Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Noi siamo oggi i due ultimi rappresentanti di una scuola di lettura, che non uscì mai da Venezia, nemmeno ai tempi del Fur- lanetto, e che è stata abbandonata anche qui da vent'anni, a dir po- co. Perché si deve credere che nella musica il mondo sia imbecil- lito, che nessuno capisca più nulla?". "Non è vero, maestro, che oggi il setticlavio sia disconosciuto" e perché lo Zen alzava la voce, il vecchio gli accennò di moderarsi, dando un'occhiata all'uscio che menava verso la stanza di Nene. "Il setticlavio anzi è in onore. Ella sa, per esempio, che la città di Arezzo deliberò di alzare, col mezzo di una colletta europea, un monumento a Guido Monaco. Quale fu la gloriosa invenzione del- l'aretino? Il solfeggio o, per dirlo con un'altra parola, il setticlavio. È vero o non è vero?". "Si può solfeggiare senza setticlavio, mio caro". "Senza setticlavio si suonerà il pianoforte, perché le note vi stan- no belle e preparate, e basta pestare sui tasti. I suonatori di piano- forte sono appunto quelli che hanno barbaramente manomesso le ragioni del canto; ma l'ugola è il solo strumento creato diretta- mente da Dio, quindi il solo davvero divino, quello che deve im- porre la regola a tutti gli altri inventati dall'uomo. Legga, maestro, questo avviso pubblicato l'altra settimana a Napoli" e di nuovo ti- rava fuori dal pingue portafogli un'ampia carta stampata. "E l'invito al congresso italiano. Veda, al proposito dei quesiti sulla musica, è proposta la riforma della scuola di canto, poiché più d'ogni altro ramo dell'arte il canto giace in umili ed abiette condizioni È scritto proprio così. Ora, come si possono mai rial- zare le sorti del canto se non si principia dalla lettura?". "Non nego che la lettura abbia la sua importanza; ma qui s'inten- de altra cosa: s'intende la purezza dell'intonazione, il modo di emettere la voce, la delicatezza del fraseggiare, l'agilità, la grazia". Maria, socchiudendo l'uscio, mostrò il suo viso stravolto. Voleva chiamare il padrone, che non la vide; e non ebbe l'animo di scuo- terlo in quel momento di distrazione e di calma. "È l'ultimo forse!" pensò la serva, tornando a chiudere l'uscio. "Ma l'avviso di Napoli ha torto" continuava il vecchio. "Il canto è quale la musica lo vuole e lo fa. Passa il tempo dei gorgheggi; entriamo nell'età della passione e del dramma. Quel giovine, che tu detesti, autore dell'Ernani e del Rigo- letto.". "Ha corrotto il canto". "Come vuoi che abbia corrotto il canto se ha dato un nuovo im- pulso alla musica? Tutto muta quaggiù. Tu sei vecchio e caparbio; ma quando diventerai ancora più vecchio, quando giungerai alla mia età, in cui ci si distacca dal mondo, allora l'animo imparziale ti lascerà vedere le virtù del presente come gli errori del passato. Io temo, a dirtela schietta" proseguiva il maestro con accento dol- ce e insinuante "temo che uno dei miei peccati sia stato il setticla- vio. La logica è talvolta un inganno; e per amore della semplicità teorica si casca nella pratica in tali complicazioni da rendere vano ogni ragionamento e ogni sforzo. Non ostinarti; accetta il posto di Milano; continua ad essere utile alla gioventù, sacrificandole un vecchiume, forse un pregiudizio". Mentre il Chisiola parlava, l'al- tro mutava aspetto. Un grande scoramento s'impadroniva di lui; era come se la molla, che lo reggeva in piedi, si fosse spezzata d'un tratto. Gli caddero le braccia, ed il volto andava perdendo la sua vivace espressione. "Anche lei, maestro, è contro di me" mormorava "anche lei mi abbandona. Non mi resta più nulla, nulla, nemmeno la mia cara idea, per la quale avrei saputo morire!". Si udì un grido acuto, straziante. Il vecchio aprì l'uscio, precipitò nella stanza vicina, traversò l'altra correndo, entrò nella camera di Nene, che era morta, guardò il viso bianco e cadde a terra privo di sensi. Era il tocco dopo la mezzanotte quando lo Zen, che aveva vagato per le vie senza saper dove andasse, giunse, guidato dall'abitudine, al Caffè della Gloria A un tavolino quattro sensali giuoca- vano alle carte. Uno di essi, appena vide lo Zen, gli gridò: "Ehi, maestro, l'abbiamo fatta grossa questa volta. È stato qui dal padrone" e il padrone russava dietro il banco "l'usciere del tribu- nale, l'amico Toni, per intimarle di comparire domattina innanzi al giudice. Due truffe alla volta, niente di meno, maestro". Lo Zen sbarrò gli occhi; avrebbe voluto capire. Il sensale conti- nuò: "Non mi faccia lo scemo adesso. C'è di mezzo un pianoforte non suo, venduto ad un Tizio. E l'altra truffa che cosa è? Non me ne rammento". Il caffettiere, svegliatosi allora allora, intervenne, sbadigliando: "Si tratta di un libro, una strenna, credo, che questo buon galan- tuomo doveva far stampare; e si mangiò il danaro. Ma dove dia- volo li caccia i quattrini, che non ha mai un soldo per isfamarsi?". "Le donnette, le donnette" vociavano i sensali, sganasciandosi dalle risa. "E noi, che davamo da mangiare a questo bel mobile!". Lo Zen era già scappato lontano. Aveva un incendio nella testa: sentiva dentro nel cervello le fiamme che guizzavano, le case che rovinavano, i pompieri che distruggevano ogni cosa con i loro enormi picconi. Acqua ci voleva, acqua. Si gettò a capo fitto in un canale. Non poté annegare; aveva fatto una giravolta, e s'era tro- vato in piedi sul fondo, col capo fuori. Non gridava, non si curava di accostarsi alla riva; anzi il fresco dell'acqua doveva essergli gradito. All'alba due muratori, che passavano in un battello, l'alza- rono su e lo condussero all'ospedale, ove fu posto nella sale d'os- servazione. Due giorni appresso, chiuso nella camicia di forza, fu condotto al manicomio nell'isola di San Servilio. Lì a poco a poco riacquistò le maniere schiette di prima, il suo buon umore e la vecchia pas- sione del setticlavio. Era incanutito, ma ingrassava. I medici e gli infermieri gli volevano bene; le suore ne' giorni di magro gli face- vano preparare, arrostita sulla gratella, un'aringa salata, e gli dava- no un bicchiere di vin buono. Aveva scelto fra i suoi compagni, tutti tranquilli, i meno malinconici, e s'affaccendava nell'insegnar loro a solfeggiare e a cantare. Le sale, i corridoi e il giardino echeggiavano spesso di voci, che ripetevano per ore ed ore: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si Il maestro con lo scartafaccio del suo Trattato sul setticlavio batteva il tempo; e ne- gli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi armonie, i più stupendi cori, le più perfette fughe, una musica da paradiso. Non c'era uo- mo più felice di lui.

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

il pensiero dello spavento che essa avrebbe provato, vedendosi a un tratto abbandonata, l'interpretazione che un tale abbandono poteva ricevere dopo le aspre parole barattate in vagone, tutto ciò, misto a un inconsulto sentimento di rabbia, di gelosia, di compassione, lo cacciarono a corsa per un cinquanta passi sulla via ferrata, al chiaro di luna; ma la ragione gli dimostrò subito come fosse sciocco quel correre alla ventura e ritornò in stazione, che, quella notte, rappresentava un punto importante nella geografia della sua vita. Fra gli altri pensieri il più pungente era che Margherita avesse fatto apposta per dargli una lezione. Ma se per lo Spazzoletti era un'agonia, per la sora Ballanzini, quando rinvenne, l'idea che il suo Claudio viaggiava solo solo con quella bella signora, che sarebbe giunto con lei a Musocco, che l'avrebbe per necessità, per pietà, per cortesia, ricevuta in casa a passare la notte, che... che... quest'idea era la morte addirittura. Ricuperate le gambe, voleva ad ogni costo che le si procurasse una carrozza; ma nessuno si mosse, e le fu dimostrato che nessuno avrebbe voluto scomodarsi in quell'ora, che le strade erano cattive, piene di pericoli: che non valeva il conto per poche ore di differenza d'intraprendere un disastroso viaggio nel pieno della notte, mentre all'alba sarebbe passato il treno di Arona. Volere o no, dovette rassegnarsi anch'essa. Tornarono a guardarsi in viso. La luna nella sua stupida placidezza pareva che ridesse sgangherando la bocca. La strada ferrata si prolungava deserta e luccicante a destra e a sinistro in una lontananza piena di ombra e di misteri. Per tutto era un gran silenzio e una grande solitudine. Entrambi sentirono riempirsi gli occhi di lagrime e una cosa alla gola che minacciava di strozzarli. Il Caldara, che, non vedendoli uscire, era venuto a cercarli, dopo aver riso dell'avventura, invitò gentilmente anche la signora in casa sua, molto più che i Ballanzini di Musocco non erano persone sconosciute a Parabiago, anzi... Stavano quasi per avviarsi verso la carrozza, quando il capostazione gridò: - Signori, è annunciato un telegramma da Musocco. Fu come se sparasse una fucilata. Il cavaliere Spazzoletti e la sora Ballanzini accorsero con tanta trepidazione, con tanta indiscrezione, che a stento il capostazione poté persuaderli a non toccare la macchinetta, e a sedersi, e a star zitti e quieti. - Il telegrafo non è una campana - brontolò quel buon uomo del Capo. Si rassegnarono ad aspettare con pazienza. La punta dell'ago cominciò a picchettare la striscetta mobile di carta con un movimento nervoso e balzano, come il polso dei nostri due disgraziati. La stanza era illuminata da una lucerna posta sulla tavola telegrafica, coperta da un paralume che lasciava nell'ombra il soffitto e le pareti. Il tic-tac della macchinetta non era accompagnato che da un grave e lento toc-toc d'un grande orologio a muro rincantucciato dietro uno scaffale. Quando la punta dell'ago cessò di scrivere, il Capo trasse dall'astuccio gli occhiali, li inforcò sulla punta d'un naso che pareva l'insegna del vin buono, e aggrottando due folti sopraccigli bianchi e due baffi irti come due fascetti di fieno, si accostò alla lucerna. I nostri viaggiatori naturalmente gli si misero alle costole. - Ma che stagano al loro posto, benedetta pazienza! - esclamò il pover'uomo fuori di sé. - Già loro non ghe capiscono un'acca allo stesso. Dunque el dice: " Musocco, ecc. Strada libera, spedite vino... " Io credo che i due vedovi sarebbero rimasti stupefatti cent'anni a guardarsi in faccia, se il Capo non soggiungeva: - Ho capito. Questo viene a noi, e riguarda un carico di vino che abbiamo in magazzino; ma che sentano... Infatti il campanello annunciava che un altro telegramma urgente era in viaggio da Musocco. Questa volta diceva: " Cambiata moglie, dormiremo a Musocco, venite prima corsa ". Lungo sarebbe descrivere tutti i vari sentimenti che queste parole destarono nel cuore del cavaliere Spazzoletti e della sua dolce compagna: più a lungo ancora il descrivere l'accoglienza che le sorelle e la moglie del Caldara fecero alla sora Ballanzini e a' suoi papaveri. Dirò solo che l'amico per festeggiare gli sposi aveva fatto preparare il the, dolci e vin bianco, e una stanza imbiancata apposta con un letto di piume d'oca. Ma nessuno poté chiudere occhio per tutta la notte. Chi pianse, chi rise e chi pianse per troppo ridere. Spazzoletti si sdraiò vestito sopra un canapè e divorò un mezzo cuscino per la rabbia. Il cuscino gli fe' passare il pappagallo.

BALLANZINI: Anche mi me chiamo Marianna, Marianna Ballanzini, moglie a quel brutto mostro di Narciso Ballanzini che mi ha abbandonata sul lastrico. Se resti vedova on altra volta, prima de sposà on uomo ingrato, ti sposi ti el me pover gattin. LUIGI: Non arriva qualche altro telegramma? CAPO: Ne arriva uno dalla Bullona. BALLANZINI: Citto, sta volta l'è propi lu... CAPO: Ha capito de stare indietro, benedeta dona. BALLANZINI: L'è el me marì che parla, donca gh'ò diritto. cAPo: Lei mi guasterà la macchina e allora addio dispaccio. LUIGI: Abbia pazienza, signora Ballanzini... CAPO: " Avvertire signor Spazzoletti moglie fermarsi Bullona casa Ballanzini in attesa prima corsa di domani " LUIGI: Meno male... BALLANZINI: Come meno male? LUIGI: A Milano mia moglie non conosce nessuno... e son contento che passi la notte in una casa ospitale. BALLANZINI: Niente affatto: ghel manda subit indree: moglie Ballanzini niente voler in casa bella sciorina: venire con manico scopa. LUIGI: Signora Ballanzini lei fa torto a me, a mia moglie, a suo marito e anche un poco a lei stessa. È meglio pigliar la cosa allegramente, cercar di passar la notte meno male in questo paese, e domani colla prima corsa andremo tutti quanti a far colazione in casa Ballanzini, se lei c'invita. BALLANZINI: Poiché lei mi pare un uomo abbastanza sicuro del fatto suo, se el voeur accompagnare coll'ombrella el presentaroo in casa Riboldi dove la sora Paolina la podarà damm de dormì a tutti e due. L'è ona brava sciora e anche el sor Riboldi l'è on bon ometto. Ghe vendiamo le gallette tutti gli anni. Ghe rincress no a portaa el miscino? Paese che vai, dice el proverbio toscano, donna che trovi... Son minga giovina come la sua sposina, ma Narciso el dice che valgo ancora i miei cinque soldi, quand son on poco rangiata su.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 4 occorrenze

Da sette o otto anni sua madre si era spenta, in una fatale malattia di languore crescente, senza dolori, senza spasimi, ma portando, dentro il cuore, il dolore spasimante, atroce, per quel marito quasi folle che dava colpi con l'accetta della sua pazzia sul povero, gramo albero di casa Cavalcanti, buttandone i rami sopra un rogo vorace, per quella povera sua figliuola che restava sulla terra, abbandonata alla compagnia di quel padre pazzo, andando incontro alla miseria e forse al disonore. Ah, Bianca Maria rammentava, rammentava il volto di sua madre, morente così, fatta terrea da un pensiero roditore, inconsolabile, di dover morire così presto: e da questo ricordo indelebile, una gravità restava ancora e rendeva austera quella sua giovinezza e l'allontanava da tutti i desideri, da tutte le aspirazioni, da tutte le civetterie di quella età. Che sapeva ella dell'amore? Nulla. Viveva tristemente, privata di tutte le dolcezze, accanto a un padre che ella rispettava e di cui la fatale passione la sgomentava, sentendo intorno a sé una oscura ma imminente minaccia, sentendo già i vergognosi morsi della povertà, sentendo tutte le necessarie, dolorose transazioni col decoro, con la dignità, sentendo in sé un pericolo ignoto, come il germe della morte: e un uomo saggio, forte, buono, al sicuro da tutti i pericoli, al sicuro da tutte le miserie, fatto per vincere ogni ostacolo, fatto per dare soccorso, apportatore di conforto, la cui presenza, la cui voce, le cui parole erano una sicurezza, una speranza, un saldo appoggio, con un nome lontano da ogni follia, vincitore di ogni morbo, puro di ogni macchia, quest'uomo le stendeva la mano per salvarla, - ebbene, ella prendeva quella mano, ciò era naturale, ella non sapeva e non poteva fare altro che prendere quella mano, e amare quell'uomo. Inconsciamente: amandolo, perché doveva amarlo; perché così doveva essere. Ed ella provava per la sua età, per il suo temperamento, per l'ambiente in cui viveva, per tutta la sua esistenza, quella forma ingenua e candida dell'amore, che è della creatura debole, battuta dalle tempeste, la quale si rassicura, si quieta nella protezione della forza. Quando Bianca Maria si trovava sola, nel tetro appartamento dove i rari mobili assumevano un aria anche più vecchia e più miserabile, con quei due vecchi servi sempre malinconicamente affaccendati a un lavoro per nascondere la povertà, per dissimularla sotto le false apparenze di una decente agiatezza, ella aveva freddo nell'anima, le pareva di esser antica e povera e abbandonata come la casa, come i mobili, destinata a languire nella privazione di tutto: quando suo padre appariva, sempre turbato, sempre pronto agli impeti di un carattere violento, sconvolto da una passione indomabile, credulo in tutti i vani sogni della fantasia, cedente a un pauroso misticismo, evocante intorno a sé tutto un terrificante mondo di fantasmi, ella smarriva subito la quiete, il cervello le si turbava, e i bizzarri fenomeni spirituali le si comunicavano fatalmente, ella non sapeva sottrarsi a quell'incubo, a quelle visioni, si sentiva così debole, così indifesa contro gli attacchi di quella pazzia cabalistica, che tremava, nello squilibrio dei suoi nervi, nella febbre che dalle vene veniva a tumultuare nel cervello. E sempre, sempre, quando era sola, o quando suo padre era con lei, ella si vedeva assai misera, assai misera, senza sostegno, senza guida, sballottata dal vento impetuoso, assorbita da un vortice turbinoso. Ma bastava che Antonio Amati mostrasse la sua virile figura, dove la forza aveva il carattere di genialità, bastava che egli le facesse udire la sua voce ferma, dalle intonazioni un po' rudi, che si faceva dolce solamente dirigendosi a lei, bastava che la sua mano toccasse la mano di lei, perché ella sentisse, come per un influsso magnetico, un calore, una vivacità giovanile trascorrerle per le fibre, bastava sì, che la sua mano toccasse la mano di lei, perché ella si sentisse guidata, protetta, procedente sulla via della vita e della felicità. Con un soffio si dileguavano tutte le nere nubi, ella vedeva il cielo azzurro; la febbre si temperava, spariva, e sparivano con essa le tetre fantasie e gli spaventi che fanno allividire le labbra: ella si tranquillizzava, quasi la ravvolgesse nel suo circolo di difesa e di dolcezza una benedizione divina. Le sembrava, quando egli era là, di ritornare bambina: era Amati il più saldo, il più sicuro, il più forte. Così lo amava ingenuamente, inconsciamente: e questa forma di amore comportava una grande umiltà, una grande tenerezza, qualche cosa di assai candido e di assai fervido, per cui ella riviveva. E nella loro sostanziale diversità i due amori s'intendevano, si fondevano, si completavano. Quell'armonia spirituale che rappresenta le più belle, ma anche le più rare e le più brevi giornate dell'anima, era cominciata dal primo giorno in cui lei, dal suo triste balcone, e lui, dalla severa stanza da studio che vedeva tanti strazii, si erano guardati. Dovunque i due pensieri, i due sentimenti, le due persone si erano incontrate, quell'armonia si era fatta più grande. Quando ella levava semplicemente i grandi occhi pensosi a lui, cercando affetto e protezione, egli sentiva trabalzare il suo cuore, nel desiderio del sacrificio. S'intendevano, senza parole, mirabilmente. Egli era venuto dalla terra, da un piccolo borgo perduto in una vasta provincia, con scarse comunicazioni con la città: aveva fatto il suo nome, la sua fortuna, lottando con la vita e con la morte, con la indifferenza degli uomini e con il loro odio, acquistando nella lotta una idea formidabile della propria energia, credendo solamente in sé stesso: aveva un sangue plebeo e una gran mente: nessuna raffinatezza che venga dall'educazione, dall'ambiente, e la vittoria delle sue idealità. - Quanto diverso da lei! Era ella una fanciulla di gran sangue, mobilissima, squisita per istinto, per educazione, per ambiente: avvezza a vivere di pensiero e di preghiera: senza ombra di volontà, per resistere al rovinoso fato della sua famiglia: senz'energia contro la passione paterna, senz'energia per salvare sé stessa e il nome, vivente fra le crescenti privazioni, fra i crescenti disagi, avendo cominciato troppo presto le dolorose tappe della via crucis vedendosi innanzi un avvenire di sconforto - quanto diversi e lontani, quei due! Pure s'intendevano, per l'arcana legge dell'amore che questo vuole, che mescola tutto, sentimenti, sensazioni, tradizioni, origini, che mette il nobile dove è il plebeo, che pone una forza accanto a una debolezza, che lega invincibilmente due persone, appunto per la loro diversità. A lei non pareva di derogare, amando l'oscuro contadino meridionale, che era diventato un gran medico: a lui non pareva di discendere, di fronte a quella famiglia in decadenza, impoverita di sangue, di denaro, di coraggio. Di lontano erano partite le due anime, che si dovevano amare e avevano percorso gli infiniti spazii spirituali per incontrarsi, per riconoscersi, per ricongiungersi: è la gran teoria d'amore di Platone, che solo gli sciocchi e gli impotenti di cuore osano deridere; la gran teoria amorosa, ancora una volta, dopo milioni di volte, si realizzava. Non pareva fatto apposta, che questo uomo ignoto e umile avesse dovuto attingere, per propria forza, alla fama e alla ricchezza, conoscendo la scienza e conoscendo la vita, perché potesse consolare quella fredda e smorta e dolorosa giovinezza di una fanciulla di alta nascita, che languiva nella solitudine e nella segreta povertà? Quando la servente del convento delle Sacramentiste, dal gelido parlatorio dove Bianca Maria cadde in deliquio, era corsa all'ospedale, per cercare un medico e ostinatamente aveva insistito perché Antonio Amati venisse a soccorrere l'inferma, in quell'ora, il fatale incontro era accaduto; e le glaciali mani sottili, donde pareva si fosse ritirato tutto il sangue, si erano finalmente riunite nelle salde mani robuste del dottore, e ancora una volta, la mirabile attrazione per cui le anime amanti superano lo spazio, il tempo, i mille ostacoli, la mirabile attrazione, di cui sventurato chi non ha inteso la potenza, avea riunito coloro che dovevano essere riuniti. Come quei due non si sarebbero intesi, se solamente Antonio Amati nella sua scienza poteva salvare Bianca Maria dal morbo che le attaccava le forze vitali, se solamente Antonio Amati poteva darle la salute, la ricchezza, la felicità? Come non intendersi, se quella ingenua dolcezza, se quella mite poesia, se quella sorgente di ogni affetto, se quanto mancava alla laboriosa e dura esistenza di Antonio Amati, solamente la snella e casta figura di Bianca Maria poteva arrecarvelo? Egli era la forza, in tutta la sua coscienza serena e giusta: ella era la bontà, in tutta la incoscienza misericordiosa e tenera: quella bontà e quella forza si chiamavano per unirsi, seguivano il destino che le voleva unite, perché l'amore creasse, ancora una volta, un bellissimo miracolo di armonia. Quando ella doveva volere na cosa, levava gli occhi nella faccia del suo innamorato e ne beveva la volontà; quando egli la guardava, sentiva ammollirsi tutte le corde tese della sua energia e fiorirgli nel cuore la gran poesia della bontà. Ma era destino, che tutte le forme della vita dovessero apparire al dottor Antonio Amati, come una lotta: e che ogni premio, concesso in questa esistenza, agli uomini di talento e di energia, fosse conquistato da lui dopo una fiera battaglia. Così anche fra lui e l'amore, fra lui e Bianca Maria Cavalcanti, sorgeva un gravissimo ostacolo: il marchese Carlo Cavalcanti. Ah, dal primo momento in cui Amati lo aveva visto, il fiero signore allucinato e violento, aveva inteso nascere in sé una diffidenza penosa, e aveva compreso esser nell'animo di Cavalcanti una ostilità sorda, ma profonda. Forse li dividevano la nascita, la condizione del passato, la condizione del presente, e l'opposto concetto che avevano della vita e delle sue responsabilità: forse colui che era venuto dalla terra, forte e fecondo di bene, come essa, disprezzava quella decadenza di salute, di fortuna, di decoro, e forse colui che viveva solo nel superbo criterio di una vita data al lusso, ai piaceri, alla generosità, disprezzava l'ostinato e grezzo lavoratore, parco di godimenti, schivo dei piaceri, troppo severo per sé e per gli altri: e forse l'uno avvertiva il disprezzo dell'altro, e si sentivano lontani le mille miglia, con ideali così diversi, che giammai avrebbero dovuto incontrarsi. Forse la ragione dell'antipatia scambievole, della freddezza di Amati, della ostilità di Cavalcanti, era più intima, più profonda, più misteriosa: forse nessuno di loro osava confessarla a sé stesso: infine, era un sospetto, una diffidenza, un ostilità inconscia. Certo, Amati, vedeva in Carlo Cavalcanti il pericolo ignoto dove potea smarrirsi la ragione e la vita di Bianca Maria, lo vedeva così vagamente, ma ostinatamente, senza saper bene il come e il perché, ma sentendo lì, lì, il pericolo: e Carlo Cavalcanti sentiva in Antonio Amati il giudice, direi quasi il nemico. Due volte, quando il dottore aveva assistito Bianca Maria Cavalcanti nel suo deliquio e in quella febbre violenta che l'aveva fatta delirare, per un giorno e una notte, egli aveva detto al marchese Cavalcanti aspre parole sulla salute di sua figlia: e il vecchio le aveva udite, fremendo di collera, rodendo il freno, piegando il capo innanzi a colui che era stato il soccorso nell'ora cattiva, ma guardandolo fieramente, ma crollando le spalle, quando egli minacciava che la fanciulla sarebbe morta. Per quale acciecamento egli si era rifiutato, sempre, di trarre via Bianca Maria da quella casa fredda e povera, dove tutte le forze della giovinetta languivano? Certo, ostinatamente si era rifiutato, trasalendo di emozione, ogni volta che il dottore gli aveva ripetuto questo discorso: e quella emozione pareva affetto, pareva superbia, pareva paura, quasi che il vecchio capisse dove era il rimedio e non potesse, non volesse usarlo. Dubbioso, affacciandosi sempre a qualche cosa di buio, il dottore si arrestava, temendo di urtare certe suscettibilità. Il marchese era così povero, come avrebbe potuto cambiar casa? Era naturale che il volto gli si tingesse di sgomento e di malinconia, quando gli dicevano che sua figlia languiva e che si avviava a un deperimento fatale: era naturale che aggrottasse le sopracciglia per l'orgoglio offeso, quando gli veniva fatta qualche offerta di servigi. Eppure il suo orgoglio aveva dovuto crollare, in quel sabato mattina, quando aveva chiesto in prestito del danaro ad Antonio Amati, dicendogli che lo avrebbe restituito nella giornata: ra dovuto svanire il suo orgoglio, quando, due o tre volte, sempre il sabato, con una letterina urgente, scritta con una grande calligrafia tremolante, aveva chiesto ancora denaro, ancora, alla borsa di Amati, sempre promettendo per la giornata, a restituzione di tutta la somma, sempre mancando. Arrossiva un poco, scrivendo: e il vecchio capo canuto si piegava sul petto, a piangere la sua dignità di signore e di vecchio che si perdeva, ma la passione era così forte, avrebbe fatto denaro di tutto! E quando il dottore gli mandava il denaro, in una busta e poi in un altro foglio di carta, perché i servi non si accorgessero del contenuto, il marchese aveva un moto di mortificazione, e apriva nervosamente la busta, con una lacerazione brutale, mentre il sangue gli andava alla testa; Amati non scriveva niente, ma non rifiutava mai. Alla sera, mentre padre e figlia erano nel salone, ella lavorando al suo fine merletto, egli andando su e giù per lo stanzone, a calmare la nervosità del suo organismo, il dottore appariva: il marchese frenava a stento un gesto di fastidio e andava incontro al visitatore con una falsa disinvoltura, impallidendo: ambedue si salutavano, assai imbarazzati, mentre il viso di Bianca Maria rifulgeva; e malgrado il servigio reso, non nasceva fra loro cordialità, restavano in presenza l'uno dell'altro, freddi, misurandosi con lo sguardo, sapendosi nemici. Quando il dottore, con l'audacia che gli veniva dal carattere e dall'amore; andava a sedersi dirimpetto a Bianca Maria, e le domandava della sua salute, quando quei due si guardavano negli occhi, tacendo, il marchese si turbava, e un tremore di collera passava nella sua voce. Egli era l'ostacolo. Invano, ogni volta che la costringente passione l'obbligava a chieder denaro ad Antonio Amati, egli si sentiva sempre più decaduto, innanzi a costui: invano Amati gli rendeva servizio senza esitare, adoperando una delicatezza nova: - queste bizzarre relazioni non arrivavano a cancellare la diffidenza, il sospetto, l'antipatia. Forse, quei prestiti chiesti con una bugiarda scusa, con una bugiarda promessa, scavavano fra loro quel precipizio di dolore, di vergogna, di umiliazione, che vi è fra chi chiede e chi dà: e il gran sogno di Cavalcanti, oramai, era guadagnare molto denaro, per fare la gran vita, dopo aver buttato in faccia al medico i suoi quattrini e averlo scacciato. Finiva per odiarlo, per quei beneficii che gli era così duro invocare e che la sua miserabile passione lo costringeva a cercare. Antonio Amati comprendeva: sapeva che Cavalcanti era l'ostacolo. Naturalmente, sapeva quale era la bocca vorace che inghiottiva tutti i denari del vecchio e anche quelli non suoi, sapeva la febbre da cui era divorata quella vecchia fantasia di gentiluomo: sapeva che quella miseria era il risultato di una colpa: sapeva che quelle domande di prestito erano mosse da una forza irresistibile: ma egli non voleva altro che Bianca Maria non soffrisse, che fuggisse quel triste ambiente di mestizia e di povertà. Dal giorno in cui ella, nell'abbattimento fisico e morale della febbre, gli aveva detto d'amarlo, pregandolo che la conducesse via, egli aveva rinnovato due o tre volte l'offerta della sua casa, in provincia, dove era sua madre. Ella aveva crollato il capo, con un lieve sorriso malinconico: aveva sospirato: non aveva detto nulla. E una sera, in cui ella era stata assai sofferente, soffocando di caldo in quell'appartamento senz'aria nell'estate e glaciale nell'inverno, egli aveva diretto la sua offerta a Cavalcanti, enunciandola semplicemente, cercando di esser cordiale. Un momento, Cavalcanti aveva pensato: sua figlia lo guardava ansiosamente, attendendo la risposta: - Non è possibile - disse recisamente, il marchese di Formosa. - E perché? - domandò, audacemente, il medico. - Così, - ribattè il vecchio ostinato. - E voi, signorina, che dite? Il dottore guardava intensamente la fanciulla, per infonderle forza di ribellione, per affascinarla alla rivolta. Alla poveretta batterono due o tre volte le palpebre, guardò suo padre e poi disse: - Quel che dice mio padre: non è possibile. Avrebbe voluto, lui, in quei momento, ricordarle le soavi parole con cui ella gli aveva detto, un giorno, di trarla fuori da quel baratro, di portarla lontano, in un paese di sole, di verde: ma in quegli occhi chinati al suolo, in quella seria espressione della bocca, egli trovò un'improvvisa freddezza, e gli parve che l'anima della fanciulla gli sfuggisse. Capì di urtare contro l'obbedienza filiale, una obbedienza profonda, incrollabile, quasi ieratica, come se ne incontra nelle alte classi, dove l'autorità paterna è rispettata ciecamente e dove la famiglia ha carattere di regno assoluto. Una collera soffiò nel cuore del dottore che fremeva dell'ostacolo, e che vedeva crollare in un attimo la possanza dell'amore, di fronte a un sentimento, a un istinto più semplice ma più antico, di fronte a un affetto che avea per sé, oltre il legame del sangue, quello della tradizione e della lunga consuetudine. Non parlò, non le diresse uno sguardo di rimprovero, poiché vedeva essersi levata incontro a lui una potestà superiore, che per venti anni aveva tenuto a sé il cuore della fanciulla; e la grandezza dell'amore gli parve a un tratto ammiserita, giacché ella aveva potuto rinunziare, dinanzi a una parola del padre, a quell'idillio, così lungamente sognato nella solitudine della sua stanzetta. Dopo poco, il dottore andò via, freddo, gelido come quel padre e quella figliuola, che sembravano ombre in quella gran casa deserta; andò via, portando seco la prima delusione dell'amore, che è amarissima, fremendo d'ira e di dolore. Quando fu solo, nella sua casa ricca ma solitaria, tentò invano di distrarsi nella lettura di una rivista scientifica: era ferito, nell'amore e nell'amor proprio. Simile a innamorato giovinetto, per ingannare quell'amarezza e per sfogare quell'eccitamento, egli si pose a scrivere una lunga lettera incoerente, piena di passione e di collera. Ma quando la ebbe finita, il suo forte animo si era sedato; la lettera in cui egli accusava Bianca Maria d'indifferenza e di crudeltà, gli parve ingiusta, rileggendola, gli parve ridicola. Egli era un uomo, non un fanciullo: aveva i capelli bianchi, non doveva abbandonarsi a escandescenze di ragazzo. Lacerò la lettera: ma dopo si sentì vincere da uno scoramento. Il primo, purissimo fiore di poesia del suo amore era troncato: l'idillio era dileguato: tutto l'avvenire non poteva essere che un dramma. Sì, il combattimento era fra Antonio Amati e il marchese Carlo Cavalcanti, segreto ma ostinato, sordo ma acutissimo. Il vecchio esercitava un grande potere sulla sua figliuola, si potea dire che ne piegasse la volontà, con una imperiosa affascinante occhiata: e non voleva che nessun altro arrivasse a dominarla, tremava di vedersi sfuggire quella influenza. Per amor proprio paterno, per quella esagerata gelosia dei genitori che cominciano per detestare coloro che amano i loro figliuoli, per qualche altra misteriosa ragion spirituale, egli si metteva fra sua figlia e Antonio Amati, quando vedeva che il dominio di costui potesse allargarsi. Se erano soli, padre e figlia, non ne parlavano mai: ella per senso di obbedienza, aspettava sempre di essere interrogata per parlare, e Cavalcanti si asteneva dal nominarle il dottore: la fanciulla avvertiva quella riservatezza e si chiudeva sempre più in sé stessa, vedendo già i primi, tristi segni di quella lotta. Una sola lettera Amati le aveva scritto: e quella ella conservava, preziosamente, rileggendola, ogni tanto, perché vi spirava una onestà, una serenità, una forza che mancava totalmente alla sua esistenza misera e torbida, uscita da un dolente passato, avviantesi a un oscuro avvenire. Già piegava il capo, ella, comprendendo che neppur nell'amore avrebbe trovato la sua salvazione, poiché le pareva fosse legata a una bizzarra fatalità, poiché una incantagione sembrava che fosse stata gittata su tutta la sua esistenza. Quando Antonio Amati ricompariva la sera, ostinato a non cedere il campo alla tirannia singolare paterna, ella levava gli occhi, timidamente, sopra ambedue: e la falsa disinvoltura, la falsa cordialità con cui si trattavano, la rianimava, il roseo colore risaliva alle sue guance bianche; ma se suo padre aggrottava le ciglia, se la voce del dottore si facea dura, ella impallidiva, di nuovo, spaurita. Il padre le aveva accuratamente nascosto i servigi pecuniarii che il dottore gli aveva resi e che continuava a rendergli: si vergognava di confessare a sua figlia la diminuzione di dignità, che la sua passione gli aveva strappato. E la creatura buona e pura che si rincorava, vedendo la salda mano coraggiosa che a lei si stendeva per strapparla all'ambiente di decadenza, ogni tanto trasaliva, poiché suo padre, bruscamente violentemente, allontanava da lei quella mano. Ella non chiedeva il perché: sua madre aveva languito troppo rassegnatamente sino alla morte, perché ella osasse ribellarsi: soltanto viveva alla giornata, così, senz'approfondire il dissidio fra suo padre e Amati, lasciandosi andare alla dolcezza del novo sentimento, tentando fuggire all'amarezza dei presentimenti. Ma egli, che era uomo di scienza e in cui l'osservazione primeggiava, trovando incomprensibile il contegno del padre, cercava frenare il suo cuore, per giungere a strappare il segreto del cuore di Cavalcanti. Sapeva che la febbre del giuoco lo rodeva; qualche volta, mentre egli era lì, in quel grande salone, accanto a Bianca Maria, si erano presentati due o tre del gruppo dei cabalisti, a cercare il marchese: costui era restato imbarazzato, e una volta si era chiuso con costoro nel suo studio, donde le voci arrivavano smorzate, confuse: due altre volte, impaziente, nervoso per la presenza del dottore, era uscito con loro. - Che persone sono costoro? - aveva egli domandato alla fanciulla. - Amici, - ella aveva detto, volgendo il capo dall'altra parte. - Vostri? - No: di mio padre. Aveva fatto intendere di non voler parlare di costoro; ed egli aveva taciuto. Un'altra volta, un venerdì sera, si era presentato don Pasqualino De Feo, l' assistito, on la sua ciera morbosa e i suoi vestiti sciatti e sporchi: d'un tratto il dottore si era rammentato di averlo visto, sì, proprio all'ospedale, dove era giunto tutto lividure e contusioni, quasi avesse preso una solenne bastonatura, e si rammentava il parlar fantastico di costui. Mentre l' assistito iscorreva sottovoce col marchese, nel vano di una finestra, il dottore aveva chiesto pian piano alla fanciulla. - Anche costui è un amico? Ma l'aveva vista così smorta, con gli occhi così pieni di sgomento, tanto vinta dalla paura di qualche cosa che egli non sapeva, che aveva taciuto. Si ricordò che nel giorno del deliquio, rinvenendo, ella aveva voluto mandar via di casa, quell'assistito. Vi è antipatico, è vero? - No, no - disse ella, - io sono sciocca. Temeva che Amati avesse disturbato il colloquio di suo padre con l' assistito; a costoro trovandosi impediti a discorrere, si disponevano a uscire. L' assistito passava, con gli occhi bassi, ma Amati gli gridò: - Siete guarito, eh, De Feo, di quella bastonatura? Quello si scosse, si passò una mano sulla fronte e rispose, senza guardare il medico. - Ho avuto la grazia, da chi mi ha mandato la disgrazia. - E da chi? - chiese il dottore, ridendo del suo riso di scettico. L' assistito acque. E Cavalcanti, il cui volto si era acceso, i cui occhi scintillavano, soggiunse subito, con la sua voce turbata da una emozione: - Dallo spirito. - Quale spirito? - domandò, con una risatina, il medico. - Caracò, lo spirito che assiste on Pasqualino, - rispose enfaticamente il marchese. - Voi ci credete, marchese? - ribattè Amati, gittandogli uno sguardo scrutatore. - Come nella luce, - replicò il nobile, levando gli occhi al cielo, esaltatamente. - E voi, signorina? - chiese il dottore a Bianca Maria, investigandone la fisonomia. Ella fu lì lì per rispondere, che non ci credeva, che non ci voleva credere, che aveva grande paura di crederci: ma le parole le furono gelate sulla labbra, da uno sguardo stralunato del padre. Si vide, sulla faccia, lo sforzo che ella faceva per mandare indietro il suo grido di dolore e, vagamente, facendo un gesto largo, ella disse: - Non so nulla di ciò. L'assistito ogguardava obliquamente il medico: e per la prima volta alla espressione di misteriosa umiltà, si frammischiò, sul suo volto, un'aria di rabbia. Torse il collo, come se trangugiasse un osso duro. E tirò nascostamente per la manica il marchese Cavalcanti, per andarsene: ma costui, nelle parole, nel sogghigno di Amati, aveva intravvisto lo scetticismo più completo: e come tutti gli allucinati, sentì in sé crescere a mille doppii la fede nello spirito assistente e provò un grande ardore di convincere Amati: - Voi non credete allo spirito, dottore? - No - disse seccamente costui. - Né allo spirito buono, né al cattivo? - A nessuno di essi. - E perché? - Perché non esistono. - Chi ve lo ha detto? - Ma la scienza, ma i fatti: basta, mi pare, - replicò semplicemente il dottore. - La scienza è sacrilega! - gridò il marchese, irritandosi, - e i fatti hanno dimostrato che gli spiriti esistono. Posso dimostrarvelo. - È inutile: non ci crederei, - e sorrideva lievemente per compatimento. - Gli spiriti ci sono, signor mio, ed è in mala fede che i cosiddetti increduli negano la loro esistenza: in mala fede, perché non sanno i fatti e li dichiarano falsi. Poiché non hanno visto nulla, coi loro occhi foderati di scetticismo, dicono che nulla vi sia. Mala fede, mala fede. Il medico aveva sorriso di quella sfuriata: ma guardando Bianca Maria, vide che ella era alla tortura, intese che in quella discussione, forse, si celava il segreto di quella ostilità. Ed essendo abituato alle escandescenze degli infermi e degli esaltati, guardava il marchese con l'occhio medico, seguendo le violente fasi di quell'eccitazione. - Mala fede, mala fede, - strillava il marchese, dando le volte nel salone e parlando a sé stesso. - Centinaia di galantuomini, di scienziati, di gentiluomini, di donne, hanno veduto, toccato, parlato con gli spiriti, hanno avuto con essi comunicazioni importanti, hanno stampato libri, grossi volumi, ed ecco che si nega, così, a priori. a che credete voi che sia, quest'assistenza degli spiriti? Si era fermato innanzi ad Amati, dirigendogli questa domanda. Per quanto il medico non volesse aumentare, con la contraddizione, l'accesso di esaltamento di Formosa, la domanda era troppo diretta, per non rispondervi. Il medico guardò la fanciulla: e lesse in lei tanta ansietà segreta di conoscere il vero, la vide così agitata, che la sua credenza gli sfuggì nettamente dalle labbra: - Credo che sia un impostura, - disse. L'assistito evò gli occhi al cielo, pieni di lacrime. Una serenità si diffuse sul viso di Bianca Maria. Ma la voce di Cavalcanti fischiava di rabbia: - Dunque, mi credete uno sciocco? - No, ma l'animo vostro è troppo leale e generoso insieme, per non essere accessibile all'inganno. - Frottole, frottole, - gridò il marchese, convulso. - Da qui non si esce: don Pasqualino è un impostore e io sono uno stupido. - Nego la seconda parte, - replicò seccamente il dottore. - Ma confermate la prima? - Sì, - soggiunse, coraggiosamente, il medico. - Come lo dimostrate? - Non ho bisogno di dimostrarlo: rispondo, perché m'interrogate. D'altronde, ora che mi ricordo, don Pasqualino fu bastonato da due giuocatori, esasperati di non avere mai i numeri giusti. A voi, ha detto che è stato lo spirito Caracò… - Finzioni, finzioni, la bastonatura dei giuocatori, per non rivelare il segreto dello spirito! - Ma i due bastonatori furono arrestati e confrontati con lui, all'ospedale: debbono anzi essere stati condannati a un mese di carcere. - È vero, questo, don Pasqualino? - domandò severamente il marchese. L'assistito ece un atto di desolazione, quasi gli riescisse impossibile di difendersi contro un'accusa ingiusta. Ma il dottore era stato ferito, da quella domanda di conferma. - Signor marchese, - disse gravemente, - io sono una persona troppo seria e troppo disinteressata, perché mi si metta in confronto con costui. Se per poco ho conquistato la vostra stima, in qualche modo, vi prego di risparmiarmi questa discussione. - Sta bene, sta bene, - disse subito il marchese il cui fiero animo era accessibile a quanto si diceva in nome della lealtà. - Tronchiamo. Le discussioni fra scettici e credenti, non possono essere che dolorose. Andiamo, via, don Pasqualino: forse un giorno il dottore vi renderà giustizia. Andiamo; veggo anche che Bianca Maria soffre. Convincilo tu, il dottore, figliuola mia, - soggiunse il padre, non senza malizia. - In che modo? - chiese costui, stupefatto. - Ve lo dirà lei, - replicò, ghignando, Formosa, e a uno sguardo smarrito di sua figlia, soggiunse: - Diglielo, diglielo quello che sai, te lo permetto, Bianca. A te, forse, crederà, tu sei innocente tu non hai interesse a ingannare, tu non sei un apostolo falso. Narragli tutto. Lo convertirai forse… E risolutamente, mettendosi il cappello, prese il braccio dell' assistito come per dargli una prova di affettuosa fiducia, dopo le ingiurie dettegli dal dottore. Il vecchio nobile, discendente da Guido Cavalcanti, con sei secoli di nobiltà, mise il suo braccio sotto quello del truffaldino ignobile, di cui la menzogna gli era stata provata pochi minuti innanzi. Ma chi badò a questo atto dove ancora una volta naufragava la dignità di Carlo Cavalcanti? I due erano già fuori di casa e Bianca Maria e il dottore stavano in silenzio, in un silenzio dove pareva si maturasse tutto il dramma di quell'amore. Con una sagacia incosciente, dicendo a sua figlia di parlare, di narrar tutto al dottore, lasciandoli soli, con questo segreto fra loro, il marchese si era vendicato del coraggioso scetticismo di Amati e della passività di sua figlia. Aveva acceso la miccia di una mina, allegramente, ferocemente, e ora si allontanava, lasciando che la miccia consumata desse fuoco alle polveri e che crollasse, così, tutto l'edificio di quell'amore. - Dunque? - disse il dottore, finalmente, con l'ansia di conoscere il vero. - Che cosa? - mormorò ella, uscendo dalle sue riflessioni dolorose. - Non dovete dirmi qualche cosa? Vostro padre non ve lo ha consigliato, quasi imposto? Ella trasalì, il tono della voce di Amati era aspro. Non le aveva mai parlato così. E offesa da quell'asprezza, la sua anima si chiuse. - Io non so niente, - ella rispose, a voce bassa. - Non ho nulla da dirvi. Egli si morse le labbra, per la collera. Ma quale ispirazione maligna lo aveva deciso a mettersi fra quel padre e quella figliuola, in quell'ambiente così bizzarro di follia, d'infermità, di miseria e di vizio? Che veniva egli a fare, con la sua rude onestà, con la sua integrità popolana, in quell'esistenza che fluttuava fra la demenza e la povertà? Che impicci, che legami creava al proprio cuore, che sinora si era mantenuto puro e tranquillo? L'ora suprema era giunta. Bisognava spezzare bruscamente ogni cosa, se ancora egli voleva scampare da quei vincoli, dove tutti i suoi antichi istinti erano soffocati. Si ribellava, finalmente, a quei complicati romanzi, a quei sottili e tormentosi drammi: egli era l'uomo dalla semplice storia. Si levò, risolutamente dicendo: - Addio. Ella anche si levò. Comprendeva che prima suo padre e, dopo, lei, avevano esaurito la pazienza di quel leone. E fiocamente, gli chiese: - Domani, verrete? - No. - Un altro giorno, dunque? - No. - Qualche altro giorno, quando non sarete occupato? - No. Le tre negazioni erano state pronunziate assai recisamente. Bianca Maria fremeva di spasimo. Egli andava via, non sarebbe più ritornato. Aveva ragione. Era un uomo forte e serio, dedito al suo lavoro, a un lavoro che era una carità e una salvazione, e lo si travolgeva in una decadenza della ragione, della dignità, in una compagnia dove egli faceva la parte di un amico, di un salvatore, ed era invece offeso, insultato e, finalmente, preferito a un ciarlatano, a un truffatore. Aveva ragione di partire, di non tornare mai più. Ma ella si sentiva perduta, in preda agli attacchi della demenza, se lo lasciava partire, e guardandolo supplichevolmente, gli chiese: - Non ve ne andate, restate! - Che resterei a fare? Debbo farmi scacciare, domani, da vostro padre? Perché ho sopportato la scena di poc'anzi, dovrei sopportare ancora? - Io non vi ho fatto nulla, - disse lei, torcendosi le mani delicate, per frenare il suo strazio. - Addio, - replicò lui, senz'altro. - Non ve ne andate, non ve ne andate! E due grosse lacrime che non aveva potuto frenare, le si disfecero sulle guance. Egli aveva resistito alla voce, alle preghiere, a quel pallore, a quella commozione, ma alle lacrime non resistette. Era un uomo duro nella sua grandezza, ma il pianto di una donna o di un bimbo gli faceva dimenticare tutto. Vedendolo tornare indietro, sedersi di nuovo, vinto dalla sua naturale bontà, ella non resistette al pianto, che le soffocava la gola. Ricaduta a sedere, con la faccia nascosta nel fazzoletto, singhiozzava. - Non piangete, - le mormorò lui, sentendo che quel pianto le faceva bene, ma non potendo sopportarlo. Ma perché ella si calmasse, ci volle qualche tempo: aveva troppo represso i suoi sentimenti, perché lo scoppio non fosse clamoroso e lungo. La serata di giugno era assai calda e il soffio dello scirocco deprimeva i nervi delle persone sofferenti. Solo, di lontano, dalla salita Pontecorvo, un suono brillante e plorante di mandolino arrivava. - Ascoltate, - cominciò a dire il medico, senza asprezza, ma freddamente, quando vide che ella era diventata più tranquilla, - vi prego di ascoltarmi in pace. Io sono un intruso nella vostra famiglia: non m'interrompete, so bene quel che mi volete dire. Vi ho curata, una, due volte, ma questo era, è il dover mio, e voi non avete con me nessun obbligo di riconoscenza. Non protestate, conosco la misura dei sentimenti umani. Sono dunque un intruso. Fra me e voi, non vi è nulla di comune: siamo gente diversa. Non importa: io che non sogno mai, vedendo che deperivate qui, vedendo che avevate bisogno di una grande, luminosa, salubre solitudine campestre, ho tentato di farvi uscire di qui. Se il mio sogno non si è avverato, di chi è la colpa, mia o vostra? - È mia, - ella disse, umilmente. - Un giorno, - riprese il dottore, maggior lentezza, come se ripensasse, parlando, a quello che era accaduto, - un giorno voi, proprio voi, mi avete detto che volevate andar via, che vi portassi via. Rammentatelo… - Me lo rammento… - …ho creduto… è inutile che vi dica quello che ho creduto, mi debbo essere ingannato, ma qualunque uomo, al mio posto, si sarebbe ingannato. Ebbene, quando il nostro ogno si poteva avverare, Bianca, ditelo voi, chi lo ha fatto dileguare? - Io stessa, io stessa! - Vedete bene, che io, l'uomo della realtà, l'uomo dell'azione, avevo troppo sognato: e che presso vostro padre, presso voi, sono un qualunque intruso, che si mischia dei fatti vostri, senz'averne il diritto e senza risultato. E d'altra parte, Bianca, credetelo, tutta la mia vita è stata perturbata dal desiderio di vedervi sana e felice, dalla lotta che ha questo desiderio, lotta inutile, lotta sterile, in cui voi stessa mi combattete! Non facevo dunque bene ad andarmene, a non tornare mai più? - Avete ragione, - disse ella, con gesto desolato. - …pure, - riprese Amati con uno sforzo per celare la sua agitazione, - credo… non credo, anzi sono certo, che questa partenza m'imporrebbe un cruccio grave. Forse… forse anche voi ne soffrireste… - e la interrogò con lo sguardo. - Io ne morrei, - pronunziò lei, profondamente e candidamente. - Non dite ciò. Ma per restare accanto a voi, Bianca Maria, per tentare anche contro la vostra debolezza, anche contro la vostra volontà, la salvezza della vostra salute e della vostra fortuna, io bisogna che sia l'amico vostro, il più grande vostro amico, l'unico amico vostro, intendete? Bisogna che abbia tutta la vostra confidenza, tutta la vostra fiducia, bisogna che dopo Dio, crediate in me! Vedete, qui, in casa vostra, in vostro padre, in voi, vi è un segreto doloroso, che tutti invano tentate nascondere, ma che la febbre del marchese Cavalcanti rivela confusamente, oscuramente, in ogni momento. Oltre a questa febbre, che è una malattia, una passione e un vizio, insieme, vi è qualche cosa di anche più crudele, che è il vostro tormento, e che voi, per pietà filiale, per rispetto alla autorità paterna, chi sa per quale sgomento, mi nascondete. Bianca, Bianca, se io non so tutto, debbo andar via, per sempre, e lasciar perdere la vostra vita e perdermi io stesso, inguaribilmente colpito! - Io vi voglio tanto bene, - diss'ella, abbandonandogli il dominio della sua anima. - Oh cara, cara, - le sussurrò lui, carezzandone i capelli bruni, mentre la testa della fanciulla si riposava, per un minuto, su quel forte e fedele petto di uomo. - Promettetemi una cosa… - chiese ella, con atto infantile. - Ditela… - Promettetemi che non giudicherete male mio padre, promettetelo! Sappiatelo, egli è il più buono, il più affettuoso fra i padri; qualunque figliuola sarebbe gloriosa di averlo per padre; io stessa ho per lui una reverenza, un amore che nulla può far crollare. Io voglio che voi non lo accusiate, di nulla, dovete promettermelo: il suo traviamento fatale è ancora una forma della sua bontà, egli è così infelice, così infelice, in fondo! - Vi prometto, Bianca, di essere indulgente, come voi potete essere indulgente. - Mi basta. È un infelice, amico mio, da anni e anni che la nostra casa è declinata. Quando, perché? Non mi rammento, ero piccina: non so neppure di chi sia colpa, questa decadenza, non voglio saperlo. Mi ricordo solo che mia madre era una creatura pallida e languente, dalle sottili mani sempre gelide… - Come le vostre, povera cara. - Come le mie, - replicò ella, con uno smorto sorriso. - Di che è morta, la mamma? - Di anemia… di languore… negli ultimi giorni, non sempre il suo spirito era presente… - Delirava? - Sì: dolcemente, - ella rispose, arrossendo sino alla fronte. - Non pensate a ciò, - disse lui, intuendo la causa di quel rossore. - Mio padre soffriva tanto delle sofferenze di mia madre! E da anni, lo teneva un gran sogno, quello di rifare la fortuna di casa Cavalcanti, di far vivere a mia madre e a me una vita magnifica, di tenere corte bandita, e di prodigare in elemosine, in un giorno, quanto… quanto ora ci serve a vivere per un anno, - soggiunse, con un nodo di pianto alla gola. - Calmatevi, cara, non vi agitate. - No, no, lasciatemi dire, se non parlo, soffoco. Un grande sogno, grande come il cuore di Carlo Cavalcanti, nobile e generoso come il suo animo, qualche cosa di così nobile e generoso, che mia madre e io gli consacrammo una gratitudine che non finirà con la vita, che continuerà in quel mondo delle anime, oltre la tomba, dove ancora si sente, si ama e si prega. Ma nella sua accesa fantasia, egli desiderò un mezzo pronto, bizzarro, dalle forme amplissime e immediate, per realizzare questa fortuna: un mezzo dovuto al caso, poiché un Cavalcanti non lavora e non fa speculazione… - Il Lotto, - concluse Amati. - Il Lotto; come lo sapete? - Lo so. - La sciagura nostra è nota a quanti ci avvicinano, - riprese ella, fremendo di dolore. - Una così grande sciagura, a coronare tutte le altre! Una sciagura per cui è morta mia madre, di mali fisici e morali, una sciagura in cui si è sommersa, prima e dopo, tutta la nostra fortuna; una sciagura che mi ha tolto il cuore di mio padre e che dopo aver distrutto tutto quello che era a me più caro, mi darà alla miseria e alla morte! - Non temete, non temete, tutto ha rimedio, - disse lui, vagamente, cercando di attenuare quell'impeto di desolazione. - È irrimediabile! - disse lei, profondamente. - Mia madre, morendo, in un lucido intervallo, baciandomi, mi disse: "Non giudicare tuo padre, figliuola mia; non esser mai dura con lui; obbedisci, obbedisci. La passione che lo divora e di cui io muoio, non può che crescere con gli anni: questa febbre peggiorerà, io non l'ho guarita, tu non la guarirai. Lascialo in questo suo sogno; non lo tormentare; se sei infelice, raccomandati a Dio; ma rispetta questo vecchio, che ha per solo desiderio la nostra felicità e che mi uccide per questo, che ti farà soffrire atrocemente, sempre essendo nobile e generoso. Abbi pietà di tuo padre, intendi? Solo così potrai morire tranquilla di coscienza, come io muoio". Aveva ragione, mia madre egli è diventato, con gli anni, più infelice, più fantastico, inguaribile oramai dimenticando tutto, tutto, mi capite? Un giorno o l'altro, io temo che questo vecchio gentiluomo, che questo padre di cui io debbo venerare la canizie, su cui vorrei riunito il rispetto del mondo dimentichi le leggi dell'onore, in qualche oscura combinazione di giuoco! - Che Dio lo guardi! - augurò Amati, trasalendo. - Che Dio vi ascolti! - esclamò lei. - Ma prego tanto, e il male si fa sempre più aspro. Se sapeste! Qui manchiamo di tutto; è la prima volta che parlo di queste cose, a qualcuno; tremo dalla vergogna, ma non posso celarvi niente. Egli ha venduto tutto, prima gli oggetti d'arte, poi i mobili, finanche i pochi gioielli che mi aveva serbati mia madre, ed egli l'adorava! finanche i ritratti dei vecchi Cavalcanti. mentre è così fiero della sua stirpe! finanche le lampade di argento della cappella, ed è un credente! Io vivo con questi due vecchi servi, così fedeli che non li ha potuti allontanare né la sciagura né la povertà! Egli non li paga, costoro servono casa Cavalcanti senza esser pagati, capite? Ed è al loro studio sottile, se la casa continua ad andare avanti, se abbiamo da mangiare la mattina e da accendere il lume alla sera! Io sollevo innanzi a voi i veli del santo pudore familiare, non mi tradite! Egli si chinò sulla mano che Bianca Maria gli stendeva e la baciò: era la conferma della sua promessa. - Tutto questo denaro, ed altro che se ne procura non so come, non voglio saper come, ho paura di saper come, va al giuoco: il venerdì e il sabato egli è demente. Vengono a trovarlo altri miserabili simili a quell' assistito il cui solo nome mi fa trasalire di onta e di paura; fanno conciliaboli bizzarri e spaventosi; si esaltano, gridano, litigano, proferiscono parole incomprensibili in un gergo oscuro. Questi sono i suoi amici: i gentiluomini del suo ceto, i suoi parenti, lo hanno abbandonato. Forse… cercò loro denaro; ne ebbe forse senza restituirlo: o forse è l'alito istesso della sciagura che li ha fatti fuggire. Questi cabalisti, questi uomini che vedono e rabbrividì, guardandosi intorno - gli levano il suo denaro, lo eccitano al giuoco. E il giorno si approssima in cui mancherà di tutto, e non potrà giuocare, e in quel giorno, Dio mio, Dio mio, illuminatelo voi, se non volete farci tutti perire, col nostro nome e con la nostra casa! - Bianca, Bianca, vi scongiuro di calmarvi, - disse lui, allarmato da quell'eccitamento, seguendone le variazioni con la mente del medico e col cuore dell'uomo. - Non posso! - esclamò ella. - Non vi ho detto tutto. Ascoltate, io sono una povera creatura debole; il sangue è povero e lento, nelle mie vene, voi lo sapete, voi me lo avete detto; ho vissuto fra questa triste casa e il convento di mia zia, cioè in compagnia di mio padre, sempre in preda alle sue fantasie, e in compagnia di mia zia, a cui la fede dà visioni quasi profetiche; in questa casa è morta mia madre: e come la passione del giuoco è diventata allucinazione nella mente di mio padre, l'allucinazione si è infiltrata in me contro la mia volontà. Mio padre mi parla di ombre, di fantasime, di spiriti, in tutte le ore, massime in quelle della sera e della notte, e io ci credo: intendete, voi, che vi è di orribile, in ciò? La luce del sole, la vista delle persone cancellano questi terrori: ma quando scende la sera, ma quando questa mia casa si empie di tenebre, ma quando mio padre mi parla dello spirito, l mio sangue si gela, il cuore arresta o precipita i suoi movimenti: io mi sento morire dallo spavento. Misteriosi rumori mi ronzano nelle orecchie, passi leggieri, voci sommesse; veggo dinanzi agli occhi della mia fantasia passare spettri ammantati di bianco, e guardarmi, e lagrimare, guardandomi; mi pare che mani evanescenti mi carezzino i capelli; mi pare di sentire aliti gelidi sulle guancie, e le mie notti, oramai, non sono che una lunga veglia affannosa, o un sonno lieve turbato da visioni! - Questi spiriti on esistono, Bianca, - disse lui, con voce ferma e dolce. - Ah io sono così debole, così inetta a difendermi, contro le allucinazioni! Quando ho riconquistato un poco di tranquillità, ecco, mio padre, per fantasia propria, o per bieco suggerimento di quell' assistito viene a tormentarmi. Vuole che io veda e senza curarsi della mia debolezza, della mia paura, senza capire la tortura che mi dà, mi parla dello spirito, vuole che io lo evochi, io che sono una fanciulla, io che sono innocente! Invano io tento di resistere, invano io mi dibatto, invano io chiedo a mio padre di risparmiarmi, di non farmi bere questo calice amaro, egli è ostinato, egli è acciecato, egli vuole che io veda lo spirito, e che gli chieda i numeri da giuocare. Ed è così forte l'influenza che mio padre esercita su me, è così terribile il modo con cui egli mi comunica la sua follia, che io finirò per essere come lui, una povera allucinata, consumantesi fra le visioni delle sue notti, e le ardenti delusioni delle sue giornate! Ella si nascose il volto fra le mani, convulsa. Il dottore la guardava esterrefatto, non osando più dirle niente. - E ancora non sapete tutto, - riprese ella convulsamente. - Un giorno, voi mi avete scritto una lettera, una buona lettera confortante, proponendomi di partire, di andare da vostra madre. Che conforto è stato quello! Ah avrei finalmente fuggito questa casa, di cui ogni vano nero di porta, alla sera, mi fa paura, di cui ogni mobile assume forme spettrali: sarei andata dove vi è luce, sole, calore, e gioia. Ebbene, in quella notte, preso da un accesso di stravaganza, mio padre è venuto nella mia stanza. In quell'ora, al chiaror vago di una lampada, svegliandomi dal sonno, buttandomi in un sogno con le sue parole, non curando le mie preghiere, non sentendo che mi faceva agonizzare, per due ore egli mi parlò dello spirito he doveva apparirmi, che era lì lì per apparirmi, che mi avrebbe detto le parole sacre. E tenendomi le mani, soffiandomi il suo alito nella faccia, comunicandomi il suo ardore e la sua fede, egli ha ottenuto il suo scopo. - In che modo? - Io ho veduto o spirito, mico mio. - Come, veduto? - Come vi vedo. - Era la febbre: non vi è nulla di ciò, Bianca, - disse lui, aspramente, per ricondurre quella mente smarrita alla pace. - Voi lo dite, vi credo. Ma quando voi sarete partito, quando io avrò finito di pregare, di leggere, quando sarò sola nella mia stanza, fra le penombre della lampada, io vedrò la visione di quella notte, e la vertigine mi coglierà dì nuovo, facendo roteare il mio cervello e battere i miei denti! Ma mio padre, oramai, disperato, perché i numeri di quella notte non sono mai usciti, dice che io non seppi interpretarli, vuole che io evochi di nuovo lo spirito! Ma egli mi crede assistita oramai, e non mi lascia più un'ora di riposo! Ma io non sono sua figlia oramai, egli mi considera solo come intermediaria fra lui e la fortuna, e sorveglia ogni mia parola, e mi guarda talvolta con invidia, talvolta con alterezza, e non so quali strane discipline vada pensando, perché io possa vedere, i nuovo, non so quali bizzarre privazioni egli voglia impormi, perché la mia anima sia pura come il mio corpo e possa avere la veggenza lucidissima! Nei primi giorni della settimana mi lascia più tranquilla, ma la notte del giovedì egli viene da me e mi prega, capite, mi prega di chiamare lo spirito: questo vecchio bianco, a cui io bacio la mano per rispetto, s'inginocchia innanzi a me, come innanzi all'altare, per commuovermi! In quella del venerdì, le sue preghiere diventano furiose, egli non si accorge delle convulsioni di spavento che squassano il mio corpo, egli crede che siano l'approssimazione dello spirito! L'altra notte, per sottrarmi a questa tortura che mi pareva ormai insopportabile, ho chiuso a chiave la mia porta, ho avuto il coraggio di negare l'accesso della mia stanza, a mio padre! Ebbene, egli è venuto a bussare, prima piano, poi forte; mi ha parlato, supplicando, comandando, passando dalla collera all'umiliazione, voleva che io vedessi lo spirito, a forza, a forza, quella notte - io mi turava le orecchie, per non udire, nascondevo la testa nel cuscino, mordevo le lenzuola per soffocare i miei singhiozzi, venti volte avrei voluto aprire quella porta, ma il terrore m'inchiodava sul letto. Mio padre ha pianto! Oh mamma mia, mamma mia, io ti ho disubbidito! Tu hai saputo morire per mio padre, ma io non so imitarti! - Poveretta, poveretta, - mormorava lui, tentando di cullarne l'esaltamento con quella dolce parola di compatimento, carezzandone le mani, quasi per addormentarla, per magnetizzarla. - Oh sì, sì, compatitemi, perché io sono così misera, così disgraziata, che l'ultima mendicante della via mi fa invidia: compatitemi perché la sola persona che dovrebbe amarmi, cercare la mia salute e la mia felicità, sogna invece di darmi del denaro, molto denaro, e m'impone per questo tutti i sacrifici materiali e morali; compatitemi, perché sono una disgraziata creatura, votata a una oscura catastrofe; compatitemi, perché in tutto il vasto mondo, io non trovo altro, per me, che la vostra compassione! Tacquero. Il sangue era salito alle guance pallide di Bianca Maria; gli occhi di lei scintillavano; e le parole dove si era sfogato tutto il suo cuore, erano uscite convulsamente, tumultuariamente dalle sue labbra. Taceva, ora. Aveva detto tutto. L'aspro segreto che torturava implacabilmente la sua esistenza, evocato dall'amore, aveva dato i brividi di una paurosa sorpresa, al forte uomo che l'ascoltava. Egli taceva, cercando di dominare la propria stupefazione, cercando di riunire le proprie idee confuse. Certo, egli era avvezzo a udire il racconto lugubre di tutte le miserie spirituali e fisiche dei suoi ammalati, egli aveva sollevato i veli di tutte le onte, di tutte le corruzioni, e come al confessore si erano aperti a lui, affannosi e contriti, i cuori che racchiudevano i più orrendi umani misteri. Ma in verità, l'affanno di Bianca Maria era così profondo, attaccava così profondamente le sorgenti stesse della vita, che lo aveva fatto sgomentare, dinanzi allo spettacolo di una miseria inaudita. Ma quella povera creatura che si consumava sotto le strette di un morbo non suo, che aveva il suo carnefice in suo padre, quella povera buona e bella creatura, era la donna che egli amava, senza la quale egli non poteva vivere, la cui felicità, la cui salute gli era necessaria, più della propria. Perturbato, non sapendo ancora raccapezzarsi innanzi a quel duplice problema di malattia e di passione, che rendeva il marchese Cavalcanti l'uccisore della sua famiglia, egli non trovava nulla da dire a Bianca Maria, per confortarla. Adesso, ella era accasciata: e provava un vago rimorso di aver accusato suo padre. Ma non doveva Antonio Amati essere il suo salvatore? Non si sentiva ella tranquilla, sicura, forte, quando egli era là? E traendosi dal suo abbattimento, levandogli gli occhi nel volto, timidamente gli disse: - Voi non dite che io sono cattiva ed ingrata, nevvero? - No, cara. - Voi non lo giudicate male, lui? - Io lo guarirò, - egli disse, pensando.

La grande città si era data a quell'impetuosa e gioconda fatica, non per l'amore del lavoro, in sé, per quel lavoro che è causa e conseguenza di benessere, che è, in sé, fondamento di bontà e di decoro; la grande città non si era abbandonata a quella fervente attività, per uno scopo immediatamente civile, miglioramento igienico o industriale, esposizione di arte o di commercio, trasformazione di vecchi quartieri o creazione di nuovi: era pel carnevale, soltanto pel carnevale, un carnevale decretato ufficialmente, dal palazzo della Prefettura e da quello del Municipio, carnevale caldeggiato da comitati, commissioni, associazioni, messo su da mille persone, creato e realizzato come una grande istituzione e diffuso nello spirito di tutti i cinquecentomila abitanti, fatto rimbombare sino nelle provincie meridionali, avente degli echi fino a Roma, fino a Firenze, sostituendo a qualunque altra proposta, iniziativa od opera, questa del carnevale, non altro che il carnevale, il carnevale sino all'entusiasmo, il carnevale sino al delirio! Ma come in fondo a tutte le allegre cose del paese di cuccagna, vi è una vena sempre fluente di amarezza, questo carnevale che travolgeva in buffonerie e mascherate tutte le cose e le persone più gravi della città, questo carnevale era una pietosa cosa. Dall'autunno al gennaio l'umido e greve scirocco aveva soffiato nelle vie napoletane, vincendo le energie della gente sana, e acutizzando le morbosità degli infermi: non poca gente straniera era mancata al solito convegno invernale: molti lavori erano stati sospesi e quelli da cominciare non erano cominciati: così molta gente di popolo, dormiva sui gradini delle chiese, sotto il porticato di San Francesco di Paola, sotto la guglia dell'Immacolata in piazza del Gesù. E insieme con lo scirocco, aveva soffiato un gran vento di digiuno: così il carnevale ufficiale, portato su da mille volontà, era destinato, riuscendo, a saziare almeno per dieci giorni una grande quantità di affamati, dalla orlatrice alla fioraia, dal sarto al garzone di negozio, dal venditore ambulante al piccolo commerciante. Venti giorni di carnevale! Cioè dieci giorni di pane e di companatico. L'idea aveva avuto, subito, un grande successo, tutti l'avevano aiutata, anche i meno facoltosi, sapendo di mettere i loro denari a un buon interesse. Carnevale, carnevale, sui balconi e nelle vie, nei portoni e nelle case!… Così, in quel giorno di giovedì grasso, in cui lo scirocco umido dell'inverno aveva assunto tiepidezze primaverili, la via di Toledo dove da un capo all'altro si riversa il carnevale, nelle sue forme popolari e aristocratiche, aveva assunto il più bizzarro degli aspetti. Tutte le grandi botteghe erano chiuse, poiché i bottegai e le loro signore volevano godersi la giornata, non senza un certo timore per le loro vetrine; tutte le insegne erano coperte di tela o di stuoie e di stuoiette; erano anche coperti i fanali del gas: in quanto alle botteghe più modeste, più piccole, esse avevan tolte le vetrine ed eretto dei palchi di legno, dove sedevano le padrone, con i loro bimbi e le loro amiche, con le loro provvigioni di coriandoli, dovendo combattere quasi faccia a faccia coi pedoni dei marciapiedi, ma pur brandendo coraggiosamente le mestole. Tutti i balconi grandi e piccoli, dei primi piani, erano variamente addobbati, di mussole vivaci, poco costose, messe su con quattro chiodi e con quattro spilli, con quell'amore del colore forte, molto meridionale e un po' barbaro, con quella intonazione di chiesa parata, qua di azzurro, là di rosso, di bianco, di oro, con una quantità di grosse camelie, di grosse rose, di grosse dalie che fermano queste mussole, queste telette, in mille pieghe, dando ai balconi dove la forma di un'alcova, dove quella di uno stanzino da attrice, dove l'aspetto di una nicchia di santi, dove, infine, quello di una baracchetta da fiera. Verso via Santa Brigida cominciavano gli addobbi più vistosi e più spiritosi. Certi signori svizzeri si erano fatti costruire uno chalet opra un grande balcone e le signore vi portavano il costume ingenuetto, un po' sciocco, con la grande cuffia, le treccie sulle spalle e la crocetta d'oro al collo; subito dopo, a Santa Brigida, il figlio naturale di un altissimo personaggio aveva adornato i suoi quattro balconi di un gran panneggio di velluto azzurro cupo, coperto di una rete d'argento, il che poteva figurare il firmamento, o il regno della luna, o il regno del mare, ma che infine riempiva di stupore il buon popolo napoletano; un terrazzino, presso il vicolo Conte di Mola, era trasformato in una cucina con fornello, caldaia, casseruole e padelle, e otto o dieci bei giovani dell'aristocrazia vi faceano da cuochi e da guatteri, col grembiale bianco e col bianco berretto; una celebre bellissima donna che aveva trovato nella sua bellezza la fonte di tutte le sue fortune e della sua unica e immensa sciagura, aveva trasformato la sua terrazzina in una casetta giapponese piena di stoffe e di arazzi, dove ella ogni tanto appariva, ravvolta nelle fluenti stoffe molli appena annodate alla cintura, coi capelli rialzati a grossi nodi lucidi, sostenuti dagli spilloni, e le sopracciglia sottili, arcuate in una perenne espressione di meraviglia. Passando, la gente di popolo sorrideva di ammirazione e diceva, nel suo vago ma unico concetto dell'Oriente: la torca, la torca. tutti questi balconi addobbati da cima a fondo, nella via, e l'addobbo delle botteghe rimaste aperte cominciavano a produrre come un barbaglio di colori, lietissimo, accendente già l'immaginazione, dando al sangue quel vivo senso di gioia voluttuosa, che producono sul meridionale le cose esteriori. Verso le undici cominciavano a girare i venditori ambulanti, strillando acutamente la loro merce: erano venditori di piccole bomboniere, piene di mediocri confetti, ma fatte di vividi colori, borsette rosse, scatoline verdi e bianche, cornetti lilla e gialli, portati in grandi ceste piatte sopra una mano: erano venditori di fiori artificiali formati a grappoli, a coccarde, o a fasci, e infilati sopra lunghe aste: erano venditori di fiori freschi, camelie bianche e violette odorose, tenuti in grandi ceste sulla testa: venditori di mascherine e di mestole, e di sacchetti di tela per i coriandoli: venditori di certi girasoli di carta gialla e rossa, leggerissima, che a ogni alito di vento giravano, giravano come fiori folleggianti: venditori di coriandoli di bassa qualità, comperati a vil prezzo e destinati a esser venduti caramente nell'ora furiosa e cieca della battaglia. A mezzogiorno, le contrattazioni di bomboniere, di fiori, di maschere, di girasoli cominciavano: poiché già, su tutt'i balconi, cominciava a spesseggiare la folla, come spesseggiava sui marciapiedi, come ne accorreva, precipitosamente, da tutti i vicoli, da tutte le strade inferiori e superiori. Dai primi piani, finestre e balconi, una siepe vivente e variocolorata di donne ondeggiava; ed era un palpito lungo, una lunga vibrazione di corpi muliebri chiaramente vestiti, di volti muliebri che si piegavano e si rialzavano mollemente come larghe, pallide e rosee corolle di fiori, dove ogni tanto la nota rossa sanguigna di una cupola tesa di ombrellino, di un cappello scarlatto, strideva. Si popolavano anche le finestre e i balconi dei secondi, dei terzi piani, di gente anche più curiosa, mentre ai quarti piani dei bimbi, delle ragazze avevano pensato, qua e là, di legare un panierino a un lungo nastro di seta e di calarlo giù, alla pesca, sorridendo di lassù a qualche cortese ignoto che volesse mettere un fiore, un confetto, una picciola bomboniera, nel solitario panierino di quegli esseri che ridevano, lassù, lassù, così vicini al cielo. Aumentava la gente, dovunque: e le contrattazioni coi moltiplicati venditori ambulanti si facevano dalla strada ai balconi, a voce forte, discutendo, offrendo, respingendo, facendo raddoppiare il chiasso della popolazione. Non si poteano buttar coriandoli prima delle due, era l'ordine espresso della questura; ma già qualche isolata scaramuccia nasceva. All'angolo di via San Sepolcro una nutrice contadina che se ne andava lentamente, facendo ondulare le larghe gonne, era stata bersagliata, faccia a faccia, da certi scolaretti di dieci o dodici anni. Un grave signore, con la tuba e un soprabitone lungo, era stato assalito violentemente, al largo Carità: avea tentato reagire, col bastone, ma era stato fischiato, aveva invocato l'aiuto delle guardie, dignitosamente gridando che era il cav. Domenico Mayer, funzionario dello Stato, ma le guardie lo avevano abbandonato, dicendo che era carnevale e che non provocasse, con quella tuba: il misantropico segretario dell'Intendenza di Finanza, pieno di amarezza, si era ritirato nel vico San Liborio, per salvarsi. A una signora dal cappello a larghe falde, che era rimasta inchiodata a un punto del marciapiede, verso San Giacomo, dal terzo piano, un bimbo buttava quietamente, perennemente, un filetto inesauribile di coriandoli, ed ella ne udiva la pioggia continua sul feltro e sulle piume, senza potersi muovere, senza poter levare il capo, per non ricevere i coriandoli sulla faccia. Alle due in punto si udì, lontano, lontano, il rimbombo di una cannonata, e vi fu, da un capo all'altro di Toledo, nella via, sui marciapiedi, sui balconi, come un lunghissimo sospiro di sollievo: vi fu, da un capo all'altro di Toledo, nella via, sui marciapiedi, sui balconi, fino agli ultimi piani, come un amplissimo e lunghissimo movimento di fluttuazione. I quattro balconi del palazzo Rossi, primo piano a destra, su Toledo, erano addobbati di teletta azzurra e bianca, fermata da larghe camelie rosse: e Luisella Fragalà e le sue invitate avevano pensato di farsi dei domino di teletta bianca e azzurra, con certi alti e sbuffanti cappucci, con una grossa coccarda rossa: e tutte le Naddeo, tutte le Durante, tutte le Antonacci, grasse o magre, giovani o vecchie, s'eran fatte da sé in casa il domino che doveva riparare i vestiti dalla polvere dei coriandoli e dare, secondo loro, un aspetto elegante alla balconata. Alcune avevano l'aria di grossi fagotti, altre di lunghi spettri, ma la gran pazzia carnevalesca aveva vinto le donne del mondo borghese: e d'altronde tutti i commerci fiorivano in quei giorni, tanta roba si vendeva e gli uomini ritornavano a casa di così buon umore, mentre tutto l'inverno era stato un pianto, e l'economia si era fatta più rigida, più dura! Come erano felici, tutte quelle donnine placide e laboriose, di questo periodo di carnevale popolare, a cui poteano prender parte, e del loro travestimento azzurro, bianco, con la coccarda rossa che Luisella Fragalà aveva ideato e che quella diavola di Carmela Naddeo aveva subito adottato e fatto adottare! Erano tutte lì, col mestolo alla mano, parlando già fantasticamente dei carri che dovevano comparire, amplificando, contraddicendosi, strillando, ridendo, rovesciandosi sulla ringhiera, per vedere se dal Museo spuntasse qualche carro. Solo, ogni tanto, una nube velava il volto nobile di Luisella Fragalà, i cui occhi bruni erravano dietro un cattivo pensiero: forse la tormentava il pensiero che le si sarebbero sciupate le tende dei balconi, per i coriandoli: forse avrebbe voluto tener aperta la bottega, anche in quel proficuo giovedì di carnevale, tanto l'amore della vendita l'aveva vinta, istintivamente, quasi che soltanto lì prevedesse la salvazione da un probabile pericolo: o forse si doleva internamente dell'assenza di Cesare Fragalà, il marito, che era spesso assente, in questi ultimi tempi e anche quel giovedì era scomparso, dalla mattina. Ma queste nuvole erano passeggiere. Luisella Fragalà andava e veniva, da un balcone all'altro, col cappuccio abbassato, cercando invano un posticino per la famiglia Mayer che si era presentata senza essere invitata, e che tutte respingevano silenziosamente, per non lasciar prendere il proprio posto, dicendo fra loro che la madre e la ragazza non avevano il domino e che stonavano, ul balcone. Si posero in terza linea, la madre sempre reumatizzata e imbottita di flanella sino alla punta delle dita, la ragazza co' suoi grossi occhi sempre opacamente malinconici e le tumide labbra che si gonfiavano di una continua, repressa tristezza, il fratello sempre prodigiosamente affamato. - Non avremo neanche una bomboniera, - mormoravano volta a volta, per turno, borbottando nella loro perenne rabbia contro l'umanità. Ma la gran fluttuazione carnevalesca, il cui chiasso aumentava sempre, ravvolse anche questa misantropia; ora il vocìo si faceva immenso fra le carrozze da cui era cominciata la battaglia dei coriandoli, fra i piccoli carri, addobbati alla meglio, adorni di mortella, e pieni di mascherotti femminili e maschili, vestiti di teletta colorata. La casa Parascandolo, all'altro lato del palazzo Rossi, aveva tenuto chiusi i suoi balconi, la signora si considerava in lutto: ma don Gennaro Parascandolo in spolverina di tela russa, in berretto di tela e con la borsa delle bomboniere a tracollo, dopo aver fatto una passeggiata a piedi, per Toledo, chiamato da cento balconi, dove erano i suoi clienti passati, presenti e futuri, era salito al suo circolo, a Santa Brigida e di là, fra un gruppo di giovanotti buontemponi e di buontemponi attempati, faceva la vita, nche lui: si diceva così allora. Attorno a lui, scherzando, gli domandavano per quanti carri aveva prestato denaro e se era vero, che per quel carnevale, la sua collezione di cambiali si era aumentata di preziosi autografi principeschi. Ninetto Costa, l'elegante e fortunato agente di cambio, che aveva delle ragioni per carezzarlo, gli diceva, in forma di adulazione, che non un pugno di coriandoli si gettava in quel giorno, di cui egli non avesse interesse nella provenienza o nella dispersione: e don Gennaro Parascandolo rideva paternamente, non negando, rispondendo a quelli che gli chiedevano quattrini, per burla: - Mi son fatto prestare mille lire, per far carnevale, da un mio amico… Gli altri, intorno, urlavano, fischiavano, ma sempre adulandolo: non si sa mai, gli si poteva capitar nelle mani: e lui emergeva fra tutti, con la sua alta statura e il picciol berretto assai bizzarramente piantato sulla grossa testa, dando forti mestolate di coriandoli contro le carrozze e contro i piccoli carri. Sciatta, col suo vestito nero, la cui tinta era adesso diventata verdastra e lo scialletto la cui frangia si era tutta sfilacciata, Carmela, la sigaraia, si era appostata all'angolo del vicolo D'Afflitto, guardando le carrozzelle e i carri che passavano, coi suoi occhioni bistrati, con una mossa impaziente della bella bocca fresca, l'unico lineamento, ancora giovanilmente fresco nel volto consumato. Dai balconi, dalla via volavano le mestolate, le manate di coriandoli, che spesso la colpivano nella persona o nella faccia, ma ella faceva solo un picciol moto per pararsi, sorrideva al fastidio, e si ripuliva la faccia con un angolo dello scialle. Aspettava, lì, a veder passare il suo eterno fidanzato Raffaele detto Farfariello, he era in carrozza, con quattro altri compagni, con vestiti e cappelli eguali, ché anzi, per aver questo vestito, ella aveva dovuto rivendere certe casseruole di rame, un cassettone e due rami lunghi di fiori artificiali sotto campana, roba tutta che ella conservava per il suo matrimonio. Come le si era straziata l'anima a vendere quella roba, comperata pezzo a pezzo, a furia di stenti! Ma Raffaele le aveva volute, a forza, quaranta lire - sangue di una lumaca! - perché si disperava di far cattiva figura con i compagni ed ella, che impallidiva quando lo udiva bestemmiare, aveva venduto quegli oggetti, all'impazzata, contenta in fondo, quando gli aveva consegnata la somma, poiché egli aveva sorriso e le aveva promesso di portarla al Campo, lei e sua madre, l'ultima domenica di carnevale, in una osteria, se pigliava un ambo asciutto il sabato: ella, tutta gloriosa di questa fantastica promessa, aveva rinchiuso nel core la sua amarezza ed era andata, in quel giorno di festa carnevalesca, sciattata come una poveraccia, col treccione nero che si disfaceva sul collo, senza un soldo in tasca, a veder passare il suo bell'innamorato, altieramente in carrozza, fumando un napoletano, ol vestito e col cappelletto nuovo sull'orecchio, con l'aria di superba indifferenza che è la caratteristica del guappo, dell'aspirante guappo. azientemente ella aspettava, non pensando che a lui, senza curarsi della sua giornata, poiché alla fabbrica del tabacco avevano fatto vacanza: pazientemente ella sopportava tutto l'urto di quel pomeriggio carnevalesco, a cui non prendeva parte, poiché ella era assorta nella buddistica aspettazione dell'amor suo. Ma la gente, a piedi, in carrozza, passava, passava attraverso il gran velo dei coriandoli, delle bomboniere, dei fiori che volavano, attraverso la pioggia di mille cartine colorate, piovute dai terzi e dai quarti piani, che, esclusi dalla battaglia dei coriandoli, si divertivano così, solitariamente: e il vocìo diventato clamore ondeggiava sonoramente, saliva al cielo di quella dolce giornata sciroccale. Carmela, stordita dal rumore e dalla fantasmagoria di quel pomeriggio, in cui l'allegrezza napoletana prendeva proporzioni epiche, aguzzava gli occhi, per non perdere di vista le carrozze a due cavalli, che procedevano al passo, tutte bianche di gesso. Ogni tanto, uno dei grandi carri appariva: era la Sirena Partenopea, na immensa donna rosea, dalla criniera bionda, dalle gigantesche forme di cartone colorato, il cui corpo finiva nelle onde azzurre, una Sirena che si trascinava dietro un carro pieno di uomini travestiti da aragoste, da ostriche, da carpioni, da cefali: era un carro che figurava una gran Tartana ercantile, una nave con la sua attrezzatura e i suoi marinai vestiti di teletta a righe bianche e rosse, a righe azzurre e bianche, col berretto rosso, lungo: era un carro che figurava, intorno a un gran ceppo di fiori, otto o dieci Boîtes-à-surprise donde scattavano dei gentiluomini vestiti di raso; era un carro dove s'eran raccolte tutte le maschere napoletane, il Pulcinella, il Tartaglia, il don Nicola, Columbrina, il buffo Barilotto, il Guappo, la Vecchia, e finanche la più moderna maschera dei giovanotto lezioso e pretenzioso, il don Felice Sciosciammoca. Quando questi carri passavano, lentissimamente, quasi traballando sulle ruote, facendo piover coriandoli, confetti, bomboniere, scoppiavano gli applausi: la Sirena uscitava scherzi e facezie un po' salate, la Tartana areva pittoresca, le Boîtes-à-surprise avevano un successo di lusso e di eleganza, le maschere napoletane suscitavano dei gridi di riconoscimento, dei dialoghi rapidi, volanti, in dialetto, delle esclamazioni da tutti i balconi, a cui quelle maschere rispondevano vivacemente: e da un capo all'altro di Toledo era un movimento solo, di ondeggiamento sui balconi, di fluttuazione nella folla della strada, intorno ai carri e alle carrozze. Carmela guardava, guardava. Vide passare in una carrozza dai cavalli tutti infiorati e scintillanti di ottone nei finimenti, le due sorelle, donna Concetta, quella che imprestava denari con l'interesse e a cui ella stessa doveva trentaquattro lire, da tanto tempo, arrivando ogni tanto a darle un paio di lire, solo per l'interesse, e donna Caterina, la tenitrice di gioco piccolo, resso cui ella aveva giocati tanti biglietti a un soldo, o a due soldi, quando non aveva denari per giuocare al Lotto del Governo, o quando solo quei due soldi le erano restati. Le due sorelle erano in gran gaia, pettinate con un trofeo di capelli, sul culmine della testa, piene di catene d'oro, di collane pesanti, di orecchini di perle, di grossi anelli, e conservavano il loro aspetto guardingo e severo, con certe occhiate oblique, e l'atto un po' sdegnoso delle labbra chiuse e tumide. Due uomini le accompagnavano, in perfetta tenuta di operai indomenicati, zazzera lucida, cappelletto sull'orecchio, giacchetta nera e sigaro spento all'angolo della bocca: e i quattro personaggi, muti, gravi, si guardavano ogni tanto, con l'aria seriamente compiaciuta di persone soddisfatte, crollando il capo, ogni tanto, per far cadere i coriandoli dai capelli o dalle falde dei cappelli, sorridendo a coloro che li avevano buttati, guardando a destra e a sinistra, con una certa fierezza di popolani arricchiti. Carmela si morsicò le labbra, vedendo passare le due serene e feroci accumulatrici del denaro altrui, ma subito dopo, la sua solita parola le salì dal cuore alle labbra: - Non importa, non importa… Ma un carro assai originale discendeva dall'alto di Toledo, suscitando una gran risata colossale, a destra e a sinistra, giù e su: era un gran letto borghese, con la coltre imbottita di bambagina, e foderata di cotonina rosso-vivocome si usa a Napoli: un letto con un baldacchino aperto, dove, sulla parete, erano attaccate le immaginette della Madonna e i santarelli protettori: nel letto, dalle lenzuola bianche rimboccate, stavano coricate due persone, con due enormi teste di cartone, raffiguranti un vecchione col berretto da notte e una vecchiona con la cuffia, due vecchioni leziosi, smorfiosi, che faceano mille cenni con le grosse teste, che tiravano a sé la coltre con quel moto egoistico e freddoloso dei vecchi, che si offrivano del tabacco, facendosi dei saluti col capo, starnutando, dimenandosi, salutando la gente dei balconi, ringraziando alle fitte mestolate di coriandoli che ricevevano, scuotendo le coltri, restando incogniti sotto il mistero del cartone, mettendo in pubblico quella caricatura familiare, quell'angolo di stanza da letto, senza che nessuno trovasse la cosa troppo arrischiata, tanto l'idea di dormire all'aria aperta è naturale ai meridionali, e tanto la vita intima è vita pubblica, nel caldo e bonario paese. Che! tutti ridevano. Rideva finanche la gente nella bottega di don Crescenzo, dopo la piazza della Carità, all'angolo del vico del Nunzio. La bottega di don Crescenzo era veramente il Banco lotto numero 117: una bottega chiusa ordinariamente dal pomeriggio del sabato sino al martedì, e in cui la ressa cominciava dal giovedì, sino all'una pomeridiana del sabato. Don Crescenzo, il tenitore del Banco lotto, un bell'uomo con la barba castana, vi lavorava con due giovani uoi, che viceversa erano: un vecchietto settantenne, curvo, mezzo cieco, sempre col naso sul registro delle giuocate, che si faceva ripetere tre volte i numeri, per non sbagliare e li scriveva lentamente, lentamente: e uno scialbo tipo di nessuna età, con una faccia dalle linee indecise, una barba dal colore indefinito, uno di quei bizzarri esseri che si trovano a fare da testimoni agli uscieri, da mezzani al Monte di Pietà, da dispensatori di foglietti volanti e da sensali di stanze mobiliate. Don Crescenzo troneggiava sui due giovani. a in quel giovedì egli aveva trasformato la sua bottega, elevandovi una tribuna, drappeggiandola di panno bianco e cremisi e invitandovi la sua miglior clientela. Sì, erano tutti là, quelli che ogni settimana venivano a deporre il miglior frutto della loro vita, un denaro guadagnato a stento, o strappato alla economia domestica, o trovato a furia di espedienti, prima maliziosi, poi audaci e finalmente vergognosi. Tutti lì, nel Banco lotto, trasformato in tribuna carnevalesca: il marchese di Formosa, don Carlo Cavalcanti, con la sua aria di gran signore: e il dottor Trifari, rosso di capelli, di faccia, di barba, turgido come se scoppiasse e con lo sguardo infido dei suoi occhi di un azzurro falso; e il professore Colaneri che, in quel giorno, più che mai, manifestava l'indelebile carattere del sacerdote che non ha voluto più saperne della chiesa; e Ninetto Costa che aveva lasciato il Circolo, e don Gennaro Parascandolo, attirato da un desiderio prepotente, invincibile, e altri otto o dieci, un giudice del tribunale, un maggiordomo di casa principesca, un pittore di santi, malaticcio, il barbiere Cozzolino, gran cabalista: perfino, in un cantuccio della bottega, per terra, il lustrino Michele, sciancato, zoppo, gobbo, con le mille rughe della fisonomia di vecchio, pieno di una passione irrefrenabile, e, accanto a lui, Gaetano, il tagliatore di guanti, più smunto, più pallido, con gli occhi ardenti e la scontentezza, l'inquietudine che gli traspariva dal volto, a ogni moto. I clienti di don Crescenzo, nella bottega cara alla loro passione, celebravano il carnevale anch'essi ed essendosi quotati per comperare dei sacchi di coriandoli, ne lanciavano anche loro ai carri, alle carrozze e più ai passanti, dove ogni tanto salutavano una conoscenza. Nessuno si meravigliava di veder gente tanto diversa, un marchese, un agente di cambio, un giudice del tribunale, un medico, un professore e finanche un operaio riuniti lì. Carnevale, carnevale! La dolce follìa popolare aveva assalito tutti i cervelli, e la tiepida ora, e gli smaglianti colori, e la fantasia dei cento, dei mille veicoli passanti, e il clamore delle centomila persone avevan domato anche quelli che bruciavano di un'altra febbre, un'altra febbre respinta per quell'ora in un cantuccio dell'anima. Quando passò, a piedi, ridendo e gridando, Cesare Fragalà, in spolverina di tela di Russia, in berretto da viaggio, con due grosse sacche di coriandoli ai fianchi, che vuotava contro i balconi di sua conoscenza e andava riempiendo ad ogni angolo di via, dai venditori ambulanti, scherzando con tutti, grasso, forte, gioviale, con un bisogno di spandere la sua giovialità: quando Cesare passò innanzi alla bottega di don Crescenzo, fu un tumulto di saluti. Già sotto il palazzo Rossi, innanzi ai balconi della sua casa, egli aveva fatto, da basso, mezz'ora di combattimento coriandolesco, con sua moglie e con tutte le amiche di sua moglie: Luisella Fragalà, e Carmela Naddeo, e le Durante, e le Antonacci avevano trovata così originale l'idea di Cesare e così simpatico lui, con quel suo fare, che lo avevano accoppato, a furia di coriandoli: egli aveva dovuto fuggir via, ridendo, abbassando il capo, calcandosi il berretto sulle orecchie. Tumulto di saluti dunque, dalla bottega di don Crescenzo e chiamate, perché andasse là anche lui: non era forse anche un cliente, lui, sempre nella speranza di avere le ottantamila lire, in contanti, per aprire bottega a San Ferdinando? Ma Cesare era troppo contento di andare in giro, solo solo, ridendo e strillando con tutti, schiaffeggiato dai coriandoli, rosso, ansante di salute e di allegrezza. Andava, fra i carri, fra le carrozze, portato dalla folla: andava fra un parossismo, che l'ora rendeva più acuto. Oramai i più tranquilli commettevano delle follie e coloro che stavano sui carri, sulle prime semplicemente allegri, adesso parevano tanti indemoniati. In una carrozza era passato Raffaele, detto Farfariello, 'eterno fidanzato dell'appassionata Carmela: egli e i compagni suoi, per farsi veder meglio, avevano pensato di sedersi sul soffietto della carrozza, e salutavano la folla, agitando dei fazzoletti di seta bianca, in punta alle mazze, come bandiere. Ahimè, egli non la vide, la ragazza che lo aspettava da tante ore, all'angolo del vico D'Afflitto, ed ella che aveva gridato, agitato le braccia, agitato una pezzuola bianca, restò stordita, mormorando fra sé, per consolarsi: - Non importa, non importa… Ma ancora restò lì, inchiodata, in quel crescendo di frenesia carnevalesca. Sotto il balcone dove era la bella donnina vestita da giapponese, una folla più fitta si assiepava: e allora costei, eccitata, aveva cominciato a far cadere una pioggia di confetti, a manate, a scatole, quasi ne avesse un deposito in casa, prendendoli dalle mani della cameriera che glieli porgeva. Un urlìo di monelli, di popolani entusiasmati saliva al cielo, mentre ella da sopra, seria, seria, ma con una fiamma rossa sui pomelli, buttava giù, disperatamente, confetti, dolci, piccole bomboniere. Sul suo balcone parato di velluto azzurro con la rete di argento, il figlio dell'altissimo personaggio aveva combinato lo scherzo di attaccare una bottiglia di champagne, un pasticcio di caccia o una grossa bomboniera a una lunga canna e di abbassarli a livello delle mani tese dalla folla, sollevandoli, facendoli danzare, fra gli urli di desiderio della gente di sotto, e le mani alte, e le bocche aperte, fino a che un grande schiamazzo di trionfo, annunziava che un fortunato aveva strappata la bottiglia o la bomboniera o il pasticcio della nova cuccagna: la canna era ritirata e i giovanotti, che prendevano un gusto matto a quello scherzo, vi attaccavano qualche altra cosa da mangiare o da bere, una bottiglia di vino rosso, una forma di cacio ravvolta in una carta d'argento, un sacchetto di confetti, e il giuoco ricominciava, fra un tumulto inaudito, con la circolazione sospesa. Quelli dei carri, oramai, rifornite le provvisioni, mentre la sera si avvicinava, col passo sempre più rallentato, ballavano e cantavano e buttavano roba, dimenandosi come anime dannate. Fu in questo punto acutissimo della giornata che un nuovo carro sbucò da un vicolo di Toledo, fantastico, bizzarro, giunto in ritardo e trascinato dai cavalli a rilento. Rappresentava l'officina chimico-filosofica, dove lo sconfortato vecchio Faust bestemmia malinconicamente e gelidamente su tutte le cose umane: una camera bruna, con due scansie di libracci, con un fornello e una storta da alchimista, con un Alcoranus Mahumedis aperto sopra un leggìo di legno scolpito: sullo strano carro un vecchio curvo, con un zimarra di velluto nero e una lunga barba bianco-giallastra, camminava tremolando e gittando alla folla dei balconi e della strada delle bomboniere a foggia di libri, di storte, di alambicchi, di fornelli, dove qua e là si vedeva l'immagine di Mephisto, ma che erano riempite di buonissimi confetti. Allora una punta di fantastico si mescolò alla frenesia del carnevale e il carro del mago parve un'apparizione più sovrannaturale che reale. Il vecchio che le donne dai balconi, ridendo, chiamavano il diavolo, crollava il capo canuto coperto da una berretta nera e lanciava giù roba, magicamente cavandola dal sottosuolo del carro. E ogni tanto, fra il clamore del popolo, una voce sopracuta dirigendosi al decrepito mago, gridava: - I numeri, i numeri, i numeri! E quando, giunto a San Ferdinando, il carro di Faust voltò per rifare la strada fatta, sin sopra Toledo, fu vista una cosa curiosissima, indescrivibile. Cavandoli da un alambicco di rame, insieme alle bomboniere, il vecchio mago buttava alla folla e ai balconi, dei fogliolini lunghi e stretti, di carta gialla, su cui la gente cominciò a buttarsi furiosamente: e un grido precedeva, accompagnava, seguiva il carro di Faust: - Gli storni, gli storni, gli storni! Per realizzare una generosità nova, fastosa, bizzarra, e cara al popolo, il vecchio buttava dei polizzini di lotto da due e tre numeri, già giuocati, per il prossimo sabato, giuocati a due soldi l'uno: un biglietto che è detto storno di cui egli magnificamente gittava al popolo delle centinaia, ridendo nella sua folta barba bianca, scordandosi che era vecchio, per rizzare il capo con una gaiezza feroce. Oh che lungo grido, dovunque, nella via, per le finestre, per le logge, per i balconi, sino al cielo che si facea bianco nel tramonto: che lunghissimo grido di desiderio e di entusiasmo, di tutta una popolazione, che alzava le mani e le braccia, come se dovesse abbracciare la terra promessa, che si gittava a terra, si calpestava, per strappare furiosamente un polizzino del lotto, dove era una ipotetica promessa di dieci lire o di duecento lire di vincita! Oh che furore giocondo di uomini, di donne, di fanciulli, poveri e ricchi, bisognosi e agiati, che impeto invincibile che rispettava, per una sacra paura, il carro del mago, ma che gli faceva un trionfo, una gloria di acclamazioni, da un capo all'altro della via Toledo, quando egli aveva buttato alla folla diecimila polizzini, quando già egli era scomparso, senza che niuno sapesse dire come e dove. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonio Amati incontrò per le scale la cameriera Margherita che rientrava anch'essa, un po' stracca. E bruscamente, mentre forse non avrebbe voluto parlarle, le domandò: - Come sta la vostra signora? - Meglio, - disse a bassa voce la vecchia domestica, - perché Vostra Eccellenza non è più venuta a vederla? - Io ho molto da fare, - borbottò il dottore, senza suonare però alla sua porta. - È vero: ma Vostra Eccellenza è così buona. - Poi, non vi era bisogno di me… - soggiunse lui, esitando. - Eh, chi sa! - ribattè anche più sottovoce, e in tono misterioso Margherita. - Perché non entra adesso Vostra Eccellenza? - Verrò, -. disse lui, chinando il capo, come se cedesse a una volontà superiore. Ella introdusse una chiave nella serratura e aprì, precedendo, nel silenzio della casa, sino al salone, il dottore: ed egli, che pure era avvezzo a dominare immediatamente le proprie impressioni, sentì il freddo il silenzio, il vuoto di quel camerone. E si trovò innanzi la fanciulla, vestita di nero, che gli sorrideva vagamente, tendendogli la mano. Una manina lunga e fredda, che egli trattenne un minuto fra le sue, con la confidenza più del medico che dell'amico. - Siete guarita? - parlò lui, a bassa voce, subendo l'intimidazione dell'ambiente. - Non completamente, - diss'ella, con la sua voce pura e stanca. - Ebbi ancora un deliquio, una notte. Ma breve assai: credo, almeno. - Non vi soccorsero? - disse lui, con un rammarico profondo. - No, non se ne accorse nessuno: era notte, in camera mia… Non importa, - soggiunse poi, con un lieve sorriso. - Perché non siete andata in campagna? - Mio padre odia la campagna… - mormorò ella - e io non lo lascerei qui, solo. - Ma perché non siete uscita: oggi è carnevale, perché non siete andata a vedere? Volete morire di malinconia? - Mi avevano invitata, giù, dalla signora Fragalà: ma la conosco appena. Credo che bisognasse mascherarsi: mio padre non ama queste cose, ha ragione… Parlava con la sua bella voce dolce che una stanchezza spezzava, e Amati che era stato tutto il giorno a lavorare, all'ospedale e al letto degli ammalati, mentre tutti godevano il carnevale, riposava nell'armonia di quella voce e nella quiete stanca e languente di quella delicata giovinezza. Erano soli, seduti uno di fronte all'altro, in un gran silenzio, intorno: si guardavano appena, ma si parlavano come due anime che lungamente avessero vissuto insieme, nella gioia e nel dolore. - Dove eravate, poc'anzi? - domandò Antonio Amati, bruscamente. - Nella cappella, - rispose Bianca Maria, senza offendersi della domanda. - Pregate molto? - Non abbastanza, - disse ella, levando gli occhi al cielo. - Perché pregate molto? - Bisogna… - Voi non fate peccati… - mormorò il miscredente, tentando di scherzare. - Non si sa - disse lei, gravemente. - E bisogna pregare per tutti quelli che non pregano. E così dicendo, lo guardò fuggevolmente. Egli chinò il capo. - Passate troppe ore al freddo, in chiesa. Ciò vi nuocerà, signorina. - Non credo: e poi, che importa? - Non dite questo, - interruppe lui, subito. - Poche cose mi possono far male, - soggiunse lei, con una intonazione che egli intese e che non volle approfondire. - Andiamo, andiamo a vedere il carnevale dalla signora Fragalà, al primo piano, che ha invitato anche me, - e si levò, con un atto energico, a portarla via. - Restiamo qui, - ribattè Bianca dolcemente - qui vi è pace almeno. Non vi pare che sia buona anche questa calma, questo silenzio? - È vero, è vero, - confessò Amati, sedendosi di nuovo, soggiogato. - Mio padre è uscito coi suoi amici, - continuò lei, quietamente - per vedere il carnevale. Nel palazzo tutti sono fuori ai balconi, che dànno a Toledo, o fuori di casa: e qui, lo vedete, non giunge alcun rumore. Si guardarono così, puramente. Quella strana ora di deliquio in cui egli l'aveva salvata e in cui ella aveva inteso di esser salvata da lui, aveva stabilito fra loro come una vita anteriore. Quello che ella sentiva era un umile bisogno di protezione, di assistenza, di consiglio: quello che lui sentiva, era un tenerissimo sentimento di pietà. E non potette frenare una domanda che gli ronzava nell'anima. - E vero che volete farvi monaca? - egli chiese, con voce un po' soffocata. - Vorrei, - diss'ella, semplicemente. - Perché? - Per questo, - soggiunse, con la gran risposta dei cuori femminili. - Perché dovreste farvi monaca? Nessuna si fa più monaca. Perché dovreste voi farvi? - Perché se vi è una sola persona al mondo che dovrebbe entrare in convento, io son quella; perché io non ho né desiderii, né speranze, né nulla innanzi a me; e perché quando si è così, vedete, attraverso questo vuoto, questo deserto, questa desolazione, prima della morte, bisogna mettere almeno la preghiera. - Non dite questo, - supplicò lui, come se per la prima volta il soffio della fatalità avesse alitato sulla sua energia, distruggendola.

Ah era troppo, era troppo, per una persona che desiderava soltanto la felicità altrui, e che intanto aveva visto morire dagli stenti la madre, abbandonata, poi, alla fossa comune dei poveri, ove le ossa si confondono e che intanto vedeva il fidanzato andar degradandosi per tutti gli scalini del vizio, sino al carcere, sino al delitto, forse; e che intanto vedeva le sorelle languire nella privazione di ogni bene morale e fisico! Adesso con la madre che si era adagiata nel riposo eterno, - come la invidiava Carmela, in certi momenti! - e con Raffaele che si allontanava sempre più da lei, ella, sentendosi il cuore freddo come lo stomaco, andava a cercare più spesso le sorelle. Aveva pensato di andar ad abitare con sua sorella Annarella, per fare economia e per non stare così sola: ma Annarella viveva in un basso el vico Rosariello di Portamedina, lei, il marito, due figli già grandicelli, un basso he aveva per pavimento del terriccio battuto e da anni le pareti non erano state imbiancate: il marito e la moglie dormivano sopra un letto composto di due trampoli di ferro, di tre tavole scricchiolanti appoggiate per lungo sui trampoli, e di un grosso materasso di foglie secche di granturco, il paglione, he ha una apertura nel mezzo, dove si ficca la mano, quando si rifà il letto, e vi si agitano le foglie ammassate. La ragazza dormiva accanto alla madre, nel grande letto coniugale; e al maschio gli si faceva un lettino, ogni sera, sopra due sedie sgangherate. Una miseria intensa, atroce, aveva colpito gradatamente la famiglia del tagliatore di guanti. Costui, non solo giuocava al lotto tutta la sua settimana, ma il venerdì sera e il sabato mattina bastonava la moglie, inferocito quando costei non aveva due lire, una lira, mezza lira da dargli. Ora i due figliuoli, poveretti, cominciavano a guadagnar qualche cosa, la bimba che lavorava da una sarta, il fanciullo che faceva il mozzo di stalla; e quando non aveva potuto ottenere nulla da sua moglie, Gaetano andava dalla sarta, dove la sua ragazza era a settimana e la chiamava giù, e tanto insisteva, mentendo, adoperando le dolci frasi o gli schiaffi, occorrendo, che arrivava a cavar sempre qualche soldo dalla ragazzina, la quale se lo faceva anticipare dalla sarta, sulla settimana. Col figliuolo, che aveva già dodici anni, il padre era più cattivo: il piccolo mozzo gli rifiutava spesso i denari, rinfacciandogli il suo vizio e la miseria in cui lasciava sua madre: il padre faceva piovere i ceffoni, il ragazzo, soffocato dalle lagrime, gridava, bestemmiava, si dibatteva, accorreva gente a sentir dare del briccone, dell'assassino, da un fanciullo a suo padre. Una volta, che il padre gli aveva dato un pugno sul naso, facendolo schiumare di sangue, il ragazzo, furioso, gli morsicò la mano. Al sabato sera, quando tornavano a casa, i ragazzi portavano le tracce delle busse paterne e trovavano la madre che aveva dimenticate quelle toccate da lei, e piangeva sulle teste dei poveri figliuoli, domandando loro: - Quanto ti ha portato via? - Quattordici soldi, - rispondeva Teresina, malinconicamente. - Mi ha levato mezza lira, - diceva Carmine, rabbioso. - Oh Gesù, oh Gesù, - esclamava la madre, piangendo. Ma quello che non le poteva uscire dalla mente, era il suo bambinetto di due anni e mezzo, che era morto per cattivo latte, per cattivo nutrimento, per aver languito in quel negro basso, ove l'umido gocciolava in està e in inverno. Se si nominava Peppiniello, per caso, ella impallidiva, e nulla, nulla poteva levarle dalla mente che il vizio del marito avesse ucciso il piccolo figlio. Aveva conservato pietosamente la grande cesta ondulante, che fa da culla ai bimbi poveri napoletani, lo sportone; a aveva venduto prima il cuscino, poi il piccolo materasso di foglie di granturco; e un giorno di gran fame, non sapendo come procurarsi qualche soldo, aveva venduto anche lo sportone. Ma la separazione era stata così straziante, che la madre, seduta sullo scalino della porta, senza curarsi di chi passava pel vico Rosariello, aveva pianto per un'ora col capo nel grembiule: - Tu lo sai, Peppiniè… tu lo sai… - mormorava, come se chiedesse perdono al piccolo morto, di aver venduto la sua culla. Poi l'estate era giunta, così temporalesca, e aveva peggiorato la posizione della famiglia di Annarella. Dei due mezzi servizii che faceva, ella ne aveva perso uno, dieci lire: erano degli affittacamere e poiché avevano delle camere sfitte, avevano licenziata la serva. La ragazza, Teresina, aveva veduto diminuire la sua settimana, poiché la sarta non aveva lavoro, e non volendo addirittura mandar via quella ragazzina, per carità le faceva fare i servizi di casa. Il cocchiere, presso il quale Carmine era mozzo di stalla, partiva con la famiglia del padrone, per quattro mesi, per la campagna e avrebbe portato via il piccolo mozzo. Ma il padre, Gaetano, sapendo che dal figliuolo qualche soldo lo ricavava sempre, magari bastonandolo di santa ragione, non permetteva che andasse via, voleva che cercasse un altro servizio, in Napoli: e Carmine strillava, piangeva, imprecava, minacciando di partire di nascosto: - Me ne vado, mammà, me ne vado di nascosto e papà non vede più un centesimo mio, sapete! Ve li mando a voi, mammà, i denari, dentro una lettera, e papà non deve aver niente!… - Figlio mio, che t'ho a dire? - si lamentava la madre, a cui stringeva il cuore anche quella partenza. Ma la tortura maggiore di Carmela, di Annarella e anche di Gaetano, il tagliatore di guanti, erano i debiti che avevano con donna Concetta, la strozzina. Anche costei aveva sofferto i danni della mala stagione, poiché i suoi debitori non pagavano, pressoché tutti, e non avevano, oramai, neppure i soldi dell'interesse settimanale. Ella non prestava più un soldo a nessuno, inasprita, truce, provando anche lei le strette della miseria altrui; chiudendosi, alla notte, in casa con le sbarre di ferro contro le porte, poiché aveva in casa i titoli di rendita e i libretti della cassa di risparmio: ma ciò la metteva in uno stato di continuo furore. Girava tutto il giorno, da una strada all'altra, da un basso un quinto piano, da un'officina a una bottega, correndo dietro al proprio denaro, affannata perché andava sempre a piedi, in preda a una collera che le continue delusioni eccitavano, cominciando a chiedere almeno quei soldi dell'interesse, freddamente insistendo e finendo per fare una scena, urlando, cercando il sangue suo, ome ella chiamava appassionatamente il suo denaro. Ma quelli che più la esasperavano, erano Gaetano, Carmela, Annarella: l'avevano messa in mezzo, fra tutti tre, di un duecento lire, e non poteva avere neppure il primo centesimo, delle dieci lire di interesse settimanale. Oh quei tre, quei tre! Ella andava allo stabilimento Bossi, a Foria, dove Gaetano tagliava i guanti e faceva chiamar fuori l'operaio: costui, talvolta, avvertito da un compagno, faceva dire che non era andato alla fabbrica, in quel giorno. Ma ella si ostinava, diffidente, incredula, passeggiando innanzi alla porta; ed egli finiva per discendere, con un mozzicone spento e nerastro fra le labbra. La scena cominciava a bassa voce, breve, energica, violenta: talvolta, ghignando, poiché il vizio del lotto gli aveva fatto perdere ogni pudore. Gaetano le ripeteva il motto dei napoletani mali pagatori: avendo, potendo, pagando; non avendo, non potendo, non pagando. a ella si metteva a gridare, diceva che sarebbe andata da Carlo Bossi, a lagnarsi: diceva che sarebbe andata dal giudice, e Gaetano, un po' furioso già, ma dominandosi, le rispondeva che ella ci avrebbe guadagnato di farlo scacciare dalla fabbrica e allora, sì, che non avrebbe avuto più un soldo! Il giudice? E che gli poteva fare il giudice? La prigione per debiti non esiste più; il carcere della Concordia ra stato abolito, da quei signori che non potevano pagare i loro grossi debiti. E allora ella era presa dal furore, diventava una strega, tutto il vicinato usciva sulle porte e sui balconi: egli l'ascoltava, pallido, mordendo il mozzicone nero. Un giorno la minacciò, sottovoce, di squartarla. Mormorando vaghe parole di minaccia, stringendosi rabbiosamente nello scialle, donna Concetta si allontanava, con quell'ondulante andare delle popolane ricche e indolenti, col capo un po'inclinato sopra una spalla, e la faccia ancora un po' stravolta dalla scena avuta. E giacché si trovava a Foria, giacché la giornata delle sigaraie finiva alle quattro, ella si andava ad appostare in piazza SS. Apostoli, alla porta della Fabbrica, aspettando che uscisse la sigaraia, per chiederle il suo danaro. Non era sola, ad aspettare: poiché si riunivano a quella porta altre donne, che avevano prestato il denaro o la roba a quelle operaie, con un forte interesse: e fra loro, conoscendosi, riconoscendosi, sentendosi solidali nelle leggi dell'usura, era tutto un lamento, un lungo lamento, sulla inesattezza, sulla morosità delle loro debitrici, era un dichiararsi rovinate dalla mala stagione e dalla mala volontà; e le parole il sangue mio, il sangue nostro itornavano itornavanocontinuamente, come grido di dolore che parlasse del denaro perduto. Non era permesso mandare a chiamare, sopra, nessuna operaia: ma le usuraie attendevano, come i venditori di commestibili, come i fruttivendoli, le operaie, all'uscita: le povere donne che venivano dalla Fabbrica con le facce pallide dalle esalazioni cattive della foglia e le mani macchiate sino ai polsi, comperavano qualche cosa per portare a casa, per dar da mangiare, dopo la giornata di lavoro, alla loro famiglia. Le usuraie si mescolavano ai venditori di erbaggi, di pastinache in aceto, di frittelle, e pazientemente aspettavano, tirandosi la scialle sulle spalle, con quel moto familiare. Alla fine le donne, dopo che erano state frugate, una a una, da una soprintendente al lavoro, per vedere se avessero rubato delle foglie di tabacco, uscivano: alcune sgattaiolavano, altre si fermavano a comperare i broccoli di rape, o le patate, o due soldi di frittelle: e le più smorte, certo, erano quelle che ritrovavano, fuori, le creditrici: la più smorta, fra tutte, e non per la puzza del tabacco, ma per la vergogna, era Carmela. Cercava di portarsi donna Concetta verso via Vertecoeli o verso i Gradini dei Santi Apostoli, per non fare udire i discorsi di costei alle sue compagne: ma donna Concetta rallentava il passo e alzava la voce. Voleva il suo denaro, il sangue suo, ra una vergogna non darglielo: voleva almeno l'interesse: gli occhi della sigaraia s'empivano di lacrime a quelle ingiurie e avendo qualche soldo in saccoccia, le era impossibile resistere, lo consegnava a donna Concetta; ma era tanto poco, sempre, che quel sacrifizio in cui lei dava via il suo cibo della giornata, non le valeva che nuove ingiurie, che ella ascoltava a capo basso, perseguitata da donna Concetta per via Arcivescovato, per via Gerolomini: l'usuraia, a un certo punto, si accorgeva che la ragazza non aveva più denaro e che era inutile tormentarla. Ma Carmela, anche quando donna Concetta si era allontanata, conservava il brivido di vergogna che le davano quella voce aspra, quelle parole offensive; e stanca, abbattuta, senza un centesimo in tasca, dopo una giornata di lavoro, ella tornava a invidiate sua madre che era morta. Certo anche lei aveva quel vizio del giuoco, ma era a fin di bene, per dar denaro a tutti, per far felici tutti, se guadagnava; si faceva cavar le lire da Raffaello, o'Farfariello: a che per questi peccati veniali dovesse esser così duramente punita, le rodeva l'animo. Ah in certe giornate, in certe giornate, come volentieri si sarebbe buttata nella cisterna del grande palazzo, dove era la Fabbrica, per non udire niente, per non sentire niente più. Ma donna Concetta, non dissetata da quella goccia di acqua, che erano i pochi soldi di Carmela, risalendo a casa sua, prima di entrare nel portoncino, ogni sera, si affacciava al basso el vico Rosariello dove abitava Annarella; costei stava seduta presso il letto, spesso all'oscuro, non avendo da comperar l'olio, dicendo il rosario con sua figlia Teresina: donna Concetta si segnava e aspettava che il rosario fosse finito, per chiedere i suoi quattrini, inutilmente, come accadeva ogni giorno: Annarella non sapeva fare altro, che rispondere con qualche sospiro, con qualche lamento: e quando donna Concetta dava in escandescenze, ella si metteva a piangere. Teresina interveniva, parlando all'una e all'altra donna: - Non piangete, mammà, fatemi questa finezza… E all'usuraia: - Non lo vedete, donna Concettella, che mammà non ha denaro? - Figlia mia, figlia mia… - singhiozzava Annarella, a cui tutte le disgrazie della sua esistenza venivano a soffocare le parole. La strozzina non si lasciava commuovere. Era tanto abituata alle false lacrime di coloro che volevano truffare il suo denaro, che non credeva più a nessun dolore, ed era solamente quando aveva esaurito tutto il suo vocabolario d'ingiurie, che si decideva ad andarsene, lentamente, con quel suo passo pieno di mollezza, borbottando ancora che si sarebbe fatta giustizia con le sue mani, contro i ladri del sangue suo. a madre e la figliuola restavano sole, al buio, in quel caldo afoso e umidiccio del basso, e rispondendo a un suo pensiero interiore la povera serva esclamava: - Anima di Peppiniello, fammela tu questa grazia! Quando poi Carmela e Annarella si trovavano insieme per la via, o nel basso el vicolo Rosariello, era un lungo sfogo di dolori, era un racconto alternato, dove scoppiavano tutte le amarezze fisiche e morali della loro triste esistenza. Quella bonafficiata, he mala sorte, che sorte infame, non mai dare un quattrino di vincita e invece prender loro tutto, tutto, anche il tozzo di pane che serve a non morire d'inedia! E ogni tanto, attraverso tutta la narrazione della loro miseria e della loro solitudine, veniva il discorso su quella terza infelice che era loro sorella, Maddalena. Che faceva? Come sopportava la sua vita di peccato? Due volte Carmela era andata a trovarla nel larghetto, dopo le scalette di Santa Barbara, ma una volta era fuori, e l'altra volta l'aveva trovata così fredda, così mutata, come colpita da un rammarico profondo, che Carmela, presa dall'emozione, era scappata via, subito subito. Una volta Annarella aveva incontrata Maddalena per via, vestita di azzurro e giallo, col solito nastro rosso al collo; e le aveva chiesto perché non portasse il lutto della madre. - Non sono degna, - aveva risposto Maddalena, abbassando gli occhi e allontanandosi col suo passo molle, sui tacchi alti delle scarpette di lustrino. E in tutto questo, Carmela sentiva, oltre i guai noti, oltre la sequela delle miserie e delle umiliazioni, qualche cosa di segreto che le sfuggiva, come una disgrazia ignota che le si aggravasse sul capo, come la fatalità suprema che cominciasse a circuirla, non lasciandole via di uscita. Che era? Non sapeva bene, non si rendeva conto: ma era forse la profonda indifferenza di Raffaele e la brutalità con cui la trattava; era forse il contegno truce del cognato Gaetano, il tagliatore di guanti; era forse l'aspetto strano della sorella Maddalena, di cui ella non osava andar a prendere notizia. E fra loro due, da tempo, un gran progetto si andava maturando, per trovar rimedio ai loro guai. In tutto il popolo napoletano vi sono donne che hanno fama di grandi maghe, di fattucchiare merite, ai cui filtri, ai cui esorcismi, alle cui fatture ulla resiste; alcune, anzi, hanno una clientela larga, assai più di quella che può averla un medico, e quasi ogni quartiere si vanta della sua maga, capace de' più bizzarri miracoli, sempre però coll'aiuto di Dio e della Madonna. Ma la riputazione della gran fattucchiara hiarastella che abitava lassù, lassù, al vicolo Centograde, presso il corso Vittorio Emanuele era immensa: non vi era bottega, o basso, strada, o piazza, o crocicchio, dove non si conoscessero e non si raccontassero i prodigi di Chiarastella. Si dicea, dappertutto, che per avere la fattura i Chiarastella, bisognava chiederle cose a cui non fosse contraria la volontà di Dio: ma che nessuno, avendo obbedito a questa regola, era uscito malcontento dalla casetta delle Centograde. Niuno osava mettere in dubbio il potere magico di Chiarastella, fra il gran popolo napoletano: e se, nelle botteghe dei pizzicagnoli e dei pastaiuoli, dove le comari giovani e vecchie chiacchierano così volentieri o innanzi ai trespoli e alle canestre delle venditrici di ortaggi, dove le donnette contrattano per tre quarti d'ora un fascio di boraggine; o sulle porte dei bassi ove si discorre così a lungo e così animatamente, se qualcuna ignorante udendo i miracoli della fattucchiara elle Centograde, levava le sopracciglia per sorpresa, per incredulità, venti voci affannose, commosse, entusiaste le raccontavano i grandi fatti operati da Chiarastella. Qua un marito traditore, ricondotto alla giovane sposa; là un giovanotto che moriva di etisia, guarito, quando i medici lo avevano licenziato; altrove una sarta che aveva perduta tutta la clientela e che l'aveva veduta ricomparire, a poco a poco, per influenza della maga; altrove una ragazza insensibile che induceva, con la sua freddezza, l'innamorato alla mala vita e al delitto; e sopratutto la legatura della favella; uella, quella era la gran fattura di Chiarastella! Tutti coloro che avevano una lite, un processo, dove potevano esser sopraffatti dall'avversario o dalla giustizia, dove poteano rimettere i denari, o l'onore, o la libertà, o la vita, ricorrevano disperatamente alla magia di Chiarastella: costei, udito il fatto, se lo giudicava morale, conforme alla volontà di Dio, si prestava a legar la favella dell'avvocato avversario. Consisteva in una cordicina fatturata con tre nodi, quante sono le persone della Trinità, che bisognava trovar modo di metter addosso all'avvocato, in una tasca, nella fodera del vestito, la mattina dell'udienza decisiva: e con l'aiuto delle preghiere, l'avvocato avversario non avrebbe potuto dire essuno dei suoi argomenti, sebbene li avesse in mente, li pensasse: la sua favella era legata, la lite, per lui, era perduta, la fattura aveva raggiunto il suo scopo. Si citavano esempi in cui gli innocenti, gli oppressi, quelli contro cui si esercitava la grande ingiustizia umana, erano stati così salvati da Chiarastella. Ed era da tempo che Carmela e Annarella avevano pensato di ricorrere a Chiarastella; Carmela per ridestare all'amore il cuore di quel Raffaele che non era mai stato suo, e adesso meno che mai; Annarella per indurre Gaetano, suo marito, a non giuocare più al lotto. Carmela, per tentare, ci era già stata, lassù, tre volte, alle Centograde: e per avere la fattura da Chiarastella ci volevano cinque lire per ciascuna, e certi piccoli ingredienti da comperare. Dopo, se le due fatture riuscivano, secondo la volontà di Dio, le due sorelle avrebbero fatto un grosso regalo alla maga. Chiarastella non prometteva mai certamente nulla: ella parlava sempre misticamente e in una forma di dubbio: ella aveva dei profondi silenzi, a certe domande; e pareva che non si curasse del denaro, si contentava solo di poco, per vivere, contando sulla riconoscenza di quelle cui la fattura riesciva, per averne un dono più importante. Dopo… ma intanto dieci lire ci volevano, al minimo, se no, non se ne faceva nulla, e per quante privazioni subissero, in quell'estate così cattiva, giammai le due sorelle avrebbero potuto metter da parte, tutte insieme, dieci lire. Ma i giorni passavano, e le loro miserie morali urgevano quanto le materiali; non trovavano altro rimedio, oramai: e sebbene a malincuore, Carmela si decise a vendere il vecchio cassettone dal piano di marmo, il mobile più importante della sua stanzetta, il cassettone che aveva comprato sua madre, quando era sposa. Ne trovò, a stento, dodici lire: tutti vendevano in quell'estate maledetta, non vi era più un cane che volesse comperare due soldi di roba! La poca biancheria ella la mise in una canestra chiusa, sotto il suo letto, e quei grami vestiti li sospese a una cordicella, attaccata a due chiodi, lungo il muro umido. Ma aveva dodici lire! Fu in una domenica della fine di agosto, dopo aver udito la messa nella chiesa dei Sette Dolori, che le due sorelle si avviarono per il vicolo delle Centograde. Carmela aveva chiusa la casa e ne portava la chiave in tasca; Annarella vi aveva lasciata sua figlia Teresina, che si aggiustava una vesticciuola lacera, dopo esser restata sino a mezzogiorno al lavoro, dalla sarta. Erano otto giorni che Carmela, vagando per Napoli nelle sue ore di libertà, non arrivava a trovare Raffaele: e Gaetano, il marito di Annarella, in quella notte dal sabato alla domenica, non era rientrato a casa. Nella chiesa dei Sette Dolori, inginocchiate innanzi alla panca di legno bruno, dove si mettono i poveri, perché non si paga, esse avevano assai pregato, durante la messa, e ora ascendevano faticosamente gli scalini dell'erta scala che conduce da via Sette Dolori al Corso Vittorio Emanuele, non parlando, comprese in un raccoglimento di vaga speranza e di vaga paura. Chiarastella, la fattucchiara, bitava propriamente in un vicoletto cieco, silenzioso, ma luminoso, a destra della vasta scala che mette in comunicazione la grande arteria della collina, con le piccole vene della Pignasecca, della Carità, di Montesanto. Una gran pace era in quel vicoletto cieco, ma lo scirocco umido di quell'estate aveva bagnato, di un lieve strato di fanghiglia, i ciottoli rotondi del selciato: tanto che vi si camminava con precauzione, per non scivolare, e senza fare alcun rumore. - Ci aspetta? - dimandò a fior di labbro Annarella, che ansimava per le scale fatte. - Sì, - disse anche sottovoce Carmela, entrando nel portoncino. Salirono al primo piano: sullo stretto pianerottolo, vi erano due porte che si prospettavano. Una era chiusa ermeticamente, anzi vi era stato messo il catenaccio, donde pendeva un grosso lucchetto, anche di ferro; pareva che gli abitanti ne fossero partiti, dopo una sventura, serrando per sempre il tetro soggiorno. La porta a sinistra era socchiusa: ma le sorelle, udendo un singhiozzare sommesso, di là, non osarono entrare senza bussare: fu rabbrividendo che Carmela tirò una zampetta bruna di scimmia, attaccata a una catena di ferro a grossi anelli, donde pendeva internamente il campanello: la zampetta nera imbalsamata faceva orrore, era pelosa di sopra, rosea di dentro, sembrava la mano di un bimbo moretto, ammazzato, di cui là si trovasse un brano. Tinnì il campanello, stridulamente e lungamente, quasi non volesse mai tacere: una serva vecchia, decrepita, curva, con un naso aguzzo che pareva si volesse ficcare nella bocca rincagnata, le cui labbra coprivano le gengive senza denti, apparve: e trattenne, con un cenno dell'antico capo, le due donne, nella strettissima anticamera, priva assolutamente di mobili, un po'umida per terra. Il singhiozzare, di là, continuava, dietro un'altra porta chiusa, quasi soffocato: poi si appressò, la porta si schiuse e una ragazza del popolo, una sartina, la bionda Antonietta, attraversò l'anticamera, con lo scialletto che le cadeva dalle spalle, e il volto nascosto nel fazzoletto dove piangeva. Una sua compagna, più piccola, Nannina, le teneva un braccio attorno alla cintura quasi volesse sostenerla, e le andava ripetendo, per consolarla: - Non importa, non importa… Ma quella singhiozzava più forte: la serva decrepita schiuse la porta d'entrata e mise fuori le due ragazze, quasi spingendole: poi disparve, di là, senza dire una parola a Carmela e ad Annarella. Costoro, già turbate dal sentimento che le spingeva a invocare la potenza della fattura, erano state commosse da quel passaggio di quelle fanciulle, una inconsolabile, l'altra invano consolatrice: e appoggiate alla finestrella dell'anticameretta, aspettavano, con gli occhi bassi, con le mani incrociate sul grembiule che tenevano fermi i capi dello scialle, senza dire una parola. Un grande silenzio, intorno, nell'afa umidiccia estiva, in quel lungo pomeriggio domenicale. E Annarella, più dolce, più afflitta e insieme meno appassionata, avendo già curvate le spalle alla fatalità del suo destino, sentendo una sfiducia crescente in qualunque mezzo di salvazione, sapendo che Gaetano non sarebbe mai ricondotto da nessuna preghiera, da nessuna fattura, non provava altro, attraverso la sua malinconia, che una impressione sempre più distinta di spavento. Invece Carmela, dall'animo ardente di amore che nessuna forza arrivava a domare, sentiva l'esaltazione della passione accenderle le fiamme, nell'anima: non temeva, no, avrebbe affrontato qualunque spettacolo, qualunque pericolo per aver a sé, nuovamente, il cuore di Raffaele. Ma la decrepita serva dal corpo piegato ad arco, che pareva si volesse ricongiungere con la terra, era comparsa di nuovo nell'anticameretta e aveva fatto segno a Carmela di entrare. Senza far rumore le due sorelle sparirono nell'altra stanza, la cui porta si chiuse dietro a loro. - Ecco mia sorella, - mormorò Carmela, scostandosi per presentare Annarella che le si trovava alle spalle. Chiarastella fece un cenno col capo, per salutare. La fattucchiara ra una donna di media statura, piuttosto piccola che grande, molto magra, con certe mani brune, lunghe e sottili, la cui pelle attaccata alle ossa si era fatta lucida: il corpo aveva movimenti automatici, quasi che una volontà ne irrigidisse ogni muscolo: la testa era piccola e il volto corto, coi pomelli forti e rossi, con le mascelle salienti: la carnagione era di un pallor livido e caldo, il naso all'insù, breve. Ma l'interessante, nel volto nevrotico della fattucchiara, rano un par d'occhi dallo sguardo mobilissimo, la cui tinta variava dal bigio al verdastro, ma dove si vedeva sempre un punto luminoso, una scintilla: uno sguardo che riassumeva in sé tutta la vitalità della persona. Sembrava che avesse quaranta e più anni, Chiarastella, i cui capelli si conservavano nerissimi e la cui fronte era tagliata da una sola ruga, profonda; ma quando lo sguardo le si accendeva, come una irradiazione di giovinezza si faceva sul suo volto e sulla sua persona. Portava un vestito di lana nera, assai semplice, nel taglio delle vesti che portano le popolane, tal quale: solo era guarnito di bottoni di seta bianca e un nastro di seta bianca le pendeva dalla cintura, in un fiocco e due lunghi capi, sul fianco. Il bianco e il nero sono i colori del voto alla Madonna Addolorata. Un grosso, ritorto corno di corallo rosso le pendeva dal collo, attaccato a un cordoncino sottile di seta nera: e nei suoi gesti a scatto la fattucchiara occava occavacon le dita, ogni tanto, questo corno. Stava seduta, accanto a una larga tavola di noce, su cui era posata una scatola di ferro, di acuto lavoro artistico, una scatola di lavoro antico, chiusa: accanto ad essa un grosso gatto nero, raccolte le zampe sotto la pancia, dormiva. E intorno, nella piccola stanza, non vi era che un divanetto di percalla, dal disegno scolorito, e cinque o sei sedie, niente altro. Sul muro un crocifisso di legno nero, su cui un Cristo di avorio scolpito, un altro oggetto di arte. Ella taceva, con gli occhi abbassati: e le due sorelle sentivano l'approssimamento, l'invasione di un gran mistero. - Abbiamo portato le dieci lire, - disse timidamente Carmela, cavandole dalla cocca del fazzoletto e posandole sulla tavola, accanto alla mano di Chiarastella. La fattucchiara on batté palpebra: solo il gatto nero levò il capo, mostrando i begli occhi gialli come l'ambra. - Avete intesa la messa? - chiese Chiarastella, senza voltarsi. - Sì, - mormorarono le due sorelle. Ella aveva una voce bassa e roca; una di quelle voci muliebri che paiono sempre cariche di una intensa emozione, e che producono una vibrazione nel cervello, nell'animo di chi ascolta. - Dite tre Avemarie, re Pater noster, re Gloria patri, d alta voce. In piedi, innanzi ad essa, le due sorelle dicevano le sacre parole delle orazioni: ella stessa le diceva, con la sua vibrante voce, con le mani congiunte a preghiera, nel grembo, sul grembiale di lana nera. Il gatto si era levato su, sulle grosse zampe nere, e teneva il capo abbassato. Poi tutte insieme, le tre donne, dopo essersi inchinate tre volte al Gloria patri, issero la Salve Regina. e preghiere erano finite. La fattucchiara prì il cassetto di ferro lavorato, tenendone sollevato il coperchio, in modo da nascondere quello che vi era dentro, e vi frugò con le dita, a lungo. Poi avendone preso certi oggettini, celandoli ancora con la mano, impallidì mortalmente, gli occhi le si stravolsero, come se vedesse un orribile spettacolo. - Madonna mia, assistici, - pronunziò sottovoce Annarella che tremava di paura. Chiarastella, adesso, con un cerino giallastro acceso, aveva fatto bruciare due pastiglie dall'odore bizzarro, pungente e pesante nel medesimo tempo: e intentamente guardava nelle volute, negli anelli di fumo, quasi vi dovesse leggere una parola arcana: due o tre volte gli occhi le si dilatarono, mostrando il bianco striato d'azzurro. Quando il fumo si fu dileguato, restò il profumo acuto e grave: le due sorelle provavano già uno stordimento al cervello, forse per quell'odore. E monotonamente, senza guardarle, Chiarastella domandò: - Sei tu risoluta di far la fattura a tuo marito? - Sì, purché non soffra nella salute, - rispose fiocamente Annarella. - Vuoi legargli le mani, due o tre volte, perché in nessun giorno, in nessun'ora egli possa giuocare al lotto? - Sì, - disse l'altra, con slancio. - Sei in grazia di Dio? - Così spero. - Raccomandati alla Madonna, ma in te stessa. Mentre Annarella levava gli occhi, come per trovare il cielo, la fattucchiara avava dal cassetto di ferro una sottile cordicina nuova: la guardava, questa cordicina, mormorando certi versi curiosi, lunghi e corti, in dialetto napoletano, che invocavano la potenza del cielo, dei suoi santi e insieme di certi spiriti buoni, dai nomi strani: e la cantilena proseguiva, Chiarastella sempre stringendo nella mano la cordicina, sempre guardandola, quasi infondendovi il suo spirito. Anzi, tre volte, vi soffiò sopra: tre volte baciò devotamente la corda. Mentre ella faceva queste operazioni, le sottili mani brune le tremavano: e il gatto andava su e giù sul tavolone, agitato, gonfiando il pelo nero del muso. Annarella, adesso, si pentiva più che mai di esser venuta colà, di aver voluto fare la fattura a suo marito: sarebbe stato meglio, assai meglio, rassegnarsi alla mala sorte, anziché venire a chiamar fuori tutti quegli spiriti, anziché mettere quel gran mistero pauroso nella sua umile vita. Ah se ne pentiva profondamente, col respiro oppresso e la faccia afflitta, desiderando di fuggire di là, subito, di trovarsi lontano, nel suo oscuro basso, ove preferiva soffrire la miseria e il freddo! Era una sua sorella che l'aveva indotta a quel mezzo estremo: l'aveva fatto più per pietà di sua sorella che ella vedeva così malinconica, così desolata, così consumata di dolore, per l'abbandono di Raffaele. Non è bene, no, tentare così la volontà di Dio, con le fatture e con gli scongiuri: già, tanto, nessuna potente fattura avrebbe mai vinto la passione di suo marito. Ella gliela aveva letta, negli occhi inferociti, un giorno di sabato, l'indomabilità di quel vizio; ella lo aveva visto maltrattare i suoi figli, con quella rabbia compressa di chi è capace anche di maggiore brutalità. E quella fattura, vedete, quella fattura così paurosa nei suoi preludii, nella sua composizione, le sembrava un altro passo dato sulla via di una oscura catastrofe. Ora, Chiarastella, il cui viso sembrava assottigliato, la cui pelle bruna luccicava, i cui occhi ardevano, aveva fatto i tre nodi fatali alla cordicina, fermandosi ad ognuno, per dire qualche cosa, sottovoce: e alla fine, d'un colpo, dal seggiolone dove era sempre restata seduta, si era buttata in terra, inginocchioni, col capo abbassato sul petto. Il gatto nero, come furioso, si era buttato anche lui giù e adesso roteava, roteava intorno alla fattucchiara, on quel giro convulso dei felini che stanno per morire. - Madre dei Dolori, non mi abbandonare, - gridò Annarella, fremendo di paura. Ma la fattucchiara, opo essersi segnata, furiosamente, più volte, si alzò e in tono solenne disse alla moglie del giuocatore: - Prendi, prendi, questa è la corda miracolosa che legherà la mente, che legherà le mani di tuo marito, quando Belzebù gli suggerirà di giuocare: credi in Dio, abbi fede in Dio, spera in Dio! Tremando, provando alla bocca dello stomaco il calore delle supreme emozioni, Annarella prese la cordicina della fattura che doveva mettere addosso al marito, senza che costui se ne accorgesse: e ora avrebbe voluto andarsene, fuggire via, sentendo più forte l'afa di quella stanza e il profumo che dava le vertigini al cervello. Ma Carmela, smorta, sconvolta, da quanto aveva visto e da quanto sentiva ribollire nel suo animo, le rivolse uno sguardo supplichevole, per farla aspettare, ancora. Chiarastella aveva già cominciato a fare la fattura, perché Raffaele amasse nuovamente Carmela; aveva chiamata Cleofe, la decrepita serva, e le aveva detto qualche cosa all'orecchio; la serva era uscita ed era rientrata, portando nelle mani un piatto di porcellana bianca, un po' fondo, pieno di acqua chiara; lo aveva portato, tenendolo con precauzione fra le mani, guardando l'acqua, quasi ipnotizzata, per non farne versare una goccia; poi, era scomparsa. Chiarastella, piegata la faccia sul piatto, mormorava parole sue, sull'acqua: poi vi bagnò un dito, lasciando cadere tre goccie sulla fronte di Carmela che, a un suo cenno, si era inclinata innanzi a lei: le tre goccie non si disfecero, la fattura sarebbe riescita. Poi la fattucchiara ccese un candelotto di cera vergine, che le aveva portato Carmela; e mentre borbottava continuamente parole latine e italiane, lo stoppino del candelotto strideva, come se si fosse buttata dell'acqua sulla fiammella: - Hai portato i capelli, tagliati sulla fronte, un venerdì sera, quando la luna cresceva? - domandò Chiarastella, con la sua voce roca, interrompendo le sue preghiere. - Sì, - disse Carmela, traendo un profondo sospiro e consegnando una ciocchetta dei suoi neri capelli alla fattucchiara. al cassetto di ferro Chiarastella aveva cavato fuori un dischetto metallico, di platino, lucido come uno specchio, sulla cui superficie erano incisi certi geroglifici e vi aveva messo la ciocchetta di capelli, elevando tre volte in aria il dischetto, come se ne facesse offerta al cielo. Poi espose la ciocchetta dei capelli neri alla fiammella crepitante del candelotto, un po' in alto: la fiammella si allungò per divorare i capelli, in un minuto secondo, e attraverso il fetido odore dei capelli bruciati, non si vide sul dischetto che un pizzico di cenerina puzzolente. L'incanto procedeva, mentre Chiarastella cantava, sottovoce, il suo grande scongiuro per l'amore: una bizzarra mescolanza di sacro e di profano dal nome di Belfegor a quello di Ariel, da san Raffaele protettore delle fanciulle, a san Pasquale protettore delle donne, un po'in dialetto napoletano, un po'in italiano scorretto. Prese, dopo, una boccettina dal cassetto di ferro lavorato, che conteneva tutti gli ingredienti per le fatture: e versò nell'acqua del piatto tre goccie di un liquore contenuto nella boccetta; l'acqua diventò subito di un bel colore di opale dai riflessi azzurrastri, dove la fattucchiara uardò uardòancora, per leggere in quella nuvola biancastra; la nuvola si avvolgeva: si avvolgeva in spire, in volute, e Chiarastella vi versò il pizzico di cenere dei capelli abbruciati. Man mano, sotto lo sguardo della maga, l'acqua del piatto si chiarì, diventò limpida di nuovo: e allora lei, fattasi consegnare da Carmela una bottiglina di cristallo, nuova, comperata di sabato, di mattina, dopo essersi fatta la comunione, la riempì pian piano di quell'acqua del piatto: il filtro amoroso era fatto. - Tieni, - disse la fattucchiara Carmela, col suo accento solenne della fattura compita, - tieni, conserva gelosamente quest'acqua. Ne farai bere qualche goccia nel vino o nel caffè, a Raffaele: quest'acqua gli infiammerà il sangue, gli brucierà il cervello, gli farà consumare il cuore di amore per te. Credi in Dio; abbi fede in Dio; spera in Dio! - Non è veleno, non è vero? - osò dimandare Carmela. - Bene gli può fare e non male: fida in Dio! - E se continua a disprezzarmi? - Allora vuol dire che ama un'altra: e questa fattura qui non basta. Allora bisognerà che tu sappia chi è questa femmina per cui egli ti tradisce; che mi porti qua un pezzetto della camicia, o della sottana, o della veste di questa femmina, sia lana, sia tela, sia mussolina. Io farò la fattura contro lei: sopra un limone fresco inchioderemo con un grosso chiodo e con tanti spilli il pezzetto della camicia o del vestito: e tu butterai nel pozzo della casa, dove abita questa femmina, questo limone affatturato. Ogni spilla di quelle, figliuola mia, è un dispiacere: e il chiodo è un dolore al cuore, di cui ella non guarirà mai… hai capito? - Va bene, va bene - mormorò Carmela, desolata alla sola idea del tradimento di Raffaele. - Andiamocene, andiamocene, - le disse Annarella che non ne poteva più. - Grazie della carità, sie' hiarastella. hiarastella.- Grazie, - soggiunse anche Anna. - Ringraziate Iddio, ringraziatelo, - esclamò la fattucchiara, saltatamente. saltatamente.E si buttò un'altra volta inginocchioni, pregando fervidamente, mentre il grosso gatto nero miagolava dolcemente, strusciando il muso roseo sulla tavola. Le due donne uscirono, pensose, preoccupate. - Questa fattura non è cosa buona, - disse Annarella, con malinconia, a Carmela. - E allora che si deve fare, che si può fare? - chiese l'altra, torcendosi le mani, con gli occhi pieni di lacrime. - Niente, - disse Annarella, con voce grave. Esse scendevano, lentamente, stanche, abbattute da quella lunga scena di magia, superiore alla loro semplicità intellettuale, accasciate dopo quella tensione di sentimenti. Un uomo ascendeva gli scalini del vicolo Centograde, lestamente, dirigendosi verso la casa della fattucchiara. ra don Pasqualino de Feo, l' assistito. e due femmine non lo videro: andavano, sentendo più grave il peso della loro vita sventurata, temendo di aver oltrepassato i limiti che alle pie creature umane si concede, temendo di aver attirato, sul capo delle persone che amavano, la misteriosa punizione di Dio.

Non aveva, egli stesso, abbandonata la povera creatura, a cui aveva promessa, giurata la salvazione? Non aveva, per superbia, lasciato il delicato fiore ammalato, in preda a tutti i mali fisici e morali? Ambedue erano colpevoli, ambedue. - Andiamo, - disse. Uscirono insieme, chiamarono una carrozza da nolo, fecero sollevare il soffietto, come se volessero nascondere il loro dolore. Non parlavano, durante il tragitto. Soltanto, mentre mordeva il suo sigaro spento, il dottor Amati, ogni tanto, faceva qualche interrogazione medica. - Da quanto tempo, la meningite? Primo giorno? - Sì: ma ebbe nove giorni di tifo. -Febbre alta? - Da quaranta a quarantuno. - Gran mal di testa? - Atroce. - Convulsioni? - Sì: ogni tanto. - Stravolge gli occhi? - Sì. - Ha contratti i muscoli della nuca? - Sì. -… vi fu qualche causa? - Sì, - disse umilmente il padre, quasi singhiozzando questo monosillabo. - Le hanno dato il calomelano? - Sì. - Non ha calmato? - No, niente. Spesso è paralizzata: ma per poco. - È proprio la meningite, - mormorò il medico, pensoso. La carrozza camminava, camminava alla meglio, con il mediocre cavallo notturno. Non arrivavano ancora e avevano già incitato il cocchiere ad affrettare. - Ha il delirio? - chiese nuovamente il medico. - Non so… Non capisco se è il delirio.., ma parla sempre, convulsamente… - E che dice? - Chiama voi… - Me? - Voi, sempre. Ah il cuore del medico si schiantò, udendo questo! Sottovoce il vecchio padre lo udì dire, come per preghiera sgomenta: - Mio Dio!… Non dissero altro. Trovarono la porta aperta, il povero vecchio Giovanni li aveva attesi sul pianerottolo, appoggiato alla ringhiera, guardando nel portone, ansioso di vederli arrivare, ma certo che il dottore sarebbe venuto. - Come sta? - chiese subito il padre che aveva un continuo bisogno di essere rassicurato. - Come deve stare?… - sospirò il vecchio servo, precedendoli, - sta come prima. - Sempre il delirio? - disse il dottore. - Sempre. Entrarono pian piano nella stanzetta. Il dottor Morelli era andato via da poco, lasciando una letterina pel dottor Amati. Ma costui andò diritto al letto della inferma. La voce di costei, oramai stanca, ma sempre appassionata, andava ancora ripetendo il nome di Amati, ma il capo era affondato nei cuscini e gli occhi socchiusi. Egli vide tutto immediatamente, e lo scompiglio del suo animo, dovette esser tale che non giunse a padroneggiare, egli il forte, egli l'invincibile, il suo volto. Ed esitò un minuto, prima di rispondere alla infelice delirante che seguitava a chiamarlo, temendo di produrre sui nervi di lei una impressione troppo forte: ma non potette resistere a quella fievole voce che gli penetrava sino al cuore e lo faceva struggere di tenerezza. Disse: - Bianca Maria.. Qual grido fu la risposta! Ella si levò, col volto improvvisamente acceso, con gli occhi diventati stragrandi, e gli buttò le braccia al collo, gli appoggiò il capo sul petto, gridando: - O amor mio, amor mio, quanto avete tardato! Non mi lasciate più, non mi abbandonate, è tanto tempo che vi chiamo non mi lasciate. - Non temete, non vi lascio… - mormorò lui, cercando di vincere la sua emozione, carezzandole i bei capelli confusi e arruffati. - Non ve ne andate mai, mai, - gridava ella appassionatamente, stringendogli le braccia al collo, - se mi abbandonate, io muoio… - Calmatevi, Bianca Maria, calmatevi, non dite queste cose. - Le voglio dire, - levò lei ancora la voce, irritandosi della contraddizione,- senza di voi, per me è la morte. Ma tu non mi lascerai morire, eh, non mi lascerai morire? - Creatura mia, taci, taci… - egli disse, incapace di frenarsi, volendo disciogliere la catena di braccia, che gli allacciava il collo. - Non mi levare di qui, non mi levare,- strillò lei, facendo degli atti disperati col capo. - Se mi levi, sento che la morte mi piglia. - Oh Bianca, taci, per carità, non mi uccidere, - le disse il forte uomo, diventando il più debole e il più misero fra gli uomini. - Mi piglia la morte, è qui dietro, la sento, tu solo puoi salvarmi… Non mi lasciar morire, non voglio morire, hai capito, non voglio morire! - Non morirai, zitto, cara, zitto, perché ti ammali assai peggio, io sto qui, non me ne vado, mai più, mai più, non ti lascio… -… e non voglio morire, - concluse lei, di nuovo, calmandosi un poco. Stettero così, qualche tempo. Il padre era ai piedi del letto, appoggiato alla spalliera, con gli occhi bassi, sentendo nel suo orgoglio schiacciato, nella sua anima trafitta, tutto il peso del castigo che il Signore gli faceva aggravare sul capo, in punizione del suo lungo peccato. Pian piano, visto che la fanciulla taceva, che gli occhi le si chiudevano, il dottor Amati tentò di rimetterle il capo sul guanciale: ma ella sentì l'atto, e mentre si abbassava, attirò a se anche lui ed egli dovette chinarsi, poiché quelle braccia non volevano sciogliersi. Restarono così, ella assopita, egli inclinato in una posizione dolorosa, così angosciato di quella malattia e della sua impotenza, che non gli arrivava la sensazione di quel tormento fisico: il dolore assumeva in lui tale una violenza che si sentiva scoppiare, non potendo né piangere, né gridare, né parlare. Ora la infelice fanciulla pareva assopita, ma ogni tanto sussultava, e una espressione di fastidiosa pena le si dipingeva sullo scarno viso. Pareva che le passasse una idea per la mente, o che udisse un rumore che gli altri non udivano, o che vedesse qualche penosa visione, poiché le palpebre le battevano e le labbra si striavano sulle pallide gengive. Poi, ella schiuse gli occhi, come se avesse fissato quel rumore, quella visione, quella impressione fastidiosa e con un soffio di voce, che solo il medico intese, chiamò: - Amore! - Che vuoi? - Mandalo via. - Chi? - Mio padre. Il medico impallidì e non rispose. Dette una obliqua occhiata al vecchio, che era sempre fermo ai piedi del letto, con gli occhi bassi, dolorosamente concentrato. - Ti prego, mandalo via, - ricominciò lei, parlandogli nell'orecchio. - Ma perché? - Così: non voglio vederlo. Mandalo via. Che se ne vada. - Bianca Maria, ma è tuo padre! - Ascolta, ascolta, - diss'ella, attirandolo maggiormente a sé, perché gli potesse parlare più piano. - È mio padre, - mormorò poi con una paura soffocata, con un rimpianto immenso, - ma mi ha uccisa. - Non parlare così, - rispose, lui, volgendo il capo dall'altra parte per non lasciare scorgere le sue impressioni. - Ti dico che muoio per lui. Non ho il delirio, sai, io ragiono, - soggiunse ella, stralunando gli occhi, con quel moto infantile dei fanciulli moribondi, che fa impazzire di dolore le madri. Egli crollò il capo, come se non sapesse più che cosa fare, che cosa dire. - Mandalo via, - diss'ella, insistendo, arrabbiandosi, con le fatali irrompenti furie della meningite. - Io non posso, Bianca Maria… - Se non lo mandi via, tu, tu, io mi levo e gli grido di andarsene, di non comparirmi mai più innanzi, mai più, hai capito? - Aspetta, - egli disse, decidendosi, rassegnandosi. E la lasciò, staccandosi da lei, rimettendole le scarne braccia sulla coltre. Ella lo seguì con lo sguardo, senza mai levargli gli occhi di dosso, come se con lo sguardo udisse quello che molto sottovoce il dottore Amati diceva a suo padre. Il dottor Amati, con molta delicatezza e con un fremito di dolore che faceva tremare invincibilmente la sua voce, gli spiegava che la meningite è una terribile malattia che abbrucia il cervello, che sconquassa i nervi, e che fa delirare per giorni e giorni i poveri infermi che ne sono attaccati, che li induce a continua collera e persino al furore: che la povera Bianca Maria era in preda a questo delirio, che non poteva soffrir nessuno nella sua stanza, e che se egli amava sua figlia, se non voleva udirla dare in escandescenze, facesse la carità di andarsene in un'altra stanza… - Mia figlia vi ha detto questo? - chiese il vecchio, smorto, con le sopracciglia aggrottate. - Sì. - Non vuole nessuno nella sua stanza? -… Nessuno. - Ma voi, sì? - Me, sì. - Mi caccia, mia figlia? - gridò il vecchio. - Per carità, marchese, non v'irritate, abbiate pietà della fanciulla, di voi, di me… - Non me ne andrò, se non me lo dice lei, capite? Bianca Maria? - chiamò il marchese, avanzandosi presso il letto. Ella guardò il padre con tanta intensità, come se gli rispondesse. - Bianca Maria, - gridò l'esasperato vecchio, - è vero che non mi vuoi, nella tua stanza? Dillo tu, se è vero, io non credo a quest'uomo, lo devi dire tu! - È vero, - ella proclamò, a voce chiarissima, guardando suo padre. Egli chinò gli occhi, dove comparvero le ultime lacrime della vecchiezza, chinò il capo sul petto, vinto dall'inflessibile castigo che gli veniva dalla delirante, dalla morente sua vittima. Uscì, senza voltarsi. E cadente come se avesse cento anni, solo, taciturno, si ritirò in quella che era stata la sua stanza da studio, dove restavan solo un tavolino vecchio e una vecchia sedia. Lì, prono, con la testa fra le mani, senza più nozione né di tempo, né di cose, il vecchio peccatore s'immerse nella incommensurabile amarezza della punizione. Ogni tanto, fiocamente, o vivacemente gli arrivava la voce di Bianca Maria che diceva ad Amati, sempre, sempre: - Non voglio morire, non voglio morire, salvami, salvami, ho venti anni, non voglio morire… Quella voce, quelle parole disperate, pronunziate nel delirio, ma che pure parevano un lamento e una maledizione, gli facevano un effetto crudele. Non aveva più la forza di levarsi, per uscire, per andarsene di casa, solo, a morire come un cane sopra gli scalini di una chiesa, non pianto, non rimpianto. Non si levava, per andare presso l'agonizzante, poiché sua figlia lo aveva cacciato, tenendo presso sé l'unica persona che l'aveva amata. - Non voglio morire, amore, non voglio morire, - parlava la demente. - Hai ragione, hai ragione, - pensava il padre, trasalendo. E mentre le ore passavano, egli sentiva di là l'andirivieni del medico che tentava il salvamento della fanciulla, gli ordini frettolosi, l'uscire di Giovanni, di un assistente accorso. Egli non aveva più diritto di presentarsi, di sapere: e difatti lo dimenticavano lì, come se fosse morto da anni e anni, come se giammai un marchese Carlo Cavalcanti fosse esistito. Non sarebbe stato meglio per lui se fosse morto, poiché tutti lo avevano abbandonato? - E giusto, è giusto, - pensava fra sé. Egli tendeva l'orecchio, ogni tanto, come se i rumori che arrivavano, dovessero dirgli che la fanciulla migliorava, che il medico le amministrava i rimedii energici, capitali. Ma oltre all'affaccendarsi dei servi, dell'assistente, del dottore, egli non udiva altro che il grido straziante, continuo: - Non voglio morire, non voglio morire, amore, salvami! Egli si assopì, coll'antico capo appoggiato alle braccia, verso l'alba, sentendo anche nel lieve e breve torpore quel lamento, quell'angoscioso grido. Fu Giovanni che lo svegliò, a giorno chiaro, portandogli una tazza di caffè. Il padre scacciato dalla camera di sua figlia, interrogò con gli occhi il servo: - Sempre lo stesso, sempre! - mormorò Giovanni, crollando il capo vacillante. - Ma neppure Amati la salva? Neppure lui? - Cerca: ma è disperato. Il marchese Carlo Cavalcanti passò tre giorni e tre notti in quella stanza, solo, senza veder letto, senza quasi toccar il poco cibo che gli portavano: i tre giorni e le tre notti che durò l'agonia di sua figlia, Bianca Maria Cavalcanti. Il volto del vecchio, sempre sanguignamente colorito malgrado l'età, era chiazzato di violetto; i capelli bianchi erano tragicamente arruffati. Oramai, quando Giovanni e Margherita gli apparivano innanzi, solo a vedere il loro abbattimento, egli non domandava più nulla loro. Non sentiva egli forse che ella delirava sempre, gridando che a quell'età non voleva morire, non voleva, aggiungendo le esclamazioni e le preghiere più trambasciate? I due servi non gli dicevano nulla: l'udito gli si era affinato e non una parola del delirio gli sfuggiva. Pure, quella stessa vitalità di forza nervosa, quella voce forte lo illudevano, come una forma di salute e quasi quasi, nei piccoli intervalli di silenzio, egli si augurava che quel delirio ricominciasse. Ma il terzo giorno, alla mattina, una nuova dolorosa impressione lo trasse da quello stupore. La delirante, con voce strozzata, chiamava sua madre, sua madre, addolcendo il tono, pregando la mamma che non la facesse morire. Ogni tanto, taceva: egli si guardava intorno, atterrato da quegli improvvisi silenzi che si prolungavano, trabalzando quando, di nuovo, Bianca Maria si metteva a gridare. - Mamma, non voglio morire, non voglio, non voglio, mamma cara! Verso le due dopo mezzanotte, del terzo giorno, sempre seduto presso quel tavolino, lo colse il sopore, mentre ancora gli risuonava nell'orecchio quel delirio. Quanto tempo dormì? Quando si svegliò, il silenzio era così profondo, che egli si sgomentò. Aspettò, per udire quella voce che chiedeva di non morire ancora. Niente. Calcolò il tempo, dalla consumazione della candela: dovevano esser passate due ore. Una paura orribile lo assalse. Non osava muoversi. Guardò sotto l'arco della porta, vide la faccia bianca di Margherita che lo guardava. Intese. Pure, macchinalmente, domandò: - Come sta la marchesina? - Sta bene, - disse fievolmente la vecchia. - Quando… è stato? - Un'ora fa. - Non ha… non ha domandato di me? - No, Eccellenza. Egli provò a levarsi. Non poteva. Pensò che la morte lo avrebbe preso lì, su quella seggiola, subito, poiché i giovani di venti anni morivano prima dei vecchi di sessanta. Ora, era sopraggiunto anche il dottor Amati. Era irriconoscibile: un accasciamento mortale ne aveva distrutta tutta la energia fisica e morale. Come a un fanciullo, grosse lagrime silenziose gli si disfacevano sulle guance. Tacquero, un poco. - Ha sofferto assai? - chiese quel padre. - Immensamente.. - Non è stato possibile…? - No, non è stato possibile, - disse il dottore, il vinto, aprendo le braccia, confessando la più atroce fra le sue disfatte. Il vecchio, dalla faccia oramai immobilizzata in quella tragica espressione, non piangeva. E come un fanciullo inconsolabile, il dottor Amati lo prese per mano, lo sollevò, gli disse teneramente: - Venite a vederla. Andarono. La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

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