dietro quel faro, come la duchessa pretendeva, non ci fosse alcun porto? Questo, io dovevo tentar di sapere, poichè purtroppo le carte galanti dei più esperti marinai di Pulquerrima erano mute al riguardo. E saperlo era facile. Bastava parlare alla duchessa Isabella della lunga e disperata navigazione di Sua Altezza, di quella sua povera navicella sentimentale sbattuta dalle onde che volta a volta l'avvicinavano e l'allontanavano dall'isola irraggiungibile e misteriosa. Si trattava, insomma, di far sapere all'austera signora dell'isola che la povera navicella non navigava così a casaccio per puro capriccio, ma che il suo povero capitano aveva veramente e definitivamente perduto la bussola e che in tal caso era elementare dovere di umanità e di pietà aprire al fragile legno le braccia tranquille d'un dolce porto ospitale. Non esito a confessarlo. Non so quale specie di sadismo morale mi traeva ad ascoltare quasi con voluttà da Sua Altezza quest'inconcepibile discorso di cui non avrei tollerato da nessun altro neppure la prima sillaba. Questa condiscendenza tacita della prima volta doveva essermi fatale in seguito. Tuttavia, per quella prima volta, riuscii a declinare il poco onorevole incarico. Continuando le metafore di Sua Altezza, che comodamente permettevano a entrambi di non arrossire, dichiarai che la mia esplorazione era forse impossibile, ma che era, ad ogni modo, sopratutto superflua. Affermai recisamente che l'isola non aveva porti nè grandi nè piccini, che l'isola era stata sempre disabitata e che la luce che Sua Altezza scambiava per quella d'un faro era invece quella d'una dolce capanna sotto la quale la duchessa e suo marito filavano un amore perfetto degno dei più leggendarii amanti. Non c'era quindi altro da fare che macchina indietro. Per approdare c'erano cento isole abitabilissime attorno a quell'isola inospitale, isole con porti garentiti e provati, con visibilissimi fari accesi che veramente invitavano i navigatori, isole che costituivano tutto l'arcipelago del salotti di Pulquerrima e tra le quali non c'era, per navigare, altro imbarazzo che della scelta. Sua Altezza, bontà sua, non insistè. Mi chiese solamente, lasciando le metafore, se veramente credevo la duchessa di Frondosa così onesta e risposi che la reputavo veramente onestissima. Monsignore volle anche degnarsi di farmi osservare che in tal caso disperato egli avrebbe finito per innamorarsene sul serio. Ed io non potei che stringermi nelle spalle, senza rispondere. Non se ne parlò più. Venne l'estate. Passarono giorni, settimane e mesi. Sua Altezza continuava intanto a muoversi come voleva su lo scacchiere galante di Pulquerrima, ma io comprendevo che tutte le pedine cui dava caccia fortunata, che tutte le torri che faceva cadere con un sospiro e qualche volta anche con uno sbadiglio non erano altro per lui che tentativi per distrarsi dalla sua idea fissa, che pretesti per sfogare su le torri che precipitavano le esuberanze d'ogni genere che la torre incrollabile provocava in quel cuore e in quel sangue di ventitrè anni. Intanto Sua Altezza continuava a vedere ogni giorno la duchessa di Frondosa, la quale, dal canto suo, continuava a giuocare con lui di parole con quella sua bella serenità che non si turbava mai. Educata dalla prima aspra lezione, Sua Altezza non tentava più il passaggio troppo rischioso dalle parole molto vaghe ai gesti abbastanza precisi. E, una sera, tornando da un pranzo dai Frondosa al quale avevamo assistito insieme, Sua Altezza mi confessò che non solo il fascino della duchessa Isabella lo attirava in quella casa, ma che anche il duca Alvaro gli era oramai simpaticissimo. Non aveva mai visto, mi diceva, uomo più compìto, gentiluomo più perfetto, diplomatico più illuminato e padron di casa che gli fosse paragonabile. Contava di farne oramai un suo amico, un suo strettissimo amico, senza nulla togliere per altro all'affetto di lunga data ch'egli aveva per me. Lo lasciai dire e mi proposi di lasciarlo fare. Non c'era più d'altronde da discutere. Dopo la moglie, il marito.... Era, decisamente, l'amore.

Mitchell, Margaret

221111
Via col vento 2 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Pagina 254

Pagina 567

Il romanzo della bambola

222101
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • paraletteratura - romanzi
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Pagina 27

Il sole, ch'entrava pallido pallido, a fare il suo giro obliquo - il giro invernale - per la stanza, si fermava un momento, passando sul corpo della pupattola, coricato come l'avevan lasciato lì con mano distratta; animava, d'un tratto, i capelli biondi, i vivi colori del vestito, poi abbandonava nell'ombra quel dolore a cui nessuno badava: un dolore, è vero, senza espressione, ma non per questo meno angoscioso e sincero. Dai discorsi uditi in casa, un po' qua un po' là, la bambola aveva capito molte cose e le andava rimescolando nel suo povero capo vuoto. Oh, se si potesse sapere tutti i pensieri contenuti in una testa che sembra insensibile, si commetterebbero, certo, meno leggerezze e meno crudeltà. Il Moro era il rivale temuto e odiato dalla Giulia. Ella aveva inteso decantare tutte le virtù del cavallino: sapeva di quale colore aveva il manto e quanto era acuta la sua intelligenza; sapeva perfino, oh dolore! di quella piccola stella bianca su la fronte, dove la Marietta lo baciava più spesso e più volentieri. E pensare che a lei non aveva mai dato un bacio, la Marietta! Che cosa erano i baci, in conclusione? Un'espressione dell'amore, se alla bambina i genitori ne davano tanti, da mattina a sera, e se lei, cattiva, ne dava tanti al Moro! La gelosia che rodeva la Giulia non la fece nè dimagrire nè impallidire, s'intende; ella sentiva, però, dentro di sè, qualcosa che le andava consumando il cuore, l'anima, chi sa? e la sensazione era delle più penose. Dov'erano i tempi in cui la Marietta le diceva, pigliandola in braccio: - Vieni, bella mia! Adesso usciamo insieme, sai! Ti porto in legno, e tutti credono che tu sia viva come me!

Pagina 29

Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222716
Misteri del chiostro napoletano 3 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
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La risoluzione di ripudiare lo stato monastico era, a parer suo, opera di Satanasso, il quale erasi preso l'impegno di attirarmi seco nell'Inferno; per la mia lunga renitenza, Iddio mi abbandonava agli artigli del Demonio; essere nullameno tempo ancora di fare ammenda del passato, rimanendo nel chiostro. Conchiudeva, che nel mettere il piede fuori del monastero sarei stata sospinta da mano invisibile, al quale segno del divino intervento se non ne fossi stata dissuasa, egli (lo scrivente) nel dì dell'estremo giudizio sarebbe stato il mio inesorabile accusatore innanzi a Dio. Esaminai quella scrittura: non mi parve totalmente nuova. Esplorai le mie carte: non vi trovai alcun carattere somigliante. Pure era ben sicura di averla altre volte veduta. - Domandai alla portinaia chi avesse recato quel foglio; mi rispose: "Un tale, ignoto a me, che dopo di averlo posto nella ruota, frettoloso se ne partì." In un angolo dell'arcato corridoio eravi una cappelletta, dedicata a sant'Antimo, santo di origine basiliana. Passandovi quel giorno stesso in compagnia di mia zia, vi osservai una preghiera manoscritta sur una tavoletta appesa al muro. Mi approssimo, la guardo: il carattere era perfettamente simile a quello della lettera anonima, ed appunto in quel luogo lo aveva altra volta veduto. Ricondussi mia zia al coro, e volai in cerca della conversa, cui la cappelletta apparteneva. Seppi che la preghiera erale stata scritta da quel pretino, che al vedermi passare pel parlatorio, soleva cinguettare: "Ps! cara, vien qua!" Aveva intanto disposto mia madre che, uscendo del monastero, mi portassi in casa della sorella maggiore, e colà attendessi la signora che doveva accompagnarmi. A cagione dei fantastici ragionamenti che i preti e le monache mi tenevano tutto il giorno, i miei sonni erano spesso turbati da apparizioni spaventose di spettri, di demonii, di sante reliquie. La notte, che precedeva all'uscita, la commozione mi fece prendere riposo tardissimo. Era adunque fra la veglia e il sonno, allorchè parvemi udire all'orecchio il tintinnío d'un campanello. Mi desto incontinente, schiudo gli occhi, tendo l'orecchio: sono circondata dal solito silenzio. Di là a poco raccontai ad una monaca l'effetto di quella allucinazione. Essa si mise a piangere, a farsi il segno della croce, a strillare: "Miracolo! Miracolo!" "E chi può avere operato il miracolo?" le domandai. "Ci vuol tanto a capirlo? È il campanello di san Benedetto, che ti chiama." Mezz'ora dopo, il convento era sossopra: le monache, le converse, le educande non ragionavano d'altro che del miracolo, e già parlavasi d'una messa, destinata a perpetuarne la memoria negli annuali e ne' fasti del chiostro. Ma, non ostante il misterioso tintinnío, restai ferma nella mia deliberazione. All'ora fissata abbracciai teneramente la vecchia zia, valicai esultante la soglia del monastero, e dopo d'aver visitata Giuseppina, che non aveva veduta da qualche tempo per la sua infermità, mi recai in casa dell'altra sorella, ove mi trattenni dieci giorni, aspettando l'ora della partenza. Ma era scritto che il mio riscatto esser dovesse di breve durata! In questo mentre io riceveva da Reggio due lettere: erano delle altre due sorelle, colà maritate, che, per urgenza e a tutta possa, mi consigliavano di restituirmi all'abbandonato cenobio. Erano poi dolorosissime le ragioni che le inducevano a darmi tale consiglio. Mia madre era in procinto di passare a seconde nozze; Domenico, posto in oblio l'amor mio, ed impassibile alle mie sventure, erasi dedicato ad altra donna; del resto, io correva il rischio di passare da un monastero della capitale in uno di quelli della provincia. Queste infauste notizie mi atterrirono: scaricavasi d'un sol tratto sul capo mio tutto quanto il peso dell'orfanezza. Dopo d'aver lungamente ponderate le condizioni della critica situazione in cui quelle novelle mi ponevano, mi spinsi, benchè a malincuore, a domandare, se voleva il cognato ritenermi presso di sè, insino a che fosse piaciuto al Signore di procurarmi altro rifugio. Il cognato gentilmente vi consentì. Deliberai allora, che quando quella dama di Messina fosse venuta per prendermi seco lei, le direi che si partisse sola. - Così feci, ed essa se ne partì senza di me. Ma da lì ad otto giorni con una lettera fulminante mia madre protestava di non voler sopportare in pace la mia disubbidienza. Ella erasi trasferita a Messina per ricevermi, e non avendomi incontrata, come s'aspettava, era montata in furia. Non basta questo. Il ministro di Polizia citava nello stesso tempo mio cognato, per indurlo a farmi subito partire, conforme al volere di mia madre. "Cara cognata," mi disse quest'uomo dabbene, dopo l'avvertimento ricevuto: "vi ho offerta di buon grado l'ospitalità in mia casa, ed avrei seguitato a ritenervi con piacere, se vostra madre non ne mostrasse rincrescimento; ora, nel modo che le cose vanno, spiacemi di dirvi che non posso resistere agli ordini di mia suocera." Io era recisamente licenziata. - Che fare? Dove andare? A chi ricorrere? - Mi trovava in un bivio terribile. Un carcere a destra, un altro a sinistra, e d'ogni intorno l'abbandono e la desolazione! "Dio mio! diceva a me stessa, non potendo contenere le lagrime: che mai sarà di me, priva, come mi trovo, di mezzi, priva d'ogni appoggio, priva per fino della mia volontà? Se un destino crudele muove tutto a congiura contro di me, non v'ha almeno qualche legge pietosa che mi difenda?" Fu suonato all'uscio: era un amico di casa settuagenario, curvato sotto il peso degli anni. All'udir l'accaduto, quel buon vecchio mi esortò a ritornare nel monastero, finchè (diceva) fosse dissipata, la tempesta che addensavasi sul mio capo; più tardi poi si sarebbe cercato di rappattumare la madre con me. A questo consiglio si conformarono eziandio e la sorella ed il cognato ed altre persone familiari, nè, a dire il vero, scorgeva neppur io, fuori di quello, altro schermo che mi campasse dalla disperazione. Non sapendo dunque a quale miglior santo rivolgermi, secondo il detto comune, mi feci il dopo pranzo ricondurre al convento. Ivi, chiamata la zia in disparte, le dissi volermi novellamente chiudere per pochi altri mesi ancora, al che essa rispose, che sopra tale risoluzione faceva d'uopo consultare la disposizione delle monache. Poco dopo, convocate queste nel parlatorio, e udita per bocca della badessa la mia domanda, risposero, che mi avrebbero accolta volentieri nello stabilimento, se dichiarava in quell'istante medesimo di rientrarvi, non provvisoriamente, ma per farmi religiosa; nel caso contrario, dichiaravano di volermi chiudere le porte. Quale orribile alternativa! Mia sorella, vedendomi sulle spine, notando massimamente l'esitazione mia nel rispondere, mi esortò sottovoce a dire pel momento di sì, che poi, rientrata, non mi avrebbero di leggieri respinta. Me ne persuasi, e risposi sommessamente, che rientrava col disegno di farmi monaca. "Affermatelo pure ad alta voce," mi disse la badessa. - "Siete alfine determinata di dare i voti?" Il cuore mi batteva forte, il capo mi girava: credeva di venir meno. Chiesi d'una seggiola, tersi colla pezzuola il freddo sudore che mi colava dalla fronte, e con voce di agonizzante risposi: "Sì." -Il dado era tratto.... Fatale SÌ!- Non appena ebbi pronunziata l'affermativa, uno scoppio d'acclamazioni e di festose grida mi percosse l'udito. Le monache tutte proruppero di comune accordo in proteste, tendenti ad assodare, che la mia conversione era effetto manifesto del campanello di san Benedetto, da me stessa inteso qualche ora prima della mia uscita; perlochè con tutta fretta mandarono uno stuolo di converse sul campanile per suonare a festa. Nell'udire a quell'ora insolita la campana, i vicini fecero domandare che cosa fosse successo alle monache; e queste divulgarono largamente, che la nipote della badessa erasi per superiore ispirazione dichiarata religiosa. Perduta d'animo, confusa, dalle inaspettate combinazioni soperchiata, io tremava a guisa di foglia cadente al vento d'autunno. Dato pertanto l'impegno di chiudermi il giorno appresso, me ne tornai in casa della sorella, immersa nella più cupa costernazione; essa pure mostravasi molto dolente dell'andamento che l'affare avea preso all'improvviso. Il suono funesto delle campane rintronò al mio orecchio per tutta la notte: mi pentii cento volte di aver detto quel SÌ, ed accusai me stessa di fiacchezza. Ma guai a chi è trascinato dalla fatalità!.... Alle dieci della mattina mi avviava al convento, alle porte del quale parecchie persone famigliari mi attendevano. Fui ricevuta con nuova scampanata a festa, e collo sparo dei mortaletti, alla cui esplosione una folla immensa di gente si radunò. Per tutta quella giornata d'altro non si ragionò, che del miracoloso campanello, e della mia prossima vestizione. Il canonico gongolava di gioia, le suore ne esultavano, era un andirivieni continuo nella chiesa di preti e di confessori. Il cardinale Caracciolo, e il vicario vennero pur essi a congratularsi meco della mia risoluzione, e la sera un lauto trattamento di gelati e di pasticceria fu offerto dalla mia zia alla comunità. - Insomma, per vincolarmi ne' lacci, dov'era incappata, in modo da non potermene più disimpegnare, i preti e le suore strombazzarono il prodigio di san Benedetto e l'atto della mia conversione con ogni mezzo possibile di pubblicità. A sollievo delle solitarie pene che m'attendevano, m'era provveduta di alcuni volumi, che cacciai nel fondo del baule. Eranvi fra quelli la Bibbia, il Manuale d'Epitteto, e le Confessioni di sant'Agostino. Aveva pur cercato delle Consolazioni di Boezio, ma non mi venne fatto di rinvenirle. Mi fu bensì da mano amica favorito un altro libro, il cui titolo pareva alla mia situazione particolarmente confacevole: era la Solitudine di Zimmermann. Da quello scritto mi riprometteva una novella vena di conforti, e però mi sapeva mill'anni di cominciarne la lettura. Come, dopo il trattamento dei gelati, si furono le monache ritirate, preso a mia volta commiato dalla zia, m'affrettai di tirar fuori del baule il sospirato volume. Con quale palpitante avidità ne divorai al lume della lucerna le prime pagine! La storica facondia, lo stile animato e leggiadro, la soave malinconia, il movimento de' sentimenti e delle passioni, con che l'autore studiasi d'infondere l'amore della solitudine a chi lo legge, mi rapirono fin dal principio in una sfera sconosciuta di poesia, e ringraziai la provvidenza d'avermi dato a compagno un maestro, capace di poetizzare le amarezze dell'esilio, di rendermi affezionata alle mie catene, di temprare il mio cuore ribelle all'uniformità dell'inerzia, alla perpetua monotonia del quietismo. Ma di repente un triste pensiero m'assalì. - Cotesto filosofo, che sugl'incanti della solitudine a larga mano profonde i fiori dell'eloquenza, era egli infatti il mio compagno di prigionia? Era egli stato, per forza superiore ed ineluttabile, costretto, al par di me, a consumare il suicidio della propria volontà? Egli, che con tanto ardore decanta i vantaggi del ritiro, conosce forse come sa di morte la solitudine, quando priva è d'affetti, di vincoli, di memorie, d'aspirazioni; la solitudine, sfrondata da ogni germoglio d'amore, impastoiata da mille pratiche, l'una più servile dell'altra, sentenziata a perenne ed ignobile sterilità? - Ricaddi più che mai nell'abbattimento. Una mano di ferro m'adunghiò alla gola: credetti di restarne soffogata. L'orologio del vicinato aveva già suonato il tócco dopo la mezzanotte. Richiusi il libro, spensi il lume, e spalancai la finestra in cerca d'aria. Era il cielo velato da foschi nuvoloni, vaganti a seconda del vento. All'estremo orizzonte qualche stella romita avventurava un raggio, offuscato dalla caligine; e la luna, involta pur essa nella nebbia, batteva con incerta luce le mura del monastero. Alcune goccie di pioggia, che di tratto in tratto scrosciavano sul lastrico, interrompevano per un istante il vasto silenzio, e poi tutto rientrava nella muta solitudine. Mi venne in mente di scrivere a mia madre una lettera grondante di lagrime. Riaccesi la lucerna, ne gettai lo sbozzo sulla carta, ma troppo agitato giudicando lo stile, lo stracciai subito. - Non sarebbe meglio, domandai a me stessa, confidare alla zia le mie angustie? - Ma ella dorme a quest'ora! - La sveglierò. Per giungere alla sua stanza, bisognava traversare un tenebroso corridoio. Bussai all'uscio: nessun risponde. Torno a bussare: la conversa riconosce la mia voce, ed apre, sgomentata da tale visita. Nel vedermi a quell'ora, e sì fortemente conturbata, anche la badessa trasecolò. Dopo aver fatto uscire la conversa: "Cara zia," le dissi, contenendo appena la commozione che m'agitava: "duolmi assai di recarvi tante e sì gravi molestie; ma il tempo stringe, gli affari miei camminano con soverchia celerità, poichè non voglio lasciarmi sorprendere degli eventi al di là del dovere." L'informai allora minutamente del concorso di circostanze, che mi avevano indotta a ritornare nel monastero, non senza la riserva d'un imminente e definitivo riscatto, e conclusi il ragionamento dichiarandole ch'io provava per lo stato monastico la più ferma ed insuperabile ripugnanza. La povera vecchia diè tosto nel pianto, e fattosi delle mani velo, esclamò: "Lassa! Quale vergogna attendeva la mia vecchiaia, e l'ultimo mio badessato! Che mai diranno le monache? Che dirà il cardinale? Che dirà il vicario? Che dirà il mondo intero? Chiameranno pazzarella te, e me più pazza ancora, per averti persuasa a rientrare. E la riputazione del convento!.... E il campanello di San Benedetto che ha suonato!.... E le gazzette che ne parleranno!.... Qual ampia materia di scandalo! Quale argomento di favole presso gl'increduli della città!" A queste riflessioni la poveretta si diede a piangere e singhiozzare dirottamente. Il turbamento di quell'ottuagenaria, la sua somiglianza col mio adorato padre, al quale io non aveva cagionato mai il menomo cruccio, queste cose mi scossero. Veggendo ch'ella non si dava nè pace nè tregua, e andava ripetendo lamentevolmente: "Ahimè, quale tremenda sventura! Quale vergogna!" le presi una mano fra le mie, e dando allora libero sfogo al dolore, "Amata zia," le dissi, "ricoricatevi, e datevi pure pace: contro il destino mio non mi rivolterò più." Alzò la testa, mi guardò fisa: io, senza prender fiato: "Sì," le soggiunsi, "mi farò monaca. Mi costerà la vita: una disgraziata di meno: ma non amareggerò per certo gli ultimi giorni di vita della sorella di mio padre." Non potei andar oltre, perchè la foga dei singhiozzi mi soffocò le parole. Restammo entrambe abbracciate per qualche tempo senza dir motto. Alfine riprendendo essa il discorso, e sul mio capo poggiando la santa reliquia, che pendeva al di lei collo: "Sta' tranquilla, figlia mia," mi disse. "Iddio e il nostro patriarca ti sosterranno in questo sagrifizio. Pregherò dalla mattina alla sera per farti venire la vocazione che ti manca, e sarò esaudita." Volle da me la promessa di non ripetere a chicchessia gl'incidenti di quella notturna conferenza, e lo promisi. Il mio sagrifizio da quel momento era consumato: mi considerai una vittima. L'ingresso del giornalismo è interdetto nel convento. Ciò nondimeno, tiratami il canonico in disparte la seguente mattina, mi pose sott’occhio due giornali, umidi ancora dalla stampa, ove davasi al pubblico la notizia della mia deliberazione. Dicevasi in uno di quei fogli: «Ci facciamo solleciti di partecipare un fatto, che a' devoti d'ogni classe recherà piacere. Una delle figlie del defunto e compianto maresciallo Caracciolo, la signorina Enrichetta, de' principi di Forino, giovine di rara pietà, si è determinata di ripudiare la vanità del mondo, per prendere il velo nel monastero di San Gregorio.» Portava l'altro diario, organo ben noto della pretesca consorteria: «Il campanello di San Benedetto ha tornato a risuonare poc'anzi, e questa volta per conquistare all'angelica regola Benedettina un'altra Caracciolo in età tenera, e discendente in linea diretta da san Francesco dello stesso cognome. Questa giovinetta, che somma reluttanza avea mostrato nell'abbracciare lo stato monastico, ora, per essere stata evocata durante il sonno dal suddetto miracoloso campanello, ha formalmente espressa la sua intenzione di farsi monaca..... Empi e miscredenti, favete linguis animisque!» Intanto mia madre non mi scriveva. Le indirizzai una lettera; un'altra ne scrisse mia zia per annunziarle la mia risoluzione di farmi monaca. Rispose non volerlo affatto permettere, e per molti mesi oppose la più ostinata resistenza. Era suo intendimento, diceva, di maritarmi a persona di suo aggradimento, nè mi avrebbe ritenuta nel chiostro, se non infino a che tale opportunità si presentasse. Se non che, soggiunse mia zia, non poteva essa opporsi ai decreti della Divinità. Questi decreti per altro non potevano effettuarsi immediatamente. Al mese d'agosto del 1840 non aveva ancora raggiunta l'età disciplinale per vestirmi monaca; compiva vent'anni nel 1841. Si dovette perciò attendere sino al mese d'ottobre di quest'ultimo anno, ossia un intervallo di venti mesi dopo il mio primo ingresso nel chiostro. Questo tempo fu dalla comunità dedicato ad apparecchiare a spese mie..... i confetti pel giorno della festa. Frattanto mia zia che per un intero decennio aveva esercitato le funzioni di badessa, fu surrogata da un'altra Caracciolo, donna piuttosto burbera e rigorosa. Questo rigore, contrapposto alla soverchia affabilità di mia zia, fece sì che malcontente ne uscissero tutte le monache. Quaranta giorni prima della mia vestizione fu deciso, per contentare mia madre, ch'io passassi questo spazio di tempo presso di lei. Però, prima di uscire, mi fu fatto sborsare per le spese della funzione ducati 700, e qui cade acconcio di notare, che l'egregio generale Salluzzi mantenne la sua promessa, donandomi ducati mille. In questo mentre mia madre, reduce dalla Calabria, prese alloggio in casa di Giuseppina di conserva colle mie due sorelline. Tanto essa che gli altri parenti, nel notare la mia rassegnazione ad un male che ormai sembravami inevitabile, riputarono vera e spontanea la mia vocazione. Dal canto mio, dovendo rinunziare al mondo per sempre, e volendo evitare ulteriori rammarichi, schivai, per quello spazio di tempo, e teatro, e passeggio, e società. Tentai soltanto un giorno di cantare sul piano-forte un'arietta popolare, quella che tanto era piaciuta altra volta a Domenico; ma la commozione che mi sorprese, ma i rimpianti amari che nel cuore mi ripullularono, diedero ai miei nervi sì gagliarda scossa, che d'allora in poi feci divorzio anche colla musica, nè suonai più che l'organo della chiesa. Più d'una volta mi venne il pensiero di aprire il mio cuore al Generale, mio secondo padre, e chiedergli aiuto: ma la parola data mi chiudeva le labbra. Egli aveva già sborsato il danaro, del quale molta parte erasi presa; ora, volendo pur mancare all'impegno solenne, fermato colla zia e colle monache, poteva io più ritrattarmene, senza far trista figura davanti al benefattore? Non vi era alcuno scampo plausibile. Doveva assolutamente chiuder gli occhi, ed abbandonarmi alla discrezione della fatalità. Spuntò il critico giorno. Una folla di parenti e d'amici affluì fin dal mattino nella sala di mio cognato: gli uomini discorrevano allegramente; le donne chiassavano, le zittelle si erano impadronite del piano-forte; io sola era mesta con in bocca l'amarezza dell'assenzio. A dieci ore fui chiamata all'allestimento. M'inghirlandarono di fiori gemmati, a guisa di sposa: mi fecero indossare un abito sontuoso di velo bianco, ed al capo mi attaccarono un altro velo dello stesso colore, scendente sino ai piedi. - Quattro dame assistettero all'acconciatura, due altre dovevano accompagnarmi: la duchessa di Carigliano e la principessa di Castagnetto. Conformandosi alla consuetudine, queste dame cominciarono dal condurmi a diversi monasteri, onde farmi vedere dalle altre monache: le seguitai automaticamente, muta d'accento, col pensiero assente. Mi scossi solo, allorchè seduta nella porteria del monastero di Santa Patrizia, accanto all'altra zia Benedettina, vidi entrare frettolosi ed anelanti due chierici, che gridarono: "Ma, signore, venite presto a San Gregorio Armeno! Il pontificale è finito: non si attende che la monaca." Una pugnalata al cuore non ha effetto diverso di quello che provai da tale chiamata. Un tremito generale s'impossessò delle mie membra, e divenni livida al par di cadavere. La prima ad alzarsi fu la duchessa Carigliano. Compressi la mano sul cuore, mi levai a stento, e baciai quella vecchia zia, che mi disse lagrimando: "È questo l'ultimo nostro bacio.... Addio, figlia mia! ci rivedremo in cielo." La principessa, venutami più d'appresso, mi guardò in volto. "Fermatevi, duchessa," disse alla Carigliano: "non vedete che la monachella si sviene?" Infatti, appuntellata alla spalliera della seggiola, io vacillava, pronta a cadere. Mi posero a sedere, e chiesero un bicchier d'acqua, dal che refrigerata un poco, ripresi lena, e mi rialzai. "Scommetto, che non siete contenta di farvi monaca," mi disse per via la principessa. "Al contrario," risposi, inghiottendo un sospiro traditore; "ne sono contentissima." Avanzava frattanto la carrozza, ed avanzando entrava nel quartiere di San Lorenzo. Approssimatici alla città dolente, misi il capo allo sportello, cercando con lacerante curiosità le persiane delle finestre, le cancellate di legno, le inferriate, e gli altri ripari del monastero. Alla vista del sepolcro che stava lì per ingoiarmi, non so come, spinta da un istintivo impulso, non mi sia rovesciata dalla carrozza in mezzo alla strada. - Mi risostenne l'intima autorità dell'amor proprio. Quanto mi avvicinava a San Gregorio, tanto più distinto facevasi il suono delle campane. Ogni tócco era suono funereo nell'animo mio. All'angolo della strada, il confuso cicalar della moltitudine, accorsa da ogni parte, lo sparo dei mortaletti, le acclamazioni delle donnicciuole a' balconi, e la banda degli Svizzeri finirono di impietrirmi. - Io ho provate le estreme sensazioni del suppliziato! Al portone della chiesa fui ricevuta da una processione di preti colla croce in alto. Due altre dame si posero al mio fianco, la principessa di Montemiletto, e la marchesa Messanella. Il prete colla croce in mano camminava innanzi, gli altri formavano due ale. La chiesa era parata con eleganza, illuminata con profusione, e divisa nel mezzo da uno steccato bianco e rosso, alla cui dritta stanziavano le signore, che erano state invitate e ricevute da mia madre, ed a sinistra stavano i cavalieri, ricevuti da mio cugino il principe Forino. Di quella assemblea numerosa, delle variopinte decorazioni, di quell'oceano di luce altro non vidi che una masse informe e confusa. Giunta che fui al mezzo del tempio, mi fecero inginocchiare, e mi presentarono una piccola croce d'argento, e una candela accesa. Dovetti poggiare la prima sul petto, tenendola colla sinistra, e portar nella destra la fiaccola. Nel passare vicino alle signore, la mia sorellina Giulietta stese le mani per afferrarmi dal velo, e gridò tanto alto da farsi sentire da tutti: "Non voglio, no, non voglio che tu vada a chiuderti!" Quella voce argentina attirò l'attenzione d'ogni persona. Era la voce dell'innocenza che gridava alla barbarie. Mi volsi a quella parte: una signora imbavagliava la bocca della fanciulla col fazzoletto. Mi corsero le lagrime agli occhi, asciutti fino a quel punto. Arrivai all'altar maggiore. Il vicario, che funzionava, essendo infermo il cardinale, stava seduto dal lato dell'Epistola. Ivi, io e le dame rimanemmo per pochi minuti genuflesse; poi mi menarono al vicario, e mi posero ginocchione ai suoi piedi. Un prete, dalla cotta superbamente ricamata, presentògli un piccolo bacile d'argento con forbicette, con le quali mi recise una piccola ciocca di capelli. Mi rialzai allora; e fiancheggiata dallo stesso corteggio, preceduta dalla banda che suonava, uscíi nuovamente della chiesa. Il tratto di strada, che da questa mena alla porteria, fu fatto da tutti a piedi, in mezzo ad una fittissima calca di curiosi. Appena posi il piede al soglio della clausura, proruppi in uno di quei pianti sfrenati, che non può forza umana contenere: e le monache a chiuder tosto le porte, ad internarmi sollecitamente, a dirmi in coro: "Non piangere, per carità! Altrimenti diranno i secolari, che non ci monachiamo per vocazione, ma per forza.... Zitto, zitto, per carità!" Scesi al comunichino. Il vicario, i canonici, i preti e gl'invitati erano tutti affollati presso al cancello. Ivi, condotta in un angolo, fui per mano delle monache spogliata via via degli abiti di gala, del velo, della ghirlanda, dei guanti e perfino dei calzarini. Quando in vesta di lana nera, colla chioma scarmigliata, cogli occhi tumefatti dal pianto m'accostai al portellino del comunichino, intesi tra la folla alcuni gemiti, provocati dalla commozione. Chi mi deplorava? Lo ignoro. Il vicario benedisse lo scapolare, ed offertomelo di propria mano, me l'indossai. Quindi mi prosternai dinnanzi alla badessa. M'avevano spogliata dell'abito secolare: dovevano pur togliermi la chioma. Le monache strinsero in una sola treccia i miei lunghi capelli, e la badessa impugnò delle grandi forbici per reciderla, mentre un silenzio profondo regnava intorno. Una voce potente, uscita da mezzo i convitati, gridò: "Barbara, non tagliare i capelli a quella ragazza!" Tutti si volsero: bisbigliarono di un pazzo. Era un membro del Parlamento inglese. I preti imposero silenzio, e le monache, le quali in altre simili funzioni avevano veduto de' protestanti, dissero alla superiora, ch'era rimasta colla mano sospesa, stringendo le forbici: "Tagliate! È un eretico." La chioma cadde, e presi il velo.

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Io mi abbandonava alla più sfrenata desolazione. Feci una nuova e più vigorosa istanza, e la mandai a Roma. Coerente intanto alla sua promessa. Riario venne più di frequente al monastero. Ogni volta che il campanello chiamava la comunità al parlatorio, io mi sentiva rabbrividire. Per evitare quel disgustoso incontro, avrei dato non so che: ma come fare? Non appena giunto, egli diceva; "E la vostra Caracciolo dov'e?" - Benchè fremente di dispetto, doveva farmi innanzi e udirmi domandare con voce melliflua come stessi di salute, e se fossi tranquilla d'animo: complimenti del carnefice al condannato. "Povera figliuola! È così buona! Non si vede, nè si fa sentire:" rispondeva per me l'ipocrita badessa, solita sempre a lodare le persone nella loro presenza. "Brava!" soggiungeva l'eminente visitatore: "così va bene." Un giorno la superiora mi fece mettere nella prima fila. Tale studiata preferenza indignò le monache, le quali bisbigliarono contro la badessa, e dissero, dietro le mie spalle: "Che fastidio! si parlerà dunque in eterno della Caracciolo?" "Eminenza," fece la superiora, "debbo denunziarvi questa signora monachella che ogni giorno più si atteggia a misantropa. Fugge la compagnia, passa gran parte della giornata rinserrata nella sua cella, e nelle ore di ricreazione non si vuol unire colle altre monache. "Lasciatela un momento sola con me," disse l'arcivescovo in tuono di potestà patriarcale. Le monache uscirono malcontente, ed io mi sedetti a qualche distanza, curiosa di vedere come Sua Eminenza avrebbe intavolata la sua orazione. Ei si compose in atto affabile, affine di ispirarmi fiducia, si terse il sudor del volto colla pezzuola di batista, poscia m'interrogò: "Per qual motivo ve ne state sempre sola e pensierosa?" "Sarebbe anche questo un delitto? Quando adempio a' miei doveri ed obbedisco a' precetti, mi pare che gli altri non dovrebbero brigarsi delle mie abitudini." "Però vorrei poter vedere traverso le pareti ciò che fate per tante ore sola nella vostra stanza. Il confessore non deve internarsi in tutto?" "Leggo, scarabocchio, lavoro: è forse anche questa un'infrazione?" "Sicuramente. Non vi è lecito leggere o scrivere se non opere di devozione. E, di grazia, che state leggendo e scrivendo?" "Cerco nella lettura di qualche libro istruttivo un conforto alla oppressione che m'abbrutisce; sbozzo le memorie di questa mia captività per lasciarne un ricordo, se mi verrà fatto." "Oppressione..... memorie..... captività....! A maraviglia! Dove diamine avete attinto questo frasario da Carbonaro? Sapete che dovrei castigarvi severamente per tali fantasie spropositate?" "Potete fare anche questo. Mi manca solamente la catena al piede: ordinatela." "Non me lo permette l'interesse che sento per voi. Pur nondimeno vorrei farvi deporre quella smania maledetta di ricuperare la libertà; su questo argomento sono assoluto, implacabile, inesorabile, nè vi acconsentirò mai." "Tentate invano di togliermi l'ultimo barlume di speranza. Ho riscritto alla Santa Sede." "Lo so, lo so, ed io controscriverò sempre negativamente. Vogliate per altro confidarmi dove vorreste andarvene, uscita che foste di convento." "In casa di mia madre. Ormai non ho bisogno di tutela, ma credo che nessuna donna possa custodire una giovine meglio della propria genitrice." Nel pronunziare quest'ultime parole, gli occhi mi si gonfiarono di lagrime: mi era balenata alla monte la memoria di mio padre. - Il cardinale proruppe in un riso mefistofelico, e disse: "Pastocchie! Vorreste piuttosto uscire per ballare: in casa di vostra madre si danno feste di ballo a' liberali; ma badi bene a quello che fa, altrimenti ci baderà la polizia!" Quest'ultimo tratto esaurì la mia pazienza. Afferrato il lembo dello scapolare, "Con quest'abito abborrito da tutti," gli dissi, "avrei vergogna di farmi vedere, ed ancor più di prendere parte ad una festa. Non chiedo la liberazione, altro che per riconquistare un bene supremo, al cui godimento ho rinunziato per inesperienza, per debolezza, per forza d'avverso destino." "Non posso," ripetè più volte il cardinale, rinforzando ad ogni passo il tuono. "Per ora," soggiunse, "sto per ripartire alla volta di Roma; appena tornato, vi rivedrò." "Ed io, da parte mia, non cesserò giammai d'aspirare al mio riscatto. Buon viaggio!" E quand'ebbe voltate le spalle, gli dissi: "Vattene alla malora!" Ciò nondimeno l'abbattimento mio andava crescendo di giorno in giorno, ed il cervello cominciava realmente a risentirsene. Io confrontava le mie sofferenze morali con quelle delle due converse impazzite, e temetti di trovarmi anch'io vicina a diventar pazza. Le speranze, riposte da me nell'animo liberale di Pio IX, andavano frattanto dileguandosi. Erasi prima parlato di scioglimento di voti; si disse poi d'una quinquennale rinnovazione degli stessi; in ultimo si spacciò che tale rinnovazione sarebbe stata ristretta soltanto a quanti avevano fatta la professione dopo il Breve; finalmente si cessò di parlare su tale argomento. - Nell'animo di Pio IX l'emancipazione monastica e la patria carità subirono la medesima sorte: «E quando Roma non voltò mantello?» Mio primo intendimento, come ho già detto, era quello di uscire per soli sei mesi, riservandomi di rinnovare il permesso al termine di questo periodo, e di passare da quello in altro chiostro, nel caso che negate mi fosse il prolungamento. La capricciosa repulsa, l'avermi ricusato quello che tutti i giorni si concedeva a tante che ammorbavano Napoli; massimamente in tempo d'estate; queste cose mi punsero al vivo. Era evidentemente un tratto di personalità, cui piuttosto che soccombere avrei rinunziato all'esistenza stessa. Da quel momento diedi l'addio ad ogni sorta di palliativo, di mezzo termine, e mirai a dirittura al definitivo scioglimento dei voti. Raccolte adunque delle informazioni intorno a tale bisogna, letti più libri su questa materia, ed abboccatami con un dottore in gius canonico, seppi che conveniva anzi tutto mandare il reclamo prima che fosse spirato il quinto anno della professione: che bisognava poi provare la violenza morale nell'atto della monacazione: infine che la causa doveva trattarsi prima alla curia di Napoli, e poi a quella di Roma, locchè avrebbe preso molto tempo e moltissimo danaro con iscarsa probabilità di riuscita. Questi ragguagli mi sconcertarono. Prossimo a spirare era il quint'anno della mia professione..... E poi, la curia di Napoli avrebbe essa urtate di fronte le disposizioni d'un cardinale arcivescovo per esaudire i reclami d'una monaca priva di protettori......? E poi, dove mi sarei procacciata il denaro necessario per spedire personalmente l'avvocato a Roma, e per dare l'inevitabile boccone alle signorie reverendissime di quella capitale? - Questa trista prospettiva, dico, mi sbigottì. Nulladimeno, per non cadere nella prescrizione, deliberai di mandare il ricorso alla curia napoletana; e così feci, mettendo in luce le circostanze tutte che fecero violenza alla mia volontà dal punto ch'entrai nel convento sino al giorno de' voti. Quale fu la sorte di questa istanza? fu essa intercettata alla curia di Napoli che non le diede alcuno sfogo, od invece cadde negli artigli del cardinale che se ne impossessò? Non mi venne mai fatto di penetrare questo mistero: certo si è, peraltro, che l'istanza mia sparì, senza lasciar dietro di sè alcuna traccia. Trovatami pertanto alle strette, nè più sapendo che mi fare, divisai di scrivere a dirittura al Santo Padre, affine di aprirgli il mio cuore, manifestargli le mie disposizioni con filiale franchezza, muoverlo a pietà del mio stato. Pio IX era allora in grido d'uomo d'alto ingegno e d'uomo di mondo. Nella relazione, che per lui in particolare scrissi, credetti acconcio non tenergli soltanto parola della mia salute, che di giorno in giorno deperiva, ma notificargli eziandio alcun che di non meno rilevante: cioè, che avendo avuto sin da giovinetta inclinazione pel matrimonio, sarei passata a marito, ov'egli avesse condisceso a svincolarmi dagli obblighi, che mio malgrado aveva contratti trasportata dalla corrente di disastrose e fatali circostanze. - Per rendere inviolabile il segreto della relazione, immaginai di premettere a quell'istanza il confiteor, orazione la quale, come ben si sa, precede la confessione auricolare. Il cardinale era frattanto ritornato da Roma. Venuto al monastero, volle trovarsi di bel nuovo a quattr'occhi con me. Inaugurò il colloquio facendomi dono di una corona benedetta, portata dalla Santa Città, e chiese in ricambio un qualche lavoretto di mia mano. Il regalo mi parve di cattivo augurio. Più bramosa della mia libertà, che vaga di tali ninnoli da santocchia, dissi corrucciata a Sua Eminenza ch'io non sapea fare nulla di lavori donneschi. "Non è vero," diss'egli leziosamente: "non mi sono ignoti i vostri lavori. Applicatevi a qualche cosa; ad un elegante ricamo, per esempio: ciò vi servirà di distrazione." In questo mentre si fece innanzi l'abbadessa e saputo dal cardinale il mio rifiuto, torse sdegnata il viso. "Il lavoro sarà fatto immancabilmente," disse in tuono imperioso al cardinale: "glielo farò avviare e terminare io stessa." Per più giorni m'annoiò, reiterandomi la domanda, se già l'avessi incominciato, e di quale sorte sarebbe stato. Stizzita alfine dall'incessante molestia le dissi: "Vorreste forse impormelo per disciplina?" "Ohibò! spero che lo farete di buon grado." "Allora con vostra buona pace, fatela finita! Io detesto quell'uomo quanto un prigioniero di Stato detesta l'autore del suo imprigionamento. Non è forse desso che a viva forza mi trattiene in questo stato di violenza?" "Ma lo fa perchè ti vuol bene." "Mi vuol bene? obbligatissima! Dio voglia che mi porti odio, invece di quella funesta amicizia." "Ora però," soggiunse l'abbadessa con affettazione, "ora dovresti passarlela più tranquillamente. Quelle fraschette delle monache giovani non t'importunano più." "Me ne accorgo," risposi: "temono che io, uscita per avventura dal chiostro, non le paghi a contanti come si meritano." La superiora si morse le lebbra. Seppi di poi che l'argomento del mio congedo, considerato come peccato politico, e messo nel numero degli affari di Stato, preoccupava più ch'io non immaginassi, le autorità; e che tra il Riario, la badessa e il confessore regnava su tal proposito un'intelligenza non meno arcana che intiera. Un'altra volta, avendo saputo che dall'ufficio d'infermiera io era stata trasferita a quello di panettiera, il cardinale venne a recarmi le sue congratulazioni (!), e di più a domandarmi de' dolci, fatti di mia propria mano. - Egli ebbe la stessa negativa. Dovette più tardi visitare il convento per affari della comunità. Disbrigata la faccenda che ve l'avea menato, si fece condurre dalle monache nella mia cella, che prese ad esplorare a parte a parte; quindi, uscito sul terrazzo, e scorto lì di faccia il Vesuvio colle adiacenti colline e coll'ameno paesaggio che intorno intorno lo corteggia disse: "Di quale magnifico prospetto gode la vostra stanza! che immenso orizzonte! questa vista solleva il cuore e edifica lo spirito!.... E voi volete lasciarla!" "Questo prospetto," risposi, "non fa che rendere più sospirato al prigioniero il bene della libertà." "Ma voi siete libera quanto basta: chi sa, che una dose maggiore di libertà non vi tornasse dannosa!" "Con simili detti era pure confortato dal suo tiranno l'afflitto popolo d'Agrigento," risposi a Sua Eccellenza, accompagnando l'ironia con un sorriso. M'intese, si tacque, e partì. Era quello il tempo de' monsignori Apuzzo, de' Pietrocola, de' Del Carretto; il tempo, in cui a furia di sofismi erasi elevata a dignità d'assioma la dottrina, che il popolo delle Due Sicilie, troppo felice nello stato d'innocenza pecorina in cui viveva, non dovesse punto correre il rischio di restarne defraudato col cercar di spingere le sue letterarie cognizioni più in là dell'abbiccì. In qual parte del mondo cristiano non risuona l'ignominia del Catechismo di monsignor Apuzzo? Potevano l'oscurantismo clericale e il dispotismo borbonico lasciarsi addietro un monumento più infame di questo? Circa un mese e mezzo dacchè aveva spedita la lettera al Santo Padre, mi venne incontro il confessore tutto contristato, e di pessimo umore. Veniva dal palazzo arcivescovile. Chi lo crederebbe? quella lettera, di cui io sperava aver fatto un mistero allo stesso canonico, era stata rimessa tal quale originalmente al cardinale arcivescovo! E il segreto epistolare? - Violato! E il sigillo della confessione? - Infranto! Sua Eminenza voleva sapere dal canonico il come, il quando, il perchè avesse costui permesso che tale scritto fosse stato diretto a Sua Beatitudine, e chiedeva inoltre se qualche procellosa passione mi avesse suggerito tale spediente. Il canonico asserì di non saperne nulla: almeno così mi disse. - Son tutti d'una buccia. È certo però, che nella confessione io m'era fatta una legge di non rivelargli, se non le mere infrazioni alla disciplina. Il cardinale, saltato in collera per questo tratto novello di ciò ch'egli piacevasi di qualificare col nome di mia irrefrenabile cospirazione, lasciò trascorrere lungo tempo, senza venire a trovarmi. Intanto quella lettera, caduta in sua mano, troncava l'ultima mia speranza di vedere prossimamente terminato il mio purgatorio. Se non che, in luogo di quelle illusioni, che di mano in mano svanivano in sul nascere, andava per me spuntando un diverso, e più chiaro lume di salvezza. Ridesto nel sepolcro, ove chiuso da già ventisett'anni giacevasi, il genio dell'italica libertà scuoteva dal crine la polvere della tomba, e riprendeva più bella e più forte l'antica sua vita.

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Io e Maria Giuseppa, che non mi abbandonava, entrammo dunque nel ritiro, e mia madre due giorni dopo se ne partì. Molti riguardi mi furono usati dai superiori dello stabilimento; veniva ogni giorno il cameriere del vicario per sapere se avessi ordini da dargli, e il cardinale aveva commesso sì alle religiose, che alle ragazze, di usarmi il massimo rispetto. Ebbi per questa ragione da esse il titolo rancidissimo di Eccellenza. Intanto scorsero parecchi giorni prima che Riario avesse scoperto il mio rifugio. Saputolo alfine, si morse le dita, e scrisse a Capano una lettera piena d'impertinenti rimproveri per avermi dato asilo. Questi rispose trattarsi d'un'onorata religiosa non d'altri scontenta, che di lui, e non già, come dal suo foglio sarebbe sembrato, d'una fuggitiva dal carcere, rea di qualche enorme misfatto; del resto, essere l'arcivescovo di Napoli in dovere più di ringraziarlo per avermi accolta, che di censurarlo. Riario sopì la collera, per ridestarla in sè a miglior tempo. Veniamo ora all'ignobile ritiro, dove il destino mi aveva balestrata. Grandiosa è l'Annunziata di Capua: ha vasto fabbricato e chiesa bellissima. Le religiose vi occupano stanze separate, ma le proiette dormono stivate in lunghi ed oscuri corridoi, ove non si può penetrare senza disgusto. Vi alloggiavano in quel tempo trecento in circa di queste femmine. Rimasi spiacevolmente colpita dello squallore, dal sudiciume, dal misero aspetto di quelle vittime di malcauti amori. Prive delle domestiche virtù e de' requisiti che nobilitano il sesso debole, destitute d'ogni elementare istruzione, rozze, garrule, petulanti, infingarde, esse convivevano lì in uno stanzone comune incatenate: parevan piuttosto un branco di bruti, che una famiglia di creature ragionevoli viventi in terra cristiana, e lì riunite sotto gli auspicii della Chiesa per uno scopo di riforma morale. A questo prospetto stomachevole aggiungevasi una scostumatezza nauseante per famigliarità ch'esse trattenevano coi soldati della guarnigione. Nè l'abbadessa delle religiose, ch'era in pari tempo superiora delle proiette, riusciva a frenare la depravazione. Addivenuta burbera ed intrattabile sì per le infermità, sì per i continui travagli che la comunità le cagionava, essa aveva deposte per intero la prudenza e l'affabilità, ch'erano indispensabili al reggimento d'un istituto tanto male accozzato ed eteroclito. Era in quel mentre afflitta Capua da gravi trambusti. I carcerati eransi rivoltati, ed avevano fatto altrettanto i seminaristi colla mira di trucidare il proprio rettore; e già si accingevano a far lo stesso quelle disgraziate dell'Annunziata, a niente meno risolute, che ad immolare la povera badessa. Le trattenne un poco il rispetto che volevano dimostrare a me. Non sì però che una di esse non le tendesse una maligna trappola. Eravi al disopra della gradinata una stanza formata a guisa di tunnel, passaggio piuttosto pericoloso; quella briccona si pone in agguato ad una finestra superiore, e nel punto che la badessa passava di lì, rovescia a perpendicolo sul mal fermo terreno un vaso di fiori pesantissimo. La misera vecchia dovè la sua salvezza alla pura combinazione d'essersi soffermata un momento prima di porre il piede sul passo fatale. Una mattina le fecero trovare, dipinte alla sua perta, due grandi croci nere, sovrapposte ad un cranio: minaccia di morte. Quelle ribalde misero in opera tutti i mezzi di seduzione onde attirare a' loro conciliaboli la mia conversa; ma Maria Giuseppa, la quale per probità e saviezza faceva eccezione al proverbio, non solo assurdo ma falso, che il tuo più gran nemico, dopo il fratello, è il servitore, Maria Giuseppa, dico, lungi dal prestare orecchio alle loro parole, si fece rigida censora del loro contegno. E le biasimò altamente nell'occasione che, essendo stata la badessa confermata dai superiori nella sua carica, elle si diedero a suonare tutte le campane a lutto. Fecero anche di peggio in un'altra circostanza. La sera d'una festa popolare, avendo la superiora proibito a quelle sciagurate di salire sul belvedere, attesochè, sotto il pretesto di vedere i fuochi artificiali, questo indispensabile condimento dello spettacolo napoletano, esse non avrebbero mancato di fare delle pezzuole altrettanti telegrafi corrispondenti col quartiere militare, esse, fortemente per tale divieto indispettite, ammonticchiarono all'uscio della badessa una dozzina dei loro pagliericci, e vi appiccarono il fuoco; poscia, come la paglia ebbe divampato, presero a saltare sulle fiamme, a modo dei monelli di Napoli, quando, riuniti d'inverno alle cantonate, possono attaccar fuoco agli avanzi di paglia delle scuderie. Chi le avesse viste a qualche distanza lacere, scalze, coi capelli scarmigliati infuriare a quel modo; chi ne avesse udito l'orribile baccano, avrebbe creduto di assistere a un sabato misterioso di streghe e di versiere. Un giorno, avendo io incontrata quella di loro che faceva più rumore delle altre, una giovine magra e spilungona, cui non moriva in bocca mai la lingua, la pregai di volersene stare, se poteva, un po' più tranquilla. Ella, dopo avermi baciata la mano: "Eccellenza, fo l'impertinente e la chiassona apposta." "Tu mi canzoni!" "Gnoranò: fo l'impertinente per pigliar marito." "Non t'intendo." "Eccellenza sì: chi non fa la pazza, qui va a pericolo di restar sempre ragazza. In questa Annunziata qui, non si fa mica come in quella di Napoli, dove i giovanotti si scelgono la sposa, buttando il fazzoletto alla ragazza che vogliono. Qui gli uomini (belli o brutti, giovani o vecchi importa poco) vengono al parlatorio; la superiora chiama allora per nome ognuna di noi una dopo l'altra, finchè al compratore non piaccia la mercanzia. Ora dovete sapere, che quella furbacchiona, le prime che chiama al parlatorio son le più impertinenti, quelle che l'hanno fatta più disperare." "Perchè?" "Per liberarsene più presto." Non potei frenar le risa a siffatto ricambio di furberia, e quando m'imbattei nella superiora, la quale più volte erasi consigliata meco rispetto al modo di regolare quel pandemonio, le suggerii lo spediente di chiamar le ragazze, non ad arbitrio, ma per età; poichè così avrebbe tolto il caso che facessero le cattive per speculazione. Tutte le mattine veniva a salutarmi una giovine contegnosa, ma pallida e molto mesta, che celava un mistero difficile molto a indovinare. Le domamdai se soffriva di qualche indisposizione: esitò sulle prime a rispondere, ma poi, con parole interrotte e sospirando, consentì a rivelarmi ch'ell'era vittima d'una malìa. Io presi l'impegno di persuaderla che le stregherie sono mere imposture, e non bisogna crederci; ma mi avvidi che pestava l'acqua nel mortaio, poichè la poveretta erasi fissata in quell'idea. Avendola pregata a raccontarmi come credeva essere stata ammaliata, ella condiscese a manifestarmelo. Aveva ella, mi disse, amoreggiato per più anni con un tale, che era andato provvisoriamente a Napoli co' suoi padroni. Prima di separarsi, recandosi costui a qualche distanza della città, vollero vicendevolmente giurarsi fedeltà inviolabile. Ma se fedele si serbò il giovine nell'assenza, non ne fece altrettanto la Capuana, perchè, contratta amicizia con un sergente, violò il giuramento. Di quest'infrazione avvertito il primo amante, volò sollecito in Capua, ove, fingendo di trattare la perfida come prima, invitatala a pranzo, le regalò delle paste che aveva portato da Napoli. Il giorno appresso, assicuratosi che la sleale amante aveva già divorato il regalo, gittò la maschera e rinfacciandole con virulenza il tradimento: "Ora sono vendicato!" le disse: "già la malìa opera nelle tue viscere.... Addio!" Da quel giorno in poi fu turbata la ragione di quella infelice: un'estrema confusione di idee e di sentimenti la condusse a quello stato lagrimevole. "Ma perchè," le domandai io, "attribuite ostinatamente alla fattucchiería quello che potrebb'essere l'effetto d'una mera combinazione, o, seppur volete, di qualche veleno messo in quelle paste?" "No, no!" rispose: "io ho il demonio in corpo; non posso entrare in chiesa, nè accostarmi ai Sacramenti." "Vieni con me: ti condurrò nel coro io stessa; il tuo diavolo avrà paura di me!" "No, no, per carità.... non posso; morirei subito." L'afferrai per la mano, e quasi trascinandola, le feci scendere le scale: essa piangeva, tremava, imprecava, tentava continuamente di svincolarsi. Dopo lunga resistenza, raddoppiata presso alla porta, al fine vi entrò. La forzai ad inginocchiarsi a piè dell'altare; ella mandò un urlo spaventevole, e fuggì come un lampo. - Povera Napoli, ad estirpare la superstizione feroce che t'insozza non basterà la libertà di mezzo secolo!

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Passa l'amore. Novelle

241468
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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E nell'attesa di questo infallibile segno di santità, che però la baronessa si augurava di vedere quanto più tardi possibile, ella abbandonava ciecamente al canonico la direzione della sua coscienza e di quella delle due figlie, e lo aiutava in qualche opera buona, con elemosine che erano proprio atti di eroismo da parte di lei; giacchè le strettezze diventavano ogni giorno maggiori in famiglia; le spese della lite assorbivano ogni risorsa; e i figli, chi per un conto, chi per un altro, si rivolgevano alla baronessa per ottenere il po' di danaro che loro occorreva. - Mi smungono da tutte le parti! - ella si lamentava col confessore. Il canonico Rametta, quantunque fosse pallido e magro anche un po' per le penitenze e le macerazioni a cui si sottometteva, dei santi aveva specialmente la testardaggine che li fa perseverare in quel che loro sembra una buona e giusta cosa. Convintosi che le intenzioni del marchese di Camutello erano ottime e che i fatti gli davano ragione (nessuno poteva attestarlo meglio di lui, confessore della baronessa, la quale spesso spesso, non avendo peccati suoi da confessare, gli versava nell'orecchio quelli del marito, e al povero barone, non si poteva addebitare altro torto all'infuori di pensare giorno e notte alla lite; convintosi dunque che le parole del marchese: "Se mi proponessero un accomodamento alla buona, fossero sincere, e che questo accomodamento poteva evitare alla famiglia del barone e a lui l'estrema rovina, il canonico Rametta, dopo averne accennato qualcosa velatamente, visto che alla baronessa e ai suoi figli mancava il coraggio di opporsi alla volontà del barone, avea creduto opportuno mutar tono, e parlare non più in nome proprio, ma in nome di quel Dio di cui durante la confessione egli era, secondo la sua espressione, indegno, sì, ma vero ministro. - Tocca a voi, signora baronessa; ve l'ordina Dio per mio mezzo! La baronessa, che a quattr'occhi con lui, da penitente a confessore, si era espressa talvolta un po' arditamente, udite queste tremende parole, diventò piccina piccina sul seggiolone di noce dov'era seduta accanto al canonico. La voce le si arrestò in gola, le lacrime le sgorgarono dagli occhi e potè a stento balbettare: - A me? Tocca a me? Ma vostra paternità sa benissimo.... - So che questo è il vostro dovere di moglie e di madre di famiglia; so che voi non dovete accapparrarvi l'inferno per tutta t'eternità, disobbedendo al comando di Dio, che v'ha fatto baronessa e madre forse unicamente per salvare dall'estremo disastro questa famiglia. Altro non devo sapere. Pensateci bene, e pregate Dio e la Madonna, perchè vi diano forza e coraggio! E finita la confessione, egli prese a ragionare dello stesso argomento in presenza delle signorine. Mariangela approvò sùbito. La sua faccia squallida, dove gli occhi parevano assonnati in una specie di nausea del mondo e delle sue vanità, si animò tutt'a un tratto, si colorò, e le pupille le lampeggiarono, quando disse con profonda amarezza: - Non vuole che io più entri nella sua camera neppure per rifargli il letto! Rosaria, la sorella minore, bruna, dal viso duro, dalle labbra carnose, stata un pezzo ad ascoltare, si era alzata con uno scatto da sedere: - Dove vai? - le domandò la baronessa. - Vo' a chiamare i fratelli; debbono essere d'accordo anche loro.

Pagina 103

Cosima

243898
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Pagina 158

Documenti umani

244667
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Giurava di aver fede in me, lui, e mentiva; e quand'era il tempo di provarla, questa fede, mi abbandonava vilmente; vilmente, lo ripeto ancora, non mi stancherei di ripeterlo!... Dunque, il martirio che io sopportavo, i rimorsi di ogni natura che mi laceravano il cuore in tutti i sensi, la posizione di una donna che è sull'orlo della colpa, i mille pericoli cui andavo incontro, tutto questo era dunque nulla? Per chi mi aveva presa egli dunque?... "Ah, io mi lamento a torto! È forse provvidenziale che sia finita così! Egli mi avrebbe forse abbandonata dopo avermi avuta, come una cosa inutile ormai!... Mi ha lasciata prima; anche questa è una specie di lealtà di cui bisogna tenergli conto! "Non è men vero per ciò, amica mia, che sono delle nature predilette dalla sventura. Ed io sono del numero. Amami tu, per tutti gli altri, lascia che io versi nel tuo seno la piena del dolore; vieni, vieni presto, vieni a soccorrermi." La signora Auriti ebbe un piccolo sorriso di trionfo dinanzi al Darsi che restava un poco interdetto. - Vede se io avevo ragione? Sente come suona diversa l'altra campana? Mi parli dell'intesa, della compenetrazione delle anime, adesso!... - Ebbene! - esclamò il Darsi, che non si voleva arrendere. - Ciò prova che vi sono nella vita delle situazioni complesse, che ammettono per ciò stesso diverse soluzioni, tutte fino ad un certo punto legittime. Ma se queste persone giudicavano così diversamente della loro condotta di fronte al sentimento che li dominava, ella converrà meco che, almeno in questo sentimento, essi si accordavano del tutto, gettati com'erano per esso in preda al più disperato dolore... - Oh, non lo creda! - interruppe la signora Auriti, con un nuovo sorriso. - Non lo creda completamente. Certo, la scossa dovette esser sensibile; ma io penso che la previsione, in ciascuno di essi, del dolore dell'altro, dovesse essere più forte che non la personale sensazione dolorosa. - Come può dirlo? - Sa che cosa fece la mia amica, il giorno stesso in cui apprese la rottura? Andò a pranzo in casa di lady Dalty, dalla quale aveva già ricevuto un invito, dopo aver fatto un'accurata toletta. Per confessione stessa di lei - badi, io non metto una parola di mio - fattasi allo specchio, la sua meraviglia fu grande nel rivedersi la stessa, anzi più bella; il sangue affluito alla testa aveva acceso il suo volto, fatto come di bragia, coi grandi occhi sfavillanti. Quei preparativi di festa, i profumi dell'Ixora e della veloutine, le infusero quasi un benessere; a poco a poco una strana reazione si operò in lei; ebbe l'agio di trovare che il suo abito mauve, guernito di trine écrues e di jais, le stava a pennello... - Oh! - Aspetti ad esclamare. Per le vie, ella scambiava graziosi saluti e sorrisi, si sentiva ammirata da tutta quella folla; le pareva quasi che con quell'ammirazione le si rendesse giustizia... Esclami, amico mio; esclami pure; in quel momento ella pensava certo - questa è l'induzione mia, non me l'ha detto lei - alla disperazione dell'uomo, allo sconforto mortale a cui doveva essere in preda; e trovava giusto che egli soffrisse per lei e che lei si distraesse così... Egoismo, e del più puro! L'uomo invece... - L'uomo?... - Telegrafava ad un amico, per avere del danaro; il soggiorno di Parigi, anche quando ci si va per raccogliere un'eredità (suo fratello maggiore era stato colpito da paralisi, egli non fece che affrettare le sue dimissioni) non è una misura di economia. Da Milano a Torino fece il viaggio coi Marnengo; la signora conserva un gradevole ricordo dell'amabilità del capitano. Intanto che egli sfoggiava la sua più squisita galanteria, pensava probabilmente all'ambascia della donna, al rimorso che doveva divorarla, come la più giusta delle punizioni. Se gli avessero detto che in quell'ora precisa ella era a pranzo da lady Dalty, si sarebbe pentito di aver avuta tanta fretta!... - È disperante! - disse il Darsi, che vedeva l'inutilità dei suoi tentativi e cercava di lanciare un gran colpo. - Ella dunque crede che tutto sia finzione? Se io le provassi... - Mio Dio, vuol dire che non ho saputo ancora spiegarmi. Io dico che tutto è relativo, che tutto può esser vero e falso al tempo stesso, secondo il punto di vista. Lei, per esempio, è qui, nel mio salotto, a sostenere il disinteresse, l'altruismo, il sacrifizio. Questo, non è vero? è un concetto... - Del quale io non domando che darle la prova! - Allora, consideri un poco: non potrebbe anche essere un calcolo?

Il marito dell'amica

245192
Neera 4 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Sofia invece si abbandonava intera, avvolgendo l'amica nel fascino delle sue espansioni, nelle attrattive pericolose di quel suo temperamento da sirena, debole, ineguale, tutto a scatti improvvisi e ardori fugaci. Il suo affetto per Maria saliva un crescendo appassionato. Poichè vizio e virtù, amore ed oblio le si presentava sotto l'unico lato di una emozione da provare, ella si attaccava a Maria colla stessa foga irreflessiva colla quale l'avrebbe rinnegata, se Bandini fosse stato il più forte. Ora, tentando le voluttà del rimorso, Sofia ne ricavava tutto ciò che poteva ricavarne di effetti nuovi, di sensazioni pungenti. Sussultava ad ogni rumore, aveva dei brividi, dei sospiri interrotti. Rileggeva in quei giorni la Parisina, l'Edmengarda, Portia, tutte le storie truci di donne adultere - le leggeva raggomitolata sul divanuccio basso del gabinetto verde mare, coi trasparenti abbassati sulle cortine rosa delle finestre, immersa in un languore pizzicante, pieno di visioni. Il suo piacere maggiore era quello di immaginarsi che fosse veramente caduta; inventava il luogo, il come e il quando. Alfredo le avrebbe detto così e così - ella avrebbe risposto così e così. Chiudeva gli occhi e sentiva nel collo l'alito caldo di Bandini. Si immergeva in quel voluttuoso corrompimento della fantasia fino ad averne le vertigini, e poi saltava in piedi, colle braccia levate gridando: Sono pura! Sono pura! Un po' davvero, un po' affettata, le venne una febbricciuola, accompagnata da dolori reumatici, che la obbligarono a letto; dove Sofia si adagiò rassegnata, circondandosi di una nube di trine, di fiocchi color perla e color cielo appuntati su cuffiette trasparenti; in mezzo a lunghi accappatoi profumati d'ireos, a pezzuole cifrate, e a boccette di aceto aromatico. Il ritratto del suo bambino chiuso in una bella cornice di metallo niellato, con una viola nell'angolo, le stava davanti appeso alla parete. Formava dei progetti seri. Una volta guarita suo figlio tornava a casa; ella stessa se ne sarebbe occupata, sorvegliando i suoi giuochi, l'istruzione e l'igiene; lo avrebbe condotto a fare delle lunghe passeggiate, gli avrebbe insegnato presto che la vita non è altro che un martirio. Se Maria, seduta ai piedi del letto, accennava qualche volta ad un prossimo ritorno in America, ella balzava fuori, avvinghiandosele al collo, supplicandola di non rapirle l'amicizia, il più gran conforto che aveva dopo suo figlio. E Maria restava; presa alle attrattive dell'affetto, della carità; attaccandosi ogni giorno più a quella donna, che avrebbe potuto odiare e che invece amava con un sentimento bizzarro misto di compassione e di abnegazione. Una sera, Sofia dormiva; Maria erasi indugiata più a lungo del solito presso il letto, assorta nelle malinconiche riflessioni che scaturivano a lei da ogni oggetto e dai confronti che le riusciva impossibile il non fare - che faceva anche con una gioia amara, l'unica che le fosse ora concessa. Ella non rifuggiva dai tristi pensieri del suo amore, perchè erano sempre pensieri d'amore, pensieri di Emanuele; e preferiva soffrire con lui odiarlo anche, anzichè liberarsene, dimenticando. Il pendolo si era fermato; Maria non sapeva che ora fosse, ma si alzò sbigottita udendo risuonare nella stanza attigua il passo di Emanuele. Fino a quel giorno ella era riuscita ad evitare un incontro che non credeva pericoloso, ma che trovava della sua dignità l'eludere. Fu dunque con un movimento rapido che aperse l'uscio, decisa di attraversare il salotto senza fermarsi, rispondendo brevemente al saluto del professore. - Maria... - egli disse ponendosele davanti mentre stava per uscire dall'altra parte - Maria, perché fuggite? Era turbato, pallido. Il lume che teneva in mano gli rischiarava tutto il volto, dolcissimo in mezzo alla barba bionda. Maria non trovò una sola parola. - Ve ne prego... Era sempre la sua voce temperata, cristallina; senza effetti di chiaroscuro, vibrante naturale sotto l'impulso del cuore. - È tardi... - Ve ne prego, una sola parola... - Che cosa? Ella ebbe il coraggio di guardarlo, seria, colla fronte alta, mentre il cuore le martellava. Ed egli pure la guardò con tenerezza somma. - Maria, non negatemi il favore di potermi giustificare. - Giustificare? E di che? La durezza dell'accento di lei parve colpirlo; soggiunse con maggior dolcezza ancora, quasi umilmente: - So di avere dei torti agli occhi vostri, ma credetelo, sono torti apparenti, che espio come torti reali. - Non vi ho chiesto delle confessioni. - Permettetemi almeno una discolpa. - A qual pro? Il passato è sepolto. - Siete spietata; non volete neppure conservare una memoria scevra di rancore? - Non ho rancore. - Sì... lo vedo, voi mi credete un vile mentre non sono che un disgraziato. - Vi ingannate; ho di voi la stessa opinione che ebbi sempre... ma lasciamo questi discorsi, a che giovano? Si scostò, facendo un passo verso l'uscio.. Egli la prese per le mani, guardandola supplichevolmente, con una scintilla negli sguardi.. Aveva deposto il lume su di una scansia alta; si trovavano nella penombra dell'uscio aperto, come una volta, quando ella lo aspettava sulla scaletta solitaria e che egli se la stringeva pazzamente al petto. - Ma infine che volete? - mormorò Maria con voce che non era più ferma. Emanuele non rispose subito; solo all'atto che ella fece per sciogliere le mani, una parola gli uscì strozzata dalla gola e la disse a bassa voce, tremando, come un fanciullo che teme di essere battuto. - Vi amo. Maria non gridò, ma ebbe la stessa sensazione come se il fulmine le fosse passato davanti agli occhi; un freddo di paura e di ribrezzo la prese alla nuca, poi una vampa ardente le innondò il volto. Sedette. Egli al vederla così immobile, rigida, che non accennava nè a rispondergli, nè a fuggire, gli si inginocchiò davanti, timido, con le lagrime in fondo agli occhi: - Ascoltatemi, Maria, ascoltatemi per pietà. Sapete che ho passata la vita sui libri, non conosco le frasi galanti che sono come la scherma dell'amore. Altri al mio posto vi parlerebbe con maggior riflessione; io non so neppure quel che mi dica... Comprendo vagamente che dovrei tacere, ma non mi è possibile. Soffro da otto giorni come un dannato. Abbassò la testa sul lembo dell'abito di lei. Maria lo lasciò fare; sembrava pietrificata; cogli occhi sbarrati guardava davanti a sè, come una sonnambula che vede mondi ignoti agli altri mortali. Egli continuò sempre con quella voce che pareva un lamento, dolce, infantile, con una nota scorata di uomo che non spera nulla: Dovrei... no, non recito una parte. Amica mia, ch'io abbia ragione o torto non dico che la verità: è la mia scusa. Piansi tanto dell'abbandono, al quale mi costrinse allora la povertà della mia carriera, che solo oggi comprendo come si possa piangere di più. Tuttavia il tempo aveva cicatrizzata la mia ferita; ve lo confesso... non sono sincero? Mi ritenevo guarito, speravo di avervi dimenticata... il vostro matrimonio vi aveva contribuito moltissimo... ero troppo fiero, troppo onesto per pensare di approfittarne giammai... mi credete nevvero? Disilluso sull'amore e scettico, accettai più tardi un matrimonio di convenienza, fui punito nella perdita delle mie ultime illusioni... Ora vi ho riveduta, e nell'istante che i miei occhi si fissarono nei vostri, tutti questi anni di oblio scomparvero. Io vi ritrovo nel mio cuore così viva come se non foste uscita mai. Ebbene, non mi rispondete? Le labbra di Maria si contrassero a un sorriso strano, spasmodico. Egli le si avvicinò più ancora, senza che ella opponesse nessuna resistenza. - Non avete pietà di me?... Maria si scosse finemente, retrocedendo la sedia: - Pietà, di voi? Di voi? Si arrestò un momento, mettendosi la mano sugli occhi, quasi a persuadersi che non sognava. -E siete voi, Emanuele, che mi chiedete pietà? Voi a cui io la chiesi invano, orfana, abbandonata, struggendomi nel vostro amore? Ma non vi ho io amato fino al delirio, non vi ho dato i più begli anni della mia giovinezza, non ero pronta per voi a qualunque lotta? Voi solo mi respingeste. Che volete adesso? Che posso fare per voi?... Andatevene. L'ira, lo sdegno, il disprezzo fremevano nella sua voce. Emanuele avvilito mormorò: - Non mi perdonate ancora! Ella fece un gesto vivace. No, non mi avete perdonato. Ma che debbo offrirvi per placare la vostra collera? Eccomi disarmato nelle vostre mani; fate di me quello che volete... Colpitemi e sarete vendicata. - Quello che è stato è stato - disse Maria levandosi in piedi - dimentichiamo entrambi. - Null'altro? - Io vi perdono. Poi trascinata da una tenera pietà, soggiunse: - Da lungo tempo vi ho perdonato. Nelle giornate solitarie, in paese straniero, la mente ricorreva volontieri ai dolci sogni del passato. Rifacevo la vostra vita... Quando mancano tutte le gioie si tenta qualche volta la gioia crudele di rimuovere il ferro nella ferita. Io volli immaginarmi la vostra gioventù, atrofizzata da uno scetticismo precoce, rifugiarsi tutta nella idealità dei libri. Con uno sforzo del pensiero vi seguii attraverso i dedali complicati ed aridi dei vostri studi prediletti; a forza di conversare coi morti vi lasciaste sfuggire dalle dita le fila che vi univano ai viventi... eravate vecchio a trent'anni. E quando a voi si confidò il cuore ardente di una fanciulla, trasaliste di quel legger brivido dell'insetto che un bambino trapassa collo spillo, ma la ferita non fece sangue. Voi non sapeste amare. - È vero. Sono un triste scettico che non conobbe della vita altro che il lato cattivo, che non trovò in una felice serenità della mente la fede, che non seppe trarre dall'amore le sue forze maggiori: costanza e sacrificio. Ma questo disgraziato destinato a fare intorno a sé degli infelici, è egli stesso il più infelice di tutti. Se sapeste quante volte invidiai i caratteri caldi e appassionati che attirano le simpatie e che proiettano intorno tanti raggi da illuminare tutto ciò che li circonda! I poeti, gli artisti, i soldati, i martiri, tutti quelli che sorridono, che piangono, che amano, che combattono, essi sono i beniamini della natura. Noi, siamo i reietti. Ma vi è ancora peggio; quando uno dei nostri intorpidito dal lungo sonno, si sveglia, quando dopo tanti anni di tenebre e di negazione scorge improvvisamente la luce e la verità, se vuole rialzarsi, se cerca anch'egli una croce o una bandiera, allora non gli si crede. È un castigo meritato, direte, ma è molto crudele. Un leggero incarnato gli era salito alle guancie; la fiamma che prima gli brillava nelle pupille si era velata di una profonda mestizia. L'orgoglio solo gli impediva di piangere. - Se questa crudeltà esiste, essa non sta in me, ma nella forza di avvenimenti che non posso cambiare. Gli tese la mano, risoluta e calma, padrona della situazione. Egli non osò trattenerla. - Sia. Ma non troverete voi una parola di dolcezza per colui che fu il vostro primo amore? Nel cuore di Maria si combatteva una fiera battaglia; distolse gli occhi da lui: - Dite l'unico. E lo lasciò solo, nella penombra della stanza che la candela illuminava appena.

Pagina 110

Ma se alti erano i pensieri di quell'amore, finchè Maria vi si abbandonava nelle solitarie ebbrezze della sua stanza, nella pratica giornaliera incontrava urti violenti che la atterrivano. Frenarsi sempre, eludere gli sguardi, misurare i gesti, trovarsi di nascosto, e di nascosto scambiare con due o tre parole i tormenti delle intiere giornate, questa era la sua vita e la vita di Emanuele. Era giunta senza avvedersene, per un pendio fatale, ad uno di quei volgari intrighi che aveva tanto disprezzati. Invano ella ripeteva a sè stessa che dopo dieci anni di lotta e di resistenza, un amore come il suo acquista il diritto di affrancarsi. Non era meno vero che, un amore come il suo, doveva scendere alle menzogne degli amori delle altre; la Guidobelli, la Bonamore, Ninna Menni. Che valore aveva dunque la nobiltà del principio, quando il fine doveva essere eguale? Questi erano i rimproveri della voce ignota che parlava in lei; ma la passione parlava più forte e Maria invece di evitare le occasioni si accontentava di nasconderle. L'improvviso odio per Sofia, che alla bontà innata del suo cuore doveva ripugnare come la massima delle ingratitudini, Maria lo impugnava per farsi uno scudo. Forse che Sofia amava suo marito? Era degna di possederne l'affetto? Colla stessa leggerezza che aveva accolto Bandini, non stava adesso per cedere alle insistenze del dottore? A questo pensiero Maria si soffermava, sentendosi mancare il respiro, sotto l'oppressione di un desiderio mostruoso. A farlo apposta, Sofia le prodigava più tenere che mai le sue carezze, con una dolcezza umile, cercando qualche volta di prenderla per sorpresa, con una grazia infantilmente biricchina. Alla mattina, mezzo svestita, entrava in camera di Maria e le buttava al collo le braccia nude, lasciandole sulla pelle l'odore di verbena de' suoi lavacri; sedeva famigliarmente sul letto, trattenendo le sottane che le cadevano, col busto slacciato, nel suo abbandono impudico di donna grassa, assonnata ancora, cogli occhi un po' rossi. Talvolta prendeva un pettine di Maria per lisciarsi i capelli o si provava un corpetto di lei, davanti allo specchio, e dappertutto lasciava una traccia del suo profumo molle e sensuale. Quando era uscita, Maria apriva la finestra; si lavava la faccia, il collo, le mani, nauseata e irritata, con un morso di gelosia nel cuore. All'asciolvere era un altro supplizio. Sofia si divertiva a punzecchiare suo marito, chiamandolo freddo e insensibile, convalidando l'argomento con allusioni scabrose, mettendo arbitra l'amica. Una volta Sofia era in vena di civetteria; prese dal piatto una ciliegia e scherzando, ridendo, colle sue moine vezzose volle per forza che Emanuele la mettesse in bocca e, siccome resisteva, si levò di scatto e andò a sedersi sul bracciuolo della poltrona dove egli stava seduto, continuando l'assalto. Tutti i giorni vi erano scene di questo genere, insopportabili, grottesche. Emanuele sembrava impazzirne. Non potevano quasi mai trovarsi soli. Emanuele, timido, non osava chiedere a Maria cosa alcuna che potesse comprometterla. Nei rari momenti di libertà egli le diceva una parola sola: Mi ami? come se non potesse crederlo - e la guardava, aspettando. Una sera, abbracciandola stretta nel vano di una porta, le mormorò colla voce di un moribondo che implora un sorso d'acqua: Vieni... Non disse dove, non disse quando. Vieni, era l'anelito del suo cuore che soffriva, spoglio di ogni riflessione e di ogni calcolo. Vieni, parola sublime, senza senso, uscita dalle labbra di un uomo schiettamente innamorato. Scettico per temperamento e per teoria, Emanuele in pratica non conosceva la vita; da tale contrasto risultava l'ingenuità delle sue manifestazioni in una passione che provava per la prima volta. Questo era che commoveva tanto Maria. Essa aveva cercato invano per lunghi anni di portare i tesori del suo amore a quel cuore malato, ed ora, quando meno lo aspettava il cuore malato si metteva a battere, sorgeva, viveva, ed erano le sue lagrime che avevano compito il miracolo; era dal suo tenero affetto che germogliava tardivo l'affetto di lui; così Maria sentiva questo legame duplicato da una tenerezza quasi materna, fatta d'orgoglio e di pietà. Lei sola poteva farlo felice; lei sola ne aveva il diritto per tutte le lagrime e per tutti i dolori che le era costato quell'uomo. Dalle confidenze di Sofia, sapeva che Emanuele non dormiva più con sua moglie. Si era fatto portare un letto da campagna nel suo studio, col pretesto di veglie prolungate; infatti, fino a notte tarda, si scorgeva il lume attraverso le imposte socchiuse. Quando il silenzio era profondo, Maria appoggiata al davanzale della sua finestra, teneva fissi gli occhi su quel lume. Un rettangolo di giardino divideva le due finestre esternamente; all'interno vi stava di mezzo tutto l'appartamento. Dopo che egli le aveva detto vieni, sembrava a Maria che quel lume la chiamasse, con una dolce e tacita insistenza, invitandola col suo bagliore tranquillo. Altra volta, quando Emanuele chiedeva il primo bacio, ella non aveva esitato; ma portava allora una grande arme con sè, la propria innocenza. Ora la situazione era affatto cambiata; Maria sapeva ciò che Emanuele voleva. Nell'aria buia della notte, nessun rumore veniva a interrompere l'aspra battaglia ch'ella combatteva da sola, al davanzale della sua finestra; ma nel breve orizzonte dove sembrava alitare il respiro della città addormentata, una visione di fantasmi sfilava sorridendo con aria di scherno. Erano donne graziose, facili fanciulle, spose senza scrupoli; tutte la guardavano compassionevolmente attonite e meravigliate della sua solitaria follia - ed essa guardava loro, riconoscendo volti noti, amiche colle quali si era trovata nelle conversazioni, in casa, in chiesa; signore educate che parlavano di morale a proposito di tutto - e passavano, pudicamente ravvolte nelle cortine dell'alcova matrimoniale, nel bianco velo sparso di fior d'aranci, seguite dalla turba degli amanti discreti e prudenti. In un momento di chiaroveggenza quasi magnetica, Maria scorgeva i misteri di tutte quelle finestre chiuse; i mille misteri risolvertisi in uno solo, antico come il mondo, eterno come la giovinezza; il mistero delle città e delle selve, dell'uomo e della natura, il solo perchè dell'universo. - E dal fondo delle viscere le sorgeva una violenta protesta contro i rigidi principii che inceppavano il suo amore. Eccomi - mormorava colle braccia tese nell'oscurità, coll'occhio fisso sul punto luminoso - sono donna e ti amo; vengo a te. - Sì, sì, vengo - continuava a dire a bassa voce movendo appena le labbra - aspettami Emanuele, mio amore, mia gioia, dolor mio. Si mosse, come una sonnambula, a passi brevi o tremanti, sentendosi paralizzata dalle anche in giù, e tutto il corpo diaccio. Si fermò un minuto davanti allo specchio, un solo minuto. Era pallidissima, cogli occhi grandi, cinti di violetto; strinse le labbra, commossa; a Emanuele piacevano i suoi occhi così. Aveva un paio di stivaletti che scricchiolavano; li levò e si pose le pianelle. Nell'aprire l'uscio, una corrente d'aria le spense il lume. Dovette brancicare al buio, urtandosi contro i mobili, debole così da reggersi appena. Quand'ebbe riaccesa la candela, sulla soglia dell'uscio, esitò. Aveva nel petto un rodìo, come se due mostri ignoti si contendessero a colpi di zanna il suo cuore. Uscì finalmente, attraversando in punta di piedi il gabinetto dalla tappezzeria verde-mare, attiguo alla stanza di Sofia. Sul divanuccio c'era l'abito che Sofia aveva spogliato quella sera, lungo, disteso, colle maniche ancora gonfie e il corpetto che sembrava tiepido nella lieve evaporazione delle carni contenute. Maria, nel passare, lo smosse e l'abito cadde bruscamente per terra, con un fruscìo secco, come di risata sardonica. Al gabinetto seguiva il salotto, tutto ingombro di poltrone, di tavoli e di ninnoli eleganti, con due specchi altissimi, posti di fronte, che riflettevano simultaneamente la figura spettrale di Maria. Ella ne ebbe quasi paura e abbassò gli occhi, rifuggendo dal guardarsi, con un aumento di tremore nelle gambe e quel diaccio per tutto il corpo che le dava l'impressione di sentirsi irrigidire. Due camere ancora la separavano dallo studio di Emanuele; in una di queste, molto ampia, nuda, con un guardarobe altissimo, ella c'era stata appena una volta. Non ricordava bene se l'uscio era a destra od a manca; alzava il lume, per vedere meglio, quando un respiro robusto di persona dormente la inchiodò nel mezzo della stanza, sbigottita. La bambinaia dormiva su un lettuccio, dietro un paravento, colle coltre di filugello giallo tirata sugli occhi, o accanto a lei, la culla di Guido biancheggiava, nello sfondo latteo delle trine, sospese e drappeggiate intorno. Maria pose una mano davanti alla fiamma e guardò, al di sopra della luce smorzata, trattenendo il fiato. La faccia del piccino, tutta rosea nella cornice ricamata della cuffietta, riposava in attitudine di una pace profonda, colle palpebre serrate che gettavano un'ombra sulle guancie; in fondo al piumino di seta celeste usciva uno de' suoi pieducci, nudo, e fra questi due estremi il piccolo corpo ravvolto nelle coperte si alzava e si abbassava con un movimento regolare, di una placidezza beata e sana. Dall'altra parte, l'uscio spalancato scopriva l'incerto nereggiamento di un corritoio, attraversato da una striscia sottilissima di luce che sfuggiva da una fessura dell'uscio di Emanuele. Maria era come impietrita, con un senso di soffocazione penoso e opprimente che le serrava la gola. Volse gli sguardi, lenti, dalla culla all'uscio, sempre colla mano alzata contro la candela, ascoltando. Sentì le forze che le venivano meno; e quel ghiaccio rigido delle membra fondersi sotto una fiamma invadente, che partita dalle guancie, dopo esser salita ratta alla fronte discendeva, stendendosi per tutto il corpo, frustandola colla reazione di una vergogna improvvisa. Non posso - mormorò, quasi per giustificarsi, con un terrore angoscioso - non posso! E ripeteva, senza saperlo, le parole che Emanuele stesso aveva dette a lei, una volta. Rifece la via percorsa, senza voltarsi indietro, con ondeggiamenti da ubbriaca.

Pagina 176

Si abbandonava sul davanzale della finestra, coll'occhio perduto nel vuoto orizzonte, anelando dietro i passi di lui; invidiava il selciato sul quale egli posava il piede, l'aria che gli agitava i capelli, le persone che lo vedevano, gli oggetti che egli toccava, i libri che lo interessavano; il paesaggio, il muro, l'insetto, il granello di polvere sul quale cadeva lo sguardo di lui dolce e freddo. Una smania terribile la struggeva nelle lunghe sere d'inverno, pensando ai tiepidi salotti che lo avrebbero accolto, tra i sorrisi di donne eleganti e felici; e nei languidi pomeriggi estivi, immaginandolo al rezzo dei giardini, nella penombra delle verande, in quella società, in quel mondo da cui essa era bandita. Nè la fantasia si chetava su queste imagini; ma, incalzando, la turbava fino nell'intimo delle viscere coi misteri dell'ignoto. Di fronte ai problemi scientifici, la sua anima mirabilmente temprata, non aveva perduto i suoi veli, e la vergine si arrestava sul limite del passo vietato. Pure ne sentiva gli acri struggimenti, e certe sere, quando il giovane rientrava, calmo, sereno, un po' pallido, ella avrebbe voluto avventarglisi contro per strappargli il segreto della vita. In quelle sere ella intuiva più che mai l'umiliazione del suo amore incompiuto. Forse egli leggeva tutto ciò negli occhi di Maria, bellissimi; forse la lotta era incominciata in lui prima ancora che nella fanciulla. Chi parlò? Nessuno. Si compresero. Allora egli le scrisse: «Vi sono dei momenti nella vita in cui si «maledice la ragione che frena i moti più «soavi del cuore; vi sono dei momenti in cui «si invoca come grazia celeste la più leggera «spensieratezza che ci tolga la memoria del «passato e le previsioni dell' avvenire per lasciarci «godere interamente le dolcezze del «presente. Amica mia, io sarei felice, se potessi «tutto abbandonarmi ai moti del mio «cuore, assecondarlo in tutto, e tutta in «voi versare la piena dell' affetto che lo innonda.» «Non facciamoci illusioni, la nostra amicizia «ha cambiato natura; io sento che voi «non siete più per me un'amica come tutte «le altre, sento che mi soggiogate e mi inebbriate... «Ah! Maria, ma posso assecondare in «me e forse eccitare in voi una passione che «non so dove debba finire, che so anzi finirà «col logorarci a vicenda in aspirazioni vane «e in vuoti desideri? Pare una crudeltà, pare «un'empietà spogliare questi poveri giorni «che chiamiamo vita, di quella poesia e di «quelle gioie di cui qualche rara volta li circonda «il cuore; ma l'uomo di carattere è «costretto a queste crudeli privazioni. Io non «posso, io non debbo amarvi. » Maria pianse molto e poi rispose a questa lettera con una sola parola: «Vi amo.» Tutti i giorni l'ampia capacità di un vecchio vaso di terraglia, posato sul caminetto, nascondeva una lettera. Quelle di Emanuele erano contegnose e studiate, quelle di Maria irrompenti con tutto il fuoco della passione. Ella avrebbe voluto scuotere, elettrizzare il giovane stoico, che sembrava aver preso per divisa: «Poco m'allegro e poco m'addoloro.» Ma egli resisteva con una tenacità tranquilla che infiammava maggiormente la fanciulla, dandole un desiderio affannoso di sacrificarsi, di trasfondere in lui i suoi santi entusiasmi e la sua fede inalterata. Crescendo l'amore le cresceva pure la gelosia e quel vago terrore del mondo che non conosceva. Le ore che Emanuele passava fuori di casa erano per Maria altrettante ore di supplizio, accresciute dalla solitudine e dal doversi frenare sempre, soffocando ogni palpito, ligia alla sua parte tranquilla e rassegnata di infermiera, ma coi sensi in tempesta e l'animo ansioso, inappagato. Questa passione senza speranza aveva delle strane voluttà. Dopo una lettera seria, asciutta, nella quale era stata considerata con calma la necessità di troncare l'inutile corrispondenza, essi si incontravano nel salotto e passando dietro la poltrona dell'infermo le loro mani si scambiavano una stretta eloquente; poi i loro sguardi non si abbandonavano più. Al domani egli le scriveva: «No, non sapete quanto mi siete cara e «dilettissima sopra tutte le donne, quante lagrime «secrete, quante interne e terribili battaglie «mi costi questo nostro amore. Io non «mi riconosco più. Abbandono gli studi che «mi furono tanto graditi, i miei classici mi «vengono a noia; ch'io vegli o ch'io dorma «non penso che a voi.» Felice di avergli strappato uno slancio di vero amore, Maria trovava la forza di ragionare a sua volta; ed era lei che parlava di doveri, di pura e di semplice amicizia. In queste alternative egli fu leggermente indisposto; aveva delle fatiche straordinarie di professione, delle noie, delle seccature infinite; il suo scetticismo tornava a galla; imprecava alla vita. E Maria a consolarlo con tutte le tenerezze della donna innamorata. Ma quell'amore non bastava ad Emanuele perchè egli non credeva all'amore. I suoi sogni giovanili si erano dileguati davanti a un convincimento, sempre crescente, che l'amore non è altro che illusione. Tolta la necessità materiale di unirsi ad una donna, il giovane scettico non vedeva, non sentiva altro. L'affetto appassionato di Maria se, qualche volta, riusciva a scuoterlo e a commuoverlo, gli lasciava però sempre lo sgomento di una grande aberrazione. Nei momenti più dolci, quando la fanciulla gli dava l'anima negli sguardi e sembrava implorarne la pietà, presso a cedere, una voce inesorabile gli mormorava all'orecchio: Anche questo non è altro che illusione. - E, si rifaceva freddo, non volendo essere trascinato in quel tumulto di palpiti e di desideri, non volendo soffrire, non volendo amare - amando tuttavia, debolmente, per impulso di lei e per la viltà del cuore che si faceva, a sua insaputa, alleato dei sensi. Una volta, la lettera che Maria trovò in fondo al vecchio vaso terminava con queste parole, che la gettarono in un turbamento indicibile: «un vostro bacio sarebbe il miracolo che muta l'inferno in paradiso.» Nelle sue lunghe ore solitarie, Maria doveva averlo provato il desiderio di un bacio, del primo bacio d'amore, che non sapeva, ma supponeva differente da tutti; mille volte questo desiderio doveva esserle salito dalle labbra allo sguardo; e nei colloqui della sera, sotto la blanda luce della lucernetta, un'attrazione invincibile doveva trascinarla verso la bocca di Emanuele, il disegno della quale, puro e gentile, spiccava con un fresco incarnato sulla barba bionda. È certo che non esitò. La stessa sera, quando Emanuele venne a congedarsi, ella gli fece un piccolo cenno, puntando l'indice nella direzione di una scaletta che egli doveva salire per recarsi in camera: poi si salutarono, freddi in volto, comprimendo i battiti del cuore. Trascorsero alcuni minuti durante i quali Maria tendeva l'orecchio al suono smorzato dei passi che si allontanavano; e intanto accomodava i guanciali sulla poltrona del padre, con un tremito nelle gambe, colle mani fatte di ghiaccio. Ascoltò ancora - nessun rumore. Egli era là. La scaletta si rizzava, ripida, parcamente illuminata nei gradini inferiori; buia in alto. Maria attese un richiamo, cercando cogli occhi nella semi oscurità, sperando di vederlo subito. Nulla. Guardò allora angosciosamente in alto dove i gradini si perdevano nelle tenebre fitte, Non un cenno, non un bisbiglio; ma nel silenzio di quell'ombra c'era una vertigine che l'attirava. Fece ancora qualche passo, smarrita, finchè un respiro affannoso le venne incontro e due braccia possenti la presero attraverso le reni. Il corpo di Maria si piegò come un giunco, abbandonandosi, provando l'impressione di una ferita acutissima. Sotto la dolcezza dell'amante ella sentiva fremere, repressa, una brutalità ignota. Eppure mentre tremava in quella violenta rivelazione, mentre un senso nuovo, quasi doloroso, si destava in lei dal bacio di Emanuele, una tenerezza struggitrice, un bisogno di darsi, di sacrificarsi le faceva mormorare: «ti amo, ti amo!» Al che egli non rispondeva altro che stringendola maggiormente, con un rantolo nelle fauci. Ed ora, coricata su quel letto straniero, cogli occhi aperti nella oscurità di una camera ignota, Maria rivedeva quella scaletta, risentiva quel primo bacio al quale molti altri erano seguiti di poi senza cancellarne la profonda impressione. Sostò per poco, ondeggiando col pensiero in un periodo di deliziosi incanti, durante il quale i giorni volavano in una continua ricerca di furberie e di astuzie per stringersi in un amplesso rapido, per ripetersi che si amavano. Nelle lettere, Emanuele diceva ancora che bisognava combattere una passione insensata, le chiedeva scusa per aver turbato co' suoi ardori la casta tranquillità di lei; le prometteva di frenarsi, di soffrire, di non chiederle più nulla. Un solo istante però distruggeva tutte queste saggie teorie. Così nel cuore di Maria ardeva sempre la fede, alimentata dai giovanili entusiasmi e dall'immenso amore. Ad onta delle sue letture, ella, dotata di molto idealismo, era rimasta ignorante sulle verità materiali dell'esistenza; come un cieco che abbia studiato a perfezione il meccanismo della vista, ma che non vede. Istintivamente sentiva che nell'amore di Emanuele per lei c'era qualche cosa che non poteva capire, differente dalle sensazioni sue proprie; ma che cosa fosse preciso non cercava. Non era curiosa, non era maliziosa. Quando la bocca di Emanuele così piccola, così gentile, le dava nel buio quei baci virili che la sorprendevano e la turbavano, ella rimaneva per poco sotto l'assillo di una curiosità indeterminata, che svaniva poi nei tranquilli colloqui intorno alla lucerna, allora che il giovane professore, calmo, colla sua voce monotona, rispondeva alle controversie del padre; e l'impressione violenta svaniva per lasciar posto a una idealità piena di dolcezza. Maria non pensava neppure che vi potesse essere un pericolo per lei in quell'amore. Era cresciuta con un principio di morale, non bigottamente ristretta, ma di una conclusione rigida e inflessibile. A' suoi occhi, l'abbandono completo di una donna, quando non fosse reso legittimo, metteva capo a una vergogna incancellabile. Certe parole grosse, brutte, ch'ella aveva udite per caso, le sembravano applicabili a tutte le donne che cedono; e nei momenti di maggior debolezza, il ricordo di quelle parole le faceva salire alla fronte una fiamma di vergogna. L'uomo ha un altro, diverso e vasto campo in cui esercitare la virtù; egli ha le virtù cittadine, politiche, patriottiche e guerriere; ha l'onestà della carica che occupa e dei commerci che intraprende. La donna non ha che questa povera, modesta virtù del resistere, che cresce nell'ombra, spoglia di gloria, quasi sempre inapprezzata. Non importa; Maria aveva fede in essa; sperava che Emanuele avrebbe superati gli ostacoli che li dividevano e si sarebbero alfine sposati. Si voltò dolorosamente nel letto; la successione delle idee che le presentava in quadri spiccati le scene principali nella sua vita, l'aveva condotta ad una scena ch'ella non poteva ricordare senza sentirsi dare un tuffo nel sangue. Sempre la tetra casa, l'abbandono, la miseria e suo padre morto - questa la cornice. Nel mezzo, lei, disperata, folle, abbracciata come un naufrago ai ginocchi di Emanuele... A questo punto, con tutte e due le mani, prese il guanciale e se lo pose sul volto, premendo, non trovandosi abbastanza nascosta nelle tenebre, desiderando nascondersi a sè stessa in un bisogno di annientamento; ma anche soffocata dal guanciale vedeva gli occhi di Emanuele senza lagrime intanto che la sua voce misurata le diceva: Non posso farti mia. E l'amava, sì, l'amava; ma non aveva la fede che ispira, non aveva il coraggio che spinge alla lotta, non si sentiva la forza di darle la sola prova d'amore che un uomo possa dare ad una donna onesta: soffrire con lei, lavorare per lei... E dopo tanti anni, lì, in quella camera che apparteneva a lui, su quel guanciale dove egli aveva forse appoggiata la testa sognando di un'altra, i singhiozzi della povera donna scoppiarono alti, irrefrenati.

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Sofia, volubile, si abbandonava adesso colle sue smanie solite ai trasporti dell'amor materno; e, sincera sempre, null'altro sentiva in quel momento che una ineffabile tenerezza. - Oh! se morisse davvero... Io non sono molto pia, no, credo poco... Non so precisamente quello che credo: ma allora mi rivolsi al Dio delle madri. Egli deve esistere, e gli chiesi a qualunque costo la vita del mio bambino. Piangeva. - Egli te l'ha concessa - disse Maria. - Sì. - E - le prese la mano con dolcezza somma, guardandola negli occhi, - non ti chiese a sua volta il patto? - No davvero - mormorò Sofia, sorridendo attraverso le lacrime. - Eppure, nell'istante che fra te e Dio si dibatteva la vita di tuo figlio, dimmi, non saresti stata disposta a concedere qualunque cosa? - Oh! senza dubbio. - Tu dunque sentivi che questa creaturina appena nata esercitava su di te un potere che supera tutti gli altri? Presso quella culla hai dimenticata la società, il mondo... se quella marea montante, se quel fango di cui parlavi poco fa, fosse salito a macchiare la coltre del tuo bambino, a coprirlo, a soffocarlo non ti saresti slanciata in suo aiuto? - Maria!... - Non avresti voluto, per lui, essere pura d'ogni colpa, monda perfin d'ogni sospetto? Erano, entrambe, immensamente commosse. Maria col volto presso il volto dell'amica, mormorava accentuando appena: - Non avresti voluto annientare ogni pensiero che non fosse nobile e santo? Distruggere qualunque traccia di debolezza? Fuggire le tentazioni, che ti rapiscono a lui?... Si guardavano negli occhi, dritto, fino in fondo, come due pantere in lotta. Sofia sentiva la propria debolezza e cedeva, vinta, spossata dalle emozioni. In quel mentre entrò la cameriera: - Il signor Bandini manda a prendere il portafogli che ha dimenticato qui. Sofia, senza muoversi, tese la mano; prese il portafogli, lo aperse e stracciò il primo foglietto - non abbastanza rapidamente che Maria non potesse leggervi un sì, scritto a grossi caratteri tremanti, con matita rossa; poi lo rese. Appena la cameriera fu uscita, le due amiche caddero nelle braccia l'una dell'altra; Sofia in preda a una convulsione di nervi, singhiozzando sulla spalla di Maria.

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Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245529
Grazia Deledda 3 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Il pensiero di riprenderla non mi abbandonava un momento. Un giorno andai a vederla. Entrai senza picchiare, avanzandomi fino all'uscio della stanza che ben conoscevo. E dapprima mi parve di sognare, o di aver sognato, perchè nulla era mutato in quella stanza: la moglie del mio creditore lavorava seduta accanto al braciere, la sua fisionomia era la solita, e solo si alterò al vedermi, ma di un turbamento che mi parve più di sdegno che di affetto. Subito però si dominò, mi accennò di avanzare. AI rumore del miei passi l'uscio della cucina si socchiuse e subito intravidi la balia con una grande scodella in mano: mi guardò con l'avidità con cui mangiava: avidità di sapere perchè ero lì. La padrona la chiamò, le disse di farmi vedere la bambina, poi si volse a me accennandomi di seguire la balia: si entrò nel salotto attiguo, e la prima cosa che distinsi, nella penombra, fu la porta-finestra difesa da una semplice persiana che dava sulla strada. Tante volte passando di fuori avevo veduto quella persiana socchiusa e l'interno del salotto, col solito arredamento paesano: tavola rotonda in mezzo con un mazzo di fiori finti, uno specchio pur esso ornato di fiori a smalto, divano e sedili ricoperti di goffi merletti. Adesso c'era anche una grande culla di vimini: la balia sollevò un lembo della stoffa che la copriva, e non ostante la penombra e sebbene guardassi rigido dall'alto senza troppo avvicinarmi nè chinarmi vidi distintamente il piccolo viso, non più grande di una grande rosa, ma già vivo, balzante verso di me da una profondità che era quella dell'anima mia stessa. Gli occhi erano aperti, placidi, nuotanti come in un velo di piacere, le labbra strette succhiavano l'aria. Subito mi preoccupai perchè la balia la ricoprì tutta: non poteva soffocarsi, così? E rientrando di là vidi che la donna continuava a lavorare la sua maglia, in fretta, come per riacquistare il minuto perduto. Ma perchè aveva voluto la bambina se era per continuare la sua vita inerte? Io invece mi sentivo tutto sconvolto solo per averne intraveduto il viso. Accennai ad andarmene. Volevo portarmi via intatta quell'impressione indefinibile che non era di gioia, nè di dolore perchè trascendeva l'una e l'altro; ma la donna mi guardò rapida col suo sguardo glauco, supplicandomi di restare. E io restai: anche perchè la balia mi osservava; e i suoi occhi così lucidi che non lasciavano distinguerne il colore, mi ricordavano quelli di una biscia che avevo veduto una volta fra l'erba.

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Può anche piangere, se vuole: il suo grido adesso può confondersi con le altre voci della notte, col mormorio degli alberi, con tutti i lamenti e i canti che salgono dalla profondità della mia anima; ma a dire il vero la bambina non si agitava nè piangeva; era tutta dura dentro la fascia, con le manine in dentro, tutta tiepida e un po' umida come un fiore notturno, nell'involucro della coperta; e abbandonava la testina in avanti, profondamente addormentata. Le passai timidamente un dito sul visetto, sulle palpebre chiuse, sulla bocca dalla quale colava il latte: poi la ricoprii e ripresi a camminare. Ed ecco di nuovo sentii, dentro di me, l'eco di un passo che mi seguiva: ma questa volta mi volsi, per togliermi più che altro dall'incertezza. E realmente vidi una forma avanzarsi nell'ombra. Non c'era che aspettarla e assicurarsi che non cercava me; il guaio fu che, nonostante l'oscurità, mi parve di ravvisare il vecchio Tobia: e quasi d'istinto ripresi a correre, ma invece di andar dritto credetti bene di allontanarmi trasversalmente per fargli perdere le mie traccie. Andavo alla cieca: davanti a me però vedevo uno sfondo meno scuro, grigiastro, e credetti fosse il mare; quindi dopo un certo tratto ripresi a correre nella direzione di prima. Mi ero abituato al buio e distinguevo le strisce dei sentieri, i cespugli, le macchie: all'ombra nera di una di queste tornai a fermarmi. Ero di nuovo solo, con la mia creatura; il cuore mi batteva, e mi pareva fosse il suo, agitato per la corsa e il vano spavento. Ma non sono pazzo? - mi domandavo. - Perchè corro così, senza neppure essere certo di essere inseguito? E se davvero lo sono, e se è il vecchio che m'insegue, che può farmi? Neppure Dio, può ormai togliermi la mia bambina dalle braccia. Piuttosto cominciai a impensierirmi per l'immobilità, per l'abbandono di lei: ma che poteva fare, lei povera creatura, povero uccellino nudo appena nato e tolto dal nido? Se piangeva non la sentivo; agitarsi non poteva. La scoprii di nuovo; non la distinguevo bene, nell'ombra, ma tornai a palparla; era tiepida, col visetto molle tutto bagnato di latte, con gli occhi chiusi. Aveva un sonno ben profondo! L'aggiustai meglio, cercando di metterla in quella posizione che le donne usano dare ai bambini quando li allattano, e le lasciai il viso scoperto. Faceva quasi caldo, o almeno mi sembrava così per il calore che io stesso sentivo: potevo lasciarla respirare: avevo paura di soffocarla: una paura strana che m'era venuta ad un tratto, che saliva da un angolo oscuro del mio essere e m'inseguiva come poco prima la forma minacciosa balzata dall'ombra della pineta. Ma perchè questa paura, incalzante, insistente, se la bambina era tranquilla, e scoperta, adesso? Vado, vado, non penso più neppure all'uomo che m'insegue; non penso che ad arrivare in fondo alla pineta, nella casa del guardiano; di trovare la balia e farle dare il latte alla bambina. D'improvviso mi sentivo di nuovo calmo, sicuro di me; mi pentivo e mi vergognavo d'essere fuggito; e anche di aver rubato la bimba, quando con la forza e il mio diritto avrei potuto prendermela un giorno e portarla dove volevo. Ma adesso il fatto è fatto; non pensiamoci più; pensiamo piuttosto a orientarci meglio, ad arrivare alla metà. Piuttosto.... Ecco una nuova paura mi assale, mentre volgo addirittura le spalle a quello sfondo grigio che mi accompagna di fianco, e cerco di andare verso il fiume. Luci vaghe, lontane, appaiono tra il fitto degli alberi; sono forse i riflessi dei lumi delle casette della collina; la strada che seguo è dunque buona. Piuttosto.... Sì, pensavo che la bambina, una volta abbandonata da me a quella gente sconosciuta, potesse venir di nuovo rubata, o tolta loro con inganno dai miei creditori. No, no, dicevo a me stesso, io veglierò; starò in giro intorno alla casetta, o farò venire la donna in casa. La zia acconsentirà: la zia ha denari, adesso ne sono convinto. E tutto mi sembrava facile, nella fantasia; ma in fondo sentivo bene che tutto era un sogno: sogno anche la calma e la fiducia che credevo di avere: in fondo un'angoscia mortale mi premeva, mi spingeva, e sempre quella paura strana, insistente, che la bambina fosse morta. Ah, ecco, l'orribile verità l'ho detta.

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E quell'impressione di aver sentita la voce di Dio nella mia voce stessa non mi abbandonava. E avevo paura di ritentar la prova. Ma tutto adesso parlava: sentivo il rumore dei miei passi, il fruscio delle foglie, e un suono lontano che dapprima mi sembrò fosse dentro di me: il mormorio del mare. Poi d'un tratto mi fermai, pronunziando parole vaghe, confuse, come quelle dei bambini che cominciano a parlare. La gioia era tale che vinceva il dolore. Per alcuni momenti dimenticai di aver la bambina morta fra le braccia. Eppure ripresi a camminare: e andavo o credevo di andare ancora verso le colline, verso il fiume, in cerca della casa della balia! Ecco di nuovo infatti l'orizzonte schiarirsi: il cielo si faceva azzurro, le chiome dei pini vi si disegnavano nere come nuvole basse che pur lasciavano trasparire un chiarore sempre più vivo: finchè d'un tratto la pineta cessò con una sola fila di pini che pareva si fossero fermati lì protesi a salutare un essere invisibile che passava nella strada bianca illuminata. Quella strada, quel chiarore, mi fecero paura e nello stesso tempo mi richiamarono alla realtà. Qualcuno poteva vedermi e fermarmi: d'altronde che cosa cercavo da quella parte? Case non se ne vedevano se non in lontananza fra le vigne: e anche avessi trovato quella che cercavo a che mi serviva? Rientrai nella pineta: il chiarore della luna si faceva sempre più vivo, illuminava i sentieri, i cespugli, illuminava, a tratti, quando io ci capitavo sotto, l'involto bianco che tenevo con me! E mi gelava tutto, come fosse un getto di ghiaccio, mi penetrava fino al cuore e smorzava, la mia gioia. Non tentavo neppur più di parlare: il suono della mia voce accresceva la mia paura. Tuttavia speravo ancora di essermi ingannato; forse la bimba era viva ancora, forse si poteva ancora salvare. Bisognava portarla dal dottore: ed ecco mi dirigo ancora alla casa del dottore: adesso mi orientavo bene, nella pineta, capivo flnalmente dov'era il mare, dove il paese, dove il fiume. Vado di nuovo verso il mare: lo sfondo grigio s'è fatto azzurro; sotto la luna piena sempre più alta e chiara, tutto il paesaggio si colorisce di azzurro e di argento, tutto diventa fresco, lieve, irreale. Ed anch'io nonostante la stanchezza, l'angoscia, il terrore, ho l'impressione di essere diventato lieve, di camminare rapido, senza sfiorare la terra. Mi sembrava che l'aria attraversasse il mio corpo come la tela d'una vela e mi spingesse. Ma dove, dove andavo? In casa del dottore no, non volevo più andare: e non più per paura, ma perchè sentivo ch'era inutile andarci, che la bimba era morta e nessuna forza umana, neppure quella del mio dolore, poteva rianimarla. Eppure andavo: dove? non sapevo: arrivato al confine della pineta tornavo indietro. Credo di aver fatto in tutti i sensi, quella notte, tutti i sentieri della pineta; e ancora mi pare adesso ogni notte nell'addormentarmi di essere là e di vagare, col mio carico, col desiderio e la paura di deporlo e di uscire libero da quel labirinto, come si vaga nei sentieri della vita, col carico delle nostre passioni e con un desiderio di liberazione....

Pagina 213

Il romanzo della bambola

245582
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
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Pagina 27

Il sole, ch'entrava pallido pallido, a fare il suo giro obliquo - il giro invernale - per la stanza, si fermava un momento, passando sul corpo della pupattola, coricato come l'avevan lasciato lì con mano distratta; animava, d'un tratto, i capelli biondi, i vivi colori del vestito, poi abbandonava nell'ombra quel dolore a cui nessuno badava: un dolore, è vero, senza espressione, ma non per questo meno angoscioso e sincero. Dai discorsi uditi in casa, un po' qua un po' là, la bambola aveva capito molte cose e le andava rimescolando nel suo povero capo vuoto. Oh, se si potesse sapere tutti i pensieri contenuti in una testa che sembra insensibile, si commetterebbero, certo, meno leggerezze e meno crudeltà. Il Moro era il rivale temuto e odiato dalla Giulia. Ella aveva inteso decantare tutte le virtù del cavallino: sapeva di quale colore aveva il manto e quanto era acuta la sua intelligenza; sapeva perfino, oh dolore! di quella piccola stella bianca su la fronte, dove la Marietta lo baciava più spesso e più volentieri. E pensare che a lei non aveva mai dato un bacio, la Marietta! Che cosa erano i baci, in conclusione? Un'espressione dell'amore, se alla bambina i genitori ne davano tanti, da mattina a sera, e se lei, cattiva, ne dava tanti al Moro! La gelosia che rodeva la Giulia non la fece nè dimagrire nè impallidire, s'intende; ella sentiva, però, dentro di sè, qualcosa che le andava consumando il cuore, l'anima, chi sa? e la sensazione era delle più penose. Dov'erano i tempi in cui la Marietta le diceva, pigliandola in braccio: - Vieni, bella mia! Adesso usciamo insieme, sai! Ti porto in legno, e tutti credono che tu sia viva come me!

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La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247405
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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Pagina 66

La sorte

247993
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1887
  • Niccolò Giannotta editore
  • Catania
  • Verismo
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E abbandonava il suo strumento in mano di quel diavolino che se lo trascinava dietro come un giocattolo. - Ora gli sciupa ogni cosa! - esclamò la Fanny raggiungendo la bambina. - Ma la lasci stare!.. non importa!.. - insisteva Salvatore, avvicinandosi, sfiorando le mani di lei nella breve contesa. La principessina, sdraiata sopra un sedile di ferro, col mandolino quasi più grande di lei fra le gambe, strappava le corde una dopo l'altra, come se volesse spezzarle. - Mio Dio, che stridori! - diceva la Fanny, portando le mani alle tempie e raggiustando lievemente con le dita le bande dei suoi capelli d'oro. - Che differenza con poco fa! - aggiungeva, rivolgendosi a Salvatore. Egli tentava scusarsi: - Bontà sua!.. io non merito... - No, no; le assicuro che lei suona divinamente. Così potessi avere ancora questa consolazione! - Conosce la musica? - Ora? Più nulla! A casa mia, strimpellavo bene o male sul pianoforte. Ma cosa vuole - aggiungeva, sospirando - quando non s'è più padroni!.. Salvatore non si stancava di contemplarla, pieno di commiserazione. - E si trova da molto tempo con la principessa? - Da quasi due anni, dopo che è morto il babbo! - Il suo paese, se è lecito? - Sono veneziana. Mio padre era capitano nell'armata... La principessina chiamava da lontano: - Fanny!.. - Sul punto di morte mi raccomandò a una famiglia di signori suoi conoscenti, che per tutta protezione mi proposero di prendermi come governante... - Fanny! Fanny! - strillava la bambina. - Dica lei cosa potevo fare, senza un aiuto, sola? Rassegnarmi! - Fanny! - urlava la bambina, disperatamente. Dal salotto la principessa chiamava anche lei, con voce breve: - Fanny! - Ecco quello che mi tocca! - mormorò lei. - Mi permetta, signore... Salvatore restava ancora lì, senza saper dove fosse, con una grande confusione nella testa. Era proprio lei, la Fanny, che gli aveva fatte quelle confidenze? Ed erano dirette. proprio a lui, Salvatore? Tutto questo non era un romanzo?.. Si guardava attorno: il giardino era oramai deserto e silenzioso. I lampioncini rossi pendenti dagli alberi, come tanti poponi, si andavano spegnendo. La rotonda era vuota; dietro le finestre del salone, vivamente illuminate, si vedevano passare delle ombre, al suono affievolito del pianoforte. - Un romanzo! un vero romanzo! - pensava egli continuamente. A un tratto si sentì chiamare. - Salvatore, ohè? - Era il cocchiere - Volete restare all'aria aperta fino a domani? - Vengo subito - rispose, cercando il suo strumento, da un sedile all'altro. - Che avete fatto di bello? - Nulla; si è chiacchierato con la governante della principessa. - La governante? Quale governante? - Ma... la Fanny... la figlia del capitano... Il cocchiere si mise a ridere. - Ci siete cascato anche voi? Che capitano e che governante! La cameriera, volete dire. - Ecco com'erano! - pensava Salvatore - Ecco in mezzo a quale gente era costretta a vivere quella povera creatura! Che sorte le toccava! Egli si sentiva intenerire profondamente, ogni volta che ripensava a tutto quello che aveva dovuto soffrire, lei così buona, lei così degna di miglior sorte. - Ah, se!... Ma poi, rivedendosi nella sua botteguccia, disperava all'idea della distanza che lo separava da lei. - Che!.. Che!.. - Cos'ha mai Salvatore? - si chiedevano Santoro, Lisani e gli altri amici, nel vederlo sempre rabbuiato. - Guai grossi ci sono, dunque? - domandavano ad Agostino, che passava per il suo confidente. - Infine - gli disse questi, dopo che i suoi discorsi avevano avuto tempo di fare effetto - perchè sospirate tutt'il giorno come un mantice? Pensate sempre a Fanny?.. E spiegatevi chiaro, in nome di Dio! Perchè dunque non la sposate? - E lei mi vorrà? Agostino partì a ridere, vedendo la faccia lunga dell'amico. - Dovete sapere che Pulcinella, quand'era innamorato di qualcuna, diceva che mezzo matrimonio era fatto! - E dunque? - Dunque, all'altro mezzo penserò io. Così egli fece portare l'ambasciata, da sua sorella, che era amica di Fanny, e un bel giorno tornò con la risposta. - Insegnatemi il mandolino - cominciò a dire, con una serietà studiata. - Che vi salta in testa, adesso? - Insegnatemi il mandolino, v'ho detto! - Va bene, ve l'insegnerò; ma almeno spiegatemi... - Vi spiego che le avete fatto girar la testa, col vostro pizzicato. - E che ha detto? - Dice di sì, birbante!

Pagina 138

Una peccatrice

249630
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
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Un uomo, seduto accanto a lei su di una seggiola assai bassa, le leggeva qualche cosa di un giornale che teneva fra le mani, e che ella udiva sbadatamente; e si interrompeva di tratto in tratto per prendere una mano di lei, che gliela abbandonava con la stessa languida indifferenza, e che lo ringraziava col suo sorriso seduttore e col suo sguardo che faceva scorrere un'onda di voluttà in quell'uomo, quand'egli si recava alle labbra la sua mano: Allor solamente, la sua leggiadra testolina, coronata da quei ricci magnifici, si volgeva lentamente verso di lui. Qualche volta, con un movimento tutto infantile, quella manina bianca ed affilata si appoggiava alla ringhiera, e sopra vi si appoggiava la fronte; quasi quel bellissimo collo fosse troppo debole per sostenere quella piccola testa. - Con questa donna ci sarebbe da impazzire! - esclamò Pietro reprimendo un fremito, dopo averla divorata a lungo dello sguardo. - Credi che siano marito e moglie? - domandò l'altro. - È il mistero che questa donna sa rendere impenetrabile colle sue mille indefinibili gradazioni di fisonomia, d'espressione, di gesto, che fanno spesso dimenticare la sirena nella vergine, e viceversa. Se lo sono è da poco tempo: a meno che costei non senta ancor ella sì a lungo come deve far sentire a tutti quelli che l'avvicinano. Parecchie volte, forse a caso, l'occhialetto dell'incognita si rivolse verso il banco di pietra sul quale erano seduti i due amici. - Ti guarda! disse Raimondo sorridendo. O guarda i passeri che saltellano fra le frondi. Credi sul serio ch'io ne sia innamorato? - Ne parli tanto!... - Diffida sempre di quegli amori di cui ti si parla a lungo e sì leggermente: è segno certo che si vuol ridere alle tue spalle... Io l'amo come un bel personaggio da dramma o da romanzo, come un bel fiore... come una bella donna prima venuta insomma... che sa recare con grazia il velo sul cappellino e sollevare con disinvoltura lo strascico della veste... e nient'altro... In fede di che, se vuoi, andiamocene; sono le due meno dieci minuti, - aggiunse dopo aver consultato l'orologio. - Sì, è troppo tardi; siamo qui da più di due ore; - rispose il biondo alzandosi. Egli sorprese lo sguardo del suo amico che ancora restava fissato sul verone. - Vuoi venire, o no? - Un momento... restiamo altri dieci minuti e partiremo alle due precise... - Non amo gli inglesi colla loro metodicità regolata sul quadrante di un orologio... Hai detto d'andarcene... - Hai ragione; - rispose Brusio ridendo - partiamo. Due o tre volte, prima di uscire dal giardino, si volse a guardare il verone, sul quale non poteva più vedere che la tenda abbassata. - Bella donna! - ripeteva egli di tempo in tempo, con un entusiasmo che era troppo allegro per non essere affettato, e troppo affettato per non nascondere una preoccupazione: quanto io t'amo!

Pagina 33

Dramm intimi

250014
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1884
  • Casa Editrice A. Sommaruga e C.
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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Carlo le stringeva la gola sempre più a misura che la donna rallentava le braccia, e si abbandonava, inerte, con la testa arrovesciata sui sassi, gli occhi che mostravano il bianco. Infine la lasciarono ad uno ad uno, lentamente, atterriti. Ella rimaneva immobile stesa supina sul ciglione del sentiero, col viso in su e gli occhi spalancati e bianchi. Il Pigna abbrancò per l'omero Ambrogio che non si era mosso, torvo, senza dire una parola, e Carlino balbettò : — Tutti e tre, veh! Siamo stati tutti e tre!.. O sangue della Madonnal... Era venuto buio. Quanto tempo era trascorso? Attraverso la viottola bianchiccia si vedeva sempre per terra quella cosa nera, immobile. Per fortuna non passava nessuno di là. Dietro la pezza di granoturco c'era un lungo filare di gelsi. Un cane s'era messo ad abbaiare in lontananza. E ai tre amici pareva di sognare quando si udì il fischio del tramvai, che andavano a raggiungere mezz'ora prima, tomo se fosse passato un secolo. Il Pigna disse che bisognava scavare una buca profonda, per nascondere quel ch'era accaduto, e costrinsero Ambrogio per forza a strascinare la morta nel prato, com'erano stati tutti e tre a fare il marrone. Quel cadavere pareva di piombo. Poi nella fossa non c'entrava. Carlino gli recise il capo, col coltelluccio che per caso aveva il Pigna. Poi quand'ebbero calcata la terra pigiandola coi piedi, si sentirono più tranquilli e si avviarono per la stradicciuola. Ambrogio sospettoso teneva d'occhio il Pigna che aveva il coltello in tasca. Morivano dalla sete, ma fecero un lungo giro per evitare un'osteria di campagna che spuntava nell'alba; un gallo che cantava nella mattinata fresca li fece trasalire. Andavano guardinghi e senza dire una parola, ma non volevano lasciarsi, quasi fossero legati insieme. I carabinieri li arrestarono alla spicciolata dopo alcuni giorni; Ambrogio in una casa di mal affare, dove stava da mattina a sera; Carlo vicino a Bergamo, che gli avevano messo gli occhi addosso al vagabondare che faceva, e il Pigna alla fabbrica, là in mezzo al via vai dei lavoranti e al brontolare della macchina; ma al vedere i carabinieri si fece pallido e gli s'imbrogliò subito la lingua. Alle Assise, nel gabbione, volevano mangiarsi con gli occhi l'un l'altro, chè si davano del Giuda. Ma quando ripensavano poi al cellulare com'era stato il guaio, gli pareva d'impazzire, una cosa dopo l'altra, e come si può arrivare ad. avere il sangue nelle mani cominciando dallo scherzare.

Voci della notte

250783
Neera 1 occorrenze
  • 1893
  • Luigi Pierro Editore
  • Napoli
  • Verismo
  • UNICT
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Pagina 12