Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tregua

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Levi, Primo 3 occorrenze

Le sorelle russe, perplesse, cercarono invano di distenderlo sul dorso, al che egli emise strida acute da topo: del resto, era fatica inutile, le sue membra cedevano elasticamente sotto lo sforzo, ma appena abbandonate scattavano indietro alla loro posizione iniziale. Allora presero partito, e lo portarono sotto la doccia così com' era; e poiché avevano ordini precisi, lo lavarono ugualmente del loro meglio, forzando spugna e sapone nel groviglio legnoso di quel corpo; alla fine, lo sciacquarono coscienziosamente, versandogli sopra un paio di secchi d' acqua tiepida. Charles e io, nudi e fumanti, assistevamo alla scena con pietà e orrore. Mentre una delle braccia era distesa, si vide per un istante il numero tatuato: era un 200000, uno dei Vosgi. _ Bon Dieu, c' est un franc6ais! _ fece Charles, e si volse in silenzio contro il muro. Ci assegnarono camicia e mutande, e ci condussero dal barbiere russo affinché, per l' ultima volta della nostra carriera, ci fossero rasi i capelli a zero. Il barbiere era un gigante bruno, dagli occhi selvaggi e spiritati: esercitava la sua arte con inconsulta violenza, e per ragioni a me ignote portava un mitragliatore a tracolla. "Italiano Mussolini", mi disse bieco, e ai due francesi: "Fransé Laval"; dove si vede quanto poco soccorrano le idee generali alla comprensione dei casi singoli. Qui ci separammo: Charles e Arthur, guariti e relativamente ben portanti, si ricongiunsero al gruppo dei francesi, e sparirono dal mio orizzonte: io, malato, fui introdotto nell' infermeria, visitato sommariamente, e relegato d' urgenza in un nuovo "Reparto Infettivi". Questa infermeria era tale nelle intenzioni, e inoltre perché effettivamente rigurgitava di infermi ( infatti i tedeschi in fuga avevano lasciato a Monowitz, Auschwitz e Birkenau solo i malati più gravi, e questi erano stati tutti radunati dai russi nel Campo Grande): non era, né poteva essere, un luogo di cura perché i medici, per lo più malati essi stessi, erano poche decine, le medicine e il materiale sanitario mancavano del tutto, mentre avevano bisogno di cure i tre quarti almeno dei cinquemila ospiti del campo. Il locale a cui venni assegnato era una camerata enorme e buia, piena fino al soffitto di sofferenze e di lamenti. Per forse ottocento malati, non vi era che un medico di guardia, e nessun infermiere: erano i malati stessi che dovevano provvedere alle loro necessità più urgenti, e a quelle dei loro compagni più gravi. Vi trascorsi una sola notte, che ricordo come un incubo; al mattino, i cadaveri nelle cuccette, o abbandonati scomposti sul pavimento, si contavano a dozzine. Il giorno seguente fui trasferito in un locale più piccolo, che conteneva solo venti cuccette: in una di queste giacqui per tre o quattro giorni, oppresso da una febbre altissima, cosciente solo ad intervalli incapace di mangiare, e tormentato da una sete atroce: quinto giorno la febbre era sparita: mi sentivo leggero come una nuvola, affamato e gelato, ma la mia testa era sgombra, gli occhi e gli orecchi come affinati dalla forzata vacanza, ed ero in grado di riprendere contatto col mondo. Nel corso di quei pochi giorni, intorno a me si era verificato un mutamento vistoso. Era stato l' ultimo grande colpo di falce, la chiusura dei conti: i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita ricominciava a scorrere tumultuosamente. Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le funeste strade del campo non erano più deserte, anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso e rumoroso, che sembrava fine a se stesso. Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami, canzoni. Ciononostante la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del più piccolo ed inerme fra noi, del più innocente, di un bambino di Hurbinek. Hurbinek era un nulla, un figlio della morte un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena. Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità. Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek "diceva una parola". Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come "mass-klo", "matisklo". Nella notte tendemmo l' orecchio: era vero, dall' angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome. Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c' erano fra noi parlatori di tutte le lingue d' Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione: forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse ( secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire "mangiare", o "pane"; o forse "carne" in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua. Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all' ultimo respiro, per conquistarsi l' entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole. Henek era un buon compagno, ed una perpetua fonte di sorpresa. Anche il suo nome, come quello di Hurbinek, era convenzionale: il suo nome vero, che era Ko5nig, era stato alterato in Henek, diminutivo polacco di Enrico, dalle due ragazze polacche, le quali, benché più anziane di lui di dieci anni almeno, provavano per Henek una simpatia ambigua che presto divenne desiderio aperto. Henek-König, solo del nostro microcosmo di afflizione, non era né malato né convalescente, anzi, godeva di una splendida sanità di corpo e di spirito. Era di piccola statura e di aspetto mite, ma aveva una muscolatura da atleta; affettuoso e servizievole con Hurbinek e con noi, albergava tuttavia istinti pacatamente sanguinari. Il Lager, trappola mortale, "mulino da ossa" per gli altri, era stato per lui una buona scuola: in pochi mesi aveva fatto di lui un giovane carnivoro pronto, sagace, feroce e prudente. Nelle lunghe ore che trascorremmo insieme, mi narrò l' essenziale della sua breve vita. Era nato ed abitava in una fattoria, in Transilvania, in mezzo al bosco, vicino al confine rumeno. Andava spesso col padre per il bosco, alla domenica, entrambi col fucile. Perché col fucile? per cacciare? Sì, anche per cacciare; ma anche per sparare ai rumeni. E perché sparare ai rumeni? Perché sono rumeni, mi spiegò Henek con semplicità disarmante. Anche loro, ogni tanto, sparavano a noi. Era stato catturato, e deportato ad Auschwitz con tutta la famiglia. Gli altri erano stati uccisi subito: lui aveva dichiarato alle SS di avere diciotto anni e di essere muratore, mentre ne aveva quattordici ed era studente. Così era entrato a Birkenau: ma a Birkenau aveva invece insistito sulla sua età vera, era stato assegnato al Block dei bambini, ed essendo il più anziano e il più robusto era diventato il loro Kapo. I bambini erano a Birkenau come uccelli di passo: dopo pochi giorni, erano trasferiti al Block delle esperienze, o direttamente alle camere a gas. Henek aveva subito capito la situazione, e da buon Kapo si era "organizzato", aveva stabilito solide relazioni con un influente Häftling ungherese, ed era rimasto fino alla liberazione. Quando c' erano selezioni al Block dei bambini era lui che sceglieva. Non provava rimorso? No: perché avrebbe dovuto? esisteva forse un altro modo per sopravvivere? Alla evacuazione del Lager, saviamente si era nascosto: dal suo nascondiglio, attraverso la finestrella di una cantina, aveva visto i tedeschi sgomberare in gran fretta i favolosi magazzini di Auschwitz, e aveva notato come, nel trambusto della partenza, avessero sparso sulla strada una buona quantità di alimenti in scatola. Non si erano attardati a recuperarli, ma avevano cercato di distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati. Molte scatole si erano confitte nel fango e nella neve senza sfasciarsi: a notte, Henek era uscito con un sacco, e aveva radunato un fantastico tesoro di scatole, deformate, appiattite, ma ancora piene: carne, lardo, pesce, frutta, vitamine. Non lo aveva detto a nessuno, naturalmente: lo diceva a me, perché ero suo vicino di letto, e potevo essergli utile come sorvegliante. In effetti, poiché Henek passava molte ore in giro per il Lager, in misteriose faccende, mentre io ero nella impossibilità di muovermi, la mia opera di custodia gli fu abbastanza utile. In me aveva fiducia: sistemò il sacco sotto il mio letto, e nei giorni seguenti mi corrispose una giusta mercede in natura, autorizzandomi a prelevare quelle razioni di conforto che riteneva adatte, come qualità e quantità, alla mia condizione di malato e alla misura dei miei servizi. Non era Hurbinek il solo bambino. Ce n' erano altri, in condizioni di salute relativamente buone: avevano costituito un loro piccolo "club", molto chiuso e riservato, in cui l' intrusione degli adulti era visibilmente sgradita. Erano animaletti selvaggi e giudiziosi, che si intrattenevano fra di loro in lingue che non comprendevo. Il più autorevole membro del clan non aveva più di cinque anni, e si chiamava Peter Pavel. Peter Pavel non parlava con nessuno e non aveva bisogno di nessuno. Era un bel bambino biondo e robusto, dal viso intelligente e impassibile. Al mattino scendeva dalla sua cuccetta, che era al terzo piano, con movimenti lenti ma sicuri, andava alle docce a riempire d' acqua la sua gamella, e si lavava meticolosamente. Spariva poi per tutta la giornata, facendo solo una breve comparsa a mezzogiorno per riscuotere la zuppa in quella stessa sua gamella. Tornava infine per la cena; mangiava, usciva nuovamente, rientrava poco dopo con un vaso da notte, lo collocava nell' angolo dietro la stufa, vi sedeva per qualche minuto, ripartiva col vaso, tornava senza, si arrampicava piano piano al suo posto, sistemava puntigliosamente le coperte e il cuscino, e dormiva fino al mattino senza mutare posizione. Pochi giorni dopo il mio arrivo, vidi con disagio apparire un viso noto; la sagoma patetica e sgradevole del Kleine Kiepura, la mascotte di Buna-Monowitz. Tutti lo conoscevano a Buna: era il più giovane dei prigionieri, non aveva che dodici anni. Tutto era irregolare in lui, a partire dalla sua stessa presenza in Lager, dove di norma i bambini non entravano vivi: nessuno sapeva come e perché vi fosse stato ammesso, e ad un tempo tutti lo sapevano fin troppo. Irregolare era la sua condizione, poiché non marciava al lavoro, ma risiedeva in semiclausura nel Block dei funzionari; vistosamente irregolare, infine, il suo aspetto. Era cresciuto troppo e male: dal busto tozzo e corto sporgevano braccia e gambe lunghissime, da ragno; e di sotto il viso pallido, dai tratti non privi di grazia infantile, balzava in avanti una enorme mandibola più prominente del naso. Il Kleine Kiepura era l' attendente e il protetto del Lager-Kapo, il Kapo di tutti i Kapos. Nessuno lo amava, salvo il suo protettore. All' ombra dell' autorità, ben nutrito e vestito, esente dal lavoro, aveva condotto fino all' ultimo giorno un' esistenza ambigua e frivola di favorito, intessuta di pettegolezzi, di delazioni e di affetti distorti: il suo nome, a torto, come spero, veniva sempre sussurrato nei casi più clamorosi di denunzie anonime alla Sezione politica e alle SS. Perciò tutti lo temevano e lo fuggivano. Ora il Lager-Kapo, destituito di ogni potere, era in marcia verso occidente, e il Kleine Kiepura, convalescente di una leggera malattia, aveva seguito il nostro destino. Ebbe un letto e una scodella, e si inserì nel nostro limbo. Henek ed io gli rivolgemmo poche e caute parole, poiché provavamo verso di lui diffidenza e una pietà ostile; ma quasi non ci rispose. Tacque per due giorni: se ne stava in cuccetta tutto raggomitolato, con lo sguardo fisso nel vuoto e i pugni serrati sul petto. Poi prese ad un tratto a parlare, e rimpiangemmo il suo silenzio. Il Kleine Kiepura parlava da solo, come in sogno: e il suo sogno era di avere fatto carriera, di essere diventato un Kapo. Non si capiva se fosse follia o un gioco puerile e sinistro: senza tregua, dall' alto della sua cuccetta vicino al soffitto, il ragazzo cantava e fischiava le marce di Buna, i ritmi brutali che scandivano i nostri passi stanchi ogni mattina e ogni sera; e vociferava in tedesco imperiosi comandi ad uno stuolo di schiavi inesistenti. _ Alzarsi, porci, avete capito? Rifare i letti, ma presto: pulirsi le scarpe. Tutti adunata, controllo dei pidocchi, controllo dei piedi. Mostrare i piedi, carogne! Di nuovo sporco, tu, sacco di m.: fai attenzione, io non scherzo. Ancora una volta che ti pesco, e te ne vai in crematorio _. Poi, urlando alla maniera dei militari tedeschi: _ In fila, coperti, allineati. Giù il colletto: al passo, seguire la musica. Le mani sulla cucitura dei pantaloni _. E poi ancora, dopo una pausa, con voce arrogante e stridula: _ Questo non è un sanatorio. Questo è un Lager tedesco, si chiama Auschwitz, e non se ne esce che per il Camino. Se ti piace è così; se non ti piace, non hai che da andare a toccare il filo elettrico. Il Kleine Kiepura sparì dopo pochi giorni, con sollievo di tutti. In mezzo a noi, deboli e malati, ma pieni della letizia timida e trepida della libertà ritrovata, la sua presenza offendeva come quella di un cadavere, e la compassione che egli suscitava in noi era commista ad orrore. Tentammo invano di strapparlo al suo delirio: l' infezione del Lager aveva fatto in lui troppa strada. Le due ragazze polacche, che svolgevano ( in realtà assai male) le mansioni di infermiere, si chiamavano Hanka e Jadzia. Hanka era una ex Kapo, come si poteva dedurre dalla sua chioma non rasata, e anche più sicuramente dai suoi modi protervi. Non doveva avere più di ventiquattro anni: era di media statura, di carnagione olivastra e di lineamenti duri e volgari. In quella atmosfera di purgatorio, piena di sofferenze passate e presenti, di speranze e di pietà, passava le giornate davanti allo specchio, o a limarsi le unghie delle mani e dei piedi, o a pavoneggiarsi davanti all' indifferente e ironico Henek. Era, o si considerava, più elevata in grado di Jadzia; ma in verità bastava ben poco per superare in autorità una creatura così dimessa. Jadzia era una ragazza piccola e timida, dal colorito roseo malato; ma il suo involucro di carne anemica era tormentato, lacerato dall' interno, sconvolto da una segreta continua tempesta. Aveva voglia, bisogno, necessità impellente di un uomo, di un uomo qualsiasi, subito, di tutti gli uomini. Ogni maschio che passasse nel suo campo la attirava: la attirava materialmente, pesantemente, come la calamita attira il ferro. Jadzia lo fissava con occhi incantati e attoniti, si alzava dal suo angolo, avanzava verso di lui con passo incerto da sonnambula, ne cercava il contatto; se l' uomo si allontanava, lo seguiva a distanza, in silenzio, per qualche metro, poi, con gli occhi bassi, ritornava alla sua inerzia; se l' uomo la attendeva, Jadzia lo avvolgeva, lo incorporava, ne prendeva possesso, con i movimenti ciechi, muti, tremuli, lenti, ma sicuri, che le amebe manifestano sotto il microscopio. Il suo obiettivo primo e principale era naturalmente Henek: ma Henek non la voleva, la scherniva, la insultava. Tuttavia, da quel ragazzo pratico che era, non si era disinteressato del caso, e ne aveva fatto cenno a Noah, suo grande amico. Noah non abitava nella nostra camerata, anzi, non abitava in nessun luogo e in tutti. Era un uomo nomade e libero, lieto dell' aria che respirava e della terra che calcava. Era il Scheissminister di Auschwitz libera, il Ministro delle latrine e pozzi neri: ma nonostante questo suo incarico da monatto (che d' altronde egli aveva assunto volontariamente) non c' era nulla di turpe in lui, o se qualcosa c' era, era sopraffatto e cancellato dall' impeto del suo vigore vitale. Noah era un giovanissimo pantagruele, forte come un cavallo, vorace e salace. Come Jadzia voleva tutti gli uomini, così Noah voleva tutte le donne: ma mentre la tenue Jadzia si limitava a tendere intorno a sé le sue reti inconsistenti, come un mollusco di scoglio, Noah, uccello d' alto volo, incrociava dall' alba a notte per tutte le strade del campo, a cassetta del suo carro ripugnante, schioccando la frusta e cantando a gola spiegata: il carro sostava davanti all' ingresso di ogni Block, e mentre i suoi gregari, lerci e fetidi, sbrigavano imprecando la loro immonda bisogna, Noah si aggirava per le camerate femminili come un principe d' Oriente, vestito di una giubba arabescata e variopinta, piena di toppe e di alamari. I suoi convegni d' amore sembravano uragani. Era l' amico di tutti gli uomini e l' amante di tutte le donne. Il diluvio era finito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l' arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare. Frau Vitta, anzi Frau Vita, come tutti la chiamavano, amava invece tutti gli esseri umani di un amore semplice e fraterno. Frau Vita, dal corpo disfatto e dal dolce viso chiaro, era una giovane vedova di Trieste, mezza ebrea, reduce da Birkenau. Passava molte ore accanto al mio letto, parlandomi di mille cose a un tempo con volubilità triestina, ridendo e piangendo: era in buona salute, ma ferita profondamente, ulcerata da quanto aveva subito e visto in un anno di Lager, e in quegli ultimi orribili giorni. Infatti era stata "comandata" al trasporto dei cadaveri, di pezzi di cadaveri, di miserande anonime spoglie, e quelle ultime immagini le pesavano addosso come una montagna: cercava di esorcizzarle, di lavarsene, buttandosi a capofitto in una attività tumultuosa. Era lei la sola che si occupasse dei malati e dei bambini; lo faceva con pietà frenetica, e quando le avanzava tempo lavava i pavimenti e i vetri con furia selvaggia, sciacquava fragorosamente le gamelle e i bicchieri, correva per le camerate a portare messaggi veri o fittizi; tornava poi trafelata, e sedeva ansante sulla mia cuccetta, con gli occhi umidi, affamata di parole, di confidenza, di calore umano. Alla sera quando tutte le opere del giorno erano finite, incapace di resistere alla solitudine, balzava a un tratto dal suo giaciglio, e danzava da sola fra letto e letto, al suono delle sue stesse canzoni, stringendo affettuosamente al petto un uomo immaginario. Fu Frau Vita a chiudere gli occhi a André e ad Antoine. Erano due giovani contadini dei Vosgi, entrambi miei compagni dei dieci giorni di interregno, entrambi ammalati di difterite. Mi sembrava di conoscerli da secoli. Con strano parallelismo, furono colpiti simultaneamente da una forma dissenterica, che presto si rivelò gravissima, di origine tubercolare; e in pochi giorni la bilancia del loro destino diede il tracollo. Erano in due letti vicini, non si lamentavano, sopportavano le coliche atroci a denti stretti, senza comprenderne la natura mortale; parlavano solo fra di loro, timidamente, e non chiedevano soccorso a nessuno. André fu il primo a partire, mentre parlava, a metà di una frase, come si spegne una candela. Per due giorni nessuno venne a rimuoverlo: i bambini lo venivano a guardare con curiosità smarrita, poi continuavano a giocare nel loro angolo. Antoine rimase silenzioso e solo, tutto chiuso in una attesa che lo trasfigurava. Il suo stato di nutrizione era discreto, ma in due giorni subì una metamorfosi struggente, come risucchiato dal vicino. Insieme con Frau Vita riuscimmo, dopo molti tentativi vani, a far venire un dottore: gli chiesi, in tedesco, se c' era qualcosa da fare, se c' erano speranze, e gli raccomandai di non rispondere in francese. Mi rispose in yiddish, con una frase breve che non compresi: allora tradusse in tedesco: "Sein Kamerad ruft ihn", il suo compagno lo chiama. Antoine obbedì al richiamo quella sera stessa. Non avevano ancora vent' anni, ed erano stati in Lager un solo mese. E venne finalmente Olga, in una notte piena di silenzio, a portarmi la notizia funesta del campo di Birkenau, e del destino delle donne del mio trasporto. La attendevo da molti giorni: non la conoscevo di persona, ma Frau Vita, che malgrado i divieti sanitari frequentava anche i malati degli altri reparti, in cerca di pene da alleviare e di colloqui appassionati, ci aveva informati delle rispettive presenze, e aveva organizzato l' illecito incontro, a notte fonda, mentre tutti dormivano. Olga era una partigiana ebrea croata, che nel 1942 si era rifugiata nell' astigiano con la sua famiglia, e qui era stata internata; apparteneva quindi a quella ondata di varie migliaia di ebrei stranieri che avevano trovato ospitalità, e breve pace, nella paradossale Italia di quegli anni, ufficialmente antisemita. Era una donna di grande intelligenza e cultura, forte, bella e consapevole; deportata a Birkenau, vi aveva sopravvissuto, sola della sua famiglia. Parlava l' italiano perfettamente; per gratitudine e per temperamento, si era trovata presto amica delle italiane del campo, e più precisamente di quelle che erano state deportate col mio convoglio. Mi raccontò la loro storia con gli occhi rivolti a terra, a lume di candela. La luce furtiva sottraeva alle tenebre solo il suo viso, accentuandone le rughe precoci, e mutandolo in una maschera tragica. Un fazzoletto le copriva il capo: lo snodò a un tratto, e la maschera si fece macabra come un teschio. Il cranio di Olga era nudo: lo copriva solo una breve peluria grigia. Erano morti tutti. Tutti i bambini e tutti i vecchi, subito. Delle cinquecentocinquanta persone di cui avevo perso notizia all' ingresso in Lager, solo ventinove donne erano state ammesse al campo di Birkenau: di queste, cinque sole erano sopravvissute. Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate.

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Si procurava i medicinali, parte per normali vie amministrative, prelevandoli da depositi militari sovietici, parte attraverso i molteplici canali della borsa nera, parte ancora (ed era la parte maggiore) cooperando attivamente al saccheggio dei magazzini degli ex Lager tedeschi e delle infermerie e farmacie tedesche abbandonate; le cui scorte, a loro volta, erano frutto di precedenti saccheggi condotti dai tedeschi in tutte le nazioni d' Europa. Perciò, ogni giorno l' infermeria di Bogucice riceveva rifornimenti senza piano né metodo: centinaia di scatole di specialità farmaceutiche, recanti etichette e istruzioni d' uso in tutte le lingue, che dovevano essere smistate e catalogate per un possibile impiego. Fra le cose che avevo imparato in Auschwitz, una delle più importanti era, che bisogna sempre evitare di essere "qualunque". Tutte le vie sono chiuse a chi appare inutile, tutte sono aperte a chi esercita una funzione, anche la più insulsa. Perciò, dopo essermi consigliato con Leonardo, mi presentai a Marja, e proposi i miei servizi come farmacista-poliglotta. Marja Fjodorovna mi investigò con occhio esperto nel pesare un maschio. Ero "doktor"? Sì, lo ero, sostenni, aiutato nell' equivoco dal forte attrito linguistico: la siberiana infatti non parlava il tedesco, ma (pur non essendo ebrea) conosceva un po' di yiddish, imparato chissà dove. Non avevo un aspetto molto professionale né molto attraente, ma per stare in un retrobottega forse potevo andare. Marja trasse di tasca un pezzo di carta tutto spiegazzato, e mi chiese come mi chiamavo. Quando a "Levi" aggiunsi "Primo", i suoi occhi verdi si illuminarono, dapprima sospettosi, poi interrogativi, infine benevoli. Ma allora eravamo quasi parenti, mi spiegò. Io "Primo" e lei "Prima": "Prima" era il suo cognome, la sua "famìlia", Marja Fjodorovna Prima. Benissimo, potevo prendere servizio. Scarpe e vestiti? Mah, non era un affare semplice, ne avrebbe parlato con Egorov e con certe sue conoscenze, forse più tardi qualcosa si sarebbe potuto trovare. Si scarabocchiò il mio nome sul pezzo di carta, e il giorno seguente mi consegnò solennemente il "propusk", un lasciapassare dall' aspetto assai casalingo, che mi autorizzava a entrare e uscire dal campo a qualsiasi ora del giorno e della notte. Abitavo in una camera con otto operai italiani, e tutte le mattine mi recavo all' infermeria per servizio. Marja Fjodorovna mi consegnava centinaia di scatolette variopinte da classificare, e mi faceva piccoli regali amichevoli: scatole di glucosio (graditissime); pasticche di liquirizia e di menta; stringhe da scarpe: qualche volta un pacchetto di sale o di polvere per budini. Mi invitò una sera a prendere il tè nella sua camera, e notai che alla parete sopra il suo letto erano appese sette od otto fotografie di uomini in divisa: erano quasi tutti ritratti di visi noti, e cioè di soldati e ufficiali della Kommandantur. Marja li chiamava tutti famigliarmente per nome, e parlava di loro con semplicità affettuosa: li conosceva da tanti anni ormai, e avevano fatto tutta la guerra insieme. Dopo qualche giorno, poiché il lavoro di farmacista mi lasciava molto tempo libero, Leonardo mi chiamò ad aiutarlo in ambulatorio. Nelle intenzioni dei russi, quest' ultimo avrebbe dovuto fare servizio solo per gli ospiti del campo di Bogucice: in realtà, poiché le cure erano gratuite e prive di qualsiasi formalità, vi si presentavano a chiedere visita o medicazioni anche militari russi, civili di Katowice, gente di passaggio, mendicanti, e figure dubbie che non volevano avere a che fare con le autorità. Sia Marja sia il dottor Dancenko non trovavano nulla a ridire su questo stato di cose (già Dancenko non trovava mai a ridire su nulla, non si occupava di nulla se non di corteggiare le ragazze con divertenti maniere da granduca di operetta, e al mattino di buonora, quando veniva da noi in rapida ispezione, era già ubriaco e pieno di letizia): tuttavia, qualche settimana più tardi, Marja mi convocò, e con aria molto officiosa mi comunicò che, "per ordine di Mosca", era necessario che l' attività dell' ambulatorio fosse sottoposta a un minuzioso controllo. Perciò avrei dovuto tenere un registro, e annotarvi ogni sera il nome e l' età dei pazienti, la loro malattia, e la qualità e la quantità dei medicamenti somministrati o prescritti. In sé, la cosa non sembrava insensata; ma era necessario definire alcuni particolari pratici, che discussi con Marja. Ad esempio: come ci saremmo accertati della identità dei pazienti? Ma Marja ritenne trascurabile l' obiezione: che scrivessi le generalità dichiarate, "Mosca" si sarebbe certamente accontentata. Emerse però una difficoltà più grave: in che lingua tenere la registrazione? Non in italiano né in francese né in tedesco, che né Marja né Dancenko conoscevano. In russo allora? No, il russo non lo conoscevo io. Marja meditò perplessa, poi si illuminò, ed esclamò: _ Galina! _ Galina avrebbe risolto la situazione. Galina era una delle ragazze aggregate alla Kommandantur: conosceva il tedesco, così avrei potuto dettarle i verbali in tedesco, e lei li avrebbe tradotti in russo seduta stante. Marja mandò immediatamente a chiamare Galina (l' autorità di Marja, benché di natura mal definita, appariva grande), e così ebbe inizio la nostra collaborazione. Galina aveva diciott' anni, ed era di Kazàtin, in Ucraina. Era bruna, allegra e graziosa: aveva un viso intelligente dai tratti sensibili e minuti, e fra tutte le sue colleghe era la sola che vestisse con una certa eleganza, e che avesse spalle, mani e piedi di dimensioni accettabili. Parlava il tedesco discretamente: col suo ausilio i famosi verbali venivano faticosamente confezionati sera per sera, con un mozzicone di matita, su un fascicolo di carta grigiastra che Marja mi aveva consegnato come una reliquia. Come si dice "asma" in tedesco? e "caviglia"? e "slogatura"? e quali sono i termini russi corrispondenti? Ad ogni scoglio lessicale eravamo costretti ad arrestarci in preda al dubbio, e a ricorrere a complicate gesticolazioni, che finivano in squillanti risate da parte di Galina. Molto più raramente da parte mia. Di fronte a Galina mi sentivo debole, malato e sporco; ero dolorosamente conscio del mio aspetto miserevole, della mia barba mal rasa, dei miei abiti di Auschwitz; ero acutamente conscio dello sguardo di Galina, ancora quasi infantile, in cui una pietà incerta si accompagnava con una definita repulsione. Tuttavia, dopo qualche settimana di lavoro comune, si era stabilita fra noi una atmosfera di tenue confidenza reciproca. Galina mi fece capire che la faccenda dei verbali non era poi tanto seria, che Marja Fjodorovna era "vecchia e matta" e le bastava che i fogli le venissero riconsegnati comunque coperti di scrittura, e che il dottor Dancenko era affaccendato in tutt' altre faccende (note a Galina con strabiliante copia di particolari) con la Anna, con la Tanja, con la Vassilissa, e che i verbali gli interessavano "come la neve dell' anno scorso". Così il tempo dedicato ai malinconici dèi burocratici si andò assottigliando, e Galina approfittò degli intervalli per raccontarmi la sua storia, sfumacchiando, a pezzi e a bocconi. In piena guerra, due anni prima, sotto il Caucaso dove si era rifugiata con la famiglia, era stata reclutata da quella stessa Kommandantur; reclutata nel modo più semplice, vale a dire fermata per strada, e condotta al Comando per scrivere a macchina alcune lettere. C' era andata e c' era rimasta; non era più riuscita a sganciarsi (o più probabilmente, pensavo io, non aveva neppure tentato). La Kommandantur era diventata la sua vera famiglia: la aveva seguita per decine di migliaia di chilometri, per le retrovie sconvolte e lungo il fronte sterminato, dalla Crimea alla Finlandia. Non aveva una divisa, e neppure una qualifica né un grado: ma era utile ai suoi compagni combattenti, era loro amica, e perciò li seguiva, perché c' era la guerra, e ognuno doveva fare il suo dovere; il mondo poi era grande e vario, ed è bello girarlo quando si è giovani e senza preoccupazioni. Preoccupazioni Galina non ne aveva, neppure l' ombra. La si incontrava al mattino che andava al lavatoio, con un sacco di biancheria in bilico sul capo, e cantava come un' allodola; o negli uffici del Comando, scalza, che tempestava sulla macchina per scrivere; o alla domenica a spasso sui bastioni, a braccetto con un soldato, mai lo stesso; o di sera al balcone, romanticamente rapita, mentre uno spasimante belga, tutto sbrindellato, le faceva la serenata sulla chitarra. Era una ragazza di campagna, sveglia, ingenua, un po' civetta, molto vivace, non particolarmente colta, non particolarmente seria; eppure si sentiva operante in lei la stessa virtù, la stessa dignità dei suoi compagni-amici-fidanzati, la dignità di chi lavora e sa perché, di chi combatte e sa di aver ragione, di chi ha la vita davanti. A metà maggio, pochi giorni dopo la fine della guerra, venne a salutarmi. Partiva: le avevano detto che poteva tornare a casa. Aveva il foglio di via? aveva i soldi per il treno? _ No, _ rispose ridendo, _ "njé nada", non ce n' è bisogno, per queste cose ci si arrangia sempre _; e scomparve, risucchiata dalla vacuità dello spazio russo, per i cammini del suo paese sconfinato, lasciando dietro di sé un profumo aspro di terra, di giovinezza e di gioia. Avevo anche altre incombenze: aiutare Leonardo in ambulatorio, naturalmente; e aiutare Leonardo nel controllo quotidiano dei pidocchi. Quest' ultimo servizio era necessario in quei paesi e in quei tempi, in cui il tifo petecchiale serpeggiava endemico e mortale. L' incarico era poco attraente: dovevamo girare tutte le baracche, e invitare ciascuno a spogliarsi fino alla cintura e a presentarci la camicia, nelle cui pieghe e cuciture i pidocchi sogliono nidificare e appendere le uova. Quel tipo di pidocchi hanno una macchiolina rossa sul dorso: secondo una piacevolezza che veniva ripetuta instancabilmente dai nostri clienti, essa, osservata con adeguato ingrandimento, si rivelerebbe costituita da una minuscola falce e martello. Si chiamano anche "la fanteria", laddove le pulci sono l' artiglieria, le zanzare l' aviazione, le cimici i paracadutisti, e le piattole gli zappatori. In russo si chiamano "vsi": lo appresi da Marja, che mi aveva consegnato un secondo fascicolo, su cui avrei dovuto segnare il numero e il nome dei pidocchiosi del giorno, e sottolineati in rosso i recidivi. I recidivi erano rari, con la sola notevole eccezione del Ferrari. Il Ferrari, al cui cognome si addice l' articolo perché era milanese, era un portento di inerzia. Faceva parte di un gruppetto di criminali comuni, già detenuti a San Vittore, a cui nel 1944 i tedeschi avevano proposto la scelta fra le prigioni italiane e il servizio del lavoro in Germania, e avevano optato per quest' ultimo. Erano circa quaranta, quasi tutti ladri o ricettatori: costituivano un microcosmo chiuso, variopinto e turbolento, fonte perpetua di grane per il Comando russo e per il ragionier Rovi. Ma il Ferrari era trattato dai suoi colleghi con palese disprezzo, e si trovava quindi relegato in una solitudine forzata. Era un ometto sulla quarantina, magro e giallo, quasi calvo, dall' espressione assente. Passava le sue giornate sdraiato sulla branda, ed era un lettore infaticabile. Leggeva tutto quanto gli capitava sotto mano: giornali e libri italiani, francesi, tedeschi, polacchi. Ogni due o tre giorni, all' atto del controllo, mi diceva: _ Quel libro l' ho finito. Ne hai un altro da imprestarmi? Ma non in russo: sai che il russo non lo capisco bene _. Non era già un poliglotta: anzi, era praticamente analfabeta. Ma "leggeva" ugualmente ogni libro, dal primo rigo all' ultimo, identificando con soddisfazione le singole lettere, pronunciandole a fior di labbra, e ricostruendo faticosamente le parole, del cui significato non si curava. A lui bastava: come, a differenti livelli, altri provano diletto nel risolvere parole incrociate, o integrare equazioni differenziali, o calcolare le orbite degli asteroidi. Era dunque un individuo singolare: e me lo confermò la sua storia, che molto volentieri mi raccontò, e che qui riporto. _ Ho seguito per molti anni la scuola dei ladri di Loreto. C' era il manichino coi campanelli e il portafogli in tasca: bisognava sfilarlo senza che i campanelli suonassero, e io non ci sono mai riuscito. Così non mi hanno mai autorizzato a rubare: mi mettevano a fare il palo; ho fatto il palo per due anni. Si guadagna poco e si rischia: non è un bel lavorare. _ Pensa e ripensa, un bel giorno ho pensato che, licenza o mica licenza, se volevo guadagnarmi il pane bisognava che mi mettessi in proprio. _ C' era la guerra, lo sfollamento, la borsa nera, un mucchio di gente sui tranvai. Era sul 2, a Porta Lodovica, perché da quelle parti nessuno mi conosceva; vicino a me c' era una con una gran borsa; in tasca del cappotto, si sentiva al tasto, c' era il portafoglio. Ho tirato fuori il saccagno, piano piano .... Devo aprire una breve parentesi tecnica; il saccagno, mi spiegò il Ferrari, è uno strumento di precisione che si ottiene spezzando in due la lama di un comune rasoio a mano libera. Serve a tagliare le borse e le tasche, perciò deve essere affilatissimo. Occasionalmente, serve anche a sfregiare, nelle questioni d' onore; ed è per questo che gli sfregiati sono anche detti "saccagnati". _ ... piano piano, e ho cominciato a tagliare la tasca. Avevo quasi finito, quando una donna, mica quella della tasca, capisci, ma un' altra, si mette a gridare "Al ladro, al ladro". A lei non le facevo niente, non mi conosceva, e non conosceva neppure quella della tasca. Non era neanche della polizia, era una che non c' entrava per niente. Sta di fatto che il tram si è fermato, mi hanno pescato, sono finito a San Vittore, di lì in Germania, e di Germania qui. Vedi? ecco cosa può capitare a prendersi certe iniziative. Da allora, il Ferrari iniziative non ne aveva più prese. Era il più remissivo e il più docile dei miei clienti: si spogliava subito senza protestare, presentava la camicia con gli immancabili pidocchi, e il mattino dopo si sottoponeva alla disinfestazione senza assumere arie da principe offeso. Ma l' indomani i pidocchi, chissà come, c' erano di nuovo. Era così: non prendeva più iniziative, non opponeva più resistenza; neppure ai pidocchi. La mia attività professionale comportava almeno due vantaggi: il "propusk" e una migliore alimentazione. La cucina del campo di Bogucice, per verità, non era scarsa: ci veniva assegnata la razione militare russa, che consisteva in un chilo di pane, due minestre al giorno, una "kasa" (vale a dire una pietanza con carne, lardo, miglio o altri vegetali), e un tè all' uso russo, diluito, abbondante e zuccherato. Ma Leonardo e io avevamo da riparare i guasti provocati da un anno di Lager: eravamo tuttora in preda ad una fame incontrollata, in buona parte psicologica, e la razione non ci bastava. Marja ci aveva autorizzati a consumare il pasto di mezzogiorno all' infermeria. La cucina dell' infermeria era gestita da due "maquisardes" parigine, operaie non più giovani, reduci dal Lager anche loro, dove avevano perso i mariti; erano donne taciturne e dolorose, sui cui visi precocemente invecchiati le sofferenze passate e recenti apparivano dominate e contenute dalla energica coscienza morale dei combattenti politici. Una, Simone, serviva alla nostra mensa. Scodellava la minestra una volta, e una seconda. Poi mi guardava, quasi con apprensione: _ Vous répétez, jeune homme? _ io accennavo timidamente di sì, vergognoso di quella mia voracità animalesca. Sotto lo sguardo severo di Simone, raramente osavo "répéter" una quarta volta. Quanto al "propusk", esso costituiva piuttosto un segno di distinzione sociale che un vantaggio specifico: infatti chiunque poteva benissimo uscire attraverso il buco nei reticolati e andarsene in città libero come un uccello del cielo. Così facevano ad esempio molti fra i ladri, per andare a esercitare la loro arte a Katowice o anche più lontano: non facevano più ritorno, oppure rientravano in campo dopo vari giorni, spesso dichiarando altre generalità, fra l' indifferenza generale. Tuttavia, il "propusk" permetteva di puntare su Katowice evitando il lungo giro attraverso il fango che circondava il campo. Col ritornare delle forze e della buona stagione, sentivo anch' io sempre più viva la tentazione di partire in crociera per la città sconosciuta: a che serviva essere stati liberati, se poi passavamo ancora i nostri giorni in una cornice di filo spinato? D' altronde la popolazione di Katowice ci guardava con simpatia, e ci era concesso ingresso libero sui tram e nei cinematografi. Ne parlai una sera con Cesare, e decidemmo per i giorni successivi un programma di massima, in cui avremmo unito l' utile al dilettevole, vale a dire gli affari al vagabondaggio.

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Uscimmo all' aperto, e solo allora ci accorgemmo di avere pernottato nella platea di un teatro, e di trovarci in un esteso complesso di caserme sovietiche danneggiate e abbandonate. Tutti gli edifici, inoltre, erano stati sottoposti a una devastazione e spoliazione tedescamente meticolosa: le armate germaniche in fuga avevano asportato tutto quanto era asportabile: i serramenti, le inferriate, le ringhiere, gli interi impianti di illuminazione e di riscaldamento, le tubazioni dell' acqua, perfino i paletti del recinto. Dalle pareti era stato estratto fin l' ultimo chiodo. Da un raccordo ferroviario adiacente erano stati divelti i binari e le traversine: con una macchina apposita, ci dissero i russi. Più di un saccheggio, insomma: il genio della distruzione, della controcreazione, qui come ad Auschwitz la mistica del vuoto, al di là di ogni esigenza di guerra o impeto di preda. Ma non avevano potuto asportare gli indimenticabili affreschi che ricoprivano le pareti interne: opere di qualche anonimo poeta-soldato, ingenue, forti e grezze. Tre cavalieri giganti, armati di spade, elmi e mazze, fermi su un' altura, in atto di spingere lo sguardo per uno sterminato orizzonte di terre vergini da conquistare. Stalin, Lenin, Molotov, riprodotti con affetto reverente nelle intenzioni, con audacia sacrilega negli effetti, e riconoscibili precipuamente e rispettivamente per i baffoni, la barbetta e gli occhiali. Un ragno immondo, al centro di una ragnatela grande come la parete: ha un ciuffo nero di traverso fra gli occhi, una svastica sulla groppa, e sotto sta scritto: "Morte agli invasori hitleriani". Un soldato sovietico in catene, alto e biondo, che leva una mano ammanettata a giudicare i suoi giudici: e questi, a centinaia, tutti contro uno, seduti sugli scanni di un tribunale-anfiteatro, sono degli schifosi uomini-insetti, dalle facce gialle e grige, adunche, travolte, macabre come teschi, e si ritraggono l' uno contro l' altro, come lemuri che fuggano la luce, respinti nel nulla dal gesto profetico dell' eroe prigioniero. In queste caserme spettrali, e in parte accampati a cielo aperto nei vasti cortili invasi dall' erba, bivaccavano migliaia di stranieri in transito come noi, appartenenti a tutte le nazioni d' Europa. Il calore benefico del sole incominciava a penetrare la terra umida, e ogni cosa intorno a noi fumava. Mi allontanai dal teatro di qualche centinaio di metri, inoltrandomi in un prato folto dove intendevo spogliarmi e asciugarmi al sole: e nel bel mezzo del prato, quasi mi attendesse, chi vidi se non lui, Mordo Nahum, il mio greco, quasi irriconoscibile per la suntuosa pinguedine e per l' approssimativa uniforme sovietica che indossava: e mi guardava dagli scialbi occhi di gufo, persi nel viso roseo, circolare, rossobarbuto. Mi accolse con cordialità fraterna, lasciando cadere nel vuoto una mia maligna domanda circa le Nazioni Unite che così mal governo avevan fatto di loro greci. Mi chiese come stavo: avevo bisogno di qualcosa? di cibo? di abiti? Sì, non potevo negarlo, avevo bisogno di molte cose. _ Si provvederà, _ mi rispose misterioso e magnanimo: _ io qui conto per qualche cosa _. Fece una breve pausa, e soggiunse: _ Hai bisogno di una donna? Lo guardai interdetto: temevo di non aver capito bene. Ma il greco, in ampio gesto, percorse colla mano tre quarti di orizzonte: e allora mi avvidi che in mezzo all' erba alta, sdraiate al sole, vicine e lontane, giacevano sparse una ventina di vaste fanciulle sonnacchiose. Erano creature bionde e rosee, dalle schiene poderose, dall' ossatura massiccia e dal placido viso bovino, vestite in varie foggie rudimentali e incongrue. _ Vengono dalla Bessarabia, _ mi spiegò il greco: _ sono tutte alle mie dipendenze. Ai russi piacciono così, bianche e spesse. Era una gran pagaille qui prima ma da quando me ne occupo io, tutto va a meraviglia: pulizia, assortimento, discrezione, e nessuna questione per i quattrini. È un buon affare, anche: e qualche volta, moi aussi j' y prends mon plaisir. Mi ritornò a mente, sotto nuova luce, l' episodio dell' uovo sodo, e la sfida sdegnosa del greco: _ Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! _ No, non avevo bisogno di una donna, o per lo meno non in quel senso. Ci separammo dopo un cordiale colloquio e dopo di allora, essendosi posato il turbine che aveva sconvolto questa vecchia Europa, trascinandola in una contraddanza selvaggia di separazioni e di incontri, non ho più rivisto il mio maestro greco, né ho più sentito parlare di lui.

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