Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonata

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IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

La notte, sentiva un lamento: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! Saltava da letto, credendo che Trottolina fosse già diventata persona viva: andava a guardarla; niente. Trottolina era tuttora di legno e stava appoggiata contro il muro in quell'angolo dove l'aveva buttata. Ogni notte però quel lamento: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! Il Reuccio non poteva più dormire. Ordinò che gliela levassero di camera e la portassero in cantina. Non valse. Tutte le notti, dalla cantina sentiva fino in camera sua quel lamentio. - Non vuoi chetarti? Aspetta: ti concio io! Scese in cantina con un'accetta, per fare in pezzi trottola e Trottolina; ma alla vista di lei, che era così bella e graziosa, sentì intenerirsi il cuore. Era cresciuta tanto che pareva una bella ragazza di diciotto anni; e ora, per far girare la trottola ci voleva molta forza. Non si trattava più d'una Trottolina, ma d'un trottolone, e invece d'un laccetto, occorreva proprio una fune. I genitori del Reuccio erano morti; il Re era lui. Mancava la Regina; e i Ministri gli dissero: - Maestà, il matrimonio con Trottolina non regge: sposate una donna vera. Il Re si lasciò persuadere e risolvette di sposare la Reginotta di Spagna. Il giorno delle nozze, la Reginotta di Spagna si sentì male tutt'a un tratto e in poco d'ora morì. Il Re se n'accorò. La notte, il solito lamentìo: - Ah, Reuccio, Reuccio, come m'hai abbandonata! - Non sono più Reuccio. Aspetta: ti concio io! Scese in cantina, prese delle fascine, le messe torno torno alla trottola e a Trottolina e vi appiccò il fuoco. Una vampata; ma la trottola in fiamme cominciò a girare a girare, mettendo fuoco a ogni cosa. Saliva le scale, correva per tutte le stanze del palazzo reale, e dove passava attaccava il fuoco. In un attimo il palazzo fu in fiamme. La trottola girava e Trottolina parlava: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Il Re le correva dietro, tentando di spegnere le fiamme: - Fermati, Trottolina! Ma si bruciacchiava le mani inutilmente: Trottolina non si fermava; e sembrava lo canzonasse col suo: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Attorno al palazzo c'era una gran folla, accorsa per spegnere l'incendio. Chi attingeva acqua, chi portava le secchie, chi le vuotava; fatica sprecata: più acqua buttavano e più le fiamme prendevano forza; salivano fino al cielo. Dal gran fumo non ci si vedeva. E tutti piangevano il Re che doveva essere carbonizzato a quell'ora, insieme coi Ministri e le persone di corte. Quando fu giorno, invece che si vide? Nel luogo del palazzo reale c'era un magnifico giardino, e più in là un altro palazzo reale, al cui confronto quello bruciato sarebbe parso una bicocca. E pei viali del giardino il Re e Trottolina, diventata persona viva, di carne e d'ossa, che presi per mano passeggiavano come se nulla fosse stato. Trottolina diceva scherzando al Re: - Buon giorno, Maestà! Buona notte, Maestà! Ma non girava più; non aveva più la trottola sotto i piedi. Ora che Trottolina non era di legno, il Re la sposò per davvero. E furono marito e moglie; A loro il frutto, e a noi le foglie.

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 2 occorrenze

Il concetto pessimista del mondo, che costituiva il fondo della nuova religione, dava necessariamente un altro aspetto alla natura e un altro significato alla vita; poi l'impero rovinante, il profondo avvilimento di una civiltà, che si sentiva esaurita e si presentiva distrutta mentre i barbari ruggivano a tutte le frontiere: l'esistenza ridotta un'orgia pei pagani fisi all'Olimpo e un'espiazione pei cristiani intenti nel Golgota; la terra abbandonata dalle antiche divinità e non ripopolata dalle nuove; il dubbio rimasto ultima affermazione di quanti pensavano ancora, l'indifferenza suprema virtù di coloro che resistevano tuttavia, il martirio estremo eroismo di quelli che ricominciavano a credere. Poi i barbari irruppero, l'impero sprofondò, la civiltà si spense, e sul suo cadavere morto di vecchiaia la natura non intese per molto tempo che canti di salmi e singulti di pianto. Un grande spostamento aveva avuto luogo; nel mondo antico il tempio era all'aperto, di marmo bianco, giocondo come una terma, mentre l'Eliso stava nel centro della terra, freddo e scuro come un sepolcro. Nel mondo nuovo il primo tempio era stato sotto terra, e l'Eliso in cielo. Quando i poeti ritorneranno a cantare, l'elegia avrà dunque la nostalgia del sepolcro e l'ode quella del paradiso: quindi l'una canterà con voce più bassa, l'altra volerà con ali più forti. Poi l'idillio, sopravvissuto e destinato a sopravvivere sempre nelle improvvisazioni popolari come prima ed ultima forma dell'egloga, tentò di risorgere artisticamente fra le fole, le ballate, le sirventi, ma la nuova fanciullezza del mondo, non era come l'antica, e la purificazione esercitata dal cristianesimo sulla natura aveva messo la diffidenza nell'uomo. La bellezza era stata dichiarata un pericolo, l'amore un peccato. La coscienza atterrita dal problema religioso non poteva più bearsi nell'eterna giovinezza dei campi: l'arte avendo tutto obliato ricominciava bambinescamente sotto la ferula della religione, la vita ancora sofferente delle proprie crisi non aveva più abbandoni, onde fra la vergine e il cavaliere, i due tipi nuovi, l'idillio non fu possibile. Ma quando nella civiltà progredita rifiorirono le lettere, e la bellezza ridivenuta plastica restaurò il regno delle forme, l'idillio comparve nuovamente coll'imitazione di Virgilio in Italia, più tardi coll'imitazione dell'Italia in Francia per finire da noi in un'Arcadia di accademia, là in una Arcadia di corte colle pastorelle vestite di seta e il verso trapunto come i loro abbigliamenti. La letteratura aveva rinvenuto il modo, non il tempo dell'idillio. Poscia vennero il romanticismo e la musica; il primo invece di abbigliare le pastorelle di seta le ornò di sentimenti anche più fini, ed ebbe per la natura entusiasmi di sacerdote, tenerezze di amante; la seconda, più intima e quindi anche più vera della poesia, accennava già di riuscire quando il contatto del romanticismo e le false abitudini del teatro la viziarono così che nello stesso capolavoro immortale di Bellini, malgrado la freschezza dell'ispirazione e la grazia delle movenze, manca troppo spesso la semplicità. Finalmente l'idillio passò in Inghilterra, e là, dentro una letteratura, nella quale si era sempre notato il predominio di quanto oggi chiamasi con brutta parola realismo, si disse che Tennyson era risorto. Infatti a prima vista tutte le condizioni vi sembravano riunite. Un popolo coltissimo e non ancora in decadimento, abbastanza ricco per avere il gusto e l'abitudine della campagna, con un sentimento schietto della vita e una predisposizione alla malinconia corretta dalla fortezza della tempra. La sua campagna era feracissima, la sua religione quasi ragionevole, la sua filosofia poco teoretica, la sua poesia semplice per indole per tradizione. Tennyson stesso non poteva essere meglio dotato dalla natura ed esercitato nello studio. Ma il ferreo carattere inglese diventato di acciaio al fuoco della grande rivoluzione puritana, si era ancora più indurito nel lungo e fortunato esercizio commerciale: la religione agghiacciatasi dopo il trionfo aveva come coagulato il sentimento del popolo, il classicismo rimasto nelle lettere e nei costumi malgrado l'influenza di Byron e di Shelley irrigidiva ancora il gusto dell'aristocrazia. In Inghilterra più che altrove il concetto della vita e dell'amore erano in antitesi coll'idillio, L'agricoltura vi ha ridotto il podere come una fabbrica cogli stessi operai, le stesse macchine, la stessa speculazione crudele e trionfante: la bigotteria protestante, molto peggiore della cattolica, aiutata dall'indole del popolo e dalla sua storia vi ha costretto l'arte ad un ufficio puramente morale; quindi negate tutte le passioni, contati i generi e i tipi. Da molto tempo il teatro inglese è chiuso, per molti anni non si aprirà se la vita non vi ritorni coll'arte, quella vita, che oggi non si vuole nel romanzo perchè si condanna il romanzo nella vita. Così la ragazza inglese, ammirabile per la sua superbia d'individuo capace di bastare a sé medesimo, è forse meno di ogni altra incline all'idillio, mentre nella dignità del proprio carattere deve giudicare sconveniente ogni più ingenua confessione dell'amore. Nella Grecia non era così. La Simetha di Teocrito non è cortigiana, ma una piccola borghese come la Margherita di Goethe, camuffata così miseramente dal Gounod in angelo. Innamorata e tradita dall'amante ricorre agli scongiuri. La scena è la stessa che ai nostri giorni, solamente il rito n'è cambiato. Invece dei lauri oggi si usa il mazzo delle carte. È notte, il luogo deserto, un cortile o un giardino. La luna sogguarda dalle nubi. Simetha accompagna lo scongiuro cantando, e il suo canto esalato a voce bassa è di un effetto terribile. Si direbbe quasi un canto calmo se il ritornello indirizzato al fuso, che girando sopra sè stesso deve attirare l'assente, non avesse uno stridore di arma omicida. I cani salutano dai boschi la luna, poi il mare si queta, il vento tace, ma non le tace nel petto la passione per colui, che doveva sposarla e invece ha fatto di lei una miserabile disonorata. Questo lamento di una bellezza funebre nei versi greci è tutto di amore. Simetha non piange la verginità perduta, ma l'amante involatosi dietro un altro amore, mentre ella mostrata a dito dalle compagne più fortunate dovrà subire le baie dei giovanotti più depravati del paese. Allora il ricordo delle passate voluttà torna a fermentarle nel sangue e, levando verso la luna, che le confonde il proprio pallore sul volto, ella invoca la pianta famosa dell'Isyomane, che fa delirare cavalli e puledre lungo le valli di Arcadia. - Ah! ah! odioso amore, perchè attaccandoti al mio petto come una mignatta di palude hai bevuto tutto il sangue nero del mio corpo? - esclama cacciando un grido quasi per un morso improvviso. Questo urlo la esaurisce, ha bisogno di restare sola. La stessa presenza della vecchia Testili le diviene insopportabile, quindi la manda ad ungere la porta di Delfi con una atroce mistura di veleni. Qui la scena muta, e comincia la seconda parte dell'idillio. Simetha si sdraia per terra come una bestia, in tormento e singhiozzando, cantando, racconta a sè medesima colla passione di tutti gli infelici il proprio male. Il racconto è un capolavoro di verità e di poesia. Il ritornello della invocazione a Diana, che lo riannoda interrompendolo, invariabile nelle parole muta significato ad ogni strofa coll'accento della voce languida o minacciosa, famelica o supplichevole. Un giorno, non è molto, la sua amica, Anasso, venne ad invitarla per la festa di Diana; vi si recarono coi canestri e videro molte fiere, fra le altre una leonessa, della quale le è rimasto il ricordo. Simetha aveva fatto la più accurata toeletta, perchè la giornata era splendida ed avrebbero incontrati molti giovanotti. Infatti a mezza strada s'imbatterono in due dei più belli, Delfi e Eudamippo, che uscivano dalla palestra rossi, sudanti. Vederlo, amarlo, fu un punto solo, un colpo di vento, uno scoppio di fulmine. Forse l'amore covava da lungo tempo nel suo cuore: l'atmosfera era favorevole, la stagione di primavera, il cielo quasi bianco a forza di essere puro, Simetha innamorata di Delfi oblia la festa e scappa a casa; se fosse rimasta, e Delfi le avesse rivolta la parola, sarebbe scoppiato uno scandalo. Così Shakespeare molti secoli dopo ha fatto innamorare Giulietta e Romeo: la prima qualità dell'amore semplice è la prontezza. Appena in casa Simetha si caccia in letto e si ammala. Per dieci giorni, dieci secoli, non mangiò né bevve: un pensiero le tendeva il cervello, uno spasimo le bruciava il cuore, Delfi. La fisonomia le si emaciò, la pelle le divenne gialla come il topazio; allora pensò agli scongiuri, risorsa di tutte le immaginazioni deboli, ma gli scongiuri furono insufficienti. Ad ogni invocazione le crebbe la smania, quantunque volte pronuncia il nome di Delfi le labbra le scottano ancora. Non rimane più che un rimedio, mandare Testili da Delfi; la passione l'aveva trovato subito, ma la ragione esitava. Testili va e torna con Delfi. Qui è il punto culminante del poemetto. Parla Simetha: con un solo tratto Teocrito si rivela poeta ed osservatore di primo ordine, giacchè rivedendo con gli occhi della fantasia Delfi entrare dall'uscio ella interrompe il racconto per gettare il grido del ritornello come se la stessa emozione le si ripetesse nell'anima, e il medesimo strido della prima volta le rompesse dalle labbra. Poi un freddo le tocca tutte le carni, un sudore abbondante come una rugiada la bagna, e non può parlare nemmeno come i bambini balbettano nel sonno vagendo verso la madre. Quest'ultima nota è di un patetico profondamente femminino, giacchè l'amore sveglia sempre la maternità nella donna. Delfi entra bello e fatuo conquistatore, anche adesso le pare di rivederlo; le siede con famigliarità quasi protettrice sul letto e per farle un complimento comincia a parlarle di sé stesso, dicendo che il suo invito lo ha prevenuto come l'altro giorno egli sorpassò il bel Filino alla corsa. Naturalmente cita il più bello fra i propri amici per provarle che non teme confronti. E Simetha gli dà ragione. Per le Delfi non è l'elegante antipatico di tutte le decadenze, ma il Delfi bello, dal petto largo, dalle membra agili, il vincitore della palestra. Simetha non ha torto. Oggi ancora le donne, che si avvicinano al suo modo di sentire, sono forse anche meno esigenti, non pretendono neppure che Delfi sia bello. Ma come tutte le persone troppo amate, Delfi non ama; in pochi giorni si stanca di Simetha e la trascura; ella trema, piange, finché apprende da un'amica che Delfi è innamorato altrove, s'ignora se di un uomo o di una donna. Simetha stessa non lo ricerca: che le importa il nome? Ella non è gelosa, giacchè la gelosia discende quasi sempre dalla testa mentre ella ama coi sensi: esige Delfi, ma trova forse naturale che altri lo desideri, solamente non vorrebbe perderlo. In questo ultimo caso giura piuttosto di ucciderlo, ma anche allora non si preoccupa della rivale. Simetha ama troppo Delfi per odiare un altro. Giammai vi fu idillio più povero e più bello; oggi dopo tanto mutamento di età noi lo sentiamo ancora, noi che non possiamo più scriverlo e, quello che è peggio, rifarlo. Teocrito ha messo l'elegia, fors'anche la tragedia, in fondo all'idillio giacchè Simetha può bene ammazzare Delfi in un incontro, a certe ore, in date circostanze. Tennyson ha fatto altrettanto, ma invece di Delfi è la regina che morirà: idillio, elegia e tragedia si seguono formando un solo componimento. Là un fatto che rivive in un racconto, qua un soliloquio nel quale si perde un fatto; Teocrito ha scolpito un gruppo, Tennyson fuso una statua; il gruppo è molto nudo, la statua molto panneggiata, il primo prorompe dalla vita, la seconda rientra nel sogno. Siamo alla vigilia della festa di Maggio. La futura regina è nella propria casetta, sola con la madre, alla quale raccomanda di svegliarla presto l'indomani per avere il tempo di abbigliarsi: domani è la gran festa, si dà il premio della bellezza, la più bella sarà nominata regina. Essa ha già contato i voti, sono tutti suoi. Nella ingenua vanteria dei primi trionfi la regina non sa frenarsi e come Delfi particolareggia alla madre piangente di gioia le proprie bellezze. L'apertura della scena è vera, il ritornello, che come un'eco delle ovazioni imminenti interrompe quel soliloquio, ha una grazia e una leggerezza inimitabili. Come le frasi leggermente retoriche tornano e vibrano nelle sue spezzature! Ma ecco che dalla ragazza prorompe la vergine. Ella non ha mai amato e non ama: la hanno detto che ha un cuore selvaggio, ma non ha risposto perché non avevano colpito nel segno. Molti giovani, dei quali non ricorda più il nome l'amarono. Uno solo, Rubino l'ha colpita. Ella lo vide sempre solo, raccolto in sé stesso, schivo della gente: Rubino l'ama senza averglielo mai detto. Questo riserbo è la sua superiorità sugli altri giovani, l'unica ragione per la quale ella talvolta pensa a lui; anche Rubino deve essere vergine, ma ha una fisonomia pura e malinconica, il riflesso dei lunghi sogni sulla fronte. Ma la ragazza ripiglia il sopravvento, e perdendosi già con la fantasia nel tumulto glorioso dell'indomani, con versi esultanti e sapienti, forse troppo sapienti, dipinge alla madre il quadro della festa entro il paesaggio calmo della valle che somiglia alle valli di tutte le descrizioni. Vi è persino il rivolo, che mormora tra i sassi, il sole, che al tramonto indora le cime delle colline. All'ultimo scoppio del ritornello si sente lo scoppio del bacio, che la futura regina dà alla mamma intenta a rimboccarle le coperte. Passò un anno. La regina è ammalata di tisi, la malattia delle vergini e delle sante: quando l'anima sola vive il corpo non ha che morire. Si è levata sentoni sul letto e prega la madre di svegliarla all'alba per vedere l'aurora del nuovo anno. Il soliloquio prosegue lento e stentato: un lumicino rischiara la camera, nell'aria pesa la nausea di un alito viziato, ma l'inferma perdendosi nei ricordi della propria incoronazione vorrebbe vivere fino alla prossima primavera. Perché? È un rimorso, che le sale dal corpo disfatto come un bisogno supremo di sentire la natura prima di abbandonarla? O il desiderio di avere molti fiori al proprio funerale? Chi lo sa? Quindi coll'intenerimento contagioso dei malati parla della chiesetta parrocchiale, rammenta il piccolo camposanto, finché ripresa improvvisamente dalla vanità della ragazza, con un irresistibile impeto d'affetto espresso in versi mirabili, scongiura la mamma a seppellirla sotto la spinalba, che nel mattino trionfale di maggio le fece da baldacchino al trono. La vanità è dunque la sua unica passione, come la tisi doveva essere la sua unica malattia, s'ella non vuole che corone e non sogna che di mostrarsi dall'alto, sui gradini di un altare o di un trono? Forse, ma i sermoni del buon pastore le sovvengono a tempo e, soffocando tutte le voci dell'orgoglio, le sgorgano dalle labbra scolorite in tante consolazioni per la mamma. Povera mamma! Come dev'essere dolorosa la morale evangelica in bocca di una figlia morente, come consolerebbe di più il sentirla piangere nel dolore dell'abbandono che il vederla rassegnata alla necessità della partenza! Il desiderio dell'ammalata fu esaudito: la primavera è tornata battendo con le foglie delle pianticelle rampicanti ai vetri della sua finestra. Perché mai questa vergine, che non ha amato il mondo, questa tisica che sta per abbandonarlo con gioia, si perde ad analizzarne con arte sì fina e talvolta con particolari così dotti tutte le loro bellezze alla madre? O fu un capriccio d'inferma, o è stato un difetto nel poeta. L'agonia si avvicina: il prete è uscito dopo aver benedetto la morente, mamma e figlia sono sole. Il canto del finale incomincia con un canto sacro; gli angeli sono passati a volo pel cielo suonando le arpe; Regina le ha sentite due volte, alla terza morirà. Un angelo librato nel vano della finestra, lontano, nell'azzurro, la chiama. - Addio sorella, addio mamma! La ragazza spirando rivela il proprio segreto di vergine, quindi il sogno di paradiso le ricomincia nell'anima, e in quel sogno s'addormenta. Ecco la figura messa da Tennyson dinanzi ai propri idilli come quella che più altamente esprime la sua poesia idilliaca. Il paesaggio è inglese, colori freddi, aria umida, vegetazione rigogliosa. Una agricoltura sapiente ha migliorato ogni pianta: case, mulini, castelli, tutto a posto, il quadro pare il paese, ma il paese pare un quadro. La regina muore: che cosa farebbe nella vita? Diventerebbe prima sposa, poi madre, poi massaia: addio quindi poesia, perché tutta la poesia consiste nella verginità, primo grado dell'angelo. Invano parla sempre di fiori e li conosce, ne sa persino i nomi difficili: forse li imparò adornando l'altare della chiesetta, ma i fiori non le dissero una parola della loro vita così simile alla nostra, vita di amore e di generazione. L'idillio di Tennyson è dunque un'elegia ancora più romantica che cristiana, alla quale Lamartine non è estraneo, giacchè nel canto o nell'accompagnamento, nella voce o nell'accento, qualche cosa di suo vi si intende. Che cosa pensa Tennyson della Simetha di Teocrito? Non lo so, ma si potrebbe forse saperlo, e forse ne pensa diversamente da noi, ma che cosa penserebbe Teocrito della Regina di Tennyson? Adesso l'Inghilterra è per Tennyson, poeta laureato della regina, i lords lo accettano tra di loro, i borghesi lo venerano, i pastori lo citano, il pubblico lo paga come non ha mai pagato nessun poeta, i critici lo dichiarano superiore a Byron e si sono lagnati solo una volta, quando volle imitarlo dopo aver imitato tutti; ma il mondo è per Teocrito, il poeta della natura, che nessun periodo di civiltà ha ancora invecchiato, che forse nessun altro poeta sorpasserà. Teocrito vive in fondo a tutti i cuori: è laggiù nei nostri primi ricordi, nei nostri primi sogni d'amore, nel nostro primo risveglio alla vita e alla verità. Tutti noi avemmo qualche Simetha e qualche Regina, vivemmo nell'elegia e aspirammo alla sana giocondità dell'idillio antico. Così la letteratura inglese, che ha avuto Shakespeare e avrà Tennyson ancora per poco, pare accenni anch'essa di ritornare all'antico per interrogare la natura con nuove intenzioni. La Francia ha ritrovato Zola e Zola ha ritrovato la Miette; l'Inghilterra non può quindi tardare molto a rinvenire un altro poeta, che alzi nell'atrio del proprio monumento un'altra maggiore statua, perché secondo il motto di Pindaro "all'ingresso di ogni opera d'arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano".

Infatti la maggior parte di coloro che non ballavano l'avevano abbandonata; per le finestre spalancate l'aria della notte, entrando con un freddo umido, sbatteva sinistramente le fiamme dei lumi a petrolio, mentre gli ultimi ballerini, i più ostinati, ballavano come trottano i cavalli da vettura poco più discosti dalla stalla anche se sfiniti. Egli non rideva più. Gli sembrò che la gente lo esaminasse, Toto e Ghino erano spariti, nel botteghino vuoto del caffè la Veronica affranta dormigliava sopra una sedia. Nell'insopportabile crescendo di quella oppressione si ricordò l'atroce ingiuria detta nel pomeriggio al padre, ridotto ad uno spettro, spregiato da tutti per le violenze di una volta, e che nullameno lo aveva sempre amato alla propria maniera. La mamma era morta l'anno passato, in una sera di carnevale, mentre egli, Viù, ballava in quello stesso pozzangherone: se ne ricordava benissimo, che erano venuti indarno a chiamarlo, ma sin d'allora anche i peggiori giovinastri del paese lo avevano giudicato e condannato senza appello. - Vogliamo fare il saltarello? - gli passò innanzi Berta. - Balla tu l'ultima zucchetta - aggiunse un altro. - Balliamola, balliamola! - replicò Berta. - Ti ho detto di no, figlia di beccamorti. - Tu sei il beccamorti, che uccidi tuo padre. - Ohé, ohé! - intervenne il padrone - qui si sta allegri. Balli o non balli la zucchetta? - Viù scrollò la spalla gobba senza rispondere. - Che canaglia! - gli disse dietro il padrone. Ma appena fuori il tormento gli si fece più acuto, avrebbe voluto sapere a qualunque costo come la era andata a finire, e invece appena il pensiero gli si fermava su quella domanda si sentiva correre per le ossa un brivido gelato. Qualche cosa, che prima non avrebbe mai supposto, gli capovolgeva la coscienza, bizzarri rimorsi della vita condotta sino allora gli battevano sul cervello colla violenza di un'accusa, contro la quale non trovava risposta; perché aveva fatto così? Involontariamente tornò al muraglione spiando giù nelle tenebre, ma non udì altro che il rombo del fiume, continuo e misterioso, perdersi nell'invisibile. La notte buia diventava sempre più fredda senza stelle e senza vento: egli solo era così agitato. Sapeva dove abitava Santone, ma non ebbe il coraggio di passare da quel vicolo per vedere se vi era lume alle sue finestre, e Santina vi fosse tornata. Ella era come lui depravata e perversa. Era riuscita a scappare senza farsi riconoscere? Avrebbe voluto sperarlo, perché non ne sarebbe a quel modo rimasto più che uno scherzo: che importava il fatto, se Santone non se ne accorgeva? Questa strana moralità era la sola, nella quale vedesse chiaro. Poi quella tensione troppo forte per il suo spirito si spezzò lasciandolo in una specie di sonnolenza bruta, con un malessere di sbornia e una ripugnanza istintiva a tornare in casa, dove suo padre solo sul pagliericcio stava senza dubbio rantolando come tutte le altre notti. Accese la pipa e ripassò per tutto il villaggio, quanto era lungo, mettendosi sulla strada di Porciano. Adesso pensava alla Sghemba, quell'altra sgualdrina egualmente nota ai due paesi per la brutalità chiassosa delle proprie avventure, e ancora abbastanza bella malgrado i quarant'anni passati. Cantò Mengo, da lontano: Fior di cicuta. Io remo e la barchetta va spedita Perché, donna, dal cor mi sei caduta. Allora Viù affrettò il passo per incontrarlo, ma quando poté scorgere un'ombra s'accorse che un'altra le veniva dietro. Si avvicinava lentamente, egli riconobbe Santone e saltò la siepe nascondendosi dietro un grosso olmo. Si capiva che andavano a spasso per digerire il troppo vino ingollato, poi Mengo traballando riprese il discorso di prima con quella ostinazione degli ubbriachi, specialmente quando un ricordo affettuoso li mette sui racconti di famiglia. - Perché vedi - si sentiva piagnucolare la sua voce - io le volevo un gran bene; l'avevo sposata senza la camicia contro la volontà di mio padre, che mi avrebbe voluto dare in moglie la Ghita. Va là, vi avrei trovato duecento scudi di dote, che non mi avrebbero giovato gran cosa. Bisogna amarsi piuttosto in famiglia: allora, anche se torni a casa qualche volta ubbriaco, tutto si accomoda. La Ghita ha sposato Giustino, ebbene, Giustino ha fatto un cattivo affare... bisogna che porti sempre il basto e lei sopra. Tu capisci. Ma se vi volete bene in famiglia... la non dura. Qualche cosa ci ha sempre da essere di guasto in casa, o la moglie o la figlia. Santone dié un soprassalto. - Non dico per la tua, ma è così. Io non ho figlie, se le avessi, farebbero come le altre; che colpa ne abbiamo noi? Io me lo sono detto mille volte, i primi giorni, quando mi veniva da piangere anche per strada; e che, la colpa è mia, se Teresa mi è morta di parto? Lo so, doveva accadere così, perché fu così, ma mi pare, guarda, mi pare talvolta ancora di avercene avuto colpa. Non è vero: io non ce ne ho avuta, dillo anche tu. Non avrebbe potuto accadere anche a te? Tu vai a casa, e la moglie resta gravida: ebbene? Dovevo saperlo io che sarebbe morta? - Santone alzò la testa; erano oramai presso l'olmo, ma l'altro non finiva il discorso. - Infine - mormorò Mengo - chi non ne ha colpa non ne ha. Che cosa ci può fare un uomo? Ti capitano alle volte delle cose che non si crederebbero a raccontarle: io ho ammazzato mia moglie, sono io l'assassino! - esclamò Mengo con un singhiozzo. - L'assassino è chi lo sapeva! - mugghiò Santone cupamente stringendo i pugni nell'ombra. Eppure nessun altro assassinio n'è seguìto. Il fatto narrato la mattina da Toto occupò tutti i discorsi del paese senza che alcuno pensasse a denunciarlo alle autorità. Viù, sbigottito, sulle prime tentò di negare, ma siccome Santone era partito per Porciano, dove andava qualche volta a lavorare nelle carbonaie, non stette molto a vantarsene. Quindi la lubricità dello scherzo ne fece presto dimenticare l'orrore, molto più che Santina negando risolutamente non se ne mostrava affatto preoccupata. - Il rovescio di Mirra! - disse un giorno il segretario comunale, appassionato filodrammatico, vedendola passare sgonnellando per la strada. - Mirra, che cosa? - chiese il sindaco, ex maresciallo dei carabinieri, che aveva preso moglie nel paese. E l'altro colse a volo l'occasione di spiegargli lungamente il caso della tragedia alfieriana.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Mentre il macchinista, abbandonata la ruota al capitano, andava a prendere le armi, i mongoli continuavano vigorosamente la caccia, sferzando e speronando le loro cavalcature. Dopo il primo slancio dello "Sparviero", erano rimasti subito indietro, ma da qualche minuto, rallentata la marcia dell'aerotreno per non compromettere l'ala già troppo malferma, avevano cominciato a guadagnare qualche centinaio di passi. Si trovavano però ancora a mille e duecento o trecento metri, ossia troppo lontani perché le palle dei loro moschettoni potessero giungere fino allo "Sparviero". Tuttavia di quando in quando, forse per entusiasmarsi o forse per intimorire gli aeronauti, sparavano qualche colpo, assolutamente inoffensivo, perché quelle vecchie armi non dovevano avere che una portata molto limitata, malgrado le grosse cariche di polvere. - Pare che siano proprio decisi a prenderci - disse Rokoff a Fedoro. - Finché i loro cavalli non cadranno, continueranno a darci la caccia. - Sono cattivi questi mongoli? - Forse no, anzi sono ospitali, tuttavia non c'è da fidarsi di loro. - L'hanno più collo "Sparviero" che con noi. - Vorranno impadronirsene. - Resisterà l'ala? - Lo dubito, Rokoff. Oscilla sempre più forte e m'aspetto di vederla cadere da un momento all'altro. - E precipiteremo anche noi dopo. - Vi sono le eliche. - Non basteranno ad innalzarci. - Impediranno o almeno ritarderanno molto la nostra discesa. - Se potessimo raggiungere prima quelle colline che occupano tutto l'orizzonte settentrionale! - Riusciremo a superarle? - Non mi sembrano molto alte - rispose Fedoro, che le osservava attentamente. - E noi ci troviamo? - A quattrocento metri d'altezza. - Se potessimo innalzarci di più! - Il capitano non osa forzare troppo le ali. - Ah, - Cos'hai Rokoff? - I mongoli accelerano la corsa e riprendono il fuoco. - Sono ancora troppo lontani perché le loro palle giungano fino qui. - E noi siamo abbastanza vicini per fucilarli - disse il capitano che li aveva raggiunti, portando tre splendidi Remington. - Volete provare! Il bersaglio non è che a mille metri ed è molto visibile. A voi, signor Rokoff; i cosacchi sono, in generale, dei buoni tiratori. - Cercherò di non smentire la loro fama, capitano. Mirerò il capofila, quello che monta quel cavalluccio morello. L'uomo o l'animale? - Il cavallo prima; d'altronde il mongolo a piedi è come il gaucho della pampa argentina. Non conta più, essendo un pessimo camminatore. - Vediamo - disse Rokoff. S'appoggiò alla balaustrata di poppa, si piantò bene sulle gambe, poi abbassò lentamente il fucile mirando con grande attenzione. L'arma rimase un momento ferma, tesa quasi orizzontalmente, poi uno sparo risuonò lungamente fra le collinette sabbiose del deserto. Il cavallo morello s'impennò violentemente rizzandosi sulle gambe posteriori e scuotendo la testa all'impazzata, poi cadde di quarto, sbalzando a terra il cavaliere prima che questi avesse avuto il tempo di sbarazzare i piedi dalle staffe. Altri tre cavalli che venivano dietro a corsa sfrenata, inciamparono nel caduto, stramazzando l'uno addosso all'altro e scavalcando gli uomini che li montavano. - Ben preso, signor Rokoff - disse il capitano. - Scommetterei un dollaro contro cento che la vostra palla ha colpito quell'animale in fronte. Vi ammiro. - Tiro come un cosacco delle steppe - rispose Rokoff, ridendo. I mongoli, sorpresi e anche spaventati da quel colpo maestro si erano arrestati intorno ai caduti urlando. La loro sosta fu brevissima. Appena videro i compagni rialzarsi, ripartirono al galoppo, sparando e vociando. - Ah! Non ne hanno abbastanza! - esclamò il capitano. - Vogliono farsi smontare? Sia! Stava per puntare il fucile, quando in aria si udì uno scricchiolio, poi il fuso si spostò, piegandosi un po' su un fianco. - Maledizione! - gridò il capitano. - L'ala ha ceduto! Macchinista, le eliche prima che la discesa cominci! Il fuso non si era ancora abbassato, quantunque il movimento delle ali fosse stato subito arrestato. Soffiando un fresco venticello i piani inclinati lo avevano sorretta in modo da far conservare al fuso la sua altezza di quattrocento metri. - Ci raggiungeranno, è vero capitano? - chiese Rokoff. - I mongoli? - Sì. - Guadagnano già. - Ed il vento è debole - aggiunse Fedoro. - Signori, si tratta di non risparmiare le cartucce, almeno fino a quando avremo raggiunto o superate quelle colline. - Rokoff - disse Fedoro. - A me il cavaliere di destra; a te quello di sinistra. - Ed a me quello che li segue - aggiunse il capitano. - Vediamo se possiamo arrestarli. Puntarono le armi appoggiandole sulla balaustrata, poi fecero fuoco a pochi secondi d'intervallo. Questa volta non erano stati tutti cavalli a cadere. Due avevano continuata la loro corsa senza i loro padroni, i quali giacevano sulla neve senza moto. Il terzo invece era stramazzato come fosse stato fulminato, facendo fare al suo signore una superba volata in avanti. I mongoli, vedendo quel massacro, per la seconda volta si erano arrestati, urlando ferocemente e scaricando i loro moschettoni, le cui palle non potevano ancora giungere fino allo "Sparviero". La paura cominciava a prenderli. Passarono parecchi minuti prima che si decidessero a continuare l'inseguimento. Conoscendo ormai l'immensa portata delle armi degli aeronauti, non si avanzavano più colla foga primitiva e rallentavano sovente lo slancio dei loro cavalli. - La nostra scarica ha prodotto un buon effetto - disse il capitano. - È stata una vera doccia fredda che ha calmato i loro entusiasmi bellicosi - rispose Rokoff. - Volete continuare capitano? - È inutile sacrificare altre vite umane. Sono dei poveri selvaggi che meritano compassione. Finché si tengono lontani e non ci fucilano, lasciamoli galoppare. D'altronde, fra una mezz'ora noi li perderemo di vista; le colline sono poco lontane. - Non potranno superarle? - chiese Fedoro. - Non credo. Le ho osservate poco fa col cannocchiale e mi sono accertato che sono assolutamente impraticabili per cavalli. Sono dei veri ammassi di rocce colossali, quasi tagliate a picco, senza passaggi - rispose il capitano. - Prima che i mongoli possano girarle, trascorreranno molte ore e noi guadagneremo tanta via da non temere più di venire raggiunti. - Nondimeno teniamoci pronti a fare una nuova scarica - disse Rokoff, il quale tormentava il grilletto del fucile. - Ce la prenderemo ancora coi cavalli. I mongoli invece si tenevano ad una distanza considerevole, pur continuando la caccia. Che cosa attendevano? Che lo "Sparviero" si decidesse a scendere o che, esausto capitombolasse? Magra speranza, perché l'aerotreno non accennava ad abbassarsi nemmeno d'un metro. Sorretto dai piani inclinati e dalle eliche orizzontali e rimorchiato da quella proviera, continuava la sua marcia, quantunque il vento non accennasse ad aumentare. Solamente la sua velocità da trenta miglia all'ora era discesa ad appena dieci e se i mongoli avessero voluto, avrebbero potuto facilmente raggiungerlo e moschettarlo. Alle dieci le colline non si trovavano che a cinquecento metri. Formavano una immensa doppia collina, la quale si estendeva dall'est all'ovest per parecchie decine di miglia. Più che colline erano rocce colossali e aridissime. Non si vedeva spuntare, né sui loro fianchi né sulle loro cime, la menoma pianticella ed erano così rigide da non permettere la scalata nemmeno a una scimmia. Non essendo alte più di trecento metri lo "Sparviero", che manteneva i suoi quattrocento metri, poteva facilmente sorpassarle senza urtarvi contro. I mongoli, accorgendosi che la preda agognata stava loro per sfuggire, sferzavano violentemente i cavalli e raddoppiarono i loro clamori, ricominciando un fuoco violentissimo, quantunque ancora inefficace per la poca portata delle loro armi. Si agitavano furiosamente sulle loro cavalcature, snudavano le loro scimitarre trinciando colpi a destra ed a manca ed insultavano gli aeronauti i quali si accontentavano di sorridere a quell'impotente rabbia. - Ci prenderete un'altra volta? - gridò a loro Rokoff, minacciandoli col fucile. - Per ora non abbiamo tempo di occuparci di voi. Una scarica violentissima fu la risposta, ma ormai lo "Sparviero" filava maestosamente sulla prima catena di rocce, attraversando un immenso abisso. I mongoli s'arrestarono dinanzi a quegli ostacoli insormontabili, continuando a sparare, poi si slanciarono a corsa sfrenata verso l'est. - Che cerchino di girare le colline? - chiese Rokoff. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?

Una, sola tortura è stata abbandonata, la terribile colonna di fuoco, inventata dall'imperatore Chean-Sin per far piacere alla bella Fan-ki, che desiderava vedere contorcersi, sul bronzo ardente, i condannati a morte. Strumento spaventevole, consistente in una colonna di bronzo cava, che si riempiva di carbone finché diventasse tutta rossa, intonacata esternamente di pece e di resina e che i condannati dovevano a forza abbracciare, mediante catene, e rimanervi finché le loro carni fossero completamente consumate. Eccettuata questa, tutti gli strumenti di tortura sono stati conservati. Per punire coloro che hanno commesso piccoli falli, si servono del bastone. Cinquanta e anche cento legnate, somministrate con una rapidità così prodigiosa che il condannato rischia sovente di morire soffocato, bastano a punire piccoli falli, e anche a rovinare talvolta il dorso al disgraziato che le riceve e che non ha avuto la precauzione di regalare qualche tael agli esecutori. Pei recidivi hanno la cangue, che i cinesi chiamano veramente kia, specie di tavola che pesa ordinariamente quindici chilogrammi e che serve per imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani. Parrebbe a prima vista una pena tollerabilissima; invece finisce per diventare estremamente dolorosa, perché il povero condannato non può mangiare da solo e sovente corre il pericolo di morire di fame per incuria dei carcerieri. E questo non è tutto. Dopo un mese le spalle si rompono e si coprono di piaghe e quando la pena è finita, il prigioniero non è più che uno scheletro. Sono queste le torture minime, che di rado uccidono. Hanno poi gabbie strettissime dove il condannato è costretto a vivere ripiegato in due per mesi e mesi, rovinandosi le carni contro i bambù e storpiandosi le membra; hanno gabbioni più vasti dove si ammucchiano in una sola volta perfino quindici condannati, ai quali i carcerieri danno di rado da mangiare e dove sono costretti a vivere fra la più ripugnante sporcizia. Hanno poi altre gabbie irte di chiodi che traforano atrocemente le gambe e le mani dei pazienti; coltelli d'ogni dimensione per tagliuzzare la pelle e quindi strapparla a lembi, funi per strangolare, tenaglie roventi per strappare la carne; poi la terribile pena del ling-cink, ossia del taglio dei diecimila pezzi. La decapitazione poi è cosa comune e si eseguisce in pubblico, sotto una tettoia, mediante una larga sciabola, pena forse più temuta delle altre, non amando il cinese andarsene all'altro mondo colla testa staccata. E quali orrori poi dentro le carceri! Non sono carcerieri, sono feroci manigoldi, che inchiodano alle pareti le mani dei prigionieri allorquando mancano le catene; che bastonano senza pietà quelli rinchiusi nelle gabbie per farli tacere, quando quei miseri non possono sopportare più oltre l'atroce martirio; che preferiscono appropriarsi dei viveri che il governo assegna alle amministrazioni delle carceri; e che piuttosto di incomodarsi, allorquando qualche prigioniero muore molto sovente di fame, lo lasciano imputridire nella sua gabbia in attesa che i topi lo facciano sparire! . . . . . . . . . . . . . . . Fedoro e Rokoff erano rimasti come inebetiti dall'orrore, dinanzi all'atroce scena che si svolgeva sotto i loro occhi. Intorno a tutte quelle gabbie, degli aguzzini armati di bastoni e di ferri infuocati, bastonavano senza posa i disgraziati che vi stavano rinchiusi o rigavano a fuoco lo loro membra anchilosate, provocando urla e strida orribili. Erano almeno una dozzina che s'accanivano con un sangue freddo ributtante, contro una trentina di prigionieri impacchettati fra le traverse di bambù, spaventosamente magri, tutti più o meno sanguinanti, colle vesti stracciate e gli occhi enormemente dilatati dal terrore. - Ma questa è una bolgia infernale! - esclamò finalmente Rokoff. - E oserebbero applicare anche a noi quelle torture? Parla, Fedoro! - No ... non è possibile - rantolò il negoziante di tè, che aveva l'aspetto d'un pazzo. - No ... una simile infamia contro di noi! ... - Fedoro, che cosa possiamo tentare? Ci lasceremo torturare e assassinare in questo modo da queste canaglie? Noi siamo innocenti. - Non so che cosa risponderti, mio povero amico. - Ciò che ci succede è spaventevole! No, non può essere che un sogno! - gridò Rokoff. - È pura realtà, amico mio. - E non tenteremo nulla? - Non possiamo far altro che rassegnarci. - Ah! no, vivaddio! Io spezzerò questa gabbia maledetta e farò un massacro di tutti! - Non riuscirai ad abbattere le traverse - disse Fedoro. - Lo credi? Ebbene, guarda! Il cosacco, a cui il furore centuplicava le forze, afferrò due canne e le scosse con tale rabbia, da farle inarcare e scricchiolare. Un carnefice, che stava rigando le cosce ad un disgraziato prigioniero mediante una sbarra di ferro arrossata al fuoco, accortosi di quell'atto, accorse, vociando e minacciando. - Toccami, se l'osi! - urlò Rokoff, allungando le mani attraverso le canne. Quantunque l'aguzzino non avesse potuto comprendere la frase, vedendo quell'Ercole in quella posa, si era arrestato titubando. - Noi siamo europei! - gridò Fedoro. - Guardati, perché le Ambasciate ci vendicheranno e vi faranno uccidere tutti. Quella minaccia, forse più che l'atteggiamento del cosacco, aveva fatto indietreggiare il carnefice. - Europei! - aveva esclamato. Poi, passato il primo istante di stupore e anche di terrore, aveva rialzata l'asta infuocata, minacciando d'introdurla fra le traverse e di calmare i due prigionieri con qualche puntata. - Giù quel ferro! - urlò Rokoff, scuotendo le canne con maggior vigore. - Giù o ti strangolo come un cane. - Tu non mi fai paura - rispose l'aguzzino. - Ora lo vedrai. Stava per farsi innanzi, quando la porta della sala si aprì lasciando il passo al magistrato che aveva arrestato i due europei nella casa di Sing-Sing. Vedendo il carnefice avvicinarsi alla gabbia, con un grido lo arrestò. - No, costoro - disse precipitosamente - non ti appartengono! Vattene! Vedendolo, anche Fedoro si era afferrato alle canne, gridandogli: - Canaglia! Mettici subito in libertà! Tu sai che siamo stati condannati senza colpa e che gli assassini sono gli affigliati della "Campana d'argento". - La liberazione non è lontana - rispose il magistrato. - Abbiate pazienza fino a domani. - Allora levateci da questa gabbia. - È impossibile per ora. - Noi non possiamo resistere a queste atroci scene. - V'interessate di quei banditi? - chiese il magistrato. - Non siamo abituati ad assistere a simili torture. - Manderò via i carnefici. - E fate dare da mangiare a quei miserabili che muoiono di fame. La vostra giustizia vi disonora. - Avranno dei cibi, - rispose il magistrato. - I nostri carcerati sono trascurati, questo è vero. Con un gesto che non ammetteva replica, fece uscire tutti; poi, rivolgendosi ai due europei, disse: - Non farete nulla per informare la vostra ambasciata fino a domani mattina? Solo a questa condizione io vi prometto di lasciarvi tranquilli. - Avete la nostra parola - rispose Fedoro. - Vi farò subito servire il pasto. - Se non possiamo quasi muoverci? - Vi ho detto che pel momento non posso liberarvi, perché la grazia dell'Imperatore non è ancora giunta. Tranquillatevi e abbiate fiducia nella giustizia cinese. - Che cosa ti ha detto quel miserabile? - chiese Rokoff, quando il magistrato fu lontano. - Che domani saremo liberi - rispose Fedoro, raggiante. - Essi hanno avuto paura di qualche denuncia all'ambasciata. Hanno voluto solamente spaventarci, sperando forse che noi confessassimo il delitto che non abbiamo commesso. - Ti giuro che non me ne andrò da Pechino senza strangolare qualcuno. Mi prendano poi, se ne saranno capaci. - E chi? - Quel furfante di maggiordomo. - Ti prometto di aiutarti. Egli è stato la sola causa delle nostre disgrazie. Deve aver protetto i membri della "Campana d'argento", messo il pugnale nella nostra camera e poi saccheggiata la cassa del suo padrone. - Noi lo strozzeremo, no, lo martirizzeremo in modo che muoia a poco a poco. Alcuni carcerieri erano entrati portando delle scodelle di riso, del formaggio fatto con fagioli, piselli mescolati a farina, gesso e succhi di vari semi, che ha il sapore dello stucco e che pure è assai pregiato in Cina, dei pien-hoa o radici eduli, delle arachidi e delle kau-ban, ossia olive salate e poi seccate. Passarono i tondi entro la gabbia occupata dai due europei, poi si ritirarono precipitosamente per paura di venire afferrati dalle poderose mani dell'ufficiale dei cosacchi. Altri intanto avevano portato ai miseri, che morivano di fame nelle altre gabbie, delle terrine ricolme d'una certa poltiglia nera, che esalava un odore nauseabondo, formata da chissà quali generi alimentari. Fedoro e Rokoff, che dalla sera innanzi non avevano assaggiato alcun cibo, quantunque potessero appena muoversi, vuotarono i tondi, scartando però le arachidi, buone solamente pei palati dei cinesi, essendo rancidissime. Terminato il pasto, il magistrato, che era ritornato, si sedette presso la gabbia offrendo loro, con molta gentilezza, alcune tazze di tè recate da un carceriere e dei sigari europei; poi impegnò con loro una divertente conversazione. Non era più il burbero magistrato che li aveva trattati da assassini e perfino minacciati di farli fucilare. Era un vero cinese delle caste alte, cerimonioso fino all'eccesso, amabilissimo, che discuteva con competenza anche sulle cose europee. S'intrattenne con loro fino a quando le lanterne furono accese, poi si accomiatò augurando la buona notte e promettendo che all'indomani sarebbero stati rimessi in libertà. - Fedoro - disse Rokoff, quando furono soli. - Capisci qualche cosa tu di questi cinesi? Io no, te lo assicuro. Poco fa pareva che volessero sottoporci alla tortura; ora ci colmano di cortesie. - Senza liberarci però - rispose il russo, che pareva un po' preoccupato. - Si direbbe che tu dubiti della promessa fattaci. - No, ma ... vorrei essere già lontano da qui. - Ci andremo domani e anche in fretta. Ci recheremo a comperare il tè a Canton od a Nan-King o in qualche altro luogo. Qui non ci fermeremo nemmeno un'ora dopo ... - Dopo che cosa? - Che avremo strangolato il maggiordomo. Per le steppe del Don! Quel gaglioffo non vedrà tramontare il sole domani sera, parola di Rokoff! Fedoro non rispose e si accomodò alla meglio per dormire. Ciò era possibile, perché gli altri condannati, dopo la zuppa somministrata loro dai carcerieri, avevano cessato di urlare. Rokoff, vedendo il compagno chiudere gli occhi, si allungò quanto glielo consentiva lo spazio e cercò d'imitarlo, sognando già di sentire sotto le mani il collo del maggiordomo di Sing-Sing. All'indomani, quando riaprirono gli occhi, svegliati dalle urla degli affamati, ai quali la zuppa del giorno innanzi non era stata sufficiente a calmare i lunghissimi digiuni, Fedoro e Rokoff videro la loro gabbia circondata da otto robusti facchini. Due lunghe aste, un po' elastiche, erano state passate fra le canne che formavano la parte superiore della piccola prigione, assicurandole con corde. - Pare che si preparino a portarci via - disse Rokoff. - Che ci conducano all'ambasciata rinchiusi qui dentro? Potevano metterci in una portantina, questi spilorci; avrei pagato ben volentieri il nolo. Fedoro non aveva risposto. Guardava con viva inquietudine i facchini, chiedendosi dove lo avrebbero portato. Cercò cogli sguardi il magistrato, ma non era ancora giunto. Invece erano entrati dodici soldati, armati di fucili, guidati da un ufficiale che faceva pompa d'una larga e lunghissima scimitarra. - Fedoro, - riprese Rokoff - dove vogliono condurci? Domanda a quel comandante perché non ci mettono subito in libertà, come ci aveva promesso il magistrato. Tu non mi sembri tranquillo. - È vero, Rokoff; sono preoccupato per l'assenza del magistrato. - Si sarà ubriacato d'oppio e giungerà più tardi. In quel momento l'ufficiale si avvicinò ai facchini, dicendo: - Andiamo. - E dove? - chiese Fedoro, mentre la gabbia veniva alzata. Il comandante del drappello guardò il russo con stupore, inarcando le sopracciglia. Forse era sorpreso di sentirsi interpellare da un prigioniero. - Vi ho domandato dove ci volete condurre - replicò Fedoro. - Ci era stata promessa la libertà per stamane. - Ah! - fece l'ufficiale. Poi, voltandogli bruscamente le spalle, disse: - Orsù, sbrigatevi. Quattro facchini si posero le aste sulle spalle e portarono fuori la gabbia, seguiti dagli altri quattro che dovevano surrogarli più tardi e dal drappello dei soldati. L'ufficiale marciava innanzi a tutti, colla scimitarra sfoderata. - Comprendi nulla tu? - chiese Rokoff al negoziante di tè. - Non so spiegarmi il motivo per cui hanno preso tante precauzioni verso due uomini che devono mettersi in libertà - rispose il russo, le cui inquietudini aumentavano.- Vedremo come finirà questa avventura. Un carro massiccio, tirato da due cavalli e scortato da dodici cavalieri manciù, li attendeva fuori della prigione. La gabbia fu caricata, solidamente assicurata, poi i cavalli partirono al galoppo, fiancheggiati dai manciù. - Questi cinesi vogliono rovinarci - disse Rokoff, che si aggrappava fortemente alle canne per resistere agli urti ed ai soprassalti che subiva il ruotabile. - Ehi, cocchiere del malanno! Rallenta un po' la corsa! Non siamo già di caucciù noi! Basta, ti dico, buffone! Erano parole sprecate. I cavalli, piccoli, vivaci, eppur vigorosi, come sono tutti quelli dell'impero, galoppavano sfrenatamente, imprimendo al carro delle scosse disordinate in causa del pessimo stato delle vie, quasi tutte sfondate e rigate da solchi profondissimi. Sempre scortati dai manciù, i prigionieri attraversarono i quartieri meno popolati della capitale e che stante l'ora mattutina erano ancora quasi deserti e uscirono dalla porta di Shahuomen, passando sotto una massiccia torre quadrata. - Dove ci conducono, Fedoro? - chiese Rokoff, vedendo il carro seguire i bastioni esterni. - Vorrei saperlo anch'io. - All'ambasciata no di certo. - Siamo usciti dalla città. - E ci dirigiamo? - Verso il Pei-Ho, se non m'inganno. Ah! Mi viene un sospetto. - E quale Fedoro? - Che c'imbarchino su qualche giunca e che ci traducano a Tient-sin o fino al mare per impedirci di fare i nostri reclami all'ambasciata russa. - Ci sfrattano dall'impero? - Lo suppongo, Rokoff. - Che ci mandino via non m'importa: mi rincresce solo di andarmene senza aver strozzato quel cane di maggiordomo. Però non siamo ancora giunti al mare. Il carro intanto continuava la sua corsa indiavolata, seguendo sempre le mura della capitale, robustissime ancora, quantunque contino molti secoli, alte nove metri, con uno spessore di cinque, tutte lastricate in marmo, con bastioni, torri, fossati e cannoniere in gran numero, guardati però, per la maggior parte, da pezzi d'artiglieria di legno. Di quando in quando passava in mezzo a borgate popolose, circondate da ortaglie, attirando l'attenzione dei passanti, i quali però rimanevano subito indietro tutti, perché i cavalli non rallentavano il galoppo. Attraversato su un ponte di pietra il canale fangoso che viene chiamato pomposamente "fiume" e che altro non serve che ad alimentare gli stagni ed i laghetti dei giardini del palazzo imperiale, il carro si diresse verso il nord- est. - Mi pare che ci conducano a Tong - disse Fedoro. - Che cos'è? - Una borgata sulle rive del Pei-Ho. - Allora tu devi aver ragione. Vogliono imbarcarci. - Tale è ancora la mia opinione, Rokoff. - Purché facciano presto! Io ho tutte le membra rotte e se questa corsa dovesse durare ancora poche ore, non potrei più fare un passo. È così che trasportano i detenuti queste canaglie cinesi? - Sì, Rokoff. - In conclusione, trattano i prigionieri come polli. - Né più né meno - rispose Fedoro. - Bel sistema per far rompere le gambe. - Che ha però il vantaggio; di rendere le evasioni impossibili. - In quale stato devono giungere i condannati che si mandano dai paesi lontani! - E lontani centinaia di miglia? - aggiunse Fedoro. - All'inferno i cinesi! - Vedo delinearsi all'orizzonte delle abitazioni. - - Che sia la borgata? - Sì, Rokoff; il Pei-Ho deve scorrere dietro di essa, perché vedo anche delle piante d'alto fusto. La nostra prigionia sta per cessare. I cavalli acceleravano la corsa, attraversando la pianura piuttosto arida che si estende intorno all'immensa capitale. I manciù si erano divisi in due drappelli: uno marciava innanzi al carro; l'altro dietro. Come se temessero qualche sorpresa, avevano levato i moschetti che fino allora avevano tenuto appesi alla sella e sguainate le scimitarre. In lontananza si udiva un fragore confuso che pareva aumentasse di momento in momento. Erano urla acute, tocchi di tam-tam e muggiti di conche marine. Si sarebbe detto che una folla enorme si accalcava intorno alla borgata. - Che siamo aspettati? - chiese Rokoff. - Non so - rispose Fedoro, il quale era diventato pallido. Si era alzato sulle ginocchia, spingendo lontani gli sguardi. Di fronte alla borgata, una folla enorme si accalcava su una pianura sabbiosa, agitandosi disordinatamente e urlando a piena gola. Pareva che succedesse qualche straordinario avvenimento. Quando il carro giunse sul margine della pianura, la folla si squarciò di colpo per lasciare il passo, mentre da ventimila petti usciva quell'urlo terribile che è suonato agli orecchi degli europei come una tromba funebre durante le insurrezioni mongoliche: - Fan-kwei-weilo! Weilo! Fedoro aveva mandato un grido d'orrore. In mezzo a quel mare di teste rasate aveva veduto ergersi un palco, e su esso, ritto come una statua di bronzo giallo, un uomo di statura quasi gigantesca, che s'appoggiava ad una larga scimitarra. Era un carnefice in attesa delle sue vittime.

. - Io non l'ho abbandonata e ci servirà per finire quel dannato orso. - E perdereste gli zamponi. - Perché, capitano? - I bighana ve li mangerebbero. - E durerà molto questo assedio? - Fino all'alba, se i nostri compagni non vengono a liberarci - disse il capitano. - Quei lupi non torneranno alle loro tane prima che spunti il sole. - Brutta prospettiva. Che non vengano Fedoro e gli altri? Abbiamo già sparato cinque colpi di carabina e devono averli uditi. - Diranno che noi abbiamo fatto buona caccia e non si muoveranno, signor Rokoff. - Fuciliamo i lupi. - Abbiamo una carabina troppo grossa per ottenere buoni risultati - rispose il capitano. - Queste armi sono buone contro le tigri e i rinoceronti. - Non credevo che questa caccia finisse così male! - E come, vi lamentate, incontentabile cacciatore? Siamo qui da sole due ore e abbiamo già ucciso sette od otto lupi e ferito un orso. - E siamo assediati - disse Rokoff. - Sia pure, ma siamo anche completamente al sicuro dalle offese dei nemici. Il labiato non pensa più a discendere per attaccarci e i lupi non possono salire. Che cosa volete di più, signor cosacco? E avete il coraggio di lamentarvi? - Adagio, capitano, colle vostre buone speranze. Vedo invece l'orso agitarsi e l'odo brontolare. - Si lamenta delle ferite. - E se invece scendesse? - Allora perderete gli zamponi perché sarete costretto a fucilarlo e gettarlo a pasto dei lupi - disse il capitano. - Preferisco che rimanga lassù - rispose Rokoff. - Credo che ci tenga anche lui a non esporsi agli assalti dei lupi. Se non fosse ferito, non avrebbe paura ad affrontarli, mentre chissà in quale stato si trova e se le sue zampe sono in grado di distribuire colpi d'artiglio. - Cade sempre il sangue? - Mi piove addosso - rispose Rokoff. - Devo sembrare un macellaio. - Signor Rokoff! - Capitano. - Siete annoiato? - Un pochino. - Allora tirate al bersaglio. Abbiamo ancora centonovantacinque cartucce e i lupi non sono più di cinque o sei dozzine. Se volete, divertitevi, mentre io sorveglierò l'orso. Vi concedo un lupo ogni cinque palle. - Cercherò di ammazzarne invece due su cinque colpi - disse Rokoff, accomodandosi sul ramo, onde tirare con maggior attenzione. I bighana non avevano lasciato la base dell'albero. Continuavano a saltellare, mordendo la corteccia della pianta e strappandola a larghi pezzi coi loro denti acuminati e robusti e ad urlare con tale fracasso da far rintronare la foresta. Di quando in quando alcuni si allontanavano in diverse direzioni e andavano a urlare cinque o seicento passi più lontano, su diversi toni. - Chiamano altri compagni - disse il capitano. - Che sperino di rosicchiare l'albero fino a farlo cadere? - chiese Rokoff. - Non temete; ci vorrebbero delle settimane per atterrare una simile pianta. Signor Rokoff, aspettano i vostri saluti. Il cosacco puntò la carabina mirando in mezzo al gruppo e sparò il primo colpo, facendo cadere due bestie nello stesso momento. - Ho nove palle di vantaggio - disse ridendo. - Continuate - rispose il capitano. - Ah! L'amico che sta lassù comincia ad inquietarsi. Il labiato, udendo quello sparo e vedendo il fumo salire fra il fogliame, aveva ricominciato a dimenarsi, facendo scricchiolare i rami. - Che ci cada addosso? - chiese Rokoff, guardando in alto. - Non sarà così stupido da tentare un simile capitombolo, quantunque abbiano l'abitudine di precipitarsi da altezze considerevoli, allorquando si vedono in pericolo. Se non vi fossero sotto di noi i lupi, chissà, potrebbe tentare un simile salto. - Senza fracassarsi? - Pare che abbiano le ossa molto dure i labiati e posseggano una elasticità incredibile. Signor Rokoff, i lupi aspettano sempre. - Eccomi! Il cosacco aveva ripreso il fuoco. Sparava con calma, mirando attentamente, come se si trovasse in un tiro a segno durante una gara e i lupi cadevano a uno e a due alla volta. Era davvero un valente bersagliere; di rado sbagliava l'animale che aveva scelto. In cinque minuti, undici lupi giacevano attorno all'albero, massacrati dai grossi proiettili della carabina express. - Rimangono ancora cinque dozzine - disse il capitano. - E ne giungono altre due o tre - disse Rokoff, con accento scoraggiato. - Quelli che erano partiti urlando al largo tornano con nuovi rinforzi. - Che questa foresta sia piena di bighana? - Pare che sia così, capitano. E l'orso? - Si è tranquillizzato e non l'odo più muoversi. - Che sia morto? - Sarebbe caduto. - Salutiamo i nuovi arrivati - disse Rokoff. Aveva ripreso il fuoco, mirando in mezzo ai gruppi e senza mai mancare al bersaglio. I bighana però non accennavano a volersi ritirare, quantunque vedessero aumentare i morti. Avevano tuttavia compreso che rimanendo così uniti offrivano un bersaglio troppo facile e si erano dispersi fra i cespugli, senza però allontanarsi troppo dalla pianta. - Il tiro a segno comincia ad andare male - disse Rokoff, dopo aver sprecato cinque o sei palle. - Rimarremo senza cartucce prima di averli distrutti. - Me ne sono accorto - disse il capitano. - Devo continuare? - Sì, signor Rokoff. I nostri compagni, udendo questi continui spari, s'immagineranno che noi corriamo qualche pericolo e verranno di certo in nostro soccorso. Non siamo lontani più d'un chilometro dallo "Sparviero" e le detonazioni giungeranno distinte fino al fuso. Ah! Udite? Uno sparo si era udito in quel momento in direzione del piccolo altipiano. - È uno Snider - disse il capitano. - Signor Rokoff, rispondete. Il cosacco scaricò la carabina facendo cadere un altro lupo. Un istante dopo un altro sparo echeggiava verso lo "Sparviero". - Continuate il fuoco senza interruzione - disse il capitano. - Ormai i nostri compagni hanno compreso che noi abbiamo bisogno d'aiuti. - E non li assaliranno i lupi? - chiese Rokoff. - Ci siamo anche noi, e cinque uomini bene armati possono tener testa a quei piccoli predoni. Rokoff riprese a sparare senza far risparmio di cartucce. Ormai sapeva che gli aiuti stavano per giungere e non si preoccupava di rimanere con sole poche cariche. I lupi dovevano essersi accorti che altri uomini s'avvicinavano, perché alcuni si erano distaccati dal grosso ed erano partiti ululando, in direzione del piccolo altipiano. - Li hanno fiutati - disse il capitano. - Prepariamoci ad appoggiare i compagni. D'un tratto sotto gli alberi si videro balenare dei lampi seguiti da spari. - I Winchesters - disse il capitano. - Buone armi a ripetizione che faranno ballare i bighana! I lupi che assediavano l'albero, udendo quelle detonazioni, erano partiti a corsa disperata, ululando a piena gola. - Scendiamo! - gridò il capitano. Si lasciarono scivolare lungo il tronco, toccando ben presto terra. Il capitano raccolse la sua carabina, l'armò precipitosamente e si slanciò fuori dai cespugli, gridando: - Signor Fedoro! Badate a non fucilarci! Veniamo in vostro aiuto! Vedendo i lupi radunarsi innanzi a una folta macchia, in mezzo alla quale dovevano trovarsi il russo, il macchinista e lo sconosciuto, li presero alle spalle fucilandoli senza misericordia. I bighana, presi fra due fuochi non ressero molto a quella tempesta di palle che li decimava rapidamente. Dopo d'aver cercato di far fronte ai due pericoli, si sbandarono, fuggendo velocemente attraverso la foresta, perseguitati per qualche tratto da Fedoro, dal macchinista e dal loro compagno. Rokoff stava per seguirli, quando udì il capitano gridare: - L'orso! Ecco che scende! Il cosacco si era subito arrestato, ricaricando la carabina. Il labiato, approfittando della discesa dei suoi compagni e del combattimento coi lupi, aveva lasciato gli alti rami del nim e si lasciava a sua volta scivolare lungo il tronco, colla speranza di raggiungere inosservato i cespugli e di scomparire entro le folte macchie. Aveva però fatto i conti senza il capitano, il quale, pur facendo fronte ai bighana, non aveva dimenticato quella grossa e succolenta selvaggina. Vedendo i cacciatori tornare, nascose la testa fra le zampe anteriori e si lasciò andare precipitandosi da un'altezza di otto o dieci metri. Piombò in mezzo ai cespugli che schiantò col proprio peso e senza farsi, probabilmente, troppo male, poi si rialzò di scatto e si scagliò contro il capitano, che gli era vicino, cercando di piantargli gli unghioni nel viso. - Badate! - gridò Rokoff, che giungeva di corsa. Il capitano aveva fatto un salto indietro per evitare l'urto e aveva puntato la carabina facendo fuoco quasi a bruciapelo. Quantunque ferito a morte, il labiato non era caduto, anzi si era alzato sulle zampe posteriori facendo un salto innanzi. L'attacco era stato così improvviso e così impetuoso, che il capitano, il quale credeva di averlo fulminato sul colpo, non poté reggere e cadde lungo disteso. Fortunatamente Rokoff era vicino. Si udì un secondo sparo. Il labiato brancolò un istante dimenando disordinatamente le zampe, poi stramazzò mandando un rauco urlo che finì in una specie di sibilo soffocato. - Pare che sia proprio finito questa volta - disse Rokoff. - Tre palle express e quasi non bastavano ancora! ... Che pelle dura hanno questi animali! Fedoro e i suoi compagni, dispersi i lupi, tornavano. - Un orso! - esclamò il russo. - Che ci fornirà degli zamponi deliziosi - rispose Rokoff. - E centocinquanta chilogrammi di carne eccellente - aggiunse il capitano. - Lasciamo i lupi e portiamo questo morto allo "Sparviero". La caccia, come avete veduto, signor Rokoff, non poteva riuscire migliore.

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