Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonati

Numero di risultati: 85 in 2 pagine

  • Pagina 1 di 2

Da Bramante a Canova

251202
Argan, Giulio 1 occorrenze

Né occorre spiegare che, così facendo, l’artista denuncia la crisi, l’imminente scadenza dei valori che vorrebbe difendere e che infatti erano stati o stavano per essere abbandonati proprio da coloro che li avevano, per secoli, praticati.

Pagina 395

Della scultura e della pittura in Italia dall'epoca di Canova ai tempi nostri

251319
Poggi, Emilio 1 occorrenze
  • 1865
  • Tipografia toscana
  • Firenze
  • critica d'arte
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Vide il genio di lui la necessità di ritornare allo studio del classicismo e con l'ajuto di questo unito alla elevatezza del proprio intelletto, seppe ripristinare colle opere i precetti degli antichi Greci, e levar per quelle tal grido da compire quella rivoluzione nelle belle arti in Italia, per la quale si vide ricondurre la scultura agli abbandonati principii del bello stile. Se in molte parti egli non felicemente raggiunse la greca perfezione, in altre l'adeguò per lo meno. E tanto nel suo soggiorno in Roma egli si volte allo studio più profondo delle antichità, che potè ardito nei primordi di sua carriera modellare e scolpire il famoso gruppo del Teseo combattente col Minotauro. Il Perseo, il gruppo dell'Ercole e Lica, furono ispirazioni del greco stile, che gli valsero, come ognuno può vedere, di guida nella esecuzione di altri molti argomenti, nei quali più facilmente riuscì perchè rivestiti del carattere monumentale cristiano, come ne fanno fede i grandi mausolei di Papa Rezzonico, di Pio VI, e di Maria Cristina. La fecondità dell'ingegno, l'operosità dello scalpello furono in questo valoroso tanto grandi da lasciare all'epoca di sua morte centocinquanta produzioni le una più stupende delle altre, e di cui la maggior parte possono appallarsi capo-lavori di statuaria.

Pagina 9

Le arti belle in Toscana da mezzo secolo XVIII ai dì nostri

254905
Saltini, Guglielmo Enrico 2 occorrenze
  • 1862
  • Le Monnier
  • Firenze
  • critica d'arte
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Poco avea disegnato e meno dipinto prima d’ottenere codesto ufficio, nulla più fece poi; e abbandonati affatto i pennelli, parlò sempre ai giovani scuolari, ma non disse loro pure una volta, ecco come si opera. Guai ai maestri dell’arte che disputano e scrivono, soleva dire il Canova, è segno che non osano e non sanno fare.

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Abbandonati i metodi meccanici, che la riducevano a mestiero, si cercarono e disegnarono le statue e i dipinti dei grandi maestri, si studiò il vero e l’anatomia, si attese con più amore e accuratezza al soggetto. Certo non vuolsi tacere che la troppa smania dell’imitare le sculture greche, piuttosto che la natura, facesse nascere una nuova scuola accademica, che volle dirsi, e male a proposito, classica; la quale trapiantando in Italia il gusto tal volta esagerato del francese Giacomo Luigi David, allontanò per allora la pittura da una maggior perfezione: ma nemmeno può negarsi che queste opere del Benvenuti avessero molti pregi, e che il suo nuovo metodo, rovesciasse affatto i vecchi sistemi, conducendo per lento ma sicuro trapasso sopra una strada migliore.

Pagina 46

L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

256991
Vettese, Angela 1 occorrenze

Forse ancora più emblematico a questo proposito è il caso della Street Art, una forma d’espressione nata negli anni Settanta come linguaggio spontaneo nelle strade dei sobborghi newyorkesi per esprimere il disagio sociale di quei giovani che, per sentirsi più forti e meno abbandonati a se stessi, si riunivano in bande. Tag, graffiti e disegni abusivi sui muri e sui vagoni della metropolitana erano, in quegli anni di aspri disordini e scontri sociali, urla libere contro il sistema, atti di critica selvaggi e allo stesso tempo temerari. Qualche anno dopo, il graffitismo, inglobato nel sistema da galleristi come Annina Nosei, Bruno Bischofberger e Tony Shafrazi, sarebbe diventato una moda, passando dal muro alla tela, e avrebbe lanciato talenti come Keith Haring, Jean-Michel Basquiat e Kenny Scharf. Fu così che un'arte originariamente nata senza alcuno scopo né valore commerciale si tramutò, nelle mani di abili mercanti, in una miniera d’oro, tanto che si narra che Annina Nosei, vista la crescente richiesta di opere di Basquiat, artista geniale ma senza regole, lo costringesse a dipingere giorno e notte in uno scantinato. Questi meccanismi non sono affatto nuovi. L’intervento della committenza e delle revisioni commerciali e tecniche sono all’ordine del giorno anche nell’arte antica.

Pagina 93

L'arte di guardare l'arte

257152
Daverio, Philippe 1 occorrenze

Gli svizzeri si impadroniscono del campo, di centinaia di cannoni abbandonati, di tonnellate di polvere da sparo e di un bottino che mai fino a quel giorno si pensava di potere portare a casa. Carlo viaggiava accompagnato da tutti i suoi beni: i sigilli d’oro del governo, le corone, le vesti e le stoffe, i tendaggi e gli arazzi, le tavole dipinte dai maestri delle Fiandre e i codici miniati. Il bottino venne esposto, poi divenne motivo di appetiti e di litigi, smembrato e venduto ai rigattieri. Le pietre preziose, staccate dalle corone, furono impegnate presso i Fugger. Il suo esercito ricostituito sarà poi sconfitto a Murten (o Morat, in francese) all’inizio dell’estate. Lui stesso verrà ucciso all’inizio dell’anno successivo nella battaglia di Nancy. Gut, Mut, Blut: perse i beni (Gut) a Grandson, il coraggio (Mut) a Murten, il sangue (Blut) a Nancy. Tutto iniziò come è d’obbligo in terra svizzera con la perdita dei beni, che erano assolutamente mobili.

Pagina 23

Personaggi e vicende dell'arte moderna

260392
Venturoli, Marcello 1 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
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La sua pittura e la sua scultura sono legati alla terra, alla materia, alle manifestazioni dell’uomo, agli utensili della sua vita, e sopratutto ai fatti, ai sentimenti e alle azioni degli uomini: degli uomini come sono, poveri o abbandonati, dispersi o eroici o combattenti o martiri o assassini, belli o grotteschi, generosi o crudeli o ridicoli. La pittura e la scultura di Picasso — prosegue il pittore realista — rappresentano nel clima dell’arte moderna... il solo tentativo di dar conto di una realtà totale, vista nel suo svolgersi, e cioè nei suoi aspetti opposti, nelle sue contraddizioni». Perciò «egli produce continue e successive ondate di idee figurative». Per Guttuso — e noi siamo con lui — la lezione di Picasso consiste nel «dipingere e scolpire l’uomo qual è, in un mondo qual è, nei suoi contrasti vitali, nella sua realtà, un uomo volta a volta tipico ed esemplare del nuovo rapporto sociale, un volto, un gesto, un fatto, una visione che non siano accidentali, casuali, meri pretesti all’arabesco formalista, ma in cui si rifletta una più universale e generale umanità».

Pagina 156

Saggi di critica d'arte

262028
Cantalamessa, Giulio 1 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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Ebbene aggiungo che Guido ebbe là forza di rimaneggiare e assimilare al suo tempo le più nobili tradizioni del passato, aereandole e rinfrescandole nel suo spirito vigoroso, sì che prendessero carattere di modernità; egli ricreò la tecnica, correggendo la gravezza a cui i Caracci s’erano abbandonati per reazione contro le forme sbiadite e vuote dei michelangiolisti, rifece, per dir così, il linguaggio dell’arte, or ammorbidendolo or afforzandolo, distribuendone le voci in nuove combinazioni e rendendolo flessibile e docile a tutti gli ordini del pensiero. Ciò fece Guido Reni. Se si elimina dalla storia, non si comprende più nulla dello svolgimento successivo, che quasi tutto parte da lui. Non vo’ nominar quelli che gli furono diretti discepoli. Ma il Maratta, il Cignani, il Franceschini, il Gaulli, il Conca e molti altri pittori del secolo passato non si comprendono più. Nè varrebbe il dire che la gloria di tutti costoro è d’un ordine relativo, perciocchè i seguaci del gran Michelangelo furono assai da meno; quel che importa stabilire al filosofo è che Guido è una delle pietre miliari del grande cammino per cui va il pensiero umano di vicenda in vicenda, è uno di quegli astri la cui traiettoria luminosa nel cielo dell’arte ha attratto tutti gli sguardi e cattivato tutti gli animi.

Pagina 148

Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 2 occorrenze

Nei Vuoti e pieni astratti di una testa sintesi stiacciata di elementi ormai abbandonati; costruzione raggiata, ma superficiale dico non totalmente scultoria; capolavoro di bassorilievo, roulette delle forme organiche; primo accenno ad una circolazione interna delle forme umane; perfezione stilistica dei vuoti capovolti nei pieni; involuzione spontanea; varietà inavvertita perché eguaglianza di volumi puri. Architettura di staglio, non di profili curvi.

Pagina 159

In fatto, l'artista, abbandonati i ricordi provinciali di forma, di colore, di composizione delle opere primissime, ha ormai iniziato i suoi partiti di luce che si ritagliano vigorosi sull'impasto grasso venezianeggiante. Il tono giallaurato delle carni, con ombre talora troppo dense, è ancora quello delle opere di San Luigi; e certa singolarità del modellato nella mano destra del Santo, che si restringe duramente nelle falangi estreme, si può porre a riscontro con la sinistra del San Matteo scrivente di Roma; mentre la posa delle ombre sul lento emaciarsi del viso si ritrova, se anche più forzato, nel Cristo della Vocazione. Poiché è qui, nel Sant'Antonio, una maggiore liquidità di mezze tinte, con qualche tocco sovraggiunto, a cosa fatta, che ci avvia verso lo stile della Deposizione. Infine il senso della forma squadrata, appianata, a spigoli netti, delle opere prime (polso del Davide*** [Spada], del San Giuseppe [Doria]), del San Matteo scrivente [San Luigi] mentre si afferma ancora nel polso saldamente cubico del Santo, pure procede nel complesso delle forme verso la ritonda plasticità che si afferma lucidamente nella Madonna di Sant'Agostino (circa 1597). Qualche incertezza, infine, nella struttura del Bimbo, ci riporta anch'essa al periodo che ho voluto determinare.

Pagina 23

L'arte è contemporanea. Ovvero l'arte di vedere l'arte

266749
Sgarbi, Vittorio 2 occorrenze
  • 2012
  • Grandi Passaggi Bompiani
  • Milano
  • critica d'arte
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Il mondo di van Gogh è quello degli abbandonati, dei derelitti o, come ne La ronda dei carcerati, quello dei galeotti durante l’ora d’aria, sotto un muro che non ha confini, in un horror vacui che non ha spazio per il cielo, per la luce: muri che restituiscono immediatamente la sensazione di un interno di prigione da cui non è possibile fuggire. Personaggi anonimi, molti senza volto, assimilati ai mattoni: il colore con cui sono rappresentate le figure dei detenuti è il medesimo dei muri che gli stanno intorno, trattato con uno stile personalissimo, che nasce dal soggetto sgradevole, dal brutto e non dal bello.

Pagina 42

Avrebbe più senso destinare quelle risorse, peraltro scarse, al recupero di ciò che l’archeologia consente di ritrovare di Ercolano, di Pompei, dei siti abbandonati, e mettere in sicurezza quella ricchezza artistica latina, greca, fenicia, egizia il cui valore non è in discussione, che poi è la stessa che popola i musei, attirando masse di visitatori e non qualche sparuto manipolo di intellettuali. Avrebbe certamente più senso usare il denaro pubblico così, anziché per allestire mostre di Damien Hirst, che vende le sue opere per decine di milioni di euro.

Pagina 67

Ricette di Petronilla

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Moretti Foggia Della Rovere, Amalia 1 occorrenze

Son, le cozze, quelle conchiglie ovali e lunghe che son tenute sempre dalle alghe fra loro ammassate; che han valve di un color azzurro assai cupo, quasi nero; che vivono appiccicate ai pali e ai vecchi scafi abbandonati nel mare; e che, col variar dei paesi, hanno anche i vari nomi, oltre che di cozze, di mitili, di muscoli e di peoci.

Pagina 054

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 3 occorrenze

Abbandonati i bambini (la scuola) abbandonati i ragazzi (esonero dal tribunale). Questi distacchi, sì, come tagliare un cordone, interrompere certi contatti con la vita. Che nella grande città comunque si perdono. Un ritorno estivo, di villeggiatura, all'aria montana. Nativa. Per quel che vale l'aria nativa. Dicono molto, non so. Forse un'aria di montagna qualsiasi avrebbe la stessa efficacia. Se l'avrà. Pare che si possa soffrire di qualcosa come un rigetto da trapianto. Trapianto riuscito? Si torna ai luoghi. Con una breve deviazione, ci passo. Rione antico. Qualche residuo medioevale, bifore per lo più otturate in parte a mattoni, una finestruola a crociera cava e fumicosa come se dentro ci fosse stato un incendio, residui di tortiglioni lungo piccole facciate di pietra, le aperture dei bassi a sesto acuto sormontate da stemmi corrosi. I leoni duecenteschi all'ingresso di una chiesetta, il dorso lisciato ad avorio dalle cavalcate dei bambini. Rosoni e portali del romanico più tardo, con gli acanti smozzicati dal tempo e dalle sassaiole. Tutte le chiese a incastro fra vecchie case basse a portoncini e finestrine. Rione popolare. Le piazzette a catena dove giocano rincorrendosi e gridando torme di monelli sordi ai richiami delle donne. Il vocio che arrivava nella cappella del carcere. Attaccato al fianco della chiesa maggiore _ una fiancata poderosa _ lungo, anonimo, ridotto a muro qualsiasi. Era il convento. Aspetto comune, riadattato _ incongruo in cima al portone il campanile _ si capisce la destinazione dalla targa avvicinandosi a leggere. O se vi arriva il cellulare. In sosta qualche utilitaria del personale, macchine di visitatori. È l'ingresso per gli adulti. Dall'edificio non scaturisce un suono un rumore (tranne durante le rivolte dei detenuti, che salgono sui tetti buttando tegoli e riempiendo i dintorni di rottami e clamori). Più giù il cancello dei ragazzi. Si travede la breve bordura e dietro il reticolato cielo e montagne. Sempre tutto allo stesso posto, tutto uguale. È cambiata la dicitura: prigione scuola _ riformatorio giudiziario. Tornano prigione e riformatorio. La stradina laterale scende in forte pendio. Sul viale sottostante, ampio viale della città nuova, il retro del carcere risulta elevato altissimo oltre la muraglia recente del terrapieno, a non saperlo non si riconosce. Una facciata giallina sopra muri alti e sui muri un alto reticolato, rade finestre che figurano piccole dal basso, le inferriate sono comuni a certe vecchie costruzioni. Poco oltre il moderno Grand Hotel, bandiere e macchine straniere, turismo aperto dall'ardita autostrada che " ha rotto l'isolamento con un balzo di secoli." Dalla stampa. A proposito di situazioni secolari rimosse: è sparito il Gabelli. Non per grazia di Dio e volontà del Popolo, ci ha lavorato il tempo. Abbastanza indisturbato, bisogna dire. Comunque "fine della fabbrica dei delinquenti," annunciata dai giornali. Chiuso per inagibilità. Pericolo di crolli. Si è scritto: pareti senza quasi più intonaco, ricettacolo d'insetti e parassiti d'ogni specie, servizi igienici pressoché inesistenti, convivenza esplosiva (i rieducandi coi corrigendi e i giudiziari), feroci pestaggi collettivi sempre più frequenti e indomabili. Al limite di rottura. Il famigerato Gabelli e il fantomatico San Michele, appiccicati per un fianco come fratelli siamesi, colossale scheletro _ ancora spettacolo architettonico al turista _ in attesa di restauro. Maturato anche il bubbone dell'assistenza. Coinvolta una congerie di gente dal basso all'alto. Si rivela il numero pletorico di istituzioni, lo sterminato quanto infruttuoso sperpero del pubblico danaro. Scoperti abusi vergognosi, condizioni ignobili, trattamenti brutali. Alla ribalta laici e religiosi, megere e monache, le monache smonacate e i preti corrotti, autoiità ignave e speculatori privati. Sono venuti fuori davvero strumenti di tortura, catene manette sacchi di contenzione (moderni in plastica) e violenze sevizie morti, sparizioni di bambini, occultamento di cadaveri. La favola dell'Orco attualizzata. Non più il grosso ghiottone avido di carne tenera, ma l'aguzzino sadico. Lo sfregiatore dell'infanzia. I lager dei subnormali. Scandalo infame e infamante. Atrocità che si riteneva appartenessero al passato, quanto meno alla letteratura ottocentesca _ romantica _ gli squallidi mostri di Dickens hanno rivisto la luce. L'abitudine mercenaria genera indifferenza, 1 indifferenza genera crudeltà. Bambini rinchiusi nei gabinetti, a dormire legati per i piedi a due a due, assicurati con catene, sporchi di feci, docce gelate e privazione dell'acqua per non bagnare i letti, fustigazioni correttive. Discriminati, emarginati, esclusi, trattati come adulti colpevoli, peggio, come bestie da eliminare. Non c'è stata per loro nemmeno la Protezione Animali. La piaga dell'assistenza ha fatto bubbone, così gonfio da scoppiare, è scoppiato, rovesciando pus e sangue. Rabberciato, continuerà a suppurare. Non si è messo mano al bisturi. Nell'ambiente (casta) deplorazione con prudenza. Eccessi della stampa, gli sfrenati paparazzi a caccia. Episodi, casi sporadici, generalizzati dilatati fino all'inverosimiglianza. Si eccita l'opinione pubblica. Chiedono sempre le teste. La Giustizia deve pesare con la sua bilancia. Infallibile? Ben regolata. Strumento necessario. Strumento. Ancora nella letteratura e nel cinema di tutto il mondo ricorre il motivo traumatizzante dell'orfanotrofio e del riformatorio. Incontri. Se ne parla. Qualcuno a riposo. Asprezza dello stato di vecchiaia e di cessazione d'attività (esercizio del potere). È della gioventù contemporanea che si parla. Opinioni recise, a volte contraddittorie. L'assurdo voler abbattere tutto. Mai si potrebbe ricominciare da capo. Anche i vecchi miti e i tabù puntellano qualche cosa, anzi tengono in piedi i muri portanti. La libertà assoluta è un vuoto da riempire. Gli infelici figli dei fiori, gli amanti dell'" erba," i disperati della droga. (Gli allucinogeni, questa sorta di fantascienza psichica.) Contestano la tecnica e cercano _ o credono _ di tornare alla natura, con la reazione incoerente dell'incivilito senza scampo. O altrimenti distruggendo. Morte alla famiglia. E poi si constata la mancanza d'amore alla base di frustrazioni e turbe. La gioventù al potere? Il quarto stato? Ma come sempre al potere borghese li porterà l'età. La borghesia non è una classe sociale ma la vocazione dell'uomo medio. Succederà anche a loro, a quelli che ci arriveranno. Intanto la criminalità minorile assume caratteri spaventosi deliranti. Appena maggiorenni colpire a fondo. La pena di morte. Favorevoli. Graziare dalla pena di vita. La morte la morte... La fine dell'uomo, l'oscura morte, non si osa chiamarla grottesca, ma tale è quale la meritiamo. Fenomeno nuovo: il suicidio dei vecchi. E stragi. Le donne hanno un sesto senso di preveggenza: ammazzano tutti i figli e si uccidono con loro. È cominciato lo scoppio della follia collettiva. Apocalisse. Giudici giovani: suicidio dei bambini. In pochi anni si è abbassata in maniera allarmante l'età dei disadattati, degli irregolari. Vero è che la legge non ha mai stabilito un'età per il decreto di ricovero: da zero a diciotto anni, dimissione anche al ventunesimo. Ma ormai si drogano gli scolari delle elementari. Rubano, fuggono da casa, si prostituiscono, non ancora quattordicenni. Ma assai più preoccupante è la tentazione del suicidio, il male misterioso attaccato ai bambini. Una estrema forma di fuga. Per ragioni diverse _ situazioni familiari, intossicazioni emotive stravolgenti _ o senza una ragione comprensibile, sempre più bambini, i bambini che non vogliono vivere. Freudiano istinto di morte. (Un vecchio appunto: Classe millenovecentoquarantatré: la leva del pianto. Le bambine della prima generazione che "a quel tempo" non c'era. Non ne sanno niente, la loro memoria è al di qua. I loro problemi sono in un segreto di radici. Sembrano portare in sé da una coscienza prenatale il senso della morte. I personaggi del primo decennio: ruolo inconsapevole. A caratterizzarle tutte è il pianto. Ogni impressione la chiamano paura, ma risulta come un sottile piacere. Parlano molto, insistentemente, con una effusione continua irreprimibile. Raccontano a scuola i fatti di casa propria, dei vicini, del quartiere, della cronaca, disgrazie malattie morti _vanno sempre a vedere i morti _ come storie romanzate, quasi con entusiasmo. In un travaglio sentimentale non privo di compiacimento. Poi per un nonnulla si sciolgono in lacrime, lisce facili veloci lacrime di emotività nervosa. Non lasciano traccia negli occhi, come un lavaggio igienico. La bambina che l'ultimo giorno di scuola, quasi per un traboccamento d'amore, mi disse d'avermi sognata morta.) Impassibile, il potere autoritario centralizzato smista i casi ridotti a pratiche cartacee. Autorità chiusa, decisioni anonime burocratiche. E sempre sistemi minacciosi punitivi, coercizione segregazione isolamento. È la critica del giovane magistrato progressista. Occorre il giudice nuovo che si liberi della toga. Che non sia ne imparziale ne, per carità, neutrale. Soprattutto bisogna spogliarsi della neutralità come della toga, restare solo e unicamente il difensore del più debole, il protettore dell'indifeso. Siamo in pochi e guai ad avanzare proposte innovatrici. Bollate come arbitrarie. Sovvertitrici. A nostra volta veniamo isolati e frustrati, ostacolati nel lavoro. Non esiste gente più inutile e dannosa di quella arrivata allo stadio del quieto vivere. Guai attaccare il concetto di autorità, l'autorità è intoccabile. E abbiamo a che fare con materiale umano, ragazzi bambini, sempre più bambini. L'altra parte: tentativi di scardinamento. Teorie permissive indulgenti a tempi di permissività forsennata. Criticati i colleghi nuovi come gli studenti contestatori, definiti con le stesse espressioni. Questi giovanotti, gli hippies della magistratura... Inatteso invito a colazione. Al ristorante del Grand Hotel modernissimo. Il vecchio signore, in privato così timido irresoluto taciturno, mi pilota decisamente a un tavolo d'angolo contro la vetrata. Sala terrazza sul tetto, veduta panoramica. Invito a guardare _ da lui forestiero. Guardo sorpresa. Da un lato l'orizzonte in larga curva frastagliata dalle montagne, cime di sasso nudo d'un cinerino etereo, più giù azzurre e negli anfratti viola, le pendici ricciute di boschi, al fondo la linea ondulata del fiume segnato dalla massa verde cangiante di pioppi e salici in mezzo ai prati. Le costruzioni recenti, disordinate anonime _ che invaderanno _ è possibile per ora ignorarle, l'occhio le elimina spontaneamente. " Guardi. " Guardo. L'altro lato. Il corpo della città antica _ dietro sempre le montagne _ un addossarsi di tetti rossi rugginosi e il colore caldo della pietra secolare, emergono i campanili, qualche cupola, la torre medioevale. E facciate facciate di chiese, scoperte _ come se fossero state sistemate a scenario per uno spettacolo dal cielo col traforo nitido dei rosoni. "Vede?" Vedo. Molto suggestivo, non immaginavo. Lo stesso albergo è a incastro fra l'antico e il nuovo, attaccato a un muro di pietra, apre sul viale. Lo sguardo percorre da lontano a vicino, s'accosta, s'abbassa. Voci, movimento. A livello di qualche piano inferiore, ragazzi in pantaloncini e canottiera giocano al pallone. Appaiono come ravvicinati da un binocolo. Spiazzo recinto da reticolato alto, un campo di gioco pensile. Sembra appartenere all'albergo. "Si ricorda le reticelle per le lampadine?" Non capisco ancora, ma sì che ricordo, furono messe, dopo anni. Il vecchio signore sorride, mentre il cameriere aspetta riguardoso. Sono loro, già. Quello così vicino è proprio il convento carcerario. Il reticolato così alto, già. E quelli sono proprio i ragazzi. Dice: Perché non ci va? Ho dovuto vincere certe intime resistenze, non me n'ero resa conto. Eppure deviavo per passarci. La cancellata esterna aperta, ma a che scopo entrare, tutto ormai così lontano. Io estranea. Invece mi torna di colpo familiare e ancora c'è chi mi riconosce, un agente anziano si fa incontro. Manda ad avvertire. Il censore si presenta subito. Ossia no, l'educatore. Sa chi sono, ne ha sentito parlare, ha letto qualche cosa. Gentile, accogliente. Piuttosto giovane, piccolo magro, voce pacata, mite. Il luogo è sempre quello. Un decennio, ma per certi cambiamenti non basta il secolo. (L'istituto degli orfanelli buttato giù e ricostruito a grande elevazione e con marmi, siamo tutti milionari anche le povere monache _ pensionato studentesse paganti.) Il cancello intemo, lo schiavardamento. Si conta di togliere questa chiusura, è in progetto l'abolizione delle sbarre. Stesso cortile, imbnittito dalla loggia con le colonne incorporate da un'otturazione a mattoni. Tuttavia sembra meno tetro, è l'ora che ci arriva il sole, di striscio. Sempre in uso per la ricreazione, ma vi sono sparsi attrezzi da ginnastica. E hanno il campo di gioco. Pallacanestro pallavolo, con pallone vero, certo. L'educatore mi conduce nel suo ufficio. Parliamo. Domando. Risponde di buon grado ragguagliandomi. Sposato, tre bambini. Buona cosa avere figli propri. A proposito di bambini, e del silenzio, un silenzio che colpisce. Infatti sono pochi. Sono, per la precisione, al momento, diciannove. Tutti grandi, scontano una condanna o in attesa di giudizio. Prigione scuola, detenuti, soggetti a reclusione completa, si capisce. Non esiste più il problema della promiscuità e dello spazio, dacché è stato costruito il complesso pilota per l'istituto di osservazione. Moderno in ogni accorgimento, ridente, fiorito e alberato, gran spazio all'aperto. Ne esistono pochi, a elencarli _ richiesto _ gli avanzano le dita di una mano. Purtroppo quasi dovunque permangono la promiscuità e l'affollamento, in certe aree depresse viene tuttora sfruttata la manodopera minorile. Qui si è avuta la fortuna, il privilegio, qualche conterraneo in politica, insomma arrivato nella stanza dei bottoni o press'a poco. Domando dall'aula interna per il Tribunale. Smobilitata e utilizzata (adesso che lo spazio avanza). Le udienze si tengono fuori _ già, come prima _ al nuovo palazzo di Giustizia (mastodontico incombente _funzionale _chiamato subito il palazzaccio) qui è tutto troppo vecchio. Indecoroso, sì, per i giudici. Però molti miglioramenti, gabinetti docce, camerate rinnovate, refettorio con tavoli separati: se vuole vedere. Voglio vedere i ragazzi. (Vedrò nelle porticine mai aperte, cubicoli che ora ospitano secchi scope strofinacci. Gli agenti sempre dalla carriera carceraria _il direttore lo stesso del carcere _ma comincia ad arrivarne qualcuno giovane preparato ai corsi indetti dal ministero. Le ragazze? Come se non esistessero. Ah sì, il numero aumenta, fughe da casa. Aggregate alle adulte o negli istituti retri da monache, bisogna mandarle fuori. È cambiato tutto e non è cambiato niente. L'educatore espone idee innovatrici, un po' didascalico, con una leggera enfasi. La retorica, se così può chiamarsi, derivante dalle teorie avanzate che si studiano al biennio per il titolo di assistenti sociali . E comunque ricorrono ormai sulle bocche, se non altro, di tutti. Largamente insistentemente sulla stampa, nazionale e internazionale. Comprendere i giovani, mutare metodi sistemi (non il sistema) guardarsi dall'autoritarismo. La voce pacata mite. (Paternalismo?) Si attiene al generico. Ho l'impressione di non poterlo riportare su un terreno realistico, che non riuscirei facilmente a indurlo ad aprirsi, magari quei pertugi involontari così penetranti. Del resto non ci provo neppure, è solo una visita unica occasionale. Mi limito a qualche notizia, informazioni sul genere dei reati, dandomi io stessa le risposte: prevalgono sempre sesso e danaro. Lo ammette: le statistiche, sicuro. Sento che non si lascerebbe andare sulla propria situazione interna, i comuni fenomeni dell'isolamento e della convivenza tra maschi. (Quei cedimenti, in fondo compiaciuti, del censore che fra il dire e il non dire lasciava intendere e alla fine parlava.) Discrezione professionale, oppure ritegno di padre di famiglia, i tabù dell'adulto. O forse darebbe per sottinteso che anche certi problemi siano superati, in risoluzione? Non è da credere i ragazzi di oggi più trattabili ne davvero più continenti. Al contrario, hanno avuto fuori possibilità di esperienze vietate ai minori delle precedenti leve. Facilitato lo sfogo naturale e con maggiore naturalezza, coetanee consenzienti, le compagne di scuola che portano nella borsetta il preservativo. Necking e petting, frequentazione mercenaria, omosessualità di ripiego o d'elezione, marchette e pugnette: deve esserci qui dentro l'intero campionario. D'altronde tutte le pratiche sessuali, comprese quelle dette contronatura, sono antichissime, vecchie quanto l'uomo. Semen retentum venenum est. Con buona pace. Mi torna in mente la Mercedes targata Roma vista all'ingresso. Parenti, sì ne vengono. Visita per un minore, i genitori. Temo di aver disturbato. Posso star comoda, sono dal direttore. Effettivamente, statistiche alla mano, prevale ormai di molto il numero dei cittadini sui paesani, è cambiata anche la classe sociale, ceto alto. Questi della Mercedes, gente perbene, facoltosi industriali: la disgrazia li ha fulminati. Una sciagurata faccenda. Ebbene, ne hanno parlato abbondantemente i giornali, è noto, il caso della straniera quindicenne violentata a turno. In sei, appunto. Questo che abbiamo qui è uno dei sei. Ottimo ragazzo, comportamento ineccepibile, umiliato ha vergogna si apparta. Sa, le cattive compagnie, in gruppo sono capaci di tali eccessi... Si è lasciato trascinare, realmente lui il meno responsabile, coinvolto. Ma l'ha fatto? L'ha fatto. Sa come succede, spinto beffato, per non essere da meno.. Lo difende. Difende la Simiglia. Rinnegano la famiglia e la sostituiscono col gruppo. Il vagabondaggio ormai consiste nelle fughe da casa. La famiglia avrà le sue carenze, spesso inconsapevoli, le si attribuiscono colpe anche immeritatamente. C'è nell'aria qualche cosa... contestano tutto e tutti... (In sintonia con la situazione generale.) Le rivolte contro i padri e la loro generazione in blocco. Si è creata una condizione d'impotenza dei genitori, degli adulti, alla quale non si sa che contrapporre. L'umanità sembra essersi scatenata ed essi pure, i ragazzi. Il ladruncolo è diventato scippatore motorizzato rapinatore armato, le violenze carnali solitàrie sono diventate stupri collettivi. Gran furti di macchine. Da aggiungere politica e droga, i reati nuovi. Ascolto lo sfogo inatteso che ha spazzato l'ottimismo teorico dell'educatore. Ma si riprende: occorre aver fede, opporsi al dilagare, abbiamo la volontà e gli strumenti. Mi domando quali. Ho sentito il vocio. Sono a ricreazione in cortile. Andiamo. Aperto e richiuso il cancello, vedo che all'interno è staio decorato: lunette triangoli rombi cerchi, applicati sui ferri e verniciati a colori smaglianti. Irriconoscibile, non sembra lo stesso cancello. Fatto dai ragazzi. Decorazione pop. Come gusto all'educatore non piace. Ma sorride indulgente. Alcuni stanno agli attrezzi, correndo su e giù, saltando. Altri guardano. Non guardano noi. Appena qualche occhiata indifferente o blanda curiosità. (Se ricordo quella selvaggia di allora...) E anche l'aspetto è diverso. Il modo di vestire, di muoversi, la corporatura, come se appartenessero a una razza più sviluppata, capelli lunghi perfino alle spalle, spiccano due biondissimi. Viene un agente: chiamata dal direttore. Il chiamato si muove dall'angolo dove se ne stava solitario. Alla mia occhiata l'educatore annuisce. E lui. Passa senza salutare e senza volgersi. Piccolo bruno, ricci leggeri, viso gentile imberbe: la vecchia impressione d'un aspetto non corrispondente al reato. Sono io a far cenno, sentendomi quasi in fallo di disobbedienza. Ne arrivano. Di corsa o molleggiando, in pantaloni corti di tela, camicie aperte sul petto, torsi lisci freschi. Alti belli elastici, capigliature ondeggianti. Tutti con qualche cosa al collo, rosari bianchi (distribuiti dal cappellano), catene tese da medaglioni pesanti, simboli, le croci di chiodi neri, uno porta appeso un ciucciotto da neonato. Mi sembra di essere a Trinità dei Monti, fra gli hippies bivaccanti per la scalinata. Parecchi vengono infatti da Roma, ve n'è di torinesi e napoletani, i due biondi veneri. Circondano sorridenti senz'ombra di timidezza o d'imbarazzo. Anzi confidenziali. Non sono più i brutti e squallidi, le facce stralunate o ipocondriache, una sorta di misantropia senile. Forse qualcuna allucinata, droga? L'educatore senza il piglio autoritario, la grinta del censore. Non ce l'hanno con lui, non ne hanno paura. Si direbbero rovesciate le posizioni. Che abbiano paura quelli che prima la mettevano, cioè non propriamente invertite le parti, paura no, il potere è sempre dalla stessa parte, ma una tal qualw circospezione. Prudenza. Mi rendo conto di quello che è davvero cambiato: sono cambiati i ragazzi. Sento il passato così remoto. Nel frattempo il mondo si è precipitato, non si sa ancora bene se avanti o indietro. Ispeziono, dopo le facce, i muri,, come se mi aspettassi di ritrovarvi la scritta a carbone. Magari a vernice indelebile. (Per le strade dominano simboli e slogan di partito, in ribasso i soliti falli, comunque se ne vedono, ma evoluti nel disegno, stile Picasso Amori di Raffaello.) Facciamo l’amore non facciamo la guerra, sarebbe l’aggiornamento più ovvio. Oppure abbasso la guerra viva la guerriglia. Già, i politici, questa nuova specie. Hanno combattuto alle università, disselciato strade, usato catene, tubi di ferro, bottiglie molotov, le battaglie ideologiche. Questi non sono gl’infelici figli dei fiori, i disperati della droga, i delinquenti comuni, i fuorilegge passivi. Qui dentro, in definitiva, e per assurdo, forse i migliori, quelli ancora vivi, che non si lasciano solamente esistere. Qualche cosa si è smosso. Ed è terribile pensare che il rifiuto ma soprattutto la violenza facciano cambiare qualche cosa. La violenza. Come le doglie che via via sforzano e la risolutiva che spinge col sangue alla nascita. Da dove vengo? Prendono l’iniziativa, interrogano loro. Dove abito io e dove abitava l’interrogante. A Piazza Navona. Ride. Certe volte a Santa Maria in Trastevere. Dopo lo rimanderanno a casa. (Se ci resterà.) Mi rivolgo all’educatore: Posso fare qualche domanda? Anche lui sottovoce: Meglio no. Ai ragazzi: Andate a mangiare. Ne restano. E un piccolo napoletano dagli occhioni patetici me lo dice: Tentato omicidio. Può essere stata una rissa fra ragazzi o un fatto grave, scontri con la polizia. Non mi riesce, come essi apertamente, di disobbedire all’educatore. Sfugge la domanda stupida: che desiderano. Sono venuta a mani vuote. Sigarette, m’era balenato. Ignoro se sia permesso fumare lecitamente, di nascosto s’è sempre fatto, un tempo perfino foglia secca con carta di giornale, capaci oggi di procurarsi l’"erba". Ma che domanda stupida: desiderano la libertà e basta. Il napoletanino patetico: 'O mare. E gli altri scanzonati: Ci saluti Roma.

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Dal brefotrofio finiscono per andarsene quando le obbligano ad allattare anche quelli già abbandonati. Franco non ha che due freghi. Come lo chiamo alza la sua fronte di capretto e s'invermiglia. Vedo gli occhi lattiginosi dolci che ha, mi guarda finalmente in faccia. Nel quaderno la scrittura sbilenca va prendendo qualche forma. Impugna la penna ancora con tutte le dita, tenacissimo. Adopera meglio la sinistra. "Scrive proprio bene," dico all'aspirante accusatrice per quella sinistra. Come Leonardo. E lo sento per la prima volta ridere, fa un piccolo gorgoglio emozionato. Ride, Franchino, con una di quelle boccucce di latte a granitura minutissima che mandano in visibilio le madri.

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Vi sono monellucci che la famiglia senza risorse spinge all'accattonaggio, bambini abbandonati, ladruncoli, vagabondi, rissosi, i cosiddetti "generici". (Se si fa vedere qualche madre delle borgate è per piangere, se parlano è per lagnarsi con la monaca di questa maledizione dei figli, cercare a lei un sistema per abortire meno pericoloso del ficcarsi dentro un corpo estraneo.) C'è un calabresino bruno come un moretto, occhi neri dolcissimi, che il fratello maggiore fornì a Cosenza del biglietto ferroviario e spedì alla capitale contando che sarebbe stato fermato e messo in qualche posto a spese del governo: ebbe il tempo di godersi la capitale per qualche giorno. C'è la bambina che vide sgozzare la propria madre dall'uomo nero" e rimase coricata con la morta l'intera notte, la trovarono che cercava di scaldarle le mani. Una coppia d'indivisibili _ prima di qui non si conoscevano _ simpaticissimi. Vogliono fare i meccanici, come spesso ambiscono i ragazzi, e sembra questo ad accomunarli. Ma se pure si trattasse d'una indivisibilità di natura più intima, ebbene ? Due faccette serie, fruste, con pieghe dolorose, la patina dell'esperienza. Aspettano di essere destinati insieme a qualche istituto. (Ma si baderà a non separarli?, le assegnazioni sulla carta separano anche i fratelli.) Genitori all'ospedale, in carcere, morti. Uno ha detto con importanza: Mamma eia il cancro alle budella. L'altro, rimasto completamente solo, per mesi ha dormito dove capitava e provveduto al proprio sostentamento. C'è il ribelle disadattato irreversibile che coi mezzi comuni _qui senza mezzi _non si riesce a domare. Facile predirgli la galera, previsione dell'agente. Una faccia sbalestrata. Arretra divincolandosi e parando il braccio. Deve averne preso di botte. Si lascia infine toccare con un lungo fremito come una belva. È la terza volta che lo portano qui (ci ritrova il fratello e la sorellina con la bocca storta per una paresi), dai salesiani scappa. Gli domando perché. Menano col manganello. Attorno si ride. Sbaglia sempre, vorrebbe dire campanello. Gli davano sulla testa il campanello delle lezioni. Questi tipi scappano tutti dai salesiani, conferma la suora. La disciplina della comunità applicata di colpo deve risultare come una imposizione subitanea e incondizionata di virtù al gran peccatore. Anche le città i borghi dei ragazzi, superata la fase eroica del rastrellamento fra le macerie e dei capannoni a tettoia, costituiti a organizzazione regolamentata, escludono gl'irregolari, la loro collocazione resta l'ospedale la neuro il manicomio il reclusorio. L'" artista" si esibisce davanti all'ospite su un pezzo sgualcito di giornale, col mozzicone di matita traccia a segni rapidi e sicuri grosse teste sbilenche espressive. Sono avidi di carta, c'è gran consumo di giornali vecchi. Quello che crede di prepararsi all'esame d'ammissione _ ma non ha libri, gli fanno fare qualche cosa per tenerlo buono _si offre di leggermi un suo tema. E vuole mostrarmi la fotografìa di quando cantò alla Rupe Tarpea. (Be', non ce li hanno buttati.) In cinque o sei spostano i tavoli con fracasso, vi mettono sopra le panche, staccano dal muro foto accartocciate. È davvero lui al microfono. E gerite intorno, signore e signori, pezzi grossi. Ebbero un gran pranzo. Eh, dice rimirandosi, sono proprio io.. Ora è seminudo sporco irsuto. Non ce tengo, dice, a dove sta qua dentro uh piagnerei. Va e viene. Ci sta da sei mesi. Ebbero anche i pacchi dalla "moglie della Repubblica," insomma la Presidente. Un pacco per uno, ma c'era roba piccola, i calzoni non entravano, la maglietta a una coscia. Che si credevano, il brefotrofio. Domando perché si trova al San Michele. So' cattivo, mbè. Ma cede la sua spavalderia, gonfia gli occhi di lacrime e s'allontana. Questo mostruoso San Michele. Almeno separarli maschi e femmine. Nel putiferio che a tratti si scatena, suor Maria Elodia ripete che i maschi hanno già le veneree. Basterebbe intanto un semplice cambio: gli uffici ai cameroni tetri e i piccoli ai saloni degli uffici, vedrebbero il Tevere come un pezzo di mare. Certo, è solo uno scherzo. Sia l'agente che la monaca a sentirmelo dire hanno riso. Ma si sta provvedendo per iniziativa della questura. Sì, proprio la questura. Appello a tutta la cittadinanza abbiente. E l'istituto di osservazione al centro minorile? Risposte evasive, come se non si sapesse che è, il Gabelli viene sempre chiamato riformatorio. Bene, milioni se ne sono già raccolti. C'è stato il famoso ballo, ne parlarono le rubriche mondane. Mi si mostra il ritaglio di un diffuso quotidiano: civettuolo titolo "II ballo dei nastri," cronaca d'un "avvenimento mondano di memorabile eleganza" a totale beneficio della erigenda "Casa del fanciullo". Le vie della provvidenza sono infinite: questa forse, gira e rigira, alla fine arriverà.

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Il Marchese di Roccaverdina

662615
Capuana, Luigi 1 occorrenze

E colà, contadini e lavoranti si erano abbandonati a una frenesia di grida, di salti di gioia nel cortile, mentre i ragazzi si divertivano a pestare coi piedi nelle pozze e a sbruffarsi in faccia, l'uno a l'altro, l'acqua raccolta nelle palme. Ora, affacciati alle porte delle stanze a pianterreno, si davano spintoni per buttarsi fuori a vicenda a prendere un'insaccata di quella che veniva più fitta quasi la rovesciassero con gli orci. «Eh, ragazzi! ... Finitela!», gridò il marchese sporgendosi dal davanzale. Eppure tutta quell'allegria avrebbe dovuto fargli piacere! La pioggia tanto desiderata e tanto invocata, gli aveva messo addosso, al contrario, un senso di tristezza; gli scherzi dei ragazzi lo irritavano. Aveva ripetuto anche ultimamente a Zòsima: «Non piove! Vedete? Non piove», e la risposta di lei: «Non c'è fretta!», gli aveva fatto una cattiva impressione, che però si era subito dileguata appena ella aveva soggiunto: «Margitello non vi lascia pensare ad altro!». E ora che la pioggia era venuta, e che pioggia! ora che il solo lieve ostacolo frapposto tra loro due era già rimosso, egli non solamente non ne sentiva gioia, ma stava là, davanti a quella finestra, con gli occhi fissi su gli eucalitti grondanti acqua dai rami curvi e dalle lunghe vecchie foglie lavate dallo strato di polvere che le aveva fatte ingiallire e inaridire; stava là, con gli occhi fissi, quasi il sogno che avrebbe dovuto presto avverarsi si allontanasse rapidamente, ed egli non potesse far nulla per arrestarlo o richiamarlo. E quel senso di tristezza che gl'invadeva il cuore era tanto più penoso e vivo, quanto meno egli scorgesse occasioni e circostanze da doverlo indurre a pensare così. La casa, rinnovata, era pronta; il voto di Zòsima esaudito. Che altro gli occorreva di fare, all'infuori di andare a prendere lei per mano, condurla davanti al sindaco e poi davanti al parroco, in riprova del proverbio citato spesso dalla zia baronessa: Matrimoni e vescovati dal cielo son destinati? In quel momento però gli sembrava che la riprova, sì, sarebbe avvenuta, ma nel modo opposto a quel che egli credeva e si aspettavano tutti. E, appunto, quasi gli avesse letto nel pensiero, l'ingegnere gli diceva: «La signorina Mugnos dev'essere lietissima oggi. Per dire la verità, essa si merita la fortuna di diventare marchesa di Roccaverdina; ma credo che se qualcuno, mesi addietro, glielo avesse predetto, la signorina si sarebbe fatto il segno della santa croce, come suol dirsi, quasi per scacciare una tentazione.» «Forse ... anch'io!», disse il marchese. «Il mondo va così, per salti. Non c'è mai niente di sicuro per nessuno. Agrippina Solmo ... per esempio ... chi sa che cosa si era immaginato di dover raggiungere! ... Ed è finita, prima in un modo, poi moglie di un pecoraio di Modica, che forse le farà desiderare fin il pane ... » «No; anzi la tratta come una signora.» «Gliel'ha fatto scrivere lei? Brava ragazza!», continuò l'ingegnere. «Non è facile trovarne, nella sua condizione, una uguale. Qualunque altra, padrona, com'era qui lei, di ogni cosa, avrebbe pensato ai casi suoi, si sarebbe fatto il gruzzoletto. Essa, niente! Ammirevole anche per la modestia. Avea voluto rimanere quella che era, fin nell'apparenza. Non smise mai la mantellina, e avrebbe potuto portare, meglio di tant'altre, lo scialle che ora portano tutte le popolane, anche se più miserabili. E poi, bocca serrata! ... Anche dopo, quando non poteva più lusingarsi con nessuna speranza, mai, mai una parola di dispetto o di sdegno. Dinanzi a lei, il marchese di Roccaverdina era Dio! E se qualcuno, per commiserarla o per stuzzicarla e provocarla, le diceva: "Il marchese avrebbe dovuto comportarsi meglio con voi! ... E qua! ... E là!", sa come sono certe persone! essa non lo lasciava finir di parlare: "Il marchese ha fatto bene! Ha fatto più di quel che doveva! Dio solo glielo può rendere!". Me l'ha raccontato mia moglie, che l'ha sentito proprio con i suoi orecchi, senza esser vista ... Insomma, lei, marchese, è fortunato con le donne ... L'una meglio dell'altra! ... Se lo faccia dire dal notaio Mazza che cosa significhi incappar male!» Il marchese avrebbe voluto interromperlo subito, appena pronunciato il nome di Agrippina Solmo; ma, nella gran tristezza che gl'infondeva la pioggia, quello spiraglio sul passato aperto dalle parole dell'ingegnere, quell'evocazione inaspettata lo avevano un po' commosso, spingendolo a ricordare tante e tant'altre cose con lieve senso di rimpianto. Perché, infine, la colpa era stata tutta sua. Per vanità di casta, per premunirsi contro se stesso, egli aveva dato marito alla Solmo, con quel tirannico patto, senza punto riflettere alle sue possibili conseguenze. L'ingegnere, vedendo che il marchese taceva, e supponendo che gli accenni al passato gli fossero dispiaciuti, tratto di tasca un sigaro e accesolo, si era messo a fumare e a passeggiare per la stanza, stirandosi le fedine. Il marchese intanto, tenendo ancora fissi gli occhi su gli eucalitti grondanti d'acqua, rincorreva col pensiero una figura bianca, con le trecce nere sotto la mantellina di panno blu cupo; e rincorrendola per luoghi da lui visti anni addietro, tra casupole arrampicate a la roccia quasi ad accovacciarvisi al riparo del vento, sentiva un sordo impeto di gelosia diversa assai di quella sentita una volta ... Poteva forse dubitare ora? Poteva forse indignarsi? ... Non era egli stato contento che colei fosse andata ad abitare in quella lontana città mezza rannicchiata nell'insenatura di una roccia, in una di quelle casupole arrampicate su pei fianchi di essa quasi per accovacciarvisi al riparo del vento? E si voltò bruscamente verso l'ingegnere, che passeggiava su e giù col sigaro in bocca stirandosi le fedine, in atto di dirgli: «Ma perché mi avete rimestato nel petto queste ceneri ancora calde?». Come se la tristezza che lo aveva invaso gliel'avesse soffiata addosso colui, come se gli avesse messo lui sotto gli occhi la visione di Zòsima malinconicamente rassegnata e che diceva con voce dolente: «Non c'è fretta. Margitello non vi lascia pensare ad altro!». Ed era vero!

Racconti 2

662704
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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- Lo diceva senza malignità, forse; ma i contadini si sussurravano da un orecchio all'altro quelle parole, e guardavano in cagnesco il dottor La Bella che si prestava a dar la mano al pretore, al maresciallo, al parroco, quantunque confortati dal pensiero che il dottor Ficicchia non li avrebbe abbandonati. Una mattina però furono atterriti, apprendendo che il dottore e la sua signora erano partiti alla chetichella per Trizzitello, e avevano messo tanto di catenaccio alla porta di casa. Non c'era piú dubbio: quello era il segnale che il domani la macchina del veleno avrebbe cominciato a funzionare. Le autorità s'erano già messe d'accordo: un centinaio di morti, né uno di piú, né uno di meno! Il parroco, pover'uomo, aveva fatto quel che aveva potuto. Si riferivano le parole della discussione, quasi pretore, parroco e maresciallo avessero discusso in piazza alla presenza di tutti. Il piú accanito era stato il pretore, che avrebbe voluto almeno almeno dugento morti, scellerato! per ingraziars i il governo e ottenere una promozione. Al dottor La Bella venivano pagate dieci lire per morto. Almeno il dottor Ficicchia era scappato in campagna! Se n'era lavate le mani. Per fortuna del dottor Ficicchia, e piú del La Bella che passò dei brutti quarti d'ora, a Rammacca non avvenne neppure un solo caso di colera. E quando il dottore tornò in paese, dopo un paio di mesi di assenza, a coloro che gli rimproveravano la sua scappata, rispondeva con un sorrisetto malizioso, scrollando la testa, o brontolando fra' denti: - Se non me ne fossi andato! - E da lí a poco i contadini si ripeterono sotto voce: - Se non se ne fosse andato lui! - Si era saputo, di certa scienza, al solito, che all'ultimo il dottor La Bella non aveva voluto assumere da solo la responsabilità dell'eccidio, e per questo Rammacca non aveva avuto colera. Il dottor Ficicchia, scappando, aveva salvato il paese! Curando gratis a questo modo, il bravo dottore si fabbricò il palazzo, come diceva la sua signora, e allargò i limiti del fondo di Trizzitello, che divenne una tenuta. All'ultimo, fino il dottor La Bella dovette riconoscere che il suo avversario era piú furbo di lui; e per far bene i propri interessi, sposò una figliuola del collega, quantunque brutta e cieca di un occhio, e andò ad abitare nel palazzo insieme col suocero. Da quel giorno in poi però il dottor Ficicchia mutò registro nella sua condotta verso i contadini. Tutti i casi di malattia erano gravi: non si fidava di se stesso; suo genero ne sapeva piú di lui e lo mandava in sua vece. E col dottor La Bella non si canzonava; bisognava pagare, o le citazioni piovevano da tutte le parti quando i contadini non saldavano il conto delle visite. E se i clienti ricorrevano al suocero perché s'intromettesse, questi rispondeva secco secco: - Io non c'entro -. Solamente quando egli era convinto che non ci era proprio da cavare neppure un soldo dalle tasche d'un povero diavolo, riprendeva il metodo antico, e pareva concedesse una grazia, facendosi ricompensare il doppio al solito modo. Cosí c'era sempre qualcuno a Rammacca che, parlando del dottor Ficicchia, poteva ripetere come prima: - Almeno costui ci ammazza gratis! - Roma, 9@ 9 gennaio 1892@. 1892.

DISPERATAMENTE GIULIA

662788
Casati, Sveva 1 occorrenze

Giulia riconobbe il suo volto smarrito tra quei morti abbandonati e provò pietà per se stessa. Sapeva di sognare, sapeva che si sarebbe risvegliata, ma era certa che il suo stato d'animo, comunque, non sarebbe cambiato. Si svegliò. Albeggiava. Aveva le guance fredde e il naso gelido: l'estrema periferia dell'impero, come lei lo definiva, era un infallibile misuratore termico. Tolse un braccio da sotto la coperta di guanaco ed ebbe la conferma del freddo pungente. Usci dal letto con la memoria ancora piena dei morti del sogno, ma la certezza di avere sognato non le diede alcun sollievo. Saggiò con le mani il termosifone sotto la finestra: era freddo. Oddio, pensò, ci risiamo. Ogni inverno, al colmo del gelo, spieiata come il destino, la caldaia andava in tilt. La revisione autunnale non serviva. Quel maledetto aggeggio, nel momento meno opportuno, la tradiva. Si infilò la vestaglia, scese al piano terreno, entrò in cucina e affrontò la scala della cantina. Aveva i piedi intirizziti e una grande pena nel cuore come se tutto cospirasse contro di lei. Raggiunse lo stanzino della caldaia. Era una Vaillant murale, il meglio della tecnologia tedesca. Una fiammella azzurrina con venature rossastre guizzava nel fornello al centro del parallelepipedo di smalto bianco modulando una risposta beffarda ai suoi interrogativi. Il termostato era orientato sui ventidue gradi, la pressione dell'acqua era tra l'uno e il due, la valvola a farfalla per l'erogazione del gas era perfettamente aperta. Tutto era a posto, ma quel perfetto congegno teutonico non funzionava. Risalì in cucina. L'orologio elettrico sul frigorifero segnava le sette. Prima delle otto e mezzo non avrebbe trovato nessuno al centro assistenza per la manutenzione della caldaia. Ammesso che il centro fosse aperto. Era l'ultimo giorno dell'anno e tanta gente era in vacanza a godersi il lungo ponte di Natale. Giulia rabbrividì. Aprì il forno della cucina a gas e lo accese: era l'unica fonte di calore. La casa fredda le dava un senso di abbandono e vestiva d'angoscia la sua solitudine. Era la prima volta che affrontava da sola questo dramma domestico. Una volta c'era Leo, suo marito. L'inverno scorso c'era Giorgio, suo figlio, che con la vitalità dei suoi quattordici anni portava anche nelle situazioni più deprimenti un'ondata di speranza, ma cinque giorni prima il ragazzo era partito per il Galles. Giulia era proprio sola nella grande casa. Dalla strada, oltre il giardino, salì il gemito dell'avviamento di un'auto. Si sentivano passare le macchine sull'asfalto battuto dalla pioggia. Quel grigio albeggiare versava tristezza nella spaziosa cucina. Giulia si strinse addosso la vestaglia di un pallido azzurro, ma non ne trasse alcun calore. Si passò le dita sottili nella folta zazzera scura ricacciando indietro una ciocca ribelle che le scendeva sulla fronte. Decise di farsi un caffè. Poi, magari, avrebbe riletto l'ultimo capitolo del romanzo, del quale non era completamente soddisfatta. C'era qualcosa che non la convinceva. Dal forno veniva un tepore confortevole. Lavorare alla macchina da scrivere era sempre stata la sua medicina, un modo per non accorgersi del tempo che passa, il segreto per restare giovane e vitale. In questo modo, l'ora per chiamare il « caldaiaio » sarebbe venuta prima. Lontano, un imbecille mattiniero fece esplodere alcuni botti di Capodanno. Pensò, senza rallegrarsene, che la stupidità è inevitabile come la pioggia e il sole. Il caffè tostato all'americana, di un bei marrone dorato, spandeva intomo un aroma delicato. Lo versò in una lucente tazza di porcellana a fiori e cominciò a sorseggiarlo, bollente e amaro compera, guardando, fuori dall'ampia vetrata protetta da inferriate verdi, il giardino sfiorito dove i cespugli di rododendri, di azalee e di rose intristivano nell'aria già vecchia del giorno appena nato. L'ultimo giorno dell'anno o l'ultimo giorno del mondo? Giulia si sentiva percossa, sfilacciata e triste come il suo piccolo giardino. Scorse in quella desolazione i rametti scheletriti di un'ortensia che, smentendo la meteorologia e la stagione, stavano mettendo gemme. Quanto ottimismo, pensò con invidia. Lei non avrebbe messo gemme. Mai più. Viveva sensazioni indefinibili, isolata dal mondo e dai suoi stessi pensieri, posseduta da un'emozione intima e incomunicabile. Pensò che se ci fosse stato Giorgio si sarebbe sentita meglio, ma anche lui l'aveva piantata in asso, come la caldaia, sia pure con un preavviso di qualche settimana. « Sai, mammina (la chiamava sempre così quando voleva ottenere qualcosa), mi piacerebbe passare le vacanze di Natale dai Mattu », aveva cominciato a corteggiarla in novembre. I Mattu erano una giovane coppia di indiani con tré figli piccoli, vivevano a Swansea nel Galles e avevano ospitato il ragazzo l'estate precedente per un soggiorno di studio. Lui si era trovato benissimo. « Tesoro », aveva replicato Giulia con affettuosa ironia, « hai mai pensato che una vacanza in montagna, magari con tua madre, potrebbe essere più divertente e meno costosa? » Un mese o un secolo prima? Era comunque un tempo remotissimo in cui c'era ancora spazio per i progetti e la prospettiva di una vacanza sulla neve in compagnia del figlio le accendeva la fantasia e la faceva sentire giovane. Stava scrivendo il nuovo romanzo e viveva il dramma solitario ma eccitante dell'autore che non sa mai se riuscirà a portare a termine la storia che ha in mente. Il calore che usciva dal forno appannava le vetrate della cucina. Pensò con tenerezza a Giorgio che una volta aveva sorpreso a disegnare ingenue oscenità sul vapore rappreso e provò una gran voglia di sentire la voce del figlio. Abbandonò il tepore della cucina e affrontò il rigore del soggiorno per telefonargli. I tappeti color avorio che ricoprivano le mattonelle liberty erano morbidi ma freddi come la tappezzeria che simulava un muro tirato a stucco. Guardò il camino di marmo sovrastato da due candelieri e da una specchiera rettangolare chiusa nella cornice di noce scuro. Pensò che avrebbe potuto accenderlo. Sedette su uno dei due divanetti ricoperti di tela a grandi rose scarlatte su fondo verde e avorio, inforcò gli occhiali e cercò il numero degli amici di Swansea nella rubrica di pelle turchese, appoggiata, sul tavolino di cristallo, vicino a una grande e moderna abat-jour. Erano quasi le otto e Giulia sapeva che a quell'ora i Mattu erano in piedi. Le rispose la voce dolce di Salinda il cui volto, molto grazioso, Giulia aveva visto soltanto in fotografia. « Giorgio is sleeping », disse. « Ha fatto tardi ieri sera? » indagò Giulia sospettosa. « Soltanto mezzanotte », la tranquillizzò Salinda. « C'è stata una piccola festa tra ragazzi. » Giulia si sentì esclusa. Non ebbe neppure il coraggio di gridare che tirasse giù dal letto quel piccolo, sporco egoista, perdio! Prima d'allora non le era mai venuta in mente un'imprecazione di quel genere, per lei quasi una bestemmia, ma adesso, per la prima volta, sentiva irresistibile il desiderio di coinvolgere l'Onnipotente nelle sue questioni private, di coinvolgerlo con rabbia, rimproverandogli la sua latitanza o il suo accanimento. « Vuoi che lo svegli? » chiese Salinda, sempre dolce e comprensiva. « No », disse Giulia rassegnata. « Volevo sapere se è tutto a posto », mentì. In realtà voleva dirgli che stava al gelo, da sola, in quella vecchia casa senza qualcuno che le desse conforto, e che il gatto era finito sotto una macchina alcuni giorni prima pagando con la vita il suo primo anelito di libertà. Avrebbe voluto parlargli anche del dolore che si era annidato dentro di lei, ma nessuno dei due era pronto per quella confessione. E non poteva certamente dirgli che proprio oggi, ultimo giorno dell'anno, doveva andare a Modena, al cimitero, per assistere all'esumazione del nonno. « Davvero, Salinda, va bene così. » « Se vuoi ti faccio chiamare appena si sveglia », propose la giovane indiana che, sempre nella foto scattata da Giorgio l'estate prima, aveva l'aria di una casalinga appagata. « Vi chiamo io a mezzanotte per augurarvi buon anno », tagliò corto. « Abbracciami Giorgio. E ancora grazie. » Riattaccò rifugiandosi nel tepore della cucina. Il freddo le era penetrato fin dentro le ossa. Pensò al nonno, a quello che restava di lui e sorrise al ricordo di quel principe dell'avventura. Il comune di Modena aveva mandato a lei, a sua sorella Isabella e a suo fratello Benny, che mascherava sotto un ridicolo diminutivo il nome scomodo di Benito, una comunicazione firmata da! sindaco: le reliquie di Ubaldo Milkovich sarebbero state collocate in un ossario perenne per onorare la memoria del partigiano Gufo, figura di spicco dell'antifascismo, eroe della Resistenza. Giulia si era ripromessa di partire verso le undici per essere sicura di non mancare all'appuntamento fissato per le due del pomeriggio, ma adesso, con il problema della caldaia, sarebbe riuscita a rispettare il programma? L'orologio elettrico sul frigorifero segnava le otto. Tentò di mettersi in contatto con il tecnico della manutenzione. Si immerse nuovamente nel gelo del soggiorno, alzò la cornetta e si accorse che qualcosa non funzionava nel ricevitore. Invece del segnale consueto sentiva un suono gracchiante, fastidiosissimo. Premette ripetutamente il meccanismo del contatto, provò a formare un numero sulla tastiera e al suono gracchiante si sovrappose il segnale di occupato. Depose il ricevitore e guardò la graziosa sveglia poggiata sul piano di cristallo sostenuto da un basamento a tamburo di legno istoriato e dorato: erano le otto e cinque. Che la dolce Salinda avesse riagganciato male il suo apparecchio, lassù nel Galles? Alzò di nuovo il ricevitore e questa volta l'apparecchio non diede alcun suono. Adesso era chiaro che anche il telefono era andato in tilt, mentre lei aveva un disperato bisogno di comunicare con il mondo. Se alle otto e mezzo in punto non si fosse messa in contatto con i tecnici rischiava di perdere la possibilità di farli venire in giornata. Salì velocemente la scala e tornò in camera da letto, un ambiente molto intimo che amava particolarmente, sui toni pastello del rosa, celeste e grigio perla. Lampade di porcellana chiara, dai paralumi rosati, poggiate sui piccoli cassettoni gemelli, ai lati del letto, diffondevano una luce garbata che accarezzava due poltroncine in stile settecento veneziano. Alle pareti, un crocefisso ligneo e una serie di immaginette sacre ottocentesche in cornici dorate. Giulia evitò di guardare il Cristo dal quale si sentiva ingiustamente abbandonata. Si vestì velocemente. Nell'ingresso infilò un vecchio cappotto di montone e uscì. Attraversò la via Tiepolo facendo lo slalom tra pozzanghere e auto, incurante della pioggia che continuava a cadere. Entrò in un bar tabacchi con l'insegna del telefono pubblico. Un marocchino armato di zelo e di uno straccio sudicio affrontava coraggiosamente un pavimento maltrattato da centinaia di scarpe, ma sembrava destinato a una clamorosa sconfitta. Giulia si avvicinò alla cassa dietro la quale troneggiava una giovane donna che aveva tutta l'aria di essere lì per sbaglio, mentre avrebbe dovuto trovarsi su un aereo per le Maldive. Era di cattivo umore e si vedeva. « Dica », l'aggredì la tabaccala guardando la cliente infreddolita come se fosse una chiazza d'unto sul suo vestito migliore. Un gettone », disse Giulia impaziente allungando duecento lire. « Fuori servizio », sentenziò la tabaccala alludendo al telefono pubblico. « Ma io devo assolutamente telefonare », insistè Giulia sull'orlo della disperazione. « Fuori servizio », ripetè fredda e spieiata come un cobra; quindi si rivolse a un paio di clienti che erano entrati e chiedevano un cappuccino. « Non potrebbe farmi usare il suo? » domandò supplichevole. « Quello lì », soggiunse indicando l'apparecchio accanto alla cassa. « Privato », la gelò senza guardarla, continuando a scambiare sigarette e caffè con danaro contante. « Tabaccala di schifo », scattò Giulia, « città di schifo, gente di schifo, mondo di schifo », gridò coinvolgendo irrazionalmente l'universo intero. Riattraversò il locale sotto gli occhi sbigottiti dei clienti, il silenzioso stupore della tabaccala, l'ingenuo sorriso solidale del marocchino. SÌ diresse quasi di corsa verso il bar latteria di piazza Novelli dove Giorgio e i suoi amici dissipavano la paghetta settimanale in merendine, Coca-Cola e juke-box. Il telefono c'era e funzionava. Giulia compose il numero del tecnico che conosceva a memoria. « Sono Giulia de Blasco », fece appena in tempo a dire all'addetto che aveva risposto all'altro capo del filo. Poi scoppiò in lacrime. Seminascosta fra cassette di birra, Coca-Cola e uno scaffale pieno di pasta e biscotti, nell'odore dolciastro di segatura bagnata, stringendo la cornetta lercia di un telefono pubblico, Giulia pianse senza ritegno. Pianse sulla sua vita sbagliata, sul suo matrimonio fallito, pianse perché anche suo figlio l'aveva lasciata sola, perché quel giorno doveva assistere all'esumazione delle reliquie del nonno Ubaldo. Pianse perché aveva la casa gelida, perché il telefono non funzionava, pianse perché a quarant'anni s'era innamorata come una ragazzina, ma soprattutto pianse perché lei stessa era andata in tilt. Qualcosa nella mirabile costellazione del suo organismo si era inceppato. Le cellule di un nodulo al seno prelevato un mese prima non erano del tipo regolamentare. Erano di quelle che continuano a ripetersi senza fermarsi mai. Come un interruttore che si accende e non si spegne più. Quel giorno accidioso di dicembre Giulia piangeva per molte cose, ma soprattutto perché aveva un cancro.

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 1 occorrenze

Non pochi di coloro che creano siffatti sventurati compongono la cosi detta buona società e se conoscono gli allevatori dei loro bambini si recano da essi con istrani infingimenti per portar ai figli abbandonati qualche dolciume: ma la loro riputazione non dev'essere offuscata, ma la loro tranquillità domestica non dev'essere turbata ... guai se il padre, la madre, lo zio, la zia risapessero questo errore, sarebbero capaci di diseredare chi l'ha commesso, e allora! Epperò voi, poveri bambini, soffrite, crescete incolpevolmente spregiati e quando la negligenza sociale e la snaturatezza dei vostri genitori vi hanno indirizzati e quasi dannati al male, allora soltanto la società vi teme, lo statista vi scerne fra la turba multiforme dei delinquenti e nota: "Pur troppo anche in questo anno dei condannati per delitti comuni il maggiore contingente è fornito dai trovatelli. È questa una piaga alla quale conviene che la società ponga un rimedio provvidenziale ed efficace." Ma intanto chi soffre e lo statista volta la pagina per fare altri calcoli. La sua voce est tamquam vox clamantis in deserto. Qualche volta il gettatello si vendica dei suoi snaturati genitori a misura di carbone. Allorchè dopo aver composte le cose loro secondo le ipocrite norme delle convenienze sociali, il padre o la madre, ricordandosi di aver fatto consegnare il proprio figlio al Brefotrofio ne fanno ricerca, il figlio al vedere i proprii genitori, vinto dalla gratitudine per chi l'ha allevato, rifiuta e il nuovo nome e la nuova condizione che gli viene offerta, protestando che giacchè è rimasto per anni molti senza che da' suoi sia stato riconosciuto, oggi si crede in diritto di non voler egli riconoscere i suoi. Atroce eppure nobile vendetta che priva il padre e la madre dell'affetto de' proprii figliuoli. Ma non è qui il luogo di far degli sfoghi siano pure ragionevoli contro una Società generalmente corrotta e senza cuore. Ripigliamo in quella vece la nostra archeologia statistica, la quale ci può insegnare ancora oggi qualche cosa. Nel giorno del censimento del 1871 i bambini illegittimi nati vivi furono 1105, dei quali 224 videro la luce nel Brefotrofio provinciale, istituto che nel solo 1874 accolse 2375 infanti. Questa numerosa famiglia darà più tardi i 350 giovanetti da ricoverarsi nel Riformatorio di Parabiago, i 150 adulti da rifugiare nell'ospizio del Patronato, e la maggior parte di coloro che popoleranno le 762 segrete del carcere cellulare. Sono dati vecchi, ai quali gioverà contrapporre i recentissimi pubblicati al pari di quelli dal dottor Romolo Griffini, direttore del Brefotrofio di Milano. "Nell'anno 1881, scrive il Griffini in una sua accurata relazione, si raccolsero nel Brefotrofio 1408 infanti di primo ingresso, contro 1389 entrati nel 1880. Ne risultò pel 1881 un aumento di 19 infanti. Quanto al sesso, i nuovi entrati si distinguono in 728 maschi e 680 femmine. Prevale, come generalmente suole, il sesso forte, e quest'anno in ambe le categorie dei legittimi, e degli illegittimi, poichè sopra 354 legittimi si hanno 185 maschi e 169 femmine, e sopra 1051 illegittimi, 543 maschi e 511 femmine." E volete sapere quanti erano nel 1881 i disgraziati componenti la famiglia a cui l'Ospizio provinciale di Milano ha dovuto provvedere? 8439. Quanti dolori! C'è da inorridire. E siamo sull'aumentare. Come si provveda poi a questi infelici è bello tacere. Nessuno ne ha colpa, poichè la istituzione del Brefotrofio è organizzata, retta da norme non facilmente mutabili e da consuetudini che tengono veci di leggi. E poi la burocrazia non è la Provvidenza. Gli esposti vengono quasi tutti affidati ad allevatori abitanti in campagna. Si conta un po' sulla moralità e sul buon cuore dei campagnuoli. E anche per vero dire molti di questi hanno meno pregiudizii dei cittadini. Nel bambino quelli non vedono il bastardo, vedono il disgraziato e se lo tengono caro. È una specie di buon augurio per la famiglia che lo ricetta e lo nutre. Il compenso che paga l'Ospizio non è sempre allettamento sufficiente per indurre una famiglia ad assumersi la cura di allevare un figliuolo che sul fiore dell' età può essere richiesto e portato via da chi l'ha messo al mondo. Vi sono pure dei bambini che per la loro bellezza attraggono gli allevatori, ma ve ne sono di quelli che sono male aggraziati, o brutti, o infermicci, o colle membra contorte e rattrappite e, poveretti, non sono voluti da nessuno. Fino a pochi anni or sono per una vecchia consuetudine si provvedeva al loro collocamento in questo deplorevole modo. Quando la Direzione dell'Ospizio da sicure informazioni era fatta certa che in un determinato circondario di campagna v'erano parecchie famiglie, che avrebbero assunto l'allevamento di alcuni trovatelli ne caricava qualche dozzina sopra un carretto e li inviava al comune indicato. All'arrivo dell'infelice convoglio si dava nella nota campana esattoriale; i terrieri convenivano sulla piazza e incominciava la scelta dei bambini. Tolti i più belli o i meno brutti restavano coloro, ai quali insieme colle altre sventure toccava pure l'umiliazione d'essere rifiutati. Chi ha appena un po' di cuore pensi quali sentimenti in quel punto dovevano germinare negli animi di quei disgraziati fanciulli. Allora l'agente dell'Ospizio, che voleva ritornarsene col carro vuoto, andava sollecitando or l'uno or l'altro dei contadini presenti a prendersi o questo o quel bambino quantunque storpio o deforme, chè l'Ospizio provvedeva per essi al pagamento di una ragguardevole ricompensa all'allevatore. E così a stento e a fatica tutti i bambini venivano accolti nelle case dei contadini e quindi dopo un secondo rifiuto s'affacciavano alla vita di famiglia paurosi, sapendo di esservi appena tollerati. Altro che notare nelle statistiche penali che il numero maggiore dei delinquenti è fornito dagli Esposti! Non è loro colpa se questi bambini crescono male. L'illustre prof. Dott. Edoardo Porro nel suo lavoro che risguarda ??il biennio 1869-70 alla maternità di Milano a pagina 266, parla della sorte che attende gl'infelici che hanno culla nell'Ospizio, " i quali sovente hanno per sopraggiunta la sventura di perdere nascendo la propria madre. La quale nell'istante di dare alla luce il suo bambino è tormentata da gravi dolori non solo fisici, ma anche morali; pensando, come dice il Porro, che la sua creatura troverassi isolata e reietta dalla società, dannata ad un Brefotrofio e ad un allevamento poco dissimile da quello dei bruti. Chi ha pratica delle maternità, ed in ispecie di quella di Milano, non troverà esagerate queste parole. " Oggi le condizioni dei ricoverati da quest'Istituto debbono essere un cotal poco mutate, grazie alla benefica influenza delle persone che ora lo dirigono. Un forte sentimento di pietà si ridesta in ogni animo bennato alla vista di un povero gettatello. E il Giusti, descrivendo scherzosamente un suo viaggio a Montecatini, osservando uno di questi sventurati bambini, sente dentro il suo cuore vibrare a un tratto la corda del dolore e però esce in un volo lirico, degno d'essere riletto. Accanto a me dal lato delle brenne, Una povera donna montanina, Lieta recava al petto un trovatello. Preso là nel buglione, ove s'insacca Dal matrimonio e dallo stupro a gara O legittima o no l'umana carne. Oh benedetta, miseri innocenti, La pubblica pietà che vi ricovra Nudi, piangenti, abbandonati! A voi il casto grembo della cara madre. E del tetto paterno il santo asilo, Che dà l'essere intero, e dolcemente L'animo leva a dignità di vita, Error, vergogna delitto e miseria Chiuse per sempre! Crescerete soli, Soli all'affetto e mal securi in terra; Al disonor di genitori ignoti, Come la pianta che non ha radice, Maledicendo ....... Poveretti, quant'era meglio per essi il non nascere!

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Racconti, leggende e ricordi della vita italiana (1856-1857)

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D'Azeglio, Massimo 1 occorrenze

Cosí le cose mie, anzi le nostre, vanno bene; i miei aderenti, che sanno di non essere abbandonati nel pericolo, ridono sul viso di chi crede spaventarli colle smargiassate, e cosí, facendo tutti una famiglia, si campa; e, coll'aiuto del Signore, si camperà dell'altro. Gliel'ho detto, signor lettore, che ce n'era pur uno de' sillogismi che non aveva bisogno di cura! Questo, se non sbaglio, sta come un Cesare, e per lui non occorre trattato patologico; ma siamo finalmente d'accordo che molto occorrerebbe per gli altri. Dunque lo scriva! dice lei. Oh! qui lo volevo! Fossi matto a perderci il tempo! Sarebbe lo stesso come prender la cura d'una bella signora, di quelle piene di grilli, di convulsioni, fatte a modo loro, che ogni giorno n'hanno una nuova, e non fanno mai un rimedio ragionevole, né tengono un minuto un regime che abbia buon senso: ed in conclusione fanno impazzare il medico, e per contentino gli danno dell'asino e lo mettono fuor dell'uscio per ricompensa. Veda che bell'occupazione vorrebbe che m'accollassi! Scartiamo dunque anche quest'argomento e lasciamolo a chi ha tempo da battere e campa d'entrata. Un terzo me n'avevano suggerito, ma si va di male in peggio. Volevano che me la pigliassi, nientemeno, con un apostolo! Un apostolo francese che, non saranno sei mesi, ha pubblicato un libro, del quale ora mi sfugge il titolo, ma, per quanto mi pare, dal suo contesto dovrebbe essere: Correzioni ed eccezioni al Vangelo... qualche cosa di simile. Non sa di chi voglia parlare? Che vuole? non ho proprio la memoria de' nomi; ma il nome non ci ha che fare: e siccome la memoria delle idee e del loro senso l'ho discretamente, è un momento a dargliene un sunto. Ecco qua. Ella sa che ogni cristiano crede che siamo tutti figliuoli dell'istesso padre, ricomprati tutti all'istesso prezzo, e che perciò le anime nostre, sien esse rinchiuse nella spoglia d'un principe, come in quella d'un mendico, tutte, senza eccezione di climi, di lingua, di colore, abbiano agli occhi del Creatore il valore e l'importanza medesima. Tutti credevamo cosí, e questa fede ci pareva trovarla scolpita in ogni pagina del Vangelo. Che vuol che gli dica? Pare che ora la cosa diventi per lo meno molto dubbia, a dar retta al suddetto apostolo... e, alla fine, anche lui, subito che è apostolo, ha diritto di parlare, ed avrà i suoi motivi. Ecco dunque invece come starebbe la cosa. Resterebbe sempre vero che la fede nostra è fondata sopra un riscatto, del quale siamo tutti partecipi; ma parrebbe necessario, onde questa fede potesse vivere, mantenersi e prosperare, che una frazione dell'umanità... poca cosa, badi! tre milioni d'uomini circa... si spogliassero, o piuttosto venissero spogliati dai loro fratelli di quest'eredità comune. Parrebbe - sempre secondo l'apostolo - che a tutti i cristiani si debba far giustizia ed usar carità indistintamente, e siccome ad usar questa carità e questa giustizia omo per omo è affare lungo ed incerto, perciò si sono inventate leggi uguali per tutti, appunto per prenderceli sotto tutti indistintamente: onde si può dire che questo complesso di leggi essendo ciò che con un solo vocabolo si chiama un governo, ne venga per conseguenza che l'espressione piú estesa, anzi piú completa ed assoluta della giustizia e della carità evangelica sia su questa terra un buon governo. L'apostolo dice dunque che a questo buon governo tutti i cristiani hanno diritto, e, secondo lui, nel buon governo articolo principale v'è il poter dire quel che si pensa ed anche scriverlo, se si vuole, senza che nessuno vi si metta tra' piedi: ed anzi, siccome pare che nel suo paese gli abbiano voluto misurar la chiacchiera ed accordarne un tanto per uno, una porzione competente che ci si possa campare - perché dice che là a non aver questo sfogo si muore - ma non di piú, e non permettere che la gente se ne prenda quanta vuole, bisogna sentirlo, l'apostolo, che razza di coroncina sfila a chi ha stabilito una tale misura! Ma questo lasciamolo da parte. Dunque, ad un'applicazione completa delle massime evangeliche, detta altrimenti un buon governo, tutti hanno diritto, salvo questi tali tre milioni. E, siccome il Vangelo non fa questa riserva, qui sta il bello del libro, che dovrebb'essere intitolato: Correzioni, ecc. come ho detto dianzi. Oh! perché mi vuol ella stabilire questi iloti nella cristianità? Badi, non son io che voglio; io non voglio nulla; è l'apostolo francese: e la ragione che ne dà a certuni pare fondata su uno di quei tali sillogismi che hanno bisogno del medico. Dicono, per esempio, che ammettendo pure la necessità di fondare questa fede sulla collottola di tre milioni di tribolati, la giustizia vorrebbe almeno che i 150 o 200 milioni d'uomini della medesima opinione che sono pel mondo si dividessero per tre, si dessero la muta, efacessero un po' per uno a portar in collo questa fede e le sue necessità - all'incirca come nei reggimenti si dividono fra i soldati i tours de corvée. Dicono altresí che per mantenere nel rimanente del globo questa fede col suddetto mezzo, che cosa succede? Succede che se prospera fra gli altri, muore etica presso que' tali tre milioni; perché, invece di far una traduzione libera del famoso Moriamur pro rege nostro, cc. de' Magiari, e mettervi fide nvece di rege, andano a far benedire la fede e chi le vuol bene, e pur troppo tutt'in un fascio il suo primo autore, e questo è il frutto piú spiccio di quella bella combinazione. Insomma ne dicono molte. Ma, ripeto, quando un apostolo parla deve avere i suoi motivi. Egli dice che il capo della fede ha bisogno d'esser libero di insegnare al mondo e guidarlo colla voce e coll'esempio. Cioé, deve potergli dire senza sindacati: ?Signori, questa è la teoria e questa è la pratica, prova che la teoria è buona!? e s'appoggia al seguente sillogismo, quello appunto nel quale parecchi vedrebbero la crittogama: - Una teoria buona, dopo una lunga e libera applicazione, deve produrre effetti buoni. Questi tre milioni (piú o meno) d'uomini, dopo una prova d'un migliaio d'anni, durante i quali l'esperienza s'è fatta colla maggior somma di autorità che si possa immaginare, quella cioé che obbliga egualmente l'anima ed il corpo; dopo questi dieci secoli, dico, i detti tre milioni sono riusciti i piú infelici, i piú corrotti, i piú rovinati di tutta l'umanità civile; dunque bisogna mantenerli come sono, onde il loro padrone possa esser libero di dire al mondo: - La mia teoria è la migliore di tutte; - e mostrarli come un esempio da invogliare chi non ne avesse assaggiato. Ora, questo sillogismo sarà sano, sarà ammalato; io non lo so e non lo voglio sapere. Se è sano, prosit; e è ammalato, vada pel medico; ma non lo prendo in cura io, perdio! Fosse aver da fare cogli apostoli d'una volta - Dio li benedica! - con loro si poteva discorrere. Chi li mandava, aveva loro date le istruzioni, come si fa sempre, ed in queste istruzioni - ancora ci devono essere in archivio - era detto che vedessero di persuadere la gente colle buone, e si preparassero ad esserne mal ricevuti e soffrirne di tutte le razze; a non dovessero opporre altre difese fuorché la pazienza e la dolcezza, perché trattandosi di persuadere e non di usar violenza, ci voleva mansuetudine e non livore; ma ora pare che abbiano domandate nuove istruzioni, che le abbiano ricevute e che ci sia - è vero che nessuno le ha vedute le nuove - tutt'un'altra canzone; che ci sia detto chiaro e tondo: - Tutte quelle dolcezze erano buone finché stavate fuor dell'uscio e bisognava farvi aprire: ma ora che v'hanno aperto e siete entrati, e, si può dire, siete diventati di casa, mutate registro; e il primo che vi guarda di traverso, mettetelo fuor dell'uscio lui; e non basta: dategli dietro e pigliatelo a sassi, e aizzategli addosso bestie e cristiani, senza lasciargli un'ora di bene, neppure quando sia nella bara, ecc., ecc. Un po' po' di bagattella! e vorrebbero che io me la pigliassi coll'apostolo! Io m'ingegnerò di campare, e campare in pace se piace a Dio, e di questi gatti a pelare non me ne piglio. Dunque? È mezz'ora che si discorre, ed un nuovo argomento da trattare ancora non è scappato fuori! Vuol che gliela dica? Nelle malattie del mondo, come in quelle degli uomini, ci son certe epoche dove a voler scrivere ricette, e dar ampolle e rimedi, si fa peggio. La meglio dunque è star zitto, o parlare di scioccherie senza conclusione. Via via, avevo cominciato dicendo che il mio solito argomento doveva venire oramai a noia, e invece, d'una parola in un'altra, che cosa si viene a scoprire? Sissignore; si viene a scoprire che l'uomo della situazione è il sor Checco Tozzi.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Prega l'Addolorata e abbi davanti che nelle nostre afflizioni Dio è presente: anzi, non è mai cosí vicino a noi, come quando ci sembra che ci abbia abbandonati. Il tuo Giacomo. Mai filosofo s'era abbassato tanto, fino a invocare in suo aiuto il nome della Madonna addolorata! mai sapiente s'era tanto rimpicciolito per farsi perdonare il peccato d'esistere! Ma è pur forza riconoscere che dovendo parlare ad un'umile creatura della terra, poco gli potevano servire le ingegnose argomentazioni degli stoici e i sillogismi della coerenza scientifica. La bontà ha questo di superiore, che non disdegna, quando occorre, di essere irragionevole e incoerente. Il cuore ha detto un filosofo corazzato di matematica, ha delle dimensioni e delle ragioni, che la ragione non conosce. Fu questo medesimo sentimento di umile convinzione, che lo persuase qualche giorno dopo a scrivere alla contessa Magnenzio una lettera, che egli considerò quasi come il suo testamento morale: "Mio zio - le diceva - mi ha fatto sapere che la S. V. Ill. desidera avere da me una parola che le manifesti i miei sentimenti e i miei propositi di fronte ai fatali avvenimenti che hanno colpito la mia povera esistenza. Sarebbe ormai un vano orgoglio per parte mia, se volessi opporre un glaciale silenzio alle domande angosciose di una madre, che per antiche ragioni ho l'obbligo di riverire, e che la comune sventura rende oggi agli occhi miei ancora piú degna di rispetto. Mi pare che le mie stesse sofferenze vadano rimpicciolendosi come ghiaccio che si scioglie in un'acqua mortale e profonda. Non sarò mortodel tutto, ma sento il freddo della morte salire da tutte le parti e circondarmi il cuore. Ho scritto a Celestina parole, che mi uscirono spontanee, ma che non saprei ripetere per paura di me stesso, come non ho saputo rileggerle al momento che mi sgorgavano dalla penna, mentre una nuvola pregna di lagrime circondava la mia testa. Se mi lascio trascinare da qualche atto che ha apparenza di perdono, non mi lodi come di una prova di forza morale; ma consideri quel che faccio e quel che dico come la conseguenza dello stato di atonia e d'incapacità, in cui sono ridotto da questi mali troppo crudeli. Credo che anche il mio povero cervello non sia in grado di connettere e di formulare gli elementi di una risoluzione. Come un vinto ferito a morte, accetto tutti i patti e tutte le catene nella convinzione che l'umiliazione non potrà durar molto, e che io non potrò vederne la fine. Non posso non volere io solo e per un inutile intento ciò che è desiderio di tutti quelli che mi vogliono bene. Avrei troppo poco rispetto e troppa poca pietà verso i miei stessi dolori, se respingessi con insolente asprezza la carità di questa medicina. Ho accettato un umile posto provvisorio a Pallanza, dove mi recherò subito dopo le feste di Natale. Avrei voluto partir subito, se di tempo in tempo un resto di febbre non mi avvertisse di usare prudenza, e mi curo non per troppa voglia di guarire, ma per il timore di rimanere troppo tempo invalido a consumare la carità di questa povera mia gente, che non posso sacrificare al mio risentimento. Al mio disinganno basto io, e bene ho fatto a sacrificargli tutte le illusioni, che andavo raccogliendo in un fascio di carte, a cui non potevo piú credere. Perché avrei pubblicato le menzogne di un sogno? Se la cenere è tutto quello che resta in fondo di ogni verità, tanto fa non credere alla fiamma .". - E mentre scriveva queste parole, si compiaceva di carezzare il presentimento che l'eccesso del patimento l'avrebbe presto dispensato dal cercar altre ragioni, riducendolo all'ultima, che comprende tutte le altre.

La morte dell'amore

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De Roberto, Federico 1 occorrenze

Se ella dunque vuol sapere da me in qual modo questa pena estrema dei traditi e degli abbandonati guarisce, già è in grado di indovinare la mia risposta. Reprimere la nostra passione dicendo a noi stessi e dimostrando che l’oggetto nel quale la riponemmo ne è indegno, non vale a niente: già in una precedente mia lettera io le parlai della contraddizione per la quale proprio l’indegna persona sembra meritevole sopra ogni altra, unicamente. Alcuni credono che il riso sia un buon revulsivo, e non è infatti da disprezzare. Conosco un abbandonato il quale, struggendosi nel suo dolore, cominciò a sorridere e a sentirsi molto meglio quando vide la antica sua amante a braccio di un altro uomo, in un luogo oscuro, pendere dalle sue labbra e stringersi tutta a lui… Ha ella notato come lo spettacolo di due amanti e anche di due sposi ecciti spesso il sorriso beffardo? E perché mai la vista dell’amore felice, invece di disporre alla gioia dispone alle beffe?… Io credo che si possano assegnare due cause di questo fatto, cioè una sola causa che agisce in due modi differenti. Essa risiede in quelle leggi che dell’amore, d’una cosa cioè molto e fin troppo naturale, hanno fatto una cosa misteriosa, difficile e quasi vietata. Di questa prepotente passione non si deve quasi parlare nel civile consorzio; mentre di tutti gli altri bisogni noi vediamo quotidianamente lo sfoggio, questo qui dobbiamo piuttosto indovinarlo attraverso le ipocrite convenienze. Tutte le volte adunque che esso si rivela o traspare, come quando un corteggio nuziale attraversa le vie d’una città o quando una coppia di amanti erra nelle ombre propizie di qualche deserto bastione, allora l’improvvisa rivelazione d’una troppo celata e contrastata realtà dispone al sorriso. Aggiungo ancora che lo spettatore dell’amore vorrebbe anch’egli, ma non può, per le medesime leggi severe, prendersi sotto il braccio una persona con la quale poter fare ciò che fanno i due attori; e l’invidia umanamente le spiegherà il suo schermo. Chiudiamo questa parentesi e torniamo alla persona di mia conoscenza: costui, vedendo tubare le due tortorelle, una delle quali era il rivale, l’altra la donna che fino a pochi giorni innanzi giurava d’amar lui, sentì tanto più acutamente l’umorismo dello spettacolo e, ridendo, si sollevò. Un altro amante abbandonato guarì in modo che è alla portata d’ognuno; perché non sempre il caso ci è tanto propizio da farci spettatori dei nuovi idillii delle nostre antiche fiamme. Ecco il modo: l’abbandonato, spasimando alle memorie del perduto amore, tremava di paura al pensiero di vederne i materiali ricordi. Come contemplare senza entrare in agonia i ritratti dell’amata, i fiori, i nastri, le cose che ella gli aveva donate? Come rileggere senza morire le lettere sue?… Ed un giorno vide i ritratti ed i fiori, e il suo dolore crebbe veramente oltre misura: ma quando egli cominciò a leggere le lettere, le lettere piene di queste espressioni: "L’amor mio per te sarà senza fine… tu solo m’hai rivelato l’amore… fuori di te non c’è, non potrà esserci mai piacere e felicità… non solo l’amor mio è eterno, ma più eterna sarà la gratitudine… io voglio morire per provarti che non posso amare nessun altro fuori di te… tu potrai lasciarmi, tradirmi, scacciarmi, io ti sarò fedele da lontano, eternamente…", leggendo queste parole delle quali avevo avuto paura perché prevedeva che il dolore di non poterne ricevere più mai di simiglianti lo avrebbe soffocato, egli sentì improvvisamente il suo petto sollevarsi e il riso fiorirgli sulle labbra, perché la donna che aveva scritto queste cose, ella stessa in carne ed ossa, le scriveva in quel punto ad un altro… Tuttavia questi rimedi quantunque giovino spesso, spesso anche restano inefficaci. Se è vero – e come negarlo? – che l’amor proprio è massimamente offeso nel tradimento e nell’abbandono, bisogna, per guarire radicalmente, che l’amor proprio ottenga la sua rivincita. Chiodo scaccia chiodo, dice il proverbio; e se a noi parve finito tutto il nostro merito perché la persona che prima ci amava ora non ci ama più, basterà che, perduto quell’amore, noi ne otteniamo un altro perché il merito nostro torni a rifulgere. Eppure neanche questo rimedio è infallibile! Noi abbiamo ottenuto un altro amore e non ce ne contentiamo, perché non ne volevamo un altro, uno qualunque, ma precisamente quello che non potevamo avere: tale il bambino bizzoso grida e strepita e non si cheta se, offrendogli voi le cose più belle o le chicche più dolci, gli negate quel balocco o quella confettura che per l’appunto egli si è fitto in capo di avere! La guarigione infallibile e radicale non avviene pertanto se non quando il nostro amor proprio, offeso perché ci fu sottratto un amore, è soddisfatto all’idea di poterlo riottenere. C’è anche allora un’ironia, ed è la più sottile di tutte, perché noi ridiamo – di noi stessi… Eccole a questo proposito un curioso documento che mi fu mandato una volta: sopprimo l’esordio e le comunico la parte più degna della sua attenzione. "Questo amore era stato tutto ciò che di meglio avevo tenuto al mondo, il sogno della mia giovinezza, la felicità della mia vita, e nulla era valso a compensarne la perdita. Avevo, sì, tentato di affezionarmi ad altre creature; ma l’imagine di quella donna mi restava sempre dinanzi, impediva quasi materialmente che io scorgessi le altre, e se pure le scorgevo, toglieva loro ogni incanto e sembrava quasi ammonire: "No, mai più troverai dolcezze così grandi come quelle che io ti diedi!". E dalle sterili prove uscivo sempre più assetato di lei. Sentivo dire, a proposito di grandi dolori, di perdite irreparabili, che il tempo è un sovrano rimedio, che nulla resiste alla sua azione lenta e continua; quest’azione pacificatrice, questo rimedio infallibile, io l’avevo provato altre volte; ora ogni giorno che passava accresceva la pena mia. Il lavoro paziente ed assiduo non era anch’esso un diversivo sicuro? Ma non poter più lavorare, nessun’idea ormai spuntava più nella mia mente tutta invasa dai ricordi, oppressa dai rimpianti; e quando pure avessi potuto ridarmi all’arte mia, l’avrei ora sdegnata. Tutto ciò che avevo fatto non l’avevo fatto per lei, affinché ella fosse contenta di me, affinché le apparissi meno indegno di quel che mi sentivo? Le sole lodi ambite ed apprezzate non erano state le sue? Come tutto mi pareva ora inutile, vuoto ed oscuro! Nulla m’interessava più, nulla riusciva a strapparmi dal letargo nel quale ero caduto: contavo i giorni, contavo le ore. Esse scorrevano con lentezza mortale: come affrettarne la caduta? Pensavo: "Se potessi chiudere gli occhi e riaprirli di qui a due anni, a tre anni?…". E poi? Perché? Che cosa aspettavo? Che cosa avrei ottenuto? Sì, forse tra qualche anno quel cocente ricordo sarebbesi spento; ma, a quest’idea, al pensiero di perdere la stessa memoria di un amore che era stato tutto il mio bene, il cuore mi si stringeva talmente che io trovavo nelle torture presenti una specie di felicità e come l’illusione che tutto non fosse ancor morto… Così, invece d’insistere nei miei tentativi di stordimento e d’oblio, cominciai ad attizzare il mio dolore rappresentandomi tutte le gioie conseguite in quel dolce legame, dando un valore perfino alle cose futili, perfino alle cose delle quali mi ero stancato. Perché, infatti, mi ero stancato di certe esigenze che avevo giudicate irragionevoli, di certe sue superstizioni che avevo giudicate puerili. Ora vedevo in esse altrettante inestimabili prove d’amore, altrettante fortune impagabili: per ottenerne ancora una sola che cosa non avrei dato?… Ella aveva sempre voluto che io le scrivessi ogni giorno, anche un rigo soltanto; ed io che negli ultimi tempi non l’avevo più obbedita, pensavo adesso, ahimè troppo tardi, che scriverle continuamente, che aprirle ogni ora l’animo mio era ciò che avrei dovuto far sempre. Anch’ella mi aveva scritto tante volte; e rivedere le sue lettere, aspirare soltanto il profumo del quale erano impregnate, mi turbava fino alle lacrime. Altre volte io avevo restituite le lettere d’amore quando l’amore era finito; ma come paragonare questa passione alle antiche? Ed io non mi separavo da quelle carte, che non osavo rileggere per pietà di me stesso, ma dove era pure la prova che non avevo sognato la svanita gioia… Com’ero dunque stato folle nel lasciarmi sfuggire quel bene! Come incolpavo me stesso della morte d’un amore che invece ella stessa aveva ucciso!… Allora, ripensando alla premeditata freddezza di quella creatura che senza darsi la pena neppure di mendicare un pretesto m’aveva scacciato; ripensando alla crudeltà della quale aveva dato prova nel restar sorda alle mie preghiere, al mio pianto, alla mia disperazione; per un poco il mio dolore si mutava in un sordo rancore, in un odio secreto; ma io riconoscevo ben tosto, nel finale abbattimento di tutto l’essere mio, che questa sua freddezza, che questa sua crudeltà, che l’inflessibile rifiuto opposto a tutte le mie insistenze, erano l’origine della mia disperazione. L’idea di non averla potuta piegare, il sentimento della mia incapacità a ridestare una passione della quale ero andato superbo, mi prostravano, mi umiliavano, mi attaccavano a lei sempre più. E come se tanta miseria non bastasse, la gelosia, una gelosia terribile che non poteva fermarsi sopra una determinata persona, ma che comprendeva tutti gli uomini, mordeva il mio cuore. Perché dunque m’aveva lasciato, colei, se non per darsi ad un altro? Perché era stata così dura verso di me se non per riacquistare la libertà, per correre a nuove avventure? Un altro aveva preso il mio posto; e quest’altro poteva essere uno dei miei più intimi amici come il primo sconosciuto che mi passava accanto per la via! La credevo capace di tutto; e la disistima, invece di guarirmi, accresceva il mio male! Avevo pensato di partire, riserbandomi di porre ad effetto questo proposito quando null’altro mi sarebbe rimasto da tentare, come i medici riserbano per i casi disperati certi pericolosi rimedii che, se non affrettano la morte, riescono ad eccitare una crisi salutare nelle fibre vicine a distruggersi. I viaggi m’avevano sempre procurato la più gradita delle distrazioni. Dentro un treno che corre con la velocità di sessanta chilometri all’ora lasciandosi dietro monti, valli, fiumi e città; sopra un piroscafo che fende maestosamente il mare mobile e largo, avevo sempre respirato a pieni polmoni, m’ero sempre liberato da ogni oppressione. Ora non mi decidevo ad andar via. Quantunque la ragione mi dimostrasse fino all’evidenza che non c’era più nulla da fare, io aspettavo non sapevo bene che cosa. L’orgoglio mio era stato crudelmente ferito, nondimeno l’idea di tornar da lei a pregarla, ad umiliarmi, mi tentava certe volte ancora. Io mi ribellavo contro me stesso, m’accusavo di viltà, non facevo nulla – ma restavo. La divorante e mortale curiosità di sapere che cosa sarebbe accaduto di lei, se veramente un altro avrebbe ottenuto i suoi favori, mi tratteneva. E mi umiliavo altrimenti, spiandola da lontano, studiando il modo di far parlare di lei la gente che la conosceva. Alle volte mi sentivo sollevare da tale sdegno contro me stesso per l’incapacità di strapparmi quella donna dal cuore, che la risoluzione di partire era presa, irrevocabilmente. Ma il terrore di portar meco quel ricordo come un vampiro attaccato alla mia carne, intento a succhiare il mio vivo sangue, fiaccava il mio coraggio. E speravo ancora, accoglievo ancora qualche lusinga! Pensavo che ella avrebbe potuto pentirsi del male che m’aveva fatto e cercare un giorno o l’altro di me. E con l’istinto della salute che fa aggrappare anche ad un filo d’erba chi precipita in un abisso, m’afferravo a queste lusinghe, lavoravo a dar loro qualche apparenza di fondata speranza… Fu un giorno del settembre che ricorreva l’indimenticabile anniversario. Lo avevo aspettato con un’ansia ineffabile: i miei ricordi, i miei pentimenti, i miei rimpianti, le mie speranze, tutti i moti dell’animo mio s’erano esasperati talmente che non credevo possibile resistere di più a simile travaglio. Tanti disegni m’erano passati per il cervello, uno più pazzo dell’altro, che non sapevo veramente che cosa imaginare. Spuntò quel giorno, ed io non feci nulla di nulla. Ma se le fossi stato vicino, se l’avessi sentita tutta stretta a me, non sarei stato così pieno di lei come in quelle ore di agonia, occupate a ricordare le altre, le antiche, le divine, le prime e le sole che contassero nella mia vita. Che cosa faceva ella in quei momenti? Era possibile che non ricordasse anch’ella? Nonostante la lunga separazione, nonostante la lontananza, in quel momento le nostre anime non dovevano confondersi come s’eran confuse altra volta? E se così pensava anch’ella, se era pentita, se era libera, non toccava a lei di scrivermi una riga, una parola, perché tutto fosse detto?… Quando arrivò la posta cercai con mano tremante in mezzo al fascio dei giornali e delle lettere. Non c’era nulla. Ebbi veramente un sorriso di profonda commiserazione per la mia sciocchezza. Calò la sera, e mai tenebre più paurose chiusero il mio cuore. Improvvisamente udii squillare il campanello. Il servo mi venne incontro con un dispaccio in mano. Poiché il cuore non mi si ruppe in quel punto, la fibra dev’esserne molto resistente. Apersi in quel foglio: era un mio creditore che mi mandava un vaglia telegrafico. Il giorno dopo partii. In verità l’esistenza più salda, più tenace, non è già quella delle cose o degli esseri, ma quella delle idee e dei sentimenti. Voi potete spezzare un oggetto materiale, calpestarlo, incenerirlo, darne al vento le ceneri, voi potete uccidere una persona, distruggere quel prodigio che è un corpo vivente: ma dinanzi a questa cosa semplicissima che si chiama un pensiero, così tenue, così alato, fuggevole tanto che un soffio parrebbe doverlo abolire, voi siete inermi. La volontà è l’unico mezzo del quale potreste disporre; ma tutti gli sforzi della vostra volontà per sradicarlo servono invece a configgerlo più profondamente nel vostro cervello. Non voler pensare a una cosa importa rammentarsela continuamente; contro l’invasamento spirituale non vi sono esorcismi… Sì, io partii, con l’anima abbeverata di fiele, con le labbra contorte da un sardonico riso; ma il fischio del treno che si metteva in moto mi parve l’urlo della mia disperazione, e quasi tentai rompermi la fronte contro la gabbia che mi serrava, tentai precipitarmi dallo sportello per finirla una buona volta… E quando fui lontano, quando mi vidi in un paese straniero, fra gente sconosciuta, quando udii risonarmi d’intorno una lingua ignorata, un immenso stupore mi vinse e sedò per un istante il mio cordoglio. Io domandai a me stesso: "Perché sono qui? Che cosa sono venuto a fare? E potrò respirare soltanto?…". Mi mancava l’aria, mi sentivo morire. In mezzo al vasto tumulto di quella metropoli, dinanzi allo spettacolo di migliaia e migliaia d’uomini correnti dietro agli affari, ai piaceri, agli amori, io sentivo di me stesso la pietà che certi poveri fanciulli smarriti tra la calca in un giorno di festa m’avevano talvolta ispirata. Provai d’annegare il mio dolore negli stordimenti dell’orgia; ma come un legno che noi spingiamo sottacqua risale rapido a galla appena abbandonato a sé stesso, così il mio dolore risorgeva ogni volta, più acuto. E senza più ritegno, senza più vergogna, mi abbandonai ad esso, interamente. Avevo portato con me le sue lettere, i suoi ritratti. Una sera mi chiusi in camera e li rividi. Terribile! Terribile! Era dunque lei? la sua fronte? le sue guance? le sue labbra che avevo tanto baciate? Era il suo sguardo che si fissava ancora su di me, pieno della mia visione? Tutte quelle lettere, quelle parole d’amore, quei giuramenti, quelle promesse erano stati ispirati da me? Ed io non avrei più riveduto quella figura reale come ora ne rivedevo la mera effigie? Non avrei più ricevuto nessuna di quelle lettere, mai? Era dunque come morta?… Allora, nella nuova e più dura crisi d’ambascia scatenata nell’anima mia, io pensai di fare ciò che prima non avevo voluto: restituirle quelle carte per poterle scrivere ancora. Rapidamente quest’idea mi soggiogò. Io le avrei scritto per mostrarle l’esulcerata mia piaga, per farle intendere che l’amavo ancora tanto da perdonarla, da accusare anzi me stesso, da implorare il suo perdono per me. Fra giorni ricorreva il suo natalizio: ella non aveva parenti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva la data che io solo avevo festeggiata, altre volte. Volevo anche ora mandarle una buona parola per questa festa che è sempre un po’ triste… Nella notte alta, nel silenzio profondo, alla luce d’una candela che si struggeva con fiamma tremula e lunga, io mi misi a scriverle. Scrivevo tre righe e ne cancellavo due. Volevo mettere sopra un foglio di carta tutto ciò che avevo in cuore; ma le parole mancavano, ed anche temevo di contenermi troppo o di troppo lasciarmi trascinare. Ma ero deciso a non levarmi dalla scrivania se non dopo aver finito. Quando finii rilessi la lettera; ne rammento ogni parola, diceva così: "Lasciata l’Italia per un tempo non breve, compio il dovere di rimandarvi alcune carte che non posso esporre al rischio di cadere in mani indiscrete e che per altro mi dorrebbe troppo distruggere. Già io ho sempre pensato che le carte di questa natura si debbano restituire quando restano a testimoniare qualcosa che più non esiste, un passato perduto: serbarle è permesso soltanto quando sono le prove d’una realtà che ricomincia continuamente. Eccole adunque: distruggetele voi stessa, o voi stessa serbatele, secondo stimerete opportuno. Come passa rapido il tempo! Ecco tornare il vostro giorno natalizio che lo scorso anno noi passammo insieme. Mi permetterete di presentarvi ancora i miei augurii, fervidi come quelli d’un tempo? Ora e sempre, possiate voi ottenere tutto quel bene che il vostro cuore desidera…". Mi parve di non aver detto niente e d’aver detto fin troppo. Niente, perché quelle poche righe non mostravano la mia lunga passione; troppo, perché il rammarico e l’implorazione vi si leggevano, nonostante, in mezzo. Esausto della lunga veglia, andai a letto. Quando mi destai erano le undici; mancavano due ore alla partenza del corriere d’Italia. Senza più pensare a nulla, ricopiai la lettera, feci un pacco di quelle carte, lo suggellai e andai alla posta. Mi movevo come in sogno; non avevo coscienza dei miei atti. Consegnai dapprima il pacco all’ufficio di raccomandazione, poi mi avviai alla buca delle lettere. Quando vi fui vicino, quando cercai in tasca la lettera mia, parvemi che qualcuno m’afferrasse per tirarmi indietro. Il pacco non poteva partir solo? La restituzione di quelle carte aveva forse bisogno di commenti? Nella mia lettera io mi davo vinto, dicevo a quella donna che l’amavo ancora, imploravo ancora da lei il ricambio dell’amor mio – ed ella forse l’avrebbe letta fra le braccia d’un altro. Ella avrebbe riso di me, m’avrebbe risposto due righe di ricevuta – forse non m’avrebbe risposto neppure! Era stata così malvagia, m’aveva fatto tanto soffrire; ed io le davo ancora quest’altra soddisfazione!… Tutto ciò fu pensato nel tempo che la mia mano andò dalla tasca alla buca – perché vi andò, e vi lasciò scorrer dentro la lettera. Prima che potessi avere risposta dovevano passare cinque giorni. Impiegai questo tempo a imaginare la risposta. Poteva essere arida e fredda come avevo temuto, ma il pentimento era inutile, ormai. Se invece… se invece… Ed io dicevo a me stesso che, infatti, nel rivedersi dinanzi le sue lettere, le prove dell’amore che m’aveva portato, nel ritrovarmi supplice ancora dopo i torti che m’avea fatti, nel sapermi tanto lontano, ma nel sentirmi pure così vicino a lei, il suo cuore avrebbe dovuto palpitare più forte e, se non l’amore, almeno la pietà, la simpatia, la compiacenza dettarle una buona parola, indurla a consolarmi… Allora, sostenuto ed infiammato dalla divina speranza, io pensavo all’altra lettera che le avrei subito scritta: "Ebbene, non occorre più ch’io ve lo dica, voi già lo sapete: nonostante tutto, voi siete ancora l’amor mio, l’amor mio forte e grande, il mio unico amore, l’amore che non posso più scordare, che porterò eternamente con me… Se mi volete ancora, dite una parola e sarò ai vostri piedi. Se volete che aspetti, aspetterò quanto vorrete. Sempre, in tutto, la vostra volontà sarà la mia…". Ma una lettera avrebbe messo troppo tempo a dirle queste cose: io mi sarei piuttosto servito del telegrafo, le avrei mandato il mio pensiero con la velocità del lampo. E cercavo le parole del telegramma!… Al quinto giorno ebbi la sua risposta. L’ebbi alla posta, la lessi per via, tra le spinte della gente, lo strepito delle vetture, gli squilli delle cornette dei tram. Diceva così: "Grazie! Nessuna attenzione commuove, quanto quella che meno si prevede perché meno si sente di meritare. I vostri augurii d’oggi sono graditi come quelli di un tempo, anche perché come quelli di un tempo sono stati i soli che ho ricevuti in questa ricorrenza. Mi sono pervenute e non ho distrutto le carte che con rara delicatezza avete creduto di dovermi restituire: c’è un passato che si custodisce gelosamente, come il più reale dei beni, disperderne le tracce sarebbe delitto. Se voi vorrete ancora ricordarvi di questa vostra povera amica, sarà sempre una festa per lei". Orbene; quando io ebbi finito di leggere questa lettera me ne andai al caffè, perché avevo fame. Fu la prima volta, dopo tanto tempo, che mangiai con gusto. Tutto il giorno fui in giro al Museo, che non avevo ancora visto. Prima di desinare visitai una bella signora che avevo conosciuto di fresco. La sera andai al teatro con amici, dopo cenammo allegramente. Tornai a casa alle tre della notte e dormii d’un fiato sino alle due del domani. Svegliandomi, mi rammentai della lettera ricevuta la vigilia, e la rilessi. Non c’era bisogno di molta penetrazione psicologica per comprenderne l’intimo significato: "Un’attenzione che si sa di non meritare… i soli augurii, graditi come quelli d’un tempo… non ho distrutto le carte che avete creduto di dovermi restituire… un passato custodito gelosamente, come il più reale dei beni… se vorrete ricordarvi ancora di questa vostra povera amica…". Il suo rammarico, il suo pentimento, la sua solitudine: ella diceva apertamente tutto ciò; non diceva. "Tornate!", ma questa parola era come scritta su tutte le altre, io quasi la leggevo attraverso la grana della carta. Nel mio farneticamento dei giorni scorsi avevo mai sperato tanto? Non dovevo fremere di gioia, risponderle subito, aprirle il mio cuore?… Per una settimana non trovai il tempo di scriverle. Quando finalmente mi posi a tavolino le scrissi così: "Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio della buona memoria che serbate di me. Siate certa della devozione che vi porto, e lasciatemi sperare di potervene dare qualche giorno la prova. Io sono qui per fare qualche studio e per vedere un po’ di mondo. Se potessi giovarvi in qualche cosa, disponete pure liberamente di me: mi farete sempre un regalo…".

UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Fra i loro stecchi nudi tengono imprigionati gusci d'ovo, stracci abbandonati che fanno un singolare contrasto con i piantoni di salici, che sputano tuttavia umori e foglioline. Il pergolato è un rovescio di travicelli tarlati, un penzolio di foglie fracide da una stuoia di ontani morti, è uno scarduffiarsi di pampini di una vite irrugginita, mentre serpeggia e verdeggia la zucca, tuttavia vigorosa, e mostra qua e là le punte dei suoi fiori luminosi. Uno zuccone rubicondo rotola giù dal tetto come un deretano fustigato; i fagiuoli rampicanti gittano a diverse altezze uno zampillo di capettini viperei, curvantisi come impugnature di violino e punti di interrogazione esilissimi come una filigrana vegetale. Il ballatoio della casa non ha sponda; quindi nella desidia campagnuola per evitare le cadute ai ragazzi, piuttosto che principiare il gran lavoro di una balaustra, si tiene per anni ed anni inchiodato il balcone, e buio il magazzino e camerino da letto, dove in un angolo talliscono le patate e le cipolle. Eppure, nonostante questo fastello di sgarbo, disordine e cascaggine che la circonda, l'osteria della Ghita è l'unica nota confortante e ricreativa nella vita selvaggia di Borgo Grezzo. Quivi convengono come ad un'oasi il cacciatore, il viaggiatore di commercio, il viandante uscito di prigione, e quello ricercato dalla giustizia e i maggiorenti del paese. Il giovane medico condotto, famoso pel suo gaio umore, qui sfrottola tutte le sere le sue satire e le sue caricature acclamato dalle più cordiali risate degli astanti, a cui egli unisce il proprio cachinno fragoroso. Egli nel muovere verso il villaggio si era fatto il più saldo proposito di intraprendere e compirvi studi botanici, fisici, antropologici e scrivervi delle memorie scientifiche, ed ora da più di un anno, non toglie più nemmeno la fascia ai fascicoli di Riviste Mediche che riceve; egli che forse sarebbe riuscito felice umorista anche nella letteratura; ravvolto dall'ambiente è diventato una vera ricchezza di giocondità per l'osteria, cosicché molti ne sono assidui solo per lui, che si è ridotto a trattenimento periodico serale, tanto che potrebbe farsi pagare dall'ostessa il proprio spettacolo. Rivale del dottorino si è il signor Ambrogione, detto per antonomasia il Cottimista; perché è lui che da parecchi anni ha l'appalto dei canali demaniali e la manutenzione delle strade provinciali. Alto e membruto come un camallo genovese, porta sulle spalle prominenti incassato un collo corto che sostiene una testa piccina come di testuggine; veste una giacca e i calzoni di velluto di cotone rigato e qualche volta la blusina azzurra del carrettiere. È veemente in tutto e specialmente nel bere. Entra con furioso affanno nell'osteria, gridando a squarciagola: ? Ghita, un litro! ? quando se l'è ingollato, dice invariabilmente, elevando un sospiro di consolazione: ? Ho ancora sete. Allorché viaggia in ferrovia, egli è lo spasso del vagone di terza classe, su cui sale. Sternuta come un terremoto, e ad ogni stazione si protende fuori dello sportello, chiamando col suo allegro francese di Biella un bisciuar. Nell'ultima festa del paese egli si avvinazzò tanto, ballonzolò tanto, si arrovellò tanto di vino e di movimento che ritornando a casa voleva costringere tutti coloro, cui incontrava per la strada, a ballare con lui: preti, vecchie, ragazze, padri coscritti. O sia che una villanella riluttante, puntandogli contro il ginocchio, gli abbia dato il gambetto, o sia che lo abbia rovinato, come l'impero romano, la propria mole, fatto sta ed è, che stramazzò per terra e si slogò una coscia. Non se ne adontò per nulla e ricusò di essere portato a casa per la fasciatura; volle che il medico venisse a mettergli la gamba a posto nello stesso tratto di strada, in cui egli era ruzzolato. Sdraiatosi nella polvere rizzò la testa e si addossò ad un paracarro per aspettare comodamente il dottore, e intanto per rendere vieppiù comoda l'aspettazione si fece recare dall'osteria un altro doppio litro con bicchieri. Beveva e costringeva a bere la moglie e le figliuole accorse e gli altri assistenti, e offriva da bere a tutti i passanti, dicendo che voleva da buon cottimista fare gli onori dello stradone provinciale. Venuto il medico, non si lasciò toccare da lui, se prima questi non aveva toccato con esso il bicchiere, e quando finalmente gli permise di accingersi alla operazione, pretese a forza che gli applicasse alla gamba slogata alcune doghe di un barile sfasciato, che egli aveva comandato gli recassero da casa. Guarì completamente, ma la cordiale riconoscenza per la bella cura fattagli dal medico non gli tolse dall'animo un'inconscia invidia che gli era trapelata addosso; un'invidia che si potrebbe chiamare del mestiere, se fosse mestiere quello di dire buffonate. Non c'era caso che egli ridesse alle spiritose barzellette del medico; questi per sua parte, pur avendo un'indole così risanciona, diventava serio, quando Ambrogione sferrava i suoi lazzi, e nella superiorità della propria educazione ostentava di non avvertirli neppure. Questi rapporti tesi erano gravidi di una sfida, come li giudicò un uomo politico, il farmacista. Infatti nell'osteria e poi nel paese intiero erano nati quasi due partiti pei due contafavole. La parte più intelligente e la società più fine del paese, le signore, il segretario comunale e il farmacista tenevano pel dottore. Erane specialmente devoto ammiratore il panattiere Gregorio, il più indefesso, mansueto e silenzioso bevitore del Borgo, quegli che senza giuocare accettava di far parte di qualsiasi partita, in cui vi fosse per posta qualche bibita; tantoché chicchessia entrando nell'osteria, e disagiato a bersi una bottiglia intiera, ne proponeva sicuro la società a Gregorio, e questi non diceva mai di no; onde gli capitava magari di avere carature in quattro o cinque tavolini; qua per la gazosa, là per la birra, o per il caffè, o pel vino del bottale, o per il nebiolo imbottigliato; ed egli beveva e pagava da per tutto con una flemma e una soddisfazione ammiranda. Anche i mugnai parteggiavano pel dottore; insomma erano con lui quasi tutti quelli di arte bianca. Invece quelli di arte nera, come il Gran Tommaso carbonaio, Pietro il fuligginoso fabbro ferraio, il maestro cappellano, ecc. erano partigiani del forte Ambrogione. Dicevano le vecchie dell'Opera Pia che anche il diavolo teneva per lui. Però nella sua banda egli prediligeva l'organista Protaso e il bel Rolando, che formavano con lui un terzetto musicale. In effetto egli, famoso lavoratore ed ubbriacone, era anche a tempo avanzato vigoroso suonatore di fisarmonica, e si faceva accompagnare appunto dal vecchio organista che conosceva abbastanza bene il flauto, il violino e il contrabasso, e dal giovinetto Rolando che grattava la chitarra con un'aria ispirata. Anzi quest'ultimo pareva il Ganimede di quel Giove. Il bel Rolando era stato definito dal parroco con proprietà di linguaggio quale scioperato; ma il più mite neologismo degli altri borghigiani lo riteneva per un semplice disimpiegato. Figlio di un particolare (contadino proprietario), aveva fatte le scuole tecniche; ma non si era spinto più in là, tra per la poca voglia che egli aveva di studiare, e per il desiderio della mamma di averlo attaccato ognora alla gonnella e per la stufaggine, che aveva suo padre, di sprecare i denari a fine di mantenergli i vizi in città. Nel villaggio, alieno dai lavori di campagna, senza mestiere, egli consumava il tempo bruciando pipate di tabacco da tre soldi, perseguitando e corrompendo le più belle ragazze del villaggio. Molti matrimoni andarono rotti per cagion sua. Esercitava una languidezza imperiosa, irresistibile da gatta morbida e da tenore brigante, teneva sulla testa due ditate spesse di capelli biondi come l'oro, spartiti in metà come li spartiscono le donne: possedeva un mostaccino rotondo, come nelle maschere da fanciulle, e nelle Sirene da giostra o nelle ballerine per pipe di schiuma: aveva gli occhi grossi, azzurri, di cobalto; la camicia di flanella senza solino gli lasciava libero il collo alto e ben tornito: portava un'elegante cacciatora con bottoni bianchi, orlata di refe rosso. Era un bel vizioso. Persino la nominata Erzegovina, e poscia ribattezzata Krumira, la cortigiana celebre del Borgo, che faceva il servizio di tutte le caserme dei Carabinieri del circuito, sentiva delle debolezze gratuite per lui; ed una volta per amore di lui aveva lasciato bussare invano alla sua porta il deputato capitato in vacanze, quantunque fosse già stato due volte segretario generale del Ministero di Agricoltura e ministro in predicato. Quando, per usare una frase tecnica del paese, qualche ragazza alzava il grembiule prima del tempo, lo si attribuiva al bel Rolando e si attribuivano a lui i gettatelli che si trovavano sulla porta della chiesa. Onde una volta il feroce cottimista gli disse: ? Mio caro! tu pel bilancio degli esposti costi alla provincia più che l'avv. Denticis, che noi cottimisti non possiamo andare a trovare, senza mostrargli il gruzzolo dietro la schiena. Quel satanico fanciullo piaceva, si appoggiava e quasi si maritava al Satana adulto, come la grazia alla forza, l'edera all'olmo. Ambrogione se ne serviva qualche volta per farsi fare i conti del negozio dei bozzoli, su cui speculava e versavasi come un maroso nei mesi di giugno e di luglio, o per l'affitto delle trebbiatrici, nel cui acquisto si era gettato come un veltro ferito, e per fargli conteggiare i mucchi di ghiaia su cui frodava, e lo retribuiva con gite di piacere e merende. Questa era l'unica occupazione lucrosa, cui attendesse il bel Rolando nel suo ozio geniale. Qualche volta d'inverno coltivava ed enunciava l'idea di raccomandarsi poi al deputato, già segretario generale, e futuro ministro dell'Agricoltura, e domandargli qualche impiego. Ma, sopraggiunto l'autunno, egli si sentiva così bene, si gatteggiava così tiepidamente nel suo dolce far niente, che non pensava neppure per sogno di andare ad umiliarsi all'on. ex Segretario Generale e promesso Ministro, e preferiva fargli prendere il fresco di fuori, quando questi col portabiglietti pinzo si degnava di bussare all'uscio della Erzegovina poscia Krumira, e nei pochi casi in cui lo lasciava entrare, si divertiva poi a fumare i sigari d'Avana da 24 soldi. L'organista Protaso, un vecchio sbarbato, vestito di un giubbino nero, corto, lucido, sfuggente, lieve come la fodera di un violino, era servitor devoto di tutti quanti, ma si inchinava premurosamente alla generosità e alla potenza di Ambrogione, ed in una sola parte si riservava ad essere lui stesso intransigente, cioè nel non ammettere ballabili moderni, e nel mantenere, come Vangelo del terzetto, un vecchio cartolaro di danzeria del maestro Caronti, che egli aveva portato da un paesello di montagna, dove aveva fatte le sue prime armi musicali. Quindi né Sangue Viennese, né Labbra di fuoco, né Fiotto di mussola poterono aver mai l'onore d'entrare nel repertorio musicale di Borgo Grezzo, dove trionfavano continuamente le vispe cantilene dell'antico cartolaro, intitolate: Iride ? Cuor contento ? La priora di San Sebastiano ? Pietrina Michisso, ecc., scritte da quel genio ignoto del maestro Caronti certamente per qualche figliuola di castellano; imperocché ad ogni unto fondo di pagina c'era l'avvertenza: L'illustrissima signora damigella è pregata, oppure degnisi di voltare il foglio. Per somma grazia erano state accettate dall'organista alcune canzoni popolari che Ambrogione aveva raccolte nella sua vita d'impresario anche fuori del Piemonte. Il giovane dottore, quantunque egregio dilettante di canto e pianoforte, non poté mai accordarsi col terzetto, avendo egli avuto delle coraggiose velleità di introdurre a Borgo Grezzo un ballabile di Klein, un altro di Capitani e alcune romanze di Tosti e di Rotoli, e sull'organo della Chiesa il Mefistofele di Boito.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676059
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Abbandonati agli istinti del cuore ... . Poichè mi ami ... poichè hai giurato di esser mia ... . Mia sorella ... mia sposa ... . Tu mi ami: Io sapeva bene che tu non avresti negato questa gioia! ... Le tue fibre sono commosse ... . Allacciami il collo colle tue braccia di neve ... . Che io respiri il fresco alito della tua bocca! ... Le mie labbra erano arse, e la sete di amore mi avrebbe consumato, senza il refrigerio di un tuo ... bacio divino! Così parlando, il Casanova si era impadronito della fanciulla attraendola al proprio petto colla potenza affascinante della volontà. Fidelia, inebbriata da quelle parole, da quelle carezze, si abbandonò a lui come un corpo morto. I dubbi, i terrori erano svaniti. La sua faccia inondata di lacrime era divenuta radiante. In quel momento di suprema illusione, la fanciulla sognava il paradiso. Quel sogno fu un lampo. Nell'amplesso di quella larva adorata, Fidelia si attendeva una inondazione di delizie. Ma appena le labbra dell'avventuriero ebbero sfiorate le sue, la fanciulla arretrò con ribrezzo, mandò dal petto un grido affannoso, e cadde al suolo tramortita. Il bacio di quell'uomo, o piuttosto di quella maschera umana, le era sembrato gelido come il bacio di un morto. Tutta questa scena era passata rapidamente, mentre le sorelle del Circolo, nel compartimento anteriore del palazzo, attendevano che Fidelia ripigliasse la canzone, ovvero ritornasse nella sala per prendere parte al convito. Il grido della fanciulla destò lo sgomento nella piccola comitiva. L'anziana fece allentare il gran ventaglio, e le amiche di Fidelia accorsero tutte verso la gondola. Quand'esse posero il piede nel gabinetto musicale, il Casanova era già scomparso; nessun indizio, nessuna traccia di lui. Fidelia giaceva a terra coll'abbandono della morte. Le sue chiome, le sue vesti scomposte davano a supporre che ella avesse dovuto soccombere ad un assalto violento. Le fanciulle non si perdettero in vane esclamazioni. Improvvisarono una catena magnetica, e scaricando il loro fluido sulla giacente, in men che non si pensi, la ridonarono alla vita. Fidelia si levò in piedi, girò intorno gli occhi smarriti come chi, risvegliandosi da un orribile sogno, tremi di rivedere una larva. Poi sorrise alle amiche, e appoggiandosi al braccio di Speranza uscì con quella dal gabinetto. - Domani ti dirò tutto - disse Fidelia alla sua prediletta. E per quella serata non si tenne più parola del misterioso avvenimento. Durante la cena, le fanciulle ripresero insensibilmente la loro abituale gaiezza. Fidelia sorrideva alle amiche, e pareva dividere i loro ingenui tripudii. Di tratto in tratto ella trasaliva, portava la mano agli occhi come a rimuovere un velo, a dissipare una nube. E subito, dopo quel gesto, la sua fronte tornava serena, e l'occhio riacquistava la sua luce. Ai primi squilli del richiamo delle vergini quella gioconda comitiva uscì dalla villa Paradiso per disperdersi nei varii compartimenti della città. Fidelia baciò le amiche ad una ad una, e salita in una gondola volante si fece ricondurre al palazzo di famiglia. Quella sera, il Gran Proposto era di umore assai lieto. Quell'inesorabile partigiano delle antiche discipline, che non poteva tollerare nella propria famiglia ciò che egli chiamava insubordinazione legale agli ordini della natura; quel padre severo che non aveva mai perdonato a Fidelia le lunghe assenze notturne, mosse ad incontrarla con volto radiante, l'accolse con insolita profusione di amorevolezze. C'era qualche cosa di misterioso, qualche cosa di sinistro nella bonomia di quel vecchio. Le sue carezze parvero a Fidelia una affettazione di cattivo augurio, ond'ella, per sottrarsi a quell'impeto di tenerezza paterna, pose in campo un pretesto e ritirossi nel suo appartamento. Il Gran Proposto, dopo averla accompagnata com'era suo costume, e salutata col bacio del buon sogno rientrò nel suo gabinetto. Sullo scrittoio del primo funzionario dell'Olona stava spiegato un dispaccio portante il timbro del Ministero di Sorveglianza pubblica. Erano poche linee di scrittura, ma il vecchio non si saziava di rileggerle, e pareva che da quel foglio uscisse un riflesso di beatitudine ad irradiargli tutto il volto. Il dispaccio era così concepito: «Onorevole Gran Proposto, «Ho la soddisfazione di annunziarvi che il nostro zelo, le nostre sollecitudini, la nostra pertinacia hanno trionfato di ogni difficoltà. Redento Albani ha violato la legge di dilazione. Questa notte egli era a Milano, ha visitato la Villa Paradiso si è intrattenuto col Custode-direttore, ed ebbe anche un segreto colloquio con vostra figlia nel piccolo gabinetto musicale addetto alla villa stessa. Non è mestieri che io vi aggiunga altre parole; vostra onorevolezza sa troppo bene ciò che le resta a fare. Aggradite, onorandissimo Gran Proposto, gli umili ossequi del vostro subordinato devotissimo, e comandatemi in ogni occasione. «Dato dal primo gabinetto di Sorveglianza pubblica la notte del ventisette settembre 19 ... «TORRESANI DEGLI EX-BARONI.»

Dacia Maraini al Festival Internazionale

678051
Maraini, Dacia 1 occorrenze

La parola con cui si bollavano gli scrittori che ancora si ostinavano a usare la trama era "naturalista" e tanti romanzieri furono dichiarati con disprezzo "naturalisti", e con questo abbandonati alla loro misera sorte. Ma dopo qualche anno di sperimentazione, di rifiuto della psicologia e dell'intreccio, si scoprì che lo spazio letterario era diventato povero e asfittico. E così qualcuno ebbe il coraggio di domandarsi: ma chi ha detto che il romanzo è morto? Il romanzo è semplicemente un modo di raccontare la realtà e finché saremo al mondo avremo bisogno di questo tessere e ritessere di parole che interrogano il nostro stare al mondo. È vero che la realtà è inconoscibile e irrapresentabile, ma i tentativi di fermare sul foglio qualcosa di questa complessità, sapendo della difficoltà a cui si va incontro e dell'imprecisione di ogni descrizione, sono ancora generose dimostrazioni di amore per la vita. Nessuno pensa che Monet, tanto per fare un esempio, descrivesse oggettivamente il suo mondo. E nemmeno che lo facesse Piero della Francesca, o Rembrandt, o Picasso. Ma pure, dalle loro personalissime descrizioni di case, campi, persone, boschi, fiori, frutti, divani e cuscini, noi sappiamo oggi cos'era l'Ottocento o il Cinquecento o il Novecento in Europa e lo sappiamo mettendo in moto i sensi, l'inquietudine e la profondità dei sensi. Mentre in un quadro però basta una mano appoggiata su un piatto, basta un profilo, un ponte, una vela, basta un'onda a definire il mistero della durata, il romanzo, anche il più stilizzato, ha un nodo da sciogliere, intreccia una serie di legami fra i personaggi, e questi legami pretendono un tempo anche cartaceo per svilupparsi, per estendersi, per esplodere o per morire lentamente di consunzione. Una storia chiede la descrizione di rapporti che mutano, di eventi ed enigmi che vanno risolti. Alla fine il moto narrativo si concentrerà su una metamorfosi e, come tale, ripeterà il gesto monotono ma sempre nuovo delle tre Parche che filano, intrecciano e poi recidono con crudeltà celeste tanti destini umani. Dice Virginia Woolf in una lettera: "devo fare morire il mio personaggio, perché la sua morte metterà in evidenza la vita degli altri". Come dire che da una assenza, da un vuoto, può sortire un pieno, un cibo di cui nutrirsi e felicitarsi. Il bambino che appena comincia a parlare, chiede alla madre "mi racconti una storia!", è già entrato nello sgrovigliato rapporto fra passato e futuro. Senza neanche saperlo, ha scoperto che le cose hanno un inizio ovvero un passato, uno svolgimento, ovvero un presente e una fine che è il futuro. Ma ogni fine, se raccontabile, è anche un nuovo inizio. Da questa consapevolezza prende avvio l'iniziazione alla conoscenza del tempo. Che potrà presentarsi come una musica danzante, come una garrotta che stringe sempre più la gola, o come una visione di ali che precipitano o ancora come la minuscola impronta di una formica sulla cenere. Ascoltando storie di altri, che siano vere o inventate, il bambino comincerà a tracciare una rete che lo legherà all'universo degli adulti e dei significati. Il Padre Tempo, con la sua lunga barba riccioluta, farà i suoi scherzi, perché, come tutti i padri, ama giocare e divertirsi alle spalle dei figli inconsapevoli. È un padre che non conosce la fedeltà, indifferente al passato e sordo al futuro. Chiuso nella sua dannazione di padre senza giovinezza, perché noi l'abbiamo voluto volubile e cieco, lontano e spietato, ma forse anche dolcissimo e paterno, privo di autonomia, legato com'è alla fantasia spumosa dei viventi.

Doveri dell'uomo

678103
Mazzini, Giuseppe 2 occorrenze

Il vostro individuo ha doveri e diritti propri che non possono essere abbandonati ad alcuno; ma guai a voi ed al vostro avvenire se il rispetto che dovete avere per ciò che costituisce la vostra vita individuale potesse mai degenerare in un fatale egoismo !La vostra libertà non è la negazione d'ogni autorità; è la negazione d'ogni autorità che non rappresenti lo scopo collettivo della Nazione, e che presuma impiantarsi e mantenersi sovr'altra base che su quella del libero spontaneo vostro consenso. Dottrine di sofisti hanno in questi ultimi tempi pervertito il santo concetto della Libertà: gli uni l'hanno ridotto a un gretto immorale individualismo, hanno detto che l'io è tutto e che il lavoro umano e l'ordinamento sociale non devono tendere che al sodisfacimento dei suoi desiderii: gli altri hanno dichiarato che ogni governo, ogni autorità è un male inevitabile, ma da restringersi, da vincolarsi quanto più si può, che la libertà non ha limiti; che lo scopo d'ogni Società è unicamente quello di promoverla indefinitamente; che un uomo ha diritto d'usare e abusare della libertà, purché questa non ridondi direttamente nel male altrui: che un governo non ha missione fuorché quella d'impedire che un individuo non nuoccia all'altro. Respingete, o miei fratelli, queste false dottrine: son esse che indugiano anche in oggi l'Italia sulle vie della sua grandezza avvenire. Le prime hanno generato l'egoismo di classe, le seconde fanno d'una società che deve, se ben ordinata, rappresentare il vostro scopo e la vostra vita collettiva, non altro che un birro o un soldato di polizia incaricato di mantenere una pace apparente; tutte trascinano la libertà ad essere un'anarchia: cancellano l'idea di miglioramento morale collettivo; cancellano la missione educatrice, la missione di Progresso che la società deve assumersi. Se voi potete intendere a questo modo la Libertà, voi meritereste di perderla, e, presto o tardi, la perdereste. La vostra Libertà sarà santa, perché si svilupperà sotto il predominio dell'idea del Dovere, della Fede nel perfezionamento comune. La vostra Libertà fiorirà protetta da Dio e dagli uomini, perch'essa non sarà il diritto d'usare e abusare delle vostre facoltà nella direzione che a voi piaccia di scegliere, ma perch'essa sarà il diritto di scegliere liberamente, a seconda delle vostre tendenze, i mezzi per fare il bene.

come reprimerebbero i loro grossolani appetiti, se vi vedono abbandonati all'intemperanza? come serberebbero intatta l'innocenza nativa, se voi non temete d'oltraggiare davanti ad essi il pudore con atti indecenti o con oscene parole? Voi siete il vivente modello sul quale si formerà la pieghevole loro natura. Dipende da voi che i vostri figli riescano uomini o bruti(9)"

Teresa

678463
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Non un grido d'uccello, non un fruscìo d'ali, non un canto di villanella; dovunque il silenzio altissimo del mezzogiorno, il silenzio dei campi abbandonati, della natura riposante, dei boschi muti e misteriosi. Teresina rinnovò la sua domanda: - C'è molto? E questa volta la zia rispose: - Poco. Quando, a Marcaria, abbassarono il ponte levatoio, e la carrozza passò l'Oglio su quell'arnese irrugginito, poco mancò che Teresina non gridasse per la meraviglia. Lì veramente ci voleva suo fratello Carlino. Quanto a lei, aveva un'idea molto vaga ed incompleta dei ponti levatoi, né la sua fantasia limitata poteva suggerirle fantasmi medievali; ma le parve tuttavia una cosa strana, degna di essere ricordata quando avrebbe fatto, a casa, il racconto del suo viaggio. Lo zio l'aspettava, immobile, seduto sovra una poltrona, colle gambe distese attraverso una seggioletta di paglia. Era un vecchione alto e robusto, con folti capelli ispidi, occhi furbi e bocca sensuale. Guardò subito la nipote, istintivamente, coll'occhiata rapida e sicura dell'antico donnaiolo. Sua moglie gli si fece dappresso, con molta premura, domandandogli come stava, e se le gambe andavano bene. Egli fece udire un sordo brontolìo, dimenando il capo, intanto che colle mani si palpava le ginocchia. Teresina, con uno slancio di bontà, gli gettò le braccia al collo, e baciandolo, a caso, incontrò le labbra gelide del vecchio; subito si ritrasse ma egli gettò un lieve grido di piacere, guardandola cogli occhi luccicanti, ringraziandola; finché un sordo richiamo del suo male gli fece riportare le mani ai ginocchi, crollando il capo. - Ho fatto bene a condurla? - chiese la zia Rosa, a voce bassa. Accennò di sì. - Prospero è in buona salute; così pure sua moglie e tutti i figli. Mi hanno detto di salutarti. Nuovo accenno del capo. - Questa poverina non ha mai veduto nulla, fa una vita da vecchia in casa sua; sai le idee di Prospero. Il vecchione sollevò il capo, improvvisamente, chiedendo: - Quanti anni ha? - Sedici compiuti. Quelle parole: "sedici anni", si fermarono nell'aria, come sospese sulla testa dei due coniugi, che si guardarono un momento, colpiti dalle stesse riflessioni. La zia Rosa sospirò, placidamente, colle mani abbandonate sul grembo. Suo marito fece una smorfia rabbiosa, e tornò a fregarsi i ginocchi, coll'occhio fisso e le labbra pendenti. Intanto Teresina era corsa all'uscio, che da quella stanza terrena metteva nel giardino. Era uno sprazzo di luce, di verde, di rosai fioriti; un bel bracco dormiva al sole, due gattini novelli scherzavano con un fuscellino. Teresina sorrise, sorrise al sole, ai fiori, alla propria giovinezza che si irradiava su ogni oggetto circostante. Si sentiva forte, aveva appetito, aveva nelle gambe un formicolìo di vita esuberante, i polsi le martellavano deliziosamente, con un ritornello gaio, pieno di promesse. Quando la zia la chiamò, ella corse a salti, come un capriolo, compromettendo la gravità del suo abito a strascico, che portava per la prima volta, tanto felice, tanto felice che se le avessero detto di volare, ne avrebbe fatto subito la prova. - E cosí? Ti annoi? - interrogò la zia Rosa, col suo accento benevolo di vecchia mamma - questa è una casa un po' triste per una giovinetta. - No, no, oh no. Così protestava Teresina, sinceramente, gustando la gioia, nuova per lei, di un riposo assoluto - guardandosi attorno, curiosa, in quella gran stanza vuota, un po' fredda, un po' ammuffita, dove le figure calme dei due vecchi sembravano sopravvivere a una quantità di memorie distrutte. - Questo è il banco, - disse la zia additando un grosso banco di quercia annerito - il banco del negozio. - Ah sì? - Questo è il divano dove il mio penultimo figlio, Giovanni, stette infermo sette mesi. - Poverino! - Quel quadro, vedi, quel quadro ricamato, la Madonna dei dolori? Fu il lavoro per gli esami della mia povera Giudittina, l'ultimo anno che stette in collegio. - Bello! - Osserva le mani; solamente per le mani lavorò due mesi e mezzo. - Ooh! Davvero? E Teresina rimase estatica davanti a tutti quei ricordi, dolcemente commossa; finché lo zio, puntellandosi a stento sui braccioli della poltrona, fece atto di levarsi. - Sarà ora di andare a tavola; il tocco è suonato, e questa ragazza deve aver fame. Poi le gettò un'occhiata indefinibile, borbottando fra le labbra sdentate ... - Sedici anni!

Pagina 60

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679089
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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Venne la domenica, giorno in cui il Romito soleva recarsi a Bibbiena, e gli abitanti, non vedendolo giungere, incominciarono a pensare che egli pure li avesse abbandonati, e, ritenendo inutili le preghiere, si diedero a mormorare contro il cielo e contro i santi. - A che ci è valsa la nostra devozione, se nessuno ci aiuta? - dicevano molti, che avevano veduti spirare i loro cari fra atroci spasimi, in seguito alle morsicature delle vipere. Intanto, nella lotta per non morire di fame, avvenivano risse; gli antichi rancori si riaccendevano e la gente, inferocita dallo spavento, dai dolori e dalle sofferenze, si allontanava dalla via del bene. Satana credé giunto il momento di impossessarsi di tutte le anime, e un giorno bussò alle porte della città. Aveva lasciato l'abito nero e nascondeva il volto maligno sotto il cappuccio di un frate francescano. - Chi è? - domandò l'uomo cui era affidata la guardia della porta. - Sono un francescano, - disse il Diavolo, facendo la voce umile. - Apritemi e vi libererò dal flagello che vi colpisce, Il guardiano della porta corse per il paese, cercando i cittadini più cospicui per riferir loro l'accaduto. Essi deliberarono che era meglio aprir subito, e mossero verso la porta, che si spalancò per lasciar entrare il finto frate. - Io vi prometto, - egli disse, - di liberare Bibbiena in poche ore dal flagello; ma voi dovete promettermi di non fare entrare più il Romito nel recinto della città; è lui che ha attirato sopra questo povero paese tanta maledizione. In quel momento i Bibbienesi dimenticarono i beneficî ricevuti dal pio Romito, e promisero tutto ciò che esigeva colui che si proclamava apportatore di salvezza. Il Diavolo incominciò a girare per le vie, a penetrare per le case e nei giardini pronunziando misteriose parole, che nessuno capiva. Però, a quelle parole, serpi, vipere, ramarri, salamandre, grosse lucertole, rospi e bòtte uscivano dai loro nascondigli, salivano su dai pozzi e dalle cisterne, sbucavano dalle tane, e intorno al frate si formava uno stuolo di quei ributtanti animali. Quando egli ebbe esplorato ogni luogo, mosse, seguìto da quel lurido corteo, verso la parte della città dalla quale era entrato, e, sceso nella pianura, disperse tutti i rettili pronunziando altre magiche parole. Dall'alto delle torri della città i Bibbienesi lo avevano seguìto con lo sguardo, e appena lo videro solo, gli andarono incontro riconducendolo a Bibbiena con grandi onori. Fu mandata subito gente nei paesi vicini a far provvista di vettovaglie, e la sera i signori della città offrirono al loro liberatore un banchetto. Il vino bevuto in grande quantità, dette alla testa a molti; nacquero delle dispute, un uomo fu ucciso, le osterie si ripopolarono, si riprese a giuocare, a bestemmiare, e nessuno pensava più al Romito né alle massime di pace, di rassegnazione e di carità che egli aveva predicato per tanto tempo. Una famiglia sola non partecipò alla baldoria generale. Questa famiglia si componeva di un vecchio padre e di due figli, i quali, prima che il Romito facesse udire la sua voce persuasiva ed ispirata, vivevano in continua discordia, con grande amarezza del vecchio. Un giorno, nel calore di una disputa, il maggiore di essi aveva preso un coltello ed erasi avventato contro il suo secondogenito, ferendolo al viso. La cicatrice di quella coltellata era ancora visibile, e il feroce e barbaro giovane, ora che si era pentito, la guardava di continuo. Appena un lampo di risentimento contro il fratello gli offuscava la ragione, la vista di quella ferita bastava a calmarlo e a suggerirgli sentimenti miti e buoni. Il vecchio e i due fratelli, udendo che il patto della liberazione di Bibbiena dal terribile flagello che li aveva colpiti si era che il Romito non riponesse più piede in città, li aveva indotti a non partecipare alla gioia generale e alle feste che si facevano in onore del liberatore. Essi erano tre poveri e rozzi uomini, ma facevano questi ragionamenti: - Se il frate ha paura del Romito, che aveva convertito tutta Bibbiena alla carità, alla tolleranza e al perdono delle offese, vuol dire che è un nemico del nostro bene, un ribaldo, forse il Diavolo in persona. E mentre tutti i cittadini bevevano, cantavano e giuocavano, padre e figli stavano rinchiusi nella loro casetta, pregando il Cielo di non abbandonare la loro città. E le loro preghiere furono udite in Cielo, dove le preci degli umili e dei buoni vengono trasportate dagli Angeli Custodi. E la Madonna s'impietosì sulla sorte di Bibbiena per l'intercessione di quel padre e di quei figli riconciliati dal Romito, e mandò loro una ispirazione. - Perché, - disse un giorno il padre, - non andiamo noi nel bosco a supplicare il Romito di riprendere le sue prediche? Egli, come quelli che sono mossi da vero spirito di carità, saprà affrontare i pericoli e trionferà del Demonio. Andiamo. E mentre la città era tutta immersa nei tripudî e nei sollazzi, il vecchio e i suoi due figli ne varcarono le mura, e andarono nel bosco. - Santo vecchio, - dissero allorché furono alla presenza del Romito, - perché hai abbandonata la nostra Bibbiena? - Io non avrei altro desiderio che quello di ritornarvi; - rispose il Romito, - ma il Diavolo vi ha stabilito il suo dominio e ogni tentativo per sloggiarlo mi pare inutile. - Vieni e tenta di cacciarlo. La fede non ti può mancare, e la fede opera miracoli. Il Romito pronunziò una breve preghiera, invocando l'aiuto del Cielo sulla impresa sua, e, accompagnato dai tre uomini, salì a Bibbiena. Nessuno guardava più le porte, perché il popolo faceva continua baldoria, e il Romito poté giungere sulla piazza della Pieve, senza che alcuno lo riconoscesse. Ma invano egli fece udire la sua voce dolce e persuasiva. Intorno a lui non vi erano altro che il padre e i due figli; il popolo, adunato nelle osterie e schiamazzante, non poteva afferrare le parole del santo uomo, il quale tornò nel bosco dopo lungo predicare. Però il Diavolo, che sapeva tutto ciò che avveniva in città, fu informato che i Bibbienesi non avevano tenuto il patto, e, adunatili la sera sulla piazza, li rimproverò acerbamente, minacciandoli di una nuova invasione di rettili, e designò i tre colpevoli, i quali vennero legati dal popolo inferocito, e rinchiusi in una prigione sotterranea. Ciò nonostante, il Romito tornò a Bibbiena dopo pochi giorni, attrattovi dalla carità verso quel misero popolo, e si mise di nuovo a predicare in piazza. Questa volta il suo uditorio si componeva di una vecchia, abbandonata nella miseria dai figli, i quali non lavoravan più per andare all'osteria a giuocare e a bere, e della moglie di un uomo ucciso in rissa. Le due povere donne piansero amaramente alle parole del Romito, il quale cercò di consolarle come meglio poteva. Anche questa volta il Diavolo fu informato di tutto, e disse fra sé: - Qui ci vuole un esempio, se no Bibbiena mi sfugge dalle mani. E appena calò la sera fece apparire sulla città tante lingue di fuoco che, abbassandosi, lambirono le mura e i tetti delle case. La gente, impaurita, temendo che l'incendio distruggesse le loro abitazioni, corse nelle vie e nelle piazze urlando e strascicandosi dietro i bambini. Il finto frate s'insinuò tra la folla e incominciò a pronunziare misteriose parole, che i grandi non udivano, ma che i piccini capivano bene. Con quelle parole prometteva loro giuochi, sollazzi, ghiottornie, ogni cosa che alletta la fantasia dei bimbi. E questi gli correvano intorno giulivi e lo seguivano. Quando ebbe radunati tutti coloro che potevano camminare, uscì da Bibbiena e si diresse verso un bosco, dove sapeva che vi era una grotta immensa, praticata nei fianchi di un monte, e ve li rinchiuse. Allora le lingue di fuoco cessarono di lambire le case, e la gente, dopo aver domato alcuni incendi prodotti da quelle, si diede a cercare i bambini. Le donne correvano sgomente per le vie chiamandoli con alte grida, gli uomini si spingevano fuori del paese, frugavano i boschi, urlavano, ma nessuna voce infantile rispondeva al loro appello e soltanto l'eco dei boschi ripeteva quei suoni desolati. Il finto frate, dopo aver compiuto il ratto dei bambini, ritornò in paese fra la gente afflitta e sconsolata. Appena i Bibbienesi lo videro, rammentando che li aveva liberati dai rettili, ricorsero a lui. - Rendeteci i nostri bimbi, - supplicarono essi, - e la nostra gratitudine sarà eterna. Il Diavolo fece un ghigno spaventoso. - Due volte, - egli rispose, - avete calpestati i nostri patti; due volte il Romito ha predicato in piazza. - Abbiamo punito coloro che lo fecero venire la prima volta, - risposero gli afflitti cittadini. - Ma non avete punito le donne che lo hanno ascoltato la seconda; mettetele a morte. - E chi sono? - domandò la folla. Il Diavolo le nominò. - Voi chiedete troppo, - risposero i cittadini, - la prima è una infelice già abbastanza provata dalla sventura; la seconda è una povera vedova; lasciatele dunque vivere, giacché non hanno mai fatto alcun male a nessuno. - Riflettete, - disse il Diavolo. - Se le ucciderete, i vostri bimbi ritorneranno in paese; se le lascerete vivere, non li vedrete più. Il finto frate, dopo aver pronunziate queste parole, sparì. I cittadini rimasero perplessi. Però non potevano risolversi a mettere a morte due innocenti; no, non potevano. - Il loro sangue ricadrebbe su noi in tanta maledizione, - dicevano i più saggi, - lasciamole vivere; Iddio ci renderà i nostri figli. E inteneriti e resi migliori da quella grande sventura, si riversarono nelle chiese, si prostrarono dinanzi agli altari e ripresero a recitare le preci che eran soliti innalzare a Dio allorché il Romito era di continuo in mezzo a loro, sostenendoli con la dolce e persuasiva sua parola. E spinti di nuovo sulla via del bene, liberarono i tre prigionieri che avevano condotto a Bibbiena il Romito, e le preci di questi e delle due donne salvate dalla carità popolare, operarono un vero miracolo. Il Romito, nella sua capannuccia, ebbe un avvertimento nel sonno. Egli si sentì chiamare da una voce celeste, che gli disse: - Va' in città; lassù hanno bisogno di te. Il Romito si alzò nel cuor della notte dal suo giaciglio di foglie secche, e si avviò, in mezzo alle tenebre, verso Bibbiena. Il Diavolo però, che non lo perdeva di vista, gli suscitò contro una quantità di ostacoli. Prima di tutto il sant'uomo fu avvolto da una nebbia impenetrabile, ed egli, in mezzo alle alte piante, non trovava il sentiero battuto tante volte, di modo che dovette fermarsi per non camminare in una direzione opposta alla sua mèta, attendendo che sorgesse il sole. Poi, quando questo ebbe diradata la nebbia, si scatenò all'improvviso un temporale fortissimo. Fulmini spaventosi squarciavano le nubi, il vento turbinoso schiantava gli alberi, l'acqua torrenziale convertiva in fiumi i rigagnoli, la grandine percuoteva il volto del viandante, il quale dovette di nuovo fermarsi. Quando il temporale si fu sfogato, due serpenti, sbucati fuori da un ciuffo di felci, gli si avviticchiarono alle gambe, in modo che egli non poteva più camminare. Allora il Romito, supponendo che tutti quegli ostacoli fossero creati dal Diavolo, toccò con la croce i due rettili spaventosi, e questi si sviticchiarono e fuggirono via. Da quel momento egli poté continuare il cammino senza ostacoli, e giunse a Bibbiena. Il popolo, vedendolo, gli corse incontro esultante, e inginocchiatosi intorno a lui, gli disse: - Rendeteci i nostri figli; noi siamo peccatori indegni di perdono, ma intercedete per noi. E allora il sant'uomo s'inginocchiò in mezzo alla piazza della Pieve, e il popolo unì le sue preci a quelle di lui. Dopo aver lungamente pregato, il Romito volle venti uomini robusti e disse loro: - Seguitemi. Ed essi lo seguirono giù nella valle, ubbidienti ad ogni suo cenno. Mentre camminavano, egli pregava ancora. Allora si vide una bianca colomba staccarsi da un albero e volare prima verso un balconcino dove erasi affacciata una giovanetta e poi volare dinanzi a lui. Il Romito la seguiva, e finalmente ella si fermò sopra un grosso macigno. - Qui sono i vostri figli, - disse il Romito, - qui deve averli celati il finto frate. E i venti uomini si diedero, con quanta forza avevano, a smovere il macigno, ma non riuscirono neppure a scostarlo. - Qui è inutile arrabattarsi, - dissero, - ci vogliono delle corde e diverse paia di manzi! E lasciando il Romito a guardia del luogo, gli altri tornarono al paese a provvedersi dell'occorrente. La colomba intanto non si moveva dal posto ov'erasi posata, come per dire che i piccini di Bibbiena erano lì davvero. E vi rimase finché gli uomini andati in città non furono tornati con cinque coppie di bei manzi alti e poderosi, e muniti di corde e di catene. Avvolsero queste intorno al macigno, vi legarono le corde, e i buoi si misero a tirare; ma tira tira, il sasso non si moveva. Gli uomini sudavano freddo, il Romito era sgomento, e i buoi, stanchi, si rifiutavano di tirare ancora. - Figli miei, - disse il sant'uomo, - mi accorgo che il macigno è sigillato al monte da una forza soprannaturale. Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679331
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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E abbandonati i fornelli, e accostatasi ad una scranna, la povera creatura cadde ginocchioni. O memoria della mia giovinezza! .... Contemplai per un istante quella testa grigia, e involontariamente piegai un ginocchio al suo fianco. Fu in questa posizione che trovommi in casa sua il curato di Sulzena.

Penombre

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Praga, Emilio 1 occorrenze

Abbacchiano le noci sulle montagne ; già dei fanciulli le garrule voci, fra le castagne, empiono i rami a cui cascan le fronde, e i nidi abbandonati son circondati - di testine bionde. La casicciuola e la castalderia colman la botte; dà il giovin vino alla malinconia la buona notte; e lune e falchi e santi e chiavi d'oro già, sulle insegne oscure, di ripinture - parlano fra loro. Come, come restar fra questi avelli che chiaman stanze? Copron di versi i lirici tinelli le lontananze : oh miei curati nelle vigne erranti col tondo viso in foco e il parlar roco - delle dee baccanti! Oh le donne,oh le chiacchiere del prato! Che laconismo! Nessun ti chiede, là se sei soldato del realismo, e nessuno s'impenna e fa gli occhioni se vengono a sapere che odi il mestiere - d'imitar Manzoni. E vi son certe strade in Valtellina cui far l'amore, meglio che al muso e alla carta velina di un editore: conoscete il Legnone, o miei messeri? là vivi i fiori stanno che qui vi danno - in polvere i droghieri. Oh tre ne voglio de' miei vecchi amici dal pazzo umore! Di quelli che son lieti od infelici secondo l'ore, che non parlan di moda e di cambiale, ma in nuovi cieli immersi fischiano i versi - in cattedra e in piviale! Tre di costor che fanno il gaio viso alla baldoria, e a cui l'arte congiunge in un sorriso Golgota e gloria; tre di costoro per salir sui monti ove l'Eterno addita ch'è infinita - la via degli orizzonti! E beverem, col capo all'ombra fresca di qualche faggio, all'avvenir che i giovinetti adesca, anch'esso in viaggio: quando il ranume udrà queste parole, riderem, se si adombra, col capo all'ombra - e colle gambe al sole!

Trasparenze

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Praga, Emilio 1 occorrenze

Penso ai monti agghiacciati, ai pini incanutiti in modi strani, ai mesti casolari abbandonati dai mandrïani. E mi avvinghio alla stufa : oh! abbracciamenti ch'io prodigo alla bianca ospite cara! Essa è cortese senza far commenti, e mi prepara l'intelletto al lavor meglio, assai meglio che non faccia l'amor vivo dell'Eve, dalle braccia di cui spesso mi sveglio col capo greve. Ma cotesto è affar mio; poco v'importa, e scusatemi assai se vado a sbalzi, se fo com'un che viaggia senza scorta e a piedi scalzi. Fra un sì ed un no tutto quaggiù tentenna: la nube, il vento, il cuor dell'uomo e il mare... Io mi son un che quando va la penna la lascio andare... Amate i fior? di paglia circondate la gracile vïola ed il giacinto; alla camelia, alla azalea donate, e al variopinto tulipano, ed all'ellera, ed al lilla l'aure negate alle deserte aiuole: certo anche ai fior pensò chi la scintilla rapiva al sole! Gennaio 1872.

La tregua

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Levi, Primo 4 occorrenze

Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. Da vari indizi è lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi di concentramento nessun uomo vivo; ma un violento attacco aereo notturno, e la rapidità dell' avanzata russa, indussero i tedeschi a mutare pensiero, e a prendere la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera. Nell' infermeria del Lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in ottocento. Di questi, circa cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi. La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo. Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa. Così per noi anche l' ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell' offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell' offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l' anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia. Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Perciò pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi. Nella nostra camera la cuccetta del morto Sòmogyi fu subito occupata dal vecchio Thylle, con visibile ribrezzo dei miei due compagni francesi. Thylle, per quanto io ne sapevo allora, era un "triangolo rosso", un prigioniero politico tedesco, ed era uno degli anziani del Lager; come tale, aveva appartenuto di diritto alla aristocrazia del campo, non aveva lavorato manualmente (almeno negli ultimi anni), ed aveva ricevuto alimenti e vestiti da casa. Per queste stesse ragioni i "politici" tedeschi erano assai raramente ospiti dell' infermeria, in cui d' altronde godevano di vari privilegi: primo fra tutti, quello di sfuggire alle selezioni. Poiché, al momento della liberazione, era lui l' unico, dalle SS in fuga era stato investito della carica di capobaracca del Block 20, di cui facevano parte, oltre alla nostra camerata di malati altamente infettivi, anche la sezione TBC e la sezione dissenteria. Essendo tedesco, aveva preso molto sul serio questa precaria nomina. Durante i dieci giorni che separarono la partenza delle SS dall' arrivo dei russi, mentre ognuno combatteva la sua ultima battaglia contro la fame, il gelo e la malattia, Thylle aveva fatto diligenti ispezioni del suo nuovissimo feudo, controllando lo stato dei pavimenti e delle gamelle e il numero delle coperte (una per ogni ospite, vivo o morto che fosse). In una delle sue visite alla nostra camera aveva perfino encomiato Arthur per l' ordine e la pulizia che aveva saputo mantenere; Arthur, che non capiva il tedesco, e tanto meno il dialetto sassone di Thylle, gli aveva risposto "vieux dégoûtant" e "putain de boche"; ciononostante Thylle, da quel giorno in poi, con evidente abuso di autorità, aveva preso l' abitudine di venire ogni sera nella nostra camera per servirsi del confortevole bugliolo che vi era installato: in tutto il campo, l' unico alla cui manutenzione si provvedesse regolarmente, e l' unico situato nelle vicinanze di una stufa. Fino a quel giorno, il vecchio Thylle era dunque stato per me un estraneo, e perciò un nemico; inoltre un potente, e perciò un nemico pericoloso. Per la gente come me, vale a dire per la generalità del Lager, altre sfumature non c' erano: durante tutto il lunghissimo anno trascorso in Lager, io non avevo avuto mai né la curiosità né l' occasione di indagare le complesse strutture della gerarchia del campo. Il tenebroso edificio di potenze malvage giaceva tutto al di sopra di noi, e il nostro sguardo era rivolto al suolo. Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di libertà. Per tutto il giorno, avevamo avuto troppo da fare per aver tempo di commentare l' avvenimento, che pure sentivamo segnare il punto cruciale della nostra intera esistenza; e forse, inconsciamente, l' avevamo cercato, il da fare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte. Ma venne la notte, i compagni ammalati si addormentarono, si addormentarono anche Charles e Arthur del sonno dell' innocenza, poiché erano in Lager da un solo mese, e ancora non ne avevano assorbito il veleno: io solo, benché esausto, non trovavo sonno, a causa della fatica stessa e della malattia. Avevo tutte le membra indolenzite, il sangue mi pulsava convulsamente nel cranio, e mi sentivo invadere dalla febbre. Ma non era solo questo: come se un argine fosse franato, proprio in quell' ora in cui ogni minaccia sembrava venire meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri più urgenti dolori: il dolore dell' esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno. Nel mio anno di Buna avevo visto sparire i quattro quinti dei miei compagni, ma non avevo mai subito la presenza concreta, l' assedio della morte, il suo fiato sordido a un passo, fuori della finestra, nella cuccetta accanto, nelle mie stesse vene. Giacevo perciò in un dormiveglia malato e pieno di pensieri funesti. Ma mi accorsi ben presto che qualcun altro vegliava. Ai respiri pesanti dei dormienti si sovrapponeva a tratti un ansito rauco e irregolare, interrotto da colpi di tosse e da gemiti e sospiri soffocati. Thylle piangeva, di un faticoso ed inverecondo pianto di vecchio, insostenibile come una nudità senile. Si avvide forse, nel buio, di un qualche mio movimento; e la solitudine, che fino a quel giorno entrambi, per diversi motivi, avevamo cercato, doveva pesargli quanto a me, poiché a metà della notte mi chiese "Sei sveglio?", e senza attendere la risposta si arrampicò a gran fatica fino alla mia cuccetta, e d' autorità mi sedette accanto. Non era facile intendersi con lui; non solo per ragioni di linguaggio, ma anche perché i pensieri che ci sedevano in petto in quella lunga notte erano smisurati, meravigliosi e terribili, ma soprattutto confusi. Gli dissi che soffrivo di nostalgia; e lui, che aveva smesso di piangere, "dieci anni", mi disse, "dieci anni!": e dopo dieci anni di silenzio, con un filo di voce stridula, grottesco e solenne ad un tempo, prese a cantare l' Internazionale, lasciandomi turbato, diffidente e commosso. Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che con pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggì come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti. A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l' unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi. Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l' aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e là per le strade fangose, come fulminati, i superstiti più ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte non lontano, facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza. Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c' erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e metà della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di più malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero più in grado di reggermi in piedi. Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l' ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell' appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: "Arbeit Macht Frei", "Il lavoro rende liberi".

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Nessuno li sorvegliava, nessuno li comandava né si prendeva cura di loro: secondo ogni apparenza, erano stati dimenticati, abbandonati puramente alla loro sorte. Erano vestiti di stracci scoloriti, in cui si riconoscevano tuttavia le orgogliose uniformi della Wehrmacht. Avevano visi smunti, abbacinati, selvaggi: avvezzi a vivere, a operare, a combattere entro gli schemi ferrei dell' Autorità, loro sostegno e loro alimento, al cessare dell' autorità stessa si erano trovati impotenti, esanimi. Quei buoni sudditi, buoni esecutori di tutti gli ordini, buoni strumenti del potere, non possedevano in proprio neppure una parcella di potere. Erano svuotati e inerti, come le foglie morte che il vento ammucchia negli angoli riposti: non avevano cercato salute nella fuga. Ci videro, e alcuni fra loro mossero verso noi con passi incerti da automi. Ci chiesero pane: non nella loro lingua, bensì in russo. Rifiutammo, poiché il nostro pane era prezioso. Ma Daniele non rifiutò: Daniele, a cui i tedeschi avevano spento la moglie forte, il fratello, i genitori, e non meno di trenta parenti. Daniele, che della razzia nel ghetto di Venezia era il solo superstite, e che dal giorno della liberazione si nutriva di dolore, trasse un pane, e lo mostrò a quelle larve, e lo depose a terra. Ma pretese che venissero a prenderlo strisciando a terra carponi: il che essi fecero docilmente. Che gruppi di ex prigionieri alleati si fossero imbarcati a Odessa mesi prima, come alcuni russi ci avevano detto, doveva pure essere vero, poiché la stazione di Zmerinka, nostra temporanea e poco intima residenza, ancora ne portava i segni: un arco di trionfo fatto di frasche, ormai appassite, che reggeva la scritta "viva le Nazioni Unite" ed enormi orribili ritratti di Stalin, Roosevelt e Churchill, con motti inneggianti alla vittoria contro il comune nemico. Ma la breve stagione della concordia fra i tre grandi alleati doveva ormai volgere al termine, poiché i ritratti erano stinti e dilavati dalle intemperie, e furono deposti durante il nostro soggiorno. Sopraggiunse un imbianchino: eresse una impalcatura lungo la facciata della stazione, e fece sparire sotto uno strato di intonaco la scritta "Proletari di tutto il mondo, unitevi!" in luogo della quale, con un sottile senso di gelo, lettera dopo lettera ne vedemmo nascere un' altra ben diversa: "Vpere5d na Zapàd", "Avanti verso l' Occidente". Il rimpatrio dei militari alleati era ormai finito, ma altri convogli arrivavano e partivano verso sud sotto i nostri occhi. Erano tradotte russe anche queste, ma ben distinte dalla tradotte militari, gloriose e casalinghe, che avevamo visto transitare per Katowice. Erano le tradotte delle donne ucraine che ritornavano dalla Germania: donne soltanto, poiché gli uomini erano andati soldati o partigiani, oppure i tedeschi li avevano uccisi. Il loro esilio era stato diverso dal nostro, e da quello dei prigionieri di guerra. Non tutte, ma in gran parte, avevano abbandonato "volontariamente" il loro paese. Una volontà coartata, ricattata, distorta dalla menzogna e dalla propaganda nazista sottile e pesante, che minacciava e blandiva dai manifesti, dai giornali, dalla radio: tuttavia una volontà, un assenso. Donne dai sedici ai quarant' anni, centinaia di migliaia, contadine, studentesse, operaie, avevano lasciato i campi devastati, le scuole chiuse, le officine distrutte, per il pane degli invasori. Non poche erano madri, e per il pane avevano lasciato i figli. In Germania avevano trovato il pane, il filo spinato, un duro lavoro, l' ordine tedesco, la servitù e la vergogna: e sotto il peso della vergogna ora rimpatriavano, senza gioia e senza speranza. La Russia vincitrice non aveva indulgenze per loro. Tornavano a casa in carri merci, spesso scoperti, divisi orizzontalmente da un tavolato affinché fosse meglio sfruttato lo spazio: sessanta, ottanta donne per carro. Non avevano bagaglio: solo le vesti logore e stinte che portavano indosso. Corpi giovanili, ancora solidi e sani, ma visi chiusi ed acri, occhi fuggitivi, una conturbante, animalesca umiliazione e rassegnazione nessuna voce usciva da quei viluppi di membra, che si scioglievano pigramente quando i convogli fermavano in stazione. Nessuno le aspettava, nessuno sembrava accorgersi di loro. Di animali umiliati e domati erano la loro inerzia, il loro appartarsi, la loro dolente mancanza di pudore. Noi soli assistevamo con pietà e tristezza al loro passaggio, nuova testimonianza e nuovo aspetto della pestilenza che aveva prostrato l' Europa. Partimmo da Zmerinka alla fine di giugno, oppressi da una greve angoscia che era nata dalla delusione e dalla incertezza del nostro destino, e aveva trovato una oscura risonanza e conferma nelle scene cui a Zmerinka avevamo assistito. Compresi i "rumeni", eravamo millequattrocento italiani. Fummo caricati su una trentina di carri merci, che vennero agganciati ad un convoglio diretto a nord. Nessuno, a Zmerinka, seppe o volle precisarci la nostra destinazione: ma andavamo a nord, via dal mare, via dall' Italia, verso la prigionia, la solitudine, il buio, l' inverno. Malgrado tutto, stimammo buon segno che non ci fossero state distribuite scorte per il viaggio: forse questo non sarebbe stato lungo. viaggiammo infatti per soli due giorni e una notte, con pochissime fermate, attraverso uno scenario maestoso e monotono di steppe deserte, di foreste, di villaggi sperduti, di lente e larghe fiumane. Pigiati nei vagoni merci, si stava scomodi: alla prima sera, approfittando di una fermata, Cesare e io scendemmo a terra, per sgranchirci le gambe e trovare una migliore sistemazione. Notammo che in testa erano vari vagoni passeggeri, e un vagone infermeria: sembrava vuoto. _ Perché non ci saliamo? _ propose Cesare. _ È proibito, _ risposi io insulsamente. Perché infatti doveva essere proibito, e da chi? Del resto, avevamo già potuto constatare in varie occasioni che la religione occidentale (e tedesca in specie) del divieto differenziale non ha radici profonde in Russia. Il vagone infermeria non solo era vuoto, ma offriva raffinatezze da sibariti. Lavatoi efficienti, con acqua e sapone sospensioni dolcissime che attutivano le scosse delle ruote meravigliosi lettini appesi a molle regolabili, completi di lenzuola candide e coperte calde. Al capezzale del letto che avevo scelto, dono supererogatorio del destino , trovai addirittura un libro in italiano: "I ragazzi della via Paal", che non avevo mai letto da bambino. Mentre i compagni già ci dichiaravano dispersi, trascorremmo una notte di sogno. Il treno varcò la Beresina alla fine del secondo giorno di viaggio, mentre il sole, rosso come un granato, calando obliquo fra i tronchi con incantata lentezza, vestiva di luce sanguinosa le acque, i boschi e la pianura epica, cosparsa tuttavia di rottami d' armi e di carriaggi. Il viaggio terminò poche ore dopo, in piena notte, nel culmine di un violento temporale. Fummo fatti scendere sotto il diluvio, in una oscurità assoluta, rotta a tratti dai lampi. Camminammo per mezz' ora in fila indiana, nell' erba e nella melma, ciascuno aggrappato come un cieco all' uomo che lo precedeva, e non so chi guidasse il capofila approdammo infine, bagnati fino alle ossa, in un enorme edificio buio, semidistrutto dai bombardamenti. Continuava a piovere, il pavimento era fangoso e fradicio, e altra acqua cadeva dalle lacune del tetto: attendemmo il giorno in un dormiveglia faticoso e passivo. Sorse un giorno splendido. Uscimmo all' aperto, e solo allora ci accorgemmo di avere pernottato nella platea di un teatro, e di trovarci in un esteso complesso di caserme sovietiche danneggiate e abbandonate. Tutti gli edifici, inoltre, erano stati sottoposti a una devastazione e spoliazione tedescamente meticolosa: le armate germaniche in fuga avevano asportato tutto quanto era asportabile: i serramenti, le inferriate, le ringhiere, gli interi impianti di illuminazione e di riscaldamento, le tubazioni dell' acqua, perfino i paletti del recinto. Dalle pareti era stato estratto fin l' ultimo chiodo. Da un raccordo ferroviario adiacente erano stati divelti i binari e le traversine: con una macchina apposita, ci dissero i russi. Più di un saccheggio, insomma: il genio della distruzione, della controcreazione, qui come ad Auschwitz la mistica del vuoto, al di là di ogni esigenza di guerra o impeto di preda. Ma non avevano potuto asportare gli indimenticabili affreschi che ricoprivano le pareti interne: opere di qualche anonimo poeta-soldato, ingenue, forti e grezze. Tre cavalieri giganti, armati di spade, elmi e mazze, fermi su un' altura, in atto di spingere lo sguardo per uno sterminato orizzonte di terre vergini da conquistare. Stalin, Lenin, Molotov, riprodotti con affetto reverente nelle intenzioni, con audacia sacrilega negli effetti, e riconoscibili precipuamente e rispettivamente per i baffoni, la barbetta e gli occhiali. Un ragno immondo, al centro di una ragnatela grande come la parete: ha un ciuffo nero di traverso fra gli occhi, una svastica sulla groppa, e sotto sta scritto: "Morte agli invasori hitleriani". Un soldato sovietico in catene, alto e biondo, che leva una mano ammanettata a giudicare i suoi giudici: e questi, a centinaia, tutti contro uno, seduti sugli scanni di un tribunale-anfiteatro, sono degli schifosi uomini-insetti, dalle facce gialle e grige, adunche, travolte, macabre come teschi, e si ritraggono l' uno contro l' altro, come lemuri che fuggano la luce, respinti nel nulla dal gesto profetico dell' eroe prigioniero. In queste caserme spettrali, e in parte accampati a cielo aperto nei vasti cortili invasi dall' erba, bivaccavano migliaia di stranieri in transito come noi, appartenenti a tutte le nazioni d' Europa. Il calore benefico del sole incominciava a penetrare la terra umida, e ogni cosa intorno a noi fumava. Mi allontanai dal teatro di qualche centinaio di metri, inoltrandomi in un prato folto dove intendevo spogliarmi e asciugarmi al sole: e nel bel mezzo del prato, quasi mi attendesse, chi vidi se non lui, Mordo Nahum, il mio greco, quasi irriconoscibile per la suntuosa pinguedine e per l' approssimativa uniforme sovietica che indossava: e mi guardava dagli scialbi occhi di gufo, persi nel viso roseo, circolare, rossobarbuto. Mi accolse con cordialità fraterna, lasciando cadere nel vuoto una mia maligna domanda circa le Nazioni Unite che così mal governo avevan fatto di loro greci. Mi chiese come stavo: avevo bisogno di qualcosa? di cibo? di abiti? Sì, non potevo negarlo, avevo bisogno di molte cose. _ Si provvederà, _ mi rispose misterioso e magnanimo: _ io qui conto per qualche cosa _. Fece una breve pausa, e soggiunse: _ Hai bisogno di una donna? Lo guardai interdetto: temevo di non aver capito bene. Ma il greco, in ampio gesto, percorse colla mano tre quarti di orizzonte: e allora mi avvidi che in mezzo all' erba alta, sdraiate al sole, vicine e lontane, giacevano sparse una ventina di vaste fanciulle sonnacchiose. Erano creature bionde e rosee, dalle schiene poderose, dall' ossatura massiccia e dal placido viso bovino, vestite in varie foggie rudimentali e incongrue. _ Vengono dalla Bessarabia, _ mi spiegò il greco: _ sono tutte alle mie dipendenze. Ai russi piacciono così, bianche e spesse. Era una gran pagaille qui prima ma da quando me ne occupo io, tutto va a meraviglia: pulizia, assortimento, discrezione, e nessuna questione per i quattrini. È un buon affare, anche: e qualche volta, moi aussi j' y prends mon plaisir. Mi ritornò a mente, sotto nuova luce, l' episodio dell' uovo sodo, e la sfida sdegnosa del greco: _ Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! _ No, non avevo bisogno di una donna, o per lo meno non in quel senso. Ci separammo dopo un cordiale colloquio e dopo di allora, essendosi posato il turbine che aveva sconvolto questa vecchia Europa, trascinandola in una contraddanza selvaggia di separazioni e di incontri, non ho più rivisto il mio maestro greco, né ho più sentito parlare di lui.

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Avrebbe dovuto, penso, raccogliere gli esausti: si occupava invece diligentemente di recuperare i bagagli che a mano a mano venivano abbandonati sulla pista da gente che per la stanchezza rinunciava a portarli oltre. Per un poco ci illudemmo che li avrebbe restituiti all' arrivo: ma il primo che provò ad arrestarsi e ad attendere la carretta fu accolto con urla, schiocchi di frusta e minacce inarticolate. In questo modo finirono i due volumi di ostetricia, che costituivano di gran lunga la parte più pesante del mio bagaglio personale. Al tramonto, il nostro gruppo procedeva ormai isolato. Camminavano accanto a me il mite e paziente Leonardo; Daniele, zoppicante ed inferocito dalla sete e dalla stanchezza; il signor Unverdorben, con un suo amico triestino; e Cesare, naturalmente. Ci arrestammo a prendere fiato all' unica curva che interrompeva la fiera monotonia della strada; c' era una capanna scoperchiata, forse l' unico resto visibile di un villaggio spazzato dalla guerra. Dietro, scoprimmo un pozzo, a cui ci dissetammo con voluttà. Eravamo stanchi e avevamo i piedi gonfi e piagati. Io avevo perso da tempo le mie scarpe da arcivescovo, ed avevo ereditato da chissà chi un paio di scarpette da ciclista, leggere come piume; ma mi andavano strette, ed ero costretto a toglierle ad intervalli e a camminare scalzo. Tenemmo un breve consiglio: e se quello ci faceva camminare tutta la notte? Non ci sarebbe stato da stupirsene: una volta a Katowice i russi ci avevano fatto scaricare stivali da un treno per ventiquattr' ore filate, e anche loro lavoravano con noi. Perché non imboscarci? A Staryje Doroghi saremmo arrivati con tutta calma il giorno dopo, il russo ruolini per fare un appello non ne aveva sicuro, la notte si annunciava tiepida, acqua ce n' era, e qualcosa per cena, fra tutti e sei, non molto, ne avevamo. La capanna era in rovina, ma un po' di tetto per ripararci dalla rugiada c' era ancora. _ Benissimo, _ disse Cesare. _ Io ci sto. Per stasera, io mi voglio fare una gallinella arrostita. Così ci nascondemmo nel bosco finché la carretta con lo scheletro non fu passata, aspettammo che gli ultimi ritardatari se ne fossero andati dal pozzo, e prendemmo possesso del nostro luogo di bivacco. Stendemmo a terra le coperte, aprimmo i sacchi, accendemmo un fuoco, e cominciammo a preparare la cena, con pane, "kasa" di miglio e una scatola di piselli. _ Ma quale cena, _ disse Cesare; _ ma quali piselli. Voi non avete capito bene. Io stasera voglio fare festa, e mi voglio fare una gallinella arrostita. Cesare è un uomo indomabile: già me n' ero potuto convincere girando con lui i mercati di Katowice. Fu inutile rappresentargli che trovare un pollo di notte, in mezzo alle paludi del Pripet, senza sapere il russo e senza soldi per pagarlo, era un proposito insensato. Fu vano offrirgli doppia razione di "kasa" purché stesse quieto. _ Voi statevene con la vostra cascetta: io la gallina me la vado a cercare da solo, ma poi non mi vedete più. Saluto voi e i russi e la baracca, e me ne vado, e torno in Italia da solo. Magari passando per il Giappone. Fu allora che mi offrii di accompagnarlo. Non tanto per la gallina o per le minacce: ma voglio bene a Cesare, e mi piace vederlo al lavoro. _ Bravo, Lapé, _ mi disse Cesare. Lapé sono io: così mi ha battezzato Cesare in tempi remoti, e così tuttora mi chiama, per la ragione seguente. Come è noto, in Lager avevamo i capelli rasati; alla liberazione, dopo un anno di rasatura, a tutti, e a me in specie, i capelli erano ricresciuti curiosamente lisci e morbidi: a quel tempo i miei erano ancora molto corti, e Cesare sosteneva che gli ricordavano la pelliccia di coniglio. Ora "coniglio", anzi, "pelle di coniglio", nel gergo merceologico di cui Cesare è esperto, si dice appunto Lapé. Daniele invece, il barbuto e ispido e aggrondato Daniele, assetato di vendetta e di giustizia come un antico profeta, si chiamava Corallì: perché, diceva Cesare, se piovono coralline (perline di vetro) te le infili tutte. _ Bravo, Lapé, _ mi disse: e mi spiegò il suo piano. Cesare è infatti un uomo dai folli propositi, ma li persegue poi con molto senso pratico. La gallina non se l' era sognata: dalla capanna, in direzione nord, aveva svagato un sentiero ben battuto, e quindi recente. Era probabile che conducesse a un villaggio: ora, se c' era un villaggio, c' erano anche le galline. Uscimmo all' aperto: era ormai quasi buio, e Cesare aveva ragione. Sul ciglio di una appena percettibile ondulazione del terreno, a forse due chilometri di distanza, fra tronco e tronco, si vedeva brillare un lumino. Così partimmo, inciampando in mezzo agli sterpi, inseguiti da sciami di voraci zanzare; portavamo con noi la sola merce di scambio di cui il nostro gruppo fosse risultato disposto a separarsi: i nostri sei piatti, comuni piatti di terraglia che i russi avevano a suo tempo distribuiti come casermaggio. Camminavamo nel buio, attenti a non perdere il sentiero, e gridavamo a intervalli. Dal villaggio non rispondeva nessuno. Quando fummo a un centinaio di metri, Cesare si fermò, prese fiato, e gridò: _ Ahò; a russacchiotti. Siamo amici. Italianski. Ce l' avreste una gallinella da vendere? _ Questa volta la risposta venne: un lampo nel buio, un colpo secco, e il miagolio di una pallottola, qualche metro sopra alle nostre teste. Io mi coricai a terra, pianino per non rompere i piatti; ma Cesare era inferocito, e restò in piedi: _ A li morté: ve l' ho detto che siamo amici. Figli di una buona donna, e fateci parlare. Una gallinella, vogliamo. Mica siamo banditi, mica siamo dòicce: italianski siamo! Non ci furono altre fucilate, e già si intravvedevano profili umani sul ciglio dell' altura. Ci avvicinammo cautamente, Cesare avanti, che continuava il suo discorso persuasivo, e io dietro, pronto a buttarmi per terra un' altra volta. Arrivammo finalmente al villaggio. Non erano più di cinque o sei case di legno intorno a una minuscola piazza, e su questa, ad attenderci, stava l' intera popolazione, una trentina di persone, in maggioranza contadine anziane, poi bimbi, cani, tutti in visibile allarme. Emergeva fra la piccola folla un gran vecchio barbuto, quello della fucilata: teneva ancora il moschetto a bilanci-arm. Cesare considerava ormai esaurita la sua parte, che era quella strategica, e mi richiamò ai miei doveri. _ Tocca a te, adesso. Cosa aspetti? Dài, spiegagli che siamo italiani, che non vogliamo far male a nessuno, e che vogliamo comperare una gallina da fare arrostire. Quella gente ci considerava con curiosità diffidente. Sembrava si fossero persuasi che, quantunque vestiti come due evasi, non dovevamo essere pericolosi. Le vecchiette avevano smesso di schiamazzare, ed anche i cani si erano acquietati. Il vecchio col fucile ci rivolgeva delle domande che non capivamo: io di russo non so che un centinaio di parole, e nessuna di esse si attagliava alla situazione, ad eccezione di "italianski". Così ripetei "italianski" diverse volte, finché il vecchio non cominciò a sua volta a dire "italianski" a beneficio dei circostanti. Intanto Cesare, più concreto, aveva cavato i piatti dal sacco, ne aveva disposto cinque bene in vista a terra come al mercato, e teneva il sesto in mano, dandogli stecche sull' orlo con l' unghia per far sentire che suonava giusto. Le contadine guardavano, divertite e incuriosite. _ Tarelki, _ disse una. _ Tarelki, da! _ risposi io, lieto di avere appreso il nome della merce che offrivamo: al che una di loro tese una mano esitante verso il piatto che Cesare andava mostrando. _ Eh, che ti credi? _ disse questi, ritirandolo vivamente: _ Mica li regaliamo _. E si rivolse a me inviperito: insomma, cosa aspettavo a chiedere la gallina in cambio? A cosa servivano i miei studi? Ero molto imbarazzato. Il russo, dicono, è una lingua indoeuropea, e i polli dovevano essere noti ai nostri comuni progenitori in epoca certamente anteriore alla loro suddivisione nelle varie famiglie etniche moderne. "His fretus", vale a dire su questi bei fondamenti, provai a dire "pollo" e "uccello" in tutti i modi a me noti, ma non ottenni alcun risultato visibile. Anche Cesare era perplesso. Cesare, nel suo intimo, non si era mai fatto pienamente capace che i tedeschi parlassero il tedesco, e i russi il russo, altro che per una stravagante malignità; era poi persuaso in cuor suo che solo per un raffinamento di questa stessa malignità essi pretendessero di non comprendere l' italiano. Malignità, o estrema e scandalosa ignoranza: aperta barbarie. Altre possibilità non c' erano. Perciò la sua perplessità andava rapidamente volgendosi in rabbia. Borbottava e bestemmiava. Possibile che fosse tanto difficile capire cosa è una gallina, e che volevamo barattarla contro sei piatti? Una gallina, di quelle che vanno in giro beccando, razzolando e facendo "coccodè": e senza molta fiducia, torvo e ingrugnato, si esibì in una pessima imitazione delle abitudini dei polli, accovacciandosi per terra, raspando con un piede e poi con l' altro, e beccando qua e là con la mano a cuneo. Tra una imprecazione e l' altra, faceva anche "coccodè": ma, come è noto, questa interpretazione del verso gallinesco è altamente convenzionale; circola esclusivamente in Italia, e non ha corso altrove. Perciò il risultato fu nullo. Ci guardavano con occhi attoniti, e certamente ci prendevano per matti. Perché, per quale scopo, eravamo arrivati dai confini della terra a fare misteriose buffonate sulla loro piazza? Ormai furibondo, Cesare si sforzò perfino di fare l' uovo, e intanto li insultava in modi fantasiosi, rendendo così anche più oscuro il senso della sua rappresentazione. Allo spettacolo improprio, il chiacchiericcio delle comari salì di un' ottava, e si trasformò in un brusio di vespaio disturbato. Quando vidi che una delle vecchiette si avvicinava al barbone, e gli parlava nervosamente guardando dalla nostra parte, mi resi conto che la situazione era compromessa. Feci rialzare Cesare dalla sue innaturali positure, lo calmai, e con lui mi avvicinai all' uomo. Gli dissi: _ Prego, per favore, _ e lo condussi vicino a una finestra, da cui la luce di una lanterna illuminava abbastanza bene un rettangolo di terreno. Qui, penosamente conscio di molti sguardi sospettosi, disegnai per terra una gallina, completa di tutti i suoi attributi, compreso un uovo a tergo per eccesso di specificazione. Poi mi rialzai e dissi: _ Voi piatti. Noi mangiare. Seguì una breve consultazione; poi scaturì dal capannello una vecchia dagli occhi scintillanti di gioia e di arguzia: fece due passi avanti, e con voce squillante pronunziò: _ Kura! Kùritsa! Era molto fiera e contenta di essere stata lei a risolvere l' enigma. Da tutte le parti esplosero risate e applausi, e voci "kùritsa, kùritsa!": e anche noi battemmo le mani, presi dal gioco e dall' entusiasmo generale. La vecchina si inchinò, come una attrice al termine della sua parte; sparì e ricomparve dopo pochi minuti con una gallina in mano, già spennata. La fece dondolare burlescamente sotto il naso di Cesare, come controprova; e come vide che questi reagiva positivamente, allentò la presa, raccolse i piatti e se li portò via. Cesare, che se ne intende perché a suo tempo teneva banchetto a Porta Portese, mi assicurò che la curizetta era abbastanza grassa, e valeva i nostri sei piatti; la riportammo in baracca, svegliammo i compagni che già si erano addormentati, riaccendemmo il fuoco, cucinammo il pollo e lo mangiammo in mano, perché i piatti non li avevamo più.

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Avevamo freddo e fame, e ci sentivamo abbandonati e dimenticati. Il sesto giorno, snervato e inferocito più di tutti gli altri, Cesare ci piantò. Dichiarò che ne aveva abbastanza di Curtici, dei russi, del treno e di noi; che non voleva diventare matto, e neanche morire di fame o essere accoppato dai curticesi; che uno, quando è in gamba, se la cava meglio da solo. Disse che, se eravamo disposti, potevamo anche seguirlo: ma patti chiari, lui era stufo di fare della miseria, era pronto a correre dei rischi, ma voleva tagliare corto, far su quattrini alla svelta, e tornare a Roma in aeroplano. Nessuno di noi si sentì di seguirlo, e Cesare se ne andò: prese un treno per Bucarest, ebbe molte avventure, e riuscì nel suo proposito, tornò cioè a Roma in aereo, sebbene più tardi di noi; ma questa è un' altra storia, una storia "de haulte graisse", che non racconterò, o racconterò in altra sede solo se e quando Cesare me ne darà il permesso. Se in Romania avevo provato un delicato piacere filologico nel gustare nomi quali Galati, Alba Julia, Turnu Severin, al primo ingresso in Ungheria ci imbattemmo invece in Békéscsaba, cui fecero seguito Hòdmezo5vasàrhely e Kiskunfélegyhàza. La pianura magiara era intrisa d' acqua, il cielo era plumbeo, ma sopra ogni cosa ci attristava la mancanza di Cesare. Aveva lasciato fra noi un vuoto doloroso: in sua assenza, nessuno sapeva di cosa parlare, nessuno più riusciva a vincere la noia del viaggio interminabile, la fatica dei diciannove giorni di tradotta che ormai ci pesavano sulle spalle. Ci guardavamo l' un l' altro con un vago senso di colpa: perché lo avevamo lasciato partire? Ma in Ungheria, malgrado i nomi impossibili, ci sentivamo ormai in Europa, sotto l' ala di una civiltà che era la nostra, al riparo da allarmanti apparizioni quali quella del cammello in Moldavia. Il treno puntava verso Budapest, ma non vi penetrò: sostò a più riprese a Ujpest e in altri scali periferici il 6 di ottobre, concedendoci visioni spettrali di ruderi, di baracche provvisorie e di strade deserte; poi si inoltrò nuovamente nella pianura, fra scrosci di pioggia e veli di nebbia autunnale. Fermò a Szòb, ed era giorno di mercato: scendemmo tutti, per sgranchirci le gambe e spendere i pochi soldi che avevamo. Io non avevo più nulla: ma ero affamato, e barattai la giacca di Auschwitz, che avevo gelosamente conservata fino allora, contro un nobile impasto di formaggio fermentato e cipolle, il cui aroma acuto mi aveva avvinto. Quando la macchina fischiò, e risalimmo sul vagone, ci contammo, ed eravamo due in più. Uno era Vincenzo, e nessuno se ne stupì. Vincenzo era un ragazzo difficile: un pastore calabrese di sedici anni, finito in Germania chissà come. Era selvaggio quanto il Velletrano, ma di natura diversa: timido, chiuso e contemplativo quanto quello era violento e sanguigno. Aveva mirabili occhi celesti, quasi femminei, e un viso fine, mobile, lunare: non parlava quasi mai. Era nomade nell' anima, inquieto, attratto a Staryje Doroghi dal bosco come da demoni invisibili: e anche sul treno, non aveva residenza stabile in un vagone, ma li girava tutti. Subito comprendemmo il perché della sua instabilità: appena il treno partì da Szòb, Vincenzo piombò a terra, con gli occhi bianchi e la mascella serrata come di sasso. Ruggiva come una belva, e si dibatteva, più forte dei quattro alpini che lo trattenevano: una crisi epilettica. Certamente ne aveva avute altre, a Staryje Doroghi e prima: ma ogni volta, quando ne avvertiva i segni premonitori, Vincenzo, spinto da una sua selvatica fierezza, si era rifugiato nella foresta perché nessuno sapesse del suo male; o forse, davanti al male fuggiva, come gli uccelli davanti alla tempesta. Nel lungo viaggio, non potendo restare a terra, quando sentiva arrivare l' attacco cambiava vagone. Stette con noi pochi giorni, poi sparì: lo ritrovammo appollaiato sul tetto di un altro vagone. Perché? Rispose che di lassù si vedeva meglio la campagna. Anche l' altro nuovo ospite, per diverse ragioni, si rivelò un caso difficile. Nessuno lo conosceva: era un ragazzotto robusto, scalzo, vestito con giacca e pantaloni dell' Armata Rossa. Parlava solo ungherese, e nessuno di noi riusciva a capirlo. Il Carabiniere ci raccontò che, mentre a terra stava mangiando pane, il ragazzo gli si era avvicinato e aveva teso la mano; lui gli aveva ceduto metà del suo cibo, e da allora non era più riuscito a staccarlo: mentre tutti risalivamo in fretta sul vagone, doveva averlo seguito senza che nessuno ci badasse. Fu accolto bene: una bocca in più da sfamare non preoccupava. Era un ragazzo intelligente e allegro: appena il treno fu in moto, si presentò con grande dignità. Si chiamava Pista e aveva quattordici anni. Padre e madre? Qui era più difficile farsi intendere: trovai un mozzicone di matita e un pezzo di carta, e disegnai un uomo, una donna, e un bambino in mezzo; indicai il bambino dicendo "Pista", poi rimasi in attesa. Pista si fece serio, poi fece un disegno di terribile evidenza: una casa, un aereo, una bomba che stava cadendo. Poi cancellò la casa, e disegnò accanto un grosso cumulo fumante. Ma non era in vena di cose tristi: appallottolò quel foglio, ne chiese un altro, e disegnò una botte, con singolare precisione. Il fondo, in prospettiva, e tutte le doghe visibili, a una a una; poi la cerchiatura, e il foro con lo spinotto. Ci guardammo interdetti: quale era il senso del messaggio? Pista rideva, felice: poi disegnò se stesso accanto, col martello in una mano e la sega nell' altra. Non avevamo ancora capito? era il suo mestiere, era bottaio. Tutti gli vollero subito bene; d' altronde, teneva a rendersi utile, spazzava il pavimento tutte le mattine, lavava con entusiasmo le gavette, andava a prendere l' acqua, ed era felice quando lo mandavamo a "fare la spesa" presso i suoi compatrioti delle varie fermate. Al Brennero, si faceva già intendere in italiano: cantava belle canzoni del suo paese, che nessuno capiva, poi cercava di spiegarcele a gesti, facendo ridere tutti e ridendo di gran cuore lui per primo. Era affezionato come un fratello minore al Carabiniere, e ne lavò a poco a poco il peccato originale: aveva bensì ucciso padre e madre, ma in fondo doveva essere un buon figliolo, dal momento che Pista lo aveva seguito. Riempì il vuoto lasciato da Cesare. Gli chiedemmo perché era venuto con noi, che cosa veniva a cercare in Italia: ma non riuscimmo a saperlo, in parte per la difficoltà di intenderci, ma principalmente perché lui stesso sembrava lo ignorasse. Da mesi vagabondava per le stazioni come un cane randagio: aveva seguito la prima creatura umana che lo avesse guardato con misericordia. Speravamo di passare dall' Ungheria all' Austria senza complicazioni di confine, ma non fu così: il mattino del 7 ottobre, ventiduesimo giorno di tradotta, eravamo a Bratislava, in Slovacchia, in vista dei Beschidi, degli stessi monti che sbarravano il lugubre orizzonte di Auschwitz. Altra lingua , altra moneta, altra via: avremmo chiuso l' anello? Katowice era a duecento chilometri: avremmo ricominciato un altro vano, estenuante circuito per l' Europa? Ma a sera entrammo in terra tedesca: il giorno . eravamo incagliati nello scalo merci di Leopoldau, una stazione periferica di Vienna, e ci sentivamo quasi a casa. La periferia di Vienna era brutta e casuale come quelle a noi familiari di Milano e di Torino, e come quelle, nelle ultime visioni che ne ricordavamo, macinata e sconvolta dai bombardamenti. I passanti erano pochi: donne, bambini, vecchi, nessun uomo. Familiare, paradossalmente, mi suonava anche il loro linguaggio: alcuni comprendevano perfino l' italiano. Cambiammo a caso il danaro che avevamo con moneta locale, ma fu inutile: come a Cracovia in marzo, tutti i negozi erano chiusi, o vendevano solo generi razionati. _ Ma che cosa si può comperare a Vienna senza tessera? _ chiesi ad una ragazzina, non più che dodicenne. Era vestita di stracci, ma portava scarpe coi tacchi alti ed era vistosamente truccata: _ Ueberhaupt nichts, _ mi rispose con scherno. Ritornammo alla tradotta per passarvi la notte; durante la quale, con molte scosse e stridori, percorremmo pochi chilometri e ci trovammo trasferiti in un altro scalo, Vienna-Jedlersdorf. Accanto a noi emerse dalla nebbia un altro convoglio, anzi, il cadavere tormentato di un convoglio: la locomotiva stava verticale, assurda, col muso puntato al cielo come se volesse salirvi; tutti i vagoni erano carbonizzati. Ci accostammo, spinti dall' istinto del saccheggio e da una curiosità irridente: ci ripromettevamo una soddisfazione maligna nel mettere le mani sulle rovine di quelle cose tedesche. Ma alla irrisione rispose irrisione: un vagone conteneva vaghi rottami metallici che dovevano avere fatto parte di strumenti musicali bruciati, e centinaia di ocarine di coccio, sole superstiti; un altro, pistole di ordinanza, fuse e arrugginite; il terzo, un intrico di sciabole ricurve, che il fuoco e la pioggia avevano saldato entro i foderi per tutti i secoli avvenire: vanità delle vanità, e il sapore freddo della perdizione. Ci allontanammo, e vagando alla ventura ci trovammo sull' argine del Danubio. Il fiume era in piena, torbido, giallo e gonfio di minaccia: in quel punto il suo corso è pressoché rettilineo, e si vedevano, uno dietro l' altro, in una brumosa prospettiva da incubo, sette ponti, tutti spezzati esattamente al centro, tutti coi monconi immersi nell' acqua vorticosa. Mentre ritornavamo alla nostra dimora ambulante, fummo riscossi dallo sferragliare di un tram, sola cosa viva. Correva all' impazzata sui binari malconci, lungo i viali deserti, senza arrestarsi alle fermate. Intravvedemmo il manovratore al suo posto, pallido come uno spettro; dietro a lui, deliranti di entusiasmo, stavano i sette russi della nostra scorta, e nessun altro passeggero: era il primo tram della loro vita. Mentre gli uni si spenzolavano fuori dei finestrini, gridando "hurrà, hurrà", gli altri incitavano e minacciavano il guidatore perché andasse più in fretta. Su una grande piazza si teneva mercato; ancora una volta un mercato spontaneo e illegale, ma assai più misero e furtivo di quelli polacchi, che avevo frequentato col greco e con Cesare: ricordava invece da vicino un altro scenario, la Borsa del Lager, indelebile nelle nostre memorie. Non banchetti, ma gente in piedi, freddolosa, inquieta, a piccoli crocchi, pronta alla fuga, con borse e valigie in mano e le tasche gonfie; e si scambiavano minuscole cianfrusaglie, patate, fette di pane, sigarette sciolte, spicciolo e logoro ciarpame casalingo. Risalimmo sui vagoni col cuore gonfio. Non avevamo provato alcuna gioia nel vedere Vienna sfatta e i tedeschi piegati: anzi, pena; non compassione, ma una pena più ampia, che si confondeva con la nostra stessa miseria, con la sensazione greve, incombente, di un male irreparabile e definitivo, presente ovunque, annidato come una cancrena nei visceri dell' Europa e del mondo, seme di danno futuro. Sembrava che il treno non potesse staccarsi da Vienna: dopo tre giorni di soste e di manovre, il 10 ottobre eravamo a Nussdorf, un altro sobborgo, affamati, bagnati e tristi. Ma il mattino dell' 11, quasi avesse ritrovato ad un tratto una traccia perduta, il treno puntò decisamente verso ponente: con inconsueta rapidità attraversò St. Po5lten, Loosdorf e Amstetten, e a sera, lungo la strada che correva parallelamente alla ferrovia, apparve un segno, portentoso ai nostri sguardi come gli uccelli che annunciano ai naviganti la terra vicina. Era un veicolo nuovo per noi: un' auto militare tozza e sgraziata, piatta come una scatola, che portava dipinta sulla fiancata una stella bianca e non rossa: una jeep, insomma. Un negro la guidava; uno degli occupanti si sbracciava verso di noi, e urlava in napoletano: _ Si va a casa, guaglioni! La linea di demarcazione era dunque vicina: la raggiungemmo a St. Valentin, a pochi chilometri da Linz. Qui fummo fatti scendere, salutammo i giovani barbari della scorta e il macchinista benemerito, e passammo in forza agli americani. I campi di transito sono tanto peggio organizzati quanto più breve è la durata media del soggiorno: a St. Valentin non ci si fermava che poche ore, un giorno al massimo, ed era perciò un campo molto sporco e primitivo. Non c' era luce né riscaldamento né letti: si dormiva sul nudo pavimento di legno, in baracche paurosamente labili, in mezzo al fango alto una spanna. La sola attrezzatura efficiente era quella dei bagni e della disinfezione: sotto questa specie, di purificazione e di esorcismo, l' Occidente prese possesso di noi. Al compito sacerdotale erano addetti alcuni G.I. giganteschi e taciturni, disarmati, ma adorni di una miriade di aggeggi di cui ci sfuggiva il significato e l' impiego. Per il bagno, tutto andò liscio: erano una ventina di cabine di legno, con doccia tiepida e accappatoi, lusso mai più visto. Dopo il bagno, ci introdussero in un vasto locale in muratura, tagliato in due da un cavo da cui pendevano dieci curiosi attrezzi, vagamente simili a martelli pneumatici: si sentiva fuori pulsare un compressore. Tutti e millequattrocento, quanti eravamo, fummo stipati da un lato della divisione, uomini e donne insieme: ed ecco entrare in scena dieci funzionari dall' aspetto poco terrestre, avvolti in tute bianche, con casco e maschera antigas. Agguantarono i primi del gregge, e senza complimenti infilarono loro le cannucce degli arnesi pendenti, via via, in tutte le aperture degli abiti: nel colletto, nella cintura, nelle tasche, su per i pantaloni, sotto le sottane. Erano specie di soffietti pneumatici, che insufflavano insetticida: e l' insetticida era il DDT, novità assoluta per noi, come le jeep, la penicillina e la bomba atomica, di cui avemmo notizia poco dopo. Imprecando o ridendo per il solletico, tutti si adattarono al trattamento, finché venne il turno di un ufficiale di marina e della sua bellissima fidanzata. Quando gli incappucciati misero le mani, caste ma rudi, su costei, l' ufficiale si pose energicamente di mezzo. Era un giovane robusto e risoluto: guai a chi osasse toccare la sua donna. Il perfetto meccanismo si arrestò netto: gli incappucciati si consultarono brevemente, con inarticolati suoni nasali, poi uno di loro si tolse maschera e tuta e si piantò davanti all' ufficiale coi pugni serrati, in posizione di guardia. Gli altri fecero cerchio ordinatamente, ed ebbe inizio un regolare incontro di pugilato. Dopo pochi minuti di combattimento silenzioso e cavalleresco, l' ufficiale cadde a terra col naso sanguinante; la ragazza, stravolta e pallida, venne infarinata da tutte le parti secondo le prescrizioni, ma senza collera né volontà di rappresaglia, e tutto rientrò nell' ordine americano.

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L'altrui mestiere

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Levi, Primo 1 occorrenze

Intanto il freddo si era fatto più intenso e la nebbia più fitta; il resto del mondo, nel tepore delle case, si preparava alla festa, e noi ci sentivamo abbandonati. I vigili correvano su e giù come equilibristi sui tubi di gomma dello schiumogeno, perché la miscela che vi era contenuta stava gelando. Il rimorchio ribaltato, coperto di schiuma, aveva assunto l' aspetto di un relitto vecchio di secoli. Arrivò finalmente la gru, poco prima di mezzanotte, ed insieme arrivò dello champagne offerto non so più da chi, se dai vigili o dalla società petrolifera o dalla fabbrica. Il rimorchio fu raddrizzato, ci demmo buone pacche sulla schiena per allegria e per riscaldarci un poco, e brindammo all' anno nuovo, al successo dell' operazione e allo scampato pericolo. Due giorni dopo appresi che il pericolo a cui eravamo scampati era più serio di quanto immaginassimo. In un altro libro, altrettanto poco noto, lessi che gli estintori ad anidride sono ottimi per estinguere incendi in atto, ma non devono assolutamente essere scaricati a scopo preventivo presso solventi incendiabili. L' anidride carbonica, uscendo con violenza dall' ugello, si raffredda e si condensa in aghi di "ghiaccio secco"; essi, sfregando contro l' ugello stesso, si elettrizzano e generano scintille che possono incendiare il solvente prima che l' atmosfera sia diventata inerte, o quando l' estintore è esaurito. Il libro descriveva un rovinoso incendio con esplosione avvenuto in olanda: erano morte decine di persone, ed era stato scatenato dall' uso improprio di un estintore ad anidride. Mi pare che da questi due episodi si ricavi una morale. Il nostro mondo si fa sempre più complicato, e ad ognuno occorre una competenza sempre più affinata e aggiornata. I mestieri pericolosi sono molti, e l' analisi dei pericoli (palesi e occulti) dovrebbe costituire l' alfabeto di ogni formazione professionale. Non si riuscirà mai ad annullare tutti i rischi né a risolvere tutti i problemi, ma ogni problema risolto è una vittoria, in termini di vite umane, salute e ricchezze salvate. La competenza non ha surrogati: lo si è visto di recente nell' episodio terribile del bambino precipitato in un pozzo abbandonato, e morto dopo due giorni di tentativi generosi ma sbagliati. La buona volontà, il coraggio, lo spirito di sacrificio, l' ingegno estemporaneo non servono molto, anzi, in mancanza di competenza possono essere nocivi. Agli uomini di buona volontà è promessa la pace sulla terra, ma, nelle situazioni di emergenza, guai a chi si fida dei soccorritori che dispongono solo di buona volontà.

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sono, in maggioranza, ex ospiti degli ospedali psichiatrici: se non sono pericolosi, vengono dimessi e abbandonati a se stessi. All' estremo opposto, al vertice della civiltà occidentale, stanno le fonti della cultura: musei, biblioteche, scuole, teatri. L' offerta di cultura è terrific:si dice così, il termine è positivo. È terrifica per qualità e quantità, e desta reverenza. L' amico americano me ne dà una spiegazione diminutiva, che non mi appaga: al ricco, fondare un istituto culturale conviene, può detrarne l' importo dalla dichiarazione delle imposte. Non credo che ci sia solo questo. C' è sete di cultura e rispetto per la cultura; a lungo termine, la cultura viene sentita come un buon investimento. Meritano lode, gli incolti miliardari texani e californiani che investono in cultura i loro dollari; ma per ora, a termine breve, i frutti sembrano scarsi. La cultura americana ha punte altissime, produce eccellenti specialisti, ma la sua media è più bassa di quella europea. Come l' humus del sottobosco, la cultura richiede i secoli: surrogati rapidi, instant, non esistono.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Era diventato la mascotte della caserma, in cui tuttavia non era il solo: come lui vivevano una dozzina di altri ragazzi o bambini che erano rimasti abbandonati, senza parenti, senza casa e senza mezzi. Erano ebrei e cristiani; per gli italiani sembrava che questo non facesse alcuna differenza, del che Avrom non finiva di stupirsi. Venne nel gennaio 1943 la rotta dell' Armir, la caserma si riempì di sbandati e poi fu smobilitata. Tutti gli italiani ritornavano in Italia, e gli ufficiali lasciarono capire che se qualcuno si voleva portare dietro quei ragazzi figli di nessuno loro avrebbero chiuso un occhio. Avrom aveva fatto amicizia con un alpino del Canavese: attraversarono il Tarvisio nella stessa tradotta, e il governo fascista li relegò insieme a Mestre, in un campo di quarantena. Di nome era una quarantena sanitaria, e del resto tutti avevano i pidocchi; di fatto era una quarantena politica, perché Mussolini non voleva che quei reduci raccontassero troppe cose. Ci restarono fino al 12 settembre, quando arrivarono i tedeschi, come se rincorressero proprio lui Avrom, stanandolo in tutti i nascondigli d' Europa. I tedeschi bloccarono il campo e caricarono tutti sui vagoni merci per portarli in Germania. Avrom, nel vagone, disse all' alpino che lui in Germania non ci sarebbe andato, perché i tedeschi li conosceva e sapeva di che cosa erano capaci: era meglio buttarsi giù dal treno. L' alpino rispose che anche lui aveva visto che cosa avevano fatto i tedeschi in Russia, ma che lui di buttarsi non aveva il coraggio. Saltasse giù Avrom, lui gli avrebbe fatto una lettera per i suoi in Canavese, con su scritto che quel ragazzo era un suo amico, che gli dessero il suo letto e lo trattassero preciso come se fosse lui. Avrom si buttò dal treno con la lettera in tasca. Era in Italia, ma non nell' Italia lucida e patinata delle cartoline illustrate e dei testi di geografia. Era solo, sulla massicciata della ferrovia, senza soldi, in mezzo alla notte e alle pattuglie tedesche, in un paese sconosciuto, da qualche parte fra Venezia e il Brennero. Sapeva soltanto che doveva raggiungere il Canavese. Tutti lo aiutarono e nessuno lo denunciò: trovò un treno per Milano, poi uno per Torino. A Porta Susa prese la Canavesana, scese a Cuorgné, e prese a piedi la strada per il paesino del suo amico. A questo punto Avrom aveva diciassette anni. I genitori dell' alpino lo accolsero bene, ma senza tante parole. Gli diedero dei vestiti, da mangiare e un letto, e poiché due braccia giovani servivano, lo misero a lavorare in campagna. In quei mesi l' Italia era piena di gente sbandata, fra cui c' erano anche inglesi, americani, australiani, russi, che erano scappati all' . settembre dai campi per prigionieri di guerra, e perciò nessuno fece molto caso a quel ragazzino forestiero. Nessuno gli fece domande; ma il parroco, parlandogli insieme, si rese conto che era sveglio, e disse ai genitori dell' alpino che era un peccato non farlo studiare. Così lo misero alla scuola dei preti. A lui, che ne aveva viste tante, andare a scuola e studiare piaceva; gli dava una impressione di tranquillità e di normalità. Però trovava buffo che gli facessero studiare il latino: che bisogno avevano i ragazzi italiani di imparare il latino, dal momento che l' italiano era quasi uguale. Ma studiò tutto con impegno, ebbe ottimi voti in tutte le materie, e in marzo il prete lo chiamò a servire messa. Questa faccenda, di un ragazzo ebreo che serve messa, gli sembrava anche più buffa, ma si guardò bene dal dire in giro che era ebreo, perché non si sa mai. A buon conto, aveva subito imparato a farsi il segno della croce e tutte le preghiere dei cristiani. Ai primi d' aprile piombò sulla piazza del paese un camion pieno di tedeschi, e tutti scapparono. Ma poi si accorsero che quelli erano tedeschi strani: non urlavano ordini né minacce, non parlavano tedesco, parlavano una lingua mai sentita, e cercavano gentilmente di farsi capire. Qualcuno ebbe l' idea di andare a cercare Avrom, che appunto era forestiero. Avrom arrivò sulla piazza, e lui e quei tedeschi si intesero benissimo, perché non erano tedeschi per niente: erano dei cecoslovacchi che i tedeschi avevano arruolato di forza nella Wehrmacht, e adesso avevano disertato portandosi via un camion militare e volevano andare coi partigiani italiani. Loro parlavano ceco e Avrom rispondeva in polacco, ma si capivano ugualmente. Avrom ringraziò gli amici canavesani e andò coi cechi. Non aveva idee politiche ben definite, ma aveva visto che cosa i tedeschi avevano fatto al suo paese, e gli sembrava giusto combattere contro di loro. I cechi furono aggregati ad una divisione di partigiani italiani che operava nella valle dell' Orco, e Avrom rimase con loro come interprete e staffetta. Uno dei partigiani italiani era ebreo e lo diceva a tutti; Avrom ne rimase stupito, ma continuò a non dire a nessuno che era ebreo anche lui. Ci fu un rastrellamento, e il suo reparto dovette risalire la valle fino a Ceresole Reale, dove gli raccontarono che si chiamava Reale perché ci veniva il Re d' Italia a cacciare i camosci, e glieli fecero anche vedere col cannocchiale, i camosci, sui costoni del Gran Paradiso. Avrom rimase abbagliato dalla bellezza delle montagne, di quel lago e dei boschi, e gli sembrava assurdo venirci per fare la guerra: infatti, a quel punto avevano armato anche lui. Ci fu combattimento coi fascisti che venivano su da Locana, poi i partigiani ripiegarono nelle valli di Lanzo attraverso il Colle della Crocetta. Per il ragazzo, che veniva dall' orrore del ghetto e dalla Polonia monotona, quella traversata per la montagna scabra e deserta, e le molte altre che seguirono, furono la rivelazione di un mondo splendido e nuovo, che racchiudeva in sé esperienze che lo ubriacavano e lo sconvolgevano: la bellezza del Creato, la libertà e la fiducia nei suoi compagni. Si susseguirono combattimenti e marce. Nell' autunno del 1944 il suo gruppo discendeva la Val Susa, di borgata in borgata, fino a Sant' Ambrogio. Ormai Avrom era un partigiano finito, coraggioso e robusto, disciplinato per profonda natura ma svelto col mitra e con la pistola, poliglotta ed astuto come una volpe. Venne a saperlo un agente del Servizio Segreto americano, e gli affidò una radiotrasmittente: stava in una valigia, lui doveva portarsela dietro spostandola continuamente perché non venisse individuata col radiogoniometro, e tenere i contatti con le armate che risalivano l' Italia dal Sud, e in specie coi polacchi di Anders. Di nascondiglio in nascondiglio, Avrom arrivò a Torino. Gli avevano dato l' indirizzo della parrocchia di San Massimo e la parola d' ordine. Il 25 aprile lo trovò annidato con la sua radio in una cella del campanile. Dopo la Liberazione, gli Alleati lo convocarono a Roma per regolarizzare la sua posizione, che in effetti era piuttosto imbrogliata. Lo caricarono su di una jeep, ed attraverso le strade sconnesse di allora, attraverso città e villaggi gremiti di gente sbrindellata che applaudiva, giunse in Liguria, e per la prima volta nella sua breve vita vide il mare. L' impresa del diciottenne Avrom, candido soldato di ventura, che come tanti remoti viaggiatori nordici aveva scoperto l' Italia con occhio vergine, e come tanti eroi del Risorgimento aveva combattuto per la libertà di tutti in un paese che non era il suo, finisce qui, davanti allo splendore del Mediterraneo in pace. Adesso Avrom vive in un kibbutz in Israele. Lui poliglotta non ha più una lingua veramente sua: ha quasi dimenticato il polacco, il ceco e l' italiano, e non ha ancora una padronanza piena dell' ebraico. In questo linguaggio per lui nuovo ha messo giù le sue memorie, sotto la forma di appunti scarni e dimessi, velati dalla distanza nello spazio e nel tempo. È un uomo umile, e li ha scritti senza le ambizioni del letterato e dello storico, pensando ai suoi figli e nipoti, perché resti ricordo delle cose che lui ha viste e vissute. È da sperare che trovino chi restituisca loro il respiro ampio e pulito che potenzialmente contengono.

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"La fortuna che prima ci proteggeva ci ha ora abbandonati, ma siamo uomini dotati di una certa dose di energia, e lotteremo fino all'estremo delle nostro forze." "Quanti giorni rimarremo ancora in aria?" "Coi mezzi di cui disponiamo e che ci rimangono quasi intatti, non avendo gettato finora che cento chilogrammi di zavorra, io calcolo di prolungare la vita del Washington di altri sette o otto giorni." "È impossibile che in tanto tempo non riusciamo ad attraversare quest'oceano. In dodici ore sole abbiamo percorso circa mille miglia: in sette giorni, procedendo anche lentamente, possiamo ben varcare la distanza che ci separa dalle coste africane." "Ma le calme dei Tropici durano talvolta delle settimane." "Diavolo!" "E un altro pericolo ci minaccia: la mancanza d'acqua. Durante la giornata di ieri la nostra provvista è scemata di altri venticinque o trenta litri." "Che salasso! E non si vede una nube! Il barometro segna qualche prossimo cambiamento di tempo?" "No, O'Donnell; indica calma perfetta." "Confidiamo in Dio e nel nostro coraggio." L'irlandese dopo queste parole si sdraiò presso Simone e s'immerse in profondi pensieri, mentre l'ingegnere si sedeva a prua della scialuppa con gli sguardi volti verso l'est. Il Washington che era risalito di duemila metri, s'avanzava lentamente verso oriente, trasportato da un filo d'aria che soffiava irregolarmente. Era molto se riusciva a percorrere sette otto miglia all'ora. L'Atlantico era sempre deserto. Non si scorgeva che la nave dei morti, la cui massa nera spiccava nettamente sulla tinta azzurra dell'acqua. Perfino i fetonti, gli uccelli del Tropico, erano scomparsi, e non si udivano più le loro grida, che rallegravano l'animo degli aeronauti. In quella sterminata distesa d'acqua e nelle profondità incommensurabili della volta celeste regnava un silenzio assoluto, un silenzio di tomba, che impressionava l'irlandese e l'ingegnere, accrescendo la loro tristezza. A mezzodì il termometro segnava 39o di calore; all'una toccò i 40o e alle due i 43o. L'aria era diventata tanto ardente, che agli aeronauti sembrava di respirare quella che esce da un gigantesco forno appena viene aperto. Quale salasso doveva fare quel calore intenso nella loro provvista d'acqua, che era già tanto scarsa! Alle tre il pallone cominciò a discendere lentamente. Fu una vera fortuna però, poiché a milleottocento metri incontrò una corrente d'aria più fresca, la quale lo trascinò verso l'est con la velocità di dodici o tredici miglia all'ora. Un'ora dopo, i due aeronauti, che si erano messi in osservazione sul dinanzi della scialuppa, scorsero una leggera nube che si estendeva verso l'est, a circa tre chilometri dal Washington e che pareva si dirigesse verso il sud. Se si potesse entrare fra quella nebbia, si troverebbe un po' di frescura?" chiese l'irlandese. "Ne dubito, O'Donnell," rispose l'ingegnere. E poi siamo più alti di almeno quattrocento metri." "Che quella nube indichi un cambiamento di tempo?" "Forse, ma quel cambiamento può essere molto lontano." Alle cinque il Washington che faceva sempre le sue dieci miglia all'ora, si librava su quelle nebbie. Esse formavano dei grandi cumuli, sospesi a varie altezze e separati gli uni dagli altri da spazi considerevoli. I due aeronauti, quando si trovarono sopra a quei banchi, assistettero a un fenomeno sorprendente. L'ombra dei due immensi fusi, proiettata su quelle nebbie apparve circondata da un'aureola coi sette colori dell'iride, la quale cambiava, ad ogni istante, dimensione e forma. Ora si allargava immensamente, avvolgendo l'ombra intera dei due grandi fusi, che pareva immersa in un cerchio di luce dagli splendidi colori; ora rimpiccioliva e impallidiva; poi si rompeva, si ricostituiva e cingeva solamente l'ombra dell'uno o dell'altro fuso o della sola navicella. Alle otto, nel momento in cui il sole precipitava sotto l'orizzonte, l'aerostato entrò in una nuova corrente d'aria, che scendeva dal nord. La temperatura si abbassò bruscamente, come se quella corrente fosse prima passata sopra una regione assai fredda. In dieci soli minuti il termometro, caso veramente strano, si abbassò di 24o! L'idrogeno si condensò rapidamente, e il Washington non discese, precipitò, come se volesse cadere nell'oceano. Si arrestava alcuni minuti, poi scendeva di colpo di tre o quattrocento metri, poi tornava ad arrestarsi, indi ricadeva di altrettanti. O'Donnell aveva preparato un sacco di zavorra per fermarlo a tempo, ma non ne ebbe bisogno, poiché l'aerostato, giunto a duecento metri dalla superfìcie dell'oceano, riprese il suo equilibrio. "Si respira!" esclamò O'Donnell. "Era tempo che questo calore d'inferno si mitigasse. Se fosse continuato ancora tre giorni, ci avrebbe disseccati. Ma a che cosa si deve questo brusco abbassamento di temperatura?" "Forse a qualche grande uragano che si è scatenato nelle regioni settentrionali." rispose l'ingegnere. "Non durerà molto, O'Donnell e domani tornerà a fare caldo." "Lo credete?" "Sì, questa corrente non tarderà a scaldarsi sotto questi climi ardenti" "Che il pallone scenda ancora? " "Non lo credo; tuttavia veglieremo a turni." Cenarono con un po' di carne conservata e una scatola di tonno, misurandosi l'acqua. Poi O'Donnell si sdraiò presso Simone, che continuava a russare, mentre l'ingegnere vegliava, seduto sul suo materasso, che si trovava a prua. Durante quel primo quarto d'ora di guardia non accadde nulla. Solamente il pallone, il cui idrogeno continuava a condensarsi perché la corrente d'aria restava sempre fredda, discese ancora di oltre cento metri. A mezzanotte O'Donnell rilevò l'ingegnere. Diede uno sguardo intorno, un altro all'oceano, che brontolava a soli trenta metri di distanza, poi si sedette a prua, fumando una sigaretta. Erano già trascorse le due ore, e cominciava a socchiudere gli occhi invitato dal leggero dondolamento dell'aerostato, quando tutto ad un tratto la navicella subì una scossa violenta. Si volse rapidamente e ritto sulla poppa vide il negro, coi capelli irti, gli occhi luccicanti come quelli degli animali notturni, le braccia in aria. "Simone!" esclamò "Che cosa fai?" Il pazzo emise un grido rauco: "II mostro! ... il mostro!" esclamò con voce strozzata. L'irlandese si avventò su di lui, ma era troppo tardi. Il povero pazzo preso chissà da quale terrore, fece atto di fuggire e mise i piedi nel vuoto. O'Donnell emise un grido: "Mister Kelly!" Poi mentre il pallone, scaricato del peso di Simone, s'innalzava, egli, senza badare al pericolo che stava per affrontare, si precipitò nell'oceano dietro al pazzo. L'ingegnere, svegliato di soprassalto, udì due gridi e due tonfi, poi più nulla. L'aerostato, bruscamente alleggerito di quei due corpi, che pesavano centoquaranta chilogrammi, trascinava Kelly con rapidità vertiginosa attraverso le alte regioni dell'atmosfera!

Malgrado siano di natura vulcanica e l'acqua scarseggi, sono assai fertili e, oltre al vino, producono in abbondanza biade, patate, canna da zucchero, ma questi prodotti a poco a poco vengono abbandonati, essendo meno remunerativi delle viti. Danno altresì castagne del legno detto sangue di drago, e aranci, e l'oceano che le circonda è ricco di pesci, specialmente sardine, che si prendono in grande quantità. La scoperta di queste isole, quantunque così vicine alle coste africane ed europee, si deve puramente al caso. È probabile che gli antichi fenici e i Cartaginesi, che visitarono le Canarie, le abbiano vedute molti e molti secoli prima, ma al pari di queste ultime rimasero ignote fino al 1344. Fu in quell'epoca che Roberto Macham, gentiluomo inglese, fu spinto dai venti sulle spiagge di Madera, mentre fuggiva su di una nave con alcuni amici e la figlia del duca di Dorset, che dal padre era stata costretta a sposare forzatamente un alto dignitario del regno, mentre essa aveva giurato eterno amore al giovane gentiluomo. La notizia della scoperta venne recata in Europa dai compagni di Macham, dopo che questi e la sua amante erano morti. Gli aeronauti, senza bisogno di cannocchiali, distinguevano nettamente le due isole maggiori e le altre minori, essendo l'orizzonte limpidissimo. Quantunque fossero lontani oltre ottanta miglia, l'ingegnere additò ai suoi compagni il monte Ruino, che è il più elevato di tutti. "È laggiù che si raccoglie quel vino squisito, Mister Kelly?" chiese l'irlandese. "Sì, amico mio." "Ne producono molto quelle isole?" "Quando le annate sono buone, quei vigneti danno circa 5000 pipe(2), ossia 2.685.000 litri. Nel 1852 quelle isole corsero il pericolo di perdere interamente i loro raccolti a causa della comparsa dell'oidium tuckeri, ma gli abitanti vi posero riparo piantando i vitigni americani." "Richiede delle cure speciali quel vino per riuscire così squisito?" "Quasi nessuna, O'Donnell. Basta esporlo per qualche tempo a un'alta temperatura per renderlo più delizioso, e aggiungervi poi una certa dose di alcool, circa dieci litri in ogni pipa. Anticamente anzi, perché prendesse meglio il caldo, che non dev'essere inferiore ai 50o, s'imbarcavano le botti piene di madera e si trasportavano al di là dell'equatore, e su quelle botti gli inglesi, che hanno sempre esercitato l'esportazione di quel prezioso nettare, applicavano un cartellino su cui era scritto: "Twice passed the line" per indicare che aveva passato due volte la linea dell'equatore e che quindi era perfettamente stagionato." "Che sia il terreno che rende così buono quel vino?" Così deve essere, e pare che la sua fertilità derivi da un terribile incendio che durò sette anni." "Ma chi lo accese?" "I primi navigatori portoghesi: Zarco, Fechevra e Pestrello, per distruggere i grandi boschi che coprivano Madera. Quelle ceneri bastarono per concimare immensamente quei terreni." "E a chi venne in mente di piantare delle viti su quelle isole?" "Ai portoghesi, che piantarono nel 1425 alcune talee fatte venire dall'isola di Cipro. In seguito ne piantarono altre di specie diversa, ottenendo così parecchi tipi di vino." "Ma non sono molti anni che questi vini sono diventati celebri." "Tutt'altro, caro amico. Fin dal 1445 il navigatore veneziano Ca'da Mosto li fece conoscere, vantandone le squisitezze, e Francesco I, re di Francia, che fu il primo che lo bevette in Europa e confermò la sua straordinaria bontà, rendendolo di colpo famoso." In quell'istante l'aerostato virò bruscamente di bordo, descrivendo mezzo giro su se stesso e imprimendo alla navicella un largo dondolìo. "Cadiamo?" chiesero O'Donnell e il mozzo. "No," rispose l'ingegnere; "ma ... " "Cambia la corrente?" L'ingegnere rispose con un gesto disperato. Si precipitò verso la bussola e impallidì. "Torniamo al sud!" esclamò con voce sorda. "Al sud!" esclamò O'Donnell. "Si è rotta la corrente?" "Peggio ancora." "Che avviene dunque?" "Una cosa assai grave: i venti alisei ci hanno afferrato e ci respingono nell'Atlantico!" "Per centomila corna di cervo! ... Siamo perseguitati dal destino?" Per parecchi minuti un cupo silenzio regnò sull'aerostato, che il vento trascinava con grande rapidità verso le regioni equatoriali. L'ingegnere e l'irlandese si sentivano vinti e si chiedevano con angoscia quale sorte doveva a loro serbare il destino, che pareva avesse giurato la loro perdita, dopo aver fatto balenare in loro la speranza di condurli verso le coste europee. Se non sopraggiungeva un miracolo, la loro situazione si poteva considerare disperata. La grande corrente degli alisei, che fino ad allora avevano cercato di evitare, non li avrebbe più lasciati, e doveva respingerli in mezzo all'Atlantico, per poi gettarli sulle lontane coste dell'America centrale e forse su quelle del continente meridionale. Si sarebbero mantenuti in aria tanto tempo da riattraversare l'oceano? Non era possibile, coi mezzi limitati che ormai possedevano. Una caduta in mezzo all'Atlantico ora sembrava inevitabile, e quale disastro allora, privi quasi di acqua come erano! L'ingegnere vinto dalla tristezza che lo invadeva, si era lasciato cadere a prora della scialuppa, con la testa stretta fra le mani; O'Donnell gettava sguardi disperati alle isole che sparivano a poco a poco fra le tenebre calanti rapidamente come un branco di corvi; il solo Walter, il povero mozzo raccolto morente sull'oceano, era tranquillo e pareva chiedersi il motivo della disperazione che accasciava i suoi salvatori. "Mister O'Donnell," mormorò timidamente, "è forse il peso della mia persona che ha prodotto il cambiamento di direzione dell'aerostato?" "No, povero ragazzo," disse l'irlandese, sforzandosi di sorridere. "È il vento che, invece di avvicinarci alle coste africane o europee, ci trascina verso l'America." "Non possiamo fermarci, gettando l'ancora, e attendere un vento più favorevole?" "A quest'altezza è impossibile, Walter. Tutte le nostre funi riunite non giungerebbero a toccare la superficie dell'oceano. Più tardi, quando l'idrogeno si sarà condensato, cercheremo di fermarci." "Volete che annodi le funi?" "Sì," disse l'ingegnere scuotendosi. "Bisogna fermarci e non lasciarci trascinare in mezzo all'Atlantico." "Sperate in un cambiamento di vento, Mister Kelly?" chiese O'Donnell. "Spero in un uragano." "Segna una vicina perturbazione il barometro?" "L'ho notato stamane." "E romperà la grande corrente?" "Lo spero, O'Donnell: se non sulla superficie dell'oceano, forse in alto, a tremila, quattromila, a seimila metri, o più sopra." "Possiamo abbassarci subito e gettare le àncore, sacrificando un po' di gas?" "Ora? Sarebbe un'imprudenza, amico mio, perdere dell'idrogeno, mentre forse il vento ci spingerà attraverso l'Atlantico invece di portarci verso l'Africa. Voglio conservare tutte le forze del Washington per cercare in alto una nuova corrente." "Ma scendiamo al sud con grande rapidità, Mister Kelly." "Non importa: l'Africa l'abbiamo alla nostra sinistra e per lungo tempo non l'abbandoneremo. Che approdiamo qui o più al sud, sulle coste del Sahara o della Senegambia o della Sierra Leone, cosa importa, ora che l'Europa ci sfugge? Quando il Washington si abbasserà, getteremo le àncore e attenderemo la burrasca per innalzarci più che potremo." "E se quell'uragano ci spingesse invece all'ovest?" "Siamo nelle mani di Dio: accadrà ciò che Egli vorrà." "Ritenete che il Washington non possieda forze sufficienti per riattraversare l'Atlantico?" "Lo dubito, O'Donnell. È vero che i venti, durante gli uragani, acquistano delle rapidità incredibili e che sole 1500 miglia separano le coste della Sierra Leone e il capo brasiliano di San Rocco, ma i nostri mezzi sono ormai scarsi, e cadremmo in mezzo all'oceano, a meno che qualche nave non ci raccogliesse." "To'! E i nostri amici, li abbiamo dimenticati? Chissà che non ci cerchino a quest'ora, se i piccioni messaggeri sono giunti all'Isola Brettone. "Magra speranza, O'Donnell. L'Atlantico è immenso e i miei amici non possono sapere dove il vento ci ha spinto. Non dobbiamo contare che sulle nostre forze." "Ma mi sembra, Mister Kelly, che il nostro idrogeno si condensi molto lentamente questa sera. perché non abbiamo ancora cominciato la discesa." "Ci troviamo in una corrente d'aria assai calda, e il nostro Washington è stato rinvigorito poche ore fa, ma cadremo, O'Donnell, ve lo assicuro. Intanto annodiamo tutte le funi disponibili e prepariamoci a calare i nostri coni." Il Washington come aveva giustamente notato O'Donnell, non accennava a scendere, quantunque la temperatura si fosse abbassata di alcuni gradi. Si manteneva ancora a 2500 metri di altezza, filando verso il sud con una rapidità di ben sessantadue chilometri all'ora. Se quel vento non rallentava, il Washington doveva perdere l'intero vantaggio acquistato durante la giornata e ritrovarsi nei paraggi delle Canarie, che aveva lasciato verso le undici del mattino. Alle dieci però la discesa dell'aerostato cominciò, ma era assai lenta. Calava in ragione di trecento o trecentocinquanta metri all'ora, mentre invece la rapidità del vento aumentava. A mezzanotte l'ingegnere segnalò ai suoi compagni un punto luminoso, che si scorgeva verso l'est. "Una nave?" chiese O'Donnell. "No," rispose Mister Kelly, che aveva puntato un cannocchiale in quella direzione. "È un bagliore lampeggiante, sarà il faro di Teneriffa o dell'isola del Ferro." "Di già alle Canarie? E la corsa aumenta!" Alle tre del mattino l'aerostato si trovava a soli duecento metri dalla superficie dell'oceano. L'ingegnere fece gettare i due coni, che si riempirono subito d'acqua, immobilizzando il vascello aereo. "Riposiamo," disse poi. "Non corriamo alcun pericolo." I tre aeronauti, che avevano vegliato fino ad allora e che cadevano dal sonno, si coricarono sui loro materassi e si addormentarono profondamente, cullati dolcemente dalla grande corrente degli alisei.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682231
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Abbandonati a se stessi, non piú protetti dalle nazioni nemiche della Spagna, privi di patenti di corso che accordavano loro il diritto di belligeranti, un gran numero di loro avevano deciso di portare la guerra sull'Oceano Pacifico, memori della famosa conquista di Panama compiuta alcuni anni prima da Morgan. Ormai sulle coste del golfo del Messico avevano rovinate tutte le piú importanti città spagnuole ed avevano ridotto gli abitanti alla miseria. Sulle coste del Pacifico invece, Panama era risorta piú fiorente e piú ricca che mai, e numerose città vivevano dei fiumi d'oro che le inesauribili miniere del Messico e del Perú rovesciavano verso l'America centrale. Conoscevano già l'Oceano Pacifico e sapevano, per l'esperienza che avevano fatta in alcune spedizioni, come colà gli spagnoli stavano in poco sospetto e non molte erano le forze che si trovavano nelle varie città costiere. E cosí, verso il principio del 1684 i filibustieri della Tortue cominciarono a lasciare il golfo del Messico, impazienti di mettere le mani sui galeoni provenienti dal Chili, dal Perú e dalla California. La prima partita si componeva di ottocento inglesi, ai quali tennero poi dietro duecento francesi, poi altre piú piccole, che forse non riuscirono a vedere le onde dell'Oceano, poiché nessuno udí mai più parlare di queste ultime. Quei filibustieri, come abbiamo detto, erano inglesi, danesi, francesi e non mancavano avventurieri di Genova e di Venezia fra di loro. I primi montavano nove legni, i francesi e gli altri uno solo, ed erano sotto la direzione d'un famoso corsaro inglese chiamato Davis. Quando leggiamo nelle storie dei navigatori del 1700, Cook, Bougainville, La Perouse, Krusenster e tanti altri, e le grandi difficoltà che essi incontrarono veleggiando dall'Atlantico al Pacifico, non si può che rimanere meravigliati al piú alto grado dell'audacia di quei corsari che, con scarsissime nozioni geografiche, con pochi mezzi, con legni semiguasti, coi quali prudentemente oggidí un marinaio anche valente non ardirebbe tentare un tragitto di duecento leghe, poterono effettuare il loro disegno di g irare il capo Horn per penetrare nel Pacifico. Eppure è storia vera: dopo immense tribulazioni, dopo tempeste spaventevoli, nel Marzo del 1685 quella piccola squadra girava la Terra del Fuoco e metteva arditamente le prore verso le coste del Perú, bramosa di abbordaggi e di prede spagnuole. Il primo incontro fatto da quei mille e cento uomini, i quali montavano due fregate, una da trentasei cannoni e l'altra da sedici, cinque legni minori senza grossa artiglieria e tre miserabili barcaccie, fu un veliero spagnuolo, che tosto predarono. Avendo inteso dal prigionieri caduti nelle loro mani come tutti i legni mercantili avessero ricevuto l'ordine dal viceré del Perú di non abbandonare i porti della costa, fino a tanto che una squadra non avesse purgato l'Oceano dai filibustieri, il cui disegno di portarsi nelle acque occidentali dell'America era ormai già trapelato, Davis guidò la sua flotta verso il settentrione, facendo di quando in quando delle prede. Fu uno sgomento generale fra tutti gli spagnuoli dell'America centrale, quando videro la flotta corsara apparire improvvisamente, in vista di Panama, ormai risorta piú fiorente dopo la distruzione compiuta da Morgan. La comparsa di quei terribili uomini aveva subito svegliata la memoria dei disastri in addietro sofferti da simili ladroni e Davis perciò non osò dare l'attacco alla città e andò a gettare le sue âncore all'isola di Taroga, dopo d'aver incrociato per ben quattro settimane dinanzi alla baia, in attesa che dei legni uscissero. Il viceré, chiesti aiuti al Perú ed al Messico, forma una squadra e la manda verso l'isola per sterminare quei pericolosi ladroni. Si componeva di sette navi da guerra, due delle quali contavano settanta cannoni ciascuna. Il mare era tempestoso e niuna proporzione vi era fra gli uni e gli altri. Per di piú i filibustieri non conoscevano i fondi e non avevano artiglierie sufficienti per far fronte a quelle degli spagnuoli che erano potentissime. Non potevano quindi questi ultimi non lusingarsi di ridurre al niente, in una sola giornata, quella temuta ciurmaglia. Già avevano circondata una delle due fregate e l'opprimevano con un fuoco terribile, quando gli altri legni corsari che si trovavano al largo e che avrebbero potuto facilmente evitare di venire alle prese, voltano le prore e corrono in aiuto della loro compagna. Il pericolo parve avesse dato ai filibustieri di Davis una forza piú che umana. Investono con impeto le fregate ed i galeoni spagnuoli e, quantunque per la troppa superiorità delle forze nemiche, non potessero in quel conflitto accanito e sanguinosissimo ottenere la vittoria, la disputarono cosí accanitamente che per il valore meritarono giustamente la palma. Quello che piú stupisce è che in tale combattimento non perdettero che una sola barcaccia di prigionieri spagnuoli. Quella barca era stata cosí crivellata dalle palle spagnuole che, trovandosi i filibustieri sul punto di annegarsi, l'avevano abbandonata coi prigionieri che conteneva. Questi ultimi, vedendosi cosí liberi, non avevano indugiato a prendere i remi per farsi raccogliere dai loro compatriotti. L'ammiraglio spagnuolo invece, avendola presa per un brulotto nemico, mosse ad incontrarla sul vascello e vi fece far fuoco sopra piú presto che poté, affondandola; e cosí fu, senza saperlo, lo sterminatore di quei disgraziati. Essendo, durante il combattimento, aumentata la furia del vento e delle onde, la flottiglia dei filibustieri fu in breve dispersa. Parecchi legni scomparvero dopo quella fatale giornata, né si ebbe di loro piú alcuna nuova. Gli altri, riunitisi finalmente, si rifugiarono all'isola di S. Giovanni, lontana solamente cinque leghe dal continente. Ma la discordia, dopo quel disastro, non tardò a nascere specialmente fra inglesi e francesi, essendo i primi protestanti ed i secondi cattolici. Sembrerà strano, eppure quei ladroni di mare ci tenevano alle loro religioni, singolarmente poi gl'inglesi in quei tempi del furore delle sette che tenevano il loro paese diviso. Essi mal soffrivano i loro camerati quando li vedevano salvare, nei saccheggi, i simboli della chiesa romana. Centotrenta francesi si stabiliscono sull'isola di S. Giovanni, ingrossati con altri duecento, che aveva condotto un capitano chiamato Grogner, il quale aveva pure girato il capo Horn; gl'inglesi invece riprendono la via dello stretto per far ritorno al golfo del Messico. Erano pochi eppure risoluti e quanto mai audaci. Dall'isola lanciano le loro navi in tutte le direzioni, prendendo quanti velieri incontrano, poi portano la guerra sull'istmo. Prendono d'assalto la piccola città di Leon e di Esparso e abbruciano Ralejo, spargendo ovunque un terrore immenso. Siccome ladroni di tale specie non se ne erano mai veduti in quei paraggi, gli abitanti fuggono dovunque spaventati, credendoli in buona fede demoni in carne umana. Invece di combatterli, li fanno maledire dai loro sacerdoti con esorcismi e contro di loro fanno alzare le cose piú sacre che abbia la religione, non diversamente che se avessero combattuto l'inferno. Gli spagnuoli, pressati da tanta rovina, cercano di temperare il flagello mandando a Grogner una lettera del vicario generale di Costarica, colla quale lo avvertivano essersi fatta la pace fra la Spagna e le potenze di Francia e d'Inghilterra e che il viceré di Panama metteva a loro disposizione parecchie navi per ricondurli in Europa. I filibustieri, che non erano cosí ingenui da accettare una simile proposta, che li avrebbe messi in balìa del nemico, per tutta risposta assaltano la città di Nicoya e la mettono a sacco e la bruciano, non salvando dalla distruzione che le chiese e tutti gli oggetti del culto cattolico. Le cose erano giunte a questo punto quando un mattino, mentre i filibustieri stavano allestendo alcune vecchie barcaccie per intraprendere qualche altra audace scorreria, videro approdare alla loro isola, che era diventata una piccola Tortue, sette scialuppe montate da un centinaio e mezzo d'uomini. Erano i corsari del conte di Ventimiglia e di Raveneau de Lussan. Quei valorosi, dopo aver conquistata e saccheggiata Pueblo-Viejo, avevano fatto una marcia rapidissima verso l'Oceano Pacifico, per portarsi a quell'isola dove erano sicurissimi di trovare dei soccorsi. Evitando con cura le città ed i villaggi, marciando sempre attraverso le boscaglie per non imbattersi nei corpi spagnuoli che il viceré di Panama, allarmato da quei continui attacchi, aveva lanciato in tutte le direzioni, risoluto a ricacciare in mare quei pericolosissimi nemici, erano giunti felicemente sulle sponde del grande Oceano, impadronendosi per sorpresa di un numero abbastanza rilevante d'imbarcazioni tolte ai pescatori della costa. Non giungevano però a San Giovanni di Pueblo in un momento felicissimo. Pochi giorni prima, una flotta composta di quindici legni spagnuoli aveva fatto la sua comparsa in quelle acque, costringendo Grogner ed i suoi uomini ad abbruciare piú che in fretta la loro fregata e gli schifi che possedevano, perché non cadessero nelle mani dei loro nemici. Fortunatamente gli spagnuoli si erano contentati di portar via le ferramenta del vascello e di distruggere quanto era rimasto di esso, senza osare di inoltrarsi nell'isola. La notizia dell'arrivo del figlio del Corsaro Rosso con Raveneau de Lussan, reduci dalla presa di Pueblo-Viejo, non aveva mancato di produrre una profonda emozione e anche di rialzare immensamente il morale dei filibustieri i quali, distrutta la loro flottiglia, non si trovavano piú in grado di riprendere le loro scorrerie verso il continente. Grogner, avvertito dell'approdo del nipote del famoso Corsaro Nero e cugino del non meno famoso Morgan, il conquistatore di Panama, si era affrettato a muovergli incontro. Già la notizia che un parente dei piú celebri filibustieri del Golfo del Messico veleggiava in quelle acque, era giunta fino all'isola. Grogner non era un gentiluomo come Raveneau de Lussan, tuttavia godeva fama di essere uno dei piú arditi corsari di quell'epoca. Aveva esordito, come quasi tutti i filibustieri, come mozzo; aveva combattuto in Francia, in Inghilterra ed in Olanda, poi era passato in America, desideroso di fare una rapida fortuna. Era giunto però troppo tardi, quando ormai le città del golfo del Messico erano state completamente rovinate dall'Olonese, da Montbars, dai tre corsari, da Grammont, da Wan Horn, da Morgan e da tanti altri non meno famosi. Aveva quindi seguito le tracce di Davis, girando il capo Horn ed era giunto ancora in tempo per fare dei bei colpi contro le cittaduzze dell'America centrale, aiutato da trecento disperati, che non avevano paura né degli archibugi, né delle artiglierie spagnuole e tanto meno delle loro squadre. Narrano le cronache di quel tempo che rassomigliava un po' a Morgan e che quantunque di statura mediocre possedeva una forza muscolare straordinaria ed un coraggio a tutta prova. Come abbiamo detto, udendo che il capo dei filibustieri sbarcato a San Giovanni di Pueblo era il figlio del Corsaro Rosso, si era affrettato a muovergli incontro, dicendogli: - Signor conte, vi si aspettava qui. Tutti i vecchi filibustieri hanno conosciuto e hanno combattuto sotto il comando dei tre corsari che hanno portato, sia pure per una loro vendetta privata, un terribile colpo alla potenza spagnuola del Golfo del Messico. Ecco la mia mano, ed ecco i miei uomini pronti a seguirvi dove voi vorrete. - Era appunto di voi che io avevo bisogno, - rispose il corsaro. lo sono venuto qui per proporvi una terribile impresa. - Voi sapete, signor conte, che nessuna impresa ha spaventato mai i Figli della Costa, come ci hanno chiamato noi per tanti lustri. Che cosa volete da noi? ... - La conquista di Nuova Granata, - rispose il signor di Ventimiglia. - Diamine, - disse Grogner. - È come domandare la testa del governatore di Panama o la presa di Messico o di Cuzco. Nuova Granata è una delle città piú fortificate del Nicaragua, signor conte. - Avreste paura? La prenderemo io ed il signor di Lussan. - Diamine, non correte tanto, signor conte. Là vi sono dei tesori favolosi da raccogliere ... - Che io sono pronto a rinunciare a beneficio dei vostri uomini e di quelli del signor di Lussan. - Si sa che i tre famosi corsari erano ricchissimi, - rispose Grogner. Che cosa chiedete per vostra parte? - Un uomo. - Un prigioniero? - chiese con stupore il filibustiere. - Niente di piú. - Che diavolo! ... Un uomo prezioso senza dubbio. - Il marchese di Montelimar. - Il governatore di Pueblo-Viejo? - Precisamente. - Vi è scappato? Mi hanno detto che voi avete presa d'assalto quella città, signor conte. - Ma ho avuto il torto di giungere troppo tardi, signor Grogner. - Quanti uomini avete? - Centocinquanta, con quelli di Raveneau de Lussan. - Ed altrettanti ne ho io, - rispose Grogner. - Se Pietro l'Olonese con un terzo delle nostre forze ha espugnato Maracaibo e poi Gibraltar, io sarei ben sorpreso se non si potesse prendere d'assalto Nuova Granata, prendere il marchese, molte piastre e fare anche parecchi prigionieri, signor conte. Voi avete sette schifi, mi hanno detto. - Sí, signor Grogner. - Il marchese è in quella città? - Ne sono sicuro. - Via - disse il filibustiere, dopo qualche istante di silenzio. Andremo a vedere se i cannoni che difendono il forte di Nuova Granata saranno carichi con ferro o con acqua calda. Al figlio del Corsaro Rosso un filibustiere che si rispetta non può rifiutare nulla. Signor conte, vi offro ospitalità nella mia povera tenda e domani partiremo. - Ecco un uomo, - disse don Barrejo, il quale aveva assistito al colloquio, tenuto sulla spiaggia, rivolgendosi verso i due inseparabili amici: il fiammingo e Mendoza. - Un vero filibustiere, - rispose il basco. - Siete mai stato in quella città, signor Mendoza? - Siccome non ho mai avuto alcuna premura di prendere un passaporto per l'altro mondo, cosí mi sono sempre ben guardato di mettere i piedi nelle città difese da troppi cannoni. - Troveremo delle taverne, io spero! ... - Che i granatini bevano dell'acqua? - disse il fiammingo. Io non lo crederò mai. - E nemmeno io, don Barrejo, - aggiunse Mendoza. - Là troveremo forse delle botti migliori di quelle che abbiamo assaggiato a Pueblo-Viejo. Granata fornisce di vini Panama e, siccome a Panama si trovano un viceré e degli altissimi funzionari, sono piú che certo che troveremo delle cantine meravigliosamente fornite. Mi stupite però, signor guascone. - Perché? - chiese lo spadaccino. - Si direbbe che voi siete diventato un filibustiere piú pel desiderio di assaggiare i vini spagnuoli che per avidità di guadagno. Eppure i dobloni non vi spiacciono, mi pare. - Quelli verranno piú tardi, - rispose il guascone. - Cerchiamo un posto dove si possa mangiare e bere. Qualche doblone passeggia ancora per le mie tasche e se si può berlo e mangiarlo, niente di meglio. Diamine! ... Un guascone è sempre generoso. Non era difficile all'isola di S. Giovanni di Pueblo spendere dei denari, poiché i filibustieri che vi si erano rifugiati ne avevano fatto, come abbiamo detto, una piccola Tortue. Malgrado le continue minacce degli spagnuoli, quei formidabili scorridori del mare si divertivano allegramente, profondendo le ricchezze guadagnate nei saccheggi, con una prodigalità da nababbi. Dei meticci, giunti dal continente ben provvisti di viveri e soprattutto di vini e di liquori, avevano piantate le loro baracche, vendendo a prezzi esorbitanti i loro generi. I filibustieri, da veri ladroni, non badavano a pagare. Che cosa costava d'altronde a loro il denaro? E come ne erano sempre ben provvisti! ... I tre compagni si cacciarono quindi sotto una immensa tenda, dove molti uomini bevevano allegramente o giuocavano o danzavano con alcune prigioniere spagnuole al suono di alcune chitarre suonate da negri. - Questo è il paese della cuccagna, - disse don Barrejo, sedendosi all'estremità d'una lunghissima tavola. - Io scommetto che le donne spagnuole non si sono mai divertite tanto, come quando si sono trovate con questi briganti. - Adagio, signor guascone, - rispose il basco. - Talvolta questi divertimenti costano cari alle prigioniere ed ai prigionieri. - Perché? Non si rispettano quelle signore? - Anzi si rispettano moltissimo e guai al corsaro che osasse comportarsi da villano contro le prigioniere. Talvolta però giungono i giorni tristissimi ed i sorrisi di quelle disgraziate si tramutano in lagrime di sangue. - Che cosa volete dire? - Che quando i loro parenti ed i governatori non mandano i riscatti, i filibustieri non esitano a far estrarre ai prigionieri, siano uomini o donne, la sorte. - E cosí? - Quello o quella che ha avuto la sfortuna di levare una palla nera, si decapita e la testa si manda al governatore per costringerlo a pagare. - Ciò è brutto. - Che cosa volete? È la guerra. Gli spagnuoli d'oltremare non sono piú generosi e quando riescono a prendere qualcuno di noi l'appiccano senza misericordia. - Guardiamo dunque di non farci prendere, - disse il fiammingo. Si fecero portare delle bottiglie e del prosciutto salato e si misero a bere ed a mangiare. Avevano però appena vuotata qualche tazza, quando un rimbombo assordante li fece balzare in piedi. - Il cannone! - aveva gridato don Barrejo. Tutti i filibustieri che si trovavano sotto la tenda si erano precipitati fuori, prendendo i loro archibugi, mentre le donne strillavano ed i chitarristi scappavano, gettando via gli istrumenti. - Che cosa succede dunque? - chiese il guascone, snudando la sua draghinassa. - Queste sono cannonate spagnuole, - rispose Mendoza. A loro volta erano corsi fuori, slanciandosi verso la piccola baja dove trovavasi ancorata la flottiglia dei filibustieri, la quale si componeva d'un vascello e d'una mezza dozzina di barcaccie. Una grande confusione regnava sulle sponde del porticino, dove si erano radunati tutti i filibustieri dell'isola. Vi erano anche il conte di Ventimiglia, Grogner e di Lussan. In lontananza il cannone continuava ancora a tuonare. Quindici vascelli muovevano lentamente verso l'isola, disposti su due colonne. Era la flotta spagnuola del Pacifico, incaricata di impedire il passo ai corsari che provenivano dal Capo Horn o dallo stretto di Magellano, flotta imponente che avrebbe potuto purgare per sempre quei mari da quegli audaci ladroni, se l'avessero voluto. - Signor conte, - disse Grogner al figlio del Corsaro Rosso, con voce un po' alterata. - Siete giunto in un cattivo momento. - Non mi pare, - rispose il signor di Ventimiglia, - poiché vi ho condotto dei rinforzi. - Non potremo resistere ad una squadra cosi potente. Non ho che un vascello e delle barcaccie. - Fate tirare a terra le barcaccie e gli schifi e nascondeteli sotto le foreste. - Ed il vascello? - Incendiatelo perché non venga preso dagli spagnuoli. Spicciatevi, signor Grogner e poi ritiriamoci nell'interno dell'isola. Se vorranno assalirci, sapremo difenderci. Gli ordini furono subito dati. Mentre una partita di corsari saliva a bordo della nave, radunando quanto catrame si trovava nella stiva e lo incendiava, gli altri s'affannavano a mettere in salvo le migliori barcaccie e le scialuppe, per non rimanere sprovvisti completamente di mezzi di trasporto, capaci più tardi di far loro raggiungere il continente. La squadra spagnuola, sicura del fatto suo, aveva intanto incominciato a sparare tremende bordate, specialmente contro il vascello il quale già era stato sgombrato rapidamente. - Perdinci! - esclamò il guascone. - Questa volta gli spagnuoli fanno sul serio. Signor basco, giacché i nostri compagni scappano, lavoriamo di gambe anche noi. I colpi di spada li ricevo volentieri, ma non ho provato mai alcuna affezione per le grosse palle che tagliano in due senza nemmeno dirvi: guarda che ti ammazzo, imbecille! I filibustieri infatti, messe in salvo le imbarcazioni, scappavano da tutte le partì, mentre i proprietarii delle baracche, aiutati dai loro negri, cercavano di portare via il meglio che possedevano, per non lasciarlo cadere nelle mani degli spagnuoli. Le cannonate intanto non cessavano. Le palle cadevano come una fitta gragnuola sulla spiaggia e sul vascello, il quale già avvampava rapidamente, eruttando dai boccaporti spalancati immense nuvole di fumo. Era una squadra veramente imponente, composta di galeoni, di fregate e di grosse caravelle e montata da duemila marinai. I filibustieri, guidati dal signor di Ventimiglia, da Grogner e da Raveneau de Lussan, si erano intanto affrettati a mettersi in salvo su una collina situata quasi nel mezzo dell'isola e perciò fuor di portata dalle artiglierie della flotta; artiglierie, che come abbiamo detto, in quei tempi avevano una portata molto limitata. Erano tuttavia assai inquieti, temendo un poderoso assalto da parte degli equipaggi. Fortunatamente nulla di grave accadde. La squadra, dopo aver cannoneggiate le baracche, sbarcò alcune centinaia d'uomini per raccogliere le ferramenta del vascello corsaro distrutto dall'incendio, e qualche ora dopo riprendeva la sua rotta veleggiando verso Panama. - Corpo di un bue! - esclamò il guascone, il quale osservava tutte quelle navi maestose, dall'alto della collina. - Avrebbero potuto distruggerci e hanno preferito invece andarsene. Buon viaggio, signori e che Dio vi guardi dalle tempeste. Si levò il feltro e salutò la squadra, facendo nel medesimo tempo un inchino cosí profondo da far scoppiare dalle risa non solamente il basco, bensí anche il conte di Ventimiglia e Grogner che gli stavano presso.

I PESCATORI DI BALENE

682392
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Abbandonati precipitosamente i canotti, si slanciarono a terra portando con loro i fucili e la scure. L'orso non era lontano che trenta passi e raddoppiava gli sforzi temendo che l'agognata preda fosse per sfuggirgli. Vedendo i due uomini prendere terra e puntare i fucili, armi che senza dubbio non gli erano nuove, subito si tuffò. - Fugge forse? - chiese Koninson, che contava di regalarsi uno zampone d'orso per pranzo. - Non lo credo - rispose il tenente, tenendo il fucile sempre puntato. - Simili animali non abbandonano così facilmente una preda, quando sono affamati. Cercherà di avvicinarsi tenendosi sott'acqua per poi gettarsi contro di noi all'improvviso. - Bah! Avrà l'accoglienza che si merita. - Eccolo, Koninson! Mira giusto! Infatti l'orso era repentinamente riapparso a pochi passi dall'isolotto. Con un solo balzo si slanciò sulla riva tentando di risalirla. - Fuoco! - gridò il tenente. Le due detonazioni dei fucili si fusero in una sola. La belva, ferita, mandò un lungo nitrito che parve anzi un vero urlo e tornò a sommergersi, lasciando alla superficie un cerchio di sangue che rapidamente si allargava. - È morto! - gridò Koninson slanciandosi innanzi. - Non ti fidare! - disse il tenente. - Sta in guardia! L'avvertimento giungeva troppo tardi. Koninson si era già immerso nella corrente fino alle ginocchia, quando si sentì violentemente atterrare. L'orso, che spiava il nemico tenendosi sott'acqua, repentinamente si rialzò e urtò violentemente il fiociniere che non resse al colpo. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò il disgraziato, tentando, ma invano, di rimettersi in gambe. - Non temere, ragazzo! - tuonò il tenente. L'orso, con una agilità che si sarebbe creduta impossibile in quel corpo tutt'altro che ben formato, stava per gettarsi sul fiociniere per dilaniarlo coi potenti artigli, ma il tenente gli si gettò coraggiosamente dinanzi. S'udì un colpo secco, seguito da un sordo grugnito. La belva, colpita mortalmente alla testa, si rovesciò nel fiume perdendo un torrente di sangue misto a brani di cervella, e sparve in mezzo ai gorghi. - Grazie, mio tenente! - disse Koninson con voce commossa. - Non dimenticherò mai questo colpo maestro. - Mi ringrazierai a pericolo finito! - rispose Hostrup, raccogliendo prontamente il fucile e disponendosi a caricarlo. - Come? Non è morto dunque? - Non è lui che ci darà ancora da fare, ma i suoi compagni. Guarda, mio povero amico, guarda sulla riva che ci sta di fronte. Koninson guardò nella direzione indicata e non potè trattenere un gesto di spavento. Da una collinetta che scendeva dolcemente nel fiume, tre forme biancastre scivolavano rapidamente sulla neve mandando dei grugniti punto rassicuranti. Erano tre altri orsi bianchi i quali, forse attirati dalle urla del compagno e dalle detonazioni, accorrevano a prendere parte alla lotta. - Corpo d'una balena! - esclamò il fiociniere impallidendo. - Ma questo è il paese degli orsi! Ci assaliranno? - Se son affamati come quello che abbiamo ucciso, non si accontenteranno di guardarci - rispose il tenente che cominciava a diventare inquieto. - Si potrebbe tentare la fuga? - Se la loro intenzione è quella di assalirci, l'acqua non li arresterà. Qui si tratta di mirare giusto e di picchiare sodo. Carica il tuo fucile e stiamo attenti. I tre orsi erano allora giunti sulla riva del fiume, ma non parevano avere molta fretta. Andavano innanzi e indietro lentamente, guardando i due uomini più con curiosità che con ferocia, senza decidersi a entrare nel fiume. Finalmente uno, il più grosso, s'immerse e nuotò in direzione degli isolotti, ma procedendo cautamente. Koninson e il tenente lo mirarono e gli scaricarono contro i fucili. La lezione parve sufficiente, poichè il carnivoro s'arrestò un momento, poi raggiunse i compagni zoppicando e perdendo sangue. Si fermarono ancora alcuni minuti sulla riva, indi s'allontanarono per la stessa via di prima, scomparendo dietro le rocce. - Buon viaggio! - gridò il fiociniere. - E tarda guarigione all'ammalato! - aggiunse il tenente. - Che il diavolo si porti questi affamati abitanti delle regioni artiche! - Fortunatamente che non erano di cattivo umore, quei signori dalla bianca pelliccia. E quello che abbiamo ucciso, dove è andato a finire? - La corrente l'ha portato chi sa mai dove, Koninson. - Che disgrazia che tanta carne sia andata perduta! - Bah! Ne troveremo dell'altra. - Ma le munizioni scarseggiano, signor Hostrup. Non ho più di quaranta colpi. - Ti basteranno per giungere al forte. Orsù, imbarchiamoci e proseguiamo il viaggio. Rimisero a galla i canotti, vi si cacciarono dentro e abbandonarono il gruppo d'isolette colla maggior sollecitudine, temendo di vedere ritornare gli orsi bianchi che forse si tenevano celati dietro le rocce. Fortunatamente i tre carnivori non si fecero vedere, sicchè poterono proseguire tranquillamente il loro viaggio costeggiando la sponda opposta che si manteneva così dirupata da non permettere la discesa ad alcun animale per quanto fosse fornito di solidi artigli. A mezzogiorno fecero una breve sosta dentro un profondo "fiord" che li teneva riparati dai ghiacci che la corrente continuava a trascinare, mangiarono alla meglio un pezzo d'orsacchiotto, poi ripartirono. Il viaggio fu però di breve durata, poichè ben presto si alzò sul fiume un nebbione così denso da non permettere più di discernere i ghiacci anche a pochi passi di distanza. Le due rive in breve scomparvero ai loro occhi. - Approdiamo - disse il tenente, che temeva pei fragili canotti. - Vedo dinanzi a noi un isolotto boscoso che ci offrirà un buon fuoco e un riparo contro il freddo della notte. - Non faremo cattivi incontri, spero. - No, ma veglieremo per turno. Hai veduto come nuotano gli orsi bianchi? Se qualcuno si aggira sulle rive e si accorge della nostra presenza, non ci penserà su due volte a farci una visita durante il nostro sonno. Presero terra all'estremità dell'isolotto che non aveva una estensione maggiore di trenta metri, tirarono a secco i canotti e si accamparono fra due alti pini. Koninson, dopo aver acceso il fuoco, fece una corsa attraverso quel brano di terra per assicurarsi che nessun animale fosse celato fra le piante, poi allestì la cena. Alle 10 di sera, quando il nebbione era più fitto, il tenente sì coricò accanto al fuoco sotto la guardia del compagno, cui spettava il primo quarto. Nessun incidente venne a interrompere il suo sonno. Alle due del mattino surrogò Koninson che cadeva dalla stanchezza. Nessun rumore fino allora era stato avvertito, all'infuori del gorgoglio della corrente che si rompeva contro l'isolotto e gli urti dei ghiacci. Ma verso le quattro, quando il nebbione cominciava ad alzarsi, il tenente, che si teneva seduto accanto al fuoco col fucile in mano, avvertì dei vaghi rumori che venivano dalla riva destra. Si alzò rapidamente e s'avvicinò al fiume curvandosi verso la corrente. Ben presto udì in mezzo al nebbione un lungo fischio che si ripetè parecchie volte. - Che animale è mai questo? - si chiese egli. - Un orso no di certo. Stette in ascolto e gli parve di udire degli scoppi di risa che era si avvicinavano ed ora si allontanavano. - Se non mi trovassi sul Makenzie, direi che sulla riva ci sono delle jene, ma le terre della Baia d'Hudson non hanno mai ospitato questi animali dei climi caldi. - Signor Hostrup! - disse in quell'istante il fiociniere che si era svegliato. - C'è della gente allegra, a quanto pare. Chi ride in questo brutto paese? - È ciò che io sto chiedendomi - rispose il tenente. - Sono persone o animali? - Persone senza dubbio. - Forse siamo giunti al forte senza accorgercene? - Io credo che sia ancora molto lontano. - Provate a chiamare. - Olà, chi ride? - gridò il tenente. Una specie di grugnito vi rispose, seguito tosto da risa sgangherate e un vociare di persone. - Senza dubbio ci sono degli Indiani - disse il fiociniere raggiungendo il tenente. - Ci saranno amici o nemici? - In questo paese non si può dire mai nulla, poichè le tribù indiane oggi rispettano i bianchi e domani sono capaci di assassinarli a tradimento. - Provatevi a interrogarli. Che lingua parlano gli abitanti di questa regione? - Una lingua che ben pochi conoscono, ma avendo essi frequenti comunicazioni coi forti della Compagnia comprenderanno l'inglese o almeno il russo. - Proviamoci. - Olà, chi siete e da dove venite? - chiese egli in inglese. - Co-yuconi, - rispose una voce forte e distinta. - Corpo d'un vascello sventrato! - esclamò Koninson, facendo un salto. - Io conosco questa voce! - È quella ... - Del capo Tanana che ci ha derubati. - Se è proprio lui che ha parlato, gli farò pagar caro il tradimento. Arma il fucile e teniamoci pronti a tutto.

I due balenieri, abbandonati i canotti dopo di averli ben assicurati ad uno scoglio, s'arrampicarono su per quello scabroso passaggio e raggiunsero la cima di una rupe dalla quale si poteva dominare un vasto tratto di paese. Dinanzi a loro si estendeva una vastissima pianura, chiusa verso sud, ma a molte leghe di distanza, da una grande catena di montagne che probabilmente si staccava dalla grande catena delle Montagne Rocciose che forma l'ossatura principale dell'America del Nord. Qua e là, specialmente lungo il corso del fiume, apparivano boschi di pini, di abeti, di betulle e di altissimi pioppi. Il luogotenente, che guardava attentamente verso est, non tardò a scorgere un gruppo di tende che si appoggiava ad un bosco e dalle cui cime coniche uscivano delle nuvolette di fumo - Ecco l'accampamento - disse il fiociniere. - Ma mi sembra molto grande, signor Hostrup. Quali indiani saranno? - Forse dei Denè o dei Loschi, oppure dei Chippewyans. - E il forte, lo vedete in nessun luogo? - È molto lontano, fiociniere, forse qualche centinaio e anche più di chilometri. Forza alle gambe e avanti. Si gettarono in spalla i fucili e partirono di buon passo, fiancheggiando un bosco che seguiva il corso del fiume ed entro il quale si udivano numerosi ululati di lupi. La neve che ancora copriva la pianura, essendosi gelata durante la notte, rendeva la marcia facile. In meno di un'ora giunsero a poche centinaia di passi dall'accampamento composto di una quindicina di tende. L'abbaiare di numerosissimi cani, che avevano fiutato le vicinanza di stranieri, fecero uscire dieci o dodici uomini, i quali avanzarono senza diffidenza verso i due naufraghi. Erano tutti di statura piuttosto inferiore alla media, dalla pelle olivastra e lucente, forse perchè unta di recente con grasso, cogli occhi un pò obliqui e i capelli neri, grossi e lunghi. Portavano vesti di pelle di foca e di orso, munite di cappucci orlati di pelle di volpe, ed avevano lunghi stivali cuciti con nervi di animali. Le loro armi consistevano in certe fiocine di denti di narvalo munite d'una punta di rame, e in archi. - Sono eschimesi - disse il tenente che li aveva subito riconosciuti. - Possiamo fidarci? - chiese Koninson. - Godono fama di essere molto ospitali, ma assai vendicativi. Credo che non avremo da temere. Un eschimese, che doveva essere certamente un capo, a giudicarlo dalle vesti che erano più ricche di quelle degli altri, s'avvicinò ai naufraghi e, dopo averli salutati in inglese, strofinò energicamente il proprio naso contro il loro in segno di amicizia. - I bianchi nulla hanno da temere dalle tribù degli Innoit! - disse poscia. - Siano i benvenuti nella mia tenda. - Siamo pronti a seguirti, - rispose il tenente - e non avrai a pentirti di averci ospitati. - I bianchi si recano al forte Speranza? - Sì, ma noi non conosciamo la via venendo dalle lontane regioni dell'ovest. - Kumiath la insegnerà! - rispose il capo. - Seguitemi nella mia tenda. Il capo li condusse nell'accampamento dove vennero circondati da una trentina di eschimesi fra uomini e donne accorsi da tutte le parti ai furiosi abbaiamenti dei cani. Il tenente e il fiociniere notarono che fra i curiosi si trovavano anche alcuni individui che per la loro statura più elevata, per le loro vesti e per i loro lineamenti parevano appartenere ad un'altra razza. Non vi fecero però molto caso e seguirono il capo il quale, dopo averli fatti passare attraverso un vero labirinto di bastoni sostenenti gran numero di pezzi di carne messi a seccare, li condusse in una piccola tenda dove, in mezzo a mucchi di pelli, marcivano, fra odori pestilenziali, ma che sembravano invece apprezzati dagli eschimesi che si cibano volentieri di carni corrotte, salmoni, lucci, trote, gadus, coreganus ed altri pesci del Makenzie. Benchè non si trovassero troppo bene fra quei miasmi, si accomodarono su una gran pelle d'orso distesa per terra e fecero come meglio poterono onore al cavallo marino conservato in olio di balena e ad una grossa trota, un pò troppo passata, offerta loro dal capo. Per tema di fare un affronto all'eschimese, furono anche costretti a sorbire una certa quantità di olio di morsa che fu loro gentilmente offerto, con quante smorfie ognuno lo può immaginare. Terminato quel diabolico pasto, sontuoso per un eschimese gran bevitore d'olio e mangiatore di carne cruda, corrotta o malamente affumicata sulla fiamma di una lampada, ma quanto mai disgustoso per un europeo, il capo intavolò una conversazione narrando che da soli pochi giorni aveva lasciato il forte Speranza, dove aveva fatto moltissimi scambi di pelli contro tabacco, conterie, armi, ecc., e che ora stava per raggiungere le sponde dell'oceano a cacciarvi la balena. - Dista molto il forte? - chiese il tenente, quando il capo ebbe finito. - Tre giorni di marcia e niente di più! - rispose l'eschimese. - Basta seguire questo bosco che si stende lungo le rive del Makenzie per non smarrire la via. - Ci sono altre tribù che si dirigono al forte? - Sì, una che è venuta dalle lontane regioni dell'ovest, come voi e che si è accampata nel bosco. - Appartiene alla vostra razza? - No. - È molto numerosa? - Lo è diventata in questi giorni. Conta almeno quattrocento uomini. - Il suo nome? - Il suo nome è ... Tò, ecco alcuni dei suoi uomini, senza dubbio qui giunti per vedere gli uomini bianchi e che ... Non aveva ancora finito che il fiociniere, alzatesi di colpo, si precipitava fuori urtando furiosamente contro un grosso attruppamento di persone radunatesi dinanzi alla tenda. Il suo robusto pugno piombò con secco rumore su di un uomo il quale stramazzò a terra mandando un urlo di dolore. Gli eschimesi si divisero precipitosamente, lasciando alle prese i due avversari che lottavano con pari accanimento. Il tenente, che non sapeva ancora di che si trattasse, accorse in aiuto di Koninson, il quale ad ogni pugno che lasciava cadere gridava: - Questo per la polvere! Questo per le palle! E questo per la carne che ci hai rubato! Solo allora si accorse che l'avversario era un indiano, anzi il capo Tanana che li aveva indegnamente traditi e derubati sulle rive del Porcupine. Stava per piombare anche lui sul traditore, quando questi sgusciando con una agilità sorprendente fra le mani del fiociniere, riuscì a rimettersi in piedi. - Ti ucciderò! - gridò minaccioso. Poi fuggì a rompicollo verso la foresta dove si trovava il suo accampamento. Il tenente, che aveva perduta la sua flemma abituale, stava già per armare il fucile e inviargli una palla nel dorso, ma il capo eschimese gli abbassò l'arma dicendogli: - Sii prudente! Essi sono molti e molto vendicativi. - Ma quell'uomo ci ha derubati, dopo aver chiesto il nostro aiuto per rifornirsi di viveri - disse il tenente. - Meriterebbe la morte, ma tu qui sei straniero e non hai che un compagno, mentre i Tanana sono numerosi. Vieni nella mia tenda e cercheremo di accomodare ogni cosa. - È troppo tardi! - disse il fiociniere. - Si tratta ora di far parlare i fucili. E non s'ingannava. Dalla foresta uscivano allora due o trecento guerrieri, mandando grida assordanti. I più erano armati di fiocine e di coltelli, ma taluni portavano dei fucili, assai vecchi, ma non del tutto in cattivo stato. - Che uragano sta per scoppiare? - si chiese Koninson che si preparava però a vendere cara la vita. - Non so come la finirà, se quei pagani si gettano tutti uniti contro di noi. - Fuggite! - disse l'eschimese che aggrottava la fronte e che era diventato pensieroso. - I Tanana sono valorosi e non si arresteranno dinanzi ai vostri fucili. - Ma dove fuggire? - chiese il tenente. - I nostri canotti sono lontani e saremo raggiunti prima di trovarli. - Dietro la mia tenda ho una slitta tirata da una muta di robusti cani. Montatela e fuggite verso il forte. - Ma si vendicheranno contro di te, mio buon eschimese. - I Tanana non ardiranno alzare le mani contro di me - rispose con fierezza l'eschimese. - Questa è la terra degli Eschimantik (mangiatori di pesce crudo), come loro ci chiamano, e sanno che una offesa fatta alla mia tribù la pagherebbero cara, poichè i miei compatrioti non la lascerebbero impunita. Presto fuggite, o sarà troppo tardi. Il tenente si levò l'orologio e lo diede al bravo eschimese dicendogli: - Conservalo in memoria della tua buona azione. Ed ora alziamo i tacchi. Si slanciò dietro la tenda seguito da Koninson, ma si arrestò subito mandando una sonora imprecazione. Sette od otto Tanana, che si erano avvicinati tenendosi nascosti dietro le tende degli eschimesi, sbarravano la via. Alla loro testa, armato d'un vecchio fucile, si trovava il capo, il cui naso schiacciato dal potente pugno del fiociniere, mandava ancora sangue. - Ah, brigante! - gridò il tenente. - Non si passa di qui - disse il capo con tono minaccioso. - E cosa pretenderesti tu? - Che tu mi consegni il tuo compagno perchè io vendichi l'affronto fattomi. - Bene, prendi questo, giacchè lo vuoi. Il tenente puntò rapidamente il fucile e fece fuoco. Il Tanana, colpito alla fronte, stramazzò al suolo fulminato, mentre i suoi guerrieri fuggivano disordinatamente gettando urla di rabbia e di vendetta. - Presto, Koninson, salviamoci! - disse il tenente. - Andiamo, signore, e filiamo dritti al forte. La slitta era pronta. Dodici robusti cani, somiglianti ai lupi, dalle gambe nervose, erano attaccati due a due, pronti a partire al primo segnale. I due naufraghi balzarono nel veicolo e si slanciarono attraverso la pianura trascinati in una rapidissima corsa. Dalla parte dell'accampamento scoppiarono alcune fucilate, le cui palle attraversarono gli strati d'aria sibilando; poi si videro i Tanana dirigersi correndo verso il bosco mandando clamori assordanti. - Tò! Fuggono forse? - chiese Koninson al tenente che animava i cani colla voce e colla correggia. - Ne dubito, fiociniere. - Che ci diano la caccia? - Lo temo, ma i nostri cani corrono come il vento e abbiamo già un notevole vantaggio. - Terranno duro questi corridori? - Per parecchie ore e senza rallentare. Basta che la neve non ceda sotto il peso della slitta. - Vedo che la pianura è tutta bianca. Ma oh! La matassa s'imbroglia! - Che cosa vedi? - Delle slitte che escono dal bosco. - Sono i Tanana che ci danno la caccia. Quante sono? - Ne ho contate sette e, se non corrono più di noi, certo non rimangono indietro. II tenente volse un rapido sguardo verso il bosco e vide infatti sette slitte correre con fantastica rapidità sulla nevosa pianura, trascinate da lunghe file di cani. Quattordici uomini le montavano e i più erano armati di fucili. - Diamine! Sono proprio decisi a vendicare il loro capo, - disse. - Bah! Avranno pane per i loro denti, se riescono a raggiungerci. Tu sorveglia i loro movimenti, mentre io cerco di far correre i nostri cani. - E gli eschimesi? Mi spiacerebbe che quei buoni diavoli la pagassero per noi. - Il capo mi sembrò quieto; è segno che non avrà nulla da temere. S'avvicinano? - Vorrei ingannarmi, signor Hostrup, ma mi pare che guadagnino su di noi. - Avanti, miei piccini! - gridò il tenente, sferzando i piccoli trottatori. - Se vi comportate bene, avrete doppia razione di carne stasera. - Non ne abbiamo un pezzettino grande come un soldo. - Ne troveremo al forte. Se continuiamo a correre così, vi giungeremo in poche ore. Guadagnano i Tanana? - Sì, signor Hostrup. Non sono che a un chilometro da noi. - Quante cariche ci restano? - Una cinquantina. - Ci bastano per abbatterli tutti quattordici! - disse il tenente con voce tranquilla. - Avanti, miei piccini, lesto il passo e tu, bianco, fatti più sotto. Là, così va bene. Un colpo di fucile echeggiò al largo, ma la palla non giunse fino ai fuggiaschi. - Troppo lontano, mio caro! - disse Koninson ridendo. - Quando sarete a tiro lo darò io il segnale e vi garantisco, brutti pagani, che lo assaggierete, il mio piombo. Altri due colpi di fucile rimbombarono, ma non con miglior effetto. I Tanana compresero che non era ancor giunto il momento di far parlare la polvere e raddoppiarono le grida e le scudisciate per far correre di più i loro cani, i quali parevano più robusti e più veloci di quelli regalati dall'eschimese. Ben presto non furono che a seicento metri di distanza. Koninson, che non li perdeva di vista un sol momento, stava per puntare il fucile quando vide le sette slitte fare un rapido voltafaccia e fuggire precipitosamente verso l'accampamento, di cui si scorgevano appena appena le tende. - Tò! - esclamò il fiociniere al colmo della sorpresa. - Battono in ritirata! - Come? I Tanana fuggono? - Sì signor Hostrup. Che abbiano avuto paura dei nostri fucili? - Io non lo credo. - E allora? Che siamo vicini al forte? - Dinanzi a noi non vedo che un bosco e anche molto lontano. - Che ci minacci qualche pericolo? - Lo temo, Koninson, anzi ne sono certo. - E da che io arguite? - I nostri cani da qualche minuto corrono più rapidi e mi sembrano inquieti. Infatti il tenente non si ingannava. Le povere bestie non parevano più tranquille e divoravano la via con crescente rapidità, senz'essere eccitate. Avevano cessato i loro allegri abbaiamenti, il loro pelo era diventato irto e volgevano frequentemente la testa verso i padroni, come se invocassero la loro protezione. - Hum! - mormorò Koninson. - C'è qualche cosa di grave in aria. - O meglio in terra. Guarda laggiù, guarda! Koninson guardò nella direzione indicata e vide una linea oscura estendersi dinanzi ad un bosco e poi slanciarsi attraverso la pianura con fantastica rapidità. Quantunque dotato di una buona dose di coraggio, impallidì. - I lupi! - esclamò. - Che giungono a centinaia - aggiunse il tenente. - Ecco perchè i Tanana sono fuggiti. Sfuggire al palo di tortura degli Indiani per cadere sotto i denti dei lupi, mi sembra che sia un pò dura. Vi confesso, signor Hostrup, che comincio ad aver paura. - Calma e sangue freddo, fiociniere. Se possiamo giungere a quel bosco che chiude l'orizzonte, siamo salvi. - Contate di trovare colà dei difensori? - No, ma troveremo degli alberi sui quali potremo trovare un comodo rifugio. Prepara le armi e lascia a me la cura di guidare i cani. I lupi arrivavano di gran corsa mandando delle urla brevi, come strozzate e mostrando le loro potenti mascelle armate di acuti e bianchissimi denti. Erano almeno duecento e parevano molto affamati e perciò decisi a tutto. Giunti presso la slitta, che continuava a filare colla velocità di una freccia, formarono un ampio semicerchio. Non assalivano ancora, forse tenuti in rispetto dalla presenza dei due uomini, ma le loro urla parevano volessero dire: Vi mangeremo! Vi mangeremo! - Devo aprire il fuoco? - chiese Koninson con un leggero tremito. - No, finchè si accontentano di seguirci - rispose il tenente che era tutto intento a far correre i cani, nella cui rapidità stava la salvezza di tutti. - Aspetta che ci assalgano. Per un paio di miglia i lupi, quantunque la fame attanagliasse il loro stomaco, continuarono a seguire e a fiancheggiare la slitta, ma poi il loro semicerchio si restrinse e uno di loro, più ardito o più affamato degli altri, si precipitò addosso ai cani che si gettarono violentemente da una parte. Pronto come il lampo Koninson fece fuoco e l'aggressore cadde stecchito nella neve. Alcuni carnivori, spaventati dalla detonazione, si sbandarono, ma gli altri raggiunsero la slitta. Pochi minuti dopo un altro lupo tentò l'assalto, ma ebbe egual sorte del primo. La slitta si trovava allora a due soli chilometri dal bosco e filava con una velocità vertiginosa. Tre o quattro altri l'assalirono per di dietro tentando di balzarvi dentro. - Aiuto, signor Hostrup! - gridò Koninson. - Io non basto più. Il tenente abbandonò la correggia affidandosi all'istinto dei cani e afferrò il fucile. Era tempo, poichè i feroci carnivori avanzavano sempre più, pronti ad un assalto generale. Due detonazioni rimbombarono, poi altre due, poi due altre ancora abbattendo altrettanti lupi. I due balenieri continuarono così, mentre i cani li trascinavano verso il bosco. I lupi, che ormai avevano assaggiato il sangue, non retrocedevano più. Urlando furiosamente assalivano la slitta per di dietro e ai lati tentando di strangolare i cani e di saltare alla gola degli nomini i quali si difendevano disperatamente. Ad un tratto Koninson gettò un grido di disperazione. - Non ho più polvere! - Maledizione! - urlò il tenente. - E questo è il mio ultimo colpo! I lupi, come se avessero compreso che la vittoria era ormai sicura, si precipitarono confusamente all'assalto della slitta, circondandola da ogni parte. I cani sparvero sotto il numero degli assalitori e dopo breve lotta furono fatti a brani, ma i due balenieri non erano ancora vinti. Ritti sul sedile, si difendevano con sovrumana energia respingendo l'orda incalzante coi calci dei fucili, spaccando teste, fracassando dorsi, scavezzando gambe, schiacciando musi. Ma quella lotta di due contro centocinquanta e più non poteva durare a lungo. Già il fiociniere e il tenente si sentivano impotenti di più oltre resistere, già le loro forze venivano meno, i più feroci balzavano contro le loro gambe, quando una scarica violenta rintronò sotto il bosco che era lontano soli trecento passi. Quindici o venti uomini, apparsi improvvisamente, balzarono in mezzo all'orda urlante disperdendola a colpi di scure e di fucile e accolsero nelle loro braccia i due balenieri, così miracolosamente salvati. - Signore, - disse un di loro volgendosi verso il tenente che non si reggeva più - non abbiate più timore: siete fra i cacciatori del forte Speranza.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"I vostri padri li hanno abbandonati ai Tuareg e noi li abbiamo occupati. Volete bere? Sia, ma l'acqua la dovrete pagare." "Che cosa chiedi?" "Le vostre armi e la metà dei vostri cammelli." "Ladro!" gridò il marchese, che non poteva più frenarsi. "Ecco la mia risposta!" Con un rapido gesto aveva alzato il fucile, mirando il capo. Già il colpo stava per partire quando El-Melah, che era giunto guidando il cammello di Esther, si precipitò innanzi, gridando: "Amr-el-Bekr, non mi conosci più? Pace! Pace!"

"Monterò il mehari e andrò a cercarli, giacché quel bravo animale non ci ha abbandonati. Mi aspetterete senza timore?" "Andate, marchese; ma non dimenticate che io vi attendo fra mille angosce." Il marchese le fece un gesto d'addio accompagnato da un sorriso, poi si lasciò scivolare lungo la parete rocciosa, raggiungendo il mehari. Vedendolo, l'intelligente animale s'inginocchiò per invitarlo a salire in sella. "Avanti, mio bravo," disse. "Bisogna cercare gli altri." Il mehari s'alzò, fiutò per alcuni istanti l'aria infuocata del deserto, poi si slanciò a corsa rapidissima attraverso le dune e le bassure con quell'andatura bizzarra, che fa sembrare quegli animali zoppicanti. Dove si dirigeva? Il marchese lo ignorava, ma aveva completa fiducia in quell'animale dotato d'un istinto meraviglioso e d'un odorato finissimo che gli permettono di fiutare una sorgente e gli uomini a distanze incredibili. La corsa si accelerava sempre più, diventando così vertiginosa che il marchese penava a respirare. Salì un cumulo enorme di sabbia, si cacciò fra le dune, discese alcune bassure, poi tornò a rimontare altri cumuli, tenendo il collo teso e respirando fragorosamente. Correva da una buona mezz'ora, sempre più allontanandosi dall'enorme ammasso di rupi giganteggianti verso il sud, quando s'arrestò quasi di colpo dinanzi ad una duna, mandando un grido acuto. Quasi subito altre grida consimili risposero ed il marchese, con suo stupore, vide sorgere improvvisamente fra le sabbie parecchie teste di cammelli. "La carovana!" esclamò. "E Ben? ... E Rocco?" si chiese poi impallidendo. Le sabbie si agitavano in tutti i sensi e i cammelli ed i cavalli s'alzavano gridando e nitrendo sonoramente, poi anche una tenda, che pareva fosse stata abbattuta, si sollevò ed il moro ed i due beduini comparvero, scuotendosi di dosso la polvere. "Voi, signore!" esclamò El-Haggar, scorgendo il marchese. "Solo! ... E gli altri? ... " "Non sono tornati qui Ben e Rocco?" chiese il signor di Sartena, tornando ad impallidire. "Non li abbiamo veduti, signore." "Che siano stati sepolti dalle sabbie?" "Non erano con voi?" "Sì, ma poi non li ho più riveduti. Le trombe di sabbia ci avevano divisi." "E la signorina Esther? Perduta anch'essa?" "È al sicuro." "Avete raggiunto le caverne della roccia?" "Sì, El-Haggar; io ed Esther siamo stati anche rinchiusi dalle sabbie." "Forse ugual sorte è toccata anche a Ben Nartico ed al vostro servo," disse il moro, dopo un momento di riflessione. "Conoscete quelle caverne?" "Mi ci sono rifugiato parecchie volte, signore." "Quante sono?" "Quattro." "Vicine l'una all'altra?" "No, signore." "Lasciamo che i beduini s'incarichino della carovana. Prendete delle corde, montate un cavallo e seguitemi senza indugio." Un momento dopo, l'uno sul mehari e l'altro sul miglior cavallo, lasciavano la carovana, dirigendosi verso l'enorme ammasso di rocce. Quando scalarono la piattaforma e si curvarono sullo squarcio, trovarono la coraggiosa fanciulla seduta in mezzo alla caverna, col fucile sulle ginocchia. Due solide funi unite alle due estremità da una traversa di legno furono calate, e l'ebrea fu felicemente innalzata fino sulla rupe, assieme ai due otri, troppo preziosi per lasciarli nella caverna. "Marchese," diss'ella, quando rivide la luce, "a voi devo la vita." Il signor di Sartena non rispose, ma le sorrise guardandola a lungo negli occhi.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

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Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ma se io penso che, in quel tempio, dovrebbero entrare tutti coloro che essa ha beneficati, esso è piccolo, troppo piccolo, infinitamente piccolo: la folla dei poveri, degli infelici, degli infermi, degli abbandonati, cui ella provvide di dignitosa elemosina, di ricovero, di sanità recuperata, di cure materne, la folla, a cui ella dette il suo amore e la sua fortuna, il suo tempo e la sua anima, la folla a cui ella dette sè stessa, in un lungo ed entusiasta olocausto, è immensa. Niun tempio la potrebbe contenere e ognuno di costoro, poichè gli oscuri, i derelitti non dimenticano, certo, ogni volta che il suo spirito si effonde nella preghiera, rammenterà il nome di Teresa Ravaschieri. Ed è, forse, più giusto domandare a Lei, dal suo eterno riposo che ella ci preghi pace: assai più giusto che noi, combattuti, trafitti, stanchi, oppressi, senza più guida nell'esistenza, chiediamo pace a Lei. Ella lottò e vinse, nel nome di Dio e nel nome della virtù d'amore che raccoglie tutta l'umanità. Assai prima di morire, ella era in pace. Ella aveva detto a Dio le parole estreme, assai prima di morire: e aveva avuto il dono della pace. È alla nostra nave pericolante, in gran tempesta, nella notte, che bisogna chiedere l'aiuto di uno spirito orante, nella beatitudine celeste: è al nostro naufragio che l'anima eletta deve dar soccorso, dal misterioso mondo delle anime. La grande anima aveva la consuetudine dei miracoli, per la forza della preghiera, e della bontà. Preghiamo che Ella continui! Napoli, autunno 1904

Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 1 occorrenze

Spesso abbandonati alle bambinaie nella prima infanzia; poi in balia di governanti e precettori o in collegio. Padre, madre, figliuoli, si ritrovano a l'ora dei pasti; e non c'è tempo nè voglia e nè pure si sente la necessità di una mutua continua sorveglianza, d' uno scambio di intime idee, di quel continuo calore di affettuosità e di confidenza, senza il quale nella famiglia i sentimenti non possono fare a meno di raffreddarsi. E il matrimonio fra gli operai ? In generale l'operaio sposa una donna perchè l'ama. Ma nè pure nell'operaio è raro il caso del calcolo nell'unione matrimoniale; egli pensa al vantaggio del lavoro della sua donna e vede nei figli appena grandicelli strumenti di un lavoro che basterà al loro sostentamento. E quante impreviste e improvvise vicende sorgono a turbare la pace del matrimonio fra i poveri ! Vi sono le crisi commerciali e industriali, le guerre, gli scioperi, le nascite dei nuovi figli, che diminuiscono e tolgono il lavoro del padre di famiglia e mettono la madre nell'impossibilità di occuparsi fuori di casa. E tutto ciò inasprisce il carattere e influisce tristamente su la vita domestica, dove la cruda necessità entra per scacciare la modesta agiatezza, la mutua tolleranza, la generosità e spesso la virtù. Non di rado allora l'uomo disperato cerca conforto e oblio nel vino e nei liquori; a l' osteria finiscono gli ultimi risparmi; la casa diventa un doloroso luogo di querele, pianti, rimproveri. E la ruina del matrimonio e della vita di famiglia si compie. Grazie a Dio, non sempre succede così. Vi sono famigliuole fra operai che resistono agli urti della male sorte e con la forza della volontà, l' economia, il buon senso e l'amore, si salvano dalla ruina. E quando il lavoro c'è, e il padre e la madre possono guadagnare la loro giornata ? I figli piccoletti che non possono ancora essere accolti negli asili infantili, sono lasciati in custodia dei fratelli e delle sorelle più grandicelli, che non li possono educare per la ragione che non sono educati. Padre e madre tornano a mezzogiorno per il pasto affrettato; ma non sempre nè tutti tornano; mangiano fuori, per necessità di tempo. Il pasto solo della sera riunisce la famiglia. La madre non ha che la serata per accudire alle faccende domestiche, per badare ai vestiti, a la biancheria, a l'ordine della casa. E il da fare la rende inquieta, irascibile, attrabiliare. I fanciulli fanno il chiasso ed essa li manda bruscamente a letto; poi si dà attorno per le povere stanze; ripulisce, prepara, cuce, rattoppa fino ad ora tarda; e intanto disfoga in mal umore, in lagnanze e in maledizioni, la sua vitaccia faticosa e grama. Il marito, che ha sgobbato il dì intiero, sente il bisogno di un'ora di svago ed esce di casa. Nei momenti di grande lavoro, l'operaio non ha libera neppure la festa; anche quel giorno è tolto a la vita della famiglia ! Spesso deve lavorare delle ore in più assentandosi da casa il poco tempo che di solito vi passa. La sua abitazione è lontana dall'officina ? Si alza il mattino quando i figli dormono ancora sodamente, e torna la sera quando già sono a letto. Alle volte l'officina è così lontana, che l'operaio è costretto a starvi tutta la settimana, non tornando a casa che il sabato sera. Il lavoro della donna e dei fanciulli accresce sempre più, sopra tutto nelle industrie tessili. E donne e fanciulli passano l'intera giornata lontani dalla famiglia. A Colmar verso la fine del novembre 1873, sopra 8109 operai impiegati nell'industria tessile, vi erano 3509 donne, 3416 uomini e 1184 fanciulli. Nei cotonifici inglesi, nel 1875, su 479,515 operai vi erano 258,667 donne, 38,558 giovinetti e giovinette dai 13 ai 18 anni, 66,900 fanciulli al disotto dei 13 anni, e 115,391 uomini. Quale doveva essere la vita di famiglia di quella povera gente ? Qual è la vita di famiglia di molti operai e operaie della nostra Italia Nei centri industriali il padre è a l'officina, la madre nelle filande, nei filatoi nelle fabbriche tessili; i figli piccoli nelle scuole, i grandi al lavoro; e questo tutto il giorno ed ogni giorno. Il pane in casa non manca, e nè pure il companatico; quello che manca è la vita della famiglia. Scrive Herbert Spencer: « Quando con la legge sui poveri i provvide pubblicamente ai bambini che igenitori non potevano o non volevano sostentare adeguatamente , la società assunse funzioni familiari, come fece pure. allorquando prese in qualche modo cura dei genitori non aiutati dai figli. La legislazione ha di recente rallentati i legami famigliari dispensando i genitori dalla cura intellettuale dei figliuoli e sostituendo l'educazione pubblica a la paterna. Ed ha sostituita maggiormente la responsabilità dei genitori con quella nazionale, quando le autorità deputate a ciò, hanno provvisto in parte al vestiario dei fanciulli abbandonati prima che siano in età di poter apprendere, ed han fatto anche frustare, per mezzo degli agenti di polizia, i ragazzi renitenti ad andare a scuola. Questo riconoscere come unità sociale l'individuo piuttosto che la famiglia, è davvero giunto adesso al punto che i doveri paterni dello stato, sono ritenuti da molti indiscutibili. A disgiungere, e sperdere quindi a rallentare gli affetti della famiglia, nel secolo XIX, contribuisce anche l'emigrazione. La popolazione dei paesi inciviliti, nel nostro secolo, si è tanto aumentata, che ha cominciato a trovarsi troppo fitta in Europa. Nello stesso tempo i mezzi di trasporto si andarono perfezionando al punto da facilitare assai l'emigrazione. Nei tempi andati erano pochissimi gli emigranti; solamente nel secolo XIX cominciò la grande emigrazione che porta ciascun anno gli Europei a centinaia di migliaia nei paesi tuttora deserti del Nuovo Mondo. Durante la carestia dell'Irlanda, causata dalla malattia nelle patate, dal 1847 al 1853, emigrarono tre milioni d'Irlandesi. Tedeschi, Norvegesi, Inglesi, Irlandesi, Italiani, Francesi, tutti emigrano. Qualche volta le famiglie intiere vanno a cercar fortuna oltremare. Ma più, spesso sono gli uomini soli o anche le donne sole, che se ne vanno. Gli uomini lasciando moglie e figli o i vecchi genitori ; le donne staccandosi dalla loro famiglia. E la lontananza illanguidisce i ricordi e scema o annulla gli affetti più sacri. Vi sono famiglie di contadini ove al focolare non sono che i vecchi genitori. I figli e le figlie se ne sono andati tutti; messe le ali, diventati forti al volo, hanno lasciato il nido deserto. Non manca del tutto il gradito spettacolo della famiglia come il cuore e la ragione la vorrebbero. Ma sono ancora le famiglie ideali. Si trovano là dove la ricchezza non ha introdotto fra le mura domestiche troppe esigenze: troppo lusso, troppa ambizione e vanità. Si trovano là ove il padre di famiglia guadagna abbastanza con il suo impiego e la madre può darsi tutta alle cure domestiche, a l'educazione di figli; si trovano fra i campaguoli agiati, fra i contadini che lavorano la terra propria; fra i piccoli commercianti; fra gli operai che hanno una fucina, una bottega propria. Queste famiglie che il bisogno non disgiunge, che la smania dell'apparire non tocca, che l'emigrazione non diminuisce, sono come verdi oasi nel deserto. L'occhio e il sentimento si fissano in esse e riposano e si confortano. Ma sono molte queste famiglie in questa fine del secolo XIX.? Nel secolo XIX tutto è stato trasformato. La società moderna più non riconosce il diritto d'un uomo sopra un altro uomo; del padrone sul servo, del ricco sul povero; l'uomo, in qualunque condizione si trovi, è libero. Vi ha libertà di coscienza di culto, di parola, di andare e venire dove meglio pare e piace, di scegliere il domicilio, di regolare il proprio modo di vivere; libertà di industria e di commercio; la società contemporanea riposa su la libertà individuale. Dell'antico non sussistono che la famiglia e la proprietà. Ma la famiglia sussiste in modo differente dall'antico. Siamo noi più felici dei nostri avi ? Chi potrebbe affermarlo. ? Per certo la nostra vita è meglio organizzata di quella dei nostri padri Ma come i fanciulli abituati a ogni comodità, agli agi, agli spassi, al lusso, noi ci siamo abituati al meglio e più non ne sentiamo il diletto. L'educazione ha forse indebolito in noi il senso del piacere. Il lusso adesso non è privilegio di pochi; è entrato più o meno in ogni famiglia. I facili e poco costosi prodotti dell'industria e del commercio sono adesso a la portata di tutti e in ogni casa è entrato il bisogno di un certo benessere dorato detto dagli inglesi « comfort ». Un piccolo borghese di adesso, ha maggiori esigenze di un gran signore dei tempi andati. La vita materiale, l'intellettuale, la sociale : tutto è cambiato. Più la civiltà progredisce e più la sua corsa si fa rapida. Dobbiamo sgomentarci per ciò ? L'umanità ha subito trasformazioni che manco si sarebbero immaginate, e non ha perito. La storia della civiltà insegna ad avere confidenza nell'avvenire: confidiamo!

USI,COSTUMI E PREGIUDIZI DEL POPOLO DI ROMA

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Zanazzo, Giggi 1 occorrenze

La Compagnia della Morte aveva, come è noto, per istituto di andare a raccogliere i poveri morti abbandonati per le campagne che poi seppelliva nel suo Oratorio. I due confratelli incaricati di ricevere all’ingresso dell’Oratorio le elemosine dei visitatori della rappresentazione che vi si faceva nell’Ottavario de’ morti, agitando il bossolo, dicevano con voce profonda e cadenzata: — Poveretti che moreno per le campagne e seppelliti per l’amor di Dio in questo santo loco.