Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 5 occorrenze

Appena si accorgeranno che la saracinesca è aperta e che le terrazze sono state abbandonate e disarmate, non indugieranno ad assalirci. Sotto gli arbusti spinosi non mancano delle spie che si affretteranno ad avvertirli. - A quando il colpo? - chiese Kammamuri. - Tutto deve essere pronto per questa sera. Le tenebre ci sono necessarie per fuggire senza essere veduti. - All'opera Yanez, - disse Tremal-Naik. - Io ho piena fiducia nel tuo piano. - Hai un cavallo per Darma? - Ne ho quattro e buoni. - Va benone, faremo correre i dayaki fino alla costa. Quanto hai impiegato tu, Kammamuri, a raggiungerla? - Tre giorni, signore. - Cercheremo di arrivare prima. I villaggi di pescatori non mancano e qualche praho o delle scialuppe sapremo trovarle. L'audace progetto fu subito comunicato ai difensori del kampong e da tutti approvato senza obiezioni. D'altronde, non vi era nessuno che non fosse disposto a fare un supremo tentativo per liberarsi da quell'assedio che cominciava a pesare e demoralizzare la piccola guarnigione. I preparativi vennero cominciati. Le spingarde vennero ritirate e piazzate dietro la palizzata interna, su terrazze frettolosamente costruite, essendo la fattoria fornita di legname, poi le cantine furono vuotate portando tutto il bram nel cortile che si estendeva dinanzi al bengalow. Vi erano più di ottanta vasi, della capacità di due e anche tre ettolitri ciascuno; tanto liquore da ubriacare un esercito, essendo quella mistura fermentata, di riso, di zucchero e di succhi di palme diverse, eccessivamente alcolica. Verso il tramonto, la guarnigione abbattè una parte della cinta e dopo aver isolate le terrazze, le incendiò per meglio attirare i dayaki e far loro credere che il fuoco fosse scoppiato nel kampong. Terminati quei diversi preparativi e preparate delle cataste di legna sotto le tettoie e nelle stanze terrene del bengalow, abbondantemente innaffiate di resine e di caucciù onde ardessero immediatamente, la guarnigione si ritrasse dietro la palizzata in attesa del nemico. Come Yanez aveva preveduto, gli assedianti attratti dai bagliori dell'incendio che divorava le terrazze contro cui si erano fino allora infranti i loro sforzi e fors'anche avvertiti dai loro avamposti celati sotto gli arbusti spinosi, che le cinte erano state sfondate, non avevano indugiato a lasciare i loro accampamenti per muovere ad un ultimo assalto. Presa fra il fuoco ed i kampilang, la guarnigione del kampong non doveva tardare ad arrendersi. Calavano le tenebre quando le sentinelle che vegliavano sui due angoli posteriori della fattoria annunciarono il nemico. I dayaki avevano formato sei piccole colonne d'assalto e s'avanzavano di corsa, mandando clamori assordanti. Si tenevano ormai certi della vittoria. Quando Yanez li vide entrare fra gli arbusti, fece dare fuoco alle cataste di legna accumulate sotto le tettoie e nelle stanze del bengalow, poi appena vide che i suoi uomini erano in salvo, fece tuonare le spingarde per simulare una disperata difesa. I dayaki erano allora davanti alle cinte. Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang. Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori. Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere. L'alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi. - Bram! Bram! Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido. Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco. Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo. Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi. Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa. Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi. Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata. Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero. Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati. I dayaki non parevano preoccuparsi dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong. Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile. I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli? E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille. Il bengalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori. Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida. - In ritirata! - comandò Yanez. - Abbandonate tutto fuorchè le carabine, le munizioni ed i parangs. Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma. La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa. Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki. La fattoria pareva una fornace. Il bengalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille. Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche. Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram. Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più nè spari nè grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni. - Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie, - disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. - Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui! - Un giorno? - disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. - Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!

Gli assedianti, che dovevano aver pure udito quello scoppio formidabile e anche quel vivo cannoneggiamento, avevano abbandonate le loro trincee mobili, ritirandosi verso le foreste che circondavano la pianura, come se avessero l'intenzione di togliere il blocco. - Se ne vanno, padre! - esclamò Darma. - Che abbiano compreso che era inutile ostinarsi contro questo kampong? - Yanez, - disse Tremal-Naik, - che il pellegrino sia stato invece sconfitto e che abbia mandato qui qualche corriere per far ritirare gli assedianti? - O che cerchino di trarci in qualche agguato? - chiese invece il portoghese. - In qual modo? - Colla speranza che noi approfittiamo della loro ritirata per abbandonare il kampong e poi assalirci in piena foresta con tutte le loro forze. No, mio caro Tremal-Naik, non sarò così sciocco io, da abboccare all'amo. Finchè non sapremo la sorte toccata alla mia Marianna, noi non lasceremo questa fattoria dove potremo difenderci lungamente, nel caso che il mio equipaggio sia stato distrutto. Mettiamo qui una sentinella e pel momento non preoccupiamoci delle manovre insidiose di quei furfanti. - Signor Yanez, - disse Darma. - Venite a prendere un po' di riposo, intanto, ed a far colazione. Non udendo più alcun colpo di cannone, quantunque fossero tutti angosciati per la sorte che poteva essere toccata all'equipaggio della Marianna, scesero nella sala pianterrena dove i servi del kampong avevano preparata un'abbondante refezione all'inglese, con carne fredda, burro e thè con biscotti. Terminato il pasto e mandato il meticcio sulla torricella onde li avvertisse delle mosse degli assedianti, fecero una minuta ispezione alle cinte e alle opere di difesa, onde essere pronti a sostenere anche un lungo assedio. Erano trascorse già tre ore dallo scoppio, quando udirono Tangusa gridare dall'alto del minareto: - All'armi! E subito dopo rimbombarono alcuni spari. Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati verso la piattaforma più alta della cinta, da cui potevano dominare buon tratto della pianura. Vi erano appena giunti, quando videro un piccolo drappello d'uomini uscire dalla foresta a corsa sfrenata, sparando sui dayaki che accorrevano da tutte le parti come per tagliare loro il passo. Due grida erano sfuggite alle labbra del portoghese e dell'indiano: - Le tigri di Mompracem! Sambigliong! Poi lanciarono due grida tuonanti: - Fuoco le spingarde! - Alzate la saracinesca ai nostri amici! I pirati che avevano scortato Yanez, vedendo i loro compagni alle prese cogli assedianti, si erano gettati sulle tre spingarde che difendevano la cinta dalla parte meridionale, scaricando quasi contemporaneamente. I dayaki, udendo quegli spari e vedendo cadere parecchi compagni, avevano aperte le file rifugiandosi precipitosamente nella foresta. Sambigliong e il suo drappello, trovando il passo libero, si erano slanciati verso il kampong a tutta corsa, non cessando di sparare. La saracinesca era stata alzata e parte della guarnigione era mossa incontro a loro per sostenerli nel caso che i dayaki tornassero alla riscossa e anche per guidarli attraverso il boschetto spinoso. I superstiti della Marianna non erano che una mezza dozzina. Erano neri di polvere, madidi di sudore, ansanti, colle vesti stracciate e insanguinate ed avevano la schiuma alle labbra per la lunga corsa che doveva essere durata non meno di tre ore. Il corriere, che conosceva la via, per fortuna era insieme a loro. - La mia nave? - gridò Yanez, correndo incontro a Sambigliong. - Saltata, capitano, - rispose il mastro con voce rantolante. - Da chi? - Da noi ... non potevamo più resistere ... erano centinaia e centinaia di selvaggi che ci piombavano addosso ... tutti i nostri compagni sono stati uccisi ... anche i feriti ... ho preferito dar fuoco alle polveri ... - Sei un valoroso, - gli disse Yanez, con voce profondamente commossa. - Capitano ... vengono ... sono molti ... preparatevi alla resistenza. - Ah! vengono! - esclamò Yanez con voce terribile. - Vendicheremo i nostri morti!

Era una mattinata splendida e non troppo calda, avendo il Re del Mare abbandonate le ardenti calme del tropico da qualche giorno. Una fresca brezzolina soffiava dal sud, increspando l'immensa superficie del mar della Sonda e mormorando dolcemente fra le sartie metalliche dell'incrociatore. Numerosi volatili, per lo più dei petrelli, agilissimi uccelli marini, dal volo leggero, turbinavano sopra la nave, assieme a delle phoebetrie fuliginose, le più piccole delle diomedee, dalle penne nerissime, inseguendo i pesci volanti che le voraci dorate scacciavano dal loro elemento, costringendoli, per salvarsi, a spiccare delle lunghe volate sopra le onde. Vedendo apparire l'anglo-indiano, appoggiato al braccio dell'americano, Yanez che passeggiava sul ponte assieme a Surama, si era affrettato a muovergli incontro. - Finalmente eccovi ristabilito, - gli disse. - Ne sono ben lieto, sir Moreland. Agli uomini di mare fa molto meglio l'aria libera del ponte che quella delle cabine. - Sì, sto bene, signor Yanez, grazie le cure e le attenzioni di questo bravo dottore, - rispose il capitano. - Da questo momento consideratevi come nostro ospite e non più come prigioniero. Voi siete libero di fare quello che meglio vi piace e di andare dove vorrete. La nostra nave non avrà segreti per voi. - E non temete che io possa abusare di questa vostra generosità? - No, perchè vi credo un gentiluomo. - Pensate che un giorno noi ci troveremo ancora di fronte l'uno all'altro e terribili nemici. - Ci combatteremo lealmente. - Ah! Questo sì, signor Yanez, - disse sir Moreland, con una certa asprezza. Poi, dopo aver gettato un lungo sguardo sul mare e d'aver aspirato fragorosamente l'aria marina, disse: - Voi avete lasciata la regione ardente. Questa è brezza del nord. Dove andiamo, se non vi spiace dirmelo? - Molto lontano da Sarawak. - Fuggite dunque i paraggi frequentati dalle navi del rajah? - Per ora sì, perchè dobbiamo rinnovare le nostre provviste. - Allora voi avete dei porti amici. - No, a noi bastano quelli dei nemici per approvvigionarci, - rispose il portoghese, sorridendo. - sir Moreland, accomodatevi dove meglio credete e respirate un po' di questa brezza. L'anglo-indiano s'inchinò ringraziando e salì sul cassero dove aveva veduto Darma seduta su una sedia a dondolo posta sotto la tenda tesa all'altezza delle grue. La giovane fingeva di leggere un libro, ma invece sotto le lunghe palpebre, non aveva cessato di guardare il capitano. - Miss Darma, - disse sir Moreland, accostandosi alla giovane. - Mi permettete di sedermi presso di voi? - Vi aspettavo, - rispose la figlia di Tremal-Naik, arrossendo leggermente. - Starete meglio qui che nella vostra cabina, dove si soffoca. Il dottor Held offrì al convalescente una sedia, poi accesa una sigaretta andò a raggiungere Yanez il quale si divertiva ad osservare, insieme a Surama, i salti dei poveri pesci volanti perseguitati dalle dorate ed in aria dagli uccelli marini. L'anglo-indiano rimase alcuni istanti silenzioso, guardando la giovane, più bella che mai, nel suo lungo accappatoio di percallino azzurro guernito con pizzi, poi disse con un tono di voce nel quale si sentiva una strana vibrazione: - Quale felicità trovarmi qui, dopo tanti giorni di prigionia e ancora presso di voi, mentre avevo avuto il timore di non più rivedervi dopo la vostra fuga da Redjang. Mi avete giuocato per bene, miss. - Non avete serbato alcun ràncore verso di me, sir Moreland, di avervi ingannato? - Nessuno, miss: eravate nel vostro diritto di ricorrere a qualunque astuzia per ricuperare la libertà. Avrei però preferito tenervi mia prigioniera. - Perchè? - Non lo so: mi sentivo felice presso di voi. Il capitano sospirò a lungo, poi con voce triste disse: - Eppure il destino m'imporrà di dimenticarvi. Darma, udendo quelle parole, era diventata pallidissima, pure disse: - Sì, sir Moreland, bisognerà piegarsi dinanzi alle avversità del destino. - E tuttavia, - riprese il capitano, - non so che cosa farei per infrangere i decreti della sorte. - Non dimenticate, Sir, che fra noi sta la guerra e che questa ci dividerà per sempre. Che cosa direbbero mio padre, Yanez e Sandokan se sapessero che io ho accettato la mano di uno dei loro nemici? E che cosa direbbero i vostri, il cui odio verso di noi è ancor più profondo, più accanito, più spietato? Avete pensato a ciò, sir Moreland? Voi, uno dei più brillanti e dei più valorosi ufficiali della marina del rajah a cui la vostra patria ha armato il braccio per sopprimerci senza misericordia, sposare la protetta dei pirati di Mompracem? Vedete bene che la cosa sarebbe impossibile: un sogno che non potrà mai diventare realtà, perchè l'abisso che ci separa è troppo profondo. - Il nostro amore lo colmerebbe, perchè l'amore non ha patria, se ... - Vorrei che così fosse, - disse Darma con voce triste. - sir Moreland, dimenticatemi. Un giorno voi sarete libero, scordatevi di me, riprendete il mare e obbedite alla voce del dovere che vi chiede il nostro sterminio. Dimenticate che su questa nave si trova una fanciulla che voi avete amata e che pur vi ha amato e fate tuonare, senza misericordia, le vostre artiglierie su di noi, colateci a fondo o fateci saltare in aria. La nostra sorte ormai è scritta a lettere di sangue sul gran libro del destino e tutti noi siamo pronti a subirla. - Io uccidere voi! - esclamò l'anglo-indiano. - Tutti gli altri sì, ma non voi. Aveva pronunciato quelle parole "gli altri" con un tale accento d'odio, che Darma lo guardò con ispavento. - Si direbbe che voi avete dei segreti rancori contro Yanez e Sandokan e anche contro mio padre. Sir Moreland si era morso le labbra, come se fosse pentito di essersi lasciato sfuggire quelle parole, poi riprese prontamente: - Un capitano non può perdonare a coloro che lo hanno vinto e che gli hanno affondata la nave. Io sono disonorato ed è necessario che mi prenda una rivincita un giorno o l'altro. - E li annegherete tutti? - chiese Darma con ispavento. - Sarebbe stato meglio che io fossi colato a fondo colla mia nave, - disse il capitano, sfuggendo la domanda rivoltagli dalla giovane. - Quell'urlo terribile che mi perseguita non lo avrei più udito. - Che cosa dite, sir Moreland? - Nulla, - rispose l'anglo-indiano con voce sorda. - Nulla, miss Darma. Fantasticavo. Si era alzato, mettendosi a passeggiare con agitazione, come se più non si sentisse i dolori che doveva produrgli la ferita non ancora interamente rimarginata. Il dottor Held, che era poco lontano, vedendolo così agitato, gli si era avvicinato. - No, sir Moreland, - gli disse. - Simili sforzi possono produrre gravi conseguenze ed io, per ora, ve li proibisco. La mia vigilanza su di voi non è ancora cessata. - Che importa se la mia ferita si riaprisse? - disse l'anglo-indiano. - Se la mia vita dovesse fuggire da quello strappo, sarei più lieto. Almeno tutto sarebbe finito. - Non rimpiangete di essere stato salvato, Sir, - disse il dottore, prendendolo sotto il braccio e riconducendolo verso il quadro. - Chi può dire che cosa vi riserba l'avvenire? - Delle amarezze e null'altro, - rispose il capitano. - Eppure ieri sembravate lieto di essere ancora vivo. L'anglo-indiano non rispose e si lasciò ricondurre nella cabina, essendosi levato un vento freschissimo. Il Re del Mare intanto continuava la sua corsa verso il nord-est, mantenendo una velocità di sette nodi. A mezzodì Yanez e Sandokan avevano fatto il punto ed avevano constatato che una distanza di centocinquanta miglia separava la loro nave da Mangalum, distanza che potevano superare in poco più di ventiquattro ore senza forzare le macchine. Entrambi avevano fretta di giungervi, perchè il tempo accennava a guastarsi rapidamente, quantunque al mattino fosse apparso splendido. Alcuni cirri biancastri, che salivano dal sud, erano già apparsi e s'avanzavano lentamente; era certo l'avanguardia di vapori ben più densi ed ai due pirati non piaceva di farsi sorprendere da qualche burrasca in quei paraggi cosparsi di banchi e di scogliere isolate. Ed infatti il mar della Sonda, così aperto ai venti freddi del sud e dell'ovest, è uno dei peggiori, perchè si formano in quei luoghi delle ondate così gigantesche, che non s'incontrano in altri, nemmeno nel Pacifico. E poi Mangalum non poteva offrire un sicuro asilo per una nave così grossa, non avendo che un minuscolo porto, accessibile solamente ai prahos. Le apprensioni dei due vecchi lupi di mare dovevano avere una conferma molto presto. Infatti, alla sera il sole era tramontato fra un fitto velo di vapori dalla tinta molto oscura e la brezza si era tramutata in un vento piuttosto forte e assai fresco. La calma che regnava sul mare si era spezzata. Delle onde salivano di quando in quando dal sud e correvano, muggendo sordamente, contro l'incrociatore, sollevandolo bruscamente. - Avremo mare forte domani, - disse Yanez al dottor Held, che era risalito in coperta. - Il Re del Mare ballerà terribilmente se si scatena un uragano. Ho fatto già una crociera in questi paraggi e so quanto diventano terribili allorquando soffiano i venti del sud o dell'ovest. - S'alzano delle onde mostruose, è vero, signor Yanez? - Di quindici metri e talvolta perfino di diciotto e che lunghezze che hanno! - Ma Mangalum non deve essere lontana. - Sarebbe meglio evitarla, piuttosto che trovarsi presso di essa, mio caro signor Held. Mangalum non è che un grosso scoglio e le altre due isolette che lo fiancheggiano, due punte rocciose. - Un soggiorno poco invidiabile pei loro abitanti. - Eppure non sembrano scontenti della loro terra, quantunque siano, si può dire, completamente isolati dal resto del mondo, non vedendo che molto di rado qualche nave. Ed infatti quel deposito di carbone non viene rinnovato che ogni due o tre anni. - Si dice che sia la colonia più minuscola che esista nel nostro globo. - È vero dottore, perchè la sua popolazione non ammonta nemmeno a cento persone. L'anno scorso non erano che in novantanove. È bensì vero che anni sono aveva raggiunto i centoventi abitanti. - E perchè sono scemati? - In causa d'una tremenda bufera la quale spinse le onde attraverso l'isola, atterrando molte case e spazzando via numerosi abitanti. - E perchè i superstiti non hanno abbandonata l'isola? - Pare che amino assai il loro suolo ingrato e malsicuro e poi credo che in nessun altro luogo potrebbero godere tanta libertà. Quantunque appartengano a razze diverse, essendovi inglesi, americani, malesi, bughisi, macassaresi e cinesi, vivono in perfetta armonia e sul piede d'una completa eguaglianza. Si può anzi dire che quegli isolani hanno risolto il famoso problema sociale e con soddisfazione generale, perchè sono retti da una specie di comunismo. Il loro capo è il più vecchio abitante dell'isola, con poteri limitati. Lavorano in comune, si istruiscono a vicenda, e non conoscono il valore del denaro che per loro rappresenta una mera curiosità. Perfino le donne, che sono molto più numerose degli uomini, si sono adattate ai lavori mascolini, onde ovviare il pericolo che vi possano essere persone più bisognose di venire nutrite che non lavoratori costretti a nutrirle. - Un'isola meravigliosa! - esclamò il dottore. - Sotto un certo aspetto è veramente ammirabile, - disse Yanez. - Sono molti anni che è popolata? - Dal 1810, perchè prima non vi erano che bande di uccelli marini. Un disertore inglese, certo Granvill, fu il primo ad approdare insieme ad un suo compatriotta e ad un americano. Più prepotente degli altri due, con un editto si proclamava re dell'isola e dei due isolotti vicini. Pare però che ciò non gli portasse fortuna, perchè quando nel 1818 il governo inglese inviava una nave a prenderne possesso, non viveva che l'americano. Era possessore di molto oro, moneta affatto inutile fra quelle rocce e che avrebbero potuto godere in patria. Pure invitato a tornarsene in America, oppose un rifiuto categorico. A poco a poco sbarcarono dei malesi e anche dei bughisi e degli inglesi. Nel 1865 la popolazione aumentò d'un colpo avendo, in quell'epoca, un corsaro americano, sbarcato quaranta prigionieri, presi durante la guerra di secessione. Quell'aumento di popolazione rese ben dura la vita agli isolani, essendosi dimenticato il corsaro di sbarcare dei viveri, nondimeno a poco a poco la colonia prosperò e continuò ad aumentare. Forse a quest'ora, il signor Griell, che è l'attuale governatore dell'isola, ha più d'un centinaio di sudditi. - Un piccolo re. - Che ci tiene al suo regno, specialmente dopo la visita ricevuta da un ammiraglio inglese della squadra della Cina che lo ha investito del supremo potere, d'incarico della Regina d'Inghilterra. - Figurarsi che onori avrà avuto quell'ammiraglio! - No, signor Held, gli onori ha dovuto farli lui, offrendo alla colonia un banchetto pantagruelico, di cui i buongustai dell'isola serbano immortale ricordo, seguìto da molti doni fra i quali una bandiera inglese che Griell conserva gelosamente. - Vedrò con piacere quel piccolo regno. Speriamo di avere una buona accoglienza, - disse il dottore. - Lo dubito, - rispose Yanez, - perchè quegli isolani ci terranno a non sprovvedersi di carbone che consumano essi in gran parte. Sapremo però calmarli avendo noi degli argomenti molto persuasivi. Chiamino pure in loro soccorso gli inglesi e ci scaccino. Siamo in guerra e la faremo a tutti i sudditi inglesi, senza eccezioni.

. - Non abbandonate il salvagente, - disse il capitano. - La nostra salvezza sta in questi anelli di sughero. - Ed il Re del Mare si vede ancora? - Scomparso, trascinato via dall'uragano, - rispose Yanez. - Non temere, Sandokan e Tremal-Naik non ci abbandoneranno. Ecco lo scoglio! Non verremo frantumati fra le rocce? sir Moreland, non lasciatevi spingere. Il capitano non rispose. Guardava verso l'enorme scoglio, la cui vetta era coperta di nubi tempestose e sui cui fianchi strisciavano le folgori. D'improvviso mandò un grido di gioia. - La ... la ... calma ... l'olio! - esclamò. - Brahma ci protegge! Era impazzito l'anglo-indiano? No, sir Moreland aveva ben veduto. Le onde, dinanzi a loro, si spianavano, come per opera magica, dissolvendosi di colpo. Durante l'imbarco del carbone, Sandokan aveva fatto spargere intorno alla nave alcuni barili d'olio onde ottenere un po' di calma e permettere alle scialuppe cariche di abbordarlo. Quello strato oleoso, trascinato forse da qualche corrente, si era accumulato dinanzi al terribile scoglio, formando una zona brillante, lunga parecchi chilometri e larga alcune gomene. Si conoscono già le miracolose proprietà che hanno le materie grasse di calmare le onde. Non avendo il vento alcuna presa su di esse, e non essendo penetrabili nè all'aria, nè all'acqua, dove esse vengono sparse, i marosi si dissolvono e tutt'al più formano delle lunghe ondate senza frangersi, affatto innocue. Qualche barile, e anche meno, basta sovente a ottenere una specie di calma attorno alle navi, avendo l'olio la proprietà di espandersi a grandi distanze. Quello sparso dall'equipaggio del Re del Mare, in quelle quattordici o quindici ore, era stato tanto da far regnare una certa tranquillità fra le tre isole. - Sì, l'olio, - aveva risposto Yanez. - Un'altra onda e noi giungeremo nella zona tranquilla. Il nuovo cavallone sopraggiungeva mungendo e urlando. Era alto almeno quindici metri, tutto creste spumeggianti e lungo parecchie miglia. Afferrò i tre naufraghi, li scosse sulle sue cime, poi li scaraventò innanzi, ma appena toccata la zona oleosa perdette improvvisamente il suo impeto e scivolò sotto lo strato, trasformandosi come per incanto in un'ondata lunga, priva d'ogni violenza. - Siamo salvi! - gridò il portoghese. - sir Moreland, uno sforzo ancora e giungeremo sull'isolotto. L'anglo-indiano lo guardò senza aprire bocca. Era pallidissimo e un rauco respiro gli usciva dalle labbra contratte. Forse la ferita, appena rimarginata, si era riaperta in causa degli incessanti sforzi e della prolungata immersione e la sua energia si esauriva rapidamente. - Sir, - disse Darma, la quale se n'era accorta. - Voi state male. - È nulla ... la ferita ... - rispose il capitano con voce rotta. - Bah! Resisterò ... presso ... di voi ... miss ... La terra è ... lì ... Le onde che si seguivano, li spingevano dolcemente verso lo scoglio, la cui massa imponente giganteggiava a meno di una gomena. Se l'oceano era tranquillo o quasi in quel luogo, sui margini dello strato oleoso, infuriava sempre tremendamente. Onde mostruose si seguivano con scrosci orrendi, mentre sopra di loro il vento ruggiva tremendamente, gareggiando coi tuoni che rombavano fra le nubi. I naufraghi, ormai quasi al sicuro dai furori della burrasca, s'inoltravano sempre fra lo strato oleoso, aprendosi il passo fra enormi cumuli di alghe. Le onde le avevano strappate in gran numero, spingendole poscia verso la scogliera ed accumulandole intorno alle sue ripide spiagge. - Sbrighiamoci, sir Moreland, - disse Yanez, il quale nuotava con vigore, rimorchiando i due gavitelli. - Queste acque sature d'olio ridurranno le nostre vesti in pessime condizioni. Altro che i balenieri e i cacciatori di foche! - Sì, affrettiamoci, - rispose Darma. - sir Moreland è stremato. - Non lo nego, - rispose l'anglo-indiano, il quale si reggeva con immense fatiche. - Un altro meno robusto e meno energico di voi, a quest'ora sarebbe colato a picco, - disse Yanez. - Ah! Sento delle alghe sotto i miei piedi! Lasciamoci portare dall'onda. La fortuna li aveva spinti verso la spiaggia dove avevano cacciato gli uccelli marini. Pochi gruppi di erbe marine, di quelle chiamate dagli isolani beccalunga, si vedevano spuntare fra le fessure delle rupi; più sopra invece nulla, solamente la nuda roccia di colore nerastro, come se dei torrenti di pece fossero calati dalle altissime cime dello scoglio. Spinti da un'ultima ondata, i tre naufraghi furono deposti, quasi dolcemente, sul greto. Era tempo perchè sir Moreland stava per abbandonarsi. Yanez aiutò Darma a superare la spiaggia, poi l'anglo-indiano che era incapace di reggersi. - I salvagente! - balbettò sir Moreland. - Ah, sì! E vero, - rispose Yanez. - Sono troppo preziosi per perderli. Ridiscese la spiaggia e li tirò a secco, assicurandoli alla punta di una roccia. - Come vi sentite, sir Moreland? - chiese premurosamente Darma. - Un po' debole miss, ma tutto passerà. La ferita fortunatamente non è riaperta. - Cerchiamo qualche riparo, - disse Yanez. - Il Re del Mare, coll'uragano che ingrossa al largo, non potrà tornare molto presto - Che corra qualche pericolo, signor Yanez? - Non credo, Darma. Resisterà meravigliosamente anche a questa seconda prova. Fortunatamente ha completato a tempo le sue provviste di combustibile. - Sicchè saremo costretti a passare la notte qui, - disse Darma. - Nessuno verrà a disturbarci: non vi saranno delle pantere nere su questa roccia. Rifugiamoci sotto questa sporgenza e aspettiamo l'alba. Il portoghese prese una bracciata d'alghe e si diresse verso una rupe, la cui cima si sporgeva molto innanzi formando un riparo abbastanza sufficiente per tenere al coperto i tre naufraghi. Sir Moreland e Darma l'avevano seguìto, portando altre alghe per formarsi un giaciglio.

La questione consisteva nel poter raggiungere quell'isola, lontana più di quattrocento miglia, prima che la squadra alleata che doveva ormai aver abbandonate definitivamente le acque di Sarawak, piombasse sul Re del Mare e lo sorprendesse coi fuochi semispenti, obbligandolo ad accettare la lotta contro forze enormemente superiori. Pel momento non pareva che quel gran pericolo lo minacciasse perchè al mattino, da un giong che veniva dal sud, avevano avuto l'assicurazione che nessuna nave da guerra era stata veduta nelle acque di Labuan, nè in quelle di Bruni. Il Re del Mare, appena terminato quel breve consiglio, fu subito diretto verso il nord-est, in modo da passare molto lontano anche da Mompracem e di tenersi a ponente dei due grandi banchi di Samarang e di Vernon. Per economizzare più che era possibile il carbone, erano stati spenti mezzi forni, sicchè l'incrociatore non s'avanzava più che colla velocità di appena sei nodi all'ora. Sandokan, più che Yanez, era diventato nervosissimo, di pessimo umore. Lo si vedeva passare delle lunghe ore sulla passerella di comando, scrutare ansiosamente l'orizzonte, in preda ad una crescente preoccupazione. Non era più l'uomo tranquillo, impassibile d'un tempo, sicuro della sua nave e delle sue artiglierie, che se ne rideva dei pericoli e li affrontava col sorriso sulle labbra, fumando flemmaticamente la sua pipa. Parecchie volte al giorno scendeva nei depositi di carbone, ormai quasi vuoti, o si arrestava dinanzi ai forni, a quelle bocche affamate che domandavano insistentemente alimento, provando delle terribili strette al cuore quando i fuochisti precipitavano, fra le fiamme quasi morenti, palate di combustibile. Quando risaliva aveva la fronte tempestosa e passeggiava cupo, taciturno, per lungo tempo, fra le torri di poppa e di prora, colle braccia incrociate e la testa china, senza parlare con chicchessia. Solo duecentotrenta miglia dividevano il Re del Mare dalle coste occidentali del Borneo, quando una grave notizia si sparse a bordo. Un piccolo veliero che veniva dal sud e che era stato interrogato, aveva dato una risposta che aveva fatto fremere l'intero equipaggio dell'incrociatore. - Incrociatori inglesi al sud-ovest. - Quanti? - Due. - Incontrati quando? ... - Ieri sera. - Bisognava fuggire. Quelle due navi dovevano essere le avanguardie di qualche squadra e potevano giungere da un momento all'altro e scoprire il corsaro. - Vadano le nostre ultime provviste di combustibile, - aveva detto Sandokan a Yanez. - E poi? - Saremo pronti pel combattimento. Il Re del Mare aveva subito affrettata la corsa. Fuggiva a precipizio, dodici nodi all'ora, sacrificando le ultime tonnellate di combustibile, colla magra speranza d'incontrare qualche nave mercantile e di saccheggiarla del suo carbone prima che giungesse la squadra. La sorveglianza era stata raddoppiata a bordo. Uomini dagli occhi di linee vegliavano sulle coffe. Intanto Sandokan aveva dato l'ordine di prepararsi per la battaglia, che presumibilmente doveva essere l'ultima, a meno d'un miracolo. Centoquaranta miglia ancora, poi la velocità si rallenta. I pozzi sono esausti e le caldaie rantolano affievolendosi di minuto in minuto. Il momento terribile s'avvicina, eppure tutti sono calmi a bordo perchè tutti, da lungo tempo, hanno fatto il sacrificio della loro vita. Nessuno ha paura della morte che li minaccia e guardano impassibili le acque che diverranno i loro veli funebri. Forse rimpiangono una cosa sola: quella di morire lontani da Mompracem. Alle otto di sera il Re del Mare s'arrestò quasi, addosso al grande bacino di Vernon. Tutto quello che poteva dar calore era stato divorato dagli immani forni delle macchine. I barili di catrame, le casse di canape imbevute colle provviste di liquore del quadro, le materie grasse della dispensa, i mobili delle sale, perfino le brande e gli effetti dell'equipaggio. Se si fossero potute trasformare le pareti metalliche della nave in altrettanto combustibile, quegli uomini non avrebbero esitato a farlo, pur di raggiungere le coste del Borneo già ancora troppo lontane. Sandokan, sentendo la nave ad arrestarsi, si era diretto lentamente verso poppa, più cupo che mai, appoggiandosi alla murata. Non aveva pronunciata una parola, nè aveva fatto alcun gesto. Aveva solamente accesa la pipa, fumando con maggiore furia del solito, fissando gli sguardi sull'orizzonte, che rapidamente diventava tenebroso e Yanez lo aveva imitato. Era da quella parte che veniva il pericolo e lo sentivano appressarsi terribile, formidabile, schiacciante ed implacabile. L'oscurità era piombata sul mare, tingendo le acque d'un colore quasi nero. Qualche rada stella appariva in cielo, fra gli strappi delle nubi salite colla brezza che soffiava dal sud. Un silenzio profondo regnava a bordo, da che le macchine avevano cessato di funzionare, eppure tutti i duecento e cinquanta uomini che formavano l'equipaggio dell'incrociatore erano sulla coperta, chi sulle murate, chi dietro i giganteschi pezzi delle torri. Ma nessuno parlava. Verso mezzanotte Tremal-Naik s'avvicinò a Sandokan, il quale non aveva ancora abbandonato il suo posto. - Amico mio, - gli disse, - che cosa ci rimane da fare? - Prepararci a morire, - rispose la Tigre della Malesia, con voce calma. - Io sono pronto, e le fanciulle? Sandokan invece di rispondere, stese la destra verso l'ovest, e disse: - Eccole: le vedi? - Chi, Sandokan? - Le navi nemiche. - Di già! - mormorò l'indiano che non seppe frenare un brivido. - Accorrono come belve feroci per distruggere le ultime tigri della Malesia. I loro sguardi sono ormai fissi su di noi. Tremal-Naik guardò nella direzione indicata, mentre gli uomini di guardia sulla piattaforma gridavano: - Navi a poppa! Parecchi punti luminosi scintillavano sull'orizzonte ed ingrandivano rapidamente. - Sono pronti i nostri uomini? - chiese Sandokan. - Sì, - rispose Yanez che gli stava presso. - E le fanciulle? - domandò con un tremito. - Sono tranquille. - Vorrei salvarle. - Che cosa dovremmo fare? - Sbarcarle su una scialuppa e allontanarle prima che quelle navi ci rinchiudano. - Si rifiuteranno; mi hanno giurato che se dovremo morire, esse s'inabisseranno con noi. - Vi è la morte qui! ... - L'aspettano. - Salvale, Yanez. - Ti ripeto che si rifiuterebbero; non insistere. - Ebbene, sia! ... Se dovremo morire, non cadremo invendicati! ... A me, tigri di Mompracem! Le navi nemiche accorrevano a tutto vapore, formando un ampio semicerchio, che doveva più tardi restringersi fino a rinchiudersi, per prendere in mezzo il Re del Mare e mandarlo rotto, fracassato, a picco col numero strabocchevole delle loro artiglierie. Sandokan e Yanez, che nel supremo momento del pericolo avevano ritrovata la loro calma, impartivano gli ordini con voce tranquilla. Quando videro che tutti gli uomini erano a posto di combattimento, andarono sulla passerella di comando. Sull'albero militare di poppa avevano fatto innalzare la bandiera rossa colla testa di tigre nel mezzo. Quattro fasci di luce, proiettati dai riflettori, si erano concentrati sul Re del Mare, sempre immobile, illuminandolo come in pieno giorno. - Sì, guardateci: siamo noi, - disse Sandokan. Quattro grosse navi a vapore, senza dubbio le più poderose della flotta degli alleati, si erano silenziosamente disposte in semi-cerchio intorno al Re del Mare, minacciandolo colle numerose artiglierie. Nessun colpo era però stato sparato. Aspettavano l'alba per impegnare la lotta o per intimare la resa, parola questa che non esisteva nella lingua del fiero pirata. Darma si era accostata silenziosamente alla murata di poppa. Era pallidissima, ma tranquilla, come tutto l'equipaggio dell'incrociatore. Il suo sguardo vagava da una nave all'altra con viva insistenza. Che cosa cercava? Certo sir Moreland. Una voce segreta le diceva che l'uomo amato doveva essere vicino, su una di quelle poderose corazzate che dovevano demolire il povero ed ormai impotente Re del Mare. Intanto le navi alleate, che avevano spenti i riflettori elettrici, giravano lentamente intorno all'incrociatore, stringendo sempre più il cerchio. Sfilavano come fantasmi nella notte tenebrosissima e pareva che i loro fanali, come occhi ardenti, si fissassero sanguinosamente sulla loro vittima. Non erano però ancora a portata utile delle grosse artiglierie. Sicuri ormai di tenere le tigri di Mompracem, non si davano premura di stringersi troppo addosso ad esse. Verso le due del mattino, Sandokan e Yanez che non avevano mai lasciato il loro posto, furono veduti scendere lentamente dalla passerella, e dirigersi verso il centro della nave. Erano sempre freddi, impassibili. S'avvicinarono a Tremal-Naik che stava appoggiato ad un argano, seguendo con gli sguardi inquieti sua figlia che vagava, come un fantasma sul castello di prora. - Amico, - gli disse Sandokan con accento triste. - Qui domani si inabisseranno le ultime tigri di Mompracem. Tremal-Naik aveva provato un brivido ed aveva alzata vivamente la testa. - Chi credi che siano quegli incrociatori per poter vincere la tua poderosa nave? - chiese. - I quattro grossi incrociatori che hanno cercato di catturarci nella baia di Sarawak. Noi siamo certi di non ingannarci. - E quelli affonderanno il tuo Re del Mare? - Ne ho la convinzione. - Ed anch'io, - disse Yanez. - Quelle navi devono possedere un'artiglieria formidabile e sono in quattro. - E poi siamo immobilizzati, - aggiunse Sandokan. - Infine che cosa volete concludere? - chiese l'indiano. - Proporti di recarti a bordo di una di quelle navi e di arrenderti, conducendo con te tua figlia e Surama. Tremal-Naik si era rizzato, facendo un gesto di sorpresa e insieme di dolore. - Io allontanarmi da voi! - esclamò. - Oh no, mai! Se qui morranno le ultime tigri di Mompracem a cui io debbo la vita e tanta riconoscenza, morranno anche il vecchio cacciatore della jungla nera e sua figlia. - Io debbo avvertirti però che tua figlia ama ed è riamata da un uomo che potrebbe farla felice, - disse Sandokan. - sir Moreland, è vero? - disse Tremal-Naik. - Me n'ero accorto. Avete informato Darma del grave pericolo che corriamo? - Sì, - rispose Yanez. - Che cosa ti ha detto? - Che non lascerà la nostra nave. - Non poteva rispondere diversamente, - disse l'indiano, con orgoglio. - Il buon sangue non mente. Se il destino ha segnato la nostra fine, si compia il fato. Si strinsero la mano e si diressero tutti tre verso il ponte di comando. Ad un tratto Yanez si fermò, mandando un grido: - Stupido! Ed io che lo avevo ancora dimenticato. - Chi? - chiesero ad una voce Sandokan e Tremal-Naik. - Il demonio della guerra. Una pazza speranza aveva attraversato il cervello del portoghese. Si era rammentato in quel momento dello scienziato americano, di Paddy O'Brien, che teneva come prigioniero in una delle cabine del quadro, guardato giorno e notte. Scese rapidamente sotto coperta, attraversò la corsia e s'arrestò dinanzi alla stanzetta occupata dall'omiciattolo: - Sveglia il prigioniero, - disse al malese di guardia. - È già in piedi, signor Yanez. Yanez aprì la porta ed entrò. Paddy O'Brien stava seduto dinanzi ad un tavolo e pareva immerso in un calcolo intricatissimo, col naso su un foglio di carta coperto di cifre. - Voi, signor de Gomera? - disse il dottore, assicurandosi gli occhiali. - Qual vento vi conduce qui? È molto che non vi vedo e vi aspettavo. - Dottore, - disse il portoghese senza preamboli, - le navi nemiche ci hanno circondati e stiamo per venire colati a fondo. - Ah! - fece l'americano senza scomporsi. - Voi mi avete detto che siete possessore d'un tremendo segreto. - E ve lo confermo. - Ecco giunto il momento di esperimentarlo, signor demonio della guerra. - Fate portare in coperta le mie casse. - Non farete saltare la nostra nave, invece? - chiese Yanez un po' inquieto. - Salterei anch'io insieme a voi e per ora non ho alcuna voglia di morire, - rispose il dottore. - Signor de Gomera, approfittiamo di questi momenti di calma. Salirono in coperta, mentre i marinai portavano le casse del dottore. - Sono là le navi alleate, - disse Sandokan accostandosi allo scienziato. - Sì e vedo che vi hanno circondato, - rispose Paddy O'Brien, corrugando la fronte. - Ecco quella che salterà per prima. Una nave, un piccolo incrociatore, che prima non era stato scorto, si era staccato dal grosso della squadra e girava attorno al Re del Mare mantenendosi ad una distanza di due a tremila metri. Veniva per spiare o per provocare il fuoco dei pirati di Mompracem? Paddy O'Brien fece aprire le sue casse che contenevano degli apparati elettrici, incomprensibili per Yanez e per Sandokan. Esaminò attentamente ogni cosa, senza fretta e con gran calma, come un uomo sicuro del fatto suo, poi volgendosi verso Yanez che lo sorvegliava colla destra appoggiata al calcio della pistola, gli disse: - Quando vorrete? - Fate funzionare il vostro apparecchio. - Ecco che la nave ci passa a tribordo: salterà, - disse Paddy freddamente. Un brivido era corso per le ossa di tutti i marinai che circondavano l'americano. Sarebbe stato capace di operare quel miracolo quel piccolo uomo? - Attenzione, - gridò ad un tratto l'americano. Aveva appena pronunciate quelle parole che un lampo accecante ruppe bruscamente le tenebre, seguìto da uno spaventevole rimbombo. Una immensa colonna d'acqua s'era alzata attorno al piccolo incrociatore, mentre una tempesta di rottami cadeva tutto all'intorno. Un immenso urlo, sfuggito da centinaia di petti, era echeggiato lugubremente per l'aria, spegnendosi bruscamente. La nave era saltata e affondava rapidamente coi fianchi squarciati. Nel medesimo istante una granata scoppiava sul ponte del Re del Mare fra l'apparecchio e Paddy O'Brien. L'americano aveva mandato un grido ed era caduto quasi ai piedi di Yanez, il quale era sfuggito miracolosamente alle scheggie del proiettile. - Dottore! - gridò il portoghese, precipitandosi verso di lui. - Le ... mie ... le ... mie ... - mormorò il disgraziato inventore, agitando le braccia con un gesto disperato. Si portò le mani al petto, per comprimersi il sangue che sfuggiva da un'orribile ferita. Sandokan si era slanciato verso le casse. Un grido di disperazione gli sfuggì. La granata aveva distrutto l'apparato, e sminuzzato le pile. Yanez aveva alzato dolcemente la testa dell'americano. - Signor O'Brien, - disse, mentre un singhiozzo gli moriva in gola. Il ferito aprì gli occhi fissandoli sul portoghese. Un rauco sibilo gli usciva dalle labbra a lunghi intervalli. - Fi ... nito ... fi ... nito ... - rantolò. Colla destra lorda di sangue strinse quella di Yanez, poi si raggomitolò su se stesso e ricadde. - Morto, - disse Yanez con voce triste. - Ecco la prima vittima, - rispose Sandokan. Yanez depose sulla tolda il disgraziato inventore, gli chiuse gli occhi, lo coprì con una tenda strappata lì presso, poi levandosi in tutta la sua altezza, disse: - Tutto è finito: qui morranno le ultime tigri di Mompracem. Tremal-Naik, Darma, Surama, nella mia torretta e voi, ai vostri pezzi! Le nostre vite sono nelle mani di Dio! ... - Ai vostri posti di combattimento! - gridò Sandokan. - Mostriamo a costoro come sanno morire i pirati della Malesia. L'alba, un'alba rosea che annunciava una superba giornata, fugava rapidamente le tenebre, tingendo le acque di miriadi di pagliuzze d'oro. Un colpo di cannone in bianco partì dall'incrociatore più prossimo, il più grosso dei quattro: intimava la resa. Sandokan fece alzare subito la bandiera rossa, segnale di combattimento. L'incrociatore nemico invece di aprire il fuoco fece dei segnali colle bandiere che significavano: - Prima di cominciare il fuoco, mandate al mio bordo le due fanciulle. Sir Moreland risponde delle loro vite. - Ah! - esclamò Yanez. - Abbiamo l'anglo-indiano dinanzi. Cercheremo di affondargli una seconda volta la nave. Darma, Surama! Le due fanciulle erano uscite dalla torretta. - Si propone a voi di salvarvi su quelle navi, - disse Sandokan. - Accettate voi? Una scialuppa è pronta. - Mai! - risposero energicamente le due fanciulle. - Pensateci. - No, - disse Darma. - Non lascerò nè voi, nè mio padre. - Comunicate la loro risposta, - comandò Yanez. Un quartiermastro americano segnalò subito. Allora si videro salire lentamente sugli alberetti di maestra dei quattro incrociatori, quattro bandiere nere. Un colpo di vento le allargò mostrando nel mezzo, in giallo, una mostruosa figura con quattro braccia che tenevano nelle mani degli strani emblemi. Un grido di stupore ed insieme di furore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Sandokan e di Tremal-Naik. Avevano riconosciuto l'emblema dei thugs, degli strangolatori indiani. Erano dunque quelle le navi del figlio di Suyodhana, del loro implacabile e invisibile nemico? Quelle bandiere lo confermavano. A bordo del Re del Mare successe un lungo silenzio, tanto era lo stupore che aveva invaso tutti, poi la voce metallica di Sandokan lo ruppe bruscamente: - Fuoco! Fuoco! Fuoco! Spaventevoli detonazioni coprono le sue ultime parole. Le granate piovono da tutte le parti sul Re del Mare, che il flusso ha insensibilmente portato verso il banco di Vernon e che si trova sempre immobilizzato coi fuochi spenti. Sono uragani di ferro e d'acciaio che escono dai grossi pezzi della coperta e da quelli di medio calibro delle batterie: ma non sono diretti sul ponte del Re del Mare dove si trovano, entro la torretta blindata, Darma e Surama. Quelle masse metalliche battono invece solamente i fianchi dell'incrociatore, come se gli artiglieri avessero ricevuto l'ordine di risparmiare le fanciulle, i due comandanti e Tremal-Naik che sono con loro. Delle granate vengono però lanciate contro le torri che riparano i grossi pezzi da caccia, cercando d'imbroccarli o di frantumare le grosse piastre di ferro. Il Re del Mare si difende furiosamente. È un vulcano che fiammeggia da tutte le parti. Le ultime tigri di Mompracem sono ben risolute a far pagar cara la vittoria allo strapotente nemico. I suoi grossi obici battono in breccia le navi avversarie, danneggiando i ponti, squarciando le ciminiere e aprendo larghi fori nelle piastre metalliche. In mezzo a quel rimbombo assordante, si ode tratto tratto la voce formidabile di Sandokan che urla: - Fuoco, tigri di Mompracem! Distruggete, massacrate! Ma quanto potrà resistere il Re del Mare al tiro terribile di tante bocche da fuoco? I suoi fianchi, quantunque solidissimi, dopo mezz'ora cominciano a cedere; anche i suoi pezzi uno ad uno vengono smontati e ridotti al silenzio. Le sue torri, ad eccezione della torretta di comando, sempre risparmiata, cominciano a sfasciarsi sotto quella pioggia incessante di granate, e nelle batterie i morti si accumulano. Sandokan e Yanez, chiusi nella torretta, contemplano quel terribile spettacolo, calmi e sereni. Il primo si morde di quando in quando le labbra a sangue; il secondo fuma flemmaticamente la sua eterna sigaretta e sembra solamente un po' commuoversi, quando il suo sguardo s'incontra con quello di Surama. Darma, seduta in un angolo, su un mucchio di cordami, a fianco di Tremal-Naik, colle mani appoggiate agli orecchi per attenuare il rombo assordante delle grosse artiglierie, sembra che guardi nel vuoto. D'improvviso, il Re del Mare, sollevato da una forza misteriosa, sobbalza da prora a poppa, mentre una enorme colonna d'acqua si rovescia sulla sua coperta spazzandola. Tutto il suo scafo vibra e sembra sfasciarsi come se scoppiassero le munizioni del Re del Mare. Horward, l'ingegnere americano, si precipita in quel momento entro la torretta, pallido, esterrefatto: - Hanno torpedinato il Re del Mare! - grida. - Coliamo a fondo! Grida selvagge salgono dalle batterie, confondendosi cogli ultimi spari dei due pezzi da caccia della coperta, ancora servibili. Il fuoco cessa bruscamente sulle quattro navi nemiche. Sandokan volge un triste sguardo ai suoi due compagni, poi dice: - Ecco il momento supremo: la tomba è aperta per le ultime tigri di Mompracem. Alza Darma ed esce dalla torretta, seguìto da Yanez, da Tremal-Naik e da Surama, e si arresta al di fuori a guardare la sua nave. Povero Re del Mare! La superba nave che ha resistito a tante prove e che pareva invincibile, non è più che una carcassa affondante. Ondate di fumo sfuggono dai boccaporti dai quali irrompono, neri di polvere e lordi di sangue, gli uomini delle batterie. - Una scialuppa in mare! - comanda Sandokan. - Non occuparti di noi. Gli equipaggi degli incrociatori vengono a raccoglierci. Infatti numerose imbarcazioni si staccano dai fianchi delle navi vittoriose ed accorrono a forza di remi. Nella prima si vede sir Moreland, il quale sventola un fazzoletto bianco. La scialuppa, montata dalle due fanciulle, da Tremal-Naik, da Kammamuri e da quattro rematori, s'allontana dal Re del Mare perchè la nave affonda sempre. - Ed ora, - disse Sandokan con un gesto superbo, - lassù, avvolto nella mia bandiera. Vieni Yanez: tutto è finito. - Bah! - fece il portoghese, gettando in aria una boccata di fumo. - Non si può mica vivere all'infinito. Attraversarono il ponte ingombro di frammenti di palle e di granate e salirono sulle griselle dell'albero militare, arrestandosi sulle piattaforme. In lontananza, Tremal-Naik, Darma e Surama facevano cenno a loro di gettarsi in acqua. Risposero con un saluto della mano e un sorriso. Poi Sandokan, strappando la sua rossa bandiera che gli sventolava sopra la testa, si avvolse fra le sue pieghe, dicendo: - È così che muore la Tigre della Malesia. Sotto di loro, gli ultimi Tigrotti di Mompracem, un centinaio circa, per maggior parte feriti, aspettavano, impassibili e silenziosi, che il gran gorgo li aspirasse, tenendo gli sguardi fissi sui loro due capi. Il Re del Mare affondava lentamente, vibrando, e si udivano le acque a muggire cupamente entro la stiva. Le scialuppe degli incrociatori facevano sforzi disperati per giungere in tempo a raccogliere quei naufraghi, votatisi volontariamente alla morte. Quella di sir Moreland era sempre la prima ed era subito seguìta da quella montata da Tremal- Naik e dalle due fanciulle che tornava verso la nave, avendo l'indiano compreso il disegno disperato dei suoi vecchi amici. Sandokan, sempre avvolto nella sua bandiera, li guardava impassibile, con un superbo sorriso sulle labbra. Yanez, colla fronte un po' corrugata, fumava la sua ultima sigaretta colla sua calma abituale. Quando le acque cominciarono ad invadere la coperta, il portoghese lasciò cadere la sigaretta quasi finita, dicendo: - Va' ad aspettarmi in fondo al mare! Ad un tratto, quando pareva che lo scafo dovesse tutto sommergersi, la discesa di quella enorme massa cessò bruscamente. Il flusso che aveva spinto la nave verso l'est, doveva averla portata addosso al banco di Vernon, più di quanto l'equipaggio supponeva e la chiglia doveva essersi indubbiamente posata sul fondo. Ed infatti, nel momento in cui le due scialuppe montate una da sir Moreland e da sei marinai indiani e l'altra da Tremal-Naik, Darma e Surama coi rematori malesi giungevano sotto la scala di babordo, lo scafo s'inclinava dolcemente a tribordo coricandosi di sul fianco. Sir Moreland, vedendo la nave ormai immobile, erasi affrettato a salire sul ponte, seguìto subito da Tremal-Naik e dalle due fanciulle. Yanez si era voltato verso Sandokan, la cui faccia appariva assai abbuiata. - Nemmeno la morte ci vuole, - gli disse. - Che cosa vuoi fare? Si sbarazzò della bandiera e scese lentamente la grisella, colla maestà d'un re che scende i gradini d'un trono e si fermò dinanzi a sir Moreland, dicendogli: - Ebbene? Che volete fare di noi? L'anglo-indiano, che pareva in preda ad una viva commozione, si levò il berretto salutando i due eroi della pirateria, poi disse con nobiltà: - Permettetemi una parola, prima, signori. Prese per una mano Darma, che era salita a bordo con Surama e, conducendola dinanzi a Tremal-Naik, gli disse: - Io l'amo ed ella m'ama: io non potrei vivere senza vostra figlia, eppure i numi dell'India sanno quanto io ho fatto per dimenticarla. Colmate con una vostra parola il rivo di sangue che mi separava da voi onde il grido terribile del mio assassinato genitore si spenga per sempre. La sua anima mi è comparsa ieri notte e mi ha detto di perdonare a tutti! - Che cosa dite, sir Moreland? Di qual genitore parlate? - chiese Tremal-Naik, con angoscia. - Darma, mi amate? - chiese sir Moreland, senza rispondere all'indiano. - Sì, immensamente, - rispose la fanciulla arrossendo e abbassando gli occhi. - La guerra è finita fra noi, - disse sir Moreland, - e la macchia di sangue è cancellata. Tremal-Naik benedite i vostri figli. - Ma chi siete voi? - gridarono ad una voce Yanez, Sandokan e Tremal-Naik. - Io sono ... il figlio di Suyodhana! Venite! Siete miei ospiti.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682522
Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Alcune altre, quattro o cinque sono come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre, di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre, grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo , vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli dove due o tre vicoli s'intersecano dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi, verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un'allucinazione, se una parte di quel che vedete non sia falso, poichè troppo forte è il contrasto, poichè non può essere tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e l'indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e l'inguaribil miseria, il lusso e la povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse il portato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte? Sono forse gli spettacoli che vi fecero inorridire, come uomini e come cristiani, venti anni prima, sono questi spettacoli che si rinnovano, falsamente nella memoria, nella fantasia, così, come nei momenti di nostra malinconia spirituale e di nostra debolezza fisica? O, forse è falsa l'altra parte, cioè la parvenza moderna del Rettifilo e i suoi palazzi che vorrebbero essere splendidi, ma che sono almeno, nuovi, netti, solidi, grandi, appartengono al sogno? Non sono forse, un lungo scenario di tela, su cui un abile scenografo abbia dipinto a grandi tratti, una serie di edifici maestosi, e intanto, non si sa come, non si sa perchè, la tela ha delle grandi soluzioni di continuità e lascia vedere l'oscurità, il luridume delle quinte, ove tutto è rancido, è puzzolente, è nauseante? O, forse, non sono di carta pesta, di legno dipinto, queste case, come quelle che estrae, lentamente, da una scatola, la mano di un bimbo e le dispone sovra un piano, ad angoli retti? Non è, forse, a destra, a sinistra del Rettifilo, lo svolgersi di un bizzarro paravento, i cui pezzi non sono bene congiunti, anzi sono disgiunti, e il paravento non giunge a nascondere, quel che non si deve vedere? E passino i vostri occhi ricercatori dalle cose alle persone del Rettifilo, vi passino, per conoscer più presto e meglio il motto dell'enigma. La possente arteria napoletana rifluisce, in ogni ora, di sangue vivido: una folla attraversa costantemente il Rettifilo, a piedi, in carrozza, in trams , specialmente sino a piazza Depretis, andando e venendo dai due rami di via Duomo. Folla di ogni qualità e, talvolta, anche, folla di persone distinte, bene vestite, gli uomini con la catena di oro sul panciotto, le donne con i ciondoli sospesi sul petto. Tutto questo mondo va, viene, ritorna, si allontana, mondo svariato, multiforme, multanime. Se voi siete abituato a discernere i volti e le espressioni, fra la folla, se avete l'ardente e dolente segreto dell'intuizione, voi scorgerete, lungo il Rettifilo, persone e faccie che vi daranno un fremito di sorpresa e, forse, di sgomento. Sugli angoli di quelle viuzze, presso quelle ringhiere, su quel limitare fatidico fra il vecchio e il nuovo, e, persino, nelle poche vie principali e non finite, stazionano sempre degli uomini, sul cui viso la delinquenza è impressa e la cui espressione non mente; stazionano mendicanti dei due sessi e di tutte le età, ma di una mendicità sfrontata e ributtante, e stazionano anche, meno di mattina, molto più nel pomeriggio, moltissimo di sera, le sventurate e sciagurate femmine del popolo, che esercitano il più compassionevole e più atroce fra i mestieri. Così, sull'orlo della superba via, sui due suoi lati, fiancheggiandola, il vizio e la miseria, il delitto mettono la loro popolazione. La gente che passa, è molta, non guarda bene, non bada: ma due, tre volte al giorno, un ladro si slancia sovra al galantuomo , sovra la signora, in pieno giorno, in pieno Rettifilo, fra mille persone, e gli strappa l'orologio, le strappa gli orecchini, il derubato grida, il ladro infila la viottola, si gitta per un angiporto, è sparito, la folla strepita, non vi sono guardie, i mendicanti gridano e una di quelle donne del vizio, dà una falsa indicazione, perchè è, forse, un'amante, un'amica, una sorella del ladro, sempre una complice. Sia a piedi, sia in carrozza, la vittima, il ladro finisce sempre per fare il suo colpo, senza farsi arrestare, liquefacendosi come una nuvola, dietro una di quelle stradette: e alcune, anzi, di quelle vie, hanno la loro fatal rinomanza, come quella a principio del Rettifilo, la via di santa Candida. Dopo le nove di sera, il tratto del Rettifilo da piazza Depretis alla Ferrovia, è poco percorso da gente: e malgrado le grosse lampade elettriche, quel tratto è uno dei più pericolosi della città, e i medesimi cocchieri da nolo, affrettano il passo zoppicante del loro povero cavallo, andando alla stazione o tornandone, poichè sanno che il loro passaggiero può avere, forse e senza forse, un'aggressione. In quell'ora non si aggirano, colà, che ladruncoli, camorristi, pregiudicati e donne di mala vita. Nella magnifica strada: nella strada della salute e della redenzione del popolo napoletano! Ahi, che essa è semplicemente un paravento, ma leggiero, fragile e grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol saper tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile! E un'altra volta io vi dirò quel che vidi, lì dietro, con una triste e lunga curiosità, con un coraggio disperato e, con l'angoscia più opprimente, del mio umile ma fedele cuore di napoletana!

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