Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Il Signore non mi ascolta piú, il Signore mi ha abbandonata. - No, no, povero angelo, non dir cosi. - proruppe la di Breno, compassionandola, e sorpresa in fondo all'animo di dover fare verso una tal donna la parte di madre consolatrice. - Tu hai troppi meriti, perché il Signore ti debba abbandonare. Sono tribolazioni che ti manda per provare la tua virtú. Vedo tutta la gravità del caso e trovo che non c'è tempo da perdere. È necessario, assolutamente necessario, evitare questo scandalo, che darebbe i nostri nomi in bocca ai framassoni, che non aspettano che un pretesto per dar fuoco alle mine. Lodovico dice che quest'anno la lotta amministrativa sarà combattuta con accanimento, perché il governo, che è tutto nelle mani dei progressisti, vuol rompere la crosta clericale e moderata e sbarazzare il terreno per le prossime elezioni politiche. Converrà quindi fare un concentramento di forze dei vari partiti conservatori controla falange abissina dei sovvertitori, dei radicali, dei massoni, dei socialisti, e di tutti quelli che amano pescar nel torbido. Siamo dunque interessati a difenderci e a riparare i punti deboli della fortezza. Vuoi che io ne parli a Lodovico? Può essere che colla sua influenza morale arrivi a tempo a scongiurare il pericolo. E se vedrò il tuo Giacinto, gli farò una predica coi fiocchi. Noblesse oblige, specialmente lui, che può contare sublimi trionfi. Ragazzacci! - aggiunse, aggrottando le ciglia la bella magra, come se indagasse un mistero: - È un'altra conseguenza di questo sordido sport, che hanno messo di moda. On s'encanaille, ecco! Rimasero d'accordo che Fulvia, senza mettere fuori per il momento i nomi, avrebbe sottoposto il problema alla saggezza politica di don Lodovico, che in questo giuoco di elezioni e di partiti politici aveva sul banco la sua persona e la sua candidatura. L'esperienza insegna che in politica bisogna giovarsi specialmente dei peccati degli altri; e sarebbe stata una bella sorpresa che per il capriccio di un giovinotto ubbriaco fosse andato sommerso il lavoro paziente di dieci o dodici anni di candidatura incontrastata. La di Breno, che, non avendo figliuoli, amava anche lei, alla sua maniera alquanto nervosa, la politica, che le permetteva di passar l'inverno a Roma, non era donna da dormire in pace su questo peccato di Giacinto come aveva dormito sempre sui suoi.

Poteva ella passare il giorno di Natale come una prigioniera in casa altrui, senza aver nessuna notizia de' suoi, nella cupa tristezza di chi si sente abbandonata? Dopo aver risposto, come gli altri giorni, al rosario della servitù nella grande cucina, verso le nove e mezzo accompagnò di sopra donn'Adelasia, portò l'acqua nella camera di donna Gesumina, dette e ricevette la buona notte, ridiscese in cucina a provvedersi d'un mazzetto di zolfanelli, si assicurò che la chiave dell'uscio fosse attaccata al suo chiodo. Finalmente, quando le parve che tutti fossero ritirati nelle loro stanze, calzò le scarpe di vitello sopra un paio di calze pulite, indossò un giubbetto di lana e il vestito piú pesante della festa, intascò la corona del rosario, il suo libretto di preghiere, una collana di granata e il borsellino con tutto il denaro regalato dalla contessa, si ravviò i capelli, si affaccendò piú che non abbisognasse a mettere in bell'ordine il letto, le sedie, il telaio dei ricami, il cestello delle sete e dei gomitoli, in modo che le signore avessero a ritrovare tutto a posto. Quando ebbe finito, sentí sonar le undici. Aveva ancora un'ora da aspettare. Spense il lume, s'inginocchiò a fianco del letto, si dispose a raccogliere la mente in qualche preghiera: ma l'anima non suggeriva nulla, come se la coscienza fosse già partita. Rimase però sempre in ginocchio, colla testa sprofondata nelle coltri in atto di pregare, perché il Signore e la Madonna vedessero il suo stato e l'aiutassero in questo passo. E intanto cercava di riandare nella mente la traccia della strada che avrebbe dovuto battere per arrivare alle Fornaci. Fino alla Madonnina della Noce la conduceva la solita strada del molino; al di là passa la grossa strada provinciale, nè poteva sbagliare se camminava sempre verso i monti. Rifacendo i conti a memoria, calcolò che, se la carrozza della contessa aveva impiegato meno di due ore a venire dal Ronchetto alla Madonnina, questo voleva dire che, partendo a mezzanotte e camminando sempre, lei avrebbe potuto essere alle Fornaci sul far del giorno. Se anche non ci fosse stato Giacomo, la zia Santina non l'avrebbe lasciata morir di freddo sulla strada, no povera zia, cosí buona! E forse anche la Lisa non avrebbe avuto il coraggio d'incrudelire contro una disgraziata. Le stesse bruscherie gelose della invidiosa cugina sarebbero state quasi una musica per le sue orecchie, quando avesse potuto ríposare nel pensiero d'essere nella casa de' suoi parenti. Del resto, facessero pur di lei quel conto, che si può fare di una poveretta senza meriti e senza diritti; la tenessero pure in casa come l'ultima delle serve, avrebbe lavorato per tutti, senza piú alzare gli occhi in faccia a nessuno; ma non dovevano permettere che queste signore la facessero chiudere in un ospizio, forse in compagnia di cattive traviate, o che la mandassero lontano, in paesi sconosciuti, tragente brutale, senza timor di Dio, che l'avrebbero forse maltrattata, o fatta morire a tradimento. Abbandonandosi senza ritegno alla corrente dei pensieri, che nel silenzio e nell'ombra della notte risonavano nel suo capo in una specie di gorgo, correva a immaginare colla fantasia sconvolta le piú terribili insidie da parte di questi signori, che temevano in lei un parlante testimonio dei loro peccati, e che avrebbero avuto della sua morte un sollievo immenso. Che cosa vale la vita d'una ragazza, che nessuno conosce, che nessuno difende? Se non ci sono piú nei palazzi i trabocchetti, dove una volta si facevano sparire le persone, non mancavano ai signori altri trabocchetti di ogni sorta per sopraffare i poveri. Non l'aveva forse la contessa intronata di parole e di promesse per metterla nelle mani di queste vecchie, che ora volevano seppellirla viva in un ospizio? Da questi pensieri, in mezzo ai quali errava la sua immaginazione sgomentata, fu tolta dal fragore del carro, che il Pasqua stava allestendo nella corte per la partenza. Si mosse, fece due volte il segno della santa croce, si alzò, trangugiò un mezzo bicchier d'acqua per sciogliere l'amarezza della bocca, avvolse le spalle e la testa in uno scialle bigio di lana, prese da di sotto il letto l'involto, che vi aveva preparato; e, dopo aver soffiato sulla candela, si mosse per uscire. Allo sparire del lume, la finestra si disegnò nella luce umile della luna, che dal mezzo di un cielo rigido, solcato da leggerissime ale di nuvole bianche, incombeva sulla campagna immersa nella neve. Celestina fu assalita da un panico immenso. Per poco il cuore ricusò d'obbedire alla volontà, che fin allora aveva comandato con tanta forza. La sua energia oscillò un breve istante in uno di quei dubbi dolorosi e tremendi, da cui, come dal fulcro d'una bilancia delicatissima, dipende spesso il male e il bene di tutta una vita. A sospingerla sottentrò la riflessione che per lei non vi poteva essere un male che fosse peggiore del perdere per sempre il suo Giacomo e del lasciarsi seppellir viva; e che ogni passo, in qualunque senso si faccia, per uscir dalle braci, non può essere un passo perduto. Spinse l'uscio e stette ad ascoltare ancora un momento sul pianerottolo. Quando fu persuasa che dormivano tutti, scese al buio la piccola scala di servizio, tenendosi attaccata alla parete. Guidata dal chiarore, che entrava da una mezza finestra, raggiunse l'uscio di cucina, cercò, palpando, la chiave, l'infilò nella toppa, provando al rumore che fece nel girare, quasi uno scricchiolamento in tutte le ossa; stette a sentire se alcuno dava segno di vita: e coperta dal rumore che facevan di fuori nel caricare, uscí nel cortile. Il Pasqua finiva d'attaccare il mulo, aiutato dal suo ragazzetto, che rischiarava con una lampadina la stalla. Affogato in un ferraiolo di schiavina, col cappuccio calato sulla testa, il vecchio cavallante lasciò qualche ordine al figliuolo, che si curvò ad accendere la lanterna a vento sotto la traversa del carro. Una luce giallognola e oleosa si sparse sul biancore lucente della neve e proiettò l'ombra incappucciata del vecchio, ingrandita come quella di un gigante delle tenebre, sul muro livido e muto del palazzo. La bestia istigata dalla voce sepolta del padrone, cominciò a raspare sul terreno per cercar sotto la neve il sasso; il carro si mosse, ballottando la lanterna e portandosi seco le ombre in una danza sconvolta. Quando fu per uscir dal portone e per svoltare, Celestina uscí dal suo nascondiglio, traversò il cortile; aspettò che Menico tornasse per rinchiudere, e, andandogli incontro gli disse, fingendo una certa apprensione: - O Menico, avete dimenticato questo fagotto, che va alle monache. Menico prese l'involto dalle sue mani e chiamando: - O pà, - corse dietro al carro. La giovane colse quel momento e voltò a sinistra. Camminando in fretta lungo il muro del brolo, uscí sulla strada del molino. Non era ancora sonata la mezzanotte, quando cominciò a camminare verso la strada della Madonnina della Noce, che apparve ben presto in fondo al viale in una massa densa, resa piú oscura dal riflesso vivo della campagna. Tirava una brezza acuta, quale può mandar giú la montagna in dicembre; ma essa se ne difese imbacuccandosi fin sopra agli occhi nel grosso scialle di lana e affrettando il passo. L'idea del trovarsi sola, di notte, per una strada deserta tutta piena di neve, in un paese sconosciuto, questa sola idea, che qualche mese prima, passando in sogno, l'avrebbe risvegliata in un sudor freddo, ora non le incuteva piú nessuna paura. Non c'è nulla, che abitua cosí presto al male, quanto la minaccia del peggio: e anch'essa ritrovava nella necessità delle cose quella forza misteriosa, che meraviglia cosí spesso la nostra stessa presunzione. I ladri, le ombre dei morti, che vanno attorno per il mondo, gli orrori dell'oscurità, gli spauracchi delle ombre, i gemiti, i fischi, che escono dai profondi silenzi della notte, le reminiscenze delle fiabe spaventose udite raccontare dalle comari, i terrori addensati nello spirito umano da secolari pregiudizi passati in lei per eredità, non mai scossi, che non si possono scuotere del tutto nemmeno dai piú forti, tutto questo era sempre qualche cosa di piú sopportabile in paragone di quel che gli uomini avevano fatto e volevano fare di lei. La notte, non limpida del tutto, era però rischiarata dal quarto abbondante di una luna, che le nuvole sparse per il cielo e più accumulate verso i monti non riuscivano a nascondere; e quella luce fredda, quieta, che scivolava sulla neve, eccitandone i segreti splendori, dava alla notte e alla solitudine un non so che di tenero, di seducente, o almeno di non cattivo, che parlava con una certa indulgenza all'anima primitiva della giovine. Quando, uscita dal viottolo del mulino, si trovò davanti la strada provinciale, larga, piana, rotta dai lunghi solchi delle ruote, che pareva correre senza fine al piede dei monti oscuri; e quando, fissando questi monti avvolti nelle nuvole, li vide lontani lontani, rimpiccioliti, sprofondati nella lontananza, un senso di nuovo terrore e di scoraggiamento ghermí il suo cuore. Il suono improvviso e pesante delle ore, scoccando sulla sua testa dal vicino campanile, ruppe quel breve istante di titubanza e di inerzia, che l'aveva fermata nel mezzo della strada, l'incoraggiò a continuare. A spingerla aiutò la vista d'un alto carro, che lentamente lentamente, col moto ondeggiante d'una barca che si avanza, veniva dalla parte di Bergamo, dondolando una lanterna sulla neve. L'idea d'aver dietro di sé in un momento di pericolo questo appoggio la sostenne. Volendo però stargli davanti per sfuggire alle questioni curiose dei carrettieri, si affrettò a riprendere il suo cammino nella direzione dei monti, che la chiamavano. A destra e a sinistra taceva la campagna nella sua gelida inerzia; ma questo silenzio avrebbe finito collo sgomentarla, se, oltre al soffio del suo respiro non fosse arrivato di tempo in tempo a sostenere il suo coraggio il rumore spezzato del carro che la seguiva, a cui, col raccorciare un poco il passo, cercava di accompagnarsi, appoggiandosi a quel rumore amico, che rappresentava per lei gli ultimi aiuti del mondo: cosí il bambino che si sveglia per un brutto sogno, si riaddormenta al rumore dell'arcolaio, che gli parla della mamma. E andò cosí tre o quattro chilometri, senza incontrar anima viva, sempre nella strada aperta, sempre col pensiero e coll'occhio rivolto a quei monti, che non mutavano di aspetto. Intanto pensava: - Prima che a Buttinigo possano pensare a me, io sarò quasi alle Fornaci. Troverò Giacomo? egli non può non tornare a casa a passar le feste, specialmente quest'anno di disgrazia. Se la zia non mi volesse ricevere andrò a cercar un ricovero in qualche cascinale, finché Giacomo non torni; e se anche lui non mi vuol ricevere e mi serra l'uscio in faccia, andrò a cercar lavoro a Brivio, a Lecco, in qualche filatoio, andrò a far la serva, a lavar la biancheria dei soldati, a cercar, se Dio vuol cosí, la carità sulle strade; ma in un ospizio non ci vado a farmi rinchiudere, a morire disonorata, arrabbiata come una cagna .". Col capo circondato da questi pensieri, come da uno sciame irritato di vespe, camminava sull'orlo della strada, dove la neve era già stata battuta da altri passi, fissando lo sguardo a qualche gruppo di piante lontane, che vedeva disegnarsi coi rami duri e neri sullo sfondodell'aria, provando nel suo muoversi rapido e nel calore che andava sviluppandosi dal suo corpo giovine e robusto, un senso quasi di soave energia. Dopo quattro mesi di sottili angoscie e di spasimi, durante i quali la volontà degli altri aveva fatto ogni sorta di strazi di lei, avviluppandola di fili invisibili, ubbriacandola di false dolcezze e di carezze e di moine snervanti, ora, finalmente, si sentiva libera, padrona di sé e dei suoi dolori, libera di soffrire e di morire a modo suo. Il calore del corpo, eccitato dall'andar lesto e faticoso su di una strada rammollita, dopo aver con una segreta delizia rianimato i suoi spiriti, cominciò a salire in un'afa soffocante alla testa, chiusa nel pesante scialle di lana. Lo lasciò andare sulle spalle, e provò un vero refrigerio a camminare cosí a testa nuda. Dopo quasi un'ora di non interrotto viaggio in cui poté piú di una volta abbandonarsi e dimenticare sé stessa nella successione rapida e luminosa di immagini lontane, che uscivano dal fondo scosso della memoria, cominciò a scorgere, nel bianco della strada, un gruppo di case, un villaggio, o un grosso cascinale da cui sentiva venire un abbaiare ingiurioso di cani, che si chiamavano nella notte. Stette un momento e si chiese se doveva aspettare e unirsi al carro che brontolava dietro di lei. Ma vinse quest'ultima incertezza con un senso crudele di disprezzo verso di sé. Se anche i cani uscivano a sbranarla, tanto meglio. Si affrettò a raggiungere le case, che dormivano tutte chiuse in una quiete che aveva un non so che di pensoso e di accigliato. Attraversò un grosso borgo passando prima davanti ai tarlati portoni dei cascinali, dietro i quali sentiva l'urlare e il raspare della bestia, poi davanti alle botteguccie chiuse e alla chiesa che dominava col vasto profilo nel vuoto d'una gran piazza deserta, non incontrando anima viva, cercando inutilmente coll'occhio una fessura, da dove uscisse un filo di luce. Dormivano tutti: i vecchi che hanno il sonno scarso, i giovani che portano a letto il corpo inquieto, i ragazzi che giocano anche in sogno; dormivano anche le povere mamme, che hanno i figli al camposanto; essa sola andava come un'anima in pena per le strade deserte a cercare qualche cosa che nemmeno il Signore le poteva dare. Non avrebbe domandato a Giacomo che una parola. Era persuaso della sua innocenza? bastava un suo sí, che fosse la convinzione in lui che in tutta questa disgrazia il suo amore, non solo non gli era mai venuto meno, ma non era stato toccato. Capiva che non poteva essere piú sua, ma l'essere abbandonata da lui non era nulla, se egli diceva di credere alla sua innocenza. Il suo amore gliel'aveva dato tutto e nessuno glielo poteva togliere. Questo pensiero le avrebbe infusa la forza di vivere in qualche maniera, lavorando, mendicando: nessuno, nemmeno il Signore, le poteva togliere l'orgoglio di essere stata amata da Giacomo. Ma se lui la cacciava via, se non la voleva vedere, oh allora, chi poteva assicurare della sua testa? E come se si spaventasse all'insorgere intempestivo di questa nera previsione, si fermò sui due piedi, strinse la testa nelle mani per aiutarsi con un atto vivace a non disperare, invocò tre volte il nome di Gesú, che aveva tanto patito anche Lui su questa terra; e per chiedere un aiuto a una sensazione esterna, che la sorreggesse in quel momento di vertigine, si voltò a cercare il suo carro. Ma la strada era vuota, immersa nella tristezza d'una nuvola che passava sulla luna. Forse il carro s'era fermato al borgo. Allora, per non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, corse con affannosa precipitazione fino allo svolto della strada, che cominciava a discendere e a penetrare in certe boscaglie tenebrose piene di una neve piú bianca, che copriva un terreno piú tormentato e mosso. Sentendo passar nelle ossa un brivido di freddo, si strinse lo scialle indosso, si coprí di nuovo la testa per schermirsi dalle minute goccioline d'acqua, che stillavano dai rami sotto le scosse del vento: e fatto il segno della croce, trasse la corona e incominciò a intonare il rosario con una voce sostenuta ch'essa ascoltava. La preghiera lunga ed uguale, che nel suo sonoro meccanismo par fatta apposta per condurre gli spiriti piú inerti verso una lontana e indeterminata speranza, dopo aver rimesso in movimento la sua volontà, segnando quasi la battuta dei passi, la sottrasse per qualche tempo alla sofferenza de' suoi pensieri; non cosí bene però che gli sgominati fantasmi, sospinti da una parte, non rientrassero a poco a poco da un'altra, insinuandosi tra le avemarie, intralciandone la seguenza, interrompendone la benefica energia, finché a poco a poco la parola le moriva sulle labbra, i passi si facevan piú piccoli e pigri, l'infelice, continuando a muoversi collo spirito, dimorava coi piedi nel mezzo della via, rivolta e intenta a cercare dietro di sé qualche cosa di cui aveva piú il desiderio che la memoria. Una volta la scosse da quest'attonita immobilità il vociare grosso d'un carrettiere, che svegliatosi all'improvviso arrestarsi della bestia, gridava con anima assonnata a quest'ombra, che gli impediva di passare. Celestina trasalí con un guizzo acuto di spasimo in tutti i muscoli, balzò in disparte, si rimbacuccò nello scialle e riprese a correre sull'orlo della strada. Camminò un'altra mezz'ora, concentrando gli sforzi mentali nel richiamare la memoria di un sito, il cui nome ora le sfuggiva, dove sapeva che si passa l'Adda. Nel disordine sparpagliato delle immagini, la risonanza confusa del nome d'Imbersago, dov'è il passo del fiume, serviva come di nucleo e di centro a' suoi pensieri dispersi, in mezzo ai quali passavano delle fosforescenze febbrili. Lasciò indietro altri casolari isolati, sparsi nella campagna dai quali non usciva un filo di luce. Sentí muggire dal fondo delle stalle: incontrò altri carri schierati che seguivano il passo affaticato delle bestie e mettevano dei cupi rumori nell'aria intirizzita e chiusa. Scivolò, passò via non avvertita dagli uomini, che dormivan sulle robe, sempre sostenuta dall'orgasmo febbrile, che la faceva sognare a occhi aperti, aprendole davanti delle prospettive luminose, in cui nereggiavano i camini e i tetti bassi delle Fornaci. In questa mèta, che essa fabbricava a sé stessa, la fantasia inferma andava collocando le figure del suo pensiero, in costruzioni false ed illogiche. - Che avrebbe detto donna Gesumina, quando entrando la mattina nella stanza della guardaroba, non l'avesse piú ritrovata seduta davanti al solito telaio? forse avrebbe fatto bene a lasciare una parola scritta in un biglietto: le due signore l'avevano sempre trattata bene; ma Giacomo avrebbe scritto meglio di lei per giustificare la sua fuga. Non c'era che Giacomo che poteva disporre di lei: essa era sempre stata sua fin dal giorno che lo zio Mauro l'aveva condotta alle Fornaci sulla timonella, dopo la morte della povera mamma Mariannina. Aveva allora poco piú di cinque anni. Lo zio Mauro, che durante il viaggio se l'era tenuta sul ginocchio, nel calarla dalla timonella, l'aveva collocata in braccio a Giacomo, che la portò subito in vignetta a vedere i conigli. Fu ancora lo zio Mauro, che per una sua idea cominciò fin d'allora a chiamarla "Frulin", un nome senza senso, che pareva averli tutti al suo orecchio, quando ricordava i bei giorni passati. La zia Santina volle subito indossarle una sottanina di lana d'un color rosso vivo,che spiccasse bene in mezzo all'erba, quando andava a correre nel prato, perché non v'era buco in cui "Frulin" non si cacciasse, tanto era piccina e inquieta. E quando Giacomo sonava la chitarra nella stanza del torchio dell'uva? Lui sonava, zufolando sull'aria: Tant che l'era piscinin; e lei ballava, girando in una grande tinozza, che mandava il forte profumo del mosto. Nei sensi le parlava ancora questo acuto profumo d'uva calda. Un'onda spumante le pareva di veder scorrere qua e là in macchie purpuree sul candore della neve. E quando Giacomo se la recava sulle spalle nella gerla in mezzo alle colorite pannocchie del granoturco? Camminò su questi pensieri, senza poter distinguere sempre tra le impressioni reali e le immagini, che apparivano alla memoria, or più or meno confuse, fin che giunse all'incontro di piú strade. Qui si fermò, non sapendo per quale andare avanti, e novamente l'assalirono, come se fossero ivi appiattati ad aspettarla, i terrori della sua vita di ragazza oltraggiata, reietta, ingannata, figlia di nessuno, che nessuno voleva piú. Al chiaror della luna, che ricomparve un momento con improvvisa nitidezza, vide, sulla neve pesta, l'ombra della sua persona rimpicciolita, della sua testa nuda, che perdeva le treccie, dello scialle che, scivolando dalle spalle e mal trattenuto in vita, andava strascicando nel molliccio. Si vide, e cominciò a singhiozzare dolorosamente ed a cercare intorno a sé un'anima, che volesse aver compassione del suo stato. A sostenerla nel tristo momento venne un primo colorirsi del cielo dietro i monti, quasi un sospiro dell'alba in mezzo ad una nuvolaglia spessa, che si ammontonava sulle creste. Di là scendevano soffi piú densi, di un vento umido, pieno di ghiacciuoli, che le avviluppavano il capo, le stiravanoi capelli, le facevano desiderare qualche rifugio. Le strade del crocicchio partivano lunghe e larghe per direzioni diverse nel vasto piano di neve solcato dalle ruote, calpestato dai cavalli e dagli uomini: ma non un'anima viva nel deserto! Solamente uncapanno di paglia presso una pianta, un trenta passi fuori della strada, usciva dalla neve e pareva invitarla a prendere un po' di riposo. Vi si avviò, avendo creduto d'intendere voci di ragazze, che la chiamassero; ma, fatti alcuni passi nella neve molle, cominciò a sprofondare fino al ginocchio; e allora tornò indietro; poi, per quanto cercasse intorno, non vide né il capanno, né la strada. Si fece il segno della croce e, richiamate con uno sforzo acuto della volontà le energie dello spirito, avviò un secondo rosario colla intonazione alta, con cui soleva precedere la processione della chiesa al camposanto, durante la novena dei morti. La preghiera traboccava dalle labbra per un impulso meccanico della voce; ma il pensiero andava a ritroso, risaliva a tempi lontani, s'immedesimava con cose passate e morte, rivivendo, con lucida illusione i momenti trascorsi, indimenticabili, di una vita umile e dolce, piena di affetti, di tenerezze, di gioie nascoste, di pudibondi sogni, che non aveva mai osato esprimere asé stessa, quando il piú santo dei desideri le pareva cosí bello che non osava carezzarlo senza qualche rimorso. Si sparpagliavano come foglie trasportate dal vento le immagini, che illustravano la storia segreta del suo amore per Giacomo, dal dí che se l'era veduto venir davanti vestito da pretino (allora essa non sapeva ancora che cosa fosse amore) fino all'altro dí, cosí diverso, al tempo della guerra, quando, dopo aver provato tutti gli spaventi della morte, seppe che era tornato sano e salvo. Essa era in vignetta a coglier dei piselli per la minestra, quando il Manetta, che amava le grosse celie, le disse: - Cerestina , c'è il Garibaldi: non senti pim pum pam? - Essa rispose: - Che mi fa a me il vostro Garibaldi? - Ma non aveva ancora finito di parlare, che dietro il verde dei fagiuoli vide muoversi qualche cosa di rosso, come sarebbe stato un grembiale che sventolasse all'aria, e invece era lui, che, appiattandosi, cercava di avvicinarsi senza farsi scorgere: era lui, colla camicia rossa del garibaldino, arrivato improvvisamente; era lui annerito dal sole, lacero come un povero ladro; che, senza pensarci, se la prese tra le braccia: e anche lei, senza pensarci, gli aveva buttato le braccia al collo, mentre il Manetta cantava l'inno di Garibaldi e batteva le mani, piangendo come un ragazzo. Era cosí viva e presente questa scena che la poverina, come se l'allegria la portasse in aria, affrettava il passo, volando sulla neve, ridendo ancora giulivamente, mentre vedeva verdeggiare la strada e, in mezzo al verde, vedeva uscire il suo garibaldino. Cercava buttargli le braccia al collo senza poter raggiungerlo mai; e correva innanzi, sorretta dalla calda ebbrezza della febbre crescente, che non le lasciava sentire i brividi dell'aria mattutina. Una volta fu repentinamente arrestata e svegliata da un fischio acutissimo e dal passare rumoroso di un treno, che scivolò, lanciando una fiammata di scintille. Si fermò, girò gli occhi intontita, si raccapezzò, sentí la sua febbre, la sua pesante stanchezza; ma si consolò nel vedere già chiaro il cielo e nel trovarsi in mezzo alle note alture, poco lontana dalle sue montagne. Piovigginava da una mezz'ora, e non se n'era accorta. Sentendosi lo scialle e i vestiti inzuppati e freddi come ghiacciuoli, li scosse, si rimbacuccò, ringraziò il Signore d'averla accompagnata e (poteva dire d'aver camminato in sogno) si volse a cercar qualcuno, che le insegnasse la strada piú corta per andare al traghetto del fiume. Al rintocco d'un'avemaria, che venne da una chiesuola pocolontana, di cui scorse il campanile disegnarsi tra due cipressi, si avviò a quella parte, si mise a sedere sul gradino della chiesa, e stette ad aspettare che qualcuno aprisse la porta. Cosí accovacciata, colla testa sui ginocchi, si assopí un istante, rotta dalla fatica. Le furiose scosse della febbre la svegliarono: temette di morir intirizzita sulla strada, e colla forza nervosa ed esaltata, che dà il delirio, si mosse, si volse a tre contadine, che andavano al mercato a vender uova, e chiese loro la strada per il passo dell'Adda. Le fu indicata una stradetta, che scendeva al fiume, senza bisogno di girar tutta la carrozzabile; ed ecco dopo cinque minuti poté scorgere dall'alto della riva l'acqua incassata d'un color nero inchiostro, e al di là, nell'ombra grigia del crepuscolo, nel biancore della neve, la macchia del Santuario, il palazzo del Ronchetto e i neri camini delle Fornaci. Non sentí piú a quella vista né stanchezza, né brividi, né titubanze: di là c'era il suo Giacomo.

Teresa

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Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Non aveva piú freddo, non era piú stanca; tutta la sua persona era appoggiata, abbandonata su quella del giovane, in un oblìo completo di tutto quanto non fosse lui. Lo stringeva gradatamente, sempre piú forte, coll'incoscienza dell'istinto, avendo una sola idea chiara e precisa: Egidio nelle sue braccia. Egli le prese la testa, e rovesciandola indietro con un movimento brusco, la baciò sulle labbra. - Vieni con me, fuggiamo. Il suono della voce riscosse Teresina. Si allontanò dal giovane, tenendogli solo le mani sulle spalle, guardandolo inebbriata. - Vieni con me. Tuo padre non acconsentirà mai alle nozze finché non vi sia costretto. Ti condurrò a Parma, dalle mie sorelle: vuoi? Teresina non poté sapere se egli fosse venuto a trovarla con quel progetto, o se forse gli era sorto improvvisamente nel delirio del primo amplesso. Però sentiva che Egidio era sincero, e non mai come in quel momento comprese di essere amata. Ma intanto che questa certezza le innondava il cuore di una gioia immensa, come bilancia che da una parte ha raggiunto la misura, balzava dall'altra parte il terrore di far cosa sconveniente per una onesta ragazza. - No… no… non posso. Ho promesso a mia madre. - Che hai promesso? - Di non darle dispiaceri… - E di rinunciare a me? - Oh! questo no. Un lieve imbarazzo si dipinse sulla fronte di Orlandi. Circondandole col braccio la vita, se la tirò accanto, e: - Ragioniamo. Posso io presentarmi a tuo padre? - Sì ... quando hai un impiego sicuro e conveniente. - Ecco appunto quello che non ho. - Ma mi avevi scritto… - Il progetto non andò bene. Io vivo ora alla peggio, scrivendo per l'uno o per l'altro giornale. - Ma perché ti sei dato al giornalismo? - Chi lo sa! Una passione come un'altra, e che non esclude le altre ... La strinse dolcemente, cercando di nuovo la sua bocca, con un sorriso d'uomo felice. Per cinque minuti non parlarono. - Ma tu hai freddo ... Orlandi si levò il mantello e ne avviluppò Teresina con una sollecitudine quasi materna, osservandone le guance pallide, che portavano le tracce della notte perduta. - Adesso avrai freddo tu! ... - Io? ... Stava per dire: non posso aver freddo, ho cenato lautamente: ma davanti a quel visino sbattuto, sul quale tutte le astinenze imprimevano un solco, provò un senso di pietà. Sollevò un lembo del mantello, tanto da potersene coprire le spalle, e mutò la frase: - ... se mi permetti di stare qui non avrò piú freddo. Lo strinse a sé, beata, scoprendo una gioia nuova in quella protezione, sembrandole quasi di anticipare l'intimità seria e solenne del matrimonio. Era vero che sentiva il freddo. Non aveva dormito, non aveva mangiato dal desinare del giorno prima; ma anche quei brividi che l'alba le metteva nelle ossa, avevano la loro voluttà; le facevano trovare piú dolce il tepore dell'amplesso. Una parola di Egidio la turbò. - Dunque vieni? - Sai, non posso! - gli rispose colle lagrime agli occhi, serrandogli la mano disperatamente. - E allora che vuoi che facciamo? - Aspetto. Era la sua forza, la sua fede. Non sapeva nemmeno lei che cosa aspettasse; l'incerto, l'ignoto, un miracolo forse. Ma Orlandi non la intendeva così. - Cara, la gioventù passa presto; sono già sei anni che ci amiamo inutilmente. Teresina non comprese l'accento scorato del giovane. Perché diceva che si amavano inutilmente? L'amore è sempre amore, pensava, quando si ama, si spera. Ella viveva pure con quel tenue filo di felicità; perché a lui non bastava? Le venne in mente di domandargli se intendesse di continuare per tutta la vita a scrivere articoli di giornali; ma questo discorso noioso le avrebbe portato via tanti baci; e poi voleva ascoltare da lui altre parole: mio tesoro, mia vita, cara la mia Teresa Tutto ciò era importante; il resto sfumava, si perdeva in una nebbia lontana di fatalismo. Nella monotonia della sua vita, dove il pensiero solo metteva una nota ridente, questi erano i momenti di vera felicità. Si sentiva donna, si sentiva amante e amata; mentre poi, come prima, come sempre, ella non sarebbe altro per mesi che figlia ubbidiente, fanciulla riservata, buona massaia. - Probabilmente - disse Orlandi - mi stabilisco a Milano. Un subitaneo sgomento apparve negli occhi di Teresina. Milano era piú lontano di Parma; e quantunque non conoscesse la grande città, intuiva vagamente ch'egli vi avrebbe incontrato maggiori tentazioni. Il cuore le si strinse di indefinibile malinconia. Vide d'un tratto tutta la sua umiltà, la sua povertà, la sua impotenza. Ebbe voglia di dirgli: Portami via! ma la parola le morì strozzata da un singhiozzo e non poté far altro che nascondere la faccia sul petto di lui. - Vedi, vedi? Te lo dissi che questa vita è impossibile. Ho rimorso di veder sciupare la tua giovinezza; Teresa, mia povera Teresa ... - Oh! sì chiamami tua perché lo sono! Gli si abbandonò sul petto con tale impeto disperato che, per un istante, Orlandi ebbe una fiamma negli occhi, e tremò come preso dalla febbre. Ma quasi subito ella rallentò la stretta, scivolando accasciata quasi fino a terra. dove stette col viso chiuso nelle mani, il corpo piegato in due. Orlandi contemplò quella testolina di vergine prostrata davanti a lui. - Che cosa intendi di fare? - le chiese con accento grave e dolce, rialzandola. - Amarti, sempre, qualunque cosa accada, qualunque sia il mio destino. Egli accostò alle labbra la mano della fanciulla: vi depose un bacio, esitante, turbato, ridivenuto improvvisamente freddo; affettuoso, ma distratto. Ella non se ne accorse; sentiva ancora i suoi baci, lo vedeva, lo toccava. Era impossibile che pensasse ad altro. Quando Orlandi scomparve dietro il muricciolo, Teresina fu presa dalla tentazione di seguirlo, volle gridare, volle chiamarlo, ma volgendosi improvvisamente, come se avesse udito una voce, si trovò davanti alla sua casa, alla casa casta e severa, dove sua madre riposava fidando in lei; e tornò indietro a capo chino, malcontenta di quel colloquio che le lasciava una tristezza insolita, uno scoramento da cui fuggiva la fede.

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Stava voltata di fianco, colle mani raccolte sul petto, i ginocchi un po' rialzati, la testa abbandonata sul guanciale basso, e guardava. Non vi era nulla di speciale in quella camera; ma per Teresina tutto era nuovo, incominciando dal letto, fino alla catinella di una bella terraglia a fiori azzurri. Sulle pareti, quattro quadrettini modesti rappresentavano le avventure di Telemaco; Venere che conduce Amore nell'isola di Calipso vi era dipinta con un vestito rosa, fatto alla vierge e con maniche a sabot. Teresina non pensò se quell'acconciatura andasse o no d'accordo colle tradizioni classiche; vedeva quella bella signora vestita di rosa in mezzo a tante altre vestite di bianco, e il giovane Telemaco fra esse; né le parve che la scena fosse antipatica, tutt'altro. A casa sua, proprio dirimpetto al letto, aveva una santa Lucia cogli occhi sul piatto; il confronto era tutto a vantaggio delle avventure di Telemaco. Un leggero fruscìo accanto all'uscio le trasse un grido. La zia Rosa entrò, serena, calma, con una tazzetta di caffè fra le mani. La vergogna di essere stata sorpresa a letto, fece balbettare a Teresina una gran quantità di scuse; ma la zia le tagliò subito a mezzo, sorridendo, dicendo che alla sua età si dorme volentieri, e che doveva essere un po' stanca per il viaggio del giorno prima. - Lei però, zia, è già levata ... - Oh! è una cosa differente. Io ho perduto l'abitudine di dormire, quando allattavo i bambini, e poi ne avevo sempre qualcuno ammalato; e adesso ho il vecchio. Io non dormo piú. Disse: "io non dormo piú" tranquillamente, con un fondo di torpore perenne, come se la sua vita, tanto di giorno come di notte, non rispondesse che al meccanismo semplice delle funzioni materiali. Teresina non voleva prendere il caffè, non c'era avvezza. In casa sua, solamente la mamma prendeva il caffè. - Non importa, qui sei forestiera - soggiunse la zia Rosa col suo sorriso buono che incoraggiava. E quando Teresina lo ebbe preso, per ubbidienza, si sentì i nervi dolcemente sferzati, un benessere in tutto il corpo, un'energia singolare, una strana lucidità di mente. La zia era uscita. Ella riprese la tazzetta che aveva posata sul tavolino con un resto di caffè, e la sgocciolò allegramente, succhiandosi le labbra. Poi balzò dal letto come una molla. Nessuno le faceva premura; la mamma non chiamava "Teresina, Teresina", con quella vocetta spenta ch'ella conosceva cosí bene; non le gemelle da pettinare, non da ammannire le colazioni, non le fascie d'Ida da rotolare per benino, non la voce burbera del padre: "Che nessuno tocchi le carte del mio studio!" Tutta la camera per lei, vuota; una ampiezza sconfinata, un'assoluta libertà. Incominciò a vestirsi lentamente, gustando il piacere di correre a piedi nudi sul tappetino del corsetto e di girellare in sottana, senza busto, rialzando ad ogni po' lo spallino della camicia che le scivolava sul braccio. Come erano bianche le sue braccia! Ella non aveva mai avuto tempo di guadarle, e le apparivano ora come le braccia di un'altra persona, così sottili, rotonde e bianche. Proprio non sapeva capacitarsi come fossero bianche, mentre il colorito del volto tendeva al bruno, ed anche il collo era bruno; solo scendendo sotto la clavicola, dove principiava il petto, il bianco riappariva. Questa ineguaglianza della sua pelle la sorprese; certo non doveva essere cosa normale. Allora, improvvisamente, fu assalita da un pensiero strano. Era essa bella o brutta? Se fosse bella! Si affacciò allo specchio, e si pose ad esaminarsi così minutamente, da vicino, che il suo fiato appannò il cristallo. Lo pulì subito, pazientemente, prima colla mano e poi colla salvietta, finché resolo affatto lucente, tornò a guardare il proprio volto riflesso; ma il dubbio non si scioglieva. Ella non provava, mirandosi, quello stupore che suscita la bellezza; scopriva al contrario, con un po' di dispiacere, che il suo naso non scendeva dritto e profilato come il naso della zia Rosa, la quale era stata una vera bellezza; e nemmeno le sue guancie e il suo mento non avevano quelle linee pure, che facevano somigliare la zia ad una statua di marmo. Era dunque brutta? Teresina stava per venire a tale conclusione, quando data un'ultima occhiata generale che abbracciava l'armonia intera del volto, ne ricevette un'impressione buona e si sentí consolata. Bella non le sembrava di essere, ma brutta, brutta come le Portalupi, nemmeno. Cercò un momento una parola, una parola che lei conosceva, e che le sembrava applicabile alla propria fisionomia, ma non la trovò subito. Decise allora di vestirsi, e lo fece con una accuratezza insolita, stringendo il busto, osservando bene se i capelli si spartivano eguali da una parte come dall'altra. - Incomincio a stimarmi anch'io! - Disse così, sorridendo a se stessa nello specchio, per l'idea buffa ch'ella potesse stimarsi, e restò immobile, colpita dallo scintillio che vide davanti a sé su quelle labbra rosse, tumide, e su quei denti di una candidezza abbagliante. Tornò a sorridere. Che cosa bizzarra! Tutto il suo viso cambiava. Faceva dunque quell'effetto lì, lei, quando rideva? E si sentí invasa da una allegria curiosissima; continuava a ridere, saltellando per la camera, con una voglia di cantare, di ballare, di abbracciare qualcuno. Ad un tratto si fermò, dandosi della scioccherella. Scese nel cortile, grave, composta, prendendo delle arie da signorina, guardando benignamente il bracco che sonnecchiava lungo disteso nel canile; fece qualche passo nel giardino, chinandosi per fiutare i rosai, seria, come persona che se ne intende. - Cogli le rose - le gridò a tergo la voce dello zio. Il vecchione la osservava, affacciato alla finestra del tinello, colle mani scarne appoggiate allo stipite. Ella colse le rose, scegliendole; lasciando da parte i piccoli boccioli non ancora dischiusi; preferendo le rose piene, carnose, dal grembo cupo e fortemente odoroso; le fiutava ad una ad una prima di riunirle in mazzo; le fiutò ancora tutte insieme, a lungo, colla faccia sprofondata in mezzo alle foglie fresche, umettandosi le guancie di rugiada. - Sono belle, nevvero? - Bellissime. Ritornò sui suoi passi, lentamente, cercando ancora fra i cespugli, stringendosi al petto tutte quelle rose che le scappavano dalle dita. - Fammele vedere Teresina si accostò alla finestra, dove il vecchione faceva oramai sforzi incredibili per sostenersi ritto, e gli presentò le rose, sporgendosi avanti, sfiorandogli colle mani le mani agghiacciate. Egli barcollò un momento, odorando le rose sul seno della fanciulla, e poi cadde sfinito nel seggiolone, col capo ciondolante sovra una spalla. La fanciulla si spaventò; lasciò cadere tutti i fiori sul davanzale, e corse in cerca della zia. - Un po' di sfinitezza, niente altro - disse la zia sollevando con braccio esperto la testa del marito. Un brodo caldo lo rimise del tutto, e quando al brodo fu aggiunto un bicchierino di Malaga, gli occhi del vecchio presero a scintillare, a sprazzi, finché restarono immobili, rapidamente attratti dalle rose sparse intorno a lui. Mezz'ora dopo dormiva. - Gli uomini - disse placidamente la zia Rosa, infilando le maglie di un pedule - sono molto piú deboli di noi. - Sì? - fece Teresina, incredula. - Sì. La zia non aggiunse altro. Quella sillaba racchiudeva un'esperienza lunga, multiforme, sicura. In quella asserzione che sintetizzava la debolezza del sesso forte, c'era tutto quanto il frutto della sua vita trascorsa osservando; osservando, calma, dietro il banco del negozio, accanto ai lettini dei suoi sedici figli, nelle ore lente e pazienti della solitudine femminile. Teresina non poteva comprendere e non comprese; ma rimase sotto l'impressione di un pensiero grave, indeterminato, guardando quei due vecchi: l'uno, decrepito, attaccato rabbiosamente alla vita; l'altra, serena, nel suo indifferentismo; bella, nella calma marmorea delle forme che nessun soffio di passione aveva alterate mai. Lo zio le faceva un po' soggezione, e, segretamente, le ispirava un certo disgusto; ma non poteva saziarsi dal rimirare la zia Rosa, seduta coll'imponenza di una romana antica, agitando i ferri, moderatamente, colle mani pienotte, alzando tratto tratto lo sguardo cristallino, di una limpidezza d'acqua. Scrisse alla mamma "la zia Rosa è tanto buona quanto bella". Ma chi era il giovinetto lungo e magro, coi calzoni color cannella, che passava alla mattina sotto la sua finestra, proprio nel momento ch'ella schiudeva le gelosie? Lo seppe un giorno, a tavola, poiché la zia scodellando i tagliarini, disse: - Non so cos'abbia Cecchino, che lo vedo passare di qui cinque o sei volte al giorno, Cecchino del mastro di Posta. Sapeva il nome, sapeva che era figlio dell'impiegato postale. Osservandolo meglio, seppe anche che non era un brutto ragazzo, un po' patito, con certi occhi grandi a fior di testa, che sembravano voler pigliare le persone come in una tanaglia. Era un divertimento vederlo passare tutte le mattine, ed era comodo per l'ora: Cecchino significava le sette e mezzo in punto. La zia Rosa, che conosceva la famiglia del mastro di Posta, non disse di no, una sera quando vennero a chiederle Teresina per fare quattro salti, al suono dell'organetto; e Teresina, che non aveva mai ballato in vita sua, si sentì dare un tuffo nel sangue. Certamente era felice, ma avrebbe voluto nascondersi a tutti gli sguardi, sì poca aveva sicurezza in sé, e tanto timore di comparire goffa e screanzata. All'entrare in sala, con tutte quelle sedie allineate lungo le pareti, il pavimento spruzzato di acqua fresca, e quattro candele conficcate davanti a quattro specchietti, ella provò un momento di vertigine. Non vide nessuno, non guardò niente; a passi da sonnambula raggiunse l'angolo piú buio; c'era una seggiolina umile, dimenticata nel vano della finestra, dove aveva servito per appendere una coperta bianca a guisa di cortinaggio. Teresina sedette là, e vi rimase come inchiodata. Vedeva, confusamente, due o tre coppie che giravano, e le parve che la zia Rosa, dall'altro lato della sala, la invitasse col gesto ad uscire di quel cantuccio, a muoversi anche lei come le altre. Ma c'era una nebbia davanti alle sue pupille, non percepiva nettamente i contorni; e la nebbia crebbe, diventò tenebra folta, dopo che le si era fermato proprio davanti qualche cosa color cannella. - Posso? Che cosa si voleva da lei? Che cosa le offrivano? Chi parlava? Ella rispose vivamente no, no, respingendo un cartoccino, tutta tremante. - La prego, favorisca, solamente un confetto. Erano veramente confetti? Non la si voleva burlare? Non erano piuttosto sassolini o mollica di pane? Suo fratello le aveva fatto tante volte quello scherzo. La voce insistette così, che Teresina si decise di allungare la mano, e prese un grosso confetto. - Non balla? A poco a poco Teresina rinveniva dal suo stupore, e gli occhi riprendevano a veder chiaro. Il signor Cecchino aveva un modo di parlare mellifluo, le stava chino davanti con tanto rispetto, ch'ella ebbe una lontana intuizione di fargli piacere ad accettare le sue cortesie. Rispose dolcemente: - Non ho mai ballato. - Non sa ballare? - Oh! a scuola ... oppure colle mie sorelline ... - Ma è la stessa cosa. Mi favorisca un giro; sono persuaso che lei balla divinamente. Ripose i confetti in una tasca del giubbetto, e le porse galantemente la mano. - Temo m'abbia a girare la testa ... - Niente paura; ho il braccio saldo, con me non può cadere. E per darle subito una prova della sua forza, le recinse la vita stretta. Teresina ripiombò nel buio. Non aveva piú coscienza di se stessa, girava, girava, acciecata dalle quattro candele che le sembravano girandole abbaglianti, sentendo nel fianco il cartoccio di confetti che Cecchino aveva in tasca, non osando dirgli di tenerla meno serrata. - È stanca? Moriva; ma non ebbe il coraggio di confessarlo, inebbriata dal moto, dalla musica saltellante, dal calore di quel corpo stretto al suo, e dall'odore di gelsomini, acutissimo, che emanavano i capelli del suo ballerino. - Lei balla da angelo. Per fortuna l'organetto cessò di suonare; Teresina cadde sulla prima sedia, rossa in viso come una brace. La seconda, la terza volta che ballò con Cecchino, non aveva piú tanta suggezione; ma il turbamento cresceva. In fine della serata era giunta al punto da non potergli parlare senza che le tremasse la voce; e quand'egli disse, strisciando le parole, facendo gli occhi espressivi: - Come mi dispiace che passino queste ore! Ella, rapita, fuori di sé, chiese: - Perché? Cecchino non aspettava altro. - Per dovermi separare da una persona tanto simpatica. La sala girava come un arcolaio; girava l'organetto col suonatore; girava la zia Rosa; girava lei, Teresina, stretta fra le braccia di Cecchino. E chi girava realmente erano lor due soli, alle battute finali dell'ultimo galoppo. - Ti sei divertita? - interrogò la zia Rosa, quando furono a casa. - Moltissimo - rispose Teresina con una convinzione che le trapelava dagli occhi. Una volta chiusa nella sua camera, per poco fu felice, riandando col pensiero ogni frase di quel memorabile ballo, ricordando sillaba per sillaba tutto quello che le aveva detto Cecchino: "Posso? La prego, favorisca almeno un confetto. Non balla?", tutto, tutto, fino alle parole "una persona simpatica". Queste, solamente a pensarci, le sconvolgevano il cuore. Guardò amorosamente il confettone, divisa fra il desiderio di mangiarlo, e quello di conservarlo eternamente. Il letto le parve duro, troppo pesanti le coperte. Era stanca, ma non le riusciva di chiudere occhio; se appena le si appesantivano le palpebre, scattava, sembrandole di udire mormorare lì sul guanciale: una persona tanto simpatica E poi le venivano in mente i ritornelli dell'organetto, e si stringeva al materasso, col braccio sinistro arrotondato in alto, il braccio destro teso, nell'illusione di ballare ancora. All'alba si addormentò. Il primo pensiero, svegliandosi, fu per lui; ma invece di essere un pensiero gaio e sorridente, le si affacciò quasi come un dolore, come una spina acutissima passata nella pelle. Inoltrando il giorno, la sua malinconia cresceva. Non aveva mai provato una simile tristezza. Si sentiva cambiata, come se un gran numero d'anni le si fosse aggravato sopra; aveva pensieri mesti di morte, di malattie, uno sconforto, un vuoto. Si toccava l'abito qui, lì, dove lo aveva toccato lui; e le veniva una gran voglia di piangere. All'ora del pranzo aveva il cuore così oppresso, che non poté quasi ingoiare cibo. - Va' a coricarti, poverina, sei stanca. Teresina non se lo fece dire due volte; penava troppo a doversi frenare davanti gli zii; sentiva il bisogno della solitudine, per trovarsi libera col novo ospite che albergava in lei, per poter chiudere gli occhi, e pensare al signor Cecchino. La seconda notte non fu migliore, né il giorno seguente. Il mattino, dalla sua finestra, lo aveva veduto passare, e lo sguardo prolungato che egli le diede, l'aveva, per un istante, resa beata; ma poi la malinconia la riprese, insistente, tormentosa. - Questa ragazza è ammalata, - disse la zia Rosa, accarezzandola con dolcezza - forse le fa male l'aria. - No, zia, non mi fa male. - Sei pallida, inquieta; lasciami sentire il polso. Ti duole il capo? - Un po'. - Lasciala in pace - interruppe il vecchio, gettandole alla sfuggita una delle sue occhiate penetranti. - Non è nulla. - Lo credo che non è nulla, ma la gioventù ha bisogno tratto tratto di qualche rinfrescante; ai miei figli, quando stavano poco bene, davo un cucchiaio di manna. Lo vuoi Teresina, un cucchiaio di manna? È dolce. E poiché Teresina, girellando per la camera, si era allontanata alquanto, il vecchio fece trombetta colle mani alla bocca, in direzione di sua moglie. - È innamorata! E ghignò, crollando la testa sulla dabbenaggine della buona donna, la quale non fu capace di aggiungere altro, restando cogli occhi fissi; quei chiari occhi cristallini, limpidi, che avevano visto molte cose nella vita, ma l'amore mai.

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