Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbandonate

Numero di risultati: 7 in 1 pagine

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La tecnica della pittura

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Previati, Gaetano 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
  • UNIFI
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Perchè ciò avvenga, sempre secondo il celebre chimico che tanto si occupò dei colori, occorrono però alcune condizioni, vale a dire che l’intonaco si asciughi lentamente, perchè essendo troppo rapido l’asciugarsi, il carbonato di calce formatosi irregolarmente lascierebbe abbandonate molte parti di silice togliendo consistenza così al cemento; mentre conservandosi molto tempo umido il cemento esposto all’aria, l’acido carbonico dell’atmosfera agisce continuamente sulla calce ed il carbonato si deposita in forma cristallina gradatamente sulla silice con grandissima solidità dell’intonaco.

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IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento gli ritornarono a mente i perché della presenza sua sul monte deserto nelle tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l'esilio dal monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all'anima sua ferma in Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie. Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall'alto di una inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l'ufficio suo, egli si accorse di esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana, continuava. Che fare? Rientrare all' Ospizio dei pellegrini no perché il vaccaro dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto né sarebbe stato facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all' Arco d'ingresso nel bosco. Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al bosco, cadde a sedere, sfinito. Desiderava un po' di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L'aria era tepida, il suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all'ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l'impero, benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l' Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall'uno e dall'altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l'Arco. Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell'ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all'udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte. "Oh, Benedè!" esclamò riconoscendo Benedetto. "Qui, siete?" Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio. "Lo racconterete ai padri" diss'egli. "Direte ch'ero sfinito e che vi ho chiesto un po' di latte per amor di Dio." "Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!" fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. "Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!" Benedetto bevve. "Benedico Iddio" diss'egli "per la bontà vostra e per la bontà del latte." Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s'inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: "ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro." Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s'incamminò egli stesso verso Santa Scolastica. La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell' Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.

POESIE

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MICHELSTAEDTER, Carlo 1 occorrenze

Se camminando vado solitario per campagne deserte e abbandonate se parlo con gli amici, di risate ebbri, e di vita, se studio, o sogno, se lavoro o rido o se uno slancio d'arte mi trasporta se miro la natura ora risorta a vita nuova, Te sola, del mio cor dominatrice te sola penso, a te freme ogni fibra a te il pensiero unicamente vibra a te adorata. A te mi spinge con crescente furia una forza che pria non m'era nota, senza di te la vita mi par vuota triste ed oscura. Ogni energia latente in me si sveglia all'appello possente dell'amore, vorrei che tu vedessi entro al mio cuore la fiamma ardente. Vorrei levarmi verso l'infinito etere e a lui gridar la mia passione, vorrei comunicar la ribellione all'universo. Vorrei che la natura palpitasse del palpito che l'animo mi scuote ... vorrei che nelle tue pupille immote splendesse amore. - Ma dimmi, perché sfuggi tu il mio sguardo fanciulla? O tu non lo comprendi ancora il fuoco che possente mi divora? ... e tu l'accendi ... Non trovo pace che se a te vicino: io ti vorrei seguir per ogni dove e bever l'aria che da te si muove né mai lasciarti. - 31 marzo 1905 * * * Poiché il dolore l'animo m'infranse per me non ebbe più la vita un fiore ... e pure inconscio iva cercando amore l'animo offeso. Ahi ti vidi e a te il pensier rivolsi a te che pura sei siccome un giglio ... ... Le lacrime mi sgorgano dal ciglio invirilmente. Oh mia fanciulla, oh tu non hai compreso di quanto amore io t'ami. Ed un dolore nuovo, più intenso mi attanaglia il cuore che tu feristi. Se m'ami Elsa a che mi fai soffrire? Tu della vita mia unico raggio tu che sola m'infondi quel coraggio che mi fa vivo! Lo sguardo mio non t'ha saputo dire non t'han saputo dir le mie parole quello che dice all'universo il sole, amore! amore!? 3 aprile 1905

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 4 occorrenze

Il duca non aveva osato inseguirla, ma risalito nella barca si era accostato allo scoglio e la guardava così bellina e sottile, con il vestito di lana aderente al corpicino elegante, con le braccia nude, abbandonate lungo la persona, con i piedini rossi baciati dalle onde lievi, con quella pelle delicata. Egli la divorava con gli occhi e nel passarle a poca distanza s'alzò sulla barca e le disse in atto di sfida: - A un'altra volta! Velleda, più morta che viva, tornò nella cabina e cadde sopra una panca, tremante, pallida o sconvolta. Hai la febbre Leda? - le diceva Maria. No, mi sono stancata troppo, ma non è nulla, non ti spaventare. Costanza, che era intenta ora a strizzare i costumi del bagno, teneva gli occhi bassi; aveva veduto tutto, ma non aprì bocca. Ogni dolore di Velleda era una gioia per lei. Più tardi quando il duca e Velleda s'incontrarono a colazione, sotto lo sguardo dolce di Roberto, Franco ebbe il coraggio di domandare alla signora se si sentiva male perché la vedeva pallida e abbattuta, Leda s'è sentita male nel bagno, - rispose Maria, - è uscita tutta tremante, pareva che avesse la febbre. Ho commesso un'imprudenza nuotando troppo, disse la signora per rassicurare Roberto, che la guardava ansioso. - Non farò più bagni. L'agitazione di Velleda continuò per un pezzo. Dopo pranzo non ebbe la forza di fare la solita gita sul " Selino " e passò alcune ore seduta nell'acropoli deserta di lavoratori, con un libro in mano, senza leggere. I più strani pensieri le correvano alla mente; pensieri baldi di resistenze violente, di acerbe lotte; pensieri di fuga. di sparizione senza lasciare traccia di sé: ma tutti cadevano allorché il cuore le ricordava che non era sola, 0169 che non aveva il diritto di abbandonare un uomo buono, del quale aveva accettato l'affetto. Mentre stava così perplessa invocando un'idea cui attaccarsi, un'idea che la salvasse in mezzo a tanto sconforto, udì dei passi dietro a sé e si alzò spaventata. Siala vista del Lo Carmine la calmò. Come mai è divenuta così nervosa che si spaventa a ogni rumore? - le domandò. L'estate mi ha spossata, - rispose Velleda, - uia non è nulla e l'autunno mi renderà vigore. Volevo giusto parlarle, - disse il Lo Carmine, ma è sempre accompagnata e non bramo che le mie parole giano udite da altri. C'è forse qualche pericolo? - domandò ansiosamente. No, si calmi, ha i nervi agitati; anzi ... ! Sono stato a Trapani in questi giorni, e come ella sa, per tutto si prepara la lotta elettorale, benché il decreto di scioglimento della Camera non sia anche firmato. Ebbene, molti amici miei, persone anche influenti, vorrebbero che nella lista dei deputati moderati della provincia figurasse il nome del signor Roberto e mi hanno detto d'interrogarlo se si lascerebbe portare. Che cosa crede lei? Queste poche parole erano bastate a dare un altro avviamento ai pensieri di Velleda. Ritornata a un tratto padrona di sé, esaminava la situazione con calma. Naturalmente, il collegio che gli si offre sarebbe. Castelvetrano? - domandò ella Appunto. Non so se accetterà, ma sono quasi sicura che riu scirebbe se si portasse. Veda, l'avvocato Orlando, ministeriale, riuniva fin ora molti voti, perché vi era lo scrutinio segreto e per lui votavano in altre circoscrizioni della provincia. Ritornati al collegio uninominale, egli avrebbe pochi voti, perché non ha, base a Castelvetrano, dove il partito di sinistra è in minoranza. Sono 0170 tutti moderati o socialisti. I primi voteranno certo per il signor Roberto; i secondi, a meno che non portino un candidato proprio, che non riuscirebbe, darebbero i loro voti a un candidato d'opposizione piuttosto che a un ministeriale. In tutti i casi ci sarebbe dispersione di voti e per conseguenza ballottaggio, ma il risultato finale -sarebbe reiezione del signor Roberto. Questi stessi calcoli sono stati fatti dai miei amici di Trapani, ma ora si tratta di sapere se il signor Roberto accetterà. Vorrebbe ella interrogarlo, per evitarmi un rifiuto, o nel caso affermativo, preparare il terreno alla mia proposta? - Volentieri, - rispose Velleda, tutta infervorata da quell'idea. - Se posso, lo interrogo stasera e domani le darò una risposta per lettera. Allora il Lo Carmine si diede a esporre a Velleda il bene che Roberto avrebbe potuto fare a quel paese così abbandonato dal Governo. Prima di tutto bonificarlo, riprendendo dopo tanti secoli i lavori intrapresi da Empedocle; poi creare una colonia agricola nei terreni strappati alla palude e alla malaria, in terzo luogo ottenere del bilancio dell'istruzione pubblica maggiori fondi per gli scavi. Qui la volevo! - esclamò Velleda. - Dica la verità: ella desidera che un uomo colto, un archeologo, conoscitore di questi luoghi vada alla Camera, per ottenere che Selinunte esca dalla terra che la copre, perché lei possa frugare questa spiaggia in tutti i versi. Sarebbe forse un desiderio colpevole? - domandò il Lo Carmine, balbettando più del consueto. No davvero. Anzi è un'ambizione molto modesta ; le mie sono più vaste, più grandi. Lo scienziato non le domandò a che miravano quelle ambizioni; lo indovinava ed era sicuro che Roberto avrebbe accettato il mandato per compiacerla. Noi vi sorprendiamo! - esclamò Roberto mostrando 0171 la testa di dietro un muro basso. - Ah! ho capito! aggiunse rivolgendosi a Velleda scherzando. - Non è voluta venir con noi perché aveva un appuntamento col Lo Carmine! Il viso di lui mi dice che qui si tratta di un complotto. Sì, - rispose Velleda, - noi si cospira contro l'onorevole Orlando, il quale sarà in questo momento nella suo villetta, senza sospettare che dinanzi al mare due persone attentano alla sua felicità. Franco, che era sopraggiunte insieme con Maria, non capiva nulla; Roberto credere che si trattasse del processo, perché l'avvocato Orlando era appunto il difensore d'Alessio e disse : Io non devo saper nulla di questo complotto? Per ora no; più tardi forse. È curioso? - gli domandò ridendo Velleda. - Un poco. Tutti insieme si diressero verso casa. Roberto aveva pregato il Lo Carmine di pranzare con loro, così che quella sera il pranzo fu più animato. Velleda però era taciturna. Era bastato un sorriso di trionfo di Franco per agghiacciarle il sangue. Evitava d'incontrare lo sguardo freddo, sarcastico del duca, ma bastava la voce di lui per ferirla e barbaramente ripeteva a sé stessa, per risentire la vergogna dell'insulto : Mi ha baciata! Mi ha baciata! Era già notte alta, una notte quieta e serena, quando Velleda si alzò da tavola. Ella offrí il caffè agli ospiti e a Roberto e poi per non parlare con Franco, condusse Maria a letto. Le altre sere lasciava per solito a Costanza quella cura, ma quella sera volle spogliare da sé la bambina. Che cosa hai fatto oggi? - le domandò. Niente; mi sono divertita con lo zio Franco. Figurati; fingeva che io fossi grande e mi trattava come 0172 una signora. Mi diceva che ero bella, che avevo gli occhi come un'orientale, la pelle morbida e tante altre schiocchezze. E tu gli credevi? No! Che me ne importa di esser bella ora? Quando sarò grande, allora sarò duchessa. - Ma che duchessa! Egli non può trasmettere il suo titolo altro che ai proprj figli. - T'inganni, Leda: tu sai tutto, ma queste cose le sa meglio Franco di te. Il duca non lasciò a lui il suo titolo? - Perché era un maschio. Le femmine non ereditano titoli; esse portano il nome del padre e poi quello del marito; e se tu mi vuoi bene, Maria, la prima volta che lo zio ti parla di queste sciocchezze devi rispondergli che tu non hai bisogno di titoli, perché ti basta il nome onorato del babbo. Me lo prometti, Maria? S'era inginocchiata accanto al letto della bimba e la guardava con tale intensità d'affetto, che ella, attratta da quello sguardo, le buttò le braccia al collo, dicendole : Farò quello che tu vuoi; Leda, perché ti voglio tanto bene! Ora; dormi, cara, - disse, e chiamata Costanza ricornò in sala. Il Lo Carmine, già s'era alzato per andarsene. Bravo, - gli disse in modo da essere udita da Franco - Lei sa che devo parlare al signor Roberto. Gli parli subito e farà bene, - rispose l'altro. Il duca rimase un momento perplesso, ma poi si rassicurò pensando che del fatto della mattina non avrebbe letto niente a suo fratello, che si sarebbe fatta piuttosto ammazzare. Per via voleva confessare il Lo Carmine e per questo gli usò la cortesia di ricondurlo fino alla Casa dei Viaggiatori, ma il Lo Carmine non si fece confessare. Era 0173 uomo di poche parole ed aveva quella serietà di carattere che è uno dei tanti pregi dei siciliani; eppoi il duca non gl'ispirava nessuna simpatia. Franco rimase per alcun tempo a passeggiare sulla spiaggia, guardando la villa illuminata e specialmente la sala, nella quale scorgeva Velleda seduta vicino alla vetrata aperta. Non vedeva Roberto, ma ne indovinava la presenza, osservando che Velleda parlava animatamente come se cercasse di convincerlo di un fatto. Gli rivela tutto, lo aizza contro di me! - diceva perplesso e ansioso. - Perfida! Ma un momento dopo, vedendo Velleda che cessava di parlare e appoggiando la testa alla spalliera della poltrona sorrideva ascoltando tranquillamente ciò che rispondevate l'altro, si calmò. Non è di me che parla: c'è un altro mistero; una cosa che la fa felice. Se avesse narrato di me, avrebbe pianto, sarebbe andata in collera; invece ha una espressione severa sul volto; non ha astio! La conversazione fra Velleda e Roberto durava lungamente e Franco non sapeva scendere dal monticello di sabbia dal quale il suo occhio si spingeva dentro la sala. A un tratto vide Roberto alzarsi, accostarsi a lei, ma invece di curvarsi a baciarla, sollevò la mano che Velleda posava sul bracciale del seggiolone e se la portò alle labbra. Un momento dopo Roberto era in giardino, e chiudeva il cancello; dall'alto della terrazza Velleda gli gridava : Buona notte, mio buon signore! - e rientrava in sala per scomparire. Velleda aveva vinto le esitazioni di Roberto perché gli aveva detto: Io, che ho rasentato la gloria, non ho più ambizioni per me; tutte le mie ambizioni sono riposte in lei. Accetti e sarà eletto. Col suo ingegno, con la sua attività, con le larghe vedute e specialmente col suo cuore, 0174 che ha tutte le virtù più elette e si commuove a tutti i dolori, capisce tutti i bisogni dell'età moderna; potrà fare tanto bene. Lei, che è un solitario, un carattere integro e assolutamente puro, portando fra tanti utilitarj la sua rettitudine di giudizio e la sua coscienza retta, farà, dei proseliti. Non è possibile che non si manifesti una reazione; che un bisogno di probità e di onoratezza non si faccia strada nelle masse; e lei sarà l'apostolo di queste due virtù, il rigeneratore. Accetti! Ma saremo spesso divisi! - aveva osservai Roberto. È vero, - aveva risposto Velleda, - ma quello divisioni ci faranno meglio sentire l'affetto che ci lega. Accetti e mi farà felice! Roberto s'era lasciato convincere ed era stato in quel momento che Velleda aveva appoggiato la testa alla spalliera della poltrona, e, sicura della vittoria, aveva tracciato a Roberto tutto quello che poteva far di utile, specialmente nel campo della legislazione sociale, proponendo leggi per migliorare la condizione degli operai, per assicurare le famiglie in caso d'infortunio, per far cessare quell'odio di classe; che si accentua ogni giorno più contro la borghesia, la trionfatrice crudele del 1793. Sì Vellcda, io farò tutto quello che vuole, io mi lascerò guidare da lei, - aveva risposto Roberto e le aveva baciato la mano. Franco aveva assistito a quella scena, avevo udito Velleda dar la buona notte a Roberto, eppure non credeva alla purezza del loro affetto, e la sua fantasia eccitata glieli rappresentava ora stretti in un ardente abbraccio, ora dolcemente stanchi dopo lunghe ore d' amore, ma mai mai egli voleva ammettere che amandosi così profondamente, essi si fossero imposti un sacrifizio sovrumano. Anche quella sera Franco tornò stanco e irritato nel suo quartiere e penò molto prima di addormentarsi. 0175 Perché il Signorini non gli rispondeva? Ah! se avesse potuto scoprire una macchia sul passato di Velleda, l'avrebbe avuta in suo potere! Come sarebbe stato felice allora di sapere umiliata quella superba, di poterla piegare alle sue voglie, di vedersela dinanzi supplichevole, offrendo il suo amore in cambio del silenzio. La solita idea fissa lo torturava. Ora anche l'invidia per Roberto era meno viva; non lo invidiava più per la fortuna negli affari, per la stima di cui godeva, per quella superiorità che tutti gli riconoscevamo su di lui e neppure per i benefizj che Roberto gli aveva fatti ; lo invidiava soltanto per essersi fatto amare da Velleda. Questa invece non pensava a lui. Il passo che stava per dare Roberto dietro suo consiglio, le pareva così grave che ne esaminava con mente calma tutti i vantaggi e gli svantaggi, e in certi momenti si pentiva del consiglio, ma subito dopo ripensava alla nobile opera che egli avrebbe potuto compiere e ricacciava nel fondo dell'anima i dubbj. Fu in uno di questi momenti di fiducia che scrisse al Lo Carmine di comunicar pure ai suoi amici che Roberto accettava. Ella posò la lettera senza chiuderla sulla scrivania, per vederla appena desta e modificarla nel caso che il sonno le avesse dato un altro consiglio. Sia il sonno l'avvalorò, invece, nel suo proposito e la lettera fu recapitata la mattina presto al suo indirizzo.

Il Lo Carmine se n' era andato e Roberto, entrando a cercare un libro nella biblioteca, la vide seduta sopra un seggiolone, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi fissi in terra. Velleda! - esclamò spaventato. Ella non rispose, non sussultò. Velleda! - ripetè Roberto. - Che cos'è successo? Che cosa l'affligge? La signora alzò in faccia a lui gli occhi pieni di lacrime e fece con la testina una mossa sconsolata. Ma che cosa è successo? - Nulla che si possa narrare. Un fatto tutto morale. Io sono umiliata di non averle saputo infondere la mia convinzione rispetto ad Alessio; piango perché ella non sente come me. " Senta Velleda, - rispose Roberto seriamente, - del mio affetto non può dubitare. Io le sono devoto come una creatura può esser devota a un'altra creatura dalla quale spera tutte le consolazioni e tutte le gioie più alte e più profonde; ma il sentimento della giustizia parla in me cosi potente, che a costo di contraddirla e anche di affliggerla, non posso rinunziarvi. Ebbene, questo sentimento mi dice che Alessio è innocente del reato di cui lo accusano e io lo difenderò con lo stesso calore con cui difenderei me stesso. In questa faccenda ci troveremo sempre in due campi opposti. Veda, voglio anche ammettere l'ipotesi suggeritami dal Moltedo, che Alessio fosse qui per uno scopo amoroso, che egli sia l'amante di Costanza, ma non desidero fare indagini, perché dovrei mandar via quella donna, che è affezionata a Maria. Ma che Alessio avesse intenzione di rubare la mia bambina, non lo ammetto. Costanza! - esclamò Velleda, e poi tacque riflettendo per un istante, indi aggiunse : Non è possibile, non mi sono mai accorta di nulla. Era entrato nel giardino per rubare Maria; questa è la verità. Ma Velleda, - disse Roberto in tono affettuoso, perché si turba per questo fatto? Non le pare che questa piccola dissonanza ci faccia meglio sentire l'affetto che ci lega? Non è persuasa che io non posso trovar la felicità fuori di lei e senza di lei? Non sente quanto soffro per la sua afflizione? Roberto; - diss' ella intenerita e dandogli per la prima volta quel nome. - non sa quanto, quanto sia stata infelice e come mi spaventi di ogni piccolo fatto che minaccia la mia felicità! Segua l'impulso della sua coscienza ed io seguirò quello della mia, ma non si stacchi da me, non mi respinga, non mi abbandoni! C'era una intonazione così supplichevole in quelle parole che Roberto stese le braccia per attirarsi Velleda sul petto, ma prima di sfiorarle la vita, le lasciò ricadere lungo la persona e disse : Mia buona amica, eviti queste commozioni che sono seguite da momenti di debolezza. Siamo forti, o mia gentile eroina, siamo sempre forti, - e con un movimento repentino prese una mano di lei e se la portò alle labbra. Prima che Velleda potesse rispondergli, Roberto era già uscito.

Ella aveva preso il lavoro e i fiori sbocciavano sotto le sue dita in una deliziosa armonia di tinte, e Roberto, con le mani abbandonate sui braccioli del seggiolone, l'avvolgeva in uno sguardo innamorato, mentre il mare accompagnava i loro pensieri con un lieve rumore ritmico, che aveva la soavità di una carezza. Quello stesso rumore accompagnava la veglia di Franco Il duca era tornato tardi da Castelvetrano, dopo aver passato la sera a giuocare in casa di un proprietario del paese, il Purpura, insieme con l'onorevole Orlando e altri. Anche in quella piccola città il giuoco era in gran voga e il Purpura passava per sapere abilmente spennacchiare gl' impiegati e gli ufficiali. Naturalmente appena aveva conosciuto Franco in farmacia, aveva indovinato che il duca doveva essere uno di quelli che giocano forte ed era riuscito ad attrarlo in casa sua. In poche sere Franco aveva perduto diverse migliaia di lire senza pensare al poi, volendo solo ammazzare il tempo e addormentare i sospetti di Velleda. Don Ciccio Purpura, che era il grande elettore dell'Orlando, aveva chiamato a raccolta tutti i più forti giocatori del paese, per offrire al duca competitori degni di lui. Il deputato, che aveva un debole per il giuoco; era accordo, trovandosi in quel momento a Castelvetrano per preparare le elezioni. Conosceva Franco dì vista, per essere stato a Roma molto tempo, ed era curioso di avvicinare questo principe dell' eleganza, che s'era rovinato come tanti altri. Invece di chiamarlo don Franco, come tutti lo chiamavano; gli dette subito il titolo che gli spettava e ciò lo rese simpatico al giovane signore, il quale si sentiva ferir l'orecchio ogni volta che lo chiamavano altrimenti. Poi gli parlò della capitale; di alcuni deputati del patriziato romano, gli raccontò dei pettegolezzi sui legami di questi con certe donnine galanti, e a Franco parve di sentirsi rivivificare da quel soffio di aria che veniva di là, dove aveva vissuto e dove avrebbe voluto sempre vivere. Era un ometto molto bruno, molto vicace quello Orlando; il vero tipo dell'avvocato presuntuoso, assuefatto a farsi ascoltare, a strappar l'approvazione all'uditorio. Uomo senza scrupoli, era devoto a chi saliva, senza voltar le spalle a chi scendeva. Alla Camera, era sempre nelle file della maggioranza, ora come affigliato, ora come alleato, ma il suo nome figurava immancabilmente nella lunga lista di quelli che votano per il sì Egli si faceva perdonare la devozione per i ministri in carica con l'entusiasmo che poneva nel parlarne, con la fede che pareva riponesse in loro. Ma quell' entusiasmo che gli si vedeva brillare negli occhi nerissimi, lampeggianti, dietro gli occhiali leggermente colorati di turchino, era una spuma tutta superficiale, che svaniva subito e non aveva sede nella coscienza di quell' avvocato, buon vivente, libertino; avido di danaro e di quelle soddifazioni d'amor proprio che da la carica di deputato, di uomo influente. Quell'avvocato volgarissimo, di poca cultura, ma accorto e subdolo, sotto apparenze franche, aveva una certa vernice di uomo di mondo, di uomo elegante e raffinato, e si faceva distinguere fra gente semplice e alla carlona. Egli portava sempre una camicia candida, si vestiva a Roma dal sarto dei patrizj, conosceva tutti e parlava anche di quelli che non conosceva, come se fossero suoi amici. Quando era alla capitale pranzava ogni sera con un gruppo di deputati siciliani al Caffè di Roma, dove si conoscono tutti i pettegolezzi del mondo politico e dove si tramano tante cospirazioni parlamentari. Da tre legislazioni sedeva alla Camera e portava con molta ostentazione le tre medaglie attaccate a una catena appariscente. Agli occhi dei suoi elettori e di qualche de putato poteva passare per un uomo di maniere eleganti e di gusti fini, a quelli di Franco no. Egli indovinò subito che quell' onorevole era un villano rifatto, ma in tanta scarsezza di persone da frequentare, non avendo da scegliere, si mostrò deferente per l'Orlando, il quale affettava di fronte a lui le stesse maniere che usava con i ministri scesi dal potere: maniere umili, inchinevoli, omaggio a un infortunio immeritato, a una grandezza decaduta, che poteva e doveva assurgere a nuovo splendore e a nuova potenza. L'avvocato non parlò a Franco del processo d'Alessio e neppure della candidatura del fratello, che aveva fatto una rivoluzione in paese; evitò d'intrattenerlo di cose noiose, atteggiandosi a consolatore di quell'esule volontario e divagatore di quel grande annoiato. E nelle prime sere o durante i caldi meriggi d'agosto, mentre erano seduti davanti al tavolino da giuoco, seppe anche perdere piccole somme, per non sgomentare il duca, ma poi incominciò a spennacchiarlo per bene, giocando abilmante e approfittando dell'indifferenza che poneva Franco in ogni cosa che faceva. E fu dopo una di quelle perdite che Franco vegliò lungamente, non perché vedesse diminuita molto la somma portatagli da Roberto e che era tutto ciò di cui poteva disporre, che di questo egli non si curava; ma per aver ricevuto una lettera dal Signorini. Franco aveva sperato che quella lettera potesse servirgli di arme per umiliare Velleda, ed era invece un inno alla signora, un tributo reso all'ingegno di quella gloria fiorentina, un omaggio alla donna infelice; che aveva saputo nobilmente portare la sventura. Il Signorini diceva che il nome del marito di Velleda era Crespi; ma che ella faceva bene a ripudiarlo e a portare quello del padre, per evitare le persecuzioni di quell'uomo abbietto, che scontava nella casa penale di Nisida una truffa. Prima di terminare la lettera, il giovane signore confessava a Franco che anche lui, come molti altri, aveva fatto la corte alla bella letterata, senza però ottener da lei nulla, perché a " Melusina " non si conosceva altra passione che l'arte; altro affetto che quello di suo padre e della sua bambina, rapitale dal marito. " Questo è quanto posso dirle della signora Velleda Bianchi, - concludeva il Signorini, - e se ella, nelle sue peregrinazioni in Sicilia, riesce a ottenere le buone grazie della piccola fata bianca; potrà dirsi veramente fortunato e abile più di me e degli amici miei. Dica alla indimenticabile Melusina che io sono fra i suoi amici più devoti e fra i più caldi ammiratori e che il suo ritorna a Firenze sarebbe una festa per me. " Ecco svanita una speranza! - disse il duca accendendo una sigaretta; - ma io non posso ne voglio rassegnarmi. Quell'uomo dagli imperiosi desiderj, che si dibatteva nell'impotenza di appagarli, appariva ben diverso dal consueto e i suoi freddi occhi si posavano irrequieti sulla lettera che aveva davanti, quasi quelle righe dovessero suggerirgli l'idea che cercava invano nella sua mente sognante perfidie, senza saperle preparare. Sono un inetto e porterò questo marchio d' inettezza tutta la vita. Ora Roberto sarà eletto deputato; se io mi fossi portato a Roma non avrei raccolto mille voti: eppure ero una potenza! E da deputato salirà sempre e sempre più si attaccherà a Velleda e sempre più ella insuperbirà della gloria di lui! Ah! è atroce la mia sorte; se non fosse ridicola. Prese la lettera e stava per farla in tanti pezzetti. ma si trattenne. Mi può sempre servire a qualcosa, - pensò, e la rinchiuse in un cassetto insieme con i danari. La vista dei biglietti di banca, molto diminuiti dalle perdite al giuoco, ricondusse il pensiero di lui al Purpura, all' Orlando, a tutti quei nuovi conoscenti di Castelvetrano e s'accorse che potevano essere altrettanti alleati per combattere reiezione di Roberto. Allora un sorriso cattivo gli sfiorò le labbra e capì che tutte le speranze di vedere una volta almeno umiliato suo fratello e afflitta Velleda, non erano perdute. Non fece un piano, perché era incapace d'idearlo, anche sotto l'impulso dell'invidia e del desiderio, ma si rimise, come tutti gli inetti, nelle braccia misericordiose del caso, e confortato dormì un lunghissimo sonno, che Saverio si guardò bene dall'interrompere. Era una domenica, una burrascosa giornata d' agosto. Il mare gonfiato dal vento di terra spingeva al largo le onde crestate di bianco per modo che guardando dalla spiaggia si vedeva una distesa verde su cui svolazzavano a stormi i gabbiani e in distanza una montagna nivea e fluttuante che si confondeva con la linea dell'orizzonte. La sabbia turbinava sulle rovine, sui palmizj, sulla villa, avvolgendo ogni cosa in una nube giallastra, di sinistro aspetto. I valori e i velieri ancorati nel piccolo porto alzavano e abbassavano le prue con moto continuo e disordinato, minacciando di urtarsi, e le alberature e g'li scafi cigolavano sinistramente. Alla villa erano alzati per tempo, nonostante la veglia prolungata, e chi avesse veduto Velleda e Roberto, senati alla tavola della colazione, con la piccola Maria nel mezzo, guardandosi sorridendo, non avrebbe mai supposto che da quei due giovani era stato poche ore prima tracciato un programma così serio di esistenza operosa. Parevano due giovani imposi occupati soltanto della loro felicità e della educazione della bambina, che sedeva in mezzo ad essi. Non c'era una nube sulla fronte liscia di Velleda, sulla quale scendevano i ricciolini dei brevi capelli; non un pensiero triste negli occhi grandi e mansueti di Roberto. Tutte e due sapevano che le lotte stavano per incominciare, che una esistenza di sacrifizj li aspettava, ma ormai avevano calcolato tutto e non provavano pentimento e si sentivano uniti nell'avvenire come nel passato; uniti sempre, e in questo consisteva la loro calma, la loro felicita. Oggi, Maria, - disse Velleda, - non puoi fare il bagno e neppure uscire; fuori non si sta ritti; leggerai, ti baloccherai con le bambole e se nel dopopranzo la burrasca continua, io ti racconterò una novella. Questa promessa teneva sempre buona la bambina, perché nessun libro procuravate mai tanto diletto guanto la narrazione di una novella immaginata da Velleda. la quale univa alla meravigliosa fantasia delle razze slave, una ricchezza di colorito tutta meridionale. Ed io pure ascolterò la novella, - disse Roberto, e starò attento quanto Maria. Io pure ho bisogno di passare il tempo. Tu scherzi, babbo, a te il tempo manca sempre. Lo zio Franco, invece, non sa mai che cosa farne. Dimmi, babbo, tutti i duchi sono così disoccupati? Chi ti ha detto che è duca? - domandò Roberto. Lui stesso; anzi mi ha promesso di lasciarmi il suo titolo, perché tu non vuoi farmi portare i tuoi. Il signor Franco cerca sempre di destare in Maria idee vane e ambiziose, - disse Velleda. - Io mi sono studiata si paralizzare quell'influenza, senza ricorrere a lei, ma vedo che la nostra piccina non vuoi dimenticare le parole dello zio; ed è bene che lei, signor Roberto, si valga della sua autorità per dimostrare a Maria che e inutile che si culli in quei pensieri, che ella si chiamerà sempre Maria Frangipani e che nessun titolo vale quanto un nome onorato. Roberto soffriva visibilmente; ripugnavagli di far nascere nel cuore di Maria la sfiducia contro Franco e capiva benissimo il delicato sentimento che aveva trattenuto Velleda dal parlargli di quella opera di corruzione del fratello; ma dinanzi al male che questi poteva recare alla sua bambina, non ebbe più esitazioni e disse, atti randola a sé dolcemente: Senti, Maria, tuo zio ha ricevuto una cattiva educazione; forse nessuno gli ha voluto veramente bene. Per questo egli non sa educare gli altri e non vuol bene a nessuno. Con te, egli si balocca come farebbe con un gingillo. Non gli prestare attenzione quando ti parla, ma non gli dimostrare disistima. È un infelice che va compatito e tollerato. Egli non può lasciarti proprio nulla; neppure quel titolo di cui si vanta e che è la sua sola ricchezza. Te lo dico io, che non saprei ingannarti, come non ti sa ingannare Velleda. Dovrei allontanarlo di qui, soltanto per la perfidia con cui cerca d'insinuarsi nell'animo tuo; ma ho compassione di lui e non lo faccio. Però invito te ad esser più ragionevole di lui e a non prestar fede a quello che ti dice. Se tu non lo facessi, io dovrei dirgli di partire, e lontano di qui sarebbe anche più abbandonato e infelice. Saprai essere forte contro le sue insinuazioni, Maria? Roberto aveva nella voce e nello sguardo quell'affascinante dono della persuasione, proprio degli apostoli, di coloro che parlano al cuore degli individui e delle masse, fascino indescrivibile che sfugge ali' analisi e che consiste forse nella grande armonia fra il pensiero e il sentimento. Maria subì il fascino delle parole e dello sguardo paterno e si gettò nelle braccia di Roberto, commossa. Egli la baciò affettuosamente e nell'alzarsi disse a bassa voce a Velleda: Ci sarà fatale, Franco? Ella non rispose. I suoi presentimenti erano sinistri, ma non voleva turbare la pace di quella grande anima, e i sibili del vento, la burrasca che si scatenava sulla villa; le parvero in quel momento i prodromi dell'altra che sentiva accumulare sulle loro teste.

Voi siete il nostro padre severo e amoroso e i morenti si confortano pensando che voi non abbandonate le loro famiglie. Le vostre opere danno frutto, padrone; noi vi siamo devoti e l'azione malvagia di un perverso, di un compagno che rinneghiamo, ci ha fatto sentire meglio quanto vi siamo affezionati. Che Iddio vi benedica, o padrone, e benedica l'opera vostra! Un grido uscì da tutte le bocche, un grido lungo che commosse Roberto e riempì di lacrime gli occhi di Velleda. Le labbra di Giovanni rimasero chiuse e Costanza si fece livida. Franco aveva abbassato gli occhi. Una doppia razione di vino fu distribuita agli operai, i quali sotto il cocente sole meridionale uscirono lieti dallo stabilimento a frotte. E mentre in tante parti del mondo un grido di ribellione e d'odio usciva dal petto 0146 dei lavoratori, e tante fabbriche erano in fiamme, e tanti ribelli cadevano colpiti dalle palle dei soldati, su quella spiaggia della lontana Sicilia un nuovo vincolo d'affetto era creato fra il padrone e gli operai. L'opera d'amore li un cuore buono e di una mente illuminata trovava la sua alta ricompensa. Velleda s'era accostata a Roberto e gli parlava sommessamente, fissandolo. Franco li avvolgeva con uno -sguardo invidioso, che non sfuggi a Costanza. Ella fremè li gioia e disse fra se: Ah! so come vendicarmi!

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