Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Un vampiro

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Luigi Capuana 1 occorrenze

Non avrei saputo dirla in quei giorni, fino al mattino in cui, svegliatomi prima di lei, e contemplandola, al fioco lume della lampadina da notte, abbandonata sui guanciali, coi nerissimi capelli disciolti e il petto lievemente ansante pel respiro, contemplandola più come deliziosa visione d'arte che come realtà, all'improvviso ebbi coscienza della natura di quell'indefinito sgomento che da parecchie settimane mi rendeva pensoso e distratto. "Mi ama davvero? Per quale nascosto scopo vuol darmi a intendere che mi ama?". Ora mi pareva impossibile che la dolcissima creatura che avrebbe potuto aspirare per bellezza, per bontà, per intelligenza, a un'unione più degna di lei, si fosse lasciata indurre a sposare me, non ricco, quasi brutto, con l'unico prestigio di un po' di abilità ... o di qualcosa di più, via, nella mia arte di scultore, e di una discreta cultura che, secondo certi critici, ha molto nociuto al mio ingegno di artista". "Questa botta tocca anche a me!", disse Blesio, ridendo. "Tu hai avuto sempre il torto di badar troppo a quel che scriviamo noi pretesi critici d'arte. Lasciaci cantare! Lavora". Si scorgeva però che il riso di Blesio era sforzato, e che tentava di nascondere il triste presentimento di quel che poteva da un momento all'altro accadere, se l'eccessivo perturbamento del suo amico non si fosse arrestato. Raimondo fece una spallucciata, e continuò: "Da prima scacciai via sdegnosamente come indegno di me e di lei l'importuno pensiero. Ma già un'intima voce tornava insistente a sussurrarmelo a ogni nuova manifestazione di affetto prodigatami da Delia. Allora, la prendevo per le mani, la fissavo tenendola ferma innanzi a me, interrogandola: "Mi ami davvero?" e lo stupore che si manifestava sul bel volto di Delia e il doloroso sorriso che le spuntava su le labbra prima della timida risposta: "Perché me lo domandi?" invece di farmi comprendere la sciocchezza e la villania della mia interrogazione, mi sembrava involontaria conferma di quel dubbio anche quando ella, liberatasi rapidamente dalla stretta delle mie mani, aggrappandomisi al collo con l'abituale gesto di suprema grazia affettuosa, mi baciava e ribaciava, senza aggiungere una sola parola. Pareva volesse dirmi: "Sei contento? ... Si bacia così soltanto quando si ama davvero!". Quella muta risposta però non mi appagava; né avrei saputo dire intanto qual altra avrebbe potuto ella darmene per disperdere il mio dubbio. Mi tornava in mente il motto di quel diplomatico, che la parola ci è stata data per nascondere il nostro pensiero. Quei baci erano meno della parola, o qualcosa di eguale, o anche qualcosa di poco più; non me n'importava. Sapevo, caro Blesio, che il pensiero di una persona può irridersi facilmente di qualunque altrui violenza per scoprirlo. Passarono parecchi mesi prima che mi balenasse l'idea di servirmi dell'azione magnetica per ottenere, all'insaputa di lei, la schietta rivelazione della verità. E anche dopo concepitone il disegno, esitai ancora per altri mesi, temendo di poter produrre irrimediabili disturbi in quel sensibilissimo organismo, che alle minime impressioni vedevo sobbalzare quasi fosse stato punto da uno spillo, o toccato da un carbone ardente. Mi trattenne pure, dopo che ero già risoluto, il leggero velo di tristezza che le mie ripetute domande: "Mi ami davvero?" avevano steso sul volto di Delia, e il lieve tremito della sua voce che mi pareva rivelasse, invece della parola, la protesta del suo cuore: "Perché dubiti di me?". Infatti, perché dubitavo? Perché - e questo era il peggio - non ricevendo risposte che mi soddisfacessero, perché mi sentivo, a poco a poco, distaccare da Delia, quasi la sua bella manina mi allontanasse e volesse tenermi a distanza? Dall'ampia vetrata del mio studio, la vedevo comparire ogni mattina nel giardinetto, con la preferita vestaglia color crema, ornata di larghi nastri rossi, coi capelli nerissimi appena ravviati e che le davano intanto un'aria di arcaica eleganza seducentissima. Si aggirava lentamente pei viali, si fermava, riprendeva ad andare o a cogliere fiori dai vasi e dalle aiuole che ella stessa coltivava con arte di giardiniera provetta. Di tanto in tanto, alzava il capo verso la vetrata, guardava intenta, quasi si attendesse di vedermi col viso incollato ai vetri per osservarla; e crollava la testa, delusa, mortificata. Lo capivo, perché potevo benissimo vederla senz'essere visto. Perché fingevo la sorpresa com'ella entrava nel mio studio, esitando su la soglia con la cestina colma di fiori, quasi simile alla bionda Flora tizianesca della Galleria degli Uffizi? ... Cominciavo a sentire, e ne avevo dispetto, un senso di lieve rancore per quella che mi sembrava sua ostentazione d'ingannarmi. Non so che cosa avrei poi fatto, se Delia mi avesse risposto: "No, non t'amo! Meriti forse d'essere amato?". Da due settimane, notte per notte, mentr'ella dormiva al mio fianco, io m'ingegnavo di saturarla del mio fluido, come avevo appreso dai libri letti e studiati per tale scopo. Ella non doveva accorgersi della mia intenzione di addormentarla; temevo che, richiesta di accondiscendere, si rifiutasse. E durante la giornata spiavo se mai apparisse in lei qualche sintomo da rivelarmi che la mia azione magnetica fosse riuscita a dominarla. Niente! Già disperavo del buon resultato, quando un pomeriggio ... Oh, tu non puoi farti un'idea della profonda commozione che mi assalì in quel momento! Delia avea voluto posare da modello per una figurina di donna commissionatami da un americano. "Sta' ferma, così!", le dissi vivamente, lieto dell'atteggiamento da lei preso appena sedutasi davanti a me poco lontana dal cavalletto. La vidi irrigidirsi, chiudere gli occhi, impallidita, col respiro ansante ... Era entrata, quando meno me l'aspettavo, nel più profondo sonno magnetico. Ne fui spaventato, come se avessi compiuto su lei il più vile dei delitti colpendola a tradimento. Rinfrancàtomi un po' e presala pei pollici con mani tremanti, mi affrettai però a interrogarla: "Dormi?". "Si". "Sei lucida?". "Lucidissima". "Potresti leggermi nel pensiero?". "Sì. Tu dubiti ... ". "Ecco" la interruppi, facendo gli opportuni passaggi . "Ecco la mano di una persona che tu non conosci: è moglie di un mio amico. Ama il marito? ... Osserva bene". E così dicendo le avevo messo in una mano l'altra sua mano. Vidi che la stringeva forte, corrugando la fronte, abbassando la testa in atto di scrutare. "Lo ama tanto!". "Non t'inganni?". "No. Il cuore di costei è come un limpidissimo fonte di cui si scorge nettamente il fondo. L'ama. Oh, tanto!", replicò. "Osserva meglio" insistei. "Non occorre. Povera donna! Ha già capito che egli dubita, e piange spesso, in segreto. È dunque cieco costui da non accorgersi che quegli occhi hanno pianto? È strano: io provo la stessa sofferenza di lei ... Devo piangere, come lei ... Lasciami piangere!". E copiose lacrime le inondarono il volto accompagnate da singhiozzi. Attesi che si sfogasse un po'. "Ora ti sveglio" la suggestionai. "Non dovrai ricordarti di niente". "Non mi ricorderò di niente". Le ripresi i pollici, aspirando, perché sapevo che così doveva farsi per riattirarmi il fluido; e nel momento in cui ella riapriva gli occhi, finsi, sorridendo, di aggiustarle la testa per la posa. "Così!". E mi misi a lavorare come se niente fosse stato. Avrei dovuto esser pago dell'esperimento; ma sapevo che i soggetti, come li chiamano, possono mentire anche durante la inconsapevolezza del sonno magnetico. Non era il caso di Delia? Per ciò ripetei per un'intera settimana, col pretesto delle pose, due o tre volte il giorno, l'esperimento e sempre con l'identico risultato, quantunque io avessi fatto ogni sforzo per indurre Delia ad essere veramente sincera. E questo, forse - anzi senza forse, ora ne sono convinto - ha prodotto gli incredibili fenomeni che per un intero anno mi han dato l'impressione di una vita fuori della vita, d'una vita che non so distinguere se sia stata sogno o realtà, e che aggiungerà presto un'altra catastrofe a quella avvenuta tre mesi addietro". "Eh, via! Non dire così!", esclamò Blesio. "A furia d'immaginare la possibilità di una disgrazia, noi contribuiamo spessissimo a farla accadere davvero". Raimondo Palli portò le mani alla fronte e alle tempie, premendo, quasi volesse impedire che gli scoppiassero: poi, rigettati indietro, con vivace movimento della testa, i folti capelli, e socchiudendo gli occhi, riprese: "Una mattina, dovetti accorgermi che Delia mi sfuggiva di mano, resistendo alla mia volontà, non cadendo più nel sonno magnetico così facilmente provocato ed ottenuto fino allora. Posava per gli ultimi tocchi della mia figurina, che era e non era il suo ritratto perché io avevo sentito ripugnanza di vendere a un estranio la precisa immagine di mia moglie. Le solite parole: "Sta' ferma! Cosi!" che le altre volte erano bastate a farla istantaneamente addormentare, riuscivano inefficaci quantunque replicate più volte. "Che cosa vuoi farmi? ... Che cosa mi hai fatto?" ella domandò, diffidente, guardandomi fisso negli occhi. E siccome io non avevo saputo risponderle, stupito di sentirla parlare a quel modo, ella soggiunse: "Mi sembra di avere qualcosa di strano dentro di me, qualcosa che mi scote, che m'eccita ... Non so come esprimermi ... Oh! oh! ... Veggo, ma non cogli occhi, lontano, fin in fondo al giardino ... Laggiù, nell'aiuola a destra, un gatto raspa la terra e danneggia le pianticine di violette! ... È possibile? ... Vieni; andiamo a vedere!". E mi trascinò per mano fuori dello studio, laggiù, dove un gatto faceva precisamente quel ch'ella aveva visto stando a sedere presso il cavalletto, da un punto dove si scorgevano appena le cime degli alberi del giardino smosse dal vento dietro la vetrata. "Sei diventata una veggente" le dissi con tono di voce che voleva essere scherzoso e non nascondeva intanto il mio stupore. "Male!" ella rispose con improvvisa serietà. "È assai meglio non vedere! ... È assai meglio ignorare!". Non aggiunse altro, né io le seppi dir altro". Blesio, impensierito dell'esaltazione del suo amico, resa più manifesta dalla crescente irrequietezza delle mani e dai rapidi alteramenti della voce in evidente contrasto con la minuziosa limpida narrazione, tentò nuovamente d'impedirgli di proseguire. "Non stancarti; ho già capito, sei stato un po' imprudente, forse ... ". "Forse? ... Troppo dovresti dire", riprese Raimondo Palli. "Troppo". E, implorando con lo sguardo, continuò: "Da quel giorno in poi, caro Blesio, io ho assistito a tali portenti di chiaroveggenza da far perdere l'equilibrio a qualunque più solido intelletto. Non osai più d'interrogarla: "Mi ami? Di', mi ami davvero?". Ma Delia sentiva anche da una stanza all'altra le vibrazioni del mio pensiero, come se le nostre anime, fuse insieme, pensassero la stessa cosa, nello stesso momento. La vedevo apparire su la soglia del mio studio, col viso contratto da dolore intenso, e la sua voce piena di lacrime mi rimproverava: "Perché dubiti di me? Lo sento, non negarlo! Che cosa dovrei fare, parla! per darti la prova suprema dell'immenso amore mio?". Pietà, o vigliaccheria, io mi ostinavo a negare. Inutilmente. La vedevo andare via niente convinta delle affettuose parole, delle carezze, dei baci che - lo capivo dopo - non producevano su lei l'effetto voluto per l'esagerazione a cui mi induceva la paura di non poter più sfuggire a quell'ispezione che mi aveva ridotto in uno stato peggiore di ogni peggiore schiavitù. Come? Non sarei più stato libero di formolare un'idea, un desiderio, una speranza, senza che Delia non venisse a dirmi: "Si, è una buona idea; dovresti attuarla. - O pure: Dipende da te, perché quel bagliore di fantasia diventi realtà. - O pure: - No, quel desiderio è troppo ambizioso per noi; non lasciartene lusingare. - O pure: Dici bene, questa speranza è un gran conforto per me!". E ciò come se io l'avessi messa a parte di tutto con le più precise parole, per consultarla, per averne l'approvazione o la disapprovazione? ... Oh! Non aver niente da nasconderle! Nei primi mesi della nostra unione, era stata anzi gran delizia per me comunicarle i più riposti pensieri, chiederle consigli, suggerimenti che mi rivelavano sempre più squisite delicatezze d'animo, sempre più fine penetrazione d'intelligenza in ricambio del mio cordiale abbandono. Volevo così dimostrarle la mia profonda gratitudine per la gioia, la felicità, la nuova essenza di vita che ella era venuta a diffondere attorno a me, tanto da farmi credere divenuto un altro, quando mi accorgevo dell'agile sviluppo di alcune mie facoltà artistiche rimaste fin allora quasi latenti. E provavo un senso di mortificazione, se Delia, con delicata modestia, mi diceva: "Che bisogno hai tu di consultarmi? Tutto quel che tu fai lo giudicherò sempre ben fatto, anche quando gli altri potranno giudicarlo altrimenti". Non avevo dunque proprio niente da nasconderle. E intanto ora stimavo violato il sacro penetrale del mio pensiero, di cui prima le spalancavo a due battenti le porte. Una cupa irritazione mi invadeva a ogni nuova manifestazione della sua inevitabile chiaroveggenza e nello stesso tempo una viva indignazione per quello che, in certi momenti, mi sembrava atto di ingrato ribelle. Non avrei dovuto essere piuttosto felicissimo per l'assoluta compenetrazione delle nostre anime, della quale la chiaroveggenza di Delia era mirabile testimonianza? "No!" riflettevo subito. "Ella rimane chiusa, impenetrabile. Io, soltanto io, sono in sua compiuta balìa!". Tentai di difendermi con lo stesso mezzo servito, involontariamente, a produrre l'incredibile fenomeno. Ma Delia non sentiva più il mio influsso; era già più forte di me". "Avresti dovuto ricorrere ad uno specialista" lo interruppe Blesio. "Un magnetizzatore di professione, probabilmente avrebbe domato quelle forze ancora non bene conosciute e che la tua malaccortezza aveva scatenate ... Ma, te ne prego, rimandiamo a qualche altro giorno questi dolorosi ricordi ... Nella foga del parlare, non ti accorgi che essi ti commuovono fortemente". "Li ripenso quando non parlo; vale lo stesso. Lasciami proseguire" rispose Raimondo, stirandosi nervosamente i baffi e la barba. "Sopravvennero intanto alcuni mesi di sosta. Credei che la eccitazione nervosa da me provocata si fosse finalmente esaurita, e che la cura consigliatami da un dottore consultato all'insaputa di Delia avesse realmente contribuito a fortificarne l'organismo. Era un po' dimagrita in quei mesi, e aveva perduto la vivace tinta che coloriva le sue guance di bruna con lieve sfumatura rosea. Soltanto lo splendore degli occhi era rimasto immutato. Vedendola rifiorire, non sospettando affatto che quella tregua potesse essere passeggera, avevo ripreso a lavorare alla statua La Giovinezza , quasi suggeritami da lei, un mattino di primavera, passeggiando insieme tra la splendida esplosione dei fiori delle aiuole che fiancheggiavano i brevi viali del nostro giardinetto. La Giovinezza , nella mia intenzione, doveva essere Delia trasformata in Dea, idealizzata, se pure ci fosse stato bisogno d'idealizzare una figura che era, pei miei occhi, un'idealità artistica in atto. Il lavoro mi assorbiva talmente che le lunghe ore di quella giornata di estate sembravano insufficienti alla mia smania di condurre a termine la statua in brevissimo tempo. Delia veniva spesso a tenermi compagnia, seduta in un angolo, leggendo e ricamando zitta zitta per non distrarmi: ed io mi accorgevo della sua presenza soltanto nei momenti di riposo della modella. Mi accorgevo pure, con doloroso stupore, che mai Delia mi era parsa così lontana da me, come in quelle lunghe giornate che più mi stava silenziosamente vicina. Eppure quella statua che mi si vivificava sotto la stecca e il pollice era la libera traduzione del bozzetto improvvisato con insolita rapidità mentre ella, che me n'aveva quasi suggerito l'idea, posava perché io fissassi nella creta il movimento delle linee della sua persona, così come l'immaginazione me la andava trasformando in fantasia d'arte. Una sera, tutt'a un tratto, Delia mi disse: !Ah, Raimondo! ... Tu stai per cessare di amarmi!". "Non pensare assurdità!", risposi bruscamente. "Tu però in quest'istante mentre neghi, pensi: - Oh, Dio, ella indovina!". Tornai a negare: ma era vero. In quell'istante pensavo proprio: "Oh, Dio, ella indovina". "Come avvenga non so" riprese Delia. "C'è dentro di me o una anima nuova, o qualcosa che direi malia, se potessi credere alla malia. Strana malia, Raimondo; malefica malia che mi fa vedere quel che non vorrei vedere, che mi fa udire quel che non vorrei udire, quasi il tuo pensiero parli per me ad alta voce ... E sto in ascolto, da mesi, costretta, decisa di non dirti niente, di soffrire in silenzio perché mi sembra che anche tu soffra ... Ah, Raimondo! Tu stai per cessare di amarmi ... Mi sento impazzire!". Non ricordo più quel che dissi per consolarla, per confortarla. Dovetti essere efficacissimo, se Delia mi si gettò tra le braccia scoppiando in pianto dirotto, balbettando tra i singhiozzi: "Perdonami! Ti faccio soffrire!". Ma il giorno dopo e così tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò più, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le più riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi ... E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io ero stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: "Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?", corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita più bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sì, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non avevo badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato". Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano più triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: "Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della Dea, assai più di essi, prendeva così mirabili chiaroscuri, riflessi così formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! "No, non è così!" balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. "No, non è così!". E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla Dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. "No, non è così! ... Non è così!". E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: "Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sì!". E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva più! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! "Mi amava davvero?". Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu!". E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

. - E perchè i superstiti non hanno abbandonata l'isola? - Pare che amino assai il loro suolo ingrato e malsicuro e poi credo che in nessun altro luogo potrebbero godere tanta libertà. Quantunque appartengano a razze diverse, essendovi inglesi, americani, malesi, bughisi, macassaresi e cinesi, vivono in perfetta armonia e sul piede d'una completa eguaglianza. Si può anzi dire che quegli isolani hanno risolto il famoso problema sociale e con soddisfazione generale, perchè sono retti da una specie di comunismo. Il loro capo è il più vecchio abitante dell'isola, con poteri limitati. Lavorano in comune, si istruiscono a vicenda, e non conoscono il valore del denaro che per loro rappresenta una mera curiosità. Perfino le donne, che sono molto più numerose degli uomini, si sono adattate ai lavori mascolini, onde ovviare il pericolo che vi possano essere persone più bisognose di venire nutrite che non lavoratori costretti a nutrirle. - Un'isola meravigliosa! - esclamò il dottore. - Sotto un certo aspetto è veramente ammirabile, - disse Yanez. - Sono molti anni che è popolata? - Dal 1810, perchè prima non vi erano che bande di uccelli marini. Un disertore inglese, certo Granvill, fu il primo ad approdare insieme ad un suo compatriotta e ad un americano. Più prepotente degli altri due, con un editto si proclamava re dell'isola e dei due isolotti vicini. Pare però che ciò non gli portasse fortuna, perchè quando nel 1818 il governo inglese inviava una nave a prenderne possesso, non viveva che l'americano. Era possessore di molto oro, moneta affatto inutile fra quelle rocce e che avrebbero potuto godere in patria. Pure invitato a tornarsene in America, oppose un rifiuto categorico. A poco a poco sbarcarono dei malesi e anche dei bughisi e degli inglesi. Nel 1865 la popolazione aumentò d'un colpo avendo, in quell'epoca, un corsaro americano, sbarcato quaranta prigionieri, presi durante la guerra di secessione. Quell'aumento di popolazione rese ben dura la vita agli isolani, essendosi dimenticato il corsaro di sbarcare dei viveri, nondimeno a poco a poco la colonia prosperò e continuò ad aumentare. Forse a quest'ora, il signor Griell, che è l'attuale governatore dell'isola, ha più d'un centinaio di sudditi. - Un piccolo re. - Che ci tiene al suo regno, specialmente dopo la visita ricevuta da un ammiraglio inglese della squadra della Cina che lo ha investito del supremo potere, d'incarico della Regina d'Inghilterra. - Figurarsi che onori avrà avuto quell'ammiraglio! - No, signor Held, gli onori ha dovuto farli lui, offrendo alla colonia un banchetto pantagruelico, di cui i buongustai dell'isola serbano immortale ricordo, seguìto da molti doni fra i quali una bandiera inglese che Griell conserva gelosamente. - Vedrò con piacere quel piccolo regno. Speriamo di avere una buona accoglienza, - disse il dottore. - Lo dubito, - rispose Yanez, - perchè quegli isolani ci terranno a non sprovvedersi di carbone che consumano essi in gran parte. Sapremo però calmarli avendo noi degli argomenti molto persuasivi. Chiamino pure in loro soccorso gli inglesi e ci scaccino. Siamo in guerra e la faremo a tutti i sudditi inglesi, senza eccezioni.

Un malese, dalla pelle quasi fuligginosa, con riflessi color del mattone, gli occhi un po' obliqui che avevano un lampo giallastro che produceva uno strano effetto su chi lo vedeva, a quella chiamata, aveva abbandonata la ribolla del timone che fino allora aveva tenuta e si era accostato a Yanez con un fare sospettoso che tradiva una coscienza poco tranquilla. - Padada, - disse l'europeo con voce secca, mentre appoggiava la destra sul calcio d'una delle due pistole. - Come va questa faccenda? Parmi avessi detto che conoscevi tutti i passi della costa bornese ed è solo per ciò che io ti ho imbarcato. - Ma, signore ... - balbettò il malese con aria imbarazzata. - Che cosa vuoi dire? - chiese Yanez che forse, per la prima volta in vita sua, pareva avesse perduta la sua flemma abituale. - Questo banco non esisteva prima. - Briccone, vuoi tu che sia sorto stamane dal fondo del mare? Sei un imbecille! Tu hai dato un colpo falso di barra per arrestare la Marianna. - A quale scopo, signore? - Che ne so io? Potrebbe darsi che tu fossi d'accordo con quei misteriosi nemici che hanno sollevato i dayaki. - Non ho avuto altri rapporti che coi miei compatriotti, signore. - Credi che ci potremo disincagliare? - Sì, all'alta marea. - Vi sono molti dayaki sul fiume? - Non credo. - Sai che abbiano buone armi? - Non ho veduto presso di loro che qualche fucile. - Chi può essere stato a sollevarli? - borbottò Yanez. - Vi è un mistero qui sotto che io non riesco a spiegare, quantunque la Tigre della Malesia si ostini a vedere in tutto ciò la mano degli inglesi. Speriamo di giungere in tempo e di ricondurre Tremal-Naik e Darma a Mompracem, prima che i ribelli invadano le loro piantagioni e distruggano le loro fattorie. Vediamo se possiamo lasciare questo banco prima che la marea abbia raggiunto la sua massima altezza. Volse le spalle al malese e si diresse verso prora, curvandosi sulla murata del castello. La nave che aveva dato in secco, probabilmente in causa d'una falsa manovra, era uno splendido veliero a due alberi, costruito di certo da poco tempo a giudicarlo dalle sue linee ancora perfette, con due immense vele simili a quelle che portano i grossi prahos malesi. Doveva stazzare non meno di duecento tonnellate ed aveva un armamento da renderlo temuto anche a qualche piccolo incrociatore. Infatti, aveva sul cassero due pezzi da caccia di buon calibro, protetti da una barricata mobile formata da due grosse lastre di acciaio congiunte ad angolo e sul castello di prora quattro lunghe e grosse spingarde, armi eccellenti per mitragliare i nemici, quantunque di corta portata. Inoltre aveva un equipaggio numeroso, fin troppo per un legno così piccolo, formato da una quarantina di persone, malesi e dayaki, per la maggior parte attempati ma ancora solidi, dai visi fierissimi e con non poche cicatrici, ciò che indicava come quegli uomini fossero gente di mare e anche di guerra. La nave si era arrestata all'entrata d'una vasta baia, entro cui sboccava un fiume che pareva abbondante d'acqua. Numerose isole, fra cui una grandissima, riparavano la baia dai venti di ponente, tutte cinte di scogliere corallifere e di banchi e coperte da una vegetazione foltissima d'un bel verde intenso. La Marianna si era arenata su uno di quei banchi che le acque nascondevano e che, in quel momento, cominciava ad apparire, continuando la marea ad abbassarsi. La ruota di prora aveva toccato molto profondamente, in modo da rendere impossibile lo scagliamento col solo mezzo delle àncore gettate a poppavia e alate all'argano. - Cane d'un pilota! - esclamò Yanez, dopo d'aver osservato attentamente il banco. - Non ce la caveremo prima di mezzanotte. Che cosa ne dici, Sambigliong? Un malese che aveva il viso assai rugoso ed i capelli biancastri, e che tuttavia sembrava ancora robustissimo, si era accostato all'europeo: - Dico, signor Yanez, che nessuna manovra riuscirebbe a toglierci di qui senza l'aiuto dell'alta marea. - Hai fiducia in quel pilota? - Non so, capitano, - rispose il malese, - non avendolo mai veduto prima d'ora. Nondimeno ... - Continua, - disse Yanez. - Quello d'averlo trovato solo, così lontano da Gaya, in un canotto incapace di resistere ad un'ondata e di essersi subito offerto di guidarci, non mi pare chiaro. - Che abbia commesso una imprudenza ad affidargli il timone? - si chiese Yanez, che era diventato pensieroso. Poi, scuotendo il capo come se avesse voluto scacciare lungi da sè un pensiero importuno, aggiunse: - Per quale scopo quell'uomo, che appartiene alla vostra razza, avrebbe cercato di perdere il migliore e più poderoso praho della Tigre della Malesia? Forse che noi non abbiamo sempre protetti gli indigeni bornesi contro le vessazioni degli inglesi? Forse che non abbiamo rovesciato James Brooke per ridare l'indipendenza ai dayaki di Sarawak? - E perchè mai, signor Yanez, - disse Sambigliong - i dayaki della costa si sono messi in armi improvvisamente, contro i nostri amici? Eppure Tremal-Naik, creando fattorie su queste spiagge, che prima erano quasi deserte, ha dato loro il mezzo di guadagnarsi da vivere comodamente, senza correre i rischi della pirateria che li decimava. - È un mistero questo, mio caro Sambigliong, che nè io nè Sandokan siamo ancora riusciti a spiegare. Questo improvviso scoppio d'ira contro Tremal-Naik deve avere una causa che per ora ci sfugge, ma certo qualcuno ha soffiato sul fuoco. - Che Tremal-Naik e sua figlia Darma corrano un vero pericolo? - Il messo che ci ha mandato a Mompracem ha detto che tutti i dayaki sono in armi e sembrano presi da una improvvisa pazzia, che tre delle fattorie sono state saccheggiate e poi incendiate e parlavano di massacrare Tremal-Naik. - Eppure non c'è un uomo migliore di lui in tutta l'isola, - disse Sambigliong. - Non comprendo come quei furfanti guastino e saccheggino le sue proprietà. - Ne sapremo qualche cosa quando giungeremo al kampong di Pangutaran. La comparsa della Marianna sul fiume calmerà un po' i dayaki e se non deporranno le armi, li mitraglieremo come si meritano. - E conosceremo le cause che li hanno indotti a sollevarsi. - Oh! - esclamò ad un tratto Yanez, che aveva volti gli sguardi verso la foce del fiume. - Vi è qualcuno che pare voglia dirigersi verso di noi. Un piccolo canotto, munito d'una vela, era sbucato dietro gli isolotti che ingombravano la foce del fiume ed aveva puntato la prora verso la Marianna. Un solo uomo lo montava, ma era così lontano ancora da non poter distinguere se era un malese o un dayako. - Chi può essere costui? - si chiese Yanez, che non lo perdeva di vista. - Guarda, Sambigliong, non ti sembra indeciso sulla sua manovra? Ora si dirige verso gli isolotti, ora se ne allontana per gettarsi verso le scogliere corallifere. - Si direbbe che cerchi d'ingannare qualcuno sulla sua vera rotta, signor Yanez, - rispose Sambigliong. - Che sia sorvegliato e che cerchi d'ingannarli? - Pare anche a me, - rispose l'europeo. - Va'a prendermi un cannocchiale e fa' caricare una spingarda a palla. Se si cercherà d'intralciare la manovra di quell'uomo, il quale evidentemente mira a raggiungerci, faremo fuoco. Un momento dopo puntava l'istrumento sul piccolo canotto che allora si trovava a non meno di due miglia e che aveva finalmente abbandonato le isolette della foce, per spingersi risolutamente verso la Marianna. Ad un tratto gli sfuggì un grido: - Tangusa! - Quello che Tremal-Naik aveva condotto con sè da Mompracem e che aveva innalzato alla carica di fattore? - Sì, Sambigliong. - Finalmente sapremo qualche cosa su questa insurrezione, se è veramente lui, - disse il dayako. - Non m'inganno: lo vedo benissimo. Oh! - Che cosa avete, signore? - Vedo una scialuppa montata da una dozzina di dayaki che mi pare voglia dare la caccia a Tangusa. Guarda verso l'ultima isola: la vedi? Sambigliong aguzzò gli sguardi e vide infatti un'imbarcazione stretta e molto lunga, lasciare la foce del fiume e slanciarsi velocemente verso il mare, sotto la spinta di otto remi poderosamente manovrati. - Sì, signor Yanez, danno la caccia al fattore di Tremal-Naik, - disse. - Hai fatto caricare una spingarda? - Tutte e quattro. - Benissimo: aspettiamo un momento. Il piccolo canotto che aveva il vento in favore, filava diritto verso la Marianna con sufficiente velocità, nondimeno non pareva che potesse gareggiare colla scialuppa. L'uomo che la montava, accortosi di essere seguìto, aveva legata la barra del timone ed aveva preso due remi per accelerare maggiormente la corsa. Ad un tratto, una nuvoletta di fumo s'alzò sopra la prora della scialuppa, poi una detonazione giunse fino a bordo della Marianna. - Fanno fuoco su Tangusa, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Ebbene mio caro, io mostrerò a quei furfanti come tirano i portoghesi, - rispose l'europeo colla sua solita calma. Gettò via la sigaretta che stava fumando, si fece largo fra i marinai che avevano invaso il castello di prora attirati da quello sparo e s'accostò alla prima spingarda di babordo, puntandola sulla scialuppa. La caccia continuava furiosa ed il piccolo canotto, nonostante gli sforzi disperati dell'uomo che lo montava, perdeva via. Un altro colpo di fucile era partito da parte degli inseguitori e senza miglior successo, essendo generalmente i dayaki più abili nel maneggio delle loro cerbottane che delle armi da fuoco, non conoscendo l'alzo. Yanez, calmo, impassibile mirava sempre. - È sulla linea, - mormorò dopo qualche minuto. Fece contemporaneamente fuoco. La lunga e grossa canna s'infiammò con un rombo strano che si ripercosse perfino sotto gli alberi che coprivano le sponde della baia. Sul tribordo della scialuppa si vide alzarsi uno sprazzo d'acqua, poi si udirono in lontananza delle urla furiose. - Presa, signor Yanez! - gridò Sambigliong. - E fra poco affonderà, - rispose il portoghese. I dayaki avevano interrotto l'inseguimento ed arrancavano disperatamente per raggiungere uno degli isolotti della foce, prima che la loro imbarcazione affondasse. Lo squarcio prodotto dalla palla della spingarda, un buon proiettile di piombo misto a rame, del peso d'una libbra e mezzo, era così considerevole da non permettere di prolungare molto quella corsa. Ed infatti i dayaki distavano ancora trecento passi dall'isolotto più vicino, quando la scialuppa, che si riempiva rapidamente d'acqua, mancò loro sotto i piedi, scomparendo. Essendo i dayaki della costa tutti abilissimi nuotatori, perchè passano la maggior parte della loro esistenza in acqua al pari dei malesi e dei polinesiani, non vi era pericolo che si annegassero. - Salvatevi pure, - disse Yanez. - Se tornerete alla carica vi scalderemo i dorsi con della buona mitraglia a base di chiodi. Il piccolo canotto, liberato dai suoi inseguitori, mercè quel colpo fortunato, aveva ripresa la rotta verso la Marianna spinto dalla brezza che aumentava col calar del sole e ben presto si trovò nelle sue acque. L'uomo che lo guidava era un giovane sulla trentina, dalla pelle giallastra, ed i lineamenti quasi europei, come se fosse nato da un incrocio di due razze, la caucasica e la malese; di statura piuttosto bassa e assai membruto; aveva il corpo avvolto in brandelli di tela bianca che gli fasciavano strettamente le braccia e le gambe e che apparivano qua e là macchiati di sangue. - Che l'abbiano ferito? - si chiese Yanez. - Quel meticcio mi sembra assai sofferente. Ohe, gettate una scala e preparate qualche cordiale. Mentre i suoi marinai eseguivano quegli ordini, il piccolo canotto, con un'ultima bordata, giunse sotto il fianco di tribordo del veliero. - Sali presto! - gridò Yanez. Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione a una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda. Un grido di sorpresa ed insieme d'orrore era sfuggito al portoghese. Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue. - Per Giove! - esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo. - Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa? - Le formiche bianche, signor Yanez, - rispose il malese con voce strozzata facendo un'orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava. - Le formiche bianche! - esclamò il portoghese. - Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne? - I dayaki, signor Yanez. - Ah! Miserabili! Passa nell'infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente. - Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki. - Va bene, mettiti nelle mani di Kickatany che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Ora ho altro da fare. Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolto la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi lilà, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo. - Oh diavolo! - mormorò il portoghese. - Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche. - Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, - disse Sambigliong. - Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l'audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse. - Palle d'acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez. - Falle portare in coperta e da' ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati? - Anche quelli. - Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all'assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota! Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente. - Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche? - Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, - rispose il malese. - Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità? - Non credo, padrone. - Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale. - Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po' risentito: - Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone. - Vedremo in seguito, - rispose Yanez. - E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.

I sei marinai della scialuppa, quantunque privi della protezione dei loro compagni, non avevano abbandonata la catena e continuavano a tempestarla di colpi furiosi non accennando i grossi anelli a cedere tanto facilmente. Intanto l'incendio avvampava con rapidità spaventevole e nuove lingue di fuoco s'alzavano qua e là, per propagarlo su una più vasta estensione. Le fiamme trovavano un ottimo elemento nelle giunta wan (urceola elastica), quelle grosse piante rampicanti dalle quali i malesi traggono una sostanza vischiosa, di cui si servono per prendere gli uccelli, nei gambir, nei colossali alberi della canfora e nelle piante gommifere che sono numerose in tutte le foreste del Borneo. Tutte quelle piante crepitavano, come se contenessero nelle loro fibre delle cartuccie di fucile o detonavano e dai loro squarci lasciavano colare la linfa più o meno satura di resina, la quale a sua volta prendeva fuoco allargando sempre più l'incendio. Una luce intensa era successa alle tenebre, mentre miriadi di scintille s'alzavano a grande altezza volteggiando fra turbini di fumo. La Marianna scendeva precipitosamente, aiutata dai remi per sottrarsi a quell'incendio, che si propagava ormai anche alle piante prossime alle due rive, ma non aveva percorso che cinquecento passi, quando un urto avvenne a prora, che si ripercosse in tutte le parti della carena. Urla furiose erano scoppiate sul castello di prora, dove eransi radunati la maggior parte dei malesi, temendo che da un momento all'altro comparissero le scialuppe e i pontoni dei dayaki. - Siamo presi! - Ci hanno tagliata la ritirata! Yanez era accorso, immaginandosi che cos'era accaduto. - Un'altra catena? - chiese, respingendo i suoi uomini per farsi largo. - Sì, capitano. - Allora l'hanno tesa pochi minuti fa. - Così deve essere, - disse Tangusa, che appariva esterrefatto. - Signor Yanez, non ci rimane che di prendere terra mentre l'incendio non è ancora attaccato dovunque. - Lasciare la Marianna! - esclamò il portoghese. - Oh mai! Sarebbe la fine di tutti, anche di Tremal-Naik e di Darma. - Devo mettere in acqua l'altra scialuppa? - chiese Sambigliong. Yanez non rispose. Ritto sulla prora, colle mani strette sulla scotta della trinchettina, la sigaretta spenta e compressa fra le labbra, guardava l'incendio che s'allargava sempre più. Anche verso il basso corso del fiume delle vampe cominciavano ad alzarsi. Fra poco la Marianna doveva trovarsi in mezzo ad un mare di fuoco e, siccome gli alberi quasi riunivano i loro rami sopra il fiume, l'equipaggio correva il pericolo di vedersi rovesciare addosso una pioggia di tizzoni ardenti e di cenere calda. - Capitano, - ripetè Sambigliong, - devo mettere in acqua la seconda scialuppa? Noi corriamo il pericolo di perdere la Marianna, se non fuggiamo. - Fuggire! E dove? - chiese Yanez, con voce pacata. - Abbiamo il fuoco dinanzi e di dietro e anche spezzando le catene la nostra situazione non migliorerebbe. - Ci lasceremo dunque arrostire, signor Yanez? - Non siamo ancora cucinati, - rispose il portoghese, colla sua calma meravigliosa. - Le tigri di Mompracem sono costolette un po' dure. Poi, cambiando bruscamente tono, gridò: - Stendete la tela sul ponte, abbassate le vele sui ferri di sostegno. In acqua le maniche delle pompe e affondate le àncore. Gli artiglieri a posto! L'equipaggio che attendeva con angoscia qualche decisione, in pochi momenti issò i ferri di sostegno e ammainò le due immense vele. La Marianna, come tutti gli yacht che intraprendono dei viaggi nelle regioni estremamente calde, era fornita d'una tela per riparare il ponte dagli ardenti raggi solari e dei relativi sostegni. In un baleno fu stesa all'altezza delle bome e le due vele vi furono gettate sopra, lasciando cadere i margini lungo le murate, in modo da coprire interamente la piccola nave. - Manovrate le pompe e inaffiate, - comandò Yanez, quando l'ordine fu eseguito. Riaccese poscia la sigaretta e si spinse verso la prora, mentre torrenti d'acqua venivano lanciati contro la tela inzuppandola completamente. Gli uomini incaricati di spezzare la catena, tornavano in quel momento a bordo, arrancando disperatamente. Sopra di loro fiammeggiavano i rami degli alberi, coprendoli di scintille. - Giungono a tempo, - mormorò il portoghese. - Che spettacolo magnifico! Che peccato non poterlo vedere un po' da lontano! Lo ammirerei meglio! Una vera tromba di fuoco si rovesciava sul fiume. Gli alberi delle due rive, composti per la maggior parte di piante gommifere, ardevano come zolfanelli, lanciando dovunque mostruose lingue di fuoco e turbini di fumo denso e pesante. I tronchi, carbonizzati, rovinavano al suolo, facendo crollare le piante vicine a cui erano collegati da piante parassite e gambir e spandendo torrenti di caucciù ardente. Alberi della canfora enormi, casuarine, sagu, arenghe saccarifere, dammar saturi di resina, banani, cocchi e durion fiammeggiavano come torce colossali, contorcendosi e tuonando; poi s'abbattevano, rovesciandosi nel fiume con fischi assordanti. L'aria diventava irrespirabile e le tende e le vele che coprivano la Marianna fumavano e si contraevano, nonostante i continui getti d'acqua che le innaffiavano. Il calore era diventato così intenso che i Tigrotti di Mompracem, malgrado la protezione delle vele, si sentivano mancare. Immense nuvole di fumo e nembi di scintille, che il vento spingeva, si cacciavano entro lo spazio racchiuso fra il ponte e le tele, avvolgendo gli uomini terrorizzati, mentre dall'alto cadevano senza interruzione rami fiammeggianti, che le pompe penavano a spegnere, quantunque energicamente manovrate. Una cupola di fuoco avvolgeva ogni cosa: la nave, le rive ed il fiume. I malesi ed i dayaki che formavano l'equipaggio, guardavano con spavento quelle cortine fiammeggianti, che non accennavano a scemare, chiedendosi angosciosamente se stava per suonare per loro l'ultima ora. Solo Yanez, l'uomo eternamente impassibile, pareva che non si occupasse affatto del tremendo pericolo che minacciava la Marianna. Seduto sull'affusto di uno dei due pezzi da caccia, fumava placidamente la sua sigaretta, come se fosse insensibile a quel calore spaventevole che cucinava i suoi uomini. - Signore! - gridò il meticcio, accorrendo presso di lui, col viso smorto e gli occhi dilatati pel terrore, - noi ci arrostiamo. Yanez alzò le spalle. - Non posso fare nulla io, - rispose poi, colla sua calma abituale. - L'aria diventa irrespirabile. - Accontentati di quella poca che scende nei tuoi polmoni. - Fuggiamo, signore. I nostri uomini hanno spezzata la catena che ci chiudeva il passo verso l'alto corso. - Lassù non farà più fresco di qui, mio caro. - Dovremo perire così? - Se così è scritto, - rispose Yanez, senza togliersi dalle labbra la sigaretta. Si rovesciò sull'affusto come se fosse su una comoda poltrona, aggiungendo dopo qualche istante: - Bah! Aspettiamo! Ad un tratto alcune scariche di fucili rimbombarono sul fiume, accompagnate da clamori assordanti. Yanez si era alzato. - Come diventano noiosi questi dayaki! - esclamò. Attraversò il ponte, senza curarsi dei torrenti d'acqua che gli cadevano addosso e, alzato un lembo dell'immensa tenda, guardò verso la riva. Attraverso le cortine di fuoco scorse degli uomini che parevano demoni, correre fra le ondate di fumo, sparando contro il veliero. Pareva che quei terribili selvaggi fossero insensibili, come le salamandre, perchè osavano, quantunque quasi nudi, cacciarsi fra le fiamme per sparare più da vicino. Yanez si era fatto torvo in viso. Una bella collera bianca si manifestava in quell'uomo, che pareva avesse dell'acqua agghiacciata nelle vene e che potesse gareggiare coi più flemmatici anglo-sassoni delle razze nordiche. - Ah! Miserabili! - gridò. - Nemmeno in mezzo al fuoco volete lasciarci un momento di tregua! Sambigliong, Tigrotti di Mompracem, bordate senza misericordia quei demoni! Fu un po' rialzata la tenda, le quattro spingarde furono riunite sul tribordo, e mentre l'incendio avvampava più che mai, divorando gli enormi vegetali, la mitraglia cominciò a fischiare attraverso le cortine di fuoco, tempestando i selvaggi con uragani di chiodi e di frammenti di ferro. Bastarono sette od otto scariche per decidere quei bricconi a mostrare i talloni. Parecchi erano caduti e arrostivano in mezzo alle erbe ed i cespugli crepitanti, continuando il fuoco a dilatarsi. - Potesse essere caduto anche il pellegrino! - mormorò Yanez. - Quel furbone si sarà purtroppo ben guardato dall'esporsi ai nostri tiri. Chiamò il malese che aveva guidata la scialuppa, che era tornata a bordo nel momento in cui gli alberi costeggianti il fiume prendevano pure fuoco. - L'hai spezzata la catena? - gli chiese. - Sì, capitano Yanez. - Sicchè il passo è libero. - Completamente. - Il fuoco scema verso l'alto corso del fiume, mentre tende ad aumentare verso il basso, - mormorò Yanez. - Sarebbe meglio andarcene, prima che quei birboni possano tendere altre catene o che le loro scialuppe giungano qui. Checchè debba succedere, partiamo. La volta di verzura che copriva in quel luogo il fiume, era stata distrutta dall'uragano di fuoco che l'aveva investita, e sulle due rive più non rimanevano in piedi che pochi enormi tronchi di alberi della canfora, semi-carbonizzati e qualche tronco di durion che fiammeggiava ancora come una immensa torcia. Il fuoco invece avvampava terribile verso ponente, dove le foreste erano fino allora rimaste intatte, ossia dietro la Marianna. Il pericolo quindi che il veliero s'incendiasse, era ormai evitato. - Approfittiamo, - disse Yanez. - L'aria comincia a diventare un po' più respirabile e la brezza è sempre favorevole. Fece togliere l'immensa tela che grondava acqua, poi fece levare e quindi inferire le vele ai pennoni. Quelle manovre furono compiute rapidamente, fra una vera pioggia di cenere che la brezza avventava contro il veliero, accecando e facendo tossire gli uomini. Regnava ancora un caldo infernale sul fiume, essendo le due rive coperte da un altissimo strato di carboni ancora ardenti, tuttavia non vi era più pericolo di morire asfissiati. Alle quattro del mattino le àncore furono issate e la Marianna riprese la navigazione con notevole velocità, senza essere stata disturbata. I dayaki, che dovevano aver subite delle perdite crudeli, non si erano più fatti vedere. Forse l'incendio, che aumentava sempre verso ponente, li aveva obbligati ad una precipitosa ritirata. - Non si scorgono più, - disse Yanez al meticcio, che osservava le due rive sulle quali ondeggiavano ancora dense colonne di fumo e nembi di scintille. - Se ci lasciassero tranquilli almeno fino a che possiamo raggiungere l'imbarcadero! Che non abbiano capito che noi siamo persone risolute a difendere estremamente la pelle? Dopo le due lezioni ricevute, dovrebbero essersi persuasi che non siamo gallette pei loro denti. - Hanno capito, signor Yanez, che noi accorriamo in aiuto del mio padrone. - Eppure nessuno glielo ha detto. - Io scommetto che lo sapevano, prima ancora del vostro arrivo. Qualche servo ha tradito il segreto o ha uditi gli ordini dati da Tremal-Naik all'uomo che vi fu mandato. - Che sia così? - Quel malese che voi avete raccolto e che si offerse come pilota devono averlo mandato essi incontro alla Marianna. - Per Giove! Non mi ricordavo più di quel furfante! - esclamò Yanez. - Giacchè i dayaki ci lasciano un po' di tregua e l'incendio si spegne più in su, potremmo occuparci un po' di lui. Chissà che riusciamo a strappargli qualche preziosa informazione su quel misterioso pellegrino. - Se parlerà! - Se si ostinerà a rimaner muto, m'incarico io di fargli passare un brutto quarto d'ora. Vieni, Tangusa. - Raccomandò a Sambigliong di mantenere gli uomini ai loro posti di combattimento, temendo sempre qualche nuova sorpresa da parte di quegli ostinati nemici e scese nel quadro, dove la lampada bruciava ancora. In una cabina attigua al salotto, su un tettuccio, giaceva il pilota, sempre immerso nel sonno profondo, procurategli dalle compressioni energiche di Sambigliong. Un sonno regolare veramente non lo era. Il respiro era leggerissimo, tanto che si avrebbe potuto scambiare il malese per un vero morto, essendo anche la sua tinta diventata quasi grigiastra, come quando gli uomini di colore diventano pallidi. Yanez, che era stato istruito da Sambigliong, strofinò violentemente le tempie ed il petto dell'addormentato, poi gli alzò le braccia ripiegandole all'indietro più che potè onde dilatargli i polmoni, eseguendo quel movimento parecchie volte. Alla nona o alla decima mossa il malese aprì finalmente gli occhi, fissandoli sul portoghese con un lampo di terrore. - Come stai, amico? - gli chiese Yanez con accento un po' ironico. - Mentre noi combattevamo contro i tuoi alleati, tu dormivi saporitamente. Diventano poltroni i malesi. Il pilota continuava a guardarlo senza rispondere, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte che s'imperlava di sudore. Pareva che cercasse di riordinare le sue idee e di mano in mano che la memoria gli ritornava, la sua pelle diventava sempre più smorta ed una espressione angosciosa gli si diffondeva sul viso. - Orsù, - disse Yanez, - quand'è che ci farai udire la tua voce? - Che cosa è avvenuto, signore? - chiese finalmente Padada. - Non riesco a spiegarmi come io mi sia addormentato di colpo, dopo la stretta datami dal vostro mastro. - È cosa tanto poco interessante che non vale la pena che io te la spieghi, - rispose Yanez. - Tu invece dovresti darmi qualche spiegazione che mi premerebbe. - Quale? - Sapere chi è che ti ha mandato verso di noi per far arenare la mia nave sui banchi. - Vi giuro, signore ... - Lascia andare i giuramenti: già non credo a quelle cose io, mio caro. È inutile che tu ti ostini a negare: ti sei tradito e ti tengo in mia mano. Chi ti ha pagato per rovinare la mia nave? Tu stavi per incendiarla. - È una vostra supposizione, - balbettò il malese. - Basta, - disse Yanez. - Vuoi farmi perdere la pazienza? Voglio sapere chi è quel maledetto pellegrino che ha messo in armi i dayaki e che domanda la testa di Tremal-Naik. - Voi potete uccidermi, signore, ma non obbligarmi a dire delle cose ch'io ignoro. - Sicchè tu affermi? - Ch'io non ho mai veduto alcun pellegrino. - E che anche non hai mai avuto rapporti coi dayaki che mi hanno assalito? - Non mi sono mai occupato di costoro, signore, ve lo giuro su Vairang kidul2 (La regina del sud). Io stavo seguendo la costa per visitare le caverne, entro le quali le rondini salangane costruiscono i loro nidi, avendo ricevuto l'incarico di fornirne ad un cinese che ne abbisognava, quando un colpo di vento mi trasportò al largo trascinandomi, assieme al canotto, verso ponente. Vi ho incontrati per un caso. - Perchè sei pallido allora? - Signore, mi avete sottoposto ad una compressione tale che credevo mi si volesse strozzare e non mi sono ancora rimesso dall'impressione provata, - rispose il pilota. - Tu menti come un ragazzo, - disse Yanez. - Non vuoi confessare? Sta bene: vedremo se resisterai. - Che cosa volete fare, signore? - chiese il miserabile con voce tremante. - Tangusa, - disse Yanez, volgendosi verso il meticcio. - Lega le mani a questo traditore, poi conducilo in coperta. Se cerca di resistere bruciagli le cervella. - La mia pistola è carica, - rispose l'intendente di Tremal-Naik. Yanez uscì dal quadro e salì sul ponte, mentre il meticcio metteva in esecuzione l'ordine ricevuto, senza che il malese avesse osato ribellarsi.

. - Tangusa, - disse, volgendosi verso il meticcio, che non aveva abbandonata la barra. - Pare che si preparino a farci passare una brutta notte, gli ex coltivatori del tuo padrone. - Lo sospetto anch'io, signore, - rispose il meticcio. In quell'istante verso prora si udirono delle esclamazioni. - Lucciole! - O fuochi? - Guarda lassù. - Brucia il fiume! - Signor Yanez! Signor Yanez! Il portoghese in pochi salti fu sul castello di prora, dove si erano già radunati parecchi uomini dell'equipaggio. Tutto l'alto corso del fiume, che scendeva in linea quasi retta con leggeri serpeggiamenti, appariva coperto da miriadi di punti luminosi che ora si raggruppavano ed ora si disperdevano, per riunirsi poco dopo in linee ed in macchie foltissime. Yanez era rimasto talmente sorpreso, che stette per qualche minuto silenzioso. - Qualche fenomeno, capitano? - chiese Sambigliong. - È impossibile che quelle siano lucciole. - Nemmeno io lo credo, - rispose finalmente Yanez, la cui fronte si abbuiava sempre più. Tangusa che aveva affidato momentaneamente la barra a uno dei timonieri, era pure accorso, allarmato da quelle esclamazioni. - Sapresti dirmi di che cosa si tratta? - chiese Yanez, vedendolo. - Quelli sono fuochi che scendono il fiume, signore, - rispose il meticcio. - È impossibile! Se ognuno di quei punti luminosi segnalasse una barca, ve ne dovrebbero essere delle migliaia e non credo che i dayaki ne posseggano tante, nemmeno riunendo tutte quelle che si trovano sui fiumi bornesi. - Eppure sono fuochi, - replicò Tangusa. - Accesi dove? - Non so, signore. - Su dei tronchi d'albero? - Non saprei dirvelo. - Il fatto è che quei fuochi s'avvicinano, capitano, e che la Marianna potrebbe correre il pericolo d'incendiarsi. Yanez lanciò un "per Giove!" tuonante che fece stupire Sambigliong, che non l'aveva mai veduto prima d'allora uscire dai gangheri. - Che cos'hanno preparato quelle canaglie? - esclamò il bravo portoghese. - Capitano, prepariamo per maggior precauzione le pompe. - E arma i nostri uomini di buttafuori e di manovelle per allontanare quei fuochi. Questi maledetti selvaggi cercano d'incendiare la nostra nave. Su lesti, Tigrotti miei: non vi è tempo da perdere. Quelle centinaia e centinaia di punti luminosi ingrandivano a vista d'occhio, trascinati dalla corrente e coprivano un tratto immenso di fiume. Scendevano a gruppi, danzando con un effetto meraviglioso, che in altre occasioni Yanez avrebbe certamente ammirato, ma non in quel momento. Giravano su loro stessi, seguendo i gorghi, formando delle linee circolari e delle spirali, che poi bruscamente si rompevano, oppure delle linee rette che poi diventavano delle serpentine. Un gran numero filava lungo le rive; molti invece, anzi i più danzavano in mezzo, essendo la corrente ivi più rapida. Dove posassero nessuno poteva dirlo, essendo la notte oscura, anche a causa dell'ombra proiettata dalle piante altissime che coprivano le rive. Certo però dovevano ardere su dei minuscoli galleggianti. Tutto l'equipaggio, armatosi frettolosamente di buttafuori, di pennoni, di aste e di manovelle, si era disposto lungo i fianchi della Marianna per allontanare quei fuochi pericolosi. Alcuni erano scesi nella rete delle dolfiniere del bompresso e nelle bancazze per poter meglio agire. - Sempre in mezzo al fiume! - aveva gridato Yanez a Tangusa, che aveva ripresa la barra del timone. - Se prenderemo fuoco, faremo presto a poggiare sull'una o sull'altra riva. La flottiglia giungeva a ondate, correndo addosso alla Marianna la quale s'avanzava lentamente essendo il vento debolissimo. - Recatemi uno di quei fuochi, - disse Yanez ai malesi che si erano calati nella rete della dolfiniera, la cui estremità inferiore sfiorava quasi l'acqua. Tutti i marinai si erano messi all'opera, vibrando furiosi colpi di buttafuori e di manovelle su quei fuochi galleggianti che ormai circondavano la Marianna. Un malese, presone uno, lo aveva recato a Yanez. Si componeva d'una mezza noce di cocco, piena di bambace inzuppato d'una materia resinosa e attaccaticcia che ardeva meglio dell'olio vegetale, di cui fanno ordinariamente uso i bornesi al pari dei siamesi. - Ah! Bricconi! - aveva esclamato il portoghese. - Ecco una trovata meravigliosa che io non avrei mai immaginata! Come sono diventati furbi, da un momento all'altro, questi dayaki! Tigrotti, date dentro a tutta lena; se questo cotone s'attacca ai madieri, arrostiremo come anitre allo spiedo. Aveva gettato via il guscio di cocco e si era slanciato a prora, dov'era maggiore il pericolo, perchè quei fuochi investendo il tagliamare si rovesciavano in gran numero e la materia attaccaticcia e resinosa ond'era imbevuto il cotone poteva attaccarsi al fasciame, dove avrebbe trovato buon alimento nel catrame che lo copriva. I Tigrotti, che avevano compreso il gravissimo pericolo che correva il veliero, non risparmiavano i colpi. Specialmente quelli che si trovavano nella rete della dolfiniera ed a cavalcioni delle trinche, avevano un bel da fare a rovesciare quei minuscoli galleggianti, che giungevano sempre a ondate, scivolando e capovolgendosi lungo i fianchi della Marianna. Tuttavia dei fuochi di cotone di quando in quando s'appiccicavano al fasciame, ed il catrame subito prendeva fuoco, sviluppando un fumo denso ed acre. Guai se quel legno avesse avuto un equipaggio poco numeroso! Le tigri di Mompracem fortunatamente erano bastanti per sorvegliare tutti i bordi e, quando il fuoco cominciava a manifestarsi, le pompe lo spegnevano di colpo con un abbondante getto d'acqua. Quella strana lotta durò una buona mezz'ora, poi i pericolosi galleggianti cominciarono a diradarsi e finalmente cessarono di sfilare, scomparendo verso il basso corso del fiume. - Che ci preparino ora qualche altra sorpresa? - disse Yanez che aveva raggiunto il meticcio. - Vedendo il loro criminoso tentativo andato a male, escogiteranno qualche cosa d'altro. Che cosa ne dici, Tangusa? - Che noi non giungeremo all'imbarcadero del kampong, senza che i dayaki ci diano una seconda battaglia, signor Yanez, - rispose il meticcio. - La preferirei a qualche altra sorpresa, mio caro. Finora però non vedo alcuna scialuppa. - Non siamo ancora giunti, anzi tarderemo assai con questo vento così debole. Se non aumenta, invece del mezzodì dovremo faticare fino alla sera di domani. - E ciò mi rincrescerebbe. Ohè, Tigrotti, aprite gli occhi e tenete le armi in coperta. I tagliatori di teste ci spiano di certo. Accese una sigaretta e si sedette sul capo di banda di poppa, per meglio sorvegliare le due rive. La Marianna, sfuggita miracolosamente a quel secondo pericolo, s'avanzava sempre più lenta, essendo scemata la brezza. Nessun rumore si udiva sulle rive, che erano sempre coperte da alberi immensi che stendevano i loro rami mostruosi sul fiume, rendendo maggiore l'oscurità, eppure nessuno dubitava che degli occhi seguissero nascostamente il veliero. Era impossibile che i dayaki, dopo quel tentativo che per poco non riusciva, avessero rinunciato all'idea di distruggere quella piccola sì, ma poderosa nave che aveva inflitto loro quella sanguinosa sconfitta. Altre cinque o sei miglia erano state guadagnate, senza che alcun nuovo avvenimento fosse accaduto, quando Yanez scorse, sotto le foreste, scintillare dei punti luminosi che apparivano e scomparivano con grande rapidità. Pareva che degli uomini muniti di torce corressero disperatamente fra gli alberi, scomparendo subito in mezzo ai cespugli. Poi dei sibili si udivano in varie direzioni che non dovevano essere mandati da serpenti. - Sono segnali, - disse il meticcio, prevenendo la domanda che Yanez stava per rivolgergli. - Non ne dubitavo, - rispose il portoghese, che ricominciava ad inquietarsi. - Che cosa ci prepareranno ora? - Una sorpresa non migliore dell'altra di certo, signore. Ci vogliono impedire a qualunque costo di giungere all'imbarcadero. - Comincio ad averne le tasche piene, - disse Yanez. - Almeno si mostrassero e ci attaccassero risolutamente. - Sanno che siamo forti e che non manchiamo di artiglierie, signore, ed un assalto diretto non lo tenteranno. - Eppure sento per istinto che quei bricconi preparano qualche cosa contro di noi. - Non dico il contrario e vi consiglierei di non far disarmare le pompe. - Temi che ci mandino addosso un'altra flottiglia di noci di cocco? Invece di rispondere, il meticcio si era vivamente alzato, dando un colpo di barra al timone. - Siamo al passo più stretto del fiume, signor Yanez, - disse poi. - Prudenza o daremo dentro a qualche banco. Il fiume, che fino allora si era mantenuto abbastanza largo, permettendo alla Marianna di manovrare liberamente, si era repentinamente ristretto in modo che i rami degli alberi s'incrociavano. L'oscurità era diventata ad un tratto così profonda che Yanez non riusciva più a discernere le sponde. - Bel luogo per tentare un abbordaggio, - mormorò. - E anche per fucilarci per bene, signore, - aggiunse Tangusa. - Punta le spingarde verso le due rive, Sambigliong! - gridò Yanez. Gli uomini addetti al servizio delle grosse bocche da fuoco avevano appena eseguito quell'ordine, quando la Marianna, che da alcuni minuti aveva accelerata la corsa essendo la brezza diventata più fresca, urtò bruscamente contro un ostacolo che la fece deviare verso babordo. - Che cosa è avvenuto? - gridò Yanez. - Ci siamo arenati? - Ma no, capitano, - rispose Sambigliong che si era slanciato verso prora. - La Marianna galleggia! Il meticcio con un colpo di barra rimise il legno sulla rotta primiera, quando avvenne un secondo urto e la Marianna tornò a deviare indietreggiando di alcuni passi. - Come va questa faccenda? - gridò Yanez, raggiungendo Sambigliong. - Vi è una linea di scoglietti dinanzi a noi? - Non ne vedo, capitano. - Eppure non possiamo passare. Fa' calare in acqua qualcuno. Un malese gettò una fune e dopo averla assicurata, si lasciò scivolare, mentre il veliero per la terza volta tornava a indietreggiare. Yanez e Sambigliong, curvi sulla murata prodiera guardavano ansiosamente il malese che si era gettato a nuoto per cercare l'ostacolo che impediva al legno di avanzare. - Scogliere? - chiese Yanez. - No, capitano, - rispose il marinaio, che continuava a inoltrarsi tuffandosi di quando in quando, senza preoccuparsi dei gaviali che potevano mozzargli le gambe. - Che cos'è dunque? - Ah! Signore! Hanno tesa una catena sott'acqua, e non possiamo avanzare se non la taglieremo. Nel medesimo istante una voce poderosa s'alzò fra gli alberi della riva sinistra, gridando in un inglese molto gutturale: - Arrendetevi, Tigri di Mompracem, o noi vi stermineremo tutti!

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682524
Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Non vi è venditrice di acqua minerale, di noci, di frutta fracide, di ciambellette, di spassatiempo che guadagni, quando li guadagna, più di dodici o quindici soldi al giorno e, se è sola, se è vedova, se è abbandonata dal marito, come potrebbe pagarne diciassette, al giorno, per il pigione di casa? In breve: come era naturale, non un solo luciano , non una sola luciana è andata ad abitare al Borgo Marinai. Non uno, una! Hanno preferito, ostinatamente, le loro vecchie, dirute, sudicissime case che, per diciotto anni, hanno aspettato il piccone, ove pagavano nove o dieci lire il mese, di pigione - è TUTTO ciò che può pagare il popolo napoletano NOVE o DIECI LIRE il mese! - e negli ultimi due anni, man mano si sono ritirati più indietro, nelle medesime catapecchie, e scacciati dalle demolizioni, sono rientrati, rientrano la notte ad abitare le rovine, e si gittano alle ginocchia dei demolitori, per non essere perseguitati dalle guardie, dai carabinieri, e piangono, e gridano, e urlano, non vogliono andar via, non sanno andar via, e alcuni di essi, o pietà grande, abitano, adesso, nelle grotte onde è forato il monte Echia che sovrasta santa Lucia, e talvolta una di queste grotte frana sulle teste, sui corpi di questi miseri luciani che dormono, e li uccide. Intanto dirimpetto, sotto il forte Ovo, il Borgo Marinai scintilla di lumi che si riflettono nelle acque del mare. Chi vi abita, chi vi vive, mai? Pittori che scelsero quei quartini per istudio, poichè il posto è pittoresco; qualche loro modella; delle ballerine o delle chanteuses del vicino cafè chantant dell'Eldorado, che prendono in affitto, per un mese, per quindici giorni, una cameretta con cucina; qualche donnina di facile vita e misera fortuna; e altra minuta gente, non del popolo. In quanto alle botteghe, esse in un vasto angolo, sono tutte trasformate in osterie grandi e piccole, alcune carissime, altre modeste, altre vere taverne e vi si aspira un'aria mefitica di cucine più o meno malsane, e nel piccolo porto cadono tutti i detriti di queste taverne e ciò contrista, affligge, avvilisce i due eleganti clubs dei canottieri che sono sulla riva accanto. A ogni modo il Borgo Marinai è vivido, lieto, curioso: e inutile, infine, anche al santo scopo a cui serviva. I luciani sono d'altra parte respinti di stamberga in stamberga, respinti di rovina in rovina, di grotta in grotta. E dopo, quando tutto, tutto sarà demolito dove andranno questi superbi ma poverissimi popolani, quelle fiere, ma miserissime popolane dove andranno? Lo sa Iddio! Anche le case del popolo costruite all'Arenaccia, nel Quartiere Orientale hanno fallito completamente la meta. Il minor prezzo di ognuno di questi quartini, è ventisette lire il mese; si domandano due mesate anticipate, per regolamento, cioè cinquantaquattro lire: o si domanda un garante solido. Anzi tutto, dove è mai un vero popolano che possa pagare ventisette lire il mese, di pigione? Per poter cavare questa somma, un napoletano del popolo deve guadagnare almeno due lire e cinquanta al giorno, o tre lire: e allora, qui da noi, non è più un popolano, è già un operaio, ma di quelli fortunatissimi, di opera eletta, diciamo così: è già un civile, è già appartenente alla piccola borghesia. Dove, dove è il popolano che disponga, mai, nella sua vita di cinquantaquattro lire tutte insieme? Dove, dove è il popolano che trovi un garante solido? Ah che nessuno, nessuno si convince che qui, il popolo nostro, vive di soldi e non vive di lire, che gitta la sua gioventù, la sua salute e la sua forza in fatiche compensate irrisoriamente, felice, anche, di trovarla, questa fatica; che, per istinto, poichè nessuno pensò a educarlo, preferisce spendere i suoi soldi più nel mangiare, che nell'aver una casa e delle vesti e che quando ha venti soldi, quindici, almeno, gli servono pel suo pranzo e il resto, pel resto! Ventisette lire il mese! Cinquantaquattro lire di anticipo! Un garante solido! Quale ironia insultante! Nelle case del popolo, all'Arenaccia, nel Quartiere Orientale non abitano, dunque, che gli operai eleganti, diciamo così, e tutta la piccola borghesia, piccoli impiegati, commessi, contabili, uscieri, scritturali e, persino, dei cancellieri di tribunale: non abitano che tutti coloro, il cui bilancio familiare fluttua da settantacinque lire a cento lire il mese, posizione, già molto brillante, in questo nostro paese. Borghesia, borghesia minuta, modesta, innumerevole come le stelle del cielo e le arene del mare, borghesia lavoratrice, onesta, ma, come si vede, molto povera, per la sua condizione: borghesia, non altro che borghesia, nelle case del popolo, ma niente popolo, mai! Vi è di più. Spesso, a questi operai fortunati, a questi oscuri borghesi dalla decente miseria, è impossibile pagare ventisette lire al mese, perchè vi sono spesso, cioè, non spesso, sempre, dei figli, e spesso, quasi sempre molti figli, poichè la fecondità femminile, la prolificazione, sovra tutto in certe classi, assume proporzioni assai patriarcali, ma, anche, terrificanti. E allora si trova il rimedio peggiore e migliore; sono due le famiglie che prendono in affitto la casa di ventisette lire, stringendosi, stringendosi, mettendosi in tre, in quattro in una stanza, avendo la piccola cucina comune e allora, addio aria, addio luce, addio igiene! Spesso una famiglia subaffitta una camera a studenti, a uomini soli e la vita è comune e tanto nel primo, come nel secondo caso l'agglomerazione, i contatti, il vivere gli uni sugli altri, conduce, novellamente, alla sporcizia, alla malattia, al vizio, alla corruzione e alla depravazione. In quei nuovi caravanserragli, laggiù, laggiù, in questi caravanserragli già tutti deturpati, dall'aspetto già sconquassato, dalle macchie di sudiceria trapelanti dai muri, dai vetri già appannati e dalle cui finestre, come nei quartieri antichi, pendono le biancherie di dubbio colore, mal lavate, e i mazzi di pomidoro e i mazzi di agli, in questi derisorii caravanserragli che dovevano servire alla rigenerazione fisica e morale del popolo napoletano, si svolgono, ogni giorno, drammi dolorosi venuti, appunto, dalla povertà e dalla degenerazione, si svolgono farse grottesche e si vive colà, male, malissimo, come si viveva altrove, e per una folla che, per abnegazione, per virtù naturale, per onestà natia conserva la decenza dei costumi, ve ne è un'altra che ha trasportato, colà, tutti i suoi istinti indomabili, indomati, che niuno ha cercato di domare, che ha impiantato, colà, una novella vita brulicante e scostumata come nei vecchi quartieri, che, infine, se pure non ruba, se pure non assassina, altri essendo i covi e le caverne del ladri e degli assassini, mette, accanto alla folla borghese e decente, una nota di più bassa borghesia, indecente, rumorosa, screanzata, villana, repugnante. Non popolo, non popolo! Il popolo napoletano è restato nei suoi bassi dei vecchi quartieri, nei suoi bassi dei quartieri non risanati, nei bassi purtroppo, del Vasto, dell'Arenaccia, del Quartiere Orientale; non è mai salito, in nessun posto, di Napoli antica, di Napoli nuova, al primo piano o all'ultimo piano, perchè non può pagare i prezzi, anche minimi che vi si pagano, perchè chi ha costruite quelle case non sapeva niente, ignorava tutto e, intanto, ha fatto una ottima speculazione, poichè tutte quelle case sono affittate, come ho detto; ma lo ripeto, e lo ripeterò sempre, il popolo napoletano non si è mosso dal suo basso , dovunque il basso si trovi, sia una bottega quasi pulita o sia un buco oscuro e insalubre Così, purtroppo, tutte le grandi idee dei grandi uomini, tutti i vasti progetti, a base di milioni, tutte le intraprese colossali, che volevano il risanamento igienico e morale di Napoli, bisogna dirlo hanno fatto fiasco. E non vi è rimedio, dunque? Non vi è altro da fare? Nulla, proprio, di fronte a tante tristezze, a tanti disastri, a tanti pericoli sociali? Chi sa! Vedremo!

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