Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 10 occorrenze

Ma le figure delle due persone sedu- te là dentro, una dirimpetto all'altra - la vecchia col viso sconvolto e gli occhi smarriti, abbandonata da un lato; il dotto- re, curvo, quasi ripiegato per lo scarso spazio, con tra le mani i polsi di quella - ora, ricordando o sognando (non lo ca- piva bene), le si confondevano nell'immaginazione con la figura del Cristo morto, steso su la barella dorata, dietro i lar- ghi cristalli circondati dai fanaletti accesi; e le poche parole scambiate a voce bassa tra il dottore, Patrizio, lei, Ruggero e i portatori, le si mutavano a poco a poco in quel mormorio tumultuoso della folla, in quel grido straziante: "Misericor- dia, Signore! Pietà, Signore!" che quella sera fatale l'aveva sbalordita! Ahimè, non era un brutto sogno! Poteva non credere ai propri occhi vedendo giacente nel letto il corpo mal vivo che guardava fisso? Poteva mai dubitare udendo la desolata, insistente domanda: "Mamma, mi senti? Mamma, mi senti?". Il dottor Mola quella sera aveva detto subito a Patrizio: "Bisognerebbe allontanare di qui la vostra signora. Ho paura di una ricaduta." "Allontanarla? ... In che maniera?" aveva egli risposto come un sonnambulo. "Glielo dica lei; lo ascolta. Io non ho testa!" Ma Eugenia s'era indignata: "Abbandonar Patrizio in questi momenti? Oh! ..." E aveva voluto vegliare assieme con lui, ostinata, irremovibile, senza lasciarlo solo neppure un minuto la prima not- te e gran parte del giorno appresso. Sostenuta dal suo stesso sbalordimento, eccitata dalla pietà dell'immenso dolore di lui, dimenticando i torti della suocera, aveva fin vinta la gran ripugnanza che quel corpo inerte le ispirava; ed era accor- sa premurosamente ogni volta che era stato necessario sollevarla sui guanciali, o mutarla di fianco, per impedire che al- tre mani la toccassero all'infuori delle sue e di quelle di Patrizio. Incontrandosi negli sguardi fissi e duri dell'inferma, che le sembrava volesse farle male anche allora, li aveva sempre evitati. Per istintiva delicatezza di sentimento, aveva cercato di non farsi scorgere nemmeno compiendo la sua umile opera d'infermiera con l'applicare i senapismi, col rinnovare le pezzette delle bagnature diacce alla fronte. E nelle lun- ghe ore di fallace speranza in una benigna risoluzione della crisi, quando nel silenzio della camera si sentiva soltanto il respiro affannato dell'inferma, e in quel volto emaciato dagli anni e dai patimenti, ora immobilizzato dalla paralisi, gli occhi si muovevano lenti per figgersi su qualcuno, quasi cercassero chi potesse intendere il loro muto linguaggio, Euge- nia si teneva un po' indietro su la seggiola dappiè del letto, spinta da inconsapevole suggerimento del suo buon cuore. Perciò si sentì offesa, non appena le parve di comprendere bene l'intenzione di Patrizio e i di lui pretesti per tenerla discosta, per celarne la presenza alla mamma a fine di risparmiarle in quello stato una sensazione spiacevole. Benedetta e Giulia, arrivate poco dopo assieme col fratello, la trovarono piangente, sola sola, nella sua camera. "La signora sta peggio?" domandò Benedetta. "Sempre lo stesso" ella rispose con voce cupa. "Non pianga!" disse Giulia, abbracciandola e asciugandole gli occhi col fazzoletto prèsole di mano. "Si faccia co- raggio." "Povero Agente! Vuol tanto bene alla mamma e n'era voluto tanto bene!" soggiunse Benedetta. "So io come parlava del figliuolo! Bisognava sentirla!" "Il dottore che ne dice?" domandò Ruggero a Eugenia. "Dice che è gravissima." "L'età della povera signora complica il male" riprese Benedetta, scrollando la testa, atteggiando le labbra a compas- sione. "Non riesce a parlare affatto affatto? Che tormento dev'essere non poter dire, in fin di vita, una sola parola al pro- prio figliuolo!" Eugenia portò il fazzoletto agli occhi. Quella pietà la irritava. Tutti compiangevano la vecchia che il gastigo di Dio aveva colpita, sì, il gastigo di Dio, (Eugenia in quel momento n'era proprio convinta!) Nessuno compiangeva lei. Ma la sua liberazione era prossima. Avrebbe respirato, finalmente! Finalmente avrebbe potuto amare ed essere amata senza che quel fantasma si presentasse improvviso a interrompere i baci, a disturbare le carezze di Patrizio e di lei! Ondate di fiele le allagavano il cuore come non le era mai accaduto fin allora. Tutte le sue amarezze vi si rimescolavano, vi veni- vano a galla: e quelle ondate, che le fiottavano dentro con rapide pulsazioni, montavano su, su, fino ad attossicarle la bocca. Più Benedetta si diffondeva a compatire l'inferma, anzi a farne l'elogio quasi fosse già morta, e più Eugenia sen- tiva accrescere la sua spietata soddisfazione. Quando Ruggero, per interrompere la sorella, disse: "Eh via! Non muore poi nel fior degli anni!". Eugenia lo guardò riconoscente; per poco non sorrise. "Così malaticcia e sofferente come dite sia stata sempre" continuò Ruggero "forse non le dispiace morire. Che si fa a questo mondo quando la vita è una pena? Si soffre e si fa soffrire." Egli parlava rivolto a Eugenia, ritorcendo fra l'indice e il pollice d'una mano le punte dei baffettini, con lo sguardo fissato negli occhi di lei, rossi di pianto, quasi vi leggesse nettamente quel ch'ella pensava in quel punto e le desse ra- gione e l'approvasse. "Si soffre e si fa soffrire!" Oh, se l'aveva fatta soffrire colei! Imbarazzata però dallo sguardo di Ruggero, Eugenia sentiva rapidamente racchetare il violento impeto di odio che le aveva attossicato anche la bocca. Da lì a poco - e se ne stupiva ella stessa - presso al letto dell'inferma che rantolava ce- rea in volto, con gli occhi serrati, le occhiaie livide e la bocca un tantino contorta dal lato sinistro, da lì a poco ne prova- va anche e vergogna e rimorso. Patrizio, in piedi, strizzandosi le mani, intento su l'addormentata, il cui magrissimo corpo quasi spariva sotto la co- perta, resisteva alle calde preghiere del dottore che avrebbe voluto pietosamente allontanarlo di là. Pareva non udisse o non comprendesse. Eugenia gli si accostò e lo prese per una mano. "Patrizio! ... Patrizio! ... Fatti animo! ... Non essere un bambino! ..." gli andava dicendo, tra- scinandolo via dolcemente nella loro camera, passandogli un braccio attorno il corpo quasi a sospingerlo. "Patrizio, scuotiti! ... Mi fai paura! ... Non essere un bambino! ... Riposati! Riposati almeno pochi minuti! ... Patrizio!" I singhiozzi le impedivano la parola, le lagrime le inondavano il viso, intanto che egli, aiutato da Ruggero, si lascia- va cascare sul letto come corpo morto, bocconi, singhiozzando alla sua volta: "Mamma! Mamma mia cara! Povera mamma!" "Sì, sì, piangi. Da' sfogo al dolore! ... Sarà bene!" Non sapeva in che modo farsi perdonare la cattiveria di poc'anzi; e gli accarezzava la testa, gli stringeva fortemente la mano che egli le aveva abbandonata. Se fosse stato possibile, in quel punto Eugenia avrebbe sacrificato metà della sua vita per salvare la mamma morente (diceva proprio: "La mamma" nel suo pensiero!) - e così sollevar Patrizio da quell'abbattimento angoscioso, da quella ineffabile tortura. "È sua madre! È sua madre!" si ripeteva da sè, per convincersi meglio della ragionevolezza della sua compassione, per fortificare il suo povero cuore vacillante, sbattuto tra gli opposti sentimenti che vi scoppiavano da due giorni in tu- multo, lottanti tra loro e racchetandosi e riprendendo vigore, eccitandola con fulminei sbuffi di malvagi rancori e op- primendola tosto con lunghi pentimenti e rimorsi. "È sua madre! È sua madre!" ella rispose a Ruggero, che tentava anche lui di consolare Patrizio. E glielo disse con tal accento che quegli si allontanò riputando importuna l'opera sua. "Benedetta e io restiamo qui" gli sussurrò Giulia in un orecchio, rientrando dalla camera dell'inferma. "È già ago- nizzante. Può spirare da un momento all'altro!" Il dottore, dati alcuni ordini al Padreterno, si apprestava ad andar via. "È morta?" venne a domandargli Ruggero sottovoce. "No. Ma è inutile che io stia ancora qui. Ho mandato a chiamare un prete, per le preghiere dei moribondi soltanto. La catastrofe è sopraggiunta più presto che non credevo. Povero Agente! Fa pietà." Eugenia, dall'aria di Giulia, dall'accorrere di Ruggero nell'altra stanza, aveva subito indovinato quello che stava per accadere, e portò le mani alla testa affondando le dita tra i capelli: "Oh Dio! Oh Dio!" cominciò a balbettare sommessamente. Giulia le fe' segno di frenarsi, accennando a Patrizio che pareva addormentato. Tutt'a un tratto lo videro balzar su, con gli occhi sbarrati, pallidissimo, gridando: "Muore! ... Muore! ..." Gli era parso, tra sonno e veglia, di sentirsi chiamare due volte dalla fioca voce della moribonda! E prima che potes- sero pensare a trattenerlo, era già sull'uscio, dove il dottore e Ruggero gli sbarrarono il passo: "Fate la volontà di Dio! ..." gli diceva il dottore. "Non le turbate l'estremo passaggio!" Patrizio strinse i denti, die' una scossa con tutta la persona" quasi a comprimere l'ambascia che lo faceva contorcere come un serpe; e promettendo, più che con le parole coi gesti, di far ogni sforzo per contenersi, supplicava desolatamen- te che lo lasciassero entrare. Supina, col petto che si sollevava e si abbassava pel respiro affannato, con gli occhi intorbidati, spalancati e fissi nel vuoto, il viso disfatto, il naso filiginoso, l'inferma rantolava stancamente a intervalli, che di mano in mano diventavano più lunghi e più strazianti. Nella camera, silenzio profondo. Patrizio era caduto in ginocchio davanti al letto, inebetito, con le mani giunte in atto di preghiera; e a quella vista si erano inginocchiati anche gli altri, tranne Eugenia e Giulia che la sosteneva da un lato. Eugenia si sentiva trattenuta in piedi dal fascino delle torbide pupille della morente che le parevano fissate intensa- mente su lei, piene del loro ultimo cruccio, quasi maledicenti insieme con quel rantolo che le sembrava parola. "No! No! ... Perché? ... Mamma, perché?" avrebbe voluto gridarle. Ma la sua lingua era legata. Sopraffatta da un orrore nuovo, Eugenia sentiva in tutto il corpo il rapido ridestarsi del suo male, creduto domato; e tremava, tremava senza poter distogliere lo sguardo dalle torbide pupille che lo evocavano su, con terribile malia, da tutte le parti del suo corpo, dove la cura del dottor Mola lo aveva già ricacciato. "No! No! Oh, mamma! ... Perché? Perché?" Portò le mani alla gola per tentar di sciogliere il nodo da cui si sentiva soffocata, e si rovesciò indietro con un ranto- lo che si confuse con l'ultimo fioco rantolo della morente. Patrizio non sentì niente, nè vide Giulia e Ruggero portar via la povera Eugenia che si agitava violentemente. I suoi sguardi eran rimasti inchiodati sul volto, immobile e senza vita neppure negli occhi, di colei che era stata la prima, la più grande, l'unica adorazione del suo cuore. Non poteva affatto persuadersi che già fosse cadavere; e gli pare- va impossibile che, dopo così terribile scena, egli potesse ancora continuare a vivere e a pensare! Non piangeva, non diceva nulla, restava là in ginocchio, con le mani giunte, opponendo tutta la inerzia del suo corpo affranto al dottore, a Zuccaro e a Griffo che volevano portarlo via. E rifletteva, come in vaneggiamento muto: "Morta! Morta senza potermi dire una sola parola! Morta, forse, senza aver sentito la mia voce! Morta in questo mo- do, quasi abbia voluto andarsene per sempre col broncio, con la collera che mi ha mostrato fino a pochi giorni fa, ineso- rabile, implacabile! Che orrore!" "Rassegnatevi! Fate la volontà di Dio!" gli ripetè il dottor Mola prendendolo per le braccia. Il pianto gli scattò dal cuore tutt'a un tratto, e singhiozzando "Mamma! Mamma!" si rizzò per coprire di baci e ba- gnare di lacrime la squallida faccia della venerata sua morta.

Patrizio, che aveva già chiusi gli scuri della finestra, non sapeva staccar gli occhi da Eugenia, distesa abbandonata- mente sul letto, nell'abbattimento che segue le crisi nervose. "Animo tranquillo, soprattutto" soggiunse il dottore, tirandolo dolcemente fuori della camera. "Dicevate che questa è la prima volta che le accade e per un dispiacere insignificante. Può anche darsi che sia sintomo ..." Patrizio rispose di no con lieve cenno della testa. "Vedremo" riprese il dottore, contraendo te labbra a un sorriso. "Tornerò questa sera, per precauzione. Siamo vici- ni." Eppure Patrizio avrebbe voluto trarlo in un angolo, fargli una lunga confidenza e consultarlo su molti punti scabrosi. Quel vecchietto (di semplicità affatto antica, di cultura poco ordinaria per medico di paesetto), conosciuto nell'occasione d'una delle solite ricadute della signora Geltrude, poco dopo il loro arrivo a Marzallo, e poi riveduto per la stessa ragio- ne parecchie altre volte, era arrivato a ispirargli fiducia. Patrizio sentiva già rimorso di avergli detto che l'accesso nervo- so di Eugenia era stato cagionato da un dispiacere insignificante. Pure, anche sollecitato da questo pungolo, non riusciva a pronunziare la parola: Senta! che gli si agitava su la punta della lingua da un quarto d'ora. Era sopraffatto dal pudico ritegno di svelare a un altro, quantunque fosse un dottore, quasi un confessore, i più intimi segreti dell'anima sua, cosa sacra! Intanto il pensiero del risveglio di Eugenia lo rendeva ansiosissimo. Ella avrebbe ricominciato! Gli pareva che con quella crisi nervosa si fosse chiuso il felice ma troppo breve intervallo della sua pace domestica, e iniziato un avvenire di lotte intestine fra tre esseri che avrebbero dovuto amarsi, anzi adorarsi mutuamente nella dolce solitudine che li acco- glieva. Ah! Quel cattivo presentimento non lo aveva ingannato. Lo scongiuro col prezioso vasetto arabo non era giovato a niente! Diede qualche indicazione ai commessi e rientrò presso Eugenia in punta di piedi. Ella riposava tuttavia. Davanti al- la giacente, abbattuta dalla crisi che l'aveva scossa come vento furioso i rami di un alberetto, Patrizio si sentì risalire dal fondo del cuore la viva indignazione prodottagli dalle dure parole di sua madre. Che? Alla vista di quella povera creatura, le viscere non le si erano mosse a pietà, se non per lei, almeno per lui che le gridava soccorso? Dunque, la odiava davvero! E perché mai? Se lo domandava, come la povera creatura che poc'anzi ne aveva pianto. Che terribile crollo! E assieme con la sua pace, sentiva già crollare quella ch'era stata la colonna maestra della sua vita: la gran riverenza per la madre! Quando sua madre gli aveva fatto sorda opposizione perché non prendesse moglie; quando si era mostrata prima fredda, poi ostile alla persona che pure avrebbe dovuto esserle cara perché carissima a lui, egli aveva trovato una ragione: la cecità dell'amor materno! Ma questa volta l'istinto materno gli pareva proprio brutale; ben più che brutale, spietato. Al cospetto di una creatura che soffre, al cospetto del proprio figlio che invoca soccorso per lei, arrestarsi e poter dire freddamente: "Vedi! Non m'ingannavo!" passava il segno. Il suo cuore si ribellava. Occor- reva intendersi, e subito; stabilire un modus vivendi da rendere possibile la loro esistenza. Egli avrebbe avuto il coraggio di provocare una spiegazione, e affrontarla, rispettosamente, sì, ma con forza, senza mezzi termini. Era suo dovere di figlio e di marito. Se si fosse risoluto prima, forse quel che accadeva sarebbe stato evitato. Debole, per rispet- to filiale, ora non voleva essere più tale. "Forse è bene che le cose siano state spinte all'estremo. Si eviteranno nuovi equivoci." Passeggiava affrettatamente per la camera, volgendosi spesso dalla parte del letto, passandosi la mano tra i capelli, tirandosi la punta della barba, arrestandosi a un tratto, quasi per domandarsi se tutto quell'orrore non fosse poi maligno prodotto della sua immaginazione alterata. Era realtà! Guardava attorno per la cella bianca, semplicemente arredata; e il silenzio, nella penombra, gli faceva sinistra im- pressione. A intervalli gli arrivavano, a traverso gli usci non ben chiusi, gli scoppi di risa dei commessi, o il rumore d'una lor breve disputa, che lo respingeva, quasi con un urto, alla coscienza della propria condizione di funzionario, ai minuti par- ticolari delle cose di ufficio: un lavoro da sollecitare, la Commissione per la ricchezza mobile da convocare, un'ispezio- ne da intraprendere; lampi che gli guizzavano nel cervello e si estinguevano subito, per abbandonarlo alla ruota di tortu- ra che forse non si sarebbe arrestata più mai! Già ripensava alla madre, che frattanto se ne stava di là, in camera sua, so- la sola, ruminando livore contro la nuora; probabilmente anche irritata contro di lui per quel: "Mamma!" strappatogli dalla indignazione nel terribile momento. "Ha torto. Glielo dirò in viso!" esclamò, accompagnando allo scatto della voce un vigoroso gesto della mano. Avea preso una risoluzione. E picchiò all'uscio. Al cospetto della madre, emaciata, più che dagli anni, dalle sventure patite; che era stata bella, ma che della bellezza serbava traccia soltanto nella severità dei lineamenti, accresciuta dallo squallore della carnagione e dalle rughe, tristi impronte lasciatevi dalla cattiva sorte, Patrizio comprese d'un tratto che avrebbe avuto torto lui, se avesse parlato come si era proposto. La signora Geltrude, che non aveva mai smesso il lutto, raggrinzita in quel punto su la vecchia poltrona testimone di tutti i suoi dolori e di tutti i suoi pianti inconsolati, aveva appena voltato la testa e appena appena levato verso di lui gli occhi socchiusi, con mossa interrogativa, diffidente; e questo gli spense ogni sdegno, gli aggelò la parola nelle fauci, gli fece abbassare la fronte come a un colpevole. "Mamma!" egli disse, accostandosele a mani giunte. "Perdonami!" Ella brontolò a mezza voce parole inintelligibili, aprendo gli occhi per guardarlo in viso. Parve si attendesse qualcos'altro. Vedendo che suo figlio continuava a tacere, abbandonò di nuovo il capo su la spal- liera e tornò a socchiudere gli occhi. Patrizio era meravigliato e deluso di non sentirsi domandare: Come sta Eugenia? o tua moglie, colei, in qualunque modo ella avesse voluto chiamarla! "Non mi hai perdonato! Non vuoi perdonarmi!" scoppiò a dire. "Oh, mamma! E non ti accorgi che così mi fai patire pene d'inferno?" Ella si rizzò lentamente su la vita, appoggiò le mani alle ginocchia, inarcando le braccia, e, con labbra tremanti, ri- spose: "E le mie sono forse pene da nulla? Ti sei lasciato stregare! ... Sei tutto suo! Io non conto più niente per te!" "Come puoi immaginarlo, mamma?" "Non lo immagino, lo vedo. Avete dei segreti, ve li andate susurrando all'orecchio qua e là, evitando la mia presen- za, cogliendo ogni più lieve pretesto per evitarla. Sono di troppo - l'ho capito - non per te, no, per colei. Ma non posso andarmene via, per farle largo. Il Signore non mi vuole; mi lascia qui, in castigo de' miei peccati, forse; forse, pe' suoi disegni che non possiamo sapere. Dovrete sopportarmi ancora un po'. Poi sarete liberi; sarete pur liberati di questa in- cresciosa!" "Che mai dici, cara mamma!" "La verità, l'evangelo. E non me ne curerei, se si trattasse di me soltanto. Sono cosa inutile oramai, spazzatura da buttare in un canto!" "Che mai dici, mamma! Che mai dici!" replicava Patrizio, cacciandosi le mani tra i capelli, inorridito di sentirla par- lare a quel modo. "Ma penso a te! Penso a te!" ella continuava imperterrita, scrollando il capo. "Tu non ti guardi allo specchio, o ti guardi così di sfuggita da non poter accorgerti quanto sei mutato e invecchiato da sei mesi! Non potresti riconoscerti. Lei se lo beve il tuo sangue! Lei se l'assorbisce la tua carne, il midollo delle tue ossa, la tua vita! ... Io sono impo- tente a lottare con lei. È giovane, è bella, è amata. Ti ha stregato! Che posso più fare io? Ti avvertii in tempo; ti ho av- vertito dopo; ti ho sempre ripetuto: "Bada! Bada!". Non mi hai dato mai retta; hai fatto sempre a modo suo. Che preten- de, più di quel che ha ottenuto? Vorrebbe forse che io le dicessi: "Mi hai tolto il figliuolo; grazie! Mi divori il figliuolo; grazie! grazie!". Tu intanto, non che essermi grato, mi credi esaltata - l'hai detto una volta! - e prendi parte in favore del vampiro che ti succhia il sangue! E vieni qui ..." "Zitta! Zitta, mamma, per carità!" gridò Patrizio. "Mi sento impazzire." Si teneva strette le tempie tra le mani, quasi a impedire che gli scoppiassero. Aveva avuto in vita sua molte tremende giornate. Si era visto più volte l'abisso della miseria spalancato sotto i piedi, pronto a inghiottire sua madre, lui, la sua giovinezza, il suo avvenire, e quando più gli era parso che una buona speran- za, dopo mille sacrifizi e mille stenti, fosse sul punto di realizzarsi. Il dolore del disinganno e il terrore del presente gli avevano atterrata ogni forza vitale, quasi spezzata la intelligenza; e gliene sovveniva spesso il ricordo, dopo che la pro- tezione d'un vecchio amico del padre, fedele anche nella sventura, gli aveva inaspettatamente tesa quella tavola di sal- vezza del posto di Agente delle tasse, traendolo fuori della tempesta, fuori d'ogni angustia giornaliera. Ma cercava inva- no nei ricordi una terribile giornata come quella, uno scoppio così improvviso di circostanze da nulla, da cui veniva prodotta tale rovina, che egli si sentiva soccombere sotto le macerie, senza speranza di aiuto. E tornava a premersi le tempie, ripetendo: "Mi sento impazzire!" Stette così qualche istante, poi lasciò cadere le braccia, desolatamente; e buttandosi ginocchioni davanti a la mam- ma, le prese le mani e cominciò a baciargliele, dicendo con voce interrotta: "Abbiamo torto tutti e tre! Non c'intendiamo! Non ci siamo mai spiegati! Ne riparleremo più tardi. Intanto, lasciamo che gli animi si calmino. E allora tu, mamma, vecchierella mia, santa mia, ti avvedrai che non solo non hai quasi perdu- to il figlio, come ti figuri, ma ne possiedi due, che ti vogliono bene egualmente ... due, due! Te ne avvedrai! ..." Nè si voltò indietro, per non veder il crollar continuo di quella grigia testa, che gli rispondeva ostinatamente: No! Noi No! Eugenia riposava ancora. Dorata, la vecchia serva, era venuta a sedersi a piè del letto, con le mani incrociate sul seno, la testa moresca, coi ca- pelli arruffati, un po' abbandonata su la spalla, con le labbra aggrinzite ancora dallo stupore di quel che aveva visto e che non sapeva spiegarsi. Vedendo entrare il padrone non si mosse. Si era già abituata a non parlare senza essere interrogata; e al cenno di Pa- trizio si levò dalla seggiola e uscì nel corridoio. Patrizio, per non far rumore, prese il posto di lei, accavalciò una gamba su l'altra, stese un braccio lungo la sponda del letto, e stette ad attendere che Eugenia si destasse. Il terrore di quel risveglio gli faceva strizzare gli occhi di tanto in tanto. "Che cosa dirle? Come farle intendere la strana gelosia della mamma? ... Ah, mamma! Ah, mamma!" E poc'anzi gli era sembrato di essere tanto forte da poter ribellarsi a quel giogo che lo avea domato e lo riduceva un fanciullo. Si era rallegrato innanzi tempo. Un senso di compassione e d'intenerimento per lei già gli s'insinuava nel cuo- re. "Povera mamma! È vissuta tutta per me! Non sa rassegnarsi a spartire con un'altra l'affetto dell'unico figlio! ... Fissazione! Debolezza! Come fargliene una colpa?" E si accusava: "Sono stato egoista! Avrei dovuto sacrificarmi a lei, far tacere ogni mio sentimento; ubbidire a occhi chiusi. Avrei sofferto io soltanto. A quest'ora, probabilmente, non soffrirei più ... Signore Iddio! È così difficile la vita?" Cominciava a comprendere che l'isolamento, le sventure, fin gli studi, fuori d'ogni personale esperienza, eran serviti a falsargli la prospettiva della realtà, a renderlo impotente a qualsiasi lotta. La fragile creatura stesa là, prostrata dalla crisi nervosa, ne sapeva più di lui; vedeva chiaro, vedeva giusto; possedeva il senso pratico della vita, che a lui mancava affatto. E perciò s'era rivoltata, proclamando il suo diritto: "Ora sei mio! Ora sei mio!". Si ingannava però, rimprove- randogli: "Picchio, e non mi senti! Chiamo, e non mi rispondi!". Se la sentiva! Se gli affluivano pronte alle labbra le af- fettuose risposte a quegli appelli! Forse egli aveva preso troppo alla lettera le parole del medico, consultato avanti il ma- trimonio, intorno al temperamento di lei, allorché la mamma gli aveva detto: "Cieco! Cieco! Non t'accorgi ch'ella è un viluppo di nervi?". Il medico aveva sorriso, alzando le spalle: "Chi non è nervoso a questi lumi di luna? Le donne poi, caro signore, son diventate oggetti fragilissimi, da maneggiare con cautela, se non vogliamo vederceli rompere fra le dita!". Egli s'era contenuto e si conteneva per questo! Ed ecco le belle conseguenze! Ogni istante che passava accresceva il suo turbamento. I tocchi delle ore, che la soneria guasta dell'orologio del campanile ripeteva affrettatamente, due, tre volte di seguito, lo facevano sobbalzare, quasi gli martellassero dentro il cervello. "E se la crisi nervosa si rinnova? Se è segnale di terribile malattia! ... Se la mamma ha ragione? ... No: il male non avrebbe atteso sei mesi prima di manifestarsi." E si consolava osservando che il volto di Eugenia aveva ripreso l'aspetto ordinario. La respirazione era placidissima; il sonno le coloriva i pomelli delle guance con lieve tinta incarnatina; le labbra sembrava sorridessero a qualche dolce fantasia che le appariva in sogno. La mano posata sull'orlo del guanciale, presso la faccia, era un atto di carezza. "Buona creatura! Le devo tanto! Mi son sentito così felice nel legarmi a lei per tutta la vita! Bisognerà però affrettar- si a consultare il dottor Mola, e dirgli tutto, tutto! senza sciocchi ritegni." Eugenia aperse gli occhi. Pareva stupita di trovarsi mezza discinta sul letto; e, rizzàtasi sopra un gomito, guardava attorno confusa e vergo- gnosa, cercando di raccapezzarsi, di rammentare. "Che è stato? Mi è venuto male?" "Oh, cosa da niente!" s'affrettò a dire Patrizio. Le accarezzava il viso, le ravviava i capelli, domandandole: "Come ti senti?" "Fiaccata, con le ossa rotte! ... Apri gli scuri ... Ah!" Ricordava. Patrizio, tornando presso il letto, la trovò col viso nascosto fra le mani, singhiozzante. "Eugenia!" "Lasciami! ... Lasciami stare!" "Vuoi proprio ammalarti?" "Che cosa posso farci? Non so resistere!" ella rispose, asciugandosi gli occhi e ricacciando indietro le ciocche dei capelli in disordine. "Non pensarci, divagati!" cercava di persuaderla Patrizio. "Ne ragioneremo dopo, quando sarai tranquilla. Allora soltanto potrai comprendere ... Riderai di te stessa, come ne rido io, vedi? Ne rideremo insieme." "La mamma?" ella domandò, esitante, avendola cercata invano con lo sguardo. "È in camera sua. Non sta bene, al solito ... Manderò a chiamare il dottor Mola ... Sentendo che t'era ve- nuto male, ella accorse qui ... subito! ... Fu tutt'a un tratto. Non hai dovuto avvedertene. La commozione, l'agitazione ... E sei caduta fuori di sensi tra le mie braccia! ... Anche per debolezza, dice il dottore ... Che? ... Non ti sei neppure avveduta del dottore un'ora fa? Sai? ... Egli sospetta ... Fosse vero! ... Non alzarti da letto, riposati ancora un pochino. Dovresti prendere una buona tazza di brodo. È pronto. Ti farà bene. Più tardi? ... Quando tu vorrai." Parlava affrettatamente, per sviare il discorso e non darle tempo di scorgere l'imbarazzo prodottogli dalla sua con- traddizione a proposito del dottore. "Temo" egli continuava "che tu non soffra, sopra tutto, per la solitudine in cui viviamo." Eugenia fece un cenno negativo con la testa: "Ero abituata così a casa mia. Uscivamo raramente; la domenica soltanto, per la messa. Tu lo sai: visite poche, pas- seggiate pochissime, appena tre o quattro, d'estate, nelle sere più calde." "Avevi però le tue sorelle, così allegre e chiassone!" "Non mi divertivo a quel chiasso loro." "E qui sei sola affatto." "Se la mamma si mostrasse un po' più buona!" rispose Eugenia dopo breve pausa. "Non badare a lei, te ne prego! È buona a modo suo. Prendila com'è." "Questo volevo fare! È stato impossibile. Anche tu ..." Al gesto d'impazienza sfuggito a Patrizio, che alzò gli occhi alla volta reale della cella, Eugenia si levò rapidamente, si mise a sedere sul letto; e posate le mani su le spalle del marito, lo guardò fisso in faccia, con aria d'affettuoso rimpro- vero: "Ascoltami, non sdegnarti! ..." Ma egli la interruppe; e, presàla pei polsi, portò le care mani alle labbra: "Sono diacce!" "Ascoltami" ripetè Eugenia, senza tentare di ritrarle. "Quando tu, col viso di chi dà una cattiva notizia, venisti a dirmi: "Ufficio e alloggio sono in un convento!" te ne ricordi? io ne fui così contenta, che tu mi guardasti stupito. Non ti ho mai spiegato il perché di quella mia contentezza. Voglio dirtelo ora. Pensai subito: "In un convento saremo più liberi che non nella piccola casa di Castroreale, o in qualunque altra". E di mano in mano che tu me lo descrivevi, immagina- vo le nostre future scappate pei corridoi, per la selva, per la terrazza, senza la continua sorveglianza della mamma, che mi pareva inceppasse ogni tuo movimento e metteva in disagio anche me ... Nelle prime settimane fu proprio così. Avevo fin dimenticato le cattive impressioni di Castroreale. Ma la mamma non tardò molto a riprendere il suo primo contegno. Qui, in un edifizio così vasto, doveva apparirmi più chiara l'avversione di lei, perché qui si vedeva benissimo ch'ella faceva ogni cosa a posta, per farmi dispetto, per farmi capire ..." "No! No!" disse Patrizio, baciandole ripetutamente le mani. "Che guardi?" domandò Eugenia, vedendolo fermare all'improvviso. "È strano ..." egli rispose. "Si direbbe che tu te le sia stropicciate con la zagara ... Ma non è la stagione. Hai forse un profumo di fiori d'arancio?" "Lasciami sentire ..." Ella voltava e rivoltava le mani, odorandone la pelle come un fiore. "È vero: pare che io abbia toccato della zagara e che me ne sia rimasto l'odore ... Si avverte appena però ..." "Anzi, al contrario! Senti? ... Anche ai polsi ..." soggiunse Patrizio ... E tirò in su, curiosamente, una manica di lei fio al gomito. "Pure al braccio!" esclamò, meravigliato. "Senti, senti!" Eugenia si strinse nelle spalle: "Sarà stata la lavandaia, che avrà voluto profumarmi la biancheria ..." "Può darsi." "Dunque, come ti dicevo ..." ella cercò di riprendere. Patrizio portò rapidamente l'indice della mano destra alle labbra per significarle: Silenzio! "Animo tranquillo e buon brodo, ha raccomandato il dottore!" E affacciatosi all'uscio che dava sul corridoio, chiamò: "Dorata! Dorata!" Eugenia persisteva nella sua idea. Finito di sorbire la tazza di brodo recata dalla donna, messasi a sedere su la sponda del letto, ravviata la veste e pas- sàtesi le mani sul volto, attirò Patrizio tra le ginocchia, cingendogli le braccia attorno il collo. "Bada!" gli disse. "Io non cedo. Non ho ceduto ai miei, quando mi agitavano dinanzi a gli occhi lo spauracchio di una vita randagia, senza nessuna sicurezza per l'avvenire; non cederò, mettitelo in mente, nemmeno con tua madre!" "In che cosa dovresti cedere? ..." Egli affettava un tono di gentile canzonatura, per mascherare l'agitazione che le parole di lei gli producevano. "Intendo" riprese Eugenia seria seria "intendo: che voglio esser libera, con libertà santa e giusta, si capisce! Intendo che ti voglio sincero con me, come da un pezzo non sei più, sì, come da un pezzo non sei più! Mi credi tanto stupida da non capirlo?" E all'improvviso gli si abbandonò con la fronte sul petto, mormorandogli quasi in tono di preghiera: "Pensa che ora non ho altri che te! Pensa che tu sei tutto per questa povera creatura che ti vuol bene! Oh Patrizio! Il mio cuore è uno specchio così limpido che neppure il fiato l'appanna ... Puoi mirarviti quando tu vuoi! Sul tuo cuore, invece, c'è spesse volte un velo grigio, che m'impedisce di vedervi bene quando più avrei bisogno di vedervi be- ne. Non ce lo voglio! Strappalo! Che cosa chiedo infine? Se io ti sentissi sincero, non mi curerei di nient'altro! Hai forse qualche doloroso segreto? ... Mettimene a parte; voglio soffrire assieme a te!" "Vedi come ti ecciti? ... Come esageri? ..." E sollevandole la testa, soggiunse: "Dammi una prova del tuo amore, Eugenia; te ne scongiuro, non tornare su questo soggetto, almeno per ora! Ti fa male; fa male anche a me ..." "Non ne parlerò ... Ma ... sarai tu sincero da oggi in poi?" "Sì, sì, come sempre! ..." "Proprio sincero? ..." "Sì!" "Ebbene ... allora ..." ella riprese lentamente, fissandolo, "allora dimmi ... perché ... la mam- ma ... No, non voglio saperlo! Me lo dirai quando ti parrà!" E gli si avvinse di nuovo al collo, arrossendo di essersi così presto contraddetta, e ripetendo con voce soffocata: "Non voglio saperlo! Non voglio saperlo!"

A questo punto, come se nella sua memoria fosse avvenuto uno strappo, egli non riusciva a ricordare altro che la fi- gura di suo padre, smorta smorta, con la testa abbandonata sui guanciali, gli occhi semiaperti, senza sguardo, e un filo di sangue raggrumato in un angolo della bocca ... E, subito dopo, baci della mamma che gli singhiozzava in volto: "Figliuolino mio! Orfanello mio! ..." Oh, se ricordava! Se ricordava! Sua madre vestita di nero. Per la casa silenziosa, un via vai di gente cattiva; lo capiva dalle lagrime di lei. E un rapi- do sparire di mobili, di stoffe, di quadri, ai quali si era affezionato senza sapere perché, forse perché li vedeva tutti i giorni. Persone ignote venivano e li portavano via. "Non sono più nostri, mamma?" "No!" Per non farla scoppiare in pianto, com'era accaduto due volte all'ingenua domanda, egli avea continuato ad assistere in silenzio, con sguardo crucciato, alla desolazione di quello spoglio. Portavano via specchi, tavolini, seggiole, libri! Perché? Avrebbe voluto saperlo. E non staccava gli occhi dai carri sopra i quali i facchini li ammonticchiavano nell'atrio, le- gandoli con funi, quasi tavolini, seggiole, poltrone, specchi avessero potuto scapparsene e tornare su, al posto dove era- no stati tant'anni. Appena i carri si avviavano lentamente e rumoreggiando sparivano sotto l'arco dell'atrio, egli correva al balcone che dava su la via, per vederli ancora fino alla svolta della cantonata. E, torvo, aggrappato alle sbarre della ringhiera, guar- dava, guardava, confusamente sentendo che qualche briciolo del suo cuoricino andava via assieme con tutti quegli og- getti. "Non sono più nostri!" Il salone, però, le camere, la cucina, la terrazza? ... Non potevano portarle via, oh, no! ... Eppure non avrebbe voluto aggirarvisi più, dal giorno che gli stanzoni vuoti cominciarono a impaurirlo, con gli echi che risuonavano da le volte quasi gli facessero il verso. Pur troppo quelle cattive persone, dal viso duro e dalle ma- niere scortesi, che venivano ogni giorno a tormentare la sua povera mamma, pur troppo alla fine si presero pure la ca- mera della mamma, la cameretta di lui, la cucina, la terrazza e il gran salone dov'erano prima le stoffe rosse alle pareti, listate dall'alto al basso da comici a cartocci di legno dorato, sua viva ammirazione! Pur troppo, una sera a ora tarda, la mamma, pallidissima e con le mani ghiacce che le tremavano, lo aveva quasi trascinato fuori, lasciando gli uomini a raccattare gli ultimi pochi arnesi rimasti! Ah, quelle tre stanzine misere misere, senza terrazzini, coi vetri delle finestre mezzi rotti, dove essi erano andati a rannicchiarsi! Vi si era sentito rattrappire. Se ricordava! ... Anzi ora egli afferrava al balzo ogni più piccola occasione di ritornare addietro con la memoria; e s'indugiava nei ri- cordi, sfoggiando altera compiacenza, quasi per dire al suo passato: "Vedi? Alla fine ti ho vinto!". Così (ed erano già trascorsi due mesi dal loro arrivo) una mattina, dopo colazione, si era abbandonato a raccontare l'unico episodio della sua fanciullezza. "Vieni, vieni!" Eugenia lo aveva trascinato carezzevolmente per un braccio, lungo il corridoio dove il Padreterno faceva sollevare, spazzando, un nugolo di polvere dai mattoni. "Padreterno, un po' di pioggia" disse Patrizio, celiando. "Non siete Padreterno per nulla!" "Se fossi Padreterno davvero, farei piovere vino schietto." E il borbottìo della risposta, un po' mangiato dallo spazio, un po' dal fruscio della granata nuova, era appena arrivato fino a loro. Un istante il Padreterno li aveva sentiti ridere in cima alla scala che conduceva alla selva. Presi per mano, sotto il pergolato, poco dopo non ridevano più. Al ronzio delle api attorno le macchie di spigo e di rosmarino, al cinguettio dei passeri e dei cardellini tra i cipressi e gli aranci, al mormorio dello zampillo della fontana, una parola di Eugenia era bastata per evocare il più caro dei ricordi ch'egli teneva chiusi in fondo al cuore. Oh, là si sentivano segregati dal mondo, tra l'alta muraglia che cingeva la selva, e la facciata interna del convento nascosta da gli alberi, col campanile torreggiante in alto, sgretolato, sormontato da una banderuola di ottone, che stride- va mossa dal vento. Qual luogo più opportuno per una confidenza di quel genere? Non ne aveva mai parlato con nessuno; era proprio un'esumazione. Gli sarebbe parso di profanare quel ricordo ra- gionandone con altri. "Di' dunque ..." "Allora ero magro, pallido, di quel pallore dei bimbi malaticci che paiono vecchini. Tutto il mio svago, nella misera casetta dove la mamma nascondeva i dolori, le privazioni, le umiliazioni della vedovanza, consisteva ordinariamente nell'uscire sul pianerottolo e passarvi le ore pomeridiane baloccandomi, solo solo, con pezzetti di legno, trucioli, fram- menti di carta colorata, sassolini. "Un pigionale dell'ultimo piano, che scendeva tutti i giorni a ora fissa, mi accarezzava la testa passando; e la tacita tenerezza di quel vecchio mi faceva piacere. Curvo, bianco di capelli, con gran barba gialliccia che gli scendeva fino a metà del petto e sotto braccio un ombrellone rosso, quel vecchietto un giorno mi aveva fatto un cenno strano. Lo com- presi poco dopo, quando vidi comparire una bambina che, dubbiosa, esitante, si fermò a metà degli scalini, guardando- mi con curiosità. ""È vero che vuoi giuocare con me? Me l'ha detto don Antonio." "La guardai stupito. Non l'avevo veduta mai. Don Antonio doveva essere quel vecchietto. ""È vero?" ella replicò. "E senza aspettare la risposta, venne su. Mi parve della mia età, tra gli otto e i nove anni. Bruna, gracile, con indosso una vestina di mussola azzurra un po' stinta e i neri capelli sciolti per le spalle, teneva stretta al seno una bambola sciu- patina in viso e a cui mancavano le braccia dentro le maniche. Addossata al vano della finestra, stette a osservare in si- lenzio i miei ninnoli, dandomi occhiate interrogative quando alzavo la testa. ""Tieni, gioca con la bambola. Giochiamo assieme." "La mamma, affacciatasi all'uscio, la guardò con aria sospettosa, la interrogò e si fermò più a lungo, probabilmente per accertarsi che non fosse una cattiva compagna. Ella continuò a giocherellare co' miei legnetti, mentre io tenevo tra le mani la bambola, senza sapere che cosa farmene. Appena la mamma rientrò, la bambina, accarezzandomi il viso e sor- ridendo, mi disse: ""Non sai fare il chiasso dunque?" "E cominciò a insegnarmi." La voce di Patrizio era un po' turbata. Il suo sguardo pareva ricercasse, lontano, nel pianerottolo di quella meschina casetta, la bruna e gracile figurina dai capelli neri, sciolti dietro le spalle, che gli aveva preso il volto tra le mani con af- fettuosa compiacenza da sorellina maggiore. Ed Eugenia, che ascoltava intentissima, si mordeva lievemente le labbra sentendosi già invadere da vago senso di rancore contro quella creaturina che doveva aver lasciato nel cuore di Patrizio orme profonde, se questi rammentava così bene tanti minuti particolari d'un avvenimento d'infanzia. Egli continuò. "Il vecchio, che scendeva curvo e lento con l'ombrellone rosso sotto braccio, ci trovava ora sempre assieme; e sco- tendo la gran barba gialliccia, stendeva la mano scarna all'una e all'altra delle nostre testine, evidentemente compiaciuto dell'opera sua. Gli badavamo appena. Stufi di ripetere i soliti giochi, ci prendevamo per mano, o ci passavamo le braccia attorno al collo; ed era il momento delle confidenze. Lei mi parlava del suo babbo, della sua mamma, di tante cosettine di casa sua; o stavamo abbracciati a lungo, muti sovente. Un giorno ella non comparve. Ne sentii sgomento, quasi mi si fosse fatto buio improvviso nel cuore. Non comparve nemmeno il giorno appresso. Il vecchietto passò, curvo, col solito ombrellone rosso sotto braccio; nè mostrò di aver notato che l'altra non c'era. "E se non fosse più mai venuta?" Non rimpiangevo i giochi che non potevo fare assieme con lei; rimpiangevo lei, rimpiangevo le sue manine tra le mie, le sue braccia attorno al mio collo, il suo sorriso, il suono della sua voce, qualcosa che non capivo bene che cosa fosse e di cui soltanto molti anni dopo mi resi ragione. Sai quando?" Eugenia, accigliandosi, accennò di no. "Quando attendevo che tu venissi a sederti al terrazzino di casa tua, dietro la ringhiera di ferro ricurvo, tra le graste in fiore, nelle prime settimane che ti conobbi. Tu non t'eri ancora avvista che io stavo a guardarti dietro la tenda della mia finestra e che già ti amavo. La stessa smania, la stessa angosciosa aspettativa! Finalmente ella ricomparve. Era stata malata di febbre. Ci baciammo, e restammo un gran pezzo abbracciati. Sentivo affollarmisi alle labbra tante e tante cose da dirle; e non riuscivo a dir niente. La mamma, trovatici così, domandò brusca: ""Che cosa fate?" "Ci sciogliemmo dall'abbraccio, quasi vergognosi di esserci lasciati sorprendere in un atto che avremmo dovuto fare di nascosto; e per scusa, risposi: ""È stata malata." "Il vecchietto da allora in poi, invece che su gli scalini del pianerottolo, ci trovava seduti a metà della scala del piano superiore. Ci nascondevamo, per baciarci e abbracciarci senza che la mamma potesse coglierci all'improvviso e doman- darci: "Che cosa fate?". Io mi sentivo scotere tutto, quando Giulietta mi abbracciava. Si chiamava Giulietta. Ella, mera- vigliata, mi domandava: ""Che hai? Perché tremi? Senti freddo?" "E mi abbracciava più forte. "Era tranquilla, con grande soavità di sguardo e di sorriso, con fare benevolo di protezione. Un giorno tutt'a un trat- to, mi domandò: ""Mi vuoi bene? Io ti voglio bene." ""Sì, ti voglio bene." "E levàtasi in piedi, di faccia a me, tenendo incrociate le manine dietro la schiena, seria seria, soggiunse: ""Quando saremo grandi, ci prenderemo per marito e moglie, come il babbo e la mamma. È vero?" ""Sì sì!" ""Ora la bambola è nostra figlia." "Son vissuto molti anni col cuore invasato da Giulietta, dal ricordo, dalla visione di lei, quasi ella fosse venuta cre- scendo di mano in mano ch'ero cresciuto io; quasi le parole: "Quando saremo grandi ..." fossero state giuramento, indissolubile legame." "La rimpiangi forse?" lo interruppe Eugenia impallidita. "Cattiva! ... Cose da bambini!" "Sei così commosso!" "Ricordo com'è morta." La selva era piena di sole. Le api ronzavano più numerose per le macchie di timo e di spigo. Patrizio si era fermato a osservare una lucertolina, che, affacciàtasi alla estrema punta del banco di pietra dove sedevano, spingeva la testina verdognola, quasi fosse stata ad ascoltare e volesse sentire la fine del racconto. "Una mattina" egli riprese "appena uscito sul pianerottolo, ecco un urlo, poi stridi e pianti e tutto il casamento sos- sopra! La mamma, che era venuta ad accompagnarmi fino all'uscio, mi afferrò per un braccio, e mi spinse subito dentro. Poco dopo, picchiarono. Una casigliana chiedeva urgentemente non so che cosa. Il nome di Giulietta, misto alle frasi interrotte e confuse che le uscivano di bocca, mi gelò il sangue. Appena quella donna andò via, la mamma mi si accostò, severa: ""Hai sentito? ... Quando si è scapati! ... È precipitata giù dalla finestra ... È moribonda!". "Rimasi di sasso. Che nottata! La mamma mi avea messo a letto di buon'ora. Avevo paura, con l'urlo e le grida e il tumulto della mattina negli orecchi. Terribile cosa precipitare da una finestra! Essere moribonda! Di questo però non sapevo formarmi un'idea precisa. Il cuore mi batteva violentemente nel petto. Dove s'era fatta male? Alla testa? Alle braccia? Alle gambe? "E nel silenzio della notte tendevo l'orecchio, per udire qualche rumore nel piano sottostante ... Non si udiva niente. La mattina dopo, la mamma non voleva neppure permettermi di uscire sul pianerottolo. ""Non mi moverò di qua!" supplicai. "Avevo però in testa il mio disegno: scendere in fretta le scale, andare da Giulietta e subito subito risalire, avanti che la mamma se ne accorgesse. La gente entrava ed usciva muta, commossa. Mi feci animo; entrai anch'io. Giulietta, stesa sul letto, allungata, bianca, con le manine incrociate sul seno, pareva dormisse. Nessuno badava a me. Mi accostai, le toccai un braccio. Era rigido, inerte. Mi rincanttucciai a piè del letto, sbalordito, dubbioso se fosse morta davvero o pure assopita. Una donna la tolse in braccio baciandola e la portò verso la cassa. Ficcatomi tra le persone che stavano là at- torno, ve la vidi riporre. Le aggiustavano la testina, i capelli, le manine. Ma non appena il becchino, abbassato il coper- chio, girò la chiave della serratura, scoppiai in urli, in pianto: ""Giulietta! Giulietta!" "Diventato furioso, strappavo i vestiti delle persone, davo calci e pugni, volevo mordere tutti: ""Giulietta! Giulietta! ..." "E caddi in convulsione." "Basta, non ti commuovere troppo!" disse Eugenia con durezza gelosa nella voce, levandosi da sedere. Patrizio le prese una mano. "Ora Giulietta sei tu!" "No, io sono Eugenia" ella rispose, ritirando la mano vivamente. Patrizio stava per slanciarsi ed abbracciarla, ma l'arrestò l'apparizione della signora Geltrude, che veniva avanti sen- za far rumore pel viale, simile a un fantasma, con la ruga della fronte più severa che mai. "C'è il sindaco" disse. E prese il braccio di suo figlio, senza neppur guardare la nuora. Pareva volesse portarglielo via. Eugenia li seguiva, canticchiando per dissimulare il dispetto.

L'aveva abbandonata! L'aveva abbandonata! E, sotto la coperta, ficcava le mani tra i capelli, stringeva forte forte la testa per comprimervi e impedirvi quel rime- scolio di pensieri, di immagini, di ricordi; quella tempesta di risoluzioni contraddittorie, di pretesti, di scuse; quelle in- termittenze della volontà che la impaurivano più di tutto ... Non era sicura di sè. Nei sogni, in quei sogni interminabili, che riapparivano appena s'addormentava e l'agitavano, anche sveglia, come impressioni reali, ella cedeva, cedeva alle insistenze di Ruggero, gli veniva meno tra le braccia in luoghi strani: boschi, orride gole di rupi, grotte affumicate, dove enormi pipistrelli l'assalivano, sfiorandole la guancia con ali viscide, quasi a scancellarvi l'impressione dei baci! Oh, quei baci! La loro voluttuosa sensazione persisteva, tentatrice, insidiatrice, nella veglia, ed ella se ne irritava; si indignava di sorprendersi in taluni istanti della giornata, per involontario consenso, nella delizia di assaporare il contatto delle labbra sognate, che non avrebbe potuto essere più soave, più tiepido, più vivo, se fosse stato veramente quello del- le stesse labbra di Ruggero. Eppure, finora, non si era tradita nemmeno con lui! Era però mutata assai verso Patrizio. Sentiva uno sdegno sordo, una specie d'odio misto col disprezzo, al vederlo tranquillo, indifferente, incurante di lei, tutto della sua morta, della sua malaugurata morta, che non poteva, no, essere in Paradiso! Andata via col tossico nel cuore, contro di lei che non l'aveva offesa, proseguiva anche di là la sua opera in- fernale! Perciò ella si sentiva sconvolta, e gli orecchi le tintinnavano, le zufolavano, le davano sensazioni di scrosci di piog- gia; per ciò le saliva dai piedi alla testa quel formicolio dei nervi che ricominciavano a distendersi, a contorcersi, quasi a provarsi per nuovi accessi, come in quel momento. Avrebbe voluto piangere; non poteva. E nel portare le mani alla faccia, inaspettatamente sentì di nuovo, per la prima volta dopo tanti mesi, l'odor di zagara che riprendeva, percettibile appena. Scattò a sedere sul letto. Voltava e rivoltava le mani, annusandole, e spalancava gli occhi, pensando che ben presto anche Patrizio se ne sa- rebbe accorto. All'idea che tutti quei sintomi ora dovessero accusarla al cospetto di lui, rivelargli il colpevole affetto che la martoriava, si sentì agghiacciare. "E se in qualche accesso di convulsione mi sfugge un nome? ... E se faccio intendere, con scomposte parole di delirio, qualcosa di più grave di quel che non è accaduto?" Scivolò tra le lenzuola, abbattuta, prostrata, con le mani avviticchiate sul capo, e gli occhi fissi alla volta quasi in- gombra di nebbia nella semioscurità silenziosa. Le pareva che quell'odor di zagara emanasse sottile sottile da tutto il suo corpo, e invadesse la camera, impregnando talmente l'aria che ella se ne sentiva stordire, quasi soffocare. Il respiro le diventò affannoso, la vista le si offuscò e ne- gli orecchi tintinnii e zufolii s'avvicendarono con altri strani rumori che le intronavano il capo. Un sopore di sfinimento cominciò ad aggravarsele su le palpebre; strie luminose, iridate le tremolavano dentro gli occhi; l'odor di zagara conti- nuava a esalarsi sottile sottile, spossandola, togliendole ogni forza del corpo, annichilendo ogni movimento della sua volontà; e, poco dopo, ella rientrava senza accorgersene nel regno dei sogni: stretti, lunghissimi corridoi dove Ruggero la inseguiva; alte rocce sovrastanti da ogni lato e tra cui egli la raggiungeva, la stringeva fra le braccia, la copriva di ba- ci; nere grotte, dove gl'immancabili enormi pipistrelli agitavano le ali, atterrendola con quella sensazione di cosa fredda e viscida che le sfiorava la faccia. "Eugenia! Eugenia!" Non ancora ben desta, e mentre Patrizio tornava a chiamarla, vedeva sparire gli ultimi lembi del sogno quasi strac- ciato e disperso da un soffio improvviso. E quando si scosse, negli occhi tuttavia imbambolati le appariva il corruccio di essere stata svegliata in quel momento da lui. Patrizio, che s'era affacciato appena con la testa dall'uscio e rimaneva là aspettando una risposta, se ne avvide, ma non capì. "Ti senti male?" domandò. "No. Mi levo subito." "Fa presto. Vieni in salotto." "Che c'è di nuovo?" "Non turbarti ... Un biglietto del sindaco. Ahimè! Era da prevedersi!" "Insomma?" "Giulia ... è fuggita col Favi, la notte scorsa." "Oh, Dio!" esclamò Eugenia, balzando dal letto. Ah! Neppure alla povera Giulia il triduo alla Madonna era giovato. "Mi faranno fare una pazzia!" L'aveva detto più volte, e l'aveva fatta! Vestìtasi in fretta e in furia, coi capelli in disordine, senz'essersi lavata la faccia, finendo di agganciarsi il busto della veste, Eugenia s'era precipitata ansiosamente in salotto. Patrizio teneva in mano il biglietto del sindaco. "Ci prega di comunicare la notizia a Ruggero e di trattenerlo qui. Se ne sono accorti soltanto poco fa. La credevano in camera, a letto ... Teme che Ruggero possa fare scandali e dar da ridere alla gente." "Oh, Dio!" ripeteva Eugenia. "E dove sono andati?" "Non si sa. Ho mandato Zuccaro a prendere informazioni. Tutto si accomoderà, senza dubbio. Intanto è un brutto momento. Condurrò Ruggero qui." "Sarà un gran colpo! Vuol tanto bene alla sorella!" "Finisci di vestirti. Io torno nell'ufficio per impedire che qualcuno commetta l'imprudenza ..." Ella restò un momento in piedi presso il tavolino, sbalordita, ridomandandosi internamente: "Dove sono andati?" Poi, l'idea di doversi trovare di lì a poco faccia a faccia con Ruggero, di essere costretta a rimanere, forse l'intera giornata, sola con lui, le produsse una acuta agitazione, un fremito di paura per l'inevitabile pericolo; ma reagì contro se stessa. Lavandosi, ravviandosi i capelli, si sentiva commovere da viva compassione, immaginando il dolore che egli avreb- be provato all'annunzio della triste notizia. Dovevano partecipargliela con cautela, fargliela indovinare piuttosto che dirgliela ... "È difficile. Povero giovane!" Pensò di far preparare il caffè. Sarebbe stato un pretesto. Tra un sorso e l'altro, Patrizio o lei, o tutti e due assieme, avrebbero parlato. E diede l'ordine a Dorata. Poi prese in mano un lavoro di uncinetto, assunse l'aria più tranquilla e più indifferente che potè, e sedette presso la finestra, in salotto, aspettando. "Eugenia deve comunicarle non so che cosa. È vero?" disse Patrizio un po' impacciato. "Segga, segga qui" ella soggiunse. E gli stese la mano. Ruggero li guardava perplesso, con un sorriso di curiosità sulle labbra, imbarazzato alquanto da quel fare misterioso. E la sua immaginazione fantasticava rapidissima per indovinare che potesse mai comunicargli Eugenia davanti al mari- to. Non doveva essere una cosa piacevole, lo deduceva dal contegno dell'Agente, dalla ruga che si contraeva su le so- pracciglia di lei. E si mise in guardia. Dorata portò le tazze col caffè. Eugenia si levò da sedere e ne offerse una a Ruggero. "Troppo zucchero!" E, ridendo, egli soggiunse: "Per indolcirmi la bocca prima di darmi l'amaro". Eugenia guardò Patrizio negli occhi, stupita, e si sforzò di sorridere. "Ai suoi ordini" disse Ruggero dopo aver sorbito lestamente il caffè, stendendo il braccio per posar la tazza nel vas- soio. "Nulla di grave" rispose Eugenia con voce malsicura. "Cioè ... un fatto doloroso, sì, ma che non produce mai cattive conseguenze ... Il matrimonio sana tutto." "Sana tutto" ripetè Patrizio dietro la pausa di sua moglie. "Sventataggine da innamorati! ... Biasimevole, chi lo nega? ma, in certe circostanze, scusabile. Lei, che è uomo e giovane, compatirà facilmente." Ruggero scattò dalla seggiola, pallido come un morto, con gli occhi smarriti, e fece per slanciarsi fuori del salotto. Patrizio lo trattenne. Eugenia, tremante, gli prese una mano, balbettando: "No, no! Resti qui. Dove vuole andare?" "Non dovevano farlo! Non dovevano! ... Ah Giulia! Giulia!" Mugolava, più che parlare, si strizzava le dita, pestava co' piedi, stralunava gli occhi: "Non dovevano farlo! È un'infamia ... Non dovevano!" Non riusciva a dir altro, tentando di svincolarsi. Voleva correre dietro ai fuggitivi, andare a sputare sulla faccia a Corrado Favi per quell'affronto a una famiglia che egli avrebbe dovuto rispettare come propria. E tornava a prendersela con Giulia: "Non la guarderò più in viso! Non è più mia sorella!" "Si calmi. Suo padre vuole che si trattenga qui fino a sera. La ricondurrò io stesso a casa. Tutto è bene quel che fini- sce bene." "Che disonore! No, non dovevano farlo!" rispondeva Ruggero, mentre l'Agente cercava di rimetterlo a sedere. "Ha ragione. Dice benissimo" soggiunse Eugenia commossa. "Oramai però bisogna pensare al rimedio." Ruggero si lasciò cascare su la seggiola. Dalla rabbia, faceva stridere i denti e singhiozzava, col capo fra le mani, ri- petendo: "Che disonore! ... Non dovevano farlo!" Patrizio s'aggirava attorno al tavolino aggiustando le tazze nel vassoio, stirando una piega del tappeto, come persona che non sappia che cosa fare o dire. Eugenia, in piedi dinanzi a Ruggero, cercava di scusare alla meglio l'amica. Ine- sperta, innamorata cieca, Giulia, con quella fuga, aveva voluto soltanto forzar la mano ai parenti; nè il Favi, poverino, poteva aver avuto cattive intenzioni. Buon giovane, a quel che ne dicevano, colto, modesto, con un bell'avvenire davanti a sè ... "La benedizione a piè dell'altare scancellerà ogni cosa, toglierà qualunque malinteso tra le due parentele. Una sorella è sempre sorella, anche quando commette uno sbaglio." Ruggero negava, scotendo la testa tra le mani, coi gomiti appoggiati sui ginocchi, inconsolabile. Successe un lungo intervallo di silenzio, durante il quale Patrizio, avvisato del ritorno di Zuccaro, uscì nel corridoio. "Mi fa male vederlo così afflitto" disse allora Eugenia, posandogli una mano su la spalla. "Ah, signora!" Ruggero alzò la testa, la guardò in faccia e, quasi per persuaderla meglio a dargli ragione, prese tra le sue la mano che gli era stata posata affettuosamente su la spalla. Eugenia non ebbe il coraggio di ritirarla, assai turbata da quel contatto che le pareva la mettesse, imprevedibile cir- costanza! proprio in balia di lui. E così, tra le pressioni delle mani di Ruggero, che s'avvicendavano ora lievi, ora forti, secondo la varia intensità del sentimento, stette ad ascoltare il rapido sfogo che gli sgorgava dalle labbra contro la sorel- la, contro il Favi, contro il padre, contro le altre sorelle, contro tutti. E rispondendo con lievi assensi del capo, con sguardi che dicevano: "Sì, è vero ... Mah! ... Mah! ..." lasciava che intanto il tepore, le scosse, le con- trazioni delle mani le insinuassero per la persona un senso novo d'intimità con quella viva partecipazione al dolore di lui, qualcosa che già somigliava a un abbandono di se medesima, per conforto, per consolazione, senza però conceder niente che ella dovesse rimproverarsi, o di cui pentirsi, dopo. "E come rideranno i nemici della nostra famiglia!" esclamò all'ultimo Ruggero. "Come ridono in questo momento!" "Non s'occupi di essi. Non rideranno più quando il matrimonio sarà compiuto." "Ah, signora! ... Ella non sa le basse invidie, le malignità dei partiti in questo miserabile paesetto!" Le stringeva più forte la mano, se la portava alla fronte con gesto desolato. Eugenia, paventando non se la portasse anche alle labbra, la ritirò lestamente; e si rimise a sedere di faccia a lui. "Buone nuove!" gridò Patrizio, rientrando. I fuggitivi erano a Rosolini, presso una famiglia amica dei Favi. Giulia vi si trovava ospitata come una figlia. Corra- do era già tornato a Marzallo. Le cose si mettevano bene per la dignità e per l'onore di tutti. Intanto, amici comuni s'in- gegnavano di appianare le difficoltà. Sopraggiunse il dottor Mola. "Ebbene? Che vuoi farci?" esclamò, vedendo il gesto furibondo di Ruggero. "Siamo tutti senza cervello a vent'anni. Ora sarà una sfilata di fughe; vedrete, signora mia! L'esempio è contagioso. Accade sempre così. Voi però, voi sopra tutti, dovete sforzarvi di stare tranquilla. Che viso, che occhi, Dio mio! ... Date qua. E che polso! Ecco una ricetti- na. Calmante. A cucchiaiate, d'ora in ora, lungo la giornata. Sono venuto a posta." "Grazie." "Niente. Lo faccio anche per egoismo, per non dovervi curare a lungo dopo. Non ci ho gusto a veder malata la gen- te, quantunque sia il mio mestiere. Brutto mestiere vivere a costo del male altrui! Tu" soggiunse rivolto a Ruggero "bevi un bel bicchiere d'acqua fresca; ti farà bene. E non ti muovere di qui; così ordina tuo padre. In queste circostanze, meno chiasso si fa e meglio è." Dopo desinare, Eugenia e Ruggero erano rimasti soli in salotto. Calmato, egli non ragionava più del triste avveni- mento; fumava una sigaretta, appoggiato col dorso alla finestra. Eugenia, seduta poco distante, aveva ripreso in mano il suo lavoro di uncinetto e lavorava a capo chino. Si sentiva addosso, insistenti nel silenzio, gli sguardi di lui e non sapeva come stornarli. Di tanto in tanto, portava le mani alla faccia; una vampata l'assaliva a ogni movimento di Ruggero, che pareva non riuscisse a star fermo e si appog- giava ora su l'una or su l'altra gamba, accavalciando i piedi, quasi impazientito di quel silenzio troppo prolungato. Eugenia avrebbe voluto prevenirlo e avviare la conversazione in maniera da impedire che si mettesse per uno sdruc- ciolo pericoloso; ma non trovava nulla. E provò una stretta al cuore, sentendo la voce di lui, che, esitante, diceva: "Si annoia. Ha ragione. La mia compagnia non è piacevole oggi." Ella fece un lieve atto di protesta col capo, e si chinò di nuovo sul lavoro, senza aggiunger parola. "Mi fa impazzire!" esclamò tutt'a un tratto Ruggero, buttando fuori dalla finestra, dietro le spalle, la sigaretta fumata a metà. "Non parli così!" balbettò Eugenia. E, atterrita, si volse istintivamente verso l'uscio. "Compatisce gli altri, con me! ..." continuò Ruggero con voce repressa. "Non s'accorge o finge di non accor- gersi di niente! ... Mi fa impazzire!" "Non parli così! Che cosa vuole?" ella domandò con angoscioso smarrimento. "So che non è felice; me n'ha parlato Giulia, tante volte!" "E se pure fosse vero?" "Mi dica una sola parola! ... Una sola!" "Zitto, per carità!" Eugenia s'era levata da sedere, col cuore in tumulto, con la mente turbata e un gran tremito per tutta la persona. Pen- tita delle inconsulte parole sfuggitele di bocca, s'irritava di non trovar la forza di interrompere con un gesto, con una ri- sposta recisa, quella tanto paventata dichiarazione sentita addensare nell'aria simile a un temporale, e che già scoppiava irresistibile nel peggior momento per lei. "No" riprese Ruggero, tentando di afferrarle una mano che Eugenia ritirò per portarla rapidamente alla fronte. "No, non è possibile che il suo cuore sia rimasto indifferente. È di ghiaccio? ... Una parola! Una sola parola! ... Non le chiedo altro. Se sapesse quanto l'amo! ... Fino al delirio! ... Lo sa, lo sa ... Finge di non saperlo. Ah! ... Mi disprezza dunque?" "Perché dovrei disprezzarlo? Che cosa vuole da me? Sono maritata. Non mi offenda, supponendo che io possa tradi- re mio marito. Gli voglio bene ..." "Non è vero!" All'energica affermazione, Eugenia sgranò gli occhi, quasi vedesse in quel punto il proprio cuore aperto come un li- bro davanti a Ruggero. Egli le si era accostato, supplicandola a mani giunte: "Una parola! ... Una sola parola!" E tornava a ripetere: "Non è vero. Giulia mi ha confidato tutto. Non è amata, non ama; io, io solo l'amo alla follia, da otto mesi, dal primo istante che la vidi!" "Perché me lo dice? ... Perché?" Si torceva le mani, crollava la testa, smaniando: "Non voglio saperlo! Non devo saperlo! ... Mi lasci in pace, per carità! Mi lasci in pace! ... o dirò tutto a mio marito!" Le parve d'aver trovato la parola giusta, e guardò in viso Ruggero. "Glielo dica, se ha coraggio!" egli rispose, arrestandosele davanti. "Potrà impedirmi di amarla? Glielo dica; così lei si leverà di torno la mia odiosa persona. Io debbo venire qui per forza; vederla tutti i giorni per forza, perché mio padre lo vuole, per le lezioni. Quando mio padre saprà, mi manderà via da Marzallo. E sarà liberata dalla persecuzione de' miei sguardi; non mi vedrà, non mi udrà più! Glielo dica. È una soluzione ... per lei! Io l'amerò lo stesso. È la pri- ma volta che amo. Ah! L'ha condotta qui la mia mala sorte. Ero tranquillo, felice. E, da otto mesi, soffro tormenti incre- dibili; vivo soltanto per lei, penso soltanto a lei, giorno e notte! ... E lei mi ha visto, mi vede soffrire, e non si è mai commossa, non si commuove! ... Che cuore ha?" "Oh, Dio! ... Zitto! Zitto!" S'era coperta la faccia con le mani, senza sapere quel che diceva e faceva. Le pareva di sognare a occhi aperti; udiva quasi le stesse parole udite tante volte nei sogni; e, come nei sogni, sentiva venir meno ogni forza, quantunque la sua volontà dicesse ora, come sempre: "No! No!". Dalla faccia portava le mani agli orecchi per non udire le fatali parole e non esserne ammaliata; e ripeteva: "Zitto! Zitto!" con doloroso accento di preghiera. Ruggero non l'ascoltava; tornava a insistere: "Una parola! Una parola! ... Che le costa? ... È dunque vero che non ha cuore? Senta, senta come tre- mo!" E le prendeva una mano. "Così non si finge! Così non si mentisce!" Eugenia tentò invano di svincolarsi. Ma appena si fu meglio impossessato della cara mano, egli cominciò a baciarla sempre più avidamente, come più la sentiva cedere, cedere sotto la pressione delle labbra, con deboli proteste: "No. Non è vero che mi vuol bene! ... Non è vero! ..." Le pareva che il suolo le mancasse sotto i piedi; e si aggrappava a lui, singhiozzante, invocando pietà con quel fil di voce: "Ah! ... Che male mi fa!" Lo respinse con sforzo improvviso e corse a rifugiarsi in un angolo. "Non s'avvicini! Grido; faccio accorrere gente. Per carità! ... Per carità!" tornava a supplicare. "È mai possibi- le? Come ha potuto credere? Mi prometta che non ricomincia. Sia bono! Sia bono!" "Sì, sì; farò tutto quel che mi ordina" disse Ruggero a bassa voce. "Purché io sappia se mi vuol bene o no ..." "Non devo." "No, no! Lo dice per ingannarmi. Glielo leggo negli occhi." "E allora? ... Sia bono! Gli voglio bene, ma non come crede lei. A che scopo? Non me ne riparli più. Sono d'altri. Sarei imperdonabile, se rispondessi diversamente. Non lo capisce? Deve capirlo." "Che m'importa d'altri? Che può importarne a lei, se non è amata? Una parola! Una parola soltanto! Sarà un segreto tra me e lei. Senta! Senta! ..." Lo aveva lasciato accostare a poco a poco, vinta dal fascino della voce, dalle insinuanti parole, dall'atteggiamento di calda preghiera con cui egli le si rivolgeva, incapace di fare il minimo movimento per sfuggirgli. E quando le fu vicino, gli stese le mani, invocando pietà col gesto, con lo sguardo, gesto e sguardo d'amore desolato, di passione irrompente, quasi di resa. "Senta! Senta!" ripetè Ruggero. Questa volta però le loro mani, incontràtesi, si strinsero forte. Vedendola mancare dalla violenta commozione, egli l'attirò a sè, la premè al petto e la baciò su la fronte e su le lab- bra, ripetutamente, intanto ch'ella, inerte, gli si appesiva addosso, diaccia e pallida, con un fioco lamento, tra' singulti. Ruggero ebbe paura. La sollevò tra le braccia, la mise a sedere, sorreggendola, quasi in ginocchio dinanzi a lei. Nel turbamento la chiamava: "Donna Eugenia! ... Donna Eugenia!" E le strofinava le mani per farla rinvenire, spaventato dall'idea che Patrizio, sopraggiungendo, potesse trovarla in quello stato. "Quanto male mi ha fatto! ..." Queste parole, uscite dalla bocca di Eugenia come un gemito di moribonda, lo rincorarono alquanto. "Mi perdoni!" supplicò umilmente. Eugenia aperse gli occhi. Credeva di destarsi da un sonno profondo, e fissava Ruggero, per ricordarsi bene quel che doveva essere accaduto. E, intanto che andava riprendendo coscienza, la indignazione per la sua debolezza le increspava le sopracciglia, le con- traeva le labbra. Poi svincolando con uno strappo le mani da quelle di Ruggero, si levò subitamente da sedere e lo re- spinse con gesto vibrato, muta, ansante. "Mi perdoni!" egli tornava a pregare. "Purché non ricominci!" rispose severa. E mutando accento, soggiunse: "Per carità! ... Se mi vuol bene, mi la- sci in pace, si scordi di me. Non posso amarlo. Non devo amarlo. Lei è giovane e libero ... Io non sono più libera ... Mi lasci in pace! Trovi una scusa, non venga più qui ... Non si lusinghi ... No! ... No! ... Abbia stima di me. Abbia pietà pure! Sono malata ... Non concorra a farmi peggiorare. Le voglio bene anch'io, ma non come intende lei. Si scordi di me. Si scordi di me! ..." "Impossibile! Scordarla, ora? Ora?" la interruppe Ruggero. "Si fidi. Non lo saprà nessuno, mai! Nessuno!" "No! No!" gemeva Eugenia. Ma l'accento, ma gli sguardi, pur troppo, dicevano sì.

E guardandolo dalla finestra mentre andava via a capo chino, con le mani dietro la schiena, solo o accompagnato da uno dei commessi, le pareva di sentirsi proprio abbandonata, quasi egli non dovesse tornare più, e rimanere con quella morta che le contendeva il cuore di lui più di quando era viva. Come lottare contro la invisibile nemica? Se la sentiva dattorno in tutti i momenti. A ogni scricchiolio di mobili, a ogni rumore di cui non sapeva rendersi su- bito ragione, trasaliva, stando in attesa, trattenendo il respiro, origliando, spalancando gli occhi verso il posto d'onde il rumore era partito; e chiamava: "Dorata!" Dorata compariva su l'uscio, rossa in viso, asciugandosi le mani. "Che cosa fai?" "Sono in cucina, signora; preparo il desinare." "Lascia stare un momento; spolvera quei mobili." "Li ho spolverati bene questa mattina." "Spolvera, ti dico" ripeteva Eugenia, con voce velata dal turbamento che voleva nascondere. E si metteva a discorrere con lei per trattenerla più a lungo. "Brava gente la famiglia del sindaco!" "Un po' strambi di cervello padre, madre e figlie ..." "Esageri." "Le ragazze spasimano di prendere marito, ma il cavaliere le farà spighire per via della dote. Gesù Maria! Ricco qual è! ... La maggiore è già avvizzita. L'altra ingiallisce a vista, come un cetriolo a cui manca l'acqua. La minore però si serve di suo capo. Sa? Giorni addietro - è un segreto, glielo confido perché so che non ne fiaterà con nessuno -, giorni addietro la signorina voleva che io facessi una bella parte ... Capisce? Portare una lettera a don Corrado Fa- vi. Risposi: "Perdoni, non mi mescolo di certe faccende. È per retto fine, lo so; ma se i suoi parenti lo sapessero, dovrei andare a nascondermi dieci miglia sotterra". Mi faceva pietà, povera ragazza! Voleva anche darmi del denaro." Eugenia, spintala a parlare, la interrompeva di rado, senza però stare attenta ad ascoltarla. Le bastava quel mormorio di parole ronzate nella camera che l'assicurava di non esser sola; il suo pensiero intanto vagava altrove. Vagava nella stanza d'ufficio dove Patrizio passava la giornata in preda della sua morta che lo invasava ognora più; vagava nella ca- mera lasciata intatta, dov'egli spesso andava a chiudersi per sedersi su quella poltrona su la quale la sua mamma aveva passato metà della vita, o per buttarsi bocconi su quel letto dove egli l'aveva baciata l'ultima volta. Così una mattina lo trovò Dorata; e venne a dirglielo subito, per farla accorrere presso il padrone che piangeva come un fanciullo. "Così non si consolerà mai, padrona mia!" Eugenia non rispose. Doveva mettere a parte delle sue pene una serva? Le pareva già troppo esser ridotta a invocar- ne la compagnia nei momenti di paura. Dio mio, scendere così in basso! ... Non era però sicura di non doverci, un giorno o l'altro, arrivare! Aveva tanto bisogno di compassione! Soffriva tanto maggiormente, non potendosi confidare con nessuno! Infine, era una buona creatura, benché serva, colei. Aveva amato, era stata amata in gioventù; che impor- tava come? C'è un destino nella vita! Dio, che sa tutto, perdona allorché si pecca per bontà di cuore. Perdonò alla Mad- dalena! E arrossiva, indispettita di queste scuse che si andava preparando per l'avvenire, quando forse non ne avrebbe potuto più, e avrebbe dovuto sfogarsi con Dorata, da cuore di donna a cuor di donna, dimenticando ogni altra cosa. Non osava uscire da quelle stanze e attraversare il corridoio per andare ad affacciarsi, come un tempo, all'uscio del- l'ufficio di Patrizio. Le due celle, dove erano prima la sua camera e il salottino, non le aveva più visitate dalla sera fata- le; all'idea di rimettervi piede, si sentiva scuotere tutta da ribrezzo. E Patrizio intanto si rammentava così di rado ch'ella doveva per lo meno annoiarsi con la sola compagnia di Dorata! Assorto nel suo dolore, passava le giornate colà, in con- tinuo rimuginare con la morta, evitando fin di parlarne con lei, sua moglie, quasi temesse di profanare la memoria di quella mamma gelosa! Gelosa della nuora! Della moglie del proprio figliuolo! Le pareva una mostruosità. Non era arri- vata a spiegarsela, quantunque vi avesse riflettuto lungamente dopo che egli, in un fuggevole istante di espansione, si era lasciato sfuggir di bocca: "Era gelosa di te!". Il sole vicino al tramonto, spuntando dietro la cupola della chiesa che lo aveva nascosto fin allora, irradiò improvvi- samente il salottino d'una tenera luce rosea. Eugenia, seduta presso la finestra, se ne sentì quasi toccare con mite carez- za. La stoffa nera della veste azzurreggiò e parve schiarirsi sui ginocchi e su le maniche a quell'onda di tinta gentile; allo stesso modo si schiarirono i suoi neri pensieri e il suo cuore nero in quel subitaneo chiarore. E si affacciò alla finestra con un senso di sollievo, quasi qualcuno fosse venuto a liberarla dall'incubo che la oppri- meva. Alto, su la collina, un vasto quartiere di Marzallo si schierava in faccia al sole; e tutte quelle povere casette con le fi- nestre aperte, i tetti coperti di borraccina, le terrazze piene di graste di garofani e di basilico, con panni sciorinati qua e là, sventolanti come pennoni da le cordicelle tese, parevano sorridere nella luce e formicolavano di vita. I campanili del- l'Annunziata e della Mercede, l'uno nel centro, l'altro a sinistra, snelli, traforati, sul fondo del cielo azzurro, quasi posti a guardia delle casette attorno; e il convento di Sant'Anna in cima alla collina, con le mura scurite dal tempo, la cupola della chiesa rivestita di mattoni inverniciati azzurri e bianchi che scintillavano, e a lato il campanile aguzzo, con su una palla e una gran croce di ferro, in quella gioia luminosa, chiudevano severamente l'orizzonte. Per qualche momento, rapita dallo spettacolo, Eugenia stette a guardare. Ma non appena le si presentarono all'im- maginazione altre case lontane, tante volte vedute alla stessa luce rosea dal terrazzino di casa sua, mentre inaffiava i fio- ri o attendeva che Patrizio dalla finestra incontro venisse a darle la buona sera; ma non appena le balenarono innanzi agli occhi le sorelle, le amiche e quasi ne sentì le voci e le parole, si ritrasse dalla finestra e cercò di scacciare quella vi- sione che inopportunamente veniva a intenerirla e a riempirle gli occhi di lacrime. Aperse un cassetto, rovistò, ne aperse un altro, senza scopo, soltanto per divagarsi. Ed ecco la sua bella vita! Aggirarsi dentro due cellette di convento come una mosca senza capo! Smaniare nella soli- tudine, colma di tutto, fuorché di quel che unicamente avrebbe potuto appagarla e renderla felice, anche senza gli agi, con un tozzo di pane nero! Giacché invidiava fin questo alle poverelle che venivano a stendere il loro misero bucato sui fichi d'India della siepe attorno al convento, ma si traevano dietro i loro bambini! Ah! ... Il Signore le aveva pure negato il conforto d'un figlio. Era dunque maledetta, se Dio non le concedeva nemmeno questa grazia? Che peccati ave- va commessi da meritarsi tale gastigo? ... Padre, sorelle glielo avevano avvertito: "Andrai di qua e di là, senza ca- sa propria, senza parenti, nè amici di cui tu possa fidarti! Che ne sai di costui? Dice d'amarti, sembra buono ... Chi lo conosce a fondo?". Oh, buono era! E l'amava davvero; non poteva dubitarne. Ci era però di mezzo colei, la sua nemi- ca! Quella che era stata gelosa, e continuava ad essere tale anche di là dove ora si trovava, invadendo tuttavia il cuore del figliuolo e stornandolo da lei, come aveva evidentemente minacciato con quegli occhi fissi di morente! Se li vedeva dinanzi tutte le volte che vi ripensava, dalla mattina alla sera; e anche la notte, allorché non poteva prender sonno e pel terrore svegliava Patrizio: "Ho paura! Ho paura!". S'era fermata a origliare. Aveva inteso aprire l'uscio; e ora udiva il leggero rumore dei passi di suo marito, che si ap- prestava ad uscire per la giornaliera visita al camposanto, dov'ella non aveva mai avuto il coraggio di accompagnarlo. Parlava con qualcuno, Zuccaro o Griffo forse; e non si era neppure fatto vedere da lei, quasi volesse andar via di sop- piatto a trovare la sua mamma! Questa visita quotidiana diventava, ogni giorno più, tortura insoffribile per Eugenia. Pa- trizio rientrava così triste, ch'ella non ardiva di interrogarlo nè di rimproverarlo. Però quella sera si sentì afferrata da im- provvisa smania d'impedirgli di andare; voleva convincersi almeno se ne avrebbe avuto la forza. Patrizio, vestito di nero, col cappello in mano, comparve in mezzo all'uscio del salottino. "Sei sola?" "Con chi vuoi che io sia?" "Dorata è in casa?" "È in casa." "Va bene. Buona sera. Torno subito." Ed anche quella volta lo aveva lasciato andar via!

Poi, la commozione l'aveva sopraffatta; ascol- tando, a poco a poco aveva dimenticato ogni cosa; e, appena pronunciata la risposta all'interrogazione di Patrizio, gli si era abbandonata tra le braccia singhiozzante e incapace di continuare a parlare. "Ah! Tu piangi?" egli disse, sforzandosi di mostrarsi allegro. "Ecco il castigo della tua diffidenza! Via, via! Non es- ser bambina! È il mio castigo pure; non posso vederti soffrire! Ho i miei torti e te li ho confessati. Via, non esser bam- bina! Mi emenderò, vedrai!"

Come si sentiva sola, abbandonata da tutti in quel momento, nel silenzio di quella notte e- stiva, mentre ogni cosa dormiva, e dalla selva, dall'abitato, dalla lontana campagna non le arrivava nè una voce, nè un rumore, tranne il monotono zampillare della fontana, laggiù, tra gli alberi, quasi sommesso borbottio! Dall'orologio del convento cominciarono a squillare i rintocchi alternati della mezzanotte. Non si sentivano soltanto i colpi dei martelli su le campane e la ondulazione del suono, ma anche lo stridio delle ruote del congegno simile a di- grignare degli enormi denti di un mostro appollaiato sul campanile, l'ombra del quale, gigantesca, si allungava sugli al- beri, si sdraiava pei viali, si drizzava fin sul bianco muro di cinta e perdeva la cima nell'abisso sottostante. "Mezzanotte!" esclamò, meravigliata del tempo trascorso. E quantunque i rintocchi dell'orologio, che non finivano più, le facessero scorrere un brivido di freddo per le ossa, rimase ancora un istante alla finestra, con lo sguardo smarrito nello spazio, senza pensare, sentendo soltanto un indolen- zimento per tutta la persona, una pesantezza che le inchiodava le braccia sul davanzale e le impediva di rizzarsi. Chiusi i vetri e la imposta, cominciò a togliersi, davanti lo specchio, le forcine dai capelli. Si vedeva pallida, un po' dimagrita, con occhi straniti. Sì, Patrizio e il dottore avevano ragione: era malata tuttavia. Perché voleva nasconderlo? I suoi nervi fremevano. Pure - e si annusava ripetutamente le mani - nessuna traccia di odor di zagara! Ma non voleva dir nulla! Abbassò il lume, si spogliò frettolosamente, ed entrata nel letto, cacciò la testa sotto la coperta per addormentarsi più presto. Gli occhi le si sbarravano nel buio, mentre recitava le devozioni. E si distraeva, ripigliava una preghiera interrot- ta, tornava a distrarsi; sempre con quegli sguardi persecutori davanti a sè, e nell'orecchio il suono delle parole che li a- vevano accompagnati dentro la grotta, lungo l'orrido, nella campagna, davanti a la casa rustica, tra le risate ... Oh, Vergine benedetta! ... Perché vi si fissava? ... Perché non poteva scacciar via quell'ossessione? ... Si agitava nel letto, smaniando, spingendo la testa fuori delle coperte. Le pareva di soffocare. Però, udito nel corri- doio i passi di Patrizio, si rannicchiò e chiuse gli occhi per farsi credere addormentata. Lo sentiva andare e venire in punta di piedi, smovere con cautela una seggiola, posare il lume sul tavolino da notte; poi, per qualche istante, non sentì più nulla; forse si era fermato a osservarla. Il cuore le batteva violento nell'attesa. Ed ecco un fruscio lungo il muro del corsello; ecco due mani che tastavano delicatamente la coperta con cui ella s'era quasi avviluppata la testa, e che cercavano di scoprirla, o di praticare un adito all'aria libera della stanza. "Così soffochi" udì borbottare. Le rivolgeva la parola, quantunque la credesse addormentata. Ed ella, restando immobile e trattenendo il fiato, pro- vava un dolce senso di ristoro nel sentirsi protetta e sorvegliata in quel modo da suo marito, la cui sola presenza bastava in quel momento a tranquillizzarla, a fugarle dall'animo ogni visione turbatrice. "Il caffè lo prenderemo all'aria aperta, su la terrazza" propose il dottore. E tutti si alzarono da tavola. Il sindaco faceva caldi complimenti alla padrona di casa. "Pranzo squisito! Ha visto? Gli ho fatto proprio onore." L'ispettore invece, da buon piemontese, aveva fatto onore alle bottiglie di vino vecchio, regalate dal sindaco in quel- l'occasione all'Agente. Aveva gli occhi imbambolati, il viso rosso; e la lingua impastava male le poche frasi che gli riu- sciva di mettere insieme. Però si reggeva fermo su le gambe, e marciava pel corridoio con aria militaresca, mandando fuori i vortici di fumo del suo virginia, che infastidivano il dottore. Ruggero si era fermato davanti all'uscio per lasciar passare Eugenia, indugiata a dare degli ordini. "È in collera? Non mi ha rivolto neppure una parola!" le disse, scherzando. "Perché dovrei essere in collera?" ella rispose. "Neppure lei ha detto una parola." "Quando c'è papà, bisogna star zitti. Oggi è così arrabbiato con me! ..." "Avrà una ragione." "I padri ne trovano sempre qualcuna per sgridare i figliuoli. Come se non fossero stati giovani anche loro!" "Per ciò hanno un tesoro di esperienza." "Lo lascino acquistare anche a noi!" Pareva ch'ella avesse fretta di allontanarsi, così lestamente andò a raggiungere il cavaliere fermàtosi nel corridoio a discorrere con Patrizio. "Gioventù! Sì, lo capisco" diceva il cavaliere quasi sottovoce. E s'interruppe, visto che Eugenia si scostava, credendo che essi volessero ragionare di qualcosa in disparte. "Oh, signora mia! Niente di segreto. Dicevo: gioventù! a proposito di quel ragazzaccio. Che croce questi figliuoli! Quando ne avrà, me ne darà notizie. I maschi per un conto, le femmine per un altro. Auff! Seguitando il discorso, caro signor Agente, sono del suo parere. È prudenza chiudere un occhio su qualche marachella giovanile; ma tutti e due, no, no! E nel caso di cui le parlo, è bene tenerli aperti, molto aperti. C'è di mezzo il marito, omone più alto di me, che porta il berretto sull'orecchio, a mamma-santissima: mafioso, che scherza col crocifisso come lei con la penna ... Il crocifisso è tanto di coltello, lo sa. Chi potrebbe dargli torto? Tu mi togli l'onore, io ti tolgo la vita. Finora non ha ammazzato nemmeno una mosca. Il passato brigadiere ... lasciamolo stare. Era brigadiere, e il marito forse faceva l'allocco per forza, o perché gli tornava conto: bevevano, mangiavano insieme ... Forse non c'è nulla di ve- ro in quel che dicono le male lingue ... Non voglio entrarci. Infatti, a vederla, colei sembra la Madonna immacola- ta ... È venuta da un anno ad abitare nel vicolo di fronte a casa mia. Chi poteva immaginarlo? Lui dal balcone del- la sua camera, lei dalla finestra. Non lo vedevo più per le stanze, a mettere tutto sossopra come prima ... "Che fa Ruggero?" "È in camera; studia." Bello studio! Telegrafia! Intende? E poi il resto! Ma un angelo è venuto a dirmi all'o- recchio: "Cavaliere, badi! Così e così. Ho visto con questi occhi, ho inteso con questi orecchi". Non so chi m'abbia trat- tenuto dal prendere la canna d'India di mio padre e spezzarla sulle spalle del ragazzaccio! Lo ammonisca lei, caro signor Agente. Di lei ha soggezione; le vuol bene. Anche la signora dovrebbe ammonirlo. Quasi mi mancassero sopraccapi!" Erano usciti su la terrazza, e il Padreterno già portava il vassoio con le tazze del caffè. L'ispettore, rinfrescato dall'a- ria aperta, parlava un pochino più sciolto, questionando col dottore intorno ai beni delle corporazioni religiose soppres- se: "Roba della nazione, la nazione se la è ripresa." "E la volontà dei testatori? E la libertà individuale? E l'autorità della Chiesa?" Appena il Padreterno riportò via le tazze vuote, l'ispettore diventò allegro, e la discussione tra lui e il dottor Mola si riaccese. Il dottore, seduto su la panca di pietra che orlava i quattro lati della terrazza, con le gambe allungate e accaval- ciate, girando i pollici delle mani uno attorno all'altro, aveva dovuto cedere la parola al cavaliere, il quale dava un colpo al cerchio e uno alla botte, per non compromettersi davanti a un funzionario del governo. Il dottore ora approvava, ora scoteva la testa negando, secondo il suo modo di vedere, convinto che sarebbe stato inutile tentar di arrestare un mo- mento la foga della parola del cavaliere; ma l'ispettore, irritato da quella verbosità, stendeva le mani, lanciando di tratto in tratto: "Prego! Prego! Ma veda! Ma senta!" senza poter aggiungere altro, perché il cavaliere: "Capisco! ... Ho inteso! Si lasci servire!" e tirava via, alzando la voce, quasi urlando. "Lasciamoli accapigliare" disse Ruggero, accostandosi a Eugenia, che si era appoggiata al parapetto in un angolo della terrazza. Eugenia non si voltò, nè rispose. "Che cosa ha?" "Sto a sentire." "È di malumore." "Del solito umore." "Che cosa diceva papà all'Agente?" "Non lo so ..." "Parlava di me, l'ho capito." "Dunque perché domandarmelo?" Ruggero rimase alquanto imbarazzato dal tono delle risposte; poi soggiunse: "Per dirle che mio padre esagera." "Esageri, o dica la verità ..." "Non vorrei ch'ella si formasse una cattiva opinione di me." "Io? Che c'entro io?" "Ha ragione!" egli rispose dopo breve pausa. E si rizzò su la vita, guardandosi le ugne, lievemente arrossito in viso. Eugenia non si mosse. Scrostava con la punta dell'indice l'intonaco del parapetto, facendone cadere i bricioli giù nella selva sulla pianta di spigo accosto al muro. A- vrebbe voluto allontanarsi, ma il silenzio di Ruggero la tratteneva. La voce del cavaliere continuava a tuonare, in mezzo alla confusione delle altre voci, dal lato opposto della terrazza; ma ella non prestava attenzione a quel che dicevano. Aveva dentro l'orecchio soltanto il suono triste e rassegnato delle ultime parole di Ruggero: "Ha ragione!" e si sentiva rimescolata da un senso di pietà che le metteva sgomento. Dentro il suo cuore, in quella notte piena di sogni stravaganti e paurosi, era spuntato qualcosa, simile a una fioritura di erbe maligne, che cresceva e si espandeva, abbarbicandosi forte, invadendo ogni spazio, coprendo tutto con la sua ombra cupa, dandole tristezza ineffa- bile; qualcosa, di cui fino a un giorno addietro non aveva alcun sospetto, di cui non aveva pensato a guardarsi, e che di sorpresa l'aveva assalita e vinta ... Oh! ... Vinta no! Si era dibattuta tutta la giornata, non ostante le occupazioni e la compagnia; si dibatteva ancora per isfuggire alla violenza di quella forza, che cercava di assoggettarla; maravigliata che potesse esserle germogliato nel petto un senti- mento che offendeva tutto in lei, pudore, fede, ragione; e più maravigliata che la sua ragione, la sua fede, il suo pudore, la sua alterezza di donna onesta non lo avessero già annientato in un baleno, appena avutane coscienza. Perciò si indignava contro se stessa in quel momento, e serrava i denti per non lasciarsi scappar di bocca le parole che le fremevano su la punta della lingua; e con l'indice scrostava, scrostava l'intonaco del muro, quasi a sfogo, non po- tendo far male, per vendetta, a se stessa, nè ad altri. "Ha dato un gran dispiacere a suo padre" ella disse lentamente. Ruggero tornò ad appoggiarsi sul parapetto, accostandosi un po' più, tanto da toccarle il gomito col gomito. "Ho diciotto anni, ma sono già un uomo" rispose. "Se prometto, mantengo. Do la mia parola d'onore ... a lei. Assicuri a mio padre che non avrà più nessun motivo ..." Sentendolo parlare con voce sommessa e turbata, quasi le mormorasse qualche grave confidenza all'orecchio, Euge- nia s'era subito pentita d'aver provocato quella risposta; e staccando nervosamente col dito un ultimo pezzetto d'intona- co, lo interruppe: "Gliel'assicuri lei, sarà meglio. Sarà meglio" ripetè con accento più calmo, per dare alle sue parole il significato di un amichevole consiglio e nient'altro.

Il Padreterno rideva, arzillo, contento che la sua chiesa abbandonata riprendesse un po' di vita con quel triduo. Che scampanio doveva essere in quei giorni! Insomma, festa coi fiocchi! Così Eugenia si esaltava, certa della prossima liberazione; e stava un po' meno sulla sua con Ruggero, sicura di po- terne sfidare gli sguardi e ascoltarne impunemente le parole. Queste già diventavano di giorno più ardite, d'una arditezza concentrata e contegnosa però, quale poteva essere quella di un giovanotto molto impacciato nella prima avventura con una signora. Ruggero non sapeva precisamente nemmeno lui che cosa volesse e sperasse da quella passione a cui si era abbando- nato dapprima come a uno svago di vacanze e che era diventata a poco a poco molto seria. La tormentosa ansietà che gli faceva girare il capo, spingendolo ad almanaccare cento cose una più assurda dell'altra, lo paralizzava poi nel punto più propizio a lanciare una parola o fare un gesto, un passo decisivo. L'attitudine di Eugenia lo metteva in imbarazzo. Era gradito? Era sgradito? Non lo sapeva con certezza. A volte gli pareva di sì, a volte no. E ogni mattina, avviandosi verso il convento per la lezione di matematiche, prendeva una riso- luzione, tracciava un disegno, scegliendo il luogo, l'ora: preparando con l'immaginazione tutta la scena, quasi i fatti do- vessero accadere proprio come li disponeva lui, o nella selva, o su la terrazza, o in camera di Eugenia, mentre Giulia era distratta o lontana e occupata a stuzzicare l'Agente che fumava digerendo la colazione. Ma se una coincidenza fortuita faceva che le circostanze corrispondessero in gran parte col piano immaginato, e ch'egli ed Eugenia si trovassero quasi soli in fondo a un viale o in un angolo della terrazza, e il ragionamento filasse così bene che sarebbe bastato cogliere al balzo un motto, un atto di lei, per dire alfine quella parola, quella frase preparate con grande studio, rimuginate tanto, e che già gli ribollivano dentro e pareva dovessero sfuggirgli di bocca anche all'insaputa, l'animo gli mancava. Prendeva il largo, faceva dei giri, lasciava scapparsi di mano l'occasione; o rimaneva muto, come adombrato, incapace di saltare l'o- stacolo. E tornava a giurare a se stesso che un'altra volta sarebbe stato meno timido e meno sciocco; sì, meno sciocco. Non parlava, e pretendeva d'esser capito! Santa però lo aveva capito subito, vedendolo assiduo al balcone; e le lunghe occhiate erano state sufficienti per ottenere un buon esito. Un giorno, all'improvviso, ella s'era ritirata dalla finestra, sor- ridendo; e poco dopo era tornata ad affacciarsi per dirgli sottovoce: "Lasciatemi stare: che cosa volete?". "Voglio il vo- stro cuore, comare Santa!" Ah! Con quella non aveva esitato, non aveva avuto timore di niente. Ma era paragone da far- si? E gliel'aveva immolata, povera Santa! E non s'era più fatto vedere al balcone, dalla mattina alla sera, senza una ra- gione! E il giorno che le aveva sentito cantare: "Chiantai un ciuri la misi d'abrili ... Chistu è l'amuri ca un putia finiri ... Facitivi la cruci, ca passau!" era diventato rosso dalla vergogna in camera sua. C'era corso poco non aves- se rotto la promessa fatta prima a Eugenia e poi all'Agente. E che cosa ne aveva ottenuto? Almanaccava altri piani, disponeva altre scene. Ora, finita la lezione, scendeva nella selva e infilava i viali sotto le finestre di lei, sperando di trovarla affacciata, come l'altra volta. Avevano discorso un bel quarto d'ora, in uno di quei giorni che Giulia non veniva con lui; e gli era parso un gran che, quantunque avessero ragionato di cose affatto indiffe- renti. Quel parlarsi così, lei dalla finestra, lui di laggiù, quasi ci fosse stato un impedimento a farlo da vicino, gli aveva da- ta la strana illusione d'un furtivo colloquio di amore; e per ciò ricercava l'occasione di rinnovarlo. Il caso ordinariamente lo aiutava. A quell'ora, da quel giorno in poi, egli l'aveva trovata spesso alla finestra, o l'aveva veduta affacciarsi appena giunto, quasi ella stesse in ascolto per sentire il rumore dei passi di lui pel viale. Però quella volta la sorte gli era stata avversa. Passeggiava da un pezzo su e giù, e i vetri delle finestre di Eugenia rimanevano ancora chiusi. Si era fermato a discorrere col Padreterno, che potava la siepe nana di bosso; e alzava la voce per farsi sentire: "Si lavora, eh? Sagrestano, giardiniere, ciabattino! ..." "Un po' di tutto, per la pagnotta, signorino mio." Ruggero guardò in alto. Neppure un'ombra dietro i vetri! E alzò più forte la voce: "Ve n'andate?" "Ho finito. Vado a spazzare la sagrestia." Ruggero riprese a passeggiare lungo il viale, con gli occhi alla finestra, impaziente. Se Eugenia si fosse affacciata, no, egli non avrebbe saputo dirle nulla, come tant'altre volte! Infine, che cosa voleva dirle? Che mai pretendeva? Niente, niente! Voleva dirle soltanto: "Perché così rigida con me?". Null'altro. Sì, e poi? Come si era messo in testa che poteva essere corrisposto? ... Perché no? Perché no? Ah! Gli sarebbe parso di toccare il cielo col dito. Arrivato in fondo al viale, presso il muro di cinta, s'era messo a cogliere cime di spigo, e le stropicciava tra le mani, aspirandone l'odore, assorto, quando udì il rumore d'un'imposta che veniva aperta. Ma non si voltò subito, per dominarsi. Il cuore gli balzava. Poi salutò Eugenia da lontano, cavandosi il cappello. "Rubo poche cime di spighe" disse. "Hanno un odore troppo acuto" ella rispose. "Ne vuole qualcuna?" Stendeva la mano in atto di porgergliele. "Se riesce a darmela da costì ..." "È facile; guardi." E corse sotto la finestra. "Che cosa fa?" "Mi arrampico a questo mandorlo." "No; può cascare!" "Ho studiato ginnastica." "No!" ella insisteva, vedendolo salire lestamente di ramo in ramo. "Allunghi il braccio." Era già all'altezza della finestra e si spenzolava dal ramo, che s'incurvava pel peso e pareva dovesse spezzarsi. "Oh, Madonna! Dia qua, e scenda subito." Eugenia sporse fuori il braccio, ed egli le afferrò la mano, quasi lo facesse per caso, ritenendola un momento. "Come trema!" "Ho paura per lei." "Si sta così comodi quassù! Possiamo conversare." "Che stravaganza! Scenda, scenda, o mi ritiro." Egli invece si sedeva sul ramo, ridendo: "Si sta così comodi! È un nuovo modo di far visita alle signore" continuava. "Si rischia qualche cosa; le signore do- vranno esser grate ... E lei, all'opposto, minaccia di ritirarsi!" Ma non avrebbe voluto dirle soltanto questo. E si passava la lingua sulle labbra, quasi a provarsi di scioglierla, lieto di veder Eugenia impaurita pel temuto pericolo. "Il ramo cede. Se mi scavezzassi il collo! ..." E per chiasso lo scosse facendolo piegare. "Cattivo!" ella esclamò. E si ritrasse dalla finestra. Però guardava dall'interno, allungando il collo, pregando: "Scenda! Scenda!". E allorché capì che non avrebbe facilmente ubbidito, tornò ad affacciarsi, severa: "Possono vederlo. Che direbbero? Non sta bene. Lo faccia per me!" "Per lei ho fatto ben altro, e non se n'è neppure accorta!" brontolò. Gli pareva d'aver detto anche troppo, e attese un istante la risposta, prima di accingersi a discendere. La risposta non venne. Solamente ella lo seguiva con gli occhi mentre si lasciava calare tra un ramo e l'altro, e, vìstolo saltare a terra, respirò: "Grazie! Non lo faccia più!" "Che cosa dovrò fare dunque?" "Niente" ella rispose. Perché rimaneva alla finestra? Quella breve altezza le pareva un abisso e le dava le vertigini. Si sentiva attirata lag- giù, attirata da quegli sguardi, da quel sorriso pieno di sconforto, da quel silenzio, che pure significava tanto, più di qua- lunque parola; attirata da quella giovinezza fiorente, da quell'aria balda della persona solidamente impostata su le gambe svelte, da quel piede piccolo e ben calzato, che batteva il suolo con moto irrequieto intanto che gli sguardi continuavano a provocarla. Oh, ma sarebbe stato per poco! Altri due giorni ancora, e la Madonna l'avrebbe liberata e salvata! Altri due giorni ancora, e si sarebbe buttata ai piedi di Patrizio per chiedergli perdono, per confessargli tutto, per avvertirlo del pericolo corso e premunirlo per l'avvenire! La bella Madre Santissima doveva aprire la mente anche a lui, doveva toccargli il cuore, farvi scaturire una fontana d'affetto in cui avrebbero tuffate le labbra tutti e due, insaziatamente. Se non faceva questo miracolo lei, Madre di ogni grazia, chi avrebbe potuto farlo? Gli occhi le si riempirono di lagrime la mattina del venerdì, quando le campane suonate a festa dal Padreterno e gli spari dei mortaretti la svegliarono di soprassalto, interrompendole un sogno penoso. Le si accapponava la pelle anche sveglia, quasi ella fosse sfuggita davvero alle minacce di morte di quell'orrida figuraccia che l'aveva inseguita pei corri- doi del convento, per la terrazza, per la selva, incalzandola fin sul ciglio della rupe, da cui si sarebbe slanciata pazza di terrore, se le campane non l'avessero destata. Era molle di sudore freddo, e si sentiva stringere la gola. "Che hai?" le domandò Patrizio. "Sognavo una brutta scena." "Sei ghiaccia! Senti? Il Padreterno si sfoga." Ella chiuse gli occhi, rovesciando supina la testa sul guanciale. Come era dolce quell'allegro suono di campane lan- ciate a distesa mentre la minore squillava con colpi argentini, acutissimi, irrequieti. Pareva che le suonassero proprio sul capo e la sollecitassero a levarsi. Ma ella rimaneva inerte, col cuore ansante, come sconvolto da un addio angoscioso, quasi Ruggero fosse là, così accosto da sentirne il respiro sulla faccia; ed esitasse, timido e rispettoso, nel punto di un bacio supremo, intanto ch'ella non avrebbe esitato più a concedergli le sue labbra ... per la prima e l'ultima volta ... avanti che la Madonna avesse compiuto il miracolo! Rimaneva inerte prostrata da languore delizioso, tutta vi- brante alle ondulazioni del bronzo delle campane che continuavano a suonare a festa: con dentro la gola un singulto sa- litole dal profondo del petto e che non poteva sprigionarsi; singulto che le metteva spavento, perché le pareva dovesse, insieme, sprigionarsele dalla bocca un nome, quel nome che le avrebbe vuotato il cuore e l'avrebbe lasciata libera e pa- drona di se medesima! "No! No!" ella balbettava ansante, spalancando gli occhi al sentirsi inattesamente baciare. "Oh Dio! ... Sei tu? ... Sei tu!" "T'eri riaddormentata?" domandò Patrizio. "Sognavi di nuovo?" "Sì! Sognavo un mostro che m'inseguiva ... mi inseguiva." "Ah!" E credette di sorprendere negli sguardi di lui un lampo di diffidenza, un'ombra di sospetto. Per ciò lo guardava fisso, alla prima luce del giorno, mentre egli, aperti gli scuri e finito di vestirsi, si passava le mani sul viso ancora intorpidito dal sonno, ritto nel mezzo della camera, coi capelli e la barba in disordine, come incerto di quel che doveva fare. Eugenia si levò a sedere sul letto. Le campane davano gli ultimi squilli, quasi stanche della gioia di aver sonato così a lungo dopo il silenzio di parec- chi anni! Soltanto la minore continuava i rintocchi argentini, più forti, più precipitosi; poi, tutt'a un tratto, tacque essa pure. "È una bella giornata?" domandò Eugenia. "Bellissima." "È di buon augurio." "Perché?" "Non canzonarmi, se te lo dico." E soggiunse esitante: "Pel triduo".

Non viene più un cane in questa chiesa abbandonata. Vanno a vedere i sacri sepolcri delle altre chiese, dove ancora li apparecchiano. Sacri sepolcri? Fanno ri- dere di compassione. Miserie! ... Buffonate!" Eugenia, ancora un po' sbalordita, non rispose; fece due o tre passi e aperse l'uscio che metteva nella chiesa. Bianca, illuminata dal sole che penetrava dalle larghe vetrate, la chiesa le parve più spaziosa delle altre volte, ma meno solenne. Il Padreterno, ad alta voce, con poco o nessun rispetto del santo luogo per abitudine di sagrestano, le fa- ceva smarrire il sentimento religioso che l'aveva spinta a entrare. Così, invece di andare diritto verso l'altare della Ma- donna, ella si lasciava trascinare da lui a osservare distrattamente quadri e altari, quasi vi fosse andata soltanto per ca- varsi quella curiosità. "Vedete? Qui c'è mezzo paradiso!" diceva il Padreterno, indicando un gran quadro, pieno di innumerevoli figure di angioli e di santi. "Pittore fu un canonico di Marzallo, che mio nonno ha conosciuto. Dipingeva per la gloria di Dio ... e della propria pancia. Il suo compenso era pappatorio: un capo di selvaggina per ogni sacro personaggio. E i devoti andavano a caccia, o compravano una lepre, un beccaccino, un coniglio, una gallina prataiola per aver sul quadro ognuno il proprio santo, oltre agli angioli, ai serafini e cherubini, che il canonico vi accatastava di propria volontà a ca- rico del convento. Guardi lassù, tra le nuvole, tutte quelle testoline di angioletti con le alucce appiccate al collo; un capo di selvaggina per ognuna di esse! Ce n'è voluto, signora mia! E se il devoto non portava il coniglio, o la lepre, o la bec- caccia, piff! paff! in quattro botte il canonico gli scancellava il santo o la santa sotto gli occhi ... E diceva di dipin- gere per la gloria di Dio!" Il Padreterno rideva; ma Eugenia, andando così attorno per la chiesa e udendolo parlare, sentiva dileguare dal cuore il sentimento voluto effondere a piè di Dio e della Madonna. Guardava le sue vesti da casa, e timorosa e incerta di commettere una profanazione, seguiva il Padreterno che, in maniche di camicia, la conduceva per le navate alzando la voce, quasi essi non fossero nella casa di Dio, e il Sagramento non stesse laggiù, nel tabernacolo dell'altar maggiore, dove ardeva la lampada perenne. Avrebbe voluto dirgli: "Zitto, lasciatemi sola; voglio pregare: sono venuta qui a po- sta!" e non poteva. Già dubitava che ora le riuscisse più di pregare ... "Quello lì è sant'Antonio di Padova, col bambino Gesù" riprendeva intanto il Padreterno. "L'hanno santificato e sta bene; il papa ci ha dovuto avere le sue buone ragioni. Ma io, signora mia, se fossi il bambino Gesù, invece di fargli una carezza al viso sbarbato, gli vorrei piuttosto tirar un orecchio, e forte anche, per insegnargli un po' di carità, bell'e santo qual è!" "Che dite? Non sta bene parlare così!" lo interruppe Eugenia. "Ah, voscenza non sa che il primo di giugno incomincia la tredicina di cotesto santo; ed è sempre la nostra rovina! I devoti lo pregano con messe e vespri: "Sant'Antonio benedetto, non mandate la nebbia, ora che gli ulivi sono in fiore!". E lui, dispettoso, nebbia sopra nebbia, per disseccare la fioritura degli ulivi, nostra sola ricchezza! Quel faccione di cuor contento le pare viso da fare miracoli? Io, intanto, non gli accendo neppure un mozzicone di candela." Eugenia si allontanò frettolosamente, quantunque non potesse frenarsi di ridere. Scandalizzata delle sciocchezze del Padreterno, dette ad alta voce nella casa di Dio, in faccia allo stesso santo, era andata a inginocchiarsi davanti alla cap- pella della Madonna dello Spasimo, cercando di raccogliersi e di pregare. Ma il suo cuore era già freddo, inaridito, e la parola restia. La Madonna, che agonizzava sull'altare a piè della croce, tra Maria Maddalena e san Giovanni, non riusciva a com- moverla; quelle viscere che avrebbero dovuto sussultare di gioia e di gratitudine, rimanevano inerti. Ahimè, la Madonna la castigava forse in tal modo per la sua irriverenza? Un sordo terrore l'agitava, pensando che poco fa la rivelazione del dottore era bastata per farle sgorgare dagli occhi dolcissime lacrime. "Madonna mia! Bella Madre Santissima! Abbiate pietà di me!" ella mormorava. Queste parole però non se le sentiva scaturire dal cuore, ma suggerire dalla riflessione. Diceva così, perché si soleva dire così, perché tante altre volte ella stessa aveva detto così. Le pareva, anzi, che le venissero suggerite da un'altra per- sona inginocchiata al suo fianco. "Vergine addolorata! Madre degli sconsolati, abbiate pietà di me!" Si portò le mani agli occhi. La gran luce, che inondava la chiesa dalle finestre della navata centrale e da quelle della cupola, da cui un fascio di sole scendeva appunto, tra un nugolo di formicolante pulviscolo, fino a piè dell'altare, la di- straeva abbagliandola. Ma anche con gli occhi chiusi e coperti dalle mani, ella rimaneva impietrita, nè poteva pregare. Una maligna voce le sussurrava sommessamente dentro l'orecchio: "Non è vero! Nulla vive nelle tue viscere. Per questo rimangono mute". "Santa Madre degli afflitti, abbiate pietà di me!" ella balbettava. Si sentiva mancare il terreno sotto le ginocchia; le veniva di prorompere in un grand'urlo e rovesciarsi sul pavimento e rotolarvisi per quella smania che le attanagliava lo stomaco e le scoteva tutta la persona. E si rizzò in piedi, barcollan- te, atterrita dell'assalto nervoso che stava per scoppiarle addosso, presentito da due giorni. Le pareva di correre, di volare leggera come una piuma, sfiorando appena il suolo. La voce del Padreterno, che la invitava dall'angolo opposto a osservare qualcosa, la inseguiva, la inseguiva tra le colonne e tra i banchi attraversati ra- pidamente, con gli occhi ansiosi fissi all'uscio della sagrestia, quasi non dovesse più raggiungerlo e varcarlo ... Nel corridoio riconobbe appena Patrizio che le veniva incontro, rimproverandola affettuosamente: "Ti ho cercata dappertutto! Dovevi avvertirmi che andavi in chiesa." "Ah, Patrizio! ... Patrizio! ..." E si rovesciò, arcuando il corpo e contorcendo i polsi, tra le braccia di lui. Ora ella restava dimessa, quasi vergognosa, dinanzi a suo marito. "Non tormentarti! Non è niente. Sto meglio." Patrizio le rispondeva con mite sorriso di rassegnazione, sentendo di amarla più fortemente da che la sapeva colpita. Non la rimproverava più d'avere taciuto; la compativa come una bambina un po' strana e viziata che mostrava di vo- lersi correggere. "Dimmi: il dottore si è ingannato?" gli domandò un giorno. "Si è ingannato!" "Lo sentivo!" sospirò Eugenia. "Meglio così." "Perché?" "Perché è meglio che, prima, tu sia guarita perfettamente." "Presto?" "Presto, se stai tranquilla, se sai frenarti." "Baciami! Voglio guarir subito!" "Coi baci non si guarisce." "Resta qui, accanto a me. Sarò buona ..." "E l'ufficio?" "Lascia socchiuso l'uscio. Così almeno potrò vederti; mi basterà." Voleva essere tranquilla, voleva frenarsi, come le raccomandava Patrizio. Di tanto in tanto però il solito sospetto, anzi la certezza dell'odio della suocera le rinasceva in fondo al cuore e le accendeva il sangue. Ella faceva ogni sforzo per cacciar via quella tentazione, per tenerla lontana, ma non sempre vi riusciva; massime nei giorni in cui Patrizio pa- reva volesse sottrarsi a qualunque più piccola tenerezza da parte di lei. Quel chiodo le rimaneva conficcato proprio in mezzo al cuore. E la vecchia ve lo calcava più profondamente ogni giorno! Ah, quel suo silenzio, quegli sguardi diacci diacci, indifferenti a prima vista, ma così cattivi! Patrizio tornava a ripeterle: "È una tua fissazione! E ti fa male. Non voglio sentirne parlare!" Ed ella, come l'altra volta, non gliene parlava più. Non pensarci però era impossibile. "Non mi trattiene mai nella sua camera! Mi risponde appena, con un sì o con un no, quando le rivolgo la parola. Mai non mi dice: Eugenia fa' questo! Eugenia fa' quello! . E sarei tanto felice di servirla! Non mi occorre niente. E si rivol- ge a Dorata piuttosto che a me!" Sì, sì, faceva male a ripensarci, a fermarcisi sopra con viva insistenza; Patrizio aveva ragione. E canticchiava a fior di labbra per distrarsi; e si rimproverava di chiamarla, nel suo interno, sprezzantemente: la vecchia! Come dirle: Mam- ma! intanto? Così avesse potuto ripeterglielo a ogni istante, ella che avea appena conosciuta la sua povera mamma, morta giovanissima soprapparto! Eppure, pensando e ripensando, si sentiva eccitare assai meno di prima, quasi i suoi nervi già cominciassero ad abi- tuarsi. Cedeva, per sfiducia, per stanchezza. Che delusione! S'era ingannata lei, immaginando nel matrimonio una felicità che non c'è, oppure l'avevano tradita le circostanze, le persone. Patrizio? Che cosa s'era immaginata infine? Vita tranquilla, ritirata, consolata da affetto sincero. Carezze! Ba- ci! Cose da nulla, e che pure l'avrebbero resa paga e contenta. Ah! Le lettere di Patrizio l'avevano illusa. E quando, di notte, egli le aveva parlato dalla finestra con quella voce affiochita dalla commozione? L'aveva illusa. Oh, allora egli sembrava un altro! Che parole di fuoco! Che castelli in aria per l'avvenire! Le faceva provare le vertigini. Non aveva mai inteso nessuno parlarle a quel modo! Nessuno le aveva mai detto tutte quelle belle cose carezzevoli, vera musica incantatrice ... E l'aveva illusa! L'aveva illusa! ... Si era forse illuso anche lui! Si rivedeva nella cameretta di Castroreale, nel letticciuolo di ragazza, rannicchiata sotto la coperta. Quante fantasti- cherie, per due anni, in quella bianca cameretta, avanti d'addormentarsi! E quante esitanze, quante lotte, nei primi giorni in cui s'era accorta delle intenzioni di lui, sconosciuto, forestiero, che se la divorava con gli occhi quasi di nascosto, per il dubbio, pareva, di essere scoperto da qualche indiscreto! Otto mesi fa, laggiù! E ora in quella celletta di convento, lontana dal paese nativo, dai suoi, da ogni persona nota! E quello sconosciuto, quel forestiero, che tante volte l'aveva fatta sorridere, allora, per quel suo modo strano di guardarla fisso fisso, pieno di timidezza e di audacia, era già diventato il suo Patrizio! E lei gli apparteneva, corpo e anima! Oh, lei sì, corpo e anima! Ma lui? lui? Non trovava risposta a tale domanda. Spesso però si meravigliava anche di essersela potuta indirizzare, ingrata o perversa ... "Di che cosa posso lagnarmi? Che cosa mi manca? ..." Da qualche settimana aveva preso l'abitudine di affacciarsi alla finestra del salottino, coi gomiti appoggiati sul da- vanzale, con la faccia tra le palme. Fantasticava ora intorno all'una, ora intorno all'altra di queste idee che le pullulavano nel cervello non appena rimasta sola. Affacciàtasi a quella finestra, mèssasi in quella positura, le pareva di sentir ranno- dare la catena delle sue fantasticherie al punto in cui il giorno avanti l'aveva interrotta, con la vista dello stesso paesag- gio, con la stessa luce di sole, di faccia al verde di quella siepe di fichi d'India che circondava l'orlo del precipizio; nel silenzio meridiano, interrotto soltanto dalla soneria dell'orologio del convento, o dal cinguettio di qualche passero, o dal grido rauco delle taccole che nidificavano in cima al campanile. Evidentemente, con la cura ordinata dal dottor Mola, i nervi di lei si andavano calmando. Le stesse cose d'una volta già le producevano impressioni meno vive. Di tanto in tanto, è vero, tornava a sentirsi scotere da capo a piedi, come se il male stesse per ridestàrsele dentro all'improvviso; e ne provava un grande sgomento, prima ignorato ... Ma era- no minacce che svanivano, che svaporavano col solito odore di zagara, e più rapidamente che per l'innanzi. Ora la invadeva una tristezza sfibrante, una specie di rimpianto, un dolore chiuso, che talvolta arrivava fino a farla piangere, ma non più a irritarla, a sconvolgerla, a farla contorcere e urlare. Patrizio l'aveva sorpresa due o tre volte in quella positura, in quella contemplazione: "Che cosa guardi? Che cosa pensi?" "Osservavo quelle donne che stendono il bucato al sole su la siepe di fichi d'India. Vengono ogni quindici giorni; l'ho notato." "Non hai visto?" egli le disse una mattina. "Nella selva sono fiorite le rose. Me l'ha detto il Padreterno." "Non me ne sono accorta." "Non te ne curi più, dovresti dire!" "È vero. Le ho trascurate da qualche settimana." "Come ti senti?" "Benissimo." "Dimmi la verità!" "Non ti nascondo più nulla, lo sai." Ella riprese la sua posizione, coi gomiti sul davanzale e con la faccia tra le mani. Patrizio la guardò alcuni istanti, un po' impacciato; pareva volesse soggiungere qualche altra domanda; poi tornò zitto zitto in ufficio. Avrebbe voluto domandarle: "Perché sei cambiata? Che cosa accade nel tuo cuore?" E glien'era mancato il coraggio. Seduto al tavolino, con dinanzi le lunghe liste di cifre da rivedere, da addizionare, da riportare nei diversi registri che lo ingombravano, egli, lavoratore assiduo e paziente, si distraeva di tratto in tratto, abbandonandosi a rimuginare inces- santemente la tormentosa interrogazione che da parecchi giorni lo assaliva all'improvviso: "Perché è cambiata? Che cosa accade nel suo cuore?" Ora udiva di rado l'allegro e sommesso canticchiare di lei, che dall'uscio socchiuso s'insinuava nello studio quasi per dirgli: "Bada: sono qui e penso a te! Dimentica un po' coteste brutte cartacce. Vieni a darmi un bacio!". Non levava gli occhi dai registri, non interrompeva il lesto calcolo delle cifre; sentiva però un delicato piacere a quel mormorio di voce femminile che gli aleggiava attorno e gli penetrava nel più profondo del cuore. E se alzava la testa per trovare una certa lettera alfabetica sul dorso dei volumi in-folio del catasto, allineati nei rozzi scaffali lungo le quattro pareti della cella, andava difilato a prendere il volume occorrente, senza cedere alla tentazione di affacciarsi nella camera dove Eugenia canticchiava lavorando presso la finestra, in quei felici primi mesi dell'insediamento nell'ufficio di Marzallo. Bei giorni! Sovente ella spingeva, zitta zitta, tra i battenti dell'uscio la testina con capelli neri e lucidi, lievemente ondulati; e re- stava là qualche istante a guardarlo in silenzio, finché non le diceva, sorridendo: "Ti ho sentita!" "Guardami dunque!" Egli continuava il suo lavoro, scrivendo una cifra qua, un'altra là, consultando qualche foglio, svoltando una pagina, e poi rispondeva: "Ecco, ti guardo!" Eugenia gli faceva un rapido saluto con la mano e spariva. Bei giorni! Qualche volta ella picchiava all'uscio: "Vuoi un sorso di caffè?" "Grazie; più tardi." "Si fredderà." "Non sarà gran male." Eugenia, tenendo in mano la tazzina fumante, sospingeva l'uscio con gesto di fanciullesco dispetto, ed entrava don- dolando graziosamente la testa, facendo una smorfiettina con le labbra: "Non deve freddarsi ... Oh, non fare il cipiglio! Vado via subito." "Qui si viene soltanto per affari" le diceva, scherzando, nel restituire la tazzina vuota. "Grazie. Questa volta, passi!" E riprendeva a lavorare, brontolando rapidamente le cifre, seguendone le filze con la mano che teneva la penna, con- tinuando l'operazione quasi non l'avesse punto interrotta; ma più svelto, ma con qualcosa che gli sorrideva internamente e gli rendeva gioconde fin le cifre. Ora non più! Quel sommesso gorgheggio femminile era cessato; quelle gentili apparizioni d'un istante interrompevano assai ra- ramente la monotonia del suo arido lavoro. I capricci delle scappatelle in fondo ai corridoi fuori mano, o nella selva, o sulla terrazza, in diverse ore del giorno, specie a sera inoltrata, nelle serate di luna piena, o nella tiepida oscurità protet- trice delle notti estive senza luna; quei capricci, che tante volte lo avevano conturbato perché gli era parso rivelassero in Eugenia un che di malsano e sensuale, da cui veniva urtata la sua rigida idealità; ora che ella restava volentieri sola, in camera o in salotto, anche senza essere occupata in uno dei soliti lavorini di cucito e d'uncinetto, quei capricci egli già cominciava a rimpiangerli, quantunque tuttavia non lo confessasse apertamente a se stesso. Fin i contrasti, le lotte per attutire o infrenare l'irritazione di lei a proposito del contegno della suocera; gli scoppi di pianto e gli accessi nervosi, sopravvenuti a sconvolgere la tranquillità della sua vita e ad atterrirlo per l'avvenire; fin questi talvolta gli sembravano preferibili a quella nuova fase d'indifferenza che gli dava viva inquietudine. "Cosa strana!" pensava. Non avea sempre desiderato che fosse così, per quel gran bisogno di riposo che egli provava dopo le tante fiere agitazioni e i tanti profon- di dolori della sua misera giovinezza? Perché dunque si sentiva preso da malessere, osservando che, col decrescere della malattia di Eugenia, il carattere di lei veniva appunto conformandosi all'idea che egli s'era fatta di un'inalterabile felicità domestica, di una esistenza isolata e quasi fuori del mondo? "È cambiata? Che cosa accade nel suo cuore?" Non aveva proprio desiderato questo, no, mai! E perciò scrollava la testa e si passava la mano su la fronte per scac- ciar via l'irritante pensiero. "È assurdo! È impossibile!" Riprese a lavorare, assorbendosi nei calcoli numerici. Intanto, a dispetto dell'attenzione richiesta dalle operazioni a- ritmetiche, la dolorosa domanda gli insisteva, gli insisteva tuttavia dentro il cervello. Si levò dal tavolino, andò di là, nella stanza dove i commessi lavoravano o fingevano di lavorare, come egli soleva benignamente rimproverarli, e parve volesse sfogare contro di essi il malumore. I commessi si guardarono negli occhi, meravigliati. "Quest'Agente è una dama!" dicevano spesso tra loro. "Una dama a dirittura." E nei rari momenti di severità, si borbottavano da un tavolino all'altro: "Cattivo tempo!" "Tramontana!" "Scirocco!" Poco dopo, nella stanza si sentì soltanto lo stridere delle loro penne su per le colonne degli stampati e sui fogli di carta bollata dei certificati catastali, mentre Patrizio andava da un tavolino all'altro esaminando una registrazione, ri- scontrando una cifra, rimproverando Ciancio per una cassatura, Griffo per una omissione, Zuccaro per l'eccessiva len- tezza di una copia. "Cattivo tempo!" "Tramontana!" "Scirocco!" I commessi si ammiccavano, facendo versacci.

Allora tacevano tutti e tre, oppressi dall'uggia e dall'indisposizione fisica; intanto egli premeva più forte l'esile mano di lei, abbandonata tra le sue sotto la coperta stesa sui loro ginocchi, e le diceva a quel modo tutte le affettuosissime co- se che le avrebbe dette con la parola, se si fossero trovati soli, o se sua madre non gliele avesse fatte morir in gola con quel broncio che le si era fissato sul volto a guisa di maschera. Come mai non aveva pensato a provvedersi di un liquore esilarante o calmante? Se lo rimproverava. E invece, con che cura non si era fatto preparare la cestina che conteneva la colazione, rimasta intatta in un angolo della carrozza perché la sofferenza di quelle due care persone toglieva l'appetito anche a lui! Tre o quattro volte avea cercato d'indurle a prendere qualche cosa da ristorarsi; il loro ostinato rifiuto non gli dava più animo d'insistere. A intervalli pareva che il cielo stesse per ritornare sereno, e che la nebbia si sarebbe presto dileguata ai raggi del sole affacciatosi tra le nuvole squarciate dal vento. Le cime dei monti lontani apparivano come accennanti con un sorriso, dorate sopra un lembo di azzurro; già s'intravedevano, fantasticamente sfumati, alberi, casolari e ville in mezzo alla densa nebbia opalina qua e là iridata di riflessi. "Guarda" egli diceva allegro "guarda, Eugenia, che bellezza!" Ma, quasi lo facessero apposta, e il vento riammassava subito le nuvole diradate; e la nebbia tornava a nascondere con rinvadenti ondate alberi, ville, ogni cosa; e la pioggia riprendeva a scrosciare sul cielo della carrozza, a sbavare sui vetri degli sportellini mal connessi, facendo penetrare gli spruzzi fin dentro la vecchia carcassa, che cigolava e rumo- reggiava di più, portata via dal trotto dei cavalli spazientiti e imbizziti pel sopravvenuto rovescio. Finalmente, a un nuovo intervallo di serenità, la voce del cocchiere, che si era chinato e voltato verso il finestrino dalla parte destra, diede il lieto annunzio: "Ecco Marzallo!" Anche Eugenia accostò la faccia allo sportello per guardare. In alto, in cima alla roccia che scendeva a picco, si scorgevano, illuminati dal sole, i campanili, le cupole delle chie- se, le facciate bianche e i tetti scuri di un gruppo di case affacciate proprio all'orlo del precipizio e quasi minaccianti di buttarsi giù; e - lucide macchie verdi - alberi e cespugli, bagnati dalla pioggia, arrampicati tra le sporgenze dei massi drizzantisi minacciosamente su la pianura. Non si capiva in che modo la carrozza avrebbe potuto salire lassù, tanto roc- cia, campanili, cupole e case sembravano vicini, da potersi toccare col dito. Patrizio aveva sentito così accosto il tepore della guancia di Eugenia, che per poco non si era voltato a imprimervi un bacio. Il pudore della sua casta giovinezza e il pensiero che gli occhi severamente socchiusi della madre stessero lì a sorvegliarlo con la gelosa diffidenza contro la nuora, lo avevano trattenuto; ma le sue mani stringevano più forte quella di Eugenia, e ella gli rispondeva con un sorriso a fior di labbra dolce e stanco, e lo ringraziava con lo sguardo, sorriso anch'esso. Le tristi impressioni del viaggio gli s'erano dileguate rapidamente dall'animo a quell'apparizione luminosa che si le- vava sul cielo purissimo, col fascino d'un paese orientale per quei campanili, per quelle cupole disegnate sul fondo az- zurro con netti contorni; per tutta quella bianchezza di case, che contrastava col rossiccio delle rupi e il verde degli albe- ri e delle macchie. E gli parvero un'eternità le due ore e mezzo che la carrozza impiegò a trascinarsi con irritante lentez- za, su pei continui serpeggiamenti della strada tagliata nel vivo masso. A ogni svoltata, enormi grotte trogloditiche spalancavano le nere bocche; su la soglia stavano fitte o sedute strane figure di contadini abbrustoliti dal sole; larghe spire di fumo scappavano da alcune grotte come da fucine di giganti. No, la grand'uggia di quella giornata piovosa e nebbiosa ora non gli pareva più un cattivo presagio pel loro avvenire nella nuova residenza dove il Ministro lo aveva sbalzato all'improvviso con una lettera molto lusinghiera e promettente. A Eugenia l'allontanarsi dai parenti, che avevano fieramente osteggiato il suo matrimonio, non era costato gran do- lore. Patrizio le aveva detto che andavano in una cittaduzza ospitale, come assicuravano tutte le persone che gli avevano dato lettere di presentazione e di raccomandazione piene di affettuosa cortesia. Di parecchie non si sarebbe avvalso; non amava di conoscere molta gente; ma potevano servire in qualche occasione. A Marzallo, rifatto stabilmente il lor nido, avrebbero ripreso a vivere a parte; felici di volersi bene, senza disperdere fuori di casa, in mezzo a chi non aveva nulla di comune con loro, le giovani forze del cuore. E là, nella pace della loro intimità, avrebbero dimenticato tutti i dolori, tutti i contrasti che si eran frapposti così duramente per due anni tra lei e lui, da far ora sembrare deliziosissimo sogno la realtà della loro unione. Il giorno dopo, però, quando egli visitò il vasto e solitario convento che doveva servirgli da ufficio e da abitazione, si sentì stringere il cuore, pensando che mai Eugenia si sarebbe adattata a vivere in quel casamento dai larghi corridoi, echeggianti al rumore dei tacchi delle persone che venivano e andavano per gli affari d'ufficio; con quella doppia fila di usci sempre chiusi, che prendevano sinistro aspetto di abbandono e di desolazione alla scialba luce delle grandi finestre con vetri polverosi e imposte coperte di ragnateli ai due capi. "Potrà occupare quante stanze vorrà" gli aveva detto l'assessore destinato dal sindaco ad accompagnarlo. "Il posto è un po' fuori di mano, ma arioso, salubre e ben conservato. Il comune spende molto per questa manutenzione. Vista me- ravigliosa. C'è anche la selva, se il signor Agente ama gli alberi e i fiori come il suo predecessore. Piante di aranci, di limoni, di nespole del Giappone, di melagrani. I frati di allora pensavano all'utile e al dolce. Il suo predecessore non comprava frutta; coltivava ogni cosa da sè. Passava la giornata più nella selva che in ufficio, lasciando che i commessi sbrigassero gli affari; e perciò le cose dell'Agenzia sono andate a rotta di collo. Ci ha rimesso del suo, pare; e si è attira- to addosso un processo, poverino. Brava persona, amabile, servizievole ..." Patrizio non gli badava, oppresso dalla vastità dell'edificio, dall'aspetto desolato di quei corridoi e di quelle stanze, una volta celle di frati carmelitani, ora nude, vuote e silenziose, e però impresse d'un sigillo così caratteristico da far so- spettare che qualcosa della vita monastica fosse rimasta appiccata alle pareti, agli usci, al pavimento, alle imposte; qual- cosa di cui si sentiva il sordo fermento, come se ne percepiva lo speciale odore; tanfo di rinchiuso, forse, egli pensava, per attenuarsi la cattiva sensazione. "E se il luogo fa così penoso effetto di giorno, rallegrato dal sole, animato dalla frequenza delle persone che vanno e vengono, figuriamoci di sera, di notte!" Egli vi si sarebbe adattato facilmente. Anni addietro, appunto, aveva abitato con la madre in un convento, esso pure destinato da un municipio per ufficio dell'Agenzia delle Tasse e alloggio dell'Agente. Quello però era situato nel centro del paese, in una delle vie più frequentate. Sua madre non era uscita nemmeno una volta dalla cella di cui avea fatta e la sua camera e il suo salotto e la sua sala da pranzo. Costretta dall'infermità a passare settimane e settimane senza lasciare il letto, si svagava soltanto con le occupazioni di dirigere la donna di servizio, col preparare di propria mano il facile desinare, seduta sul letto, appoggiata a una pila di guanciali - gli pareva di vederla! - coperta il busto da un pesantissimo scialle appuntato sotto il mento. E divagava dietro i ricordi. Vi era rimasto due anni volontario prigioniero, passeggiando lungo il corridoio per sgranchirsi le gambe, tenendo aperto l'uscio della camera di sua madre che così, dal letto in fondo della stanza, poteva vederlo passare e ripassare e fargli cenno o chiamarlo, occorrendo. E in quei due anni di volontaria prigionia, se la pelle del volto gli s'era sbianchita, proprio come quella dei carcerati, la sua salute non aveva sofferto. La sua mente si era giovata di tante lunghe ore di studio, non rubate ai doveri d'ufficio; il carattere non gli si era arrozzito per lo scarso con- tatto con la società. Anzi, quella solitudine avea prodotto un gran bene al suo cuore; ed egli godeva di sentirsi ora buono, sincero, facile all'entusiasmo, con un gran tesoro di amore e di energia accumulato nel petto, quel gran tesoro che profondeva ai piedi della sua Eugenia, dinanzi a cui provava l'illusione di una giovinezza prolungata oltre il corso degli anni, quantunque egli avesse passato la trentina. Ma allora era un'altra cosa! Eugenia si sarebbe rassegnata a vivere da prigioniera in questo gran casamento deserto? Non era vecchia e inferma come la suocera; aveva altri gusti, altre abitudini, altri bisogni: immaginazione vivissima, nervi sensibilissimi, ahimè! E intanto che l'assessore, ometto bruno, sbarbato e dallo scilinguagnolo molto sciolto, lo conduceva di qua e di là, nell'antico refettorio, nella cappelletta interna pei frati infermi, nella selva, com'egli chiamava con fratesca amplifica- zione quell'orto, e all'ultimo sull'ampia terrazza, che si affacciava dal picco della roccia su la fertile pianura digradante fino alla spiaggia - gialliccio argine di dune contro la invadente forza del mare; e intanto che colui gli additava una nu- voletta, laggiù, sull'estremo limite dell'orizzonte, dove l'azzurro del mare si confondeva con l'azzurro del cielo, soggiun- gendo tosto: "È l'isola di Malta" Patrizio ruminava il miglior modo di presentare la cattiva notizia a Eugenia, per prepa- rarla alla sgradevole impressione che egli supponeva dovesse farle l'ex convento. Sarebbero stati in tre soli ad abitarvi la notte, sperduti nel vasto edifizio addossato alla chiesa, su quel picco a cui si accedeva per uno stretto passaggio che, u- nendolo alle altre rocce, lo riduceva una specie di penisola aerea. "Sì, il luogo è bello" egli disse, cercando di congedarsi dall'assessore e raggiungere nell'ufficio il reggente provviso- rio e i commessi che lo attendevano pel verbale di consegna. L'assessore però non volle lasciarlo prima di averlo messo in relazione col sagrestano della chiesa: "Buon diavolaccio! Potrà farsene un servitore attento e onesto; anche un cuoco, se lei e la sua signora non hanno grandi pretensioni." E affacciatosi alla finestra della stanza dei commessi, gridò, accompagnando la voce con un gesto della mano: "Padreterno! Padreterno! ... Lo chiamano così." Ma nè l'allampanata figura del Padreterno con la barba bianca, di otto giorni, sul viso lungo; nè le divagazioni dei commessi, che tentavano di rallegrare la figura troppo seria del nuovo Agente raccontando le manie coltivatrici del suo predecessore, gli tolsero il peso che gli si aggravava sul cuore. Come il cattivo tempo del giorno avanti, quella tristezza di convento abbandonato gli pareva un gran mal augurio, ora che doveva servire a spegnervi il gaio sorriso della sua Eugenia. Oh, piuttosto avrebbe rinunziato al benefizio dell'alloggio gratuito! Ma non si fermò su quest'idea. La vita sarebbe parsa più insopportabile a Eugenia, se avesse dovuto passare le gior- nate con la sola compagnia della suocera, che non si mostrava gran fatto espansiva con lei, neppure dopo aver avuto, nei tre mesi vissuti insieme, sufficientissime prove per vincere l'istintiva ripugnanza del suo cuore di madre. Con l'ufficio e l'abitazione nella stessa casa, fosse stato pure in quell'ex convento pieno della gran malinconia delle cose morte, l'im- mediata vicinanza non avrebbe fatto scorgere a Eugenia (lo sospettava appena finora) quel che c'era di duro, di avverso, di spietato nel contegno della suocera. Egli avrebbe potuto intervenire a ogni istante per impedire uno scoppio, per de- viare un malinteso! Invece, non era avvenuto niente di quello per cui egli s'era con anticipazione afflitto tanto! Eugenia aveva accettato allegramente la strana avventura di dover abitare in un ex convento di frati così spazioso, così isolato da parere un castello medioevale. Mancava appena il ponte levatoio per rendere intera l'illusione. E il giorno che poterono lasciar l'albergo, era stata una festa per tutti e due percorrere a braccetto quei lunghi corridoi, visitare le celle che il Padreterno veniva aprendo una dietro l'altra, dando rapidi schiarimenti: "Queste erano del padre guardiano; questa, di padre Tommaso da Lipari; questa, di padre Inghirami, il famoso pre- dicatore che faceva tremare la gente alla sua predica dell'inferno. Ecco il refettorio; allora vi si mangiava bene; il con- vento era ricco e i frati se n'intendevano di pappatoria. Quando veniva il Provinciale per la visita, invitavano a pranzo tutti i signori del paese ... Questa è l'infermeria; l'ultimo frate che vi ha lasciato la pelle è stato padre Anselmo di Adernò. Saputo che doveva andar via dal convento, disse "Io ne uscirò morto". E infatti ... Un santo! Lungo lun- go, magro magro; lo chiamavano padre Stendardo. Da qui si scende nella selva." Non grande, ma fitta d'alberi diversi, con parecchi viali, qualche aiuola, un pergolato, una fontana in mezzo dove spillava un sottil getto d'acqua dalla pancia vuota d'una statuetta di terracotta e spezzata chi sa da quanto tempo - forse sin da quando ci erano i frati - la selva era rimasta in abbandono da che l'ultimo Agente era partito. Aiuole, alberi, arbu- sti, viali avevano bisogno di essere ravviati, ripuliti. "Me ne occuperò io" progettò Eugenia. Il Padreterno si offerse per lavorare sotto la direzione di lei. Occorreva però un contadino. L'altro Agente aveva fatto così, quantunque zappasse, potasse, innestasse meglio di qualunque altro; perdeva tutto il suo tempo là. Era mezzo mat- to, pover'uomo! "D'estate, sarà una delizia" esclamò Eugenia. "Pranzeremo qui, all'ombra degli aranci o sotto il pergolato; anche la mamma potrà venirci." A questo richiamo della mamma uscito dalla bocca di lei, Patrizio, sentitosi intenerire, le strinse il braccio per rin- graziarla. Poi ritornarono su. Egli volle mostrarle la terrazza. "Che vista! I polmoni si dilatano!" esclamò Eugenia. E vi tornarono alcuni giorni dopo, a sera avanzata, appena la signora Geltrude si era chiusa nella sua camera per mettersi a letto. Serata autunnale dolcissima, irradiata dalla nascente luna piena, che segnava una striscia luminosa sul mare tranquil- lo e simile, laggiù, laggiù, a un immenso specchio messovi a riflettere il cielo azzurro cupo, tutto scintillante di stelle. Si distinguevano i diversi toni del verde della campagna, quantunque molto scuriti, e i serpeggiamenti dei sentieri, e il biancore delle case rurali, dove tremolava qualche lumicino che spariva e riappariva nella crescente oscurità della notte, come il faro di Capo Pachino. Attorno, vicino, lontano, gran silenzio, interrotto soltanto dal malinconico stornello di un contadino dalla melodia monotona e strascicante. Sotto il parapetto della terrazza, l'abisso nero gorgogliava di sordi ru- mori: stormio di fronde, scroscio di acque scorrenti, stridi di uccelli notturni. A intervalli, calma profonda, come se tutte le cose tacessero per lasciar sentire a quei due sposi innamorati, che si tenevano con le braccia attorno alla vita, i rapidi battiti dei loro cuori. "Mi par di sognare!" Patrizio non sapeva esprimere altrimenti la intensa sua felicità. "A me pare, invece, che sia stato sempre così!" rispose Eugenia con voce commossa. "Non ti annoierai in questa solitudine?" "Quando ti annoierai tu!" Gli cinse le braccia attorno al collo, e reggendosi su la punta dei piedi, gli porse la bocca sorridente, con tale abban- dono e tale grazia infantile, che Patrizio, ad arrestare la piena del sentimento, la baciò rapidamente e si affrettò a dirle: "Guarda!" Additava un piroscafo impennacchiato di fumo, che attraversava la tremolante luminosa striscia del mare" e pareva un giocattolo, così rimpicciolito dalla distanza. "Oh!" mormorò Eugenia, scontenta di quella diversione. Patrizio tentava sempre di dominare il profondo turbamen- to da cui veniva assalito a certe carezze di lei. Voleva almeno nasconderlo, non per sè, ma per lei. Aveva osservato più volte che la commozione di lui la sovreccitava maggiormente, ed egli temeva che la delicata compagine di quel gentile organismo non dovesse soffrirne e guastarsi per soverchia tensione dei nervi. Aveva osservato che la giovinetta timida e pudibonda, stretta tra le braccia e posseduta con pari timidezza e pudore nei primi giorni del matrimonio, veniva, di me- se in mese, inattesamente trasformandosi; e la inesperienza di lui, vissuto casto per natura, per educazione e per le cir- costanze d'una vita agitata e piena di tristezza, gli faceva guardare con un misto di stupore e di terrore quel che ad altri sarebbe parso cosa ovvia e naturale. Accorgendosi però dello scontento di Eugenia, rimasta muta con gli occhi fissi laggiù, verso il mare, dove il pirosca- fo filante a tutta corsa si scorgeva appena, avendo già sorpassato la tremola striscia luminosa, Patrizio l'accarezzò col braccio che la cingeva alla vita, e ripetè la sua frase prediletta: "Non ti par di sognare?" Dall'abisso sottostante montava ora più forte lo stormire delle fronde; i lumi si erano spenti per la campagna; la mo- notona melodia dello stornello arrivava al loro orecchio affievolita e a intervalli, dispersa dal vento che la spingeva per l'opposta direzione, gli stridi degli uccelli notturni tacevano tra le rocce; in fondo alla vallata, il rumore delle acque scor- renti si mesceva col fremito degli alberi. E, siccome ella non rispose, Patrizio continuò: "Quattro mesi addietro, quando le difficoltà del nostro matrimonio parevano proprio insormontabili, e io cominciavo a disperare, se qualcuno fosse venuto a dirmi: "Abbi fede; tra non molto tu sarai lontano da questi luoghi dove hai tanto sofferto; starai, abbracciando per la vita la sospirata persona, su la terrazza di un antico convento, all'ombra del campa- nile proiettata dal lume di luna; e là, sotto un cielo divinamente splendido, di faccia alla terra addormentata e al mare lontano, inaugurerete la vostra vita di innamorati solitari, facendo scoccar baci dove i frati non sognarono mai che baci si sarebbero potuti scambiare senza offesa a Dio" se qualcuno fosse venuto a dirmi questo, io avrei creduto che costui volesse farsi beffe di me! ..." "Rientriamo" disse Eugenia. "Hai paura?" "Sì." "Di che cosa?" "Non lo so." Aveva paura anche lui, ma sapeva benissimo di che cosa: della sua cattiva sorte, che superstiziosamente egli credeva stesse in agguato a tramargli qualche crudele sorpresa. E da più settimane ruminava come scongiurarla, con qualche sa- crificio a modo degli antichi, offrendo alla malvagia deità un'ostia che la placasse. Ne rideva talvolta, ma non cessava di pensarvi. E mentre Eugenia si stringeva a lui lungo il corridoio che doveano traversare, quasi temesse l'apparizione del- lo spettro del frate morto ultimo nel convento, egli ripensava quel sacrifizio che ormai gli pareva urgente, se voleva sviare in tempo il pericolo da cui si sentiva minacciato. Entrati nella cella scelta per loro camera, accanto a quella della mamma, il primo oggetto che gli venne sotto gli oc- chi fu un antico vasetto arabo, di cristallo iridato; cimelio salvato, Patrizio non sapeva in che modo, dal disastro seguito alla morte del padre, e del quale non aveva voluto disfarsi neppure nei momenti più difficili, quando la somma offertagli da un amatore inglese lo avrebbe liberato da qualche impiccio. Eugenia aveva collocato il vasetto su una mensolina, in evidenza. Piaceva anche a lei per la stranezza della forma, per la leggerezza, per quel luccichio di colori che pareva lo facesse formicolare come cosa viva a ogni più lieve movimento fra le mani di chi l'osservava. Fu un lampo; egli non esitò. Staccatosi rapidamente dal braccio di sua moglie, si slanciò verso la mensolina, prese il vasetto e levatolo in alto, con gesto di offerta, lo scagliò contro il pavimento ... "Lo scongiuro è fatto!" esclamò, traendo un gran respiro di soddisfazione.

CENERE

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Deledda, Grazia 4 occorrenze

A fianco della bottega di Maestro Pane, in un altro bugigattolo nero di fuliggine e di ragnatele, marciva una misera ragazzetta inferma, del cui padre, partito per lavorare in una miniera africana, non s'era saputo più nulla: l'infelice creatura, soprannominata Rebecca, viveva sola, abbandonata, piagata, su una stuoia lurida, fra nugoli d'insetti e di mosche. Più in là abitava una vedova con cinque bambini che mendicavano; lo stesso Maestro Pane chiedeva spesso l'elemosina. Con tutto ciò la gente era allegra: i cinque bimbi mendicanti ridevano sempre, Maestro Pane parlava con se stesso ad alta voce, raccontandosi storielle amene e ricordandosi fatti allegri della sua gioventù. Solo nei meriggi luminosissimi, quando il vicinato taceva e le vespe ronzavano tra i fiori del sambuco, conciliando il sonno al piccolo Anania coricato supino sul limitare della porta, vibrava nel silenzio caldo il lamento acuto di Rebecca, che saliva, si spandeva, si spezzava, ricominciava, slanciavasi in alto, sprofondavasi sotterra, e per così dire pareva trafiggesse il silenzio con un getto di freccie sibilanti. In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l'abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone; era la voce stessa delle cose, il lamento delle pietre che cadevano ad una ad una dai muri neri delle casette preistoriche, dei tetti che si sfasciavano, delle scalette esterne e dei poggiuoli di legno tarlato che minacciavano rovina, delle euforbie che crescevano nelle straducole rocciose, delle gramigne che coprivano i muri, della gente che non mangiava, delle donne che non avevano vesti, degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino, delle malattie non curate, della miseria accettata incoscientemente come la vita stessa. Ma chi ci badava? Lo stesso piccolo Anania, coricato supino sul limitare della porta, scacciava le mosche e le vespe agitando un fiore di sambuco, e pensava istintivamente: «Uh! Perché grida sempre quella lì? Cosa la fa gridare? Non ci devono essere gli ammalati nel mondo?». Egli s'era fatto tondo tondo, ingrassato dai cibi abbondanti, dal dolce far niente, e sopratutto dal sonno. Dormiva sempre. Ed anche nei meriggi silenziosi, nonostante il grido continuo di Rebecca, egli finiva con l'addormentarsi, col fior di sambuco nella manina rossa, e il naso coperto di mosche. E sognava di trovarsi ancora lassù, nella casa della vedova, nella cucina vigilata dal gabbano nero che pareva un fantasma appiccato: ma sua madre non c'era più, era fuggita, lontano, in una terra ignota. Ed un frate veniva dal convento, ed insegnava a leggere e scrivere al piccolo abbandonato, che voleva studiare per mettersi in viaggio alla ricerca di sua madre. Il frate parlava, ma Anania non riusciva a sentirlo, perché dal gabbano usciva un lamento acuto e straziante che assordava. Dio mio, che paura! Era la voce dello spirito del bandito morto. Ed oltre alla paura, Anania provava un gran fastidio al naso ed agli occhi. Erano le mosche.

Ma egli mi ha abbandonata! Basta!» disse poi Rebecca, accorgendosi di aver toccato un tasto doloroso per Anania. «Lei dunque non vuole il grappolo? È pulito, però.» «E dallo qui! Ma dove lo metto? Aspetta: lo avvolgo in questo giornale. Io dunque parto, sai. Vado a Cagliari per gli studi. Arrivederci; sta bene e curati.» «Addio!», diss'ella, con gli occhi pieni di lagrime. «Anch'io vorrei partire!» Anania uscì e vedendo sulla porta della bettola la bella Agata si avvicinò per congedarsi anche da lei. Appena lo scorse, la ragazza cominciò a sorridergli, con gli occhioni lucenti, ed a fargli segni d'addio con la mano. «Tu facevi all'amore con quel mucchietto di marcia!», chiese accennando Rebecca affacciatasi alla porta. «Allontanati, che puzzi orribilmente.» Anania fece un gesto di raccapriccio, pensando istintivamente a Margherita. «Eppure», proseguì l'altra, ridendo e guardandolo languidamente, «essa è gelosa di me. Osserva come guarda! Stupida! Ella pensa sempre a te perché l'ultima notte dell'anno scorso, quando sorteggiammo gli innamorati, il tuo nome venne fuori assieme col suo!» «Lo so, dunque! Finiscila!», diss'egli infastidito. «Io parto domani; addio. Desideri qualche cosa?» «Prendimi con te!», ella propose con ardore. Un pastore, che aveva finito di sorseggiare un calice d'acquavite, uscì dalla bettola e pizzicò la fanciulla. «Sas manos siccas, lepre pelata!», gridò Agata; poi attirò Anania entro la bettola e gli chiese che cosa desiderava bere. «Niente, addio, addio.» Ma Agata gli versò un calice di vino bianco, e mentre egli beveva, ella, appoggiatasi languidamente al banco, guardava fuori e diceva: «Anch'io verrò presto a Cagliari; appena avrò un costume nuovo e i bottoni d'oro per la camicia, verrò a Cagliari e cercherò servizio. Così ci rivedremo ... Oh, diavolo, ecco che viene Antonino; egli mi vuole in isposa ed è molto geloso di te. Ah, gioiello mio, addio, vattene ... ». Dicendo così si gettò su lui con uno slancio felino e lo baciò sulla bocca; poi lo spinse ad uscire, ed egli andò via sbalordito e turbato; e incontrando Antonino capì finalmente perché costui lo guardava con odio. Per qualche minuto camminò senza avvedersi dove andava: gli pareva d'aver baciato Margherita e il desiderio di vederla lo rendeva fremente. «Ah», gridò ad un tratto, trovandosi fra le braccia d'una donna. «Figliuolino del mio cuore», disse Nanna, piangendo comicamente e porgendogli un involtino, «tu dunque parti? Il Signore ti accompagni e ti benedica come benedice la spiga del frumento. Noi ci rivedremo ancora, ma intanto ecco ... non rifiutare, sai, perché io ne morrei di dolore ... » Per impedire la morte di Nanna egli prese l'involtino; poi trasalì sentendo sulla sua guancia qualcosa di viscido e un pestilenziale soffio di acquavite. «Ebbene», balbettò Nanna, dopo averlo baciato, «non ho potuto resistere. Pulisciti la guancia: no, essa non deve restar macchiata pei baci odorosi come garofani, delle fanciulle d'oro che ti raccatteranno come un confetto.» Anania non protestò, ma quel terribile urto con la realtà lo rimise in equilibrio, cancellando la sensazione ardente del bacio d'Agata. Rientrato a casa svolse l'involtino e trovò tredici soldi che cominciò a far risonare fra le mani. «Sei stato dal padrino?», chiese zia Tatàna. «Andrò fra poco, dopo mangiato.» Ma appena mangiato uscì nel cortile e si sdraiò sopra una stuoia, sotto il sambuco. L'aria era tiepida; attraverso i rami Anania vedeva grandi nuvole bianche passare sul cielo turchino; egli guardava e sentiva una dolcezza infinita calare da quelle nuvole; pareva una pioggia di latte tiepido. Ricordi lontani, erranti e cangianti come le nuvole, gli sfioravano la mente, confusi con le impressioni recenti. Ecco, egli rivede il paesaggio melanconico vigilato dai pini sonori, dove suo padre ara la terra per seminare il frumento del padrone. I pini hanno un rombo che pare la voce del mare; il cielo è profondamente e tristemente azzurro. Anania ricorda due versi ... «I suoi occhi sono azzurri, vuoti e profondi come il cielo.» Gli occhi di Margherita? No; egli offende Margherita pensando così; ma intanto è felice di ripetere versi così originali ... «I suoi occhi sono azzurri, profondi e vuoti come il cielo.» Chi passa dietro il pino? Il portalettere dai baffi rossi: una cornacchia, con le ali aperte, batte forte il becco sulla fronte del povero uomo. Dun, dun, dun! Margherita corre ad aprire, prende la lettera rosea a fili verdi, e comincia a volare. Anania vorrebbe seguirla, ma non può: non può muoversi, non può parlare; ecco però il portalettere che si avvicina e lo scuote ... «Sono le tre, figlio mio; quando dunque andrai dal padrino?», chiese zia Tatàna, scuotendolo. Egli balzò in piedi con un occhio chiuso e l'altro aperto, una guancia pallida e rossa l'altra. «Che sonno!», disse stirandosi. «È che stanotte non ho dormito per niente. Ora vado.» Andò a lavarsi, si pettinò, perdette mezz'ora a farsi la scriminatura da una parte, poi nel mezzo, poi a farla scomparire del tutto. Il cuore gli batteva con angoscia. «Che è questo? Che diavolo ho?», pensava, e voleva dominarsi ma non ci riusciva. «Sei ancora lì? quando dunque andrai?», gridò la vecchia dal cortile. Egli si affacciò alla finestra. «Cosa dunque gli dirò!» «Che parti domani; che farai da bravo; che sarai sempre un figlio rispettoso.» «Amen! E lui cosa mi dirà?» «Ti darà dei buoni consigli.» «Non mi parlerà di quella cosa ... » «Di quale cosa?» «Dei denari!», diss'egli, abbassando la voce e portandosi le mani alla bocca. «Oh, benedetto!», rispose la vecchia sollevando le braccia. «Che ci hai da veder tu? Tu non sai nulla!» «E allora vado ... » Ma invece andò da Bustianeddu, poi nell'orto per congedarsi da zio Pera ed anche dai fichi d'India, dai cardi, dal panorama, dall'orizzonte ... Trovò il vecchio sdraiato sull'erba col randello posato anch'esso sull'erba con attitudine di riposo. «Dunque parto zio Pera, addio: state bene e divertitevi!» «Eh?», chiese il vecchio, che diventava sordo e cieco. «Parto!», gridò Anania. «Vado a Cagliari per studiare ... » «Il mare? Sì, a Cagliari c'è il mare. Dio ti accompagni e ti benedica, figlio mio. Il vecchio zio Pera non ha nulla da darti, ma pregherà per te ... » «Avete niente da comandarmi?», chiese Anania, curvandosi, con le mani sulle ginocchia. Il vecchio si sollevò, lo guardò fisso e sorrise: «Che vuoi che ti comandi? Anch'io devo partire!». «Anche voi?», esclamò lo studente, sorridendo per la smania che tutti, anche i vecchi decrepiti, avevano di partire. «Anch'io.» «E per dove, zio Pera?» «Ah, per un paese lontano!», disse il vecchio stendendo la mano verso l'orizzonte. «Per l'Eternità!» Soltanto sul tardi, dopo esser passato e ripassato sotto le finestre di Margherita senza poter scorgere la fanciulla, Anania entrò e chiese del padrino. «Non c'è nessuno in casa. Se attendi rientreranno fra poco», disse la serva con arroganza. «Perché non sei venuto prima?» «Perché faccio quel che mi pare e piace», diss'egli entrando. «È giusto, meglio perdere il tempo con quella schifosa d'Agata che venire a riverire i benefattori.» «Auff!», egli sbuffò, appoggiandosi alla finestra dello studio. Ah, la serva lo umiliava come in quella notte lontana quando egli con Bustianeddu eran venuti per chiedere una scodella di brodo: nulla era cambiato; egli era sempre un servo, un beneficato. Lagrime di rabbia gli inumidirono gli occhi. «Ma io sono un uomo!», pensò. «Posso rinunziare a tutto, lavorare la terra, fare il soldato, ma non esser vile. Ora me ne vado.» E si staccò dalla finestra, ma sfiorando la scrivania già illuminata dalla luna, scorse fra le carte buttate su alla rinfusa una busta rosea a righe verdi. Il sangue gli salì al capo; le orecchie gli arsero, percosse da una vibrazione metallica; incoscientemente si curvò e prese la busta. Sì, era quella, squarciata e vuota. Gli parve di toccare la spoglia di una cosa per lui sacra, ch'era stata violata; ah, tutto, tutto era finito per lui, l'anima sua era vuota e sbranata come quella busta. D'un tratto una viva luce inondò la stanza; egli vide Margherita entrare, ed ebbe appena il tempo di lasciar cadere la busta, ma si accorse che la fanciulla aveva indovinato il suo atto, ed una viva vergogna si unì al suo dolore. «Buona sera», disse Margherita deponendo il lume sulla scrivania, «ti hanno lasciato al buio.» «Buona sera», egli mormorò, deciso a spiegarsi e poi fuggire e non lasciarsi vedere mai più. «Siedi.» Egli la fissava con occhi attoniti; sì, quella era Margherita, ma in quel momento egli la odiava. «Scusa», cominciò a balbettare. «Non l'ho fatto apposta, non sono un vile, io, ma ho veduta quella ... questa busta», la toccò col dito, «e non ho potuto ... L'ho guardata ... » «È tua?» «È mia.» Margherita arrossì e si confuse, mentre Anania, come liberato da un peso, cominciava a distinguere le cose e a ragionare. Il suo orgoglio, offeso dalla vergogna patita, lo consigliava a dire che l'invio del sonetto era stato uno scherzo; ma Margherita, nel suo vestito da passeggio, con la vita stretta da un nastro verde lucente, era così bella e pura che mentire con lei sarebbe stato come mentire con un angelo! Anania avrebbe voluto spegnere il lume e restare al chiaro di luna, solo con lei, e caderle ai piedi, e chiamarla coi più dolci nomi; ma non poteva, non poteva, sebbene s'accorgesse che anche lei sollevava e abbassava gli occhi con delizioso terrore, in attesa del suo grido d'amore. «Ha letto, tuo padre?», egli chiese a bassa voce. «Sì, ha letto; e rideva», ella rispose, commossa. «Rideva?» «Sì, rideva. Alla fine mi diede il foglio e disse: "Chi diavolo sarà?".» «E tu? E tu?» «Ed io ... » Essi parlavano piano, ansiosi, già avviluppati dal mistero di una complicità deliziosa; ma improvvisamente Margherita cambiò voce ed aspetto. «Oh, ecco papà. C'è Anania!», esclamò correndo verso l'uscio; e uscì rapidamente, mentre Anania ricadeva nel massimo turbamento. Egli sentì la mano calda e molle del padrino stringere la sua, e vide gli occhi azzurri e la catena d'oro scintillare, ma non ricordò mai precisamente i buoni consigli e le barzellette che il padre di Margherita quella sera gli prodigò. Un dubbio amaro lo tormentava. Aveva o no capito Margherita il vero significato del sonetto? E che ne pensava? Ella non aveva detto nulla a proposito, nei preziosi istanti che egli s'era così stupidamente lasciato sfuggire. L'aspetto turbato di lei non gli bastava; no; ed egli voleva sapere di più, voleva sapere tutto ... «Che cosa?», si domandò con tristezza. Niente. Era tutto inutile. Anche se ella aveva capito, anche se ella gli voleva bene ... Ma questa era una stupidaggine. Eppoi tutto era inutile! Un vuoto immenso lo circondava, e in questo vuoto la voce del signor Carboni si perdeva senza essere ascoltata, come in un abisso deserto. «Sta lieto e non pensare ad altro che a studiare!», concluse il padrino, vedendo che Anania sospirava. «Allegro dunque! Sii uomo e fatti onore!» Margherita rientrò accompagnata dalla madre, che prodigò allo studente la sua parte di consigli e d'incoraggiamenti. La fanciulla andava e veniva per la stanza; s'era ravviata i capelli in modo civettuolo, lasciando un ciuffetto sulla tempia sinistra, e, quel che più importa, s'era incipriata. I suoi occhi scintillavano; era bellissima, ed Anania la seguiva con uno sguardo delirante, ripensando al bacio di Agata. Come attirata dal fascino di quello sguardo, quando egli andò via ella lo seguì e lo accompagnò fino al portone. La luna illuminava il cortile, come in quella sera lontana, quando la visione altera eppur soave di lei aveva destato nel bimbo la coscienza del dovere: anche adesso ella appariva altera e soave, e camminava leggera, con un fruscìo d'ali, pronta a volare: ed Anania credeva ancora di sognare, di vederla sollevarsi davvero e sparire nell'infinito, e di non poterla raggiungere mai più; e il desiderio di stringerle la vita sottile, cinta dal nastro lucente, gli dava le vertigini. «Non la vedrò più! Cadrò morto appena ella avrà chiuso il portone», pensò, quando giunsero al limite fatale. Margherita tirò il catenaccio, poi si volse e porse la mano allo studente. Era pallidissima. «Addio ... Ti scriverò ... Anania ... » «Addio», egli disse, tremando di gioia; ma invece di andarsene si ritrasse nell'ombra e attirò a sé Margherita. E parve ad entrambi che il contatto delle loro labbra facesse scoppiare qualche cosa di terribile e di grandioso nell'aria, perché, mentre si baciavano perdutamente, sentirono come il rombo e l'ardore e la luce del fulmine.

La cucina era deserta: la straducola soleggiata; deserto tutto il villaggio che nella desolazione del meriggi pareva una stazione preistorica da secoli abbandonata. Anania guardò curiosamente intorno. Nulla era cambiato: miseria, stracci, fuliggine, un po' di cenere sul focolare, grandi tele di ragno fra le scheggie del tetto; e, imperatore truce di quel luogo di leggende, il lungo e vuoto fantasma del gabbano nero appeso al muro terreo. «Zia Grathia, dove siete?», gridò Anania, aggirandosi intorno. «Zia Grathia?» Finalmente la vedova, ch'era andata ad attingere acqua ad un pozzo vicino, rientrò, con un malune sul capo e la secchia in mano. Era sempre la stessa, stecchita, giallastra, col viso spettrale circondato da una benda di tela sporca: gli anni erano passati senza invecchiare oltre quel corpo già disseccato ed esaurito dalle emozioni della lontana giovinezza. Nel vederla Anania si turbò: un fiotto di ricordanze gli salì dalle profondità dell'anima; gli parve di ricordare tutta una esistenza anteriore, di rivedere uno spirito che aveva già albergato nel suo corpo prima dello spirito che lo animava al presente. «Bonas dies!», salutò la vedova, guardando meravigliata il bel giovine sconosciuto. E depose prima la secchia, poi il malune, lentamente, guardando sempre lo straniero. Ma appena egli sorrise chiedendole: «Ma non mi riconoscete dunque?», zia Grathia diede un grido ed aprì le braccia: Anania l'abbracciò, la baciò, la investì di domande. E Zuanne? Dov'era? Perché si era fatto monaco? Veniva a trovarla? Era felice? E il figlio maggiore? E i figli del fabbricante di ceri? E questo e quell'altro? E come era trascorsa la vita a Fonni durante quei quindici anni? E chi era il pretore? E si poteva l'indomani far la gita sul Gennargentu? «Figlio mio caro!», cominciò la vedova, dandosi attorno. «Ah, come trovi la mia casa! Nuda e triste come un nido abbandonato! Siediti dunque, lavati; ecco l'acqua pura e fresca, vero argento puro; lavati, bevi, riposati. Io ora ti preparerò un boccone: ah, non rifiutare, figlio delle mie viscere; non rifiutare, non umiliarmi. Per cibarti io vorrei darti il mio cuore; ma tu accetta quel che posso offrirti; ecco, asciugati, ora, anima mia! Come sei grande e bello! Dicono che tu debba sposare una ricca e bella fanciulla: ah, non è stata stupida quella fanciulla. Ma perché non mi hai tu scritto prima di venire? Ah, figlio caro, tu almeno non hai dimenticato la vecchia abbandonata!» «Ma Zuanne, Zuanne?», insisteva Anania, lavandosi con l'acqua freschissima della secchia. La vedova diventò cupa. Disse: «Ebbene, non parlarmene! Egli mi ha fatto tanto soffrire! Era meglio che ... egli avesse seguito l'esempio del padre ... Ebbene, no, non parliamone. Egli non è un uomo; sarà un santo, come dicono, ma non è un uomo! Se mio marito sollevasse il capo dalla tomba e vedesse suo figlio scalzo, col cordone, con la bisaccia, frate mendicante e stupido, che direbbe mai? Ah, lo fustigherebbe, in verità». «Dove si trova ora frate Zuanne?» «In un convento lontano; sulla cima d'un monte. Almeno fosse rimasto nel convento di Fonni! ma no, è destino che tutti debbano abbandonarmi; anche Fidele, l'altro figliuolo, ha preso moglie e raramente si ricorda di me: il nido è deserto, abbandonato; la vecchia aquila ha veduto volar via i suoi poveri aquilotti e morrà sola ... sola ... » «Venite a viver con me!», disse Anania. «Quando sarò dottore vi prenderò con me, nonna.» «In che potrei servirti? Almeno un tempo ti lavavo gli occhi e ti tagliavo le unghie; ora invece tu dovresti fare altrettanto a me ... » «Mi raccontereste delle storie ... a me ed ai miei bambini ... » «Anche le storie non so più raccontarle, adesso. Sono rimbambita del tutto: il tempo, vedi, il tempo s'è portato via il mio cervello come il vento porta via la neve dai monti. Ebbene, ragazzino mio, mangia; non ho altro da offrirti, accetta di buon cuore. Oh, questo cero, è tuo? Dove lo porterai?» «Alla Basilica, nonna, davanti all'immagine dei santi Proto e Gianuario. Viene di lontano, nonna; me lo diede una vecchia donna sarda che vive a Roma: anch'essa mi narrava delle storie, ma non belle come le vostre.» «Vive a Roma? E come fece ad andarci? Ah, io morrò senza aver veduto Roma! ... » Dopo il modestissimo pasto, Anania cercò la guida, con la quale combinò per l'indomani l'ascensione sul Gennargentu: poi si avviò alla Basilica. Nell'antico cortile, sotto i grandi alberi, susurranti, sui gradini corrosi, nelle loggie rovinate, entro la chiesa odorante d'umido come una tomba, da per tutto silenzio e desolazione. Anania depose il cero di zia Varvara sopra un altare polveroso, poi guardò i primitivi affreschi delle pareti, gli stucchi dorati da una luce melanconica, le rozze figure dei santi sardi, tutte le cose infine che un tempo gli avevano destato meraviglia e terrore, e sorrise, ma col cuore oppresso da una languida tristezza. Ritornato nel cortile vide, attraverso una finestra aperta, il cappello d'un carabiniere e un paio di stivali appesi al muro d'una cella, e nella memoria gli risuonò ancora l'aria della Gioconda: «A te questo rosario». L'odor della cera vagava nel cortile solitario; dov'erano i bimbi, compagni d'infanzia, gli uccelletti seminudi e selvatici, che un tempo animavano i gradini della chiesa? Anania non desiderava di rivederli; ma con quanta dolcezza ricordava i giuochi fatti con loro, mentre dagli alberi le foglie secche cadevano come ali d'uccelli morti! Una donna scalza, con un'anfora sul capo, passò in fondo al cortile. Anania trasalì, sembrandogli di riconoscere sua madre. Dove era sua madre? Perché egli non aveva osato, pur desiderandolo, parlarne alla vedova, - e perché questa non aveva accennato alla sua ingrata ospite? Per sfuggire ai ricordi amari egli andò alla posta e inviò una cartolina illustrata a Margherita; poi visitò il Rettore, e verso il tramonto percorse la strada che guardava sulla immensità delle valli. Vedendo le donne fonnesi che andavano alla fontana, strette nelle tuniche bizzarre, egli ripensò ai suoi primi sogni di amore, quando desiderava d'esser lui un mandriano e Margherita una paesana, fine ed elegante sebbene con l'anfora sul capo, simile alla figurina d'uno stucco pompejano. Come il passato era lontano e come diverso dal presente! Un tramonto meraviglioso illuminava l'orizzonte: pareva un miraggio apocalittico. Le nuvole disegnavano un paesaggio tragico; una pianura ardente solcata da laghi d'oro e da fiumi porpurei, e sul cui sfondo sorgevano montagne di bronzo profilate d'ambra e di neve perlata, qua e là squarciate da aperture fiammanti che sembravano bocche di grotte e dalle quali sgorgavano torrenti di sangue dorato. Una battaglia di giganti solari, di formidabili abitanti dell'infinito, si svolgeva entro quelle grotte aeree: balenava il corruscare delle armi intagliate nel metallo del sole, ed il sangue sgorgava a torrenti, inondando le infuocate pianure del cielo. Col cuore balzante di gioia Anania rimase assorto nella contemplazione del magnifico spettacolo, finché le ombre della sera, fugato il miraggio, stesero un drappo violaceo su tutte le cose: allora egli rientrò nella casa della vedova e sedette accanto al focolare. I ricordi lo riassalirono. Nella penombra, mentre la vecchia preparava la cena e parlava con voce tetra, egli rivedeva Zuanne dalle grandi orecchie, intento a cuocer le castagne, ed un'altra figura silenziosa e incerta come un fantasma. «Dunque hanno ammazzato tutti i banditi nuoresi?», chiedeva la vecchia. «Ma credi tu che passerà lungo tempo prima che nuove compagnie sorgano qua e là? Tu ti inganni, figlio mio. Finché vivranno uomini dal sangue ardente, abili al bene ed al male, esisteranno banditi. È vero che ora essi sono così cattivi, talvolta vili, ladroni e spregevoli! Ah, ai tempi di mio marito era altra cosa, sai! Come erano coraggiosi allora! Coraggiosi e benefici. Una volta mio marito incontrò una donna che piangeva perché ... » Anania s'interessava mediocremente ai ricordi di zia Grathia: altri pensieri gli passavano per la mente. «Sentite», egli disse, appena la vedova ebbe finito la pietosa storia della donna che piangeva, «non avete saputo mai nulla di mia madre?» Zia Grathia era intenta a rivoltare una piccola frittata, e non rispose. «Ella sa qualche cosa!», pensò Anania, turbandosi. Ma dopo un istante di silenzio zia Grathia osservò: «Se niente ne sai tu, come vuoi che ne sappia qualche cosa io? E adesso, figlio, mettiti qui, davanti a questa sedia, ed accetta il buon cuore». Anania sedette davanti al canestro che la vedova aveva deposto sopra una sedia, e cominciò a mangiare. «No», disse, confidandosi con la vecchia come non s'era mai potuto confidare con nessuno, «per lungo tempo io non seppi nulla di lei. Ora però credo di essere sulle sue traccie. Dopo che mi ebbe abbandonato ella partì dalla Sardegna, ed un uomo la vide a Roma, vestita da signora.» «Ma la vide davvero?», chiese vivacemente zia Grathia. «Le parlò?» «Altro che le parlò!», rispose amaramente Anania. «Egli disse d'aver passato qualche ora con lei. Dopo non si seppe più nulla; ma io, mesi fa, la feci ricercare dalla Questura e venni a sapere che ella vive a Roma, sotto un falso nome. Però si è emendata, sì, si è emendata, e adesso vive onestamente lavorando.» Zia Grathia era venuta a porsi davanti alla sedia, ed a misura che Anania parlava ella spalancava gli occhietti foschi, e si curvava e trasaliva, e apriva le mani come per raccogliere le parole di lui. Egli si rasserenava pensando a Maria Obinu: quando disse «ella ora si è emendata» provò un impeto di gioia, sicuro, in quel momento, di non ingannarsi supponendo che Maria e Olì fossero la stessa persona. «Ma sei sicuro, ma sei proprio sicuro?», chiese la vecchia, sbalordita. «Ma sì! Ma sìii! ... », egli rispose, imitando Margherita nel pronunziare quel sì lieto e un po' canzonatore. «Ho vissuto due mesi in casa sua.» Si versò da bere, guardò il vino attraverso la luce rossastra della lucerna di ferro, e sembrandogli torbido lo assaggiò appena; poi nel pulirsi la bocca vide che il vecchio tovagliolo grigiastro era bucato, e se ne coprì scherzosamente il viso. «Ricordate quando io e Zuanne ci mascheravamo?», chiese, guardando attraverso il buco. «Io mettevo sul viso questo tovagliolo. Ma che avete?», esclamò subito con voce mutata, scoprendosi il volto lievemente impallidito. Egli vedeva il viso della vedova, di solito impassibile e cadaverico, animarsi in modo strano, e dopo una profonda meraviglia esprimere la pietà più intensa; e capì immediatamente che l'oggetto di questa pietà quasi violenta era lui. Di un colpo l'edifizio del suo sogno rovinò. «Nonna! Zia Grathia! Voi sapete!», gridò con aria spaventata, stirando nervosamente il tovagliuolo quanto era lungo. «Finisci di mangiare, adesso: parleremo poi, figlio. Non ti piace quel vino?» Ma Anania la guardò con rabbia e balzò in piedi. «Parlate!», le impose. «Ah, Santissimo Signore», si lamentò zia Grathia, sospirando e schioccando le labbra, «che cosa vuoi ch'io ti dica? Perché non finisci di cenare, Anania, figlio caro? ... Parleremo poi ... » Egli non sentiva e non vedeva più nulla. «Parlate! Parlate! Voi sapete tutto, dunque? Dov'è? È viva, è morta, dov'è? Dov'è? Dov'è?» Quel «dov'è?» lo ripeté almeno venti volte, mentre s'aggirava automaticamente intorno alla cucina, piegando, spiegando, stirando il tovagliuolo, mettendolo sul viso, guardando attraverso il buco: pareva un po' impazzito, ma più irritato che commosso. «Calmati», cominciò a dirgli la vecchia, andandogli appresso, «io credevo che tu sapessi ... Sì, ella è viva, ma non è la donna che ti ha ingannato fingendosi tua madre.» «Non è stata lei a ingannarmi, nonna! L'ho creduto io ... Ella non sa neppure che io abbia supposto ... Ah, dunque non è lei?», aggiunse a bassa voce, con meraviglia, come se fino a quel momento fosse stato certo che Maria Obinu era sua madre. «Ma parlate dunque!», esclamò poi. «Perché mi tenete così sulla corda? Perché non mi avete parlato ancora di lei? Dov'è? dov'è?» «Ma se non ha mai lasciato la Sardegna!», disse la vedova, camminandogli sempre a fianco. «In verità, io credevo che tu lo sapessi. Io l'ho riveduta quest'anno, ai primi di maggio; ella venne a Fonni per la festa dei Santi Martiri, e conduceva un cantastorie, un giovine cieco suo amante. Essi erano venuti a piedi da un villaggio lontano, da Neoneli; ella soffriva le febbri di malaria, e sembrava una vecchia di sessanta anni. Terminate le feste, il cieco, che aveva guadagnato assai, abbandonò Olì per seguire una comitiva di mendicanti diretti ad un'altra festa campestre. So che ella, in giugno e luglio, fece la mietitrice nelle tancas di Mamojada. La febbre la distruggeva: stette lungamente malata nella cantoniera e ci sta ancora ... » Anania si fermò, sollevò il viso e aprì le braccia con atto disperato. «Ed io ... io ... l'ho ... vista!», gridò. «Io l'ho vista! L'ho vista! ... Siete certa di quanto mi dite?», chiese poi fissando la vedova. «Certissima: perché dovrei ingannarti?» «Ditemi», egli insisté, «ma c'è davvero? Io vidi alla finestra una donna febbricitante, gialla, terrea, con due occhi da gatto ... Era lei? Ne siete certa?» «Certissima, ti dico. Era lei certamente.» «Ed io ... io l'ho vista!», egli ripeté, e si strinse il capo fra le mani, torcendoselo, preso da una collera violenta contro se stesso che si era così lungamente, così stupidamente ingannato; che aveva cercato sua madre al di là dei monti e dei mari, mentre ella trascinava la sua miseria e il suo disonore attraverso l'isola natìa; che si era commosso davanti a tanti volti stranieri e non aveva sentito un palpito nello scorgere il volto della mendicante, della miseria viva, di sua madre, incorniciato dalla finestruola tetra della cantoniera. Che cosa dunque era l'uomo? E il cuore umano? E la vita, l'intelligenza, il pensiero? Ah, sì, ora che queste domande gli salivano non più oziosamente alle labbra, ora che la realtà batteva intorno a lui le sue ali funebri e squarciava i vapori dell'illusione, ora egli rispondeva alle sue domande e sapeva che cosa era l'uomo, il suo cuore, la sua vita: inganno, inganno, inganno. A un tratto zia Grathia lo prese per un braccio e lo costrinse a sedersi: poi gli si accoccolò davanti, gli strinse una mano, e lo guardò di sotto in su, lungamente, pietosamente. «Bambino mio», gli disse, «piangi, piangi. Ti farà bene. Come sei freddo!». Anania strappò la mano dal morso duro delle mani della vedova. «Ma per chi mi prendete?» domandò offeso. «Non sono un ragazzino, io! Perché devo piangere?» «Eppure ti farebbe bene, figlio! Ah, sì, io so quanto fa bene piangere! Quanto fu picchiato alla mia porta, una notte, ed una voce che pareva quella della Morte mi disse: "Donna, non aspettare più!" io diventai di pietra. Per ore ed ore non potei piangere; e furono le ore più terribili per me: mi pareva che il cuore, dentro il petto, fosse diventato di ferro rovente, e mi bruciasse, mi bruciasse le viscere, mi lacerasse il petto con la sua punta acuta. Ma poi il Signore mi concedé le lagrime, ed esse rinfrescarono il mio dolore come la rugiada rinfresca le pietre arse dal sole. Figlio, abbi pazienza! Siamo nati per soffrire: e cosa è mai questo tuo dispiacere in confronto di tanti altri dolori?». «Ma io non soffro!», egli protestò. «Dovevo aspettarmelo, questo colpo; me lo aspettavo anzi, vedete! Sono stato spinto a venir qui quasi da una forza misteriosa; una voce mi diceva: va, va, là saprai qualche cosa! Certo, ho provato un colpo ... un po' di sorpresa ... ma adesso è passato: non datevi pena.» Ma la vedova lo fissava, lo vedeva livido in viso, con le labbra pallide contratte, e scuoteva il capo. Egli prosegui: «Ma perché nessuno mi ha detto mai nulla? Eppure qualche cosa dovevano sapere. Il carrozziere, per esempio, possibile che non sapesse nulla?». «Forse. Ella sola poteva farti sapere qualche cosa; ma no, essa ha paura di te. Quando venne qui, per la festa, con quel miserabile cieco che si fece condurre da lei e poi la abbandonò, nessuno qui la riconobbe, tanto sembrava vecchia, piena di stracci, istupidita dalla miseria e dalla febbre. Del resto, neppure tu l'hai riconosciuta. Il cieco la chiamava con un brutto nomignolo: soltanto a me ella confidò il suo vero essere, mi raccontò la sua triste storia e mi scongiurò di non farti mai saper nulla di lei. Essa ha paura di te.» «Perché ha paura?» «Ha paura che tu la faccia mettere in prigione perché ti ha abbandonato. Ha anche paura dei suoi fratelli che sono cantonieri della ferrovia ad Iglesias.» «E suo padre?», domandò Anania, che non aveva mai pensato a questi suoi parenti. «Oh! è morto da tanti anni, morto maledicendola. E Olì crede sia stata questa maledizione a perseguitarla.» «Sì! È lei che è pazza! Ma che ha ella fatto durante tutti questi anni? Come ha vissuto? Perché non ha lavorato?» Egli sembrava di nuovo calmo, e faceva le sue domande senza curiosità, pensando alle conseguenze di questo disastroso avvenimento. Ma quando la vedova sollevò un dito e disse solennemente: «Tutto sta nelle mani di Dio! Figlio, c'è un filo terribile che ci tira e ci tira ... Forse che mio marito non avrebbe voluto lavorare, e morire sul suo letto, benedetto dal Signore? Eppure! ... Così di tua madre! Ella certo avrebbe voluto lavorare e vivere onestamente ... Ma il filo l'ha tirata ... », egli s'accese in volto, e di nuovo contorse le dita e si sentì soffocare da un impeto di vergogna e di spasimo. «Tutto ... tutto è finito per me, dunque!», singhiozzò. «Che orrore, che orrore! Che miseria, che onta! Ma raccontatemi, dunque, ditemi tutto. Come ha vissuto? ... Voglio sapere tutto ... tutto ... tutto, capite! voglio morire di vergogna, prima ancora che ... Basta!», disse poi scuotendo la testa, come per scacciare via da sé ogni turbamento. «Raccontatemi.» Zia Grathia lo guardava con infinita pietà: avrebbe voluto prenderselo sulle ginocchia, cullarlo, cantargli una nenia infantile, calmarlo, addormentarlo; ed invece lo torturava. Ma ... sia fatta la volontà del Signore: siamo nati per soffrire, e non si muore di dolore! Tuttavia la vedova cercò di raddolcire alquanto il calice amaro che Dio porgeva per le sue mani al disgraziato fanciullo. Disse: «Io non so raccontarti precisamente come ella visse e ciò che fece. So che ella, dopo averti lasciato, e fece benissimo, perché altrimenti tu non avresti avuto mai un padre e non saresti stato fortunato come lo sei ... ». «Zia Grathia! Non fatemi arrabbiare! ... », egli interruppe impetuosamente. «Tranquillità! Pazienza!», gridò la donna. «Non disconoscere la bontà del Signore, ragazzo mio! Se tu fossi rimasto qui, che avresti fatto? Forse avresti finito vilmente col farti anche tu frate ... frate mendicante ... frate poltrone! ... Basta, non parliamone più! Meglio morire che finire così! E tua madre avrebbe seguìto egualmente la sua via, perché quello era il suo destino. Anche qui, prima di partire, credi tu ch'ella menasse una vita santa? Ebbene, no: era questo il suo destino. Ella aveva qui, negli ultimi tempi, un amante carabiniere che fu trasferito a Nuraminis pochi giorni prima della vostra fuga. Dopo che ti ebbe abbandonato, almeno così la disgraziata mi raccontò, ella partì per Nuraminis, a piedi, nascondendosi di giorno, camminando di notte, attraversando metà della Sardegna. Raggiunse il carabiniere e la loro relazione continuò per qualche mese; egli aveva promesso di sposarla, ma invece si stancò presto di lei, la maltrattò, la percosse, poi l'abbandonò. Ella seguì la sua fatale via. Mi disse, - e piangeva, poveretta, piangeva da commuovere le pietre, - che cercò sempre del lavoro, ma che non poté trovarne mai. È il destino, te lo dissi! Il destino che priva del lavoro certi esseri disgraziati, come ne priva altri della ragione, della salute, della bontà. L'uomo e la donna inutilmente si ribellano. No, avanti, morite, crepate, ma seguite il filo che vi tira! Basta, ultimamente però ella si era emendata: s'era unita con un cieco cantastorie e vivevano da due anni come marito e moglie: ella lo conduceva per i paesi, per le feste campestri, da un luogo all'altro; camminavano quasi sempre a piedi, qualche volta soli, qualche volta in compagnia di altri mendicanti girovaghi. Il cieco cantava certe poesie che egli stesso componeva: aveva una bellissima voce. Qui, mi ricordo, cantò la Morte del re, una poesia che faceva piangere la gente. Il Municipio gli diede venti lire, il Rettore lo invitò a pranzo. Raccolse, in tre giorni che stette qui, più di venti scudi. Ed era un'immondezza! Anche lui prometteva di sposare la disgraziata; invece, quando la vide ammalata, che non poteva trascinarsi oltre, la piantò, per paura che lo costringessero a spendere per curarla. Di qui partirono assieme; andarono alla festa di Sant'Elia; là il cieco schifoso incontrò una compagnia di mendicanti campidanesi che dovevano recarsi ad una festa campestre nella Gallura, e andò via con loro, mentre la disgraziata moriva di febbre in una capanna di pastori. Dopo, come ti dissi, sentendosi meglio, ella vagò di qua e di là, mietendo, raccogliendo spighe, finché la febbre l'atterrò del tutto. L'altro giorno, però, mi mandò a dire che stava meglio ... » Un fremito, invano represso, percorreva tutte le membra di Anania. Quanta miseria, quanta vergogna, quanto dolore, e che iniquità divina ed umana nel racconto della vedova! Nessuno dei sanguinosi e tristi racconti ch'egli aveva sentito narrare nella sua infanzia dalla strana donna, gli era mai parso più spaventoso di questo: nessuno lo aveva mai fatto tremare come questo. Ad un tratto ricordò il pensiero balenatogli una volta in mente, in una dolce sera lontana, nel silenzio della pineta interrotto appena dal canto del galeotto pastore. «È stata anche in carcere?», domandò. «Sì, credo, una volta. Furon trovati in casa sua certi oggetti, che un suo amico aveva preso da una chiesa campestre; ma fu rilasciata perché provò di non sapere neppure di che si trattasse ... » «Voi mentite!», disse Anania con voce cupa. «Perché non dite tutta la verità? Essa è stata anche ladra ... ebbene, perché non dirlo! Credete che mi importi niente? Proprio niente, vedete, neppure così», aggiunse, mostrandole la punta del mignolo. «Che unghie, Signore!», osservò la vecchia. «Perché ti lasci crescere così le unghie?» Egli non rispose, ma balzò in piedi e camminò su e giù, furioso, mugolando come un toro. La vedova non si mosse, ed egli, dopo pochi istanti, tornò a calmarsi, e fermandosi davanti alla donna chiese con voce dolente ma rassegnata: «Ma perché son nato io? Perché mi hanno fatto nascere? Vedete, io ora sono un uomo rovinato: tutta la mia vita è distrutta. Non potrò proseguire gli studi, e la donna che dovevo sposare, e senza la quale non potrò più vivere, ora mi lascerà ... cioè devo lasciarla io». «Ma perché? Non sa chi sei tu?» «Sì, lo sa, ma crede che quella donna sia morta o così lontana da non udirne più neanche il nome. Ed ora invece ecco che essa ritorna! Come volete voi che una fanciulla pura e delicata possa vivere vicino ad una donna infame?» «Ma che cosa vuoi fare? Non hai tu stesso detto che non ti importa nulla di lei?» «E voi che cosa mi consigliate?» «Io? Che cosa ti consiglio? Di lasciarle proseguire la sua via», rispose ferocemente la vedova: «non ti ha abbandonato lei? Se tu lo vorrai, la tua sposa non incontrerà mai la disgraziata, e tu stesso non la vedrai mai più ... ». Anania la guardò, a sua volta pietoso ma anche sprezzante. «Voi non capite, non potete capire!» disse. «Lasciamo andare; ora bisogna pensare al modo di vederla; bisogna ch'io vada là domani mattina.» «Tu sei matto ... » «Voi non capite ... » Si guardarono; entrambi reciprocamente sdegnati e pietosi. Allora cominciarono a discutere e quasi a litigare. Anania voleva partire subito, o al più tardi la mattina dopo; la vedova proponeva di far venire Olì a Fonni senza dirle il perché. «Giacché ti ostini! Ma va là! io la lascerei tranquilla; come ha camminato sinora camminerà d'ora in avanti ... Lasciala stare ... Mandale qualche soccorso ... » «Nonna, pare che anche voi abbiate paura. Quanto siete semplice! Io non le torcerò un capello; io la prenderò con me; ella vivrà con me ed io lavorerò per lei: le voglio fare del bene, non del male, perché tale è il mio dovere ... » «Sì, questo è il tuo dovere; ma d'altronde, figlio, pensa, rifletti. Come vivrete voi? Come camperete?» «Non pensateci!» «Come, come farete?» «Non pensateci!» «Bene, allora! Ma ti ripeto che essa ha una folle paura di te, e se tu vai ad affrontarla così, improvvisamente, è capace di commettere qualche pazzia.» «Ed allora facciamola venir qui: ma subito, domani mattina.» «Sì, subito, sulle ali d'un corvo! Come sei impaziente, figlio delle mie viscere! Va e riposati, adesso, e non pensare a niente. Domani notte a quest'ora ella sarà qui, non dubitare. Dopo, tu farai quel che vorrai. Domani tu salirai sul Gennargentu: io direi anzi di rimanerci fino a posdomani ... » «Vedrò io!» «Ora va ... va a riposarti», ella ripeté, dolcemente spingendolo. Anche nella stanzetta ove egli aveva dormito con sua madre nulla era cambiato; vedendo il misero giaciglio, sotto cui c'era un mucchio di patate ancora odoranti di terra, egli ricordò il lettino di Maria Obinu e le illusioni ed i sogni che lo avevano per tanto tempo perseguitato. «Come ero bambino!», pensò amaramente. «E dicevo di esser uomo! Ah, soltanto adesso sono uomo! Ah, soltanto ora la vita mi ha spalancato le sue orribili porte! Sì, sono un uomo, ora, e voglio essere un uomo forte! No, vile vita, tu non mi vincerai; no, mostro, tu non mi abbatterai! Tu mi perseguiti, tu mi hai finora combattuto a viso coperto, vigliacca, miserabile, e solo oggi, in questo giorno lungo come un secolo, solo oggi hai svelato il tuo volto orrendo! Ma non mi vincerai, no, non mi vincerai!» Aprì le imposte tentennanti che davano su un balcone di legno, del quale rimanevano appena i sostegni; si afferrò a questi e si sporse fuori. La notte era limpidissima, fresca, chiara e diafana come sono in montagna le notti sul finir dell'estate. Nel silenzio indicibile che regnava, la visione delle montagne vicine e le linee vaghe delle montagne lontane sembravano più solenni e grandiose. Ad Anania, che vedeva quasi ai suoi piedi le valli profonde, pareva di star sospeso sopra un abisso: e mentre le linee delle montagne lontane gli destavano in cuore una dolcezza strana, e gli davan l'idea di versi immensi scritti dalla mano onnipotente d'un divino poeta sulla pagina celeste dell'orizzonte, il vicino colosso nero-turchiniccio di Monte Spada, protetto dalla formidabile muraglia del Gennargentu, lo opprimeva, gli sembrava l'ombra del mostro al quale poco prima aveva lanciato la sua sfida. E pensava a Margherita lontana, a Margherita sua, non più sua, che in quell'ora sognava certamente di lui guardando anch'essa l'orizzonte; e sentiva una grande pietà per lei, più che per se stesso, e lagrime soavi e amare come il miele amaro gli salivano agli occhi; ma egli le respingeva, queste lagrime, le respingeva come un nemico felino e sleale che tentasse vincerlo a tradimento. «Son forte!», ripeteva, fermo sul balcone senza ringhiera. «Mostro, sono io che ti vincerò, ora che mi stai davanti!» E non si accorgeva che il mostro gli stava alle spalle, inesorabile. VIII. Nella lunga notte insonne egli decise, o credette decidere, il proprio destino. «Io la costringerò a viver qui, presso zia Grathia, finché non avrò trovato la mia via. Parlerò francamente al signor Carboni e a Margherita. Ecco, dirò loro, le cose stanno così: io ho intenzione di far vivere mia madre presso di me, appena la mia posizione me lo permetterà: questo è il mio dovere, ed io lo compio, caschi l'universo. Essi mi scacceranno come si scaccia una bestia immonda; io non mi illudo. Allora io cercherò un impiego, e lo troverò bene, e prenderò con me la disgraziata, e vivremo assieme di miseria, ma pagherò i miei debiti, e sarò un uomo. Un uomo!» pensò amaramente. «O un cadavere vivente!» Gli pareva d'esser calmo, freddo, già morto alla gioia di vivere; ma in fondo al cuore sentiva una crudele ebbrezza d'orgoglio, una smania di stolto combattimento contro la fatalità, contro la società e contro se stesso. «L'ho voluto io, dopo tutto!», pensava. «Sapevo bene che doveva finir così: mi sono lasciato trascinare dalla fatalità. Guai a me! Devo espiare io: espierò.» Questa illusione di coraggio lo sostenne tutta la notte, ed anche il giorno dopo, durante l'ascensione al Gennargentu. La giornata era triste, annuvolata e nebbiosa, ma senza vento: egli volle partire egualmente, con la speranza, diceva, che il tempo si rasserenasse, ma in realtà per cominciare a dar a se stesso una prova di fermezza, di coraggio e di noncuranza. Che gli importava oramai delle montagne, degli orizzonti, del mondo intero? Ma egli voleva fare ciò che aveva stabilito di fare. Solo un momento, prima della partenza, esitò. «E se ella, avvertita della mia presenza, non venisse e fuggisse ancora? E io non prendo forse del tempo perché ciò avvenga?» La vedova lo rassicurò impegnandosi a far venire Olì al più presto possibile, ed egli partì. La guida, su un cavallino forte e paziente, precedeva per gli erti sentieri, talvolta dileguandosi fra la nebbia argentea delle lontananze silenziose, talvolta disegnandosi sullo sfondo del sentiero come una figura dipinta a guazzo sopra una tela grigia. Anania seguiva: tutto era nebbia intorno a lui, dentro di lui, ma egli distingueva attraverso quel velo fluttuante il profilo ciclopico del Monte Spada, e dentro di sé, fra le nebbie che gli avvolgevano l'anima, scorgeva quest'anima come scorgeva il monte, grande, immensa, dura, mostruosa. Un silenzio tragico circondava i viaggiatori, interrotto soltanto, a intervalli, dal grido degli avoltoi. Forme strane apparivano qua e là fra la nebbia, ai lati del sentiero roccioso, e il grido degli uccelli carnivori sembrava la voce selvaggia di quelle misteriose parvenze, disturbate dal passaggio dell'uomo. Anania credeva di camminare fra le nuvole, sentiva qualche volta il senso del vuoto, e per vincere la vertigine doveva guardare intensamente il sentiero, sotto i piedi del cavallo, fissando le lastre umide e lucenti dello schisto e i piccoli cespugli violetti del serpillo la cui acuta fragranza profumava la nebbia. Verso le nove, fortunatamente pei viaggiatori che in quell'ora percorrevano un sentiero strettissimo tagliato sul dorso immenso di Monte Spada, la nebbia diradò: Anania diede un grido di ammirazione, quasi strappatogli violentemente dalla bellezza magnifica del panorama. Tutto il monte apparve coperto da un manto violetto di serpillo fiorito; e al di là, la visione delle valli profondissime e delle alte cime verso cui si avvicinavano i viaggiatori, pareva, tra il velo squarciato della nebbia luminosa, fra giuochi di sole e d'ombra, sotto il cielo turchino dipinto di strane nuvole che si diradavano lentamente, un sogno d'artista impazzito, un quadro d'inverosimile bellezza. «Come la natura è grande, e come è bella e come è forte!», pensò Anania, intenerito. «Nel suo cuore immenso tutto è puro: ah, se ci trovassimo qui soli, tutti e tre, io, Margherita e lei, chi più penserebbe alle cose impure che ci separano?» Un soffio di speranza gli attraversò lo spirito: e se Margherita lo amasse davvero tanto quanto aveva dimostrato d'amarlo in quegli ultimi giorni, e se acconsentisse? ... Con questa folle speranza in cuore camminò lungo tratto, finché raggiunse il fondo del versante di Monte Spada per ricominciare la salita verso la più alta cima del Gennargentu. Un torrente passava in fondo alla valle, fra enormi roccie e boschi di ontani che un improvviso soffio di vento scuoteva. Nel silenzio profondo del luogo misterioso il mormorio degli ontani diede ad Anania una bizzarra impressione; gli parve che la sua speranza animasse le cose intorno, e che gli alberi tremassero, come sorpresi da una gioia arcana. Ma ad un tratto ricadde nelle sue cupe idee e un progetto stravagante gli attraversò la mente: farsi romito. «Se mi nascondessi su queste montagne e vivessi solo, cibandomi d'erbe e di uccelli? Perché l'uomo non può viver solo, perché non può spezzare i lacci che lo avvincono agli altri uomini e lo strangolano? Zarathustra? Sì, ma anch'Egli una volta scrisse: "Oh, quanto sono solo! Non ho più nessuno con cui possa ridere, nessuno che mi consoli dolcemente ... "» Per tre ore l'ascesa continuò, lenta e pericolosa. Il cielo si rasserenò completamente, il vento soffiò: le cime schistose brillarono al sole, profilate di argento sull'azzurro infinito; l'isola svolse i suoi cerulei panorami, disegnati di montagne chiare, di paesi grigi, di stagni lucenti, e qua e là sfumati nella linea vaporosa del mare. Ogni tanto Anania si distraeva, ammirava, seguiva con interesse le indicazioni della guida e guardava col binocolo; ma appena egli cercava di godere la dolcezza del panorama magnifico, il dolore gli dava come una zampata da tigre per riafferrarlo interamente a sé. Verso mezzogiorno arrivarono alla vetta Bruncu Spina. Appena smontato, Anania s'arrampicò fino al mucchio di lastre schistose del punto trigonometrico, e si gettò per terra onde sfuggire alla furia del vento che lo assaltava d'ogni parte. Sotto il suo sguardo irrequieto stendevasi quasi tutta l'isola, con le sue montagne azzurre e il suo mare argenteo, rischiarata dal sole allo zenit: sopra il suo capo brillava il cielo turchino, vuoto e infinito come il pensiero umano. Il vento rombava furiosamente nel vuoto, e le sue raffiche investivano Anania con rabbia pazza: pareva l'ira violenta d'una belva formidabile che cercasse di scacciare ogni altro essere dall'antro aereo dove voleva dominare sola. Anania resisté a lungo: la guida gli si trascinò accanto, gettandosi anch'essa carponi sulle lastre schistose, e cominciò a indicare le principali montagne ed i paesi ed i borghi dell'isola. Il vento rapiva le parole e mozzava il respiro ai due uomini. «Quella è Nuoro?», gridò Anania. «Sì: la collina di Sant'Onofrio la divide in due.» «Sì, è vero. Si vede distintamente.» «Peccato che questo vento sia così rabbioso! Va al diavolo, vento maledetto!», urlò la guida. «Altrimenti si poteva mandare un saluto a Nuoro, tanto oggi sembra vicina!» Anania ripensò alla promessa fatta a Margherita: « ... Dalla più alta cima sarda ti manderò un saluto; griderò ai cieli il tuo nome ed il mio amore, come vorrei gridarlo dalla più eccelsa cima del mondo affinché tutta la terra ne restasse attonita ... ». E gli sembrò che il vento gli portasse via il cuore, sbattendolo contro i colossi granitici del Gennargentu. Al ritorno egli credeva di trovare sua madre presso la vedova, e ansiosamente, dopo aver lasciato il cavallo presso la guida, attraversò il paese deserto e si fermò davanti alla porticina nera di zia Grathia. La sera scendeva triste, un vento gagliardo soffiava per le straducole erte, rocciose: il cielo era pallido: pareva d'autunno. Anania, fermo davanti alla porticina, ascoltava. Silenzio. Attraverso le fessure scorgevasi il chiarore rosso del fuoco. Silenzio. Anania entrò e vide soltanto la vecchia, che filava seduta sul solito sgabello, tranquilla come uno spettro. Sulle brage gorgogliava la caffettiera, e da un pezzo di carne di pecora, infilato in uno spiedo di legno, sgocciolava il grasso sulla cenere ardente. «E dunque? ... Nonna, dunque?» «Pazienza, gioiello d'oro! Non ho trovato una persona fidata che potesse andare laggiù. Mio figlio non è in paese.» «Ma il carrozziere?» «Pazienza, ti ho detto, oh!», esclamò la vedova, alzandosi e deponendo il fuso sullo sgabello. «Ho pregato appunto il carrozziere di dirle che venga assolutamente, domani. Gli dissi: "La pregherai a nome mio che venga, poiché ho da comunicarle cose importantissime che la riguardano. Non le dirai che qui c'è Anania Atonzu; va, figlio, che Dio ti ricompensi perché fai un'opera di carità".» «E lui? E lui?» «Lui ha promesso di condurla qui in vettura.» «Ella non verrà! Vedrete che non verrà», disse Anania, inquieto. «Purché non fugga ancora. Ho fatto male a non recarmi io stesso ... ma sono ancora a tempo ... » E voleva partire subito: ma poi si lasciò facilmente convincere a rimanere, e attese. Un'altra triste notte passò. Nonostante la stanchezza che gli fiaccava le membra, egli dormì pochissimo, - su quel duro giaciglio dove era tristamente nato e sul quale avrebbe voluto quella notte stessa morire. Il vento urlava sul tetto, con boati da mare in tempesta, e la sua voce rombante , ricordava ad Anania l'infanzia melanconica, i terrori lontani, le notti d'inverno, il contatto di sua madre che lo stringeva a sé più per paura che per amore. No, ella non lo aveva amato: perché illudersi? ella non lo aveva amato; ma forse questa era stata la più orrenda sventura e la perdita inesorabile di Olì. Egli lo sentiva, lo sapeva; e provava una tristezza mortale, un'improvvisa pietà per lei che era vittima del destino e degli uomini. S'ella fosse arrivata quella notte, mentre la voce del vento destava nel cuore di Anania impeti di terrore e di pietà, egli l'avrebbe accolta con tenerezza; ma la notte passò, e spuntò una giornata che il vento rendeva melanconica, ed egli trascorse ore che mise fra le più tristi e irrequiete della sua vita. Durante quelle ore egli girò per le viuzze, come spinto dal vento, andò in qualche casa, bevette molta acquavite, ritornò dalla vedova e sedette accanto al fuoco, assalito da brividi di febbre e da una acuta irritazione nervosa. Anche zia Grathia non trovava pace; vagava su e giù per la casa, e un'ora prima che arrivasse la corriera s'avviò per andare incontro ad Olì. Prima di uscire pregò Anania di tenersi calmo. «Bada che ella ha paura di te ... » «Andate, santa donna!», egli disse con disprezzo. «Non la guarderò neppure: le dirò soltanto poche parole.» Passò più di un'ora. Anania ricordava con amarezza la dolce ora passata nell'attendere zia Tatàna: e mentre anelava l'arrivo di Olì, il triste arrivo che doveva una buona volta porre fine ai suoi tormenti, si sentiva divorato da un cupo desiderio: che ella non arrivasse, che fosse di nuovo fuggita, scomparsa per sempre! «Ma è anche malata», pensava con triste conforto, «morrà ben presto!» La vedova rientrò, sola, frettolosa. «Zitto, non arrabbiarti!», disse a voce bassa, rapidamente. «Viene! Viene! È qui: io le ho detto tutto. Zitto! Ha una paura terribile. Non farle del male, figlio!» Uscì di nuovo, lasciando aperta la porticina che il vento cominciò a sbattere, spingendola, attirandola, quasi trastullandosi con essa. Anania attese, pallido, incosciente. Ogni volta che la porta si apriva il sole ed il vento penetravano nella cucina, illuminavano e scuotevano ogni cosa, e sparivano per ricomparire subito. Per uno o due minuti Anania seguì incoscientemente il gioco del sole e del vento, ma ad un tratto s'irritò contro la porta e mosse per chiuderla, nervoso e col volto cupo d'ira. Egli apparve così alla misera donna che si avanzava tremando, timida e lacera come una mendicante. Egli la guardò: ella lo guardò: lo spavento e la diffidenza era negli occhi d'entrambi. Né l'uno né l'altra pensarono neppure a stendersi la mano, neppure a salutarsi: tutto un mondo di dolore e di errore era fra loro e li divideva inesorabilmente, come due mortali nemici. Anania tenne ferma la porta, appoggiandovisi, tutto inondato di sole e di vento, e seguì con gli occhi la misera figura di Olì, mentre ella, quasi spinta da zia Grathia, si avanzava verso il focolare. Sì, era ben lei, la pallida e scarna apparizione intravveduta nella finestra nera della cantoniera; nel viso giallo- grigiastro i grandi occhi chiari, sbiaditi dalla debolezza e dalla paura, parevano gli occhi d'un gatto selvatico ammalato. Appena ella si fu seduta, la vedova ebbe una magnifica idea: lasciò soli i suoi ospiti! Ma Anania sbatté la porta e corse irritatissimo dietro zia Grathia. «Dove andate? Venite, tornate subito, altrimenti vado via anch'io!» disse aspramente, raggiungendo la vecchia su per la scaletta. Olì dovette sentire la minaccia, perché quando Anania e la vedova rientrarono in cucina ella piangeva presso la porta, pronta ad andarsene. Cieco di vergogna e di dolore, Anania le si slanciò sopra, l'afferrò per un braccio e la spinse contro il muro, poi chiuse a chiave la porta. «Nooo!», egli gridò, mentre la donna s'accoccolava per terra, restringendosi tutta come un riccio e piangendo convulsa. «Non partirete più! Non farete più un passo senza il mio consentimento. Rimanete, piangete finché volete, ma di qui non vi muoverete più. I tempi allegri son finiti.» Olì pianse più forte, tutta scossa da un fremito di spasimo; ma nello scoppio del suo pianto risuonò quasi una frenetica irrisione alle ultime parole di Anania; ed egli lo sentì, e la vergogna subitanea per le mostruose parole pronunziate accrebbe il suo furore. Ah, il pianto della donna lo irritava, invece di commuoverlo; tutti gli istinti dell'uomo primitivo, barbaro e feroce, vibravano nei suoi nervi frementi: ed egli lo sentiva, ma non sapeva dominarsi. Zia Grathia lo guardava atterrita, domandandosi se Olì non avesse ragione a temerlo; e scuoteva la testa, minacciava con ambe le mani, s'agitava, pronta a tutto pur d'impedire una scena violenta; ma non sapeva che dire, non poteva parlare. Ah, era indiavolato quel bel ragazzo ben vestito: era più terribile d'un pastore orgolese con la mastrucca, più terribile dei banditi che ella aveva conosciuti sulla montagna. Ella s'era immaginata una scena ben diversa da quella! «Sì», egli riprese, abbassando la voce, e fermandosi davanti a Olì, «i vostri viaggi son finiti. Ragioniamo un po': è inutile piangere, anzi dovete rallegrarvi perché avete ritrovato un buon figliuolo che vi restituirà bene per male: quindi dovete aspettarvi da lui molto bene. Di qui voi non vi muoverete più, finché non l'ordinerò io. Capite? capite?», ripeté, sollevando di nuovo la voce, e battendosi la mano sul petto. «Adesso sono io il padrone: non sono più il bimbo di sette anni, che voi avete vilmente ingannato e abbandonato; non sono più l'immondezza che voi avete buttato via; sono un uomo ora, capite? e saprò difendermi, sì, saprò difendermi, saprò, perché voi finora non avete fatto altro che offendermi, uccidermi giorno per giorno, sempre a tradimento, sempre! sempre! e rovinarmi, capite, rovinarmi sempre più, sempre più, come si rovina una casa, un muro, così, pietra per pietra, così ... » Egli faceva atto di buttar giù un muro; si curvava, sudava, quasi oppresso da una vera fatica fisica; ma d'un tratto, improvvisamente, guardando Olì che piangeva sempre, sentì la sua ira sbollire, svanire. Un senso di gelo lo invase. Chi era quella donna che egli ingiuriava? Quel mucchio di stracci, quella lurida lumaca, quella mendicante, quell'essere senza anima? Poteva ella capire ciò che egli le diceva? ciò che ella aveva fatto? E d'altronde che poteva esserci di comune fra lui e quella creatura immonda? Era poi davvero sua madre, quella? E se lo era, che significava, che importava? Madre non è la donna che dà materialmente alla luce una creatura, frutto d'un momento di piacere, e poi la butta nel mezzo della strada, in grembo al perfido Caso che l'ha fatta nascere. No, quella donna lì non era sua madre, non era una madre, sia pure incosciente: egli non le doveva nulla. Forse non aveva diritto di rimproverarle i suoi errori, ma non doveva neppure sacrificarsi per lei. Sua madre poteva essere zia Tatàna, poteva essere zia Grathia, e magari Maria Obinu, e magari zia Varvara o Nanna l'ubriacona; tutte, fuorché la miserabile creatura che gli stava davanti. «Avrei fatto bene a non occuparmene, davvero, come consigliava zia Grathia», pensò. «E forse è meglio che essa riprenda la sua via. Che può importarmi di lei? No, non me ne importa niente.» Olì continuava a piangere. «Finitela», diss'egli freddamente, ma non più irato; e siccome ella piangeva più forte, egli si volse alla vedova e le fece cenno di confortarla e farla tacere. «Non vedi che ha paura?», mormorò la vedova, passandogli vicina. «Su! su!», disse poi, battendo una mano sulle spalle di Olì. «Finiscila, figlia. Fatti coraggio, abbi pazienza. È inutile piangere; egli non ti divorerà, poi; è figlio delle tue viscere, dopo tutto. Su! su! Adesso prendi un po' di caffè, poi discorrerete meglio. Fammi il piacere, figlio, Anania, va un po' fuori: poi ragionerete meglio. Va fuori, gioiello d'oro.» Egli non si mosse, ma Olì si calmò alquanto, e quando zia Grathia le portò il caffè, ella prese tremando la tazza e bevette avidamente, guardandosi attorno con occhi ancora spaventati, diffidenti, eppure attraversati da balenii di piacere. Ella era avida del caffè, come quasi tutte le donnicciuole sarde, ed Anania, che aveva un po' ereditato questa passione, la guardava e la studiava, ridiventato perfettamente cosciente; e gli pareva di scorgere una bestia selvatica e timida, una lepre rosicchiante l'uva nella vigna, trepida per il piacere del pasto e per la paura di venir sorpresa. «Ne vuoi ancora?», domandò zia Grathia, chinandosi e parlando ad Olì come ad una bambina. «Sì? No? Se ne vuoi ancora dimmelo pure. Da' qui la chicchera, e alzati, su, lavati gli occhi, sta tranquilla! Hai sentito? Su, figlia!» Olì si alzò, aiutata dalla vecchia, e andò diritta alla tinozza dell'acqua dove usava lavarsi venti anni prima: volle pulire la chicchera, poi si lavò, e s'asciugò col grembiale bucherellato. Le sue labbra tremavano, qualche singhiozzo le gonfiava ancora il petto, i suoi occhi arrossati e cerchiati, enormi nel viso piccolo, sfuggivano lo sguardo freddo di Anania. Egli guardava il grembiale bucherellato e pensava: «Bisognerà subito farle una veste: è veramente lurida. Ho ancora sessanta lire delle lezioni date a Nuoro: ho fatto bene a fare quelle ripetizioni ... Ne troverò anche altre. Venderò anche i libri ... Sì, occorre subito vestirla e calzarla ... Avrà anche fame ... ». Quasi indovinando il suo pensiero, zia Grathia disse ad Olì: «Hai fame? Se hai fame dimmelo pure, subito: non star lì vergognosa; chi si vergogna patisce. Hai fame? No?». «No», rispose Olì con voce rauca. Anania si turbò nell'udire quella voce: era ancora la voce d'un tempo, sì, la voce lontana, la voce di lei. Sì, quella donna era lei, era lei, la madre, la sola, la vera, l'unica madre! Era la carne della sua carne, il membro malato, il viscere fracido che lo straziava, ma dal quale non poteva staccarsi senza lasciar la vita. «Ebbene, allora siedi qui», disse zia Grathia avvicinando due sgabelli al focolare, «siedi qui, figlia, e tu siedi qui, gioiello mio. Sedete qui entrambi e discorrete ... ». Fece sedere Olì, e pretendeva di fare altrettanto con Anania, ma egli si scosse bruscamente. «Lasciatemi dunque; non sono un bimbo, vi ho detto! D'altronde», egli riprese, camminando su e giù per la cucina, «c'è poco da discorrere. Ho già detto quanto dovevo dire. Ella rimarrà qui finché io non ordinerò altrimenti: voi ora le comprerete le scarpe e un vestito ... vi darò i danari ... , ma di questo parleremo poi ... Intanto», e alzò la voce, per significare che si rivolgeva ad Olì, «rispondete voi: che cosa rispondete dunque?» Credendo che egli parlasse con la vedova, Olì non rispose. «Hai sentito?», le disse zia Grathia, con voce dolce. «Che cosa rispondi?» «Io?», ella chiese a bassa voce. «Sì, tu.» «Io ... nulla.» «Avete debiti?», domandò Anania. «No.» «Verso il cantoniere, no?». «No. Si hanno tenuto tutto quanto avevo.» «Che cosa avevate?» «I bottoni d'argento della camicia, le scarpe nuove, dodici lire in argento.» «Che cosa possedete ora?» «Nulla. Come mi vedi, mi scrivi», diss'ella, toccandosi il grembiale. La sua voce era cupa, cavernosa. «Avete qualche carta?» «Cosa?» «Qualche carta», spiegò zia Grathia. «Sì, la fede di nascita?» «Sì, la fede di nascita», ella rispose toccandosi il petto. «L'ho qui.» «Fate vedere». Ella trasse una carta gialliccia, macchiata d'olio e di sudore, mentre Anania ripensava amaramente alle ricerche e alle indagini fatte per scoprire se Maria Obinu possedeva carte rivelatrici. Zia Grathia prese la carta e gliela diede; egli la svolse, la lesse, la restituì. «Perché ve la siete procurata?», domandò. «Per sposarmi con Celestino ... » «Il cieco», spiegò la vedova, e aggiunse borbottando: «quell'immondezza vile». Anania tacque, e continuò a camminare su e giù per la cucina: il vento sibilava incessantemente intorno alla casetta; dalle fessure del tetto piovevano alcune striscie di sole che disegnavano fantastiche monete d'oro sul pavimento nero. Anania camminava divertendosi automaticamente a mettere i piedi su quelle monete, come usava una volta, da bambino: si domandava che cosa gli restava da fare e gli sembrava d'aver già esaurito una parte del suo grave compito. «Io ora chiamerò di là zia Grathia», pensava, «e le consegnerò i danari perché le compri le vesti e le scarpe e le dia da mangiare, poi partirò e vedrò ... Qui non mi resta altro da fare: è tutto fatto ... È tutto fatto!», ripeté fra sé con infinita tristezza. «Tutto è finito.» Gli venne in mente di sedersi accanto a sua madre, di chiederle come aveva vissuto, di rivolgerle una sola parola di dolcezza e di perdono: ma non poteva, non poteva: il solo guardarla lo disgustava; gli pareva che ella puzzasse (e in realtà ella emanava quello sgradevole odore tutto speciale dei mendicanti), e non vedeva l'ora di andarsene, di fuggire, di togliersi dagli occhi quella vista dolorosa. Eppure qualche cosa lo tratteneva; egli sentiva che la scena non poteva terminare così, dopo poche frasi; pensava che Olì forse, fra la sua paura e la sua vergogna, gioiva d'aver un figlio bello, forte, civile; e nel suo disgusto, nel suo dolore anch'egli provava un meschino conforto dicendo a se stesso: «Almeno non è sfrontata: forse si può redimere ancora. È incosciente, ma non sfrontata. Non si ribellerà». Eppure ella si ribellò. «Ecco», egli ricominciò, dopo un lungo silenzio, «voi rimarrete qui finché non avrò aggiustato i miei affari. Zia Grathia comprerà le vesti e le scarpe ... » La voce rauca e dolente risuonò forte: «Io non voglio nulla. Io no ... ». «Come no?», egli chiese, fermandosi di botto davanti al focolare. «Io non resto.» «Che cosa?», egli gridò sporgendosi in avanti, coi pugni stretti e gli occhi spalancati. «Spiegatevi meglio.» Ah, dunque non era tutto finito? Ella osava? perché osava? Ah, ella dunque non capiva che suo figlio aveva sofferto e lottato durante tutta la sua vita per raggiungere uno scopo: quello di ritirarla dalla via della colpa e del vagabondaggio, anche sacrificandole tutto il suo avvenire? Perché ora ella osava ribellarglisi, perché voleva sfuggirgli ancora? Non capiva che egli le avrebbe impedito di far ciò, anche a costo d'un delitto? «Spiegatevi!», egli ripeté, dominando a stento la sua collera. E stette ad ascoltare, fremente, esaltato, ficcandosi le unghie puntute sulle palme delle mani, mentre il suo viso andava di momento in momento deformandosi sotto la pressione di un dolore senza nome. Zia Grathia lo fissava, pronta anch'essa a gettarglisi sopra se egli osava toccare Olì. Fra le tre creature selvagge, riunite intorno al focolare, la fiamma di un tizzo sorgeva azzurrognola e cigolava: pareva piangesse. «Ascoltami», disse Olì animandosi, «non adirarti, tanto oramai la tua collera è inutile. Il male è fatto e nulla più lo può rimediare: tu puoi uccidermi, ma non ne ritrarrai alcun benefizio. L'unica cosa che tu possa fare è di non occuparti di me. Io non posso restare qui: me ne andrò e tu non udrai più mie notizie. Figurati di non avermi mai incontrata ... » «Dove vuoi andare?», chiese la vedova. «Anch'io gli ho detto queste cose, ma egli non capisce la ragione: ci sarebbe però un mezzo ... Rimani qui egualmente, invece di andar per il mondo: non diremo chi tu sei ed egli vivrà tranquillo come se tu fossi lontana. Perché, povera te, se vai via di qui, dove andrai?» «Dove Dio vuole ... » «Dio?», proruppe Anania, dandosi forti pugni sul petto. «Dio ora vi comanda di obbedirmi. Non osate neppur più ripetere che non volete restare qui. Non osate», egli disse come in delirio. «Credete che io scherzi, forse? Non osate muovere un passo senza ordine mio; altrimenti sarò capace di tutto ... » «Per il tuo bene», ella insisté. «Ascoltami almeno: non essere feroce con me, mentre sei indulgente con tuo padre, con quel miserabile che fu la mia rovina.» «Ella ha ragione!», disse la vedova. «Tacete!», impose Anania. Olì prese ancor più coraggio. «Io non so parlare, Ananì ... io ora non so parlare perché le disgrazie mi hanno reso stupida; ma una sola cosa ti domando: non avrei tutto da guadagnare restando qui? Se voglio andar via non è per il tuo bene? Rispondi. Ah, egli neppure mi ascolta!», disse poi, rivolta alla vedova. Anania camminava nuovamente su e giù per la cucina, e pareva non udisse davvero le parole di Olì; ma a un tratto trasalì e gridò: «Ascolto!». Ella riprese umilmente: «Perché dunque vuoi che io rimanga qui? Lasciami andare per la mia via: come un giorno ti feci del male, lascia che ora possa farti del bene. Lasciami andare: io non voglio esserti d'impedimento: lasciami andare ... per il tuo bene ... ». «No!», egli ripeté. «Lasciami andare, te ne supplico: sono ancor buona a lavorare. Tu non saprai più nulla di me: sparirò come la foglia portata dal vento ... » Egli s'aggirò su se stesso; una terribile tentazione lo insidiò: lasciarla andare! Per un minuto secondo una folle gioia gli brillò nell'anima, al pensiero che tutto poteva considerarsi come un sogno maligno: una sola parola e il sogno svaniva e tornava la dolce realtà ... Ma subito ebbe vergogna di se stesso: la sua ira crebbe, il suo grido echeggiò nuovamente nella tetra cucina. «No!» «Tu sei una belva», mormorò Olì, «non sei un cristiano: sei una belva che morde le sue stesse carni. Lasciami andare, fanciullo di Dio, lasciami ... » «No!» «Una belva davvero!», confermò zia Grathia, mentre Olì taceva e pareva vinta. «C'è bisogno di urlare così? Nooo! Nooo! Nooo! Fuori, se sentono, crederanno che c'è un toro selvatico, chiuso qui dentro. Son queste le cose che ti hanno insegnato a scuola?» «A scuola mi hanno insegnato questa ed altre cose», egli disse, abbassando la voce che gli si era fatta rauca. «Mi hanno insegnato che l'uomo non deve lasciarsi disonorare, a costo di morirne ... Ma voi non potete capire certe cose! Infine, tagliamo corto, e state zitte tutt'e due ... » «Io non capisco? Io capisco benissimo», protestò la vecchia. «Nonna, voi capite davvero. Ricordatevi ... Ma basta, basta!», esclamò egli, agitando le mani, stanco, nauseato. Le parole della vecchia lo avevano colpito; egli ritornava cosciente, ricordava che si era sempre ritenuto un essere superiore, e voleva porre fine alla scena dolorosa e volgare. «Basta», ripeté a se stesso, lasciandosi cader seduto in un angolo della cucina e prendendosi la testa fra le mani. «Ho detto no e basta. Finitela ora», aggiunse con voce affranta. Ma Olì s'accorse benissimo che era invece il momento di combattere: ella non aveva più paura, e osò tutto. «Senti», disse con voce umile, sempre più umile, «perché vuoi rovinarti, "figlio mio?" (Sì, ella ebbe il coraggio di dir così, ed egli non protestò). Io so tutto ... Tu devi sposarti con una fanciulla ricca e bella: se ella viene a conoscere che tu non mi rinneghi, ti rifiuterà. Ed ha ragione: perché una rosa non può stare vicina ad una immondezza ... Fallo per lei; lasciami andare, ella crederà sempre che io non esista più. Ella è un'anima innocente; perché dovrebbe soffrire? Io andrò lontano, cambierò nome, sparirò portata via dal vento. Basta il male che ti feci involontariamente ... sì ... involontariamente; figlio mio, io non voglio farti più del male, no. Ah, come una madre può fare il male a suo figlio? Lasciami andare». Egli ebbe desiderio di gridare: «Eppure voi non mi avete fatto altro che del male», ma si vinse. A che serviva gridare? Era inutile e indecoroso; no, egli non voleva più gridare: solo, col capo sempre stretto fra le mani, con voce nello stesso tempo lamentosa e rabbiosa, continuò a rispondere: «No, no, no». In fondo sentiva che Olì aveva ragione, e capiva che ella veramente voleva andarsene per non renderlo infelice, ma appunto l'idea che in quel momento ella era più generosa e più cosciente di lui lo irritava e gliela rendeva odiosa. Ella si era trasformata: i suoi occhi illuminati lo guardavano supplichevoli e amorosi; quando ripeteva: «lasciami andare» la sua voce vibrava e tutto il suo volto esprimeva una tristezza senza nome. Forse un sogno soave, che giammai prima d'allora aveva rischiarato l'orrore della sua esistenza, le sfiorava l'anima: restare, vivere per lui, trovar finalmente pace. Ma dal profondo dell'anima primitiva un istinto di bene, - la scintilla che si cela anche nella selce, - la spingeva a non badare a quel sogno. Una sete di sacrifizio la divorava, ed Anania lo capiva, e sentiva finalmente che ella voleva a modo suo compiere il proprio dovere, come egli a modo suo voleva compiere il suo. Egli però era il più forte e voleva e doveva vincere con tutti i mezzi, anche con la violenza, anche con la necessaria crudeltà del medico che per guarire il malato gli apre la carne coi ferri. Ad un tratto ella si gettò per terra, ricominciò a piangere, supplicò, gridò. Anania rispose sempre no. «Che farò dunque io?», ella singhiozzò. «Nostra Signora mia, cosa farò io? Bisogna che ti abbandoni ancora con inganno, per farti il bene per forza? Sì, io ti lascerò, io me ne andrò. Tu non sei il mio padrone. Io non so chi tu sei ... Io sono libera ... e me ne andrò ... » Egli sollevò il volto e la guardò. Non era più irato; ma i suoi occhi freddi e il suo viso livido, improvvisamente invecchiato, incutevano spavento. «Sentite», disse con voce ferma, «finiamola. È deciso tutto, e non c'è da discutere oltre. Voi non muoverete un passo senza che io lo sappia. E badate bene, e tenete a mente le mie parole come se fossero le parole di un morto: se finora ho sopportato il disonore della vostra vita vergognosa era perché non potevo impedirlo, e perché speravo di por fine a tale obbrobrio. Ma d'ora in avanti sarà altra cosa. Se voi vi permettete di andar via di qui vi seguirò, vi ucciderò e mi ucciderò! Tanto non mi importa più nulla di vivere!» Olì lo guardava con terrore: in quel momento egli era rassomigliantissimo a zio Micheli, il padre, quando l'aveva cacciata via dalla cantoniera; gli stessi occhi freddi, lo stesso volto calmo e terribile, la stessa voce cavernosa, lo stesso accento inesorabile. Le parve di vedere il fantasma del vecchio, che risorgeva per castigarla, e sentì l'orrore della morte intorno a sé. Non disse più parola, e si accoccolò per terra, tutta tremante di spavento e di disperazione. Una triste notte cadde sul villaggio desolato dal vento. Anania, che non aveva potuto trovare un cavallo per ripartire subito, dovette passare la notte a Fonni, e dormì d'un sonno inquieto, simile al sonno di un condannato nella prima notte dopo la sentenza. Olì e la vedova vegliarono lungamente accanto al fuoco: Olì aveva il freddo foriero della febbre e batteva i denti, sbadigliava e gemeva. Come in una notte lontana, il vento rombava sopra la cucina vigilata dalla spoglia nera del bandito, e la vedova filava, alla luce giallognola del fuoco, impassibile e pallida come uno spettro: ma questa volta ella non narrava alla sua ospite le storie del marito, e non osava confortarla. Solo, di tanto in tanto, la supplicava inutilmente di andare a letto. «Andrò se mi fate una carità», disse finalmente Olì. «Parla.» «Chiedetegli se egli ha ancora la rezetta che gli diedi il giorno che siamo fuggiti di qui; e pregatelo di farmela vedere.» La vecchia promise, e Olì si alzò: tremava tutta, e sbadigliava tanto che le sue mascelle scricchiolavano. Tutta la notte vaneggiò, arsa dalla febbre; ogni tanto chiedeva la rezetta e si lamentava infantilmente perché zia Grathia, coricatale a fianco, non si alzava e non andava da Anania per chiedergliela. Un dubbio le attraversava la mente in delirio: che Anania non fosse suo figlio. No, egli era troppo crudele e spietato; ella, che era stata la vittima di tutti non poteva convincersi che suo figlio dovesse torturarla più degli altri. Nel delirio raccontò a zia Grathia che aveva attaccato al collo di Anania quel sacchettino per riconoscerlo quando sarebbe stato grande e ricco. «Io volevo andare a trovarlo un giorno, vecchia vecchia, col bastone. Dun! Dun! picchiavo alla sua porta. "Io sono Maria Santissima trasformata in mendicante!" I servi ridevano e chiamavano il padrone. "Vecchia, che cosa vuoi?" "Io so che tu hai un sacchettino così e così: io so chi te lo ha dato; se tu oggi hai tante tancas e servi e buoi lo devi a quella povera anima che ora è ridotta a sette once di polvere. Addio, dammi un po' di pane col miele. E perdona alla povera anima." "Servi, segnatevi, questa vecchia che indovina ogni cosa è Maria Santissima ... " Ah, ah, ah, la rezetta, la voglio ... Quel giovine non è ... lui! La rezetta ... la rezetta ... » All'alba zia Grathia entrò da Anania e gli raccontò ogni cosa. «Ah», diss'egli con un sorriso amaro, «ci voleva anche questa! che ella dubitasse! Gliela farò vedere io ... se sono io!» «Figlio, non essere snaturato: contentala almeno in questa piccola cosa ... », supplicò zia Grathia. «Ma io non l'ho più quel sacchettino; l'ho buttato via: se lo ritroverò ve lo manderò.» Zia Grathia insisté inoltre per sapere l'esito del colloquio che Anania avrebbe avuto con la fidanzata. «Se ella veramente ti vuol bene, si rallegrerà della tua buona azione», gli disse, per confortarlo. «No non ti rifiuterà, anche se tu le dici che non rinneghi tua madre. Ah, l'amore vero non bada ai pregiudizi del mondo: io amavo pazzamente mio marito quando tutto il resto del mondo lo disprezzava ... » «Vedremo», disse melanconicamente Anania, «vi scriverò ... » «Per carità, non scrivermi, gioiello d'oro! Io non so leggere, lo sai, e non voglio far sapere a nessuno i fatti tuoi. Piuttosto mandami un segno. Senti, se ella non ti rifiuta mandami la rezetta avvolta in un fazzoletto bianco; se ti rifiuta, mandala avvolta in un fazzoletto di colore ... » Egli promise di contentare la vecchia. «Ma tu quando tornerai?» «Non so; fra non molto certamente, appena avrò aggiustato i miei affari.» Egli partì senza aver riveduto Olì; un'angoscia infinita l'opprimeva; il viaggio gli sembrava eterno, e sebbene un tenue filo di speranza lo guidasse, non avrebbe voluto arrivare mai a Nuoro. «Ella mi ama», pensava, «forse mi ama come nonna amava suo marito. La sua famiglia mi disprezzerà, mi caccerà; ma ella mi dirà: "Ti aspetterò, ti amerò sempre ... ". Sì, ma che posso io prometterle? Oramai il mio avvenire è distrutto». Un'altra speranza inconfessabile, egli sentiva però in fondo al cuore: che Olì fuggisse ancora: egli non osava palesare a se stesso questa speranza, ma la sentiva, la sentiva; e se ne vergognava, e ne calcolava tutta la viltà, ma non poteva scacciarla ... Nel momento in cui aveva gridato: «Vi ucciderò e mi ucciderò», era stato sincero, ma ora gli pareva che tutto fosse stato un orribile sogno; e nel rivedere la strada e i paesaggi che tre giorni prima aveva attraversato con tanta gioia nell'anima, e nell'avvicinarsi a Nuoro, il senso della realtà lo stringeva acerbamente. Appena arrivato cercò il sacchettino, e per un'idea superstiziosa, - poiché egli credeva che le cose prevedute non avvengono, - lo avvolse in un fazzoletto di colore. Ma poi pensò che i tristi avvenimenti di quei giorni egli li aveva sempre attesi e preveduti, e si irritò contro la sua puerilità. «Del resto, perché debbo mandare il sacchettino? Perché debbo contentarla?», disse fra sé, sbattendo l'involto contro il muro. Ma subito lo raccattò, pensando: «Per zia Grathia. Alle quattro vado dal signor Carboni e gli dico tutto», decise poi. «Bisogna finirla oggi stesso. Bisogna esser uomini. Ed Ora dormiamo.» Si buttò sul letto e chiuse gli occhi. Eran circa le due; un meriggio caldissimo e silenzioso. Egli aveva ancora nelle orecchie il rombo del vento, ricordava il freddo della notte passata a Fonni, e provava una strana impressione. Gli pareva d'esser caduto in un abisso roccioso, fra montagne erte desolate che soffocavano il breve orizzonte; ricordi lontani gli risalivano dal profondo dell'anima: le notti di febbre a Roma, il fragore del vento su Bruncu Spina, una poesia del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa, la canzone del mandriano che era passato nella straducola la sera in cui zia Tatàna aveva chiesto la mano di Margherita. Ma nello sfondo della sua immaginazione nereggiava sempre la cucina della vedova, col cappotto nero e vuoto come un simbolo, con la figura di Olì dai grandi occhi di gatto selvatico. Che dolore e che tristezza gli causavano ora quegli occhi! Così rimase a lungo, senza poter dormire, ma con gli occhi ostinatamente chiusi, immerso in un cupo torpore. A un tratto pensò alla morte, meravigliandosi che questo pensiero non gli fosse ancora balenato in mente. «Nessuna cosa è più certa della morte; eppure ci tormentiamo tanto per cose che passano inesorabilmente. Tutto passerà: tutti morremo: perché soffrire così? ... E se alle quattro mi suicidassi? Sì.» Per qualche momento l'impressione della fine lo gelò tutto. Passò, ma gli lasciò una oppressione così spaventosa che egli sentì il bisogno di scuotersi per liberarsene. Solo allora si accorse che, in fondo, mentre gli pareva d'esser in preda alla più cupa disperazione, egli sperava sempre. «Margherita! Margherita! Parlerò con lei stanotte; ella mi dirà di tacere ogni cosa a suo padre, di aspettare, di fingere. No, non voglio essere vile. Voglio essere uomo. Alle quattro sarò dal signor Carboni.» Alle quattro, infatti, egli passò davanti alla porta di Margherita, ma non poté fermarsi, non poté suonare. E passò oltre avvilito, pensando di ritornare più tardi, ma convinto, in fondo, che non sarebbe riuscito giammai di aver il colloquio col padrino. Due giorni e due notti trascorsero così in una vana battaglia di pensieri cangianti come onde agitate. Nulla pareva mutato nella sua vita e nelle sue abitudini; egli aveva ripreso a dar lezioni agli studentelli in vacanza, leggeva, mangiava, passava sotto le finestre di Margherita e vedendola la guardava ardentemente: ma durante la notte zia Tatàna lo udiva camminare per la camera, scendere nel cortile, uscire, rientrare, vagare: pareva un'anima in pena, e la buona vecchia lo credeva ammalato. Che aspettava egli? Che sperava? Il giorno dopo il suo ritorno, vedendo un uomo di Fonni attraversare la viuzza, impallidì mortalmente. Sì, egli aspettava qualche cosa ... qualche cosa d'orribile: la notizia che ella fosse scomparsa nuovamente; e si accorgeva benissimo della sua viltà, ma nello stesso tempo era pronto ad eseguire la sua minaccia: «vi seguirò, vi ucciderò, mi ucciderò». In certi momenti gli pareva che niente fosse vero; nella casa della vedova c'era soltanto la vecchia, col suo cappotto e le sue leggende: niente altro ... niente altro ... La seconda notte dopo il suo ritorno udì zia Tatàna raccontare una fiaba ad un bimbo del vicinato: « ... La donna fuggiva, fuggiva, gettando dei chiodi che si moltiplicavano, si moltiplicavano, coprivano tutta la pianura. Zio Orco la inseguiva, la inseguiva, ma non arrivava a prenderla perché i chiodi gli foravan i piedi ... ». Che piacere angoscioso aveva destato quella fiaba in Anania bambino, specialmente nei primi giorni dopo il suo abbandono! Quella notte egli sognò che l'uomo di Fonni gli aveva portato la novella: ella era fuggita ... egli la inseguiva, la inseguiva ... attraverso una pianura coperta di chiodi ... Eccola, ella è là, all'orizzonte: fra poco egli la raggiungerà e la ucciderà; ma egli ha paura, ha paura ... perché ella non è Olì, è il mandriano passato nella viuzza mentre zia Tatàna era dal signor Carboni ... Anania corre, corre; i chiodi non lo pungono, eppure egli vorrebbe che lo pungessero ... Olì, trasformata in mandriano, canta: canta i versi del Lenau: I Masnadieri nella Taverna della landa; ecco, egli sta per raggiungerla e ucciderla, e un gelo di morte lo agghiaccia tutto ... Si svegliò coperto da un sudore freddo, mortale; il cuore non gli batteva più, ed egli scoppiò in un pianto d'angoscia violenta. Il terzo giorno Margherita, meravigliata che egli non scrivesse, lo invitò al solito convegno. Egli andò, raccontò la gita, si abbandonò alle carezze di lei come un viandante stanco si abbandona alle carezze del vento, all'ombra d'un albero, sull'orlo della via; ma non poté dire una sola parola sul cupo segreto che lo divorava. 18 settembre, ore due di notte Margherita, Sono rientrato a casa adesso, dopo aver pazzamente errato per le strade. Mi pare d'impazzire da un momento all'altro ed è anche questa paura che mi spinge a confidarti, - dopo una lunga inenarrabile indecisione, - il dolore che mi uccide. Ma voglio esser breve. Margherita, tu sai chi io sono: figlio della colpa, abbandonato da una madre più disgraziata che colpevole, io sono nato sotto un astro terribile e devo espiare delitti non miei. Inconsapevole del mio triste destino, spinto dalla fatalità, io ho trascinato con me, nell'abisso dal quale io non potrò mai uscire, la creatura che ho amato sopra tutte le creature della terra. Te, Margherita ... Perdonami, perdonami! Questo è il mio più immenso dolore, il rimorso terribile che mi strazierà per tutto il resto della vita, se pure vivrò ... Senti. Mia madre è viva: dopo una esistenza di colpe e di dolori, ella è risorta davanti a me come un fantasma. Essa è miserabile, malata, invecchiata dal dolore e dalle privazioni. Il mio dovere, tu stessa lo dici a te stessa in questo momento, è di redimerla. Ho deciso di riunirmi con lei, di lavorare per sostenerla, di sacrificare la vita stessa, se occorre, per compiere il mio dovere. Margherita, che dirti altro? Mai come in questo momento ho sentito il bisogno di aprirti tutta l'anima mia, simile ad un mare in tempesta, e mai ho sentito mancarmi le parole come mi mancano in quest'ora decisiva della mia vita. La ragione stessa mi manca; ho ancora sulle labbra il profumo dei tuoi baci e tremo di passione e di angoscia ... Margherita, Margherita, la mia vita è nelle tue mani! Abbi pietà di me ed anche di te. Sii buona come io ti ho sempre sognata! Pensa che la vita è breve, e che la sola realtà della vita è l'amore, e che nessun uomo della terra ti amerà come ti amo e ti amerò io. Non calpestare la nostra felicità per i pregiudizi umani, i pregiudizi che gli uomini invidiosi inventarono per rendersi scambievolmente infelici. Tu sei buona, sei superiore: dimmi almeno una parola di speranza per l'avvenire. Ma che dico? Io divento pazzo; perdonami, e ricordati che, qualunque cosa accada, io sarò sempre tuo per l'eternità. Scrivimi subito ... A. 19 settembre Anania, La tua lettera mi sembra un orrendo sogno. Anch'io non trovo parole per esprimermi. Vieni stanotte, alla solita ora, e decideremo assieme il nostro destino. Sono io che devo dire: la mia vita è nelle tue mani. Vieni, ti aspetto ansiosamente ... M. 19 settembre Margherita, Il tuo bigliettino mi ha gelato il cuore; sento che il mio destino è già deciso, ma un filo di speranza mi guida ancora. No, non posso venire; anche volendolo non potrei venire. Non verrò se tu non mi dirai prima una parola di speranza. Allora correrò a te per inginocchiarmi ai tuoi piedi e per ringraziarti e adorarti come una santa. Ma ora no, non posso, e non voglio. Quanto ti scrissi la notte scorsa è la mia irrevocabile decisione; scrivimi, non farmi morire in questa attesa terribile. Il tuo infelicissimo A. 19 settembre, mezzanotte Anania, Nino mio, Ti ho aspettato fino a questo momento, palpitante di dolore e di amore, ma tu non sei venuto, tu forse non verrai mai più, ed io ti scrivo, in quest'ora soave dei nostri convegni, con la morte nel cuore e le lagrime negli occhi non ancora stanchi di piangere. La luna smorta cala sul cielo velato, la notte è melanconica e quasi lugubre e mi pare che tutto il creato si rattristi per la sventura che opprime il nostro amore. Anania, perché mi hai tu ingannato? Io sapevo sì, come tu dici, quello che tu sei, e ti amai appunto perché sono superiore ai pregiudizi umani, perché volevo ricompensarti delle ingiustizie che la sorte aveva tramato a tuo danno, e sopratutto perché credevo che anche tu, anche tu fossi superiore ai pregiudizi, e avessi riposto in me, come io avevo riposto in te, tutta la tua vita. Invece mi sono ingannata; o meglio sei stato tu ad ingannarmi, tacendomi i tuoi veri sentimenti. Ho sempre creduto che tu sapessi che tua madre viveva, e dove si trovava, e la vita che conduceva; ma ero certa che tu, vilmente abbandonato da lei, non facessi più caso d'una madre snaturata, tua sventura e disonore, e la ritenessi come morta per te e per tutti ... Non solo, ma ero certa che se ella osava presentarsi a te, come pur troppo é accaduto, tu non ti saresti degnato neppure di guardarla ... E invece, invece! Invece tu ora scacci chi ti ha lungamente amato e ti amerà sempre, per sacrificare la tua vita e il tuo onore a chi ti ha abbandonato, bambino inconsapevole; a chi ti avrebbe ucciso o lasciato in un bosco, in un deserto, pur di liberarsi di te. Ma è inutile che io ti scriva queste cose, perché tu certamente le capisci meglio di me; ed è inutile che tu continui ad illudermi e ad invocare sentimenti che io non posso avere dal momento che neppure tu li hai. Perché, vedi, io capisco benissimo che tu vuoi sacrificarti non per affetto, e neppure per generosità, - perché probabilmente tu odii giustamente la donna che fu la tua rovina, - ma spinto da quei pregiudizi umani inventati dagli uomini per rendersi scambievolmente infelici. Sì, sì: tu vuoi sacrificarti per il mondo; tu vuoi rovinarti e rovinare chi ti ama, solo per la vanità di sentir dire: "hai fatto il tuo dovere!". Tu sei un fanciullo, e il tuo è un sogno pericoloso ma anche, permettimi di dirtelo, anche ridicolo. La gente, sapendolo, ti loderà, sì, ma in fondo riderà della tua semplicità. Anania, torna in te, sii buono, con te e con me, come tu dici, e sopratutto sii uomo. No, io non dico di abbandonare tua madre, debole e infelice, come essa ti ha abbandonato: no, noi l'aiuteremo, noi lavoreremo per lei, se occorre, ma che essa stia lontana da noi, che essa non venga a mettersi fra noi, a turbare la nostra vita con la sua presenza. Mai! mai! Perché dovrei ingannarti, Anania? Io non posso neppure lontanamente ammettere la possibilità di vivere assieme con lei ... Ah, no! Sarebbe una vita orrenda, una continua tragedia; meglio morire una buona volta che morire lentamente di rancore e di disgusto. Io non ho mai amato quella disgraziata; ora ne sento pietà, ma non posso amarla; e ti scongiuro di non insistere nel tuo pazzo progetto, se non vuoi farmela nuovamente odiare mille volte più di prima. Questa la mia ultima decisione; sì, aiutarla, ma tenerla lontana, che io non la veda mai, che possibilmente il mondo dove vivremo noi ignori che ella esiste. Pensa che anche lei, forse, sarà più contenta di vivere lontana da te, la cui presenza le causerebbe un continuo rimorso. Tu dici che é invecchiata dal dolore, dalle privazioni, miserabile e malata; ma di chi la colpa se non sua? Per te, ed anche per lei, è meglio che ella si trovi in quello stato; così cesserà di vagabondare, e, non ti disonorerà più; ma che ella, dopo averti oltraggiato quando era sana e giovane, non si faccia un'arma della miseria e della debolezza per richiedere il sacrifizio della tua felicità! ... Ah, questo no, non devi permetterlo mai! No, non è possibile che tu compia una aberrazione fatale! A meno che tu non mi ami più e colga l'occasione per ... Ma no, no, no! Neppure voglio dubitare di te, della tua lealtà e del tuo amore! Anania, ritorna in te, ti ripeto, non essere malvagio e crudele con me, che ti diedi tutti i miei sogni, tutta la mia giovinezza, tutto il mio avvenire, mentre vuoi essere generoso verso chi ti ha odiato e rovinato. Abbi pietà ... vedi ... io piango, io ti imploro, anche per te, che vorrei veder felice come sempre sognai ... Ricordati tutto il nostro amore, il nostro primo bacio, i giuramenti, i sogni, i progetti, tutto, tutto ricorda! Fa che tutto non si risolva in un pugno di cenere; fa che io non muoia di dolore; fa che tu stesso non abbi a pentirti del tuo pazzo procedere. Se non vuoi dar retta ai miei consigli interroga persone serie, persone di Dio, e vedrai che tutti ti diranno qual è il tuo vero dovere, che tutti ti diranno di non essere ingrato, né malvagio. Ricorda, Anania, ricorda! Anche ieri notte mi dicevi che dalla vetta del Gennargentu gridasti il tuo amore, proclamandolo eterno. Dunque mentivi; anche ieri notte mentivi? E perché? ... Perché mi tratti così! Che ho fatto io per meritarmi tanto dolore? Possibile che tu non ricordi come ti ho sempre amato? Ricordi una sera che io stavo alla finestra e tu mi buttasti un fiore, dopo averlo baciato? Io conservo quel fiore per ornarne il mio vestito da sposa; e dico conservo perché son certa che tu sarai il mio sposo diletto, che tu non vorrai far morire la tua Margherita (e il tuo sonetto lo ricordi?), che saremo tanto felici, nella nostra casetta, soli soli col nostro amore ed il nostro dovere. Sono io che aspetto da te, subito, una parola di speranza. Dimmi che tutto fu un sogno tormentoso; dimmi che la ragione è ritornata in te, e che ti penti d'avermi fatto soffrire. Domani notte, o meglio stanotte, perché è già passata la una, ti aspetto; non mancare; vieni, adorato, vieni, diletto mio, mio amato sposo, vieni: io ti aspetterò come il fiore aspetta la rugiada dopo una giornata di sole ardente; vieni, fammi rivivere, fammi dimenticare; vieni, adorato, le mie labbra, ora bagnate d'amaro pianto, si poseranno sulla tua bocca amata come ... «No! no! no!», disse convulso Anania, torcendo la lettera senza leggerne le ultime righe. «Non verrò! Sei vile, vile, vile! Morrò ma non mi vedrai mai più.» Coi fogli stretti nel pugno si gettò sul letto, e nascose il viso sul guanciale, mordendolo, comprimendo i singhiozzi che gli gonfiavano la gola. Un fremito di passione lo percorreva tutto, dai piedi alla nuca; le invocazioni di Margherita gli davano un desiderio cupo dei baci di lei, e a lungo lottò acerbamente contro il folle bisogno di rileggere la lettera sino in fondo. Ma a poco a poco riprese coscienza di sé e di ciò che provava. Gli parve di aver veduto Margherita nuda, e di sentire per lei un amore delirante e un disgusto così profondo che annientava lo stesso amore. Come ella era vile! Vile sino alla spudoratezza. Vile e coscientemente vile. La Dea ammantata di maestà e di bontà aveva sciolto i suoi veli aurei ed appariva ignuda, impastata d'egoismo e di crudeltà; la Minerva taciturna apriva le labbra per bestemmiare; il simbolo s'apriva, si spaccava come un frutto, roseo al di fuori, nero e velenoso all'interno. Ella era la Donna, completa, con tutte le sue feroci astuzie. Ma il maggior tormento di Anania era il pensare che ella indovinava i suoi più segreti sentimenti e che aveva ragione: sopratutto ragione di rimproverargli l'inganno usatole, e di pretendere da lui il compimento dei suoi doveri di gratitudine e d'amore. «È finita!», pensò. «Doveva finire così.» Si rialzò e rilesse la lettera: ogni parola lo offendeva, lo disgustava e lo umiliava. Margherita dunque lo aveva amato per compassione, pur credendolo vile come era vile lei. Ella forse aveva sperato di farsi di lui un servo compiacente, un marito umile; o forse non aveva pensato a nulla di tutto questo; ma lo aveva amato solo per istinto, perché era stato il primo a baciarla, il solo a parlarle d'amore. «Ella non ha anima!», pensò il disgraziato. «Quando io deliravo, quando io salivo alle stelle e mi esaltavo per sentimenti sovrumani, ella taceva perché nella sua anima era il vuoto, ed io adoravo il suo silenzio che mi sembrava divino; ella ha parlato solo quando si destarono i suoi sensi, e parla ora che la minaccia il pericolo volgare del mio abbandono. Non ha anima né cuore. Non una parola di pietà: non il pudore di mascherare almeno il suo egoismo. Eppoi come è astuta! La sua lettera è copiata e ricopiata, sebbene riveli la grossolana ignoranza di lei: quanti "che", ci sono! Mi sembrano martelli, pronti a fracassarmi il cranio. Le ultime righe, poi, sono un capolavoro ... ella sapeva già, prima di scriverle, l'effetto che dovevano produrre ... ella è più vecchia di me ... ella mi conosce perfettamente, mentre io comincio appena adesso a conoscerla ... ella vuole attirarmi al convegno perché è sicura che se io ci vado mi inebrio e divento vile ... Inganno! inganno! inganno! Come la disprezzo ora! Non una parola buona, non uno slancio generoso, niente, niente! Ah, che rabbia!» (torse di nuovo la lettera) «Vi odio tutti; vi odierò sempre! Voglio essere cattivo anch'io; voglio farvi soffrire, schiantare, morire ... Cominciamo!» Prese il sacchettino ancora avvolto nel fazzoletto di colore, e poco dopo lo mandò a zia Grathia. «Tutto è finito!», ripeteva ogni momento. E gli pareva di camminare nel vuoto, fra nuvole fredde, come sul Gennargentu; ma adesso invano guardava sotto, intorno a sé: non via di scampo; tutto nebbia, vertigine, orrore. Durante la giornata pensò cento volte al suicidio; s'informò se poteva presentarsi subito agli esami per maestro elementare o per segretario comunale; andò nella bettola e presa fra le braccia la bella Agata (già fidanzata con Antonino), la baciò sulle labbra. Turbini di odio e di amore per Margherita gli attraversavano l'anima; più rileggeva la lettera più ella gli sembrava perfida; più sentiva d'allontanarsele più l'amava e la desiderava. Baciando Agata ricordava l'impressione violenta che il bacio della bella paesana gli aveva destato un giorno; anche allora Margherita era tanto lontana da lui, un mondo di poesia e di mistero li divideva; e questo stesso mondo, crollato, li divideva ancora. «Che hai?», gli chiese Agata, lasciandosi baciare. «Vi siete bisticciati, con lei? Perché mi baci?» «Perché mi piaci ... Perché sei puzzolente ... » «Tu hai bevuto», diss'ella, ridendo. «Se ti piacciono le donne così, puoi andare da Rebecca ... Se però Margherita viene a saperlo!» «Taci!», diss'egli, adirandosi. «Non pronunziar neppure il suo nome ... » «Perché?», chiese Agata, freddamente maligna. «Non diverrà mia cognata? È forse diversa da noi? È una donna come noi. Perché noi siamo povere? Chissà poi se anch'ella sarà ricca! Se fosse stata certa di ciò, forse ti avrebbe tenuto sempre a bada finché trovava un partito migliore di te!» «Se non la finisci ti batto ... », diss'egli furibondo. Ma l'insinuazione di Agata accrebbe i suoi sentimenti: oramai egli riteneva Margherita capace di tutto. Verso sera si mise a letto, con la febbre, deciso a non alzarsi, l'indomani, affinché Margherita venisse a sapere ch'egli era malato, e ne soffrisse. Giunse ad immaginarsi una segreta visita di lei; e pensando alla scena che ne sarebbe seguita, tremava di dolcezza. Ma ad un tratto questo sogno gli apparve qual era, puerilmente sentimentale, e ne provò vergogna. Si alzò ed uscì. Alla solita ora si trovò davanti al portone di Margherita. Ella stessa aprì. Si abbracciarono e si misero entrambi a piangere; ma appena Margherita cominciò a parlare, egli sentì un invincibile disgusto per lei, poi un senso di gelo. No, egli non l'amava più, non la desiderava più. Si alzò e andò via senza pronunziar parola. Giunto in fondo alla strada tornò indietro, s'appoggiò al portone e chiamò: «Margherita!». Ma il portone rimase chiuso.

La luna nuova calava illuminando fantasticamente le coste e la roccia enorme di Capo Figari, sentinella ciclopica vigilante il melanconico sonno dell'isola abbandonata. Addio, addio, terra d'esilio e di sogni! Anania rimase immobile, appoggiato al parapetto del piroscafo, finché l'ultima visione di Capo Figari e delle isolette, sorgenti azzurre dalle onde come nuvole pietrificate, svanirono tra i vapori dell'orizzonte; poi sedette sulla panchina, battendosi dispettosamente un pugno sulla fronte per ricacciar dentro le lagrime che gli velavano gli occhi; e rimase lì, pallido e sconvolto, intirizzito dalla brezza umida, finché vide la luna, rossa come un ferro rovente, calare in una lontananza sanguigna. Finalmente si ritirò, ma tardò ad assopirsi; gli pareva che il suo corpo s'allungasse e si restringesse incessantemente, e che una interminabile fila di carri passasse sopra il suo petto indolenzito; i più tristi ricordi della sua vita gli tornarono in mente: gli sembrava di udire, nello scroscio delle acque frante dal piroscafo, il rumore del vento sopra la casetta della vedova, a Fonni ... Oh, come, come la vita era triste, inutile e vana! Che cosa era la vita? Perché vivere? Così, tristemente, si assopì; ma svegliandosi si sentì un altro, agile, forte, felice. Si era addormentato in un tetro paese di dolore, fra onde livide vigilate da una luna sanguigna: si svegliava in mezzo ad un paese d'oro, in un paese di luce, - vicino a Roma. «Roma!», pensò, palpitando di gioia. «Roma, Roma! Patria eterna, abisso d'ogni male e fonte d'ogni bene!» Gli pareva di poterla abbracciare tutta, di muovere alla conquista del mondo intero. Già a Civitavecchia, attraversando la città umida e nera sotto il cielo mattutino, tutto gli sembrava bello, e diceva allo studente Daga: «Vedi, mi par d'essere nel vestibolo d'una grotta marina meravigliosa». Il Daga, che aveva già vissuto un anno a Roma, sorrideva beffardo, invidiando l'entusiasmo enfatico del suo compagno. L'arrivo rombante del diretto diede al giovane provinciale sardo un senso di terrore, la prima impressione vertiginosa d'una civiltà quasi violenta e distruggitrice. Gli parve che il mostro dagli occhi rossi lo portasse via, come il vento porta la foglia, lanciandolo nel turbine della vita. A Roma i due studenti andarono ad abitare al terzo piano di una casa in Piazza della Consolazione, presso una vedova, madre di due graziose ragazze telegrafiste, maestre, dattilografe, civette. I due studenti dormivano nella stessa camera, vasta, ma poco allegra, divisa da una specie di paravento formato con una coperta gialla; la loro finestra guardava su un cortile interno. La prima volta che Anania guardò da quella finestra provò un senso disperato di sgomento. Non vedeva che muri altissimi, d'un giallo sporco, bucati da lunghe finestre irregolari, e panni miseri, d'un candore equivoco, appesi a fili di ferro; uno di questi fili, con anelli scorrevoli, dai quali pendevano laccetti di spago attorcigliati, passava davanti alla finestra degli studenti. Mentre Anania guardava con disperata tristezza i muri perdentisi sul pallido cielo della sera, Battista Daga scosse il filo e cominciò a ridere: «Guarda, Anninia, guarda come gli anelli e i laccetti di spago ballano. Sembrano vivi. Così è la vita: un filo di ferro attraverso un cortile sporco: gli uomini si agitano, sospesi sopra un abisso di miserie». «Non rompermi le scatole», disse Anania, «sono abbastanza melanconico! Usciamo, mi par di soffocare.» Uscivano, camminavano, si stancavano, storditi dal rumore delle carrozze e dallo splendore dei lumi, dal passaggio violento e dal rauco urlo delle automobili. Anania si sentiva triste, tra la folla; gli pareva d'essere solo in un deserto, e pensava che se si fosse sentito male e avesse gridato nessuno lo avrebbe udito e soccorso. Ricordava Cagliari con nostalgia struggente; oh, balcone incantato, orizzonte marino, dolce occhio di Venere! qui non esistevano più né stelle, né luna, né orizzonte: solo un disgustoso ammasso di pietre, un pullulamento di uomini che allo studente barbaricino parevano d'una razza diversa e inferiore alla sua. Veduta attraverso lo sbalordimento, la stanchezza dei primi giorni, la suggestione melanconica del buio appartamentino di Piazza della Consolazione, Roma gli dava una tristezza quasi morbosa; nella città vecchia, dalle vie strette, dalle botteghe puzzolenti, dagli interni miserabili, dalle porte che parevano bocche di caverne, dalle scalette che sembrava si perdessero in un tenebroso luogo di dolore, egli ricordava i più miseri villaggi sardi; nella Roma nuova si sentiva smarrito, tutto gli appariva grande, le strade tracciate dai giganti per giganti, le case montagne, le piazze tancas sarde; anche il cielo era troppo alto e troppo profondo. Anche all'Università, dove egli cominciò a frequentare assiduamente i corsi di Diritto civile e penale e le lezioni di Enrico Ferri, lo aspettava una delusione. Gli studenti non facevano altro che rumoreggiare e ridere e beffarsi di tutto. Pareva si beffassero della vita stessa. Specialmente nell'aula IV, mentre si aspettava il Ferri, il chiasso e il divertimento oltrepassavano il limite; qualche studente saliva sulla cattedra e cominciava una parodia di lezione accolta da urli, fischi, applausi, grida di «Viva il Papa», «Viva Sant'Alfonso de' Liguori», «Viva Pio IX». Qualche volta lo studente, dalla cattedra, con una faccia tosta indescrivibile imitava il miagolar del gatto o il canto del gallo. Allora le grida e i fischi raddoppiavano; venivano lanciate pallottole di carta, pennine, fiammiferi accesi, finché l'arrivo del professore, accolto da applausi assordanti, metteva fine alla scena. Anania si sentiva solo, triste fra tanta gioia, e gli sembrava di appartenere ad un mondo diverso da quello ove era costretto a vivere. Solo quando il professore cominciava a parlare, egli provava una commozione profonda, quasi un senso di gioia. Fantasmi di delinquenti, di suicidi, di donne perdute, di maniaci, di parricidi, passavano, evocati dalla voce possente del professore, davanti al pensiero turbato di Anania. E fra tante figure egli ne distingueva una, che passava e ripassava davanti a lui, ad occhi bassi. Ma invece di fissarla con orrore egli la guardava con pietà, col desiderio di stenderle la mano. Una sera lui e il Daga attraversavano Via Nazionale: lo splendore delle lampade elettriche si fondeva col chiarore della luna: le finestre del palazzo della Banca erano tutte vivamente illuminate. «Sembra, che tutto l'oro racchiuso nella Banca brilli attraverso le finestre», disse Anania. «Ma bbraaavooo! Si vede che la mia compagnia ti dirozza.» «Sono più che mai romantico stasera. Andiamo al Colosseo!» Andarono. Si aggirarono a lungo nel divino mistero del luogo, guardando la luna attraverso ogni arco; poi sedettero su una colonna lucente e sospirarono entrambi. «Io sento una gioia simile al dolore,» disse Anania. Il Daga non rispose, ma dopo un lungo silenzio disse: «Mi sembra d'essere nella luna. Non ti pare che nella luna si debba provare ciò che si prova qui, in questo gran mondo morto?». «Sì», disse Anania, con voce flebile. «Questa è Roma.» Al ritorno passarono ancora per Via Nazionale. Chiacchieravano in dialetto. Era tardi, e su e giù, attraverso i marciapiedi quasi deserti vagavano molte farfalle notturne, così le chiamava il Daga. A un tratto una di esse passò accanto a loro e li salutò in dialetto sardo. «Bonas tardas, pizzoccheddos!» Era alta, bruna, con grandi occhi cerchiati: la luce elettrica dava al suo piccolo viso, emergente dal collo di pelo d'un soprabito chiaro, un pallore cadaverico. Come a Cagliari, la sera in cui Rosa e la compagna lo avevano fermato, Anania sussultò, preso da un senso d'orrore, e trascinò via il Daga che rispondeva insolentemente alla donna. Era lei? Poteva esser lei? Era una sarda ... poteva esser lei! II. Sdraiato sul suo lettuccio, dopo ore ed ore di amarezza, di dubbio, di opprimente melanconia, egli pensava: «È inutile illudermi: non sono pazzo, no; ma non posso più vivere così; bisogna ch'io sappia ... Oh, fosse morta! fosse morta! Bisogna che io cerchi. Non sono venuto a Roma per questo? Domani! domani! Dal giorno che arrivai ripeto questa parola, e l'indomani arriva ed io non faccio niente. Ma che posso fare? Dove devo andare? E se la trovo?». Ah, era di questo che egli aveva paura. Non voleva neppur pensare a quanto poteva accadere dopo ... Improvvisamente si domandò: «E se mi confidassi col Daga? Se io ora gli dicessi: "Battista, devo uscire, devo recarmi in questura per chiedere informazioni ... ". Ah, non ne posso più! Sono tanti e tanti anni che io trascino con me questo peso: ora vorrei liberarmene, gettarlo via come si getta un carico opprimente ... liberarmene, respirare ... Bisogna snidarlo questo verme roditore. Mi diranno che sono uno stupido, mi convinceranno che lo sono, mi diranno di smettere ... Ebbene, tanto meglio se mi convinceranno ... Che giornata triste! Il cielo si abbassa ... si abbassa sempre più ... Avrei sonno? Bisogna ch'io vada subito». Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là del paravento. «Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non esci?» «No.» «Mi presti il tuo ombrello?» Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo orribile, ma il Daga disse: «Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?» Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò: «Devo andare in questura ... ». E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto ... Ecco, egli palpitava già pensando come cominciare ... Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese: «Vai a far arrestare la pioggia?». Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a se stesso. S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita. «Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando. Egli non rispose. Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa. Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore. Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita. «Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d'un delitto ... » Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, e pensò: «Se mi suicidassi?», Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo invitò ad uscire. Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano. Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto, andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato. «Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò Anania. «Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza. «Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è soggetto.» «Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.» «Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male ... » «E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.» «Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada: «Voglio prendere ... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una persona ... Devo andare in questura». Il compagno lo seguì, curioso. «Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?» Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga dichiarò che non sarebbe andato oltre. «Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi ... » Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla gradinata della chiesa. «Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili. Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura. III. Sì, come si legge nelle vecchie storie romantiche, il dado era gettato. La questura, dopo la domanda e le indicazioni di Anania, fece ricerca di Rosalia Derios, e verso la fine di marzo informò lo studente che al numero tale di Via del Seminario, all'ultimo piano, abitava una donna sarda, affitta-camere, il cui passato e i connotati corrispondevano a quelli di Olì. Questa signora si chiamava, o si faceva chiamare, Maria Obinu, nativa di Nuoro. Abitava in Roma da quattordici anni, e nei primi tempi aveva vissuto un po' irregolarmente. Da qualche anno, però, menava vita onesta - almeno in apparenza - affittando camere mobiliate e facendo pensione. Anania non si commosse troppo nel ricevere queste informazioni. I connotati combinavano; egli non ricordava precisamente la fisonomia di sua madre, ma ricordava che ella era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari: e la Obinu era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari. Inoltre egli sapeva che a Nuoro non esisteva alcuna famiglia Obinu, e che nessuna donna nuorese viveva e affittava camere a Roma. Evidentemente quindi la Obinu falsava il suo nome e la sua origine ... Tuttavia egli sentì che la donna indicatagli dalla questura non era, non poteva essere sua madre; questa non viveva a Roma dal momento che la questura non riusciva a scoprirla. Dopo giorni e mesi di attesa e di ansia, egli provò come un senso di liberazione. La primavera penetrava anche nel cortile melanconico di Piazza della Consolazione, in quell'enorme pozzo giallo esalante odori di vivande, animato dal canto delle serve e dal gorgheggio dei canarini prigionieri. L'aria era tiepida e dolce; sul cielo azzurro passavano nuvolette rosee, e il vento portava fragranze di rose e di viole. Affacciato alla finestra, Anania si abbandonava ai suoi sogni nostalgici. L'odore delle viole, le nuvole rosee, il tepore della primavera, tutto gli ricordava la terra natìa, i vasti orizzonti, le nuvole che dalla finestra della sua cameretta egli vedeva affacciarsi o tramontare fra gli elci dell'Orthobene. Poi ricordava la pineta di monte Urpino, il silenzio delle cime coperte d'asfodeli e di iris violette, il mistero dei viali vigilati dal puro sguardo delle stelle. E la figura diletta di Margherita dominava i freschi paesaggi natii, circondata di asfodeli e di gigli selvatici, coi capelli di rame sfumati nel fulgore del cielo metallico. La primavera romana non lo commoveva che per le rimembranze: gli sembrava una primavera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie, ferme sull'orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, - tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l'idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava. La primavera palpitava al di là dell'orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d'erbe alte aromatiche, e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotto le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all'ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l'anima sarda. Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s'immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose. Le idee venivano e passavano nella sua mente, - così come le persone passano per la via; lo interessavano per un attimo, ma non si fermavano ed egli le dimenticava subito. Più che mai amava la solitudine; e persino la presenza del compagno lo irritava, anche perché il Daga lo derideva continuamente. «Noi vediamo la vita sotto aspetti ben diversi», gli diceva, «cioè io la vedo e tu non la vedi. Io sono miope e vedo, attraverso lenti fortissime, le cose e le umane vicende, nitidamente, rimpicciolite; tu sei miope e non possiedi neppure un paio d'occhiali.» Talvolta infatti pareva ad Anania di aver un velo davanti agli occhi; egli viveva di diffidenza e di dolore. Anche la sua passione per Margherita, in fondo, era composta di tristezza e di paura. Un giorno, agli ultimi di maggio, egli sorprese il compagno stretto in tenero amplesso con la maggiore delle padroncine. «Sei un bruto», gli disse con disprezzo. «Non amoreggi anche con l'altra sorella? Perché ti burli di entrambe?» «Scusami, stupido: son loro che vengono a buttarmisi fra le braccia, le posso respingere?», chiese cinicamente il Daga. «Poiché il mondo è diventato un gambero, profittiamone. Ora son le donne che seducono gli uomini; ed io sarei più stupido di te se non mi lasciassi sedurre ... fino ad un certo punto ... » «Ma perché certe cose non accadono che a certi tipi? A me no, per esempio.» «Perché agli asini non può succedere ciò che succede agli uomini: eppoi le nostre soavi padroncine hanno, in fondo, l'onesto desiderio di trovarsi un marito e sanno che tu sei fidanzato.» «Io fidanzato? ... », gridò Anania, «chi lo ha detto?» «Chi lo sa? E di una Margherita, anche, che questa volta, meno male, va gettata ante asinos.» «Ti proibisco di ripetere quel nome!», proruppe Anania, andando addosso al Daga. «Capisci, te lo proibisco!» «Abbassa le dita, ché mi cavi gli occhi! Il tuo amore è feroce!» Fremente di collera Anania si mise a impacchettare i suoi libri e le sue carte. «Ah», diceva, a denti stretti, «me ne vado subito, subito. Io non so vivere fra gente curiosa e volgare.» «Addio, dunque!», disse Battista, gettandosi sul letto. «Ricordati almeno che nei primi giorni che siamo giunti, se non c'ero io rimanevi vilmente schiacciato da una carrozza.» Anania uscì, col cuore gonfio di fiele: si diresse automaticamente verso il Corso, e quasi senza avvedersene si trovò in Via del Seminario. Era un pomeriggio ardente; lo scirocco sbatteva le tende dei negozi: l'aria odorava di vernici, di droghe e di vivande. Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In Via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente: «Corvi!», A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all'ultimo piano e suonò. Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei. «La signora Obinu?» «Sono io», rispose la donna con voce grave, «No», egli pensò, «non è lei; non è la sua voce.» Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere. «Vorrei una camera; io sono sardo, studente», disse, esaminando la donna da capo a piedi. Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un'aria graziosa. «Lei è sardo? Ho piacere ... », rispose disinvolta. «Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire ... » Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d'oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d'acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre. «Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un'altra, fosse anche un buco? ... » Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo. «È un ricordo di mio padre, che era cacciatore», disse la donna, sorridendo con bontà. «È di Nuoro, lei?» «Sì, ma sono nata là per caso.» «Anch'io sono nato per caso nel villaggio di Fonni», egli disse, guardandola in viso. «Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.» Ella non batté palpebra. «No, non è lei!», egli pensò, e si sentì felice. «Per questi quindici giorni le darò la mia camera», disse finalmente la Obinu, cedendo alle insistenze di lui, ed egli accettò. La cameretta pareva la cella d'una monaca; il lettino candido, odorante di spigo, ricordava i semplici giacigli di certe patriarcali abitazioni sarde. E come in quelle abitazioni, Maria Obinu aveva appeso lungo le pareti grigie della sua camera una fila di quadretti e di immagini sacre; tre ceri, poi, e tre crocefissi, un ramo d'olivo e un rosario che pareva di confetti, pendevano in capo al letto; in un angolo ardeva una lampadina davanti ad una immagine dove le Sante Anime del Purgatorio, tinte di livido da un lapis turchino, pregavano tra fiamme insanguinate da un lapis rosso. Anania prese possesso della camera, e ben presto fu riassalito dai suoi dubbi. Perché la Obinu gli cedeva la sua camera? perché si mostrava così premurosa con lui? Mentre egli metteva a posto i suoi libri, Maria bussò e, senza avanzare, gli domandò se desiderava che la lampadina delle «Sante Anime» venisse spenta. «No», egli rispose con voce forte, «venga avanti, anzi, che le faccio vedere una cosa.» Ella entrò, pallida, sorridente; pareva avesse sempre conosciuto il suo inquilino e gli volesse bene. Egli teneva fra le mani uno strano oggetto, un sacchettino di stoffa unta, attaccato ad una catenina annerita dal tempo. Disse, mettendosi l'amuleto al collo: «Veda, anche io sono devoto, questa è la ricetta di San Giovanni, che allontana le tentazioni.» La donna guardava. Improvvisamente cessò di sorridere, ed Anania sentì il suo cuore battere forte. «Lei non crede a queste cose?», domandò Maria. «Ebbene, se non ci crede, almeno non se ne burli. Sono cose sacrosante.» Steso sul lettino odorante di spigo, Anania pensava continuamente al suo segreto. ... E se Maria Obinu era Olì? Se era lei? Così vicina e così lontana! qual filo misterioso lo aveva condotto fino a lei, fino al guanciale su cui ella doveva qualche volta piangere ricordando il figliuolo abbandonato? Che strana cosa la vita! Egli era dunque giunto così al suo destino, solo per forza di una volontà misteriosa che lo aveva guidato quasi a sua insaputa. Ma non era pazzo, dunque? Che sciocchezze, che puerilità! No, non era lei, non poteva esser lei. Ma se lo era? Se ella già sapeva di essere vicina a suo figlio, mentre egli si dibatteva nel dubbio? No, non poteva essere lei. Una madre non può non tradirsi, non può non gridare nel rivedere suo figlio. Era assurdo. - Sciocchezze, idee convenzionali. Una donna sa dominarsi anche tra le più violente emozioni. Essa, poi, che aveva abbandonato e buttato via la sua creatura! Appunto per questo doveva tradirsi, gridare, sussultare. Una madre è sempre una madre. Eppoi Olì, una selvaggia, una semplice figlia della natura, non poteva aver assimilato la perfidia delle donne di città, tanto da fingere come una commediante, da sapersi dominare così! Impossibile. Era assurdo, Maria Obinu era Maria Obinu, simpatica donna, mite e incosciente, che aveva avuto la fortuna, più che la forza, di emendarsi. Non poteva esser lei. Ma intanto egli ricordava la prima notte passata a Nuoro e il bacio furtivo di suo padre, e di momento in momento aspettava che l'uscio s'aprisse, e un'ombra si avanzasse, nel chiarore della lampadina, e un bacio rivelatore gli sfiorasse la fronte! ... «E se ciò fosse ... che farei io?» si chiedeva trepidando. I rumori della città si affievolivano, s'allontanavano, quasi ritirandosi anch'essi, stanchi, verso un luogo di riposo. Anania sentì rientrare i tardivi inquilini, poi tutto fu silenzio, nella casa, nella via, nella città. Ed egli vegliava ancora! Ah, forse quella lampadina? ... «Ora la spengo ... » Si alzò. Un rumore, un fruscio ... È l'uscio che si apre? Oh, Dio! Egli si gettò nuovamente sul letto, chiuse gli occhi e attese. Il cuore e la gola gli pulsavano febbrilmente. Ma l'uscio rimase chiuso, ed egli si calmò e rise di sé. Però non spense la lampadina.

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