Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonata

Numero di risultati: 9 in 1 pagine

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La tecnica della pittura

253981
Previati, Gaetano 3 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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Ma, come osserva sir Eastlake, tale ripiego non sarebbe applicabile sui muri e sulle tavole; senza dire che il consiglio veniva troppo tardi, essendo la tempera completamente abbandonata all’epoca del Vasari.

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Il restauro, sino dalle sue più lontane memorie, anzichè essere informato dallo spirito di conservazione, vale a dire di un provvido intervento per arrestare le cause della visibile rovina dei dipinti o porre riparo a quelle condizioni per cui un’opera di pittura abbandonata a sè stessa finirebbe col distruggersi, si vede prendere le mosse da quell’impulso istintivo di rivendicazione dei danni prodotti dal tempo, che se è giustificabile, secondo la logica dei nostri sentimenti, non rimane però meno sproporzionato ai mezzi positivi dell’arte, coi quali se è dato in certa misura cooperare al più lungo godimento delie opere, non è possibile tuttavia ottenere il ritorno dei dipinti guasti al loro aspetto integrale primitivo.

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Si ritiene condotto il più antico buon fresco nel 1391 da Pietro d’Orvieto nel Camposanto di Pisa; nè l’usanza del prepararne il disegno sull’arricciato fu così presto abbandonata, tanta era la forza delle tradizioni scolastiche in quei tempi, e quanto dice il Vasari, nella vita di Simone e Lippo Memmi, di un fresco non finito di Lippo, che, in Assisi, mostrava il contorno segnato di rossaccio col pennello in sull’arricciato, ebbe poi a mostrarsi in guasti avvenuti nelle pitture del Camposanto di Pisa (quelle del portico settentrionale) di Benozzo, e in altre di Simone, di Laurati e di Spinello.

Pagina 58

Racconti 3

662750
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Se ci fossimo sposati, come due o tre volte, nei giorni piú felici, io le avevo proposto, a quest'ora ella non sarebbe chi sa dove, abbandonata a chi sa quale destino, né io qui solo, con uno sgomento nel cuore che mi dà la sensazione della inutilità della mia vita. L'ultima volta che io le ripetei, insistendo, quella proposta, ella rispose: - Che temi? Non dobbiamo essere piú orgogliosi di sentirci legati spontaneamente, invece di saperci legati quasi per forza dal giuramento civile e religioso? - E nota ch'ella si sdegnava quando sentiva parlare di divorzio. Ella pensava che la gran virtú del matrimonio insolubile consiste appunto nel salvarci, nostro malgrado, dalle viltà e dalle aberrazioni prodotte da passeggere circostanze che poi si lasciano dietro grandi rimpianti. Ella pensava anche che il matrimonio civile è incompleto se non va accompagnato al religioso; e non era fervida praticante. Soltanto ora comprendo la immensità del suo sacrifizio. Ella ha voluto che io fossi libero di dividermi da lei il giorno in cui mi fossi accorto di non poter piú vivere insieme, il giorno in cui ella avrebbe potuto essere un ostacolo, un impaccio, una gravezza con qualche ragione e anche senza nessuna ragione. La colpa è stata di tutti e due, piú mia che sua però. Giacché io ho dovuto essere un enimma per lei, che non è mai riuscita a penetrare se i miei atti e le mie parole fossero in contraddizione coi miei sentimenti, coi miei pensieri. E lei si è quindi sforzata di parere un enimma anche a me imitandomi in tutto, quasi per mettersi all'unisono con me, quando avrebbe dovuto, invece, lasciar trasparire la discordanza e mostrarsi proprio quale era. Cinque anni di stupida finzione da l'una parte e dall'altra; cinque anni di balorda commedia divenuta a poco a poco abitudine da non permetterci piú di riconoscere se quella nostra vita fosse una finzione o una realtà, e se noi non ci esaurissimo con quel cattivo gioco di cui ci compiacevamo come di un necessario elemento di felicità. E ci siamo esauriti, fino a non riconoscerci piú, fino a credere che oramai non avevamo piú niente da dirci, né da sentire insieme, e che era inutile e sciocco il continuare la prova. Ed io - la prima parola di accenno è venuta da lei - ho potuto sospettare ch'ella si fosse stancata o che qualche altro avesse preso il mio posto nel suo cuore! Ho avuto la spudoratezza di scrivertelo in questa stessa lettera quantunque fossi già convinto dal contrario, tanto l'abitudine di fingere e di mentire, per vanità di apparire affatto diversi dagli altri, superiori agli altri ed emancipati da qualunque pretesa convenzione sociale, persiste in noi anche nei momenti, come questi, che avrei dovuto essere sincerissimo. Ero risoluto di esser tale, per soddisfare un impeto del mio povero cuore, e intanto - hai visto? - ho cominciato la lettera lasciando parlare il finto me, il mentitore me, quello che tu chiami lo scettico e che è invece il miserabile vanitoso che pretende di apparir superuomo! Oh! Ci sarebbe un rimedio a tanto disastro: richiamare telegraficamente Teresa, ricominciare da capo, svelarle il segreto della mia miseria spirituale ... Ma chi le assicurerebbe che io non mentisco ora come ho saputo mentire per cinque anni? ... E chi mi assicura - caro Poldo, compiangimi, sono arrivato fino a questo! - chi mi assicura che questa resipiscenza, questo scoppio di sincerità non sia un inganno di quella stessa vanità che mi ha ridotto qual sono? E gli intimi «io» multipli mi si accapigliano dentro come i sette spiriti di quel tale e parlano tutti a una volta. E uno mi dice: - Lascia andare! Meglio cosí! - E un altro mi dice: - Troppo tardi ti sei accorto del tuo grand'amore per Teresa! Ormai! Ormai! - E un altro mi suggerisce: - Niente è perduto! Ella ti ama troppo da non essere felice di ricominciare da capo! - E un altro: - Non far ridere la gente della tua debolezza di spirito. La vita è una commedia; rappresentala bene fino all'ultima scena! - Ed è quel che piú s'impone a me, quantunque il suo suggerimento sia quello che mi fa piú soffrire e che non cesserà di farmi soffrire! Ho tralasciato di scrivere e mi sono aggirato, come uno sperduto, per queste stanze dove è rimasta la impronta del suo cuore, del suo spirito con la suprema eleganza della disposizione dei mobili, dei quadri, delle stampe, dei ninnoli, e direi quasi della luce e dei colori, perché tutto è opera di lei. L'unica trasformazione da lei voluta fare una settimana prima di partire è stata quella del suo salottino, ora mezzo vuoto, con un'espressione di tristezza, come di luogo saccheggiato da violenza sacrilega. Ed io non l'ho impedita! Ed io l'ho compiacentemente aiutata con inconsapevolezza che ha dovuto essere ineffabile strazio per lei! Ed ho potuto telegrafarti i saluti di Teresa e soggiungere: Incipit vita nova! No, continua e continuerà la misera vita bugiarda! E mi durerà questo sgomento, giusto castigo dell'aver falsato violentemente in me la natura umana per vanità, per orgoglio di esser stimato un ribelle, un vincitore su tutte le leggi sociali! Ed ero un vinto! Debbo riconoscerlo ... 2@ 2 pomeridiane. Ho riletto questa lettera. È assurda! Spero che tu non la giudicherai sincera ... Ho esitato a spedirtela ... e la spedirò ... La commedia continua! Applaudisci o fischia: non me ne importa niente. Ci rivedremo presto. Tuo aff.mo CESARE

Non avrei saputo dirla in quei giorni, fino al mattino in cui, svegliatomi prima di lei, e contemplandola, al fioco lume della lampadina da notte, abbandonata sui guanciali, coi nerissimi capelli disciolti e il petto lievemente ansante pel respiro, contemplandola piú come deliziosa visione d'arte che come realtà, all'improvviso ebbi coscienza della natura di quell'indefinito sgomento che da parecchie settimane mi rendeva pensoso e distratto. - Mi ama davvero? Per quale nascosto scopo vuol darmi a intendere che mi ama? - Ora mi pareva impossibile che la dolcissima creatura che avrebbe potuto aspirare per bellezza, per bontà, per intelligenza, a un'unione piú degna di lei, si fosse lasciata indurre a sposare me non ricco, quasi brutto, con l'unico prestigio di un po' di abilità ... o di qualcosa di piú, via, nella mia arte di scultore, e di una discreta cultura che, secondo certi critici, ha molto nociuto al mio ingegno di artista. - Questa botta tocca anche a me! - disse Blesio, ridendo. - Tu hai avuto sempre il torto di badar troppo a quel che scriviamo noi pretesi critici d'arte. Lasciaci cantare! Lavora -. Si scorgeva però che il riso di Blesio era sforzato, e che tentava di nascondere il triste presentimento di quel che poteva da un momento all'altro accadere, se l'eccessivo perturbamento del suo amico non si fosse arrestato. Raimondo fece una spallucciata, e continuò: - Da prima scacciai via sdegnosamente come indegno di me e di lei l'importuno pensiero. Ma già un'intima voce tornava insistente a sussurrarmelo a ogni nuova manifestazione di affetto prodigatami da Delia. Allora, la prendevo per le mani, la fissavo tenendola ferma innanzi a me, interrogandola: «Mi ami davvero? Di': mi ami davvero?» e lo stupore che si manifestava sul bel volto di Delia e il doloroso sorriso che le spuntava su le labbra prima della timida risposta: «Perché me lo domandi?» invece di farmi comprendere la sciocchezza e la villania della mia interrogazione, mi sembravano involontaria conferma di quel dubbio anche quando ella, liberatasi rapidamente dalla stretta delle mie mani, aggrappandomisi al collo con l'abituale gesto di suprema grazia affettuosa, mi baciava e ribaciava, senza aggiungere una sola parola. Pareva volesse dirmi: «Sei contento? ... Si bacia cosí soltanto quando si ama davvero!» Quella muta risposta però non mi appagava; né avrei saputo dire intanto qual'altra avrebbe potuto ella darmene per disperdere il mio dubbio. Mi tornava in mente il motto di quel diplomatico, che la parola ci è stata data per nascondere il nostro pensiero. Quei baci erano meno della parola, o qualcosa di eguale, o anche qualcosa di poco piú; non me n'importava. Sapevo, caro Blesio, che il pensiero di una persona può irridersi facilmente di qualunque altrui violenza per scoprirlo. Passarono parecchi mesi prima che mi balenasse l'idea di servirmi dell'azione magnetica per ottenere, all'insaputa di lei, la schietta rivelazione della verità. E anche dopo concepitone il disegno, esitai ancora per altri mesi, temendo di poter produrre irrimediabili disturbi in quel sensibilissimo organismo, che alle minime impressioni vedevo sobbalzare quasi fosse stato punto da uno spillo, o toccato da un carbone ardente. Mi trattenne pure, dopo che ero già risoluto, il leggero velo di tristezza che le mie ripetute domande: «Mi ami davvero? ... Di' mi ami davvero?» avevano steso sul volto di Delia, e il lieve tremito della sua voce che mi pareva rivelasse, invece della parola, la protesta del suo cuore: «Perché dubiti di me?» Infatti, perché dubitavo? Perché - e questo era il peggio - non ricevendo risposte che mi soddisfacessero, perché mi sentivo, a poco a poco, distaccare da Delia, quasi la sua bella manina mi allontanasse e volesse tenermi a distanza? Dall'ampia vetrata del mio studio, la vedevo comparire ogni mattina nel giardinetto, con la preferita vestaglia color crema, ornata di larghi nastri rossi, coi capelli nerissimi appena ravviati e che le davano intanto un'aria di arcaica eleganza seducentissima. Si aggirava lentamente pei viali, si fermava, riprendeva ad andare o a cogliere fiori dai vasi e dalle aiuole che ella stessa coltivava con arte di giardiniera provetta. Di tanto in tanto, alzava il capo verso la vetrata, guardava intenta, quasi si attendesse di vedermi col viso incollato ai vetri per osservarla; e crollava la testa, delusa, mortificata. Lo capivo, perché potevo benissimo vederla senz'essere visto. Perché fingevo la sorpresa com'ella entrava nel mio studio, esitando su la soglia con la cestina colma di fiori, quasi simile alla bionda Flora tizianesca della Galleria degli Uffizi? ... Cominciavo a sentire, e ne avevo dispetto, un senso di lieve rancore per quella che mi sembrava sua ostentazione d'ingannarmi. Non so che cosa avrei poi fatto, se Delia mi avesse risposto: «No, non t'amo! Meriti forse di essere amato?» Da due settimane, notte per notte, mentr'ella dormiva al mio fianco, io m'ingegnavo di saturarla del mio fluido, come avevo appreso dai libri letti e studiati per tale scopo. Ella non doveva accorgersi della mia intenzione di addormentarla; temevo che, richiesta di accondiscendere, si rifiutasse. E durante la giornata spiavo se mai apparisse in lei qualche sintomo da rivelarmi che la mia azione magnetica fosse riuscita a dominarla. Niente! Già disperavo del buon resultato, quando un pomeriggio ... Oh, tu non puoi farti un'idea della profonda commozione che mi assalí in quel momento! Delia avea voluto posare da modello per una figurina di donna commissionatami da un americano. «Sta' ferma, cosí!» le dissi vivamente, lieto dell'atteggiamento da lei preso appena sedutasi davanti a me poco lontana dal cavalletto. La vidi irrigidirsi, chiudere gli occhi, impallidita, col respiro ansante ... Era entrata, quando meno me l'aspettavo, nel piú profondo sonno magnetico. Ne fui spaventato, come se avessi compiuto su lei il piú vile dei delitti colpendola a tradimento. Rinfrancatomi un po' e presala pei pollici con mani tremanti, mi affrettai però a interrogarla: «Dormi?» «Sí». «Sei lucida?» «Lucidissima». «Potresti leggermi nel pensiero?» «Sí. Tu dubiti ... » «Ecco - la interruppi, facendo gli opportuni passaggi. - Ecco la mano di una persona che tu non conosci: è moglie di un mio amico. Ama il marito? ... Osserva bene». E cosí dicendo le avevo messo in una mano l'altra sua mano. Vidi che la stringeva forte, corrugando la fronte, abbassando la testa in atto di scrutare. «Lo ama tanto!» «Non t'inganni?» «No. Il cuore di costei è come un limpidissimo fonte di cui si scorge nettamente il fondo. L'ama. Oh, tanto!» replicò. «Osserva meglio» insistei. «Non occorre. Povera donna! Ha già capito che egli dubita, e piange spesso, in segreto. È dunque cieco costui da non accorgersi che quegli occhi hanno pianto? È strano: io provo la stessa sofferenza di lei ... Devo piangere, come lei ... Lasciami piangere!» E copiose lacrime le inondarono il volto accompagnate da singhiozzi. Attesi che si sfogasse un po'. «Ora ti sveglio - la suggestionai. - Non dovrai ricordarti di niente». «Non mi ricorderò di niente». Le ripresi i pollici, aspirando, perché sapevo che cosí doveva farsi per riattirarmi il fluido; e nel momento in cui ella riapriva gli occhi, finsi, sorridendo, di aggiustarle la testa per la posa. «Cosí!» E mi misi a lavorare come se niente fosse stato. Avrei dovuto esser pago dell'esperimento; ma sapevo che i soggetti, come li chiamano, possono mentire anche durante la inconsapevolezza del sonno magnetico. Non era il caso di Delia? Per ciò ripetei per un'intera settimana, col pretesto delle pose, due o tre volte il giorno, l'esperimento e sempre con l'identico resultato, quantunque io avessi fatto ogni sforzo per indurre Delia ad essere veramente sincera. E questo, forse - anzi senza forse, ora ne sono convinto - ha prodotto gli incredibili fenomeni che per un intero anno mi han dato l'impressione di una vita fuori della vita, d'una vita che non so distinguere se sia stata sogno o realtà, e che aggiungerà presto un'altra catastrofe a quella avvenuta tre mesi addietro. - Eh, via! Non dire cosí! - esclamò Blesio. - A furia d'immaginare la possibilità di una disgrazia, noi contribuiamo spessissimo a farla accadere davvero -. Raimondo Palli portò le mani alla fronte e alle tempie, premendo, quasi volesse impedire che gli scoppiassero: poi, rigettati indietro, con vivace movimento della testa, i folti capelli, e socchiudendo gli occhi, riprese: - Una mattina, dovetti accorgermi che Delia mi sfuggiva di mano, resistendo alla mia volontà, non cadendo piú nel sonno magnetico cosí facilmente provocato ed ottenuto fino allora. Posava per gli ultimi tocchi della mia figurina, che era e non era il suo ritratto perché io avevo sentito ripugnanza di vendere a un estranio la precisa immagine di mia moglie. Le solite parole: «Sta' ferma! Cosí!» che le altre volte erano bastate a farla istantaneamente addormentare, riuscivano inefficaci quantunque replicate piú volte. «Che cosa vuoi farmi? ... Che cosa mi hai fatto?» ella domandò, diffidente, guardandomi fisso negli occhi. E siccome io non avevo saputo risponderle, stupito di sentirla parlare a quel modo, ella soggiunse: «Mi sembra di avere qualcosa di strano dentro di me, qualcosa che mi scote, che m'eccita ... Non so come esprimermi ... Oh! oh! ... Veggo, ma non cogli occhi, lontano, fin in fondo al giardino ... Laggiú, nell'aiuola a destra, un gatto raspa la terra e danneggia le pianticine di violette! ... È possibile? ... Vieni; andiamo a vedere!» E mi trascinò per mano fuori dello studio, laggiú, dove un gatto faceva precisamente quel ch'ella aveva visto stando a sedere presso il cavalletto, da un punto dove si scorgevano appena le cime degli alberi del giardino smosse dal vento dietro la vetrata. «Sei diventata una veggente» le dissi con tono di voce che voleva essere scherzoso e non nascondeva intanto il mio stupore. «Male! - ella rispose con improvvisa serietà. - È assai meglio non vedere! ... È assai meglio ignorare!» Non aggiunse altro, né io le seppi dir altro -. Blesio, impensierito dell'esaltazione del suo amico, resa piú manifesta dalla crescente irrequietezza delle mani e dai rapidi alteramenti della voce in evidente contrasto con la minuziosa limpida narrazione, tentò novamente d'impedirgli di proseguire. - Non stancarti; ho già capito, sei stato un po' imprudente, forse. - Forse? ... Troppo dovresti dire. - riprese Raimondo Palli. - Troppo! E, implorando con lo sguardo, continuò: - Da quel giorno in poi, caro Blesio, io ho assistito a tali portenti di chiaroveggenza da far perdere l'equilibrio a qualunque piú solido intelletto. Non osai piú d'interrogarla: «Mi ami? Di', mi ami davvero?» Ma Delia sentiva anche da una stanza all'altra le vibrazioni del mio pensiero, come se le nostre anime, fuse insieme, pensassero la stessa cosa, nello stesso momento. La vedevo apparire su la soglia del mio studio, col viso contratto da dolore intenso; e la sua voce piena di lacrime mi rimproverava: «Perché dubiti di me? Lo sento; non negarlo! Che cosa dovrei fare, parla! per darti la prova suprema dell'immenso amore mio?» Pietà, o vigliaccheria, io mi ostinavo a negare. Inutilmente. La vedevo andare via niente convinta delle affettuose parole, delle carezze, dei baci che - lo capivo dopo - non producevano su lei l'effetto voluto per l'esagerazione a cui mi induceva la paura di non poter piú sfuggire a quell'ispezione che mi aveva ridotto in uno stato peggiore di ogni peggiore schiavitú. Come? Non sarei piú stato libero di formolare un'idea, un desiderio, una speranza, senza che Delia non venisse a dirmi: «Sí, è una buona idea; dovresti attuarla». O pure: «Dipende da te, perché quel bagliore di fantasia diventi realtà». O pure: «No, quel desiderio è troppo ambizioso per noi; non lasciartene lusingare». O pure: «Dici bene, questa speranza è un gran conforto anche per me!». E ciò come se io l'avessi messa a parte di tutto con le piú precise parole, per consultarla, per averne l'approvazione o la disapprovazione? ... Oh! Non aver niente da nasconderle! Nei primi mesi della nostra unione, era stata anzi gran delizia per me comunicarle i piú riposti pensieri, chiederle consigli, suggerimenti che mi rivelavano sempre piú squisite delicatezze d'animo, sempre piú fine penetrazioni d'intelligenza in ricambio del mio cordiale abbandono. Volevo cosí dimostrarle la mia profonda gratitudine per la gioia, la felicità, la nuova essenza di vita che ella era venuta a diffondere attorno a me, tanto da farmi credere divenuto un altro, quando mi accorgevo dell'agile sviluppo di alcune mie facoltà artistiche rimaste fin allora quasi latenti. E provavo un senso di mortificazione, se Delia, con delicata modestia, mi diceva: «Che bisogno hai tu di consultarmi? Tutto quel che tu fai lo giudicherò sempre ben fatto, anche quando gli altri potranno giudicarlo altrimenti». Non avevo dunque proprio niente da nasconderle. E intanto ora stimavo violato il sacro penetrale del mio pensiero, di cui prima le spalancavo a due battenti le porte. Una cupa irritazione mi invadeva a ogni nuova manifestazione della sua inevitabile chiaroveggenza e nello stesso tempo una viva indignazione per quello che, in certi momenti, mi sembrava atto di ingrato ribelle. Non avrei dovuto essere piuttosto felicissimo per l'assoluta compenetrazione delle nostre anime, della quale la chiaroveggenza di Delia era mirabile testimonianza? «No! - riflettevo subito. - Ella rimane chiusa, impenetrabile. Io, soltanto io, sono in sua compiuta balia!» Tentai di difendermi con lo stesso mezzo servito, involontariamente, a produrre l'incredibile fenomeno. Ma Delia non sentiva piú il mio influsso; era già piú forte di me. - Avresti dovuto ricorrere ad uno specialista - lo interruppe Blesio. - Un magnetizzatore di professione, probabilmente avrebbe domato quelle forze ancora non bene conosciute e che la tua malaccortezza aveva scatenate ... Ma, te ne prego, rimandiamo a qualche altro giorno questi dolorosi ricordi ... Nella foga del parlare, non ti accorgi che essi ti commovono fortemente. - Li ripenso quando non parlo; vale lo stesso. Lasciami proseguire - rispose Raimondo, stirandosi nervosamente i baffi e la barba. - Sopravvennero intanto alcuni mesi di sosta. Credei che la eccitazione nervosa da me provocata, si fosse finalmente esaurita, e che la cura consigliatami da un dottore consultato all'insaputa di Delia avesse realmente contribuito a fortificarne l'organismo. Era un po' dimagrita in quei mesi, e aveva perduto la vivace tinta che coloriva le sue guance di bruna con lieve sfumatura rosea. Soltanto lo splendore degli occhi era rimasto immutato. Vedendola rifiorire, non sospettando affatto che quella tregua potesse essere passeggera, avevo ripreso a lavorare alla statua La Giovinezza, quasi suggeritami da lei, un mattino di primavera, passeggiando insieme tra la splendida esplosione dei fiori delle aiuole che fiancheggiavano i brevi viali del nostro giardinetto. La Giovinezza, nella mia intenzione, doveva essere Delia trasformata in dea, idealizzata, se pure ci fosse stato bisogno d'idealizzare una figura che era, pei miei occhi, un'idealità artistica in atto. Il lavoro mi assorbiva talmente che le lunghe ore di quella giornata di estate sembravano insufficienti alla mia smania di condurre a termine la statua in brevissimo tempo. Delia veniva spesso a tenermi compagnia, seduta in un angolo, leggendo e ricamando zitta zitta per non distrarmi: ed io mi accorgevo della sua presenza soltanto nei momenti di riposo della modella. Mi accorgevo pure, con doloroso stupore, che mai Delia mi era parsa cosí lontana da me, come in quelle lunghe giornate che piú mi stava silenziosamente vicina. Eppure quella statua che mi si vivificava sotto la stecca e il pollice era la libera traduzione del bozzetto improvvisato con insolita rapidità mentre ella, che me n'aveva quasi suggerito l'idea, posava perché io fissassi nella creta il movimento delle linee della sua persona, cosí come l'immaginazione me la andava trasformando in fantasia d'arte. Una sera, tutt'a un tratto, Delia mi disse: «Ah, Raimondo! ... Tu stai per cessare di amarmi!» «Non pensare assurdità!» risposi bruscamente. «Tu però in quest'istante mentre neghi, pensi: "Oh, Dio, ella indovina!"» Tornai a negare: ma era vero. In quell'istante pensavo proprio: «Oh, Dio, ella indovina». «Come avvenga non so - riprese Delia. - C'è dentro di me o una anima nuova, o qualcosa che direi malia, se potessi credere alla malia. Strana malia, Raimondo; malefica malia che mi fa vedere quel che non vorrei vedere, che mi fa udire quel che non vorrei udire, quasi il tuo pensiero parli per me ad alta voce ... E sto in ascolto, da mesi, costretta, decisa di non dirti niente, di soffrire in silenzio perché mi sembra che anche tu soffri ... Ah, Raimondo! Tu stai per cessare di amarmi ... Mi sento impazzire!» Non ricordo piú quel che dissi per consolarla, per confortarla. Dovetti essere efficacissimo, se Delia mi si gettò tra le braccia scoppiando in pianto dirotto, balbettando tra i singhiozzi «Perdonami! Ti faccio soffrire!» Ma il giorno dopo e cosí tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò piú, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le piú riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi. E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io era stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: «Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?» corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita piú bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sí, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non aveva badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato -. Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano piú triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: - Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della dea, assai piú di essi, prendeva cosí mirabili chiaro scuri, riflessi cosí formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! «No, non è cosí! - balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. - No, non è cosí!» E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. «No, non è cosí! ... Non è cosí!» E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: «Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sí!» E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva piú! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! «Mi amava davvero?» Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu! - E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

CAINO E ABELE

678774
Perodi, Emma 4 occorrenze

Sempre più quella donna appariva a Franco un enigma; era bellina, era abbastanza ricca, era giovane e sola e qual ragione mai la spingeva a sotterrarsi viva su quella spiaggia abbandonata? Se avesse conosciuto Roberto, prima, se lo avesse amato, era naturale che fosse andata presso di lui; ma non lo aveva mai visto e come mai s'era imposta quel sacrifizio volontario, senza esservi neppure spinta dal bisogno? Il duca rivolse altre interrogazioni al Varvaro, senza ottenere maggiori notizie di quelle che già sapeva. Velleda aveva saputo ispirare tanto rispetto in quell'uomo semplice, che si sarebbe vergognato di nutrire un sospetto sulla sua esistenza precedente, e Franco si accorge che aveva sbagliato strada per giungere a scoprir terreno. Poco dopo il Varvaro augurò a Franco la buona notte e questi, rimasto solo, aprì la lettera del fratello. Roberto scrivevagli lungamente, narrandogli che nei primi giorni, al palazzo, non cessava mai la processione dei creditori. Informati dai giornali della sua partenza, sarti, calzolai, carrozzieri, fiorai, orefici, fornitori delle scuderie e delle cucine, tappezzieri, tutti eran corsi e volevano essere pagati. Ma i servi erano andati via, i cavalli erano stati venduti, e il guardaportone aveva ordine di mandar tutti dall'avvocato, che li aveva calmati con alcune migliata di lire, ricavate dalla vendita dei cavalli e delle carrozze e con l'esazione di alcune pigioni arretrate. Lo scandalo volgare, dei piccoli e clamorosi creditori era stato dunque evitato e Roberto sperava di evitare anche quello grosso. Aveva, dai direttori d'istituti di credito, ottenuto una dilazione per il rinnovo delle cambiali e ora trattava con un proprietario di albergo la vendita del palazzo. Con la somma che sperava ottenerne, avrebbe soddisfatto i debiti ipotecare che su quello gravavano e gli sarebbe bastata anche a pagare gl'interessi delle cambiali. Voleva ad ogni costo evitare il fallimento, per non vendere disastrosamente. Egli invitava Franco a farsi animo, assicurandolo che da quel disastro gli sarebbe rimasto qualcosa. Intanto, appena venduto il palazzo, sarebbe partito da Roma, per tornarvi alla nuova scadenza delle grosse cambiali; a regolare le altre minori bastavano le pigioni delle case affittate. Terminava dicendo: Credo di aver interpretato un desiderio tuo non denunziando il maestro di casa come ladro. Egli non ha saputo rendermi i conti di più migliaia di lire. I giornali si sarebbero valsi di quella notizia per dire il vero e il falso sul conto tuo, e il silenzio, in questo momento vale più di ogni altra cosa. Le rose fioriscono sempre e la marchesa Salvati ne riceve ogni giorno. Ella sta meglio. Ancora non ha saputo della tua partenza e ogni giorno ti manda a ringraziare. Scrivile per annunziarle che sei costà, affinchè risorgendo non lo sappia da altri e preparati con serietà di proposito alla nuova esistenza, che potresti rivolgere a utile tuo e di altre persone. Questa lettera consolò Franco rispetto ai suoi interessi. L'arrivo del fratello a Roma in quel momento disastroso era stata una fortuna per lui. Senza Roberto tutto, tutto sarebbe stato inghiottito, senza soddisfare chi avanzava. È una potenza quel Roberto! - esclamò il duca e riepilogando tutto ciò che aveva veduto in due giorni e che era opera soltanto di suo fratello, questi gli apparve potente e saldo come una delle colonne gigantesche che rimanevano erette sulle sabbia, una di quelle colonne che nè commozioni telluriche, nè furia d'intemperie, nè rabbia d'uomini avevano potuto abbattere. Oh! che invidia ispiravagli quel colosso, che dominava gli eventi, che lo vinceva nella forza, nel sapere, nell'intelligenza, nella bontà, in tutto, in tutto, anche nella bellezza fisica, perché Roberto era la vera espressione della bellezza maschile! Ma non può non avere un lato vulnerabile, - diceva Franco a se stesso, - e quel lato io lo scoprirò certo; so volere tenacemente anch'io! Mentre il duca sfogava nella sua camera l' invidia contro il suo salvatore, Velleda, in atteggiamento umile, di devota, dinanzi a una sacra reliquia, rileggeva per la terza volta la lettera di Roberto e giunta alla firma, posava su quella le labbra. Ella aveva gli occhi pieni di lagrime, ma un sorriso di beatitudine le illuminava il volto delicato, curvo sui fogli coperti di una scrittura unita e marcata. Nessuna lettera di Roberto l'aveva fatta piangere, perché nessuna era più dolce, più cara di quella. Mia buona amica, - diceva quella lettera, - lasci che io le dia questo nome che riassume i sentimenti di stima profonda e di affetto vero che nutro per lei. Nessuna donna, credo, abbia mai avuto nel cuore di un uomo onesto il posto che ella occupa nel mio. Non le ho fatto mai questa confidenza, poiché non volevo che vicino a lei la commozione mi vincesse, e perché potevo esser debole anch'io e noi dobbiamo esser forti; ma ora, da lontano, posso farle questo sfogo, posso aprirle il mio cuore di cui ella è signora. E questo dominio che ella ha preso su di me, non sussiste da che le sono lontano, da che sento la mancanza di lei ad ogni istante, no. Rammenta la lunga lettera che mi scrisse appena io ebbi accettato la sua offerta di essere per Maria una seconda madre? Spinta da un sentimento di delicatezza sublime, ella volle farmi una confessione generale e mi narrò la sua triste infanzia fra una madre, gran signora, dissipatrice, capricciosa, una di quelle russe che hanno tutte le superstizioni delle razze corrotte e tutti gli ardimenti di quelle primitive, pietosa e barbara, entusiasta e calcolatrice, nevrotica e dispotica sempre; e un padre, artista di piccola ambizione e di modesta fama, gretto, schiavo della moglie, incapace di farsi valere dagli estranei e di farsi rispettare in famiglia. E accennava alle scene disgustose, ributtanti, fra la dama che rinfacciava al suo schiavo la propria inettezza a conquistare un nome e una fortuna, che il più delle volte sorride soltanto agli auduci. Quelle scene straziavano il suo cuore di bimba ed ella si faceva protettrice dell'oppresso, del debole e inimicavasi la madre, la quale per fuggire la noia, pentita di avere sposato un oscuro artista, lo abbandonava, lasciandogli come elemosina la villa di Fiesole e i poderi acquistati, allorché del povero artista ella si era foggiata un ideale molto diverso dal vero, credendolo dotato di attitudini straordinariamente felici. Quella lettera io l'ho bruciata perché nessuno potesse mai leggerla, ma mi è rimasta scolpita nel cuore e posso citargliela periodo per periodo; da quello in cui mi descriveva la tristezza di suo padre dopo l'abbandono, e lo strazio della sua anima di bimba nel vedersi dimenticata assolutamente dalla madre, all'altro nel quale dipingevami la reazione che nacque in lei, l'amore allo studio dei classici italiani, destato dall'amore per Firenze, il desiderio di soffocare nel lavoro le malinconie languide della giovinezza, di conquistare quella fama che suo padre non aveva saputo conseguire e ornarne, a guisa di gloriosa corona, la canizie del vecchio sfiduciato. Il titolo dei suoi primi scritti, i passi penosi nel campo delle lettere, le sfiducie, gli entusiasmi, distratti dalla critica inesorabile, tutto, tutto rammento fino a quel grido di gioia, che il ricordo di un grande trionfo riportato dal suo romanzo: Vincitori e vinti dava a quel brano della sua lettera un colorito, che mancava al resto della narrazione. Poi sobriamente ella mi accennava all'amore per un giovane avvocato, più innamorato della sua fama che di lei, al loro matrimonio, alla morte del padre e alla nascita di una creatura. Qui la narrazione si faceva angosciosa e io nel leggerla capivo lo sforzo che doveva esserle costato lo scriverla. Ella parlava più lungamente dei suoi lavori, che continuavano a portarla sempre più in alto, che di quel dissipatore egoista, il quale aveva in odio il lavoro e avrebbe voluto vivere alle sue spalle oziosamente e signorilmente, che della lotta sostenuta per difendere il piccolo patrimonio della sua bambina, che delle minaccie e delle percosse per ottenere da lei denaro che correva a spendere in orgie e a sciupare nel giuoco. Su tutto questo ella sorvolava quasi, ma io indovinai più di quello che ella mi diceva, come capii quanto insopportabile doveva esser diventato per lei quel giogo, per ricorrere ai tribunali e chiedere una separazione legale. Ma ottenutala ella non ottenne la calma. Quel vile continuava a perseguitarla e mentre la diffamava con tutti, ricorreva poi a lei per aver soccorsi, l'aspettava sulla via per intimorirla e giungeva fino a rubarle la sua bimba, che moriva lontana da lei, in un paese del Mugello. Tutti quei dolori, sopportati senza sfogo, alteramente, la tennero più mesi fra la morte e la vita, e quando tornò in sé seppe che il marito scontava in un bagno penale il delitto di aver strappato una donazione a un ebete a danno degli eredi naturali. Allora un sentimento di vergogna la vinse; ripudiò il nome di quel vile, riprese il casato di suo padre, non ebbe più sogni di gloria, affittò la villa e cercò, mutando paese, di dimenticare a di farsi dimenticare. Quando io ebbi terminato di leggere quella confessione, Velleda, io provavo già una profonda stima per lei, un'ammirazione viva, per quell'alto sentimento di dignità che aveva saputo conservare in mezzo a tante sventure; ero già l'amico disinteressato che erale mancato nella vita, ero già penetrato da un senso di tenerezza per quell'anima afflitta, ma forte, che cercava nel lavoro l'oblìo, che non si sgomentava al pensiero di ricominciare a trent'anni l'esistenza, e pieno di fiducia le dissi di venire presso la mia bambina. La mia fantasia ha poco agio di correre dietro a visioni; e io non vestii di nessuna delle forme muliebri quell'anima afflitta; ma quando la vidi, se ne rammenta? scendere dal treno e stendermi le mani senza arrossire, capii che la sua figurina era il degno involucro dell'anima sincera e buona che aveva parlato alla mia, e il suo sguardo sereno mi scese al cuore. Da quel giorno l'affetto; nato spiritualmente, si accrebbe sempre, ma non ha mai degenerato, mai. Ella, invece di cadere nelle volgarità che è difficilissimo evitare nella vita in comune, si è sempre più inalzata nella mia stima ed ha costretto la mia ammirazione a convertirsi in una venerazione quasi sacra, in un culto ardende e rispettoso. Quando la vedo accanto a Maria pazientemente intenta a educarla, mi pare l'angelo della mia casa; quando poi la incontro nelle case degli operai malati, o la vedo presiedere ai loro pasti frugali, mi appare come il genio della carità, e allorché la sento accanto a me nelle lunghe e silenti serate, curva sopra un libro, o la odo parlare, allora mi pare la compagna invocata nella solitudine, la fata misteriosa che mi legge nel cuore e nel pensiero, la donna ideale, che si compiace di elevarmi, di schiudermi una nuova esistenza: quel paradiso riservato agli eletti dello spirito, nel quale è difficile penetrare senza aver fatto una lunga sosta nel regno del dolore. Questa fusione perfetta che riscontro in lei di tutte le qualità del carattere e della mente, racchiuse in un involucro di una bellezza tutta ideale, che sfugge allo sguardo di chi cerca nella donna la femmina, hanno determinato il mio affetto per lei. Badi che parlo d'affetto e non d'amore, perché non voglio offenderla con una espressione alla quale si dà in genere un significato materiale, di cui è scevro il mio sentimento. Affetto! ecco la parola vera, la parola santa di cui non possiamo arrossire. Non le ho mai chiesto se il mio sentimento fosse corrisposto, ma son certo da molto tempo che ella mi vuole un bene immenso. L'ho capito da quel linguaggio misterioso che si parlavano i nostri cuori, mentre le labbra restavano chiuse, dalla perfetta comunione dei nostri pensieri, dalla facilità con cui io leggevo in lei ogni moto dell'anima, dal desiderio di farsi umile dinanzi a me, da quel dolce riposo che le procura la mia presenza. Senza la catena che la lega a un essere che sconta tutti i misfatti commessi contro di lei, io l'avrei supplicata di accettare il mio nome, non perché il mio affetto avesse bisogno di questa sanzione legale per sussistere, ma soltanto per avere il diritto di starle sempre vicino e di proteggerla da ogni dolore. Questo non può accadere e io ricaccio il sogno in fondo al cuore, e mi stimo beato del legame spirituale che ci unisce. Mantenendo il nostro affetto in questi limiti, noi non abbiamo ragione di arrossire dinanzi al mondo, non offendiamo Maria, e la nostra coscienza non ci rimprovera nessuna azione turpe. So bene che la gente crederà poco a un affetto che non abbraccia altro che una parte della nostra vita, quella immateriale; che si ritempra nella rinunzia; che si alimenta nei sacrifizii. Essa ci getterà alle spalle le sue turpitudini, cercherà d'insozzarci col suo fango, ma noi serenamente procederemo per la via che ci siamo tracciati, facendo del bene e tenendo l'occhio rivolto in quell'etere profondo ove non giungono le volgarità del mondo e nel quale forse si ricongiungono le anime pure. Fra quelli che meno capiranno il carattere elevato del nostro affetto, sarà Franco. Egli è vissuto troppo male, fra gente troppo profondamente corrotta per credere alla idealità di un sentimento fra persone di sesso diverso, giovani ancora, ma è troppo signore, e mi dovrà tanta gratitudine per quello che faccio per lui, per amareggiarmi la vita. A lei sola lo dico. Per impedire il fallimento, ho impegnato la mia firma per una somma vistosa che non le preciso. È stato uno sforzo, perché ella sa che noi industriali immobilizzando dei capitali ci tagliamo le gambe. Ma il dovere me lo imponeva e quando saremo alla liquidazione finale, Franco mi pagherà. Ma egli non potrà mai compensarmi del sacrificio che faccio stando lontano da lei, o mia gentilissima, privandomi della sublime consolazione di vederla e di udirla. Mi voglia bene, me ne voglia molto e pensi a me condannato a vedermi passare sotto gli occhi tante turpitudini di avidi speculatori, a lottare con loro accanitamente per salvare le briciole di un patrimonio regale. Baci teneramente la nostra Maria. Il suo ROBERTO Egli ha ragione, - pensava Velleda - la confessione che mi fa in questa lettera, non mi cagiona nessuna sorpresa, nessuna. Anche se non avesse mai parlato, io ne sarei stata certa; l'affetto di Roberto non poteva essere un mistero per me. Ella si alzò e portò alla bimba addormentata il bacio paterno, poi toltasi il severo vestito di lana grigia, indossò un accapatoio di trasparente batista e andò sul terrazzo a respirare l'aria fresca della sera. Com'era beata per quella lettera affettuosa! Dal suo pensiero sparivano tutte le piccole contrarietà di quegli ultimi giorni e s'immergeva nel ricordo dell'assente carissimo. Le pareva che il vento agitando i palmizi, le onde lambendo la sabbia, le parlassero di altre serate egualmente felici, trascorse insieme con Roberto nella contemplazione di quello spettacolo sublime del mare, del quale i loro occhi non si stancavano mai. Il mare si associava a tutti i ricordi della nuova esistenza di Velleda; esso accompagnava col rumore scrosciante della burrasca le loro letture invernali, esso li alliettava col suo azzurro nei tepidi giorni primaverili, esso, col morniorìo cadenzato delle onde che andavano a morire al piede delle dune, interrompeva le loro meditazioni nelle serate calde. Trepidavano insieme allorché vedevano partire un vapore carico durante una tempesta; si facevano una festa di abbandonarsi al mare in una barca nei giorni in cui il lavoro taceva nello stabilimento; facevano insieme lunghe passeggiate sulla riva mentre Maria raccoglieva le conchiglie, e sempre sul mare si posavano i loro sguardi allorché temevano che s'incontrassero. Nè Velleda nè Roberto in quelle passeggiate, in quelle ore che passavano insieme, parlavano mai della loro vita anteriore. I loro discorsi sì aggiravano sul periodo di tempo di quell'ultimo anno, come se entrambi non volessero confessar di vivere altro che dal momento che s'erano incontrati. E mentre si parlavano la loro voce acquistava un tono carezzevole, che non aveva per solito, e i loro occhi una espressione di infinita dolcezza. Essi evitavano di stringersi la mano, di star vicini quando erano soli e i loro atteggiamenti erano sempre rigidamente casti. Pareva che sprezzassero tutte le manifestazioni materiali dell'affetto per rinchiuderle nel cuore e dare maggiore intensità al sentimento che li univa. Velleda non aveva mai permesso che Roberto leggesse un libro scritto da lei e firmato col pseudonimo di "Melusina", sotto il quale era nota nel mondo delle lettere. Una volta egli le aveva chiesto I Vincitori e i Vinti Vintied ella avevagli risposto: Ora non scriverei più in quella maniera, i miei sentimenti sono cambiati; non provo più certi risentimenti, non vedo più l'amore sotto lo stesso aspetto, mi sono fatta più calma e più umana; mi faccia il piacere di non leggere quel libro, che rinnego. Roberto aveva ubbidito, ma per giudicare il suo valore di romanziera, non aveva avuto bisogno di leggere libri di lei; gli era bastato di ascoltarla mentre narrava a Maria le avventure commoventi di poveri bimbi, le novelle meravigliose delle fate per convincersi della ricca fantasia di quella creatura eletta, nella quale vibrava alta la corda del sentimento, e queste qualità essenziali per chi deve dipingere la vita andavano unite a un gusto finissimo, a una perfetta dizione che accarezzava dolcemente l'orecchio e che scendeva nel cuore di Roberto commovendolo. Velleda, in quella sera di dolcissima meditazione; aveva dimenticato di scendere, come faceva sempre, a chiùdere il cancello e a sguinzagliare i due mastini che vegliavano sulla villa solitaria, nella quale dormivano il cuoco, Costanza, la bambina e la signora soltanto, ora che Saverio stava presso Franco. I rintocchi della mezzanotte, suonati dall'orologio dello stabilimento, la fecero balzare in piedi e senza chiamare Costanza, che doveva essere in camera di Maria, ella scese in giardino e s'avviò al canile. In quel momento i cani si misero ad abbaiare e Velleda vide un' ombra sgattaiolare fra i palmizj a poca distanza da lei e perdersi sotto il fogliame scuro delle folte piante d'arancio. Ella tremò, ma vinta la paura, sciolse presto i cani dicendo : Cerca Lampo! cerca Etna! E i due cani, col muso in terra, abbaiando, s'allontanarono di corsa. Per Velleda fu quello un momento di suprema angoscia. Non sapeva che fare, se risalire in camera di Maria, o correre a suonar la campana per chiamare aiuto dallo stabilimento, quando un colpo di fucile ruppe l'alto silenzio della spiaggia, e uno solo dei cani tornò a lei spaventato latrando. I malandrini! - esclamò la signora atterrita, e senza riflettere più gettò un sasso contro la finestra della camera del cuoco e salendo a precipizio le scale si attaccò alla corda della campana. Costanza era andata sulle scale, pallida e tremante, il cuoco era corso su col fucile in mano, mezzo vestito; Maria sola dormiva placidamente. Velleda collocò Costanza accanto al letto della bambina, chiuse a chiave le porte e preso che ebbe un revolver di Roberto, incominciò a perquisire la casa, insieme col cuoco, premendo ovunque i bottoni della luce elettrica, affinchè se vi era qualcuno nascosto, fosse subito visto a quel chiarore vivo. Ella era ancora al piano superiore, allorché giunsero due guardiani armati, Saverio e il Varvaro. Quest'ultimo aveva in mano la lanterna e avanzandosi nel viale dei palmizj guardava a destra e a sinistra, proiettando in basso e in alto la luce e intanto gridava per annunziare il suo arrivo. Velleda udi quei gridi e scese incontro al direttore. Ma che cosa è avvenuto? - domandò questi. Non so precisamente" - diceva con voce interrotta cercando di ritrovare il filo delle idee, - mi ero un po' attardata prima di sciogliere i mastini e quando sono scesa per isguinzagliarli ho veduto un'ombra nera fra gli alberi. Allora immediatamente ho sciolto Lampo ed Etna. I cani certo debbono avere scoperto il malfattore, perché ho sentito un colpo di fucile e Lampo solo è tornato verso di me ed è rifuggito subito. Ponetevi a difesa della casa sulla terrazza e non lasciate avvicinare alcuno, - ordinò il Varvaro ai guardiani, - Saverio e il cuoco cercheranno insieme con me. Velleda risalì in camera di Maria e vi si rinchiuse ; Costanza, in preda a un cieco terrore, aveva acceso tante candele a una immagine della Vergine, e balbettava : Maria, bedda matri aiutatemi! Salvatemi! Maria dormiva sempre e Velleda, con l' orecchio teso, spiava ogni lieve rumore. La camera di Maria, che era pure la sua, non guardava sul viale dei palmizj ne su quella parte del giardino in cui erasi svolta poco prima la rapida scena, e per questo ella non poteva seguire le indagini del Varvaro. Però a un certo momento sentì un rumore di passi nell'anticamera terrena e non reggendo più, corse sul pianerottolo, spenzolandosi nel vano della scala per veder chi era. Saverio! Saverio! che cosa è successo? - diceva scorgendo il cameriere, che correva verso la cucina. Lampo ha fatto il suo dovere! - rispose il servo nel passare. Poco dopo Saverio ripassava portando una spugna e una catinella piena d'acqua. Ma Saverio, per carità, spiegatevi! - diceva Velleda che lo aveva atteso trepidante. Signora, un malandrino ferito. Laconico nelle risposte come ogni siciliano, non disse altro e tornò verso i suoi compagni nel giardino. Suonate! - gridò Velleda ai guardiani affacciandosi al terrazzo. - Sparate i fucili, fate che vi odano dalla Casa dei Viaggiatori. Lo Carmine con i suoi ci verrà in aiuto. Oh se i carabinieri fossero in perlustrazione, se i doganieri accorressero; sparate! Partirono quattro colpi di fucile a breve intervallo e poi la campana suonò a distesa. A un tratto s'illuminò la Casa de' Viaggiatori, s'illuminò il " Selino " e da quello partì un colpo per avvertire che l'appello era stato udito. Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

Donna Paola era sola, e lo sforzo che fece per sollevarsi dalla poltrona nella quale stava abbandonata, la magrezza della mano che stese a Roberto, rivelavano i patimenti di lei. Gli occhi soli pareva vivessero in quel viso concontratto e consunto: due occhi grandi, ardenti, pieni di tragica passione. Scusi, - gli disse con voce tremante, - scusi di averla disturbata, ma sono una grave malata e agli infermi si usa compassione. Mi dica, mi dica, è vero che Franco ... che il duca è partito per sempre? Mio fratello è partito da quindici giorni, - rispose Roberto, - ma non credo per sempre; nessuno lo costringe a stare assente da Roma. Ah! come mi consola! - esclamò donna Paola. Io sono stata molto ammalata, credevo di morire e non sapevo più nulla di quello che accadeva intorno a me ; la mia malattia data appunto dal giorno successivo al Derby e a un pranzo in casa del duca. Roberto ascoltava come se non sapesse nulla. Ma ogni giorno io vedevo il mio letto coperto di rose e mi dicevano che il duca mandava a prender notizie mie e m'inviava quel dono. Ieri una mia amica, la principessa San Secondo, è venuta. Non avevo ricevuto nessuno, non sapevo nulla di quello che è accaduto a Roma in questo tempo, ed ella mi narrò tante frivolezze che non rammento: rammento soltanto che mi disse che Franco era fuggito, che il palazzo era in vendita e si aspettava da un momento all'altro la dichiarazione del fallimento. Mandai al palazzo ed ebbi la conferma della partenza; mandai di nuovo per sapere l'indirizzo e il guardaportone disse che non poteva darlo, ma aggiunse che lei era a Roma all' Hôtel del Quirinale e lo rappresentava. Sono tanti anni che conosco don Franco, aggiunse arrossendo lievemente, - e non potevo rimanere indifferente alla sventura che lo colpiva. E poi quando uno è malato è più sensibile, è più eccitabile, non è vero? Roberto capiva lo sforzo di donna Paola per scusare il suo operato e finse di non accorgersi della passione che la divorava" Io la ringrazio, - disse, - di mostrar premura per mio fratello. È tanto raro di conservare gli amici nei giorni di sventura! Ma si rassicuri, Franco non è fuggito. La sua amica era male informata; Franco ha venduto il palazzo a buone condizioni, e non si tratta di fallimento, ma di sistemazione di affari, alla quale lavoro e lavorerò anche in seguito. E quelle rose? - domandò donna Paola sorridendo. Franco, sapendola ammalata, mi aveva detto di nasconderle la sua partenza mandandole ogni giorno quei fiori che le facessero credere che egli fosse ancora qui. Povero, caro amico! - esclamò riversando la testa sui guanciali accasciata da quell'insperata consolazione. Veda, io non posso ancora regger la penna e ho detto di sentirmi forte per poterla ricevere, ma gii scriva lei, gii dica che aspetto una lettera sua e che quelle rose-quelle care rose mi hanno tenuta in vita. Ormai la felicità le impediva di aver reticenze con Roberto, e la fisonomia dolce e compassionevole di lui la spingeva alla confidenza. Gli pareva di parlare a un amico e gli rifaceva la storia delle sue angosce di quelle ultime ore, gii diceva che il suo male derivava da una immensa gioia distrutta; lo supplicava di tornare a visitarla spesso, molto spesso. Roberto si sentiva a disagio. Non voleva cullarla con vane speranze, e lo stato veramente lagrimevole di Paola impedivagli di essere veritiero e di dirle che Franco non meritava quell'appassionata adorazione che ella gii portava. Ogni momento faceva atto di alzarsi, ma la marchesa con uno sguardo supplichevole lo tratteneva, dicendogli : È tanto difficile che mi trovi sola un'altra volta che possa parlare con lei liberamente come stadera; rimanga. E Roberto rimaneva ad ascoltare lo sfogo di quell'anima sensibile, divorata dall'amore, che pareva da un momento all'altro dovesse abbandonare il corpo. Ed era lei che Franco aveva chiamato a sparger di fiori e di lagrime il suo cadavere! La visita era durata due ore e Roberto, nello scender le scale, pensava con raccapriccio al grande, all'immenso egoismo di Franco che voleva morendo uccidere una povera creatura colpevole soltanto di amarlo. E il fratello allora gii apparve vile come quei Werther da strapazzo, che inducono una donna a farsi ammazzare da loro, esaltandola al pensiero di una riunione eterna nella morte, e quasi sempre tremano nello sparare contro se stessi e vi rinunziano o si feriscono leggermente. Povera donna! - esclamò, - se potesse dimenticarlo! ma non lo dimenticherà. Il cuore di Roberto era una di quelle arpe divine che vibrano al soffio di ogni umano dolore, che si commovono non in ragione della sventura maggiore o minore, ma del grado di resistenza dell'infelice che deve sopportarla. E Paola a gli occhi suoi apparve debolissima. Il sentimento era il perno della vita di quella donna, anzi era la vita stessa. Tutte le altre facoltà, lasciate sonnacchiose da una educazione sbagliata, erano subordinate a quello. Non lo sapeva. Paola non gli aveva fatto nessuna confidenza sulla vita anteriore al matrimonio, ma era sicuro che quella pallida creatura era cresciuta fra le mura claustrali di un convento, ove le tendenze appassionate dell' anima si erano manifestate ora nelle estasi della comunione con lo sposo celeste, ora nell'adorazione di San Luigi, ora nella passione per una compagna. La religione, questo balsamo delle anime forti, questo rifugio delle menti torturate dal dubbio, era stata un eccitamento troppo forte per quella sensitiva. Se le persone cui era affidata l'educazione di Paola, avessero capito il frutto che potevano trarre da quella sensibilità, avrebbero dato vigore alla mente della bambina, esercitandola in severi studi, costringendola a pensare più che a sentire, e nello stesso tempo con i! moto razionale, con l'aria, col cibo, avrebbero dato forza ai muscoli. Stabilito l'equilibrio fra quella triade di forze che costituisce la vita dell'individuo, data al sentimento una direzione più ragionevole, Paola sarebbe stata una donna onesta e utile, una di quelle donne che sono una benedizione per la famiglia, sulla quale spargono i tesori della loro tenerezza. Invece era una infelice; e un cenno di Franco sarebbe bastato a farne una colpevole. Ovunque guardava, Roberto non vedeva altro che vittime di una falsa educazione, che forze disperse a danno dell'umanità e del bene, che elementi buoni sviati dal grande scopo e convertiti in cagione di malessere sociale. Come benediva suo padre di averlo diretto, educato; di aver fatto di lui un uomo! E quanto era grande il desiderio di far del bene che lo animava, ma quanto sentivasi impotente dinanzi a tanti dolori, a tanti pervertimenti. Doveva limitare l'opera sua a Franco, pensare a lui solo per non sperdere le forze in altri tentativi che avrebbe dovuto abbandonare subito. Franco bastava per il momento. E tornando in camera scrisse al fratello una breve lettera ringraziondolo di quello che aveva fatto, dimostrandogli una calda gratitudine. Si protestava suo obbligato per togliere all'altro una parte dell'onere della riconoscenza, che spesso è grave a portare e infonde nell'anima del beneficato un sentimento di avversione per il benefattore. Non voleva che Franco provasse rispetto a lui, nessuna avversione; voleva poter spargere nel cuore di quell'indifferente i semi dell'affetto e sperava raccoglierne i frutti, non perché avesse desiderio di farsi voler bene da Franco, ma per nobilitarlo con un sentimento buono. In quella lettera accennò alla visita a donna Paola, gli descrisse lo stato lagrimevole in cui avevala trovata e lo esortò a scriverle una buona lettera, da amico vero, senza sentimentalità e senza lamenti, per calmarla ancora più e trattenerla dal commettere atti inconsulti che potessero comprometterla. Quando ebbe terminata quella lettera, Roberto si sentì preso da un sonno prepotente. Era il fisico che riprendeva i suoi diritti, che reclamava alcune ore di riposo, dopo due giorni di continua angoscia, di continua tensione della mente. Tutto si confuse a un tratto nel pensiero di Roberto e quasi macchinalmente cercò il letto, e si addormentò di un sonno pesante, scevro di sogni, che sono il ricordo confuso di certe impressioni, che il letargo del pensiero e del sentimento non riesce a dileguare.

- disse egli, coprendo con la mano quella di lei, che era abbandonata sulla rovescia. E io ... . - rispose Yelleda, avvolgendolo in uno sguardo d'amore. Non la faccia parlar tanto, - ordinò l'Angelini; accostandosi al letto. - Si rammenti che la febbre potrebbe tornare gagliarda se si eccitasse. Ma non è fuori di pericolo? - domandò Roberto. Sì, ansi il miglioramento continua e fra pochi giorni sarà rimessa, ma bisogna evitarle eccitamenti e commozioni; i nervi sono sempre scossi. Il professore tornò presso don Calogero per indicargli la cura da seguire; Roberto rimase presso l'inferma. Velleda, povera amica, so tutto, - le disse, - mi e divenuta doppiamente cara da che sono informato di quanto ha sofferto per me. Sì, ho sofferto tanto, ma ora non possono impormi più nessuna tortura, poiché hanno detto tutto, tutto. Ma basta, - disse il professore, - la signora ha bisogno di calma e di silenzio! Velleda sollevò la testa ricciuta dai guanciali e, rivolta all'Angelini, disse: Crede, signor professore, che nel silenzio io sia più calma? Non è vero, anzi, quando tutto tace d'intorno a me, la mia fantasia lavora febbrilmente. Ora la crisi morale, che ha determinato il mio male; è superata, non corro più nessun pericolo. Non ostante questa assicurazione, Roberto tacque pensando che ella ignorava ancora il peggio: l'allusione velenosa contenuta nel discorso dell'Orlando, il voltafaccia degli operai e le perfidie che forse si ordivano in quel momento in casa Purpura. E, nel pensare a tutto questo; il volto di Roberto si rannuvolò e una ruga profonda gli solcò la fronte. Fino a ora tarda i due medici e Roberto rimasero in camera di Velleda; don Calogero avrebbe voluto vegliarla fino a giorno e Roberto non si sarebbe allontanato da quella camera per proteggere il sonno della sua cara, ma ella non lo permise. Mi sento bene, - disse, - e dormirò profondamente. Andate a riposare e grazie, grazie di tutto. Nel dir questo, stese ai due medici la mano per stringere anche quella di Roberto. Questi accompagnò i suoi ospiti nelle camere destinato loro, ma non si coricò. Egli rimase tutta la notti' in sala a pensare a quel che avrebbe fatto il giorno seguente e ogni tanto andava a origliare alla porta di Yelleda. Ma nel pensare a quello che doveva fare, per togliere fin da principio ogni speranza negli operai sul lucro che potevano ricavare dal loro voto, egli si affannava a cercare chi poteva avere scatenato contro di lui e contro Yelleda tanto odio, tanto livore; chi poteva avere svisato le sue oneste intenzioni, chi era la vipera che si teneva celata e all' improvviso lanciava contro di loro il suo veleno. Ma per quanto cercasse non trovava nessuno su cui appoggiare i suoi sospetti; e quella incertezza, quel buio pesto nel quale si sentiva avvolto, lo sgomentavano. Se lo avesse conosciuto quel nemico vigliacco, sarebbe stato più calmo; ma così come poteva difendersi? Roberto passò angosciosamente la notte e sul far del giorno s'addormentò in un seggiolone, in sala, e dormì un paio d'ore di un sonno pesante; avrebbe dormito anche più lungamente se non avesse sentito due manine che gli cingevano il collo e una bocca che si posava sulla sua. Babbo, stamane sono io che ti vengo a destare con un bacio, - disse Maria. Come, sei già alzata? Si, sono stata anche da Leda, che sta benino; vieni, vieni a vederla. Roberto seguì l'invito della bambina e tutti i pensieri angosciosi, che gli erano ritornati a un tratto alla mente nel destarsi; svanirono vedendo la sua cara seduta sul letto, pallida ancora, ma col viso composto e il dolce suo sorriso sulle tenui labbra. Sono guarita - esclamò ella. - Oggi starò ancora a letto; ma domani, Maria, voglio alzarmi e poi riprenderemo le nostre dolci consuetudini. Piccina mia, ti ho tanto trascurata in questi giorni! - e se l'attirava a sé e la baciava. Roberto; nel vederle così abbracciate; stese le mani per avvolgerle tutte e due in un amplesso, ma le lanciò ricadere sulle spalle di Maria. Perché, perché non poteva realizzare il sogno di dare una madre alla sua piccina e alla sua cara una famiglia? Nessuno avrebbe osato insultare Velleda se portava il suo nome; egli avrebbe avuto il diritto di difenderla; mentre ora doveva lasciarla coprire di fango, senza raccogliere l'insulto. Che orribile situazione! - Scenda a far colazione, - dissegli Velleda vedendolo pensoso; - Maria deve aver fame. Egli scese di fatto e poco dopo, raccomandando alla. piccina di non parlar troppo e di non far rumore, se voleva stare presso la malata, andò allo stabilimento. I pennacchi di fumo s'inalzavano dai diversi edifizi, un vapore era ormeggiato poco distante dalla banchina; ma nessuna barca si accostava a quello recandogli il carico, nessun rumore di martelli partiva dalle officine. I carri erano allineati senza essere attaccati, le botti piene di catene non erano rotolate, perché non si udiva quel cigolìo del ferro che batte contro il ferro. Roberto capì che il lavoro era sospeso, che il nembo si addensava. bisognava esser calmi e lottare. Egli entrò nel piazzale dal lato di terra e si fermò sotto la vòlta. Crii operai erano tutti lì, col breve mantello sulle spalle e il cappuccio sulla testa, com'eran giunti, e parlavano fra di loro a voce bassa; quando lo videro, tacquero. Roberto fece alcuni passi e giunto nel centro volge in'rorno uno sguardo e disse con voce sonora: Che vuoi dire che non lavorate? Giovanni, il solito caporione, volse uno sguardo ai compagni, come se chiedesse loro il permesso e vedendo cenni d'incoraggiamento, disse: Padrone, prima di riprendere il lavoro, vogliamo una promessa. Gli occhi di Roberto lampeggiarono, ma si dominò. Avrai voluto dire desideriamo? - domandò. No; - rispose l'operaio facendo due passi avanti per essere più vicino a Roberto, - ho detto vogliamo; e così intendevo dire. Quelle promesse tu me le hai chieste anche ieri, replicò Roberto, - e io te le ho negate, perché non vaglio mi si detti legge. Oggi sono della stessa opinione. Ebbene, padrone, voi non avrete i notri voti. Chi ve li ha chiesti? - rispose Roberto gettando uno sguardo altero intorno a sé. - Siete venuti ad offrirmeli. È vero, ma non si fa nulla per nulla. Voi volete essere deputato e noi vogliamo assicurato il pane, i nostri voti valgono qualcosa; non vogliamo regalarli. Roberto si sentiva accecare dalla collera, da una di bielle, collere tremende che raramente scoppiavano, ma erano violente come i temporali dopo un lungo periodo di tempo sereno. Egli fremeva in tutta la persona e la voce stessa era divenuta aspra e stridula. Offriteli al migliore acquirente, vendeteli altrove ma non qui; - rispose alteramente. Sta bene, - rispose Giovanni. - Compagni, avete udito? li padrone rifiuta il nostro appoggio. Noi gli diamo tre giorni di tempo per riflettere; poi, se non cede, peggio per lui. Roberto avrebbe voluto mandarli via subito tutti; ma si dominò per il timore che si dicesse che egli aveva cacciato i suoi operai perché non volevano eleggerlo. Andate al lavoro; oggi avete perduto tre ore in conciliaboli: vi saranno trattenute sulla settimana. Anche questo. - esclamò Giovanna digrignando i denti e volgendo sui compagni uno sguardo significante. Andate a lavorare! - ordinò Roberto cui nulla sfuggiva. Il vecchio Federigo; che era rimasto in disparte insieme con pochi compagni; scrollando mestamente la testa canuta, si accostò a Roberto e gli disse: Padrone, io sono un ignorante, non so ne leggere. ne scrivere e non posso votare, ma se potessi vi eleggerei re, perché siete giusto e buono. Pecora! Vile! - gridarono i caporioni degli insubordinati; e dalla massa, che stava loro dietro, partirono fischi prolungati. Federigo si era avviato verso il magazzino in cui era solito lavorare, i suoi compagni erano andati chi di qua chi di là; Giovanni era ancora in atteggiamento di sfida dinanzi al padrone. Al lavoro! - gridò .Roberto. Noi non lavoreremo, - risposero diversi. Non lavoreremo; se non ci rimettete le tre ore di lavoro; è una prepotenza! In quel momento giunse la carrozza alla porta dello stabilimento e ne scese il Varvaro; il quale; vedendo gli operai assembrati; corse a fianco di Roberto. Al lavoro! - gridò Roberto, - Se non mi ubbidite, chiudo lo stabilimento e lo riapro con operai forestieri. Alcuni, intimoriti da quella minaccia, borbottarono, ma a testa china si diressero verso i magazzini o lo officine. Quell'esempio fu seguito da altri; Giovanni e i suoi amici accompagnarono con fischi quelli che si allontanavano e rimasero nel centro del piazzale. Roberto e il Varvaro scambiarono poche parole e quest'ultimo, volgendosi a Giovanni, gli disse: Da un pezzo il padrone ed io siamo malcontenti di te. Lascia subito lo stabilimento. Ah! mi cacciate come un ladro! - esclamò. No, come un insubordinato. I cattivi elementi vanno eliminati. Passa dalla cassa e ti sarà data la settimana. Compagni! - urlò, - se non siete vili, seguitemi. Nessuno si mosse, ed egli traversò solo il piazzale, bestemmiando; si fermò un momento allo sportellino del cassiere e uscì; gli altri ritornarono al lavoro. Narratemi l'esito della vostra gita, - domandò Roberto al Varvaro, quando furono soli. Ieri l'altro sera, appena giunto, andai alla TrinaCria In redazione non v'era che un cronista, il quale non sapeva nulla di nulla e m'invitò a tornare la mattina dopo, quando il direttore soleva essere in ufficio; all'ora stabilita lo incontrai infatti e mi ricevè con molta cortesia e, quando gli esposi il perché della mia visita, si mostrò meravigliato e, facendomi rileggere l'articolo, voleva persuedermi che era pieno di lodi per la signora. Altro che lodi i - esclamò Roberto. Io non lo lasciai continuare e gli domandai quanto aveva avuto dall' Orlando per inserirlo. Si turbò e volle negare, ma io che m'ero accorto di aver colpito giusto con la mia supposizione, gli asserii che lo sapevo e che era inutile facesse misteri, che, se non mi rivelava tutto, lo avrei costretto a battersi alla pistola. Non credete che mi arrischiassi; mi ero accorto di aver a che fare con un vile. Infatti, rivelò che il Bonaiuto, l'antico corrispondente, non era l'autore dell'articolo; ma il Sarno. quel velenoso farmacista, e che le correzioni erano di pugno dell'Orlando, il quale aveva fatto ottenere un sussidio mensile alla Trinacria per il tempo delle elezioni, ed era perciò padrone lui. Che mi rimaneva a fare? Smentire l'articolo era peggio, e così sono tornate per consigliarmi con voi. E il mistero perdura! - esclamò Roberto. - Ma chi può aver fornito quei dati all'Orlando? Chi? Il Varvaro involontariamente alzò gli occhi alle finestre di Franco e stette per tradirai. Rifletteremo, - disse Roberto; - ora occorre invigilare gli operai: il licenziamento di Giovanni avrà uno strascico, - e con passo sollecito entrò nei magazzini. Nessuno lavorava, meno il vecchio Federigo; che portava una piccola bigoncia piena di vino sulla spalla destra e andava a versarla in una botte più piccola di quella da cui lo aveva tolto. Gli altri stavano a gruppi. ciarlando e; quando lo vedevano passare, gli gridavano : Pecora! Vile! Perché lo insultate? - domandò Roberto. - Seguitene l'esempio; egli non sciupa il tempo che è danaro per me, e guadagna coscienziosamente la giornata Andate a lavorare. A quella voce, cui erano soliti ubbidire, i facinorosi si dispersero e incominciarono anch'essi a andare in su e in giù per il lungo magazzino oscuro, nel quale a sciami ronzavano le mosche e le vespe attratte dalle forti esalazioni del vino. Roberto si era fermato dinanzi a una botte che gli pareva gemesse da un lato; così volgeva le spalle agli operai che passavano senza far rumore, poiché sul terreno di quelle specie di gallerie. fiancheggiate da una doppia e talvolta triplice fila di botti, era sparga una sabbia sottile. A un tratto, mentre Roberto stava così curvo, udì in fondo al magazzino un grido seguito da un tonfo. Ebbe un sinistro presentimento e corse verso il punto dal quale era partito il grido; verso quel punto correvano pure tutti gli operai. Quando ebbe fatto un centinaio di passio si fermò. In terra giaceva il vecchio Federigo con la bocca spalancata, vuota di denti, gli occhi vitrei, con quel viso buono, solcato di rughe, che parevano scavate dalle fatiche e dalle lagrime, con i capelli canuti, più bianchi della camicia che lasciava scoperto un collo tutto solchi, come la corteccia di un vecchio castagno. Gli è preso un colpo! È caduto! - dicevano gli operai. Roberto non credeva a tutto questo; era convinto che si trattasse di un assassinio, di uno di quei colpi dati a un infelice, scelto come vittima, e che sono un avvertimento e una minaccia per altri. Difatti, allorché più braccia si protesero per rialzare il vecchio, Roberto, avendo orrore che fra quelli che fingevano pietà si trovasse l'assassino, ordinò : Fermatevi! - e tremante e commosso passò le braccia sotto le ascelle del vecchio e lo sollevò, cercando con l'occhio la ferita. È stato assassinato! - urlò, vedendo dal lato sinistro della schiena, all'altezza del cuore, una macchia di sangue; e sperando che Federigo vivesse ancora lo alzò da terra e lo portò sul piazzale. Ai guardiani, che erano accorsi, ordinò di chiudere le porte dello stabilimento, di frugare a uno a uno tutti gli operai, di scoprire l'assassino; al Varvaro disse di chiamare i medici dalla villa e intanto accostava l'orecchio al cuore di Federigo; ma quel cuore non batteva più, non poteva più battere. Un sottilissimo stile lo aveva perforato da parte a parte, in un momento. Il professore Angelini disse questo appena ebbe esaminata la ferita. Gli operai furono allineati sul piazzale, dinanzi al cadavere. Tutti si lasciarono frugare, stesero le mani all'esame del medico e di Roberto, ma nessuno le aveva macchiate di sangue, nessuno aveva acido - o l'arme tremenda; che non fu trovata in alcun luogo. L'assassino l'aveva gettata in uno dei pozzi del vino. Dinanzi al cadavere di quel vecchio, barbaramente ucciso senza rancore, senza la truce attenuante della vendetta, di quel vecchio pio, onesto e fedele, che Roberto aveva ammesso per il primo nello stabilimento; perde la calma; perde il dominio di sè e urlo : Assassini, perché non avete ucciso me, perché non osate uccidermi? Che cosa vi ha fatto il vecchio Federigo? Nulla! Noi non siamo assassini, - dissero alcuni operai. Si; tutti assassini e vili, se non vendicate il compagno morto, indicando chi lo uccise. Un silenzio profondo regnava sul piazzale. Dunque? - domandò Roberto, facendosi pallidissimo dalla rabbia. - Dunque? Se denunziassimo un compagno, saremmo spie! dissero alcuni. - Non siamo sbirri noi! Roberto incontrava ovunque l'omertà, quella lega del silenzio, quel mistero impenetrabile che avvolge ogni atto vergognoso; infame; ovunque s'imbatteva nell'indifferenza apparente, contro la quale doveva infrangersi la sua potente volontà. Che cosa poteva fare, egli solo col Varvaro e quattro guardiani, contro trecento uomini? Tenerli sequestrati fino all'arrivo dei carabinieri? Questa idea gli balenò nella niente; ma la respinse. Si sarebbero ammutinati, avrebbero dato fuoco agli alcools, sarebbe stata la rovina. E intanto il cadavere di quel povero vecchio; con gli occhi spalancati, pareva che chiedesse a Roberto di esser vendicato. L'orologio dello stabilimento suonò mezzogiorno e gli operai ruppero le file, andarono in cerca dei loro mantelli e uscirono salutando il padrone, il quale non osò trattenerli. Signor Frangipane - disse il professor Angelini, che aveva assistito a quella scena, - la vostra vita non è lieta; ne la vostra missione facile. Non è stato sempre così; - rispose Roberto. Da qualche tempo tutto misi scatena contro; ci deve essere qua dentro qualcuno che mi odia, - e, chinatesi sul cadavere del vecchio, le cui labbra avevano tante volte invocata su di lui la benedizione del ciclo, i cui occhi lo avevano per tanti anni fissato con riconoscenza; li chiuse e ordinò che il cadavere fosse composto sul letto di un guardiano. Poco dopo il professore partiva insieme con don Calogero, il quale doveva far la denunzia alla giustizia. Il professore, prima di salire in carrozza, disse a Roberto: Se le è cara la vita della signora, le nasconda questo fatto e l'allontani di qui. Ha un temperamento nevrastenico e queste scosse potrebbero esserle fatali. Mentre il medico oculato faceva questa raccomandazione a Roberto, Costanza entrava in camera della signora, urlando: Hanno assassinato Federigo! Hanno assassinato Federigo! Velleda a quel grido era balzata dal letto, s'era gettata addosso, una veste e scendeva barcollando le scale. Roberto, che era accorso alla villa per raccomandare a tutti il silenzio su quel fatto, la raccolse fra le broccia mentre stava per cadere e la riportò in camera. È troppo! - gridò Velleda avvitichiandoglisi al collo.

Nei primi tempi Alessio non mancò mai ai convegni e ora s'incontrava con la Costanza nella grotta marina, ora sotto le lunghe rame di una carrubba, che li avvolgeva col suo fogliame scuro, ora in una casupola abbandonata a poca distanza della villa. Poiché egli fu sazio delle carezze ardenti della donna, si fece pregare, supplicare, e quelle suppliche sollecitavano la sua vanità. Spesso le dava un convegno e poi mancava. Costanza dava in ismanie, pregava la Madonna, poi faceva le carte per vedere se era tradita e non riacquistava la pace altro che quando lo stringeva fra le sue braccia frementi di passione e lo vedeva desideroso di lei. In questo tempo Velleda giunse alla villa e Costanza non l'accolse ostilmente, perché sperava di avere maggior libertà ora che la signora si sarebbe occupata di Maria. Velleda, con la sua grazia tranquilla esercitò subito una specie di fascino su quella creatura quasi 0128 selvaggia. La signora era inoltre delicata, e la bellezza parla sempre alle anime meridionali e le induce alla simpatia. Poi Velleda non era superba; anzi parlava a Costanza con bontà e non le diceva di uscire quando talvolta divertiva Maria narrandole novelle meravigliose, che la contadina ascoltava a bocca aperta, che la distraevano dal pensare ad Alessio e l'aiutavano a trascorrere meno angosciosamente le ore in attesa dei convegni. Alessio aveva terminato di lavorare alla villa e Roberto lo aveva generosamente ricompensato. Ma la generosità del padrone invece di commuovere quell' anima pervertita; gli dette sete di maggiori guadagni. Allo stabilimento lavorava di più e era pagato meno. Fu allora che si diede a sobillare i compagni, spingendoli a chiedere un aumento di salario. Il malcontento, nato nell'officina dei fusti, si propagò ben presto ai magazzini, e un sabato sera, mentre Roberto era occupato a firmar lettere nello studio, si presentò un guardiano ad annunziargli che una deputazione di otto operai chiedeva di parlargli. A Roberto non erano sfuggite le mene e i chiacchierii di quegli ultimi giorni e capì subito di che si trattava, ma dette ordine che passassero. Alla testa degli operai era Alessio ed a lui gli altri lasciarono la parola. - Noi non possiamo continuare a lavorare alle condizioni di prima. - disse. - Vogliamo un aumento di salario. Lo stabilimento prospera e noi abbiamo diritto a viver meglio. Roberto s'era alzato e dominava tutti con l'alta persona. La sua bella calma non lo abbandonava. Non posso dare aumenti e anche se potessi non cederei mai dinanzi al tuo " voglio ". Alessio. Tu guadagni più degli altri e mi fa specie che tu osi lamentarti. - Io difendo i diritti dei miei compagni e sono con 0129 loro solidale. Se non abbiamo la promessa di un aumento, lunedì nessuno di noi si presenterà al lavoro. Ebbene; lo stabilimento rimarrà chiuso, - rispose Roberto. - Potete andare, e con un gesto della mano indicò agli operai la porta. Fuori gli altri attendevano e quando Alessio riferì la risposta avuta, si udirono fischi e grida. Roberto non s'intimorì per questo. Uopo aver firmato le lettere, guardò la pendola sospesa al muro e vedendo che indicava l'ora del desinare, si alzò, prese il cappello e traversato il piazzale uscì dalla porta dello stabilimento, passando in mezzo alla turba eccitata. Nessuno lo salutò, ma nessuno osò torcergli un cappello. Il lunedì mattina neppur un operaio andò al lavoro; ma il giovedì già cento si erano raccomandati per venire riammessi e il lunedì successivo anche Alessio tornava, insieme con gli altri della deputazione. In quella settimana aveva fatto baldoria e spesso alla sera era andato a cercar Costanza nella grotta per chiederle danaro, che ella gli dava tutta lieta, dicendogli : Prendi; tutto quello che ho è tuo: non sono tua io? Pochi giorni dopo che era terminato lo sciopero, Roberto aveva trovato Alessio in combriccola insieme con altri operai nell'ora del lavoro e aveva sorpreso queste parole : Abbiamo dovuto chinar la testa, ma verrà il giorno che la chinerà lui. Il padrone aveva fissato Alessio per fargli intendere di aver capito tutto, ma non aveva aperto bocca. Però, essendosi accorto in seguito che molti lavoravano svogliatamente, aveva chiamato Alessio e gli aveva detto : Se l'ordine e la disciplina non ritornano nello stabilimento, tu sarai licenziato. 0130 Perché io? - aveva domandato sfrontatamente Alessio. Perché tu sei il mal seme, che occorre estirpare. Ti ho ammonto più volte, ho cercato di ricondurti sulla buona via; tutto è stato inutile, peggiori sempre. Alessio era andato via borbottando. La sera dopo Roberto, tornando da Castelvetrano a cavallo seguito da un guardiano aveva sentito due palle fischiargli all'orecchio. Non aveva fatto denuncia, anzi aveva ingiunto al guardiano di tacere, ma la mattina dopo s'era rinchiuso insieme con Alessio nello studio e gli aveva detto : Tu hai voluto uccidermi ieri sera. Se ritenti il colpo e sei più fortunato, vai in galera, perché io ho scritto un rapporto del fatto, designandoti come colpevole. Per ora non ti denuncio, ma ti mando via. Esci subito. Alessio non aveva detto una parola a sua discolpa e se n'era andato. Alla fine della settimana erano licenziati i suoi amici, e da quel giorno l'ordine, la disciplina e il rispetto per il padrone avevano regnato nello stabilimento. Però da quel momento era incominciata una vita d'inferno per Costanza. Alessio non aveva trovato lavoro non voleva andarne a cercare a Marsala e viveva alle spalle di lei. Prima le aveva finito tutti i risparmj, poi le aveva preso le gioie, e se la donna non si mostrava arrendevole, egli stava giorni e giorni senza farsi vedere. Più volte le aveva chiesto di farlo entrare di notte alla villa, per non esser sorpresi nella grotta o in aperta campagna, ma ella si era sempre rifiutata per timore d'essere scoperta dal padrone. Dopo la partenza di Roberto aveva ceduto ed Alessio era stato diverse notti nella camera di Costanza, salendo da una scala di corda che ella gettava già dopo le undici prima che la signora sciogliesse i cani e si ritirasse in camera. Un indugio di Velleda nella sera fatale aveva 0131 portato all'arresto d'Alessio, e ora nella camera che le rammentava tante voluttà, la selvaggia contadina in preda alla smania malediceva la signora e con la mano alzata in alto minaccioso, diceva: Madonna, fate che possa soffrire quanto soffro io!

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