Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 5 occorrenze

Il fermarsi improvviso che fece la carrozza scosse Arabella da quello stato di assopimento in cui s'era abbandonata nell'appoggiare la testa alla parete del legno, nel chiudere gli occhi, nel lasciarsi cullare e stordire dal rumoreggiare delle ruote. Saltò in terra, mise nelle mani del cocchiere il prezzo della corsa, e, senza dire una parola, sparve nell'andito oscuro della porticina, e al buio, cercando a tastoni una scaluccia, giunse sopra un ballatoio che dava verso il cortile. Un sogno non avrebbe potuto essere più sogno di questa lugubre realtà di trovarsi a nove ore di sera sopra il ballatoio di una povera casa, in luogo sconosciuto, esposta al vento e alla pioggia, che strepitava in un cieco cortile, dove certe piantone nere si agitavano e stormivano nell'ombra. La casa pareva deserta. Solamente un quadretto di luce, sfuggendo da una finestra, andava a sbattere sul fondo verdone di un castagno amaro, che riempiva de' suoi rami l'angolo del cortile. Arabella, camminando rasente il muro, lungo il ballatoio per non essere battuta dalla pioggia, picchiò leggermente nella finestra illuminata. La Colomba, col capo ravvolto in un fazzoletto di cotone, dall'orlo del quale uscivano alcuni pizzi di capelli bianchi, cogli occhiali sul viso, aprì la finestra, e sollevando la lampadina a petrolio che impallidì al soffio dell'aria, domandò: "Chi è?" "Sono io, Colomba." "Chi?" chiese un'altra volta la donna, mettendo fuori il capo. "Sono l'Arabella." "O santa Maria Maddalena!" "Aprite l'uscio." "Passi di là. Vengo subito. O santa Madonna del Rosario!" E corse ad aprire la finestra ad uscio, che dava direttamente sul ballatoio. "Lei? ma è proprio lei? con questo tempo? cari angeli, ci porta qualche buona notizia?" "Lasciatemi sedere." "Cara vita mia, è tutta un'acqua. Da dove viene? Aspetti che ora faccio un po' di fuoco. Si sente male?" "No, abbiate pazienza. Lasciatemi tranquilla un momento. Ora vi dirò tutto." "Qualche altra disgrazia? si segga, riposi: già, non mi aspetto più nulla di bene." "Ferruccio?" "Hanno voluto quasi ammazzarlo. L'hanno buttato in terra, percosso alla testa, peggio degli assassini di strada. Poi dette fuori la febbre, il delirio, la congestione che ha tenuto sospeso il dottore fino a stamattina. Oggi s'è un poco risvegliato; ma pareva diventato matto quando la febbre me lo bruciava vivo. Se non divento matta anch'io, è perché il Signore vuole che io rimanga a soffrire per me e per gli altri, per i vivi e per i morti. Si asciughi i piedi. Da dove viene con questo tempo?" "Son venuta a cercarvi una carità. Lasciatemi qui fino a domattina." "Io usare una carità a lei?" "Vengo qui dopo aver schiaffeggiata una donna. Sentite, tremo tutta." "O santa pazienza, che cosa mi dite?" "Non vi ha mai detto Ferruccio che mio marito manteneva un'amante?" "O poverina, capisco che abbia a tremare. Come l'ha saputo? e ha avuto il coraggio? oh quanti mali ci sono nel mondo, vero, pover'anima? Adesso si calmi; taccia, riposi. Le farò scaldare una goccia di caffè. L'ha presa a schiaffi? capisco, ci son certe cose... Non parli adesso. Lasci quietare il cuore. Vado un momento a veder quel figliuolo... Intanto prenda. Questa è una corona benedetta al santuario di Caravaggio. Se anche non si sente di pregare, se la tenga nelle mani. In certi momenti le nostre forze non bastano e bisogna attaccarsi a qualche cosa di più forte. Del resto, viva la sua faccia! se l'ha presa a schiaffi..." In queste parole la Colomba gironzava per la cucina, mettendo le mani sulle cose senza concluder nulla. Finalmente si ricordò d'aver promessa una goccia di caffè e accostò un bricco nero e affumicato al fuoco. Poi andò nello stanzino a vedere Ferruccio, che giaceva assopito colla testa avvolta in pezze ghiacciate. La zia Nunziadina, seduta ai piedi del letto nell'ombra oscura del paralume, faceva la calza. Dopo la benedizione che la povera nanina aveva fatta dare a sue spese a San Barnaba, Ferruccio cominciò subito a migliorare: perciò il cuore della zia aveva qualche ragione d'essere più contento e di sperare. "Chi è venuto?" chiese sottovoce alla Colomba. "È la sora Arabella, ma non disturbarla: va in letto a riposare, che resto io." "Ha aperto due volte gli occhi." "Ha cercato da bere?" "Gli ho dato due cucchiai di acqua e zucchero." Il vento e l'acqua infuriavano sui tetti. "Par la fine del mondo" mormorò la zia Colomba. Arabella, cogli occhi fissi alla lingua di fuoco che serpeggiava nel vano nero del caminetto, si abbandonò col pensiero e si lasciò assorbire nella sua stanchezza dai bagliori della fiamma. Si dimenticò, pesando col corpo sulla povera scranna di paglia, come chi sta per addormentarsi dopo un lungo e faticoso cammino. Anima e corpo sospiravano un minuto di riposo, dopo la gran corsa attraverso alle strade e alle persecuzioni umane. Il volto, fatto più acceso dall'affanno e dai riverberi del fuoco, splendeva d'una bellezza più asciutta e più vigorosa, in cui gli occhi neri, forti e risoluti, mandavano dei lampi insoliti. Il piccolo berretto o tòcco di astrakan, che le copriva a stento la cornice dei capelli, dava alla fuggitiva un carattere ardito di viaggiatrice, un'aria straniera al suo carattere, un non so che di avventuroso, che sarebbe molto dispiaciuto alle buone madri canossiane. "È un tempo indiavolato!" disse la Colomba, rientrando e mettendosi in ginocchio davanti al fuoco. Le due donne rimasero così un po' di tempo in silenzio, mentre il bricco cominciava a fremere nella brace e a mandar bollicine dal becchetto. Ravviato il fuoco, la Colomba tolse dalla dispensa una bella chicchera dall'orlo rosso e servì il caffè. "Si scaldi lo stomaco, poveretta: il caffè rianima. Io non vorrò niente altro in punto di morte. Possiamo farci compagnia, mentre quel povero ragazzo è quieto. Lei dunque ha saputo, e ha dato un paio di schiaffi a quella... E ora non vuol tornare a casa?" "No." "Andrà a casa, dalla sua mamma?" "Non so." "Non sa, cara pazienza? Se io avessi un palazzo a mia disposizione, sarei così contenta di offrirglielo." "Povera Colomba…" "Povera, sì, povera, in tutti i sensi, il mio bene. Eran più di vent'anni che vivevo tranquilla, come se il Signore mi avesse perduta di vista. Non si fa male a nessuno, veramente: e quel poco di bene che si può fare non ci rincresce. Bastò una parola per renderci i più disgraziati del mondo: l'uno è in prigione, l'altro in punto di morte, Nunziadina è convulsa per lo spavento, e io non so se sono di questo o di quell'altro mondo. Vede dunque che tutti abbiamo le nostre tribolazioni e forse le più grosse non sono ancora quelle che si possono contare." La pioggia verso mezzanotte cominciò a calare, e prese più fiato il vento che scendeva a mugolare nella canna del camino. Le due donne rimasero un pezzo in segreti discorsi nella luce del fuoco. Arabella contò le sue passioni, colla confidenza che ispirano le anime semplici, provando nel togliere i pesi dal cuore un primo sollievo. "Vorrei scrivere una lettera a mio zio Demetrio." "Sulla scrivania di Ferruccio c'è carta e penna. Venga con me." Passarono insieme nello stanzino sulla punta dei piedi, e si accostarono al letto. Arabella pose una mano sulla mano dell'infermo assopito e stette un minuto ad ascoltare il battito dei polsi. Ferruccio aperse un pochino gli occhi. Siccome veniva fuori da una selva di sogni fitti, di vaneggiamenti e di stravaganti deliri, stentò a ritrovarsi, a ricordare, a distinguere il vero dalle ombre. Nel pesante sopore in cui più d'una volta vide suo padre accapigliarsi col sor Tognino, gli era parso di udire la voce della zia Colomba mescolata ad altri rumori che lo menavano lontano, ai giorni della sua fanciullezza, tra i compagni di stamperia, tra i chierici del seminario, tra le più remote e abbandonate sensazioni della sua vita oscura o modesta. "Ho sete" balbettò sbarrando gli occhi. Non ben desto gli parve di vedere la signora Arabella attingere dell'acqua a una fontana che scaturiva lì presso, nella luce abbagliante d'una lucerna, e curvarsi verso di lui a refrigerargli la bocca e la fronte abbruciata. Capì ch'eran sogni di febbre e voltò il capo con espressione dolente, chiudendo di nuovo gli occhi. "È meno arso di stamattina" disse sottovoce la donna. "L'occhio lo trovo limpido." "Ora non delira più, ma ieri faceva pietà. Ha nominato anche lei." "Povero giovane!" "Vuol scrivere? sul tavolino c'è tutto. Non guardi il disordine. Sono i libri di questo figliuolo che, quando può, ama leggere e scrivere. Fa qualche volta anche dei sonetti che il padre Barca trova mica male. Io mi accomodo nella stretta e appoggio un poco la testa ai piedi del letto." La Colomba collocò la lucernetta sulla scrivania, tirò davanti un vecchio paravento per togliere la luce dagli occhi del malato e andò a sedersi su un cuscino in terra per poter appoggiare la testa piena di sonno e di dolori al materasso. Arabella, segregata tra le finestra e il muro, si tolse il mantello dalle spalle, collocò il berretto sul tavolino, e scelto un foglio tra quelli ch'erano sparsi tra i libri, cominciò a scrivere d'impeto: "Caro zio Demetrio, la sua povera Arabella, dopo aver inutilmente sperato nell'aiuto di Dio, non ha altri a chi ricorrere che al suo buon zio, che fu sempre per lei come un padre. Immagini in quale abisso io son caduta da queste parole: ho abbandonata stasera la casa di mio marito, disposta a morir di fame piuttosto che ritornarvi. Ho schiaffeggiata una donna... O mio caro zio, lei conosce quasi giorno per giorno la mia vita, i miei sentimenti, la mia religione, la mia forza di resistenza al male e all'ingiustizia: quindi non ho bisogno di dimostrarle che se ho potuto venire a questa risoluzione, è proprio perché non ne posso più, non ne posso più. Avrei a scrivere troppo se soltanto accennassi alle vicende dolorose che mi hanno condotta a poco a poco a questo passo. Mi hanno strappato alla mia vocazione, hanno fatto di me una specie di cambiale che doveva riparare a un disastro di famiglia: mi hanno circondata di un fasto senza amore; e quando cominciavo a vivere de' miei affetti di madre, hanno insultato me e la mia creatura per odio al nome che porto; ora che mi pareva di aver tutto perdonato mi insultano nella più sacra mia dignità di donna, mescolandomi ad avventure di trivio... "Io mi domando se non ho insultato anch'io al mio dovere, credendo che il dovere di una donna onesta possa arrivare fin qui. Questa non è vita, è una condanna che sento di non meritare. Dovessi lavorare venti ore al giorno, logorarmi gli occhi e le mani per un boccon di pane, sarà sempre una condizione più degna di questa quiescenza e quasi complicità a un sistema di cose che viola ogni legge di onestà, di delicatezza, di rispetto. "Immagino il suo stupore, povero zio, nel leggere queste parole. Ella chiederà se io impazzisca; non crederà possibile che la sua Arabella osi scrivere a questo modo. Si meraviglierà anche perché io non le ho scritto mai nulla di questo stato di cose e che aspetti a gridare aiuto quando l'acqua mi arriva alla gola. Sì, è vero: non ho osato prima di quest'oggi dolermi con nessuno e invocare l'aiuto di nessuno, perché ho sempre creduto che avrei vinta da sola l'iniquità della mia sorte; perché non volevo coi miei lamenti accusare la buona fede di nessuno; perché speravo ancora nell'aiuto di Dio e, superba come sono, speravo nella forza del bene. Dio forse mi punisce, o almeno mi abbandona. Il male è più forte del bene nel mondo, dove, per un cuore che si sacrifica in olocausto sull'altare della virtù, cento egoismi vigliacchi e potenti trionfano incoronati della loro sfrontatezza. Il bene è un sole luminoso ma troppo in alto, mentre di male è seminata la terra che non dà altro frutto e di questo bisogna mangiare per vivere. Mentre scrivo colla febbre indosso, mi pare che anche l'inchiostro abbia color di fango. Zio, o io sono per impazzire o sono molto malata. Non frapponga indugio: venga, non mi lasci naufragare in quest'oceano di amarezze... intendo di chiedere la separazione legale, subito, senza esitazioni, senza restrizioni. Intendo restituire a quella gente tutto ciò che potrò restituire e di partirmene più povera di prima. Nessuno compenserà il male che questa gente mi ha fatto, ma io perdonerò tutto, se ciò può muovere la misericordia di Dio ad aver compassione di me. La fede non basta, lei forse lo sa, che ha sofferto anche lei la sua parte nel mondo. Sopraggiungono pensieri che per poco non spingono alla disperazione. Venga subito a Milano, mio buon zio, e faccia valere per partir subito, la ragione che una sua povera nipote è sull'orlo del sepolcro. Più malata di me non si può essere e la morte dev'essere una cosa ben terribile, se per morire si deve soffrire di più. Mi telegrafi il suo arrivo qui a Milano in casa..." La mano fu arrestata nella ricerca d'un indirizzo. Arabella alzò la testa, come se si svegliasse da un lungo sonno, si guardò intorno con occhio smarrito, impaurendosi di trovarsi a un tratto sola, in casa altrui, di notte, ospite di gente quasi sconosciuta. Che cosa era venuta a fare in questa casa non sua? La Colomba, rotta dalla fatica, s'era addormentata col capo appoggiato al letto. Il suo respiro lungo e oppresso era l'unico rumore che rompesse il gelido silenzio della stanza, mentre di fuori la furia d'un vento primaverile faceva stormir la pianta. Qualche stella scintillava sul nero sfondo dei vetri. Sentì sonare alcune ore che il vento portò via senza lasciarle contare. Coi gomiti appoggiati al tavolino, reggendo la testa coi palmi, rabbrividendo ai soffi freddi che entravan per le fessure, Arabella si abbandonò alla vertigine de' suoi pensieri, che la travolsero di ombra in ombra fino all'orlo di un assopimento che ha del sonno tutti i fantasmi ma non l'oblio. E poiché tutti i dolori si conoscono tra loro, il suo patimento presente la menò a risentire le angoscie provate al letto del povero Bertino, a confondere nel rilassamento delle sensazioni se stessa col povero piccino agonizzante, a compassionare se stessa in lui, a combattere confusamente contro la morte, che voleva portarsi via il caro biondino. Rivide lo squallore delle Cascine, lo smarrimento della sua povera mamma divenuta vecchia vecchia. E allora cercava di dimostrarle che il malato non era il bimbo, ma un'altra creatura, che perdeva la vita col sangue negli spasimi mortali di un aborto: finché sopraggiungeva anche lo zio Demetrio a fare un discorso lungo e confuso sul conto del signor Tognino... Si risvegliò a una voce che chiamava lì presso. In principio credette che fosse ancora lo zio Demetrio, ma quando riconobbe il luogo, la scrivania, la lettera rimasta tronca, capì che aveva fatto un sogno. "Ho sete..." ripeté ancora la voce di poco prima, La Colomba dormiva pesantemente sdraiata sul tappetino. Arabella, riconosciuta la voce del malato, si alzò, pose la lucernetta sul cassettone e si mosse a dargli da bere. Ferruccio s'era un poco levato sul cuscino per togliersi il sacchetto del ghiaccio, che gli scivolava dietro il collo. Vedendo venire verso di lui la signora Arabella, socchiuse gli occhi e dondolò un poco la testa, come chi si accorge di vaneggiare sempre e mostra di compiangere se stesso. Arabella versò dell'acqua nella tazza e l'accostò alla bocca del malato, che riaprì gli occhi e bevette quasi fino al fondo. "Come si sente?" Il giovine fissò gli occhi in faccia alla sua visione e interrogò ancora una volta colla pupilla immobile: "È proprio lei?" balbettò. "Vuol bere ancora?" "No, no..." disse Ferruccio, senza mai distaccare gli occhi dalla sua visione. "Vuol ancora il ghiaccio sulla testa?" "No, no..." e allungò la mano per prendere quella del suo fantasma. Sentì veramente una mano viva e calda. E, come se da quel calore irradiasse la vita, la faccia dell'infermo arrossì, la pupilla si illuminò, e dopo aver chiusi gli occhi per sottrarsi a un acuto tormento, li riaprì velati di lagrime. "Perché è qui?" interrogò sommessamente. "Lo saprà: ora stia tranquillo e lasci riposare la povera zia." Ferruccio si tirò sotto obbediente. Non era ben sicuro che non fosse un sogno. Cominciò ad albeggiare. Il cielo prese a schiarirsi dietro i ricami del castagno amaro, in cui svegliavasi il bisbiglio degli uccelli. La lucernetta non avendo più olio, Arabella la portò in cucina e la spense: poi ritornò nello stanzino, coprì le spalle col dolman, si rannicchiò di nuovo davanti alla scrivania, la faccia nelle mani, tutta raccapricciante nei brividi mattutini, mezza istupidita dal sonno e dalle emozioni. A San Barnaba suonò l'avemaria, e ad ogni rintocco della campanella il cielo seguitò a schiarirsi, come se obbedisse ad un comando, finché una pennellata di carminio venne ad illuminare i comignoli e le gronde dei tetti. Il vento, spazzate le nuvole, aveva preparata una splendida giornata alle miserie umane. Ferruccio raccolse l'armonia di quel risveglio e cercò inutilmente intorno a sé la dolce immagine, che era venuta a porgere ristoro alle sue fauci infocate. Vide invece la zia Colomba, che, riscossa dal suono della campana, saltava in piedi tutta agitata. "Hai dormito?" "Sì." "Tu sei più fresco, mio cuore. Ho dormito anch'io un pezzo." Ferruccio si persuase ch'egli aveva proprio sognata la dolce consolatrice e sospirò. La zia Colomba nel suo dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò la mano sulla testina fredda, e presa da quell'impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente: "O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me..." A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l'aveva sorretta nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni, Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto gridare di più. Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate... Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte. "Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire..." La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...

Credette di sentirsi meglio, quando fu sola e che le parve d'essere abbandonata. Se avesse ceduto alla tentazione del cuore, avrebbe lasciata anche la strada maestra per mettersi attraverso i campi e perdersi nei prati che affondano nel guazzo e nella nebbia. "A che pro Dio le aveva fatto conoscere questo affetto, se anche questo doveva diventare nel suo cuore uno strumento di tortura? non era più sicura nella sua ignoranza? Ora comprendeva, e troppo tardi, che cosa sia per una donna amare. Ora solamente e inutilmente entrava nello spirito delle parole grandi e divine che amore ha ispirato in tutti i tempi. Se fino a ieri, per non dire fino a poche ore fa, essa non aveva amato che come una sorella, come una madre, come un'anima buona e pietosa, un poco per dovere, un poco per naturale compassione, un poco per incapacità ad amare diversamente; ora sentiva d'essere non più una collegiale, ma una donna. Il suo cuore ardeva... A che pro? chi l'aveva trascinata in questo fuoco? Perché invece di rifugiarsi alle Cascine, non tornava indietro a dividere con quel povero giovine i pericoli dell'esilio? Vivere, lavorare, patire insieme a lui, in una remota parte del mondo, amarsi sopra uno scoglio, morire con lui..." Ah! non era lei che pensava queste cose. Era la febbre, era la gran sete che la faceva delirare. Le gore che stagnavano all'orlo della strada, l'attiravano con malsani luccicamenti a gettarsi nell'acqua nerastra e livida, tanta era l'arsura. "Perché doveva nutrire della sua vita fatta a brani il pacifico egoismo di tutti gli altri? perché vietare a sé stessa un'ora di follia? che cosa poteva fare per avere un'ora di felicità? che cosa aveva commesso nella sua vita, perché non potesse essere contenta mai, mai, mai?" Le sue idee a un tratto si rischiararono. Si ricordò che aveva consacrata la sua esistenza a Dio in espiazione dell'anima di suo padre suicida. Dio l'aveva accettata: ma aveva scelto lui l'altare e la forma del sacrificio. Non era lei che parlava, ma parlava la febbre che le abbruciava gli occhi, che le faceva veder rossa la strada e color del sangue le pozze d'acqua dentro le carreggiate. Per quanto le repugnasse di tornare nelle braccia d'un uomo che non amava: per quanto il mentire fosse contrario alla sua natura, con tutto questo non poteva dire a' suoi parenti: "Pensate quel che volete voi, ma ogni conciliazione è impossibile. Io non resto più. Vado via, vado a morire in un paese lontano, tra altri barbari meno feroci di voi". Come dire queste orribili cose a sua madre, a suo marito, al suo benefattore? Son gridi che una esaltazione febbrile può strappare dal cuore: ma fin che resta in mezzo al male un filo di coscienza e di ragione, c'è sempre qualcuno dentro di noi che si ostina a ripetere: "Impossibile, impossibile!". Essa stessa andava avvertendo nel suo modo di ragionare un non so che di spezzato, d'intermittente, come se in lei dialogassero due persone, come se tutto il suo essere si sdoppiasse, come se due donne corressero di pari lungo i regoli del binario alla luce d'una vampa. La febbre suscitava in lei una nervosa energia di pensiero. La sete, il caldo, mandavano al cervello grosse e deformi le ombre fantastiche, congiuravano a rendere gigantesco e spaventoso il suo patimento, a sconvolgere il senso delle cose. Quando dal cuore i mali salgono al capo, quando da ventiquattro ore ti pesa una brace sul petto, quando la sete ti divora le viscere, la vita diventa un sogno, i sogni ridiventano la vita: il vero e l'ombra si mescolano: non sai fin dove vaneggi e fin dove soffri davvero. Forse ti pare di correre sopra uno stradale lungo, interminabile, melmoso, in una bigia, interminabile giornata: e tutto ciò non è che lo sforzo impotente che tu fai nel tuo letto per rompere un vaneggiamento febbrile, per uscire da un fastidioso delirio. A un certo punto lo schioccare d'una frusta la richiamò al senso della realtà. Essa aveva già oltrepassato il palo che segna la fermata. Le parve che un uomo dietro di lei le gridasse qualche cosa di seccante, di inafferrabile, e affrettò il passo, persuasa che il suo dovere fosse di correre sempre avanti per arrivare più presto alle Cascine, per salvarsi da una tentazione, per gettarsi a' piedi de' suoi a chiedere perdono. Più camminava però e più sentiva le gambe farsi pesanti e le vesti intralciarsi al passo e avviticchiarsi come drappi umidi: e il piede sprofondare in un pantano di materialità ributtante e grossolana, in cui spiccicavano delle idee non meno ributtanti e grossolane. Il rimorso, ritrovandola così debole e sconvolta, tornava a riprendere d'assalto la debole coscienza della monachella e diceva: "Vergognati! hai lasciata la tua casa, hai abbracciato e baciato vergognosamente un povero giovinetto, hai sgomentato la sua vergine coscienza, torna a casa, espia, espia..." Non era meglio morire? non incalzava dietro di lei qualche cosa di fatale e di tremendo? Se invece di correre troppo presto verso la sua condanna, avesse rallentato il passo, si fosse sdraiata in terra...? Anche il povero papà era passato per queste spine, per questa strada melmosa, in cui l'anima affoga nel fango. E se non era lui vivo, era il suo fantasma inquieto, che camminava dall'altra parte, lungo il regolo del binario, e che le diceva: "A che giova il tuo sacrificio? tu non lo compi con rassegnazione, e il bene che si fa con rancore non giova né ai vivi né ai morti. Tu mordi la tua catena e imprechi contro di me: così siamo due anime perdute. Va a casa, Arabella, abbraccia la tua povera mamma e domanda perdono, perdona tu per la prima... corri, corri: non vedi che piove? corri, vien la macchina..." Il tram a vapore, lasciate le ultime case, veniva veramente per la strada grossa con una crescente velocità, sbuffando e rompendo la nebbia grigia coi due fanali d'un rosso sanguigno. Arabella nel suo delirio ne aveva più che il presentimento, lo sentiva, lo temeva: ma non sapeva distinguere quanto di vero entrasse nel sogno, e, come chi sogna, non sapeva risolversi. Ma il desiderio della vita la prese. Incapace di uscire dalle due guide, ch'essa vedeva alte come due muri di ferro, cominciò a correre, quanto poteva permettere la strada molle, ingombrata dalle traversine. Perché non avrebbe lasciato venire la morte? Molti terrori s'illuminarono nel buio del suo pensiero delirante e vide dentro a un baratro di fuoco gli eterni spaventi del morire disperata. Perché non usciva dunque dal binario? La macchina già poco lontana fischiava, la campanella sonava a stormo. Essa fece il segno della croce per resistere alla tentazione di sdraiarsi sul terreno. Era affranta, resa ottusa da un sonno di piombo. La sua fede ripugnava con energica resistenza al suicidio. "Oh no Madonna, no, morire a questo modo." Perché dunque non andava fuori di un passo? non poteva. C'eran quei due muri di ferro. Una volta incespicò, cadde sopra un ginocchio, si rizzò subito, prese a correre, a strillare; Gesù, Maria, che sogno! Dietro di lei molte voci gridavano, infuriavano. Pareva un popolo insorto che l'inseguisse per farla a brani. C'era in quella folla l'Angiolina ortolana. Ne sentiva la voce inviperita. E le parve ancora una volta che papà cercasse di strapparla dal pericolo, tirandola pel lembo del vestito, che si sfilacciava in mano al fantasma. Poi qualcuno nero e duro la prendeva alla vita, la sollevava, la buttava nel fango della strada. La macchina col treno si fermò a due passi di distanza. Da un pezzo il macchinista aveva notato la donna che si ostinava a camminare sul binario, e col fischio, colla campana, aveva dato tutti i segnali. Una volta gli parve che la maledetta donna avesse capito, perché la vide uscire dalle guide, ma subito dopo tornò dentro col passo d'una ubbriaca. Dette il controvapore, strinse i freni. La gente, mettendo la testa dalle finestre, cominciò a urlare. Un giovine fochista balzò a terra, strabalzando, e presa la donna attraverso la vita, arrivò a tempo per un pelo a gettarla in disparte come un sacco di cenci. Molti discesero dai vagoni (c'era anche Lorenzo, che l'aveva cercata inutilmente alla stazione), circondarono la donna, la raccolsero. Venne a passare un carro delle Cascine, ve l'adagiarono, la portarono a casa più morta che viva. Chiamato in fretta il dottore, giudicò un tifo, gravissimo, forse senza speranza. Arabella per tre o quattro giorni non fece che delirare e chiamare con alti gridi Ferruccio, la Colomba, il suo papà morto, lo zio Demetrio, suor Maria Benedetta. La voce arrivava fino alla stanza di Angelica, oltre la Colorina. Nell'arsura infernale d'una febbre di quaranta gradi, balzava dal letto e guai se Lorenzo non era presto ad abbracciarla, a riporvela, a tenervela! Scarmigliata, cogli occhi distrutti e infossati, essa era più forte di lui, gli graffiava il viso, lo copriva di oltraggi volgari, finché rotta e sfinita in tutte le ossa, ricadeva in un profondo abbattimento. Lorenzo, posando la testa sul suo guanciale, piangeva come un bambino. Gli altri in casa non eran più gente. Eran morti in piedi. Si chiamò con telegramma lo zio Demetrio, che aspettava d'essere invitato a battesimo. Durante quei tre o quattro giorni la poverina rivisse in sogno delirando ora coi vivi, ora coi morti, finché le rimase un'oncia di forza. Rivide la sua bella mamma ancor giovane andare alle feste con un vestito celeste orlato di un pizzo doré. Vide se stessa ancor fanciulletta in mezzo a' suoi fratellini, mentre frullava il sabaglione in una piccola cazzeruola lucente. Mario, Naldo e il piccolo Bertino, bello e biondo come un angelo, ridevano a veder la spuma gialla e profumata traboccare dall'orlo; e la malata rideva anche lei d'una gioia intera e traboccante, immaginando che quella spuma gialla e profonda montasse a ondate ad avvolgerla. Quindi usciva la sensazione della prima comunione, colla vista della chiesa lunga, chiara, tutta fiori e pizzi bianchi; ma non capiva perché Ferruccio fosse andato a porsi in mezzo alle ragazze. Che c'entrava lui colle ragazze? e perché tutti lo carezzavano con tanta tenerezza. Essa ne provava un'invidia amara, correva a strapparlo via, gridava: "È mio". Se non che altri fantasmi la conducevano a visitare le cameruccie sotto i tetti, dove abitava una volta lo zio Demetrio, un uomo buono come un santo, che aveva molte gabbie di canarini, che cantavano a stordire, svolazzando liberi intorno. Entrando nelle stanzuccie, ne vide più di cento volarle addosso, belli, vispi, bianchi e gialli posarsi sulle spalle, sulla testa, sul braccio. Se la pigliavano in mezzo, la portavano via, in alto in alto, in un volo delizioso, verso il campanile di Cremenno, che si disegnava sullo sfondo azzurro del cielo... E in questa felicità la poverina finiva di patire.

Aggrappato alla sponda del letto, Lorenzo, a cui l'aria della notte aveva dissipato alquanto i fumi del vino e dell'indigestione, con un supremo sforzo di volontà, cercò di farsi un concetto della verità, che gli si presentava coi torbidi contorni di un sogno grave e fastidioso; e come se a poco a poco si accostasse a toccare la triste realtà, assalito da un violentissimo colpo di disperazione, di rimorso e di sgomento, cominciò a gemere, a singhiozzare, risvegliando Arabella, che s'era abbandonata un istante a un lento torpore. Da tre giorni anch'essa viveva, si può dire, di un sogno torbido e senza fine. Nei brevi intervalli, in cui le era concesso di ritrovare se stessa, come perduta e rimpicciolita in una gran scena d'uomini e di cose, un sentimento nuovo, vago, indefinito, l'assaliva, un sentimento che non sapeva trovare la forma d'un dolore o di una paura positiva, ma che produceva anche in lei l'effetto di una ubbriachezza strana. Suo suocero nelle poche righe scritte coll'agonia e colla morte alle spalle, senza confessare esplicitamente i suoi torti, pregava la nuora a trovare coi parenti e coll'avvocato un componimento amichevole: e ciò per la pace dei vivi e dei morti. Ogni cosa che vien dai morenti è uno stimolo di carità specialmente se chi muore ci lascia nelle mani il suo pentimento. Nulla fa tanto bene a chi va al di là come una buona speranza. E perciò Arabella spiava e aspettava il momento che il moribondo si risvegliasse dal suo torpore per dargli un affidamento che la pace sarebbe stata fatta. La raccomandazione, che il vecchio peccatore aveva scritto e affidato alla sua clemenza, se la sentiva quasi ardere nel cuore. In quest'attesa, in questo zelo pio e disinteressato di un bene supremo e urgente, ogni altra questione, ogni altro male più remoto diventava oscuro e secondario. Essa dimenticava se stessa, il suo stato di donna avvilita e tradita, quel che era stato ieri, quel che avrebbe dovuto essere domani. Sei giorni durò l'agonia, durante la quale la fibra forte e resistente contrastò a oncia a oncia il terreno alla morte. L'infermo non risvegliavasi che a brevi e rapidi intervalli di conoscenza: e allora l'occhio estinto girava lentamente intorno in cerca di qualche cosa, soffrendo di non trovarla; e solamente quando incontravasi nel volto pallido di Arabella, quell'occhio pareva rischiararsi di una luce più serena, approfondirsi in un pensiero, parlare, sorridere... Durante quei lunghi giorni e quell'eterne notti, Arabella non si tolse i vestiti d'addosso. Quando il corpo rotto e indolenzito dalle fatiche invocava il riposo, andava a buttarsi sul divanetto del salottino e subito il sonno la sottraeva alle pene della realtà. Era un sonno senza visioni, chiuso, dal quale usciva ristorata per dare il cambio all'Augusta, che con lei vegliava l'infermo. Lorenzo si moveva intorno a lei, la rasentava, arrestavasi dietro di lei in un silenzio quasi supplichevole; ma essa sforzavasi di non vederlo; o non ascoltava le sue parole, se non come si ascolta uno sconosciuto mal vestito, che ci siede vicino durante un viaggio noioso. Gente andava e veniva per la casa ad ogni ora, di giorno e di notte. Mamma Beatrice rimase colla figliuola. La zia Sidonia, messo in disparte il risentimento, trovò modo di collocarsi nello studio di Lorenzo, e rimase anche lei in attesa d'una catastrofe, che scompigliava le ire, le furie, i progetti, le speranze, i propositi nel cuore di molta gente interessata e già legata in un'azione comune. Un treno in moto e spinto a grande velocità non urta contro un muro senza dare una scossa a chi viaggia. Così avviene delle idee che urtano in una contraddizione. L'avvocato, don Giosuè, i Borrola, i Ratta, e gli altri tutti, che avevano un interesse nella causa contro un uomo vivo, non sapevano rifare sopra un uomo morto una procedura e un'azione che contentasse tutti i gusti; al punto che, se molti risero e trionfarono di vedere un ladro e un birbone punito dalla mano di Dio, molti altri, e tra questi l'Angiolina, rimasero sulle prime scornati e dispiacenti, quasi che Tognino, col morire tutto a un tratto, avesse voluto giocare un ultimo tiro da furbo ai diseredati. Le probabilità eran molte: o aveva fatto testamento o non aveva fatto testamento; o aveva nominato Lorenzo erede universale, o aveva lasciato delle disposizioni capricciose, chiamando a parte della sostanza Ratta qualche pia istituzione, per esempio, la Congregazione di carità; e in questo caso invece di un avversario avrebbero dovuto lottare con due, con tre, forse con dieci, più grandi e più formidabili. Né don Giosuè, né don Felice avevan potuto cavare da quella bocca chiusa, inchiodata dal male una parola, un segno di ravvedimento, una buona disposizione a favore dei parenti poveri. Finalmente si seppe che Arabella aveva in mano una carta e che, parlando in segreto con don Felice, aveva dato a capire che si sarebbe venuti a una conciliazione; insomma ci sarebbe stato qualche cosa per tutti... La notizia uscita di bocca a don Giosuè, mentre da una parte gonfiò le speranze dei parenti più prossimi (cioè di quelli più vicini al morto) mise in sospetto e in paura e in diffidenza tutti gli altri, che fiutarono un nuovo intrigo dei Borrola e dei Maccagno contro i poveri Ratta. Se questa circostanza d'una nuova carta aveva un valore, c'era a temere che i parenti ricchi e forti facessero la parte del leone a scapito dei parenti più poveri. Aquilino fu preso in mezzo e incaricato dai Ratta di parlarne pulitamente colla buona signora, per interessarla a impedire qualche nuovo ladroneggio. E in mezzo a questi oscuri e sommessi intrighi, per tutto il tempo che Tognin Maccagno litigò colla morte, fu un continuo correre di gente presso il notaio, presso l'avvocato, presso i preti, un gran discorrere nelle osterie, nelle anticamere, sui pianerottoli, un segreto congiurare di furbi che facevan gli ingenui e di ingenui che si lusingavano d'essere più avveduti dei furbi. Arabella assistette con fredda mestizia e con amaro disprezzo a questa nuova contraddanza di interessi intorno a un letto di morte: e mentre veniva meno nel suo cuore la stima verso gli uomini, parevale che, in mezzo a tante maschere, il morente fosse il più semplice e il più naturale. La morte, se non altro, è sincera. L'ultima notte l'infermo dormiva di quel sonno chiuso e pesante, che non è ancora la morte, ma già non è più il patimento, quando a un tratto parve ad Arabella, che vegliava sola accanto al letto, imbacuccata in un suo scialle, nell'ombra densa dei mobili, che il malato alzasse una mano e chiamasse. Si mosse, si accostò, abbassò la testa e nominando Gesù e Maria, pronunciò qualche frase di consolazione. Egli mosse con un supremo sforzo la testa, e afferrata la mano della nuora, la strinse con un fuggevole vigore, mandando fuori delle parole sconnesse che parevano gemiti. Cercando d'interpretare i monosillabi di quel confuso discorso, essa suggerì delle questioni, a ciascuna delle quali l'infermo rispose con una leggiera stretta di mano. "Voleva che i parenti gli perdonassero? era pentito? era rassegnato alla volontà di Dio?" e altre di quelle frasi che si prestano volentieri ai morenti negli estremi dibattiti, quando la nostra ragione è chiamata a pensare per una ragione che fugge. Il signor Tognino rispose sempre di sì; ma una parola più forte delle altre insisteva a ritornare e a sornotare in quel suo sconnesso monologo, che Arabella non sapeva ricomporre e interpretare. Una volta uscì il nome di Ferruccio. "Me lo raccomanda? non lo abbandoneremo..." L'occhio dell'infermo rispose con un lungo raggio di benevolenza. Poi a un tratto la fronte si oscurò come sotto a un nuvolo di tristezza. Con un ultimo sforzo nominò la Marietta... Ma Arabella non afferrò il senso di quelle ultime voci fioche e singhiozzanti. Era l'agonia. Il signor Tognino Maccagno morì tranquillamente nelle prime ore d'una bella mattina d'aprile.

Isolata nel suo dolore essa non viveva che di questo, come se ogni altro sentimento l'avesse abbandonata; e nel suo sentimento cercò d'immergersi, sperando di trovarvi l'attutimento dei sensi. Piangeva in silenzio, d'un pianto interno, su chi partiva e su chi restava, mentre le mani rimestavano macchinalmente nella sacca. Tra le carte sparse sulla scrivania riconobbe dei foglietti scritti di sua mano. Erano alcune pagine della lettera, che in un momento di eloquente disperazione essa aveva scritta in casa della Colomba allo zio Demetrio e che non era stata mandata a destinazione. Ferruccio voleva portarsela con sé come una reliquia. Arabella rilesse alcuni periodi colla dolente curiosità di chi rivede il proprio ritratto d'altri tempi, e si ritrova diverso, pur riconoscendo se stesso. Ora non avrebbe saputo scrivere così. Il suo cuore era più rassegnato: chi sa? forse più morto. Sul rovescio d'una di quelle paginette, obbedendo a una pietosa ispirazione, scrisse queste sentenze: "Il patimento avvicina e redime le anime, ci colloca in alto sul divino Calvario, da dove si domina la valle dei bassi egoismi. "Vi è qualche cosa di più triste che l'esser soli: è il non poterlo essere quando lo si sospira. "Morir soli è triste. Ma più triste è dare spettacolo della propria agonia in una fiera. "Non vive inutilmente chi sa ispirare una vita onesta e generosa." Scriveva queste idee non sue come per reminiscenza o per incantamento senza accorgersi che Ferruccio, entrato poco prima, aspettava timidamente sulla soglia. Da tre giorni la vita del giovane Berretta non era più che un seguito di movimenti automatici, di corse, di sgomenti improvvisi, di occupazioni frettolose e materiali, ch'egli eseguiva in seguito a spinte più forti di lui. Quando essa si accorse ch'egli era presente, gli disse senza turbarsi: "Leggerà, è un mio ricordo. Le ho portato il denaro per il viaggio. Son tremila lire che potrà far cambiare in oro a Genova. Questo denaro è mio, e intendo che lei lo abbia a ricevere come un'indennità ai danni morali e materiali che abbiamo recato a lei e a suo padre…" "Lei?..." balbettò il giovane, quasi protestando. "Sì, noi tutti... via! non stia a distinguere. Spero che il signor Galimberti avrà mandato l'attestato promesso. Vada con coraggio: suo padre riavrà il suo posto e non mancherà di nulla. Queste son due lettere per un'agenzia teatrale di Montevideo: e se si ferma qualche giorno ancora a Genova, avrò tempo di farle pervenire qualche altra commendatizia per i padri Cappuccini di laggiù. Sono raccomandazioni che litigano un poco tra loro" soggiunse ridendo, per rompere la malinconia di quel discorso "ma in un paese lontano si può aver bisogno di tutti. Lei saprà distinguere, del resto. Ha parlato con Vicentelli?" "Sissignora, pare che fino a lunedì non si possa partire." "Avrei piacere che potesse partire più presto. Per fortuna abbiamo un buon angelo nel delegato: possiamo stare coll'animo tranquillo. Ho qualche obbligazione anche verso la buona zia Colomba. Se potessi vederla prima di andar via..." "Verrà qui a momenti." "Se non la vedo, la preghi di accettare questa spilla in memoria della carità che mi ha fatto..." Si tolse dal petto una spilla d'oro e la consegnò al giovine, che mormorò qualche parola di ringraziamento. "Mi mandi qualche volta le sue notizie. Intanto io non tralascerò dal far le pratiche, perché le sia levata anche questa piccola condanna. Farò parlare e andrò io stessa dall'arcivescovo, che dice di aver verso di me qualche obbligazione. Monsignore è in buoni rapporti colla Corte e so che in certe occasioni quando non si tratta di delitti comuni si concedono amnistie speciali. Intanto non è male vedere dei paesi nuovi." Ferruccio, appoggiato colle spalle allo stipite dell'uscio, trasse un sospiro coperto come se patisse in sogno. Cogli occhi bassi, pareva tutto occupato a decifrare i disegni di un fazzoletto che teneva stretto e teso in uno sforzo nervoso colle due mani. Arabella si mosse e toccò qualche libro di quelli che erano sparsi sul tavolo e sulle sedie. "Questo è latino: bravo. Un Virgilio... Fa bene a tenersi in esercizio. Badi a non diventarmi un cappuccino anche lei..." E si volse a ridere ancora per invogliare il giovine a uscire da una tristezza, che li avviliva entrambi schiacciandoli. Vedendo ch'egli non osava alzare gli occhi dopo aver accomodate alcune cosuccie nella valigia, la signora si aggiustò un lembo del velo sul capo e sulle spalle, guardò a lungo l'orologio per fissare l'animo e la volontà in uno sforzo supremo sopra un oggetto che la sostenesse, e quasi correndo verso di lui gli tese la mano con piglio soldatesco, esclamando: "Dunque, addio!" Ferruccio vacillò, appoggiò le braccia al muro, alle braccia appoggiò la testa per nascondere e per soffocare un pianto, che non era più capace di dominare. Arabella si passò lievemente la sinistra sul volto per rimuoverne una nuvola oscura che l'avvolse, socchiuse gli occhi con un abbandono d'infinita stanchezza, si avvicinò, gli posò le mani sulle spalle, vi si appoggiò, e parlandogli nell'orecchio, ebbe ancora la forza di aggiungere: "Senti, anch'io ho bisogno di coraggio. Il tuo piangere mi avvilisce. Anch'io devo partire tra pochi minuti. Mi aspettano... Se è vero, Ferruccio, che tu mi vuoi un poco di bene, non devi farmi soffrire così." Il figlio della povera Marietta a quella voce che spasimava si rivolse, si drizzò sulla persona, e premendo il fazzoletto sugli occhi, cercò anche lui di essere forte: ma non poté dire che queste due parole: "Madonna, aiutatemi..." Era accecato dalle lagrime e dal dolore. Sarebbe forse stramazzato in terra, se le due braccia della signora non l'avessero stretto e sostenuto. Sentì il calore d'un viso ardente sul suo: sentì sulla fronte e sui capelli una furia di baci ardenti, sentì due mani gelide che gli serravano la testa: ma non osò, non poté aprire gli occhi. La sua vita precipitava in un abisso vuoto, oscuro, senza fondo. La Colomba, che entrata non vista, assisteva da mezzo minuto a quella scena, cercò di separarli. "Certo che voi morirete e ci farete morire anche noi. O Madonna dell'afflizione, abbiate misericordia!" E strappando Ferruccio per un braccio, gli disse con accento sconvolto misto di pietà e di rimprovero: "Basta il patimento, Ferruccio. Basta per amore della tua mamma. E tu, figliuola vieni con me. Non sta bene. È una tortura per tutti: insieme al cuore si perde l'aiuto di Dio." Con queste parole riuscì alla donna, inframmettendosi, di separarli. Ferruccio cadde su una sedia. Presa Arabella come una prigioniera, non senza qualche violenza toccò ancora alla Colomba di metterla fuori, nell'altra stanza, dove, carezzandola e persuadendola: "Andiamo," le disse "non si faccia vedere così: non sta bene." Chiuse l'uscio dietro a sé, le trasse di tasca il fazzoletto, con questo le asciugò gli occhi, le ravviò colle mani i capelli, le ricompose il velo, le pieghe, la rimproverò, la compatì cogli occhi. "Non sta bene neanche per l'anima. Offra al Signore quest'altro patimento. Vada dalla sua mamma. Pensi a quel che soffriamo anche noi. Pensi alla notte che dovrò passare, quando sarà partito quel ragazzo. Dio la benedica per il bene che gli vuole, ma vada via, vada via." E bel bello la spinse fin sull'uscio della scala. Sul punto di mettere il piede sul pianerottolo, Arabella con moto sdegnoso cercò di resistere ancora un poco, attaccandosi al battente dell'uscio. Sentendo uscire quasi un gemito dall'altra stanza, fece l'atto di gettarsi ancora verso la porta; ma la Colomba le si avviticchiò alla persona: "No, lascialo stare, lascialo piangere..." Arabella scese a precipizio le scale, mentre la Colomba serrava dietro di lei la porta con un giro di chiave.

Questo buon uomo, che aspettava una parola di vita o di morte, aveva strappata una povera vedova con tre figliuoli dalla disperazione e dalla miseria e aveva procurato a una fanciulla, senza padre e senza protezione, i mezzi d'educarsi, d'essere qualche cosa, togliendola ai cento pericoli che circondano un'orfanella povera e abbandonata. Quel Dio, a cui Arabella era disposta a sacrificare la sua giovinezza e la sua vita in espiazione, chi sa?, parlava forse per la bocca medesima di un uomo onesto e virtuoso, del quale s'era servito per operare i prodigi della sua bontà e della sua carità. Arabella sentì subito in quel primo e improvviso conflitto di sensazioni e di pensieri che non basta essere santi a questo mondo, cioè comprese che è impossibile diventarlo, se non si comincia coll'essere pietosi e buoni. Non volendo mostrarsi arida e intollerante, si accostò al pover'uomo, che non osava alzare il capo, e gli disse: "Questa lettera, veramente, io me l'aspettavo così poco, che non so che cosa rispondere. Bisogna a ogni modo che io rifletta, che interroghi me stessa. Ne parleremo anche colla mamma. Io non conosco questa gente: e son così lontana dall'idea di maritarmi… Ma intanto si faccia coraggio, papà, non si avvilisca in questa maniera. Ha visto che Dio ci ha sempre aiutati in cento altre circostanze..." Paolino, soffocato dalle lagrime e dalla commozione che suscitava in lui la voce tenera e pietosa della figliuola, alzò un poco la testa, prese la mano della ragazza, se la strinse nelle sue, e voleva dire ancora ch'egli non cercava il sacrificio di nessuno, che aveva parlato solo per iscrupolo di coscienza, che qualunque fosse la risposta, il suo cuore non si sarebbe mutato per rispetto alla sua cara Arabella; ma di tutto ciò non poté dir nulla. Si sentiva un uomo strozzato. La voce della mamma in fondo della scala chiamò a cena, e come se quel grido disturbasse due innamorati, papà Botta scappò via. Arabella raccolse il bucato e chiuse la finestra. Peccato! camminava così serena e sicura nella strada della sua vocazione ed era già così vicina a toccare il porto della sua pace, che la monachella si irritò non senza qualche ragione contro questo improvviso ostacolo e si meravigliò di non trovare in sé il vigore e il rigore delle vere sante, che non odono che una voce. Il dir di no e seguitare la sua via sarebbe stato più naturale e più semplice per lei e anche per la gente che si occupa dei fatti altrui, perché, infine, nulla di più ridicolo d'una mezza monachella che sulla soglia del convento si volta a sposare il primo che capita. Con tutto ciò al di sotto delle prime ragioni andava formandosi e crescendo un'altra convinzione, fatta più di coscienza che di ragioni, una coscienza mista a uno sgomento indeterminato delle conseguenze, che il suo decidersi, qualunque fosse, avrebbe trascinato con sé. Scese anche lei in cucina, come al solito, a cena. In casa Botta, seguitando gli usi antichi, ognuno pigliava un posto a una gran tavola, dov'erano distribuite molte scodelle in disordine, servite senza lusso di tovaglie e di tovaglioli. Un pentolone solo bagnava le zuppe dei padroni e dei castaldi, che tolta la ciotola in mano, sedevano in giro sui sacchi e sui barili a sbrodolarsi lo stomaco. Un'unica lucerna a petrolio rischiarava il vasto camerone, ingombro più che arredato di vecchie tavole, di sedie spagliate e zoppe, di botticelle, di sacchi pendenti dal soffitto, di molta roba usata, inutile o dimenticata, che la pigrizia lasciava lì e il disordine pigliava a calci. Bertino quella sera non fece che piangere tutto il tempo. Era arrivato anche l'attestato scolastico di Maria con delle note scadenti e una lettera scoraggiante del padre rettore. Mario, il maggiore dei due fratelli di Arabella, avrebbe dovuto corrispondere con più riconoscenza agli sforzi e ai sacrifici di papà Botta. La mamma ne aveva gli occhi rossi, ma ordinò alla figliuola di non dir nulla a quel povero uomo. In quella casa si giocava a chi sapeva più bene nascondere: e un male, che si poteva guarire a tempo, si copriva di cenci finché fosse incancrenito. Arabella, vestita d'una divisa scura di collegio, che davale già l'aspetto di monaca, cogli occhi fissi in una scodella d'orzo bollito, sentì tutta la tristezza di quella gran casa in decadenza, una barca sdruscita, troppo piena di roba e di gente, che faceva acqua da tutte le parti, dove ogni sera venivano a radunarsi i rancori, le delusioni, le tristezze di giornate lunghe, piene di fatiche inutili. Quel povero Bertino non cessò mai dal piangere. Era malato, si vedeva, d'un male che nessuno credeva necessario di curare e al quale ognuno dava un nome diverso. Sentendosi anche lei un gran peso alla testa, colse un pretesto e si ritirò prima del solito nella sua stanza, dove si chiuse al buio, per bisogno di raccogliere i suoi pensieri. Perché avrebbe dovuto maritarsi? Quando aveva ella pensato mai che ci fossero degli uomini al mondo e che ad uno di questi uomini avrebbe dovuto legare la vita e l'anima? La sua vita, più ricca di pensieri che di passioni, trattenuta anche dagli spontanei rigori di una natura tenera e delicatissima, più irrigidita che scaldata dall'educazione sistematica della scuola e della chiesa, intimidita dalle apprensioni provate fin da bambina, non conosceva nessuno di quei ciechi fenomeni dell'istinto, che turbano la giovinezza di altre fanciulle. Dell'amore ne sapeva quel poco che una collegiale può capire dai "Promessi Sposi" e dai proverbi della gente onesta, e andava, tutt'al più, a immaginare una tenera e affettuosa benevolenza tra uomo e donna, che ha per misteriosa conseguenza un certo numero di figliuoli. E con questi scarsi elementi della vita essa era chiamata a decidere della sua vita. Chi era questo bravo uomo a cui avrebbe dovuto consacrare la sua benevolenza? L'aveva mai incontrato una volta sulla sua strada? Credeva anche lui in Dio e nel bene? Come poteva dunque esitare a rispondere una parola che la salvasse subito e per sempre da una terribile responsabilità? Presa dalla voglia d'uscire al più presto da un'incertezza così penosa, accese un lume, levò dal cassetto un foglio e cominciò a scrivere a papà Botta i motivi morali che non le permettevano d'accettare l'offerta del signor Tognino. La sua vita, scriveva, era già consacrata allo sposo celeste, e non era la vocazione d'un giorno, ma il pensiero dominante di tutta la sua giovinezza. Per questo voto aveva già ricevuti replicati affidamenti di grazia, talché il venir meno alla promessa sarebbe stato per lei un tradire, un abbandonare sopra l'abisso un'anima bisognosa, l'anima del suo povero papà. In questa convinzione, che le maestre e i confessori avevano più volte ribadita nel suo tenero cuore, la fanciulla si sentì così dotta e agguerrita, che non le mancarono le parole calde e affettuose per convincere sé e gli altri; e dopo tre pagine la sua mano leggera scriveva ancora, come se un angelo guidasse la penna, provando essa stessa una soave emozione nel rileggere parole e frasi scaturite quasi miracolosamente dalla ricchezza del cuore, e che le inondavano il viso di lagrime. Sonavano le nove nel gran silenzio. Alle Cascine eran scomparsi i lumi e parevan già tutti addormentati. Dalla campagna non veniva che il rotolar sordo dei carri che battono la strada grossa, qualche abbaiare lontano di cani, due o tre volte il fischio del vapore della vicina stazione di Rogoredo. La notte era serena e scura, con un cielo gremito di stelle; per tutto un silenzio raccolto, entro il quale bisbigliava lo zampillo d'una bocca d'acqua che dava a bere ai prati. Arabella stava per chiudere la lettera, quando risonò improvvisamente un grido, che fece trasalire il cuore già gonfio e commosso. Pareva la voce della mamma. No, era ancora il piangere dolente di Bertino. Sente uno sbattere d'usci e gente che corre. Poi subito la voce di papà Botta che chiama: "Arabella!" Salta in piedi: "Che c'è?" "Vieni, io corro a cercare il dottore." E sente di nuovo il passo di papà Botta scendere la scala e correre attraverso i campi. "Che cosa c'è mamma?" Corse, entrò nella stanza della mamma e la trovò col bambino in braccio che si dibatteva in feroci convulsioni. La voce del piccino, dopo quel gran grido, usciva soffocata come un rantolo dalla gola e le manine annaspavano con violenza nell'aria, come se si sforzassero di togliere un laccio, lì alla gola. La povera mamma si era accorta da poco tempo che il suo Bertino moriva. Mezza svestita, coi capelli in disordine, bianca come la neve, non sapeva dir altro che: "Gesù, Gesù!" Arabella prese lei il bambino in braccio, spalancò la finestra e ve lo portò in maniera che la respirazione fu subito meno affannosa. Cercò coi diti di schiudere la piccola bocca inchiavata dalla convulsione; ma non poté. Finalmente venne il dottore, che giudicò un caso gravissimo di angina difterica. Bertino, un grassottello roseo, coi riccioli biondi, era il coccolo di tutti alle Cascine, e papà e mamma gli volevano bene anche per quest'ambizione. Ora papà pareva la morte in piedi, e la mamma, dopo aver brancolato un pezzo per la stanza senza conchiudere nulla, finì col cadere svenuta in mezzo alle donne. Il dottore non poté contare che sull'aiuto intelligente di Arabella, che tenne fermo il bimbo, mentre gli bruciavano in gola, soffocando nelle sue braccia i guizzi tremendi del povero angelo, resa forte del coraggio che la donna attinge alla pietà, fatta avveduta e intelligente da quella buona maestra, la natura, che mette nel cuore della donna ciò che la scienza non fa che confondere nei libri. Finita la crudele operazione, la sorella sedette accanto al lettuccio, dette delle ordinazioni, mandò via la gente, comandò che il bimbo fosse suo, notò i consigli del dottore e non si mosse più per ventiquattro ore da quel suo posto, finché durò la tremenda agonia, finché il piccino non ebbe dato l'ultimo respiro. Era la prima volta ch'essa vedeva soffrire a quel modo un'innocente creatura ed era il primo morto a cui chiudeva gli occhi; e le parve, attraverso i patimenti, di veder al di là, nel vasto mistero delle cose. Nella lunga veglia, nel faticoso sforzo dell'animo non sapeva a volte distinguere tra sé e la povera mamma, che andava e veniva come un fantasma. Era un patimento solo che stringeva due cuori; se non che la giovinezza e la baldanza delle forze facevano sentire alla figlia anche una superiorità morale, che la piegava a un senso di protezione verso la povera donna. Senza volerlo si sentì l'anima della casa. Si meravigliò di non aver conosciuto prima quel grande amore che la legava al fratellino, e contemplandolo spirato, provò lo strazio di chi si sente portar via il cuore. Qualche cosa d'irrigidito scioglievasi in lei. Non mai aveva abbracciato con tanta effusione d'affetto e di lagrime la sua povera mamma, che le ricordò nel suo sfasciamento la Madonna addolorata ai piedi della croce. E anche questa stessa pia tradizione di dolori sacri e adorati prese nel suo cuore un significato novissimo di verità, di umanità, di grandiosa comprensione, come se l'umanità saltasse fuori dalle venerate immaginette simboliche della via crucis. Nel dolore immenso conobbe l'amore, si sentì madre anche lei in qualche maniera dei piccini e dei grandi, e quando, dopo un sonno profondo di alcune ore, si risvegliò nella sua stanza e ritornò col pensiero alle cose di qua, le parve di aver fatto un lunghissimo viaggio. Rileggendo la lettera che aveva preparato per il suo patrigno, la trovò fredda e artificiale, e soffrì di non sentirla più come prima. Forse vi sono al mondo per una donna due sorta di vocazioni, di cui essa non aveva finora conosciuta che la più semplice. Nascose la lettera e rimandò la risoluzione del delicato problema a un altro momento. Continuamente ora avevano bisogno di lei. La mamma non faceva che piangere sul cadaverino e in quanto a papà Paolino metteva paura a vederlo. Lungo, scarno, col viso giallo, l'occhio itterico, i capelli irti come setole faceva e rifaceva quelle maledette scale, rispondendo a caso alle domande dei famigliari, alle consolazioni del curato, dimentico degli altri grossi dispiaceri, che per riguardo a questo si rassegnavano a tirarsi indietro. Arabella per mettere una nota di consolazione volle che il funerale del piccino fosse bello e gaio, come si usa in campagna cogli angioletti. Fece sonare a festa e mandò a raccogliere quanti fiori trovò. Preparò essa stessa la bara con molto verde e ordinò alle donne di condurre i bambini, di cui non c'è mai penuria, a ciascuno dei quali mise in mano un ramoscello di mirto. Tutti sentirono la seduzione di quei conforti, e quando il corteo si mosse sotto il sole d'una bella giornata di settembre e cominciò a sfilare lungo il canale pel viale dei salici che mena alla chiesa, tutti avevan gli occhi sopra la monachella, a cui dovevano l'edificazione commovente di quello spettacolo. Il funerale, al ponte, s'incontrò in una carrozza, che si tirò in disparte. Un vecchio signore e un elegante giovinotto saltarono dal legno e stettero col cappello in mano a veder sfilare la processione. Arabella, che veniva in coda alle bambine, credette di riconoscere il cavallo e il legno del signor Tognino e immaginò chi poteva essere il giovane robusto che era con lui. Il cuore, che aveva interamente dimenticato, balzò come al tocco d'uno spillo. Un profondo turbamento scosse il sangue. Il volto pallidissimo, stanco e sbattuto dalle lagrime, si accese improvvisamente d'una fiamma, che parve a chi la guardava dar fuoco ai sottili capelli biondi. Fu, quella la prima volta che Lorenzo Maccagno vide la figlia di Cesarino Pianelli.

La morte dell'amore

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De Roberto, Federico 1 occorrenze

Voi siete stata abbandonata da un uomo. L’avete amato, ma cominciavate ad essere stanca di lui; dopo la rottura, la vostra passione si è ridestata. Voi avete scritto quattro lettere che definiscono i principali sentimenti cozzanti adesso nel vostro cuore: in una vi rassegnate filosoficamente, in un’altra implorate con grande calore, la terza è l’espressione del sarcasmo sprezzante, l’ultima d’una tenerezza pietosa e disinteressata. Va bene? – È così. – Però, nello scrivere tutte queste lettere, una secreta idea vi ha guidata: quella di vivere ancora nel cuore o nella memoria di cotest’uomo, di produrre un’impressione nell’animo di lui, di obbligarlo a ricordarsi di voi, per ammirarvi, per rimpiangervi. Ora, voi volete sapere da me in qual modo potrete raggiunger meglio l’effetto. – Può darsi che sia per questo; ma siccome, qualunque di queste lettere io manderò, è quasi certo che sarò lasciata senza risposta, imagini che si tratti di prender commiato soltanto. – O per prender commiato, o per quell’altra ragione, il partito è uno solo. – Quale lettera debbo dunque mandare? – La vecchia dama rispose: – Nessuna –.

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